Lo straordinario viaggio di nujeen

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Nujeen Mustafa con Christina Lamb

Lo straordinario viaggio di

Nujeen

traduzione di Cristina Ingiardi


ISBN 978-8-86905-158-6 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Nujeen William Collins An Imprint of HarperCollins Publishers © 2016 Christina Lamb e Nujeen Mustafa Traduzione di Cristina Ingiardi Tutte le fotografie, ove non altrimenti indicato, appartengono alla collezione privata della famiglia Mustafa. Mappa di Martin Brown Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers Limited, UK © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins novembre 2016



NETHERLANDS

BELARUS Dortmund

Essen

Colonia Wesseling

Berlino

Varsavia

P O L O N I A

G E R M A N I A

LUX.

Paris

U

R E P U B B L I C A C E C A

Norimberga Neumarkt

FRANCIA

Monaco Rosenheim

ponte sul Saalach

M

Salisburgo

S L O V A C C H I A

Vienna

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A U S T R I A

SVIZZERA

Budapest

Graz

U N G H E R I A nel riquadro a destra in alto

SLOVENIA

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Bucares

BOSNIA ERZEGOVINA

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S E R B I A

L

Sofia

MONTENEGRO

BULG ARIA

Miratovac

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Roma

Horgoš

Apatin

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Röszke

Lojane

A

MACEDONIA

Gevgelija Evzoni Salonicco

ALBANIA

Sardegna

nel riq

G R E C I A Atene

Sicilia

Tappe del viaggio di Nujeen 0 0

100

200

300 miles 500 km

M A R M E D I T E R R A N E O

Creta


BELARUS Spielfeld

A U S T R I A

Maribor Kiev

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S L O V E N I A

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Lubiana

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CROAZIA

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Gaziantep Smirne

Jarablus Manbij Aleppo

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CIPRO LIBANO

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A I R A Q

Damasco JORDAN



Sommario

Prologo: La traversata

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Parte prima: Perdere una nazione 1. Stranieri nella nostra terra 2. Le mura di Aleppo 3. La ragazza in tv 4. Giorni di rabbia 5. Una città divisa 6. Una guerra tutta nostra 7. Via col vento 8. Perdonami, Siria

23 34 44 53 66 80 92 102

Parte seconda: Il viaggio 9. Amplia il tuo mondo 10. In cerca di un trafficante di esseri umani 11. La rotta della morte 12. Libera come una persona normale 13. Varcare la “Porta Bella” 14. Ungheria, apri la porta! 15. Il giorno più difficile 16. Tutti insieme appassionatamente 17. Grazie, mamma Merkel

113 123 135 145 156 167 178 192 202


Parte terza: Una vita normale 18. Stranieri in terra straniera 19. Una studentessa, finalmente 20. Un nuovo anno inquietante 21. Un posto chiamato casa

215 223 229 233

Appendice: Il mio viaggio

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Ringraziamenti


Dedica

Vedo la Terra! Ăˆ bellissima. Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio, 1961

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Prologo

LA TRAVERSATA Behram, Turchia, 2 settembre 2015 Dalla spiaggia riuscivamo a vedere l'isola di Lesbo, e l'Europa. Il mare si estendeva a perdita d'occhio su entrambi i lati e non era mosso; era tranquillo, screziato solo da minuscole crestine bianche che danzavano sulle onde. L'isola sembrava abbastanza vicina, e lievitava dai flutti come una pagnotta rocciosa. I gommoni grigi però erano piccoli e bassi nell'acqua, appesantiti da tutte le vite che gli scafisti riuscivano a stiparci. Era la prima volta che vedevo il mare. La prima volta per tutto: viaggiare in aereo, in treno, separarmi dai miei genitori, stare in albergo, e adesso andare in barca. Ad Aleppo quasi non ero mai uscita dal nostro appartamento al quinto piano. Chi era andato prima di noi ci aveva raccontato che in una bella giornata d'estate come quella, con un motore funzionante a pieno regime, un battello pneumatico ci metteva poco più di un'ora ad attraversare lo stretto. È uno dei punti in cui Turchia e Grecia sono più vicine, distanti appena otto miglia, meno di tredici chilometri. Il problema era che i motori spesso erano vecchi e scadenti, e forzati al massimo per trasportare carichi di cinquanta o sessanta persone, così che di ore fi13


nivano per volercene tre o quattro. Alcune volte nelle notti piovose, con le onde che arrivano anche a tre metri d'altezza e le sballottano come giocattoli, le imbarcazioni non ce l'hanno fatta e quelli che erano iniziati come viaggi di speranza si sono conclusi in morte per annegamento. La spiaggia non era sabbiosa come l'avevo immaginata, bensì di ciottoli, impossibile per la mia carrozzella. Sapevamo di essere nel posto giusto per via degli scatoloni squarciati su cui era impressa la scritta: CANOTTI PNEUMATICI - MADE IN CHINA (CAPIENZA MASSIMA 15 PERSONE) e per la scia di effetti personali abbandonati lungo la riva, come relitti dei profughi. C'erano spazzolini da denti, pannolini e carte di biscotti, zaini, calzature e indumenti. Jeans e T-shirt di cui qualcuno aveva dovuto sbarazzarsi perché sui barconi non c'era abbastanza spazio e gli scafisti ti fanno viaggiare il più leggero possibile. Un paio di scarpe grigie, con il tacco alto e vaporosi pompon neri, oggetto piuttosto strampalato da portare in un viaggio del genere. Un minuscolo sandaletto rosa da bimba con un fiore di plastica. Delle scarpe da ginnastica da ragazzo, con le lucine nelle suole. E un grosso e floscio orsacchiotto di pezza grigio senza un occhio, che per qualcuno doveva essere stata molto dura abbandonare. Era triste, tutta quella roba dava a un posto bellissimo l'aspetto di una discarica. Quella notte eravamo rimasti nell'uliveto dopo che il minibus degli scafisti ci aveva lasciato sulla strada sopra la scogliera; da là poi eravamo dovuti scendere per poco più di un chilometro e mezzo lungo il pendio che porta alla spiaggia. Può sembrare poco, ma è un bel pezzo da percorrere in sedia a rotelle su un sentiero sconnesso con solo tua sorella a spingerti e il sole turco, rovente, che picchia forte e ti fa colare il sudore negli occhi. In realtà c'era una strada molto più semplice che scendeva a zigzag, giù per la collina, ma non per noi: avremmo rischiato di essere scoperti e fermati dalla gen14


darmeria turca, che avrebbe potuto rinchiuderci in un centro di permanenza temporanea se non addirittura rispedirci indietro. Ero con due delle mie quattro sorelle: Nahda, che però aveva una neonata e tre bimbe da gestire, e quella che mi è più vicina, Nasrine, che si prende sempre cura di me ed è bellissima come il suo nome, che significa rosa bianca che cresce sulle colline del Kurdistan. Con noi c'erano anche dei cugini i cui genitori, i miei zii, a giugno erano stati uccisi dai cecchini del Daesh mentre andavano a un funerale a Kobane, un giorno cui non mi va di pensare. Il sentiero era accidentato, e purtroppo Nasrine mi trascinava all'indietro per cui riuscivo a scorgere il mare solo di tanto in tanto. Quando capitava, vedevo che era di un azzurro sfavillante. L'azzurro è il mio colore preferito, perché è quello del pianeta di Dio. Eravamo tutti accaldati e nervosi; la carrozzella era troppo grande per me, mi tenevo aggrappata ai lati con tanta forza che le braccia mi facevano male e il fondoschiena era ammaccato per tutti gli scossoni, ma non ho detto niente. Prima di partire avevo raccolto informazioni sui posti che avremmo attraversato, per poi condividerle con le mie sorelle di volta in volta. Mi esaltava il fatto che in cima alla collina soprastante ci fosse l'antica città di Assos, dove sorgeva un tempio alla dea Atena ormai diroccato e, cosa ancora più incredibile, dove un tempo era vissuto Aristotele. Su quella scogliera aveva avviato una scuola di filosofia, in modo da poter studiare le maree e confutare la teoria del suo ex maestro Platone secondo cui altro non erano che turbolenze causate dai fiumi. Quando i persiani avevano attaccato, facendo fuggire i filosofi, Aristotele era finito in Macedonia a fare il precettore del giovane Alessandro Magno. Anche l'apostolo Paolo era passato di lì nel corso del suo viaggio dalla Siria a Lesbo. 15


Come al solito le mie sorelle non erano parse molto interessate, perciò mi ero messa a osservare i gabbiani che si divertivano a librarsi sulle correnti ascensionali descrivendo cerchi rumorosi nel cielo azzurrissimo, senza fermarsi mai. Quanto mi sarebbe piaciuto poter volare! Neppure gli astronauti hanno tanta libertà! Nasrine aveva continuato a controllare il suo smartphone Samsung (nostro fratello Mustafa l'aveva acquistato apposta per il viaggio) per accertarsi che stessimo seguendo le coordinate di Google Maps che ci aveva dato lo scafista. Ma, giunti finalmente alla riva, era ormai evidente che non eravamo nel posto giusto. Ogni scafista ha il suo punto – avevamo delle strisce di tessuto colorate al polso per identificarci – e noi eravamo in quello sbagliato. Il nostro punto era sulla spiaggia, non molto lontano, ma a dividerci c'era una scogliera a strapiombo sull'acqua. L'unico modo per aggirarla era a nuoto, cosa che ovviamente non potevamo fare, così ci eravamo ritrovati a salire e poi scendere per l'ennesima altura sconnessa per raggiungere il posto giusto. Quei rilievi sono infernali: se scivoli e precipiti in mare, non c'è via di scampo. Sono talmente sassosi che spingermi o trainarmi si era rivelato impossibile: avevano dovuto trasportarmi a braccia. I miei cugini avevano continuato a canzonarmi: «Sei la regina, regina Nujeen!». Arrivati alla spiaggia giusta, il sole già stava tramontando: un'esplosione di rosa e viola come se una delle mie nipotine si fosse messa a scarabocchiare il cielo con i pastelli. Dalle colline mi giungeva il dolce tintinnio dei campanacci delle capre. Ci aspettava ancora una notte in un uliveto. Una volta sceso il sole, la temperatura si era abbassata di colpo, e il terreno era duro e ghiaioso nonostante Nasrine avesse sparpagliato sopra per me tutti gli abiti che avevamo. Non avendo mai 16


passato tanto tempo all'aperto in vita mia, ero sfinita e così ero sprofondata nel sonno. Non potevamo accendere un falò perché rischiavamo di richiamare l'attenzione della polizia. Qualcuno aveva strappato pezzi degli imballaggi dei gommoni per tentare di coprirsi; mi aveva ricordato uno di quei film in cui i protagonisti vanno a campeggiare e succede qualcosa di terribile. Per colazione, zollette di zucchero e Nutella: potrebbe sembrare favoloso, ma non lo è se non si ha altro a disposizione. Gli scafisti avevano promesso che saremmo partiti la mattina presto, e alle prime luci dell'alba eravamo tutti pronti sulla spiaggia con i nostri giubbotti di salvataggio. Avevamo avvolto i cellulari in palloncini di plastica per proteggerli durante la traversata, trucchetto che ci avevano insegnato a Smirne. C'erano parecchi altri gruppi in attesa. Noi avevamo pagato 1.500 dollari a testa invece dei soliti 1.000 per avere un gommone solo per la nostra famiglia, ma saltò fuori che ci sarebbero state anche altre persone. In tutto saremmo stati 38, 27 adulti e 11 bambini. Ormai non potevamo farci niente: tornare indietro era impossibile, e avevamo sentito dire che gli scafisti usano coltelli e pungoli per il bestiame su chi cambia idea. Il cielo era sereno, e da vicino potevo vedere che il mare non era di un colore unico, l'azzurro uniforme delle fotografie e delle mie fantasie, ma turchese chiaro vicino alla costa e poi più scuro, tendente al grigio e poi all'indaco, vicino all'isola. Conoscevo il mare solo dai documentari del National Geographic e adesso era come se fossi parte di una di quelle trasmissioni. Ero gasatissima, e non capivo perché fossero tutti tanto nervosi. Per me era un'avventura straordinaria! I ragazzini correvano e raccoglievano ciottoli di vari colori. 17


Un bambinetto afghano me ne diede uno a forma di colomba, piatto e grigio e solcato da una venatura bianca tipo marmo. Era fresco al tatto, e levigato dall'acqua. Spesso non mi risulta facile trattenere gli oggetti con queste mie dita di pastafrolla, ma quello non avevo intenzione di mollarlo. C'era gente che arrivava dalla Siria come noi, altri dall'Iraq, dal Marocco, dall'Afghanistan e parlavano una lingua che non capivamo. Alcuni raccontavano le proprie storie, ma la maggior parte non diceva molto: non ce n'era bisogno. Non dovevano essere belle storie, per indurti a lasciare tutti quelli che conoscevi e tutto ciò che avevi costruito nel tuo Paese per affrontare un viaggio pericoloso e incerto. Al sorgere del sole guardammo partire le prime imbarcazioni. Due si avviarono più o meno diritte, ma altre due sbandavano in ogni direzione. I gommoni non avevano pilota: gli scafisti lasciavano che uno dei profughi pagasse metà prezzo, o nulla del tutto, se in cambio quello si metteva al timone, anche se non aveva la benché minima esperienza. «È come portare il motorino» dicevano. Mio zio Ahmed avrebbe guidato il nostro. Supponevo che non l'avesse mai fatto, visto che non eravamo mai stati al mare e per lavoro gestiva un negozio di cellulari, ma lui ci garantì di esserne capace. Avevamo sentito dire che alcuni andavano a tutto gas per entrare il più in fretta possibile in acque greche, e così facendo fondevano il motore. Altre volte non c'era abbastanza carburante. In quei casi, la guardia costiera turca ti prendeva e ti riportava indietro. Nel Café Sinbad di Smirne avevamo conosciuto una famiglia di Aleppo che aveva tentato la traversata ben sei volte. Noi non avevamo abbastanza denaro per continuare a provarci. Intorno alle nove del mattino zio Ahmed diede una voce allo scafista, ma lui disse che dovevamo attendere che la guardia costiera si allontanasse. «Abbiamo scelto lo scafista sba18


gliato» commentò Nasrine. Da parte mia, temevo che ci avessero truffato un'altra volta. Non ci eravamo aspettati di rimanere lì tanto a lungo e così eravamo affamati e assetati, il che era ironico con tutta quell'acqua davanti a noi... I miei cugini si allontanarono un po' per cercare di procurare dell'acqua per me e le bambine, ma nelle vicinanze non c'era niente. La giornata si faceva sempre più calda, ma lo scafista ci disse che non potevamo partire finché la guardia costiera non avesse fatto il cambio turno. I marocchini si erano mezzi spogliati e avevano preso a cantare. Sopraggiunto il pomeriggio, le onde cominciarono a farsi più alte, producendo un rumore di risacca sul bagnasciuga. Nessuno voleva viaggiare di notte, perché ci avevano raccontato di una sorta di pirati su acquascooter che con il favore del buio abbordavano le imbarcazioni per rubare i motori e i preziosi dei profughi. Finalmente, intorno alle cinque del pomeriggio, ci comunicarono che la guardia costiera stava facendo il cambio turno, quindi potevamo avere la nostra occasione. Guardai un'altra volta il mare. Stava scendendo la foschia e i versi dei gabbiani non sembravano più tanto gioiosi. Un'ombra nera gravava sull'isola rocciosa. Alcuni chiamano quella traversata rihlat al moot, la rotta della morte. O ci avrebbe condotti in Europa o ci avrebbe inghiottiti. Per la prima volta, ebbi paura. A casa, sul canale del National Geographic, guardavo spesso una trasmissione intitolata Cosa ti dice il cervello?, in cui tra le altre cose avevano spiegato come l'ansia e il panico possano essere tenuti sotto controllo dalla mente, così mi misi a fare esercizi di respirazione profonda mentre mi ripetevo come un mantra: «Nujeen, sei forte».

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Pagina

Romanzo

PARTE PRIMA

Perdere una Patria

Siria, 1999 - 2014

Prima di essere numeri, queste persone sono anche e soprattutto esseri umani. Papa Francesco, Lesbo, 16 aprile 2016



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STRANIERI NELLA NOSTRA TERRA Io non faccio collezione di francobolli, monete o figurine di calciatori. Io colleziono fatti. In particolare, mi piacciono quelli relativi alla fisica e allo spazio, soprattutto la teoria delle stringhe. E poi fatti di storia e dinastie come i Romanov. E quelli che riguardano figure controverse come Howard Hughes e J. Edgar Hoover. Mio fratello Mustafa dice che mi basta sentire le cose una volta per ricordarle alla perfezione. Sono in grado di elencare tutti i Romanov, dal primo zar Michele I fino a Nicola II, assassinato dai bolscevichi con il resto della famiglia, inclusa la figlia minore Anastasia. Posso dirvi la data esatta in cui la regina Elisabetta II è diventata sovrana d'Inghilterra – sia il giorno in cui è morto suo padre che quello dell'incoronazione – e le date di entrambi i suoi compleanni, quello vero e quello ufficiale. Mi piacerebbe incontrarla per chiederle: «Cosa si prova ad avere la regina Vittoria come trisavola?» e: «Non è strano che tutti cantino un inno che parla di salvarla?». Posso dirvi pure che l'unico animale che non emette suono è la giraffa, perché non ha corde vocali. Questo era sempre stato uno dei miei fatti preferiti, finché la gente non aveva cominciato a chiamare la Giraffa Bashar al-Assad, il nostro dittatore, per via del collo lungo. 23


Bene, ora eccovi un fatto che credo non piaccia a nessuno: lo sapevate che al mondo una persona su centotredici è rifugiata o profuga? La maggior parte è in fuga da guerre come quelle che hanno devastato e ancora devastano la nostra Siria, o l'Iraq, l'Afghanistan e la Libia. Altri scappano da squadroni di terroristi in Pakistan e Somalia o dai regimi dei mullah in Iran e dall'Egitto. Altri ancora fuggono dalla dittatura in Gambia, da coscrizioni forzate in Eritrea e da fame e povertà in regioni africane che non ho nemmeno mai visto sulle carte geografiche. In televisione continuo a sentire ripetere dai reporter che l'attuale flusso di profughi dal Medio Oriente, dal Nord Africa e dall'Asia centrale verso l'Europa è la più grossa crisi di migranti dalla Seconda guerra mondiale. Nel 2015, oltre 1.200.000 persone sono venute in Europa. Io sono una di loro. La parola inglese refugee è quella che più detesto. In tedesco si dice Flüchtling, che suona altrettanto dura. Ciò che significa davvero è: cittadino di seconda classe con un numero scarabocchiato sulla mano o stampigliato su una fascetta identificativa da polso e che tutti desiderano che in un modo o nell'altro possa scomparire. Il 2015 è l'anno in cui sono diventata un fatto, una statistica, un numero. Per quanto i fatti mi piacciano, noi non siamo numeri, siamo esseri umani, ognuno con la propria storia. Questa è la mia. Mi chiamo Nujeen, che significa vita nuova, e immagino si possa dire che sono stata una sorpresa. Mamma e papà avevano già quattro maschi e quattro femmine, e quando sono nata io, a Capodanno del 1999, ventisei anni dopo il mio primo fratello maggiore Shiar, alcuni di loro erano già sposati e la 24


più piccola, Nasrine, aveva nove anni. Insomma, la famiglia era al completo. Mamma per poco non è morta nel darmi alla luce, e dopo era così debole che in pratica è stata mia sorella maggiore Jamila a prendersi cura di me, e infatti ho sempre pensato a lei come alla mia seconda madre. All'inizio erano tutti contenti di avere ancora in casa una bambina, ma io non smettevo di piangere. L'unica cosa che riusciva a placarmi era ascoltare a ripetizione la colonna sonora di Zorba il greco sul mangianastri, cosa che tirava tutti matti quasi quanto il mio pianto. Vivevamo in una polverosa e desolata cittadina del deserto chiamata Manbij, nel nord della Siria, non lontano dal confine con la Turchia nonché a una trentina di chilometri a ovest dell'Eufrate e della diga di Tishrin, che ci forniva l'elettricità. Il mio primo ricordo è il fruscio del lungo abito elegante di mia madre, un caffettano chiaro che le arrivava alle caviglie. Mamma aveva anche i capelli molto lunghi. Chiamavamo lei Ayee e mio padre Yaba, e non sono parole arabe. Il primo fatto da sapere su di me è che sono curda. Eravamo una delle cinque famiglie curde in una via di una città per lo più araba. Loro erano beduini, ma ci guardavano dall'alto in basso e chiamavano la nostra zona la collina degli stranieri. Dovevamo parlare la loro lingua a scuola e nei negozi, e potevamo usare la nostra, il kurmanji, solo a casa. Era molto difficile per i miei genitori, che non conoscevano l'arabo e, oltretutto, erano analfabeti. Era dura anche per mio fratello maggiore, Shiar, che a scuola veniva preso in giro per lo stesso motivo. Manbij è un posto tradizionalista riguardo all'Islam, perciò i miei fratelli dovevano frequentare la moschea e se Ayee aveva bisogno di acquistare qualcosa al bazar, uno di loro, o mio padre, dovevano accompagnarla. Anche noi siamo mu25


sulmani, ma non così rigidi. Alle superiori, le mie sorelle e le mie cugine erano le uniche ragazze che non si coprivano la testa. Ci eravamo trasferiti lì dalle nostre terre in un villaggio curdo a sud di Kobane per via di una faida con un villaggio limitrofo. Noi curdi siamo una popolazione tribale e la mia famiglia appartiene alla grossa tribù Kori Beg, discendente dal famoso leader della resistenza curda Kori Beg, il che a quanto pare significa che quasi tutti i curdi sono cugini. Anche l'insediamento vicino era Kori Beg, ma di un clan diverso. Il problema tra i due era insorto molto prima della mia nascita, ma la storia era di dominio pubblico. Entrambi i villaggi avevano delle pecore, e un giorno alcuni ragazzi, pastori dell'altro borgo, avevano portato le greggi a pascolare sulla nostra erba, ed era scoppiata una lite con i nostri pecorai. Qualche tempo dopo alcuni nostri parenti stavano andando all'altro villaggio per un funerale e lungo la strada due uomini gli hanno sparato. Il nostro clan ha risposto al fuoco, e uno dei due è rimasto ucciso. Loro hanno giurato vendetta, e così siamo dovuti scappare tutti. Ecco come eravamo finiti a Manbij. La gente non sa molto dei curdi, a volte ho l'impressione che il resto del mondo non abbia proprio la minima idea di chi siamo. Siamo una popolazione fiera con una lingua, dei cibi e una cultura nostri, e una lunga storia che risale a 2.000 anni addietro. Le prime testimonianze parlano di noi chiamandoci curti. Siamo qualcosa come 30 milioni, ma non abbiamo mai avuto un nostro Stato. Di fatto, siamo la più grande tribù apolide del mondo. Avevamo sperato di ottenere una nostra patria quando gli inglesi e i francesi si erano divisi lo sconfitto Impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale, proprio come gli arabi pensavano che avrebbero avuto la loro indipendenza co26


me promesso dopo la Rivolta araba. Nel 1920 le potenze alleate avevano addirittura firmato un accordo, il trattato di Sèvres, che riconosceva un Kurdistan autonomo. Ma il nuovo leader turco Kemal Atatürk, che aveva condotto il suo Paese all'indipendenza, non lo accettò, e poi trovarono il petrolio a Mosul, che in teoria sarebbe dovuta appartenere al Kurdistan, e così il trattato non venne mai ratificato. Di fatto un diplomatico britannico e uno francese, che si chiamavano rispettivamente Mark Sykes e Georges Picot, avevano già firmato un patto segreto per spartirsi il Levante tra loro e avevano tracciato la loro turpe linea sulla sabbia, da Kirkuk in Iraq ad Haifa in Israele, per creare i moderni stati di Iraq, Siria e Libano. Così gli arabi sono rimasti sotto il dominio coloniale, suddivisi tra confini che tenevano ben poco conto delle realtà tribali ed etniche, e noi curdi siamo stati separati tra quattro Stati, a nessuno dei quali piacciamo. Oggi all'incirca la metà dei curdi vive in Turchia, alcuni in Iraq, alcuni in Iran e pressappoco 2 milioni in Siria, dove rappresentiamo la minoranza più numerosa, grossomodo il 15%. Anche se i nostri dialetti sono diversi, riesco sempre a distinguere un curdo. Prima dalla lingua, poi dall'aspetto. Alcuni di noi abitano in città come Istanbul, Teheran e Aleppo, ma la maggior parte vive sulle montagne e sugli altopiani dove si incontrano Turchia, Siria, Iraq e Iran. Siamo circondati dai nemici, perciò dobbiamo essere forti. Il nostro grande Shakespeare curdo, Ahmad-i-Khani, ha scritto nel XVII secolo che siamo quattro torri d'angolo che circondano i turchi e i persiani... Entrambe le fazioni hanno fatto dei curdi il bersaglio per gli strali del loro destino. Yaba è convinto che un giorno il Kurdistan esisterà, forse addirittura nel corso della mia vita. «Colui che ha una storia ha un futuro» dice sempre. Ironia della sorte, molti famosi eroi arabi sono curdi, ma 27


nessuno lo ammette. Come il Saladino, che ha respinto i crociati e ha cacciato gli europei da Gerusalemme, o come Yusuf al-'Azma, che ha condotto le forze siriane contro l'occupazione francese nel 1920, morendo in battaglia. Nel salone del palazzo di Assad c'è un grande dipinto del Saladino con le sue armate arabe, e abbiamo moltissime piazze e statue intitolate a Yusuf al-'Azma, ma tutti tacciono la loro vera origine. Invece il regime siriano ci chiama ajanib, cioè forestieri, anche se viviamo lì dai tempi delle crociate. Molti curdi in Siria non hanno la carta d'identità, e senza quel documento arancione non si possono acquistare proprietà, svolgere lavori statali, votare alle elezioni o mandare i figli alle scuole superiori. Credo però che la Turchia sia il posto peggiore dove essere curdi. Atatürk diede il via a un processo di turchificazione e oggi il Paese non ci riconosce nemmeno come popolo. Ci chiama turchi di montagna! La nostra famiglia vive su entrambi i lati del confine, e una mia zia che abitava in Turchia ci raccontò che non le avevano neanche lasciato dare al figlio un nome curdo. Aveva dovuto chiamarlo Orhan, che è turco! Una volta Nasrine era andata a trovarla e ci aveva riferito che non parlavano curdo e le spegnevano la radio quando ascoltava musica curda. Ed ecco un altro fatto, stavolta riguardo all'alfabeto curdo. La Turchia non lo riconosce, e fino a poco tempo fa chi usava le lettere Q, W e X, che nella lingua turca non esistono, poteva essere arrestato. Immaginate di finire in carcere per una consonante! Da noi c'è un detto: Gli unici amici dei curdi sono le montagne. Amiamo le montagne e pensiamo di essere i discendenti dei bambini che si nascosero lì per sfuggire a Zuhak, un gigante malvagio con due serpenti che gli crescevano dalle spalle e che ogni giorno dovevano essere nutriti con un cervello di bambino ciascuno. Allora Kawa, uno scaltro mani28


scalco stufo marcio di perdere i figli, cominciò a dargli cervelli di pecora e a nascondere i bambini, finché un intero esercito di ragazzini riuscì a massacrare il gigante. I curdi raccontano sempre molte storie. Quella più famosa è una sorta di Romeo e Giulietta curda, Mem e Zin. Parla di un'isola governata da un principe che ha due bellissime sorelle che tiene rinchiuse, una delle quali si chiama Zin. Un giorno Zin e la sorella scappano per andare a una festa travestite da uomini e incontrano due bei moschettieri, uno dei quali è Mem. Le due coppie si innamorano e poi succedono un sacco di cose, ma il succo è che Mem viene incarcerato e ucciso e Zin è vinta dal dolore presso la tomba dell'innamorato. Persino da morti, spunta un roveto a tenerli separati. Il racconto comincia così: «Se solo ci fosse armonia tra noi, se ubbidissimo a uno solo, quest'uno ridurrebbe al vassallaggio turchi, arabi e persiani, tutti quanti», e molti curdi dicono che simboleggia la nostra lotta per una patria. Mem rappresenta il popolo e Zin lo Stato curdo, separati da circostanze avverse. Alcuni sostengono che è una storia vera, e che esiste addirittura un sepolcro da visitare. Sono cresciuta con questa storia ma non l'ho mai amata davvero: è troppo lunga e non la trovo per niente realistica. Preferivo La bella e la bestia, perché è basata su qualcosa di positivo: amare una persona per ciò che è, per la sua essenza, e non per come appare. Prima di diventare vecchio e stanco e di smettere di lavorare per passare tutto il tempo a fumare e lamentarsi dei figli che non vanno alla moschea, mio padre Yaba era un commerciante di ovini. Aveva circa sessanta acri di terra dove teneva il bestiame, come suo padre prima di lui e così fino al mio settimo avo, che aveva cammelli e pecore. I miei fratelli mi hanno raccontato che agli inizi Yaba ac29


quistava solo una capra alla settimana, il sabato al mercato, per poi rivenderla quella successiva in un altro mercato per un piccolo profitto, finché con il passare del tempo arrivò a possedere un gregge di circa duecento capi. Immagino che vendere ovini non renda molto, perché la nostra casa aveva solo due stanze, un cortile e una piccola cucina... strettina per tutta quella gente. A un certo punto, però, Shiar cominciò a mandare del denaro, così potemmo costruire un altro locale in cui Ayee teneva la macchina per cucire (con cui io giocavo, quando nessuno mi guardava). Dormivo lì con lei, a meno che avessimo ospiti. Shiar vive in Germania ed è un regista. Ha girato un film intitolato Walking, che parla di un anziano matto che cammina tantissimo in un villaggio curdo nel sud della Turchia e diventa amico di un ragazzo povero che vende gomma da masticare, finché la loro regione viene occupata dai militari. In Turchia ha fatto scalpore perché il vecchio curdo schiaffeggia un ufficiale dell'esercito turco e alcuni hanno detto che non era una cosa da far vedere, come se non conoscessero la differenza tra un film e la vita vera. Io non avevo mai conosciuto Shiar, perché aveva lasciato la Siria nel 1990, quando aveva diciassette anni, ovvero molto prima che io nascessi, per evitare di venire reclutato e spedito a combattere nella guerra del Golfo in Iraq (all'epoca eravamo alleati degli americani). La Siria non voleva che noi curdi frequentassimo le sue università o svolgessimo lavori statali, però ci teneva che combattessimo nel suo esercito e ci iscrivessimo al suo partito Ba'ath. Tutti gli studenti dovevano farlo, ma Shiar si era rifiutato ed era riuscito a fuggire mentre lui e un altro ragazzo venivano scortati alla sezione per essere iscritti. Aveva sempre sognato di essere un regista, il che è strano perché nella casa di Manbij in cui è cresciuto non c'era la tv, solo una radio, perché i religiosi non approvavano. A 30


dodici anni aveva fatto una trasmissione radiofonica con alcuni compagni di classe, e approfittava di qualunque occasione per sgattaiolare a guardare la televisione in casa d'altri. In qualche modo la mia famiglia era riuscita a mettere insieme i 4.500 dollari necessari per procurargli un falso passaporto iracheno a Damasco, e così Shiar era andato a studiare a Mosca. Non si era fermato a lungo in Russia: da lì era passato in Olanda, dove gli avevano concesso asilo. Non ci sono molti registi curdi per cui nella nostra comunità è famoso, però non potevamo nominarlo perché il regime non gradisce i suoi film. Il nostro albero genealogico riporta solo i nomi degli uomini, ma quello di Shiar non c'era, in caso qualcuno lo avesse collegato a noi e creato problemi. Io non capivo perché non dovessero esserci le donne. Ayee è analfabeta: ha sposato mio padre che aveva solo tredici anni, il che significa che alla mia età era già accasata da quattro e aveva un figlio, però ci ha sempre cucito lei tutti i vestiti, e se le dai una cartina ti sa dire dove si trova qualunque nazione del mondo, inoltre ricorda sempre la strada per tornare da qualunque posto. È brava anche a fare le addizioni, così da capire sempre se i mercanti nel bazar cercano di fregarla. Tutta la mia famiglia è brava in matematica, tranne me. Mio nonno materno era stato arrestato dai francesi per possesso d'arma da fuoco e aveva condiviso la cella con un uomo istruito che gli aveva insegnato a leggere, ed è per via di quell'episodio che Ayee ci teneva che noi fossimo istruite. La mia sorella più grande, Jamila, ha lasciato la scuola a dodici anni perché nella nostra tribù non è previsto che le ragazze studino. Devono stare a casa, pensare a tenerla pulita, a cucinare. Dopo di lei, però, le mie altre sorelle (Nahda, Nahra e Nasrine) sono andate tutte a scuola, proprio come i maschi (Shiar, Farhad, Mustafa e Bland). Noi curdi abbiamo un detto: ma31


schio o femmina, il leone resta un leone. Yaba diceva che potevano rimanerci finché continuavano a passare gli esami. La mattina io sedevo sul gradino davanti alla porta a guardarli andare via, facendo dondolare le cartelle e chiacchierando con gli amici. Quello scalino era il mio posto preferito, me ne stavo seduta là a giocare con il fango e osservare l'andirivieni della gente. C'era una persona che aspettavo più di tutti: l'uomo del salep. Se non l'avete mai provato, sappiate che il salep è una specie di frullato a base di latte addensato con radici di orchidea di montagna in polvere e aromatizzato con acqua di rose o cannella, distribuito in coppette da un venditore che gira con un piccolo carretto d'alluminio, ed è delizioso. Sapevo sempre quando l'uomo del salep stava arrivando perché il rumoroso stereo portatile del suo carretto trasmetteva versetti del Corano anziché musica come quelli degli altri venditori ambulanti. Mi sentivo sola quando erano usciti tutti e rimaneva solo Yaba, a fumare e sgranare il suo rosario musulmano quando non andava dalle pecore. A destra della casa, tra noi e i nostri vicini (che erano mio zio e i miei cugini), c'era un alto cipresso, scuro e terrificante. E il nostro tetto era sempre pieno di cani e gatti randagi che mi davano i brividi, perché se mi inseguivano io non potevo scappare. Non mi piacciono i cani, i gatti né qualunque animale in grado di muoversi in fretta. C'era una famiglia di gatti bianchi maculati d'arancione che sputavano e soffiavano a chiunque gli si avvicinasse. Li odiavo. L'unico momento in cui il tetto mi piaceva erano le calde notti estive, quando ci dormivamo, con l'oscurità tanto solida intorno a noi da poterla tagliare con il coltello e l'aria rinfrescata dal vento del deserto. Mi piaceva stare sdraiata sulla schiena a fissare la distesa infinita di stelle che si inoltrava nell'ignoto come un sentiero scintillante. Fu lì che sognai per 32


la prima volta di diventare un'astronauta, perchÊ nello spazio puoi fluttuare, per cui le gambe non contano. Tra parentesi, il buffo è che nello spazio non puoi piangere. Per via dell'assenza di gravità , le lacrime non cadono ma si ammassano nei bulbi oculari e poi formano una pallina liquida che si sparge sul viso come una strana escrescenza, quindi... occhio!

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Appendice

Il mio viaggio Distanza totale: chilometri 5.782, costo in euro 5.045 (per me e mia sorella)

Siria 2012 27 luglio

2014 Agosto

lo stesso giorno

da Aleppo a Manbij: 90 chilometri in minibus

da Manbij a Jarablus: 39 chilometri sull’auto di zio Ahmed - 50 dollari (46 euro) per varcare il confine

da Jarablus a Gaziantep (Turchia): 170 chilometri sull’auto di zio Ahmed

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Un anno dopo 2015

Turchia 22 Agosto

da Gaziantep a Smirne: 1.112 chilometri in aereo - 300 euro a testa; dall’aeroporto di Smirne a piazza Basmane: 29 chilometri in taxi - 15 euro

1 settembre

da Smirne a Behram: 251 chilometri in autobus e taxi - 100 euro

2 settembre

da Behram a Skala Sikaminias, Lesbo (Grecia): dodici chilometri in gommone - 1.500 dollari (1.330 euro) a testa + 50 dollari (46 â‚Ź) a testa per il giubbotto salvagente

Grecia 3 settembre

da Skala Sikaminias a Mitilene: 48 chilometri in auto (passaggio da una volontaria)

9 settembre

da Mitilene ad Atene: taxi dal campo Pikpa al traghetto - 10 euro; 420 chilometri in traghetto - 60 euro a testa

14 settembre

da Atene a Salonicco: 502 chilometri in treno - 42 euro a testa da Salonicco a Evzoni: 89 chilometri in taxi - 100 euro 248


15 settembre

da Evzoni a Gevgelija (Macedonia): 1,9 chilometri a piedi

Macedonia 15 settembre

da Gevgelija a Lojane: 201 chilometri in taxi - 200 euro da Lojane a Miratovac (Serbia): 3 chilometri a piedi (o in sedia a rotelle)

Serbia 15 settembre

da Miratovac a Belgrado: 391 chilometri in autobus - 35 euro a testa da Belgrado a Horgoš: 199 chilometri in taxi - 210 euro

16 settembre

da Horgoš a Röszke: 12 chilometri in autobus - 5 euro a testa da Röszke ad Apatin: 125 chilometri in taxi - circa 125 euro

Croazia 16 settembre

da Apatin attraverso i campi in Croazia, poi nella camionetta della polizia fino a un paesino (nome ignoto) dal paesino ignoto a Zagabria: 336 chilometri in autobus

17 settembre

da Zagabria a Žumberački put: 34 chilometri in taxi - 100 euro da Žumberački put a Slovenska vas in Slovenia: un chilometro a piedi 249


Slovenia 17 settembre

da Slovenska vas a Perišče: 4 chilometri sulla camionetta della polizia

18 settembre

da Perišče a Postojna: 160 chilometri in autobus

20 settembre

da Postojna a Logatec: 27 chilometri in autobus da Logatec a Maribor: 160 chilometri in treno da Maribor a Spielfeld (Austria): 22 chilometri in taxi - 5 euro

Austria 20 settembre, notte

da Spielfeld a Graz: 50 chilometri in autobus

21 settembre

da Graz a Salisburgo: 278 chilometri in treno - 60 euro a testa da Salisburgo al ponte sul Saalach: 8 chilometri sull’autobus della polizia dal ponte sul Saalach a Rosenheim (Germania): 80 chilometri in autobus

Germania 22 settembre

da Rosenheim a Neumarkt: 220 chilometri in autobus da Neumarkt a Norimberga: 43 chilometri in taxi - 50 euro 250


22 settembre

da Norimberga a Colonia: 430 chilometri in treno - 115 euro a testa

23 settembre

da Colonia a Dortmund (centro profughi): 95 chilometri in treno - 45 euro a testa

24 settembre

da Dortmund a Essen: 48 chilometri in autobus

15 ottobre

da Essen a Wesseling: 84 chilometri in minibus

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Pagina Bianca


Ringraziamenti

Ringrazio la mia famiglia per avere accolto a braccia aperte quest'inattesa figlia in più e per avere sempre usato tanta pazienza nei suoi confronti. Ringrazio Dio, per avermi dato tutto ciò che ho, e prego che la storia della mia vita possa avere un lieto fine. L'anno scorso è stato un viaggio che non avrei mai immaginato mentre me ne stavo là, al quinto piano dell'appartamento di Aleppo. Sono passata dalla ragazza che non lasciava mai il salotto, e vedeva il mondo esterno solo attraverso la televisione, a quella che ha attraversato un intero continente ricorrendo a ogni mezzo di trasporto (mi mancano solo la funivia, il sottomarino e, ovviamente, la navicella spaziale!). Sono solo una tra i milioni di profughi, molti dei quali sono bambini o ragazzi come me; il mio viaggio è stato più facile di quello di tanti altri, ma non sarebbe stato possibile senza tutte le persone gentili che mi hanno aiutata lungo la via, dalle signore e dai pescatori della spiaggia di Lesbo ai volontari e operatori umanitari che ci hanno dato da bere e hanno dato una mano a spingermi. Non ringrazierò mai abbastanza la signora Merkel e la Germania per avermi dato una casa e la mia prima esperienza scolastica. Sono stata enormemente aiutata dagli insegnanti, Ingo Schrot, Andrea Becker e Stefanie Vree, e dalla mia fisioterapista, Bogena Schmilewski. Grazie alla mia tutrice tedesca Ulrike Mehren per la guida. 253


Ringrazio anche tutti gli sceneggiatori de Il tempo della nostra vita, che non immaginavano neppure lontanamente di stare impartendo un'istruzione a una ragazzina di Aleppo. In particolare, un ringraziamento a Melissa Salmons, che scriveva le parti di EJ e Sami, e alla gentilezza dei magnifici fan della soap, soprattutto Giselle Rheindorf Hale. Sono incredibilmente riconoscente a Christina per aver dato voce alla mia storia, e ai suoi familiari Paulo e Lourenço per il sostegno (anche se gli piace Cristiano Ronaldo... Ah, tra parentesi, congratulazioni al Portogallo per avere vinto gli Europei, peccato solo non sia toccato alla Spagna!). Grazie a Fergal Keane per averci fatto incontrare! Christina vuole ringraziare tutte le persone che l'hanno aiutata in questo suo reportage sulla crisi dei migranti, in particolare Babar Baloch dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Alison Criado-Perez di Medici Senza Frontiere e la famiglia Catrambone. Entrambe vogliamo ringraziare anche Hassan Kadoni. E grazie anche al nostro agente, David Godwin, e alla fantasmagorica editor Arabella Pike e al suo team, Joe Zigmond ed Essie Cousins, al fantastico redattore Peter James, al designer Julian Humphries, e a Matt Clacher e Laura Brooke per avere tifato cosÏ tanto per questo libro. Soprattutto, grazie a mia sorella Nasrine per avermi spinta per tutta Europa e per avere sopportato tutte le mie ciance, anche se non sempre mi ascoltava...

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Questo volume è stato stampato nell'ottobre 2016 presso la Rotolito Lombarda - Milano


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