SIMON TOYNE
traduzione di Giuliano Acunzoli
ISBN 978-88-6905-188-3 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Solomon Creed Harper An Imprint of HarperCollins Publishers © 2015 Simon Toyne Traduzione di Giuliano Acunzoli Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers Limited, UK Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins giugno 2017
A Betsy (No, i fagioli no!)
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Saggio è colui che sa di non sapere Socrate
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In principio c’è la strada, e io che cammino. Non ricordo chi sono, da dove vengo e come sono arrivato qui. C’è solo la strada e il deserto che si estende in ogni direzione sotto un cielo infuocato... ... e poi, ci sono io. L’ansia mi ribolle dentro e le gambe mi portano avanti a grandi passi, come se sapessero qualcosa che io ignoro. Vorrei dire loro di rallentare, ma anche nel mio stato confusionale so che non si parla alle proprie gambe, non se si è sani di mente, e io non credo di essere pazzo. No, non sono pazzo. Guardo il lucido nastro nero che taglia a metà una pianura sterminata. Sale e scende a seconda delle ondulazioni del terreno, tremolante per la calura che fa sembrare la strada evanescente e nasconde ciò che troverò più avanti. L’ansia cresce ancora. Sento che c’è qualcosa di importante da fare, sento che sono qui per questo, ma non riesco a ricordare cosa sia. Provo a respirare lentamente, spinto dalla convinzione, emersa da chissà dove, che serva a calmarmi e così distinguo vari odori nell’aria secca del deserto – il sentore di pece che si leva dal ramo spezzato di un cespuglio di
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creosoto, il puzzo dolciastro di un frutto di saguaro ormai marcito, il profumo acre del polline d’agave – ognuno perfettamente chiaro nella mia mente, caratteristico, noto, inconfondibile. E dai solidi semi di ciascuno di essi nascono mille nuove informazioni: nomi latini, nomi comuni e proprietà medicinali, questo è commestibile, quell’altro velenoso. Lo stesso accade se mi guardo attorno. Tutto ciò che vedo fa balenare nuovi nomi e un fiume di notizie mi riempie la testa fino a farmi ronzare le orecchie. A quanto pare conosco bene il mondo, eppure non so nulla di me stesso. Non so dove mi trovo. Non so perché sono qui. Non so neppure il mio nome. Una folata di vento mi spinge in avanti, portando un nuovo odore che fa esplodere l’ansia fino a trasformarla in paura. È fumo, acre e oleoso, e porta con sé il ricordo vago di qualcosa di terribile che giace sulla strada dietro di me. Qualcosa da cui devo fuggire. Comincio a correre, guardando avanti perché non oso voltarmi neppure per un attimo. Ma l’asfalto scotta: abbasso lo sguardo e scopro di non avere le scarpe. I piedi nudi mi balzano davanti agli occhi mentre corro, la pelle candida sotto il sole spietato. Alzo una mano e vedo la stessa pelle, tanto bianca da dover socchiudere gli occhi per quanto splende. Capisco che il sole mi sta ustionando e mi rendo conto di dover trovare subito un riparo, ma prima devo fuggire dalla cosa alle mie spalle. Davanti c’è un’altura e sento che, se riesco a raggiungerla, sarò al sicuro, che dopo potrò finalmente camminare tranquillo. Una nuova folata mi riporta l’odore del fumo, un’essenza velenosa che copre tutti gli altri aromi. La camicia comincia a impregnarsi di sudore. Mi accorgo di indossare una giacca grigia. Dovrei toglierla per stare più fresco, però mi protegge dal sole cocente e quindi alzo il colletto e
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continuo a correre. Una falcata, un’altra, sempre più lontano, via da quella cosa. E intanto continuo a pormi le stesse domande: chi sono? Dove sono? Perché sono qui? Le ripeto tante di quelle volte che infine qualcosa emerge dal vuoto della mia mente. Una risposta. Un nome. «James Coronado!» Lo grido d’un fiato prima che si perda di nuovo e sento un bruciore alla spalla sinistra. Ma è la mia voce a sorprendermi davvero, bassa, strana e sconosciuta. Il nome no, invece. Lo riconosco e lo dico di nuovo – James Coronado, James Coronado – sperando che sia il mio nome e che mi aiuti a ripescare qualcos’altro dall’oscuro abisso in cui sono sprofondati i miei ricordi. Ma più lo ripeto e più mi suona estraneo, fino a quando sono certo che non sia il mio nome. Non lo sento neppure vicino, eppure è collegato a me in qualche modo... come se avessi fatto una promessa a quell’uomo e intendessi mantenerla a tutti i costi. Raggiungo l’altura e un altro tratto di deserto si apre davanti a me, ma in lontananza scorgo un segnale stradale, e oltre una cittadina che si estende come una macchia scura sotto una catena di alture color ocra. Mi porto la mano alla fronte per ripararmi gli occhi e provo a leggere il cartello, ma è troppo lontano e il calore offusca le lettere. Però vedo qualcosa sulla strada, appena fuori dalla cittadina. Automobili. Vengono verso di me. Con luci lampeggianti rosse e blu. L’urlo delle sirene si mescola al ruggito del vento carico di fumo e io mi sento intrappolato nel mezzo. Guardo a destra, chiedendomi se devo lasciare la strada e addentrarmi nel deserto. Un nuovo odore mi raggiunge, spuntando da qualche parte tra cactus, rocce e arbusti, un odore che
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subito risulta più familiare di tutti quelli che ho sentito finora. Il lezzo di morte e decomposizione di una carcassa cotta dal sole, fetido e dolciastro, un monito di cosa può accadere a chiunque si perda in questa distesa sterminata. Sirene davanti a me, morte attorno a me... e dietro? Devo scoprirlo. Mi volto per vedere da cosa fuggo e il mondo diventa un inferno di fuoco. Un aereo giace al centro della strada, un ammasso di rottami in fiamme, le ali puntate verso l’alto come quelle di un enorme uccello consumato dal fuoco. La vegetazione tutto intorno brucia, creando un largo cerchio infuocato che si propaga da un cespuglio all’altro fino a lambire un gigantesco saguaro, i rami alzati in segno di resa, il fusto che si spacca e sibila quando la linfa al suo interno ribolle ed esplode in sbuffi di vapore. È magnifico. Maestoso. Terribile. Le sirene diventano più forti e l’incendio ruggisce. Una delle ali comincia a inclinarsi, trascinandosi dietro le fiamme mentre si piega, lacerandomi le orecchie con lo stridore del metallo che si spezza. Cade con uno schianto, e una colonna di fiamme e di fumo si leva nell’aria, come un tentacolo che sembra allungarsi verso di me per afferrarmi e riportarmi indietro. Arretro barcollando, poi mi volto. E ricomincio a correre.
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Il sindaco Ernest Cassidy alzò gli occhi dalla fossa scavata nell’arido terreno e guardò oltre la gente che si era raccolta lì per il funerale. Aveva sentito il tuono vibrargli dentro, come un boato che si propagava dal deserto. Anche altri l’avevano sentito, perché alcune delle teste chine in preghiera si erano voltate per scrutare l’infuocata pianura che si estendeva sotto di loro. Il cimitero sorgeva in alto, scavato nel fianco delle Chinchuca Mountains che circondavano la cittadina come un ferro di cavallo. Il vento caldo risaliva la valle, agitando gli abiti neri dei presenti e tempestando di granelli di sabbia le lapidi che testimoniavano il violento passato di quei territori in una sintesi ammirevole quanto brutale. Carrettiere. Ucciso dagli Apache. 1881. Mae Ling. Cinese. Suicida. 1880. Susan Goater. Assassinata. 1884. Bambino. 11 mesi. Morto per incuria. 1882. Un nuovo nome stava per aggiungersi all’elenco di coloro che la morte aveva chiamato, e quasi tutti i concittadini erano presenti. Avevano chiuso i negozi e sospeso le attivi-
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tà per l’intera mattinata per poter partecipare in massa al primo funerale che si teneva nel vecchio cimitero da sessant’anni a quella parte. Era il minimo, viste le circostanze, il meno che potessero fare. Quel giorno la loro città mandava un messaggio al futuro, come era accaduto negli ultimi, sanguinosi decenni del XIX secolo quando gli uomini assassinati, impiccati, scalpati e dannati erano stati sepolti lì. La folla si ricompose quando il tuono si spense e Cassidy, quel giorno in veste di predicatore, lasciò cadere una manciata di terra sul coperchio di una semplice bara di pino – un bel gesto, tutto sommato – per poi concludere la solenne cerimonia. «Perché polvere siamo» disse con il tono grave che teneva in serbo per i momenti drammatici, «e polvere ritorneremo. Amen.» Vi fu un mormorio di amen, poi un minuto di silenzio sferzato dal vento. Cassidy lanciò un’occhiata alla vedova, immobile sul ciglio della fossa come una suicida sul bordo di un precipizio. Gli occhi e i capelli splendevano al sole, più neri degli abiti che le folate le facevano svolazzare tutto intorno. Sembrava così bella nel suo dolore... bella e giovane. Amava profondamente il marito e saperlo, almeno per Cassidy, rendeva tutto ancora più tragico. Ma giovane com’era, avrebbe avuto il tempo di superare anche quel dramma e questo pensiero alleggeriva un po’ il peso che gli gravava sul cuore. Avrebbe lasciato la città per ricominciare da un’altra parte. Non c’erano figli, grazie a Dio, nessun legame con il passato, nessun piccolo volto che le ricordasse l’amore perduto. A volte, l’assenza di bambini è una benedizione. A volte. Avvertì un lieve trambusto tra i presenti e, quando sollevò lo sguardo, vide un cappello da poliziotto calare su una testa sale e pepe che si avviava in fretta verso l’uscita.
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Cassidy guardò il deserto e capì subito perché. Una colonna di fumo nero si alzava dalla strada a qualche miglio dalla città. Non era un tuono quello che avevano sentito: niente pioggia in arrivo neppure quel giorno. Solo altri guai.
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Lo sceriffo Morgan saltò in macchina e partì lentamente per non sollevare una nuvola di polvere che avrebbe investito la gente che aveva partecipato al funerale e ora si stava affrettando verso le auto alle sue spalle. Aveva sentito il boato e si era reso subito conto che non poteva trattarsi di un tuono. Quel suono lo aveva riportato indietro nel tempo, a quando indossava un’uniforme diversa e guardava i lampi dell’artiglieria che martellava una città straniera in un altro deserto. Era il rumore di qualcosa di grosso che si schiantava a terra, e la tensione gli aveva inardito la bocca. Mentre scendeva dalla montagna accelerò e premette il tasto accanto al volante per accendere la radio. «Qui Morgan. Mi dirigo a nord sulla Eldridge, verso un possibile incendio a tre miglia dalla città. Ci sono segnalazioni?» Il pesante fuoristrada sobbalzò e le gomme stridettero quando abbandonò lo sterrato e si immise sulla strada principale. La voce di Rollins, l’agente in servizio al centralino, gracchiò dalla radio. «Ricevuto, capo. C’è una chiamata da Ellie del Tucker Ranch. Dice di aver sentito un’esplosione a sudovest. Cinque unità stanno convergendo sul posto: due camion dei pompieri, una pattuglia, un’ambulanza dalla
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contea e un’altra dal King. Sei unità, contando anche lei.» Morgan lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore e vide parecchi lampeggianti un po’ più indietro sulla strada. Poi riportò lo sguardo davanti a sé, dove la colonna di fumo si gonfiava a un ritmo che non dipendeva dalla velocità a cui si stava avvicinando. «Non bastano. Chiama rinforzi.» «Cos’è successo, sceriffo?» Morgan studiò la colonna di fumo nero. «Be’, sono ancora lontano, ma il fumo si alza in fretta e sembra aumentare, quindi c’è qualcosa che alimenta l’incendio. Carburante, suppongo, visto che c’è stata anche un’esplosione.» «Sì, l’ho sentita anch’io.» «L’hai sentita in ufficio?» «Sì, capo. E l’ho anche avvertita.» Rollins era almeno un miglio più lontano di lui. Doveva essere stata un’esplosione notevole. «Vedi anche il fumo?» gli chiese. Nel silenzio che seguì, lo immaginò chino all’indietro sulla poltroncina del centralinista con lo sguardo fisso sulla sezione di finestra che riusciva a vedere dal suo posto. «Sì, sceriffo, adesso lo vedo.» «Il vento soffia verso la città, quindi datti da fare. Chiama l’aeroporto e fai alzare il Canadair. Se non prendiamo provvedimenti subito, la situazione ci sfuggirà di mano.» «Agli ordini, capo.» Morgan infilò il microfono nel supporto e si sporse in avanti. La colonna di fumo era alta diverse decine di metri e continuava a salire. Vedeva il punto da cui si innalzava, un enorme incendio con qualcosa al centro che distingueva sempre più chiaramente a ogni dosso che superava. Era così concentrato, così intento a capire se là davanti ci fosse davvero ciò che temeva, che si rese conto solo all’ultimo
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momento dell’uomo che correva sulla strada. La sua reazione fu tutta panico e istinto. Si buttò sulla destra, preparandosi a un impatto che non avvenne, poi sterzò a sinistra. Le ruote posteriori finirono nel terriccio cedevole della banchina e presero a slittare. Inchiodò sui freni per fermarle, poi premette l’acceleratore per riprendere trazione. Era a un passo dal testacoda, con le ruote posteriori che giravano a vuoto sollevando una nuvola di polvere e pietrisco. Schiacciò di nuovo il freno e si aggrappò al volante, cercando di non perdere il controllo del SUV finché non andò a sbattere contro un arbusto poco più avanti sul ciglio della strada. Il veicolo si fermò di colpo e lui sbatté la testa contro il finestrino. Restò perfettamente immobile per un istante, le mani sul volante, il cuore che batteva così forte da sovrastare il sibilo del vento e il picchiettare di sabbia e pietrisco sul parabrezza. Il primo camion dei pompieri lo superò sfrecciando, e mentre altra ghiaia pioveva sul parabrezza la radio prese a gracchiare. «Sceriffo, mi riceve?» Lui prese il microfono. «Sì, Rollins, sono qui» «Com’è la situazione?» Il secondo camion dei pompieri passò ancora più veloce, facendo ondeggiare il fuoristrada mentre si precipitava verso il muro di fuoco con l’aereo distrutto al centro. «È un inferno» mormorò. «Un vero inferno.» Si guardò attorno e, con una certa sorpresa, vide che lo sconosciuto c’era ancora. Si era lanciato di lato per evitare l’impatto e ora si stava rialzando da terra. Aveva un aspetto strano, fuori del comune, con la pelle innaturalmente candida e i capelli bianchi come la neve. Circolavano un sacco di storie su quella strada. Era stata costruita sull’antica pista dei pionieri e molti la ritenevano infestata dai fantasmi. La gente vedeva strane cose,
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soprattutto di notte, quando il freddo calava sul deserto come un colpo di maglio e dal terreno si levavano sbuffi di vapore che aleggiavano come spettri davanti ai fari delle macchine, eccitando l’immaginazione di persone che, come lui, avevano sentito quelle storie. Le denunce andavano dai cavalli fantasma ai carri coperti che fluttuavano a due spanne da terra. Lui però, fino a quel momento, non aveva mai visto nulla di strano. «Sceriffo? È ancora lì, capo?» Morgan si riscosse. «Sì» rispose, senza distogliere lo sguardo dallo sconosciuto. «Sì, sono qui. Notizie del Canadair?» «Sta per decollare, e probabilmente ne arriveranno altri due da Tucson. Ci vorrà un po’ per i permessi, ma ci sto lavorando. Una volta ricevuto il via libera, saranno lì in venti minuti.» Morgan annuì, ma non disse nulla. In venti minuti l’incendio si sarebbe propagato, creando un fronte largo il doppio o il triplo rispetto a quello che vedeva adesso. Altre sirene si stavano avvicinando, tutti i mezzi che la città poteva mettere in campo, ma sapeva che non sarebbe bastato. «Chiama le contee vicine. Bisogna mettere posti di blocco in tutte le strade, in modo che nessuno resti intrappolato in questo casino, e ci vogliono anche delle barriere tagliafiamme. E chiama a raccolta tutti quelli che hanno un camion e una pala: se vogliono che loro case siano ancora in piedi quando calerà il sole devono trovarsi al più presto all’ingresso del centro abitato, davanti al cartello segnaletico.» Agganciò il microfono, infilò una mano in tasca in cerca del cellulare, selezionò un contatto e aprì un nuovo messaggio. Le dita gli tremavano quando scrisse: Molla tutto. Il funerale è finito prima. Trovato niente?
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Inviò il messaggio e tornò a guardare lo sconosciuto. Contemplava l’incendio con una strana espressione in volto. Morgan sollevò il cellulare, gli scattò una foto e lo studiò. Sembrava risplendere sull’arido sfondo del deserto. Ricordava le illustrazioni dei libri e dei siti web che parlavano dei fantasmi avvistati nei dintorni della città, ma quelli erano fotomontaggi mentre lo sconosciuto era tutt’altro che finto. Era lì davanti a lui, in carne e ossa, e guardava i rottami dell’aereo con occhi grigio pallido che avevano la stessa sfumatura della pietra. Fissava dritto nelle fiamme. Il cellulare segnalò l’arrivo di un messaggio. Era la risposta. Niente di niente. Parto adesso. Maledizione. Niente che andasse per il verso giusto, quel giorno. Prese il cappello e aprì la portiera, avvertendo il ruggito dell’incendio e il calore del deserto proprio mentre lo straniero si voltava e riprendeva a correre.
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Ringraziamenti
È diventata una tradizione, per me, paragonare la stesura e la pubblicazione di un mio romanzo all’organizzazione di una festa ben partecipata. Quest’ultimo party, poi, ha richiesto dei preparativi più lunghi del solito e quindi c’è stato un vero e proprio esercito dietro le quinte che ha suggerito i brani della playlist, le portate del buffet, i drink e tutto ciò che renda speciale una serata perché la gente si diverta – anche se magari non proprio tutti – e quando alla fine se ne va, ti saluti con il sorriso sulle labbra e una pacca sulla spalla, felice, contenta... e perché no? Anche un po’ sbronza. Come sembra accadere sempre più spesso con le mie ispirazioni, anche stavolta l’idea di base è partita al The Cumberland Arms, giusto dietro l’angolo dell’ufficio del mio agente. Qui, a pranzo, la Santissima Trinità composta da Alice Saunders, Mark Lucas e Peta Nightingale ha ascoltato, con ammirevole pazienza, le mie idee su vari soggetti da sviluppare per un romanzo, tra cui quella di un uomo innaturalmente pallido che compare dal nulla a piedi nudi su una strada nel deserto. È piaciuta, visto che il commento collettivo è stato: «Sembra ottima. Ha un grande potenziale. Lavoraci sopra». Alice merita una menzione speciale. È
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stata lei a recuperare cinque anni fa il mio primo romanzo dalla pila di manoscritti pressoché dimenticati che riempiono i cassetti degli agenti letterari e, da allora, ha dovuto sorbirsi i miei terribili ritmi di lavoro e le mie costanti, ottimistiche e, a volte disattese, promesse. Per varie ragioni, questo romanzo è stato particolarmente complicato da scrivere, ma lei non ha mai perso né la pazienza né la speranza, almeno non davanti a me, ed è riuscita persino a sorridere quando ho consegnato un manoscritto con 60.000 parole di troppo rispetto a quanto concordato... e con tre mesi di ritardo, bisognoso di altri quattro mesi di lavoro e da riscrivere al 60 per cento. Ecco, così è nato Solomon Creed. Entrambi dobbiamo tutto a lei, ma se io mi considero baciato dalla sorte ad averla conosciuta, non credo che la cosa sia reciproca. Temo proprio che Alice vivrebbe molto più tranquilla senza di me. Altrettanto pazienti e incoraggianti si sono come sempre dimostrate anche le redazioni americane e inglesi di HarperCollins, composte da interi team di gente brillante e intelligente. Sono loro che lavorano sodo per concepire e realizzare le copertine, stendere le copie di stampa, revisionare i manoscritti e fare in modo che ogni libro pubblicato sia il migliore possibile e, tutto questo, senza guadagnare una fortuna, anzi, potrebbero probabilmente prendere stipendi migliori facendo un sacco di altre cose. Ma restano nell’editoria perché amano la letteratura e il loro lavoro, rendendo tutti noi un po’ più ricchi con la loro dedizione e il loro impegno. A capo di questi team c’è Julia Wisdom in Gran Bretagna e David Highfill negli USA, che hanno curato più libri di quanti io riuscirò mai a scriverne e che gettano sul tavolo tutta la loro esperienza ogni volta che lavoriamo insieme... con quel lavoriamo che va inteso in senso lato, perché a volte sconfina nel divertimento, almeno per me.
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Sono ampiamente in debito anche con tutti coloro che lavorano alla ILA, la mia sempre entusiasta e stakanovista agenzia di copyright internazionale. Sono loro che invitano alla festa i lettori di tutto il mondo e, recentemente, ne hanno organizzata una davvero notevole per il cinquantesimo anniversario della loro fondazione. Un party vero, non figurato. Ma in questo grazie collettivo ci sono tanti nomi da citare. Un pensiero particolare va a tutti coloro che mi hanno aiutato, ispirato e sostenuto nei modi più disparati mentre scrivevo questo romanzo (e anche tutti gli altri). Non so come avrei fatto senza Kate Stephenson, Lucy Dauman, Adam Humphrey, Kate Elton, Sarah Benton, Jaime Frost, Hannah Gamon, Emad Akhtar, Tanya Brennand-Roper, Tavia Kowalchuk, Kaitlyn Kennedy, Danielle Emrich, Andrea St Amand, Mark Rubinstein, Mark Billingham, Peter James, Paul Christopher, Brad Meltzer e Steve Berry, ai quali bisogna aggiungere Kate della Wet Dark and Wild, Jackie della RavenCrime reads, Miles della MiloRambles, Matt della ReaderDad, Robin della Parmenion Books, Cristina-Maria Mitrea, Tracy Fenton della THE Book Club, Cheryl Dalton del (Secret World) Book Club, Mike Stotter, Barry Forshaw, Chris Simmons, Jake Kerridge, Shannon e John Raab della Suspense Magazine, Pam Stack della Authors on the Air e tutti gli altri critici, autori e blogger che hanno detto delle cose stupende sui miei romanzi precedenti contribuendo così a farli conoscere a un pubblico più ampio. E poi ci sono i lettori, i critici di Amazon, i Tweeters, i post su Facebook... grazie a tutti voi. Scrivere un romanzo è in effetti un lavoro solitario e i nuovi follower, i Mi piace, i post di incoraggiamento e i commenti positivi sono come raggi di sole che spuntano improvvisi da una coltre di nuvole nere, dandomi la spinta quotidiana. Se mai vi siete chiesti se sia il caso
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di contattare uno scrittore, per scrivergli che il suo libro vi è piaciuto, la risposta sarà sempre un sì. Non esiste autore che non scriva per i suoi lettori e, senza di voi, l’impalcatura di questo lavoro crolla. Quindi, mandatemi pure un ciao: io risponderò sempre con un ciao. Un grazie speciale va al sergente Taron Maddux del dipartimento di polizia di Bisbee, Arizona, che mi ha gentilmente illustrato le leggi e le procedure localmente applicate dalle contee e dalle città di quello Stato anche se, alla fine, ho creato la mia città con le sue leggi e procedure. Ne approfitto però per ribadire che le cariche pubbliche citate nel romanzo e soprattutto i funzionari che le ricoprono non si inspirano in alcun modo a quanto ho visto e appreso a Bisbee. La città di Redemption non esiste in Arizona e anche se Bisbee mi ha offerto qualche spunto per descriverla, la sua conformazione e le sue consuetudini si basano su altre cittadine che ho avuto occasione di visitare e, naturalmente, sulla mia fantasia. Infine, un pensiero va anche a Tania, Lou e a tutto il personale del Marmalade Cafè di Brighton, GB, dove lavoro la maggior parte dei giorni. Grazie per far finta di nulla anche se una tazza di caffè mi dura, in genere, almeno tre ore. Per concludere, mi addentrerò tra le mura domestiche. Devo un grazie enorme a mia sorella Becky Toyne, che ha curato la prima revisione anche a costo di riadattare i suoi impegni e di ritrovarsi a lavorare a ore impossibili grazie ai miei cronici ritardi (nota per il lettore: Becky è un editor professionista con tutti i crismi, non una parente dotata di una penna rossa). Un bacio anche ai miei tre figli Roxy, Stan e Betsy, che sono semplicemente brillanti e deliziosi e mi ricordano sempre che ciò che mi passa per la testa è molto meno importante di ciò che accade attorno a me. E infine, ultima ma mai ultima, un grazie speciale a mia moglie Ka-
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thryn per essersi assicurata che la casa non andasse a fuoco e i bambini non sparissero mentre io ero perso per mesi nelle mie fantasie. Solo coloro che hanno un rapporto sentimentale con uno scrittore sanno quant’è strano vivere con qualcuno che inventa storie per campare. Io sarei il primo a divorziare da me stesso se potessi e il fatto che lei non ci abbia mai neppure pensato è davvero un piccolo miracolo. E per questo la ringrazio con tutto il mio amore. Simon Toyne Brighton, 8 aprile 2015
Questo volume è stato stampato nel maggio 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano