La vedova nera

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DANIEL SILVA

LA VEDOVA NERA traduzione di Giuliano Acunzoli


ISBN 978-8-86905-184-5 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: The Black Widow Harper An Imprint of HarperCollins Publishers © 2016 Daniel Silva Traduzione di Giuliano Acunzoli Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins marzo 2017


Dedica

A Stephen L. Carter, per la sua amicizia e la sua fiducia. E, come sempre, a mia moglie Jamie e ai miei figli Lily e Nicholas.



Dedica

Le bandiere nere verranno da est, portate da uomini possenti con lunghi capelli e lunghe barbe. Essi avranno i nomi delle cittĂ da cui provengono. Hadith

Datemi una giovane di etĂ impressionabile e sarĂ mia per una vita intera. Muriel Spark, Gli anni fulgenti di Miss Brodie



Prefazione

Mentre lavoravo a questo romanzo, il gruppo terroristico noto come Stato Islamico o ISIS compĂŹ gli attentati di Parigi e Bruxelles che causarono oltre 160 vittime innocenti. Per un breve periodo pensai di abbandonare il manoscritto, ma poi decisi di terminarlo seguendo la traccia originaria, come se quei tragici eventi non fossero ancora avvenuti nel mondo immaginario in cui vivono e operano i miei personaggi. Le analogie tra i veri attentati e quelli da me descritti, incluso il collegamento con il distretto di Molenbeek a Bruxelles, sono puramente casuali. Non provo il minimo orgoglio per averli previsti: vorrei solo che il sanguinoso terrorismo millennarista dello Stato Islamico fosse confinato esclusivamente tra le pagine di questo libro.

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PARTE PRIMA Rue des Rosiers Pagina

Romanzo



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Le Marais, Parigi Tolosa si sarebbe rivelata la rovina di Hannah Weinberg. Quella sera telefonò ad Alain Lambert, un suo contatto al Ministero dell'Interno, e gli disse che era arrivato il momento di lanciare un segnale chiaro. Alain le promise una reazione immediata. «Useremo la massima fermezza» aggiunse. La fermezza è il paravento perfetto dei burocrati quando non intendono fare proprio nulla. La mattina dopo, il ministro in persona visitò il luogo dell'aggressione e rivolse un appello fumoso al dialogo e alla riconciliazione. Ai genitori delle tre vittime offrì tutto il suo cordoglio. «Ci impegneremo di più» assicurò prima di tornare a Parigi. «Dobbiamo impegnarci di più.» Avevano solo dodici anni, le vittime, e si trattava di una ragazzina e due ragazzini ebrei. All'inizio i media francesi evitarono di menzionarne le origini e sorvolarono sul fatto che i sei aggressori erano tutti arabi; dissero solo che provenivano da una banlieue a est del centro cittadino. La descrizione dei fatti fu così vaga da sfiorare la reticenza. Secondo la radio francese, era scoppiata una lite tra due gruppi di giovani fuori da una pâtisserie; c'erano stati tre feriti, di cui uno grave. La polizia stava indagando, ma finora non aveva effettuato alcun arresto. In realtà si era trattato di un vero e proprio agguato teso da una banda di ventenni a tre ragazzini ignari. Quel giorno gli aggressori si aggiravano nel centro di Tolosa in cerca di ebrei su cui sfogarsi e il fatto che le vittime fossero poco più che bambini non li aveva turbati affatto. I due ragazzi erano stati schiaffeggiati, coperti di sputi e poi presi a calci e a pugni; la ragazzina buttata a terra, immobilizzata e sfregiata con un coltello. Prima di fuggire, i sei avevano gridato ai 13


passanti attoniti: «Khaybar, khaybar, ya yahud!». Nessuno ancora lo sapeva, ma quell'esclamazione in arabo era un richiamo alla conquista musulmana di un'oasi ebraica vicino alla città santa di Medina, avvenuta nel VII secolo. Il messaggio era chiaro: l'armata del Profeta, secondo i giovani fanatici, stava per colpire gli ebrei di Francia. Purtroppo l'aggressione di Tolosa non fu un fatto isolato. I precedenti non mancavano, visto che la Francia stava vivendo il peggior rigurgito di violenza antisemita dai tempi dell'Olocausto. Sinagoghe incendiate, cimiteri profanati, negozi saccheggiati e case vandalizzate o deturpate con scritte oscene e minacciose. Solo nell'ultimo anno si contavano più di quattromila episodi, tutti documentati con attenzione da Hannah e dal suo team del Centro Isaac Weinberg per lo studio dell'antisemitismo in Francia. Chiamato così in onore del nonno paterno di Hannah, il Centro era nato circa dieci anni prima e da subito era stato costretto a rigide misure di sicurezza. Con il tempo era diventato un'istituzione molto rispettata in Francia, e Hannah veniva considerata la cronista più autorevole della nuova ondata di antisemitismo che stava scuotendo il Paese. I suoi sostenitori la definivano "una militante della Memoria", una donna che non si fermava davanti a nulla pur di costringere i politici di turno a proteggere e difendere la vessata minoranza ebraica. I suoi detrattori, invece, erano molto meno indulgenti e di conseguenza lei aveva smesso già da un po' di leggere certa stampa o di perdersi sui siti più faziosi di Internet. Il Centro Weinberg sorgeva in Rue des Rosiers, la strada principale del quartiere più marcatamente ebraico della metropoli. Hannah viveva poco lontano, in un appartamento di Rue Pavée. La targhetta sul citofono diceva MME BERTRAND, una delle poche precauzioni che Hannah aveva preso per tutelarsi. Abitava da sola, circondata dall'eredità di tre generazioni di Weinberg che comprendeva una piccola collezione di quadri e diverse centinaia di occhiali antichi, la sua passione segreta. A cinquantacinque anni non era sposata e non aveva figli, ma ogni tanto, quando gli impegni lo permettevano, si concedeva un amante. Alain Lambert era stato uno di loro, una piacevole distrazione in un periodo particolarmente teso. 14


Alain la chiamò quella sera stessa, dopo la visita del ministro a Tolosa. «Complimenti per la fermezza» commentò lei acida. «Dovreste vergognarvi.» «Stiamo facendo il possibile.» «Ah sì? Be', non è abbastanza.» «Meglio non gettare benzina sul fuoco in questo momento.» «Suona pericolosamente simile a quello che si diceva nell'estate del '42.» «Hannah, ti stai facendo prendere dalla rabbia.» «Non mi lasciate altra scelta che scrivere un comunicato stampa.» «Allora ti consiglio di scegliere con cura le parole. Noi siamo gli unici che si frappongono tra voi e loro, e lo sai.» Hannah chiuse la telefonata, poi aprì il primo cassetto della scrivania e prese la chiave della porta in fondo al corridoio. C'erano giorni in cui solo la vista della sua cameretta riusciva a confortarla: era stata il suo rifugio di bambina ed era rimasta identica ad allora, con il letto a baldacchino dalle tendine in pizzo e le mensole piene di pupazzi e giocattoli. C'era la foto sbiadita di un attore americano che le faceva battere forte il cuore e appeso sopra la cassettiera in stile provenzale, quasi invisibile nella penombra, un quadro di Van Gogh, Marguerite Gachet alla specchiera. Hannah passò lentamente un dito sulle pennellate pensando all'uomo che si era occupato dell'unico restauro del dipinto. Come avrebbe reagito a quella situazione? No, si disse, meglio lasciar perdere. Si sdraiò sul suo vecchio letto e quasi senza accorgersene sprofondò in un sonno tranquillo e senza sogni. Quando si svegliò, aveva un piano. Per gran parte della settimana successiva, Hannah e la sua squadra lavorarono sodo in condizioni di massima allerta operativa. Contattarono i possibili interessati, siglarono accordi con strette di mano e con discrezione tastarono il polso ai benefattori. Due dei principali finanziatori del Centro si tirarono indietro, concordando con il Ministero dell'Interno che era meglio ne jeter pas de 15


l'huile sur le feu, non gettare benzina sul fuoco. Hannah mise quel che mancava di tasca propria, attingendo dal patrimonio personale. Com'era prevedibile, anche il fatto che fosse benestante le veniva puntualmente rinfacciato dai suoi nemici. Infine, arrivò il momento di discutere come battezzare il progetto. Rachel Lévy, responsabile delle relazioni pubbliche del Centro, propendeva per un nome moderato che lasciasse trasparire qualcosa di più, ma Hannah pose il veto. Quando le sinagoghe bruciano, disse, la cautela è un lusso che non ci si può permettere. Voleva dare l'allarme, lanciare un vibrante appello affinché si cominciasse ad agire. Scribacchiò alcune parole su un pezzo di carta e lo mise sulla disordinata scrivania di Rachel. «Questo dovrebbe attirare l'attenzione.» Fino a quel momento nessun personaggio di rilievo aveva aderito all'iniziativa, tranne un polemico blogger americano che faceva il commentatore su una TV via cavo e che avrebbe accettato persino l'invito al proprio funerale. Ma poi Arthur Goldman, l'eminente esperto di antisemitismo di Cambridge, si dichiarò disposto a partire per Parigi – ovviamente a condizione che Hannah gli pagasse il soggiorno nella suite più lussuosa dell'Hôtel de Crillon. Reclutato Goldman, fu un gioco da ragazzi coinvolgere Maxwell Strauss di Yale, che non perdeva occasione per apparire sullo stesso palco del rivale. A quel punto gli altri relatori riempirono in fretta le caselle mancanti. Il direttore dello US Holocaust Memorial Museum garantì la propria presenza, lo stesso fecero due importanti storici della deportazione e un esperto dell'Olocausto francese dello Yad Vashem. Contattarono anche una scrittrice, più per la sua popolarità che per le competenze storiche, e un politico dell'estrema destra francese che raramente dimostrava un po' di comprensione per qualcuno. Infine invitarono diversi leader politici e religiosi di fede musulmana: rifiutarono tutti, e lo stesso fece il ministro degli Interni. Alain Lambert riferì personalmente la notizia ad Hannah. «Pensavi davvero che avrebbe accettato di partecipare a una conferenza dal tema così provocatorio?» «Mio Dio, che il cielo lo scampi dal fare qualcosa di provocatorio!» 16


«E per la sicurezza? Come farete?» «Ci siamo sempre arrangiati da soli.» «Niente israeliani, Hannah. Darebbero una pessima immagine a tutta la faccenda.» Rachel Lévy rilasciò il comunicato stampa il giorno successivo. I media vennero invitati a seguire la conferenza e un certo numero di posti fu riservato al pubblico. Poche ore dopo, in una strada affollata del ventesimo arrondissement, un uomo armato d'accetta aggredì un religioso ebraico ferendolo gravemente. Prima di fuggire, l'assalitore agitò l'arma insanguinata gridando Khaybar, khaybar, ya-yahud! La polizia, riferirono i notiziari, stava indagando. Per ragioni di sicurezza, solo cinque frenetiche giornate separavano il comunicato stampa dall'inizio della conferenza, e Hannah attese fino all'ultimo per stendere il discorso di apertura. La sera prima dell'inaugurazione, sedeva da sola in biblioteca con la penna che scorreva furiosamente sui fogli color paglia del blocco degli appunti. Non esisteva luogo più appropriato della biblioteca di suo nonno per preparare quel discorso. Nato nel distretto di Lublino, in Polonia, era fuggito a Parigi nel 1936, quattro anni prima che la Wehrmacht di Hitler invadesse la Francia. Poi, la mattina del 16 luglio 1942 – il giorno diventato famoso come Jeudi Noir, il giovedì nero – gli agenti della polizia collaborazionista francese si erano presentati alla porta di Isaac Weinberg e della moglie mostrando loro le famigerate schede azzurre che significavano la deportazione per circa tredicimila ebrei stranieri. Ma prima dell'arresto, Isaac era riuscito a nascondere due cose: il suo unico figlio, un bambino di nome Marc, e il dipinto di Van Gogh. Contro ogni aspettativa, Marc Weinberg sopravvisse alla guerra e nel 1952 riuscì a riottenere l'appartamento in rue Pavée dalla famiglia francese che vi si era stabilita subito dopo il Jeudi Noir. Miracolosamente ritrovò il dipinto dove suo padre l'aveva nascosto, cioè sotto le assi del pavimento della biblioteca, coperto dalla scrivania a cui adesso sedeva Hannah. Per i coniugi Weinberg, invece, il destino era segnato. Tre setti17


mane dopo il loro arresto vennero deportati ad Auschwitz e spediti nelle camere a gas. Erano solo due degli oltre 75.000 ebrei di Francia uccisi nei campi di concentramento della Germania nazista, una macchia indelebile nella storia nazionale tedesca. Ma poteva accadere di nuovo? Era arrivato il momento per i 475.000 ebrei francesi – la terza comunità del mondo – di fare i bagagli e andarsene? Era questo l'argomento scelto da Hannah per la conferenza, un tema molto attuale visto che solo nell'ultimo anno già in quindicimila avevano lasciato il Paese di Voltaire per rifugiarsi in Israele e ogni giorno altri facevano le valigie. Lei, però, non sarebbe mai partita. A prescindere dalle accuse dei loro nemici, si considerava prima francese e poi ebrea. L'idea di vivere in un luogo diverso dal quattordicesimo arrondissement la metteva a disagio, tuttavia si sentiva in dovere di avvertire gli altri ebrei francesi della tempesta che stava per scatenarsi. La minaccia non era ancora imminente, certo, ma quando un palazzo va a fuoco si cerca l'uscita più vicina. Questo fanno le persone sensate e questo scrisse nel discorso. Concluse la bozza poco dopo mezzanotte. La rilesse e la trovò troppo dura, e anche un po' troppo rabbiosa. Ammorbidì i passaggi più ruvidi e aggiunse diverse deprimenti statistiche per perorare la sua causa. Infine la digitò sul laptop, la stampò e verso le due riuscì ad andare a letto. La sveglia suonò alle sette; Hannah si preparò una tazza di café au lait e poi si infilò nella doccia, quindi sedette in accappatoio davanti alla specchiera, prendendosi un istante per incipriarsi il naso. In uno sfoggio di brutale onestà, suo padre le aveva detto che Dio si era mostrato molto generoso nel darle carattere e intelligenza e assai parsimonioso per quanto riguardava l'aspetto. Aveva capelli folti e ondulati ancora scuri ma con ciocche grigie alle quali permetteva di imperversare senza opporre resistenza. Il naso era aquilino e prominente, gli occhi grandi e marroni, e anche se non poteva definirlo grazioso, con quel viso nessuno l'aveva mai presa per stupida. Visto il periodo, il suo aspetto rappresentava un vantaggio. Nascose le borse sotto gli occhi con un po' di correttore e sistemò i capelli con più attenzione del solito, poi si vestì rapidamente 18


– gonna di lana scura e maglioncino, calze nere e scarpe con il tacco basso – e scese di sotto. Attraversò il cortile e socchiuse il portone del palazzo, guardando fuori. Erano passate da poco le otto e i parigini, insieme ai turisti più mattinieri, camminavano spediti sul marciapiede sotto il cielo grigio di una giornata d'inizio primavera. Nessuno, a quanto pareva, sorvegliava il numero 24 aspettando che ne uscisse una donna ben oltre la cinquantina dall'aria colta e intelligente. Si mischiò alla folla e passò davanti alle boutique alquanto chic che costellavano la via, puntando verso Rue des Rosiers. Fin lì sembrava una normale strada di Parigi in un quartiere piuttosto benestante, ma poi arrivò alla pizzeria kosher e alle bancarelle di falafel, le cui insegne in ebraico rendevano evidente la reale composizione della zona. Per un attimo, immaginò il quartiere la mattina del Jeudi Noir, con i cittadini ebrei, inermi e disperati, che venivano costretti a salire sui camion, con una singola valigia come bagaglio. Alle finestre vide affacciarsi i parigini, alcuni ammutoliti e rossi di vergogna, altri che trattenevano a stento la gioia nel vedere spazzata via la vituperata minoranza ebraica. Mentre avanzava nella pallida luce del mattino, con i tacchi che battevano ritmicamente sulle pietre del pavé, Hannah si aggrappò a quell'immagine, l'immagine dei parigini che davano l'addio ai deportati. Il Centro Weinberg sorgeva alla fine della strada, in un palazzo di quattro piani che prima della guerra ospitava un giornale in lingua ebraica e una fabbrica di giacche. Decine di persone attendevano in coda davanti all'ingresso, dove due giovani robusti della security in abiti scuri perquisivano tutti coloro che volevano entrare. Hannah saltò la fila e salì le scale, diretta all'area VIP. Seduti ai lati opposti della caffetteria, Arthur Goldman e Max Strauss si lanciavano occhiate circospette mentre bevevano il loro café americain. La celebre scrittrice parlava fitto con uno storico della Memoria, mentre il direttore dello US Holocaust Museum chiacchierava con lo specialista dello Yad Vashem, un suo vecchio amico. Il blogger americano, invece, non sembrava interessato a nulla, solo ai croissant che accatastava sul piatto come se non toccasse cibo da giorni. «Non si preoccupi» gli disse Hannah con un sorriso, avvi19


cinandosi. «È prevista anche una pausa pranzo.» Si intrattenne un po' con ciascuno dei relatori, poi si avviò lungo il corridoio verso il suo ufficio. Seduta alla scrivania, cominciò a rileggere il discorso d'apertura fino a quando Rachel Lévy non fece capolino dalla porta, indicando l'orologio che portava al polso. «C'è gente?» chiese Hannah. «Sì. Più di quanta possiamo gestirne.» «E i media?» «Sono tutti qui, inclusi il New York Times e la BBC.» In quel momento il cellulare di Hannah vibrò. Era un messaggio di Alain Lambert dal Ministero dell'Interno. Lei lo lesse e si accigliò. «Qualcosa di grave?» chiese Rachel. «No. È solo Alain che si comporta da Alain.» Posò il cellulare sulla scrivania, raccolse i documenti e uscì. Rachel aspettò che se ne fosse andata, poi entrò, prese il telefono di Hannah e indovinando subito la combinazione numerica di sblocco, non proprio fantasiosa, recuperò il messaggio di Alain e lesse le quattro parole che lo componevano. Stai attenta, mia cara. Il Centro Weinberg non era abbastanza grande per ospitare un vero auditorium, ma la sala all'ultimo piano era una delle più eleganti del Marais. Le grandi vetrate permettevano allo sguardo di spaziare sui tetti di Parigi fino alla Senna, mentre alle pareti erano appese delle gigantografie in bianco e nero che mostravano la vita del quartiere prima del Jeudi Noir. Tutte le persone nelle fotografie erano morte nell'Olocausto, incluso Isaac Weinberg, ritratto nella sua biblioteca tre mesi prima della tragedia. Passandoci davanti, Hannah sfiorò la foto con un dito come aveva sfiorato il quadro perduto di Van Gogh. Solo lei conosceva il collegamento segreto tra il dipinto, suo nonno e il Centro che portava il suo nome. Anzi, no, si corresse. Non era proprio così. Anche l'uomo che aveva restaurato il Van Gogh lo conosceva. Un lungo tavolo rettangolare spiccava sulla piattaforma rialzata 20


davanti alle vetrate, rivolto verso le duecento sedie sistemate in file ordinate come un plotone di soldati durante una parata. Erano tutte occupate e almeno un altro centinaio di spettatori restava in piedi, appoggiato alle pareti. Hannah sedette al suo posto – si era offerta volontaria per separare fisicamente Goldman da Strauss – e ascoltò Rachel Lévy che chiedeva garbatamente ai presenti di spegnere i cellulari. Adesso toccava a lei. Accese il microfono e buttò un'occhiata alla prima riga del discorso di apertura. Il solo fatto che una simile conferenza abbia luogo, signore e signori, è di per sé una tragedia nazionale. Aprì la bocca per parlare... poi sentì i rumori che venivano dalla strada, secchi e ripetuti, un crepitare di petardi a cui si sovrapponevano delle grida in arabo. «Khaybar, khaybar, ya-yahud!» Si alzò, scese dal palco e guardò di sotto dalle vetrate alte fino al soffitto. «Dio mio» mormorò. Si voltò e gridò al pubblico di allontanarsi dalle finestre, ma il fragore di un'esplosione coprì la sua voce. All'improvviso la sala fu un inferno di schegge di vetro, sedie che volavano, pezzi d'intonaco, vestiti e membra umane. Hannah si rese conto di venire proiettata in avanti, ma non riusciva a capire se stava precipitando o se semplicemente volteggiava a mezz'aria. Per un attimo le parve di vedere Rachel che ruotava su se stessa come una ballerina. Poi, anche lei scomparve tra il fumo e le fiamme. Alla fine si ritrovò immobile, forse sulla schiena o magari sul fianco, forse sulla strada oppure in una tomba di mattoni e cemento. Il silenzio era opprimente, così come il fumo e la polvere. Cercò di pulirsi gli occhi, ma il braccio destro non rispondeva. Solo allora si accorse di non avere più un braccio destro... né la gamba destra. Girò la testa e vide un uomo inerte accanto a lei. «Professor Strauss?» mormorò. Ma l'uomo non rispose. Era morto. E presto, si disse, sarebbe morta anche lei. All'improvviso provò un freddo terribile. Lo attribuì alla perdita di sangue, ma forse era per via della folata di vento che per un 21


attimo spazzò via il fumo nero. Confusamente ricordò di essere stesa a terra accanto all'uomo che doveva essere il professor Strauss, tra le rovine del Centro Weinberg di Rue des Rosiers. E in piedi davanti a loro, intenta a guardarli da dietro un mitra, c'era una figura vestita completamente di nero. Un passamontagna nascondeva il volto, ma gli occhi erano visibili. Occhi così belli da stupirla, due caleidoscopi color nocciola e rame. «Per favore» gemette, ma quegli occhi parvero accendersi di un fervore innaturale. Poi vi fu un lampo di luce e Hannah si ritrovò a percorrere un corridoio, con il braccio e la gamba miracolosamente al loro posto. Aprì la porta della sua cameretta e cercò a tastoni nel buio il quadro di Van Gogh. Il dipinto purtroppo non c'era più e, un attimo dopo, non c'era più neanche lei.

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Ringraziamenti

Un grazie particolare a mia moglie, Jamie Gangel, che mi ha ascoltato con pazienza mentre lavoravo alla trama del romanzo e poi ha revisionato con grande cura l'enorme pila di fogli usciti dalla mia stampante dopo sette mesi d'intenso lavoro. È al mio fianco sin dalla nascita del personaggio di Gabriel Allon, da quella calda mattina inondata di sole a Georgetown in cui ebbi l'idea di trasformare un killer israeliano in un restauratore di capolavori d'arte. Adesso il cupo agente avvolto in un manto di tristezza e di dolore che abbiamo conosciuto ne Il restauratore è diventato il comandante del servizio d'intelligence israeliano, un risultato che non avrei mai immaginato e al quale non sarei arrivato senza il costante sostegno di Jamie e senza l'amore dei miei figli, Lily e Nicholas. Giorno dopo giorno, con piccole e grandi cose, mi ricordano che la vita non è solo lavoro, parole, paragrafi e svolte inaspettate nella trama di un libro. Per scrivere sedici romanzi su un israeliano è stato necessario trascorrere parecchio tempo in Israele: l'ho girato in lungo e in largo e ormai posso dire di conoscerne alcune regioni quanto il mio Paese d'origine. Nel corso di questi viaggi ho conosciuto molti amici: alcuni sono diplomatici e studiosi, altri soldati e spie. Tutti hanno sempre trattato me e la mia famiglia con grande gentilezza e generosità, un debito che ho ripagato trasferendo alcuni aspetti della loro personalità e del loro lavoro sui miei personaggi. La storica fattoria di un mio caro amico nel moshav di Nahalal è diventata il luogo in cui una giovane donna viene addestrata per una missione che nessuno dotato di un minimo di buonsenso accetterebbe. E quando penso alla bellissima casa di Uzi Navot nel sobborgo di Tel Aviv chiamato Petah Tikva, vedo in realtà la casa 475


di un amico che vive poco lontano. Una persona brillante, dotata di un acuto senso dell'umorismo e di grande umanità, con una moglie splendida che non assomiglia affatto alla dispotica Bella. Anche a me è capitato di venire convocato con un breve preavviso nel vecchio hotel di Ma'ale Hahamisha, non da Ari Shamron ma da Meir Dagan, decimo direttore generale del Mossad, purtroppo deceduto mentre completavo la stesura del romanzo. Meir amava dipingere nel tempo libero e, come Ari, adorava la Galilea settentrionale e viveva nella storica città di Rosh Pinah. L'Olocausto entrava sempre in ogni suo pensiero. Nel suo ufficio al quartier generale del Mossad era appesa una drammatica foto di suo nonno, scattata pochi istanti prima che le SS lo fucilassero, e gli agenti venivano invitati a imprimersela nella memoria prima di partire per le missioni all'estero. Quel pomeriggio a Ma'ale Hahamisha, Meir mi diede una lezione sul mondo che non dimenticherò mai e mi rimproverò con garbo per alcune scelte che avevo fatto nei miei romanzi. Nel frattempo, tanti ospiti dell'albergo si presentavano al nostro tavolo in costume da bagno per stringergli la mano ma Meir, da buona spia, non sembrava gradire molto quelle attenzioni. Il suo senso dell'umorismo era piuttosto autoironico. «Quando gireranno il film su Gabriel, chieda per favore alla produzione di farmi un po' più alto di così» mi disse con un sorriso imperscrutabile. Il generale Doron Almog e la sua bellissima moglie Didi ci hanno sempre aperto la loro casa quando eravamo in Israele e, come Chiara e Gilah Shamron, preparavano molto più cibo di quanto fossimo in grado di mangiarne. Non conoscevo ancora Doron quando ho cominciato a pensare all'aspetto fisico di Gabriel, ma senza dubbio è lui il modello da cui ho ricavato il mio personaggio. Non si sa mai chi può capitare alle cene di Doron: una sera, a tarda ora, arrivò un generale pluridecorato dell'esercito israeliano per il bicchiere della staffa. Quel giorno, in un porto europeo, una minaccia per la sicurezza d'Israele era stata eliminata senza fare troppo chiasso. Io chiesi al generale se aveva avuto un ruolo in quella missione; ricordo che lui sorrise e mi rispose: «Ne succedono tante, amico mio». L'ottimo personale del centro medico Hadassah mi ha permesso 476


di visitare l'ospedale dall'eliporto sul tetto alle nuove, attrezzatissime sale operatorie appena inaugurate nei sotterranei. Il dottor Andrew Pate, eminente anestesista, mi ha aiutato a salvare la vita di un terrorista in circostanze tutt'altro che favorevoli. Grazie ai suoi consigli da esperto, adesso mi sento quasi in grado di intervenire su una crisi emopneumotoracica. Un grazie particolare anche a David Bull, il quale, a differenza dell'immaginario Gabriel Allon, è davvero uno dei migliori restauratori al mondo. E grazie di cuore anche ai miei avvocati, Michael Gendler e Linda Rappaport, per il loro sostegno e i loro ottimi consigli. Louis Toscano, mio caro amico ed editor di lunga data, ha apportato innumerevoli miglioramenti alla prima stesura del manoscritto e la mia correttrice di bozze dagli occhi di falco, Kathy Crosby, si è assicurata che il testo finale fosse privo di errori grammaticali e di refusi. Voglio ringraziare i tanti amici che hanno riempito la nostra vita di amore e divertimento nei momenti critici di un anno trascorso a scrivere: siete una benedizione. Grazie soprattutto a Betsy e Andrew Lack, a Caryn e Jeff Zucker, a Nancy Dubuc e Michael Kizilbash, a Pere Williams e David Gardner, a Elsa Walsh e Bob Woodward. Un grazie speciale anche a Deborah Tyman dei New York Yankees per avere rischiato un lancio estemporaneo con la mano destra nonostante la spalla ridotta male. Per la cronaca, non sono riuscito a colpire la palla. Mentre lavoravo al romanzo, ho consultato centinaia di libri, giornali, articoli di riviste e siti web: troppi per poterli citare. Tuttavia sarebbe un errore imperdonabile non menzionare almeno gli eccezionali reportage di Joby Warrick, Paul Cruickshank, Scott Shane e Michael Weiss. Mi inchino al coraggio dei reporter che hanno osato entrare in Siria per raccontare al mondo gli orrori di cui sono stati testimoni. Il giornalismo – il vero giornalismo – continua a essere di fondamentale importanza. Non c'è bisogno di dire che questo romanzo non sarebbe stato pubblicato senza il sostegno del team di HarperCollins, ma voglio sottolinearlo comunque perché a mio parere sono la squadra migliore del mondo editoriale. Un grazie speciale a Jonathan Bur477


nham, Brian Murray, Michael Morrison, Jennifer Barth, Josh Marwell, Tina Andreadis, Leslie Cohen, Leah Wasielewski, Robin Bilardello, Mark Ferguson, Kathy Schneider, Carolyn Bodkin, Doug Jones, Katie Ostrowka, Erin Wicks, Shawn Nicholls, Amy Baker, Mary Sasso, David Koral e Leah Carlson-Stanisic. Infine un grande, affettuoso ringraziamento al personale del CafĂŠ Milano di Georgetown, sempre pronto a servirci in modo impeccabile... quando siamo tanto fortunati da trovare un tavolo. A loro chiedo di perdonarmi il terribile, tragico finale del romanzo. Speriamo solo che una serata del genere non avvenga mai.

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Questo volume è stato stampato nel febbraio 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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