La morte e' cieca

Page 1




LA MORTE È CIECA

Traduzione di ANNA RICCI


ISBN 978-88-6905-187-6 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Blindsighted William Morrow An Imprint of HarperCollins Publishers © 2001 Karin Slaughter Traduzione di Anna Ricci Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins giugno 2017


Al mio papĂ , che mi ha insegnato ad amare il Sud e a Billie Bennett, che mi ha spronata a raccontarlo.



LUNEDÌ



1

Sara Linton si appoggiò allo schienale della poltroncina sussurrando al telefono: «Sì, mamma». Per un attimo si chiese se per sua madre sarebbe mai stata troppo vecchia per subire quei rimproveri. «Sì, mamma» ripeté, tamburellando sulla scrivania con la penna. Si sentiva le guance in fiamme e fu invasa da un profondo senso di imbarazzo. Qualcuno bussò piano alla porta e chiamò con voce incerta: «Dottoressa Linton?». Sara cercò di non lasciar trapelare il proprio sollievo. «Devo andare» disse a sua madre, che approfittò per lanciarle un ultimo ammonimento prima di attaccare. Nelly Morgan aprì la porta, scrutando Sara con grande attenzione. Era la segretaria della Heartsdale Children’s Clinic, e anche la cosa più vicina a un’assistente che Sara avesse. Nelly gestiva quell’ufficio da quando la dottoressa Linton aveva memoria; era lì perfino quando Sara era stata una paziente. «Hai il viso rosso» le disse Nelly. «Mi sono appena sorbita una predica di mia madre.» La donna inarcò un sopracciglio. «Immagino avesse i suoi buoni motivi.»

9


«Mah...» fece Sara, sperando di chiudere il discorso. «Sono arrivati i risultati di Jimmy Powell» riprese Nelly, continuando a scrutarla. «E anche la posta» aggiunse, facendo cadere un fascio di lettere nella vaschetta della corrispondenza in entrata. La plastica si incurvò sotto il peso. Sara sospirò leggendo il fax. Nei giorni buoni diagnosticava otiti e gole arrossate. Quel giorno doveva comunicare ai genitori di un ragazzino di dodici anni che il loro figlio aveva una leucemia mieloide acuta. «Brutte notizie» tirò a indovinare Nelly. Lavorava in quella clinica da troppo tempo per non saper leggere i risultati degli esami. «Già» concordò Sara, sfregandosi gli occhi. «Pessime.» Si appoggiò allo schienale e chiese: «I Powell sono a Disney World, vero?». «Per il compleanno del ragazzo» confermò lei. «Dovrebbero rientrare stasera.» Sara si sentì invadere dalla tristezza. Non si era mai abituata a dare notizie del genere. «Posso chiamarli domattina appena arrivo per fissare un appuntamento» propose Nelly. «Grazie» rispose Sara, infilando i risultati nella cartella clinica di Jimmy Powell. Diede uno sguardo all’orologio alla parete ed emise un gemito. «Funziona, quello?» chiese, verificando l’orario sul suo computer. «Dovevo raggiungere Tessa per pranzo venti minuti fa.» «Così tardi?» «Era l’unico momento possibile per me» disse Sara, radunando le cartelle. Andò a sbattere contro la posta in entrata; le lettere caddero sparpagliandosi a terra e il contenitore di plastica si ruppe in più parti. «Cazzo» bofonchiò.

10


Nelly andò ad aiutarla, ma lei la fermò. Non gradiva che gli altri sistemassero i suoi disastri, e se anche la donna fosse riuscita a mettersi in ginocchio, difficilmente si sarebbe rialzata senza qualcuno a darle una mano. «Ci penso io» le disse Sara, sollevando la catasta di carta e posandola sulla scrivania. «C’è altro?» Nelly le sorrise. «C’è il commissario Tolliver in attesa sulla linea tre.» Sara si sedette sui talloni, in preda al panico. Svolgeva un doppio lavoro, come pediatra e coroner della città. Jeffrey Tolliver, il suo ex marito, era il capo della polizia; c’erano solo due motivi per cui poteva chiamarla in pieno giorno, e nessuno dei due era piacevole. Si alzò e prese il telefono, concedendogli il beneficio del dubbio. «Spero sia morto qualcuno.» La voce di Jeffrey arrivava distorta, e lei pensò stesse chiamando dal cellulare. «Mi spiace deluderti» le rispose, poi aggiunse: «Sono in attesa da dieci minuti. E se fosse stata un’emergenza?». Sara cominciò a infilare documenti nella sua valigetta. Una tacita politica della clinica prevedeva che Jeffrey dovesse saltare in una serie di anelli di fuoco prima di riuscire a parlare con Sara al telefono. Anzi, era sorpresa che Nelly si fosse ricordata di avvisarla che il suo ex era in linea. «Sara?» Lei guardò la porta. «Lo sapevo, dovevo andare via prima» borbottò. «Che cosa?» chiese lui, la voce che rimbombava. «Ho detto che quando è un’emergenza mandi sempre qualcuno di persona» mentì. «Dove sei?» «Al college» rispose. «Sto aspettando i cani poliziotto.»

11


Aveva usato un termine in codice con cui definiva la sicurezza del campus del Grant Tech, l’università di Stato che si trovava nel centro della città. «Che c’è?» gli chiese. «Volevo solo sapere come stai.» «Bene» rispose secca, tirando fuori i fogli dalla valigetta e chiedendosi per quale motivo li avesse ficcati lì. Sfogliò qualche cartella e la infilò nella tasca laterale. «Devo pranzare con Tessa e sono in ritardo. Di cosa hai bisogno?» Jeffrey fu sorpreso dal suo tono sbrigativo. «Mi sembravi distratta, ieri. In chiesa.» «Non ero distratta» bofonchiò lei, dando un’occhiata alla posta. Vide una cartolina e si irrigidì di colpo. L’illustrazione era una foto della Emory University di Atlanta, dove aveva studiato. Sul retro, scritte con una grafia precisa, accanto al suo indirizzo presso la clinica pediatrica c’erano le parole: Perché mi hai abbandonato? «Sara?» Stava sudando freddo. «Devo andare.» «Sara, ma...» Attaccò senza dargli il tempo di concludere la frase, infilando altre tre cartelle cliniche nella valigetta insieme alla cartolina. Uscì dalla porta di servizio senza farsi vedere da nessuno. Si avviò per la strada, accarezzata da qualche raggio di sole. L’aria era molto più fresca rispetto alla mattina, e le nuvole scure che si andavano ammassando in lontananza promettevano pioggia durante la notte. In quel momento passò una Thunderbird rossa dal cui finestrino sbucava un piccolo braccio. «Ehi, dottoressa Linton» chiamò un bambino. Sara salutò con la mano e con un «Ehi» di riman-

12


do mentre attraversava la strada. Tagliò poi per il prato davanti al college, svoltò a destra, prese il marciapiede diretta verso Main Street e raggiunse il locale in meno di cinque minuti. Tessa era seduta a un tavolino accanto alla parete della tavola calda vuota e mangiava un hamburger. Non sembrava di buonumore. «Scusami, sono in ritardo» disse a sua sorella, mentre la raggiungeva. Provò a sorriderle, ma Tessa non ricambiò. «Avevi detto alle due. Sono quasi le due e mezza.» «Avevo un sacco di lavoro d’ufficio da sbrigare» le spiegò, infilando la valigetta sotto il tavolo. Tessa faceva l’idraulico, proprio come il loro padre. Anche se non c’era niente da ridere negli scarichi ostruiti, era molto raro che alla Linton e Figlie arrivassero chiamate d’emergenza come quelle che Sara affrontava ogni giorno. I suoi familiari non avevano idea di che vita facesse lei, ed erano sempre infastiditi dai suoi ritardi. «Ho chiamato l’obitorio alle due» l’informò Tessa, sbocconcellando una patatina fritta, «però non c’eri.» Sara si sedette con un lamento, passandosi le mani tra i capelli. «Sono passata in clinica, mi ha chiamato la mamma e ho perso la cognizione del tempo.» Fece una pausa e aggiunse la frase che diceva sempre. «Scusa, avrei dovuto avvisarti.» E dato che Tessa non rispose, riprese: «Puoi continuare a essere arrabbiata con me per il resto del pranzo, oppure puoi lasciar perdere e farti offrire una fetta di torta alla crema al cioccolato». «Preferisco la red velvet» ribatté lei. «Affare fatto» concluse Sara, provando un enorme senso di sollievo. Era già abbastanza dura gestire la collera di sua madre.

13


«A proposito di telefonate» cominciò Tessa, e lei capì cosa stava per chiederle ancor prima che formulasse la domanda. «Hai sentito Jeffrey?» Sara si raddrizzò, si infilò una mano nella tasca davanti e tirò fuori una banconota da cinque dollari. «Ha telefonato prima che uscissi dalla clinica.» Sua sorella scoppiò in una risata che rimbombò nel locale. «E che ha detto?» «Ho attaccato senza dargli il tempo di parlare» rispose, allungando il denaro a sua sorella. Tessa si infilò la banconota nella tasca posteriore dei jeans. «Allora, ti ha chiamato la mamma? Era piuttosto incazzata con te.» «Anch’io sono incazzata con me» rispose Sara. Era divorziata da due anni, eppure non riusciva ancora a staccarsi dall’ex marito. Passava dall’odio che provava per lui a quello che provava per se stessa perché lo odiava. Avrebbe tanto voluto poter trascorrere anche solo un giorno senza pensare a Jeffrey, senza avvertirne la presenza nella sua vita. E il giorno prima, esattamente come quel giorno, non ci era riuscita. La domenica di Pasqua era un appuntamento importante per sua madre. Anche se Sara non era particolarmente devota, indossare un collant una domenica all’anno era un prezzo modesto da pagare in cambio della felicità di Cathy Linton. Non aveva previsto che Jeffrey si presentasse in chiesa. L’aveva visto con la coda dell’occhio subito dopo il primo inno: era seduto tre file dietro di lei, sulla destra, e si erano notati nello stesso momento, ma lei si era costretta a distogliere lo sguardo per prima. Mentre se ne stava seduta in chiesa a fissare il prete

14


senza ascoltare una sola parola di quel che diceva, si era sentita per tutto il tempo gli occhi di Jeffrey addosso. Nel suo sguardo c’era un’intensità tale da effondere su di lei una vampata di calore. Nonostante fosse seduta in chiesa, con sua madre da una parte e sua sorella e suo padre dall’altra, Sara aveva avvertito la risposta del proprio corpo alle occhiate di Jeffrey. In quel periodo dell’anno c’era qualcosa nell’aria che la trasformava in una persona completamente diversa. Aveva cominciato a dimenarsi sulla panca, pensando al tocco del suo ex marito, alla sensazione delle sue mani sulla pelle, quando Cathy Linton le aveva dato una gomitata nelle costole. L’espressione di sua madre le aveva fatto capire che sapeva esattamente cosa le stava passando per la testa in quel momento, e non ne era affatto contenta. Cathy aveva incrociato le braccia sul petto, esasperata o forse rassegnata al fatto che sua figlia sarebbe andata dritta all’inferno per aver pensato al sesso nella chiesa battista il giorno di Pasqua. C’era stata una preghiera, poi un altro inno. Dopo una quantità di tempo che le era parsa appropriata, Sara aveva gettata un’occhiata dietro una spalla per cercare di nuovo Jeffrey, ma l’aveva trovato con il capo chino sul petto, addormentato. Era proprio quello il problema con Jeffrey Tolliver: le fantasie su di lui erano molto migliori della realtà. Tessa tamburellò con le dita sul tavolo per richiamare l’attenzione di sua sorella. «Sara?» Lei si portò una mano al petto, sentendo il suo cuore battere proprio come la mattina precedente, in chiesa. «Che c’è?» Tessa la guardò con l’aria di aver capito, ma per fortuna non affrontò il discorso. «Che cosa ti ha detto Jeb?»

15


«In che senso?» «Ti ho vista parlare con lui dopo la messa. Cosa voleva?» Sara non sapeva se fosse il caso di mentire o meno. Alla fine disse: «Mi aveva invitato a pranzo per oggi, ma gli ho risposto che avevo appuntamento con te». «Potevi sempre annullare.» Scrollò le spalle. «Usciamo insieme giovedì sera.» Tessa sembrava entusiasta. «Dio, che mi è passato per la testa?» sospirò Sara. «Per una volta, non Jeffrey» rispose sua sorella. «No?» Sara prese il menu da dietro il portatovagliolo, anche se in realtà non ne aveva alcun bisogno. Lei o gli altri membri della famiglia Linton mangiavano al Grant Filling Station almeno una volta a settimana da quando Sara aveva tre anni, e l’unico cambiamento nel menu era avvenuto quando Pete Wayne, il proprietario, aveva aggiunto il croccante alle arachidi in onore del presidente Jimmy Carter. Tessa allungò una mano e con delicatezza le fece posare il cartoncino. «Tutto a posto?» «È di nuovo quel periodo dell’anno» disse lei, frugando nella valigetta. Trovò la cartolina e gliela fece vedere. Tessa non la prese, quindi Sara la lesse ad alta voce: «Perché mi hai abbandonato?». La posò sul tavolo in mezzo a loro e aspettò un commento della sorella. «Dalla Bibbia?» le chiese anche se lo sapeva già. Sara guardò fuori dalla vetrina della tavola calda, cercando di mantenere un contegno. All’improvviso si alzò e disse: «Devo andare a lavarmi le mani». «Sara?»

16


Lei fece cenno alla sorella di non preoccuparsi e andò sul retro del locale, cercando di trattenersi finché non ebbe raggiunto i servizi. La porta del bagno delle donne era incastrata nel telaio dall’inizio dei tempi, così diede uno strattone alla maniglia per aprirla. All’interno, il gabinetto con le piastrelle bianche e nere era fresco e quasi rassicurante. Si appoggiò al muro, portandosi le mani al viso, cercando di cancellare le ultime ore di quella giornata. I risultati degli esami di Jimmy Powell ancora la tormentavano. Dodici anni prima, durante il tirocinio presso il Grady Hospital di Atlanta, Sara aveva preso confidenza con la morte, tuttavia non era mai riuscita ad abituarcisi. Il Grady aveva il miglior pronto soccorso del sudest, e lei aveva visto un certo numero di casi difficili, da un bambino che aveva ingoiato una confezione intera di lamette a una ragazza che avevano fatto abortire usando una gruccia per gli abiti. Erano stati episodi orribili, anche se in una grande città potevano capitare. Il caso di Jimmy Powell, arrivato dalla clinica pediatrica, l’aveva colpita con la forza di una palla da demolizione. Era una delle rarissime occasioni in cui i due lavori di Sara convergevano tra loro. A quel bambino che adorava guardare il basket e possedeva una delle collezioni di Hot Weels più ampie che lei avesse mai visto, restavano pochi mesi di vita. Sara si legò i capelli in una coda morbida aspettando che il lavandino si riempisse d’acqua fredda. Si chinò e colse un sentore dolciastro che arrivava dal lavabo. Pete doveva aver versato dell’aceto nello scarico per cancellare i cattivi odori. Era un vecchio trucco da idraulico, ma lei detestava l’odore dell’aceto. Trattenne il fiato e tornò a chinarsi, gettandosi

17


dell’acqua sul viso per riprendersi. Uno sguardo allo specchio le disse che la situazione non era affatto migliorata, ma aveva rimediato una chiazza bagnata appena sotto il colletto della camicia. «Perfetto» borbottò. Si asciugò le mani sui pantaloni e andò verso i gabinetti. Dopo aver visto lo stato in cui erano ridotti i water, si diresse al bagno per disabili e aprì la porta. «Ah!» sussultò e arretrò di colpo, fermandosi solo quando sentì il lavandino premerle contro le gambe. Portò le mani dietro di sé, per aggrapparsi al lavabo. Sentì un sapore metallico in bocca, e si costrinse a prendere delle boccate d’aria per non svenire. Abbassò la testa, chiuse gli occhi e contò fino cinque prima di risollevare lo sguardo. Sibyl Adams, una docente universitaria, era seduta sul water. Aveva la testa rovesciata all’indietro, contro le piastrelle del muro, i pantaloni abbassati intorno alle caviglie e le gambe divaricate. Era stata pugnalata all’addome. Il sangue si riversava tra le sue gambe grondando sul pavimento. Sara entrò nel gabinetto e si inginocchiò davanti alla giovane donna. Aveva la maglietta tirata su, e lei vide un profondo taglio verticale che correva lungo la pancia, tagliando in due l’ombelico, e si fermava all’altezza dell’osso pubico. Un altro taglio, più profondo, la squarciava orizzontalmente sotto i seni. Era da lì che arrivava la gran parte del sangue, che ancora scorreva in un flusso regolare lungo il corpo. Sara mise una mano sulla ferita, cercando di fermare l’emorragia, ma il sangue le filtrò tra le dita come se stesse strizzando una spugna. Si asciugò le mani sulla camicia, poi chinò in avanti

18


la testa di Sibyl. Dalle labbra della donna uscì un leggero sibilo, ma Sara non riuscì a capire se fosse l’esalazione di un cadavere o il lamento di una persona ancora viva. «Sibyl?» mormorò, pronunciando a fatica quell’unica parola. Un groppo di terrore le serrava la gola. «Sibyl?» ripeté, aprendole una palpebra con il pollice. La pelle della donna era bollente al tocco, come se fosse rimasta al sole troppo a lungo. Sul lato destro del viso aveva un grosso livido e sullo zigomo c’era l’impronta di un pugno. L’osso si mosse sotto la sua mano quando toccò la contusione, scricchiolando come due biglie sfregate tra loro. Con la mano che le tremava Sara premette le dita contro l’arteria carotidea. Sentì un leggero fremito sulle punte, ma non riuscì a capire se fosse il proprio tremore o un segno di vita. Chiuse gli occhi e si concentrò, sforzandosi di separare le due sensazioni. All’improvviso il corpo ebbe uno spasmo violento, crollò in avanti e fece cadere Sara a terra. Il sangue si riversò intorno a entrambe, e d’istinto Sara lottò per sottrarsi al peso di quella donna in preda alle convulsioni. Cercò con mani e piedi un appiglio sul pavimento viscido e alla fine riuscì a scivolare via da lei. Voltò Sibyl, tenendole la testa tra le mani e cercando di aiutarla ad affrontare gli spasmi. Di colpo le convulsioni cessarono e Sara avvicinò l’orecchio alla bocca della donna, cercando di distinguere il suono del suo respiro. Non lo sentì. Si mise in ginocchio e cominciò a esercitare delle pressioni sul petto, per far ripartire il cuore. Le tappò il naso, le praticò la respirazione bocca a bocca. Il petto di Sibyl si sollevò per un istante, ma niente di più. Sara ritentò, quasi strozzandosi quando il sangue della donna

19


le risalì in gola. Sputò più volte per liberarsene, decisa a continuare, ma capì che era ormai troppo tardi. Sibyl rovesciò gli occhi all’indietro ed emise un ultimo rantolo che le scosse il corpo. Tra le gambe le scivolò un flusso di urina. Era morta.

20





Questo volume è stato stampato nel maggio 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.