ALEX BRUNKHORST
LA VITA DORATA DI MATILDA DUPLAINE traduzione di Manuela Faimali
ISBN 978-8-86905-064-0 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Gilded Life Of Matilda Duplaine Mira Books © 2015 Alex Brunkhorst Traduzione di Manuela Faimali Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins giugno 2016
Dedica
A John
1
Il tintinnio di un antico campanello della servitù annunciò il mio arrivo. Il negozio traboccava di opere d'arte inestimabili e di mobili d'epoca, al punto che mi fu impossibile aprirmi un varco. Rimasi dov'ero, sperando che qualcuno venisse in mio soccorso. Sessanta secondi dopo, arrivò lei. Non sentii aprire o chiudere una porta, e non avevo idea di come fosse entrata nella stanza. Se era rimasta a osservarmi dietro il paravento asiatico che s'innalzava fino al soffitto, senz'altro mi aveva visto cercare ogni sorta di distrazione – il mio cellulare, il mio taccuino da reporter, un disegno di gesso appeso al muro. Niente di quello che avevo letto rendeva giustizia a Lily Goldman. Era sui cinquantacinque anni, ma ne dimostrava dieci in meno. Le sopracciglia erano modellate in una linea arcuata, i capelli biondi erano stati abilmente domati in un'acconciatura cotonata che la faceva sembrare appena uscita dal parrucchiere. Il viso era minuto e raffinato, con l'eccezione del naso importante che sarebbe stato più adatto a una persona col doppio della statura. Era il suo tratto più vistoso, e una donna meno sicura di sé se ne sarebbe sbarazzata anni prima con la chirurgia plastica. «Posso aiutarla?» chiese Lily. La sua voce sorprendentemente bassa ricordava quella di una fumatrice accanita – an7
che se ero sicuro che non avesse mai preso in mano una sigaretta in vita sua. Era di lignaggio troppo fine. Senza dare nell'occhio, mi sfregai la mano destra sulla gamba del pantalone, sperando di asciugarla. Mi allungai sopra un antico scrittoio di quercia, dove la mia mano rimase tesa a mezz'aria. Lily la osservò con sguardo assente. «Sì, sono Thomas Cleary. Sono un reporter, del Times.» Per la prima volta mi guardò negli occhi, e mi parve di cogliere una reazione vagamente positiva finché non disse: «Odio i reporter. Non parlo mai con la stampa». «Lei deve essere Ms. Goldman.» Prima di affidarmi quella missione, Phil Rubenstein, il mio caporedattore, mi aveva messo in guardia sul disprezzo che Lily Goldman nutriva per i giornalisti. Sembrava decisamente convinto che non avrei cavato un ragno dal buco. Lily distolse lo sguardo, concentrandosi su un candeliere di bronzo a forma di uccello. Lo ruotò di centottanta gradi. «Gli uccelli non migrano verso nord, ma verso sud. Siamo in autunno, dopotutto. Questo posto è un vero caos. Devo parlare con il personale. Che scuola ha frequentato, Mr. Cleary?» «Può chiamarmi Thomas. Sono andato ad Harvard.» «Vada per il tu. Scommetto che ad Harvard ti hanno insegnato che gli uccelli migrano verso sud per l'inverno e verso nord per l'estate, Thomas.» «Ricordo di avere appreso questa informazione alla St. Mary, la scuola elementare che ho frequentato a Milwaukee.» «Un ragazzo cattolico» commentò con un sorriso sardonico. Rimase in attesa di una risposta che non arrivò. Ero nervoso, perché speravo che quell'incarico avrebbe segnato un punto di svolta nella mia carriera. Era il mio primo e unico articolo sul mondo dello spettacolo – una breve retrospettiva su Joel Goldman, da poco defunto. Sebbene fossimo a pochi passi da uno degli incroci più 8
trafficati di Los Angeles, nel negozio di Lily regnava una strana quiete. Ero arrivato direttamente dalla sede del giornale, che era animata dallo squillo dei telefoni, dal ticchettio delle tastiere, da scadenze frenetiche da rispettare. Lì, invece, non vi fu una sola telefonata, un solo cliente. Non si sentì passare nemmeno una macchina. Davanti al negozio si estendeva un classico giardino all'inglese, ma le poltrone a sdraio erano spoglie e non scorsi nemmeno un uccello nelle vaschette o sugli alberi. «Sei stato educato dalle suore a Milwaukee? So che possono avere effetti devastanti sull'autostima» osservò Lily. «Sì» risposi, cambiando nervosamente posizione. Il legno rigenerato sotto di me scricchiolò. «Però è stata Harvard ad annientare la mia autostima. Le suore non erano poi così male, a confronto.» «Da Milwaukee ad Harvard. Un bel viaggetto. Speriamo almeno che fosse un biglietto di sola andata.» «Questo è ancora da vedere» replicai, minimizzando. «E Los Angeles? È un'altra tappa verso la tua destinazione finale?» «Anche questo è ancora da stabilire.» Lily mi puntò gli occhi addosso. Erano profondi e avevano una straordinaria gradazione di verde. «I tuoi genitori sentono la tua mancanza?» «Mia madre è morta l'anno scorso.» Il ricordo era ancora fresco e ricacciai giù il nodo che mi si era formato in gola. «E sì, mio padre sente la mia mancanza. Sono figlio unico. Vorrebbe che tornassi a casa e lavorassi per il giornale locale. Ma con centomila dollari in prestiti universitari non posso permettermi un'inversione di rotta del genere.» «Mi spiace per tua madre... e per i prestiti universitari.» Non colsi alcun giudizio nelle sue parole, ma all'improvviso mi vergognai di avere menzionato la morte di mia madre e i miei debiti scolastici nella stessa frase. «Quanti anni hai?» chiese. «Ventisei.» 9
«È morta giovane, dunque?» «Aveva quarantotto anni. Tumore al pancreas.» «Sarà stato devastante.» Poche persone avevano mostrato un simile interesse nella mia vita da quando mia madre era morta, e quasi mi dimenticai il motivo della mia visita. Avrei voluto sedermi sulla poltrona di pelle anticata alla mia destra, accendermi una sigaretta e raccontare tutto a Lily Goldman – di mia madre, che si era ridotta a uno scheletro mentre io sgobbavo su articoli insignificanti a migliaia di chilometri di distanza, a Los Angeles, una città che odiavo; della mia insegnante di pianoforte delle elementari, sorella Cecilia, che mi bacchettava le nocche con un righello di ferro; dei bambini che mi sceglievano per ultimo per giocare a Red Rover. E avrei voluto parlarle di Manhattan. Di quello che era successo lì. Prima regola di giornalismo del professor Grandy: non permettere mai al tuo soggetto di cambiare argomento. «Basta parlare di me. Mi scuso per averti rubato tutto questo tempo» dissi. Fin da ragazzo rifuggivo sempre dalle attenzioni, in particolare da quelle degli sconosciuti, eppure avevo appena condotto Lily negli angoli bui della mia vita, anziché esplorare la sua. «Mi è dispiaciuto molto sapere della morte di tuo padre. Stiamo preparando un pezzo su di lui, e speravo che potessi concedermi una citazione o un aneddoto, qualcosa che lo faccia conoscere meglio ai lettori... qualcosa per cui ricordarlo.» «Ah, giusto, mio padre.» All'inizio non aggiunse altro. Non la biasimavo, perché suo padre era un tipo tosto. La vita di Joel Goldman era leggendaria ed epica quanto i film che aveva portato sullo schermo. Era cresciuto nella Polonia occupata dai nazisti, sfuggito alle camere a gas, arrivato giovanissimo a Ellis Island con appena cinque centesimi in tasca, e nel giro di dieci anni aveva capovolto il suo desti10
no passando dalla lettura di soggetti nell'ufficio sceneggiature della RKO alla creazione di uno dei più importanti studi cinematografici. Stando al suo ex socio in affari, Joel Goldman era famoso per la sua microgestione, per usare un eufemismo. Quando si presentava sul set – cosa che faceva quasi ogni giorno – provava le battute con le attrici protagoniste, sussurrava all'orecchio dei registi, rimproverava il catering per qualsiasi cosa, dagli strudel secchi al caffè troppo leggero. Nell'era della macchina da scrivere, Joel era noto per strappare interi primi atti e gettarne a terra i brandelli sotto lo sguardo inorridito degli sceneggiatori. Sfrondava le spese fino all'ultimo centesimo ed era un negoziatore spietato. Come mi aveva rivelato l'ex direttore di uno studio cinematografico quel pomeriggio al telefono, in forma anonima: «Se Joel Goldman era seduto di fronte a te e ti cadeva un centesimo a terra, lo raccoglieva e se lo infilava in tasca, considerandolo un colpo di fortuna». Il mio punto forte come giornalista non era chiedere, ma ascoltare. Perciò aspettai. «Un vero diavolo, mio padre» commentò infine Lily. «Il primo uomo a produrre un film che ha incassato cento milioni di dollari. Ti sembra possibile? Ha fondato uno studio cinematografico ad appena ventotto anni. Inimmaginabile. Oggi i ragazzi della tua età spingono i carrelli della posta nelle agenzie di spettacolo, non vincono gli Oscar. Era l'età d'oro del cinema, di Hollywood. Bogart e la Bacall venivano spesso a prendere un tè nella nostra casa a Cap d'Antibes.» Sorrise a quel ricordo, poi scomparve dietro il paravento asiatico. «Sei mai stato ad Antibes?» chiese a gran voce. «Purtroppo no.» Riemerse dal paravento. Fissò un punto immaginario in lontananza, oltre l'antico vetro piombato che distorceva il giardino. «Sedevamo in veranda guardando le barche e sorseggiando un tè con il rum. So che sembra disgustoso, ma è una bevanda veramente gradevole. È stato lì che Bette Davis ha fatto 11
il provino per Che fine ha fatto Baby Jane? Lì il mare è incredibile, così verde... così diverso dal mare di Los Angeles.» «Sembra magnifico» dissi. «Il periodo più eccitante della mia vita. Penso spesso... be', ti sembrerà sciocco, ma penso spesso che se andremo in Paradiso ci verrà concesso di rivivere le nostre vite, facendo scorrere velocemente i momenti brutti, s'intende.» Distolse lo sguardo come se temesse di essersi aperta troppo con un estraneo. «Tornerei volentieri a quei tempi con mio padre nel sud della Francia. Non so che farmene di Hollywood. Mi interessa solo quello che ci ha procurato.» Lanciò un'occhiata al taccuino, ancora chiuso nella mia mano. Non avevo scritto nulla. Forse era colpa del nervosismo, o forse consideravo i ricordi personali di Lily come monete cadute a terra per sbaglio. A differenza del padre, non avrei mai potuto raccoglierle quando era a pochi passi da me. Sarebbe stato un furto. «Stavi cercando qualcosa del genere?» chiese. «Come?» «La citazione.» «Ah, sì, è perfetta.» Scribacchiai qualcosa per mettermi in pari. «Lo immaginavo. L'intimità, è quello che cercano tutti.» Mi puntò di nuovo gli occhi addosso, questa volta concentrandosi sui vestiti. Indossavo una camicia comprata molti anni prima in un discount di Cambridge, che avevo stirato quella mattina insieme ai pantaloni. Il risultato erano grinze più profonde di quelle che avrei ottenuto lasciando i vestiti nell'asciugatrice. «Mi stupisce che il giornale permetta ai suoi reporter di vestirsi come se fossero appena tornati da una nottata di bisboccia.» Lily era vestita interamente di marrone – maglione, gonna al ginocchio e décolleté tacco cinque. Nonostante il colore singolare e la semplicità, il suo abbigliamento stillava ricchezza. Nell'insieme evocava l'immagine di un sarto parigi12
no carponi e con gli spilli tra i denti. L'unico tocco distintivo era una vistosa collana d'avorio. Ne capivo il senso, anche se conoscevo Lily da pochi minuti. I diamanti si potevano ancora comprare sul mercato libero, le zanne d'elefante no. Mi diede una sistematina al colletto e mi appoggiò le mani alla base del collo. Era da tempo che una donna non mi toccava, e mi irrigidii. Da bravo reporter, ero stato addestrato a cogliere i minimi indizi – quei frammenti e quelle impronte che gli altri avrebbero potuto vedere solo attraverso un microscopio. In quel momento una scintilla fugace illuminò gli occhi verdi di Lily. Poi, così come erano sbocciati, in un istante avvizzirono, diventando quasi neri. Credevo che Lily avrebbe messo a nudo la sua anima in quell'intervista, invece aveva fatto in modo che fossi io a rivelare troppo di me. «Sei un giovane molto attraente. Non lasciarti ostacolare dalle tue pessime scelte in fatto di vestiario» disse, quindi gridò verso l'altra stanza: «Ethan, vieni qui». Dopo qualche secondo, dalla portafinestra sul retro entrò un uomo esile che avrà avuto più o meno la mia età. «Sì, Ms. Goldman?» La sua voce era poco più di un sussurro, e se il completo attillato che indossava non era fatto su misura, doveva essere comunque costoso. «Thomas parteciperà alla cena di questa sera. Dai disposizioni a Kurt perché passi a prenderlo, per cortesia.» «Ti ringrazio per l'invito» intervenni. «Ma ho una scadenza, e purtroppo la mia penna non è delle più veloci.» «È un'abilità che credevo insegnassero dalle suore» commentò Lily. «Ci sarà un gruppo favoloso, alcuni degli ospiti lavoravano con mio padre e sono decisamente degni di nota. Ti prometto che non resterai deluso.» Per la verità, in condizioni normali avrei declinato un invito a una cena di gala, ma se c'era la possibilità che rimpolpasse il mio articolo su Joel Goldman, non potevo tirarmi indietro. 13
Comunicai a Ethan il mio indirizzo a Silver Lake, un quartiere nella zona est di Los Angeles noto per essere un rifugio di artisti – tutti più alla moda di me. Lui diede disposizioni perché mi passassero a prendere alle sette in punto. «Bene. È deciso, allora» concluse Lily. «A presto, Thomas. Ethan, assicurati che fili tutto liscio.» A breve Lily sarebbe scomparsa dietro il paravento asiatico, ma un attimo prima di farlo si voltò e posò gli occhi su di me un'ultima volta. «Di nuovo, mi spiace per tua madre, Thomas. Ti sentirai terribilmente solo.» Prima che potessi rispondere era già svanita tra gli oggetti d'antiquariato.
14