Appunti d'oltralpe

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Elena Tognoli


Laureata in Illustrazione presso il Camberwell College of Art (University of the Arts) di Londra, Elena Tognoli è nata a Milano nel 1982 e oggi vive tra Londra, le Alpi e il mondo. Nel corso degli anni ha collaborato nell’ambito di progetti artistici ed educativi con varie istituzioni fra cui: la British Library di Londra, l’UNESCO, l’australiana Griffith University, Explora - Museo dei Bambini di Roma (Italia), il SESC (Brasile), la Fondazione PInAC (Italia). Ha conseguito un master in Art and Design in Education presso l’Institute of Education (University College London). Le più recenti mostre collettive a cui Elena ha partecipato si sono tenute presso: CueB Gallery a Londra nell’aprile 2016, House of Illustration a Londra nel maggio 2015, Galleria dell’Incisione a Brescia (Italia) nel settembre 2015, Fondazione PInAC (Italia) nel marzo 2016.

Quaderno n. Zero della CoArtCo

© Elena Tognoli 2016 Pubblicato grazie al contributo del Dr. G. Donini

A Giulia in viaggio


Graffiando l’anima

Una presentazione per Elena Tognoli Le figure minute, poste ad animare i lavori scelti per questa personale titolata “D’Oltralpe”, non occupano la superficie ma con discrezione la abitano creando dialogo con ciò che le circonda: uno spazio bianco, un’isola dialogante e inclusiva che, nel suo stare tutt’intorno, le rende vitali. Nascono a seguito di meditati ritorni sul medesimo soggetto; di scavi archeologici in universi di forme ovvero di residui di un processo d’esplorazione grafica che li evidenzia mentre affiorano dai ricordi o dall’osservazione del percepito quotidiano. Fissate sul foglio da segni minimali, connotati da un tratto volutamente non omogeneo bensì condotto a singhiozzi o a battuta di cuore, queste figure sono esili com’è la mano che afferra la matita e correndo, scavando, graffiando, traccia in punta di mina. Sono sussulti a volte sussurri di chi ha percorso sentieri impervi, s’è arrampicato guardando dirupi e toccando orizzonti (Elena ha un’eredità radicata in montagna che le è rimasta incistata, con i suoi cieli e i suoi silenzi inquieti, sia a Milano – dov’è nata – sia a Londra dove oggi lavora), di chi è migrato in molteplici occasioni, di chi ha vissuto esperienze forti anche in luoghi lontani come l’arcipelago della Sonda. 1


La sobrietà di segno è presenza costante in tutti i lavori qui raccolti e si appaia sempre all’essenzialità del colore (di volta in volta velato, sovrapposto in tempi mai ravvicinati, oppure abbondantemente diluito) in una compenetrazione funzionale al racconto. Narrare con la grafite - non escludendo dal processo poietico la parola o il segno verbale è il destino, la vocazione di quest’artista emergente. La serie de “La donna-montagna” lo dimostra in tutta evidenza con i crepacci che diventano nidi, gli avvallamenti trampolini, gli speroni rocciosi punti estremi d’ascolto di silenzi densi, rifratti su pareti scoscese. La montagna ha una valenza femminile: compagna, forse madre, sicuramente mai matrigna, è l’incarnazione - scrive l’artista – del paesaggio; quindi, nonostante le difficoltà, è figura accogliente, dialogante, che si converte nell’equivalente della casa dell’anima. Una appresso all’altra le storie - testimoni di un’indagine svolta nel corso dell’ultimo anno e mezzo - si dispiegano con il loro retroterra apparentemente ordinario e penetrano nel profondo, perché parte di ogni vissuto. Così da eventi personali condivisi mutano in narrazioni condivisibili a patto, però, che ci si lasci prendere e condurre vincendo il timore di una grammatica visiva tutt’altro che piana o accondiscendente, bensì pervicacemente antiaccademica.

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Frammenti mai banali di una quotidianità spesso spietata o dispeptica – ne costituiscono esempio le “Donne-casa” poste a riflettere le difficoltà della colonizzazione migrante o il malessere dell’asfitticità delle pareti domestiche - sono tracce di un moderno anti-grazioso che preservano lievità e forza nel medesimo tempo. Graffi dell’anima generatori d’inquietudini e tenerezze - come i lavori della serie “L’universo molecolare di una lacrima”- possono trasformarsi in ferite o divaricazioni radicate in un erotismo diffuso che stupisce e ammalia. Così accade nel ciclo Nuts nel quale la molteplicità di senso insita in una parola innocua come nut (noce, nocciolina) si fa pretesto per esplorazioni polisemantiche, per indagini che oltrepassano il puro aspetto formale per affrontare registri imprevisti e compositi quali la contaminazione dei generi, il divenire dell’essere, la compenetrazione e la fusione dei corpi. Costantemente dall’isola bianca del foglio i piccoli segni si affacciano a domandare significato, e via via si fanno interrogazioni liriche che consegnano al mondo il tono emotivo di un’operazione concettuale che, come Elena sa, necessitano di spazi aperti e sviluppi ulteriori. AnnaMaria Chiara Donini, maggio 2016 Questi scritti, accompagnati dalla nostra gratitudine, sono dedicati a Barbara e Fabio per i salvataggi estivi. 3


Filosofare Dov’è la vita? Forse nei buchi della cintura, nel bicchiere di un aperitivo, nell’attesa della prima o della seconda portata, che se c’è ha sempre troppo burro. Senza zucchero subito viene il caffè.

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Un battesimo Mia lavatrice, le macchie e le cose pulite passano. Rimane qualche buco nelle calze, un po’ d’affetto nell’acqua di scarico.

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Incontro Dalla finestra ti annunciava un raggio radente. Giravamo intorno al tavolo; ruotavamo sul limine del piatto. La cameriera –pasta d’almendras – sapeva già tutto … mesceva acqua santa nei nostri bicchieri. Tu, spalmavi burro sul pane con un coltello, io schivavo la luce tagliente … come sopportare tanta verità solo al terzo incontro? (di sicuro avevo i capelli sbagliati, come il colore degli occhi, viola) Nel locale improvvisamente invaso di forme oblique e vuoto aspettavo l’arcangelo Gabriele.

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Pulizie di primavera Toglietemi l’opaco, spolveratemi come una scarpa nera lucida spaiata, sinistra che cerca la sua destra. Pensieri scritti macinati hanno lasciato molta grafite sulla carta, datemi una gomma per continuare a scrivere questa storia.

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Una zia Olivia, la vita é fatta d’attese. Intanto

Olivia intanto tu cresci e io non ho un regalo della tua taglia.

vorrei prenderti in braccio, parlar di ‘per sempre’, cioè ‘fin che dura’, finché ritrovi il pezzo di pane che hai perso gattonando.

Ti ho detto: - Olivia scusami, sono distratta Tu mi hai detto: - Lo so la lontananza è una cosa profonda.

Olivia, alcune zie non son zie Anche se han dei ferri per fare a maglia, ai check-in e sulle banchine soppesano i prezzi delle partenze pertanto Olivia, pensare alle persone a volte è un po’ triste alcune sono voci nel vocabolario di famiglia e nient’altro.

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Linee, anche, radure Vi sono domande la cui radicalità compromette la ragione della loro formulazione. Nel contesto specifico che qui ci riguarda, la questione rimanda alla sfera del disegno e della sua origine. In via preliminare dobbiamo capire a chi tale domanda dev’essere recapitata: non tanto allo spettatore disinteressato che si limita a vederne la forma definita, quanto piuttosto a colui che lo vive e lo pratica. In seconda battuta si tratta di comprenderne il referente: non vuole che s’indaghi l’oggetto rappresentato o il senso nascosto, ma l’esercizio che ne disciplina il gesto. Infine ci resta da definirne il fine: non tanto la necessità d’esprimere una proiezione di sé, quanto dello sforzo che la linea compie alla ricerca di un suo verso. Queste alcune delle possibili declinazioni della domanda che va indirizzata al disegnatore, al cui dovere di rispondere non vogliamo sostituirci, ma semplicemente disporci nel prolungamento avviato dalla sua opera. Potremmo dire che il disegno di Elena Tognoli non sembra scaturire nell’attesa di un tempo incompiuto; in tal caso saremmo di fronte al gioco della traccia che ci restituisce una realtà nell’atto stesso in cui si sottrae. Analogamente non sembra affiorare dall’impegno interpretativo del lettore di fronte al simbolo, la cui opacità richiede una ricerca del senso nascosto. Aggiungiamo che non appare scaturire dalla guida schematica dell’intelletto che detta regole compositive, dando al segno al più quel valore allegorico 13


che vive nel breve atto del suo riconoscimento. Il disegno di Elena Tognoli non deriva da qualcosa, ma vive in qualcosa; si anima nel corpo e vive nella sua mobilità senza guadagnare quella distanza che fa del corpo un proprio oggetto rappresentato; non lo espone e non lo esprime, non si emancipa acquisendo una sua autonoma indipendenza. Essere segno nel corpo vuol dire non delinearsi come la sua prosecuzione espressiva, significa non essere il veicolo segnico di un’intenzionalità corporea alla ricerca di uno spazio d’apparizione che ne testimoni una presenza latente e diversamente sconosciuta. Vivere nel corpo significa cercare l’origine del segno nelle torsioni dei suoi arti, nelle anse descritte dalle sue pieghe, nella meccanica delle sue articolazioni. Tutto ciò, si noti, non riguarda la mano, quale parte direttamente interessata del corpo. Non è nella tattilità, che descrive il contatto sensibile della mano; non è nella sua prensilità, che tradisce una volontà di possesso e di dominio; non è nella sua capacità organizzativa, che cerca una prima sintesi formale. Il disegno di Elena Tognoli non nasce dalla mano, né dal pensiero, ma cresce «in una spalla, nell’anca»; nasce nelle giunture degli arti, nelle articolazioni ossee, nelle torsioni muscolari, nelle piegature innaturali esasperate fino alla contorsione. È questa origine articolare del segno che lo trattiene dalla logica della rappresentazione, che lo preserva dall’esprimere il movimento corporeo, scoprendolo piuttosto nella sua stessa meccanica. Il moto strutturale della spalla attribuisce alla linea un andamento incerto e impreciso; il gesto contratto dell’anca genera una linea slogata, costruisce un disegno stressato da uno svolgimento dubitante continuamente spezzato in segmenti e punti. Rispetto a tale movimento anche 14


la nozione dello spazio cerca una diversa funzione: non va pensato come sfondo di forme possibili in attesa di un gesto deciso e risolutivo; non si dà neppure come sito archeologico di un passato che cerca di opporsi allo sprofondamento nell’immemorialità; non è riconducibile alla semplice e neutra superficie di contrasto all’emergere della figura. È l’origine articolare della linea a descrivere lo spazio, a definirlo quale condizione della sua tracciatura dilatata, slargo necessario a un gesto approssimativo. Lo spazio è bianco non perché vuoto, ma perché è quell’area essenziale all’azione; campo di manovra indispensabile ora all’agilità del corpo, ora all’abbraccio d’affezione, ora all’agonismo sessuale; la superficie è l’ampiezza sconfinata in cui si consuma lo sforzo, è la radura silenziosa a cui la fatica tende e in cui si raccoglie; è l’orizzonte che solo la pratica della montagna sa aprire alla spalla che porta e all’anca che sopporta. Post Scriptum Un’ultima cosa ci sentiamo di dire, legittimati dalle aperture di un lavoro che non esaurisce il suo senso nella sola enunciazione. Questo disegno ha una forza che non è contenuta dalla pagina, che ne dilata l’estensione e che chiama ad altre modalità comunicative. Sarebbe eccessivo dire che svolge una funzione didascalica, ma è certamente vero che chiama altri interventi, che si candida a forma di un’azione concreta, che traduce il foglio in ambiente, che chiama il corpo alla propria organicità. Massimo Tura, maggio 2016

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ABC Aviolo e Adamello le cime più vicine, allitterazioni alla fine e all’inizio del giorno. Lettere minuscole le vette in lontananza, virgole le valli. Le salite, frasi che aspettano d’esser dette. I pini, parole assiepate in pagine d’appunti, la neve una pausa, un tirar di fiato tra un periodo e l’altro. I crochi di marzo un punto e a capo. Il confine con la Svizzera l’inizio di un’altra storia. Così ho imparato a scrivere, camminando.

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Copernico prêt-à-porter Il cambiamento così pieno di motti e manifesti di navi-cargo di tasse d’importazione sulla luna

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Borboletas

Corrispondenza da Timor Est

Noi, due insetti, quattro ali stropicciate, ci tocchiamo l’anima con le antenne, voliamo a cercare del miele se diciamo parole troppo amare.

Millimetri di noi, metri di film, svuotati sull’hard-disk, salvati, me li hai rispediti in un pacchetto ritagli di schermo bluetto.

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Comunichiamo negli interstizi, quando il silenzio sta per fare rumore. Non conosciamo l’imprecisione del linguaggio. Da sotto la zanzariera ascoltiamo il ronzio di un miliardo di insetti e di altre parole.

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La luce danneggia la carta, un restauratore una volta mi disse Era un bel disegno, intorno, molto bianco, respirava bene sul foglio Lo tenevo nelle buste stropicciate di questo portfolio chiuso -Molto bello- dicevi. Qualcun altro te l’avrà detto. No, veramente, no (solo un periscopio fra le pagine portava luce, aria alla carta)

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Immagini

Un’altra volta? - Da ‘Le donne casa’, 2016 Le donne prendono il tè sul lago, 2016 La donna che piangeva sul lago, 2016 L’universo molecolare di una lacrima, 2016 La donna-tanica - Da ‘Le donne casa’, 2016 Una casa, donna con veranda - Da ‘Le donne casa’, 2016 I bulbi sul davanzale di ponente - Da ‘Le donne casa’, 2016 La mano-azione - Da ‘C’era già tutto in mano’, 2015 La mano-universo - Da ‘C’era già tutto in mano’, 2015 Senza titolo (Schizzi), 2015 La donna-pino - Da ‘Le donne montagna’, 2015 Senza titolo (Schizzi), 2015 Coming out of the nut, 2015 Vedersi paesaggio - Da ‘La scalata’, 2016 Trovare un sentiero a volte - Da ‘La scalata’, 2016 (Sinistra) La scalata si comincia sempre da soli e da dentro - Da ‘La scalata’, 2016 (Destra) Il freddo che paralizza le mani (dettaglio) - Da ‘La scalata’, 2016 Una nostalgia senza oggetto - Da ‘La scalata’, 2016 Avevo bisogno solo delle mie gambe forti - Da ‘La scalata’, 2016 Senza titolo (Schizzi), 2015 On the importance of being nuts, 2015 Senza titolo (agosto e settembre), 2015 Siamo fatte dello stesso bosco - Da ‘Le donne montagna’, 2015

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