La spia inglese

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DANIEL SILVA

LA SPIA INGLESE traduzione di Giovanni Zucca


ISBN 978-8-86905-058-9 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The English Spy Harper An Imprint of HarperCollins Publishers © 2015 Daniel Silva Traduzione di Giovanni Zucca Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins


Dedica

A Betsy e Andy Lack. E come sempre a mia moglie, Jamie, e ai miei figli, Lily e Nicholas

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Quando si cancellano dei segni a matita, è prudente guardare se la scrittura è ancora leggibile. Se un segreto deve rimanere tale, le cautele non sono mai troppe. Graham Greene, Quinta colonna

Ora basta con le lacrime; è tempo di pensare alla vendetta. Mary Stuart, Regina di Scozia



Pagina

Romanzo

PARTE PRIMA Morte di una principessa



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Gustavia, Saint Barthélemy Niente di tutto questo sarebbe successo se Spider Barnes non si fosse fatto un bicchiere di troppo da Eddy's, due sere prima del giorno in cui doveva salpare l'Aurora. Spider era considerato il miglior chef di bordo dei Caraibi, irascibile eppure insostituibile, un genio pazzo in elegante giacca bianca e grembiule. Aveva seguito il percorso classico: aveva lavorato per un periodo a Parigi, era stato a Londra, non si era fatto mancare New York né San Francisco finché, dopo una infelice tappa a Miami, aveva detto addio ai ristoranti per scegliere il mare, e la libertà. Adesso lavorava sui grandi yacht, il genere di barche richieste da star del cinema, rapper, magnati e nullità piene di sé, quando volevano far colpo. E quando non era ai fornelli se ne stava appollaiato su uno sgabello di alcuni dei migliori bar della terraferma. Eddy's rientrava tra i suoi cinque posti preferiti nel mar dei Caraibi, forse addirittura tra i suoi cinque preferiti a livello mondiale. Quella sera cominciò alle sette con qualche birra, alle nove si fece uno spinello nell'ombra del giardino e alle dieci stava accarezzando l'idea del primo rum alla vaniglia. Tutto andava nel migliore dei modi. Leggermente brillo, Spider Barnes si sentiva in paradiso. Ma poi i suoi occhi si posarono su Veronica e la serata prese una piega pericolosa. Lei era nuova dell'isola, una sbandata, un'europea venuta da chissà dove a servire da bere ai vacanzieri di passaggio, nel bar all'angolo. In ogni caso era davvero graziosa 11


– graziosa come una guarnizione floreale, fece notare Spider al suo anonimo compagno di bevute – e lui se ne innamorò perdutamente nel giro di dieci secondi. Le chiese di sposarlo, il suo metodo di approccio preferito, e quando lei gli rispose di no, grazie, lui le propose una rotolata tra le lenzuola. Probabilmente lei accettò, perché verso mezzanotte furono visti allontanarsi barcollando sotto un acquazzone torrenziale. Quella fu l'ultima volta in cui qualcuno vide Spider: alle 00.03 di una notte di pioggia a Gustavia, bagnato fradicio, ubriaco e ancora una volta innamorato. Il capitano dell'Aurora, yacht di lusso da cinquanta metri immatricolato a Nassau, era un uomo di nome Ogilvy, Reginald Ogilvy, ex ufficiale della Royal Navy – un dittatore benevolo che dormiva con una copia del regolamento sul comodino, accanto alla Bibbia di Re Giacomo del nonno. Non gli era mai andato a genio Spider Barnes, men che meno la mattina dopo, alle nove, quando vide che Spider non era presente alla consueta riunione con l'equipaggio e il personale di cabina. Non era una riunione come le altre, perché l'Aurora si stava preparando ad accogliere un ospite molto importante. Solo Ogilvy ne conosceva l'identità. E solo lui sapeva che la comitiva comprendeva una squadra di agenti di sicurezza, e quanto la signora fosse a dir poco esigente, il che spiegava come mai il comandante fosse così in pensiero per l'assenza del suo prestigioso chef. Ogilvy informò della situazione la capitaneria di porto di Gustavia, e la capitaneria di porto a sua volta informò la polizia locale. Due agenti andarono a bussare alla porta del cottage di Veronica, sul fianco della collina, ma neppure di lei c'era traccia. Si dedicarono quindi a una ricerca nei vari punti dell'isola in cui solitamente approdavano ubriachi e cuori infranti, dopo una nottata di bagordi. Al Le Select uno svedese paonazzo dichiarò di avere offerto una Heineken a Spider quella mattina stessa. Qualcun altro disse di averlo visto aggirarsi in spiaggia a Colombier, e ci fu una segnalazione, mai confermata, di una creatura che ululava sconsolata alla luna sullo sfondo selvaggio di Toiny. I poliziotti seguirono diligenti ogni pista. Poi perlustrarono l'isola da cima a fondo, da nord a sud, senza alcun risultato. Qualche minuto dopo il tramonto, Reginald Ogilvy comunicò all'equi12


paggio dell'Aurora che Spider Barnes era scomparso e che bisognava trovare un sostituto adeguato nel più breve tempo possibile. I suoi uomini setacciarono l'isola, dai ristoranti in riva al mare di Gustavia alle baracche sulla spiaggia del Grand Cul-de-Sac. Alle nove di quella sera, nel più improbabile dei posti, scovarono la persona che cercavano. Era arrivato sull'isola al culmine della stagione degli uragani e aveva preso alloggio nella casetta di legno in fondo alla spiaggia di Lorient. Non possedeva altro che una sacca da viaggio di tela, una pila di vecchi libri, una radio a onde corte e uno scooter scassato, che aveva comprato a Gustavia per una manciata di banconote lerce e un sorriso. I libri erano grossi, ponderosi e colti; la radio, di quelle che non si facevano più. La sera tardi, quando sedeva sotto la veranda a leggere alla luce della lampada a pile, il suono della musica fluttuava sullo stormire di fronde delle palme e sul frangersi pacato della risacca. Jazz e classica, per lo più, a volte un pizzico di reggae dalle stazioni vicine. Allo scoccare di ogni ora metteva giù il libro e ascoltava attentamente le news della BBC. Finito il notiziario passava in rassegna le frequenze per trovare qualcosa di suo gusto, e le palme e il mare riprendevano a danzare al ritmo della musica. All'inizio non era ben chiaro se fosse in vacanza o solo di passaggio, se si stesse nascondendo o se stesse invece pensando di trasferirsi definitivamente sull'isola. I soldi non sembravano essere un problema. Al mattino, quando andava alla boulangerie per il pane e il caffè, lasciava sempre una mancia generosa alle ragazze. E al pomeriggio, al piccolo supermercato vicino al cimitero dove comprava birra tedesca e sigarette americane, non perdeva tempo a raccogliere le monetine del resto che scendeva tintinnando dal distributore automatico. Il suo francese era accettabile anche se venato da un accento che nessuno sapeva identificare. Se la cavava molto meglio con lo spagnolo, con cui si rivolgeva al dominicano al banco del JoJo Burger. Ma c'era sempre quell'accento. Le ragazze della boulangerie avevano deciso che era australiano, mentre i ragazzi del JoJo Burger pensavano che fosse un afrikaner. Ne erano pieni i Caraibi, di afrikaner. Gente per lo più a posto, ma alcuni erano invischiati in affari tutt'altro che legali. 13


Le sue giornate, per quanto poco organizzate, non sembravano comunque prive di scopo. Faceva colazione alla boulangerie, si fermava all'edicola a Saint-Jean a comprare una pila di quotidiani inglesi e americani del giorno prima, si dedicava seriamente ai suoi esercizi fisici in spiaggia, leggeva quei libroni di storia e letteratura con un cappello da pescatore calato sugli occhi. Una volta aveva noleggiato un piccolo motoscafo e passato il pomeriggio a fare snorkeling nei pressi dell'isoletta di Tortu. Eppure la sua sembrava un'inattività forzata, più che volontaria. Faceva pensare a un soldato ferito ansioso di tornare sul campo di battaglia, o a un esule che sognava la patria perduta, dovunque essa si trovasse. Stando a Jean-Marc, un doganiere dell'aeroporto, l'uomo era arrivato con un volo dalla Guadalupa munito di un regolare passaporto venezuelano, sotto il nome decisamente particolare di Colin Hernandez. A quanto pareva era il frutto di una unione di breve durata tra una madre anglo-irlandese e un padre spagnolo. La madre si credeva una poetessa; il padre aveva fatto i soldi in modo losco. Colin detestava il padre, ma parlava della madre come se fosse prossima alla beatificazione e teneva una foto di lei nel portafogli. Il ragazzetto dai capelli di stoppa in braccio alla donna non somigliava granché a Colin, ma era passato del tempo. Il passaporto gli attribuiva trentotto anni, più o meno quelli che dimostrava, e come professione uomo d'affari, che significava tutto e niente. Le ragazze della boulangerie ipotizzavano che fosse uno scrittore in cerca di ispirazione. Come spiegare altrimenti il fatto che non lo si vedesse mai senza un libro? Le commesse del supermarket invece avevano elaborato una teoria più suggestiva, per quanto assolutamente non comprovata, secondo la quale aveva ucciso un uomo in Guadalupa e si stava nascondendo a Saint Barthélemy in attesa che si calmassero la acque. Per il dominicano del JoJo Burger, a sua volta un fuggiasco, l'ipotesi delle ragazze era ridicola: Colin Hernandez, secondo lui, era solo l'ennesimo fannullone inconcludente che viveva a spese del fondo fiduciario creato per lui da un padre che odiava. Sarebbe rimasto finché non si fosse annoiato, o finché le sue finanze non si fossero esaurite. 14


Poi avrebbe preso un volo per qualche altra destinazione, e nel giro di un paio di giorni avrebbero faticato a ricordarsi come si chiamava. Alla fine, a un mese esatto dal suo arrivo, la routine quotidiana di Hernandez conobbe un lieve cambiamento. Dopo il pranzo al JoJo Burger andò dal barbiere di Saint-Jean, e quando ne uscì la sua zazzera nera, scolpita da un buon taglio, si presentava ordinata e lucida di brillantina. Il mattino dopo, quando arrivò alla boulangerie, si era appena sbarbato e indossava una camicia bianca fresca di bucato e un paio di pantaloni kaki. Fece la sua solita colazione – una tazzona di caffè macchiato e una fetta di pane nero casereccio – mentre sfogliava il Times di Londra del giorno prima. Poi, invece di tornare alla sua casetta, salì sul motorino e andò in direzione di Gustavia. E a mezzogiorno in punto si capì finalmente perché l'uomo chiamato Colin Hernandez fosse venuto a Saint Barthélemy. Per prima cosa andò al vecchio Hotel Carl Gustaf, ma il capocuoco, scoprendo che non aveva frequentato scuole di cucina, non gli concesse neppure un colloquio. I proprietari del Maya's lo misero gentilmente alla porta, e lo stesso fecero i direttori di Wall House, Ocean e La Cantina. Fece un tentativo con il La Plage, ma non erano interessati. Analoga mancanza di interesse fu mostrata da parte di Eden Rock, Guanahani, La Crêperie, Le Jardin e anche da Le Grain de Sel, il solitario avamposto affacciato sulle paludi salmastre di Saline. Persino al La Gloriette, il cui titolare era un esiliato politico, non vollero avere niente a che fare con lui. Imperterrito, tentò la fortuna presso i locali meno noti dell'isola: lo snack bar dell'aeroporto, il localino creolo senza troppe pretese, la pizzeria nel parcheggio del supermercato L'Oasis. E fu lì che finalmente la fortuna gli sorrise, perché scoprì che dopo una diatriba infuocata su orari e stipendi il cuoco di Le Piment se n'era andato sbattendo la porta. Alle quattro del pomeriggio, dopo aver dato prova delle sue capacità nell'angusto cucinino del Le Piment, aveva trovato un impiego. Entrò in servizio ai fornelli la sera stessa. Le reazioni dei clienti furono unanimemente entusiaste. Non ci volle molto perché le voci delle sue prodezze culinarie 15


facessero il giro dell'isoletta. Le Piment, fino ad allora regno della gente del posto e degli habitué, fu ben presto invaso da nuovi clienti che non cessavano di tributare lodi al cuoco sbucato dal nulla, con quel suo particolare accento anglo-spagnolo. Quelli del Carl Gustaf tentarono di portarselo via, e lo stesso fecero l'Eden Rock, il Guanahani e il La Plage, ma senza alcun risultato. Perciò Reginald Ogilvy, capitano dell'Aurora, era piuttosto pessimista quando si presentò al Le Piment senza aver prenotato, la sera dopo la sparizione di Spider Barnes. Fu costretto a girarsi i pollici al bar per mezz'ora, prima di avere un tavolo. Ordinò tre stuzzichini e tre piatti, e dopo averli assaggiati tutti chiese di scambiare qualche parola con lo chef. Passarono dieci minuti prima che il suo desiderio fosse esaudito. «Ha appetito?» chiese l'uomo chiamato Colin Hernandez, guardando i piatti in tavola. «Non proprio.» «Allora cosa ci fa qui?» «Volevo vedere se è davvero così bravo come dicono.» Ogilvy gli porse la mano e si presentò: nome e grado, e poi il nome della sua nave. L'uomo chiamato Colin Hernandez fece un'espressione dubbiosa. «L'Aurora... Non è la nave di Spider Barnes?» «Conosce Spider?» «Devo aver bevuto qualcosa con lui, una volta.» «Di sicuro non è stato il solo.» Ogilvy esaminò l'uomo che aveva davanti. Solido, forte, formidabile. Agli occhi acuti dell'inglese sembrava uno che aveva navigato in acque tempestose. Sopracciglia scure e folte, la mascella dura e volitiva. Una faccia costruita per incassare pugni, pensò Ogilvy. «Lei è venezuelano, vero?» «Chi gliel'ha detto?» «Tutti quelli che non l'hanno assunta quando cercava lavoro.» Il capitano spostò lo sguardo dalla faccia alla mano, appoggiata allo schienale della sedia di fronte a lui. Nessuna traccia di tatuaggi, un segno positivo. Ogilvy considerava quel moderno culto dell'inchiostro una sorta di automutilazione. «Beve?» chiese poi. 16


«Meno di Spider.» «Sposato?» «Giusto una volta.» «Ha figli?» «Per carità.» «Mai ammazzato nessuno?» «Non che io ricordi.» Lo disse con un sorriso. Reginald Ogilvy sorrise a sua volta. «Mi stavo chiedendo se ho qualche possibilità di portarla via da qui» fece, con un'occhiata alla modesta sala da pranzo all'aria aperta. «Sono pronto a offrirle uno stipendio generoso. E quando non siamo in mare, avrà un sacco di tempo libero per fare quello che le piace fare quando non è ai fornelli.» «Quanto generoso?» «Duemila alla settimana.» «A Spider quanto dava?» «Tremila» rispose Ogilvy dopo un attimo di esitazione. «Lavorava con me da due stagioni.» «Adesso però non lavora più con lei, giusto?» Ogilvy rifletté per un po'. «Facciamo tremila» rispose. «Ma ho bisogno che cominci subito.» «Quando si salpa?» «Domani mattina.» «In tal caso» replicò l'uomo chiamato Colin Hernandez, «dovrà darmene quattromila.» Reginald Ogilvy, capitano dell'Aurora, lanciò un'occhiata alle pietanze, poi si alzò da tavola con un sospiro. «Domattina alle otto» disse. «Puntuale.» L'irascibile François, il marsigliese proprietario del Le Piment, non prese affatto bene la notizia. Proferì una mitragliata di improperi nel suo dialetto del sud, minacciando qualche forma di ritorsione. E poi ci fu quella bottiglia di un più che discreto Bordeaux, vuota, che finì in mille schegge di smeraldo contro il muro dell'angusta cucina. In seguito, François avrebbe negato di avere deliberatamente mirato al suo chef dimissionario. Ma Isabelle, una cameriera testimone dell'episodio, fornì una diversa versione dei fatti. Giurò che François la bottiglia l'aveva lanciata come fos 17


se un coltello, dritta alla testa di monsieur Hernandez. E monsieur Hernandez, lo ricordava benissimo, l'aveva schivata con un movimento così rapido e pronto da renderlo a malapena visibile. Poi il suo sguardo gelido si era fissato su François per un lungo istante, come se stesse valutando il modo migliore per rompergli l'osso del collo. Alla fine, con calma, si era tolto il grembiule bianco immacolato ed era salito sul suo scooter. L'uomo chiamato Colin Hernandez aveva trascorso il resto della serata sulla veranda della sua casetta, a leggere alla luce della lampada. Allo scoccare di ogni ora metteva giù il libro per ascoltare il notiziario della BBC, accompagnato in sottofondo dallo sciabordio delle onde e dal fruscio delle palme nel vento notturno. Al mattino, dopo una nuotata rigeneratrice, fece una doccia e si vestì, poi ripose i suoi averi nella sacca da viaggio: i vestiti, i libri, la radio. Aggiunse altri due oggetti lasciati apposta per lui sull'isoletta di Tortu: un'automatica Stechkin calibro 9 mm munita di silenziatore e un pacco rettangolare, lungo cinquanta centimetri e largo circa trenta. Sistemò il pacchetto, che pesava esattamente sette chili e duecento grammi, al centro della sacca, in modo da bilanciare il peso durante il trasporto. L'uomo chiamato Colin Hernandez lasciò definitivamente la spiaggia di Lorient alle sette e mezza e andò in scooter fino a Gustavia, la sacca sulle ginocchia. L'Aurora sfavillava all'estremità del porto. Salì a bordo alle otto meno dieci, e l'aiuto chef, una snella ragazza inglese dall'improbabile nome di Amelia List, gli mostrò la sua cabina. L'uomo mise nell'armadietto le sue cose – compresi il pacco da cinque chili e mezzo e la Stechkin – e indossò la casacca e i pantaloni da cuoco che gli avevano fatto trovare sulla cuccetta. Quando uscì trovò Amelia ad aspettarlo in corridoio. La ragazza lo accompagnò nella cambusa, mostrandogli via via la dispensa, la cabina frigorifero e la cantina, piena di bottiglie di vino. Fu lì, in quella fresca penombra, che provò il primo stimolo sessuale nei confronti della ragazza inglese dall'uniforme bianca stirata di fresco. Non fece nulla per scacciarlo. Erano talmente tanti mesi che viveva da solo che faticava anche soltanto a ricordare la sensazione di sfiorare i capelli di una donna, di accarezzare la dolcezza di un seno nudo. Pochi minuti prima delle dieci gli altoparlanti di bordo convo18


carono tutti i membri dell'equipaggio sul ponte di poppa. L'uomo chiamato Colin Hernandez seguì Amelia all'esterno, ed era accanto a lei quando due Range Rover nere si fermarono con uno stridio di freni accanto alla prua dell'Aurora. Dalla prima emersero due ragazze abbronzate che ridacchiavano e un uomo sulla quarantina dal volto rubizzo, che reggeva una sacca da spiaggia rosa con una mano e una bottiglia di champagne aperta con l'altra. Dalla seconda Rover schizzarono fuori due uomini di aspetto atletico, seguiti un attimo dopo da una donna che sembrava soffrire di una forma di malinconia all'ultimo stadio. Indossava un abito color pesca che la faceva apparire seminuda, un cappello a tesa ampia che le ombreggiava le spalle esili e un paio di occhiali da sole neri di generose dimensioni, che nascondevano buona parte del viso di porcellana. Anche così, però, era perfettamente riconoscibile. A tradirla era il profilo, quel profilo così adorato dai fotografi di moda e dai paparazzi che seguivano ogni suo spostamento, sebbene quella mattina fosse riuscita a seminarli. La donna salì a bordo dell'Aurora come se si stesse calando nella bara e sfilò accanto all'equipaggio schierato senza degnarlo di uno sguardo o di un saluto, passando così vicino all'uomo chiamato Colin Hernandez che lui dovette reprimere l'impulso improvviso di toccarla per essere certo che fosse davvero lei e non un ologramma. Cinque minuti dopo l'Aurora scivolava sulle acque del porto, e verso mezzogiorno la magica isola di Saint Barthélemy era solo una macchia verde e bruna all'orizzonte. Sdraiata sul ponte di prua con un bicchiere in mano, in topless, il sole che le dorava la pelle perfetta, c'era la donna più famosa del mondo. E sul ponte sotto di lei, intento a preparare un antipasto di tartare di tonno, cetrioli e ananas, c'era l'uomo che stava per ucciderla.

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Questo volume è stato stampato nell'aprile 2016 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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