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LRose AURI RRaven OBINSON LA PRINCIPESSA Il banchiere americano E IL BARBARO
Immagine di copertina: DianaHirsch/iStock/Getty Images Plus/Getty Images Titolo originale: La principessa e il barbaro © 2021 Rose Raven Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici aprile 2022 Questo volume è stato stampato nel marzo 2022 da CPI Black Print, Spagna, utilizzando elettricità rinnovabile al 100% I GRANDI ROMANZI STORICI ISSN 1122 - 5410 Periodico settimanale n. 1301 dello 09/04/2022 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dello 01/02/1992 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano
Prologo
Da qualche parte sulle rive del Danubio Un brusio incessante avvolgeva la foresta e si mischiava al fruscio delle foglie appesantite dalla brina. Un fanciullo se ne stava accovacciato sotto un albero, le mani spalmate lungo il tronco, la lingua pronta a raccogliere le ultime gocce di pioggia. I lunghi capelli arruffati, incrostati dal fango, scendevano fino a metà della schiena e lo riparavano dal freddo insieme ai brandelli di lana e agli ultimi residui del vello che gli ricopriva il petto. La foresta era ancora buia, a quell'ora, e tra i rami dei pioppi, così fitti da non lasciar passare neppure le ombre, aleggiava solo il vento come il fiato gelido della notte. Quando il brusio si fece più forte, il ragazzo serrò la bocca. Si strinse al tronco ruvido dell'albero, come se potesse confortarlo, o ancora di più, proteggerlo. Era solo. Il fanciullo alzò lo sguardo sulla cupola di rami che incorniciavano la terra umida su cui poggiava i piedi. Da qualche parte, il sole stava sorgendo. Forse quel 5
brusio era il bisbiglio del crepuscolo, forse avrebbe finalmente svegliato il giorno. Le foglie dei pioppi avevano appena cambiato colore, passando dal nero al bluastro, fino al porpora. Il fanciullo respirò profondamente. Doveva continuare a nascondersi, doveva scappare. Poi il brusio divenne un fragore ovattato, e solo allora fu possibile riconoscerlo davvero. Non era il bisbiglio del crepuscolo, non era il suono del nuovo giorno: era il ferro delle spade che affettava l'aria, era il grido dei guerrieri soffocato dal fango, gli zoccoli dei cavalli lungo il fiume. Era la guerra. Un odore acre si insinuò nelle sue narici. Era quello del sangue, raggrumato sulle sue vesti strappate, ancora fresco, vicino alle ferite. Lo annusò ed ebbe la terribile sensazione di essere una bestia affamata. Il suo sguardo penetrò tra gli alberi della foresta. Non era lui a essere una bestia. Il lupo era lì, di nuovo lì, non troppo distante; poteva sentirlo ansimare, distinguere i suoi occhi gialli tra le foglie. Si fece coraggio. Le sue guance emaciate, lo stomaco che si torceva: aveva fame, davvero troppa per continuare a essere vinto dalla paura. Il fanciullo e il lupo si puntarono a lungo. Il primo con gli occhi carichi di pioggia, l'altro con il ghigno feroce e le fauci aguzze, accennate appena. I primi raggi del sole raggiunsero il terreno e il fanciullo per un istante percepì che le ultime ombre notturne si stavano dissolvendo. Sfilò dai sandali un pugnale e sfidò quella bestia continuando a tenere lo sguardo fermo. Era una lotta impari, questo lo sapeva, ma chi avrebbe avuto più fame avrebbe vinto. Suo pa6
dre non aveva fatto altro che ripeterglielo per anni: solo la fame conta davvero. La bestia ringhiò. Il suo ululato si perse negli ultimi istanti di buio. Avanzò rapida verso il fanciullo ed egli brandì il pugnale. Il battito feroce del suo cuore sembrò riecheggiare nell'aria, coprendo le urla dei guerrieri ormai vicini. Doveva solo sopravvivere. Ancora. Chi avrebbe avuto più fame avrebbe vinto.
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Roma, residenza imperiale Domus Augustana 23 agosto 410 d.C. Flavia aprì gli occhi nel buio della sua stanza, mentre gli ultimi rintocchi della pioggia riempivano l'impluvio. C'era stato un temporale il pomeriggio precedente, impetuoso e inaspettato, come a volte capitava ad agosto. Sbarrò gli occhi impaurita, sollevò rapida la schiena, mentre con le dita frugava tra le lenzuola inumidite dal sudore. Non era stata una notte particolarmente afosa, eppure la sua fronte era bagnata. Si tamponò con un lembo del lenzuolo, poi poggiò a terra i piedi scalzi. Un'aria pungente strisciò lungo il pavimento di tessere bianche e sollevò appena le tende, che svolazzarono lente sulla soglia del cubicolo. Per un attimo Flavia le osservò ondeggiare sperando di essere cullata da un pensiero buono, tuttavia l'inquietudine che sentiva dentro si era già mischiata all'oscurità che aveva intorno. Erano mesi che non faceva più quell'incubo, ma la foresta, con tutti i suoi mostri, era tornata. Scese dal letto, si mise addosso una vestaglia di 8
seta chiara e lentamente percorse il vestibolo. Arrivò nell'atrio, si fermò sotto il lucernario. Le sue mani, giovani e affusolate, sfiorarono il marmo del colonnato e ne sfidarono il candore, mentre un bagliore bluastro le colorava il volto e riempiva la domus di un'atmosfera spettrale. Guardò in alto; il cielo era ancora trafitto da lame di luce intermittente. Il rombo di un tuono investì il silenzio della sua dimora. Flavia ebbe un fremito. Si specchiò nell'impluvio, finché la sua immagine sinuosa non fu deformata dalle onde circolari dell'acqua, quando la pioggia riprese a scrosciare nella vasca. Fu allora che percepì l'eco di un cattivo presagio. Erano tante le voci che giravano su Roma, e Flavia era già preparata al peggio. Dicevano che i Goti non avrebbero aspettato ancora a lungo prima di compiere un altro assalto, spargere fuoco e fiamme e portare con il vento un olezzo di morte e miseria tra le mura aureliane. «Cosa vi prende? Perché siete sveglia?» L'ancella Drusilla la raggiunse, reggendo tra le mani una coperta ripiegata. «Non è nemmeno l'ora prima... Vi prego, tornate a dormire.» Flavia scosse appena la testa e con il volto ancora pallido si lasciò coprire le spalle. «Avete sognato un'altra volta quella foresta, non è vero?» le chiese Drusilla, mentre con il fiato le scaldava le mani. Anche lei era agitata, si capiva dal tocco. «Ho paura, Drusilla... Dalla Suburra giungono voci spaventose» sussurrò Flavia, incamminandosi verso il peristilio. L'ancella sospirò. «Almeno indossate i vostri san9
dali. Non rimanete scalza, è una notte fredda...» Flavia si affacciò tra le colonne per osservare la pioggia cadere. «Mia madre mi ha insegnato a pregare gli antichi dei nel modo giusto» disse, «non come fanno adesso. Mi aveva detto i loro nomi.» «Era pagana?» «Sapeva come pregare gli dei affinché lampi come questi, che ora squarciano il cielo, non scendessero mai a distruggere la terra» rispose Flavia. Raccolse le mani di Drusilla nelle sue e proseguì, bisbigliando: «Ne ha viste tante di guerre, mia madre. Ma quello che dicono nella Suburra spaventerebbe a morte persino lei». «Sono solo voci» disse Drusilla. «Il popolo esagera sempre...» «Non è un'esagerazione. Guarda come i Goti hanno ridotto la città. Sono anni che assediano le porte di Roma.» «Ma l'Imperatore Onorio è riuscito ad accordarsi con il loro comandante. Finalmente l'esercito dei Goti si sta ritirando altrove...» ribatté Drusilla con gli occhi pieni di speranza. «E tu ci credi?» proruppe Flavia alzando la voce. «Io no! Se i Goti dovessero tornare, non basterebbero né le mura né i soldati... tantomeno rifugiarci in un mitreo!» Drusilla si guardò dietro le spalle. «Ora calmatevi, mia signora, o sveglierete le altre...» «Dovrebbero svegliarsi tutte e andarsene, finché sono in tempo. Anche tu, Drusilla. Sei stata una fedelissima ancella e... lo sai, per me sei un'amica. Ma dovresti lasciare Roma e scappare in una delle province d'Oriente.» Drusilla le accarezzò dolcemente le spalle. 10
Flavia proseguì: «Dico sul serio. I Goti non avranno pietà per nessuno. Sono dei bruti. Li hanno visti mangiare i lupi!». «Non preoccupatevi di queste storie, mia adorata signora» rispose l'ancella con voce sicura. «Ho ancora fede in Roma, e ho fede nella nostra sovrana. La Nobilissima Galla ci proteggerà!» Flavia non rispose. «Ora tornate nel vostro cubicolo, vi prego» le suggerì Drusilla, «dormite tranquilla. Questa casa è sicura. Pensate al vostro generale... quante potrebbero contare sulla protezione del fiero e coraggioso Fulvio Cloro?» Flavia fissò la pioggia estinguersi con le prime luci del mattino. «Il generale mi ha vista appena, Drusilla. Sono la sua promessa sposa, ma se dovesse salvarmi da una folla di disperati, non credo mi riconoscerebbe.» Poi sorrise alla sua ancella. Il suo sguardo languido e malinconico lasciava trasparire una tristezza che custodiva dentro sin da bambina. «Vorrei solo averlo sposato anni fa, quando l'Imperatore Onorio mi ha promessa a lui. A quest'ora sarei probabilmente lontana da qui, con un marito e la cittadinanza che mi spetta» disse con un filo di voce mentre i suoi occhi si facevano umidi. «Ma Roma ormai sta cadendo a pezzi. Di questi tempi sarebbe stato più sicuro sposare uno di quei Goti o addirittura un Vandalo o uno di quei maledetti Unni.» Il cielo si aprì. Il volto di Drusilla fu illuminato dal primo bagliore dorato del mattino. Flavia le sorrise un'altra volta e si lasciò sfilare la coperta dalle spalle. Poi sospirò mortificata: «Ti sei svegliata presto per colpa mia...». La sua ancella ricambiò con un sorriso dolce. «Ero 11
già sveglia» le disse, «altrimenti non mi sarei accorta che eravate in piedi anche voi. Non preoccupatevi per me. Siete così premurosa, mia dolce signora. Sono felice di servirvi, davvero.» Flavia guardò Drusilla con tenerezza. Anche sua madre era stata un'ancella, e prima ancora una schiava. Servire gli altri sarebbe stato il suo destino, se Teodosio non fosse intervenuto per liberarla. L'imperatore, infatti, aveva elevato la condizione di sua madre ad ancella di corte, anche se Flavia non aveva mai saputo di preciso perché. Sua madre le aveva sempre raccontato che l'imperatore teneva molto a loro due, e che dopo la libertà le aveva promesso anche la cittadinanza romana. Peccato che sua madre fosse morta troppo presto, mentre Flavia, ormai orfana, era stata mandata alla corte di Galla per essere educata come una principessa. Ma lei non lo era affatto. Non era né una principessa né una cittadina romana, dato che l'Imperatore Teodosio aveva lasciato per sempre questo mondo prima di ufficializzare la cittadinanza promessa. Flavia sapeva che per diventare davvero romana avrebbe dovuto sposare il suo futuro marito, il generale Fulvio Cloro. Un vero romano, un uomo importante, un generale illustre e figlio di un potentissimo senatore. Flavia entrò nella propria stanza. L'ora prima era quasi iniziata e presto gli incubi avrebbero ceduto il posto al trambusto dei pensieri quotidiani. «Riposate, dolce Flavia. Io ora vado, c'è un banchetto da organizzare...» si scusò Drusilla, affrettandosi a iniziare la sua giornata. Flavia la salutò, mortificata: aveva completamente 12
dimenticato l'impegno di quella sera. «Drusilla, aspetta!» la chiamò subito dopo. «Diciamo a tutti che non mi sento bene, così io eviterò quello strazio e tu potrai riposare. In fondo sei la mia ancella personale: se io ne ho bisogno, tu dovresti restare con me, giusto?» «Ma è il banchetto della principessa! Festeggeremo i trecento schiavi, il ritiro dei soldati... Ci saranno i senatori. Non credo sia saggio, mia...» «Oh, per favore... Questi convivi sono opprimenti! Sono stanca di sentir parlare di tasse, schiavi, barbari e soprattutto non voglio passare un solo minuto di più con quelle odiose matrone dell'ultima volta. Hai visto come mi guarda Solonia? Come se fossi vedova. O peggio, una povera ripudiata. Mi ride dietro perché il generale continua a rimandare le nozze, ma parla di me come se fossi Agrippina in persona, una manipolatrice di uomini facoltosi. La detesto! Ti prego, Drusilla... Prepara un bagno bollente e avvisa tutti che ho la febbre alta.» «Credete sia il caso, di questi tempi, fingere una febbre alta, mia signora? Con quella brutta pestilenza che sta decimando i Romani?» «Allora una febbre leggera, una febbricola, un raffreddore...» «Vi crederanno contagiosa.» «Tanto meglio!» Drusilla le rimboccò le lenzuola. «Un leggero mal di testa...» sussurrò sorridendo, «e mi direte all'ora sesta se dovrò continuare a reggervi il gioco. E ora dormite, così stasera sarete uno splendore. Verrò a svegliarvi all'ora di pranzo, dolce Flavia.»
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