KATHRYN CROFT
LA RAGAZZA DAI DUE VOLTI traduzione di Chiara Alberghetti
ISBN 978-88-6905-098-5 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Girl With No Past Bookouture an imprint of StoryFire Ltd. © 2015 Kathryn Croft Traduzione di Chiara Alberghetti Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HC giugno 2016
La ragazza dai due volti
Dedica
A Grace e Phillip
Prologo
2003 Tutto è silenzioso intorno a me, e per un attimo penso di essere morta. Ma poi sento uno stridore assordante e, anche se non capisco chi l'abbia prodotto né da dove provenga, so di non essere stata io, perché in fin dei conti sto bene. Vorrei girare la testa per vedere i rottami dell'incidente, ma un dolore lancinante al collo me lo impedisce, e sento un rivolo di sangue caldo scorrermi lungo il viso. C'è uno strano odore: gomma bruciata mista a benzina e qualcosa di molto, molto peggiore. L'odore della morte. Non ho bisogno di guardarmi intorno per capire che sono l'unica a respirare dentro quest'auto. Il panico mi assale, mi divora il petto, è peggio di qualsiasi ferita possa aver riportato. Non può essere vero. Le incrinature si rincorrono sul parabrezza in una gigantesca ragnatela, e attraverso la fitta trama di linee riesco a distinguere luci fisse e lampeggianti, blu, gialle, rosse. Volti che si avvicinano, parole che si formano sulle loro bocche, occhi che cercano di capire cosa sia successo. Le grida convulse mi arrivano ovattate; è come se fossi in una bolla, percepisco solo onde sonore. Quello che so è che chiunque ci sia là fuori, come me, si ricorderà di questo momento per tutta la vita. Con il volante che mi schiaccia le costole non riesco a muovermi. O forse sono io che preferisco non farlo, per9
ché so che è più sicuro rimanere qui dentro piuttosto che dover affrontare ciò che mi aspetta là fuori. Già me lo immagino: certo, un po' di compassione, perché purtroppo gli incidenti capitano. Ma soprattutto biasimo e rancore, perché al volante c'ero io, e solo io sono la responsabile di quello che è successo. Qualcuno riesce a forzare lo sportello, e forti braccia in divisa mi sollevano per collocarmi su quella che dev'essere una barella. È rigida e sottile, ma almeno mi permette di stare distesa. Chiudo gli occhi e mi chiedo com'è possibile che io non sia morta.
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2014 Quella sera, mentre camminavo diretta verso casa, sentii che c'era qualcosa che non andava. Non riuscivo a definire con precisione di cosa si trattasse, perché in effetti tutto sembrava normale. Ero solo una delle tante persone che tornavano a casa dopo il lavoro, o che comunque erano dirette da qualche parte. Il freddo era pungente, e io avevo dimenticato la sciarpa appesa al corrimano delle scale quella mattina. Niente di anomalo, comunque: a novembre c'era da aspettarsi che fosse così rigido. La sensazione che non riuscivo a scuotermi di dosso riguardava sicuramente l'indomani. Non mi ero dimenticata di quale giorno si trattava. Forse quel presentimento era una sensazione di ansia che si manifestava sotto forma di qualcos'altro? Ma no, non aveva senso: ormai avevo imparato ad affrontarlo. Come ogni anno, mi rifiutavo di pensare a quel giorno finché non fosse arrivato, abbattendosi su di me con la forza di un uragano. Ero diventata brava a tener chiusa quella porta. Garratt Lane era affollata come sempre, e io mi mescolai al flusso degli altri pedoni, quasi diventando parte del paesaggio londinese. Era la solita sensazione che provavo nel tornare a casa. Quella di essere solo la marionetta di un teatrino, governata dalle mani di qualcun altro. Forse mi sentivo strana solo perché ero uscita dal lavoro più tardi del solito, e i cambi di routine non face11
vano per me. Avevo bisogno di un ordine rigoroso, altrimenti mi sentivo mancare la terra sotto i piedi. Avevo fatto tardi solo perché ero rimasta ad aiutare Maria: non potevo lasciarla sola di fronte al carico di libri nuovi che ci avevano consegnato, anche se la mia giornata in biblioteca era cominciata tre ore prima della sua. Tanto, che cosa avevo da fare a casa? Sorrisi, ricordandomi di quando Maria mi aveva descritto tutti i dettagli del nuovo tizio che aveva conosciuto, mentre toglievamo i libri dagli scatoloni per catalogarli. Maria lavorava in biblioteca solo da un paio di mesi, un periodo di tempo sufficiente a rendermi partecipe di ogni minimo particolare della sua vita. Era il mio esatto contrario: tanto aperta e loquace lei quanto discreta e riservata io riguardo i miei fatti personali. Sapevo che era single e che spesso si vedeva con qualcuno, e mi piaceva ascoltarla quando me ne parlava. L'uomo in questione si chiamava Dan, e per tutto il tempo in cui Maria me lo descrisse, ricordando sognante tutti i minimi dettagli della loro chiacchierata, volli concedere a me stessa il lusso di immedesimarmi nei suoi racconti. Tra di noi era così: lei parlava e io ascoltavo. Anche se talvolta mi capitava di intercettare quel suo sguardo. Quello che esprimeva quanto le sarebbe piaciuto che la rendessi partecipe della mia vita. La biblioteca era poco distante dalla via in cui abitavo, per cui non mi ci voleva molto ad arrivare a casa. Era un appartamento piccolo. Anzi: minuscolo. Il piano superiore di una casa suddivisa in più appartamenti. Però, per essere a Londra, non costava un'esagerazione, e almeno avevo il mio ingresso indipendente, anche se era praticamente attaccato a quello del vicino. Anche la rampa di scale che portava di sopra era indipendente, cosa che dava a tutto l'insieme un'aria più spaziosa. Ma a farmi scegliere di prenderla in affitto non erano stati fattori concreti come la posizione o il prezzo, quanto piuttosto il nome della via: Allfarthing Road. Mi face12
va pensare a un'epoca lontana – a tutte le cose lontane – che potevo solo immaginare da quanto avevo letto nei libri. Un'epoca in cui le persone si salutavano quando si incontravano per strada, in cui i vicini si conoscevano tutti tra di loro. Sapevo che il mio era più che altro un vagheggiamento romanzesco; non desideravo nemmeno vivere in quel modo – che non corrispondeva affatto alle mie esigenze – ma era confortante pensare che c'era stata davvero un'epoca come quella. E che il tempo passato non scompare mai veramente. Salii i cinque gradini che mi separavano dal portone e tuffai la mano nella borsa per prendere le chiavi. Era una tracolla di dimensioni ridicolmente minuscole – d'altra parte non avevo bisogno di portarmi granché addosso – quindi mi bastarono solo pochi secondi per rendermi conto che le chiavi non c'erano. C'erano il portafogli, il cellulare, un igienizzante per le mani, ma le chiavi no. Disorientata, cercai di mantenere la calma e di analizzare le varie possibilità. Sicuramente le avevo con me quella mattina, perché il portone andava chiuso a doppia mandata e non mi dimenticavo mai di farlo. In biblioteca non potevo averne avuto bisogno e quindi non mi ricordavo di averle viste. Questo poteva significare due cose: che mi erano cadute nel tragitto verso il lavoro, oppure che mi erano uscite dalla borsa in biblioteca, e allora in quel momento si trovavano là, abbandonate da qualche parte. La prima ipotesi mi fece precipitare nel panico, e dopo una rapida perlustrazione dei gradini e del piccolo giardino pavimentato di fronte a casa, presi il telefono e feci il numero del lavoro. Premetti il cellulare contro l'orecchio per isolarmi il più possibile dal rumore del traffico, ma anche così mi arrivava debolissimo il suono degli squilli. Dopo un'attesa che mi sembrò interminabile finalmente Maria rispose alla chiamata, con un forte affanno nella voce. 13
«Maria, sono Leah.» La sentii sollevata del fatto che non fosse una richiesta di informazioni da parte di un utente, e le lasciai riprendere fiato, ma ogni secondo che passava sentivo aumentare il mio senso di panico. Stavo già tornando a casa più tardi del solito e ora non potevo nemmeno entrare. Tutta la sera rovinata per colpa di qualcosa su cui non avevo alcun controllo. «Non c'è problema» disse Maria, una volta che le ebbi spiegato che non trovavo più le chiavi. «Vado a cercarle. Ti richiamo» aggiunse, e riattaccò, impaziente di allontanarsi dal telefono per andare ad aiutarmi. L'unica cosa che potevo fare era aspettare, con l'aria gelida di novembre a pungermi la schiena e un disperato desiderio di trovarmi nel mio appartamentino – benché fosse solo poco più tiepido rispetto a là fuori – per chiudere un'altra giornata della mia esistenza. Faceva troppo freddo per rimanere ferma, così cominciai ad andare su e giù per gli scalini, incurante delle occhiate perplesse che mi rivolsero un paio di passanti. I minuti trascorsero lentamente e Maria non mi richiamò prima di mezz'ora. Trattenni il fiato, aspettandomi che mi dicesse di non essere riuscita a trovarle. «Eccole qui» disse, facendole tintinnare per dimostrarmelo. Il sollievo che provai fu immenso. «Dov'erano?» le chiesi. Avrei dovuto prima ringraziarla, ma avevo bisogno di sapere dove le avevo lasciate. «Ehm, probabilmente le ha riportate un cliente e poi Sam le ha appoggiate in ufficio. Ero andata a controllare là se per caso...» «Okay.» Cercai di capire cosa fosse successo. Stavo sempre molto attenta, e non riuscivo a spiegarmi come potessero essermi cadute dalla borsa. «Comunque io sto per uscire, te le posso portare. Abiti in una traversa di Garratt Lane, giusto? Tra dieci minuti sono lì, devo solo...» 14
«No! Voglio dire, non stare a scomodarti. Vengo io in biblioteca. Ci vediamo lì, okay?» Non l'avevo mai invitata a casa mia e, anche se di recente aveva lasciato intuire che le sarebbe piaciuto venire a trovarmi, ogni volta ero riuscita a evitare che ciò accadesse. Rimase in silenzio per un istante. «Va bene. Okay. Ma ci vediamo al caffè lì accanto. Devo chiudere la biblioteca adesso, e fa troppo freddo per stare fuori.» In quel preciso istante giurai in silenzio a me stessa che poi avrei fatto qualcosa per farmi perdonare. La ringraziai, mi strinsi nel mio spesso cappotto di lana e di nuovo mi avviai verso la biblioteca. Camminai spedita, anche se sapevo che Maria ci avrebbe messo un po' a sistemare tutto prima di uscire. Volevo solo riavere le mie chiavi. Non mi aspettavo che lei, o chiunque altro, lo capisse, ma qualsiasi deviazione dalla mia routine quotidiana mi rendeva vulnerabile. Avevo bisogno di ordine. Ogni cosa doveva svolgersi esattamente come prestabilito, senza alcuna variazione. E invece quella sera mi si prospettava una situazione di quel genere. Anzi, si dava il caso che già avessi fatto uno strappo alla regola; a quell'ora avrei dovuto essere a casa, a prepararmi la cena in attesa di connettermi a Internet ed entrare nel sito, pronta a vivere ancora una volta la mia vita immaginaria. Quando arrivai al caffè, diedi una sbirciata attraverso la vetrina per vedere se Maria fosse già arrivata, ma non riuscii a individuarla. Il locale era al completo: persone uscite dal lavoro, impegnate a chiacchierare, senza alcuna fretta di tornare a casa. Al contrario di me. Sentii una fitta d'invidia, ma lo sapevo che non avrei mai potuto essere come loro. Avevo sete ma preferii non entrare. Per quanto la sua compagnia fosse gradevole, se fossi entrata nel caffè con Maria la serata sarebbe presto finita, e io invece dovevo collegarmi a Internet. Così, sfidando coraggiosamente il freddo, che si era fatto ancora più intenso, aspettai ri15
volta verso la biblioteca, impaziente di avvistare Maria appena possibile, riavere le chiavi e tornarmene a casa. Passò una ventina di minuti prima che la vedessi finalmente arrivare, con l'andatura tranquilla di chi sta facendo due passi sulla spiaggia, senza nessuna fretta di riportarmi le chiavi. «Oh, sei qua fuori?» mi disse, quando mi ebbe raggiunta. «Pensavo che potremmo prenderci un caffè.» «Mi dispiace tanto, ma devo andare a casa. Sono stanchissima. Facciamo la prossima settimana?» Pensai addirittura di fingere uno sbadiglio, ma mi trattenne la paura di non riuscirci. Il sorriso che aveva sul volto si dissolse. «Okay. Però ci conto, eh?» Si infilò la mano guantata in tasca e ne estrasse le mie chiavi. «Sta' più attenta la prossima volta» disse. Nel tornare a casa mi chiesi se il tono di quella raccomandazione fosse poi così scherzoso. Faceva sempre un bell'effetto chiudersi il portone alle spalle e sostare per un attimo nell'ingresso. Era un po' come entrare in una bolla, sapendo che il mondo rimaneva chiuso là fuori. Che ero al sicuro. Quello era il mio territorio, e di rado qualcuno veniva a trovarmi. Era tutto più semplice così. Naturalmente poteva capitare che invitassi mia madre, ma quando succedeva il clima era carico di tensione. Mi ci volevano settimane per prepararmi psicologicamente alle sue critiche riguardo a Londra – secondo lei una città di una bruttezza indicibile – e al suo insistere perché tornassi a casa, dove a suo avviso mi sarei sentita più a mio agio. Non riusciva ad accettare che quell'appartamentino a Wandsworth fosse diventato casa mia. L'unica che avessi. Sullo zerbino logoro c'era una pila di lettere. La presi e salii di fretta i gradini scricchiolanti, impaziente di riportare la mia serata nei binari della normalità. Di solito aprivo la posta prima di fare qualsiasi altra cosa, ma 16
il mio stomaco brontolante mi fece capire che avevo bisogno di mangiare qualcosa, e subito. Così, per la prima volta, lasciai le buste sul piano di lavoro della cucina. Nessuna lettera che avessi mai ricevuto era stata tanto importante da non poter aspettare. Anche se la mia era più esistenza che vita, sapevo occuparne ogni istante con qualcosa. L'inattività era veleno per me; permetteva ai pensieri di prendere il sopravvento e per fin troppo tempo avevo lasciato che ciò accadesse. Ora il mio obiettivo era quello di tenerli lontani. Una volta alla settimana facevo volontariato alla casa di riposo nella via parallela alla mia. Leggevo qualcosa dopo cena agli ospiti della struttura e facevo loro compagnia. Se avessi potuto permettermelo lo avrei fatto sette giorni su sette. Già solo vedere i loro volti illuminarsi quando entravo bastava a dissipare la solita caligine che mi avvolgeva, a dimostrarmi che non ero poi una cattiva persona. Ma le ore da riempire erano comunque tante, e grazie a Maria alcuni mesi prima avevo scoperto Due Cuori Un Battito. Senza far mistero di essere alla ricerca di un uomo che riuscisse a rimanerle accanto per più di una settimana, Maria aveva ammesso apertamente di aver trovato un sito d'incontri. Gli uomini che lo frequentavano erano tutti affermati professionisti e, prima di decidere se incontrarsi o meno, si rompeva il ghiaccio parlando nelle chat room. Quando Maria me ne parlò, l'idea di conoscere qualcuno in rete mi fece orrore. Era un po' come andare a scegliersi il proprio compagno al supermercato. Come facevi a sapere se quelle persone erano veramente chi dicevano di essere? Che cosa volevano in realtà? Il solo pensiero mi ripugnava. Non ero una persona con preconcetti, solo che l'idea di incontrare un uomo, chiunque egli fosse e in qualunque posto si trovasse, mi metteva ansia. 17
Poi però una sera la curiosità – o forse la solitudine? – ebbe la meglio e decisi di dare un'occhiata al sito, curiosando tra le pagine finché non ebbi capito di cosa si trattava. Tanto mi sentivo al sicuro: ero sola, a casa mia, e nessuno poteva vedermi né raggiungermi. Assistendo alle conversazioni delle altre persone cominciai a provare invidia per il loro atteggiamento disinvolto, e pian piano mi convinsi. Nel giro di poche settimane avevo aperto il mio profilo utilizzando il cognome da signorina di mia madre, Harling, e una foto in cui – ne ero sicura – nessuna delle persone che avevano fatto parte del mio passato mi avrebbe riconosciuto. Un'immagine che mi ritraeva girata da un lato, e in cui i capelli, molto più chiari rispetto a com'erano prima, mi coprivano gran parte del volto. Era la cosa migliore da fare se avessi avuto intenzione di parlare con qualcuno su quel sito. E quella era l'unica cosa che mi sarei concessa. Se non mi era consentito avere una vita tutta per me, potevo almeno costruirmene una di fantasia. L'inconveniente delle chiavi era ormai quasi dimenticato, così mi sedetti sul divano, con il portatile in equilibrio su un ginocchio e una tazza di tè sul tavolino. Sarebbe stato più facile utilizzare il computer seduta al tavolo della cucina, ma ero troppo esausta per starmene seduta su una rigida sedia di legno. Entrai in una chat room e, senza intervenire, lessi la conversazione in corso. Ma come al solito, ad annunciare il mio ingresso comparve il mio nome scritto in grassetto blu, e i partecipanti cominciarono via via a darmi il benvenuto. Per quanto questa volta fossi tentata di rispondere, li ignorai e aspettai che riprendessero la loro conversazione. C'erano diciassette persone in quella stanza virtuale, e si chiedevano quale lavoro facessero e dove vivessero. Due di loro, una donna di nome Melissa e un uomo di nome Rich, proseguirono la conversazione in una chat privata. Ecco. Per gli altri era facilissimo. 18
Quella sera la chat era più popolata del solito; il venerdì era un giorno che più di ogni altro amplificava la solitudine, e che metteva i single di fronte alla loro condizione. Ma io avevo imparato a rendermi immune da quel sentimento. Era solo una questione di punti di vista: c'era di molto peggio che essere soli. Questo non significava che fossi contenta della mia situazione, comunque. Sarei stata felice di conoscere qualcuno, rispondere ai messaggi che mi arrivavano di continuo, essere una persona come tutte le altre. Mi ero ripromessa di cominciare qualche conversazione, ma le mani sembravano congelarmisi ogni volta che ero sul punto di rispondere a un messaggio. Tenevo la tazza tra le mani per riscaldarmi, e intanto passavo in rassegna le foto dei profili, fantasticando su chi fossero gli uomini ritratti in quelle immagini. Naturalmente, le mie ipotesi venivano sempre smentite ogni volta che controllavo le informazioni su di loro, ma almeno così passavo il tempo. Il computer emise un bip, ma io non mi scomposi. Ero abituata a ricevere messaggi privati e sapevo che era stato uno di quelli a produrre l'avviso. Ma l'icona lampeggiante della busta nell'angolo dello schermo mi segnalò che si trattava del messaggio di un moderatore. Sapevo che erano figure che giravano qua e là per le chat, per accertarsi che tutto si svolgesse correttamente, ma non ero mai stata contattata da uno di loro. Forse volevano dirmi che non ero più gradita sul loro sito; che non stavo alle regole del gioco perché non interagivo con nessuno, e quindi potevano fare a meno di me. Inspirai profondamente e cliccai sulla busta. Moderatore34: Ehi, tutto bene? Confusa, buttai fuori il fiato e rilessi il messaggio. Non mi stavano cacciando. Lui – o lei – mi stava solo chiedendo se fosse tutto okay. Ma perché? Non sapevo 19
se fosse una cosa normale. Senza pensarci, le mie dita cominciarono a battere sulla tastiera. LeahH: Tutto okay. Grazie per averlo chiesto. Come va? Avevo scritto l'unica cosa che mi era venuta in mente. Moderatore34: Ero un po' in pensiero per te! Ti ho già vista qui altre volte ma sembra che tu non voglia mai parlare con nessuno!! Ah, ecco. Allora mi stavano cacciando per davvero. Cercai in fretta di trovare una scusa per la mia scarsa comunicativa. LeahH: Scusa. Sono un po' timida. La risposta arrivò immediatamente. Moderatore34: Credimi, nn hai motivo x essere timida. La tua foto è stupenda. Sono un uomo, comunque, in caso te lo stessi chiedendo... LeahH: Ma ti è permesso fare affermazioni del genere? Moderatore34: Probabilmente no, ma ho pensato che per te valesse la pena di correre questo rischio. A quel punto avrei dovuto fermarmi. Quella faccenda si era già spinta troppo oltre. Fui sul punto di scrivergli che si sbagliava, che non ero una persona per cui valesse la pena di correre alcun rischio, ma non lo feci. Anzi, continuai la conversazione, crogiolandomi nel senso di normalità che quei pochi minuti mi regalavano, senza minimamente capire come mai fossi così interessata a lui. Non sapevo nemmeno che aspetto avesse. 20
Mi disse di chiamarsi Julian, di avere trentasei anni e di abitare a Bethnal Green. Aggiunse, pregandomi però di non giudicarlo sulla base del suo lavoro, di essere funzionario negli uffici governativi di Whitehall. Quando fu lui a farmi le domande, cominciai ad agitarmi. Mi guardai intorno, chiedendomi quanto di me fossi intenzionata a condividere con quell'estraneo. La mia casa era piena di libri dal pavimento al soffitto, rimaneva poco spazio per i mobili. Mi accontentavo di un divano e di un tavolino, così potevo comprare tutti i libri che volevo senza dovermi preoccupare di dove metterli. Dal divano potevo vedere tutta la casa, perché la cucina e il salotto erano open space, e tenevo sempre spalancate le porte della camera e del bagno. Non lo facevo di proposito, era semplicemente un'abitudine. Mi chiesi che cosa avrebbe pensato Julian di quel posto. Avrebbe capito subito che vivevo le vite immaginarie dei personaggi dei libri? O quelle degli utenti delle chat? Ignorai le mie riserve e continuai a parlare con lui. Julian cominciò a incuriosirmi. Il suo senso dell'umorismo emergeva dalle parole che scriveva, e che man mano delineavano un'immagine vivida di lui. Sembrava diverso da tutte le altre persone in cui mi ero imbattuta sul sito fino a quel momento. Più spontaneo, come se non stesse cercando di essere nient'altro che se stesso. Era divertente e brillante senza apparire falso o eccessivo, e questo mi creava un certo struggimento. Tristezza, oppure desiderio, o forse un po' tutti e due. Dovevo smetterla. Non mi era mai capitato nulla di simile per tutto il tempo in cui avevo curiosato tra i profili degli utenti o assistito in silenzio ai discorsi nelle chat di Due Cuori Un Battito, e quella sensazione non mi piaceva per niente. Con la scusa di dover andare via chiusi il sito senza nemmeno disconnettermi e portai la tazza in cucina. Anche se mi aveva lasciato un senso di vuoto, quel21
l'incontro con Julian mi aveva comunque distratto dal pensiero dell'indomani. Sapevo già che non sarebbe successo nient'altro a parte sentirmi sopraffatta dai ricordi; ogni anno era tanto doloroso quanto quello precedente. Come se il tempo non fosse mai passato. Dopo essermi preparata un'altra tazza di tè – un piccolo conforto dopo la giornata trascorsa – mi diressi verso la finestra, inginocchiandomi per guardare su Allfarthing Road. Quello era un altro modo in cui trascorrevo le mie serate quando non ero alla casa di riposo: guardando la vita passare fuori dalla mia finestra. Con un profondo sospiro mi dissi, come facevo ogni sera, che era così che doveva andare. Con l'unica differenza che adesso una piccolissima parte di me voleva opporsi alla mia condanna. Volevo sentirmi viva. Fu solo mentre lavavo i piatti prima di andare a dormire che mi ricordai di non aver ancora aperto la posta. La pila di buste era rimasta sul piano di lavoro della cucina; la presi e me la portai al tavolo. C'erano solo tre lettere: la prima la buttai senza nemmeno aprirla. Non mi interessavano le offerte speciali di un catalogo da cui non avevo mai ordinato niente e che non avevo neppure sentito nominare. Ignorai anche la seconda, che riconobbi subito come una bolletta dell'amministrazione comunale. Avevo l'addebito diretto sul mio conto corrente, perciò non dovevo preoccuparmi del pagamento. Fu l'ultima busta a lasciarmi un po' interdetta. Era gialla pastello e sembrava piuttosto un biglietto. Strano. Gli unici biglietti che ricevevo erano quelli che mi spediva mia madre per il mio compleanno e a Natale, ma avevo compiuto gli anni mesi prima ed era troppo presto per gli auguri natalizi della mamma. E poi il giallo non era un colore molto natalizio, no? Magari il rosso, o anche il verde, ma non il giallo. Il presentimento che avevo avvertito nel tornare a casa quella sera ricominciò a farsi sentire, ed ebbi la netta sensazione di tenere tra le mani qualcosa che non mi 22
sarebbe piaciuto vedere. Eppure con la mano trovai l'angolo della busta e lo strappai. Tirai fuori il biglietto e lessi la scritta blu scintillante. Buon Anniversario! E poi l'immagine beffarda di una bottiglia di champagne con il tappo che saltava via in un'esplosione di stelle filanti. Sentii un sapore acido salirmi in gola, ma riuscii ugualmente ad aprire il biglietto. All'interno c'era solo il mio nome, scritto con un pennarello nero a punta grossa. Leah. Nient'altro, solo il mio nome. Con una grafia un po' infantile, le lettere di diverse dimensioni. Infilai il biglietto nella busta e lo gettai sul tavolo, spingendolo lontano da me con la base del palmo, come se un contatto piÚ stretto potesse fisicamente nuocermi. Rimase in equilibrio precario sul bordo del tavolo ma non cadde. L'intero appartamento sembrò farsi ancora piÚ piccolo intorno a me, come se volesse schiacciarmi, e mi sembrò di soffocare. Il passato era tornato a perseguitarmi.
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