Rapimento e passione

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CAITLIN CREWS

Rapimento e passione


Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Kidnapped by the Viking Harlequin Mills & Boon Historical Romance © 2021 Caitlin Crews Traduzione di Giuliano Acunzoli Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2021 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Storici Seduction ottobre 2021 Questo volume è stato stampato nel settembre 2021 da CPI Black Print, Spagna, utilizzando elettricità rinnovabile al 100% I GRANDI STORICI SEDUCTION ISSN 2240 - 1644 Periodico mensile n. 134 del 23/10/2021 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 556 del 18/11/2011 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano


Dedica

Al mio professore preferito, Mark Amodio, che mi ha insegnato ad amare l’antica letteratura inglese tanto tempo fa


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E venne privata di ogni autorità e condotta nel Wessex. La vita di Aelfwynn Figlia della sola lady dei merciani Riportata dalle cronache anglosassoni Anno Domini 918 Il vichingo era fermo in mezzo all'antica strada come una montagna di pietra e paura, un gigante che bloccava la via nella foresta sempre più buia. All'inizio, Aelfwynn pensò di averlo solo immaginato. Cavalcava da troppe ore al freddo, preda del disagio di lasciarsi alle spalle il burh fortificato di Tamworth dove aveva visto sua madre, l'amata lady dei merciani, spirare sei mesi prima. Erano partiti quando l'alba tingeva il cielo, tenendo un buon passo nonostante la nebbia invernale. Lei aveva sentito ogni gelido, fangoso, infido sobbalzo fin troppo bene in quel triste giorno: in parte per il cavallo vecchio e stanco che suo zio si era degnato di concederle per il lungo viaggio verso sud, verso il regno del Wessex che lui governava, e in parte per il peso che le gravava sul 7


cuore. Ogni dolore, ogni sofferenza le sembrava infinitamente maggiore. Non riusciva a pensare alla vita serena e tranquilla che l'aspettava a Wilton Abbey. Il suo cuore anelava a ciò che si era lasciata indietro, a ciò che aveva perduto e che non poteva più venir recuperato. E poi, quel norreno era apparso come un incubo. Un incubo che lei aveva sofferto molte volte, sia dormendo sia da sveglia, grazie alle tante battaglie a cui aveva assistito nella vita – non personalmente, andava detto, ma di cui aspettava l'esito tremando per l'apprensione mentre si chiedeva chi sarebbe tornato e chi no. Era la nipote del grande Re Alfred del Wessex, l'unica discendente che la sua figlia primogenita, Aethelflaed, aveva messo al mondo. Combattere l'Orda Pagana che invadeva le loro terre nel costante tentativo di conquistarle e dominarle aveva consumato l'esistenza di tutti fin da quando ricordava. Lei incolpava il costante flagello dei vichinghi come quello, che fossero i terribili danesi o i sanguinari norreni, per la morte di sua madre lo scorso giugno e per quella di suo padre sette anni prima. Quegli ostili combattenti sbarcati da est, con il terrore, le scorrerie e le conquiste che li accompagnavano, non si fermavano mai. «Sconfiggili a ovest e attaccheranno di nuovo a est» diceva sua madre. «Poi a nord e quindi a sud.» L'unica certezza era il bagno di sangue che ne sarebbe seguito. Sempre e solo sangue, che ormai impregnava persino la terra su cui lei poggiava i piedi. Ma il biasimo e il sangue non le avrebbero sgomberato la strada quella sera. Il norreno era alto e massiccio, coperto di lana e pellicce 8


che non celavano affatto la sua natura. Che fosse un guerriero era evidente nel suo atteggiamento, una silente ma concreta minaccia. La neve che cadeva fin dal gelido mezzogiorno si era posata sulle sue grandi spalle, imbiancandogli la testa e la barba scura, ma lui non sembrava far caso né al freddo né ai due armigeri dalle dubbie capacità a cui suo zio l'aveva affidata di malavoglia. Il suo sguardo, una forza oscura e potente, colpì Aelfwynn come un pugno, rendendola felice di aver alzato il cappuccio della mantella per nascondersi. Sapeva però che nessun bandito l'avrebbe presa per una popolana, anche senza la scorta che l'accompagnava. Anzitutto montava un cavallo invece di camminare, e poi indossava abiti troppo raffinati. La mantella e il copricapo che portava sotto il cappuccio per scaldarle la testa e il collo erano di lana e poteva solo augurarsi che il vichingo non si accorgesse delle spille finemente lavorate che impedivano al copricapo di muoversi. Bastavano quelle per annunciare a tutto il regno chi era in realtà. «Indietro!» gridò uno degli armigeri. Un po' tardi, almeno secondo lei. Il norreno non si mosse. Sembrava prestare a quell'ordine la stessa attenzione degli alberi spogli accanto alla strada. «Stiamo viaggiando sotto il vessillo di Re Edward del Wessex» gridò l'altro armigero. «Osi sfidare la sua ira?» «Non vedo nessun re davanti a me» rispose il norreno, la voce un basso, ruvido borbottio che quasi diede le vertigini ad Aelfwynn. Il suo vecchio e nervoso cavallo prese a scartare di lato, verso la foresta in cui nulla di buono poteva aggirarsi. 9


Ma si direbbe che nulla di buono sia rimasto, pensò con un tocco di autocommiserazione che la fece vergognare non appena se ne accorse, con un gigante che blocca la strada. Riprese il controllo del destriero e si sforzò di accantonare i suoi pensieri cupi e inutili, sentendo per tutto il tempo lo sguardo del vichingo su di sé. Fremeva per ordinargli di spostarsi, proprio come avevano fatto inutilmente gli armigeri, anche se il loro tono tradiva la netta mancanza di coraggio che aveva spinto suo zio a sceglierli per quel compito sgradito e senza gloria. E avrebbe voluto dar seguito all'ordine sfoderando il pugnale che portava sotto i vestiti, pur sapendo che anche il norreno nascondeva le armi sotto il mantello. Ma se aveva imparato una cosa durante quell'ultimo, terribile anno, era nascondersi. Cedere ai suoi impulsi più oscuri, anche solo una volta e a prescindere dalla gioia che le avrebbe dato, significava mettere a repentaglio la sua vita. Era cresciuta alla corte di suo padre, per poi servire sua madre come dama privilegiata nei sette anni in cui Aethelflaed aveva governato dopo la morte del marito. Un anno prima era sicura del suo ruolo. Sua madre non temeva nulla, né uomini né armate. Aveva attaccato i cinque distretti della Danelaw, i territori lasciati con un accordo ai danesi che avevano ferocemente assediato quelle terre per più di un secolo. Nell'ultimo anno, la Lady di Mercia aveva saccheggiato Derby, accolto la resa di Leicester e le era stata offerta la lealtà dei danesi cristiani di York, ma era morta prima che potesse accettarla. Lasciando a lei il compito di continuare la sua opera. Aelfwynn, però, aveva capito da tempo l'idea di non essere come sua madre. Aveva troppa paura, e la mostrava 10


con eccessiva chiarezza. Sia gli uomini sia le armate – danesi, norreni, sassoni e tutti coloro che la circondavano – continuavano a sussurrarle all'orecchio cosa Mercia doveva fare per distinguersi dal potente alleato con cui confinava a sud: il Regno del Wessex governato da zio Edward, che si riteneva non tanto un alleato ma il loro legittimo sovrano che aveva graziosamente permesso alla sorella di governare al posto suo. Un favore che non intendeva estendere alla nipote, soprattutto se la lealtà di Aelfwynn non poteva venir garantita con la stessa facilità della madre. «Potrei darti in sposa a un alleato» le aveva detto quando era venuto a reclamare Tamworth, mandando in frantumi ciò che restava del sogno d'indipendenza di Mercia e incarnando tutti i timori che l'attanagliavano. «Ma gli alleati hanno la terribile abitudine di trasformarsi in nemici, non pensi?» Se lei avesse ascoltato quei mormorii, dando seguito alle richieste e implorazioni che le venivano rivolte, oppure affrontando apertamente suo zio come sua madre soleva fare senza pensarci due volte, lui l'avrebbe trattata come uno di quei nemici. E nessuno l'avrebbe biasimato. Aelfwynn se ne rendeva perfettamente conto. Il suo silenzio, la mansuetudine che avvolgeva attorno a sé come un manto spesso di lana, a prescindere da come la faceva sentire o da quanto pizzicava, l'aveva salvata. Era il motivo per cui le veniva concesso di ritirarsi in un'abbazia fino alla fine dei suoi giorni, invece di venir uccisa come suo zio avrebbe facilmente potuto fare. Nemmeno per questo qualcuno l'avrebbe biasimato. «Mi sto mostrando pietoso, nipote» le aveva detto men11


tre le comunicava la decisione con occhi scintillanti, guardandola non proprio con affetto ma neppure con ostilità. «È il dono che ti faccio in memoria di mia sorella.» Quel giorno, proprio come adesso, aveva chinato la testa ignorando la piccola parte della sua coscienza che fremeva per combattere seguendo l'esempio di sua madre. Condurre le armate. Radere al suolo le città. Controllare i regni. Colpire duramente il nemico finché non tremava davanti a lei. Ma c'era solo una lady dei merciani, ed era fin troppo consapevole di poter essere soltanto una delusione a confronto di Aethelflaed. E difatti lo era stata. E non solo perché ciò che davvero voleva non erano quei giochi di guerra, ma la pace. Continuava a volerla, come sempre aveva fatto, usando i pochi strumenti a sua disposizione. Teneva un basso profilo e si mostrava devota, con le sue preghiere che diventavano una graziosa melodia in latino ecclesiastico contro la tenebra incombente. «Sono qui per la lady che scortate» disse il norreno agli armigeri. La sua voce non era aggraziata, né tantomeno melodica, ma l'effetto fu innegabile. Continuava a restare immobile in mezzo alla strada, come se fosse davvero fatto di pietra. «Non ho nulla contro di voi, ma provate a combattere o anche solo a resistere e il vostro sangue imbratterà questi alberi.» Pronunciò quell'affermazione minacciosa con una voce così tranquilla e oscura che Aelfwynn si sentì tendere in tutto il corpo. Un brivido la scosse, e tuttavia la sua unica reazione fu la stessa che aveva avuto fin dalla scomparsa di sua madre: chinare la testa e sperare che, di nuovo, coloro che non avrebbe mai potuto combattere, e sconfigge12


re, avessero pietà di lei. Tutto pur di continuare a vivere. Il norreno valutò i due armigeri che l'affiancavano, come se la debolezza del loro carattere fosse scritta in volto. «Se ve ne andate adesso, nessuno saprà cosa è successo.» «La principessa appartiene all'abbazia di Wilton» replicò uno degli armigeri, anche se suonò più come una domanda che un'affermazione. «Destinata agli ordini monacali per ordine del sovrano.» «Queste strade sono infide in inverno» continuò tranquillamente il vichingo. Aelfwynn gli lanciò un'occhiata e si accorse che il suo sguardo era intenso e puntato su di lei. «Banditi e lupi vi abbondano. Chi può dire quali disgrazie potrebbero capitare a una fanciulla tanto delicata in una foresta così buia?» Il respiro di Aelfwynn si fece corto. Smise di fingere di pregare, perché i due armigeri si guardarono per poi studiare il vichingo con una riluttanza e una paura fin troppo evidenti. Nessuno dei due la degnò di un'occhiata. Come se non contasse nulla per la loro decisione. «Mio zio è un uomo potente e Mercia adesso gli appartiene» ricordò a entrambi, sperando che anche il gigante sulla strada prestasse ascolto. «Volete forse sfidarlo?» Il vichingo la studiò con insistenza, come se non si accorgesse della notte sempre più buia o della neve che continuava a cadere. Come se sapesse già il modo in cui sarebbe finita. «Forse fareste bene a chiedervi se osate sfidare me» replicò con un borbottio carico di oscuri presagi. Aelfwynn si ritrovò a trattenere il fiato per lo strano tumulto che le imperava dentro. Non sapeva se il barbaro si 13


rivolgeva ai due tremanti armigeri oppure, ed era ancora peggio, direttamente a lei. Elevò una silente e fervida preghiera al cielo, supplicando Dio di mandare altri viandanti sulla strada in grado di porre fine alla minaccia, visto che gli armigeri a cui suo zio l'aveva affidata non potevano. Tuttavia, sapeva bene che solo un pazzo o un mostro si sarebbe aggirato con quel freddo, lontano da ogni riparo in una notte di bufera. Era fin troppo evidente che nessuno stava percorrendo quel tratto dell'antica strada... e che lei era persino più pazza degli altri per aver sperato di sfuggire indenne al dolore e al caos che avevano imposto il loro dominio in quel buio anno. Pertanto, non avrebbe dovuto sorprendersi quando gli armigeri voltarono i cavalli senza lanciarle neppure un'occhiata, per poi spronarli e fuggire al galoppo nella direzione da cui erano arrivati. Codardi fino alla fine. Aelfwynn abbandonò in tutta fretta la sua aria dimessa, voltando il povero ronzino... Ma lui la bloccò, quel gigante norreno, senza neppure muoversi. Le sfilò le redini di mano, togliendole il controllo della sua inutile cavalcatura con disarmante facilità, poi attese. Continuava a studiarla con occhi tranquilli e tenebrosi, come se volesse sfidarla a combatterlo quando la sua scorta era fuggita. Lei aveva il pugnale legato alla coscia, con le cinghie del fodero che affondavano nelle lunghe ghette che portava sotto le gonne. Ma come poteva estrarlo con lui che la guardava? Senza dubbio non sarebbe rimasto immobile mentre lei spostava la mantella di lana e la sopravveste imbottita, poi la graziosa tunica ricamata e le collane che 14


appartenevano a sua madre – tutto ciò che indossava prima di poter arrivare all'unica arma a sua disposizione seduta sul cavallo. Era troppo imponente, troppo vicino. L'avrebbe fermata proprio com'era successo col suo inutile destriero. E c'era una luce nei suoi occhi scuri che la spingeva a chiedersi non solo se sapeva che era armata, ma anche dove aveva nascosto il pugnale prima di partire da Tamworth quella mattina. La rendeva molto più consapevole di quanto fosse forte e pericoloso, anche senza sfoderare le armi che adesso gli vedeva sotto il mantello. «Lasciatemi andare» gli ordinò con tutta la dignità possibile, visto che le tremavano le mani. «E vi prometto che non vi saranno conseguenze.» Lui la studiò. «E quanto valgono le tue promesse quando non puoi mantenerle? Non riesci neppure a difendere te stessa.» Aelfwynn nascose le mani nelle ampie maniche della mantella, in modo che il norreno non le vedesse tremare. Voleva ardentemente coprirsi il volto con il cappuccio, ma non osava. Sapeva di dover temere le oscure passioni degli uomini eccitati e non intendeva alimentare pericolosi ardori. Pensò a sua madre, sempre pronta per la battaglia e tuttavia sempre tranquilla, e chinò la testa. Il fatto che lui fosse più alto e più massiccio degli uomini che conosceva, tanto da non dover abbassare neppure lo sguardo per incontrare i suoi occhi, le dava una strana sensazione nelle profondità del ventre. «Ve lo hanno detto gli stessi armigeri. Mio zio è Edward, Re del Wessex.» Lo studiò in volto aspettandosi di vedere soggezione, se non timore, casomai non avesse no15


tato che la scorta recava il vessillo con il dragone dorato e il nome del sovrano. Ma il vichingo non batté ciglio. La sua espressione restava scolpita nella pietra. «Adesso si trova a Tamworth, quasi un giorno di cavallo da qui, e se dovesse capitarmi qualcosa non ne sarà felice.» «Tu dici?» replicò lui, suonando quasi divertito anche se la sua dura espressione non tradiva nulla. Continuando a studiarla attentamente, aggiunse: «Tuo zio non ti vede con favore, Lady Aelfwynn. Altrimenti non ti avrebbe spogliata dei tuoi diritti ereditari prendendo per sé il Regno di Mercia». Lei restò raggelata, poi un gran caldo la pervase. Il terrore le intorpidì le labbra, anche se continuava a dirsi che era per via della neve. «Come fate a conoscermi?» «E chi non ti conosce?» replicò il norreno con una tranquilla minaccia nella voce, negli occhi scuri un lampo che lei non riuscì a interpretare. Ma lo sentì come se le avesse posato quelle grandi mani sulla pelle. «Tu hai più diritto a reclamare Mercia dell'uomo che attualmente la governa, eppure stai fuggendo.» Aelfwynn sapeva di non essersi immaginata l'enfasi con cui aveva pronunciato quelle ultime parole. Restò immobile, sforzandosi di non cedere al panico. Desiderò di trovare il coraggio necessario per balzare giù dal cavallo, che lui continuava placidamente a tenere come se ormai gli appartenesse con colei che lo montava, per poi fuggire e giocarsi le sue ultime possibilità nei bui anfratti della foresta. Ma il norreno non aveva torto su quelle lande così remote: erano pericolose persino alla luce di un giorno estivo. E adesso, nel pieno dell'inverno, non avrebbe trovato 16


altro tra gli alberi spogli che una morte brutale, in un modo o nell'altro. Sentì un lupo ululare in lontananza e non riuscì a sopprimere un brivido per quel suono desolato. «Forse dovresti chiederti cos'ha in mente tuo zio per te» riprese il guerriero, indicandole la foresta e la strada. Le ultime, pallide luci del tramonto illuminavano le cime degli alberi, un cupo monito. «Sta calando la notte e tu sei ben lontana da qualunque rifugio. Se fossi caduta in un'imboscata, come avrebbe potuto difenderti quella scorta? Sono fuggiti senza neppure aspettare che sguainassi la spada.» Ma io sono caduta in un'imboscata, pensò Aelfwynn con il cuore che galoppava. Tesa da un solo norreno. Che uomo era quello per offrirle tranquille parole e strani enigmi quando poteva facilmente ucciderla? Quando lei vedeva il caos e la distruzione nei suoi occhi e sapeva senza dubbio ciò che era – un guerriero così diverso dai due che l'avevano abbandonata da appartenere a un'altra stirpe. Un guerriero che poteva affrontare le foreste, i lupi e ogni altra minaccia gli si parasse davanti. Un norreno pagano che non avrebbe esitato a versare sangue, reclamare il bottino e saccheggiare tutto quello che bramava. «A volte, ammettere la verità non porta alcun vantaggio» mormorò Aelfwynn, desiderando che il vecchio detto che tanto piaceva a sua madre potesse offrirle un po' di conforto anche quella notte. Ma il freddo, il panico e lo sguardo impietoso del norreno stavano avendo la meglio, a prescindere da quanto duramente li combattesse. «Sagge parole.» Le labbra scolpite del vichingo si pie17


garono in un sorriso e lei si sentì scaldare dentro, una vampata che si accompagnava a un grido di terrore. «Dici che basteranno a salvarti?» Lei studiò quel volto, quello sguardo fisso e snervante, cercando una pietà che non c'era. Da vicino, non poté evitare di notare dei dettagli che sembravano insinuarsi sottopelle. Aveva i capelli scuri ammantati di neve, raccolti in trecce che li tenevano lontani dal viso. La barba aveva la stessa ricca sfumatura, sebbene fosse a sua volta coperta di neve a cui il vichingo non sembrava fare caso. Anche il suo sguardo era scuro ed eccitante, con occhi che avevano lo stesso colore della notte – un profondo, intenso blu. Era un rude guerriero, questo sembrava chiaro, anche se purtroppo non orribilmente brutale come avrebbe preferito. Al contrario, era difficile distogliere lo sguardo da lui. Si era mosso con una tale agilità, nonostante la sua mole. E ostentava quella sicurezza che pochi uomini possedevano, come se fosse il mondo ad appartenergli e non viceversa. Era magnifico e al contempo terrorizzante e Aelfwynn si sentiva completamente preda del potere che emanava. Sua madre era cresciuta apprendendo le tattiche militari che le venivano insegnate dal padre, Re Alfred, che aveva più volte messo in rotta le armate vichinghe, norreni o danesi che fossero, quando governava. Aethelflaed si era sempre aspettata di comandare l'esercito un giorno e si era preparata sia con lo studio sia con l'azione, oltre che con il famigerato decreto con cui aveva stabilito che, avendo dato al marito un'unica figlia in dieci anni di matrimonio, non avrebbe più provato a mettere al mondo altri bambini, correndo il rischio del parto. 18


Lei le avrebbe consigliato di affrontare quella situazione con l'astuzia, non con il panico. Sentiva terribilmente la sua mancanza. Ma i faticosi mesi di politica e finzioni erano alle sue spalle ormai. Adesso c'era solo quel vichingo e la foresta, gli ululati dei lupi e una resa dei conti nella gelida notte, che le piacesse o no. Pregare non sarebbe servito a mandarlo via. Fuggire era impensabile. L'aveva catturata senza neppure sguainare la spada. Ecco la vergogna che doveva affrontare. E contava di affrontarla, se solo viveva, avvolta nel buio con un pugnale che non poteva prendere e un cavallo che non voleva correre. La scorta di suo zio era ormai lontana e la sicurezza una favola che veniva raccontata attorno al fuoco nelle sale della sua gioventù. Si era lasciata alle spalle tutto ciò che conosceva e l'unica cosa che le restava era... se stessa. Sempre e solo se stessa. Qualcosa fiorì dentro di lei. Un piano, forse. Sicuramente non il cieco terrore che la faceva sentire raggelata come la vecchia strada che stava percorrendo. Io sono la figlia di mia madre, si disse. Che lo sembri oppure no. E per dimostrarlo, non si ritrasse dall'uomo che la studiava da vicino con uno sguardo troppo intenso e consapevole. Invece sorrise. «Non credo che vi stiate aggirando nel bosco coperto di neve e col tempo che sta peggiorando per atteggiarvi a salvatore, norreno. Voi mi aiuterete oppure mi ucciderete: la scelta è vostra, oserei dire, e solo noi due e i lupi ne verremo a conoscenza.» 19


Suonava tranquilla e sicura, anche se dentro di sé si sentiva in fiamme. Ma il sorriso restò al suo posto, perché nelle sue vene scorreva il sangue di re e regine e anche lei voleva combattere. Nel solo modo che le era concesso. Gli occhi blu mezzanotte del vichingo si accesero. Lei non distolse lo sguardo. «Quindi, dovete solo dirmi che cosa devo fare perché non alziate la mano su di me, e io obbedirò.»

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