sulle ali del vento

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R OMA N C E

JILL SHALVIS

Sulle ali del vento

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Family You Make William Morrow

An Imprint of HarperCollinsPublishers

© 2022 Jill Shalvis Traduzione di Alessandra De Angelis

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata in accordo con HarperCollins Publishers, LLC, New York, U.S.A. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

© 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Romance ottobre 2022

HARMONY ROMANCE

ISSN 1970 9943 Periodico mensile n. 299 dell'11/10/2022

Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 72 dello 06/02/2007 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 20132 Milano

HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 20135 Milano

A Levi Cutler non capitava spesso di guardare la morte in faccia. Ma se avesse saputo che quel giorno per lui c'era in programma di tirare le cuoia, si sarebbe comportato diversamente. Per esempio avrebbe chiamato la camerierina che gli aveva dato il numero qualche sera prima. Oppure avrebbe imparato a fare la birra...

Si sarebbe assolto per i suoi errori passati...

Si sedette meglio sulla panca della cabina e guardò fuori il panorama invernale da cartolina della stazione sciistica North Diamond. Quel pomeriggio quando era arrivato, il cielo era terso, ma il tempo era cambiato negli ultimi venti minuti e la visibilità era pari a zero per la neve che cadeva a raffica tempestando i vetri di candidi proiettili ghiacciati. Levi sapeva che cos'avrebbe visto se fosse stato bel tempo cime montuose innevate e frastagliate tutt'intorno a perdita d'occhio, e uno scorcio del lago Tahoe a destra, con l'acqua azzurra tanto limpida che si sarebbe potuto vedere un piatto a novanta metri di profondità. Uno dei suoi aneddoti scientifici preferiti e Levi ne conosceva molti era che se per un cataclisma il lago si fosse rovesciato per intero, la California sarebbe stata ricoperta da trentacinque centimetri d'acqua. Da bambino gli sarebbe piaciuto vederlo, da grande preferiva che l'acqua rimanesse dov'era.

La cabina ondeggiò, investita da una folata di vento. Stava infuriando la bufera che nessuno aveva previsto. Levi aveva sperato di fare qualche discesa prima di dover affrontare il motivo per cui era tornato a Tahoe, ma ormai non gli sembrava possibile. La cabina era ormai quasi arrivata alla

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sommità della montagna, passando sopra i pini imponenti, ricoperti di un fitto strato di neve farinosa, che ondeggiavano al vento come fantasmi alti sessanta metri.

Anche la robusta cabina oscillava con gli alberi, facendogli venire un senso di nausea per le vertigini. Però, da esperto di rischi e algoritmi, sapeva che era quasi impossibile morire su una cabinovia.

Invece era molto più alto il rischio di morire sciando, specialmente con quel tempo. La cosa più sensata sarebbe stata tornare subito, appena arrivato in cima, anche perché la neve continuava a scendere sempre più fitta e violenta, con raffiche oblique a causa del forte vento contrario che investiva la cabina. Anche se in quel periodo Levi trascorreva buona parte del tempo al computer, a creare soluzioni tecnologiche per risolvere problemi apparentemente irrisolvibili, era cresciuto in quella zona, e aveva trascorso l'adolescenza a lavorare proprio su quella montagna. Perciò sapeva sin troppo bene che poteva succedere di tutto in un baleno.

Mentre lo pensava, difatti, la cabina ebbe un'altra oscillazione, tanto violenta da fargli battere i denti. Eh, sì, sarebbe tornato giù subito, decisamente. Perché fare la fine del solito tizio imprudente che non si curava delle condizioni circostanti e si spiaccicava di faccia contro un albero?

La cabina arrivò sulla vetta e rallentò mentre giungeva a destinazione. Un addetto alla cabinovia, che non poteva avere più di diciassette anni, aprì lo sportello e fece segno a Levi di rimanere seduto. «Scusi, ma ci hanno informato della chiusura subito dopo che era partito.»

«Non c'è problema.» Levi si era trovato al suo posto, a rischiare il posto di lavoro mentre cercava di convincere i turisti bellicosi che no, non potevano proprio rischiare la vita su quella montagna. «Serve aiuto a far sgombrare la gente?»

Il ragazzo scosse la testa. «Stiamo rimandando giù gli sciatori e abbiamo evacuato quasi tutti dalla montagna. Le cabine davanti alla sua sono vuote. Aspettiamo solo l'ultima persona dello staff. Quando salirà a bordo, io vi seguirò con il gatto delle nevi.»

Sulla soglia della stazione comparve una donna, che fece un cenno al ragazzo, poi abbassò lo sguardo a fissare lo spa-

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zio vuoto di quasi tre centimetri tra la piattaforma e il pavimento della cabina. Deglutì con forza, poi strinse la catenina nel pugno e fece un saltello sopra il buco. A Levi ricordò sua nipote di sei anni, Peyton, che faceva lo stesso quando saliva in aereo.

La donna gli schizzò davanti e si appiattì il più possibile verso il vetro, seduta sulla panca opposta alla sua. Non diede alcun segno di avere notato la sua presenza, anche se a bordo c'erano solo loro due. Invece chiuse gli occhi e cominciò a bofonchiare tra sé e sé qualcosa sul fatto che era ironico essere sopravvissuta a una serie infinita di catastrofi per morire come una scema nella tormenta di neve del secolo, in una scatoletta appesa a un gancio sopra una montagna.

La cabina sobbalzò e lei trasalì, poi stese di scatto le mani davanti a sé come un gatto che cercava di fare presa su un pavimento di linoleum. Era tutta imbacuccata in pesanti indumenti da montagna dalla testa ai piedi, e di lei si vedevano solo delle lunghe ciocche di capelli mossi rosso mogano che spuntavano dal berretto da sci.

Mentre la cabina girava intorno al pilone e ricominciava la discesa lungo il fianco della montagna, lei piegò le gambe sulla panca e poggiò la testa china sulle ginocchia.

«Tutto bene?» le domandò Levi.

«Una favola» rispose lei parlando alle ginocchia. «Sono solo impegnata a sclerare...»

«Per quale motivo?»

«Perché ho lasciato il pranzo nell'armadietto. Era un fantastico tramezzino a tre strati al burro di noccioline e marmellata. Non voglio morire a stomaco vuoto.»

«Non moriremo, almeno non oggi.»

Lei emise uno sbuffo dal naso senza alzare la testa.

Okay, in effetti la bufera inattesa aveva oscurato quasi completamente il cielo e la neve non cadeva a fiocchi, ma in linee candide inclinate che trafiggevano l'aria come lance. Era uno spettacolo straordinario, ma Levi ammise che poteva anche terrorizzare qualcuno. «Se guardi fuori fa meno paura, in realtà.»

«Se non ti offendi, ti credo sulla parola. Siamo a un milione di metri di altezza.»

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«No, quasi centosettanta.»

«Eh?»

«Siamo a quasi centosettanta metri da terra. All'incirca come cinque piani e mezzo di un palazzo, o in cima alle montagne russe, se sono decenti, intendiamoci...»

«Oddio.» Lei alzò la testa di scatto e lo trapassò con gli occhi verdissimi. «Perché me l'hai detto?»

«A volte se si ha paura di qualcosa, come chi soffre di vertigini, avere dei dati concreti aiuta.»

Lei lo fissò come se fosse stato un alieno, ma raddrizzò la schiena con fierezza. «E ti sembro una che soffre di vertigini?» lo apostrofò. In quello stesso istante la cabina ebbe uno scossone tanto forte che lei sussultò e si aggrappò spasmodicamente alla sbarra dal lato più vicino a lei.

«Hai ragione» commentò Levi. «Non soffri affatto di vertigini, si vede.»

Lei strinse di più la sbarra e lo fulminò con lo sguardo. «Ehi, per tua informazione, non soffro di vertigini ma di claustrofobia. Specialmente se sono in un posto piccolo e chiuso che ondeggia a cinque piani e mezzo da terra.»

«Spostati in mezzo alla panca, lontano dalle vetrate. Ti sentirai meglio.»

Lei rispose a quel consiglio scuotendo la testa con tanta foga da farle volare i capelli sulla faccia. «Devo essere vicino al finestrino, così lo schianto non mi coglie di sorpresa.» Fece una smorfia. «Non cercare neanche di dare un senso alla cosa, né a quello che penso. Sarebbe inutile.»

Ci fu un'altra folata violenta e nella cabina tutto fu proiettato da un lato, compresa la sua compagna di viaggio. Levi l'afferrò al volo e la fece sedere sulla panca accanto a sé, tenendola per un minuto. «Stai bene?»

«No! Neanche un po'! Siamo a un passo dal piombare giù e morire. Non so tu, ma io avevo delle cose da fare oggi. Come vivere.»

«È difficilissimo che una cabina cada. Ci sarà una probabilità su un milione.»

Mentre ondeggiavano ancora, lei fece un respiro profondo e tremulo. «Sai di che cosa ho bisogno? Di silenzio. Perciò se smettessi di parlare mi faresti un grande favore.»

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Levi scoppiò a ridere. Siccome apparteneva a una famiglia di chiacchieroni, veniva spesso preso in giro perché lui era quello taciturno.

«Non vedo che cosa ci sia da ridere...» Lei s'interruppe e lanciò un grido stupito quando un'altra folata di vento li investì con forza, facendoli cadere entrambi dalla panca e sbattere l'uno contro l'altro sul pavimento. In ginocchio, barcollando, si girarono di scatto all'unisono a guardare verso la vetrata, appena in tempo per vedere...

La cabina davanti a loro che si abbassò di colpo e cadde, scomparendo alla loro vista.

Lei trasalì inorridita. «Oddio! Ma quella cabina è...?»

«Sì. Reggiti» disse lui, cupo. In quello stesso istante, improvvisamente la loro cabina si bloccò a piccoli scatti, lasciandoli a oscillare violentemente avanti e indietro, e facendo sbattere da tutte le parti sia loro sia le loro cose. Levi fu scagliato di faccia contro il vetro freddo del finestrino.

Qualcosa lo colpì alla schiena.

Il suo zaino.

Poi qualcosa di più morbido. La ragazza. Lei si affrettò a scostarsi annaspando e guardò fuori il vuoto dove prima c'era l'altra cabina. «Oh, mio Dio!» mormorò con il naso schiacciato contro il vetro, come se le permettesse di vedere meglio oltre la fitta coltre di neve che vorticava tutt'intorno. «C'era qualcuno dentro?»

«L'addetto alla cabinovia mi ha detto che le tre cabine davanti a noi erano vuote.»

Lei gli puntò addosso quegli stupendi occhi verdi, socchiusi leggermente con ostilità. «E menomale che c'era una probabilità su un milione che cadesse una cabina!» Tirò fuori il cellulare e lo guardò. «Cavoli, avevo dimenticato che è morta la batteria.»

«Non preoccuparti. Alla stazione di arrivo sapranno quello che è successo e verranno a soccorrerci.»

Lei espirò lentamente, pallida e scossa.

«Siamo ancora appesi» disse lui guardando fuori davanti a loro. «Il cavo non si è spezzato. La cabina davanti a noi si è impigliata in qualcosa lungo il binario, oppure c'è stato un guasto della morsa...»

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Lei emise un'esclamazione angosciata e strizzò le palpebre. «Sai cosa mi dà veramente sui nervi? Che oggi ho messo il mascara. Ho sprecato cinque minuti preziosi, che avrei potuto impiegare per fermarmi a comprare un burrito uova e pancetta. Insomma, se devo morire, preferisco farlo a pancia piena, con un bel burrito da colazione che mi sostenga fino all'aldilà.»

«Mi piacciono i burrito uova e pancetta» commentò Levi, evitando di farle coraggio con qualche banalità perché, a dire il vero, i suoi timori erano fondati. Ora la cabina era ferma, non andava né avanti né indietro, limitandosi a ondeggiare mossa dal vento. Levi non sapeva perché la cabina davanti a loro fosse caduta, ma se fosse capitato anche a loro non avrebbero avuto molte possibilità di uscirne vivi. Ora la priorità era di smettere di oscillare tanto, e Levi si mise a calcolare il peso e il bilanciamento necessari per stabilizzarla. «Ehi, pensi di poterti spostare laggiù in quell'angolo in fondo?»

Lei batté le palpebre, sconcertata, ma non sollevò obiezioni, obbedì e strisciò carponi verso il punto che le indicava mentre lui si metteva nell'angolo opposto.

«Ti rendi conto che funziona solo se abbiamo lo stesso peso, vero?» osservò lei.

«Ci aiuteremo con le nostre cose per pareggiare.» Indicò lo zaino ai suoi piedi. «Tu che cos'hai?»

Lei allargò le braccia. «Quello che vedi.»

«Sei venuta in montagna senza niente? Né cose da mangiare, acqua, attrezzatura di emergenza o altri accessori?»

«Non ho detto questo. Sei un criticone, eh?» Svuotò le tante tasche e tirò fuori una borraccia, una bustina monoporzione di manzo essiccato, un pacchetto di gomme e... un astuccio del pronto soccorso, che mostrò a Levi. «La sicurezza innanzitutto, giusto?» mormorò in tono ironico.

Levi aveva notato lo stemma medico sulla schiena del suo giaccone. «Soccorso piste?»

«Infermiera professionale» precisò lei. «Sono un'infermiera itinerante e vado in trasferta a rotazione tra ognuno dei cinque ambulatori di guardia medica della zona di North Shore.» Agitò l'astuccio del pronto soccorso. «Sono qualificata a salvare la vita alle persone, anche se a quanto

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pare non riesco ad avere il controllo sulla mia.»

Levi cominciò a sorridere, ma li investì un'altra violenta folata di vento che li fece girare come una trottola, tanto rapidamente da farli quasi capovolgere. Si udì il rumore del cedimento di qualcosa di metallo, la mensola in alto per i bagagli dei passeggeri, e Levi si gettò a farle scudo con il suo corpo.

Volò tutto in aria come se fossero in orbita e la gravità parve azzerarsi per una frazione di secondo. Mentre Levi avviluppava la ragazza tra le braccia coprendole la testa contro il petto, qualcosa lo colpì sul cranio.

E poi piombò nell'oscurità.

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Quando infine la cabina smise di muoversi, Jane non riusciva più a respirare né a vedere qualcosa. Dio, era morta.

Eh, no, un attimo...

Aveva gli occhi chiusi.

Li aprì battendo più volte le palpebre. Okay... c'era qualcosa che non andava. O era paralizzata o le era caduto addosso qualcosa di pesante.

No, non qualcosa, qualcuno, e a peso morto. Era il tizio che era stato saldo e risoluto, senza il minimo cedimento davanti al suo panico sempre crescente. Jane sgusciò via da sotto il suo corpo con molta attenzione, perché non erano ancora caduti e morti nell'impatto, ma poteva comunque accadere da un momento all'altro. Quel pensiero la fece sudare freddo, nonostante la temperatura rigida. «Ehi.» Si chinò su di lui e gli controllò le pulsazioni. Trattenne a stento un gemito di sollievo quando sentì il battito. Flebile, ma almeno era vivo. «Mi senti?»

Lui non mosse neanche un muscolo.

Il Signor Chiacchierone era svenuto, e perdeva sangue in abbondanza da un taglio di cinque centimetri che gli solcava il sopracciglio fino alla tempia, inclinato dall'alto in basso. Normalmente Jane imprecava solo in mezzo al traffico intenso però, guardandosi intorno, snocciolò una sfilza di parolacce piuttosto volgari, benché se lo dicesse da sola. Perché... ora che avrebbero fatto?

La neve era ancora fitta, ma il vento si era abbastanza calmato, tanto che adesso la cabina dondolava quasi dolcemente rispetto alla violenza della tormenta di poco prima. Il

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pavimento sembrava una discarica, con la roba sparsa dappertutto. Sopra alle varie cose sparpagliate c'era la sbarra d'acciaio portaoggetti che si era staccata, e da cui probabilmente il Signor Chiacchierone era stato colpito in testa.

Non andava bene. Non andava affatto bene. «Forza, Bell'Addormentato, è ora di aprire gli occhietti santi.» Il tizio si era tuffato da un lato all'altro della cabina per coprirla con il suo corpo e proteggerla dagli urti. Ma perché? Era una perfetta sconosciuta. Gli sentì di nuovo il polso. Ancora debole, ma regolare.

Jane si guardò intorno per cercare il cellulare, ma poi ricordò che era scarico. E comunque chi avrebbe potuto chiamare? Non l'ambulatorio da cui era appena uscita; del personale, lei era stata l'ultima ad andare via e aveva chiuso a chiave. Razionalmente sapeva che gli addetti alla sicurezza alla stazione d'arrivo avrebbero immaginato quello che era successo. Dopotutto qualcuno aveva spento l'impianto, no? Sicuramente sarebbero arrivati i soccorsi a recuperarli.

L'uomo non si era ancora mosso. Male, molto male. Jane gli tastò il corpo per controllare se avesse altre lesioni. Nessuna frattura evidente, ma quando lo girò su un fianco, vide che sotto il giaccone aveva la maglia sporca di sangue. Sollevò gli strati d'indumenti e trovò due ferite sulla schiena e sulle spalle, che sanguinavano copiosamente anche loro.

Accidenti. «Dovevi proprio fare l'eroe, eh?» Jane si tolse il giaccone e glielo ficcò appallottolato sotto la testa come cuscino improvvisato. «Tipico degli uomini.» Si sfilò di dosso la parte superiore dell'uniforme chirurgica e la maglietta termica che aveva sotto, e usò il camice per tamponare i tagli sulla schiena, poi premette la maglietta termica con attenzione sulla ferita alla testa per contenere l'emorragia. «Okay, seriamente, se qui c'è qualcuno che ha diritto di fare un sonnellino sono io. Ho fatto un turno di lavoro molto lungo. Perciò svegliati, va bene? Non è giusto che sia io l'unica con gli occhi aperti quando moriremo.»

Niente.

Jane continuò a spogliarsi. Si sfilò i pantaloni da sci, che arrotolò e usò per puntellarlo su un fianco in modo che non poggiasse sulle ferite. Poi si guardò addosso. Sembrava la

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vittima in un film dell'orrore. Era sicura che tutto il sangue che la sporcava fosse dell'uomo, ma santo Dio... Ne aveva passate tante in vita sua, e aveva dovuto affrontare delle situazioni drammatiche quasi sempre da sola. In generale non le creava problemi, ma quel giorno? Non era uno di quelli in cui voleva stare da sola.

Torse il busto, in cerca dell'astuccio del pronto soccorso che aveva perso di vista. Nella cabina non dovevano esserci più di sei gradi, e la bufera di neve non sembrava sul punto di acquietarsi. E lei era lì, sospesa in aria a un milione di metri di altezza. No, esattamente a centosettanta metri, in una prigione di vetro e metallo, con indosso solo il reggiseno sportivo e i leggings termici perché il suo paziente era impegnato a inzuppare di sangue i suoi indumenti. «Dai, bello» lo blandì, chinandosi su di lui. «Se devo essere il caso su un milione che crepa su una cabinovia, devi svegliarti per morire con me.»

Neanche un fremito di palpebre. Perciò... gli diede un pizzicotto, proprio sul didietro. Considerato che era un bel fondoschiena tonico e muscoloso non c'era molto da prendere, ma ci riuscì comunque.

Lui emise un grugnito e Jane fu sul punto di accasciarsi addosso a lui per il sollievo. «Bravo» mormorò. «Ora apri quei begli occhi grigi e ripetimi che andrà tutto bene.»

Lui gemette con voce roca. «Parli addirittura più di me, lo sapevi? Per quanto tempo sono rimasto svenuto?»

«Qualche minuto.»

Continuando a non aprire gli occhi, lui fece un sorrisetto. «Pensi che ho gli occhi belli. E mi hai toccato il sedere. Mi desideri, ammettilo.»

Davvero gli aveva detto che aveva gli occhi belli? Forse aveva battuto la testa anche lei. «Perché mi hai fatto scudo con il tuo corpo? È stata una reazione stupida.»

«Sempre salvare la persona che ha il kit del pronto soccorso» sentenziò lui.

Piegandosi su di lui mentre cercava di non perdere l'equilibrio nella cabina che continuava a oscillare, Jane scostò la maglietta per controllargli la testa. Subito vide sgorgare il sangue, e si affrettò a rimetterla a posto.

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«Non volevo che ti facessi male» disse lui sottovoce, inspirando a fondo quando lei gli premette sulla ferita.

Jane cercò di evitare di avere reazioni alla sua affermazione, ma sinceramente non ricordava che qualcuno l'avesse mai protetta così, estraneo o no. Poi si accorse che il suo colorito era passato da abbronzato a pallido, e poi a verdognolo, e capì che cosa significava. «Inspira dal naso, trattieni il fiato per quattro secondi poi espira lentamente per far passare la nausea» gli ordinò. Respirò insieme a lui per dargli il ritmo. «Per la cronaca, me la sarei cavata anche da sola» mormorò poi.

«Chiunque altro al posto tuo avrebbe detto grazie.»

«Be', io non sono come gli altri. E ribadisco che è stata una cosa stupida da fare.» Sollevò di nuovo la maglietta intrisa di sangue ed esaminò il taglio. Era profondo, e comunque lui non aveva ancora aperto gli occhi, che fossero belli o meno. «Ti gira la testa?»

«Sto bene.»

In linguaggio maschile, significava che sì, gli girava la testa da morire. Almeno questo era un sintomo che sapeva come affrontare. Avevano smesso di tremarle le mani e il cuore non le batteva più tanto forte da sentirlo martellare nelle orecchie, ma la verità era che erano ancora appesi a un cavo, o forse a un filo, e avevano bisogno che qualcuno li portasse via di lì.

Non pensarci.

«È colpa di mia madre» mormorò lui.

Fantastico, ora delirava anche. «Tua madre?»

«È stata lei a insegnarmi a proteggere sempre gli altri.»

Il sangue aveva trapassato la maglietta, perciò Jane la premette più forte sulla ferita, e lui fece una smorfia. «Ah, sì? E a te sta bene?»

«Benissimo. E... Gesù.» Cercò di alzarsi a sedere, ma lei lo tenne fermo. O, almeno, le diede l'illusione di permettergli di bloccarlo, perché era alto e robusto. Mentre era disteso su un fianco sul pavimento della cabina che ondeggiava no, non pensarci! le sue gambe lunghe occupavano buona parte dello spazio, e quel poco che rimaneva era coperto dalle sue spalle ampie.

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Quando era salita a bordo e l'aveva notato, stravaccato sulla panca davanti a lei, Jane si era sforzata d'ignorarlo. Era stato facile, perché era stata distratta dal fastidio per gli spazi chiusi e ristretti. Tuttavia ora era impossibile non notarlo, perché Jane era in ginocchio e aderiva alla curva del suo corpo lungo, con il viso vicino al suo per controllargli nuovamente il polso con le mani sporche del suo sangue.

Era da tanto tempo che non ti trovavi così vicina a un uomo, fu il suo pensiero del tutto sconveniente, che svanì appena si udì uno sferragliare sinistro. Jane sussultò e di riflesso gli strinse il braccio. «Che cos'era?»

Si aspettava che lui rispondesse con una battuta ironica, invece rimase in silenzio.

«Eh, no. Non provarci. Resta sveglio.»

Lui gemette, e per poco Jane non scoppiò a piangere per il sollievo. «Come ti chiami? Io sono Jane.»

«Io Tarzan, tu Jane» disse lui con voce roca e appena udibile.

Con una risata stupita, Jane si sedette sui talloni. «Non so se preoccuparmi perché hai le allucinazioni o perché sei un imbecille.»

«Propendo per l'imbecille» replicò lui. «Almeno secondo mia sorella maggiore.»

Fallo parlare... «Be', per tua informazione, sono Jane Parks, non la Jane di Tarzan. Sei legato alla tua famiglia?»

«Purtroppo sì. Sono anche la pecora nera.»

«Perché fai battute stupide, immagino.»

Lui increspò le labbra in un abbozzo di sorriso, ma per il resto non mosse un muscolo, e Jane lo esortò in tono preoccupato: «Apri gli occhi, Tarzan. E subito. Dico sul serio».

«Prepotente.» Però socchiuse un occhio grigio ardesia iniettato di sangue.

«Tutti e due gli occhi.»

Non reagì subito, e fece una smorfia mentre assumeva di nuovo un colorito verdognolo, ma alla fine vi riuscì.

«Hai le vertigini? La nausea? Ti fischiano le orecchie?»

«Sì.»

Jane immaginò che avesse risposto sì a tutte le domande. Accidenti. Gli prese una mano e gliela posò sulla maglietta

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che gli tamponava la testa, facendogliela premere, per liberare entrambe le mani. «Ora segui il mio dito. Ehi, Tarzan! Prestami attenzione.»

«Levi. Mi chiamo Levi.»

«Be', Levi, vedi il dito?»

«Sì, tutte e venti le dita.»

Uffa, le pupille non si muovevano.

Lui tentò ancora di alzarsi a sedere, ma lei lo tenne fermo. «L'unica cosa che devi fare è rimanere immobile, capito?»

«È così grave?»

Lei si stampò sul volto il suo migliore sorriso da infermiera comprensiva. Aveva tutto un campionario di sorrisi... quello professionale, quello fintamente affabile e il suo preferito, quello minaccioso. «No, non è affatto grave.»

Una risata flebile gli sfuggì dalle labbra mentre richiudeva gli occhi. «Non giocare mai a poker, rossa.»

«Jane» lo corresse. E in effetti lei giocava a poker, un'abilità che le era risultata comoda all'università. Soprattutto perché teneva molto ad avere la pancia piena e un tetto sopra la testa. O una tenda. Non era schizzinosa. Dopo essere cresciuta senza legami, come una foglia al vento, non aveva mai avuto bisogno di niente di più dello stretto necessario per cavarsela.

Levi aveva chiuso ancora gli occhi.

«Ehi. Ehi, Levi, sveglia. Dove sei cresciuto?»

«Qui.» Lui deglutì a forza, come se cercasse di non vomitare. «Intendo a Tahoe, non nella cabina.»

Lei sorrise. «Sei spiritoso.»

«Ci provo. E tu dove sei cresciuta?»

«Non sono cresciuta, non ancora.» Era la sua solita risposta automatica, per non rivelare troppo di sé, e di solito la faceva franca.

Ma Levi aprì gli occhi, poi riuscì a serrarli leggermente mentre stendeva una mano a toccarle la guancia. Ritirò le dita sporche di sangue. «Ti sei fatta male» disse, in tono più vigile, scrutandola attentamente. Lei l'osservò quando Levi si rese conto che era china su di lui con addosso solo il reggiseno, ma aveva uno sguardo serio e spassionato.

«È solo un graffio» lo rassicurò.

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Lui la esaminò rapidamente lo stesso. Le tastò il corpo per controllare le chiazze di sangue che aveva addosso.

«È il tuo sangue.» Lei gli bloccò la mano. «Sto bene, Levi.» Okay, forse era un pochino ammaccata, ma ne aveva passate di peggio. «Davvero, sto bene.»

Lui fece un cenno d'assenso tanto impercettibile che per poco non le sfuggì. «Sì, e sei anche terribilmente coraggiosa» convenne. Poi chiuse gli occhi e rimase immobile.

Lei gli controllò di nuovo le pulsazioni.

«Ho le costole contuse, ma non sono rotte, credo» mormorò. «E tu sai che le ferite alla testa sembrano sempre peggio di quanto siano in realtà. Sto bene.»

«Ah, sì? Stai bene?» replicò lei con una lieve nota isterica nella voce. «Allora forse potresti sfruttare tutti quei muscoli torniti che hai e farci uscire da questa scatoletta.»

Quel commento le guadagnò un sorrisetto ironico.

«Ma dai! Come se non sapessi che sembri uscito dalla copertina della rivista Outside. Fammi indovinare. Sei un vigile del fuoco del Corpo Forestale. Un fenomeno.»

Il suo sorrisetto si allargò appena. «Sono un esperto di dati. Faccio il consulente.»

«Sembra molto... cerebrale.»

Lui continuò a sogghignare. «Pensi che gli scienziati non possano avere dei muscoli... come li hai definiti?... torniti?»

La voce gli si spense.

Stava perdendo i sensi, e Jane fu invasa nuovamente dal panico. «Che cosa fa un consulente esperto di dati?» chiese, annaspando disperata.

Lui scrollò le spalle, e quel gesto gli provocò una smorfia di dolore. «Estraggo i dati e progetto dei... processi... di modellazione di dati...»

«Levi.»

«Eh?»

Si vedeva che aveva difficoltà a trovare le parole e a seguire il discorso. Gli serviva una radiografia. Una risonanza. «Che cos'altro fa un esperto di dati?»

«Creo algoritmi e modelli predittivi... per le esigenze delle società, cose del genere.»

Jane si guardò intorno per cercare ancora l'astuccio del

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pronto soccorso; doveva essere da qualche parte. Ah, eccolo in un angolo. Lo agganciò con il piede, lo avvicinò e lo aprì. «Potresti creare un algoritmo per dirmi quale catena di fast food mi farà venire più probabilmente il mal di stomaco quando divoro qualcosa dopo un turno di dodici ore?»

«La risposta è... tutti. E dodici ore sono tante.»

«Scommetto che anche tu lavori tanto.»

«Sì. Che ne dici se ti porto a mangiare qualcosa di buono quando usciremo da qui?»

Lei sbuffò, ironica. «Ci stai provando, Levi l'esperto di dati?»

Lui fece un sorriso che risultò molto sexy anche se era disteso sul pavimento e sanguinante. «Sono bloccato in una cabina con una bella donna che si è spogliata. Il minimo che possa fare è farla ridere.»

E difatti lei rise mentre, trovato il disinfettante e una garza, gli medicò la testa il meglio che poteva, considerate le circostanze. «Non c'è niente da ridere in questa situazione.»

«Lo so. Non mi hai neppure fatto la respirazione bocca a bocca...»

Levi s'interruppe quando un'altra violenta folata di vento li investì come un ariete, scuotendoli con forza.

Jane si chinò su di lui per evitare che lo colpisse qualcos'altro. «Chissà quante altre cabine sono cadute in questa stazione sciistica» disse cercando di mantenere il tono calmo, ma la voce risultò incerta anche alle sue orecchie.

Levi mise la mano sulla sua. «Fino a stasera? Nessuna.»

«Spero che tu non menta per rincuorarmi.»

«No. Cioè, mentirei assolutamente per rincuorarti, ma è la verità. Nella zona di Tahoe non è mai caduta una cabina, parola di scout.»

«Finora.»

I suoi occhi grigi sostennero lo sguardo di Jane. «Finora.»

Lei si accorse che avevano i visi vicinissimi. Si tirò indietro e cominciò a frugare in mezzo alle cose sparse tutt'intorno, finché non trovò una bottiglietta d'acqua. «Sei allergico all'acetaminofene?»

«No.»

Gli porse due compresse prese dal campioncino che era

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nel kit di pronto soccorso. Lui si tirò su e se le ficcò in bocca, poi le ingoiò prima che Jane aprisse la bottiglietta d'acqua. Levi si sdraiò e richiuse gli occhi. Un muscolo che gli guizzava nella mandibola era l'unico segno che provava dolore.

«Di che cos'altro hai bisogno?»

«Puoi mettermi la mano nella tasca davanti?»

«Te lo scordi.»

La sua replica gli strappò un altro sorriso appena accennato. «Per prendere il cellulare.»

«Oh.» Giusto. Il fatto che non ci provasse più con lei e che avesse il viso contratto dal dolore la preoccupò ancora di più, tanto da accontentarlo. Gli mise la mano in tasca e tirò fuori il telefono. Glielo porse e lo guardò mentre lui inviava un breve messaggio a cui risposero subito. «Ho un amico nella squadra di ricerca e soccorso qui. Dice che la sicurezza della stazione ha allertato la squadra. Ce n'è già una sul posto, ma i soccorritori sono bloccati alla base perché non c'è visibilità.» Le rivolse un sorriso teso. «Ci dice di resistere.»

Jane azzardò un'altra occhiata fuori dal finestrino e, con stupore, si accorse che non riusciva a vedere a più di due centimetri dal vetro. Non c'era altro che un immenso vuoto turbinoso che abbracciava tutto. Deglutì con forza. In vita sua si era trovata in tante situazioni che sarebbero state considerate pericolose. L'ambiente di certi luoghi in cui era stata mandata a fornire cure sanitarie, per esempio. Oppure quando era stata scippata su un treno in Europa. E poi c'era stata la volta in cui lei e altri operatori sanitari erano andati in aereo in un remoto villaggio delle Filippine che aveva preso fuoco mentre erano lì.

Ma in quel momento, in cui era appesa a un filo e rischiava una caduta da cui nessuno dei due sarebbe sopravvissuto...

Levi le prese la mano e la strinse con la sua, così grande e calda. «Andrà tutto bene.»

Lei fissò le lunghe dita che le stringevano le sue. «Sarebbe più credibile se non mi strizzassi la mano tanto forte da farmi venire un crampo ai muscoli delle dita. Dimmi la verità. Pensi che moriremo, non è vero?»

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«Non abbiamo i muscoli nelle dita in realtà» precisò lui. «La loro funzionalità è controllata dai muscoli del palmo e del braccio.»

In effetti era vero. Lo sapeva perché l'aveva studiato. Levi cercava di distrarla, come lei distraeva sempre i pazienti quando stava per conficcare un ago da qualche parte. «Non puoi distrarmi. Sono indistraibile.»

Lui si sforzò di abbozzare un sorriso. «Vorrei smentirti, ma in questo momento sarebbero solo chiacchiere. Che ne dici di non essere convinti che moriremo? Dichiariamo che ce la faremo, ma con convinzione, come se non ci fosse alternativa.»

Lei lo guardò negli occhi e gli credette quasi.

Poi lui fece un sorrisetto. «E poi non mi hai ancora ringraziato per averti salvato la vita. Non puoi morire prima di averlo fatto.» Le porse il cellulare.

Lei lo fissò. «Che cosa dovrei farne?»

«Chiama la famiglia» disse lui sottovoce.

Per dire addio, intendeva, e improvvisamente lei ebbe di nuovo un nodo in gola.

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SULLE ALI DEL VENTO di Jill Shalvis

Durante una violenta tempesta di neve Levi Cutler è bloccato sulla cabinovia con una sconosciuta di nome Jane. Dopo che il forte vento fa precipitare la cabina davanti, Levi chiama i suoi genitori per una sorta di addio e dice impulsivamente di essere felicemente fidanzato con Jane...

LETTERE DAL POLO NORD di Jaimie Admans

Quando Sasha Hansley riceve una telefonata inaspettata dal suo eccentrico padre, è costretta a rispolverare i suoi stivali da neve e a raggiungerlo al Circolo polare artico. Lì si ritrova a gestire un villaggio natalizio con l'aiuto del bellissimo Taavi. Peccato che Sasha da tempo odi il Natale...

LA NOTTE DEI DESIDERI di Courtney Cole

Quando Meg Juillard torna a Chicago per amministrare un edificio del defunto padre, è convinta che i suoi sogni nel mondo della moda siano finiti. Ma l'improbabile amicizia con Ellie, un affascinante tuttofare davanti al quale si imbarazza di continuo e un bellissimo vestito vintage che le si adatta magicamente saranno fonte di ispirazione per un inaspettato lieto fine.

OLTRE IL DESTINO di Paullina Simons

Julian ha già deluso Josephine una volta, per questo ora è determinato a fare qualunque cosa pur di salvare la donna che ama. La loro è una storia d'amore come nessun'altra, in cui i due amanti sembrano condannati a intraprendere un'avventura incredibile attraverso il tempo e lo spazio. Vivono nella bellezza e nell'estasi dell'amore, pur affrontando innumerevoli pericoli e nemici mortali, ma ogni volta che ingannano la morte, Julian e Josephine si avvicinano sempre di più a un sacrificio impensabile e all'ostacolo più difficile: il destino.

Dal 24 dicembre

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