Un'estate senza legami

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ROMANCE


LORI FOSTER

Un'estate senza legami


Immagine di copertina: NeonShot / Shutterstock Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: The Summer of No Attachments HQN Books © 2021 Lori Foster Traduzione di Alessandra De Angelis Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises ULC. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved. © 2022 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Romance agosto 2022 HARMONY ROMANCE ISSN 1970 - 9943 Periodico mensile n. 295 dello 04/08/2022 Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 72 dello 06/02/2007 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano


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Ivey Anders scostò un ricciolo ribelle dal viso e strinse delicatamente a sé il cane in modo che non potesse muoversi mentre la sua tecnica veterinaria, Hope Mage, tagliava con estrema cautela con le cesoie il filo di ferro attorcigliato, stretto intorno al povero animale. Il cane, che a occhio e croce era un randagio, vi si era impigliato e una zampa posteriore era in brutte condizioni. Ivey voleva portarlo in ambulatorio, dove avrebbe potuto valutare meglio i danni. Il pelo era incrostato di fango ed era difficile vedere se avesse altre ferite, ma c'era un'altra questione di straordinaria importanza che Ivey non poteva ignorare. Intanto, alle sue spalle, il proprietario della casa brontolava che probabilmente il cane gli aveva rubato le uova dal pollaio. Con voce calma, controllando abbastanza l'irritazione, Ivey replicò: «E non hai esitato a chiamarmi, vero, Marty?». Era noto che Marty non era un amante dei cani, e neppure dei gatti, se era per questo, e li considerava soprattutto un fastidio. Però qualche tempo prima erano giunti a un accordo. Marty, che possedeva un terreno boscoso piuttosto esteso, avrebbe dovuto chiamarla se si fosse avvicinato un randagio; e lei, in quanto veterinaria del posto, gli avrebbe risolto il problema. Sua moglie Laura si affrettò a intervenire. «Ho chiamato io.» Poi, come per sfidare Marty, aggiunse: «Appena ho sentito il poverino, a dire il vero». Il che non era poi così indicativo. Il cane poteva essere lì 5


da ore, forse anche da più di un giorno, anche se per Ivey era un pensiero insostenibile. «È una femmina, ed è incinta, sai.» Senza staccare lo sguardo dalla cagnetta, ed evitando di alzare la voce per non spaventarla ancora di più, Ivey puntualizzò: «Se anche avesse preso un uovo, l'avrebbe fatto perché moriva di fame, e sai già che te l'avrei ripagato io». Offeso, Marty borbottò: «Non mi preoccupavo per un solo uovo, però non voglio perdere le mie galline». Si schiarì la voce. «Se può servire a qualcosa, stamattina sono andato al pollaio e la cagnetta non era impigliata allora. Nel pomeriggio ho annaffiato l'orto, ed è per questo che c'è tanto fango. Perciò dubito che sia stata bloccata lì per più di qualche ora.» La morsa che serrava il cuore di Ivey si allentò leggermente. «È un'informazione importante, Marty. Grazie.» Innumerevoli volte Ivey si era occupata dei problemi dei randagi particolarmente bisognosi di affetto e di cure. Anche se lavorava come veterinaria ormai da anni, e vedeva ogni genere di soprusi, trascuratezza o semplicemente malattia, amava tutti gli animali e, quando uno di loro soffriva, lei soffriva con lui. «Non c'è bisogno di ringraziarmi» protestò Marty, in tono reso più brusco dall'indignazione. «Non lascerei mai soffrire un animale.» Ivey aveva la sensazione che le rispettive definizioni di sofferenza relative agli animali non coincidessero, però si rese conto che per lui era importante, ed era troppo grata per fare storie, perciò si limitò ad annuire. «Ci sono quasi» mormorò Hope. Dopo l'ultimo taglio, il fil di ferro si allentò. «Ecco fatto.» Con estrema delicatezza, liberò la zampa aggrovigliata della cagnetta, scoprendo una ferita dolorosa. Nel frattempo Ivey continuava a sussurrare alla bestiola con voce dolce, accarezzandola e tenendola ferma. Appena poté scostarsi e sedersi sul terreno melmoso, prese la cagnetta sulle ginocchia. Con il viso vicino alla sua testa, bisbigliò: «Ecco, ora va meglio, eh? Ti cureremo bene, promesso». 6


«Tieni.» Hope abbassò la cerniera e si tolse la felpa aperta davanti, poi la porse a Ivey per avvolgervi la cagnetta. «Vuoi che prenda il trasportino?» Impegnata ad avviluppare la bestiola, attenta a non agitarla troppo, Ivey scosse la testa. «Non pesa più di quattro o cinque chili. La porterò in macchina, e poi vediamo come va.» Sentendo che il fango cominciava a infiltrarsi nei pantaloni nel punto in cui era seduta, si accorse di non riuscire ad alzarsi continuando a tenere la cagnetta. Sollevò un sopracciglio guardando Hope e disse: «Mi aiuti?». «Oh, sì, certo.» Hope la prese sotto il gomito e Laura accorse a reggerle l'altro, dandole l'appoggio che le serviva. Marty indietreggiò per non inzaccherarsi. Con attenzione, le due donne aiutarono Ivey ad alzarsi. Sentiva lo strato di fango che le pesava dietro i pantaloni e le abbassava i jeans stretch che si erano allentati nell'arco della giornata. Almeno gli stivali di gomma non si sarebbero rovinati. Giacché curavano animali di tutti i tipi, anche quelli delle fattorie, lei e Hope ne tenevano sempre un paio ciascuna in ambulatorio. «Andiamo.» Ivey avanzò con cautela nel fango e si diresse verso la vettura. Erano a metà strada quando il cane si mise ad ansimare. Preoccupata, affrettò il passo, senza curarsi di sporcare di fango i sedili del pickup. «Non serve la gabbia. Portaci subito in clinica, piuttosto.» Hope colse al volo la sua ansia e si precipitò al volante, poi s'immise in carreggiata a tempo di record. «Tutto bene?» «Veramente no. C'è qualcosa che non va.» «Che posso fare?» Povera Hope. Un gatto malato le aveva tenute in clinica fino a un'ora dopo la chiusura, e poi aveva chiamato Marty... «Mi dispiace.» Ivey non distolse quasi lo sguardo dalla cagnetta sofferente. «Pensi di potermi assistere in ambulatorio?» «Ma certo! Non c'è neppure bisogno di chiederlo.» Aggrottando le sopracciglia, Hope borbottò: «Pensavi che ti avrei lasciato sola con un cane che sta male? Che ti avrei au7


gurato buona fortuna mollandoti lì?». Sbuffò dal naso. «Forse l'ho mai fatto?» Ivey aveva un rapporto abbastanza stretto con Hope da capire che l'aveva offesa involontariamente. «No, ma è venerdì sera e abbiamo avuto una giornata molto lunga.» «È venerdì sera anche per te, sai?» «Siamo due sfigate.» Ivey fece una risatina, malgrado fosse preoccupata. «Le altre donne avrebbero quasi tutte dei programmi per la serata, invece noi non ne abbiamo mai.» «Ma tu hai Geoff.» Ivey fece una smorfia. «Sai che roba!» Probabilmente Geoff era già stravaccato sul divano a guardare lo sport in TV o a giocare con un videogioco. La passione era svanita dal loro rapporto da tanto tempo, perciò Ivey dubitava che si sarebbe accorto della sua assenza. Invece Hope non usciva mai con nessuno. Ivey ne era dispiaciuta, ma era tanto affezionata a lei da evitare d'intromettersi. Sorridendo all'amica, le disse: «Sono contenta di non doverlo fare da sola». «Mai» le giurò Hope. «Anche se, per qualche miracolo, avessi un impegno decente per il fine settimana, potresti comunque contare su di me, okay?» La sua amicizia con Hope era molto più importante per Ivey di qualsiasi altro rapporto, compresa la sua scialba storia d'amore con Geoff. «La cosa più intelligente che abbia mai fatto è stata quella di assumerti.» «E ne sono contenta» mormorò Hope. «Altrimenti non saremmo mai diventate amiche. E allora dove sarei adesso?» «Diciamo che è andata bene a tutte e due.» Anche se Ivey aveva dieci anni più di lei, avevano subito legato e andavano d'accordo come se fossero state amiche da una vita. Laddove Ivey era autoritaria e a volte poco diplomatica, invece Hope era un'attenta ascoltatrice e aveva un cuore d'oro. Spesso Ivey voleva prendere di petto il mondo, mentre Hope purtroppo tendeva a nascondersi per non affrontarlo. 8


O, per la precisione, voleva nascondersi da eventuali uomini interessati a lei. Hope aveva una grande affinità con gli animali, e un tocco delicato ma fermo. Non era mai facilmente impressionabile, però trasmetteva comprensione. Ivey la stimava moltissimo. I clienti l'adoravano. E gli animali si fidavano di lei. Sfortunatamente mancavano ancora cinque minuti per arrivare in clinica quando la cagnetta entrò in travaglio. «Ci siamo davvero» annunciò Ivey, facendo il possibile per mettere comoda la bestiola. Protendendosi di più verso il volante per concentrarsi, Hope accelerò. «Manca poco.» Avevano appena varcato la soglia quando le si ruppero le acque. Hope si precipitò ad allestire una zona adatta, muovendosi con la disinvoltura dovuta all'esperienza. Aprì una gabbia già pulita e preparò una cassetta per il parto, che riempì con delle coperte. La cassetta aveva tre lati più alti per contenere i cuccioli appena nati, e uno più basso in modo che la madre potesse uscire agevolmente per mangiare e bere. Sicura che Hope avesse tutto sotto controllo, Ivey si dedicò a pulire la cagnetta con la massima efficienza e rapidità. Riuscì a lavarla sommariamente, togliendo il più possibile il fango, poi Hope la raggiunse e dichiarò: «È tutto pronto». «Speriamo di avere abbastanza tempo per pulire e fasciare la ferita prima che partorisca.» Di solito il parto avveniva al massimo entro due ore dopo che si erano rotte le acque, perciò non avevano neppure un minuto da perdere. Una giornata già lunga si stava rivelando interminabile. Un mese dopo, di mattina presto in un bel lunedì di sole, Ivey entrò in ambulatorio dalla porta di servizio sul retro. A Sunset, nel Kentucky, a maggio si girava già in maniche corte e con gli occhiali da sole, ed era ora di godersi l'estate. Ivey aveva già le prime due cose e, con calma, si sarebbe dedicata alla terza. Sinceramente, si sentiva positiva. Da tanto non stava così bene. Come se avesse sgombrato l'armadio per sbarazzarsi di 9


tutti gli indumenti antiquati o avesse perso qualche chilo di troppo. Sorridendo, pensò che in realtà i chili persi erano novanta, quelli di Geoff. Da qualche tempo le cose andavano male e, alla fine, venerdì sera Ivey si era fatta forza e l'aveva lasciato. Ed era stata una discussione penosa. Più tardi, quella sera stessa, aveva dubitato di tutto quello che gli aveva detto. Sabato, senza Geoff e con tutta la giornata a disposizione, si era sentita smarrita, a chiedersi che cosa fare da quel momento in poi. Ma domenica si era resa conto che era libera. E ora, lunedì, aveva deciso di guardare il mondo da una nuova prospettiva. Geoff invece no. Sabato l'aveva chiamata due volte, e domenica altre due. Ogni telefonata era cominciata con lui che cercava di persuaderla ed era finita con le sue accuse velenose. Perché lei, da donna tosta qual era, non si lasciava smuovere. Non da un uomo che l'aveva data per scontata. Rimpianti? No, non ne aveva neanche uno. Era stata con Geoff per due anni. La loro storia era piuttosto blanda, senza veri obiettivi né un grande impegno. Una relazione senza via di uscita, basata più sulla comodità per lui e sull'insicurezza per lei, che l'aveva lasciata insoddisfatta da diversi punti di vista. L'aveva resa insicura riguardo al proprio fascino, e con la sensazione di volere qualcosa, ma niente di più. Non aveva bisogno di sposarsi. Non aveva bisogno di un uomo. Quanto al sesso... Be', okay, le piaceva farlo ogni tanto ma per quello non le serviva una storia seria. Quella sarebbe stata la sua estate disimpegnata. Se avesse avuto necessità di un contatto fisico, cavoli, avrebbe sempre potuto rimorchiare come facevano in tanti. Trovare un bel ragazzo degno di attirare il suo interesse per qualche ora, e poi voltare pagina. 10


Libertà. Era il suo nuovo mantra. Il principio di base ora era anteporre a tutto i suoi desideri. Non importava se era vecchia dentro, e non le interessava andare alle feste, al bar o in discoteca. All'università, quando tutti folleggiavano nel fine settimana, lei invece faceva la volontaria in un rifugio del posto. Ora che era una veterinaria apprezzata – almeno dagli animali che curava – le sue giornate erano piuttosto banali e, dopo il lavoro, le serate erano dedicate soprattutto a Maurice, il suo gatto anzianotto. A Geoff non piaceva molto Maurice, e l'antipatia era ricambiata. Ivey avrebbe dovuto fidarsi del suo gatto. A quindici anni di età, aveva sviluppato un istinto infallibile. Mentre attraversava la clinica, Ivey sentì abbaiare e sorrise. Daisy, la cagnolina che aveva tratto in salvo dalla fattoria di Marty, viveva ancora alla clinica con i suoi tre adorabili cuccioli. Ivey deviò verso la gabbia dove Daisy dormiva di notte, e chiamò: «Sono io, tesoro». La trepidazione la fece smettere di abbaiare. Non appena aprì la porta, Daisy cominciò a scodinzolare e la guardò con gli occhioni adoranti ma cauti. I cuccioli grassottelli ruzzolavano giocando tra loro e non badarono a lei quando entrò e si sedette accanto alla cagnetta, che era una Jackabee. La grattò sotto il mento e le accarezzò il dorso. «Sei dolcissima, ma ancora tanto timida.» La zampa era guarita bene, ma ora aveva una cicatrice. Ne aveva passate tante, ma dopo la nascita del primo cucciolo era stata una mammina bravissima. «Che cosa ti hanno fatto, piccola, per essere tanto ritrosa?» Daisy chinò il muso e si avvicinò ancora di più a lei. «Tranquilla, amore. Puoi essere timida se vuoi, non mi dispiace.» Durante la giornata, Daisy poteva scorrazzare per la clinica purché non andasse nelle zone in cui poteva imbattersi in altri animali. I cuccioli erano tenuti chiusi con una barriera bassa temporanea sul fondo dello sportello della gabbia. Daisy po11


teva scavalcarla, ma i piccoli non ne erano in grado. Sospirando, Ivey pensò che Daisy si sarebbe sciolta a suo tempo, e sarebbe stato inutile insistere. Di lì a poco sarebbe arrivata Hope, ma intanto lei aprì la porta per far uscire la cagnolina e i cuccioli in un cortiletto chiuso dove potevano godersi il sole e il prato, poi si mise a sciacquare le ciotole e riempirle di acqua fresca e di crocchette. Daisy trovò subito il suo posto preferito per spaparanzarsi al sole, seguita dai cuccioli. Uno si attaccò a un capezzolo, un altro si mise a inseguire una mosca e il terzo si piazzò a sonnecchiare vicino al collo della mamma. Nel recinto esterno c'erano diverse cose con cui divertirsi, come giocattoli, oggetti da mordere e tunnel flessibili, in modo che Daisy potesse fare esercizio fisico e i cuccioli fare giochi stimolanti. Oh, quanto avrebbe sentito la loro mancanza se... quando avesse trovato delle famiglie per loro. Hope le si avvicinò. «Non imbrogli nessuno, sai?» «Non so proprio a che cosa ti riferisci.» Invece sapeva esattamente che cosa volesse dire Hope. Hope la seguì quando Ivey rientrò per controllare gli appuntamenti. «Parli bene, ma basta guardarti negli occhi per capire che non ti separerai mai da Daisy, e forse neanche dai cuccioli.» Davvero era così trasparente? «Mi dà fastidio, tutto qui.» Senza aspettare che Hope le chiedesse spiegazioni, Ivey precisò: «Le persone vedono i cuccioli e automaticamente ne vogliono uno». Poi aggiunse, in falsetto: «Oh, sono così piccoli e carini!». Alzò gli occhi al cielo. «Non guardano neppure Daisy, come se fosse trasparente, ma i cuccioli saranno uguali a lei fra qualche mese. I cuccioli non rimangono piccoli. Se non possono amare quel cane...» Hope sollevò una mano. «Con me sfondi una porta aperta, amica. Se avessi il permesso di tenere animali nel mio misero appartamentino, prenderei Daisy senza pensarci due volte.» Fece una smorfia. «E, okay, anche i cuccioli. Cavoli, avrei un piccolo zoo.» 12


Ivey sorrise mentre guardava Hope che scostava i capelli scuri e sottili con un gesto che faceva sempre per sottolineare una sua affermazione, come per aggiungere oh, ecco. «Ben presto troverai una casa nuova.» Non che a Sunset ci fossero molte abitazioni da affittare. Quasi tutti tendevano ad acquistare una casa, ma Hope aveva solo ventuno anni e non poteva ancora permetterselo. «A proposito, posso chiederti un favore?» Dato che non le chiedeva mai niente, Ivey si affrettò a dirle: «Tutto quello che vuoi». «Una casa in riva al lago vicino alla fattoria di Marty è stata venduta poco tempo fa. È una bella villa con tanto terreno. Non so se ricordi quella proprietà.» «È circondata dai boschi, giusto?» «Sì, è quella. Chi vi abitava aveva una dépendance in cui viveva la madre della padrona di casa. Ora che la signora è morta, hanno deciso che per loro era troppo grande perciò l'hanno venduta, e il nuovo proprietario vuole affittare la casetta.» Ivey capì finalmente dove volesse arrivare, e posò la relazione che stava sfogliando, poi si girò verso di lei con un sorriso. «Pensi di affittarla tu?» Gli occhi blu di Hope s'illuminarono per l'entusiasmo. «È così bella, Ivey! È vicina al lago ma non è lontana dalla clinica, per cui non dovrei fare troppa strada in macchina per venire al lavoro. E avrei abbastanza privacy. Da lì si vede la villa, ma avrei il mio vialetto di accesso e anche una piccola terrazza.» Fece un respiro profondo. «Ho già parlato con il proprietario, è un uomo solo con un bambino e non è della zona, e ha detto che me la terrà in sospeso fino a stasera, perché andrò a vederla. Però dopo dovrà farla visitare anche ad altre persone.» Ivey afferrò al volo il problema. «Vuoi che ti accompagni?» Ora che il problema era uscito allo scoperto, Hope parve afflosciarsi per il sollievo. «Verresti? So che è da cretini, ma non posso...» 13


«Ehi.» Ivey la interruppe con un sorriso, appoggiandosi al bancone. «Morirei di curiosità se non la vedessi anch'io. E, Hope, non mi devi alcuna spiegazione, okay? Ti capisco benissimo.» «Grazie.» Hope esalò un lungo respiro. «È subito dopo il lavoro, ma l'ho saputo solo stamattina, altrimenti avrei detto qualcosa ieri sera.» «A Maurice non dispiacerà aspettare un po' di più per cenare. Comunque è probabile che dormirà finché non tornerò a casa.» Preferiva non pensare troppo a come Maurice fosse diventato meno vitale, altrimenti si sarebbe intristita. Hope la scrutò in viso e le chiese: «E tu che cosa mi racconti di Geoff?». «È acqua passata. Una storia morta e sepolta.» Hope indietreggiò per la sorpresa. «Wow, è stata una cosa veloce.» «È successo venerdì sera, veramente.» «Perché diavolo non me l'hai detto?» Era vero, di solito si confidavano tutto, però stavolta Ivey aveva esitato. Prese di nuovo in mano la relazione, la rigirò tra le dita, poi ammise: «All'inizio non ero sicura di quello che provavo al riguardo». «Quindi preferivi non parlarne?» Ivey rifletté per qualche istante. «Forse prima dovevo solo metabolizzare la cosa.» In quel momento entrò Karen, la segretaria, e le salutò tutta allegra e pimpante come al solito, poi cominciò subito a organizzarsi per gli appuntamenti di quel giorno. Ivey scambiò due parole con lei per esaminare il programma della giornata. Quando ebbe finito, prese sottobraccio Hope e la portò in una sala visite. Apprezzavano tutte e due Karen, ma sapevano che era una pettegola. Ivey le spiegò sottovoce: «Stare con Geoff era un errore che non avrebbe portato a nulla di buono. Ho deciso che sarei stata meglio senza di lui». «Okay.» Ivey notò che Hope non sollevò obiezioni riguardo all'errore. 14


«Perciò...» Sentendo i clienti che arrivavano, Hope chiuse piano la porta alle sue spalle, poi chiese: «Che cosa ne pensa Geoff del fatto che tra voi sia finita?». Ivey scrollò una spalla. «E a me che cosa importa?» replicò, sforzandosi di sembrare convincente. Hope incrociò le braccia e si appoggiò alla porta chiusa. «Era d'accordo?» «Non esattamente.» Hope sollevò un sopracciglio scuro. «Ti ha chiesto che cos'avrebbe potuto fare per risolvere i problemi?» Lapidaria, Ivey ripeté: «Non esattamente». «Quindi ha fatto lo stronzo?» Ivey cercò invano di trattenere un sorriso. «È buffo sentire quella parola uscire dalla bocca di una brava ragazza come te.» Hope non diceva quasi mai parolacce e molto raramente era sgarbata, tranne che con i cretini che se lo meritavano. Hope si protese verso di lei. «Stronzo» ripeté articolando bene la parola con comica esagerazione. Ah, era proprio l'iniezione di buonumore di cui Ivey aveva bisogno. Cominciarono a ridacchiare, poi a ridere fragorosamente. Alla fine, dopo un minuto buono, la risata si spense in un risolino sommesso. Le due donne si appoggiarono l'una all'altra, cercando di riprendere fiato. Quando si furono calmate quasi completamente, Hope si asciugò gli occhi. «Devo essere sincera. Non mi è mai piaciuto.» «A te non piace nessuno.» «Non è vero! Gli uomini mi piacciono, purché non siano...» «Non dirlo.» «Stronzi.» Ivey si tappò la bocca con una mano e si sforzò di trattenersi, ma senza riuscirvi. Hope l'aiutò allontanandosi. Raddrizzò le spalle, si ravviò i capelli con le dita e tirò in basso il bordo della maglietta, nel tentativo di ricomporsi e frenare l'ilarità. Sapendo di dover fare la sua parte, Ivey raccolse meglio 15


nell'elastico le ciocche di capelli che per lei erano troppo ricci. «Insomma.» Dovette fare due colpetti di tosse per dominare l'impulso di incurvare le labbra in un sorriso. «Vuoi che andiamo insieme a vedere la casa, oppure ognuna con la sua macchina?» «Tanto vale arrivare separate, perché saremo più vicine a casa tua. Così poi non dovrai tornare indietro.» «Allora ti seguo fin lì.» Così sarebbero arrivate contemporaneamente e Hope si sarebbe risparmiata qualsiasi imbarazzo. «Nel frattempo, sento che la sala d'attesa si sta riempiendo, perciò mettiamoci al lavoro.» Furono impegnate per il resto della giornata; ebbero due emergenze che lasciarono pochissimo tempo per il pranzo. Qualche ora prima della chiusura arrivò un acquazzone con tuoni che scuotevano le pareti e lampi accecanti che squarciavano il cielo plumbeo. Gli animali erano più irrequieti per il temporale e gli esseri umani meno ben disposti. La povera Karen dovette pulire in continuazione il pavimento in sala d'aspetto perché Ivey, Hope e l'altra tecnica veterinaria non ebbero un attimo di respiro. Ivey non mancò di ringraziarla più volte, ma fortunatamente Karen era un tipo positivo che affrontava ogni incombenza con il sorriso sulle labbra. Ci voleva qualcosa di molto peggio per scalfire il suo ottimismo. Un giorno avrebbe dovuto allargare l'attività, pensò Ivey. Magari assumere un altro veterinario per avere più tempo libero. Però per il momento preferiva rimanere a un livello più ristretto. Conosceva tutti a Sunset, gli animali domestici dei residenti e le loro condizioni di salute. L'unico vantaggio di essere tanto indaffarata era quello di non avere affatto tempo per soffermarsi a pensare al fallimento della sua relazione... No. Non aveva fallito. Aveva riesaminato i termini della questione. Sapendo che Hope l'aspettava, Ivey andò nel suo ufficio, prese la borsetta e scoprì che aveva una decina di chiamate perse e di messaggi sul cellulare. 16


Tutti di Geoff. Fece una smorfia e passò in rassegna i messaggi. Erano arrivati a un'ora di distanza l'uno dall'altro, tra una chiamata e l'altra. Ciao, piccola, mi chiedevo come stessi. Ti ho chiamato ma non hai risposto. Impegnata? Davvero non aveva idea dei suoi orari di lavoro? Non hai motivo d'ignorarmi. È una cattiveria. Ivey continuò a leggere strizzando gli occhi. Penso che passerò a casa tua dopo il lavoro. Non ci sarò, imbecille. E non osare disturbare il mio gatto!, pensò Ivey. Credo che dovremmo parlarne. Chiamami. Quell'ultimo messaggio risaliva a dieci minuti prima. Ivey non voleva parlare con Geoff; venerdì sera si erano detti tutto quello che c'era da dire e, anche se avesse avuto dei ripensamenti, lui aveva contribuito a rinsaldare la sua decisione con la maniera sgradevole con cui aveva cercato di dare a lei la colpa di tutto. Perciò, invece di telefonargli, gli rispose con un messaggio. Stasera ho da fare. Poi, per evitare che l'accusasse di essere con un uomo, aggiunse: Sono con Hope. Appena ebbe inviato il messaggio avrebbe voluto prendersi a schiaffi. Non gli doveva alcuna spiegazione. Perciò scrisse: E comunque è finita. Poi resistette all'impulso di aggiungere: Scusa. Dio, essere una brava persona era uno svantaggio quando si trattava di chiudere una storia. Ivey ficcò il cellulare in borsa e raggiunse Hope che era al17


la porta sul retro. Tutte le altre erano già andate via. «Siamo in ritardo?» «Solo di qualche minuto» rispose lei. «Ho telefonato e mi ha detto che non c'è problema. Lui e il figlio hanno appena finito di cenare.» Tenendo d'occhio il cielo nero, si diressero ognuna verso la propria macchina nel parcheggio. «Quindi ha un figlio?» «Così pare.» Hope aggirò una pozzanghera. «Non so molto di lui, ma se la dépendance è bella dentro come all'esterno vale fino all'ultimo centesimo la cifra che chiede di affitto.» «Allora speriamo che sia così.» Corbin Meyer guardò il figlio, che ancora lo sbalordiva, e desiderò di avere la capacità di capirlo. Justin era alto per la sua età, snello e dinoccolato, con capelli castani perennemente scompigliati, refrattari a qualsiasi pettinatura, gli occhi azzurri pieni di diffidenza e risentimento, e tanta energia in eccesso da poter muovere un treno. Stabilire come incanalare tutta quella energia in maniera costruttiva sarebbe stato un colpo risolutivo. Era stato necessario trasferirsi, ma Justin non nascondeva il suo malcontento. Probabilmente rivoleva solo sua madre. Ma, in cuor suo, Corbin sapeva che era meglio che lei lo avesse abbandonato. Justin avrebbe voluto mantenere i contatti anche con gli amici, ma erano nel suo vecchio quartiere in una città vicino all'Ohio meridionale. E non era una zona in cui Corbin avrebbe voluto stabilirsi. Semplicemente suo figlio rivoleva indietro la sua vecchia vita, quella che gli era familiare. Ma lui sperava che, con il tempo, avrebbe cominciato ad apprezzare di più quella nuova. I bambini erano creature adattabili, no? Ma che cosa ne sapeva lui? Con le mani in tasca, Corbin si appoggiò allo stipite della porta della camera del figlio e si schiarì la gola. «Toc toc.» Justin non alzò lo sguardo. 18


«Ha smesso di piovere. Fra qualche minuto arriverà una persona a guardare la casetta da affittare. Dovresti venire con me quando gliela farò vedere.» «Perché?» Justin continuò a non guardarlo. Corbin aveva sulla punta della lingua le parole perché lo dico io, ma ricordò quanto detestava quella risposta da bambino, perciò la ingoiò e cercò una spiegazione più ragionevole. «Perché hai dieci anni e mi sentirò più tranquillo ad averti con me.» Finalmente Justin alzò gli occhi, e lo fulminò con lo sguardo. «Perché?» Sospirando, Corbin entrò per avvicinarsi. «Non ti ha fatto piacere trasferirci. Lo capisco. I cambiamenti sono difficili.» Justin sbuffò dal naso. «Significa che sei d'accordo o no?» Justin scrollò le spalle. «Quindi pensi che io sia troppo stupido per capire?» Justin serrò le labbra con diffidenza. «Non ho detto questo.» «Meglio. Perché non sono affatto scemo, e neppure tu lo sei, perciò so che capisci. Nessuno dei due ha avuto scelta in questo trasloco, ma ora siamo qui e, per quello che mi riguarda, non vedo l'ora di cominciare la nostra vita futura.» Justin mugugnò qualcosa che gli sfuggì. E forse non voleva saperlo, in ogni caso. «Però ho pensato che potremmo fare qualche cosa per facilitare il passaggio. Innanzitutto, mi è venuto in mente di comprare delle bici prima che io debba riprendere il lavoro.» Justin alzò lo sguardo. «Bici?» «Una per me e una per te. Qui a Sunset ci sono tante strade tortuose su cui sarebbe divertente andare in bici. A me piace tenermi in forma e tu hai un fisico sportivo. Potremmo fare dei giri in bicicletta a esplorare i dintorni. Che ne dici?» «Non so andare in bicicletta.» Corbin avvertì una stretta al cuore, ma si sforzò di non fargli vedere la sua reazione. «Allora prima ci eserciteremo qui intorno a casa, dove non potrà vederci nessuno. Ca... pperi» 19


si corresse all'ultimo momento. Adesso era un problema dire parolacce, e Corbin doveva fare sempre attenzione ai termini che usava. «Non vado in bici da anni, perciò dovrò fare pratica anch'io con te. Quando ci sentiremo sicuri scenderemo in città.» Tenendo a freno l'entusiasmo, Justin disse: «Okay». «Compreremo anche dei gonfiabili e ti prenderò anche un salvagente così potremo nuotare. Mi hanno detto che l'acqua del lago è ancora un po' fredda, ma possiamo sopportarlo, non credi?» Negli occhi di Justin si accese un lampo d'interesse. «Sì.» «Però prima dovrai farmi una promessa. Non ti avvicinerai al lago a meno che non sia con te.» Quell'affermazione gli fece sollevare il mento con aria di sfida. «Perché?» Quella era la sua parola preferita, a quanto pareva. «Perché ora che sei con me non voglio perderti, ecco.» Aveva il forte impulso di stendere una mano e arruffargli i capelli, ma Corbin aveva già imparato che non doveva farlo, perché Justin si ritraeva ogni volta. «Anzi, ti dirò, tutte le volte che andrai in acqua dovrai portare il giubbotto di salvataggio.» «E da dove viene questa regola?» Corbin interpretò la domanda come un segno d'interesse e non di opposizione, perciò si avvicinò al letto e si sedette sul bordo. Era un nuovo letto a una piazza, per la nuova aggiunta alla sua famiglia. «Io e mio fratello siamo cresciuti vicino a un lago. Mia madre aveva la regola ferrea che non dovevamo mai fare il bagno da soli o senza salvagente. Sosteneva che c'era una forte corrente di risucchio e che se avessimo battuto la testa saremmo stati attirati sott'acqua e sarebbe stato difficile ritrovarci.» Ora che ci pensava, Corbin decise che anche lui avrebbe portato una cintura con i galleggianti. E se fosse andato a nuotare con Justin e si fosse fatto male? Non poteva fargli vivere quella brutta esperienza, perciò avrebbero dovuto essere estremamente prudenti tutti e due. Justin sgranò gli occhi e Corbin si rese conto che forse lo 20


stava spaventando in maniera esagerata, risvegliando immagini da incubo che sarebbe stato meglio lasciare a Jason Vorhees nel Camp Crystal Lake dell'horror Venerdì 13. Corbin aveva già scoperto che suo figlio era affascinato da tutto ciò che aveva a che fare con l'horror, ed era meglio non incoraggiare il suo interesse morboso. Tuttavia un po' di sana paura e una forse eccessiva dose di attenzione ai pericoli potevano essere positive. «Può sempre succedere» insistette Corbin. «Perciò non andare al lago senza farmelo sapere. Però, ehi, prenderemo anche l'attrezzatura da pesca, va bene? Anzi, ti dirò, dopo avere fatto vedere la casetta, possiamo anche arrivare al lago a dare un'occhiata al pontile.» Si erano trasferiti solo tre giorni prima, e avevano dedicato tutto il tempo a sistemare i mobili e a disfare i bagagli. «Porteremo una torcia per cercare le rane. Che ne dici?» Una spalla magra si sollevò con curiosità malcelata. «Se vuoi.» «Sì che voglio.» Corbin si alzò e cedette al bisogno di stringere affettuosamente quella spalla piena di orgoglio, fingendo di non notare che il figlio si era irrigidito. «Prendi le scarpe, okay? Dobbiamo andare all'appuntamento con la tizia ora.» Dopo essere uscito dalla stanza, Corbin si concesse di sorridere. A poco a poco avrebbe conquistato Justin. Era con lui solo da qualche settimana, perciò sicuramente si stava ancora adattando al trauma, soprattutto perché era stato mollato a Corbin come se non contasse nulla, senza ripensamenti. Però Darcie gli faceva pena, in fondo. Gli aveva donato un figlio, e nel frattempo aveva anche rinunciato a un'esperienza eccezionale. O, almeno, sarebbe stata eccezionale quando lui avesse capito esattamente come fare il padre.

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Dal 25 ottobre


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