San Pedro de Macorís, 1904
Sebastian Linares si era sempre sentito più a suo agio nei campi di canna da zucchero fuori città, piuttosto che tra le case riccamente ornate di San Pedro de Macorís. A dire il vero, dell'animata cittadina portuale apprezzava soltanto la fresca brezza marina che soffiava tra gli edifici, allontanando il gran caldo e divertendosi a scompigliare cappelli, orli di gonne e rami d'alberi.
Ma non era alla brezza che stava pensando quando scese da cavallo e legò l'animale a un palo, fuori dall'edificio rosso e bianco che ospitava i vigili del fuoco. L'aria calda e umida gli premeva sulla pelle. Sebastian stava per tirare fuori dalla tasca un fazzoletto con cui asciugarsi il sudore sulle tempie, quando notò una carrozza fermarsi dalla parte opposta della strada.
Il cocchiere saltò giù dalla cassetta e aprì lo sportello nero, rivelando uno sprazzo di tessuto bianco, ancor più brillante del fazzoletto fresco di bucato di Sebastian.
Dal buio della carrozza emerse una delicata mano
ambrata, seguita da un cappello a falda larga che anche lui riconobbe essere ormai fuori moda.
E poi, come una rosa che schiudesse i propri petali, dalla carrozza uscì una donna che scese con l'aiuto del cocchiere e drizzò subito la schiena. L'abito dalla vita sciancrata e dalla gonna bianca e gonfia ondeggiò lievemente, accarezzato dalla brezza. Sebbene la donna non indossasse perle o gioielli che riflettessero la luce, Sebastian ne rimase abbagliato.
Era piuttosto sicuro di non aver emesso suono, perciò dovette essere la forza del suo sguardo ad attirare l'attenzione della donna. Lei piegò il capo e, quando la falda del cappello si mosse per svelarne il sorriso, fu come se il sole fosse comparso da dietro le nuvole.
Paulina Despradel. Era stata una presenza silenziosa e discreta nel corso delle due visite che Sebastian aveva fatto alla quinta Despradel per concludere alcune trattative d'affari con il fratello di lei, Antonio.
In quel momento, però, non c'era nulla di discreto in Paulina.
Fu chiaro dalla sua espressione che lo aveva riconosciuto. Sebastian, in ritardo, si toccò il cappello e chinò la testa in segno di saluto. Lei s'illuminò e prese ad attraversare la strada, girandosi verso la cameriera che si era messa a protestare. «Mio fratello non avrà certo nulla in contrario a un'amichevole chiacchierata con un vicino.»
La mano che allungò verso Sebastian era racchiusa in un fine guanto di tulle, cinto al polso da una gala di pizzo. Resistendo all'impulso di soffermarsi troppo su di essa, lui gliela strinse brevemente quando entrambi chinarono il capo per baciarsi sulle guance.
Sebastian non s'intendeva di moda femminile, ma anche al suo occhio inesperto l'abito di Paulina appa-
riva troppo carico di gale e balze. Per decorarlo era stata usata una quantità esagerata di pizzo, che ornava senza moderazione volant e falpalà. Sembrava quasi che la donna fosse sul punto d'essere ingoiata dal tessuto.
«Buongiorno, vecina» la salutò e, accertandosi di usare un tono formale, aggiunse: «È un piacere vedervi. Che cosa vi porta in città in una mattina tanto afosa?».
La proprietà che Sebastian aveva acquistato un anno prima era piuttosto distante dalla casa dei Despradel, così che raramente s'imbatteva in Paulina e suo fratello. Aveva incrociato Antonio per le strade di San Pedro in un paio di occasioni, ma era la prima volta che vedeva Paulina in città.
«Sto andando al negozio di Don Enrique a fare acquisti per il piccolo ricevimento che mio fratello terrà stasera in onore del mio compleanno.»
Paulina aveva le guance leggermente arrossate e Sebastian avrebbe dato la colpa al gran caldo, se gli occhi non le avessero brillato tanto.
Chinò il capo. «Vi faccio i miei più sinceri auguri.»
«Grazie, Señor Linares. Mi scuso per non avervi mandato un invito formale, ma sarei molto lieta se passaste da casa nostra per festeggiare con noi.»
«Vi prego, chiamatemi Sebastian» disse, per poi esitare. Non guastava essere cordiali, ma aveva davvero molto lavoro da sbrigare al mulino. «Per quanto l'idea sia allettante, temo che non riuscirò a venire. Tuttavia, sto andando anch'io da Don Enrique. Posso accompagnarvi?»
«Sarebbe molto gentile da parte vostra» gli rispose Paulina. Si incamminarono sullo stretto marciapiede, seguiti dalla cameriera. «Devo dire che è bello sapere di avere di nuovo dei vicini, soprattutto a Villa Con-
suelo, che è rimasta abbandonata per anni. Sono contenta che qualcuno finalmente la riporterà in vita.»
«Spero proprio di riuscirci» replicò Sebastian. L'edificio, che aveva almeno cent'anni ed era stato costruito con basi solide così da resistere ai terremoti e agli uragani, era ancora privo di mobili, e la proprietà era ancora malandata come l'aveva trovata al momento dell'acquisto quasi un anno prima. Tuttavia, Sebastian aveva grandi progetti e li avrebbe messi in atto presto, forse, se non fosse stato tanto occupato al mulino...
Paulina lo osservò da sotto la falda larga del cappello. «Che ne pensate della nostra piccola città?»
Sebastian ci mise un attimo per rendersi conto che la giovane credeva fosse uno dei tanti cubani fuggiti dalla loro casa per via della guerra e stabilitisi a San Pedro. Non la corresse. Dopotutto, era arrivato davvero dall'Avana e, per quanto lo riguardava, meno persone in città avessero saputo del suo passato e più facile sarebbe stato per lui integrarsi.
«Non è poi tanto piccola» rispose. «Si è ingrandita molto negli ultimi anni... o, almeno, così mi hanno detto.»
«Assomiglia all'Avana?» gli domandò lei curiosa. «Sotto certi aspetti, sì.» Sebastian aveva pensato poco alle differenze tra le due città, se non al fatto che in una aveva vissuto in una famiglia felice, e nell'altra in una famiglia povera. Cercò di rispondere con tono leggero. «L'Avana è come una vecchia contessa madre: splendida, prestigiosa e sicura del proprio ruolo nel mondo. San Pedro è bellissima, non c'è dubbio, e ogni giorno diventa più prosperosa, ma fino a poco tempo fa era a malapena un villaggio di pescatori.»
Il volto di Paulina s'illuminò in un sorriso. «Imma-
ginate che cosa si direbbero, se si incontrassero, la venerabile contessa e il piccolo pescatore.»
Sebastian non poté che ricambiare il sorriso a quell'idea, ma non rispose, poiché avevano raggiunto l'angolo della strada.
Le sei porte del negozio di Don Enrique, strette e alte, erano aperte per permettere alla luce e alla brezza di entrare. Paulina si fermò su una delle soglie, come a voler assaporare quella vista di scaffali ordinati e vetrine lucenti. Don Enrique vendeva merce importata, e la schiera di articoli ben confezionati doveva colpire molto la fantasia di Paulina.
Sebastian sapeva bene che sarebbe stato decoroso, a quel punto, augurarle una buona giornata e continuare per conto proprio. Aveva tante commissioni da sbrigare in città, ben più importanti che fermarsi da Don Enrique per acquistare ananas candito per la vedova del suo socio in affari.
Continuava a ferirlo pensare a Dilia come a una vedova. Si girò a osservare il volto di Paulina, quasi che la meraviglia che aveva dipinta sul volto potesse arrestare l'improvviso dolore che lo aveva colpito.
«Guardate quelle piume!» esclamò lei d'improvviso, indicando con un cenno del capo il banco che metteva in mostra minutaglia per decorare abiti e cappelli.
Sfilandosi il panama, Sebastian seguì Paulina che si diresse al banco. Le piume erano lunghe quanto il suo avambraccio e colorate come gemme. «Secondo voi, a quale uccello appartengono?»
«A uno che non vorrei certo incontrare» rispose lui.
Alla loro destra, si levò una risata da un capannello di tre signorine che provavano fiori di seta sui loro cappellini. Sebastian non poté non notare come lo sguardo di Paulina si spostò immediatamente su di lo-
ro e vi si soffermò, un po' triste. Una delle ragazze si girò a guardare Paulina, regalandole un sorriso curioso. Tuttavia, nessuna di loro si avvicinò per salutarla, quindi non dovevano essere sue conoscenti.
«Questi nastri sono meravigliosi» disse Paulina, rivolta un po' a lui e un po' al giovane commesso appoggiato alla scala fissata agli scaffali. Indicò un rocchetto sotto il vetro del banco. «Potrei vedere quello rosso?»
Il commesso la servì. Paulina intrecciò il nastro tra le dita, accarezzandone un capo con il pollice. Il rosso scarlatto risaltava sulla sua pelle ambrata.
«Questo colore vi donerebbe molto.» Una delle signorine si era allontanata dalle amiche e si era rivolta a Paulina con un sorriso onesto sulle labbra. «Io non potrei permettermelo, ma si addice invece molto alla vostra carnagione.»
«Dite davvero?» domandò Paulina, felice.
«Se non è troppo impertinente da parte mia, concordo» disse Sebastian. «In effetti, stavo proprio pensando che...»
Una mano si allungò ad afferrare il polso di Paulina. «Non ci servono nastri per oggi, grazie.»
Antonio Despradel era uno di quegli uomini convinti che il denaro e la condizione sociale conferissero un'autorità non ottenibile altrimenti. Sebastian lo aveva conosciuto quando aveva acquistato lo zuccherificio che Antonio aveva ereditato. Carlos, suo socio in affari, aveva commentato una volta dicendo che Despradel gli ricordava un gallo. Non di quelli che combattevano, ma piuttosto di quelli che spadroneggiavano nel pollaio, beccando le galline e gonfiando il petto. Un paragone davvero azzeccato.
Senza lasciare Paulina, Despradel si diresse verso il
lato opposto del negozio. «Santo cielo, Paulina. A volte mi chiedo se tu non abbia ancora dodici anni. È per questo che non voglio lasciarti da sola. Hai la stessa scarsa disciplina di un bambino.»
Sebastian non era un eroe, ma nemmeno una canaglia avrebbe lasciato che una donna venisse maltrattata in sua presenza. Raggiunse Paulina e il fratello, e allungò una mano per richiamare l'uomo battendogli sulla spalla. «Non è così che si tratta una signora.»
Despradel si girò, le labbra schiuse dalla sorpresa.
Sebastian non voleva litigare, non lì, in mezzo a quei fragili articoli di lusso. Sapeva per esperienza che il modo migliore di evitare una rissa era rendere minacciosa la propria voce. «A dire il vero, non si tratta nessuno in questo modo. Se fossi in voi, la lascerei.»
Le labbra di Despradel si piegarono in un sorriso cortese, mentre lo sguardo saettò da una parte all'altra, per accertarsi se i presenti stavano guardando verso di loro e capire se potesse farla franca. Sebastian non aveva alzato la voce, ma in ogni caso quasi tutti i clienti di Don Enrique si erano fermati, aspettando una disputa. Il silenzio calò sul negozio per un lungo istante, quindi Despradel lasciò il polso della sorella e si allontanò con ostentazione, sollevando le mani. «Non c'è bisogno di arrabbiarsi» disse in tono affabile. «Voglio solo che mia sorella si sbrighi. Abbiamo molte cose da fare prima della festa di stasera e lei è incline a distrarsi.»
«In ogni caso non è un buon motivo per toccare una donna con tanta malagrazia» replicò Sebastian con una cortesia esagerata che di certo non doveva riflettersi nei suoi occhi.
L'antipatia reciproca tra i due uomini fu spezzata da Paulina che, ormai libera, commentò secca: «Preferi-
rei non essere toccata da nessuno». Li superò entrambi. «Andiamo, Antonio, se hai tanta fretta.»
Gli spettatori, una volta compreso che non ci sarebbe stato alcuno spargimento di sangue, tornarono alle loro compere.
Sebastian indietreggiò, lasciando che la minaccia del suo sguardo fungesse da monito a Despradel. Questi gli rispose con un sorriso insolente che gli fece scattare qualcosa dentro.
Despradel sgranò gli occhi quando se ne accorse, ma Sebastian reagì passandogli accanto per raggiungere la giovane.
«Paulina?» la chiamò. «Ho cambiato idea. Sarò molto lieto di partecipare stasera alla vostra festa.»
«Tío Sebas!»
Per Sebastian poche cose erano gratificanti quanto l'entusiasmo con cui quei quattro bambini lo salutavano mentre si avvicinava all'elegante casa rosa in fondo alla strada.
Andavano dai quattro ai dodici anni e stavano giocando a palla davanti casa, quando lo videro arrivare e lo circondarono. L'esperienza aveva insegnato loro a rovistargli nelle tasche alla ricerca di caramelle.
Sebastian scoppiò a ridere quando otto manine gli s'infilarono nelle tasche con più smania che destrezza, a scapito del completo nero che di solito indossava in città. Ci misero pochi secondi a tirare fuori le biglie e i pilones acquistati da Don Enrique, e Sebastian era certo che ci avrebbero messo ancor meno a mangiare quelle caramelle rosse a forma di mortaio e pestello.
Era un cambiamento rincuorante e gradito rispetto alla diffidenza che gli avevano riservato il giorno in cui era giunto in città a cavallo con la notizia che il lo-
ro padre era crollato allo zuccherificio. Il più piccolo, David, figlioccio di Sebastian, aveva preso l'abitudine di scoppiare in lacrime ogni volta che lo vedeva arrivare, quasi fosse un messaggero di morte venuto ad annunciare la dipartita di una persona cara.
«Tío Sebas, ci porti a vedere la corriente?» domandò David, che aveva già la bocca sporca di un rosso che s'intonava al colorito delle sue guance.
La corrente? «La... cosa?»
«Vuole andare a vedere gli operai che stanno piantando i pali della corrente elettrica» spiegò José, il più grande. «La mamma ha detto che è pericoloso girare attorno agli operai che lavorano, ma non le dispiacerà se ci accompagnerai tu.»
Forse Sebastian era passato loro accanto, ma non li aveva notati, concentrato com'era su Paulina. Appoggiò una mano sui capelli ricci di José. «Purtroppo, oggi non posso. Devo parlare con vostra madre. È in casa?»
«È dentro» rispose David. «Cerca di non sciogliersi dal caldo, solo perché tutti qui pensano che ci si debba vestire come se fossimo in Europa, invece che in una cavolo di isola tropicale.»
Sebastian riconobbe le parole di Dilia.
«Ho capito.» Cercò di rispondergli seriamente, ma dovette sforzarsi di nascondere un sorriso. «Puoi andare a chiederle se posso entrare? Non vorrei disturbarla in caso non sia... vestita come un'europea.»
David salì di corsa i gradini. Sebastian si appoggiò alle sottili colonne bianche che sostenevano gli archi del porticato e si mise a osservare gli altri bambini che giocavano con le biglie nuove.
Una risata risuonò all'interno della casa, informandolo che David aveva consegnato il suo messaggio.
«Entra pure, compadre» lo invitò Dilia, affacciandosi a una delle finestre al piano superiore.
In casa era più fresco, ma non di molto. Dilia era seduta così vicino alla finestra, da non poter dire se fosse dentro casa o fuori. Era vestita decorosamente, con una gonna nera e una camicetta dal collo alto. Per combattere il caldo si era solo concessa un ventaglio colorato che stringeva in mano, sebbene i capelli leggermente striati di grigio fossero appiccicati alle tempie.
«Caldo, vero?» disse lui chinandosi a baciarla sulla guancia e appoggiarle in grembo la scatola di ananas candito prima di sedersi di fronte a lei. La poltrona di mogano con i cuscini ricamati aveva ornato un tempo il soggiorno della casa di Dilia all'Avana. Ogni volta che la vedeva, Sebastian provava un po' di nostalgia per i vecchi tempi. «Credo che oggi pioverà.»
«Non ne dubito» rispose lei, appoggiando il lavoro d'ago sul tavolino rotondo che aveva di fianco. «Ho mandato a prendere dell'acqua ghiacciata. Ti fermi per una tazza di caffè?»
«Non scomodarti.» Sebastian si poggiò il panama su un ginocchio. «Devo tornare al mulino. Sono solo passato in città per depositare del denaro sul tuo conto. Dovrebbe bastare per coprire le spese per un paio di mesi.»
«Già.» Il sorriso di Dilia si rifletteva anche negli occhi, ma ugualmente Sebastian si sentì invadere dall'apprensione. «Perché perdere tempo a bere un caffè con vecchie vedove quando si può passeggiare in compagnia di belle ragazze? Ti ho visto, prima, con la giovane Despradel.»
Sebastian annuì. «Mi ha invitato a una festa che terrà questa sera.»
«E tu hai accettato? Bene, bene...» Dilia inarcò un sopracciglio.
Sebastian scrollò le spalle. «Sarei stato un maleducato a declinare l'invito.»
«Non ti sei mai fatto di questi scrupoli in passato» osservò lei. «Oh, non fraintendermi... Credo sia meraviglioso che tu stia finalmente conoscendo i tuoi vicini. Sono soltanto sorpresa che tu abbia accettato di andare a una festa. Ti comporti come se avessi giurato con il sangue di trascorrere la vita al mulino.»
Antonio Despradel aveva portato lo zuccherificio alla rovina per via di una cattiva gestione. Solo con grande sforzo Sebastian e Carlos erano riusciti a guadagnare qualcosa durante il primo anno... ma c'era ancora molto da fare. Spesso Sebastian passava la notte in bianco a pensarci. Pensava al fatto che Carlos aveva investito tutta la sua fortuna per modernizzare il mulino in base ai suoi rigorosi dettami: macchinari per la lavorazione delle canne, che Sebastian aveva ritenuto indispensabili per migliorare lo zuccherificio e che facevano risparmiare sulla forza lavoro, certo, ma che erano anche costosissimi. Se non fosse stato per quelle macchine, la vedova di Carlos avrebbe avuto ancora i suoi soldi a disposizione.
E poi c'era la gente a pesare sulle spalle di Sebastian. Gli operai del mulino, che avevano bocche da sfamare. La famiglia di Carlos. Tutte quelle persone dipendevano dalla sua abilità di ricavare profitto sul mercato.
«Ho un obbligo nei confronti tuoi e dei tuoi figli» fu tutto ciò che riuscì a dire.
«Già, e dove finiremo se morirai di sfinimento a forza di lavorare?» Dilia ripiegò il ventaglio e gli diede un colpetto sul braccio. «Hai appena venticinque
anni, Sebastian, e non hai una famiglia tua. Parla con le belle ragazze. Va' alle feste. Dio solo sa quanto meriti di goderti un po' la vita.»
«Ciò che mi merito è di bere quest'acqua ghiacciata senza dovermi difendere da un possibile matrimonio combinato» replicò lui, sorridendo nel vedere l'entusiasmo di Dilia. «Combinalo a qualcun altro, amica mia. L'ultima cosa di cui ho bisogno è una moglie.»