Nata blu

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JOSHILYN JACKSON

NATA BLU

OGNI FINE È UN INIZIO traduzione di Claudia Lionetti


ISBN 978-8-86905-104-3 Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Opposite Of Everyone William Morrow An Imprint of HarperCollins Publishers © 2016 Joshilyn Jackson Traduzione di Claudia Lionetti Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins luglio 2016


Dedica

Con somma gratitudine per i buoni maestri. Io ne ho avuti, fra cui: Ruth Ann Replogle Dott.ssa Yolanda Reed Chuck Preston Astrid Santana Dottor David Gushee

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Sappi che è una certezza: quando i semidei se ne vanno, gli dei arrivano. RALPH WALDO EMERSON, Give All to Love

E come quando gli elefanti sfilano tenendosi per la coda, ma se poi uno solo si allontana il circo non trova più il parco, io definisco crudele e forse anche la radice di ogni crudeltà sapere che cosa accade ma non riconoscere il fatto. E allora invoco una voce, qualcosa di indefinito, una regione remota e importante in tutti coloro che parlano: potremmo anche ingannarci a vicenda, ma meglio sarebbe rifletterci bene... affinché la sfilata della nostra vita condivisa non si perda nell'oscurità. WILLIAM STAFFORD, A Ritual to Read to Each Other

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Sono nata blu. E se mia madre non avesse dato una bella spinta, sarei nata morta e ancora più blu: avevo il cordone stretto intorno al collo. Mi ha guardato le labbra blu, le dita di mani e piedi anch'esse blu, e ha deciso che sarei stata Kali Jai, in onore della dea Kali. Mi ha partorito mentre scontava sei mesi in riformatorio per taccheggio e possesso di droga. Lo Stato le ha concesso trentasei ore in ospedale con me, poi è dovuta tornare alla sua pena e la mia custodia temporanea è stata affidata a quei due bacchettoni infelici dei nonni. Kai disse loro come mi chiamavo ma fu la nonna a compilare i documenti, sostenendo poi di aver capito male. «Sul certificato ho scritto quella roba lì che hai detto tu, solo in inglese» commentò sdegnosa, con quelle sue labbra grinzose. Mia madre lo venne a sapere soltanto quando fu riaffidata ai genitori, ma per tutti ormai ero Paula Jane. «Il tuo vero nome è un tributo alla dea madre portatrice di speranza e rinnovamento» mi ripeteva spesso quand'ero piccola. Per ninnananna mi cantava inni di preghiera – Jai Kali, Jai Kalika! – con quel suo roco contralto e Kali era la protagonista di tante storie della buonanotte. Mi addormentavo sognando una dea fatta di sole e di fiori, verde e dorata e bellissima. Un giorno, avevo cinque anni, mi imbattei in un suo ritrat9


to in un album degli schizzi di Kai. C'era una serie di divinità disegnate con le matite colorate, in alcune riconobbi i personaggi delle storie, come il panciuto Ganesha per esempio, inconfondibile con quella sua testa di elefante, intento a danzare con la proboscide appena ricurva e protesa verso il cielo. E Hanuman, il dio scimmia, che saltava sopra l'oceano tenendo in mano una montagna. Poi riconobbi il mio nome. Kali. Speranza e rinnovamento aveva un aspetto feroce e la pelle blu scuro che spiccava sullo sfondo della città in fiamme dietro di lei. Nelle tante mani brandiva scimitarre e torce e con i piedi scalzi calpestava il petto di un uomo morto. Indossava una gonna fatta di mani e teste umane, e la lunghissima lingua rosso vivo le penzolava tra i seni nudi. Mia madre mi trovò seduta sul pavimento che la fissavo e con le dita seguivo le lettere che formavano il mio nome proprio lì, sotto di lei. «Ma io sono cattiva?» chiesi. «No piccolina mia, certo che no.» Sedette anche lei e mi prese in braccio con tutto l'album. «Non devi pensare a Kali in termini così occidentali» spiegò dall'alto dell'autorità di cui la investivano la mala comprata al mercato delle pulci e il loto che si era fatta tatuare appena sopra il fondoschiena. Nell'emisfero orientale – l'altra metà del mondo in cui non era mai stata e che non aveva nemmeno studiato poi così a fondo – Kali significava cambiamento. «Kali distrugge solo per rinnovare, per ristabilire la giustizia. Kali è fonte di nuovi inizi» proseguì chinando la testa per sussurrarmi all'orecchio. I suoi lunghi capelli scuri ci ricaddero tutt'intorno come una tenda, sapevano di fumo di un falò e buccia d'arancia. «Sai, in India il tuo nome significa: Ave o Madre.» Sì, ma io sono nata in Alabama. Mia madre aveva invocato Kali in quelle scure e insanguinate terre del Sud ma in cambio non aveva avuto né speranza né rinnovamento. Aveva avuto me. 10


Però, quanto sarebbe stata orgogliosa della sua bambina, se fosse stata qui adesso? E se avesse potuto parlarmi, anche. Avevo parcheggiato davanti alla casa di Zach Birdwine, nella zona est di Atlanta, e lo aspettavo. Anzi, diciamo pure che lo pedinavo, decisa a innescare un nuovo inizio, di che genere poco importava. Ammetto che la parte di fuoco e fiamme era più nelle mie corde, ecco. Senz'altro non ero venuta per raggomitolarmi fra le sue braccia e chiedergli con voce dolce: «Ma io sono cattiva?». Domande così non ne facevo più ormai. Ero avvocato divorzista: "Non chiedere se non vuoi sentire la risposta" era il mio motto. In questo caso, poi, la risposta era più che mai variabile. Per la maggior parte dei miei clienti ero la bontà fatta persona, il non plus ultra, mentre dalla bocca dei rispettivi ex consorti non sarebbe mai uscito nulla di... ripetibile. Ad amici e soci in affari piacevo un sacco, ma mia madre aveva cambiato idea già da parecchio tempo. La prima volta che gliel'ho chiesto però, devo essere sincera, non le avevo ancora rovinato la vita. E Birdwine? Mi aveva lasciato alla fine di agosto, e la sua risposta era stata cristallina: ero peggio che cattiva. Io ero il male assoluto, e lui tutte e tre le scimmiette messe insieme: due zampe sulle orecchie, due sugli occhi e due sulla bocca. Anzi, sulla bocca forse anche più di due; perché con me, a quanto pareva, non si riusciva proprio a parlare. Da parte mia non lo consideravo un problema. Non eravamo tipi appiccicosi, né tanto meno ci piaceva blaterare dei nostri sentimenti. Se davvero sentiva questo gran bisogno di parlare, gli alcolisti anonimi erano lì per quello, no? Sapeva bene che non ero né la confidente né la psicologa di nessuno e lo sapeva già molto prima che finissimo a rotolarci sotto le coperte. Un giorno però aveva deciso – direi in modo piuttosto inopinato, sinceramente – che con me aveva chiuso. Okay, bene. Peccato però che io non avessi ancora chiuso con lui. E comunque, santi di quei numi. Pedinare Zach Birdwine 11


era una noia mortale. Ma come fanno quei pazzi fanatici che si nascondono nell'armadio della star delle loro fantasie e accarezzano mutande e reggiseni e annusano scarpe tutti eccitati, e aspettano, aspettano, aspettano...? Me ne stavo lì davanti da così tanto tempo ormai che ero dovuta andare a fare il pieno. Con buona pace di Madre Natura, a febbraio non potevo certo pedinare Birdwine come si doveva senza riscaldamento. A meno di non voler ridiventare blu. Avevo lavorato alla stesura di una mozione fin quando la batteria del portatile non mi aveva abbandonato. Avevo mangiato i tacos presi alla taqueria dall'altra parte della strada e finito le Tic Tac comprate al distributore di benzina. Avevo pagato conti e bollette con l'iPhone, finito il libro che stavo leggendo e consumato lo schermo del cellulare giocando a Sudoku. E adesso ero lì, fremente, continuavo a guardare su e giù lungo la strada, nella speranza che la vecchia Ford del caro Birdwine arrivasse sfumacchiando davanti allo schifo di casetta in cui viveva. Magari era già arrivato. Magari aveva visto la mia Lexus e aveva proseguito dritto. Per me era un'auto anonima, comune, e senz'altro lo era dalle mie parti. Ma da queste parti della città, zona dalle disattese aspirazioni da quartiere residenziale, la mia auto spiccava come un nero e sfolgorante pollicione fra la minuscola Honda Civic di qualche barista-trattino-musicista e il macinino di Buick di quella decrepita della Carpenter. Comunque, prima o poi sarebbe pur dovuto tornare a casa, no? Ci viveva, e ci lavorava anche. Aveva già ignorato due messaggi in segreteria, tre e-mail, sei SMS e un costoso cestino di muffin con lemon curd e miele locale. Mi aveva costretto lui a presentarmi alla sua porta, non gli restava che affrontarmi oppure abbandonare il cane e tutte le sue cose. Il lato divertente della faccenda? In quel preciso istante anche Birdwine poteva essere seduto in auto a mangiare tacos e risolvere Sudoku mentre pedinava qualcuno. E già, perché di mestiere faceva l'investigatore privato e seguire le 12


persone era il suo pane quotidiano. Forse aspettare pesa meno se si è pagati per farlo... Ehi, un momento: anch'io avrei dovuto farmi pagare! Zach Birdwine era il mio ex, vero, ma io ero una pedinatrice per procura, in missione per conto di Daphne Skopes. Il tempo di ricaricare la batteria del portatile e queste ore si sarebbero aggiunte al già cospicuo conto accumulato con il mio socio Nick, che aveva avuto la geniale idea di incastrarmi in questo caso nato male e ormai avviato verso la disfatta totale. Un giorno Daphne Skopes era partita per un bel fine settimana caraibico niente meno che a Turks e Caicos con le amiche e al ritorno si era ritrovata con le serrature di casa cambiate e le carte di credito bloccate. Oh, e i conti cointestati prosciugati, ovviamente. Piccolo particolare: le amiche erano in realtà una, anzi uno, con bei baffi lisci e l'abitudine di condividere il suo letto. Il marito non aveva nessuna intenzione di mostrarsi ragionevole e la sua ultima offerta era stata concederle l'auto... che già le apparteneva. Punto. Alimenti? Nemmeno a parlarne. E niente percentuale dei fondi per la pensione, niente soldi, niente casa (né quella in città né quella sulla spiaggia a Savannah). La moglie non possedeva nulla e Brian Skopes era deciso a costringerla ad accettare le poche briciole che, a sua discrezione, le avrebbe gettato. Giocava a fare ora l'arrogante ora la povera vittima, a seconda della circostanza, mentre l'avvocato si adoperava per confondere le acque e tirarla per le lunghe. Insieme erano riusciti a prolungare i tempi di ogni singolo passo ben oltre il concepibile. Avevano ostacolato l'accertamento patrimoniale in ogni modo, producendo solo una documentazione incompleta oppure copie illeggibili. Presentato infinite mozioni per ottenere proroghe su proroghe. Rinviato all'ultimo minuto ogni appuntamento per la mediazione. Nick non era ancora riuscito nemmeno a consegnare a un giudice la mozione per l'onorario. E così erano trascorsi mesi, il conto veleggiava ormai verso i cinque zeri e 13


il nostro studio non aveva ancora visto un centesimo. Avevo assistito alle infervorate scenate di Bryan Skopes, l'avevo visto sbuffare ed esplodere e poi ancora farsi venire le lacrime agli occhi, da uomo ferito ma pur sempre virile. E come si impegnava, puntava dritto all'Oscar, ma a me non la dava a bere. Quando me l'avevano presentato c'era stata come una scarica, mi aveva passato in rassegna da capo a piedi con un'occhiata furtiva che mi aveva lasciato addosso una sensazione davvero disgustosa, una sorta di bava sessuale. Ero rimasta impassibile ma, dentro di me, avevo iniziato a sorridere. Beccato! Eccola lì la sua pozzetta di marciume. Le donne erano il suo punto debole e, se fossi riuscita a provarlo, la sceneggiata del povero marito tradito gli si sarebbe ritorta contro. Purtroppo per noi ne sapeva una più del diavolo e l'investigatore assoldato da Nick non era riuscito a scovare traccia di rapporti extraconiugali. Avevo proprio bisogno di Birdwine. Mi brontolava lo stomaco. L'orologio confermava: i tacos erano ormai belli che digeriti. Se Birdwine era su un caso – o se era impegnato a fare bisboccia – sarebbe anche potuto stare via per giorni. Va bene, allora! Al negozietto all'angolo vendevano senz'altro le barrette energetiche e, già che c'ero, avrei preso anche un bell'osso di pelle per Looper, il suo enorme mastino. Aveva la sua bella porticina privata per uscire a piacimento, e con il dispenser di pappa automatico non rischiava mai di restare senza cena, ma avrebbe senz'altro apprezzato il pensiero. Se necessario, sarei rimasta lì seduta anche tutta la notte. Mancavano meno di tre settimane alla deposizione di Skopes: avevo bisogno che Birdwine si mettesse sul caso e subito! Se solo mi avesse rivolto la parola, l'avrei assunto perché si mettesse sulle sue tracce per me. Mamma che spavento! Qualcuno picchiettava sul finestrino proprio accanto alla mia testa... Sbirciai fuori e riconobbi subito il vecchio bomber marrone di pelle e i Levi's... Aprii un poco il finestrino elettrico. Birdwine era un tipo proporzionato, massiccio e con una grossa testa squadrata come 14


quella di Looper. E alto, tanto da dover fare un passo indietro e chinarsi per potermi guardare in faccia. «Non ti ho visto arrivare» commentai portandomi una mano al petto. Lui alzò le spalle come meglio poteva. «Più furtivo di un gatto. Dovresti saperlo, è scritto nella mia presentazione.» Sembrava in forma, e lucido. Chissà dov'era stato per tutto il giorno... Be', di sicuro non in un bar. «Ho bisogno di parlarti.» «Ma non mi dire» rispose molto secco. «Sul serio, Birdwine. Dieci minuti, dai, che ti costa.» «Ma io ti inviterei anche a entrare, solo che ti odio» replicò, ma con il sorriso. E un sorriso di quelli veri, che scopriva la finestrella tra i due incisivi superiori. Un sorriso contagioso, anche se detestavo quando si portava tre dita alla tempia, come adesso. Lavoravamo insieme da quasi nove anni ormai, conoscevo bene i suoi segnali. Frequentava gli alcolisti anonimi da una decina d'anni ma con lui non funzionava. Non del tutto, almeno. Due o tre volte all'anno si seppelliva in qualche bettola da ubriaconi e spariva per giorni interi. Avevo imparato a cogliere le avvisaglie dell'imminente bisboccia in arrivo nel suo linguaggio del corpo, nel modo di parlare, persino nelle vibrazioni dell'aria. Un'abitudine che, tuttavia, non aveva mai intralciato nemmeno un caso e se anche fosse successo, la colpa sarebbe stata solo mia. Conoscevo i suoi limiti. E avrei rischiato, l'avrei assunto comunque. Perché? Perché da sobrio non aveva rivali. Bastava una sola gocciolina di fango e lui l'avrebbe trovata, ed ero convinta che Bryan Skopes nascondesse un intero e melmoso stagno di viscidume. «E allora sali» lo invitai. «Prometto che non ci vorrà molto.» Richiusi il finestrino, tolsi la sicura delle portiere e, mentre lui faceva il giro per salire dal lato del passeggero, liberai il sedile gettando la valigetta su quello posteriore. Una folata 15


di vento gelido spinse fuori tutto il calore mentre Birdwine si incastrava a fatica nell'abitacolo. Si mise subito a giocare con i comandi del sedile, che fece inclinare all'indietro. Aveva l'espressione di chi sta per farsi cavare un dente. Presi il fascicolo su Skopes che avevo infilato nel portaoggetti della portiera e glielo porsi. Lui inarcò le sopracciglia perplesso, scorse un paio di pagine e poi mi guardò. Aveva occhi grandi e scuri, con le palpebre pesanti, di quelli che sembrano sempre un po' assonnati. Li sbatté piano, non proprio alzandoli al cielo ma, be', il gesto era più che eloquente. «Si tratta di lavoro?» «Certo, e di che altro, scusa?» Si mise a ridacchiare. «Be', non saprei, Paula. Guarda un po' queste e-mail.» Si piegò in avanti e prese il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, toccò lo schermo e fece scorrere il Cestino. «Ah, eccole qui. Oggetto: Birdwine, dobbiamo vederci. E quest'altro: HO BISOGNO che mi chiami. Ho bisogno scritto tutto in maiuscolo.» «Ah, ho capito cosa intendi.» Nel digitare non avevo tenuto conto della situazione. Avevo scritto la verità, senza pensare a come avrebbe potuto suonare per un ex. «Pensavi che volessi sviscerare la nostra relazione?» «Vedi un po' tu: e cos'altro avrei dovuto pensare?» Che situazione ironica, nel vero senso della parola. Era stato lui a voler chiudere perché con me era "impossibile comunicare", ma in quella settimana aveva ignorato ogni mio tentativo di contatto perché convinto che volessi sedere sul pavimento fra mille cuscini, accendere un bastoncino di incenso dell'amicizia e vivisezionare la nostra rottura sorseggiando una bella tazza di oolong bio. E tutto questo dallo stesso tizio che aveva sempre tenuto le sue carte talmente coperte che, quando mi aveva piantato, ero letteralmente caduta dalle nuvole; non sapevo nemmeno che fossimo una coppia. Ero convinta che sarebbe stata la storia di una notte e via. Lavoravamo spesso insieme e una volta, dopo una pessima 16


nottata, ci eravamo ritrovati nello stesso letto. Mi piaceva come quelle sue manone si impigliavano nella massa arruffata dei miei lunghi capelli neri, e mi piaceva quella sua voce bassa e potente. Ci sapeva fare, era rude, aveva una cicatrice molto sottile su un sopracciglio e un naso lungo, che gli avevano rotto più di una volta. Mi piaceva quella sua vita complicata, tortuosa. Dopo quella prima volta non avevamo più smesso. Io ero alta e atletica, ma lui... lui era enorme, con due braccia possenti e un fare un po' animale. Mi gettava sul letto come fossi fatta d'aria e nastrini. Era una sensazione sconosciuta e insieme eccitante; essere piegata e messa in posizione, alzata, lanciata di qua e di là. Il rapporto era spesso brusco e impetuoso, come piaceva a me, ma poi all'improvviso poteva anche diventare languido. Il tempo si dilatava, il sesso diventava quasi sonnacchioso, fino al culmine. E poi no, non lo era più, e ci lanciavamo in un abbandono animale. Per mesi ci siamo sfiniti a vicenda quasi ogni pomeriggio. Perlopiù a casa sua. Il mio loft non faceva per lui. Era un open space, con un'intera parete di vetrate che si affacciavano sul profilo in continua crescita di Atlanta. Birdwine, invece, era tipo da tavolo in un angolo al ristorante, uno che non riusciva a mangiare dando le spalle alla porta. Il mio appartamento era troppo open, le uniche pareti interne erano quelle dei due bagni e del locale lavanderia. Il mio gatto, poi, era libero di infilarsi dovunque, e questo gli dava i brividi. Non sopportava di alzare lo sguardo e ritrovarsi davanti Henry che se ne stava appollaiato sul cassettone come un vaporoso fantasma bianco e ci fissava facendo le fusa. No, lui era un tipo da cane. Così ci eravamo trasferiti a casa sua e, chiuso fuori Looper, ci eravamo dedicati a quello che avevo creduto puro e semplice sesso. Dell'ottimo sesso, certo, ma senza le coccole sotto le lenzuola. Dopo tanti anni, ormai conoscevamo già le reciproche storie, seppure a grandi linee. No, noi dopo parlavamo delle probabilità dei Braves di vincere il campionato di 17


baseball, dei vari aspetti del caso del momento o di dove fosse finito il mio reggiseno. Per questo mi aveva colto tanto di sorpresa quando aveva detto basta, e sconvolto quando aveva iniziato a rifiutare un incarico dopo l'altro. Fin quando non aveva anche smesso di rispondermi al telefono. Allora avevo fatto un passo indietro, lasciandogli il tempo per sbollire. Ma era evidente che sei mesi non gli erano bastati. E così eccoci qui. «Birdwine, guarda che non sono mica una tredicenne con il cuore spezzato» replicai. «Avevamo una storia. Poi a un certo punto non ti è più andata bene. Okay per me. Hai ancora tutto il mio rispetto come investigatore. Voglio ancora lavorare con te. Perché buttare via il bambino con l'acqua sporca?» «E il bambino sarebbe questo?» rispose picchiettando con le dita sul fascicolo Skopes. Vedendomi annuire, aggiunse: «Ah, già, dimenticavo che sei una romanticona». Il tono era scherzoso, ma si stropicciò gli occhi con una mano: altro cattivo segno. «Allora perché nell'oggetto non hai scritto semplicemente: Ho un lavoro per te, oppure: Potresti trovarmi questo tizio?, oppure, porca miseria, anche solo la sua data di nascita e il numero di previdenza sociale!» Già, perché? Non era da me; io ero la regina della connotazione. Decisi tuttavia di assecondare il suo tono leggero. «Bene, allora, la prossima volta che mi eviti per mesi saprò come comportarmi.» «Paula, guarda che ti sto ancora evitando» ridacchiò. «Non sono stato io a smettere di evitarti, ma tu a venire a farti un giro da queste parti.» Si interruppe, per poi aggiungere scherzoso: «Ehi, hai visto? Alla fine stiamo proprio sviscerando la nostra relazione. Grande». «Tu accetta il lavoro e io mi levo subito dai piedi.» Non rispose, ma non potevo rinunciare. Era insostituibile. «E se ti pagassi il doppio?» mi decisi a proporre. Oh, adesso sì che avevo la sua attenzione. Già, perché Birdwine era perennemente in bolletta. Mi fissò a lungo, poi ri18


spose: «La smetterai con i muffin e con le e-mail assillanti?». «Detto fatto.» «Aspetta, i muffin puoi anche continuare a mandarmeli quando ti pare. I muffin vanno bene. Tu però devi restartene dalla tua parte della città. Facciamo così: mi fai mandare da uno dei tuoi galoppini un'e-mail con allegati tutti i file del caso e un oggetto sensato, come Ho un caso per te, e io ti rimando i risultati sempre tramite un'e-mail con oggetto Ecco cos'ho trovato. Ci stai?» Una bella rottura, e insostenibile nel lungo periodo, ma comunque risposi: «Se è l'unico modo per riaverti in squadra», che poi era la verità. Solo non tutta la verità, ecco. Non potevo permettermi di lavorare con Birdwine a distanza. Non per sempre. Avevo bisogno di incontrarlo con regolarità; i periodi di bisboccia capitavano a intervalli casuali, ma i segnali di una crisi imminente erano cumulativi. Ora come ora, avrebbero potuto volerci mesi. Si era stropicciato gli occhi e picchiettato con le dita le tempie, certo, ma magari solo per via dello stress di quella sgradevole conversazione. Per quanto ne sapevo sarebbero potute trascorrere settimane prima che lo rifacesse un'altra volta, prima che bevesse fino a dimenticare anche come si chiamava. D'altra parte, se i segnali si fossero ripetuti e intensificati, avrebbero preannunciato un'imminente scomparsa, che per me avrebbe significato ritrovarmi sola e fregata in sede di deposizione. «Porca miseria, tu fai Miss Insistente di secondo nome. Mi ero dimenticato anche questo» replicò, scoppiando in una risata. «Okay. Ci sto, ma chiariamo bene le cose: io non faccio parte della tua squadra. Accetto di lavorare per te perché mi paghi un sacco, sacco di soldi.» «Perfetto.» Ero riuscita a infilare il classico piedino nella sua porta e una volta messo dentro... be', sì, aveva ragione: ero una rompiscatole insistente. «Quindi, sbaglio o hai bisogno di trovare qualcosa per l'altro ieri?» chiese poi. 19


La mano che teneva poggiata sul fascicolo era grande quasi quanto la cartelletta. Quando non lo si aveva davanti, era facile dimenticare l'imponente fisicità di cui l'avevano dotato gli dèi: mani grandi, piedi enormi, femori lunghi e grossi, polsi massicci. «Devo interrogare il tizio il ventiquattro e al momento non ho in mano niente.» «Fin quanto posso scavare...?» «Quanto ti pare. È un tipico caso di SSF.» SSF era un acronimo di mia invenzione e stava per: Stronzi Senza Figli. Ah, gli SSF erano i migliori. Si guadagnava un sacco e potevo giocare sporco quanto piaceva a me senza che nel fuoco incrociato finissero adolescenti o bambini indifesi. Quando di mezzo c'erano dei figli, o se il cliente era una persona gentile e sensibile, ero costretta a muovermi con cautela, a impegnarmi per ridurre al minimo i danni. «Fantastico» commentò lui. Gli piaceva rimestare nel torbido ma, nei casi di divorzio, condivideva con me il sottile piacere di veder cadere qua e là qualche pedina. Un altro motivo per il quale lavoravamo così bene insieme. «Che cosa devo cercare?» «Sesso» risposi senza esitare. Mi era bastato leggere il fascicolo di Bryan Skopes per sapere, ancor prima di conoscerlo, che quella prima S di SSF era più che meritata. Per carità, era membro del Rotary Club, certo, e della commissione finanziaria della sua chiesa. Si assicurava che l'anziano padre fosse seguito come si doveva. Senz'altro si riteneva una brava persona. La maggior parte della gente crede di esserlo. Ma alla prima moglie non versava nemmeno un centesimo di alimenti e al mantenimento delle due figlie, che vedeva di rado, contribuiva con meno di una miseria. La seconda consorte aveva quindici anni meno di lui. Aveva lavorato per lui come receptionist, fatto che aveva pesato non poco nel loro rapporto. Una brava persona? No, in Bryan Skopes io vedevo solo un narcisista drogato di sesso e di potere e affet20


to da un genuino disprezzo per il genere femminile. Conoscerlo di persona aveva solo confermato e, anzi, se possibile peggiorato l'opinione che avevo di lui. Quell'occhiata furtiva che avevo colto... Non era lo sguardo di uno squattrinato con la pancia vuota che fissava un buffet luculliano consapevole di doversi accontentare del solo profumino. Macché, quella era stata la sbirciatina di un buongustaio sazio e appagato, uno abituato a riempirsela, la pancia. Un'occhiata offensiva, ma non per il sottinteso sessuale. No, era stata offensiva perché era chiaro che si sentiva in diritto di guardarmi a quel modo. Skopes era convinto di avere il coltello dalla parte del manico per le trattative, e quel vantaggio lo eccitava ancora più di me e del mio corpo. Faceva suonare falso ciò che di giusto c'era nella sua indignazione. Anche la nostra cliente era una stronza, su questo non ci pioveva. Anche le stronze, però, meritano di essere rappresentate al meglio, soprattutto se contro uno stronzo delle stesse proporzioni. In questo caso in particolare, avevo avuto la fortuna di imbattermi nel minore dei due mali. Intendiamoci, Daphne non era certo una vittima, solo un po' meno malvagia rispetto a lui. Per Bryan Skopes le donne erano solo oggetti, certo, e come tale pensava di aver comprato Daphne. Ma, per dirla tutta, lei aveva acconsentito. Non riuscivo a rispettarla; non mi piaceva; ma poi che importava. Aveva venduto se stessa? Bene, io ero il suo avvocato e il mio lavoro consisteva nel fare in modo che Skopes finisse di pagarle il dovuto. «Nel senso di un'amante?» chiese Birdwine. «Non perdere tempo a frugare in cerca delle scappatelle romantiche di due anime devote» risposi scuotendo la testa. «Scava più in basso... Questo qua puzza di viscido lontano un chilometro.» Era quello il nostro modo di collaborare: io scovavo i punti deboli, ci puntavo contro Birdwine e lo scatenavo. Insieme avevamo messo a segno molti più centri che fiaschi. Se avevo ragione, e se Birdwine fosse riuscito a beccarlo, il caro 21


Skopes avrebbe dovuto moderare quei suoi toni feriti e accusatori e mettere sul tavolo qualcosa di ben più sostanzioso del libretto dell'automobile. «Okay, me ne occupo io. Abbiamo finito?» «Sì, grazie Birdwine.» «Ti prego, chiamami Zachary» controbatté lui, con un sorriso questa volta a labbra chiuse, finto e privo di espressione. «Ehi, guarda che ti ho capito.» Ai primi tempi della nostra collaborazione mi aveva raccontato che solo la sua ex moglie lo chiamava per nome; ex moglie che si era risposata dieci minuti dopo la sentenza definitiva di divorzio. Adesso viveva in Florida, troppo occupata a sfornare marmocchi e a fingere che fosse morto per chiamarlo in qualsiasi modo. «Ti starò fuori dai piedi.» Il per adesso era meglio tenerlo per me. Birdwine uscì dall'auto e io me ne andai in cerca della cena; tutte le paure e le preoccupazioni per Skopes contro Skopes stavano già svanendo. Se Birdwine fosse rimasto sobrio, la faccenda era già risolta. Non che potessi esserne certa, che sarebbe rimasto sobrio intendo. E più i giorni passavano senza novità e più la mia certezza vacillava. Ero comunque calma. Skopes e Jeremy Anderson, il suo avvocato, ci avevano obbligato al balletto del rinvio per mesi. Adesso toccava a me giocarci, perlomeno fin quando Birdwine non si fosse fatto vivo o fin quando non avessi trovato un altro modo per mettere in ginocchio Skopes. Il quattordici febbraio mi trattenni in ufficio sino a tardi a fare ricerche su un precedente piuttosto complesso. Finii che erano ormai passate le undici. Spensi il computer e presi il libretto degli assegni. Scrissi Contanti alla riga del beneficiario. Il nome ufficiale di mia madre era Karen Vauss, ma chissà come si faceva chiamare la sua attuale reincarnazione. Firmai e staccai l'assegno. Lo infilai in una delle mie buste intestate – erano di una costosa carta color crema con impresso Paula Vauss e il mio 22


indirizzo di casa in marrone scuro –, scribacchiai sul davanti il numero di casella postale di Austin intestata a Kai e chiusi perbene. Le spedivo un assegno ogni quindici del mese, ormai era diventato un rito e la mia unica forma di comunicazione con mia madre negli ultimi dieci anni e mezzo. Era il mio modo di chiederle: Non siamo ancora pari? Incassarlo, invece, era il suo modo di rispondere: Sei ancora in debito con me. Esitai prima di gettarla nel mucchio della posta in uscita, anche se avevo un appuntamento con un ragazzo. Avevamo programmato di trovarci alle 00.01 in punto, quando San Valentino fosse stato bello che finito. Esitavo ancora. Avrei potuto lasciare che Verona spedisse quella mia delega cartacea insieme al resto della posta, lasciare che quest'ultima ponesse la sua domanda mensile, puntuale come sempre. Oppure avrei potuto infilarla nel distruggidocumenti. Ogni mese mi trastullavo con lo stesso dubbio. Cos'avrebbe fatto Kai se l'assegno non fosse arrivato? Forse tra noi sarebbe calato il silenzio definitivo, e così avrei saputo che, sì, avevo pagato abbastanza per aver inchiodato quei suoi piedi vagabondi nello stesso luogo, per averle sottratto quasi dieci anni della sua libertà. Per me il silenzio somigliava abbastanza alla pace da avere la sua importanza. Oppure si sarebbe presentata alla mia porta, pretendendo di tagliarmi davvero una libbra di carne come in Shakespeare. Mi chiedevo anche, e non era certo la prima volta, che cosa sarebbe accaduto se mi fossi dimostrata più aggressiva. E se, invece, le avessi spedito un messaggio? Presi un bloc-notes, ma rimasi a fissarlo. I minuti passavano e dalla penna non usciva nemmeno una parola. Prima di presentarmi all'appuntamento dovevo anche passare da casa a cambiarmi e a dare da mangiare a Henry. Di sicuro stava già camminando su e giù per la scala che dal grosso salone portava alla camera da letto sul soppalco, impaziente di affondare i denti nella scatoletta, eppure me ne 23


restavo lì seduta, a fissare la pagina vuota. Poi chiusi gli occhi e sentii la mano iniziare a muovere la penna sulla carta. Scrissi la domanda fondamentale: Cosa devo fare per essere pari? Nel rileggerle, mi accorsi che erano parole troppo brusche, troppo schiette. Peggio ancora, ammettevano una colpa. Cancellai subito e le sostituii con: Hai chiamato tua figlia Kali, perciò che cosa cazzo ti aspettavi? Hai avuto esattamente quello che volevi. Ecco, così era più da me, ma non potevano certo definirsi parole riparatrici. Oh, be', fare ammenda e riparare non era il mio forte; quale che fosse il mio forte, andava semmai nella direzione opposta. Quando si trattava di rompere qualcosa, allora sì che sapevo ingegnarmi in mille modi diversi, dallo sventramento con la meticolosità e la perizia chirurgica di una squadra di artificieri alla distruzione totale in stile palla da demolizione. Se ero io a romperlo, restava rotto. Se rompevo qualcosa di mio, vivevo con i pezzi o lo sostituivo. Strappai la pagina e la appallottolai, mirando al cestino della carta nell'angolo: un bel centro da tre punti. Fanculo. Misi la busta sulla pila della posta in uscita e, come sempre, fu un sollievo. Kai era pagata, adesso avrei anche potuto dimenticarla per una o due settimane. Presto, fin troppo presto, sarebbe tornata a fare capolino nella mia mente, gettandomi addosso una sorta di lieve smania fin quando non avessi compilato il prossimo assegno. Mi alzai, finalmente pronta ad andare, ma il ding di un'email in arrivo dal mio cellulare attirò la mia attenzione. Era di Birdwine, e l'oggetto quello promesso: Ecco cos'ho trovato. Mille a uno che non mi stava chiedendo di uscire per San Valentino. E allora cos'era? Tornai al computer per comodità. Il corpo del messaggio diceva solo Eh già, ci hai preso. C'erano due allegati. Il primo era una fattura davvero molto, molto sostanziosa. Più di quanto mi aspettassi. Il secondo era un file PowerPoint. Iniziai subito a scorrere le diapositive. 24


Si vedeva Bryan Skopes, era inquadrato dall'alto ma comunque riconoscibile. Non potevo dire che non fosse un bell'uomo, conservava un certo fascino da ex studente universitario con il viso aperto e schietto, peccato per quei rotolini sotto gli occhi e intorno alla vita; troppo scotch e troppe ostriche fritte, mio caro. Era in mezzo a un boschetto di azalee che riparavano alla perfezione dagli sguardi, da ogni lato tranne che sopra. Gli scatti, per l'appunto, erano stati realizzati dall'alto; evidentemente Birdwine si era arrampicato su un albero che sovrastava il boschetto. Aveva rischiato di rompersi l'osso del collo, ma era riuscito a immortalare quel che ci serviva – e che mi sarebbe costato un occhio della testa: Bryan Skopes non era solo. Davanti a lui era inginocchiata un'amichetta con i capelli color magenta e la faccia tuffata tra le sue gambe. Inquadratura dopo inquadratura, il nostro amico si fletteva sempre più all'indietro e così il suo bel faccione. La bocca si spalancava, in un'espressione di godimento. Per fortuna teneva gli occhi chiusi, altrimenti avrebbe potuto scoprire Birdwine. Il solo pensiero mi strappò un sorriso da orecchio a orecchio: non sarebbe stato sconvolgente? Una storiella sordida ma uguale a tante altre, non fosse stato che, verso la fine, mi ritrovai davanti una diapositiva che mi ghiacciò il dito sul mouse. La ragazza era ancora in ginocchio, ma guardava verso Skopes. Aveva un visetto tondo e liscio, con le guanciotte paffutelle di una bambina, e la pelle sotto gli occhi era rosea e perfetta. Sentii qualcosa di pungente e sgradevolmente aspro gocciolarmi nelle vene e iniziare a scorrermi dentro. Era talmente giovane. Aveva sì e no quindici anni, non di più. Nello scatto successivo la ragazzina si era alzata in piedi mentre Skopes si ricomponeva. In quello dopo ancora, i loro palmi si toccavano mentre lui le passava i soldi. Lo sgradevole gocciolio si fece più acido e pungente. E così avevo due volte ragione: era un adultero e gli piaceva fare sesso in situazioni con un'abominevole sproporzione di potere. Quella 25


povera ragazzina era così giovane e sprovveduta che non sapeva nemmeno che ci si fa pagare prima della prestazione. Ancora un mesetto sulla strada e avrà imparato... Una volta tanto, però, avere ragione non mi dava nessuna soddisfazione. Guardavo quelle sue guance da bambina, la bocca imbronciata, ed era come se la conoscessi. Cacchio, avrei potuto essere lei. Avevo conosciuto ragazze che erano diventate lei, all'epoca in cui ero stata mandata in affidamento. Talvolta mi capitava ancora di sognare di cadere giù dal mondo con loro. Scivolavo nel sonno e mi ritrovavo a fare un passo oltre il limite nascosto e frastagliato della Terra. Precipitavo oltre la tartaruga che sorregge il pianeta sul suo guscio, oltre Joya che cadeva e si afflosciava in silenzio, oltre Candance che allungava una mano verso di me con occhioni imploranti e bramosi. Precipitavo oltre ogni cosa, nel nulla infinito. Senza nemmeno una stella. Sarei potuta finire anch'io come la ragazzina delle foto, con i capelli tinti con l'henné e le guanciotte da bambina. Avrei potuto trascorrere le mie giornate a tremare inginocchiata davanti a uno stronzo in mezzo alle azalee, e d'un tratto quello con Bryan Skopes era diventato un fatto personale. Non lavoravo più per conto di Daphne. Era la mia cliente, quindi avrei dato il meglio di me, ma non mi stava granché simpatica, ecco. Daphne era perfetta per il ruolo della classica moglie-trofeo. La sua massima aspirazione era farsi bella e andare in palestra per mettersi in mostra alle feste e ai cocktail. Era una donna vuota ed egoista e a dir poco noiosa. Chissà quante ne aveva viste e ignorate di ragazzine come questa poveretta con i capelli magenta. Atlanta ne era piena. Migliaia di giovani tossiche scappate da casa, che non volevano o non erano pronte a farsi salvare, che tiravano avanti come potevano. Di sicuro a Daphne non era mai nemmeno venuto in mente di comprare a una di loro un panino o di offrirle un pas26


saggio sino a un rifugio. Così come di sicuro la mia cliente non aveva mai nemmeno portato una di queste ragazzine in mezzo ai cespugli per usarla come un fazzoletto di carta e alla fine allungarle qualche schifosa banconota viscida. Basta, ormai non era più l'avvocato professionista a occuparsi della faccenda, no, adesso ero solo io, ed era per me stessa che sarei arrivata sino in fondo. Sì, fosse dipeso da me, Skopes sarebbe finito dritto in galera e avrebbe imparato sulla sua pelle quant'è dura vivere in ginocchio. Peccato non fosse fattibile, e non solo perché sarebbe stato contro gli interessi della mia cliente. Quella ragazzina ormai si era già volatilizzata. Forse, con un po' di tempo e tanti soldi, Birdwine sarebbe anche riuscito a rintracciarla, ma non l'avrei mai convinta a testimoniare, né tanto meno a presentare una denuncia. Le conoscevo bene quelle come lei. L'unica cosa che potevo fare era colpire Bryan Skopes nel portafoglio e colpirlo duro, affondare il colpo nella sua erronea convinzione di essere una brava persona e, soprattutto, nella sua gongolante smania di potere sulle donne. L'avrei costretto a chinarsi davanti a Daphne e a me. Al solo pensiero mi sentivo già più alta di qualche centimetro. Mi passai la lingua sui denti, pregustavo la deposizione della settimana successiva. Quanto aveva pagato la ragazzina? Se solo si fosse visto bene... Un paio di banconote da venti? Un cinquantone? Ignoravo la tariffa corrente, ma una cosa la sapevo: quel peccatuccio bucolico sarebbe costato al caro Bryan molto più di quanto avesse mai potuto immaginare. Chiusi PowerPoint e inoltrai i file a Nick, aggiungendo un breve messaggio: Riusciamo a far venire Daphne in settimana? Ho bisogno di prepararla. Aprii PayPal e saldai a Birdwine l'intero importo della fattura, più un cospicuo bonus, dal mio account personale. Farmi rimborsare sarebbe stata una gran rottura di scatole, ma volevo che fosse favorevolmente colpito dalla velocità con cui l'avevo pagato. Di solito le fatture dovevano prima passare dalla nostra cara Verona. 27


Mi misi poi a digitare una risposta. Grazie per le foto piccanti... meglio di una scatola di cioccolatini! No, così non andava. Ero appena riuscita a convincerlo a tornare a lavorare per me, un po' troppo presto per riattaccare con le vecchie e bonarie battutine un po' civettuole. Allora, Birdwine, adesso hai capito perché non posso fare a meno di te? No, troppo personale. Ci pensai un attimo e cambiai in: Allora, Zachary, adesso hai capito perché non posso fare a meno di te? No, ancora troppo personale; in auto era stato molto chiaro al riguardo. Risposi con un messaggio vuoto, poi aprii una nuova finestra e digitai: Guarda le dichiarazioni patrimoniali: questo tizio racconta un sacco di palle. Sta nascondendo i soldi. Secondo me in qualcosa da fighetto, tipo sculture o vino. Me li trovi tu? Alla solita tariffa. Allegai il relativo fascicolo, inviai il messaggio e aspettai. La risposta arrivò dopo un paio di minuti: Mi ci metto subito. Ecco fatto. Birdwine e io eravamo di nuovo in affari. Perlopiù alle sue condizioni, certo, ma ero riuscita a smuoverlo. Insieme andavamo nella direzione giusta. Ciliegina sulla torta, entro una settimana – all'incirca il tempo che sarebbe occorso a Kai per incassare l'assegno – avrei incontrato Bryan Skopes. Era convinto di ottenere tutto quello che voleva? Be', forse non aveva poi torto. Il nome scelto da mia madre era un omaggio a Kali, giusto? Bene, il caro Bryan avrebbe avuto quello che voleva, eccome se l'avrebbe avuto. Sarebbe stata mia cura e immenso piacere assicurarmene di persona. La vittoria ridestava in me un volto segreto che viveva sotto la mia carnagione ambrata, gli occhi chiari e appena un po' obliqui, le labbra carnose. Un volto che non vedeva l'ora di mostrare i denti. Mi sentivo monodimensionale e capace di vedere ogni cosa, la mia lingua fremeva dalla voglia di penzolarmi fuori dalla bocca per assaggiare l'aria metallica. Questo volto era pronto a divorare qualsiasi cosa. E non si 28


addiceva allo studio Cartwright, Doyle & Vauss. Nick Cartwright e Catherine Willoughby Doyle, i miei soci, due professionisti colti e distinti pieni di agganci con la Atlanta bene, appartenevano alla vecchia aristocrazia cittadina. Erano cugini ma sembravano fratello e sorella: entrambi allampanati, biondi, eleganti. Le coppie facoltose con assetti patrimoniali complessi si rivolgevano al nostro studio quand'era tempo di un divorzio civile e tranquillo. Le unioni che ci occupavamo di sciogliere riguardavano piÚ che altro fondi fiduciari, accordi prematrimoniali e questioni di case da dividere. Le nostre parcelle erano molto salate ma ampiamente meritate, imbattibili com'eravamo nello spartire complicate torte finanziarie, e chi non poteva permettersi i nostri servigi... non ne aveva bisogno. Quando poi queste garbate separazioni si inasprivano, come capitava spesso, be', ecco che si spiegava il mio nome sulla targhetta. Io ero l'ariete di sfondamento nascosto in fondo al ripostiglio. Avevo conosciuto Nick all'università . Scoprimmo di funzionare molto bene insieme, nel letto e fuori. Io ero sfacciata e aggressiva, lui meticoloso e un negoziatore nato. Nei finti processi a lui spettava il ruolo della carota e a me del bastone. Mi fece entrare nell'affermato studio del padre e, quando Cartwright senior si ritirò, Catherine e io diventammo socie a tutti gli effetti. Le mie abilità completavano le loro e, con le mie oscure origini razziali e un passato di bambina in affidamento, uniti ai patrocini pro bono cui mi dedicavo ben due volte all'anno, io sola bastavo a dare allo studio un lustro progressista e multiculturale. Entrambi mi adoravano soprattutto in situazioni come queste: avevo massacrato Bryan Skopes. Finita la deposizione, erano in preda all'estasi del dopo vittoria. Catherine sospirava soddisfatta e Nick mi fissava con due occhioni inteneriti, come fossi la sua tigre personale. Mi chiesero di festeggiare con loro, ma rifiutai. Non sarei riuscita a tenere nascosto il mio volto selvaggio mentre stappavano educatamente una bottiglia di costose bollicine. In 29


quel momento, poi, le mie mani erano talmente irrequiete che avrei anche potuto mandare in frantumi i calici di cristallo che facevano tintinnare durante i prolissi brindisi di Nick. Risposi che sarei uscita presto e Catherine, raggiante di approvazione, mi disse di andare pure subito e di godermi la serata, dopotutto me l'ero meritata. Una volta a casa mi fermai nell'ingresso; cercai di togliermi le scarpe lanciandole dove capitava, ma non era facile con Henry che mi mordicchiava le caviglie e miagolava rumorosamente per reclamare un po' di attenzione. Se io ero a casa, doveva per forza essere ora di cena, poco importava cosa segnava l'orologio. «Ma certo, piccolo» lo rassicurai. «Adesso ti apro una bella scatoletta di tonno. Roba buona. Vero alalunga.» Henry mi precedette di gran carriera attraverso l'immensa sala, verso la cucina. Era la giornata della signora delle pulizie, la casa profumava di essenza all'arancia e aceto, e il parquet lucido era appena un po' scivoloso. Misi l'iPhone nella docking station e notai la pila di posta che la signora aveva messo in bella vista sul bancone della cucina. La lasciai dov'era e avviai la mia compilation della vittoria. Ecco i Kongos. Alzai subito il volume al massimo, tanto a Henry non dava fastidio. Come molti gatti bianchi, era completamente sordo. Quel trionfo su tutta la linea mi faceva scorrere il sangue più velocemente, lo sentivo vibrare in tutto il corpo mentre ballavo a piedi nudi in direzione della dispensa. Santi di quei numi, quanto mi piaceva sentirmi tanto euforica. In ufficio mi ero trattenuta, ma ora avrei voluto prendere in braccio Henry e mettermi a saltellare sino a farlo scappare a zampe levate. Il musicista con cui mi vedevo ogni tanto era fuori città per un concerto, ma il ragazzo inglese con cui uscivo prima mi aveva mandato un messaggio. Gli avrei risposto di passare per aiutarmi con una bottiglia di ottimo bourbon. Avremmo concluso la giornata come si conveni30


va... Sì, meritavo di aggrapparmi a quella felicità, di cavalcarne il ritmo imbizzarrito sino a crollare stremata e soddisfatta, in estasi. «Sai, Henry, quello stronzo non se l'aspettava proprio» raccontai fermandomi giusto il tempo di svuotare la scatoletta in un piattino. Quando Skopes era arrivato, l'avevo accolto con il sorriso. Avevo anche accavallato le gambe e dondolato il piede per attirarne l'attenzione sulla gonna troppo corta per qualsiasi aula di tribunale. Indossavo scarpe di vernice nere con il tacco a spillo e suole rosso sangue che promettevano una carneficina. Come mi aspettavo, lui aveva ignorato l'avvertimento per trascinare lo sguardo sulle mie gambe nude. Il tavolo della sala riunioni era affollato: Nick e Daphne, l'avvocato di Skopes, uno stenotipista del tribunale. Semplici ombre grigie per me, inconsistenti e prive di importanza. L'unico colore era il rosso avversario della cravatta vincente di Skopes, l'unica luce il tenue bagliore del mio portatile. Era aperto e acceso all'altro capo del tavolo, rivolto verso di noi in modo da mostrare a lui e al suo avvocato il mio salvaschermo: una rilassante scogliera con pesci tropicali che nuotavano oziosi di qua e di là. Avevo preso la parola per prima e scandito il numero di ruolo, dando inizio al rituale d'apertura di ogni deposizione. Lo stenotipista aveva poi fatto giurare Skopes e io gli avevo chiesto di dichiarare nome e cognome, indirizzo e data di nascita perché fossero messi agli atti, guardandolo con aria annoiata e lasciando che Jeremy Anderson, il suo avvocato, ricambiasse con un'occhiata altrettanto annoiata. Espletate le formalità, avevo mosso il mouse senza filo che avevo preparato accanto alla mia pila di documenti. Subito gli oziosi pesciolini avevano ceduto il posto a un'immagine del file PowerPoint di Birdwine: Skopes circondato dalle azalee, con la testa gettata all'indietro, gli occhi chiusi e la bocca spalancata. Colore sostituiva colore, luce sostituiva luce. Il caro Bryan non se n'era nemmeno accorto. 31


«Mi dica, signor Skopes, si definirebbe un giardiniere?» avevo chiesto. «Un giardiniere?» aveva ripetuto lui, soffocando una risatina. «Io semmai ho un giardiniere.» «Interessante. E si occupa di azalee?» All'altro capotavola le mani dello stenotipista si erano fermate per una frazione di secondo. Lui sì che se n'era accorto. Poi aveva scrollato le spalle con un movimento così impercettibile da essere quasi interiore e le mani avevano ripreso il loro saltellare ritmato con la solita disinteressata inerzia tipica della sua specie. Daphne e Nick lo fissavano inespressivi, come se la stenografia fosse uno spettacolo affascinante, proprio come li avevo istruiti. «Non saprei, non conosco i nomi dei fiori.» Non era certo questo il tipo di domanda che si aspettava. L'istinto lo stava mettendo in guardia: qualcosa non andava. «La prego di arrivare al punto, oppure la smetta con il giardinaggio» era intervenuto Anderson. «Senz'altro» avevo convenuto. Poi, tanto per mantenere il ritmo, avevo chiesto: «Che università ha frequentato?». «Vanderbilt.» «Mmh... E alla Vanderbilt faceva parte di una confraternita?» A quel punto Anderson si era finalmente accorto delle diapositive che scorrevano sullo schermo e dalla gola gli era scappato un lieve verso strozzato. «Devo rispondere?» aveva chiesto nel frattempo Skopes, girandosi verso il suo avvocato. Notandone l'espressione, ne aveva seguito lo sguardo... La sala era piombata nel silenzio. Cambio di diapositiva. «Alla Vanderbilt faceva parte di una confraternita?» avevo ripetuto con nonchalance. Come se l'io più schifoso di Skopes non fosse in mostra proprio lì, sotto gli occhi di quella moglie che aveva comprato per scopi simili ma con una moneta di scambio socialmente più accettabile. 32


«Grandissima stronza» aveva commentato lui con voce piatta. Si riferiva a me, a Daphne o alla ragazzina che fissava...? Quella giovanissima, con i capelli magenta e le guaciotte da bambina. Quella in ginocchio. Ancora un'altra immagine. Skopes la fissava, fissava se stesso, consapevole di quanto tutto ciò gli sarebbe costato e alla disperata ricerca di una scappatoia. «Grandissima stronza» aveva ripetuto, con voce ancora piatta ma paonazzo in viso. Io avevo mantenuto un'espressione impassibile, fingendo di scorrere i documenti che avevo davanti. «Non conosco nessuna confraternita chiamata Grandissima Stronza. Intende forse Gamma Sigma?» Skopes si era alzato in piedi. Sulla fronte erano iniziate a comparire le prime goccioline di sudore. Si vedeva che cercava di valutare l'impatto che quelle immagini avrebbero avuto su un pubblico più ampio. Sui membri del Rotary Club. E su quelli della sua chiesa. Su suo padre. Sulle figlie trascurate che credeva di amare, proprio come era convinto di essere una brava persona. Quelle fotografie raccontavano una storia più vera e, una volta tanto, toccava a lui assaporare il gusto dell'impotenza. Era stato scorticato, tutta la sua bruttezza interiore era lì in bella vista. «Dalle quello che vuole» si era limitato a dire. Anderson aveva provato a controbattere, ma Skopes l'aveva zittito. «Ho detto di darle quello che vuole.» Ah, le mie parole preferite. Skopes era convinto di rivolgerle all'avvocato, o magari a Daphne. Si sbagliava. Quelle parole erano per me e me soltanto. Da quel momento sarebbe stata solo una questione di scartoffie. Nick e io ci saremmo impegnati in un lungo e costoso – per i rispettivi clienti – balletto con Jeremy Anderson per suddividere la sostanziosa torta. Un'attività molto piacevole, per carità, ma il vero pane per i miei denti era lì, in quel mo33


mento. Quel perfetto, irripetibile momento in cui Skopes era stato messo a nudo. In cui tutte le storie che gli piaceva tanto raccontare erano state spazzate via e si vedeva com'era davvero. Posai il piattino con il tonno sul pavimento. Henry ci si avventò sopra famelico. Ripresi il cellulare per mandare un SMS all'inglese e fu allora che notai l'angolo di una busta color crema che spuntava dalla pila di posta. La presi e vidi che sopra c'erano impressi in marrone il mio nome e il mio indirizzo. Il numero della casella postale di Kai in Texas era scribacchiato con la mia grafia quasi illeggibile. Era proprio la busta che avevo gettato nella posta in uscita quando mancava meno di un'ora alla fine di San Valentino. Erano state aggiunte solo tre parole scritte in rosso, sul davanti. Era la grafia di mia madre. Restituire al mittente. I miei pensieri si paralizzarono. Il respiro fece altrettanto. La vittoria mi schizzò via dalla mente. E insieme a lei i progetti per la serata. Il mio gatto e i miei stessi appetiti... puff, andati. Non sentivo nemmeno più la musica. Trascorse del tempo. Mezzo minuto, o forse pochi secondi. Chissà. Sentivo il basso, rumoroso brontolio nel petto di Henry che lui stesso percepiva solo come una vibrazione. Lo sentivo gustarsi il tonno. Girai la busta e vidi che era stata richiusa con del nastro adesivo. Quello non ce l'avevo messo io. All'improvviso le mani si fecero gonfie e impacciate. Tremavano con una violenza tale che quasi non riuscivo ad aprirla. Dentro c'era il mio assegno. Ci aveva scritto ANNULLATO con la stessa penna rossa. Una risposta diversa, finalmente. Ma perché proprio adesso? Le avevo spedito un assegno ogni mese per quasi sedici anni, ripetendo ogni volta la stessa domanda. Dapprima assegni piccolini, mentre frequentavo i primi due anni dell'università in Indiana e nel contempo lavoravo. Una 34


settimana le avevo spedito cinque dollari e il mio conto era finito in rosso. Si erano fatti un po' più cospicui quand'ero riuscita a entrare alla scuola di legge Notre Dame e poi alla Emory, e si erano rimpinguati ancora di più dopo la laurea e a mano a mano che la mia carriera decollava. Negli anni avevo spedito a Kai oltre centottanta assegni e tutti, uno per uno, avevano posto sempre la stessa domanda: Siamo pari adesso? La sua risposta era sempre stata incassarli. Senza mai saltarne uno. Pur spostandosi di continuo, sempre in viaggio. Una o due volte all'anno ricevevo uno di quei biglietti impersonali che annunciavano allegri un cambio di indirizzo, o nel suo caso un cambio di casella postale, e il trasferimento in un'altra città. Ciononostante si era sempre premurata di ritirare e incassare ogni singolo assegno. E ora quello, annullato, mi tremava fra le dita. Lo girai e notai che sul retro mia madre aveva scritto qualcosa: No, grazie. Ho abbastanza soldi da farmeli bastare finché campo. Scherzo. Il cancro si era già diffuso ancora prima che me ne accorgessi, quindi il finché campo sarà di breve durata. Questione di settimane, se sono fortunata. Farò un viaggio, Kali. Tornerò alle mie origini; la morte non è la fine. Tu sarai la fine. Ci rincontreremo, e ci saranno altre storie. Lo sai come agisce il karma. Non era un semplice messaggio. Era un epitaffio. O una poesia. O una minaccia. Questo sapevo dopo averlo letto. Rilessi, e mi accorsi di cosa mancava. Il perdono. A pensarci bene ogni parola sembrava studiata per farmi arrabbiare. Odiavo le missive criptiche, e la misticità, e il sussiego. Cacchio, certo che lo sapevo come agiva il karma, solo che non ci credevo. Non credevo nemmeno nella reincarnazione, né nel fato o che il tempo fosse una sorta di ruota, e questo lei lo sapeva bene. 35


Tolte tutte quelle idiozie, capii che cosa intendeva. Che il mio debito andava oltre la morte. La sua e la mia. Entrambe saremmo morte e diventate polvere, e la mia polvere sarebbe stata comunque in debito con la sua. Era un'altra la cosa che non riuscivo a capire: a quasi duemila chilometri di distanza, in Texas, mia madre stava morendo. Era questa l'informazione che non riuscivo a elaborare. «Mia madre sta morendo» dissi a Henry, tanto per sentire come suonava. Parole che in bocca sentivo dure e giuste, ma che avevano il sapore della verità. Nel sentirle, comunque, non provai nulla. Un nulla così immenso, che mi saliva dentro nero e compatto, da non lasciarmi nemmeno sbattere le palpebre. Avevo gli occhi secchi, mi prudevano. Il tempo si dilatò quasi fosse infinito. L'assegno aveva impiegato una settimana per arrivare in Texas e tornare indietro. Kai sarebbe potuta essere già morta. A quel pensiero provai uno schietto senso di sollievo alle spalle e al contempo una sgradevole sensazione di mancanza, come quando cade un dente, e l'impellente bisogno di infilarci la lingua. Sentii le viscere stonare alla discordanza. Se era morta, ormai appartenevo solo a Henry. Il messaggio riempiva tutto il retro dell'assegno, tuttavia notai altre letterine che correvano lungo un margine. Le dita intorpidite riuscirono a rigirare il pezzettino di carta e mi misi a leggere. Altre sette parole strette contro il bordo, senz'altro l'ultima cosa che mi aveva scritto. Forse l'ultima che mi avrebbe mai scritto. (Ovviamente non voglio che tu venga qui.) Mia madre stava morendo e non mi voleva al suo capezzale. «Per me va bene» le risposi, o forse mi stavo rivolgendo a Henry. Non ero mai stata tanto felice che il mio gatto fosse sordo, perché così non avrebbe sentito quella brutta verità. Da lon36


tano mi giunse la mia stessa risata: dio mio che grande sciocchezza. Davvero pensavo che un gatto normale avrebbe capito quello che dicevo? Ridevo, e Kai stava ancora morendo, mi diceva di non raggiungerla, e poi smisi di ridere, perché il mio corpo aveva smesso di respirare. L'assenza di Kai mi si attorcigliò intorno al petto e al collo. Mi strizzava ogni via respiratoria. Sentivo le costole ripiegarsi, comprimersi all'indentro per schiacciarmi il cuore. Avevo un braccio indolenzito. Pensai, con assoluta calma: Sto avendo un infarto. Barcollai in avanti per prendere il telefono, ma le mie dita si erano fatte così grosse... lo guardai cadere sul pavimento. Osservai con distaccato interesse la ragnatela che si disegnava sullo schermo mentre andava in frantumi. Non ero impaurita. Ero qualcosa di peggio. Ero blu e diventavo sempre più blu. Annegavo nell'aria. Poi mi ritrovai in ginocchio, cercavo di raggiungere il telefono a tentoni. Riuscii a visualizzare la tastiera e, per la seconda volta in vita mia, mi ritrovai a comporre il 911. Ricapitava proprio in quel momento: che macabra ironia... Non che credessi che quella telefonata avrebbe potuto salvarmi la vita. Sentivo il cordone ombelicale riavvolgersi intorno alla gola, succhiarmi via il colorito. Scivolai su un fianco. Il cuore mi cadde nel petto e incespicò. Le braccia e adesso anche le gambe perdevano sensibilità. La voce di donna che chiedeva: «Qual è la sua emergenza?» era talmente lontana... Avrei voluto dirle che stavo avendo un infarto. Avrei voluto chiederle di mandare un'ambulanza. Ma non riuscivo a rispondere. Non a quella domanda. L'ultima volta che l'avevo fatto, avevo dato inizio a un lungo, lungo processo di uccisione di mia madre. Un processo che si stava concludendo solo adesso. La voce di donna era più forte, calma e ferma. «Pronto? Può parlare? Qual è la sua emergenza?» Mi mancava l'aria per rispondere. Non ci provai nemme37


no. Spinsi via il cellulare, che scivolò sul parquet lucido mentre la voce incorporea continuava a chiamarmi. Mi voltai dall'altra parte, verso le tenebre, dopotutto il karma esisteva. Lasciai che mi accadesse tutto quello che meritavo. Lasciai che mi accadesse, finalmente.

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