GRAEME CAMERON
NORMAL traduzione di Alessandra De Angelis
ISBN 978-8-86905-118-0 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Normal Mira Books © 2015 Graeme Cameron Traduzione di Alessandra De Angelis Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2016 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins luglio 2016
A Oscar, Lewis, Sophie, Eve e Tracie e a Jamie Mason, per tutto.
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Ora sapevo parecchie cose interessanti riguardo a Sarah. Aveva diciotto anni e aveva concluso le superiori a luglio, con il massimo dei voti in chimica, fisica, biologia e inglese. Il diploma era in bella mostra in una cornice d’argento su un tavolino basso in soggiorno, insieme alla lettera con cui l’università di Oxford le comunicava che la sua domanda di ammissione era stata accettata. Il prossimo settembre avrebbe cominciato a frequentare la facoltà di Psicologia al St. John’s College per il corso di laurea in Psicologia sperimentale. Attualmente si era concessa un anno sabbatico e faceva la volontaria in un canile. Nel tempo libero Sarah disegnava, giocava a pallavolo e collezionava orsacchiotti. Leggeva molto, soprattutto fantasy; sul comodino aveva Il mondo in un tappeto di Clive Barker, e aveva appena finito il secondo capitolo, o almeno era lì che aveva messo il segnalibro. Frequentava un certo Paul, nonostante lo considerasse un vero bastardo perché non intendeva lasciare Hannah, che veniva definita una zoccola spaziale e aveva dalla sua due doti indiscutibili: un bel davanzale e un buon controllo del riflesso faringeo. Sarah era notevolmente turbata da quella situazione ma non poteva confi-
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darsi con sua madre perché, come scriveva nei messaggini, non avrebbe capito e avrebbe dato di matto come l’ultima volta. Invece si era rivolta alla sua amica Erica, che aveva un paio d’anni più di lei e ai suoi occhi era più scaltra e smaliziata. Ovviamente Sarah non aveva parlato con sua madre neanche della loro amicizia. Il consiglio di Erica la diceva lunga sul suo modo di affrontare e risolvere i problemi di natura sentimentale: “Tagliagli il pisello e faglielo mangiare”. La camera di Sarah aveva le pareti dipinte di lilla, una tinta delicata e femminile da cui trasparivano ancora qua e là tracce della vecchia carta da parati a fiori. Il letto era a una piazza, con la trapunta bianca. Sarah era disordinata e lasciava sempre indumenti, biancheria e asciugamani umidi sparsi a terra quando si vestiva o si spogliava. Un esercito di orsacchiotti invadeva le mensole e il piano del comò. Molti avevano ancora l’etichetta attaccata. La collezione era talmente nutrita che nessuno avrebbe mai avuto la pazienza di contare tutti i peluche. Erano sessantasette. Quella mattina Sarah aveva passato meno di mezz’ora in bagno e cinque minuti a lavarsi i denti. Non aveva carie né otturazioni, ma lo smalto era rovinato perché si spazzolava i denti troppo energicamente. Usava anche un dentifricio sbiancante che si passava spremendone un po’ sull’indice nel vano tentativo di togliere le macchie di nicotina. In casa non c’erano posacenere; Sarah nascondeva sigarette e accendino in un paio di collant appallottolati nel cassetto di mezzo del comò. Il giorno dopo sarebbe stato il suo compleanno. Sarah aveva già ricevuto diversi biglietti di auguri che erano in fila sulla mensola del caminetto in soggiorno come tanti soldatini. Quella mattina qualcuno aveva fatto le
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pulizie, ma sul tavolino basso davanti al divano c’erano già una tazza vuota e una rivista di gossip aperta. Sarah aveva la fastidiosa abitudine di lasciare il televisore acceso, anche quando non lo guardava. Avevo scoperto anche che si depilava l’inguine con le pinzette, che le piaceva vestirsi di verde, sognava di andare in Australia, aveva la patente ma non la macchina. L’ultimo DVD che aveva guardato era Buffy l’ammazzavampiri, il film, non la serie televisiva che ne era stata tratta in seguito. Sarah doveva esserne una fan, visto che aveva chiamato Buffy il gatto. Ah, quasi dimenticavo... Su Sarah avevo altre tre informazioni: l’ultima cosa che aveva mangiato era stato un piatto di lasagne, era morta per la rottura dell’aorta e la sua lingua sapeva di zucchero e cannella. Per fortuna il pavimento della cucina era di cotto e riuscii a trovare con facilità nel retrocucina l’occorrente per pulire: secchio e spazzolone, stracci, candeggina, sacchi della spazzatura condominiali e sgrassatore spray. Non era mia intenzione ucciderla lì, perché avevo un milione di cose da fare e pochissimo tempo a mia disposizione, per cui intervenire sull’arteria era stato un fastidioso imprevisto. Tuttavia dovevo congratularmi con me stesso per la mia prontezza di spirito perché avevo reagito rapidamente per evitare che il sangue spruzzasse sulle pareti. Avevo staccato gli arti con il seghetto per metalli, poi li avevo tagliati ancora in due per praticità. Braccia e polpacci erano entrati facilmente in un sacco dell’immondizia insieme alla testa; in un altro avevo messo cosce e glutei, poi avevo spostato il tutto vicino all’ingresso posteriore, a distanza dalla pozza di sangue. Il busto era stranamente pesante, nonostante Sarah fosse mingherli-
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na, e avevo dovuto infilarlo in un sacco dentro l’altro per evitare che si rompesse e fuoriuscisse qualcosa. Ripulire fu un’operazione relativamente semplice. Misi i miei vestiti sporchi in un borsone e mi lavai la faccia al lavello della cucina. Lo sgrassatore fu sufficiente per eliminare gli schizzi dagli sportelli dei pensili e pulire i piani dei mobili e il tavolo da pranzo dopo aver fatto scolare il sangue sul pavimento. Quella fu la parte fu più impegnativa; ci vollero tre secchi pieni di acqua e candeggina e tutti gli stracci che riuscii a trovare per farlo tornare immacolato. Svuotai i secchi nel lavello d’acciaio inox, per cui bastò una passata di pezzuola e detergente per pulirlo a specchio. Mi impensierivano di più i due solchi che avevo lasciato sul tavolo della cucina perché ero stato maldestro con la mannaia. Delle gocce di sangue avevano intriso il legno, ma erano quasi invisibili ed era difficile notarle perché il piano del tavolo era piuttosto vecchiotto e graffiato in più punti. Nel complesso ero soddisfatto; avevo fatto un bel lavoro. Nessuno si sarebbe accorto che ero stato lì. In effetti l’unica cosa fuori posto in quella casa ero io, dopo avere portato i sacchi della spazzatura in cortile e messo a posto gli attrezzi. Un altro colpo di fortuna: il padre di Sarah aveva all’incirca la mia corporatura. Avevo già preso dall’armadio un paio di pantaloni color tabacco e un vecchio pile verde oliva, che odorava vagamente di muffa e aveva i gomiti logori ma era asciutto e pulito, e questo era l’importante. Soddisfatto, mi infilai il giubbotto e le scarpe, uscii e chiusi piano la porta alle mie spalle. In linea con i dettami dell’urbanistica moderna, tra
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la casa degli Abbott e quelle dei vicini c’era una striscia di prato, sormontata da una recinzione a pannelli che dava al passaggio un’aria un po’ soffocante e claustrofobica, ma serviva a garantire un minimo di privacy. I pannelli erano fissati al muro di mattoni in fondo al cortile sul retro. Il muro era più alto di me di circa quindici centimetri, per cui decisi di andare a prendere il furgone per tornare a caricare i pezzi di Sarah senza farmi vedere. Presi la rincorsa e mi issai in cima al muro per scavalcarlo; atterrai su un tappeto di ramoscelli secchi e foglie marce. Il riparo offerto dagli alberi era a pochi metri dal muro di recinzione, ai piedi di un ripido pendio. Era lì che mi ero nascosto e avevo visto la sagoma di Sarah che si spogliava in bagno, poi il vetro che si appannava per il vapore. Ero così vicino che udivo persino lo scroscio dell’acqua; mi sarebbe stato utile perché Sarah non mi avrebbe sentito entrare, una volta chiusa la porta del bagno. Ora era tutto diverso, pensai mentre camminavo tra i pini per tornare verso la strada. Ricordavo che l’alba era un momento perfetto nella sua quiete assoluta, con i tetti appena imbiancati, gli scricchiolii e i fruscii di foglie e rami al passaggio degli animali del bosco. Adesso si udiva il rombo sordo dei motori diesel dei camion, il rumore delle betoniere, la radio in sottofondo e il tap tap ritmico della cazzuola sui mattoni. Il frastuono tipico di un cantiere al lavoro era cominciato poco dopo il mio arrivo. Il quartiere residenziale sarebbe stato tranquillo e riposante una volta completata la costruzione delle villette, ma ora era un vero inferno. L’unico vantaggio era non dovermi muovere di soppiatto in punta di piedi per non farmi sentire.
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Riflettendo, però, sentivo che mancava qualcosa, anche se non avrei saputo individuare esattamente cosa. Mi mancava un peso che mi sbatteva contro la gamba quando camminavo e mi trasmetteva una sensazione familiare e rassicurante. Solo quando arrivai al furgone mi accorsi che avevo chiuso dentro le maledette chiavi. L’idea di rompere il finestrino mi infastidiva terribilmente, ma sarebbe stato impossibile forzare le serrature ermetiche del Transit, per non parlare dell’allarme perimetrale che avevo ordinato espressamente tra gli optional; la sirena si sarebbe messa a ululare come un lupo in calore. Mi ero premunito contro eventuali tentativi di furto, ma questo significava che il furgone era impenetrabile anche per me. Valutai le alternative, e calcolai che avrei impiegato troppo a prendere un taxi per tornare a casa a recuperare il duplicato della chiave; avevo dei tempi troppo stretti. Perciò alla fine mi rassegnai; per fortuna non mi fu difficile trovare un mattone con cui spaccare il finestrino. Ero di nuovo in pista, anche se ora faceva un freddo cane nel Transit. Avevo lasciato Sarah accanto al cancello posteriore del giardino. Parcheggiai nel vialetto d’accesso a marcia indietro per farmi vedere il meno possibile. Mi soffermai giusto un paio di secondi a controllare che la finestra del bagno di servizio sul retro fosse rimasta chiusa. Avevo scheggiato la vernice dell’infisso e c’erano delle scalfitture nel legno ma il vetro era intatto e la maniglia reggeva, anche se era solo appoggiata. A giudicare dagli scatoloni ammassati all’interno e dalle ragnatele agli angoli, veniva usato più come ripostiglio che per fare
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pipì, e difficilmente il danno sarebbe stato notato tanto presto. Vidi con piacere che Sarah non aveva avuto perdite di sorta. Caricai rapidamente i sacchi più leggeri nel furgone ma, quando mi girai per issare quello più pesante, spostai casualmente lo sguardo verso la porta ed ebbi un tuffo al cuore. Il viso della persona che mi scrutava con aria interrogativa mi era familiare; l’avevo già visto in una piccola istantanea, di quelle che si fanno nelle cabine per le fototessera ed escono a strisce di quattro. Sarah la usava come segnalibro nel suo diario, da cui era caduta quando mi ero disteso sul suo letto per leggerlo. Era lei, Erica, non c’era dubbio. Mentre mi fissava perplessa, a bocca aperta e occhi sgranati, con il dito sul campanello, mi sembrava quasi di sentire gli ingranaggi del suo cervello che si mettevano in moto con un rumore farraginoso. Sapevo sin troppo bene dove la stessero portando i suoi ragionamenti, perciò cercai di depistarla con un sorriso cordiale e un cenno di saluto. «Ehilà, tranquilla, non sono un ladro» le dissi. Lei cambiò subito espressione. «Oh, no, no, non l’ho pensato» rise con aria di scuse. Quando mosse la testa, qualche ricciolo le cadde sugli occhi. «Sono dell’Esercito della Salvezza, sono venuto a prendere dei sacchi d’indumenti usati» le spiegai. «Cerchi la ragazza?» Erica si stava avvicinando. La sciarpa di lana ondeggiava insieme ai suoi fianchi a ogni passo e i boccoli scuri ballonzolavano al ritmo della sua falcata decisa. I seni prorompenti smaniavano, ansiosi di balzare fuori dal primo bottone della giacca. Sentii un fiotto di adrenalina che mi pompava più rapidamente il sangue nelle vene; il
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rimbombo incalzante dei battiti del cuore nelle orecchie sovrastava quello dei martelli pneumatici e delle escavatrici che erano solo un rumore di fondo, attutito. «Esatto. Sai dov’è? Non risponde» mi disse. Ora era così vicina che sentivo il fruscio provocato dallo sfregamento dei jeans all’interno delle cosce mentre camminava. Avevo davanti a me un bivio; due sentieri da percorrere... ma dovevo essere svelto se volevo evitare una scenata. Però, come spesso accade davanti a uno spettacolo d’incomparabile bellezza naturale, non riuscii a resistere e la mia sincerità mi impedì di scegliere la via più comoda ed esente da pericoli. «Sì» risposi, serafico. «È in giardino.»
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