Le fantasie di Miss Rebecca

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Bronwyn Scott LE FANTASIE DI MISS REBECCA

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Bluestocking's Whirlwind Liaison Harlequin Mills & Boon Historical Romance © 2022 Nikky Poppen Traduzione di Maria Grazia Bassissi

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises ULC. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

© 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici dicembre 2022

Questo volume è stato stampato nel novembre 2022 da CPI Black Print, Spagna, utilizzando elettricità rinnovabile al 100%

I GRANDI ROMANZI STORICI

ISSN 1122 5410 Periodico settimanale n. 1335 del 23/12/2022 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dello 01/02/1992 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 20132 Milano

HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 20135 Milano

Haberstock Hall, Hertfordshire Autunno 1856

Vrrr, clic clic, vrrr, vssh... Vrrr, clic clic, vrrr, vssh... Suoni confortanti, ordinati, prevedibili.

La minuscola ballerina sul piedistallo rotante si arrestò nel bel mezzo di una piroetta. Rebecca si protese in avanti per caricare la molla, poi si appoggiò di nuovo allo schienale, ammirando la figuretta che si inchinava, danzava, sollevava le braccia sopra la testa ruotando su se stessa. Cosa c'era di più soddisfacente di un meccanismo ben oliato che ronzava impeccabile nella sua routine, affidabile e prevedibile? Tutto ciò che il mondo non era. Tranne lì, nel cottage che ospitava il suo laboratorio. Lì c'erano ordine e calma. Quello spazio modesto, con il suo banco da lavoro e gli utensili, il fuoco acceso nel caminetto e il bollitore sulla stufa, era il suo rifugio; era lì che poteva inventare tutti gli oggetti che le venivano in mente, oggetti che avrebbero aiutato altre persone a condurre una vita migliore e a superare le loro menomazioni.

La piccola ballerina concluse la sua danza e Rebec-

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ca frenò la tentazione di caricare ancora una volta la molla. Lanciò uno sguardo alla fila di soldatini non ancora dipinti, allineati sulla mensola, e respinse anche quella tentazione; non doveva mettersi a colorarli, invece di fare del vero lavoro. In teoria, avrebbe dovuto dedicarsi ai vari pezzi del suo ultimo progetto, una lente bifocale fusa, disseminati sul tavolo. Una ballerina meccanica e dei soldatini non erano altro che giocattoli, mentre una robusta, affidabile lente bifocale avrebbe migliorato la vista di coloro che dovevano rinunciare a leggere o a lavorare guardando da vicino, a causa dell'età, perché non avevano alternative. Persone come lei. Rebecca si tolse gli occhiali e li mise da parte. Si massaggiò la radice del naso, più per abitudine che per alleviare un reale disagio. Le placchette che aveva attaccato alla montatura avevano ridotto la frizione degli occhiali sulla pelle. Era un buon risultato, ma ben lontano da ciò che avrebbe ottenuto, per sé e per gli altri, se fosse riuscita a fondere le lenti. Finora non aveva scoperto la tecnica da usare. Chiuse gli occhi e ripercorse gli ultimi passaggi che aveva eseguito sulle lenti. Cosa aveva trascurato? Le lenti bifocali attualmente in uso spesso si rompevano, come era accaduto più volte a lei stessa. Magari la fusione avrebbe funzionato meglio. Doveva pur esistere un modo migliore per congiungere le due lenti. Forse, se lei...

Un colpo alla porta si inserì nei suoi pensieri. Dannazione! Fece una smorfia, seccata dall'intempestiva interruzione. Alzò lo sguardo e vide entrare sua madre, avvolta in un mantello gocciolante. Non che non le facesse piacere la sua visita, solo non se l'aspettava.

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«Che sorpresa!» Rebecca sorrise. Almeno era un'interruzione gradevole. La madre rispettava l'intimità della sua terza figlia femmina, presentandosi al laboratorio solo quando tornava dalle sue visite al villaggio.

Quello, però, non era giorno di visite.

Il sorriso di Rebecca svanì. Temeva il peggio. «Oh, no. Non mi porti cattive notizie, vero? Le ragazze stanno bene? I bambini?» Negli ultimi due anni, la famiglia Peverett era stata tutta un turbine di matrimoni e nascite. Le tre sorelle di Rebecca, due maggiori di lei e una più giovane, si erano sposate, due avevano già dei bambini e un altro nipotino era in arrivo. Il secondo figlio di Thomasia sarebbe nato per Natale. Un altro pensiero, più preoccupante, le attraversò la mente. «Non si tratta di William, vero?» Suo fratello era medico al seguito dell'esercito inglese in Crimea. La guerra laggiù era finita, ma lui era rimasto ad assistere i soldati che non erano ancora in condizioni di viaggiare.

Sua madre scrollò il mantello e lo depose su una sedia con una risata. «Stanno tutti bene. Impara a pensare piuttosto che io porti buone notizie, tesoro.» Si mise a sedere davanti al banco da lavoro. «È così confortevole qui, capisco perché ti piace tanto.»

La tensione al centro delle scapole si allentò, sentendo che stavano tutti bene, ma subito fu rimpiazzata da una vaga fitta di risentimento. Buone notizie poteva soltanto significare che suo fratello o una delle sue sorelle avevano fatto qualcosa di straordinario. Di nuovo. La giovane generazione dei Peverett era costituita da campioni di virtù sociali, mentre lei non poteva mai esibire i risultati dei suoi sforzi. Peccato.

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Rebecca respinse l'invidia e balzò in piedi, decisa a nutrire pensieri più generosi. «Preparo il tè. Se porti buone notizie, dobbiamo festeggiare.» Armeggiò con due tazze sbeccate che aveva trafugato a Haberstock Hall, la dimora dei Peverett, quando aveva adibito il cottage a laboratorio, per sfuggire alla gioiosa confusione che contraddistingueva la loro vita familiare. «Ho anche una scatola di biscotti.» Se solo fosse riuscita a trovarla. Rovistò nella credenza, spostando fiale e lattine piene di oggetti poco commestibili.

Ah, eccola!

Mise sul tavolo l'occorrente per il tè e i biscotti e versò l'acqua bollente. «Allora, dimmi, cosa festeggia mo oggi? Fammi indovinare. Anne è incinta? William torna a casa?» O forse un altro di loro voleva occupare un seggio in Parlamento, per curare l'incurabile o fare una qualsiasi delle altre cose straordinarie che i Peverett erano stati istruiti a fare. Tutti tranne lei, che preferiva il suo tranquillo laboratorio.

Sua madre, placida, prese la tazza. Il suo sorriso tradì un compiacimento un po' scherzoso, mentre prolungava il segreto ancora per qualche istante. «La risposta a entrambe le domande è no, mia cara. Perché mai le notizie dovrebbero riguardare qualcun altro?»

Perché era sempre così. Suo fratello e le sue sorelle conducevano esistenze esuberanti, piene di azione e di scopo. L'ultima di loro, per dire, abbracciava continuamente nuove cause e combatteva i draghi dell'ingiustizia sociale.

Sua madre si protese in avanti. «Perché non potrebbe riguardare te?»

Oh, oh. «Sembra una minaccia.» La tensione tra le scapole si fece risentire. Sperava che buone notizie

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non volesse dire che suo padre aveva invitato a cena un amico che, per caso, aveva un figlio ancora non sposato. Lei era l'ultima figlia nubile dei Peverett e chissà se si sarebbe mai sposata, argomento sul quale lei e sua madre non si trovavano d'accordo. Rebecca aveva rinunciato al matrimonio. Era un tipo tranquillo, a differenza di Thea. Aveva un aspetto comune, a differenza di Thomasia e di Anne. Non si sarebbe mai accontentata del classico uomo che voleva una moglie silenziosa e poco appariscente, solo per dire che era sposata anche lei.

Sua madre spinse una busta sul tavolo, verso di lei. «È arrivata questa per te. Sembrava importante, così ho deciso di portartela subito. Credo che sia la risposta di quella gente cui avevi scritto.»

Becca aprì la lettera, notando la carta pesante, professionale. Le tremavano le mani per l'eccitazione mentre la spiegava e ne scorreva in fretta il contenuto. In effetti proveniva dalle Manifatture Howell. Li aveva contattati il mese precedente per sottoporre loro la sua ultima invenzione, un oftalmoscopio portatile. Corse alla firma in fondo alla lettera: Winthrop Howell, direttore acquisizioni e produzione. Tornò in cima e si costrinse a leggere lentamente un'altra volta, due, per essere sicura di capire bene. Non voleva entusiasmarsi invano.

Aveva presentato la richiesta per brevettare diverse sue invenzioni, ma ciascuna era stata respinta, e alla fine qualcuno dell'ufficio brevetti le aveva detto che era impossibile che venisse brevettato un oggetto inventato da una donna. Allora Rebecca aveva cambiato strategia e aveva cercato di vendere il suo dispositivo a una fabbrica che poi l'avrebbe brevettato. Un uomo

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avrebbe ottenuto il brevetto, ne era sicura.

Non si era sbagliata. Aveva letto bene. Alzò lo sguardo sulla madre e, incredula, la informò: «Voglio no sottopormi un contratto per l'oftalmoscopio. Manderanno qualcuno qui tra due settimane». Non riusciva a smettere di sorridere. Stava succedendo davvero! Non avrebbero mandato qualcuno apposta da Manchester, se non avessero avuto intenzioni serie. La sua invenzione sarebbe stata prodotta su larga scala!

Sua madre si alzò e andò ad abbracciarla. «È meraviglioso! Hai lavorato tanto per raggiungere questo risultato. Sono terribilmente orgogliosa di te.» Sostenne lo sguardo di Becca e aggiunse con tono grave: «Io sono sempre orgogliosa di te. A volte credo che tu non te ne renda conto. Anche se nessuno ha mai comprato le tue invenzioni, le hai usate per migliorare la vita dei nostri vicini. Solo questo conta: fare il meglio che puoi, dove e quando puoi. Non devi per forza essere come Thea, o Anne o Thomasia. Sii te stessa e basta».

«Lo so, mamma.» Rebecca si sottrasse all'abbraccio materno, sopraffatta e vagamente imbarazzata. Forse i pensieri che aveva avuto prima riguardo al fratello e alle sorelle erano stati troppo trasparenti.

Sua madre sorrise e prese il mantello. «Stasera a cena festeggeremo. Dirò alla cuoca di preparare un dolce speciale.»

Becca si lasciò ricadere sulla sedia dopo che la madre fu uscita. Rilesse più volte la lettera, provando un enorme sollievo. Finalmente, forse, la sua vita stava davvero per cominciare, e lei non aveva sprecato il suo tempo là nel laboratorio. Anche lei poteva dare il suo contributo al mondo. Ammirava e condivideva i valori degli altri giovani Peverett riguardo alla giusti-

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zia sociale, eppure non era come loro. Non era chiassosa, non voleva discutere con nessuno, pur essendo pronta, se necessario, a difendere le proprie posizioni. Era capace di litigare. E non voleva nemmeno dire che non volesse lottare. Solo che desiderava, con le sue invenzioni, fare ciò che gli altri facevano con le parole.

Le sue invenzioni avrebbero parlato per lei, sarebbero state la sua voce, se solo avesse trovato qualcuno disposto ad ascoltare. E forse adesso lo aveva trovato. Le Manifatture Howell l'avrebbero ascoltata. Era la sua occasione. L'invenzione aveva parlato per lei, come aveva sperato che succedesse. L'unico ostacolo era quell'incontro e ciò che i rappresentanti della fabbrica avrebbero trovato lì. O, per meglio dire, chi avrebbero trovato.

Dopo l'esperienza con l'ufficio brevetti, Rebecca non si era azzardata a firmare con il proprio nome. Ed ecco che il rappresentante delle Manifatture Howell si aspettava di incontrare R.L. Peverett. Nella lettera non aveva mai lasciato capire che era una donna, e sapeva benissimo che tutti avrebbero dato per scontato che R.L. Peverett era un uomo. Non era neanche così ingenua da credere che non avrebbe avuto importanza. L'unico dubbio era: quanta?

Quanto tempo avrebbe impiegato suo fratello a esplodere? Jules Howell si appoggiò alla spalliera della sedia dal lato dei visitatori, rispetto all'enorme scrivania di quercia levigata, il che significava che l'autorità e il potere erano nelle mani dell'uomo seduto dall'altra parte. Appoggiò gli stivali impolverati sul piano immacolato della scrivania e rimase a guardare mentre la

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faccia di Winthrop diventava paonazza. Ecco, l'esplosione era imminente.

«Per amor del cielo, Jules, togli i piedi dalla mia scrivania! Qui non siamo in una di quelle taverne malfamate che ti piace frequentare.» Erano arrivati al punto. Il vecchio Winnie ci aveva messo meno di un minuto. Doveva essere più irritabile del solito, quel giorno. Aveva solo cinque anni più di lui, ma il suo aspetto e i suoi modi erano quelli di un uomo molto più vecchio.

«La scrivania di papà.» Jules non resistette alla tentazione di correggere il fratello. Mentre toglieva i piedi dalla scrivania ebbe cura di urtare con il tacco di uno stivale il fermacarte di marmo bianco di Carrara, perfettamente allineato con il calamaio. La sua vendetta verso Winthrop, che giocava a fare il fratello autoritario. Una reazione infantile, naturalmente. Del resto, la famiglia aveva l'abitudine di trattarlo come un bambino. C'era forse da stupirsi se lo irritava essere convocato negli uffici dell'azienda di famiglia, quando proprio la sua famiglia lo riteneva incapace di fare qualcosa di meglio che bighellonare per l'Europa, a ingozzare di cibo e vino potenziali clienti?

«Cos'hai detto?» Winthrop aveva l'aria tempestosa e la soddisfazione di Jules si dissolse mentre il fratello raddrizzava il fermacarte.

Jules, fedele alla propria immagine di dissoluto, inclinò all'indietro la sedia, in equilibrio su due piedi, e prese la fiaschetta dalla tasca della giacca. «Ho detto che questa è la scrivania di papà.» Questo sì che avrebbe fatto infuriare Winnie, più che spostare il suo prezioso fermacarte, anche se era vero solo tecnicamente. Ormai era Winthrop che dirigeva le Manifattu-

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re Howell, mentre il padre manteneva un ruolo più defilato e passava dall'ufficio solo per controllare che le casse dell'azienda continuassero a traboccare d'oro.

Jules svitò il tappo della fiaschetta e bevve un lungo sorso, sorridendo davanti all'espressione inorridita del fratello.

«Per le palle di Lucifero, Jules, non è neanche mezzogiorno!» Ah, finalmente un'imprecazione degna di un vero uomo. Doveva averlo fatto infuriare sul serio, se aveva abbandonato il suo compassato per amor del cielo. Un tempo Winthrop non era stato affatto così misurato.

Jules gli offrì la fiaschetta ammiccando. «Ne vuoi un po'?» Rise quando il fratello scosse il capo. «Come vuoi, sei tu che mi hai convocato a quest'ora antelucana.»

Winthrop si schiarì la gola. «Sì, a questo proposito, dobbiamo parlare di affari. Ti mandiamo nell'Hertfordshire a incontrare un certo R.L. Peverett. Vogliamo acquisire i diritti per produrre un dispositivo medico di sua invenzione.»

«Hertfordshire?» Tanto valeva che lo mandassero sulla luna. Quella contea era altrettanto desolata e selvaggia. Cosa diavolo faceva un inventore nell'Hert fordshire? Non era certo una zona nota per le sue metropoli. «Maledizione, avrei dovuto portarmi una fiaschetta più grande.» Scosse la sua, sgomento. Quattro, al più cinque sorsi. Gli serviva molto più alcol, per digerire quest'ultimo incarico. Almeno, quando lo spedi vano nel Continente, conosceva tutti i migliori bordelli.

Una smorfia di disgusto contrasse il viso di Winthrop. «Modera il linguaggio. Questa è un'azienda e tu

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sei uno dei figli del titolare. Vedi di mostrarti all'altezza.»

Jules riabbassò la sedia con un tonfo e si guardò attorno nell'ufficio con fare esagerato. Si chinò poi in avanti e sussurrò: «Credo che siamo al sicuro. Non c'è nessun altro qui, oltre a noi due». Agitò la fiaschetta. «Parli proprio come lui, sai? Proprio come papà. Mi aspettavo di più da te, Winnie. Una volta eri spassoso, davvero.»

«Non chiamarmi così. Almeno uno di noi due deve fare onore a papà.»

Ci siamo, pensò Jules. Quello era il nucleo di ogni sacrosanta discussione che avevano avuto negli ultimi cinque anni. «E adesso papà ha bisogno di te? Vedo che continui a illuderti. Papà non ha bisogno di nessuno. Un tempo eravamo d'accordo su questo.» A ven t'anni erano stati d'accordo su tante cose, finché Winthrop non aveva deciso di essere rispettabile, di crescere. Jules non glielo perdonava. Suo fratello aveva rinunciato a lui per dedicarsi a una missione impossibile: ottenere l'approvazione del padre. Winthrop gli lanciò un'occhiata dura: non era disposto a cedere. Era un duro. «Adesso è diverso, Jules. Te ne accorgeresti, se restassi sobrio abbastanza a lungo.»

Se fosse riuscito a farlo infuriare, forse Winthrop si sarebbe dimenticato dell'Hertfordshire e lui avrebbe potuto precipitarsi fuori da quell'ufficio in un accesso di rabbia e il viaggio sarebbe finito nel dimenticatoio. «Diverso?» sbuffò Jules, bevendo un altro sorso di liquore. Gliene restavano altri tre, meglio non sprecarli. «Sei grave, fratello.» Il padre non si era mai accorto di loro, e dire che Jules aveva fatto di tutto per farsi nota-

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re, arrivando a farsi espellere da Harrow per poi scendere la china di scuole private sempre meno prestigiose. Niente da fare.

«Sì, è diverso» insistette Winthrop. «Papà ha sessantacinque anni. Conta su di me, sulle mie iniziative, per guidare l'azienda in questa nuova epoca. Chi ha avuto l'idea di comprare lana di alpaca da quel visconte del Somerset? Chi ha avuto l'idea di assicurarsi i contratti per la fornitura di munizioni all'esercito, al primo segnale di disordini in Crimea? Siamo diventati fornitori dell'esercito mentre i nostri concorrenti si sono contesi le briciole che cadevano dalla tavola.» Winthrop, naturalmente. Aveva delle idee brillanti. Le implicazioni erano chiare: Winthrop era il ragazzo d'oro, mentre Jules, che condivideva con il fratello i privilegi di essere figlio dell'uomo più ricco dell'Inghilterra settentrionale, in trent'anni di vita non aveva fatto un accidente di niente. Ci voleva un altro sorso di brandy.

«Ti sta solo usando» disse Jules, giusto per essere meschino.

«Metti via quella fiaschetta. Hai già bevuto abbastanza. Se è troppo presto per bere, è di sicuro troppo presto per essere ubriaco.» Winthrop si protese sulla scrivania per togliergli di mano la fiaschetta, ma Jules fu più veloce e se la infilò in tasca, al sicuro. «Preferisco piacevolmente brillo. E poi ti sbagli. Non è mai troppo presto per entrambe le cose.» Una piacevole sbornia era anzi necessaria, in quei giorni. Rendeva la realtà più sopportabile, rendeva più sopportabile guardarsi ogni mattina allo specchio e chiedersi quando avrebbe cominciato a vivere. E rendeva più sopportabile il timore che la sua vita fosse, in ef-

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fetti, già iniziata. In qualche modo era cominciata senza di lui e poteva essere riassunta nel seguente modo: Jules prendeva ordini da suo fratello e intratteneva i clienti perché così non poteva combinare guai troppo grossi... Meglio dimenticare quello che era accaduto ad Amsterdam. A differenza di Winthrop, non gli importava un fico secco di mettersi al servizio di quell'enorme macchina che erano le Manifatture Howell. Il problema era che non sapeva cosa gli sarebbe piaciuto fare e, a mano a mano che gli anni passavano, cominciava a disperare di scoprirlo.

Winthrop batté un dito sulla cartella che aveva davanti. «Hertfordshire, Jules. Qui c'è tutto quello che ti occorre per il viaggio, compreso il biglietto del treno. Partirai tra due settimane, hai tutto il tempo per studiare i documenti riguardanti l'invenzione e le condizioni che siamo disposti a offrire.»

Jules diede una scorsa ai documenti e sussultò. «Un oftalmoscopio? Per le palle di Lucifero, Win, non riesco neanche a pronunciare il nome!» Non aveva neppure idea di cosa potesse essere, di certo qualcosa di noioso. «Sicuro che non puoi mandarci qualcun altro? Quel nuovo impiegato, Daniel. Sembra determinato e ansioso di fare carriera. Lasciagli dimostrare cos'è capace di fare nell'Hertfordshire.» Una soluzione del tutto ragionevole. Si alzò in piedi e fece per andarsene, dimenticando opportunamente la cartelletta sulla scrivania.

«Prendi i documenti, Jules.» Winthrop lo richiamò indietro. «Non voglio che Daniel mi dimostri cosa sa fare nell'Hertfordshire. Voglio che lo faccia tu. È una grande occasione per te. Non si tratta di portare fuori a mangiare e a bere dei clienti quando l'affare è fatto,

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qui si tratta di portare a termine l'affare.» Ciò che suo fratello voleva dire era che quella era la sua grande occasione per fallire. Non c'era bisogno che lo esprimesse ad alta voce perché Jules afferrasse il concetto. «Dico sul serio, Jules. È così. Non tornare a casa a mani vuote. L'azienda non può finanziarti senza ricevere qualcosa in cambio.»

Quando Winthrop usava quel tono, non c'era modo di replicare, e a Jules non sfuggì che si trattava di un dannato ultimatum.

Win si alzò e gli porse la cartella. «Dannazione, Jules! Perché non puoi fare la tua parte come il resto di noi? E poi cosa fai tutto il giorno?» Gli stava ricordando, in modo non troppo velato, che l'azienda gli pagava la casa di città, la carrozza, i cavalli, la quota associativa dei vari club, sia a Manchester sia a Londra, e poi il sarto, la servitù, i liquori, il gioco d'azzardo, i divertimenti. Meglio fermarsi lì. L'ultima categoria, da sola, includeva un bel po' di voci.

«Vuoi che vada a guadagnarmi il pane, ho capito bene?» Jules sentì montare un'ondata di risentimento. «Devo arrivare di corsa quando vengo convocato ed essere sempre a disposizione dell'azienda.» Come Winthrop. Winthrop aveva venduto l'anima alle Manifatture Howell, e solo nella speranza di guadagnare l'approvazione del padre. Jules aveva scelto altri metodi per attirare l'attenzione del vecchio. Solo che non avevano funzionato.

«Sarebbe un inizio. In realtà, Jules, desidero che tu voglia partire, che abbia uno scopo, una direzione.» I tratti di Winthrop si addolcirono e lui sentì la pressione della sua mano sul braccio. «Hai trent'anni. È tempo di smettere di pensare a ciò che sarai da grande e di

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diventare quella persona. Nessuno di noi ringiovanisce, sai.»

E se non sapessi chi è quella persona? Per poco Jules non pronunciò la domanda ad alta voce.

«Mary e io ci preoccupiamo per te, Jules.»

Ma allora non c'è limite al peggio! Adesso sapeva anche che Winthrop parlava di lui con sua moglie. Nei mesi a venire avrebbe rifiutato i loro inviti a cena, ogni volta che Mary invitava le figlie nubili delle migliori famiglie di Manchester. A confronto, l'Hertfordshire non sembrava poi tanto male.

«Sto bene.» Jules si allontanò dal fratello a passo di danza, brandendo la cartella e cercando di racimolare qualche parola sarcastica di congedo. «Dopotutto, parto per l'Hertfordshire. Cosa potrei mai desiderare di più?»

Forse, una volta conclusa quella noiosa incombenza nell'Hertfordshire, sarebbe andato direttamente in Italia a dipingere, a fingere per un po' di essere un artista. L'Italia si confaceva al suo spirito irrequieto. Winthrop non sapeva quello che diceva. Lui stava vivendo la migliore esistenza possibile, si disse Jules, mentre Win era intrappolato dietro una scrivania. Ma, nonostante cercasse di convincersene, gli restò il dubbio che limitarsi a danzare attraverso la vita avesse cominciato a perdere un po' del suo fascino.

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