ANNE O'BRIEN
LA SORELLA DEL RE traduzione di Elisabetta Lavarello
ISBN 978-88-6905-124-1 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The King's Sister Mira Books © 2014 Anne O'Brien Traduzione di Elisabetta Lavarello Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HC giugno 2016
Enrico V Casa di Lancaster
Nessun discendente
Edoardo, Duca di Aumale
Edmondo, Duca di York † 1402 = Isabella di Castiglia
Filippa di Hainault
Giovanni, Duca di Lancaster † 1399 = Bianca di Lancaster
Enrico IV = Maria di Bohun
Questione Mortimer
Lionello, Duca di Clarence † 1368
=
Riccardo II = 1. Anna di Boemia 2. Isabella di Valois
Edoardo, Principe di Galles † 1385 = Giovanna di Kent
Edoardo III
I discendenti di Edoardo III e le pretese al trono inglese
Casa di York
Riccardo, Conte di Cambridge = Anna Mortimer
Tommaso, Duca di Gloucester † 1379 = Eleonora di Bohun
Maud
Thomas, Duca di Surrey † 1400
Altri figli
Thomas, Conte di Kent † 1397
1. Thomas Holland, Conte di Kent † 1360
=
Richard † 1400
=
Constance
Elisabetta di Lancaster
Elizabeth
Riccardo II † 1400
=
Alice
=
John
Anna di Boemia
Edward
2. Edoardo, Principe di Galles † 1386
Margherita di Francia
Edmondo, Conte di Kent
Edoardo I
Giovanna, Fair Maid of Kent † 1385
Edoardo II
=
John, Duca di Exeter † 1400
=
Eleonora di Castiglia
La famiglia Holland
=
=
Richard
Elizabeth
Alice
3. Sir John Cornwall
2. John Holland, Duca di Exeter
= =
1. John Hastings, Conte di Pembroke
=
John
Edward
Enrico di Monmouth (Enrico V)
Maria di Bohun
=
3 figli e 2 figlie
Enrico IV
3. Katherine Swynford
I Beaufort
2. Costanza di Castiglia
=
Constance
Elisabetta
=
Catalina
Giovanni, Duca di Lancaster
Re Jo達o del Portogallo
6 figli e 2 figlie
Filippa
1. Bianca di Lancaster
La Casa di Lancaster
La sorella del re
“... Egli (John Holland) l’amava tanto appassionatamente (Elisabetta) che la cercava giorno e notte.” John Taylor, The Universal Chronicle of Ranulph Higden “Quando (Elisabetta) si congedò in lacrime dal marito, [...] Holland la rimproverò amaramente per essersi rallegrata, benché sapesse che lui era afflitto, quando Enrico aveva arrestato Riccardo e lui stesso [...]” R. A. Griffiths, Oxford Dictionary of National Biography “Cos’è un’unione forzata se non un inferno, Un tempo di discordia e di costanti conflitti? Laddove il suo contrario è fonte di felicità, E modello di pace celestiale.” William Shakespeare, Enrico VI, Parte I
1
1380, castello di Kenilworth «Cosa bolle in pentola?» chiese Enrico, arrivando di corsa lungo il camminamento della cinta muraria. Era iniziato tutto come un raduno di famiglia nell'opulento castello di Kenilworth, dove mio padre aveva fatto costruire una serie di stanze spaziose da goderci nei soggiorni estivi. Inspiegabilmente, tuttavia, l'intima cerchia di persone aveva continuato a essere rimpinguata da un costante afflusso di ospiti. Già, riflettei, cosa bolliva in pentola? Doveva trattarsi di un'occasione prestigiosa. Famiglie aristocratiche al completo, dagli anziani ai bambini, giungevano ai nostri cancelli da ogni angolo del paese e camminavano in fila lungo la passerella rialzata per tenere asciutti i piedi dal tracimare del lago. Filippa e io le guardavamo dall'alto con viva curiosità, in compagnia, ora, del nostro fratello minore Enrico, un tredicenne chiassoso e traboccante di energie, la cui voce acuta spesso riempiva le corti quando sferrava pugni e si rotolava con gli altri ragazzi del castello in combattimenti à l'outrance. Anche adesso, portava sul viso le ultime tracce di un occhio nero. Ma oggi Enrico era pulito, azzimato e la sua condotta era impeccabile. In quanto erede di Lancaster, conosceva il proprio valore. «Qualcosa di grande rilevanza» azzardò Filippa. «Con musica e danze» suggerii speranzosa. I fratelli di mio padre, i Duchi di Gloucester e di York, 13
accompagnati dalle mogli, ostentavano il loro potere regale. Erano presenti in gran numero i FitzAlan e i Percy di Northumberland, con i loro colorati emblemi araldici. C'era anche Edoardo, il nostro cugino di York, che calciava i fianchi di un tollerante pony. Esile e minuto, Edoardo era ancora troppo bambino perché Enrico lo notasse. L'unica assenza degna di nota era quella del re. «Non ne sentiremo eccessivamente la mancanza» brontolò mio fratello, con la presunzione della sua età. Vero. Cosa avrebbe aggiunto Riccardo all'evento, a parte lo spirito malandrino che s'era impossessato di lui di recente? C'era poco amore tra mio fratello e il suo coetaneo cugino reale. I nobili ospiti continuavano a sopraggiungere tra risate e commenti. Non ero nota per essere sensibile alla tensione, se stavo considerando quale vestito mi donasse di più, ma quella particolare occasione increspava la mia pelle come lo sfioramento di una penna d'oca. Soprattutto perché erano troppi gli occhi puntati nella mia direzione. Mi pareva d'essere oggetto d'un interesse che non si limitava ai consueti, blandi commenti sulla rara bellezza e sui precoci talenti della figlia minore del Duca di Lancaster. Inoltre, ero stata abbigliata dalle mie donne con estrema cura. Non che avessi sollevato obiezioni. La sopravveste aperta sui fianchi, di un damasco di seta azzurro che metteva in risalto i miei colori, frusciava preziosa al mio cammino. I miei capelli erano stati intrecciati in un'elaborata acconciatura a coroncina, coperta da un tulle lieve quanto una delle nuvole che velavano il sole. «È una celebrazione?» riflettei. «Abbiamo fatto pace con la Francia?» «Ne dubito. Ma è la celebrazione di qualcosa.» Mia sorella era perplessa quanto me mentre guardava la Contessa FitzAlan di Hereford e il suo opulento entourage entrare nella corte, seguita a breve dal contin14
gente Beauchamp del Conte di Warwick. «È un'alleanza per un matrimonio. Un fidanzamento. Deve essere così» annunciai a Filippa, perché era il motivo più ovvio di una tale nobile adunata e di una tale magnificenza. Gioielli e ricchi velluti scintillavano nel sole. «Il duca ti farà conoscere il tuo futuro marito.» «Un marito per me? Se è così, allora perché sei tu a essere infiocchettata come un dono della Dodicesima Notte?» Filippa sbirciò le mie vesti. «Io non sono abbigliata per un fidanzamento. Questo è il mio secondo abito migliore, e comincia a consumarsi sull'orlo. Mentre tu indossi la mia nuova sottotunica.» Era vero. E Filippa era più stizzosa del consueto, dato che il capo che mi aveva prestato era della seta più fine con ricami in oro all'orlo e al collo, e minuscoli bottoni dal gomito al polso. Comunque, nonostante l'atteggiamento critico verso il proprio secondo miglior vestito, Filippa aveva un aspetto regale in una cottardita di un rosso cupo che a me non sarebbe stato bene. Un potenziale marito non avrebbe mai guardato oltre il suo bel viso per notare l'orlo. Se l'onorato ospite fosse stato invitato qui per un'alleanza nuziale, doveva essere destinato a mia sorella. Più grande di me di tre anni, Filippa avrebbe preso marito per prima. Le sorelle maggiori non si sposavano sempre prima di quelle minori? Fissai i suoi lineamenti familiari, tanto simili ai miei, meravigliandomi della sua serenità. Aveva vent'anni, eppure non c'era ancora un marito in vista per lei, e nemmeno un fidanzamento a distanza. Nessun aristocratico era stato attratto dai suoi capelli scuri e dagli occhi ancora più scuri ereditati da nostro padre. Ed essendo figlia del Duca reale di Lancaster oltre che prima cugina dello stesso Re Riccardo, anche se era solo un ragazzino fastidioso, era proprio ora che fosse corteggiata e conquistata da uno sposo potente. Certo che questo sarebbe stato il suo giorno. Sospirai al pensiero che mi sarebbe toccato aspettare, 15
perché il matrimonio con un attraente cavaliere o un illustre principe era cosa a cui aspiravo. Le canzoni e i racconti dei trovatori su belle donzelle conquistate da gesta cavalleresche e nobili atti d'abnegazione avevano creato una forte impressione sul mio giovane cuore. Ma quello non era un giorno per i sospiri. «Ho contato gli eredi celibi dell'aristocrazia inglese che potrebbero essere mariti adeguati per te» annunciai, per far sorridere Filippa. «Ne ho almeno una dozzina tra cui puoi scegliere.» Fu Enrico a sghignazzare. «Ma quanti di loro sono vecchi o imbecilli?» Scattai in avanti per sferrargli un pugno alla spalla, Enrico però era agile e si portò a debita distanza. E, poiché eravamo elegantemente vestite, non contrattaccò. Gli voltai le spalle. «Potrebbe essere un principe straniero, ovviamente.» Era stata Filippa, sempre seria, a parlare. «Sì, potrebbe.» Tornai a girarmi verso il mosaico di sete e velluti sotto di noi, considerando una tale eventualità. Mi sarebbe piaciuto lasciare l'Inghilterra, vivere lontano dalla mia famiglia, da coloro che conoscevo e amavo dalla nascita? «Non credo che lo apprezzerei.» «Io non avrei nulla in contrario.» Filippa sollevò le spalle in una piccola stretta. «Tu farai tutto quello che ti comanderanno.» Il suo braccio mi cinse la vita con affetto. «E così farai tu.» Non avevo bisogno che me lo dicesse. Potevo anche fantasticare su bei cavalieri erranti, ma ero cresciuta sapendo quale ruolo avrei assunto nei piani di mio padre. Le alleanze erano della massima importanza, e si costruivano su interessi comuni e sulla cessione delle figlie. Enrico era l'erede, e un figlio maschio molto promettente, ma Filippa e io eravamo preziose risorse per promuovere le ambizioni del Duca di Lancaster. Mio marito sa16
rebbe stato sicuramente un uomo di elevata condizione sociale e con un nome importante. Avrebbe posseduto vaste tenute e un'ingente ricchezza oltre a un'ampia rete di relazioni che si sarebbero combinate con quelle del duca in un'onnicomprensiva struttura di potere. Avrebbe avuto una posizione significativa alla corte reale, dove io avrei brillato della riflessa autorità di lui e, speravo, del mio fascino. Non c'era nulla di più attraente di un uomo potente, lo sapevo bene. E, ovviamente, quest'uomo sarebbe stato degno del mio sangue Plantageneto. Mai sarei stata data in sposa a una nullità, a un uomo senza meriti. Quando la mia cameriera mi pettinava i capelli per intrecciarli per la notte e io esaminavo i miei lineamenti allo specchio, capivo che mio marito avrebbe provato dell'affetto per me. Era possibile per un uomo minimamente sensibile non innamorarsi di un viso dalle proporzioni perfette come il mio? Ecco l'elegante naso Plantageneto, gli occhi castani sempre un po' socchiusi che suggerivano una miniera di segreti da esplorare. Le mie labbra erano pronte al sorriso, le sopracciglia sorprendentemente scure e ben arcuate e i miei capelli, a differenza di quelli di Filippa, avevano la bionda lucentezza di quelli di mia madre, il cui ricordo purtroppo svaniva dalla mia mente col passare degli anni. Il mio era un viso che prometteva sentimento e passione, mi dicevo. Il mio sposo sarebbe stato incapace di resistermi e avrebbe assecondato tutti i miei capricci. Ero destinata a godermi la mia vita futura. Quando uno scroscio di risate si alzò da uno dei gruppi che chiacchieravano in cortile, Enrico ci bollò come una compagnia noiosa e ci lasciò. E quando anch'io scesi dal nostro elevato punto d'osservazione, mi trovai davanti Dama Katherine Swynford. La nostra istitutrice, e molto più che un semplice membro della servitù dei Lancaster, era chiusa come un'ostrica, forse preoccupata per qualche questione che riguardava gli invitati, anche se proprio non riuscivo a immaginare perché dovesse occuparsene lei. 17
Non impiegavamo forse un cerimoniere, un ciambellano e uno stuolo di domestici che gestissero ogni aspetto della vita a Kenilworth? Mi incuriosì vedere una rapida ombra passare sul suo viso, un improvviso sconcerto che dubitavo dipendesse dalla sua illecita, scandalosissima relazione con il duca mio padre. «Cosa c'è?» le chiesi. Inutile andar per il sottile, dato che stava per raggiungerci un altro gruppo chiassoso. Quando Dama Katherine, evidentemente intenzionata ad allontanarsi in tutta fretta, scosse la testa facendo fluttuare i veli, i sospetti iniziarono a palpitare nel mio ventre. C'era qualcosa di cui non voleva discutere con me. «Cos'è che voi sapete, Dama Katherine, e che a me non piacerebbe?» «Nulla, per quanto ne so. Cosa dovrebbe esserci?» Aveva parlato in tono lieve, ma i suoi occhi erano sfuggenti. «Cosa stiamo celebrando?» «Il duca non mi dice tutto, Elisabetta.» Mi accigliai. Non le credetti neanche per un istante. Avrei giurato che Dama Katherine fosse in grado di leggere nella mente di mio padre, e ciò che non poteva leggere glielo carpiva quando lo seduceva nell'intimità. O lui seduceva lei. Ritenevo non ci fossero segreti tra loro, poiché era l'amante di mio padre da otto anni. Ora fu svelta a darmi istruzioni. «Raggiungete vostra sorella, Elisabetta, e mostrate pazienza. Vi basti sapere che aspettiamo un ospite importante. Arriverà con vostro padre.» «E chi sarebbe questo ospite importante?» chiesi, afferrando lo strascico della sua sopramanica senza riguardo per l'orlo ricamato, determinata a impedire che mi sfuggisse. Lei sospirò e finalmente si girò ad affrontarmi. Mi parve che il suo viso fosse turbato. «Si tratta di John Hastings. Il Conte di Pembroke.» Quel nome non significava nulla per me. Se mai avevo conosciuto il Conte di Pembroke, non lo ricordavo. «Viene 18
qui per fidanzarsi» aggiunse Dama Katherine. Sorrisi. «L'avevo immaginato» ammisi. «Con mia sorella.» «Oh, no. Con voi, Elisabetta.» «Con me? Perché io?» Quanto ero parsa goffa nella mia improvvisa costernazione. Mi sentii arrossire. «Perché sarà un prezioso alleato. È il nipote della Contessa di Norfolk.» «Mi piacerà?» Era l'unico pensiero che mi era venuto in mente? La lucidità mi aveva abbandonato. «Vostro padre non sceglierebbe mai una persona che potrebbe dispiacervi.» Il tono di Dama Katherine era sbrigativo, tale da troncare ulteriori discussioni. «Quando mai ha usato la frusta o gli speroni per costringervi a fare qualcosa?» E poi, in preda a un visibile disagio, si fece strada tra la folla con un'urgente istruzione per il cuoco. Un matrimonio! Ero troppo deliziata per provare ansia. Questo sconosciuto conte presto avrebbe varcato i cancelli e lo avrei visto coi miei occhi. Se era conte, come poteva non essere uno sposo desiderabile? E con la Contessa di Norfolk per nonna, la sua importanza era assicurata. Rimasi immobile a pensare al mio futuro finché l'eccitazione non pervase tutto il mio corpo. Presto, molto presto, avrei visto il mio futuro sposo. Perché erano tutti così riluttanti a parlare di questo evento vitale per la dinastia? Ero in preda a una gioiosa aspettativa quando raggiunsi mia sorella, ma le tacqui ciò che avevo scoperto. Sapere che avevano scelto me piuttosto che lei per questa unione avrebbe fatto soffrire Filippa. E finalmente, proprio quando mi stava diventando impossibile tenere la bocca chiusa, quando sentivo il sangue cantare nelle mie vene per l'aprirsi di questa nuova finestra nella mia vita, fu annunciato l'arrivo. «Vieni, presto!» Afferrai la mano di Filippa e la trascinai 19
con me, correndo giù per le scale fino al cortile. «Perché?» ansimò, ridendo. «Vedrai!» «Elisabetta...!» mi chiamò Dama Katherine, mentre ci facevamo strada tra i ciarlanti ranghi della nobiltà d'Inghilterra. «Più tardi» gridai di rimando. Di qualunque cosa si trattasse, poteva aspettare. Tutto poteva aspettare. Lì c'era l'uomo di quella famiglia tanto importante con cui avrei passato il resto della vita. Scossi le gonne, lisciai i pannelli riccamente ricamati, mi assicurai che il velo leggero cadesse in belle pieghe attorno al mio viso, e mi preparai a incontrare il mio futuro. I cancelli erano già aperti per ricevere l'imponente corteo con servitori a cavallo, una portantina chiusa da tende, e vari carri carichi di tutte le cose necessarie per un prolungato soggiorno. In grande evidenza sul pennone c'era lo svolazzante stendardo, con in campo un giro di merlotti rossi su strisce argento e blu, che supposi fosse l'emblema del Conte di Pembroke. Notevole, decisi, anche se nulla in confronto ai leopardi reali di mio padre, che sbattevano nel vento pungente sugli stendardi rossi, oro e blu. Raddrizzai la schiena e sollevai il mento. Il Conte di Pembroke doveva essere consapevole del gioiello che avrebbe acquisito sposando una figlia Lancaster, prima cugina di Re Riccardo. Se l'imponenza e il lusso di Kenilworth non avessero fatto colpo su di lui, ed era impossibile che non accadesse, allora sicuramente ci sarei riuscita io. Mi chiesi fuggevolmente perché non ricordassi d'averlo mai incontrato, dato che tutta l'alta nobiltà era stata presente all'incoronazione di Riccardo tre anni prima. Forse all'epoca combatteva in Francia. Forse, come mio padre, era un valente cavaliere sul campo di battaglia e nei tornei. Questo sì mi sarebbe piaciuto. E poi, accompagnate da un certo trambusto, due dame 20
vennero aiutate a scendere dalle ingombranti portantine da viaggio. La Contessa di Norfolk già la conoscevo: era una dama magra e aspra come aceto, coi capelli severamente trattenuti da quei rocchetti di metallo e gemme che erano molto in voga quando era ragazza. Con lei c'era una dama, più giovane, che non avevo mai visto. Ma dov'era lui? «Dov'è il conte?» bisbigliai, quando l'attesa mi fu insopportabile. Dama Katherine, che guardava la scena con noi, venne dietro di me e posò lievemente le mani sulle mie spalle. «Eccolo» osservò piano. «Là. John Hastings, Conte di Pembroke.» Non lo vedevo. Mi girai verso di lei, per seguire la direzione del suo sguardo. Non vedevo nessun Conte di Pembroke, nessun uomo finemente vestito, o montato su un purosangue, che fosse venuto per sposarmi, ma ancora non avevo alcun presentimento. Finché, alle mie spalle, non sentii la mia istitutrice sospirare e le sue dita aumentare la stretta. «Là» ripeté Dama Katherine. «Sta smontando proprio ora. È con sua nonna, la Contessa di Norfolk, e sua madre, la Contessa vedova di Pembroke.» E allora lo vidi, nell'atto di saltare giù da cavallo. Ansimai. Ogni muscolo del mio corpo si tese. Le mie labbra si schiusero. Fu allora che sentii i palmi di Dama Katherine premere con fermezza sulle mie spalle. Sapeva. Mi conosceva abbastanza bene da immaginare cosa avrei potuto fare, cosa sarebbe potuto sfuggirmi di bocca. Voltai la testa di scatto verso di lei, e la pressione crescente delle sue mani bastò a ricordarmi la cortesia e le buone maniere che mi erano state inculcate sin dalla nascita. «Dopo» bisbigliò. «Non ora. Adesso conta solo l'impressione che farete. Considerate la vostra nascita e la vostra ascendenza, oltre che l'orgoglio di vostro padre.» 21
E così mi inchinai ai nostri illustri ospiti con la debita riverenza. Le Dame di Norfolk e Pembroke ricambiarono il saluto. Il conte si inchinò. Poi trascinò la punta della scarpa sul selciato, strofinandosi il mento con le nocche. «È ancora più giovane di Enrico» bisbigliai incredula, e con crescente orrore, appena potei farlo. Era un ragazzino. Un bambino. «Sì, lo è» mormorò Dama Katherine, una nota di compassione nella voce. «Ha otto anni.» E io diciassette. Non riuscivo a guardare Filippa. Non avrei sopportato la pietà che avrei trovato sul suo viso. Come mi aspettavo, fui convocata nella sala privata di mio padre entro un'ora, il che mi concesse giusto il tempo di buttare giù una coppa di birra e di subire il severo discorso di Dama Katherine sulle ineccepibili buone maniere che ci si attendevano da una Plantageneta, quale che fosse la provocazione. Promisi che avrei tenuto a mente i suoi consigli. Fino ad allora ero stata incapace di pronunciare una parola. Come poteva, mio padre, farmi una cosa simile? Come poteva impormi un bambino di nemmeno dieci anni per marito? I pensieri giravano e rigiravano nella mia mente senza arrivare a una soluzione. Lo aveva fatto. Perlomeno Filippa non cercò di consolarmi con frasi banali. Il suo bacio sulla mia guancia diceva tutto. Mi inchinai a Costanza, la moglie castigliana di mio padre, che sedeva con gelida alterigia, i piedi posati su uno sgabellino. Poi omaggiai il resto del gruppo: la Contessa di Norfolk, la Contessa di Pembroke, il giovanissimo conte che mi guardava con occhi attenti. Ed ecco mio padre venire verso di me, il viso illuminato da un sorriso di benvenuto. Alto ma dalla struttura leggera, era il prototipo del principe reale. Mi dominava con lo sguardo. «Elisabetta.» Mi prese la mano per condurmi avanti e 22
fare le presentazioni. «Permettetemi di presentarvi Elisabetta. La mia amata figlia.» La Contessa di Norfolk, nota per le proporzioni matriarcali e lo smodato orgoglio, come si conveniva a una nipote del primo Re Edoardo e in quanto tale contessa per nascita, mi fissò e mi graziò di un sorriso, facendo baluginare la seta dei suoi veli. Anche la Contessa vedova di Pembroke sorrise, e ne aveva ben donde. Non sapevamo tutti che la mia mano in matrimonio era un formidabile successo per qualunque casata, per quanto nobile essa fosse? Costanza si alzò e mi baciò su una guancia, con tutto l'atteggiamento materno che trovò in sé. Nel frattempo il conte, il bambino, stava rigido sull'attenti, come sicuramente gli era stato insegnato, e guardava la scena con un vago interesse. Mi chiesi cosa gli fosse stato detto di quella visita. Quanto comprendesse del suo significato. E io? Sorrisi con tutta la grazia di cui fui capace, anche se mi sentivo la faccia rigida come la teletta che sosteneva il busto castigliano che Costanza spesso indossava nei momenti cruciali. Dama Katherine sarebbe stata orgogliosa di me per come risposi a tutti i saluti. Ma sotto la compostezza ribollivo di rabbia impotente, mista all'apprensione per ciò che mi avrebbero riservato quelle nozze. Non ero abbastanza grande per un matrimonio vero, un'unione della carne oltre che dello spirito? Scaldato dai canti d'amore e passione dei trovatori, il mio sangue anelava una conoscenza personale delle gioie dell'intimità fisica. Come potevo trovarla con un bambino? «Permettimi di presentarti John, Conte di Pembroke.» Quel bambino non avrebbe fatto palpitare il mio cuore come un uccellino in trappola. Il mio sangue era più freddo della pioggia in inverno quando feci un sorriso radioso, concedendo al bambino di prendermi la mano e di premere le acerbe labbra sulle mie nocche con un piccolo, ben eseguito inchino. 23
Era stato ben istruito nelle arti della cavalleria. «Questo è il tuo promesso sposo.» Deglutii. «Sì, milord. Mi dà piacere conoscervi» aggiunsi, rivolgendomi al bambino. «Sono onorata che abbiate desiderio di sposarmi.» No!, avrei voluto urlare. Non è un piacere, non sono onorata, sono disperata. Ma le figlie di Lancaster non urlavano. Le principesse Plantagenete non sfidavano i voleri del loro padre. «Mi impegnerò per essere una buona moglie.» Era un bambino, appena affrancatosi dal controllo delle balie. Come potevo unirmi in matrimonio con lui? Avevo sempre saputo che mi sarei sposata chinandomi ai voleri di mio padre, ma mai avrei immaginato che per me avrebbe scelto un bambino che non aveva ancora imparato a impugnare una spada, e che certamente non aveva l'età di vivere con me come un marito. Quell'unione non sarebbe stata consumata, dopo la cerimonia. «Sono io a essere onorato che accettiate di sposarmi» replicò il bambino, enunciando le parole con cura. Era stato ben addestrato, come il nostro pappagallo. «Quando ci sposeremo, sir?» Il piccolo conte alzò gli occhi verso mio padre, che sorrise. «Domani. È tutto predisposto. Sarà un giorno di grande celebrazione, seguito da un torneo in cui potrete fare sfoggio della vostra abilità.» Domani! Il bambino John di Pembroke si illuminò. Io tirai un respiro ansante. Così presto. Così definitivo. Come poteva mio padre non avvertire le mie ansie? Non riusciva a leggermi nella mente e a capire che non era ciò che desideravo? E se ci riusciva, allora i miei desideri erano irrilevanti quanto foglie spazzate negli angoli di un cortile da un vento invernale? La mia vita di figlia viziata era giunta al termine. «Dammi la mano, Elisabetta» disse il duca dolcemente. 24
Ubbidii. Il duca mi infilò un anello al dito. Un magnifico cerchio d'oro con un rubino di enormi proporzioni e dalla bella luce. Un oggetto che in altre circostanze avrei bramato, ma che ora destava in me solo il pensiero che quel prezioso dono stringeva attorno a me le catene di un matrimonio indesiderato. L'anello era pesante al mio dito. «Un dono per commemorare questo fausto giorno. Apparteneva a tua madre, la mia amata Duchessa Bianca. Ho ritenuto appropriato che, in quanto donna sposata, ora lo porti tu.» «Grazie, sir.» Mai avevo detto così poco nel ricevere un dono di valore. In un altro momento sarei stata fastidiosamente espansiva, ma quel giorno mi sentivo di legno come il fantoccio sul campo della quintana. «Ho dato disposizioni perché tu abbia la tua servitù. Riceverai dei denari adeguati alla tua nuova condizione...» Il piccolo conte stava perdendo interesse per questi dettagli. I suoi occhi vagarono verso un piccolo movimento nello strombo di una finestra, e mio padre rise. «Sono questioni di cui possiamo occuparci anche domani. Non c'è fretta. Avrete tutta una vita in comune.» I suoi occhi cercarono i miei e il ghiaccio nel mio ventre si solidificò in una dura palla di costernazione. «Perché non mostri a Lord John ciò che ha attratto la sua attenzione?» «Certamente, sir.» Distolsi gli occhi, temendo che potesse leggervi la ribellione che mi sentivo dentro, poi feci cenno al bambino di venirmi appresso. Provai vergogna per le lacrime che, inaspettate, mi salirono agli occhi sentendo la scia di risatine e commenti che ci seguirono. «È un bene che imparino a conoscersi...» «Saranno una splendida coppia...» No, non lo saremmo stati. Come potevamo? Io lo superavo di almeno tre spanne. 25
Ma, ubbidiente, condussi il conte verso un pappagallo che era appollaiato sul suo trespolo con aria arcigna. Più o meno come mi sentivo io. Era grosso, di un verde iridescente, con vispi occhi neri e un becco di cui diffidare. Nemmeno la sua confortevole prigione lo aveva ridotto all'obbedienza, e mi colpì il pensiero che avrei potuto imparare un paio di cosette da questo fiero, bisbetico uccello. Quando fummo davanti al trespolo, le mie lacrime di debolezza si erano già asciugate. Questo era il piatto che mi era stato presentato e da esso dovevo mangiare. Ignaro delle tensioni presenti nella stanza, e certamente dei miei pensieri, il bambino si animò e si mise a girare attorno al trespolo a cui era incatenato l'uccello. «Che cos'è?» «Un pappagallo. Non ne avete mai visto uno, prima d'ora?» Certo, non riuscivo a immaginare la Contessa di Norfolk che teneva un volatile come quello nel suo salone. Il pappagallo rappresentava l'amore erotico piuttosto che quello sentimentale. «Parla?» si informò il conte. «A volte.» «Cosa dice?» «Benedicamus Domine. E poi starnutisce.» «Perché?» «Perché è ciò che dice Padre Thomas, il nostro prete. Cerca di insegnargli le buone maniere. E Padre Thomas soffre di raffreddori.» Il bambino scrutava l'uccello. «È una creatura maleducata allora?» «Si dice che i pappagalli siano smodatamente lascivi.» Il che non doveva significare nulla per il piccolo conte. «Posso insegnargli a parlare?» «Se lo desiderate.» Lui allungò una mano per toccare le penne sul dorso dell'uccello. 26
«Becca» lo avvertii. «Non beccherà me!» Lo fece. «Sangue di Dio!» Il bambino si succhiò la nocca dolorante mentre io non potei trattenere una risata, chiedendomi dove avesse sentito quell'espressione che contrastava così curiosamente con la sua giovane età. «Vi avevo avvertito.» «Non ha importanza.» Per nulla scoraggiato, ci riprovò e riuscì ad accarezzare l'uccello senza riportare danni. «Come si chiama?» «Pierre.» «Come mai?» «Tutti i nostri pappagalli si sono chiamati Pierre.» «È maschio? O femmina?» «Non lo so.» «Posso averne uno?» «Se lo desiderate.» «Lo desidero. E gli metterò un collarino d'oro.» Mi fece ridere di nuovo, forse con una nota di nervosismo. Gradiva più l'uccello che me. Sicuramente, per me tanto interesse non lo aveva mostrato. «Ve ne comprerò uno.» «Lo farete? Quando sarete mia moglie?» «Sì.» Mi martellava il cuore. A quell'ora, l'indomani, sarei stata la Contessa di Pembroke. «Posso chiamarvi Elisabetta?» «Sì.» «E io sono John.» Il suo sguardo tornò sull'uccello che si mise a becchettarsi gli artigli. «Forse chiamerò il mio pappagallo Elisabetta. Se è femmina, ovviamente.» Che infantile era. Ma con quegli occhi del colore delle castagne, e una zazzera di ricci della stessa sfumatura, era stranamente accattivante. «Voi desiderate sposarmi?» chiesi, intrigata dalla sua risposta. Non avevo idea di cosa potesse pensare del matri27
monio un ragazzino di otto anni appena. Il bambino ci rifletté mentre osservava l'attenzione che il pappagallo dedicava alle proprie zampe. «Suppongo.» Il sorriso che mi rivolse era del tutto ingenuo. «Siete molto graziosa. E un pappagallo come regalo di nozze sarebbe perfetto. O un falco. Magari un cane. Un cane mi piacerebbe proprio. Uno bianco, da caccia, se poteste. Sapete che se portate il dente di un cane nero nel palmo della mano, gli altri cani non vi abbaiano?» «No. Non lo sapevo.» Quindi il mio promesso sposo era un esperto delle proprietà magiche degli animali. «È vero, dicono. Non ci ho mai provato.» Piegò la testa di lato, come per un ripensamento. «E io cosa vi darò come dono di nozze, Elisabetta?» Non ne avevo idea. Dato che la riunione si stava sciogliendo e i nostri ospiti venivano accompagnati alle loro stanze, mio padre mi fece cenno di avvicinarmi, e in quel breve istante, quando fummo soli e lontani da orecchie indiscrete, lasciai trapelare le mie frustrazioni, anche se sapevo che non avrei dovuto. Non sarebbe servito a nulla, ma espressi le mie riserve in un torrente di parole sommesse. «Come posso sposare un bambino? Di cosa potrò parlargli? Io desidero un marito che condivida il mio amore per i vecchi racconti, per la poesia e le canzoni. Un marito che possa danzare con me, che possa parlarmi della corte reale, del re e degli ambasciatori stranieri che giungono in visita, dei lontani paesi da cui provengono. Voi mi avete dato un bambino imberbe. Vi supplico, sir. Cambiate idea e trovatemi un uomo talentuoso ed erudito. Voi avete trovato una donna di questo tipo in mia madre. Non volete concedere a me la stessa fortunata sorte? Ve ne prego...» Mi aspettavo rabbia sul viso di mio padre, poiché mettevo in questione il suo giudizio, e invece vi trovai una certa comprensione, e la sua risposta, se pure implacabile, fu dolce e pacata. 28
«Non può essere, Elisabetta. Devi accettare ciò che non si può cambiare.» Chinai la testa. «Sa parlare solo di pappagalli e cani da caccia!» Sentii il timbro della mia voce alzarsi e mi sforzai di controllare la costernazione. «Mi ha perfino dato una lista di cose che gli piacerebbero come regalo di nozze. Hanno tutte il pelo o le penne.» «Diventerà un buon marito. Crescerà. Non è escluso che John Hastings possa rivelarsi tutto ciò che speri in uno sposo.» L'accenno di un sorriso sulle labbra di mio padre vanificò le mie rimostranze oltre a farmi sentire indegna. Era chiaro che non mi avrebbe dato ascolto. «Sì, milord.» Certo che il Conte di Pembroke sarebbe cresciuto. Ma non abbastanza presto per me. Appena potei, corsi in camera mia, dove il mio controllo svanì come nebbia al sole di un mattino di giugno. «Non lo farò! Come può mio padre chiedermi di sposare un bambino?» Mi asciugai lacrime di furia e disperazione sulla manica, incurante della superlativa qualità della pelliccia che la orlava, e ritrassi le mani di scatto quando Dama Katherine cercò di prendermele. Non sopportavo di essere consolata, ma la mia istitutrice era una donna determinata. Mi afferrò per i polsi e mi trascinò a sedere accanto a lei sul letto. Mi ero rifugiata nella mia stanza, perciò non c'era bisogno che fingessi di essere coraggiosa davanti alle mie zie e ai miei zii reali. «Fategli cambiare idea» la implorai. «Lo farà, se glielo chiedete voi.» «No, non lo farà.» Era categorica. «Il duca ha deciso. È un matrimonio importante.» «Se è tanto importante, perché non mia sorella? Perché non Filippa? È lei la maggiore. Perché non lei?» 29
«Per Filippa vostro padre cerca un matrimonio con una potenza europea. Per formare un'alleanza contro la Castiglia. È stato sempre questo il suo piano.» Sentii la pietà nella sua voce e mi irrigidii. Ne avevo abbastanza, di pietà, per quel giorno. «Quindi sarò sacrificata a un bambino.» «Non è la prima volta che la figlia di una casata aristocratica viene data in matrimonio a un giovanetto non ancora considerato uomo.» «Uomo? Si è appena liberato della giurisdizione della madre.» «Sciocchezze! È ora che accettiate l'inevitabile. Ascoltatemi e vi dirò perché questa unione è così importante.» Sbuffai sprezzante. «Suppongo che lui abbia della terra.» «Ovviamente. Il piccolo conte diventerà un uomo influente. Ha eccellenti parentele e le sue tenute sono immense. Sua nonna è la Contessa di Norfolk. Sono congiunti del Conte di Warwick. La loro alleanza è vitale per contrastare le voci che si levano contro il duca. Dio mi è testimone: sono anche troppi coloro che si risentono per l'influenza che il duca ha sul re e che farebbero di tutto per compromettere la sua posizione. Vostro padre ha bisogno di alleati potenti. Questo ragazzo può essere un bambino ai vostri occhi, ma è l'unico erede di Pembroke, e ha il sangue reale di Edoardo I grazie a sua nonna la contessa. In realtà è un'unione eccellente che vi renderà Contessa di Pembroke. Lo capite?» «Sì. Certo che capisco. Sarà come dite.» La guardai candidamente. «Ma come può essere mio marito se non di nome? Quanto tempo passerà prima che io sia una sposa?» La passione pulsava nel mio sangue. Avevo bisogno di spiegarle i miei desideri, ma come potevo farlo senza suonare indelicata? Dama Katherine, a quanto pareva, comprendeva perfettamente. «Dovrete essere paziente. Agli occhi della chiesa, 30
John Hastings sarà vostro marito ma, fisicamente, non ci sarà intimità tra di voi. Vivrete separati a tutti i livelli finché John non avrà l'età di essere il marito che vi porterà nel suo letto.» «E quando succederà questo?» Non conoscevo già la risposta? «Quando compirà sedici anni. Forse quindici, se avrà una maturità precoce.» «Altri sette anni nella migliore delle ipotesi. Io ne avrò ventiquattro, all'epoca. E fino ad allora vivrò come una vedova. O una suora.» «Non sarà una tortura. Gli anni passeranno in fretta.» «E i miei capelli diventeranno grigi mentre attendo di conoscere il tocco di un uomo. Mentre aspetto che un uomo che non sia della mia famiglia mi baci con qualcosa di più dell'affetto.» La mia insoddisfazione riguardo a John Hastings non si basava soltanto sulla mia incapacità di avere con lui una conversazione significativa. «È tanto importante per voi?» «Sì!» Battei le mani, una secca esplosione nella stanza silenziosa. «Come potete chiedere una cosa simile a me, che sono nata dalla passione tra il duca e Bianca?» Ogni timore di risultare indelicata era svanito. «Come potete chiedermelo quando il... l'intimità fisica è stata abbastanza importante da riportarvi nel letto di mio padre anche se eravate bollata come prostituta e strega dal monaco Walsingham? Voi non siete riuscita a vivere senza il tocco di un uomo. Né, ritengo, potrò farlo io!» Dama Katherine impallidì e, rendendomi conto dell'enormità di quello che avevo detto, arrossii dal bordo ricamato dello scollo fino alla radice dei capelli. «Faremo conto che non l'abbiate detto, Elisabetta.» «Ma è vero. L'intimità fisica ha lasciato su di voi il marchio del peccato. E tuttavia mio padre mi condannerebbe a vivere nell'astinenza finché non avrò perso la mia fuggevole giovinezza.» 31
Il che indusse Dama Katherine ad alzarsi e a mettere della distanza fisica e un palpabile gelo tra di noi. Afferrai il mio liuto e cominciai a pizzicare le corde senza curarmi dell'armonia. «Smettetela!» sbottò la mia istitutrice, e io posai lo strumento. «Non ci penserete più, né ne parlerete. Onorerete la memoria di vostra madre e dei vostri antenati reali. Cosa direbbe vostra nonna, la Regina Filippa, se fosse viva e potesse sentirvi?» Non riuscivo a essere contrita. «Non so. La ricordo appena.» «Allora ve lo dico io cosa direbbe.» Tornò a imprigionarmi i polsi, dilungandosi su tutto ciò che già sapevo a menadito riguardo al senso del dovere e all'acquiescenza, alla cortesia e al ruolo delle figlie Plantagenete. A metà del discorso, la contrizione era strisciata dentro di me facendomi sentire a disagio. Non mi era mai facile ammettere di aver sbagliato, ma Dama Katherine mi convinse che avevo peccato d'orgoglio e di caparbietà. «Perdonatemi» dissi infine. «Rimpiango le mie parole.» «Vi perdonerò. Come sempre, Elisabetta.» Ma il suo viso restava severo. «Perché sono stata la vostra istitutrice e perdonarvi rientra nel mio ruolo. Potreste riflettere sul fatto che il vostro comportamento mette in cattiva luce me, oltre che voi. È vostro dovere rendere vostro padre orgoglioso di voi. Avrete la vostra servitù personale. Sappiate che è stata fissata una somma annuale di cento sterline per il suo mantenimento.» «Perché sarò Contessa di Pembroke.» La mia istitutrice di un tempo annuì, lasciandomi finalmente i polsi. «È questo il volere di vostro padre, Elisabetta. Sarà un buon matrimonio. E quando avrete venticinque anni, John ne compirà sedici, e sarà sulla via di diventare un eccellente cavaliere e sposo. E sarà anche un uomo attraente, ne sono certa.» 32
Altri otto anni di attesa. Non potevo pensarci. «Ha ammirato il pappagallo più di quanto non abbia ammirato me» dichiarai, furiosa con me stessa per l'amarezza che non riuscivo a nascondere. «Allora dovrete impegnarvi per cambiare le cose.» Mi avvicinai alla finestra per guardare gli acri di terra Lancaster che si estendevano a perdita d'occhio, perché era come se le pareti della mia stanza si fossero chiuse attorno a me, privandomi della libertà. Cosa contava se il Conte di Pembroke mi trovava o no di suo gradimento? Dato che il matrimonio sarebbe stato solo nominale per quasi un decennio, non vedevo lo scopo di coltivarmi l'affetto di un bambino. Poi un altro pensiero mi colpì. «Perché non me ne avete parlato prima? Perché me l'avete detto solo quando siete stata costretta a farlo?» «Perché sapevo che sareste stata contraria a queste nozze» replicò senza esitare. «Pensavate che avrei fatto una scenata.» «Sì.» Non mi piacque l'implicita critica. «Lo avreste detto a Filippa? Se il conte fosse venuto per lei?» «Sì. Perché Filippa avrebbe trovato in sé la carità di rendere le cose più facili per il bambino.» «E io no.» Il sopracciglio inarcato di Dama Katherine diceva tutto. Non gradii l'implicazione. Quindi ero egoista, avventata, incurante dei sentimenti delle persone che mi circondavano? Mi sembrava ingiusto. In quel momento ero troppo irritata per dedicare anche solo un fuggevole pensiero alle mie manchevolezze. Il mattino del giorno seguente, mi trovai in piedi accanto a John Hastings sull'altare della cappella di Kenilworth. Nessun matrimonio sulla porta della chiesa per noi. Mio padre aveva sposato Bianca sotto un baldacchino dorato, retto da quattro lord, davanti all'abbazia di Rea33
ding, in presenza del vecchio Re Edoardo III. Non era stato previsto nulla di tanto sontuoso per me e per il conte bambino, anche se la cappella era stata addobbata ed entrambi eravamo vestiti da alta cerimonia. E così gli ospiti che erano accorsi per assistere alla nostra fausta unione. L'abito del cappellano di mio padre era una meraviglia di seta rossa e filo d'oro. Gli stendardi di Lancaster e Pembroke spiccavano contro le mura in pietra. La mia mano, posata lievemente in quella del bambino, dove mio padre l'aveva messa per indicare che mi stava affidando alle cure del giovane conte, era gelida. Quella del bambino spiacevolmente calda e umidiccia. Lanciai un'occhiata al mio fidanzato, ridicolmente elegante in una luccicante tunica di seta, ben sapendo che avrebbe voluto essere ovunque tranne che in quella cappella. Tuttavia, la sua postura rigida, la sua solenne concentrazione, erano ineccepibili. Cercavo di concentrarmi sulle sacre parole, ma non ci riuscivo, conscia solo del bambino al mio fianco e disturbata dal fatto che Dama Katherine avesse trovato il mio comportamento causa di preoccupazione. Ero sempre così egoista, così incurante dei sentimenti degli altri, come lei percepiva? Quel giorno ero determinata a dimostrare che aveva torto. Il mio atteggiamento sarebbe stato irreprensibile. Sorrisi al bambino, ricevendo un sogghigno radioso in cambio. Sì, sarei stata gentile con lui. Il cappellano, austero e curvo come se portasse un fardello sulle fragili spalle, mi fissò accigliato, ricordandomi che avevo delle risposte da dare. E io lo feci, accettando quel bambino per marito, e mentre la cerimonia volgeva al termine, cercai di non pensare a quanto potessimo apparire ridicoli insieme, a dispetto dell'esteriore magnificenza di seta, raso e bordure tempestate di gemme. La testa di John Hastings arrivava appena al mio gomito. Un attimo dopo finì. Mai più, in pubblico, avrei portato i 34
capelli sciolti in verginale purezza. Il bambino, con sorprendente destrezza, spinse un anello d'oro sul mio dito. Ci baciammo formalmente su una guancia, poi sull'altra. Infine di sfuggita sulle labbra. Eravamo marito e moglie. Io, la Contessa di Pembroke. «Mi sarà consentito recarmi nelle scuderie, ora?» bisbigliò mio marito mentre mi chinavo a salutarlo. «Presto» sussurrai di rimando. «Quando è presto?» Emisi un piccolo sospiro mentre univamo le mani e ci incamminavamo tra i beneauguranti ospiti, allontanandoci dalla sacra presenza di Dio verso le prove della vita vera. Fummo baciati e vezzeggiati, festeggiati e inneggiati, cosa che io tollerai molto meglio del mio signore, il quale si dimenò per l'imbarazzo e, alla fine, si fece prendere dalla noia, il viso imbronciato e gli occhi tempestosi. Fummo condotti al posto d'onore, e il nostro maggiordomo porse la coppa del brindisi prima a noi. Il mastro trinciatore di mio padre ci tagliò la cacciagione. I piatti venivano posati davanti a noi perché assaggiassimo e scegliessimo il cibo prima di passarli agli altri. Avrebbe dovuto essere uno dei giorni più felici, più esaltanti della mia vita. Invece ero divisa tra il compiacimento per la mia nuova condizione di donna sposata e titolata, con fondi sufficienti a mantenere un mio personale seguito, e la costernazione per il fatto che non avevo un uomo che condividesse queste cose con me. Avrei voluto uno sposo che mi corteggiasse, mostrasse ammirazione per la mia persona. Che condividesse con me i piaceri della danza, del canto e della lettura di racconti d'amore francesi. Ovviamente sarebbe andato in guerra, si sarebbe distinto nei tornei, avrebbe preso il posto che gli spettava a corte, ma sarebbe tornato da me. Mi avrebbe portato doni e avrebbe espresso il desiderio di passare del tempo in 35
mia compagnia. Mio marito sarebbe stato anche elegante e affascinante, esperto nell'arte della seduzione con parole e musica, garbato e sofisticato. Come minimo avrebbe ammirato il vestito che era stato cucito per le mie nozze, coi simboli di Lancaster e Pembroke intrecciati lungo l'orlo e sulle sopramaniche... perché da quanto tempo mio padre era stato al corrente di questa unione con Pembroke? Un tale capolavoro araldico non poteva passare inosservato agli occhi del lord per cui era stato creato. John Hastings non se ne accorse nemmeno. «Milady! Cosa ci si aspetta da me ora?» sibilò sottovoce il bambino al mio fianco. Si stava strofinando il naso col dito, senza grazia né eleganza, e apparve sopraffatto quando il nostro maggiordomo gli si inchinò, presentandogli l'ennesimo vassoio di carne aromatica perché la assaggiasse. Ero certa che gli fosse stato detto come doveva comportarsi, ma non era ancora stato mandato a fare il paggio in una casata nobile, e nessun insegnamento della sua signora madre poteva compensare l'inesperienza. Cercai di non sospirare. Non era colpa sua. «Noi mangiamo per primi» spiegai. «Il banchetto è per noi.» «Bene.» I suoi occhi si rianimarono un po'. «Prenderò un po' di quello...» E, servito dal nostro maggiordomo, attaccò un piatto di pavone speziato, la posata in pugno, come se non si cibasse da una settimana. Io fui lasciata a scegliere il mio pasto e a conversare con mio zio di Gloucester, il quale mi sottopose a una sconclusionata descrizione del suo inseguimento di un imponente cervo e di come alla fine era riuscito ad abbatterlo. Io emisi opportuni mugolii di ammirazione. I menestrelli inneggiavano all'amore ricambiato, cosa evidentemente ridicola, ma io apprezzai le parole e la musica. Il mio si36
gnore passò a un altro piatto che aveva attirato il suo sguardo, un arrosto ripieno di prugne, poi tracciò disegni sulla tovaglia con il coltello finché sua madre non incrociò il suo sguardo e non si accigliò. Vennero pronunciati i brindisi e tutti bevvero di nuovo alla nostra salute. Poi si aprirono le danze. La disparità di statura rese complicati anche i più semplici passi mentre noi, i novelli sposi, guidavamo la formale processione che serpeggiava per la sala da ballo. Pensa a lui come a tuo fratello. Immagina che sia Enrico. Hai sopportato anche troppo spesso i suoi passi esitanti. E così mi comportai, sollevata che il mio signore non sgambettasse né saltellasse, come spesso Enrico era tentato di fare da vero monello qual era. Fu, decisi, una esecuzione decorosa quanto ci si poteva aspettare, dato che lo sposo doveva contare il numero di passi che eseguiva prima di inchinarsi e arretrava contando di nuovo. Beata Vergine! Nessuno rise apertamente. Non osavano farlo, ma io non mancai di notare i sorrisetti. Poteva anche essere un matrimonio politico creato nelle stanze del potere, ma scorsi pietà e condiscendenza negli occhi divertiti che evitavano i miei. Io tenni il sorriso appiccicato sulle labbra, come se fosse l'esperienza più piacevole del mondo. Avevo troppo orgoglio per ammettere la perdita della dignità. Mentre tornavamo ai nostri posti, conclusa la processione, coi musicisti che tiravano il fiato e si asciugavano la fronte, mi resi conto dell'espressione feroce del bambino. «Cosa c'è?» «Vi piacerà essere sposata con me, Elisabetta?» chiese, sorprendendomi. I suoi occhi erano luminosi quanto quelli di un cane da caccia che segue una pista, e per nulla timidi. «Non ne ho idea» risposi onestamente, e subito me ne 37
pentii vedendo che si intristiva. «Suppongo di sì. E a voi, piacerà essere sposato con me?» «Sì.» Tornò a illuminarsi. «Ho deciso. Mi piacerà sopra ogni cosa.» Un mio sopracciglio doveva essersi sollevato. «Perché non dovrebbe?» Scossi la testa, incapace di capire perché un bambino dovesse essere così veemente nel suo apprezzamento della nostra unione, quando non avrebbe significato nulla per lui ancora per anni. «Mi piacerà vivere qui» annunciò. E questo mi sorprese ancora di più. «Non tornerete a casa con vostra madre? O con vostra nonna?» «No. È stato deciso che vivrò qui. A Kenilworth.» I suoi occhi scintillavano d'entusiasmo, le sue guance erano arrossate per la coppa di vino con cui gli era stato consentito di brindare. «Mi insegneranno a essere un cavaliere. Mi unirò a Enrico negli studi. Terrò qui il mio cavallo e potrò avere tutti i segugi che vorrò. Imparerò a uccidere con la spada. E andrò a caccia. Vorrei un rapace mio, oltre al pappagallo...» E mentre sorridevo per il suo entusiasmo... perché chi avrebbe potuto resistere?... dovetti rassegnarmi a questo nuovo fatto: che lo avrei visto tutti i giorni. Invece che vivere separati finché lui non avesse raggiunto l'età adulta necessaria a diventare il mio sposo non solo di nome, avremmo giocato a marito e moglie nella vita quotidiana. Avevo inteso che avrei potuto sottrarmi alla sua compagnia finché lui non avesse avuto, quantomeno, la presenza di un adulto. Vivendo nella stessa casa, saremmo stati a stretto contatto tutti i giorni. Mi chiesi se la sua infatuazione per qualunque creatura avesse pelliccia o penne mi sarebbe venuta a noia. «... e poi avrò un'intera scuderia piena di cavalli» mi informò. «In quanto Conte di Pembroke è mio diritto. Sapevate che ero conte ancor prima di aver compiuto i tre an38
ni? Vorrei combattere in un torneo. Supponete che me lo permetteranno?» «Credo che dovrete aspettare qualche anno.» «Bene, lo capisco. Prevedo che sarò molto impegnato. Non vi dispiacerà se non verrò a trovarvi tutti i giorni, vero?» «Credo che riuscirò a sopportare la delusione.» «Troverò il tempo se lo desiderate, naturalmente. E potreste chiamarmi Jonty, come fa la mia nutrice?» Continuò a chiacchierare. Quanto era assorbito da sé. Sarebbe potuto andarmi peggio. Avrebbe potuto essere chiassoso e rozzo, cosa che non era. Ma non ero sicura che mi piacesse l'idea di averlo tra i piedi come un cagnolino. «Se non potrò ancora battermi in un torneo, mi consentiranno di avere un cucciolo di bracco?» Guardai Dama Katherine in cerca d'aiuto, ma capii che non potevo farlo più. Ero una donna sposata e dovevo prendere le mie decisioni, anche se mio marito non era in grado di farlo. Mentre il banchetto si avvicinava alla conclusione, tra inchini e fanfare, il Conte di Pembroke e io fummo allontanati dalla sala, preceduti da una processione di menestrelli e seguiti dagli ospiti. «E adesso dove andiamo?» chiese il bambino, prendendomi la mano. «Posso andare a vedere la cagna e i cuccioli di bracco?» «No. Prima dobbiamo recarci in una delle stanze da letto.» Lui corrugò la fronte. «È troppo presto per dormire.» «Ma oggi è una giornata speciale. Saremo benedetti.» E pregavo che il cerimoniale finisse presto. L'enorme letto aveva pesanti cortine blu e argento, anch'esse decorate coi blasoni di Lancaster e Pembroke. Il bambino e io fummo aiutati a sistemarci seduti contro i cuscini, uno di fianco all'altro, vestiti di tutto punto e con 39
un vasto copriletto ricamato a dividerci. Neanche un lembo di pelle fu rivelato mentre il cappellano si avvicinava, reggendo una ciotola d'acquasanta, e cominciava ad aspergere noi e il letto. «Chiediamo che la benedizione divina scenda su questi due giovani che rappresentano le grandi famiglie inglesi di Lancaster e Pembroke. Preghiamo che possano crescere in grazia finché non avranno l'età di essere realmente uniti nel nome di Dio.» Seguirono altre preghiere sullo stesso tenore, finché i vestiti e il letto non furono adeguatamente inumiditi. «Monseigneur...» Il cappellano guardò mio padre per istruzioni. «È considerato necessario che lo sposo tocchi la gamba della sposa con un piede. Carne contro carne. In segno di ciò che verrà compiuto da milord il conte quando avrà raggiunto la maturità.» Immaginai la scena. Il bambino a cui veniva sfilata la calzamaglia, le mie gonne sollevate fino al ginocchio per assolvere al rituale. Le mie dita si intrecciarono convulse mentre pregavo che mi fosse risparmiata l'esperienza. E forse il duca interpretò correttamente la mia rigidità. «Credo che non sarà necessario. John ed Elisabetta sono qui insieme. Non c'è segno che desiderino sfuggire alla reciproca compagnia.» Gli ospiti che si erano affollati nella stanza per assistere al godimento del nostro stato coniugale sorrisero e mormorarono. Sembrava che tutti non sapessero fare altro che sorridere. «Cosa facciamo ora?» chiese il piccolo conte. «Nulla. Proprio nulla» rispose mio padre. «Avverrà tutto in futuro.» Io non sapevo se ridere o piangere. Scendemmo dal letto, da lati opposti. Mio marito venne condotto al suo appartamento dalla sua genitrice, ora Contessa Madre, che mi baciò sulle guance riconoscendomi come una figlia per legge. Io tornai nella mia stanza, dove 40
Filippa mi aspettava con le donne che dovevano aiutarmi a spogliarmi. Invece, Filippa congedò le domestiche e restammo sole a guardarci. «Sai cosa farà mio marito non appena si sarà tolto l'abito da cerimonia?» chiesi. Lei scosse la testa. «Scenderà nelle stalle perché vuole un falco suo o un cucciolo di bracco. Mi dice che gli piacerà vivere a Kenilworth... Sapevi che sarebbe rimasto qui?... perché potrà incrociare le spade con Enrico e prendere parte a un torneo.» Filippa sorrise. Lo feci anch'io, con un indolenzimento ai muscoli del viso. «Lui... Jonty... dice che forse non potrà vedermi tutti i giorni. Sarà molto impegnato a diventare un perfetto cavaliere.» Scoppiai a ridere. Così fece Filippa, ma senza la nota di nervosismo che rendeva stridula la mia risata. «Dice che farà lo sforzo di venire a trovarmi, se scoprirò di sentire la sua mancanza.» Ci abbracciammo, versando qualche lacrima, ma c'era sollievo finalmente in quella risata condivisa. «Se fossi tu, cosa faresti?» domandai alla fine. «Lo tratterei come faccio con Enrico, suppongo.» Era una risposta sensata. Tipica di Filippa. E, in verità, quello che io avevo già deciso di fare. «Intendi dire, fingere che non esista quando è irritante, confortarlo quando cade da cavallo e dargli un buffetto sulle mani quando mi ruba i dolciumi?» Ma Enrico amava i libri e la lettura, apprezzava la poesia e le canzoni dei menestrelli. Come me. Sembrava che Jonty avesse in testa solo la guerra e la caccia. «Qualcosa del genere.» Filippa non s'accorgeva della mia disperazione. «Non puoi trattarlo come un marito.» 41
«No. Obbedire e onorare.» Feci una smorfia. «Non puoi ignorarlo, Elisabetta. Vivrà qui sotto il tuo naso.» «Com'è vero.» Le mie risate si spensero, finalmente. «Filippa... ti auguro una migliore prima notte di nozze.» Lei mi cinse con le braccia per un attimo, poi iniziò a rimuovere gli strati di seta e pelliccia di vaio finché non mi ritrovai in sottoveste, senza più gioielli nei capelli, disadorna come qualunque giovane donna in una normale giornata della sua vita. Non parlammo più del mio matrimonio. Cosa c'era da dire? Donai a mio marito un volume magnificamente miniato con i racconti di Re Artù e dei suoi cavalieri, oltre al pappagallo. Con mia costernazione, il libro fu abbandonato su un tavolo mentre Jonty si buttava sul pappagallo con ciarliera delizia. Non lo chiamò Elisabetta, ma Gilbert, come il precettore che gli aveva insegnato a scrivere. Io non mi offesi. «Vostro marito non vi tiene compagnia questa mattina, Elisabetta?» Avrebbe potuto essere una domanda del tutto normale da porre a una novella sposa. Se il marito in questione non avesse avuto otto anni. Dunque, doveva esserci una nota ironica in quelle parole cortesi. Non ero nata ieri. Sotto l'eleganza di Isabella, Duchessa di York, sorella di Costanza, la moglie castigliana di mio padre, c'erano uno spirito abrasivo e un temperamento inaspettatamente lascivo. Se l'ambizione di Costanza era riportare la corona di Castiglia sulla propria bella testa, quella della sua sorella minore, che era giunta in Inghilterra con lei e aveva prontamente sposato mio zio di York, era la gratificazione personale. Ero affascinata dal modo in cui Isabella contentava se stessa e nessun altro, ma la duchessa non mi piaceva, né pensavo di piacere a lei. La 42
sua espressione poteva anche essere blandamente interessata, ma i suoi occhi erano avidi di dettagli mentre si metteva comoda accanto a me, come se si preparasse a una bella chiacchierata. «Sta imparando a leggere e scrivere, suppongo» replicai in tono leggero. «Il suo precettore non gli permette di trascurare le lezioni, anche se lui sogna i tornei.» Lei annuì serenamente. «Quanti anni avrete, voi, cara Elisabetta, quando diventerà finalmente uomo?» «Ventiquattro, l'ultima volta che li ho contati.» «Ancora sette anni?» rifletté Isabella. «E come resisterete senza un uomo tra le vostre lenzuola?» La sua invadenza mi irritò. Tutti si rendevano conto della situazione, ma nessuno ne parlava. «Non tutte sono portate a indulgere nei piaceri, milady.» Osservai i suoi bei lineamenti, chiedendomi come avrebbe reagito. Isabella aveva reputazione d'aver avuto più di un amante dal suo arrivo in Inghilterra e dal matrimonio col mio reale zio di York, ma rimase fredda e impassibile, a eccezione di una nota pungente nel tono. «Certo che no. Dirò una novena per la vostra pazienza.» Poiché non desideravo continuare quella conversazione, mi alzai, mi inchinai e replicai con una composta eleganza che Dama Katherine avrebbe apprezzato. «Mi onora, milady, il vostro interesse per la mia pace mentale.» «Non tutte gradiscono vivere come monache» ribatté lei, alzandosi per incamminarsi accanto a me. «Né è necessario farlo. Pensavo aveste più spirito, mia cara.» Io le tenni testa. «Certo che ho spirito. Ma ho anche la virtù che si conviene al mio rango, milady.» Isabella mostrò i piccoli denti affilati in un sorriso di grande fascino. «Me lo direte se la virtù, di per sé cosa egregia, comincerà a pesarvi, vero, cara Elisabetta?» Piegai la testa di lato, chiedendomi se mi avrebbe confessato qualcosa sulla propria vita. Avevo sentito voci sconcertanti che la riguardavano. 43
«Conosco degli ottimi rimedi contro la noia» aggiunse, sfiorandomi la mano con le belle dita inanellate. «Vi piacerebbero.» «Lo terrò presente, milady.» Affondai le unghie nei palmi mentre lei lasciava il salone per mettere in pratica le sue arti amorose su qualunque uomo non fosse suo marito. Mi infuriava il fatto che le sue osservazioni contenessero un fondo di verità. La prospettiva di aspettare i ventiquattro anni per provare le delizie coniugali insidiava i miei sacri voti nuziali, perché il mio giovane sangue era caldo. Avrei osato fare come Dama Katherine, che s'era presa un amante per riempire il freddo letto della sua vedovanza? O essere come la Duchessa Isabella, sfrontata, una pubblica peccatrice sotto le raffinate vesti? No, non lo avrei fatto, decisi, mentre la risata della duchessa riempiva l'anticamera, dove doveva aver trovato qualcuno che la intrattenesse. Avevo troppo orgoglio. Non avrei adottato lo stile di vita della Duchessa Isabella. Avrei sopportato la noia, se così dovevo, e sarei arrivata vergine al mio letto nuziale. Poiché era stato celebrato solennemente davanti a Dio e a tutte le famiglie aristocratiche del paese, il mio matrimonio era sacrosanto. Aspersi d'acqua benedetta nel nostro talamo, anche se ci eravamo scambiati solo un casto bacio, Jonty e io eravamo indivisibili. Percorrere l'accidentato sentiero dell'immoralità era troppo penoso, come la mia famiglia ben sapeva. Né la vita che aveva scelto Dama Katherine, né le lascive avventure della Duchessa Isabella fuori dal letto coniugale facevano per me. Però potevo sognare. Quale donna non avrebbe fantasticato? E così feci, concedendo ai miei pensieri di soffermarsi piacevolmente su un uomo in particolare, uno che incarnava tutti i miei sogni cavallereschi. Un uomo di corte, di una famiglia importante, con un bel volto, un uomo che avevo incontrato in una moltitudine di occasioni a Windsor 44
e a Westminster. Un uomo con un sorriso capace di illuminare una stanza. Un uomo la cui destrezza con la spada e la lancia superava quella di tutti gli altri cavalieri. Quello era l'uomo che avrei desiderato in matrimonio, e il mio cuore palpitava per lui. Finché la dura realtà non affondava i denti nella mia carne. Perché l'oggetto della mia ammirazione era anche un uomo che aveva una brutta reputazione e un temperamento irascibile. Mio padre non avrebbe ammesso un'alleanza con un avventuriero il cui comportamento irresponsabile veniva generalmente condannato. «Brulica di ambizioni come un formaggio stagionato pieno di larve!» aveva sentenziato mio padre, quando l'oggetto della mia ammirazione aveva sfilato in seta color pavone all'incoronazione di mio cugino Riccardo. Così, il mio cavaliere errante fu relegato a momenti privati di fantasticherie, come doveva essere, perché mio padre aveva voluto un'alleanza coi Pembroke e, in quanto parte del grande piano per consolidare la Casa di Lancaster, io l'avevo accettata. Era questo il mio destino. Non dovevo fare altro che esercitare la pazienza per il numero di anni che occorrevano a Jonty per raggiungermi in maturità ed esperienza. Allora mio marito avrebbe potuto perfino, nello spirito dei trovatori, comporre una poesia sulla bellezza dei miei capelli. «Potessi abbracciare chi adoro / Sul tappeto di foglie del bosco» cantava Hubertus, il menestrello malato d'amore che, inginocchiato ai miei piedi, mi seduceva con immagini di un affetto che non era soltanto platonico. «Come la bacerei... Oh, e ancora! / Dulcis amor!» Distolsi il viso, desiderando che il lacrimoso Hubertus prendesse il suo liuto e il suo sentimentalismo e andasse a cantare nelle stalle dove non potevo sentirlo. Rabbrividii. Non al pensiero dell'abbraccio di Jonty in un bosco. I miei inquieti sogni verginali non includevano Jonty. Ci provai. Mi impegnai seriamente mentre i festeggia45
menti per le nozze si protraevano e i nuovi Conti di Pembroke erano sotto gli occhi di tutti. Seguendo il consiglio di Dama Katherine, tentai, da buona moglie, di indurre Jonty ad apprezzare me più di quanto apprezzasse il pappagallo. Andai a caccia con lui. Cavalcai con un falco sul pugno, un passatempo che per la verità non mi dispiacque. Giocai con lui, cercando di non batterlo troppo spesso a La volpe e l'oca. Ma lui era solo un bambino e preferiva dedicare il suo tempo e le energie a Enrico e agli altri ragazzini di buoni natali che erano venuti ad affinare le tecniche cavalleresche sotto l'egida di mio padre. «Cosa ti aspettavi?» osservò Filippa mentre, ferme sugli scalini che portavano ai nuovi appartamenti, lo guardavamo sfuggire alla presa di sua madre per attraversare di corsa il cortile verso le grida e il clangore dell'ennesima pratica nell'arte della guerra. «Non mi aspettavo niente di più e niente di meno. È un bambino.» Feci una piccola smorfia. «Sono sua madre e sua nonna che si aspettano da me che lo frequenti più di quanto non mi paia opportuno. Sento i loro occhi su di me. Non basta che ci sediamo assieme a cena? Che ci inginocchiamo allo stesso banco a Messa? Se dovrò discutere i pro e contro dei rapaci ancora una volta, io...» Lasciai la frase in sospeso quando Jonty si fermò con una scivolata sotto l'arco, girò sui tacchi e, vedendo che eravamo le sue uniche spettatrici, agitò furiosamente le braccia nella nostra direzione. «Milady» strillò con un acuto penetrante. «Milord» risposi a un volume inferiore. Jonty si inchinò. Io feci una riverenza. Lui si inchinò di nuovo e io vidi l'aggraziato, attraente giovane uomo che un giorno sarebbe diventato. Poi: «Mi avete visto, Elisabetta? Avete visto?». La sua eccitazione riecheggiava contro le pareti in pietra. Scesi e mi avviai verso di lui, riluttante a continuare il dialogo a pieni polmoni, cosa che lui sembrava propenso a 46
fare. Lanciai un'occhiataccia a Filippa vedendo che stava ridacchiando. Cosa aveva fatto Jonty, che io non avessi visto? Si era esercitato con l'arco o con la spada? Azzardai una supposizione, basandomi sulla sua faccia striata di sudore e sui suoi indumenti stazzonati. I suoi capelli sembravano un nido di ratti. «Ma certo che vi ho visto.» Ora ero a distanza di conversazione. «Avete cavalcato alla quintana come se foste nato in sella.» «Il Mastro d'Armi dice che sarò un cavaliere, fra circa vent'anni.» Non comprendeva ancora l'ironia dell'affermazione. «Ma sembra un'attesa tanto lunga...» O forse capiva. «Venite a guardarmi, Elisabetta? Se mi esercito tutti i giorni forse non ci vorranno vent'anni.» Io lo feci, e applaudii i suoi valenti sforzi. Enrico, che era arrivato al mio fianco, s'affrettò a sparire in direzione delle stalle quando alla fine Jonty smontò e si mise a correre verso di noi. L'esuberanza di Jonty stancava persino mio fratello. «Io scapperei se fossi in te» mi aveva detto prima di dileguarsi. «La sua lingua è come il battaglio di una campana.» Era come avere un cucciolo, decisi. Era impossibile averlo in antipatia. Era vivace, allegro, capace di chiacchierare all'infinito quando era in vena. I suoi modi erano impeccabili, e aveva un'innata cortesia. Ma non era un marito. Essere la Contessa di Pembroke non mi compensava della mancanza di un cavaliere che mi corteggiasse o scrivesse versi alla mia bellezza. Jonty era coraggioso e audace, ma non aveva alcun interesse per la poesia e quando cantava possedeva la voce di una cornacchia. Anche se contava i passi in modo meno ovvio quando danzavamo, era chiaro che avrebbe preferito trovarsi in sella. 47
CosĂŹ, com'era inevitabile, non appena i suoi familiari fecero ritorno ai loro lontani castelli, io lasciai Jonty alle sue occupazioni e ripresi il corso della mia vita. Moglie, senza essere moglie. Contessa di Pembroke, eppure non diversa da Elisabetta di Lancaster, se non per il fatto che la mia spensierata adolescenza era finita con uno scambio di promesse e una spruzzata d'acquasanta. Ero parte di un grande piano di alleanze e sposalizi dinastici. Ma quando ricevetti l'invito a passare un periodo alla corte di Riccardo, non persi tempo e ordinai che venissero preparati i miei bauli. Mentre aspettava che suo marito diventasse uomo, la Contessa di Pembroke avrebbe scintillato a palazzo.
48