Appia e la luce wagneriana Eleonora De Vecchis
Indice Introduzione: prospettive storiche
Capitolo 1: sintomi di Rivoluzione 1.1 La battaglia comune di Adolphe Appia e Richard Wagner 1.2 La riforma teatrale wagneriana ed i suoi limiti 1.3 Le note del Wagner metteur en scéne attraverso quelle di Heinrich Porges
Capitolo 2: manifesto dell’opera d’arte vivente dell’avvenire 2.1 Adolphe Appia, “artista-teorico” della visione musicale 2.2 La Mise en scène du Drame Wagnérien 2.3 La Musique et la Mise en scène 2.4 L’Oeuvre d’Art Vivant e Art Vivant ou Nature Morte
Capitolo 3: “si schiude il sipario” sul campo di battaglia 3.1 Appia sulla Scala per il successo 3.2 Appia firma sul Convegno la propria dichiarazione di ‘guerra’ 3.3 Gli schieramenti italiani
3.4 Le radici, e gl’ echi, dell’oggetto che dà inizio alla riforma 3.5 La quiete prima della tempesta 3.6 L’azione drammatica 3.7 La reazione drammatica 3.8 Il bilancio della catastrofe ed i primi raggi della luce del nuovo giorno
Conclusioni
Introduzione: prospettive storiche Ci sono voluti anni perché s’intravedesse, tra le maglie della trappola del tempo, lo sfavillio della stella di Adolphe Appia, ma dall’istante della rivelazione in moltissimi sono accorsi a liberarne la timida luce. Si presenta di seguito una minima parte, nelle sue linee essenziali, del vastissimo panorama, di cui si può avere un’idea sommaria sfogliando la raccolta bibliografica in appendice, degli approcci di studio all’arte di Appia, ormai riconosciuta in tutta la sua portata pioneristica. ♦ Ugo Blättler, Appia e la scena costruita, F.lli Bocca, Roma 1944. Ugo Blätter analizza il percorso strettamente artistico dello scenografo teatrale Adolphe Appia (Ginevra, 1 settembre 1862 – Nyon, 29 febbraio 1928), riferendosi in modo particolare a due dei suoi scritti, Art vivant ou nature morte? (1923) e Mise en scène du drame wagnerien (1895), parzialmente citati in traduzione italiana.
♦ Nicoll Allardyce, Lo spazio scenico, Bulzoni, Roma 1971. Il volume offre una visione generale delle molteplici evoluzioni subite dalla progettazione dei teatri e dalla scenografia. Tale argomento è divenuto oggetto d’interesse dal momento in cui la storia del teatro si è affermata come materia di studio autonomo. L’interesse sempre maggiore e le ricerche che ne sono conseguite hanno reso necessarie la revisione e la parziale riscrittura del testo originario del volume, allo scopo di offrire una sorta di mappa generale a chiunque desideri avventurarsi in un sentiero artistico ancora poco esplorato. Al contributo dato da Richard Wagner e Adolphe Appia al progresso del teatro è dedicata parte dell’ottavo capitolo, che illustra le linee essenziali della loro opera riformatrice. ♦ Ferruccio Marotti (a cura di), Attore musica e scena: La messa in scena del dramma wagneriano, La musica e la messa in scena, L'opera d'arte vivente, Feltrinelli, Milano 1ª ed. 1975, 3ª ed. 1983.
Volume pubblicato nell’ambito del programma del consiglio nazionale delle ricerche su Le teoriche dello spettacolo nel Novecento, contenente gli scritti di Adolphe Appia: La mise en scène du drame wagnérien (1895), La musique et la mise en scène (1899), tradotte in italiano da Delia Gambelli, e L’œuvre d’art vivant (1921), tradotta da Marco De Marinis. Il volume termina con l’illustrazione degli scenari di Appia per i drammi di Wagner, minuziosamente progettati sulla base delle partiture, battuta per battuta, e con l’elenco delle opere edite e inedite (conservate presso la Foundation Adolphe Appia di Berna) del e sul teorico ginevrino. Gli scritti dell’artista sono introdotti dalla prefazione di Ferruccio Marotti in cui viene presentato l’excursus artistico di Appia, evidenziando in maniera particolare la forma rigorosa delle teorie formulate da quest’ultimo. Sarebbe il carattere deduttivo dei ragionamenti esposti da Appia a farne, secondo la prospettiva di Marotti, un autore moderno. Un “artista-teorico”, lo definisce Marotti, che non riforma, ma nega totalmente il teatro che gli è contemporaneo, lasciando il posto ad un’utopia
radicale: il teatro del futuro non è il futuro del teatro, ma La Sala, ovvero “uno spazio libero, vuoto, trasformabile, … in cui l’arte drammatica fiorirà con o senza spettatori”. ♦ Irene Lambelet, Norberto Vezzoli (a cura di), Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano 1980. Il catalogo nasce in occasione della mostra espositiva prodotta e realizzata dalla PRO HELVETIA (fondazione svizzera per la cultura) di Zurigo per gli Espaces di Parigi del ’79 e viene riproposto nella versione italiana in occasione degli Espaces di Milano risalenti al marzo dell’ ’80. Nel catalogo i curatori approfondiscono i dati, sull’opera, il contesto storico e la vita di Adolphe Appia, offerti dai pannelli dell’esposizione. Quest’ultimi sono ordinatamente riportati al termine del libro, con tanto delle sintetiche nozioni e di bozzetti dell’artista, sia gli schizzi per la messa in scena delle opere wagneriane sia gli spazi ritmici. L’analisi dei suddetti dati è strutturata nei seguenti capitoli: Adolphe Appia e il Teatro alla Scala,
Appia attraverso se stesso, Appia attraverso gli altri, Adolphe Appia e lo spazio teatrale dalla rivolta all’utopia (capitolo a cura di Denis Bablet), Adolphe Appia frammenti di un’opera. Il primo capitolo contiene estratti dalla lettera di Toscani d’invito alla Scala e di articoli (firmati, tra gl’altri, da Corradini, Calzini, Ponti) pubblicati nei giorni prossimi alla première, il secondo estratti da un manoscritto di Appia, Introduction à mes notes personnelles, rimasto inedito fino all’ ’80, e da lettere di Appia, ancora inedite, indirizzate a Craig, il terzo considerazioni di artisti – del calibro di Copeau (di cui è riportato un estratto da Adolphe Appia et l’art scénique), Dalcroze, Wolkonsky (di cui si cita l’articolo Appia e Craig tratto da Khudojestvennye) – sul conto del contemporaneo Appia, il quarto curiosità sui lavori di Appia e, soprattutto, sulla fragile personalità dell’ autore, l’ultimo estratti da alcuni interventi pubblici di Appia (come L’art dramatique Vivant dalla Conférence pour Zurich, tenutasi nel ’25) e di altre sue lettere inedite rivolte a Craig. Tra il materiale figurativo, presentato all’esposizione e riportato nel libro, compaiono, oltre ai
disegni firmati da Appia, delle ricostruzioni delle scene ideate dall’artista in forma di plastici, come quello della scenografia del secondo atto del Tristano e Isotta realizzato da Harry Zaugg e Steffan Rebsamen sulla scorta di schizzi risalenti al 1896. ♦ Oscar G. Brockett, Storia del teatro, Marsilio, Venezia 1993. Il volume consiste nel più ricco e aggiornato profilo dell’attività teatrale dall’antichità preclassica ad oggi. Esso ripercorre la storia del fenomeno teatrale attraverso le epoche ed i paesi dell’occidente e dell’oriente, prestando attenzione ad ogni suo aspetto: dal testo alla recitazione, dalla vita degli autori e delle compagnie alla disposizione dello spazio e della scenografia, dall’organizzazione economica allo sviluppo della trattatistica, dalle regolamentazioni pubbliche all’uso dei trucchi scenici e degli effetti speciali. L’edizione italiana segue le vicende del teatro dai drammi sacri dell’antico Egitto fino ai nostri giorni, ed è stata appositamente curata per rispondere alle particolari esigenze degli studiosi e degli operatori
teatrali del nostro paese. Il Wagner metteur en scène apre, non a caso, il sedicesimo capitolo, La nascita del teatro contemporaneo. ♦ Mirella Schino, Carla Arduini, Rosalba De Amicis, Raffaella Di Tizio, Eleonora Egizi, Doriana Legge, Fabrizio Pompei, Francesca Ponzetti, Noemi Tiberio (a cura di), dossier L’anticipo italiano, in Teatro e Storia, 2008, n. 29, pp. 27–123. Del dossier sono stati presi in analisi il relativo sito contenente Italia 1911-1934, mappa della ricezione della grande regia e La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, a cura di Pompei. Il dossier raccoglie parte del materiale raccolto nel 2005 attraverso il progetto di ricerca diretto dalla Schino e portato avanti dal gruppo di studi formatosi all’interno dell’Università dell’Aquila: La ricezione del teatro della Grande Riforma europea nell’Italia degli anni del “Ritardo”: traduzioni, riviste, cronache giornalistiche, epistolari, articoli, presenza o assenza di spettacoli stranieri, circoli e “teatri d’arte” in Italia nella prima
metà del Novecento. Lo scopo ultimo della ricerca è smascherare la ‘revisione della memoria’ operata dagli storici e rileggere in maniera il più possibile oggettiva la produzione culturale dell’Italia dei primi decenni del Novecento, da sempre tacciata di ostinato conservatorismo, ovvero di ritardo rispetto al resto d’Europa. Nel sito è pubblicata la raccolta delle recensioni agli spettacoli allestiti dai padri fondatori della regia passati per l’Italia (o, qualche volta, visti a Parigi), più alcune tracce delle risposte del teatro italiano, teatranti e critici. La mappa dell’Italia 1911-1934 presenta anno per anno, il panorama, ancora provvisorio ed incompleto, dei viaggi compiuti attraverso l’Italia dagli spettacoli della grande regia europea, ed aiuta la comprensione dei documenti contenuti nel sito. Fabrizio Pompei orienta la propria ricerca sulle testimonianze del passaggio in Italia del ‘protoregista’ svizzero Adolphe Appia, consultando le pubblicazioni di vari periodici negli anni che vanno dal 1923 al ’33. Da tale analisi sono emersi i seguenti articoli (si riportano in ordine: data, nome del periodico, annata
rivista, titolo dello spettacolo, autore dell’articolo, titolo dell’articolo): -
1923.04.00, Il Convegno. Rivista di letteratura e arte, Anno IV n. 4, 5, 6, Tristano e Isotta, Gio Ponti, Il teatro di Appia, l’opera d’arte vivente
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1923.10.17, La Sera, Tristano e Isotta, Un’officina delle lettere e delle arti. La scuola degli attori
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1923.10.19, Il Secolo, Tristano e Isotta, Fervore d’opere alla Scala
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1923.10.23, Il Secolo, Tristano e Isotta, Un viaggio alla Scala
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1923.10.30, Il Convegno. Rivista di letteratura e arte, Tristano e Isotta, Adolfo Appia, La messa in scena e il suo avvenire (Dedicato alle alunne della scuola di Jacques Dalcroze)
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1923.11.03, La Sera, Tristano e Isotta, G. M. C., La scala e l’allestimento scenico
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1923.11.07, La Sera, Tristano e Isotta, I disegni teatrali di Appia alla “Bottega di poesia”
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1923.11.09, La Sera, Tristano e Isotta, G. M. C., L’indirizzo della scala
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1923.12.13, La Sera, Tristano e Isotta, G. M. C., Preparazione al Tristano
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1923.12.14, Il Secolo, Tristano e Isotta, Le scene di Appia per la Scala
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1923.12.15, Commedia, Anno V n. XXIV, Tristano e Isotta, Raffaele Calzini, Dove un teatro si chiude mentre si aprono gli altri
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1923.12.19, Corriere della sera, Tristano e Isotta
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1923.12.19, Il Piccolo, Tristano e Isotta, Gino Gori, Scenografi e scenografia
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1923.12.20, Corriere della sera, Tristano e Isotta, Scala
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1923.12.20, La Sera, Tristano e Isotta, Fossati, Il Tristano e Isotta di stasera
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1923.12.20, Il Sole, Tristano e Isotta, Scala
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1923.12.21, Corriere della sera, Tristano e Isotta, Carlo Gatti, La prima di Tristano e Isotta
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1923.12.21, L’Avanti, Tristano e Isotta, Tristano e Isotta alla Scala
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1923.12.21, L’Ambrosiano, Tristano e Isotta, G. C. Paribeni, Tristano
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1923.12.21, Il Messaggero, Tristano e Isotta, La prima del Tristano alla Scala
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1923.12.21, Il Popolo d’Italia, Tristano e Isotta, A. T.(Alceo Toni), Tristano e Isotta alla Scala
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1923.12.21, Il Secolo, Tristano e Isotta, Adriano Lualdi, Tristano e Isotta alla Scala
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1923.12.21, La Sera, Tristano e Isotta, G. M. C., Tristano e Isotta alla Scala
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1923.12.21, Il Sole, Tristano e Isotta, C. F., Tristano e Isotta alla Scala
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1923.12.21, La Stampa, Tristano e Isotta, Tristano e Isotta alla Scala
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1923.12.22, Corriere della sera, Tristano e Isotta
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1923.12.22, Il Sole, Tristano e Isotta
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1923.12.23, Corriere della sera, Tristano e Isotta Scala
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1923.12.23, Il Secolo, Tristano e Isotta, Nello Toscanelli, La Scala e il buio
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1923.12.29, Corriere della sera, Tristano e Isotta, Corriere teatrale
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1923.12.29, La Voce Repubblicana, Tristano e Isotta, La rinnovata primavera della Scala di Milano
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1923.12.30, Corriere della sera, Tristano e Isotta Scala
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1923.12.30, L’Illustrazione italiana, Anno L n. 52, Tristano e Isotta, Carlo Gatti, Ripresa di opere. Tristano e Isotta.
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1923.12.30, Il Sole, Tristano e Isotta, Scala
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1924.00.00, Cose viste, Tristano e Isotta, Ugo Ojetti, Calvino alla Scala
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1924.01.00, La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, n.1, Tristano e Isotta, Cronache musicali
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1924.01.02, Corriere della sera, Tristano e Isotta
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1924.01.03, Corriere della sera, Tristano e Isotta Scala
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1924.01.06, Il Sole, Tristano e Isotta, Teatri
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1924.01.11, Il Secolo, Tristano e Isotta, Raff.(Raffaele Calzini), Gli artisti e le opere. Il caso Appia
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1924.01.15, Commedia, Anno VI n. 2, Tristano e Isotta, Raffaele Calzini, Scenate per le scene; dove si naviga il mare di Cornovaglia
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1924.01.29, Il Secolo, Tristano e Isotta, Enrico Thovez, Scenarii
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1924.02.10, Commedia, Anno VI n. 3, Tristano e Isotta, Raffaele Calzini, Via Appia
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1924.08.30, Il Convegno. Rivista di letteratura e arte, Anno V n. 8, Tristano e Isotta, Adolfo Appia, Drammatizzazione
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1925.02.28, Il Convegno. Rivista di letteratura e arte, Anno VI n. 2, 3, Tristano e Isotta, Adolfo Appia, L’arte vivente nel teatro
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1928.03.20, Commedia, Anno X, Tristano e Isotta, Anton Giulio Bragaglia, Il teatro visivo e il visivo a teatro
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1932.09.01, Scenario, Anno X n. 8, Tristano e Isotta, Omaggio ad Adolphe Appia
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1933.05.00, Commedia, Tristano e Isotta, Carlo Lari, Della “messa in scena”.Veri e falsi registi
♦ Heinrich Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, An Eye-Witness Account of the Stage Rehearsals of the First Bayreuth Festival, traduzione di Robert L. Jacobs, New York 2009. Grazie all’attento lavoro di Porges è possibile assistere ai primi passi sul palcoscenico della Tetralogia wagneriana attraverso gli occhi, le esitazioni e gli entusiasmi del suo procreatore. Fu proprio quest’ultimo a chiedere al critico, appassionato ed esperto della sua arte, di seguire da vicino ogni prova per la prima comparsa in scena de L’Anello e di registrare ogni minimo dettaglio circa le proprie osservazioni – poiché il duplice impegno d’autore e metteur en scène non gli avrebbe lasciato il tempo di annotare nulla – e l’interpretazione degli attori. La scrittura scorre con la stessa vitalità con cui il drammaturgo conduce le prove ed oltre a riportare fedelmente le istruzioni di Wagner, acutamente distinte nel caos delle prove, è arricchita dalle intuizioni del critico, a cui un altro eminente studioso di Wagner, Curt Von Westernhagen, ha difatti attribuito “amazing insight and perception”.
♦ Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C., Torino 2011. Il volume illustrato rientra nelle pubblicazioni della collana Gli artisti dello spettacolo alla Scala curata dagli Amici della Scala e da Vittoria Crespi Morbio, dedicatasi anche allo studio di un altro artista eclettico come Mario Sironi, che pure immaginò un’ambientazione scaligera del Tristano. Del libro fanno parte il saggio della Morbio, Inattuale per sempre, in cui vengono illustrate le dinamiche dell’ approccio dell’artista ginevrino alla critica e al pubblico italiano, ed i seguenti apparati: la lettera inedita di Appia a Caramba Sono convinto che il Tristano alla Scala aprirà la giusta strada, la biografia di Appia, le tavole raffiguranti i bozzetti dell’artista e l’elenco degli articoli comparsi sullo spettacolo, in parte citati nel saggio. Nel saggio la Morbio racconta degli entusiasmi ma soprattutto delle aspettative tradite e della delusione di quanti assistettero alla première del Tristano alla Scala. Dal punto di vista dell’autrice Appia sarebbe condannato, come lo stesso Wagner, a restare “inattuale per sempre” sia per la mancanza, nell’ambito delle sue
formulazioni teoriche, di un tassello decisivo, ovvero di chiarimenti sulla recitazione degli attori, sia per il suo concetto di necessità e di spoliazione del gesto da ogni senso descrittivo, a cui pochi registi attuali sono fedeli, poiché attenersi a tale precetto ne limiterebbe di gran lunga il potenziale espressivo. ♦ Biblioteche consultate: -
Bibliomediateca dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia
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Casa delle Letterature
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Biblioteca nazionale centrale di Roma
Capitolo 1: sintomi di Rivoluzione 1.1 La battaglia comune di Adolphe Appia e Richard Wagner
Il 20 dicembre del 1923 si avvera la sintesi – per usare un termine hegeliano – di due anime simpatetiche. Alla Scala di Milano Adolphe Appia mette in scena il Tristan und Isolde, dramma musicale di Richard Wagner, per la direzione del maestro Arturo Toscanini. L’invito che il direttore rivolge ad Appia per via epistolare è legato al tentativo di coniugare il rinnovamento del teatro milanese, cui era stato indirizzato un cospicuo investimento economico, ad un’ operazione di europeizzazione dello stesso. Difatti in questi anni, e nei successivi, il fascismo destina una serie d’interventi strutturali e di finanziamenti, di gran lunga superiori a quelli per il teatro di prosa, a favore della lirica. In risposta a tali esigenze e in occasione della rappresentazione di un dramma wagneriano, la scelta non poteva che cadere sullo scenografo – non si può ancora parlare di “regista” – ginevrino.
Appia assiste alla rappresentazione de L’anello del Nibelungo al Semperoper, il teatro di corte di Dresda, ed è proprio l’incontro con il teatro di Wagner a segnare nella sua vita artistica il passaggio dalla fase negativa, ovvero di ricezione e analisi, a quella attiva, di elaborazione teorico-pratica. All’ orecchio del giovane artista il flusso dell’onda musicale wagneriana arriva intermittente: una messa in scena ‘dissonante’ non consente di lasciarsene totalmente sommergere. La frustrazione derivata dal mancato coinvolgimento lo condusse, egli dice, “a scorgere le intime risorse di cui ero dotato nel mio temperamento e che genere di responsabilità mi imponessero. Poco dopo mi ritirai in campagna e mi misi al lavoro di cui mi consideravo come incaricato”. 1 L’ esigenza che Appia avverte d’intervenire su quanto lo avevo deluso è spasmodica ed è sentita come una necessità immediata. La necessità è, dopotutto, condizione essenziale dell’arte, come Wagner espone animatamente nell’incipit di una delle sue maggiori produzioni in prosa: 1
Adolphe Appia, Expériences de théâtre et recherches personnelles (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1922-24, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 9.
“l’uomo sta alla natura come l’arte sta all’uomo. […] La natura genera e modella senza intenzione alcuna e incoscientemente, secondo il bisogno, il che significa necessariamente. […] l’uomo non sarà mai quello che può e quel che deve essere se la sua vita non sarà lo specchio fedele della natura, l’osservazione cosciente della sola necessità vera, che è la necessità naturale intima e non la sottomissione a una potenza esterna, [da questo punto in poi il discorso di Wagner si orienta sulla critica alle convenzioni che falsificano l’arte come la moda e le istituzioni snaturano l’uomo]… alla stessa stregua l’arte non sarà mai quel che può e che deve essere finché non sarà la fedele immagine del vero uomo e della vera vita necessaria agli uomini”. 2
Ma, per intervenire con cognizione e con i mezzi più corretti sulla scena concreta, il giovane Appia, le cui idee sono sì acute ma ancora confuse e non sostenute dall’esperienza, non può prescindere né da una riflessione più matura né da un’elaborazione chiara e scritta delle proprie soluzioni. Ne L’opera d’arte dell’avvenire anche Wagner mostra di aver fatto proprio quest’insegnamento: “l’artista, nessuno può negarlo, non produce direttamente, […] il suo procedimento è piuttosto 2
Richard Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo La natura, l’uomo e l’arte.
quello della scienza che avanza mediante ricerche e osservazioni ed è, per conseguenza, arbitrario e suscettibile d’errore”. 3 È, dunque, vero per Appia quello che, attraverso le parole di Houston Stewart Chamberlain, sappiamo essere vero per Wagner: “quasi sempre è sintomo di inibizione quando un artista interrompe la sua creazione per presentarsi al mondo come autore di meditazioni teoriche”. 4 “Artista” scrive Chamberlain. La messa in scena che Appia scrive de L’anello del Nibelungo non è, forse, un’opera d’arte, ma è di sicuro l’analisi di una concezione artistica. È comunque certo che in quest’aspetto, quindi nell’esigenza di organizzare e mettere su carta il proprio pensiero e le proprie intuizioni, Appia e Wagner sono affini. Anche il loro modo di esporre pare simile. Entrambi usano costruire i ragionamenti per equazioni, deduzioni e sillogismi dal tono filosofico. Comune ai due è pure il destino ad abitare epoche e società che, quasi per nulla, ne comprendono, o perlomeno accettano, il valore artistico e la portata innovativa. 3
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo La vita, la scienza e l’arte. 4 Ferruccio Marotti, Adolphe Appia, Attore musica e scena, La messa in scena del dramma wagneriano, La musica e la messa in scena, L’opera d’arte vivente, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 9.
Wagner decide di affidare parte del proprio rancore a Lohengrin, personaggio autobiografico che dà il titolo all’opera romantica che scrive intorno al 1845, opera in cui convivono espansioni melodiche dalla spiegata vocalità e momenti di declamato drammatico. Nel protagonista, simbolo del destino dell’artista in terra che, invano, spera di essere recepito con il sentimento e non con la meschina esattezza della ragione, si manifesta, grazie anche al contribuito del colorito diafano e luminoso degli archi, tutto l’ambiguo misticismo wagneriano. Conquistare il favore pubblico non è, comunque, l’interesse primario del compositore tedesco, come il suo atteggiamento politico e morale dimostra. Ne L’opera d’arte dell’avvenire sostiene con fermezza:
“l’uomo […] fino a oggi non è mai esistito se non in funzione della religione, della nazionalità, dello stato”, continua poi: “l’arte non sarà mai quel che può e che deve essere […] finché dovrà improntare le condizioni della sua esistenza agli errori, alle vicende e alle mostruosità della nostra vita moderna, […] non esisterà una vera arte finché le sue [dell’uomo] creazioni non saranno sottomesse alle leggi della natura anziché ai dispotici capricci della moda, […] l’arte non si libererà dalla
sua dipendenza dalla vita se non legandosi alla vita di uomini sinceri e liberi”. 5
La vita del compositore romantico si piega all’arte, a questa egli sacrifica il proprio e l’altrui destino, attraverso una ferrea tenacia egli abbatte ogni ostacolo e si serve di ogni mezzo, più o meno lecito, per concretizzare gli immensi progetti maturati interiormente e lasciare spazio a nuove ispirazioni. Egli aveva capito come l’arte drammatica fosse un’arte d’eccezione e come questo carattere dovesse esserle reso, sotto pena di vederla declinare e morire. Per questo la sua vita si orienta sempre più al “coup d’état dramatique”, 6 di cui la sua produzione assume il carattere decisivo. Sostenuto da una volontà eroica, incontrollabile come una forza della natura, Wagner concepisce opere che, oltre a contraddire apertamente il gusto corrente e le sue certezze, propongono all’orchestra, ai cantanti, allo scenografo e infine al pubblico e alla critica difficoltà pratiche apparentemente inaggirabili fino addirittura a pretendere, a dispetto di tutte le 5
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo La natura, l’uomo e l’arte. 6 Marotti, Adolphe Appia, Attore musica e scena, La messa in scena del dramma wagneriano, La musica e la messa in scena, L’opera d’arte vivente, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 127.
delusioni e le persecuzioni subite, l’erezione di un teatro apposito di cui il compositore sia signore assoluto. In quest’aspetto Appia è ben diverso, come la scarna autobiografia che stese nella sua stanza accanto ad una casa di cura per malattie mentali, pochi mesi prima di morire, suggerisce:
“Adolphe Appia, ginevrino, nato nel 1862 (figlio del dottore Louis Appia, fondatore della Croce Rossa). Studi musicali a Ginevra, Lipsia, Parigi e Dresda. Ritiro in campagna nel 1891 e inizio del lavoro effettivo.[...] Nel 1894, Appia ha pubblicato a Parigi, presso l’editore Chailley, La Mise en Scène du drame Wagnérien. Poi ha composto la messa in scena dell’Anello, dei Maestri cantori, di Tristano, di Parsifal e di molti altri drammi. Nel 1895 cominciava Musik und Inszenierung edito da Hugo Bruckmann a Monaco nel 1899. Ha pubblicato numerosi articoli e disegni in riviste. Nel 1906 venne a conoscenza della Ritmica di Dalcroze, che conferma quello che aveva annunciato in Musik und Inszenierung. Nel 1921 pubblicò la sua ultima opera: L’Oeuvre d’Art vivant (Atar, Ginevra), che considera la più significativa tra le sue opere e quella che più compiutamente esprime il suo pensiero. In seguito ha
composto varie messinscene, con o senza musica (Gluck, Bizet, Shakespeare, Goethe, lbsen, Eschilo, ecc.). Realizzazioni sceniche: Ginevra, Hellerau, Parigi. Le due principali e ultime realizzazioni integrali a Milano, Scala (Toscanini), Tristano e Isotta, 1923-1924; e a Basilea (Waelterlin), Oro del Reno e Walchiria, 1924-25 (nell’Oro del Reno le figlie del Reno non avevano apparecchiatura natatoria, quindi non erano sospese per aria). Numerose realizzazioni frammentarie, su diverse scene: collaborazioni e tentativi privati. Esposizioni: Darmstadt, 1909. Zurigo (internazionale) nel febbraio 1914. Colonia, giugno 1914. Ginevra, Istituto Dalcroze, 1918. Amsterdam (internazionale), febbraio 1922. Londra (internazionale) nel giugno 1922. Milano, Scala, 1923. Stoccolma, 1924. Basilea, ottobre 1924. Zurigo, aprile 1925. Lipsia, Congresso Musicale, giugno 1925 (con relazione scritta e fotografie). Magdeburgo, nel 1927”. 7
7
Adolphe Appia, Curriculum vitae d’Adolphe Appia écrit par lui même (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1927, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 11–12.
Adolphe Appia a vent’anni (collezione privata), in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia, illustrazioni, n. 1.
Appia, 1890 circa e Appia studente al conservatorio di musica a Lipsia, 1882, in Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C.,Torino, 2011, p. 23.
Adolphe Appia, 1923 circa, in Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C.,Torino, 2011, p. 8.
Richard Wagner nella villa di Triebschen, presso Lucerna, 1867. Fotografia di Jules B
Dietro questo “curriculum vìtae d’Adolphe Appia écrit par lui même” (destinato ad un’enciclopedia ungherese, pubblicata nel 1930) pressoché privo di accadimenti eclatanti si cela una fervida vita interiore che non trova sfogo e canali espressivi in un clima rigido, puritano e moralista, in un ambiente che riserva lo stesso destino a tutte le personalità che non sa comprendere e che, quindi, non può gestire – non è un caso che Antonin Artaud, Piet Mondrian, Van Gogh siano altri assidui frequentatori di quelli che, senza tanti eufemismi, si chiamano manicomi – . L’ostilità di cui è vittima, unita al pessimismo calvinista a cui viene educato fin dalla fanciullezza, sono responsabili della morbosa timidezza che affligge la sua dimensione umana come pure la sua dimensione artistica. Quando non cede al delirio nevrotico o ricorre all’alcool come palliativo, Appia tenta di esorcizzare la sofferenza che lo attanaglia scrivendo di sè: “è la penna, per cui la mia mano non è fatta, che deve sostituirmi!”. 8 In un manoscritto inedito Appia fa risalire le proprie difficoltà relazionali e l’afasia che lo tormenta dall’età di sei anni ad “une disposition héréditaire”: 8
Ibidem.
“Consultando la mia esperienza, trovo, prima di ogni altra cosa, una disposizione ereditaria, difficilissima a definirsi; mi viene da mio padre: è una specie di interruzione nell’esercizio normale delle mie facoltà applicate alla vita sociale. I rapporti d’amicizia e le relazioni puramente sociali mi riescono relativamente facili (nonostante la mia balbuzie di cui parlerò più in là); ma non appena si tratta di prender parte all’attività positiva degli altri, oppure di portare gli altri nell’attività che io desidero avere, ne divento, improvvisamente, del tutto incapace, non per timidezza, ma per totale ignoranza”. 9
Questa disposizione nei confronti della vita non può che tradursi in un patologico isolamento: “[…] l’elemento patologico entra in vigore allorquando tale personalità trova l’armonia solo nella solitudine: se questo sentimento la priva delle nozioni necessarie al contatto con i suoi simili, la rende incapace perfino di utilizzare le circostanze per acquisire quelle nozioni”. 10 Data la distorta percezione che l’artista ginevrino ha del mondo circostante, la solitudine gli pare essere l’unica condizione per vivere e lavorare serenamente e la ricerca fin dalla più tenera 9
Ibidem. Ibidem.
10
età, quando trascorre ore chiuso nella ricca biblioteca paterna. Significative sono le parole che Appia rivolge a Craig in una lettera composta il 31 gennaio del 1919, rimasta inedita fino agli Espaces organizzati a Parigi nel ‘79, seguiti dagli Espaces di Milano:
“grazie per la vostra gentile ed affettuosa lettera. Sono sempre colpito dal fatto che vi preoccupiate per me e ve ne sono grato; giacché se la mia anima ha la fortuna di vivere nei miei Campi Elisi, il resto del mio essere non è così felice. Tuttavia non voglio lamentarmi, perché la solitudine mi è necessaria, e poi, materialmente mi piace la semplicità. Di più, al presente, non è desiderabile mettersi in viaggio! Il mio carattere ed il mio temperamento non mi permettono una vita attiva quale le mie capacità artistiche potrebbero richiedere. Lavoro bene in solitudine: è un destino a cui mi sono abituato!” 11
Anche una personalità estrosa come quella di Wagner rifletteva sulla necessità dell’artista contemporaneo di escludere la realtà circostante, in cui era diffusa l’opportunistica tendenza all’omologazione: “il desiderio sente di non poter essere 11
Estratto da una lettera inedita di Appia a Craig, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso se stesso, p. 19.
appagato che nella comunità; rinuncia però alla comunità moderna, aggregato d’ egoismi arbitrari, per soddisfarsi nella solitaria comunità di se stesso con l’umanità dell’avvenire, per quanto, naturalmente, può fare un solitario”. 12 Anche quanto dichiarano Jacques Copeau e Serge Wolkonsky, vicino a Dalcroze, risulta di notevole interesse per comprendere come lo scenografo ginevrino venisse visto dall’esterno. Copeau inizia il discorso riportando le parole dello stesso Appia: “Non sono portato per l’azione – mi scriveva – e devo rifugiarmi nelle mine della mia matita” poi continua:
“il suo spirito fioriva e regnava in campi elisi dove non avevano posto i gretti contrattempi del mestiere. Ma non divagava. Le scoperte che ha fatto sono positive; esse avevano, come gli piaceva dire, del terreno solido sotto i piedi. Appia non era un sognatore, un mistico. La realtà scenica lo possedeva, più viva di quanto noi la percepiamo a teatro (…) da lui non traspariva orgoglio, ma pudore. La bruttezza, la bassezza, il virtuosismo o la banalità del teatro lo facevano arrossire. Le ‘quinte’ gli mettevano i brividi. Lavorava 12
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo Conformazione sfavorevole all’arte della vita attuale sotto il regime dell’astrazione e della moda.
all’aperto, passeggiando in riva al lago o nel bosco (…). Ha negato e ripudiato il teatro, e solo per estremo amore per quest’arte viva. Ha spalancato il soffitto di quella mediocre scatola delle meraviglie: l’aria è finalmente entrata ed abbiamo intravisto il cielo”. 13
Scrive, invece, Wolkonsky: “mi immaginavo questo incontro (…) lo Svizzero, figlio dei boschi, grossolano e tenero, farfuglione e persuasivo, parlava con lo sguardo rapito dalla riscoperta dell’arte e della vita grazie alla genialità di JaquesDalcroze”. Analizzando l’opera di Appia, Wolkonsky cita un termine che non può non rimandare immediatamente all’universo wagneriano, “infinito”: “quando posiamo lo sguardo sui progetti di Appia, la prima cosa che ci colpisce, la più importante, è l’orizzonte. Tra le cose che esistono sulla terra, la più ‘lontana’ è la linea dell’orizzonte sul mare, punto d’incontro tra l’acqua e il cielo: non vi sono limiti a quello che s’intuisce, non vi è fine a quello che si presume; nel campo del possibile, ovviamente, l’orizzonte è l’espressione fisica 13
Estratto da Adolphe Appia et l’art scénique, in La Naciòn, Buenos Aires, 16 aprile 1928, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso gli altri, pp. 22–23.
dell’infinito e, quindi, l’espressione visiva dell’eternità”. 14 L’infinita melodia wagneriana sembrerebbe, dunque, trovare un correlativo oggettivo negli orizzonti delle scene allestite da Appia.
14
Wolkonsky, Appia e Craig, in Khudojestvennye otkliki, Leningrado, 1912, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso gli altri, p. 27.
Lettera di Appia a Craig, in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 18621928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso se stesso, pp. 19–21.
Lettera di Craig ad Appia, in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso gli altri, pp. 24–25.
Anche in Wagner può scorgersi, accanto all’incredibile forza del sentire, una vena nichilista, quella che lo disponeva alle più morbide e decadenti involuzioni del sentire romantico e gli suscitava quel bisogno di redenzione, di liberazione catartica da un qualche peso o colpa, presente in tutte le sue opere. Per Bekker quest’altalena di sentimenti doveva essere il necessario riflesso del meccanismo di tensione e distensione alla base dell’armonia romantica. La redenzione finale dell’anima peccatrice corrisponde all’intervento liberatore della cadenza sulla tonica, torturata dal perseverante cromatismo wagneriano. In questa coincidenza risiede forse il segreto della riuscita compenetrazione tra avvenimento scenico e sonoro, componenti di un’identità naturale, primigenia, non provocata. Il personaggio che si muove sulla scena non segue la musica, è musica, e gli spasmi della sua anima sono insiti nella frenesia dell’orchestra. Il processo di creazione artistica in Wagner è assolutamente spontaneo, l’autore matura lungamente le opere nel suo animo, le inizia, abbandona, riprende, modifica e alterna a seconda delle spinte e delle esigenze interiori, non di certo pratiche o logiche. Esemplare il percorso creativo della tetralogia, massima espressione dell’indole e della capacità wagneriana di
adesione intima alla natura, pervasa da uno spirito di ottimismo rivoluzionario fino all’incontro con la filosofia di Schopenahuer confluita nell’apocalittico finale del Crepuscolo degli Dei. Durante la stesura del Sigfrido la vita ispiratrice irrompe furiosamente (1857) e tutto il lavoro, la passione e la cura dell’artista devono concentrarsi e piegarsi alla sua nuova esigenza: tradurre in dramma lo straziante poema di Gottfried von Strassburg, il Tristan. Suares la definì un “grido in tre atti”, colpito dalla sua immediatezza e perfezione, dovute ad una continuità nell’ispirazione forse unica nella storia dell’opera in musica. In questa definizione si riconosce anche il pensiero di un giornalista de La sera, per il quale “il dramma non è che lamento, sospiro, urlo e fremito di passione, prima sul vascello, in conspetto del mare infinito, poi nella chiarità stellare della notte, infine fra i ruderi gloriosi del Kareòl 15”. Confessa, a proposito dell’opera, lo stesso Wagner: “mi si creda, non esiste felicità superiore alla perfetta spontaneità dell’artista nel corso della creazione, e io
15
G. M. C., Tristano e Isotta alla Scala, in La Sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 68.
l’ho conosciuta componendo il Tristano”.16 E ancora: “poiché in vita mia non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho sbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta; un concetto musicale della massima semplicità, ma puro sangue; col bruno vessillo che sventola in fine del dramma, voglio avvolgermi per morire!”. 17 E lo confessa all’amico fraterno Franz Lizt, padre di Cosima von Bulov, che si separerà da Hans von Bulov (tra i maggiori sostenitori di Wagner) per unirsi a Wagner nell’agosto del 1870. Ma è noto come sia stata un’altra donna, una “santa del paradiso”, a tenere accesa la fiamma di quell’ispirazione: Matilde Wesendonk, incontrata nel ’52 nel “rifugio della collina verde”, come lo chiamava Wagner, ovvero la piccola casa fuori Zurigo in cui il marito di lei lo aveva ospitato in uno dei periodi più cupi del suo esilio. Da quest’ amore non coronato matura l’opera che è sintesi e nuovo inizio, erede della tragedia classica e intimamente
16
Richard Wagner, Lettre sur la musique, 1861, cit. in Richard Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, con un saggio introduttivo di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, p. 337. 17 Estratto da una lettera di Wagner a Liszt, Zurigo, dicembre 1854, cit. in Piero Gelli, Filippo Poletti, Dizionario dell’opera, Baldini Castoldi Dalai, 2008, pp. 1316–1317.
rivoluzionaria negli accenti, punto di non ritorno nella storia dell’opera romantica e punto di partenza di tutta la musica moderna. Opera che, pure, è accarezzata dall’alito tombale che spira dalle parole di Schopenahuer. Ma, in fondo, nell’ opera capitale del filosofo, Il mondo come volontà e rappresentazione, e nella sua visione del mondo intrisa di profondo pessimismo, Wagner trova uno stimolo creativo, riscattando dalla tragica illusorietà del mondo interiore il più ispirato anelito alla vita e all’amore. Ancora da Schopenahuer proviene la concezione della musica propria di Appia, sensibilmente vicina a quella wagneriana:
“la musica […] non esprime mai il fenomeno, ma solamente l’intima essenza, l’in-sé di ogni fenomeno, la volontà stessa. […] Da ciò deriva che la nostra fantasia è da essa eccitata così facilmente e tenta quindi di dar forma a quel mondo di spiriti che ci parla con assoluta immediatezza, invisibile e tuttavia così vivacemente mosso, e di rivestirlo di carne ed ossa, incarnandolo quindi in un esempio analogo. È questa l’origine del canto con parole e, alla fine, dell’opera. […] La musica esprime sempre soltanto la quintessenza della vita e dei suoi processi, mai questi stessi, le cui diversità quindi non
influiscono mai in ogni caso su di lei. Se dunque la musica cerca di collegarsi troppo alle parole e di conformarsi agli avvenimenti, essa si sforza anche di parlare una lingua che non è la propria, […] in seguito a tutto ciò, noi possiamo considerare il mondo fenomenico o la natura e la musica, come due espressioni diverse della stessa cosa, la quale è quindi essa stessa l’unico mezzo di mediazione dell’analogia di entrambi” 18.
Da questa teoria Appia trae motivo per evidenziare il contrasto, proprio del teatro a lui contemporaneo, tra musica e messa in scena, che non è altro che una proiezione degl’ inevitabili contrasti tra essere e mondo fenomenico. Ed è questa stessa teoria, per quanto le premesse e le conclusioni di Schopenhauer siano diverse – Schopenhauer, presentando come modello l’opera di Rossini, si esprime a favore di una musica pura in grado di esercitare tutto il suo effetto senza bisogno di parole – , a suggerirgli la maniera per superarlo: “da questo intimo rapporto che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si può spiegare anche il fatto che, quando per una scena, un’azione, un fatto, un ambiente, risuona una musica adatta, 18
Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, introd. di Marcella D’Abbiero, trad. di Gian Carlo Giani, Newton Compton Editori, Roma, 2011.
questa sembra dischiuderci il senso più occulto degli stessi e si presenta come il loro commento più preciso e più chiaro”. Affinché una sinergia tra musica e scena, finalizzata alla riuscita dell’opera, ovvero a farne cogliere al pubblico il senso profondo, sia possibile, occorre dunque stabilire una gerarchia di cui pare ormai evidente che la musica debba occupare il vertice: “l’opera [intesa come testo drammatico] non dovrebbe mai abbandonare questa posizione subordinata, per voler diventare la cosa principale e rendere la musica un semplice mezzo con cui esprimere se stessa: la qual cosa è un grande errore ed una grave assurdità”. Da queste parole di Schopenhauer è deducibile anche un altro elemento di affinità tra i pensieri dell’artista svizzero e del drammaturgo tedesco, ovvero l’insofferenza alle convenzioni teatrali e all’ ‘intermittenza’ che ne deriva. Wagner rimprovera all’opera italiana e alla musica sinfonica precedente Beethoven l’interruzione della melodia da parte dell’insignificante “rumore” delle formule cadenzali in cui erano, tradizionalmente, articolate le frasi musicali. Egli giunge a parlare di “tirannia della quadratura” e, con la più lucida consapevolezza dei propri fini, rimuove con lena inesorabile
un’infinità di autorità costituite, pigre abitudini, storture tradizionali. È, forse, sulla base di tali conoscenze che Adriano Lualdi nel dicembre del ’23, considerando la reazione quasi omogeneamente polemica del pubblico italiano allo spettacolo messo in scena da Appia, scrive su Il Secolo:
“si sono udite gravi parole, ieri sera, nella platea e nel Ridotto della Scala. Si sono visti divampare sacri sdegni; si è sentito – nientemeno – parlare di profanazione. Ma io non riesco a convincermi – ogni volta che mi trovo dinanzi a casi simili – che sotto a tali furori religiosi (esplodenti generalmente in uomini che all’arte non hanno mai sacrificato nulla) non vi sia un buon substrato di misoneismo e di avversione al nuovo, solo perché ciò che è nuovo non è vecchio. Ed io sono convintissimo che nessuno di coloro che ieri sera si facevano eroici paladini di Riccardo Wagner – offeso e profanato da Adolfo Appia – avrebbe dato potendolo, – sessantacinque anni or sono, a Venezia – neppure un centesimo ad un giovane compositore quarantacinquenne che si chiamava Riccardo Wagner; e che, per ristorarsi dalle fatiche che gli costava il grande duetto del II atto di Tristano e Isotta, faceva delle igieniche ascensioni al Monte di Pietà, e vi
lasciava in pegno alcuni doni ricevuti da principi e granduchi, e il suo orologio. Lasciamo da parte, dunque, le pose tragiche; non parliamo di profanazione, che proprio non è il caso. La messa in scena di Appia – che si riallaccia per quel che è visione, agli ormai annosi criteri del Reinhardt e di Gordon Craig – può e deve essere discussa pacatamente e la Scala ha fatto benissimo a compiere questo esperimento che ha sapor di battaglia e, perciò, di antiaccademia e di vita.” 19
Il fine ultimo, perseguito da Appia come da Wagner, consiste in uno spettacolo le cui parti collaborino in armonia per esprimere la vita del dramma e renderlo credibile all’animo, ancor prima che agli occhi, del pubblico. Affinché quest’ideale si realizzi è necessaria un’unica mente che sovrintenda a tutti gli aspetti dello spettacolo drammatico e sia Appia sia Wagner ne sono, pur non dichiarandolo del tutto apertamente, perfettamente consapevoli. Scrive Appia nel corso della prima stesura delle proprie teorie: “non c’è che un modo per uscire da questo vicolo cieco: quello di affidare a una sola persona la responsabilità di tutta la parte 19
Adriano Lualdi, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Secolo, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 66.
rappresentativa” e ripete nelle conclusioni “la messa in scena può esprimersi con questa precisione soltanto se il suo linguaggio è fissato da un’unica volontà che ne misuri ogni sfumatura; perché un motivo messo fuori posto annulla tutti gli altri.” 20 La stessa concezione è propria dell’ ideale wagneriano del Wort-Ton-Drama, altrimenti detto Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale). In realtà Wagner non adopera mai quest’espressione, da cui potrebbe ricavarsi l’impressione d’una sinestesia del genere di quella tentata dai poeti simbolisti, come formula estetica precettiva. Il suo ideale non si riferisce ad una fusione delle arti particolari, comportante l’impensabile rinuncia ai loro mezzi espressivi, ma ad una loro collaborazione. Sottomesse ad una sola volontà, queste si trovano ad operare concordi a realizzare un comune obiettivo, il ritrovamento d’un antica unità perduta. Parola e musica nascono, dunque, dall’animo d’un solo creatore, che riserva la stessa cura e attenzione alla danza (s’intende all’intera azione scenica) anche a costo di notevoli ostacoli da superare. “Danza, musica e poesia: ecco le tre 20
Adolphe Appia, La mise en scène du drame wagnérien, 1895, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 43.
sorelle eterne che sbocciarono insieme. […] Per loro natura esse non possono essere separate senza che sia distrutto il cerchio [ovvero il movimento] dell’arte […] perché sono legate tra loro in un unione materiale e morale così mirabile solida e feconda, che ciascuna di esse, fuori dal cerchio, resa priva di vita e di movimento, non può che vivere una vita infusa artificialmente, fittizia, che non detta leggi piacevoli come la loro trinità, ma subisce regole tiranniche per i suoi movimenti meccanici. […] Tutte le facoltà artistiche dell’uomo hanno i loro limiti […] perché ogni facoltà deriva solo da un determinato senso”, di cui fa propri i limiti. Ma quest’ultimi si aboliscono nell’accordo tra le facoltà: “le facoltà umane, amandosi, costituiscono la facoltà universale umana che è senza limiti, che basta a se stessa. […] Solo ciò che si ama si può comprendere, e amare significa riconoscere altri e, nello stesso tempo, riconoscere se stessi. […] La musica è il cuore dell’uomo, […] il metro della poesia e la misura della danza […] il ritmo necessario del battito del cuore”. 21 Wagner prende le distanze dall’opera storica e cerca i propri soggetti nel mito, nella fase aurorale dell’umanità, scevra da 21
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo Le tre specie d’arte puramente umane nella loro unione originaria.
precisazioni cronologiche e di costume, che si adatta quindi pienamente all’indeterminatezza della musica. È nell’ambito di quest’ultima, infatti, che la rivoluzione wagneriana opera i maggiori stravolgimenti. L’entità della sua riforma drammatica impallidisce di fronte a quella delle innovazioni musicali, di cui è diretta conseguenza. A questo proposito si deve aggiungere come Appia criticherà, invece, il fatto che ci si ostini a mettere sul conto di Wagner musicista quella prodigiosa evoluzione musicale di cui solo Wagner drammaturgo dovrebbe portare la schiacciante responsabilità, mentre Paolo Isotta sosterrà nel suo saggio come Wagner fosse convinto che con Beethoven la “musica assoluta” avesse raggiunto ogni suo culmine possibile e come, dopo di lui, il musicista da solo non sarebbe più bastato: “gli occorre l’opera del poeta, o, meglio, di diventare egli stesso poeta: di diventare Wagner”. 22 Per quanto dir si voglia, la rivoluzione del Wagner musicista rimane incomparabile. La scrittura di una melodia infinita ove non si avvertano giunture, tagli o riprese, ad eccezione degli evocativi leitmotiv, la tessitura di una trama musicale che, sciolta dai vincoli di forme chiuse, segua ininterrottamente il divenire del dramma, 22
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, p. 336.
implica una nuova concezione armonica del discorso musicale, in cui i gradi fondamentali della tonalità sono privati dell’evidenza che possedevano quand’erano in stretta relazione con le svolte capitali dell’architettura formale. Il principio romantico della modulazione continua, che nel suo cangiante divenire traduce la mobilità incessante dei sentimenti, giunge in Wagner quasi ad ottundere le funzioni tonali fino a quel cromatismo, cui il compositore perviene moltiplicando le dissonanze, sempre meno preparate e risolte, che è lo specchio dello stato d’animo romantico per eccellenza, ovvero della tensione ad un qualcosa d’intangibile o di rimpianto, qualcosa che la realtà presente, inevitabilmente, esclude. Il Romanticismo consegna a Wagner una musica che è linguaggio ed egli ne fa un linguaggio sempre più duttile ed espressivo, adunando nella sua orchestra multiforme tutte le possibilità di colorito timbrico che i romantici si erano venuti foggiando. “Non c’è mai un suono puro, tutto è amalgamato. Mai è concessa all’orecchio la festa di un timbro limpido. Non si sente mai un flauto, o una viola, o la voce umana, ma un miscuglio di tutto questo” 23 lamenta Stravinskij, intollerante verso un’orchestra che procede per macchie dense e compatte 23
Massimo Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1946, p.245.
di colore. Alla “melodia infinita” wagneriana e alla continuità sonora che ne deriva, parrebbero corrispondere le modulazioni visive che Appia realizza attraverso la luce. Nel momento in cui Isotta, nel secondo atto del Tristano, soffoca la luce della fiaccola, che era il motivo dell’assenza di Tristano, ella ferma il tempo e cancella lo spazio. L’incontro dei protagonisti traspone lo spettatore nella loro dimensione d’innamorati dove vige un tempo fittizio, la Musica, e un’atmosfera chiaroscurale dove l’occhio si perde, non trattenuto da alcun oggetto o linea. Con l’irruzione di re Marco e dei suoi uomini gli oggetti scenici e i pochi elementi pittorici sono restituiti alla luce e allo sguardo degli spettatori. È dunque la luce a guidare la visione, incurante della meccanica tempistica del teatro tradizionale, in risposta alla musica, sprezzante, a sua volta, delle fredde, opprimenti e omologanti forme chiuse. Nello stesso modo è la luce di Wagner, stella musicale e teatrale non ancora estinta, a guidare Appia alla visione che ne fa un’altra timida stella della galassia artistica. Sotto il cielo di Wagner e Appia vivrà ben presto, se si lascerà illuminare anche dal credo di quest’ultimo, un’umanità redenta dalla musica:
“se il Wort-Tondrama ha liberato la musica dagli ostacoli di cui il mondo dei suoni si era sbarazzato con il suo egoistico isolamento, la musica a sua volta viene ad allargare all’infinito, con indicibile magia, la nostra visione, proponendole un’esistenza superiore ad ogni realtà quotidiana. Per essa il pubblico non è che una sola individualità; essa non si occupa dei suoi bisogni o dei suoi gusti, ma lo trascina sovranamente nella sua vita ritmica; e questa violenza, lungi dall’esser odiosa, soddisfa evidentemente i più impossibili desideri di una umanità che non vuole uscire da se stessa che per ritrovarsi. […] Si capisce allora quanto sia tragico il conflitto tra una tale musica e gli spettacoli attuali, quando si cerchi di applicare gli uni all’altra. Queste proporzioni latenti, che si librano in tutta la musica, tendono appassionatamente a incarnarsi, ma noi restiamo sordi al loro pur così esplicito linguaggio; la nostra ottica di ogni giorno ci sembra superiore al mondo sconosciuto che esse vogliono rivelarci; come i bambini vorremmo imporre le nostre condizioni a esseri che ne sanno ben più di noi. Ma la musica è eterna; essa può attendere e, nella sua indulgenza, donarci già i suoi benefìci rivelatori fino al giorno in cui comprenderemo che questa rivelazione, estendendosi al senso formale dei suoni, illumina per sempre la nostra umanità. Il poeta-musicista è così creatore; anzi, è il solo
essere vivente che risponda a questo titolo perché egli solo ci impone la sua visione, quale che essa sia, e perché questa visione la trova in un mondo superiore a quello cui noi apparteniamo”. 24
24
Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1894, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 58.
Gli effetti di Wagner sugli ascoltatori. Litografia di HonorĂŠ Daumier (18081879).
1.2 La riforma teatrale wagneriana ed i suoi limiti
A differenza di Garnier, l’ideatore del Place de l’Opéra, in cui Appia vive le sue prime esperienze teatrali, pensato soprattutto come luogo di ritrovo sociale, Wagner concepisce lo spettacolo come rito sacro e solenne – definisce il Parsifal “una sacra festa scenica” – a cui tutti gli spettatori devono attentamente partecipare ed avverte quindi l’esigenza di costruire una struttura teatrale che rispecchi il più possibile questa sua filosofia. Il primo modello ad essere scartato è quello della sala all’italiana, al quale si era ispirato Garnier, che avrebbe comportato una divisione degli spazi (in palchi, platea e balconate) a seconda dell’estrazione sociale degli spettatori, rientrando in una logica a favore dell’esibizionismo del pubblico, quindi lontana da quella di Wagner. Difatti, l’Opéra national de Paris, a metà strada tra la stazione Saint Lazare, tempio del progresso tecnico, e la Borsa, tempio del denaro, poteva sì definirsi il tempio della musica, ma era soprattutto il tempio della mondanità. I luoghi riservati al pubblico vengono palesemente strutturati in funzione della gerarchia sociale e lo scalone d’onore, dove, più che in ogni altro spazio, si consuma
il rituale del mettersi in mostra, introduceva la borghesia ad uno spettacolo di cui era attrice e, insieme, spettatrice di se stessa. Anche la sala si presentava rigorosamente divisa in settori per l’orchestra, palchi e balconate:
“un immenso salotto imbottito, a ferro di cavallo, da dove si puntano i binocoli verso la scena o verso volti noti, scollature e abiti sfarzosi. […] Infine il palcoscenico, immenso, un grande vuoto tra sottopalco e soffitta, un’autentica fabbrica di immagini teatrali dove gli usuali apparati scenotecnici sono abilmente camuffati. […] Tra la sala e il palco, come unico margine di contatto, il quadro di scena, cioè un muro forato da un enorme buco di serratura che appare nascosto da un sipario ricco di elementi ornamentali dove dominano il rosso e l’oro. Il teatro dell’Opera di Parigi consacra in questo modo il trionfo del palcoscenico all’italiana”.25
Wagner ed il suo collaboratore, l’architetto Oscar Bruckwald, preferiscono rifarsi agli antichi teatri greci “sorti ai tempi dell’apogeo della tragedia” – di cui Wagner ammirava la “sublime semplicità, il profondo significato e le creazioni 25
Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivoluzione all’utopia, p.10-11.
serene della luce radiosa, che penetra tutto” 26 – con logeion (palcoscenico stretto e lungo) e cavea (gradinata per il pubblico, a pianta di settore circolare o ellittico), ovvero realizzare una platea degradante a forma di anfiteatro, senza distinzioni marcate. Il bakuniniano compositore avrebbe finalmente visto trionfare la democrazia tanto agognata. Ma gli espedienti che più rispondono all’esigenza di Wagner sono quelli che contribuiscono a creare il “golfo mistico”, ovvero un’atmosfera onirica e metafisica, cosiddetta perché veniva a crearsi una sorta di golfo tra il mondo reale, costituito dalla platea, e il mondo ideale del palcoscenico. Per ottenerlo il maestro progetta un palco con un doppio arco di proscenio e una buca, sottostante il palcoscenico, in cui inserire l’orchestra (disposta su gradini discendenti), affinché diventi invisibile al pubblico e affinché questo non venga distratto da alcun movimento, né degli strumenti né del direttore, e si lasci rapire dalla musica proveniente da chissà quale divino altrove. Per lo stesso scopo, il maestro tedesco è il primo a richiedere il buio in sala durante la rappresentazione. L’unica fonte luminosa, quindi l’unico spazio su cui concentrarsi, deve essere il palcoscenico. Secondo le usanze tradizionali, durante lo 26
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, p. 248.
spettacolo la sala manteneva la stessa illuminazione che precedeva l’apertura e seguiva la chiusura del sipario. Occasionalmente, si ricorreva alla tecnica d’incassare il lampadario centrale nell’apposito vano nel soffitto della sala per attenuarne la luce. Agli spettatori doveva, comunque, venir dato modo di riconoscersi e conversare anche durante l’opera. Una delle innovazioni più significative del teatro dell’Ottocento fu, però, l’introduzione di un nuovo sistema d’illuminazione: innanzitutto l’illuminazione a gas, impiegata per la prima volta nel ’22 dall’Opéra di Parigi, poi le luci della ribalta e finalmente la duttile illuminazione elettrica, che consentiva di illuminare la scena a giorno o di oscurarla completamente con facilità. Sia il gas sia l’elettricità potevano, inoltre, controllare anche l’illuminazione della sala. È così che nasce allora la vera scena “a scatola ottica”, prima impossibile. Wagner è considerato pure il primo a fare un uso moderno del sipario, introducendone l’utilizzo al termine di ogni atto – in realtà ne fece lo stesso uso Rossini in occasione della prima del Guglielmo Tell nel 1829 – . Prima il sipario indicava esclusivamente l’inizio e il termine della rappresentazione. Per i cambi d’atto si utilizzavano altri espedienti – come il
congegno di funi e carrelli mossi da un argano, di cui Wagner continuò a servirsi – o, in rari casi, sipari secondari. Per nascondere i cambiamenti di scena, Wagner introdusse anche un’altra novità, ovvero un sistema di getti di vapore che creavano degli effetti di nebbia e una “cortina di foschia”. Da Wagner in poi, i “quadri” vengono concepiti non come gli abbaglianti cambiamenti caleidoscopici amati dal gusto barocco, ma come diversi aspetti della realtà che si svelano uno ad uno, ogni volta che il sipario si solleva. Inizia, dunque, ad affermarsi il concetto di “quarta parete”. È sempre dal teatro dell’antica Grecia, a cui si avvicina soprattutto attraverso la lettura della trilogia Orestea di Eschilo, che Wagner eredita i seguenti principii: il dramma deve prefiggersi una funzione catartica e sociale, nel senso che l’esperienza teatrale deve arricchire emotivamente e culturalmente il pubblico – “chi è isolato non è libero perché è limitato e suddito in seno all’indifferenza; libero è l’uomo sociale perché l’amore lo rende libero e indipendente” – , non favorirne sterili conversazioni; è consigliabile orientare la scelta dei soggetti su quelli mitici – a questo proposito Wagner consulta, in particolare, la Mitologia tedesca di Grimm – , che si prestano alla distruzione delle barriere spazio-temporali – il
che contrastava con le principali tendenze realiste dell’epoca, ma concordava con la profonda convinzione wagneriana che uno scrittore dovesse essere un creatore di miti e non un cronista di eventi quotidiani – ; sulla scena deve trasparire l’interiorità dei personaggi e, per far sì che accada, questi non devono essere coinvolti in troppe azioni, alle quali si preferiscono i dialoghi; la messa in scena dev’essere sobria, affinché lo spettatore non venga distratto da orpelli superflui e riesca a cogliere i messaggi insiti nell’opera. A tutte queste necessità si propone di rispondere il Festspielhaus di Bayreuth, il monumentale teatro d’opera situato a nord della città, su una piccola collina, che il re Ludovico II di Baviera, mecenate del compositore, fa erigere nel 1876 esclusivamente per la rappresentazione delle sue opere. Nei suoi saggi teorici, raccolti nel celebre scritto del 1856, Opera e dramma, è evidente la cura riservata ad ogni minimo dettaglio del lavoro teso a riformare la realtà teatrale vigente. Basti pensare che, in occasione della rappresentazione del Parsifal, Wagner impone agli spettatori di applaudire solo al termine dello spettacolo, affinché fino alla fine si lascino cullare dall’incantevole flusso sonoro e percepiscano il senso profondo dell’opera che questo gli sussurra.
Teatro di Bayreuth, esterno, fotografia 1873-1875, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
Non bisogna dimenticare come i progetti di Wagner e Bruckwald si siano, però, basati sugli studi di Gottfried Semper, allievo di Karl Friedrich Schinkel, i cui disegni – come nel caso di Appia – rimasero quasi tutti sulla carta, ma che riuscì a realizzare alcune sue idee nella ricostruzione del Neues Schauspielhaus di Berlino e, soprattutto, ad avere una larga influenza. Schinkel era un classicista e non tollerava l’illusionismo prospettico della scena barocca. Immaginò così una sala per il pubblico a forma di anfiteatro e propose l’abolizione delle quinte a favore di un unico grande sfondo dipinto da collocare ad una considerevole distanza dagli attori, affinché scena bidimensionale ed elementi tridimensionali non fossero a contatto diretto. Schinkel fu a sua volta guidato dal genio di Franz Ludwig Catel, che nel 1802 pubblicò uno studio intitolato Vorschlage zur Verbesserung der Schauspielhauser in cui, premettendo che tutti i mali del suo tempo provenivano dal palcoscenico barocco, profondo ma con quinte piatte, offriva i seguenti suggerimenti per migliorare la progettazione dei teatri: evitare l’associazione di attori tridimensionali e scenografie dipinte prospetticamente, il che non era realistico e risultava ridicolo, e sostituire tali assurdità con scene il più
possibile plastiche, che avrebbero consentito anche la costruzione di sale teatrali a forma di anfiteatro. Promotrice del realismo tanto osteggiato da questi artisti dell’ Ottocento, fu l’Inghilterra di fine Settecento. Rappresentante per eccellenza del “realismo storico” professato dagl’inglesi è Planché, responsabile della prima e riuscitissima messa in scena completamente storica di Shakespeare e della completa riforma del costume drammatico che ne seguì. D’allora in poi gl’interpreti saranno costretti ad indossare fedeli e autentici abiti e a riprodurre gli usi dell’epoca in cui è ambientata l’opera rappresentata. All’elemento storico si aggiunse, con Charles Kean, quello spettacolare, amato pure da Philippe Jacques de Loutherbourg, realista romantico e autore di scenografie fondate sulla natura, che tentò come poteva di simulare sul palco gli effetti atmosferici. Il realismo arrivò ad estendere la sua influenza persino sul melodramma, che inserì sulla scena oggetti d’uso comune. Rispetto agl’interni resi per mezzo di quinte, iniziò ad incontrare maggiore favore la scena di camera, con vere maniglie avvitate su porte robuste, in luogo delle maniglie dipinte sulle quinte, e veri soffitti poggiati sulle pareti, in luogo dei “cieletti”. Col trascorrere del tempo, il termine “realismo” assunse una connotazione sempre meno
spettacolare e sempre più ideologica, traducendosi in una fedele imitazione della realtà, specialmente di quella più abbietta. Ma tutto ciò non era ancora attuabile quando potevano, al massimo, controllarsi le luci della ribalta o coprirsi, con schermi e vetri colorati, le file di lampade dietro le quinte laterali. Lo divenne con la fondamentale innovazione di cui si servì il nostro Wagner, la nuova illuminazione. Ma occupiamoci meglio della struttura, altrettanto nuova, del teatro di Bayreuth. Questa presentava una platea con trenta file di poltrone, ognuna delle quali portava direttamente ad un’uscita laterale, ed era, invece, priva di palchi laterali e corridoio centrale. La capienza del teatro era di 1745 posti e, per assicurare a tutti una buona visibilità, la platea era a forma di ventaglio, la cui base inferiore e prospiciente al proscenio misurava 15 metri, mentre il lato posteriore 35 metri. Questo faceva sì che non esistessero posti migliori di altri, tanto che fu stabilito un unico prezzo d’ingresso. Alle spalle della platea si collocava il palco, sormontato da una piccola balconata. Questo ricalcava però, a differenza della sala e del suo carattere avanguardistico, il modello tradizionale. Il pavimento del palco era inclinato verso la platea e per i cambi di scena conservava vecchi congegni. Il palcoscenico misurava 24 metri di
profondità per 28 metri di larghezza ed era incorniciato da un’apertura di proscenio larga circa 12 metri. Il complesso teatrale comprendeva, inoltre, camerini, laboratori, un magazzino ed una sala prove.
Pianta e sezione longitudinale del teatro di Bayreuth, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
“Il palcoscenico vasto e profondo non ha perduto né la cornice né il sipario tradizionali. […] Non solo il palcoscenico e la sala restano separati, ma tutto concorre ad allontanare maggiormente la scena per dare più forza all’illusione ed ingigantire un mondo di eroi. […] False prospettive, trompel’oeil, illusioni create tramite l’artifizio di lembi di tela fluttuanti, tagliati e dipinti. Bisognerà aspettare il 1952 perché Bayreuth ne venga definitivamente liberato”.27
Vi sono sicuramente delle differenze tra quanto ideato da Rubé e Chaperon, scenografi dell’Opèra, inaugurata nel 1875, e Hoffmann e Bruckner, che lavorarono per la scena di Bayreuth, inaugurata l’anno seguente, ma i fondamenti della decorazione teatrale sono i medesimi. A Parigi come sulla “collina sacra” di Bayreuth lo spazio subisce la contraffazione dell’artificio.
“Fondali dipinti su tele tremolanti, e appesi lungo la profondità del palcoscenico, cercano di combinarsi alla meno peggio con praticabili dalle forme massicce e dall’estetica incerta. L’insieme contrasta col pavimento del palco che ostenta i suoi listelli di legno e la sua intoccabile orizzontalità. Quale
27
Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivoluzione all’utopia, pp. 10–11.
enorme differenza tra il bozzetto della scenografia – il sogno! – e la sua realizzazione! Il caos visivo prevale su tutto, la ridondanza decorativa regna sovrana, l’accumulazione di dettagli pseudo-archeologici disperde l’attenzione dello spettatore. L’attore appare come un intruso, la scena è come una gabbia in cui gl’interpreti sono costretti ad una vita rarefatta”. 28
28
Ibidem.
Teatro di Bayreuth, sala e palcoscenico, fotografia 1912, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
In conclusione, questo genere di palcoscenico, assieme ad alcune regole stabilite da Wagner, come il divieto imposto ai musicisti di accordare gli strumenti nella buca dell’orchestra o quello di applaudire agli artisti nel corso della rappresentazione e di chiamarli più volte alla ribalta al termine dello spettacolo, assieme alla pretesa di precise ricostruzioni storiche di scene e costumi e all’impiego mantenuto di effetti ottici come i panorami mobili, ancorava la pratica teatrale di Wagner alla tradizione ottocentesca, per quanto le sue teorie, ma anche le sue scelte architettoniche, se ne distaccassero anticipando quelle di numerosi pionieri del teatro contemporaneo. Sappiamo come tra questi figuri proprio Appia, nella cui “opera d’arte vivente” pare di leggere il wagneriano “dramma vivente, percettibile ai sensi”, come la “cattedrale dell’avvenire, che accoglierà le manifestazioni più diverse della nostra vita sociale” 29 pare l’eco dell’ “opera d’arte collettiva dell’avvenire” invocata da Wagner, di cui sarà, in fondo, autore il popolo stesso, poiché l’artista di tale opera esprime, catalizzandola in sé, l’anima della comunità. È solo in quella, afferma Wagner, “solo nella redenzione delle arti puramente 29
Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 86.
umane separate dall’egoismo” che “anche l’architettura sarà liberata dai vincoli che la tengono schiava e dalla maledizione che rende sterile la produzione artistica, nata libera, fertile e inesauribile”. 30 In effetti, è così che Appia introduce la sua maggiore opera teorica: “l’unico tentativo di riforma veramente rivelatrice fu, in quest’epoca, il carattere eccezionale delle rappresentazioni e della sala di Bayreuth (eppure, dall’altra parte del sipario, la scena non presentava nulla che corrispondesse in qualche modo alla meravigliosa partitura). È questo conflitto sempre ripetuto, sempre rinascente, è questo contrasto doloroso che fece dell’opera di Bayreuth l’origine di una rivolta artistica tra le più feconde. Ed è per questo che l’opera di Wagner resterà sempre inseparabile dalla riforma drammatica e scenica che si sta per realizzare”, 31 e, nel corso dell’opera, torna a ribadire: “senza Richard Wagner il presente studio non esisterebbe, perché senza di lui non avremmo alcuna possibilità di conoscere per
30
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo L’architettura, pp. 149–237. 31 Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 85.
esperienza la portata della musica nel dramma” 32. È Wagner ad intuire, difatti, come la musica tonale sia portatrice d’un proprio sentimento del tempo, che si esprime innanzitutto nei valori armonici e nei rapporti ch’essi instaurano con quelli ritmici. Wagner dice anche che nel dramma dell’avvenire, la musica dovrà rinunciare alla parte del leone che ha nell’opera moderna, chinando la fronte tutte le volte che la cosa più necessaria è il linguaggio drammatico. Ma rimane il fatto che la musica, nell’opera del compositore tedesco, scatenandosi in tutta la sua sconfinata potenza, sommerge un elemento che pure le è essenziale affinché il dramma umano possa esprimersi integralmente ed in tutta la sua purezza e profondità nella forma omogenea da egli auspicata: il corpo dell’attore. Ma è proprio questo conflitto ad animare lo spirito di Appia e a far maturare il germe delle sue idee, come egli rivela ancora nella prefazione a La musique et la mise en scène: “il maestro non ha potuto abbracciare tutto: non è arrivato all’idea di sacrificare un po’ della sua prodigiosa potenza musicale, e così non ha saputo dominare il conflitto 32
Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1894, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 55.
crudele in cui si dibatteva, più o meno coscientemente, tra una musica che non trovava la propria adeguata esteriorizzazione nel corpo vivente dell’attore e che non poteva trovarla se non sopprimendo se stessa, e la necessità, ciò nonostante, di presentare simultaneamente questa musica e questo corpo”, e ancora: “Wagner, liberando la musica dal suo egoistico e perverso isolamento, unendola al poeta che doveva fecondarla, ha fatto il primo passo, il passo decisivo. Ma trascurava il corpo umano; lo considerava il portatore visibile dell’azione, senza preoccuparsi troppo dell’abisso che separava il ritmo e la durata musicale da questo corpo che conservava pur sempre la sua vita al di fuori del ritmo e della durata; gli faceva dall’inizio alla fine della rappresentazione una manifesta violenza”. In realtà, sulla carta, Wagner aveva attribuito alla danza, al corpo e alla vista (messa in scena) un valore essenziale:
“la danza racchiude in sé gli elementi della manifestazione di tutti i generi d’arte: l’uomo che canta e che parla dev’essere necessariamente un essere fisico; mediante la forza esteriore e gli atteggiamenti delle membra si manifesta l’uomo interiore; […] solo mediante la mimica della danza la musica e la poesia diventano comprensibili e intellegibili all’uomo, che può
accostarsi all’arte perché non si limita a capire, ma vede. […] Il soggetto supremo dell’arte, il più degno di essere comunicato è l’uomo; a scarico di coscienza l’uomo non si comunica che sotto l’aspetto fisico e al senso ad esso pertinente, la vista. Ogni arte che non tiene conto della vista non dà soddisfazione. Anche se raggiunge la più alta perfezione espressiva, se si rivolge solo all’udito oppure soltanto alla comprensione che […] supplisce alla sua comunicazione esplicita, […] resta un’arte che vuole ma che non può interamente”.
La danza dell’uomo civile, inoltre, si manifesta per gradazioni regolate dal ritmo, che “non è affatto un’invenzione arbitraria”, ma “l’anima dei movimenti necessari di cui l’uomo-artista è diventato cosciente e con cui cerca di trasmettere le sue impressioni incoscienti”. 33 Nella pratica i lavori wagneriani presentano, però, sempre lo stesso conflitto, ma Appia sente di essere sulla “giusta strada” 34 per risolverlo in un’armoniosa creazione artistica: “liberando il
33
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo La danza, p. 298. 34 Lettera di Appia a Caramba, 28 novembre 1923 (donata agli Amici della Scala dai pronipoti di Caramba, Emilia e Ernesto Pasquali e Uberto Pestalozza), in Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C.,Torino, 2011, pp. 37–41.
corpo, al tempo stesso liberiamo nuovamente la musica! Il poeta non sarà più l’elemento diverso dalla musica e che le si oppone, no: questo stadio necessario è finalmente dietro di noi: il poeta diventerà colui che consacra l’unione divina della musica e del corpo”. Egli non avrebbe mai scorto tale direzione se la luce wagneriana non l’avesse svelata al suo spirito d’artista che, da questo momento, non ha più il permesso di esitare: “chi ha sentito nella propria anima questo, tragico conflitto non rinnegherà mai l’uomo e l’opera che, ispirandogli una sacra compassione, lo hanno liberato. L’opera di Wagner ha salvato l’autore di questo libro da un’argomentazione arbitraria. Gli ha mostrato la strada da seguire, […] lo ha costretto, quasi suo malgrado, a prendere questa strada”. 35 È così che Appia motiva la sua ansia di rivoluzione, e quella del suo predecessore, tesa ad annichilire ogni residuo di “conservatorismo-anacronismo” per restituire alla scena la scossa vitale che le è essenziale:
“lo spettacolo della scena, da qualsiasi punto di vista lo si consideri, è la riproduzione di un frammento della nostra
35
Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 86.
esistenza. Con questo non penso che esso sia lo specchio dei costumi, come pure alcuni hanno voluto dire. La nostra vita interiore, con le sue gioie, le sue pene e i suoi conflitti, è del tutto indipendente dai nostri costumi. […] Le passioni umane sono eterne, eternamente le stesse; i costumi non fanno altro che verniciarle superficialmente, allo stesso modo che la foggia di un abito ci rivela una determinata epoca. Ma l’anima che si cela sotto quell’abito non ha data; è l’anima umana e basta. Dal punto di vista drammatico, un frammento della nostra esistenza è un frammento della storia di quest’anima. Di conseguenza la forma che diamo ai nostri spettacoli deriva”, semplicemente, “da un’inerzia particolare e da un conservatorismo che diventa anacronismo” 36.
Anche Wagner a proposito dell’assuefazione alle convenzioni, a cui egli si riferisce ogni qual volta parla di “moda”, aveva scritto:
“la moda è lo stimolante artificiale che provoca un bisogno non naturale, […] ecco perché è la tirannia più inaudita, più insensata che mai sia sorta dalla stoltezza dell’essere umano. […] L’essenza della moda è la monotonia più assoluta, […] la sua forza è la forza dell’abitudine. Ora l’abitudine è la tirannia 36
Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 127.
invincibile di tutti gli esseri molli: di quelli che realmente sono senza bisogni. L’abitudine è il comunismo dell’egoismo, il gioco tenace dell’egoismo comune che non conosce necessità”. 37
Wagner trascurò, però, il problema della messa in scena, credendo che le sue riforme drammaturgiche avrebbero automaticamente condotto ad una messa in scena adatta ad esse, “non s’immaginava”, quindi, “una tecnica scenografica diversa da quella usata dai suoi contemporanei. Un’accuratezza e un lusso maggiori gli sembravano sufficienti”. 38 Eppure Wagner scriveva: “quale fredda apparenza di morte, d’insensibilità” avrà l’edificio teatrale, “se costruito senza una intenzione più nobile di quella del lusso”. 39 Eppure gli attori sulla scena, essendo portatori del nuovo tipo di azione drammatica da Wagner professata, erano, come si legge anche nell’Opera d’arte dell’avvenire, al centro della sua attenzione. Egli ne curava meticolosamente – anche più di quanto farà Appia – la recitazione, purgandola dai melensi insegnamenti 37
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, capitolo Conformazione sfavorevole all’arte della vita attuale sotto il regime dell’astrazione e della moda. 38 Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 128. 39 Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, p. 290.
dell’opera lirica, ma vanificava poi tutti i suoi sforzi ponendoli in contatto con le inespressive scene dipinte. Sosteneva infatti: “la scena […] deve essere capace […] di rendere anche l’immagine vivente della natura. […] Le pareti di questa scena […] debbono ornarsi dei freschi colori della natura, della calda luce dell’etere. L’architettura plastica vi trova il suo limite, riconosce la sua servitù e […] si getta tra le braccia della pittura […] di paesaggio. […] Quel che il pittore paesaggista fa entrare a forza nella stretta cornice d’un quadro […] è destinato a riempire la vasta cornice della scena tragica”. Nell’opera citata il drammaturgo teorizza, pure, un “teatro perfetto” dove “solo i bisogni dell’arte fino ai minimi dettagli danno il tono e la misura, e fanno legge”. Inoltre, l’architetto teatrale, costruendo “l’edificio che, in tutte le sue parti, è destinato a rispondere all’unico fine artistico collettivo, […] non può agire che da artista e in conformità all’opera d’arte”. Wagner dà anche indicazioni sulla scena, il cui compito è “realizzare tutte le condizioni di spazio che sono necessarie all’azione drammatica collettiva” e rendere quest’ultima “percepibile e intellegibile alla vista e all’udito di tutti gli spettatori”, lo stesso vale per la disposizione d’una sala da spettacolo. Tutto ciò che sollecita la vista degli spettatori deve
concorrere alla comprensione dell’opera d’arte. “In tal modo lo spettatore ha la sensazione […] di vivere sulla scena; l’attore è artista solo quando s’abbandona interamente al pubblico. Tutto quel che vive e respira sulla scena […] si muove animato dal suo desiderio espressivo di comunicarsi […] alla sala”. 40 Probabilmente Wagner si rese, in parte, conto dei limiti pratici della sua teoria poco prima di morire, come testimonia quanto egli scrisse in un opuscolo dedicato alle rappresentazioni del Parsifal a Bayreuth, ovvero di sentire che la sua arte drammatica “rappresentata” era ancora agli inizi, e come può evincersi dalla seguente affermazione: “ah, odio questi costumi e questi orpelli. Quando penso che figure come quella di Kundry verranno agghindate come per carnevale… Ho creato l’orchestra invisibile, se potessi ora inventare il teatro invisibile!” 41 Questa discordanza tra intenzione drammatica e resa visiva ha comportato il restringimento ad una cerchia limitata dell’accessibilità alle sue opere, nonostante di fronte al ‘restauro’ di Appia, tutti si riscoprano convinti fanatici del compositore. Verso quest’ultimo Appia dimostra sempre un 40
Ibidem. Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivoluzione all’utopia, p.11. 41
grande rispetto, ma lo fa restando libero e conquistando questa libertà proprio attraverso la minuziosa conoscenza, battuta per battuta, delle opere wagneriane.
1.3 Le note del Wagner metteur en scène attraverso quelle di Heinrich Porges
Al fine di allestire un’azione scenica che renda giustizia all’opera, sarebbe, dunque, impossibile prescindere dallo spartito o non prenderne in considerazione ogni minimo dettaglio. Il critico e musicista Heinrich Porges ci permette di averne la conferma dallo stesso Wagner, che le sue parole ci consentono d’immaginare alle prese con la resa scenica, precisamente con quella de L’anello del Nibelungo. Wagner diede a questa tanta importanza da affidare la direzione dell’orchestra ad altre mani, quelle del celebre Hans Richter. Le prove iniziarono nell’estate del 1875, quando i lavori per il teatro di Bayreuth non erano stati ancora ultimati. Porges era devoto al compositore tedesco tanto da cogliere e annotare, nel corso delle lunghe e scrupolosissime prove, ogni suo richiamo, ogni sua precisazione ed anche ogni suo sussulto di soddisfazione. Le note del critico vennero pubblicate, tra il
1880 e ed il ‘96, nel mensile Bayreuther Blätter, fondato, con il supporto di Wagner, dall’editore Hans von Wolzogen e pubblicato fino al 1938 per i visitatori del celebre Festival di Bayreuth annuale, in cui venivano presentate le maggiori opere del compositore, in particolare il Parsifal e L’anello del Nibelungo. Dalle riflessioni di Porges, si nota come l’ atteggiamento ‘registico’ di Wagner traduca effettivamente le nozioni che egli aveva posto come fondamentali nei suoi scritti teorici. Infatti, Porges, sottolineando quanto Wagner tenesse al fatto che niente e nessuno, compresi gli attori non coinvolti nei dialoghi, facesse crollare l’aura vitale avvolgente la scena, scrive: “I have already remarked on the pains Wagner took to ensure that those not actually participating in the dialogue should indicate their involvement by characteristic gestures and motions. His underlyding principle was that stage action (…) should have the quality of living sculpture”. 42 L’attore doveva, dunque, contribuire affinché l’azione scenica paresse una scultura vivente, ma l’idea della scultura non doveva fuorviarlo: “the plastic arts” riescono, meglio di ogni altra arte, “to make the passing moment permanent”, ma “stage action has a different function: it copies reality. The essence of 42
Heinrich Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Das Rheingold, pp. 7–40.
dramatic art is that it is a medium through which life is conveyed in the form of life. Since the condition of life is a state of perpetual flux it must be a matter of principle never […] to transform scenic effects into purely pictorial ones. Nowadays many theatres are attempting to do this very thing and the result is a stylistic mish-mash having nothing to do with the art of drama”. Bisogna, quindi, che l’azione drammatica si rifaccia alla vita, e non nel senso che deve imitare la realtà, come fa il dramma parlato – Porges parla di un realismo “of a very special kind”, basato, come quello di Shakespeare e di Goethe, su un “hidden metaphysical background” 43 – , ma che deve conservarne il carattere di fluente divenire. Tale obiettivo è opposto a quello che si pongono una scultura o un dipinto, ovvero fissare un momento per sua natura fugace, ed è per questo che l’attore deve interpretare, e mettere in pratica, correttamente le indicazioni del maestro. Le scene diffuse in quel periodo parevano, invece, un insieme disarmonico di quadri immobili ed inespressivi e Wagner ne attribuiva, appunto, la causa alla recitazione degli attori, mentre allo sguardo di Appia si riveleranno, come causa fondante della stonatura, gli elementi dipinti. Rigoroso 43
Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 104.
imperativo di Wagner era quindi curare scrupolosamente la recitazione degl’interpreti, e le note di Porges ne sono la testimonianza, che a tratti, di fronte ai momenti di vibrante partecipazione del maestro ai primi sospiri di vita della sua creatura e ai suoi primi passi sul palcoscenico, si fa persino commossa. In alcuni casi, osservare la costruzione della messa in scena non gli donerà, a proposito di questa, nessuna informazione in più di quanto non abbiano fatto le direttive dell’autore presenti già nel dramma. Si troverà, infatti, ad annotare soltanto: “the details of the ensuing pantomime and of its psychic motivation are indicated so exactly in the score that here only a few supplementary remarks are called for”. 44 A proposito della terza scena del primo atto de La Walkiria e del momento in cui viene intonata la “Wintersturme melody”, Porges percepisce il desiderio di Wagner e la regola, da non dimenticare, a cui gli attori devono assoggettarsi affinché questo si realizzi. Annota infatti: “the singers must take care to avoid lapsing into sugary sentimentality in the Wintersturme melody. […] The singers cannot fail if they give rein to their
44
Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 48.
natural feelings” 45, richiamando quanto appuntato anche sull’esecuzione della melodia ricorrente nella quarta scena del secondo atto: “the temptation to emphasize its lyrical aspect must be consciously resisted in order to preserve the dramatic character of the dialogue”. La regola è dunque la stessa su cui si soffermerà Appia nel suo scritto La musique et la mise en scène, ovvero che gl’interpreti devono affidarsi totalmente alla musica senza corromperne il senso con le loro personali emozioni: “the personal subjective feeling of the players must be scarcely noticeable”. 46 Continua, infatti, Porges: “what he wanted above all was a continuous tense energy; nothing must break the flow – no hesitation, no lingering – which was not motivated by the situation. In this context I must point out that this was one of the essential aspects of the expressive style for which Wagner strove in music and drama: everything arbitrary and individual, however inspired, was foreign to it”. L’opera d’arte collettiva non può farsi influenzare, come si è già detto, da questo o quel sentimento individuale ed egoistico, poiché questa mira ad instaurare una dimensione ideale in cui tutti possano trovare 45
Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Die Walkure, pp. 41–78. 46 Ibidem.
posto, senza selezioni basate su criteri fittizi e senza il disagio che queste comportano: “his [di Wagner] most startling inspirations seemed as though drawn from some hidden deep layer; often it was as though a veil were removed and one had the sudden glimpse of a self-sufficient ideal world beyond the influence of any human will”. 47 Le parole di Appia risuonano “viventi” anche in un altro passaggio della raccolta delle note di Porges, in cui traspare pure la piena soddisfazione del maestro, della cui manifestazione egli riusciva occasionalmente a godere: “what most delighted him [Wagner] was when a singer hit on the right way of his own accord, so that the dramatic art-work gave the impression of a self-created, living, breathing organism”. 48 È oramai chiaro come tutto ciò che appare e avviene sulla scena debba essere assolutamente conforme allo spirito musicale. Ciò è particolarmente evidente in descrizioni come quella dello scenario della terza scena del primo atto de L’oro del Reno: “the enormous rocky ravines stretching so far into the distance that the eye could hardly follow them aroused in the spectator feelings of fear and dread completely in harmony 47
Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Das Rheingold, pp. 7–40. 48 Ibidem.
with the atmosphere created by the music”, 49 o della mimica della stessa scena: “as the music expresses the feeling of mortality, so the positioning and gestures of the actors must convey their feeling of being in the grip of a magical spell threatening their lives”. Come “the composer” ha il compito di rivelare “the inner meaning of the situation” – in questo senso è indicativa la descrizione della rispondenza tra l’intreccio delle figure melodiche sullo spartito ed il garbuglio di sentimenti contrastanti vissuti dai protagonisti della terza scena del secondo atto de La Walkiria: “the melodic figures, pursuing and intertwining with each other, […] combines melting tenderness with vehement passion” 50 – , “the scenic designer” deve accrescerne la drammaticità “by providing a significant and gripping spectacle” con gli occhi costantemente sullo spartito. Porges scrive infatti, in un momento di particolare euforia per la genialità del compositore: “by infusing strongly accented speech with an incomparable variety of rhythms, a new, free
49
Ibidem. Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Die Walkure, pp. 41–78.
50
contrapuntal style has been created. One must feel this in the performance”. 51 La redini della rappresentazione drammatica sono, senza dubbio, nelle possenti mani della musica – ad esempio, in merito a La Walkiria viene proprio detto: “what stamps the musical style of Die Walkure is its power to convey sentimental emotions […] in a completely naive manner. That this should be the fundamental stylistic feature of its performance goes without saying” 52 – , ma con questo non s’intende che la potenza musicale abbia il diritto di travolgere tutto, precipitando l’opera e lo spettatore nel caos più disperato: “every thematic entry must be given its full significance, even at those moments when the sheer volume of sound has the force of a hurricane”. 53 Per trasmettere più chiaramente il concetto, Porges ricorre ad uno dei paragoni più amati dal drammaturgo: “Wagner declared that the orchestra should support the singer as the sea does a boat, rocking but never upsetting or swamping” 54 – 51
Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 130. 52 Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Die Walkure, pp. 41–78. 53 Ibidem. 54 Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, pp.13–14.
come avviene, ad esempio, nella terza scena del terzo atto de La Walkiria, affinché il pubblico possa continuare a cullarsi nell’emozione musicale ma anche recepire appieno il discorso di Wotan –, e aggiunge, poi, che i cantanti non sono per questo tenuti ad abbandonarsi ad uno “weak or even casual style” ma, al contrario, devono applicarsi più duramente e rispettare con precisione ogni accento metrico e ritmico. “To articulate the rhythmic structure accurately” è, oltretutto, l’unico compito dell’interprete, poiché “in Wagner’s works the pace of every syllable is determined by note-values”. 55 Solo cantanti che resistono alla “temptation to slow down in emotional passages”, una recitazione che combina la “clarity of diction with emotional warmth and vitality”, e suoni controllati permettono allo spettatore di comprendere entrambe le melodie, quella del dialogo e quella dell’orchestra, poiché “the mind can act freely only when it is stimulated, not when it is overwhelmed, by sensuous impressions”. 56 Un esempio di “whirlwind of tremendous excitement […] yet able to retain one’s freedom of intellectual judgment” 57 è costituito dalla 55
Ibidem. Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 13. 57 Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Die Walkure, pp. 41–78. 56
rappresentazione della comparsa delle valchirie, nella prima scena del terzo atto de La Walkiria, massimo esempio di “perfect co-ordination of spectacle, drama, orchestra and song”. Trattando de La Walkiria, Porges si sofferma lungamente sulla già citata terza scena del secondo atto (di riflesso a quanto fa anche Wagner sul palco), testimoniando ancora la comunione tra musica e gestualità: “Wagner was particularly concerned with the stage action in this scene since the sudden changes of position, gesture and facial expression raise considerable difficulties. The looks and movements of the protagonists must convey the wildly conflicting feelings, the ecstatic bliss, the desperate fear, which the orchestral melody is voicing”. 58 Durante le prove del Sigfrido, Wagner arriva addirittura a recitare egli stesso la parte di Brunnhilde per far capire alla sua interprete come dovesse affrontarla. “ ‘Sonnenhell leuchtet der Tag meiner Schmach!’ He recited the words himself with the intensity of a flash of lightning, thrilling the spectator to the marrow”, 59 racconta Porges.
58
Ibidem. Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Siegfried, pp. 79–114. 59
Ma questo non è il solo momento in cui Wagner avverte l’irrefrenabile impulso di ‘cantare la sua’. L’episodio si ripete durante le prove della seconda scena dell’atto terzo de La Walkiria, con un’altra frase di Brunnhilde: “he sang it himself with thrilling power, his voice ringing with a prophetic fervour which aroused in us terror and delight”. 60 Sulla scena deve, immancabilmente, manifestarsi anche l’indirizzo universale sotteso a questa e ad ogni altra opera del drammaturgo. Anche l’anelito a comunicare con il mondo intero si traduce nelle movenze dei personaggi. Intuisce, difatti, Porges: “very significant to my mind is Wagner’s remark that, at the words: ‘O Siegfried, leuchtender Spross! Liebe dich und lasse von mir, vernichte dein Eigen nicht!’, Brunnhilde must ignore the real Siegfried standing before her: she has an ideal in her mind and sings as though she were addressing the whole world”, 61 e continua, riportando le parole dello stesso Wagner: “ ‘Here everything is symbolic’, Wagner said. […] At the beginning of their final, heroic hymn of praise the lovers should not be looking at each other: they are addressing the whole world. […] The predominating element throughout 60
Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Die Walkure, pp. 41–78. 61 Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 114.
should be the expression of a sublime joy”, la stessa gioia tragica che divampa nel finale del Tristano e Isotta. L’intera composizione de L’anello è permeata dello stesso spirito che aveva guidato Wagner nell’ideazione dell’edificio teatrale di Bayreuth. L’ispirazione classica, “a spirit akin to that of the supreme masterpieces of Greek sculpure”, 62 si traduce nel carattere equilibrato di ogni dettaglio dell’esecuzione musicale e della recitazione: “there was nothing cold about the performance and at the same time no exagerated expressivenes that would have disturbed the pure flow of the melodic line and the harmonic structure”. 63 È bandito ogni eccesso istrionico – “always furious, never histrionic!”, 64 puntualizza Wagner a proposito di un discorso di Wotan – ed il cantante dev’essere attentissimo a non precipitare nell’ “intolerably mannered, drawn-out phrasing which makes the recitatives in our opera theatres such torture”, 65 facendo anche attenzione a non adottare “the bad old
62
Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 10. 63 Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 14. 64 Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, pp. 69–70. 65 Ibidem.
operatic habit of addressing the public” 66 e mantenersi sempre di profilo. Le prove sono fondamentali per rilevare i passaggi che prendendo vita sul palco risultano eccessivi, per questo motivo Wagner non le prende sotto gamba. Ad esempio, “the stage rehearsals […] brought home the imperative need to moderate dynamic expression-marks, convert fortissimos into fortes, fortes into mezzo fortes etc., in order to ensure that the singers’ words and inflections make their proper impact”. 67 Il valore che Wagner attribuiva alla recitazione s’intuisce in situazioni drammatiche come quella della terza scena de L’oro del Reno, in cui è proprio l’interpretazione a connotare i differenti caratteri dei personaggi: “it is not possible to find a more striking way of expressing the difference between Alberich’s and Wotan’s characters than through the latter’s delivery of the speech”. 68 Altrettanto importante risulta, come già sottolineato, la gestualità: ad esempio, nella seconda scena de L’oro Wagner suggerisce all’attore “to reinforce the words with swaying movements of his upper body”, e nella quarta viene ricordato all’interprete di Wotan di cantare “in a voice 66
Ibidem. Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Das Rheingold, pp. 7–40. 68 Ibidem. 67
trembling with emotion and with correspondingly violent gestures”. 69 Ancora, in merito alla seconda scena del primo atto de Il crepuscolo degli dei, Wagner manifesta il bisogno che i sentimenti di stupore, curiosità ed eccitazione che caratterizzano la scena si traducano in azione, esclamando: “the more movement the better”. 70 Porges ci fa notare, poi, un principio stilistico che risulta di basilare importanza affinché musica e azione drammatica interagiscano effettivamente: “in Wagner the manifold interweaving of motives of reminiscence or premonition should always be treated as subordinate to the events actually happening”. 71 La conclusione che più si adatta alle note di Porges, con cui sarebbero d’accordo anche Nietzsche e Nordau, è l’affermazione di un altro critico, Enrico Thovez, ovvero: “No, il Wagner [nonostante i limiti su cui fa leva Appia ci siano e si
69
Ibidem. Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Gotterdammerung, pp. 117–145. 71 Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 102. 70
siano rilevati] non era un mediocre nemmeno nella realizzazione scenica�. 72
72
Enrico Thovez, Scenarii, in Il Secolo, 29 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 96.
Capitolo 2: manifesto dell’opera d’arte vivente dell’avvenire 2.1 Adolphe Appia, “artista-teorico” 73 della visione musicale
La vita e l’arte – poiché di arte è il caso di parlare – di Adolphe Appia, affondano le proprie radici in un fondamentale paradosso: la sintesi di realtà e utopia. Questi, per definizione, non possono essere termini di una mediazione ed è per questo che, contro le aspettative, dalla lettura di Appia non è metodologicamente possibile desumere proprio il “teatro di Appia”, ovvero figurarsi uno spettacolo realizzato esattamente secondo i canoni da lui prescritti. “ ‘Non sono portato per l’azione – [Appia] mi scriveva – e devo rifugiarmi nelle mine della mia matita’, […] il suo spirito fioriva e regnava in campi dove non avevano posto i gretti contrattempi del mestiere” 74 ricorda Copeau, che incontrò per
73
Ferruccio Marotti, Adolphe Appia, Attore musica e scena, La messa in scena del dramma wagneriano, La musica e la messa in scena, L’opera d’arte vivente, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 12. 74 Estratto da Adolphe Appia et l’art scénique, in La Naciòn, Buenos Aires, 16 aprile 1928, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia,
la prima volta Appia nel 1915 a Schönbrunn, dove si trovava per una cura d’idroterapia. Quella che viene definita “riforma” è in realtà una negazione totale della realtà teatrale precedente a favore di un’utopia altrettanto radicale. “Ha negato e ripudiato il teatro, e solo per estremo amore per quest’arte viva. Ha spalancato il soffitto di quella mediocre scatola delle meraviglie: l’aria è finalmente entrata ed abbiamo intravisto il cielo”. 75 Come per il contemporaneo Edward Gordon Craig, per Appia il teatro del futuro non corrisponde al futuro del teatro: “prima o poi arriveremo a quel che si chiamerà la Sala, cattedrale dell’avvenire, che accoglierà le manifestazioni più diverse della nostra vita sociale e artistica in uno spazio libero, vuoto, trasformabile, e sarà il luogo per eccellenza in cui l’arte drammatica fiorirà, con o senza spettatori... L’arte drammatica di domani sarà un atto sociale al quale ognuno porterà il suo apporto” 76.
1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso gli altri, pp. 22–23. 75 Ibidem. 76 Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 86.
Affinché l’utopia investa definitivamente tutti gli elementi teatrali è necessario che agisca secondo una precisa logica, ed è qui che interviene il sistema elaborato da Appia. Si tratta di un sistema deduttivo che garantisce realtà all’utopia che, a sua volta, conferisce all’insieme delle progressive deduzioni la base assiomatica. Nel suo saggio critico Ferruccio Marotti paragona la collaborazione tra sistema e utopia di Appia all’immagine del foglio di carta partorita dalla mente del linguista Ferdinand de Saussure: sono come le due facce di un foglio di carta, tagliandone una è inevitabile tagliare anche l’altra – come Appia, De Saussure è attivo a Ginevra, dove insegna glottologia indo-europea e sanscrito, nel suo campo è un riformatore ed il suo rinnovamento si fonda sulla stessa idea di sistema – . L’utopia accompagna ogni passaggio del sistema, non si limita a farne da premessa, ed il contrasto tra realtà e visione riecheggia in ogni anello successivo del procedimento sistematico. Tale contrasto rimanda, a sua volta, al nodo indissolubile della vita di Appia, combattuto tra i cedimenti ad una febbrile fantasia visionaria e l’imperativo calvinista di giustificare ogni proposta con rigore teorico. Il sistema che si snoda lungo le pagine dei suoi scritti parrebbe assecondare la seconda tendenza della sua personalità, eppure nel corso della
lettura non si può prescindere dalle occasioni in cui ad esporsi è l’artista, in cui si coglie uno spirito meno fermo e costruito di quello a cui è subordinato il resto delle opere. In Comoedia, elogio scritto alla morte di Appia e pubblicato il 12 marzo del 1928, Jacques Copeau, discorrendo dell’opera e della vita di Appia, ricorre più volte all’espressione “riforma radicale” alludendo a quella che risulta, quindi, essere una proposta drammaturgica vera e propria, ovvero una rivoluzione che non si limita all’ambito della messa in scena ma abbraccia l’intera teoria del teatro. Di certo, Appia non si esime dall’affrontare anche l’aspetto pratico, infatti, nel momento stesso in cui elabora il sistema, opera delle scelte di stampo tecnico. La stessa astrazione che pare pervadere l’opera di Appia è, in realtà, da concepire come una concretezza ‘diversa’ da come in genere la si intende, dalla concretezza cui si tende ad associare la vita quotidiana con le sue quantità e proporzioni. Nel sistema di Appia vigono esclusivamente i paramenti fissati dalla musica. Eppure, neanche a quest’ultima sono risparmiati tratti ambigui e contraddittori. Per musica Appia intende un concreto costrutto di note, come lo sono gli spartiti wagneriani cui fa costantemente riferimento, come pure la musica nella sua accezione metafisica di stampo schopenhaueriano.
A costruirsi su parametri derivati dalla vita quotidiana è, invece, il dramma di parola ed è per questo che il sistema di Appia, che guarda al Wort-Tondrama, si sviluppa in netta opposizione ad esso. La musica rivela l’essenza, piuttosto che l’accidente, quindi esprime, a differenza del dramma di parola che significa. La prima “è eccitante e stupefiant, esalta la nostra sensibilità e addormenta la nostra ragione pratica”, 77 il secondo elegge, invece, a destinatario favorito l’intelletto. Veicolo dell’espressione cui tende la musica è l’attore, totalmente subordinato alla partitura. Sottomettendosi alla musica, l’attore evita di apportare al sistema una seconda, incompatibile, premessa, l’esperienza della vita quotidiana. Nel Wort-Tondrama il gesto rinuncia alla funzione significativa che ricopre nel dramma di parola, dove fa da sostegno e contrappunto al discorso, e si fa danza, si modella sulla musica e la sua forma diviene il ritmo. La parola stessa si affida al ritmo e si fa canto. Altra questione su cui Appia sente di dover riflettere è quella della ricezione. Nella sua ultima opera, con l’intenzione d’ illustrare le finalità estreme del sistema, lo scenografo ginevrino indica come “geste de l’art” – che è pure il titolo 77
Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 6.
dell’opera – quello di “offrirsi”. L’arte drammatica si offre sulla scena: “un dramma è scritto per la sua rappresentazione. L’arte drammatica puramente letteraria è un non-senso” 78. Lo scopo ultimo dello studio di Appia è quello di trasformare l’attività teatrale in una necessità, o meglio, di recuperare quest’ esigenza un tempo necessaria e di reintegrare il teatro in una dimensione sociale. È anche vero che poi Appia parlerà, alludendo al teatro ideale, di “luogo… in cui l’arte drammatica fiorirà, con o senza spettatori” 79 , pensiero che sembra contraddire l’intenzione precedente, seppur a quelle parole segue la definizione di arte drammatica come “atto sociale al quale ognuno porterà il suo apporto”. Le geste de l’art è, però, rimasto inedito, il che ne accomuna il destino a quelli di tutto ciò che concerne l’attività e il pensiero di Appia, condannato a restare sospeso come un amore che voglia, in fondo, rimanere ideale, forse per non corrompere la propria perfezione. Se di protoregia si può parlare, è necessario specificare come non s’intenda regia come sola prassi empirica, ma come principio estetico ed anche etico: “l’arte drammatica ci pone […] un continuo problema di umanità, ed è con ragione che la 78 79
Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 6. Ibidem.
temiamo”. A destare il “il nostro interesse d’umanità” contribuisce l’attore, elemento essenziale dell’opera d’arte vivente. Il dramma si offre al pubblico per mezzo dell’attore, che sulla scena compromette la sua personalità integrale, anima e corpo – a differenza degli autori di altre forme d’arte che si compromettono attraverso le loro opere – , e la cui azione ha, per questo, portata socializzante. La centralità dell’attore, sulla base di cui si potrebbe conferire al teatro di Appia carattere antropomorfico, viene in parte smentita dai disegni che l’artista realizza negli ultimi anni di vita, di una linearità tanto rigida da non apparire per nulla adatta ad accogliere figure umane, anzi sembra minacciarle con i suoi angoli acuminati. Come un leitmotiv il carattere contraddittorio continua, dunque, a presentarsi nel corso del lavoro di Appia e tutti i suoi studi di ambito teatrale nascono proprio dalla constatazione di una contraddizione, come s’intuisce da quanto egli stesso dichiara: “oggi giorno nessuno esisterebbe: il Maestro [Wagner] ha inserito la propria opera nel contesto tradizionale della sua
epoca, e se tutto nella sala di Bayreuth esprime il suo genio, oltre la ribalta, tutto è in contraddizione”. 80 Caratteri apparentemente inconciliabili connotano anche la sua origine geografica. Adolphe François Appia è svizzero, per l’esattezza nasce a Ginevra il primo settembre del 1862, parla francese, una lingua duttile, guizzante, ma ragiona come un tedesco, il che gli causa non pochi problemi d’espressione. La mentalità teutonica gli deriva dal contesto familiare di origini piemontesi. Il nonno, pastore protestante che apparteneva ad un gruppo valdese della Val d’Aosta, si trasferì prima a Francoforte poi a Ginevra, il padre di Appia, il dottor Louis Paul Amédéé, studiò a Francoforte, a Parigi e a Ginevra, di cui ottenne, per meriti professionali – fu tra i fondatori della Croce rossa internazionale – , la cittadinanza. Tutta la dedizione che Louis Appia riservava alla sua professione, la madre di Appia, Anne Caroline Lasserre, la destinava alla chiesa: “mia madre educava i figli per il cielo e non per la terra” 81 racconta Appia. Questa mentalità poco flessibile accomunava tutti i membri
80
Adolphe Appia, Conférence pour Zurich (1925) L’art dramatique Vivant, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia frammenti di un’opera, p. 42. 81 Adolphe Appia, Introduction à mes notes personnelles, 1906, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 11.
della famiglia. Una sorella di Appia, Maria, partì presto come missionaria. Uno dei fratelli, divenuto un noto banchiere, allontanò il fratello minore temendo che potesse danneggiare la propria rispettabilità, e la figlia Genevieve arrivò addirittura a compiere il gesto estremo di bruciare le carte giovanili e la corrispondenza privata di Appia, di cui era venuta in possesso dopo la morte di sua sorella Hélène. Quest’ultima fu l’unica a comprendere, o perlomeno accettare, l’inclinazione bohémien del fratello che tentò di aiutare anche economicamente, come testimonia il dottor Oskar Forel nel suo inedito Memorandum, sempre in segreto. A sostenerlo in questo senso fu pure, sin dall’iscrizione al conservatorio di Lipsia, l’amico e mecenate Agénor Boissier. È lo studio della musica, a cui si appresta, secondo quanto ricorda l’allievo Jean Mercier, dopo aver ascoltato la Passione secondo San Matteo di Bach e la Sinfonia n. 9 di Beethoven, rivolgendosi al direttore d’orchestra di Ginevra, Hugo de Senger, a condurlo a teatro per la prima volta, nonostante lo scetticismo della famiglia: “l’idea e il nome stesso di teatro erano banditi dal nostro circolo familiare” 82 dice il ginevrino, 82
Adolphe Appia, Expériences de théâtre et recherches personnelles (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1922-24, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 11.
ed il fatto di aver tanto atteso “era stato di stimolo per la mia immaginazione. Sappiamo il fascino che ogni finzione esercita sull’infanzia; il fatto di escluderne il teatro doveva inevitabilmente attirare la mia attenzione su una forma che ne è la realizzazione più seducente” 83. Si trattava del Grand Théâtre di Ginevra, costruito sul modello dell’Opéra di Parigi, e del Faust di Gounod. Ma, come è noto, se l’aspettativa è esagerata la delusione è quasi assicurata. L’impressione iniziale di Appia, che rimase tale nel corso dei due anni seguenti, trascorsi, sempre per gli studi musicali, nella capitale francese e nei suoi teatri, è quella “d’une monotonie regrettable”. Il cieco asservimento alle convenzioni impietrisce le scene adornate da tele che ad Appia paiono essere “solo paraventi” 84. Ma il paradosso maggiore è che la fredda esistenza di tali scene non può coesistere con la vita degl’interpreti del dramma per cui quelle stesse scene sono state realizzate: “la recitazione degli attori destò la mia attenzione, e non senza ragione; tuttavia, dato che niente nella scenografia si accordava ad essa (tranne il tempio del Santo Graal), quella cura particolare risuonava a vuoto” 85 dice Appia dopo aver assistito al Parsifal nella 83
Ibidem. Ibidem. 85 Ibidem. 84
capitale del wagnerismo, Bayreuth. Ma ancor prima che a Bayreuth, dove vedrà pure Tristano, I maestri cantori, Tannhauser, Lohengrin e L’anello del Nibelungo, questa precisa sensazione lo aveva folgorato a Ginevra, dopo la visione del Faust: “appena si aprì il sipario, rimasi stupito nel non vedere, o meglio, nel non sentire che tele senza consistenza; […] Il piano del palcoscenico mi fece un’impressione analoga; avevo infatti supposto che i piedi degli attori – e quindi, naturalmente, tutti i loro atteggiamenti – sarebbero stati valorizzati dalla diversità dei piani. […] Durante la rappresentazione, la mia delusione si fissò sempre più esclusivamente sui personaggi; trovai bizzarro che ciascun episodio non fosse meglio situato” 86.
La prima luce a rischiarare l’oscuro sentimento di Appia è quella degli spettacoli allestiti da un seguace dello stile inaugurato dal duca di Meiningen, Alton Hilt. Le conclusioni che Appia trae dopo aver assistito alla Carmen di Bizet e al Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, messe in scena dal direttore del teatro di Brunswick, sono le seguenti: 86
Ibidem.
“cercava di trar partito dal materiale esistente, molto convenzionale e sommario, e senza alcuna pretesa di riformare otteneva, grazie a ingegnose disposizioni, valorizzate da un’illuminazione adatta, effetti sorprendenti nella loro semplicità. Lì vidi per la prima volta un giusto impiego dei praticabili, che, allora, poteva sembrare azzardato, ma che era perfettamente appropriato; e non potei che convincermi dell’influenza che tale varietà del suolo esercitava sulla recitazione degli attori, e quanto anche favorisse e stimolasse l'impiego dell’illuminazione” 87.
È di fronte ad un altro Faust, quello di Goethe, messo in scena nella primavera dell’ ’83 a Lipsia dal celebre attore Otto Devrient – dopo il successo ottenuto allo Hoftheater di Weimar – , che, finalmente, Appia si decide a mettere su carta le sue brillanti riflessioni su una materia, quella teatrale, di cui si faceva conoscitore sempre più esperto. Ma sarà l’esperienza teatrale successiva a dare il la all’ operazione rivoluzionaria del ginevrino: L’anello del Nibelungo rappresentato all’Opera di corte di Dresda. Le parole con cui Appia commenta lo spettacolo sono durissime: 87
Ibidem.
“ci è ben nota la versione di Bayreuth del ruolo di Wotan, nella Walkiria. È una tradizione che fa di quella figura di tragico vegliardo un vecchio brontolone chiassoso e stupido. [...] Conosciamo tutti assai bene la scena in cui Brunilde, al suo risveglio, saluta il sole, all’ultimo atto del Sigfrido, con gesti che sembrano provenire dagli esercizi di ginnastica svedese. […] Sorridiamo del placido cavallo che un corista, simile a un carrettiere privo di bontà verso gli animali, tiene per la briglia a Brunilde, che intanto canta il lamento finale nel Crepuscolo degli Dei. Ridiamo forte quando l’aiuta a portare fino al rogo il pacifico corsiero che cammina come un cavallo ben nutrito verso la mangiatoia piena di fieno”. 88
Appia racconta anche un episodio che non lascia dubbi su quale sia il suo sentimento a proposito del lavoro scenografico svolto a Bayreuth:
“ durante una rappresentazione del Parsifal, a Chicago, Vernon Stiles si accorse che le bretelle che reggevano il suo costume avevano ceduto. Per evitare che cadessero, strinse le 88
Adolphe Appia, Devons-nons (ou pourrons nous?) réaliser l'idéal de Wagner?, (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1922-24, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 9.
mani sotto le ascelle, ma accortosi ben presto che non serviva a nulla, terminò la scena con le mani dietro la schiena, strette fortemente all’altezza della cintura. Quando lasciò, con un sospiro di sollievo il palcoscenico, incontrò Loomis Taylor, il direttore del teatro, e gli chiese: ‘ha pensato che il mio gesto insolito fosse dovuto a nervosismo?’. Taylor gli rispose: ‘no, ho pensato che fosse la tradizione di Bayreuth’ ”.89
Il sarcasmo è tangibile quanto il peso che grava sulla sensibilità artistica di Appia, per cui sarebbe immorale, inaccettabile, abbandonare le cose in tale stato. È giunto il momento di passare alla fase successiva, di costruire il terreno di cui parla Copeau, riconoscendo la concreta validità delle intuizioni dello scenografo: “non divagava. Le scoperte che ha fatto sono positive; esse avevano, come gli piaceva dire, del terreno solido sotto i piedi”. 90 È nella salubre località svizzera di Gunnersbury, come testimoniato da una lettera ad Houston Stewart Chamberlain – Appia iniziò a frequentare lui e la moglie, Anna Horst, nel 1884, a Parigi – e dal registro degli ospiti conservato 89
Ibidem. Estratto da Adolphe Appia et l’art scénique, in La Naciòn, Buenos Aires, 16 aprile 1928, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso gli altri, pp. 22–23. 90
all’anagrafe del paese, che Appia, tra il ’90 ed il ’93, si dedica alla stesura delle Note per la messa in scena dell’Anello del Nibelungo poi raccolte ed elaborate nel suo primo saggio teorico La mise en scène du drame wagnérien. L’opera è costituita da quattro libri, ognuno corredato da schizzi e bozzetti, e può essere considerata uno dei primissimi esempi di quaderno di regia vera e propria. Si fa continuo riferimento allo spartito musicale, ma questo non è presente sulle pagine che si limitano ad ospitare i commenti del protoregista accompagnati da simboli, del tipo //, e numeri che rimandano a passaggi e battute dello spartito. De L’oro del Reno restano solo gli schizzi, le note sono andate perdute come pure le trascrizioni della tetralogia per pianoforte e canto, di cui Appia si servì nel corso della sua riflessione. Agli scenari è riservata una cura meticolosa finalizzata ad ottenere un insieme armonico che risponda a una visione registica, ancor più che scenografica. Ogni personaggio occupa, nella maggior parte dei casi, la stessa parte del palcoscenico ed è connotato da determinati gesti e posizioni, in conformità con il simbolismo neoromantico di cui tutta la regia di Appia è impregnata.
La marca visiva di Appia, ovvero l’essenzialità, è ravvisabile specialmente nei due libri relativi alla messa in scena de L’oro del Reno e de La Walkiria, classificate come “opere degli dei” per distinguerle dalle “opere degli uomini” di cui ci sono noti, e per questo è più facile rappresentare, maggiori dettagli. Nei bozzetti Appia, che è solito ridurre le figure umane a silhouette senza soffermarvisi, non riserva una cura particolare ai costumi. Nel caso della tetralogia si limita a suggerire costumi semplicissimi per gli uomini e leggermente più sfarzosi per gli dei, avulsi da contesti storici particolari e soprattutto corredati da accessori in tinta con la scena. Bando, quindi, al guazzabuglio d’abiti di scena delle rappresentazioni ottocentesche. Ciò che lo scenografo si preoccupa di ricostruire, con un atteggiamento che lo avvicina alla corrente espressionista, non è l’ambiente in sé ma la percezione che ne hanno i personaggi. Eccezione fatta per i cambi di scena, che restano vincolati alla tradizione – buio tra un atto e l’altro e scenario fisso o vapori per i cambi interni agl’ atti – , i quaderni del giovane Appia contengono già tutte le innovazioni destinate a svilupparsi nei saggi della maturità. Vi sono enunciati la musica come principio ordinatore, la praticabilità della scena tridimensionale, l’illuminazione attiva (che si serve delle luci
di taglio, verticali e di controluce e rinuncia, invece, a quelle di ribalta), la soggettivizzazione dello spazio e degli oggetti, visti in funzione del personaggio e dell’atmosfera, e la centralità dell’attore che deve astenersi dalle pose tipiche del divismo o mattatorismo. Nucleo dello spettacolo teatrale non è né il regista-burrattinaio, in stile Gordon Craig, né la scenografia cui gli attori devono militarmente sottostare, come prescritto dalla compagnia dei Meininger. Tale onere spetta all’attore che necessiterà quindi della supervisione di una guida non tirannica ma, di sicuro, autorevole. La stessa figura, che assume così sempre più i connotati di quella del regista, sarà responsabile di dettare una cifra stilistica unitaria e di garantire l’omogeneità delle componenti dello spettacolo. Suddetti quaderni non furono dati alle stampe fino all’edizione delle Opere complete curata da Marie Luoise Bablet-Hann. I primi a prenderne visione delle Note di Appia furono il filosofo Chamberlain – “tutte le vostre idee sono in anticipo di circa 75 anni rispetto al momento propizio e la madre di colui che si infiammerà per le vostre idee è ancora una verginella che va a scuola e che mangia arance e zuppa di piselli” 91, commenta egli 91
Estratto da una lettera di Chamberlain ad Appia, 13 febbraio 1894, cit. in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, nella sezione Pannelli, pp. 78-79.
affettuosamente – e, tramite questo, Cosima Wagner, vedova del maestro e direttrice del Festspielhaus di Bayreuth. I dettagli dell’incontro con la Wagner, da cui il ginevrino fu accompagnato da Chamberlain, ci sono noti grazie al DayBook 1 di Gordon Craig dove egli trascrisse quanto Appia gli raccontò durante il loro incontro a Zurigo nel 1914, in occasione dell’Esposizione internazionale del teatro. Nonostante la rapidità con cui avvenne, l’incontro con la donna influì non poco sulla già vacillante autostima del giovane che, anni dopo, dirà a riguardo: “Bayreuth accusava le mie scene di far pensare alla spedizione di Nansen” 92, alludendo all’aspetto glaciale dei suoi bozzetti geometrici. Il giovane Appia non fece in tempo, con la cartella dei disegni alla mano, ad accennare la sua idea alternativa di messa in scena, che la vedova intervenne indispettita: “basta; siamo qui per parlare del genio di Wagner, non per ascoltare quel che voi dite”. Nonostante la mal disposizione e l’avventato rifiuto della donna avrebbero reso più che lecita una reazione del giovane, egli non osò replicare, “divenne rosso fuoco, raccolse le sue carte e a testa bassa se ne andò via” romanza Craig. 92
Adolphe Appia, Expériences de théâtre et recherches personnelles (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1922-24, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 10.
“Mettendo al bando la Musique et la mise en scène Cosima Wagner mantenne a Bayreuth, per diverse decine d’anni, una tendenza artistica già da tempo superata; così facendo agiva contro gli scopi rivoluzionari di Bayreuth” 93, commentò anni dopo il nipote di Wagner, Wieland Wagner. Quando la fiamma che Appia accese nell’animo di Cosima, mettendo in discussione le idee del marito, si affievolì, e grazie all’insistenza di Chamberlain, ella rilesse gli appunti dell’aspirante metteur en scène de L’anello. Come testimonia la lettera che scrisse a Chamberlain il 13 maggio del 1896, durante la messa in scena a Bayreuth de L’anello, rileggendo più lucidamente le teorie di Appia ella ne colse anche aspetti positivi, o perlomeno curiosi e meritevoli di essere approfonditi – “ammetto che il significato di Appia consista nel campo tecnico, e precisamente nell'illuminotecnica. È questo un campo d’azione ancora da colmare, se le intenzioni dovranno essere realmente portate a termine. Eseguire i passaggi, apportare tenui modifiche, tutto ciò spetta a un tecnico dotato di spirito creativo nel suo campo d’azione” – , ma non per mezzo della tetralogia del marito: “ho esaminato in questi 93
Wieland Wagner, 1959, cit. in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 18621928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, nella sezione Pannelli, pp.78-79.
giorni le Notes sur L’anneu du Nibelung di Appia, nella speranza di trovarvi qualcosa di utilizzabile. Purtroppo è stato inutile. Appia ha l’aria di non sapere che L’anello è stato qui rappresentato nel ’76, ragion per cui non c’è più niente da scoprire, per quel che riguarda la scenografia e la regia. Così , nel suo scritto, tutto quel che c’è di giusto è superfluo, in quanto corrisponde alle indicazioni dello spartito, e il resto è errato fino alla fanciullaggine”. È solo nel campo dell’illuminotecnica, basata sulla luce elettrica e non a gas, poco esplorato dal marito, che Appia può permettersi d’intervenire ed è bene che intervenga perché il teatro possa procedere sulla via del progresso. Per il resto è obbligatorio attenersi alle precise direttive che Wagner mise per iscritto nel 1876. Queste rimangono, invece, escluse dalla concezione registica di Appia, secondo cui il testo drammaturgico è concluso in se stesso, a prescindere dalle didascalie, che quindi possono essere tenute in considerazione come pure essere ignorate da chi mette in scena. Questa concezione è frutto di una mente incline, prima che a formulare pure teorie, ad abbandonarsi alle visioni improvvise, ad assecondare l’ispirazione artistica. L’espressione più adatta per definire la figura professionale di Appia è, probabilmente,
quella utilizzata da Ferruccio Marotti: “artista-teorico”. Anche a questo proposito lo stesso Appia non si è astenuto dal dire la sua: “il momento creativo ha […] preceduto quello dell’elaborazione teorica; in quest’ordine l’integrità artistica della mia concezione scenica mi pareva garantita; prima ho concepito una visione […] dentro di me, ma con estrema chiarezza; poi, in seguito, e solo in seguito (questo è il punto essenziale), ho riflettuto teoricamente circa il valore e la convenienza di quanto avevo visto in quel modo”. 94 Egli si sente innanzitutto un artista e ciò giustificherebbe alcune mancanze che sarebbero, invece, imputabili ad un aspirante teorico puro: il ragionamento, impostato in maniera filosofica, manca di logica in alcuni punti e le varie simpatie o antipatie sono evidenti e non certo da scovarsi tra le righe. Lo stesso modo di pensare e approcciarsi al lavoro artistico può riconoscersi in autori più o meno contemporanei ad Appia. Il frontespizio della rivista di Craig, The Mask, recita proprio: “After the Practice the Theory”. La pubblicazione del saggio maggiore di Appia, La musique et la mise en scène, è preceduta, oltre che dalle Note e da La mise 94
Appia, Introduction à mes notes personnelles (manoscritto inedito), 19056, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso se stesso, p. 19.
en scène du drame wagnérien, da due episodi poco noti, ai quali possiamo risalire grazie al contributo del già menzionato Chamberlain. Questi pubblicò, nel 1896, un volume contenente tre drammi. Per uno di questi, Der Weinbauer, Appia realizzò due schizzi. Nonostante i drammi, realistici, non lo ispirassero granché, Appia fece dei disegni anche per il dramma Der Tod der Antigone che non incontrarono, però, il gusto del filosofo che decise di non pubblicarli. Inoltre, nel 1895 e nel corso dei dieci anni successivi, Appia portò avanti, parallelamente alla stesura delle produzioni note, il progetto dell’opera Ondine, di cui non restano né manoscritto né disegni, ma soltanto pagine che ne illustrano dettagliatamente trama e scenografia indirizzate a Chamberlain. Si conosce anche il nome di chi si sarebbe dovuto occupare del libretto in francese, Jean Thorel, mentre rimane ignoto il musicista designato. Fu probabilmente Fauré a proporsi di musicare il testo, ma, secondo il compositore Volbach, Appia stesso, già autore di brevi composizioni legate alla scuola francese del periodo, si sarebbe volentieri assunto questa responsabilità. Non vanno dimenticati neanche i diciannove bozzetti di scena che Appia pubblicò in appendice a La musique et la mise en scène ed il saggio che egli scrisse sul Parsifal nel 1896 circa, pubblicato in parte in
tedesco nel 1912 assieme ad altri disegni. Quest’ ultimi sono esclusivamente in bianco e nero, il tratto è semplice e puro ed è la luce che crea le atmosfere e costruisce spazi monumentali. Tutto appare perfettamente studiato per accogliere l’uomo e attraverso questo, strumento, a sua volta, della musica, assumere ed esalare significato. Si deve, invece, guardare ad un tempo più tardo per scorgere le prime manifestazioni concrete del pensiero di Appia. È all’età di quarant’anni inoltrati che gli viene data, per la prima volta, la possibilità di dare forma scenica alle proprie futuristiche visioni. Nel 1902 Appia ottiene il permesso di mettere in scena, nel teatro privato, l’hôtel particulier, della casa parigina della contessa de Béarn, alcuni quadri da opere di Wagner. A questi in seguito preferisce le scene della Carmen di Bizet e del Manfred di Byron musicato da Schumann, approfittando dell’occasione anche per estendere la propria concezione riformatrice al di là dell’opera di Wagner, oltre che per motivi pratici, quali il numero dei musicisti e problemi legati allo spazio scenico e ai diritti d’autore. Dalle testimonianze di alcuni tra i partecipanti all’evento, come il conte Hermann von Keyserling, si evince l’entusiasmo di Appia, il cui sogno di un teatro tutto per sé acquistava, finalmente, tratti sempre più
realistici. Oltretutto, grazie a questa opportunità, Appia riesce a superare quel romanticismo pittorico ancora latente nei disegni realizzati in precedenza. All’artista viene lasciata carta bianca, così, egli si riserva il diritto di allargare gli spazi riservati alla scena, scegliere i cantanti e guidare il lavoro del collaboratore Lucien Jusseaume, noto per l’allestimento di Pelléas et Mélisande. Per rappresentare la prima scena del secondo atto della Carmen, la scena notturna degli zingari, Appia sfrutta sia le risorse della nuova illuminazione elettrica, ferma e dai toni freddi, quasi bianchi, sia quelle delle tradizionale luce a gas, tremolante e con uno spettro di colori dal giallo al blu. Con la prima rende gli argentei raggi lunari che, attraversando gli alti tralci di vite, dipingono un paesaggio impressionante, animato dal contrasto tra zone luminose e zone immerse nell’ombra nera, della seconda si serve per le ombre, disegnate dall’esitante fiammella delle candele, che abbracciano gli zingari danzanti. La scelta di rappresentare, dal Manfred, la scena dell’invocazione di Manfred ad Astarte è animata, probabilmente, da un movente diverso. Il dramma di Byron sul piano dei contenuti e del sentimento che li sottende è molto vicino ai drammi wagneriani: “è in tre atti, ma di natura strana, metafisica, inesplicabile. Quasi tutti i personaggi, tranne due o
tre, sono spiriti della terra, o dell’aria, o dell’acqua; la scena si svolge nelle Alpi; l’eroe, una specie di mago tormentato da un rimorso, la cui causa rimane inspiegata. Egli vaga, invocando gli spiriti... poi si reca di persona alla dimora del principio del Male, ed evoca uno spettro che gli appare e gli dà una risposta ambigua e spiacevole; e nel terzo atto i suoi servitori lo trovano morto in una torre dove studiava le arti magiche” 95, ma, a differenza di questi, non presenta tanto palesemente l’insanabile conflitto tra musica e attore, che Appia non si sentiva ancora pronto ad affrontare. Nell’opera di Wagner l’intensità musicale era tale che, seppure la scena tridimensionale stilizzata su misura dell’attore vi si sarebbe potuta adattare, l’attore ne sarebbe comunque stato soffocato. Appia compone il palcoscenico di diversi piani orizzontali che salgono gradualmente da sinistra a destra, questo movimento è ripreso da una tenda disposta obliquamente, ai lati chiudono la scena dei pilastri purpurei. All’inizio una luce rossa, guizzante grazie alle proiezioni, si staglia nelle tenebre, evocando quello che Keyserling definisce uno “spazio cavernoso”. Astarte appare come una figura ultraterrena grazie all’argenteo chiarore che lo avvolge. Manfred rimane invece nell’oscurità e solo a 95
Byron, lettera all’editore Murray, 15 febbraio 1817, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 15.
tratti ne vengono violentemente illuminati i movimenti che esprimono, come ogni dettaglio della scena, la sua aspirazione a raggiungere Astarte. La costruzione della scena è, dunque, affidata totalmente agli elementi plastici e coloristici e non alla convenzione prospettica. Probabilmente durante questo primo lavoro Appia godette della collaborazione di un altro innovatore, Mariano Fortuny, con cui venne in contatto tramite il cugino Alfred Guy Claparèd, e del quale sappiamo ancora grazie ai racconti di Craig. Nel 1902 Fortuny brevettò a Parigi la cupola che porta il suo nome, sperimentata al Théatre de l’Avenue Bosquet. Egli fa sopprimere i teli che pendono dalla graticcia per dare un illusione di cielo, detti aree o cieli, sostituendoli con un fondale illuminato mediante proiezioni a luci riflesse e diffuse. È lo stesso Appia, discorrendo dei vantaggi del ricorso all’illuminazione creativa anziché ai fondali dipinti con tanto di luci e ombre fisse, a nominare Fortuny:
“l’illuminazione per se stessa è un elemento dagli effetti illimitati, rimessa in libertà, diviene per noi ciò che per il pittore è la tavolozza: per lui ogni combinazione di colori è possibile; e da parte nostra, per mezzo di proiezioni semplici o composte, fisse o mobili, con l’ostruzione parziale delle fonti
luminose, con diversi gradi di trasparenze, ecc., noi possiamo ottenere un numero infinito di modulazioni. L’illuminazione ci dà così il mezzo per esternare, liberare in qualche modo una gran parte dei colori e delle forme che la pittura fissava sulle sue tele, e di diffonderli vivi nello spazio; l’attore non passeggia più davanti alle ombre e alle luci dipinte, ma è immerso in un’atmosfera che è destinata a lui. Gli artisti capiranno facilmente l’importanza di una simile riforma (un artista assai noto a Parigi, Mariano Fortuny, ha inventato un sistema di illuminazione del tutto nuovo, basato sulle proprietà della luce riflessa. I risultati sono straordinariamente felici, e questa invenzione geniale provocherà nella messa in scena di tutti i teatri una trasformazione radicale a favore dell’illuminazione)”. 96
96
Adolphe Appia, Comment réformer notre mise en scène, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 15–16.
Mariano Fortuny (1871-1949), modellino atto I, Venezia, Museo Fortuny.
Mariano Fortuny, bozzetto atto I, Venezia, Museo Fortuny.
Queste prime realizzazioni delle teorie di Appia riscuotono successo e, soprattutto, ispirano l’inizio dello svecchiamento della scenografia austriaca operato da Gustav Mahler e Alfred Roller, attraverso la messa in scena, tra le altre, della stessa opera a cui, tempo dopo, si dedicherà anche Appia, il Tristano. Anche la maggiore innovazione di Roller, le “Roller-Truerme”, cioè i pilastri o torri posti ad incorniciare la scena ai lati del palco, paiono derivare dalla scena del Manfred di Appia. L’influenza di Appia è ravvisabile anche nei molti altri casi ricordati da Edmund Stadler:
“[…] ci fu poi il Tristano del Festival di Colonia, direttori Marx Martersteig e Hans Wildermann, e ancora L'anello del Nibelungo allo Staatstheater di Friburgo, direttori Paul Legband e Ludwig Sievert, fino alle numerose messe in scena del Parsifal, di cui fu permessa la rappresentazione nel 1913 e nel 1914. Mentre il Parsifal di Zurigo lasciava a mala pena indovinare la monumentale stiIizzazione di Appia, sotto la scenografia concepita da Gustav Gamper in modo prevalentemente pittorico, il Parsifal di Lipsia, nella realizzazione scenica del Professor Klinger, si basava con discreta esattezza sui bozzetti di Appia” ma continua, in tono
amareggiato, Stadler: “nessun accenno purtroppo all’ispirazione da Appia: neppure il suo nome fu citato”. 97
L’unico ad indicare Appia come fonte d’ispirazione è Jacques Copeau, che fu pure tra i pochi contemporanei dell’artista ginevrino a tenersi costantemente aggiornato sul suo lavoro. Non si tralasci, in ultimo, la ripercussione che la scena riformata di Appia, specialmente negli aspetti luministici – ad esempio, ne L’oro del Reno la luce, mancando, non consente di percepire nettamente i contorni e viene data, così, l’impressione dell’acqua, e nel Tristano e Isotta è l’atmosfera luminosa a far sì che il pubblico veda il dramma con gli occhi dei suoi protagonisti – , come pure quella di Craig, ebbe sul teatro espressionista, per quanto questo porti, poi, tali innovazioni alle estreme conseguenze. Nel corso delle rappresentazioni che seguono la prima, l’attenzione di Appia si concentra sempre più morbosamente sugli attori. È eloquente, a tale proposito, la maniera indicata per rappresentare la foresta del secondo atto del Sigfrido:
“ecco il punto di partenza: Tizio e Caio fanno questo e quello, dicono questo e quello, in una foresta. Per comporre la nostra 97
Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 16.
scena, non dobbiamo cercare di vedere una foresta, bensì di immaginare minuziosamente, nella loro successione, tutti i fatti che si svolgono in questa foresta. La conoscenza perfetta dello spartito è dunque indispensabile e la visione che ispirerà il metteur en scène cambia anch’essa completamente: i suoi occhi devono rimanere fissati sui personaggi; se pensa, allora, alla foresta, la vedrà come un’atmosfera […] che egli non può cogliere che nei suoi rapporti con gli esseri viventi e mobili da cui non può distogliere la vista. Il quadro non sarà dunque più, in nessun momento della sua visione, un allestimento di pittura inanimata, ma sarà sempre animato. La messa in scena diventa così la composizione di un quadro nel tempo; anziché partire da una pittura imposta da non so chi a non so chi, in modo che poi all’attore siano riserbati i meschini adattamenti che ci sono ben noti, noi partiamo dall’attore: è la sua recitazione che intendiamo valorizzare artisticamente, pronti a sacrificare tutto per questo fine. Si dirà: Sigfrido qui, Sigfrido là, e mai: l’albero per Sigfrido, il sentiero per Sigfrido. Lo ripeto: non cerchiamo più di dare l’illusione di una foresta, bensì l’illusione di un uomo nell’atmosfera di una foresta; la realtà qui è l’uomo, a fianco del quale non ha luogo nessun’altra illusione. Tutto ciò che questo uomo tocca, deve essere destinato a lui […] e se noi perdiamo di vista per un istante Sigfrido e alziamo gli occhi, il quadro scenico non deve darci
necessariamente un’illusione: il suo allestimento ha per fine soltanto Sigfrido, e quando la foresta dolcemente agitata dalla brezza attirerà gli sguardi di Sigfrido, noi spettatori guarderemo Sigfrido bagnato di luci e di ombre mobili e non più i brandelli di carta tagliati a forma di foglie e messi in movimento da cordicelle. ‘L’illusione scenica è la presenza viva dell’attore’ ” 98
Queste idee, ancora in nuce all’epoca del Sigfrido, sbocciano rigogliosamente dopo l’incontro, avvenuto nel 1906, con l’esteta Emile Jacques Dalcroze, al quale Appia dedica il breve scritto intitolato L’origine et les débuts de la gymnastique rythmique. Insegnante del conservatorio di Ginevra, Dalcroze si dedica allo studio di quei movimenti ritmici del corpo che gli pareva avessero un valore equivalente agli elementi del solfeggio musicale. Non ottenendo credito dalla direzione del conservatorio, approfondisce le ricerche per conto proprio fino al maggio del 1905, quando ha luogo, alla festa dei musicisti svizzeri a Soleure, la prima dimostrazione pubblica di quella che viene chiamata – fu il docente di psico-fisiologia Edouard Claparède a fornire la terminologia adatta – “ginnastica ritmica”. Iniziano, così, i corsi pubblici e nel 1910 Dalcroze 98
Ibidem.
viene invitato dal mecenate Schmidt a fondare una propria scuola nella città giardino di Hellerau, presso Dresda. Nella nuova ginnastica Appia vede realizzarsi il mito dell’antica Grecia dell’opera d’arte vivente. Sul Journal de Genève Appia ne parla, infatti, come di una pratica tendente a “ristabilire i rapporti fra la musica e il nostro organismo, e ritrovare in tal modo l’antica euritmia”. Tale pensiero verrà espresso più compiutamente nel saggio La gymnastique rythmique et le théâtre:
“[…] l’iniziazione alla ritmica del corpo è di grande importanza per il sentimento musicale dell’attore, in più essa dà al corpo un’armonia naturale, che si esteriorizza in purezza e agilità dei movimenti. […] La scuola del movimento ritmico dà all’attore il sentimento dello spazio nel quale egli si muove. In questo momento l’attore deve sentire l’ingiustizia che gli si fa, col metterlo quale elemento plastico e vivo, in mezzo a pitture morte dipinte su tele verticali. Egli cercherà di far valere i suoi diritti, e con piena consapevolezza collaborerà positivamente alla riforma drammatica e scenica. Ma anche l’autore, il poeta, il musicista, che hanno compreso il valore della ritmica, torneranno a far ricerche sul corpo umano, che è stato da secoli troppo trascurato. Il punto di congiunzione tra corpo e spirito, che solo
può dare l’armonia, era andato perduto. La ginnastica ritmica cerca di ritrovarlo: in ciò sta la sua grande importanza per il teatro”. 99
Ma siamo di nuovo in una fase negativa: “[…] il movimento corporeo della musica mi era stato rivelato ma come fatto isolato; la sua vita non trovava ancora eco nello spazio, e ne soffrivo […] Insistetti presso Dalcroze affinché si procurasse una scala e degli ostacoli qualsiasi: l’intuizione c’era; la visione d’una realizzazione mi mancava ancora”. 100 Nella primavera del 1909 Appia assiste, per la prima volta, ad una rappresentazione di Dalcroze, ma questa non si rivela all’altezza delle sue aspettative, sempre troppo elevate: “ne uscii rattristato, e ciò mi decise; afferrai carta e matita, e composi febbrilmente ogni giorno due o tre spazi destinati alle evoluzioni ritmiche. Quando ne ebbi una ventina, li inviai a Dalcroze, con una lettera in cui gli dicevo che i suoi allievi facevano sempre le loro evoluzioni su una superficie piana, dando così
99
Adolphe Appia, La gymnastique rythmique et le théâtre, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 18. 100 Adolphe Appia, Expériences de théâtre et recherches personnelles (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1922-24, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 19.
l’impressione d’alpinisti che facessero la scalata del Cervino su un rilievo appiattito a terra...! […] Ormai lo stile dello spazio per le evoluzioni del corpo umano era fondato!”. Ancora una volta la delusione si traduce in motivazione e quest’ultima in impegno pratico: nascono gli “spazi ritmici”. Si tratta di luoghi ideali di spettacolo, di scene astratte, geometriche, rigorosamente tridimensionali, costituite da elementi praticabili, strutturati in funzione euritmica. La costruzione plastica di tali spazi è condotta secondo linee orizzontali e verticali e secondo le loro componenti, la linea obliqua e la scala, escludendo del tutto le linee curve, e la prospettiva è affidata al piano del palcoscenico. La maggior parte degli spazi disegnati da Appia non si rifà ad alcuna opera, solo tre di essi sono destinati ad un libretto di danza di Dalcroze, ispirato al Prometeo di Eschilo, mentre un disegno è ispirato alla poesia Il palombaro di Schiller. Osservando scrupolosamente alcuni spazi ritmici, in particolare Clair de lune, Les trois piliers o il disegno per la seconda scena dell’atto quinto dell’Amleto, Il resto è silenzio, si riconosce, come maggiore ascendente figurativo di questi lavori, l’opera degli impressionisti – che pure segnarono una svolta nella storia dell’arte pittorica – , ed in particolare del pittore francese Puvis de Chavannes (1824-
1898), specialmente del dipinto Sainte Geneviève veillant sur Paris endormi, che figura tra i quadri realizzati dal pittore nel Panthéon di Parigi. La santa è colta nell’atto di vegliare, da un terrazzo, su Parigi addormentata: in primo piano figura il pavimento del terrazzo, con grandi lastre squadrate di pietra bianca, a destra compare un pilastro su cui poggia un architrave lineare, attraverso il cui vano si scorge appena una stanza, mentre verso il fondo il terrazzo è chiuso da un parapetto, sempre lineare. La pallida luce lunare si diffonde sulla superficie del pilastro e sulla parte del terrazzo più prossima, in prospettiva, all’osservatore. Il parapetto rimane, invece, nell’oscurità e disegna, con la sua ombra sul pavimento, l’ennesima linea retta. La concezione artistica di de Chavannes, che, ispirandosi ad un ideale antico, concepiva la pittura come pura armonia e misura, incontrava, senza dubbio, gli ideali di Appia. Si può credere, dunque, che nel ginevrino sia scaturito, ad un certo punto, il bisogno di riprendere, e sviluppare sino alle estreme conseguenze, il lavoro di scansione geometrica dello spazio, attraverso l’alternanza di luce e ombra, iniziato dal pittore simbolista nell’ ultima opera, di cui fece il proprio testamento spirituale. Non è un caso se fu proprio la moglie di
de Chavannes, la brillante principessa Elsa Cantacuzène, a tradurre in tedesco l’opera di Appia, proprio negli anni in cui il marito dipingeva, avendo lei come modella, le due ultime storie di Sainte Geneviève.
Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898), Geneviève veillant sur Paris.
Appia, spazio ritmico Clair de lune, (STS Berna) 1909, in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia, illustrazioni, n. 16.
Appia, Il palombaro, 1910, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
Appia, spazio ritmico discesa agl’inferi di Orfeo, 1926, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
Appia, spazio ritmico campi elisi per Orfeo, 1926, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
Appia, spazio ritmico.
Appia ha avuto modo in rare occasioni di dare corpo alle ampie superfici stereometriche disegnate. L’istituto con annessa sala teatrale fatto costruire dai fratelli Dohrn a Hellerau si prestava, certamente, alla realizzazione degli spazi ritmici. “La sala è un vasto rettangolo e non ha alcuna scena fissa. Le pareti e il soffitto sono fatti di stoffa bianca dietro la quale sono disposte a intervalli regolari delle serie di lampadine. Nessuna fonte di luce cruda è visibile. Tutte le lampade vengono azionate dal fondo della sala per mezzo di un quadro che permette a una sola persona di effettuare tutte le variazioni, tutti gli effetti di luce ritenuti necessari. Il soffitto, diviso in schermi mobili, forma come una serie di proiettori. La luce, in mezzo a questo gioco di schermi, agisce quindi a piacere, sia per trasparenza, sia per riflesso e si presta a tutte le combinazioni di intensità, di movimento e di direzione. Invece della luce brutale della ribalta, che schiaccia gli attori contro il telone di fondo e fa di qualsiasi quadro una cromolitografia ad un tempo scolorita e violenta, si ha una specie di ambiente lattiginoso, un’atmosfera ovattata, che rende alla terza dimensione il suo onore disprezzato e fa di ogni corpo una statua i cui piani, le ombre e i rilievi si rivelano e si modellano come sotto le dita di un perfetto artista. […] La luce anima e dà vita all’essere che essa avvolge, collabora con lui. è una
creazione animata da una vita superiore e libera, invece del taglio sbiadito, del vano simulacro imbellettato che vediamo sulle scene tradizionali”. 101
Appia e Dalcroze si cimentano così nell’allestimento di alcuni spettacoli. Al 1912 risale la rappresentazione del brano della discesa agli inferi dall’ Orfeo e Euridice, seguito, l’anno dopo, dall’intera opera di Gluck, e al 1914 L’annonce faite à Marie di Paul Claudel. Questo è pure l’anno della collaborazione dei due con Firmin Gémier al Festspiele “La Fête de Juin”, tenutosi in occasione dell’Esposizione nazionale svizzera a Ginevra. Era da tempo che Gémier attendeva d’incontrare l’artista ginevrino, scriveva infatti a Dalcroze: “spero che Appia venga a Parigi con i suoi bozzetti. Voglio un trionfo per lui, per le sue idee”. 102 I Festspiele, ovvero spettacoli in voga già dal ‘700, animati da masse, cori, cortei e balletti-pantomime, che, secondo Théophile Gautìer, davano “l’idea di quel che potevano essere 101
Articolo non firmato di Paul Claudel, Il teatro di Hellerau, in La nouvelle revue francaise, settembre 1913, cit. in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, p.87. 102 Estratto di una lettera di Firmin Gémier a Emile Jaques-Dalcroze, non datata, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso gli altri, p. 25.
le feste antiche”, influenzarono moltissimo la concezione teatrale di Appia, sia perché questa era sempre più orientata al recupero di uno spirito classico, da tradurre, poi, in pratica con i mezzi moderni, sia per il suo carattere sociale. Appia assistette, probabilmente, al Festspiel celebrato nel 1886 in occasione del quinto centenario della battaglia di Sempach, a quello allestito Dalcroze, nel 1896, col titolo “Poème alpestre” e a quello curato ancora da Dalcroze e da Firmin Gémier nel 1903, in occasione del “Festspiel Vaudois” a Losanna. L’ultima messa in scena che Appia cura per Dalcroze è quella per il balletto pantomima Écho et Narcisse, in cui i danzatori apparivano come silhouettes dietro uno schermo. Tra i collaboratori di Appia più convinti si ricordano l’artista russo Alexander von Salzmann, che condivideva appieno le sue idee antirealiste e antillusionistiche, e l’ingegnere Harald Dohrn, che realizzò una consolle per le luci con quarantasei circuiti. Nel ’22 Appia realizza dei disegni per A Midsummer Night’s Dream e collabora con Jessica Davis Van Wyck alle scene di Amleto. Ma è solo nel 1923 che ad Appia viene dato, effettivamente, modo di manifestare al pubblico teatrale il proprio genio in tutta la sua strabiliante portata innovativa. È questo l’anno del
Tristano e Isotta, realizzato alla Scala su invito di Toscanini. Trascorsi gli anni dedicati agli spazi ritmici, Appia ridispone, dunque, in toto, il proprio animo ai romantici soggetti wagneriani. Difatti, qualche tempo dopo, Ernst Lert, che aveva realizzato la scena d’Appia a Milano, propone alla direzione del teatro municipale di Basilea, lo Stadttheater, di cui era direttore artistico, di affidare ad Appia l’allestimento de L’anello del Nibelungo. Oskar Wäelterlin, allievo di Appia e successore di Lert, riesce, nel novembre del ’24, a dare avvio al progetto, con la rappresentazione de L’oro del Reno, cui collabora anche, come direttore d’orchestra, Gottfried Becker. Nel teatro all’italiana di Basilea, Appia, dovendo rinunciare al progetto di ampliare la scena oltre i confini del palcoscenico, spinge attori (sottoposti a prove lunghissime) e luci fin sul proscenio. La sera della rappresentazione, Wäelterlin porta di peso Appia, sempre restio ad apparire in pubblico, a teatro per ricevere gli applausi. Nel febbraio del ’25 va in scena anche La Walkiria, seguita da un numero di polemiche – soprattutto per la presenza di elementi radicalmente antinaturalisti, come i cubi con gradinate in luogo delle rocce – tale da comportare la rinuncia di Wäelterlin agli spettacoli del ciclo restanti. In luogo di questi –
dato che i fanatici della Società Wagner gli rendevano oramai impossibile portare a termine i lavori sulle opere del compositore tedesco – presenta, però, il Prometeo di Eschilo, tradotto da Max Eduard Meyer von Liehburg, con scene e costumi di Appia. Con il Prometeo termina, su una nota che ha sempre un che di amaro, dato il conservatorismo dilagante, il lavoro di Appia in pubblico e per il pubblico. Tutta la delusione e la frustrazione dell’artista si traducono nell’assenza di colore, ma anche solo di chiaroscuro, dei suoi ultimi schizzi, tracciati per Il piccolo Eyolf di Ibsen, per Lohengrin (1926), per il Faust di Goethe e per l’Amleto, il Re Lear ed il Macbeth di Shakespeare. Le ultime architetture disegnate da Appia paiono perfettamente in grado di vivere autonomamente, senza bisogno del tocco vivificante dell’uomo.
Appia e Dalcroze, ritmi nel teatro di Hellerau, fotografia 1912, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
Appia e Dalcroze, ritmi nel teatro di Hellerau.
Appia e Dalcroze, ritmi nel teatro di Hellerau.
2.2 La mise en scène du drame wagnérien
Le intuizioni celate tra le righe delle Note per la messa in scena dell’Anello del Nibelungo vengono spiegate compiutamente da Appia nella parte iniziale del suo primo saggio teorico, La mise en scène du drame wagnérien, in cui riprende e sviluppa anche le note appuntate di getto nel 1890. Egli riesce a pubblicarlo, con l’aiuto di Édouard Schuré, nel 1895. Appia è nel pieno della fase romantica dell’evoluzione del suo spirito. Egli è totalmente rapito dal Wort-Tondrama wagneriano e dalla visione ideale di questo ricoperto dalla veste teatrale che più gli si addice. Si appresta, così, con umiltà e consapevolezza dello spazio d’intervento che il proprio ruolo gli consente – “devo dire che il mio punto di vista è esclusivamente quello di una persona che cura la messa in scena e che, pur dando vita all’opera d’arte, non tocca in alcun modo la realtà di quest’opera” – , al riordinamento e all’assestamento delle indicazioni del maestro tedesco, il cui dramma ha tutti i presupposti per mostrarsi in una forma che sia all’altezza della sua portata rivoluzionaria:
“Wagner ha creato una nuova forma di dramma. Nei suoi scritti teorici ne ha definitivamente fissato quelle che si
possono chiamare le condizioni astratte. L’applicazione che di esse ha dato nei suoi drammi sembra sottintendere come risolte le condizioni della rappresentazione. Ma in realtà non sono risolte […] c’è dunque un vuoto da colmare. Tuttavia, considerando le cose più da vicino, ci si accorge che si tratta soprattutto di una messa a punto, e che tutti gli elementi da disporre in ordine sono tacitamente forniti dal dramma stesso”. 103
La nuova forma rappresentativa del nuovo dramma deve essere giustificata da un elemento, interno ad esso, che lo distingue dalle altre forme drammatiche, non consentendone rappresentazioni dello stesso tipo. Il primo interesse di Appia sarà, dunque, quello di individuare quest’ elemento ed in generale tutto ciò che rende l’opera d’arte totale differente da altre forme drammatiche, quali il dramma parlato e l’opera. “Ciò che distingue il dramma wagneriano dal dramma parlato è l'uso della musica. Ora, la musica non si limita a dare al dramma l’elemento espressivo, ma ne fissa anche perentoriamente la durata; si può dunque affermare che dal punto di vista della rappresentazione la musica è il Tempo”. 103
Adolphe Appia, La mise en scène du drame wagnérien, 1894, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 31–43.
Tempo e spazio sono interdipendenti, difatti: “la musica dà […] le dimensioni: in primo luogo le proporzioni coreografiche nella loro successione, poi i movimenti di folla fino ai gesti individuali, infine […] le proporzioni della scena inanimata”. A differenza del poeta musicista, l’autore di un testo drammatico non musicato, non scrivendo musica, non definisce il tempo. Gli attori del dramma parlato dovranno, quindi, rifarsi ad altri parametri, ovvero agli esempi di durata offerti dalla vita, la cui natura non definisce lo spazio: “nel dramma parlato è la vita che procura agli interpreti gli esempi di durata (Tempo); l’autore non può fissare la durata della parola […] e l’azione non conferisce precisione né allo sviluppo delle evoluzioni né alle proporzioni della scena. Nel dramma del poeta musicista, al contrario, la durata è fissata rigorosamente, ed è fissata per mezzo della musica, la quale altera le proporzioni che sarebbero state fornite dalla vita”. Inoltre, come Appia preciserà più tardi, nel dramma di parola, come nello “spettacolo quotidiano” della vita, “l’azione drammatica è presentata dalla parola e dalla mimica solo nelle sue apparenze, le emozioni sono presentate solo nei loro effetti esteriori”, mentre “il poeta musicista […] grazie alla musica, non ci presenta più soltanto gli effetti delle emozioni,
l’apparenza della vita drammatica, bensì le emozioni stesse, la vita drammatica in tutta la sua realtà come possiamo conoscerla solo nel più profondo del nostro essere”. 104 Difatti, altra nobile funzione della musica, che già nel WortTondrama indica il tempo e, di conseguenza, definisce lo spazio, è esprimere il dramma interiore, poiché “gli elementi che sono la base di ogni combinazione di suoni” sono in “strette relazioni con gli elementi essenziali della nostra vita interiore, della vita dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni” 105: “ciò che caratterizza il dramma del poeta musicista e ne costituisce l’alto valore è il mezzo che egli possiede, grazie alla musica, di esprimere il dramma interiore, mentre il dramma parlato non può che farlo intendere […] si tratta dunque di un dramma in cui tutte le proporzioni di durata e di successione che la vita fornisce al dramma parlato sono alterate, e a cui viene ad aggiungersi una durata nuova: quella del dramma interiore, che la vita non gli fornisce”. La musica non esprime le drame intérieur mediante il semplice aumento d’intensità di un gesto, ma si vale di variazioni ed evoluzioni su di un grundmotiv, di conseguenza la durata dei
104 105
Ibidem. Ibidem.
movimenti corporei non corrisponde a quella dei moti dello spirito, come nella vita. “La musica [...] alterando la durata delle parole, altera le proporzioni dei gesti, delle evoluzioni, della scenografia: lo spettacolo intero si trova in tal modo trasposto su di un altro piano”, con quali mezzi rappresentare, dunque, uno spettacolo simile? Sulla base di quanto detto finora, quelli del dramma parlato (imitazione della vita) sono esclusi, ma lo sono anche quelli dell’opera: “i mezzi rappresentativi dell’opera, che per la loro durata sarebbero di comodo impiego, devono essere egualmente scartati, perché non sono motivati che da un prolungamento arbitrario del tempo, senza necessità drammatica”. Piegandosi alle convenzioni teatrali, l’opera non ha mai operato la trasposizione, a cui si è accennato, che le sue caratteristiche strutturali avrebbero richiesto. Dice, infatti, Appia: “se l’opera non avesse reso comune il cambiamento della durata naturale – a cui ha abituato lo spettatore pur senza una giustificazione – , non sarebbe stato possibile comporre interi drammi wagneriani senza prendersi cura di questa fondamentale alterazione”. Le condizioni di rappresentazione del Wort-tondrama possono, dunque, provenire solo da esso: “la conclusione inevitabile è che il dramma del poeta musicista
ricade completamente sul suo autore, e che questi non può sperare unità, se la parte rappresentativa (la messa in scena) – di cui, dopo tutto, egli fissa rigorosamente le proporzioni (la durata) per mezzo della musica – non entra nella concezione stessa del dramma”. Nel momento in cui Appia giunge a tale soluzione, non esiste ancora un dramma che sia perfettamente compiuto nella mente del suo autore. In attesa di questo dramma del futuro, Appia coltiva la propria utopia studiando il modo di mettere in scena i drammi di Wagner, che più si avvicinano al suo ideale. Problema essenziale è quello della ricezione, fattore primario della rappresentazione di un dramma: “la rappresentazione di un dramma non ha altro scopo che di convincere quel pubblico della realtà di vita che anima quel dramma”. La sensibilità del pubblico è, però, assuefatta al “gusto falsato” che ne indebolisce l’attenzione e la curiosità “e questo lo lascia in una grande passività; questa passività si manifesta in vari modi: inerzia nell’uscire da forme accettate senza esame critico; impotenza a subire, l’intensità musicale; e, soprattutto, incapacità di riunire le parti costitutive del dramma, o, in altre parole, incapacità di concentrazione”. Per risvegliare l’interesse del pubblico si dovrà, innanzitutto, presentare il dramma in una forma chiara e non fraintendibile, in secondo
luogo incrementare l’intensità dello spettacolo visivo. Per intensità non s’intende, però, pomposità decorativa o recitazione esasperata, ovvero elementi esterni dal dramma. “La maggiore o minore intensità rappresentativa di questo dramma è in proporzione diretta alle relazioni più o meno adeguate della sua messa in scena con la vita presentata dal dramma”. L’assioma che è essenziale premettere agli interventi pratici è, quindi, “che la vita ci è data esclusivamente dal dramma stesso”, per cui “questo dramma ricade completamente sul drammaturgo, il quale […] diviene il più potente degli evocatori”. L’intensità musicale trova un corrispettivo nell’intensità visiva perché il dramma wagneriano ha risolto il problema maggiore del teatro, ovvero il profondo solco che separava l’attore dalla scena inanimata, attribuendo alla musica il compito di fondere tutti gli elementi rappresentativi. Dunque “la musica comanda a tutti gli elementi e li raggruppa secondo le necessità dell’espressione drammatica; di modo che lo spettacolo deve acquistare una tale duttilità da poter obbedire senza replica alle esigenze musicali. Trattandosi di una questione di proporzioni, non dobbiamo fare altro che esaminare gli elementi della tecnica teatrale e subordinarli gli uni agli altri”. Si tratta dunque di individuare gli elementi del
vecchio teatro utili a questa nuova concezione e di ordinarli secondo una precisa gerarchia. Operazione che ricorda, in un certo senso, le teorie esposte da Wagner già ne L’opera d’arte dell’avvenire. Dopo aver precisato che “la scena inanimata consiste nella pittura, nella composizione scenografica e nell’illuminazione”, Appia fa subito notare al lettore come il primo elemento, la pittura, e l’ultimo, l’illuminazione, non possano coesistere. Si preferisce dare risalto al secondo poiché la pittura non è necessaria al Wort-tondrama come lo era, e lo è, alle altre forme drammatiche. In queste dramma e spettacolo sono “impotenti a esprimere il fatto, e obbligati a indicarlo solamente, il primo per mezzo delle manifestazioni esteriori della vita, il secondo servendosi di segni inanimati” che proprio la pittura gli fornisce, assumendo così grande importanza. Nel nuovo dramma il ricorso alla pittura deve, invece, essere occasionale e giustificato da una necessità drammatica che faccia sì che il pubblico non si lasci “più ingannare dalle sue brillanti apparenze”. L’intermediario tra pittura ed illuminazione è la conformazione scenografica e “la parte essenziale di essa è la combinazione dei praticabili, che si chiama ‘praticabilità’ ”. Quest’ultima è in funzione dell’attore
che non ha “alcuna libertà di iniziativa, perché la sua parte è tutta fissata dalle proporzioni date dalla Musica”. L’autore del nuovo dramma “non gli affida più il compito di creare una parte, ma la parte gli è imposta, già viva di una sua vita definitiva, di cui l’attore deve soltanto impadronirsi”. Nel dramma parlato l’attore costituisce un altro motivo di distrazione del pubblico, più preoccupato del successo della sua interpretazione che della riuscita del lavoro interpretato. “Per l’attore del dramma wagneriano questo successo non esiste, perché egli rinuncia non solo alla sua personalità, bensì anche a ogni diritto alla sua parte […] ne seguirà che l’interesse del pubblico verrà a concentrarsi esclusivamente sull’opera in se stessa, e che le pretese di interpretazione, che sono al giorno d’oggi la morte del dramma, saranno ridotte a un’entità minima e trascurabile”. Oltre ai consueti studi di dizione e musica, Appia propone all’attore anche lo studio dell’“assuefazione all’adattabilità” finalizzato alla “rinuncia: rinuncia di tutto il proprio essere, per divenire strettamente musicale”. Al vertice vi è, dunque, la musica che è “l’anima del Dramma” dalle cui direttive interne dipende, infatti, la messa in scena. Appia conclude difatti: “lo studio dello spartito, battuta per
battuta, diviene indispensabile. Soltanto lì comincia il vero lavoro di chi mette in scena, quello che esige il massimo della libertà, giustificata dal più grande rispetto”. Se si convince il pubblico “che chi mette in scena assume il proprio compito con la stessa coscienziosità” con cui il poeta musicista compone la sua musica, “la sua fede nel significato dello spettacolo ne raddoppierà l’intensità”.
Appia, bozzetto Parsifal, 1882, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
2.3 La musique et la mise en scène
“Debbo […] pregare il lettore di voler collaborare al mio studio ricordandosi sempre di tutta la vibrazione musicale di cui è capace. Certo, non suppongo che debba essere musicista nel senso normale della parola: la musica è prima di tutto una disposizione dell’anima, disposizione che si può possedere senza per questo dominare il procedimento tecnico né apprezzare molto le indigeste esibizioni dei nostri concerti e dei nostri teatri lirici. Essa implica un senso particolare per la contemplazione, che rende adatti a cogliere la portata artistica di alcune proporzioni e a sentire spontaneamente quel che queste possono contenere di intensità e di armonia. È a quel senso che faccio appello per la presente opera; è solo questo che il mio studio presuppone implicitamente”. 106
Con fare calviniano Appia, al termine della prima prefazione al suo secondo saggio, si rivolge direttamente al lettore tratteggiandone i caratteri ideali. Oltre che esperienza di lettura gradita, l’opera di Appia è necessaria alla comunità dei suoi fruitori ideali, come lo è la riforma che essa si propone di 106
Adolphe Appia, prefazione a La musique et la mise en scène, Montbrillant (Bière), 1897, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–46.
mettere in atto: “non avrei mai avuto il coraggio di prendere la penna senza la ferma convinzione di incontrare così l’intimo desiderio di più di un lettore”. 107 Come l’appello al lettore dimostra, in quest’opera troviamo un autore maturo, che ha acquistato maggiore dimestichezza nell’utilizzo degli espedienti del proprio mestiere, funzionale, nel caso di Appia, ad erigere un pilastro che sostenga la sua intima vocazione professionale, ovvero quella di artista teatrale e di riformatore. Dice, infatti, Appia di se stesso, giustificando la propria esitazione nel rendere pubblico il frutto della sua mente avanguardista:
“per molti anni l’autore ha consultato gli altri e ha interrogato se stesso. Irresistibilmente attratto da una realtà sconosciuta che intuiva meravigliosa, egli desiderava tuttavia munirsi di tutte le garanzie possibili prima di impegnarsi in essa. Capiva che si sarebbe trattato di un impegno definitivo; lo sentiva, in principio oscuramente; ma l’ansia che lo serrò a poco a poco,
107
Ibidem.
gli tolse ben presto ogni dubbio: non c’era nessuna possibilità di ritorno, e, nondimeno, bisognava partire”. 108
A tale consapevolezza e all’influenza di Houston Stewart Chamberlain, cui il saggio è dedicato, è dovuta l’impronta filosofica delle pagine di Appia, in cui si deduce una tendenza, più che a ricercare delle premesse teoriche a dei fatti pratici – come può ravvisarsi negli scritti di Craig – , a far scaturire dai fondamenti filosofici i dati tecnici. In alcuni passaggi, il discorso di Appia arriva quasi a raggiungere punte di misticismo: “cambiare direzione, ed abbandonare ciò che si conosce e si ama, per un qualcosa che non si conosce, e non si può ancora amare, significa compiere un atto di fede. In qualsiasi campo della nostra vita, una conversione – o, più esattamente e pìù propriamente, un cambiamento di direzione – è dunque un avvenimento grave e sempre tragico […] e per la stessa ragione il presente studio ha un carattere tragico”. 109 In definitiva, “lo scopo di quest’opera è di offrire al lettore una sorta di preparazione al viaggio” di cui “l’autore si trova ad essere guida e viaggiatore nello stesso tempo”, dal che il suo 108
Adolphe Appia, prefazione a L’œuvre d’art vivant, Chexbres, 1919, trad. di Marco De Marinis, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 89. 109 Ibidem.
studio si trova necessariamente ad avere un “doppio carattere: implica una responsabilità ed una confidenza, un insieme di nozioni tecniche e un diario di viaggio”. Oltre che del filosofo inglese Chamberlain, che assiste personalmente allo sviluppo e alla maturazione del suo spirito creativo, e del pensiero di Schopenhauer, la teoria estetica di Appia è debitrice della filosofia dell’arte di Taine, fondata sul principio delle modificazioni sistematiche dei rapporti tra le varie parti dell’opera d’arte, e dello schema dialettico alla base dell’idealismo hegeliano. Nell’incipit de La musique il problema viene posto in termini più generali, rispetto a quelli del primo scritto, secondo un metodo che, da questo momento in poi, Appia predilige, cioè introdurre argomenti particolari attraverso postulati di ampio respiro. Si parte, dunque, dalla differenza, prima che tra la nuova e le vecchie forme di dramma e di rappresentazione, tra l’opera d’arte drammatica e le altre creazioni artistiche. A questo punto, i termini utili alla dimostrazione di tale differenza, ovvero contenuto dell’opera, mezzi per esprimerlo ed espressione comunicata (forma), sono messi in relazione secondo un rapporto triadico d’ispirazione hegeliana. Dal secondo termine dipende l’armonia di tale rapporto, per cui è su questo che Appia, sostanzialmente,
lavora, non dimentico del principio fornitogli dalla filosofia di Taine – “l’opera d’arte ha lo scopo di manifestare qualche carattere essenziale e notevole, partendo da un’idea importante, più chiaramente e più completamente di quanto lo facciano gli oggetti reali. Essa vi arriva utilizzando un insieme di parti collegate tra di loro, delle quali modifica sistematicamente i rapporti” 110 – . Il lavoro si restringe subito all’arte drammatica, la sola in cui momento di creazione e momento d’attuazione non coincidono, dunque la sola a risultare problematica: “se il pittore, lo scultore, il poeta vedono il loro lavoro assumere gradualmente la propria forma e la conservano sempre in loro potere, […] le cose non stanno certo così per il drammaturgo”. 111 Nell’ambito dell’arte drammatica il mezzo d’espressione corrisponde, chiaramente, alla messa in scena. Essa può mediare tra contenuto e forma nei modi più disparati, dal che si guadagna in conservazione della freschezza del testo drammatico, cui conferisce “una portata molto più generale e una vita molto più 110
Adolphe Appia, Notes sur le Théatre, in La Via Musicale, Losanna, 1908, pp. 15–16, cit. in Marotti, Adolphe Appia, Attore musica e scena, La messa in scena del dramma wagneriano, La musica e la messa in scena, L’opera d’arte vivente, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 7. 111 Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–87.
lunga”, ma si perde in attendibilità e coerenza rispetto alle intenzioni dell’autore, poiché “l’opera d’arte non è la constatazione di questo o quell’aspetto della vita, a cui ognuno possa apportare la propria esperienza e la propria capacità, ma è piuttosto […] l’unione armoniosa di certi artifizi con l’unico scopo di comunicare a molti la concezione di uno solo”. Mezzi di espressione si possono considerare solo “quelle attività che l’autore è in grado di fissare da solo in modo definitivo”, dunque, affinché la messa in scena “acquisti il rango di mezzo di espressione, le è necessario un principio regolatore che, derivando dalla concezione originaria, detti in modo perentorio la messa in scena”, anche se l’opera non ne contiene la minuziosa descrizione. Poi, “che una volta fissati definitivamente, nelle loro quantità e nei loro rapporti, questi elementi [di espressione] possano essere presentati al pubblico da individui estranei alla loro concezione originaria non ha nulla a che vedere con la definizione di mezzi di espressione che intendiamo precisare, proprio perché questa definizione riguarda soltanto gli artifici che l’autore può fissare definitivamente; e questi individui estranei sono allora quel che è la tela per il pittore, i caratteri tipografici per il poeta”.
La regia, pur se affidata ad altri, rientra, dunque, tra gli strumenti dell’autore e viene presentata come necessaria conseguenza dell’aspirazione all’unità estetica propria del nuovo dramma. Questo è l’unico in cui tale unità può realizzarsi, poiché è l’unico in cui l’autore definisce il principio ordinatore, la musica, che fa della messa in scena un mezzo espressivo. Tutti gli elementi espressivi del Wort-tondrama concorrono alla sua unità, ma l’espediente unificante per eccellenza è la luce:
“la onnipotente Luce, obbedendo docilmente alla musica, sarà all’unisono con gli altri elementi scenici; […] la luce che popola lo spazio di chiarore e di ombre mobili, che illumina a tratti o che scaturisce a raggi colorati e vibranti. I corpi, immersi in questa atmosfera di vitalità, riconosceranno e saluteranno in lei la Musica dello Spazio. Perché Apollo non era solamente il dio della musica, ma era anche il dio della luce!” 112
112
Adolphe Appia, La gymnastique rythmique et le théatre, Glérolles, aprile 1911, in Les Feuillets, Ginevra, febbraio 1912, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia frammenti di un’opera, p. 59.
Senza questa lo sguardo dello spettatore afferrerebbe l’indicazione ma non l’espressione, per l’appunto, delle cose. Ed è proprio a questo che l’opera lo ha abituato: “il pubblico si abituò allo sforzo di trasposizione reso necessario dalle tele verticali e dalla mancanza di luce attiva; prese gusto al fatto che gli si presentasse la vita attraverso segni il cui uso consentiva una grandissima libertà nella scelta del soggetto e sacrificò, al bisogno di veder indicare un gran numero di cose seducenti, la vita vera che solo l’illuminazione e la piantazione potevano dare”. Per luce s’intende, infatti, illuminazione attiva, che non corrisponde di certo a quella richiesta dalla pittura, altro costituente del quadro scenico inanimato: “la disposizione delle tele dipinte che raffigurano la scena ha bisogno che l’illuminazione sia al suo solo servizio per rendere visibile la pittura, e questo non ha nulla in comune con il ruolo attivo della luce, gli è anzi contrario”. La pittura non solo ostacola il ruolo dell’illuminazione, ma perde ogni margine d‘interesse nel momento in cui sulla scena interviene l’attore, “perché la forma viva del personaggio non può avere contatti, e quindi nemmeno rapporti diretti, con gli oggetti raffigurati sulle tele”. La sua unica funzione, che allo spettatore abituato agli spettacoli
dettati dalla convenzione pare irrinunciabile, è l’illusione, ma “questa illusione non ha valore artistico che se raggiunge il suo scopo, che è quello di creare un ambiente, una atmosfera vitale, sulla scena; ognuno sa, invece, che all’entrare dei personaggi le più belle scene divengono di colpo una vana combinazione di tele dipinte”. “Questo modo di vedere” guidato dalle convenzioni, che si basano su ciò che gli spettatori, con gusti e bisogni diversi, possono avere in comune nella loro maniera di vedere, “è […] un modo di non vedere proprio nulla”. Per il poeta-musicista, però,
“il problema sempre insolubile costituito dalla diversità dei modi di vedere non esiste più: egli ci impone il suo. Ora egli non può farlo che spogliando il suo modo di vedere di tutto ciò che ha di personale […]; la musica gliene dà il mezzo; essa trasfigura la concezione della sua opera fin dalla sua origine, e non ne lascia passare nel testo poetico musicale che la più pura essenza. Ciò che una tale partitura presenta agli occhi non potrebbe allora contenere nulla che emanasse da una convenzione arbitraria; invece di livellare le diverse visioni degli spettatori e di sacrificare così i loro superiori elementi per permettere ai meno sensibili di gustare anch’essi lo
spettacolo, essa procura a tutti indifferentemente una visione nuova, di cui il pubblico non controlla più l’opportunità col proprio desiderio, ma di cui sente vivamente la necessità per la vibrazione che la musica determina nell’interesse del suo essere”. 113
È imperativo, dunque, definire una forma rappresentativa nuova, che risponda ad una visione altrettanto nuova, poiché – seguita Appia – “ai nostri giorni […] il poeta si vede obbligato a sostituire con la suggestione scenografica ciò che soltanto la musica poteva dargli. Ne risulta un costante disaccordo tra le pretese dello spettacolo e il reale contenuto del testo drammatico, e gli attori oscillano penosamente tra una specie di tableau vivant articolato e una commedia da salotto in una scenografia ridicola”. L’onere di garantire quella “suggestione” va affidato alla luce, nella sua duplice veste di tonale e vivente. Compito della prima è creare, con l’ausilio delle proiezioni, l’atmosfera scenica, mentre la seconda, emanata dai proiettori, deve evidenziare i punti ed i momenti fondamentali affinché i destinatari partecipino al dramma e ne acquisiscano il senso. L’illuminazione attiva si distingue dal chiarore immobile 113
Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–87.
diffuso dalle luci della ribalta e si rende funzionale all’attore, di cui, grazie alla dinamicità e alla collocazione in alto, rispetta ombre, plasticità e tridimensionalità. Quest’ultima è l’aspetto con cui la scena pittorica bidimensionale, costituita da quinte e fondali prospettici, risulta maggiormente in contrasto. Altra problematica è quella delle ombre, dipinte sulle tele per illudere della realtà delle fonti da cui provengono, che, essendo fisse, non possono seguire i movimenti degli attori ed essergli fedeli. L’ordine pensato da Appia ribalta i ruoli fatti propri dagli elementi del teatro tradizionale. In questo l’illuminazione non assolve ad alcuna funzione plastica, essendo asservita agli scenari illusoriamente tridimensionali dipinti sulle quinte, che ha il compito di rendere visibili. Per far sì che anche l’attore partecipasse a tale illuminazione, si sono create le luci della ribalta, ma questa è una perversione del gusto teatrale, in quanto ripresenta il problema delle ombre, che ne vengono alterate, ed in quanto rende l’attore ancor più indipendente dal resto della scena e dalla sua decorazione pittorica, precipitando lo spettacolo nella finzione più ridicola. Nella guerra contro le luci di ribalta, Appia si ritrova al fianco di Craig, ma, mentre le motivazioni del secondo erano di carattere artistico – il suo gusto estetico repelleva l’effetto che altera le proporzioni delle
ombre sul viso e sul corpo degli attori – , Appia è guidato alla battaglia dalle sue deduzioni logiche. Nell’articolo che scrive per la rivista italiana Il Convegno, motiva piuttosto chiaramente la sua avversione per la ribalta: “essa concerne solo il basso della scena dove […] si trovano gli attori” rendendoli, così, “perfettamente visibili; non c’è un gioco della fisionomia che ci sfugga! Noi questo lo chiamiamo: veder bene”. Eppure, “questa mobilità generale non deve esser visibile soltanto, ma deve presentarsi sotto l’aspetto più espressivo. Il rilievo ne è dunque una condizione essenziale e il rilievo risulta, sempre e in ogni cosa, per l’opposizione delle ombre e delle luci, salvo che per il tatto, naturalmente; ma, sfortunatamente, noi non tocchiamo gli attori! L’attore, già avvolto in un’illuminazione generale che sopprime le ombre si vede ancora colpito da una luce che gli vien dal basso, che finisce col distrugger quel poco d’ombra che poteva restargli”. Ne consegue che “volendo aver tutto dell’attore finiamo a non conservarne che ben poca cosa”, dunque, “ciò che noi chiamiamo ‘vedere’ è una fanciullaggine”. Questo genere di pittura, finalizzata a rappresentare “finzioni spaziali su piani perpendicolari” al palcoscenico, non si adatta alla nuova messa in scena, che le attribuisce, invece, le nuove
funzioni di semplificazione e coloristica, inerente sia agli oggetti sia all’attore in quanto figura, ovvero ai costumi. Quest’ultimi nel teatro tradizionale assumono, come la pittura, una funzione decorativa che li rende quasi autonomi dal quadro scenico. Nel teatro riformato verranno, invece, trattati nella stessa calcolata maniera del materiale scenografico. Dell’ aspetto esteriore dell’attore si occupa, dunque, la pittura nella sua nuova veste coloristica – per il resto i colori saranno eliminati, quelli inanimati, o affidati alla luce vivente – , mentre a sostegno dell’ attore vivente interviene un altro elemento, la praticabilità: “suo effetto principale è di adattare la forma fittizia del quadro scenico inanimato in modo tale da ravvicinarla il più possibile alla forma reale dell’attore; e questo non si può fare che diminuendo più o meno l’importanza e la quantità dei segni per eccellenza fittizi che la pittura su tele verticali presenta. Fornendo così alla piantazione un mezzo materiale per entrare in rapporto con l’attore, la praticabilità la mette in relazione diretta con il dramma stesso”. In tal modo la scena fornirà all’attore quel principio di resistenza che esalterà l’arte vivente del movimento umano in tutto il suo valore drammatico: “lo spazio scenico tagliato da
linee nette e da angoli affilati deve opporre a quei movimenti una resistenza da moltiplicare la loro potenza e da farli quasi rimbalzare”. 114 Nel Wort-tondrama l’attore, determinando “per mezzo della praticabilità i rapporti della piantazione con l’illuminazione e la pittura” si ritrova “a comandare così […] tutta l’economia della rappresentazione” e tale ruolo è secondo solo a quello della musica, che fissa, a sua volta, il ruolo dell’attore, “di modo che questa economia si trova già contenuta nella concezione originaria del dramma”. Per ricoprire il fondamentale ruolo che il Wort-tondrama gli affida, l’attore non può limitarsi ai canonici studi di dizione e di canto. Il canto lirico è sì fondamentale poiché “gli consente di sviluppare la sua dizione entro una durata fittizia e la sua voce al di fuori della sinfonia” ma sono un’ agilità e una duttilità fuori dal comune che, in tale contesto, denotano un virtuoso. Difatti “nel Wort-Tondrama […] la ricerca dei motivi interiori, l’osservazione dei loro effetti riflessi, le loro mille combinazioni, tutto questo riguarda il poeta musicista. Poiché dunque egli dispone con piena libertà dei mezzi che evocano la vita, non chiede più ai fattori animati 114
Ugo Ojetti, Calvino alla Scala, in Cose viste, 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 85.
della rappresentazione un’attività plastica come nel dramma parlato, ma al contrario una duttilità simile a quella dell’argilla nelle mani del modellatore”. Tali caratteristiche si acquisiscono applicandosi in una ginnastica capace di assecondare le ingiunzioni del testo poetico musicale. Quest’ attività è la danza, con cui non s’intendono “i divertimenti delle sale da ballo e del teatro dell’opera, […] bensì la vita ritmica del corpo umano in tutta la sua estensione. Nella danza il corpo si crea artificialmente un ambiente e per questo sacrifica alla durata musicale il senso intellegibile della sua vita personale, e conquista in compenso l’espressione viva delle sue forme”. Poiché le quantità interiori ed esteriori del dramma sono definite dal poeta-musicista attraverso la musica e la durata musicale, l’attore del Wort-tondrama non deve né provocare nella propria anima emozioni fittizie né abbandonarsi all’emozione naturale che il ruolo attribuitogli potrebbe suscitare in lui. Gli unici esercizi cui deve dedicarsi sono il canto lirico e la danza e l’unico scopo cui deve destinarsi è la “spersonalizzazione”, per mezzo della quale avvertirà, comunque, il sentimento che Appia chiama “onnipotente vibrazione”. Appia ribadisce questa convinzione in un suo
articolo del ’23, dicendo: “egli [l’attore] subisce dapprima poi accetta le modificazioni che sono la condizione dell’arte e vi scopre il segreto della propria bellezza”. 115 L’insieme di queste riforme sceniche può attuarsi solo sulla base di una riforma fondamentale, quella dell’ intero edificio teatrale, cui Wagner ha provveduto solo in parte.
“Nei nostri teatri, la scena e tutto ciò che rientra nel suo ambito costituiscono un insieme nettamente distinto da tutto lo spazio riservato agli spettatori. Riuniti sotto le stesse apparenze esteriori di lusso e solidità, questi due campi sono di costruzione molto diversa, e il profano ha una spiacevole sorpresa quando […] supera la linea quasi matematica che separa la sala dalle attrezzature artificiali e provvisorie del campo opposto”. 116
Modello a cui ispirarsi per superare questa netta e spiazzante divisione tra scena, ovvero finzione, incorniciata dal 115
Adolphe Appia, La messa in scena e il suo avvenire (Dedicato alle alunne della Scuola Jacques-Dalcroze), in Il Convegno Rivista di letteratura e arte, 30 ottobre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 32. 116 Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–87.
boccascena – “unico punto materiale di contatto fra quei due mondi” – e auditorium, ovvero realtà, è il teatro greco:
“i greci pensavano che un luogo di spettacolo deve essere o circolare attorno a una pista o ad anfiteatro delimitato da una linea orizzontale. [...] La scena antica non era, come la nostra, un’apertura attraverso la quale venisse offerto al pubblico su uno spazio ristretto il risultato di una infinita quantità di sforzi. Il dramma antico era un atto e non uno spettacolo. [...] L’alto muro della scena non nascondeva nulla; non era un sipario, ma un limite tracciato volontariamente tra l’atto e il desiderio. Qui, come altrove, il senso della misura ha reso ai greci un servizio meraviglioso”. 117
Si deve ricordare che ogni dramma del poeta-musicista determina “non solo la messa in scena, ma la scena stessa, […] la nostra scena è dunque una apertura sull’ignoto e sull’illimitato, e non è dando alla tecnica della scenografia una forma esteriore e un ruolo nell’insieme della costruzione che esprimeremo in qualche modo lo spazio immaginario di cui la nostra anima moderna ha bisogno di immergersi”. Non è, quindi, possibile, costruire una scena definitiva, come avviene 117
Ibidem.
nei teatri destinati agli spettacoli convenzionali, di cui devono rispettare il carattere quotidiano. Nel teatro destinato al Worttondrama “non vi sarà di stabile altro che la sala destinata al pubblico, e dietro la sala si allargherà un ampio spazio vuoto. Su questo spazio verrà a stabilirsi il dramma: non più nella sua forma generica e impersonale, ma nel suo aspetto accidentale e temporaneo, in cui le attrezzature tecniche in sé non avranno più alcun ruolo espressivo. La sala le giustifica riempiendosi; il pubblico andandosene le annulla”. È questa l’importante conclusione a cui Wagner non è giunto, nonostante “l’unico tentativo di riforma veramente rivelatrice” fosse stato “in quest’epoca, il carattere eccezionale delle rappresentazioni e della sala di Bayreuth”. 118 Si è visto come il teatro di Bayreuth si sia fermato alla riforma dell’auditorio, lasciando la scena ancorata alle convenzioni del tempo – “dall’altra parte del sipario, la scena non presentava nulla che corrispondesse in qualche modo alla meravigliosa partitura” – ed alimentando, così, quello sgradevole contrasto che troverà nel teatro futuribile la sua sintesi.
118
Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 85.
Nel 1924 Appia pubblica una riedizione de La musique et la mise en scène per proiettare le sue teorie anche al di fuori di un contesto culturale ancora troppo assuefatto agl’insegnamenti wagneriani, che le avevano ispirate, ed ancora troppo indifferente al problema della messa in scena: “il problema della messa in scena, e di conseguenza quello dell’arte drammatica, non era sentito da nessuno. Sia il pubblico che gli specialisti erano preoccupati soltanto di innovare, o con un lusso crescente di scenografie o con un realismo sempre più perfetto”. 119 Inoltre, nel 1906, Appia conosce la ritmica di Dalcroze e, alla luce di questa, rilegge egli stesso e ripropone ai lettori parti della sua opera contenenti intuizioni a cui l’esperienza pare aver dato conferma: “scrivendo nel 1895 il capitolo intitolato L’attore, l’autore ha avuto l’intuizione che era necessario scoprire una specie di ginnastica musicale che servisse da legame e da intermediaria tra l’attore e la musica, […] undici anni più tardi, l’autore ha conosciuto la ritmica di Jaques-Dalcroze, allora ai suoi inizi, e vi ha trovato la risposta al suo appassionato desiderio di sintesi”. 120
119 120
Ibidem. Ibidem.
Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia, frammenti di un’opera, pp. 44–45.
2.4 L’œuvre d’Art Vivant e Art Vivant ou Nature Morte
“Sto scrivendo un nuovo libro di circa 200 pagine, intitolato L’arte Vivente. […] I 3 motivi principali ed in special modo interessanti sono principalmente la parte tecnica, dove distruggo la leggenda dell’unione di tutte le arti e dove, per questo, analizzo ciascuna delle nostre arti da questo punto di vista, dimostrando quali sacrifici si devono compiere e quale atteggiamento deve assumere l’attore per guadagnarsi il proprio spazio nell’Arte Vivente. Poi, la differenziazione tra il Gesto e l’Espressione – la loro inevitabile alternanza – . […] I due terzi del libro parlano ancora di teatro e di arte drammatica e solo nell’ultimo terzo posso alfine parlare della legittima esistenza dell’Opera d’Arte Vivente, al di fuori della concezione del dramma e come fatto in sé… – anche senza testimoni, senza spettatori… – !” 121
L’estremismo delle soluzioni sulla base di cui Appia conduce la sua vita negli ultimi anni corrisponde, com’è tipico degli artisti romantici, alle estreme conseguenze cui giunge, in quegli stessi anni, il suo pensiero artistico. 121
Lettera inedita di Appia a Craig, 31 gennaio 1919, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia frammenti di un’opera, p. 63.
Gli spazi in cui vive e quelli che disegna sono sempre più essenziali. Sopravvive, dunque, solo quanto è funzionale all’utopia radicale, ad esempio “i praticabili”, che possono avere varie dimensioni, ma devono essere “accuratamente misurati, tali da potersi combinare e incastrare fra di loro, e da opporsi ai contorni arrotondati del corpo umano e ai suoi movimenti parabolici” e “di colore neutro”, e i costumi, rigorosamente “di forme elementari”. 122 Ovviamente alla sua esasperazione Appia non risparmia la luce che “dovrà cadere esclusivamente dall’alto, allo scopo di fare risaltare nettamente le forme del corpo in moto e la costruzione plastica della scena”. Continua anche l’animata battaglia ai residui di convenzione: “i cambiamenti di scena si faranno davanti agli spettatori, senza sipario”, e l’insistenza sulla necessità di una riforma integrale: “abbandoniamo dunque i teatri usuali al loro passato che sta morendo e costruiamo edifici nuovi, elementari, destinati semplicemente ad animare lo spazio in cui dovremo lavorare. Basta soltanto una sala nuda e vuota che ci dia la possibilità di mettere in opera i praticabili, e una completa installazione di luce. Ecco ciò che occorre per dare vita e significato alla parte inanimata, la scena”. L’arte di Appia 122
Adolphe Appia, L’œuvre d’art vivant, 1921, trad. di Marco De Marinis, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 89–125.
supera i confini del dramma, essa potrebbe collocarsi benissimo in altri contesti, poiché sono i suoi tratti essenziali, tra cui quelli appena citati, e non la necessità drammatica, ad assicurarle validità. Altro attributo fondamentale del teatro avveniristico è la socialità, che è, però, di carattere diverso da quella perseguita dal teatro moderno. Come già detto, quest’ultimo incontra il favore del pubblico, e professa di farne il bene emotivo ed intellettivo, attraverso soluzioni convenzionali che riassumono i diversi interessi e le diverse esigenze degli spettatori, costretti, però, “a una passività così disprezzabile che coprivamo accuratamente con un velo la nostra umiliazione nelle tenebre della sala”. 123 L’opera d’arte vivente, che Wagner definirebbe “l’opera d’arte dell’avvenire” concepisce la socialità in altra maniera. Farsi un essere sociale vuol dire superare il proprio egoismo ed il proprio modo di vedere l’arte ed il mondo, significa saper condividere le reali intenzioni dell’autore, o meglio dell’opera stessa, che vive di vita propria. Dinanzi all’arte del corpo umano vibrante di vita,
123
Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 86.
“la nostra emozione diventa quasi una collaborazione fraterna: vorremmo noi stessi essere quel corpo che contempliamo; il nostro ruolo di spettatori ci pesa; l’istinto sociale si risveglia in noi mentre fino ad ora l’avevamo freddamente soffocato; e la barriera che oppone la scena alla sala ci appare come una dolorosa e odiosa dissociazione, sorta dal nostro egoismo. […] La cultura armoniosa del corpo obbediente agli ordini profondi di una musica fatta a sua intenzione tende a vincere il nostro passivo isolamento di spettatori, per mutarlo in un sentimento di responsabilità solidale, di collaborazione. […] Vorremo tutti agire in accordo unanime. L’arte drammatica di domani sarà un atto sociale a cui ognuno porterà il suo contributo”. 124
Discorrendo del fine sociale della forma d’arte teorizzata, Appia passa dal ricorrere ad espressioni dal sapore religioso, come “collaborazione fraterna”, ad assumere, sempre più, toni di entusiasmo politico:
“non esiste una forma d’arte in cui la solidarietà sociale possa essere più perfettamente espressa di quanto lo è nell’arte drammatica; soprattutto se questa ritorna alle sue grandi origini di realizzazione collettiva di un grande sentimento religioso o patriottico, o semplicemente umano, trasformando 124
Ibidem.
queste origini a nostra immagine di oggi. […] E, chissà, forse, dopo un primo periodo, giungeremo a feste maestose a cui tutto un popolo parteciperà, in cui ognuno di noi esprimerà la sua emozione, il suo dolore e la sua gioia, e in cui nessuno acconsentirà a restare spettatore passivo. L’autore drammatico, allora, trionferà!”. 125
In età matura Appia sente il bisogno, che manifesta nel saggio del ’23, Art Vivant ou Nature Morte, di ordinare ulteriormente le soluzioni cui è giunto nel corso dei suoi studi: “l’arte drammatica è in piena evoluzione. Ma una evoluzione di tal genere assomiglia molto all’anarchia”. 126 Egli si prefigge l’obiettivo di definire un vero e proprio stile, da sempre desiderato con “tutte le forze”, ma “non espresso ancora con sufficiente chiarezza”. Innanzitutto occorre spiegarsi meglio sulla forma del bozzetto, primo passo verso la realizzazione della messa in scena. “Il disegno d’una scena deve sempre dare – in chi guarda – l’impressione esatta della sua realizzazione scenica, come cioè se apparisse montata, senza ipocriti infingimenti (in particolare il pavimento e la base dei fondali). 125
Ibidem. Adolphe Appia, Art vivant ou nature morte?, 1923, cit. in Ugo Blatter, Appia e la scena costruita, F.lli Bocca, Roma, 1944, capitolo L’arte scenica di Appia, pp. 5–12. 126
In caso contrario esso resta una menzogna”. Secondo passo – secondo per necessità logistiche ma non per importanza – è il movimento: “l’Arte drammatica, il teatro, comincia con il movimento: il resto non è altro che materiale utile […] ma non indispensabile. […] Avremo, dunque, da una parte: l’edificio teatrale, la scena e i costumi; dall’altra gli esseri viventi e mobili: gli attori, ‘conditio sine qua non’ del teatro. L’Arte drammatica è soprattutto arte della vita e tale vita può essere espressa anche senza edificio e senza decorazione, poiché spazio e tempo sono termini sufficienti”. Si giunge quindi alla scena, sottoposta per lungo tempo ad un “non senso” tecnico: “la preoccupazione del regista si limitava a fissare i gruppi e le evoluzioni degli attori” nella “pittura verticale [rappresentante la scena], non tenendo conto della contraddizione che esiste tra la tela o scena a due dimensioni e gli attori che hanno invece tre dimensioni”. Con il tempo il regista ha realizzato come l’azione teatrale risultasse “contrastante, non potendo la pittura corrispondere al giuoco degli attori”, così “da una parte […] teneva ancora conto – per una vecchia abitudine – della pittura, ma dall’altra sentiva la necessità dell’intervento della plasticità del praticabile. […] Il risultato fu la sostanziale diminuzione dei ‘luoghi’ (luoghi deputati) scelti dall’autore affinché
l’azione scenica si potesse svolgere in un quadro di facile realizzazione”. Con gli anni – gli stessi in cui la danza si è emancipata – , però, questo compromesso è stato superato: “il corpo vivo e mobile dell’essere danzante ha subito un’evoluzione al di fuori della verosimiglianza psicologica, di una azione drammatica determinata. Da questo momento la ‘pittura’ delle scene diviene una concezione postuma. La sua morte è lenta ma irrevocabile e la verità estetica, rappresentata dal corpo vivo, trionfa definitivamente. […] Con queste dichiarazioni vogliamo affermare la supremazia del corpo vivente dell’attore sulla scena inanimata, dell’arte viva contro la natura morta”. Il movimento, però, deve essere controllato in funzione dell’azione: “è utile creargli uno spazio accidentale che valorizzi gli episodi e le sfumature dell’azione scenica. Cioè: opporgli degli ostacoli. A tal fine l’autore scrittore e per lui l’attore interprete deve contare su l’ausilio del materiale scenico inanimato”. Per porre fine all’anarchia nata nell’arte della messa in scena (o “regia”), è dunque indispensabile attenersi alla gerarchia, che Appia definisce “verità tecnica fondamentale”, “autore, attore, spazio”. “Una siffatta gerarchia è organica. L’Autore non può infatti rivolgersi allo spazio (palcoscenico) senza passare prima attraverso l’attore”. Dello
spazio Appia tratta ampiamente ne L’œuvre d’art vivant. Per unirsi alle forme ed al movimento dell’essere vivente, lo spazio
“non dispone che di un numero limitato di elementi lineari. Questi sono: l’orizzontale, la verticale, l’obliqua (piano inclinato) e tutte le loro combinazioni quali, ad esempio, la scala. […] Una tale fusione di mezzi d’espressione, permette al materiale scenico d’essere più pratico. Saranno praticabili di vari dimensioni accuratamente misurati da potersi combinare ed incastrare tra loro e costruire infinite scale, terrazze, piani inclinati, sostenuti se occorre da pilastri, ad angolo retto, tendaggi perpendicolari, paraventi ecc.; un giuoco di forme rettilinee, insomma, da opporsi ai contorni arrotondati dal corpo umano, alle parabole dei suoi movimenti”. 127
Dal canto loro, “colore e costume teatrale” devono essere “uniformi, per lasciare a parole solamente allo spazio e al movimento, non distogliendo, così, l’attenzione degli spettatori. […] I praticabili saranno di colore neutro, i costumi di forme elementari. Una maglia nera – per esempio – sul corpo nudo, che lasci il collo, le braccia, le gambe, i piedi
127
Adolphe Appia, L’œuvre d’art vivant, 1921, trad. di Marco De Marinis, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 89–125.
scoperti e liberi (questo è il costume dello Studio per la ritmica di Dalcroze)”. Significativo è un consiglio, apparentemente aneddotico, rivolto da Appia ad una sua allieva, Jessica Davis Van Wyck: “disegnate con le vostre gambe e non con i vostri occhi” 128. Pensando ad una massima di Protagora a lui cara, “l’uomo è misura di tutte le cose”, Appia ribadisce, dunque, la convinzione che l’attore sia la misura dello spazio scenico, che drammaticamente non esiste in sé, ed il potere espressivo del corpo umano sarà tanto più grande quanto più l’attore saprà intrattenere con lo spazio stesso dei rapporti di complicità e antagonismo. Conclude, ingenuamente, Appia: “abbiamo acquisito che i movimenti, le forme, le linee, la luce ed i colori sono a nostra disposizione. I dogmi dell’antica scenografia sono stati capovolti, ma non abbiamo ancora realizzato qualche cosa che possa avere la stessa influenza delle premesse del passato, sulla concezione dell’arte drammatica”. Ma, in fondo, non pare del tutto incosciente di aver acceso una torcia che infiammerà non poche sensibilità artistiche, non 128
Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivolta all’utopia, p. 12.
concluderebbe altrimenti L’œuvre d’art vivant citando i versi seguenti:
“Tra la folla senza luce che segue il cammino grigio dei giorni, qualcuno sorge improvviso, fremente, abbagliato, felice!... Felice! Sicuro di un trionfo interiore egli balza, brandendo la sua gioia come una torcia! La sua ebbrezza palpita e brucia nella sua mano come una fiamma che il vento agita e scompiglia! E la luce che egli brandisce illumina i visi vicini della folla... Si propaga ed ingrandisce. E più la loro ebbrezza s’irradia e conquista, ed inebria altri cuori, più questi ardenti portatori d’invisibili fiaccole hanno visi sicuri e belli che il vento della loro corsa bagna! Giacché prodigare la propria felicità
significa esserne ancora più ricchi.” 129
129
Jacques Chenevière, I portatori di fiamme, cit. in Adolphe Appia, L’œuvre d’art vivant, 1921, trad. di Marco De Marinis, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 89–125.
Appia, spazio ritmico La ronde du soir, 1926, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
Capitolo 3: “si schiude il sipario” sul campo di battaglia 3.1 A. Appia sulla Scala per il successo
“La vera opera d’arte costituisce la redenzione dell’artista, la sparizione delle ultime tracce della volontà creatrice, la certezza evidente di ciò che fino ad allora non era che immaginazione, la liberazione del pensiero nell’azione sensibile, l’appagamento del bisogno di vivere nella vita”. 130 Il 20 dicembre del 1923 la parabola artistica di Adolphe Appia giunge al momento della catarsi, della redenzione tanto caldeggiata da Wagner. È il direttore della Scala di Milano, Arturo Toscanini, ad offrire al riformatore ginevrino e ad offrire a se stesso l’occasione di realizzare uno spettacolo potenzialmente ispiratore di un radicale rinnovamento della scena teatrale italiana. È insolito, infatti, che un esperto conoscitore del teatro e delle sue abitudini quale Arturo Toscanini, scelga di rivolgersi, in occasione di una produzione importante come il ritorno di Tristano e Isotta, ad un 130
Richard Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo La vita, la scienza e l’arte, p. 10.
personaggio instabile come Appia, mancante, oltretutto, di una qualsiasi esperienza affine a quella che gli si stava proponendo. Se un’esitazione nell’inoltrare l’invito c’è stata, i motivi furono questi, oltre al fatto che Appia fosse un teorico prolisso, qualità non particolarmente amata dal direttore, e che fosse legato al protonazista, genero di Wagner, Chamberlain. L’anziano Appia manifestava, poi, sempre più insofferenza verso la vita pubblica e non era per nulla attento alla maniera di presentarsi, della quale i borghesi fruitori del teatro milanese non erano certo incuranti. Ma tutto ciò è un nonnulla rispetto all’implacabile aspirazione del brillante e colto Toscanini di arrivare alla sostanza del dramma wagneriano e di rappresentarla in risposta alle richieste, di chiarezza, essenzialità, rapidità, di forme sottili e di una monumentalità leggera, del suo tempo. Chi assistette a qualche prova dei suoi spettacoli wagneriani può testimoniarlo: “a quel tempo a Bayreuth il coro gridava, più che non cantasse, nella convinzione che quello fosse il vero stile wagneriano. Toscanini mise fine a tutto ciò […]: “no, no, nix Wagner, nix Bayreuth, café chantant” ”, racconta Herbert von Karajan della prima prova di Toscanini del Tannhauser, nel tempio di Bayreuth. Ciò dimostra come di Wagner Toscanini avesse, di
sicuro, recepito il carisma e la convinzione tali da abbattere ogni ostacolo e scavalcare dogmi ormai poco sensati. Siamo agli esordi del fascismo, che ha successo proprio perché pare trasmettere alla gente, sostenendo vecchie e nuove attività sportive e, soprattutto, iniziative culturali persino avanguardistiche come quelle legate al cinema e all’architettura, quello ventata di novità di cui ha bisogno. E Appia era l’uomo nuovo di cui questo paese, nel suddetto momento storico, aveva bisogno. Tutti, in tutta Europa, ne conoscevano l’originale intelligenza ed erano informati sulla portata innovativa delle sue teorie, ma nessuno ebbe il coraggio di trasformarle in esperienza concreta, nessuno prima di Toscanini. Nel novembre del ’23 il valore dei singolari lavori di quest’ultimo verrà riconosciuto anche ‘ufficialmente’:
“l’Agenzia Stefani comunicava ieri a tarda notte: ‘stasera il Presidente del Consiglio ha ricevuto il maestro Toscanini e il comm. senatore Borletti […] e a conclusione del colloquio ha dichiarato la sua immutabile simpatia e ammirazione per Arturo Toscanini e la sua approvazione per l’opera dell’Amministrazione dell’Ente autonomo della Scala [istituto creato da autorità, cittadini e artisti per risollevare e tutelare le
sorti del teatro]’. […] E’ stato bene che Toscanini sia uscito dal suo riserbo ed abbia parlato franco e chiaro al presidente del Consiglio mostrandogli che anche in arte bisogna combattere con la realtà e non con le teorie. Ed è stato bene che l’on. Mussolini gli abbia dato solennemente la sua approvazione”. 131
L’idea di contattare l’artista ginevrino iniziò a balenargli in testa discutendo con un amico, il marchese Manolo de Rosalès, la cui moglie conosceva bene Appia, poiché ella aveva aperto una succursale italiana della scuola di ginnastica artistica di Dalcroze. Grazie al marchese, Appia venne conosciuto anche dai membri modernisti del circolo culturale riunitosi attorno alla rivista, fondata nel 1920 da Enzo Ferrieri, Il Convegno, decisamente inclini, più di Toscanini, ad un artista-teorico. Il Convegno fu pure teatro di concerti e sede di lezioni e letture di poeti ed opere inedite, oltre che biblioteca e casa editrice:
“sono vere e proprie sale di vera lettura e di vero studio. […] Il Convegno non offre a signori e signore in cerca di svago programmi eclettici che sfiorano un 131
G. M. C., L’indirizzo della Scala, in La Sera, 09 novembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 41.
poco di tutto. No: basta […] poco per sentire che cosa sia veramente: una officina e un laboratorio. […] Lo guidano letterati, critici e musicisti che si sono proposti di mettersi in comunione diretta col pubblico, di farlo partecipare alla loro vita che è di squisito godimento, ma anche di rude fatica e di disciplina. Ed è questo che costituisce la originalità, quasi direi l’unicità in Milano, se non addirittura in Italia del Convegno ”. 132
Ad Appia, Gio Ponti dedica, già nell’aprile del ’23, un lungo, elaborato ed incisivo articolo, comprensivo di disegni e di estratti in francese dalle opere dell’artista, grazie al quale iniziano a circolare in Italia le idee di spettacolo come unità artistica ed opera d’arte. “E’ solamente accostandoci al concetto di Spettacolo che noi possiamo intendere integralmente il teatro e misurare la ‘civiltà’ artistica raggiunta insieme da un’arte drammatica e da un pubblico. E’ lo spettacolo infatti che collega moralmente ed esteticamente opera e spettatore nell’appassionante fenomeno artistico e sociale del teatro, […] nello spettacolo […] è tutto il 132
Un’officina delle lettere e delle arti. La scuola degli attori, in La Sera, 17 ottobre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 20–21.
teatro, è la sua vita stessa; […] in esso è la sua altezza o la sua decadenza” 133, scrive Ponti, e continua: “non solo […] nello spettacolo è la ragione artistica del teatro, ma vi è ancora come il presentimento di un superiore teatro da raggiungere attraverso una evoluzione dello spettacolo. E questo è appunto il caso di Appia, l’avventura del suo pensiero”. 134
Ponti mostra di aver compreso appieno il percorso dell’artista, di averne colto la sorprendente originalità e l’intenzione ultima:
“la sua attenzione fu da principio […] rivolta alla messa in scena del dramma wagneriano. […] Appia ha istituite delle complete didascalie per le azioni e le luci onde determinare lo spettacolo come opera d’arte. […] Le sue strutture sceniche wagneriane hanno una originalità sostanziale. […] Ma fin qui si trattava sempre di porre il dramma sulla scena, di interpretarlo: la scena non era ancora un elemento interno del dramma. […] L’appassionata ricerca della essenza tecnica dell’arte drammatica, dalla quale solo può scaturire l’unità espressiva ed artistica, ha condotto Adolphe Appia dalla
133
Gio Ponti, Il teatro di Appia, l’opera d’arte vivente, in Il Convegno. Rivista di letteratura e arte, 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 12–19. 134 Ibidem.
concezione interpretativa, romantica, a quella vitale, in certo modo classica, che pone la scena nel dramma stesso, le da cioè un contenuto, una necessità drammatica, e per la quale lo spettacolo non è più la rappresentazione ma è il dramma stesso ed assume un valore più squisitamente artistico. Questo è il senso della riforma di Appia”. 135
Le condizioni affinché la scena partecipi al dramma “chi le porrà? L’ attore vivo, attraverso il quale si realizza lo spettacolo: il teatro assume così la sua caratteristica di arte vivente: e questa è la perfezione del pensiero di Appia – laddove nel periodo romantico era la sua applicazione soltanto – ”. 136 Di conseguenza “come la scenografia, che gli è co-armonica, e come la musica, che gli è co-ritmica, l’uomo diviene lui medesimo opera d’arte”. 137 Una volta assicuratosi, dichiarando sin dal principio i tratti salienti della riforma di Appia, la viva attenzione dei curiosi lettori della rivista, Ponti si addentra nei dettagli del lavoro 135
Ibidem. Ibidem. 137 Estratto da La messa in scena di Tristano e Isotta al teatro Mariinski - 30 ottobre 1909 in Ecrits sur le Théatre, vol I, La Cité, Losanna, 1973, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, p. 29. 136
compiuto dallo scenografo. Premettendo che “il vivente corpo dell’attore […] è per così dire il creatore del teatro, per esso il teatro vive e comincia ad essere arte,” e che “il movimento, portato da questo perfetto intermediario fra tempo e spazio, è dunque una vivente mobilità, […] eccoci a riesaminare con Appia le arti rispetto alla vivente mobilità del corpo; il quale – egli avverte – non è soltanto mobile ma è anche plastico, e come tale è soggetto alla vita luminosa della scena, cioè alla luce-colore ambientale”. Come accennato, Ponti ripercorre brevemente, ma in modo impeccabile, le riflessioni di Appia su ogni arte teatrale:
“l’ architettura è plastica, […] essa contiene il movimento nella sua applicazione, destinata e proporzionata come è alla vita dell’uomo. […] Sarà certamente un elemento – e quale! – dell’arte drammatica. La scultura è anch’essa plastica […] ma potendo esprimere compiutamente nell’opera l’azione esclude da sé ogni mobilità [vedi Il Discobolo di Mirone]. La pittura è tale soltanto quando realizzi su una superficie piana la sua finzione plastica. […] Non è dunque plastica per definizione
ed esclude – come la scultura – il movimento perché lo può già rappresentare compiutamente”. 138
Entrambe sono, dunque, escluse dal teatro, non essendo compatibili con la vivente mobilità. L’elemento con questa compatibile per eccellenza è la musica, che “fissa, misura, amministra il tempo: non solo, ma nella espressione artistica essa ha il meraviglioso potere di creare un tempo ideale contenuto nel tempo normale”.
“La musica che determina la scansione dei ritmi sulla scena, genera un ritmo che nulla ha a che vedere con i tempi della vita quotidiana. La ‘vita’ della musica non è quella della realtà quotidiana, non è ‘la vita come essa è e neppure come dovrebbe essere, ma come la si immagina nei sogni’ (Cechov). […] È per questo che la figura dell’attore sulla scena deve essere quella di una finzione artistica, la quale può a volte attecchire anche su un terreno realistico, ma che alla resa dei fatti deve essere presentata in maniera molto diversa di quanto vediamo nella vita. […] L’attore deve afferrare l’essenza della partecipazione [suggeritagli da una metrica determinata] e 138
Gio Ponti, Il teatro di Appia, l’opera d’arte vivente, in Il Convegno. Rivista di letteratura e arte, 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 12–19.
tradurre le sottigliezze del disegno orchestrale nel linguaggio del disegno plastico. Così l’attore del dramma musicale dovrà acquisire la padronanza della elasticità corporea. Il corpo umano, con la sua agilità e la sua mobilità, diverrà parte integrante dei mezzi di espressione, come l’orchestra e il coro, ed inizierà a svolgere un ruolo attivo nel movimento scenico”. 139
La musica apporta, quindi, al dramma il tempo ideale, che essa crea attraverso successioni di durate musicali, solidali alle successioni delle forme viventi del corpo umano. Per questo motivo viene detta “durata vivente”. Altrettanto “viventi”, perché animati dalla vita dell’attore, saranno lo spazio ed il colore. Il primo, essendo “determinato da strutture rigide orizzontali e verticali [su cui il corpo sta, vive ed esprime il proprio peso ed il proprio movimento], crea come delle risonanze plastiche alla presenza vivente e musicale dell’attore”. La ‘vita’ dello spazio è espressa dalla luce, di cui il colore è un derivato: “quando esso è una luce colorata [e non colore dipinto, che non è mobile nell’essenza ma solo seguendo 139
Estratto da La messa in scena di Tristano e Isotta al teatro Mariinski - 30 ottobre 1909 in Ecrits sur le Théatre, vol I, La Cité, Losanna, 1973, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, p. 29.
l’oggetto che ne è colorato], partecipa dello spazio penetrandolo, del tempo con la sua durata, e della vita luminosa con la sua intensità”. “E le lettere? Queste appartengono – nel teatro – al tempo solo in quanto vi si svolgono nella recitazione. […] Il testo può essere recitato in fretta o adagio, è soltanto una questione di intelligibilità! Esso partecipa al tempo e al dramma, non nella sua essenza artistica, ma nella sua significazione”. 140 Conclude, così, Ponti: “abbiamo visto l’attributo ‘vivente’ accompagnare i momenti del suo [di Appia] pensiero: in esso, nel carattere di vita, si riassume la sua concezione teatrale. […] Egli apporta come una luce elementare esclusiva, la vita, nella concezione teatrale e spazza l’ingombro delle sovrapposizioni letterarie estetiche culturali. Erigendo la vita come elemento e condizione egli quasi crea di nuovo il teatro”. È la capacità d’infondere nella propria opera la vita che distingue un autore da un artista teatrale. L’arte drammatica si realizza solo se il drammaturgo orienta ogni sua attività alla rappresentazione, come un pittore indirizza tutto il proprio lavoro al suo quadro. 140
Gio Ponti, Il teatro di Appia, l’opera d’arte vivente, in Il Convegno. Rivista di letteratura e arte, 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 12–19.
“[…] Io non ho paura delle innovazioni geniali, dei tentativi intelligenti, sono anch’io sempre in cammino coi tempi, curioso di tutte le forme, rispettoso di tutti gli ardimenti, amico di pittori, scultori, letterati… La Scala vi concede ogni mezzo, io tutto il mio appoggio perché la tragedia degli amanti di Cornovaglia viva in una cornice nuova, abbia una caratterizzazione scenica nuova…”. 141 È con queste parole che Toscanini invita Appia sull’immenso palcoscenico milanese e con questo spirito che egli si presta all’ardua impresa. A Milano, appresa la notizia, si allestisce subito, presso la Bottega di poesia, una mostra di cinquantasei disegni dell’artista. Appia approfitta dell’occasione anche per condividere con il pubblico l’importante interrogativo “art vivant ou nature morte?”, che premette alla presentazione del suo catalogo. Scrive un giornalista de La Sera:
“è’ interessante seguire questo artista attraverso i suoi cinquantasei disegni i quali servono già egregiamente a rendere l’idea dell’effetto che la scena darà nelle varie fasi dell’azione drammatica, quando sarà animato dalla luce. […] L’artista espone […] il quesito: ‘Arte viva, o natura morta?’. 141
Lettera di Toscanini ad Appia datata Milano 1923, in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e il teatro alla Scala, p. 32.
La sua arte difatti tenta a sviluppare ed affermare l’arte viva e […] prende così il carattere di uno sforzo di avanguardia, mirante a libertà ed a nuovi orizzonti dell’arte scenica prima oppressa e falsata da convenzioni ingiustificate”e nota acutamente: “i disegni dell’Appia presentano una diversa anima a seconda che l’effetto di plasticità si muta nella stessa scena per effetto di una diversa illuminazione”. 142
Mentre l’Italia culturale, in preda alla curiosità e all’entusiasmo che ogni novità porta con sé, spinge i giornalisti alla ricerca di più informazioni e chicche possibili sul bizzarro scenografo “in calzoni corti sportivi che riscaldava con compiacenza la persona e gl’ideali al sole autunnale italiano” 143, Appia e Toscanini lavorano già con grande fervore. Mentre il direttore è alle prese con le prove orchestrali in una sala del teatro, Appia lavora nei “Teatrini”, riproduzioni in scala del palcoscenico, dove allestisce le scene in proporzioni ridotte e sperimenta gli effetti di luce. 142
I disegni teatrali di Appia alla “Bottega di Poesia” in La Sera, 07 novembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 40. 143 Raff. (Raffaele Calzini), Gli artisti e le opere. Il caso Appia, in Il Secolo, 11 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 91–93.
“L’immenso alveare della Scala va riprendendo in pieno la sua fervida attività. […] Il maestro Toscanini ha iniziato le prove di Tristano e Isotta; […] La Scala è la sua casa e il suo tempio. Egli è l’animatore infaticato di tutto e di tutti. Dal palcoscenico all’orchestra, dall’orchestra alla sala di prova, alla direzione, alla scuola di ballo, alla scenografia, dovunque nell’immenso cantiere si prepara uno di quegli elementi che egli poi sa armonizzare mirabilmente. […] Anche pei vasti cantieri degli scenografi si lavora senza posa. Per la nuovissima messa in scena che Appia ha ideato nel Tristano si sono già fatte le prove nei Teatrini. […] Appia, soddisfattissimo degli esperimenti nel teatrino, è già partito e ritornerà per la messa in scena sul palcoscenico”. 144
3.2 A. Appia firma sul Convegno la propria dichiarazione di ‘guerra’
Lo stesso Appia provvede, attraverso Il Convegno, primo canale di diffusione delle sue ‘folli’ idee in Italia, a far conoscere le proprie teorie al pubblico italiano e a giustificarne i caratteri più audaci. È solo sulla partecipazione attiva del 144
Fervore d’opere alla Scala, in Il Secolo, 19 ottobre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 22.
pubblico, sia allo spettacolo sia ai dibattiti su varie questioni concernenti il fenomeno teatrale, che può reggersi, difatti, l’utopia del teatro sociale a cui aspira l’artista: “conosciamo tutti ormai, direttamente o per sentito dire, i tentativi che si fanno attualmente in questo campo [la messa in scena] e sarebbe per illuminarci sulla loro importanza, sui precedenti e sulle possibilità d’avvenire che noi ci troveremmo qui riuniti. Dico noi, perché questo soggetto importa uno scambio, e se si è pertanto voluto dare a me soltanto la parola, io considero tuttavia questa dimostrazione come attinta dalle esperienze e dalle aspirazioni di ciascuno dei miei ascoltatori”. 145 Prima di entrare nel vivo di un discorso già di per sé preparatorio, occorre preparare ulteriormente i potenziali spettatori, o comunque tutti gl’interessati alla materia teatrale, precisando:
“mi vedo obbligato a pregarvi di cancellare dal vostro ricordo e quindi dalla vostra immaginazione, tutto quello che di teatro sapete ed avete visto; di dimenticare tutto fino al godimento provato a trovarvi seduto comodamente in una poltrona di
145
Adolphe Appia, La messa in scena e il suo avvenire (Dedicato alle alunne della Scuola Jacques-Dalcroze), in Il Convegno Rivista di letteratura e arte, 30 ottobre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 25–36.
platea davanti al sipario che sta per alzarsi! [...] Noi dobbiamo far piazza pulita; non rappresentarci più né la sala, né la scena, né l’edificio che ci riunisce. […] Ripeto: abbiamo fatto tabula rasa! A questa condizione soltanto noi potremo prendere ognuno degli elementi della messa in scena, all’infuori della scena stessa e semplicemente come tali; poi, riunendoli, all’infuori di qualsiasi cornice precisa o convenzionale, noi studieremo in quali rapporti questa unione può aver luogo. Si tratta qui di una vera creazione nel senso proprio […] ‘la terra era senza forma e vuota; e l’abisso era colmo di tenebre’. Il benevolo ascoltatore non tema le vertigini ed abbia fiducia in me”. 146
Appia s’inoltra, portando con sé chi è in ascolto, in quest’abisso, alla ricerca di fonti luminose. Subito s’imbattono nel primo elemento che può aiutarli ad orientarsi, ovvero l’attore: “nello spazio ‘senza forma e vuoto’ l’attore rappresenta le tre dimensioni; […] coi suoi gesti e i suoi movimenti […] egli si appropria […] di una parte dello spazio, la limita, ne è la condizione. Senza di lui lo spazio ritorna infinito e ci sfugge”. L’attore è, difatti, condizione essenziale per la realizzazione del dramma: “senza l’attore non vi è azione 146
Ibidem.
quindi non vi è l’opera, tranne che negli scaffali della nostra biblioteca”. Coi suoi movimenti egli definisce lo spazio ma, avendo questi una durata, “la misura dello spazio importa […] quella del tempo”. L’attore è quindi fondamentale all’autore come quest’ultimo, da cui emana la volontà evocatrice che tutto sottomette, lo è per l’attore, affinché i suoi movimenti siano ordinati e le loro durate precise. Ad un certo punto del discorso Appia interviene direttamente in merito alla scena moderna, inserendosi così anche come soggetto, e non solo come oggetto, nel dibattito sulla necessità di una riforma della scena teatrale che animava l’Italia e l’intera Europa: “la parola scritta non contiene in sé sola, la durata del tempo che ci vuole per recitarla. […] Donde risulta che l’attore, al quale sono affidate durate imprecise, non proietta sulla scena che uno spazio indeterminato. Questo regno della bella libertà è, per eccellenza, quello della nostra scena moderna; il direttore, lo scenografo, l’elettricista, il macchinista eccetera, tutti lavorano con un press’a poco che nessuna altra forma d’arte potrebbe tollerare”. Per rendere il concetto con maggiore chiarezza, Appia riporta l’esempio opposto dell’esecuzione di un poema sinfonico. A differenza delle lettere dell’alfabeto e delle parole che risultano dalla loro combinazione, i segni convenzionali
delle note musicali hanno il potere di fissarne la durata – “se non l’avessero non rappresenterebbero della musica perché la musica è un’arte precisa” –, di conseguenza, il direttore d’orchestra, possedendo la partitura, possiede il necessario per proiettare questi segni nel tempo dell’esecuzione. Il compositore è, dunque, il solo padrone del poema sinfonico e della sua esecuzione, “la sua tirannia è assoluta”. Soltanto da tale tirannia può risultare quella che viene definita “opera d’arte” e che “è il risultato di un insieme di mezzi tecnici comandati da un unico artista”. Continua Appia: “se esiste una divisione del lavoro, questa non è che apparente: l’artista sarà sempre e dovunque un dominatore; l’opera ch’egli offre al pubblico è la sua opera, altrimenti, essa cessa di appartenere al dominio dell’arte”. Tra queste righe sembra di leggere lo stesso messaggio che voleva trasmettere Tolstoj nella Prefazione al suo Ciclo di lettura, in cui traduce, o meglio, parafrasa, testi di autori da lui ritenuti necessari alla corretta educazione del popolo: “io […] credo che i pensieri di Epitteto, Rousseau ed altri, tramandati, anche se con modificazioni, […] saranno, nonostante tutto, pensieri di Epitteto e di Rousseau, ecc.; e dal comportamento di chi ama questi pensieri e cerca di trasmetterli così come li capisce, cambiandoli affinché esse
siano compresi più facilmente e siano più interessanti […], non può venire alcun male, ma solo vantaggio”. Come Tolstoj, Appia difende quindi l’attività di chi, oltre al suo autore, maneggia un’opera, imprimendole, inevitabilmente e per le giuste cause indicate dallo scrittore russo, il proprio tocco personale, senza però corromperne l’essenza e l’unità, anzi, per metterle maggiormente in luce. Dall’esempio di Appia è chiaro che l’unica fonte certa delle durate precise, che possono fare di un autore un artista, è il testo musicale, per cui questo deve essere obbligatoriamente in possesso di chiunque lavori alla rappresentazione del dramma. Arrivato a questa prima, fondamentale, conclusione, Appia ripercorre sinteticamente nell’articolo i nodi essenziali del sistema su cui si strutturano le sue teorie e di cui la musica tiene, per l’appunto, le redini. L’attore stesso, che Appia presenta, sin dalle prime parole, come elemento sostanziale del nuovo teatro – le uniche riforme osate dal teatro moderno sono legate all’illuminazione, ovvero in favore dell’attore, che si era, quindi, “ben obbligati a considerare come il primissimo fattore nella gerarchia rappresentativa” – “senza la musica è [solo] un portatore di indicazioni”. Infatti, “con la nostra vita esteriore noi non possediamo un mezzo d’espressione diretta, ed è per
via di un lungo giro che noi arriviamo ai sentimenti di cui essa è solamente l’indizio”. È proprio dal “desiderio indistruttibile di esprimerci a noi stessi” che siamo portati alla musica, in grado di esprimere quanto di cui, a gesti e a parole, non siamo capaci. “Essa diviene così il regolatore supremo dell’opera drammatica integrale” e “se l’autore vuol possedere la sua arte, come ogni altro artista la possiede, deve essere musicista”. Allo stesso modo, “l’arte della messa in scena non può essere un’arte che quando prende il suo punto di partenza dalla musica”, del resto, “non è immunemente che si fa entrare una dea in una dimora comune!”, la musica traspone l’opera su un piano di verità che deve percepirsi anche sulla scena: “chi di noi non ha provato la scossa, unica nel genere, che si prova nel corso di un’opera quando i suoni musicali si risvegliano? Pare allora che la verità appaia dolcemente, pura e senza veli, per spogliare l’attore degli orpelli che lo ricoprono, delle condizioni che lo soffocano”. L’intenzione di Appia è di eliminare del tutto e definitivamente quegli “orpelli”, che la scena moderna percepisce ancora solo in parte come ostacolo all’espressione artistica, come dimostra il fatto che si veda spesso “sopra una stessa scena, agli scenari delle più vecchie opere succedere le semplificazioni degli scenari più moderni.
La nostra epoca è dunque di transizione; noi viviamo dell’arte del passato come di quella dell’avvenire e il presente ondeggia fra i due e spesso… nel vuoto!”. Niente potrebbe confermare il ragionamento di Appia più del risultato delle rappresentazioni delle opere di Wagner: “Wagner, per esempio, si è servito della musica, per conseguenza i suoi drammi sono delle opere e noi diamo a loro lo stesso scenario che diamo a quelle di Meyerbeer”, ovvero “vi sovrapponiamo una messa in scena senza relazioni organiche possibili con la loro partitura. Così facendo noi tagliamo il corso all’espressione musicale e le impediamo di proiettarsi nello spazio; da una parte abbiamo l’orchestra e i cantanti, dall’altra lo scenario dipinto. […] Parrebbe alle volte che la partitura si eseguisse in una sala e la rappresentazione scenica in un’altra”. E tutto questo è dovuto, secondo Appia, al fatto che la musica sia stata e venga ancora, dai suoi contemporanei, considerata solo “un’arte da concerto”. La musica è, invece, destinata alla scena, e ad accompagnarcela saranno gli attori presenti tra coloro cui Appia riserva la dedica dell’articolo, gli allievi della scuola di ritmica di Dalcroze:
“la ritmica ha questo vantaggio sopra tutti gli altri procedimenti, ch’essa non ricerca la bellezza ma ne è il principio. Non è dunque […] un insegnamento professionale,
[…] è una disciplina umana che instaura in noi per mezzo del nostro organismo un equilibrio armonico; la sua influenza investe tutto il nostro organismo e risponde così all’arte della musica che afferma l’unità correlativa dell’anima e del corpo attraverso l’armonia e il ritmo, la espressione della nostra anima e la sua esistenza formale. Ecco dunque, parrebbe, il procedimento per eccellenza per preparare il nostro corpo a rappresentare la musica sulla scena e a immettervi senza violenza gli elementi di un’arte teatrale rinnovata”.147
3.3 Gli schieramenti italiani
Il dibattito che, proprio in questi anni, anima il panorama teatrale italiano è ben illustrano dalle parole di un giornalista de La Sera: “la questione è grossa e sempre più si complica, man mano che si discute. Ci sono i tradizionalisti, attaccati per il codino al verismo ad ogni costo; e ci sono i futuristi che – vivaci ragazzi anche quando hanno sessant’anni – vorrebbero portare anche qui la loro manìa di fare ogni cosa a rovescio di quel che s’è fatto fin qui”. 148 Secondo chi scrive, un aspetto da
147
Ibidem. G. M. C., La scala e l’allestimento scenico, in La Sera, 03 novembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 37–39. 148
valutare attentamente prima di pensare ad una tipologia specifica di rappresentazione è la dimensione del teatro che vi si vuole destinare, “perché è provato come gli effetti che puoi ottenere, suggestivi ed efficaci, in un palcoscenico di sei metri in quadrato, invano li cerchi in uno vasto come una piazza, alto come una cattedrale”, come La Scala. Al centro dell’articolo, e del dibattito, viene posta proprio la messa in scena, a cui la Revue Critique dedica, addirittura, un’inchiesta con referendum. Il giornalista riporta, e spiega concisamente, le maggiori tendenze che ne sono emerse: “un partito preso realistico tende a fare della scena l’imitazione più scrupolosa della vita vissuta: un altro, di decorazione simbolica, vuol rafforzare nello spettatore il significato dell’opera rappresentata, creando nel quadro un’atmosfera che a questa corrisponda e quasi sia capace di commentarla: e infine, un partito preso di sobrietà fatto di rinunce, intende a ridurre la scena ai suoi schemi essenziali”. L’opinione del giornalista non emerge del tutto chiaramente: “in mezzo [tra i veristi e i futuristi], secondo me, la virtù”, dichiara nelle primissime righe, per poi affermare: “è certo, anche trascurando ogni possibile interferenza fra l’uno e l’altro di questi ‘partiti presi’, che il problema non può essere ricondotto a un denominatore
comune. […] La scelta della decorazione è imposta dall’opera: a un lavoro realistico […] deve corrispondere una messa in scena che riproduca tutti i particolari della realtà: tutt’altro principio deve informare l’allestimento scenico di Andromaca. E’ naturale; è logico; noi che pensiamo in questo momento alla Scala, non possiamo immaginarci la Traviata entro un quadro scenico stilizzato; e ci pare assurdo incominciare Pelléas et Mélisande nei confini della piccola realtà quotidiana”. E solo qualche riga dopo, dimostrando di nutrire piena fiducia nel tentativo che Appia si appresta a realizzare alla Scala, egli sembra contraddire la sua iniziale affermazione sull’importanza delle dimensioni dell’edificio e della scena teatrale. Va anche detto che, dopo aver manifestato il suo apprezzamento per l’appassionato lavoro di Appia ed aver anticipato alcune tra le novità dello spettacolo a cui il pubblico scaligero avrà l’onore di assistere – “è molti anni che egli studia il magnifico problema [la messa in scena], e il volume che ha stampato […] mostra il suo amore per esso e la profonda bellezza delle sue intenzioni. Vedremo alla prova il suo tentativo, vedremo dissolversi in una grande ombra gli spiriti di Tristano e di Isotta nell’atto della morte: tutto il poema, il grande poema dell’amore e della morte, vuol apparire all’occhio dello
spettatore per via di questo discendere dell’ombra mortale in un quadro appena discernibile per la sua cupezza di qua, forato da una grande feritoia luminosa di là, sul mare” – , egli, in effetti, aggiunge: “la prova che l’Appia tenterà in una scena vastissima come quella della Scala è ardua”, ma rimane “piena di nobiltà”. Un parere diverso pare emergere da un altro articolo de La Sera:
“La Scala è al terzo anno della sua vita rinnovata: è all’inizio di quell’esperimento novennale al termine del quale si imporrà la gravissima questione del riscatto dei palchi. Questo punto, nelle ardenti polemiche, è stato dimenticato, eppure ha un peso gravissimo, decisivo sulla compilazione dei programmi, specialmente di quelli dei primissimi anni, nei quali gli esperimenti rischiosi sono più da temere che da incoraggiare. […] Se alla Scala si dovesse prendere l’indirizzo di tenere a battesimo tutti gl’infanti di dubbia vitalità che vengono alla luce, come si potrebbe assicurare al teatro la via che ha tuttora bisogno di consolidare? E si è dimenticato, nel fervore del dibattito, che Milano ha dato parecchi milioni perché la Scala fosse ricostruita e ricostituita per divenire un teatro a repertorio; […] ora […] un repertorio non si costituisce se non si chiamano a farne parte le […] opere che piacciono; e
piacendo forniscono alla Scala il modo di... andare avanti. […] Lasciamo dunque che questo glorioso istituto che tutti amiamo con tanto amore faccia le ossa e le rassodi. Si discuta pure il cartellone per far noti i desideri del pubblico – che è quello che paga, che è quello che tiene in piedi il teatro – ”. 149
In questo caso, il giornalista invita caldamente alla cautela, augurandosi che l’apertura delle scene italiane ad esperimenti nuovi, e magari avveniristici, avvenga gradualmente, per non rischiare di vanificare subito i notevoli sforzi grazie ai quali un istituto tanto glorioso è rinato. Si parla qui in termini di successo economico, eppure Toscanini, per cui il giornalista mostra grande stima, sembra inseguire un ideale e una soddisfazione diversi, e non pare avvertire il bisogno di aspettare che il terreno su cui corre si faccia, a forza di costosi interventi, più solido. Le riforme, più o meno estreme, attuate nei teatri di vari paesi europei motivano molti intellettuali italiani ad interessarsi e a pronunciarsi in merito al problema incombente della scenografia, dal momento che “si lamenta che in Italia manchi una scenografia quale posseggono i maggiori teatri del mondo, 149
G. M. C., L’indirizzo della Scala, in La Sera, 09 novembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 41.
e, in ispecie, di Francia, di Russia, di Germania”. 150 Accanto al nome di Appia, nel dibattito ricorrono quelli di Gordon Craig, con cui lo stesso Appia si confronta di frequente attraverso scambi epistolari, e Max Reinhardt:
“l’arte della scena ebbe il suo primo maestro nei tempi moderni in Gordon Craig. Fu egli che insegnò anzitutto la semplificazione. In luogo delle complicate tele, dei quadri di carattere realistico, egli propose l’uso delle tende. Dopo il Craig, in ordine di tempo, abbiamo Max Reinhardt, che vuole siano lasciati alla scena i particolari, di cui i Tedeschi furono sempre ammiratori. Ma codesti particolari, bisogna correggerli, modificarli con le luci. Si deve al Reinhardt l’uso delle luci variopinte sulla scena, per la prima volta. Fu egli che mise in vigore il palcoscenico girante e a luoghi deputati, per dirla in linguaggio di teatro medioevale. Si tratta di sezioni del palcoscenico predisposte con arte, che vengono al proscenio, al momento opportuno, per mezzo di un perno girante sotto di esse. Sicché sono aboliti gli entr’actes e
150
Gino Gori, Scenografi e scenografia, in Il Piccolo, 19 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 49–50.
il dramma si svolge con maggiore sollecitudine. Le tre ore sacramentali della rappresentazione si possono ridurre”. 151
Le due tendenze riassunte da Gori sono un riferimento fondamentale per il lavoro di Appia, svolto principalmente in Germania. Dei “particolari” tanto amati dai tedeschi, egli terrà solo gli essenziali, attraverso un’ opera riformatrice che raccoglie, riassume e, insieme, sviluppa sia la tendenza al “semplicismo” del Craig sia quella al “barocchismo” del Reinhardt: “devesi all’Appia una semplificazione di genere nuovo. Invece delle tende egli usa dei piani e un colore come fondali e, invece di oggetti o mobili che ingombrano la scena, la gradinata o i rilievi in forma di gradini”. Da Craig traggono ispirazione, tra gl’altri, anche due scenografi russi, Gontcharova e Lairinoff, fautori del cubismo e del futurismo a teatro. Come Craig “si servirono spesse volte della marionetta invece dell’attore; o travestirono l’attore da marionetta, in modo da fargli rappresentare una parte che arieggia l’antica prosopopea, maschera del teatro greco-latino”, ma, al contrario suo, diedero risalto ai colori, invece di abolirli. Ma veniamo all’Italia dove
151
Ibidem.
“non mancano certo grandi artisti, che si sono occupati di scenografia. […] Ma essi, per il nostro misoneismo o per mancanza di coraggio dei direttivi amministrativi […] poco o nulla poterono attuare in Italia, e, solo se si recarono all’estero, riuscirono ad affermare il loro valore: all’estero, dove gettarono liberalmente i semi della loro genialità, salvo a scomparire spesso, per la loro modestia, dietro persone e nomi stranieri. Ma io cerco il tentativo allo stato iniziale e non il rivoluzionarismo artistico come s’è avverato in codesti pittori. Orbene, basta essere andati nei maggiori teatri di Milano, di Roma, di Torino, di Venezia, in questi ultimi tempi, per constatare che la scenografia s’è cominciata a spigrire e tende a un avvenire certo”. 152
Il Gori si riferisce innanzitutto all’innovazione che tanto aveva ammaliato anche Appia e che, nel 1922, era stata messa in funzionamento proprio alla Scala: la cupola di Mariano Fortuny, studiata per conferire l’illusione della volta celeste. Tra le altre novità, il critico aveva notato pure i tendaggi con cui, in alcune sale di Roma, erano state sostituite le tele dipinte ed il palcoscenico mobile che si stava allestendo a La Fenice.
152
Ibidem.
“Non manca dunque la buona volontà” e i buoni propositi, come l’abolizione della rampa dei lumi, da sostituirsi con luci mobili, di cui si discute a Torino, sono molti. Occorre però frenare gli entusiasmi, poiché “certe riforme condotte all’estremo limite non potremo mai farle nostre. E la ragione è questa: che la nostra plasticità latina si ribella sostanzialmente alla distruzione e all’abolizione di certe caratteristiche sceniche, dovute al colore e alla prospettiva”. Gori ne fa, dunque, un problema non tanto d’innovazione in sé e di “misoneismo” ma di contesto in cui queste innovazioni, in relazione a qualsiasi settore, non solo a quello teatrale, tentano forzatamente d’inserirsi: “mentre è possibile (per esempio, in altro campo) in Germania il tempio protestante, nudo: in Italia non si ammette che la chiesa sfarzosa cattolica. Anche nel rito, nella musica, nella costruzione. E non solo del tempio, ma dei palazzi, delle vie, delle piazze”. Il problema di fondo è “una differenza di gusto che non può trascurarsi. Se si lamenta una scenografia ancor bambina, da noi, si passa sopra il fatto della differenza di gusto. Non è bambina, ma ribelle a trasformarsi altrimenti”. Non si tratterebbe, dunque, di una resistenza al progresso, ma di una mentalità e di un temperamento radicalmente diversi da quelli dei freddi paesi nordici, che non
consentirebbero agli artisti e al pubblico italiano di mettere in pratica ed accettare stravolgimenti che seguono, perlopiù, una linea minimalista. Seguita, infatti, Gori: “fino all’uso delle tende ci si può arrivare; ma alla scala di Appia non mi pare possibile. E dove andrebbe l’esigenza dell’occhio, abituato alla iridescente e variopinta nostra natura? Anche la marionettizzazione craighiana, come sarebbe possibile, se noi abbiamo bisogno d’un attore che riproduca la nostra vitalità, le nostre emotività latina?”. Il discorso prende, poi, un’altra piega, spostandosi sulla questione, in parte attinente ed in parte differente, della drammaturgia: “i drammi stessi, bisogna tenerne conto, esigono altre forme sceniche. Il dramma odierno tedesco è simbolico, in maggior parte. Quello francese ha caratteri decadentistici rilevanti. Non parlo di quello russo. Ma l’italiano volere o no, è sempre passionale, per un motivo trascendente ad etnico. Or bene, se la scenografia del Craig, dell’Appia, del Reinhardt, del Larionoff si adatta alle pièces del loro paese, come non si capisce che contrasterebbe alle pièces radicalmente italiane?”. Siamo alla vigilia del Tristano e Isotta e argomentazioni di tal genere non possono considerarsi di buon auspicio. Ma, dal momento che non si tratta della pièce di un autore italiano, si riesce ad intravede qualche spiraglio di
luce. E proprio la luce è l’unica risorsa che il teatro italiano eredita da Appia – che sappiamo attribuire all’illuminazione un’importanza fondamentale e farne tutti gli impieghi possibili – senza riserve: “le luci specialmente vaghe e destinate a creare un’aura attorno a certi personaggi in certe scene caratteristiche, acquisterebbero un valore di prim’ordine e il dramma sarebbe commentato, facilitato anche allo scrittore, che avrebbe un mezzo di espressione di più”. A prescindere dalle difficoltà di attecchimento e radicamento che hanno incontrato, nella nostra penisola di nuove proposte europee ne sono giunte a bizzeffe, con tanto di sorprendenti conseguenze. Il progetto di ricerca sulla ricezione della grande regia in Italia, condotto dall’ Università dell’Aquila, ne ha rintracciato e studiato minuziosamente le prove – consistenti in riviste, traduzioni, cronache giornalistiche, epistolari, documenti appartenuti a circoli e teatri d’arte – , con lo scopo di rivalutare l’Italia culturale dei primi anni del Novecento, tacciata di “ritardo” rispetto al resto d’Europa. Nella mappa che illustra i viaggi compiuti attraverso l’Italia dagli spettacoli di matrice europea tra il 1911 ed il 1934, si ricorda come il passaggio di ogni grande regista nel nostro Paese fosse sempre preceduto e accompagnato da articoli ed interviste a proposito del suo
pensiero e delle intenzioni che avrebbe voluto realizzare sia all’interno sia all’esterno della penisola. La critica italiana riportava nei dettagli ogni informazione recepita e si accertava che, con ogni mezzo a disposizione, venisse trasmessa ad un vasto pubblico, qualunque fossero le sue convinzioni. I giornalisti non agivano, però, in modo sempre impeccabile: il 7 novembre il quotidiano La Sera, oltre a comunicare l’inaugurazione della mostra di cinquantasei disegni di Appia alla Bottega di Poesia a Milano, riporta la seguente notizia falsa: “Adolfo Appia che disegnò e curò le scene del Parsifal, ammirate l’anno scorso alla Scala sta ora allestendo quelle del Tristano e Isotta”. Inoltre, i giornali non si esimono di certo dal dare voce alle polemiche. L’Ambrosiano vi partecipa, anzi, attivamente, battendosi perché alla Scala, appena rinnovata e tornata ad essere “il tempio dell’arte” – dopo un lungo abbandono che l’aveva precipitata “in condizioni non soltanto di poca modernità, ma anche di poca stabilità materiale” 153 – ed oggetto, come già detto, di una violenta polemica sui criteri di scelta degli autori di cui rappresentare le opere, vengano accolte opere di giovani maestri italiani. Questa battaglia va, 153
La rinnovata primavera della Scala di Milano, in La Voce repubblicana, 29 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 78–79.
evidentemente, a scapito di Toscanini e delle sue proposte ed è per questo che ha luogo l’incontro tra il maestro e Mussolini, che ne approva le scelte in un comunicato pubblico (confermandosi arbitro supremo, anche delle controversie culturali ed artistiche), come riporta anche La Sera nell’articolo in parte già citato: “il maestro Toscanini e il comm. senatore Borletti […] hanno intrattenuto l’on. Mussolini sulla situazione creatasi alla Scala in seguito alle ultime polemiche. […] Il Presidente ha […] espresso l’augurio che le polemiche cessino, visto e considerato che la riapertura della Scala è imminente e la stagione si apre sotto ottimi auspici” 154. Per assicurarsi che il pubblico italiano sia davvero pronto ad assistere allo spettacolo della sua catarsi, della “liberazione del pensiero nell’azione sensibile” 155, previsto solo pochi giorni dopo, il 13 dicembre Appia tiene al circolo del Convegno, da cui era conosciuto e stimato già da qualche tempo, un’ entusiasmante conferenza a cui, grazie all’annuncio de Il Secolo, accorrono in molti (col senno di poi si può affermare che questa ebbe più successo dello spettacolo che 154
G. M. C., L’indirizzo della Scala, in La Sera, 09 novembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 41. 155 Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo La vita, la scienza e l’arte.
promuoveva). Per coinvolgere maggiormente il pubblico ed immetterlo in una visuale più chiara dei principi esposti, il “geniale innovatore”, come lo definisce Il Secolo, si serve del supporto di alcune proiezioni illustranti i propri bozzetti d’ispirazione wagneriana: “la conferenza era accompagnata da interessanti proiezioni. Come è noto Appia vuole […] armonizzare questa [la scena] al significato ideale, diremmo quasi simbolico, che la parola o la musica acquistano intorno a lui [l’attore]. Egli tende insomma a creare un quadro aderente all’opera, che ne sia un’integrazione in senso spirituale. Il valore di questa teoria e i risultati ottenuti sono apparsi tanto più notevoli ed evidenti dal confronto fra le scene composte da Appia per il Tristano e per altre opere wagneriane, e quelle di un volgare di un realismo romantico in uso nel famoso teatro di Bayreuth, il pubblico numerosissimo seguì con molto interesse conferenza e proiezioni, e applaudì alla fine Appia, che”, a differenza di quanto accadrà alla prima del Tristano, “era presente”. 156
156
Le scene di Appia per la Scala, in Il Secolo, 14 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 45.
Ma quel “pubblico numerosissimo” era fatto di appassionati, connaisseurs, 157 ovvero l’anima modernista di Milano che, per lo più, non coincideva con quella che poteva permettersi il biglietto per una première alla Scala.
“Si avvicina il giorno nel quale riudremo alla Scala il Tristano e Isotta di Wagner. Solo a pensarlo, l’anima nostra si inabissa in un tumulto di sentimenti che tutta la sommuovono e la commuovono. Ci prepariamo all’avvenimento come se ci apprestassimo a un rito: ed è questa preparazione, necessaria, anche se del mirabile poema musicale conosciamo già per istudio o per ricordo di esecuzioni degnissime la maggior parte degli elementi. Ma questa edizione dell’opera più sentita del grande di Lipsia, curata dall’inquieta anima indagatrice di Arturo Toscanini che se stessa tormenta in una diuturna smania di perfezione, ci rivelerà ancora chi sa quali e quanti misteri; poiché l’interprete che non sa il riposo sa invece come su queste grandi creazioni del genio nessuno può illudersi di pronunziare la parola definitiva”. 158
157
Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C.,Torino, 2011, p. 28. 158 G. M. C., Preparazione al Tristano, in La Sera, 13 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 43–44.
Così si scrive su La Sera il giorno stesso della conferenza tenuta da Appia. L’aspettativa del colto pubblico e della critica, innescata dal ‘piano, pianissimo’ con cui Appia espone timidamente le sue intenzioni nelle sale del Convegno, cresce al ricordo di vecchie letture e dell’emozione che gli suscitarono, di cui pregusta il ritorno, e cresce anche l’intima speranza di una soddisfazione che meriti applausi ‘forti, fortissimi’.
3.4 Le radici, e gl’ echi, dell’oggetto che dà inizio alla riforma
Per chi, invece, non avesse avuto ancora l’occasione o l’audacia di abbandonarsi al sentimento totalizzante vissuto e trasmesso dai protagonisti di una leggenda antichissima, che ha attraversato le epoche, le nazioni e le arti più diverse, La Sera consiglia il volume Tristano e Isolda di Manacorda, giudicandolo il più fedele alle intenzioni wagneriane – l’autore era un attento studioso del drammaturgo – :
“se percorriamo rapidamente il volume Tristano ed Isolda, possiamo veder subito qual è il metodo geniale che il Manacorda ha seguito in questo suo lavoro, uno e plurissimo
al tempo stesso. Ecco: il nòcciolo è costituito dalla versione letterale del poema: poiché Wagner era il poeta di se medesimo musicista, poiché […] egli attribuiva importanza sostanziale al criterio di allitterazione pel quale ad ogni frase, ad ogni parola, meglio, ad ogni sillaba, sta in rapporto di inscindibile corrispondenza la frase, la parola, la nota musicale, è ben chiara l’importanza di questa versione. Così a sinistra noi abbiamo il testo originale del poema […] a destra leggiamo la versione italiana. […] Quante rivelazioni ci offra questa traduzione, per la quale molti misteri melodici ed armonici appaiono ormai limpidi e chiari, comprenderà chi voglia seguirla”. 159
È bene, però, fare anche qualche passo indietro e soffermarsi sulla fonte che più di tutte deve aver ispirato l’opera del geniale compositore tedesco: il poema cavalleresco, rimasto incompiuto, Tristan, composto attorno al 1210 dal minnesänger Gottfried von Strassburg ed accolto in Germania come capolavoro del “canto d’amore” teso verso ideali di purezza e nobiltà. Il mito affonda le sue radici nella tradizione orale celtica e, presumibilmente, trova una prima forma scritta in Irlanda tra il settimo e l’ottavo secolo dopo Cristo.
159
Ibidem.
L’elemento magico del filtro d’amore deriva, probabilmente, proprio dall’iniziale circolazione e trascrizione del mito presso i monasteri, che dovevano pur trovare una giustificazione ad un amore adulterino e sensuale. “Ma”, nota un giornalista,
“occorreva forse ad Isotta, occorreva forse a Tristano, già arsi dalla fiammeggiante passione, già resi dall’inestinguibile desiderio, il magico filtro afrodisiaco, per sentirsi presi, avvolti, travolti dalle furie dell’amore?! No: è il Todestrank, il supposto beveraggio di morte, a dissuggellar loro le labbra, è la certezza dell’imminente morire e schiudere loro le braccia, a precipitarli nell’ebbrezza senza fine! Perché tacere l’ansia tormentosa e il lungo strazio, ora che la vita sfugge: perché fingere ancora, sulle soglie dell’eternità?! Come l’abbesse de Jouarre ai piedi della ghigliottina, ogni falso pudore cede davanti alla morte; innanzi all’infinito, la passione invincibile libera il suo inno trionfale!...”. 160
Su quanto si legge su L’Avanti, il libretto dell’opera non lascia, in effetti, alcun dubbio: “o, lode al filtro! Lode al succo! Nella soglia della morte, dove mi fu versato, esso mi ha disserrato 160
Tristano e Isotta alla Scala, in L’Avanti, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 57–59.
[…] il regno miracoloso della notte. Dall’immagine che il cuore serrata celava, esso scacciò del giorno l’ingannevole aspetto, sì che il mio occhio limpido nella notte contemplarne la verità sapesse”. 161 Conosciuti sono pure due poemi anglo-normanni: uno, quello del chierico Thomas, vissuto alla corte di Enrico II Plantageneto, risulta influenzato dal codice cortese ed ha un tono melanconico, mentre l’altro, composto dal poeta popolare Béroul, evidenzia della vicenda gli aspetti più realistici e tragici. Questi sarebbero stati preceduti dall’oscuro Roman de Tristan da cui è tratto il Tristano Riccardiano, dal carattere piuttosto fiabesco, scritto in toscano e conservato a Firenze. Non si dimentichi, inoltre, che tracce della leggenda si ritrovano anche in Dante e in Ariosto. Ma nessuno di questi scritti ha l’imponenza dell’opera di Wagner, che si prende la briga di rileggere questo straziante mito di eros e thanatos in chiave esistenziale e filosofica: “o quaggiù scendi, notte dell’amore, concedimi di obliare, che io vivo; raccoglimi nel tuo grembo, scioglimi libero dal mondo!” 162, recita il duetto del secondo atto dell’opera wagneriana, e ancora: “l’alto presagio 161
Richard Wagner, Tristano e Isotta, Kalmus & Co., New York, trad. di Franco Serpa (proprietà Fondazione Teatro alla Scala), 2009, atto secondo, scena seconda, pp. 33–45. 162 Ibidem.
di un santo tramonto estingue l’orrore delle parvenze con la redenzione dal mondo”. 163 L’unica vera colpa dell’umanità sarebbe, dunque, quella di vivere, o meglio, sopravvivere all’ombra del celebre “velo di Maya”, che, garantendole un’apparente serenità, le impedisce di rivelare a se stessa l’unico sentimento che l’appagherebbe davvero, ma solo se nutrito con fatica e sincerità. Questo concetto si ritrova pure nelle poetiche parole di Paribeni: “come l’abisso del cielo tocca l’abisso del mare sulla linea luminosa dell’orizzonte, così l’abisso della morte si confonde con quello dell’amore sull’orizzonte splendente dell’arte. E quanto spesso la vita ritrova in quel segno di luce il suo proprio riflesso e vede tradotto in linguaggio universale il solitario grido delle sue pene!”. 164 Si tratta di una verità che anche la sensibilità artistica odierna pare sia stata in grado d’intuire, come dimostra il seguente verso di un brano post-rock: “il peso del mondo è un peso d’amore troppo puro da sopportare”, 165 o come suggerisce il
163
Ibidem. G. C. Paribeni, Tristano, in L’Ambrosiano, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 60–61. 165 Massimo Volume, Fausto, in Cattive abitudini, La Tempesta, 2010. 164
fatto che il regista Lars Von Trier citi il preludio del Tristano nel suo apocalittico Melancholia. Il Tristano e Isotta di Wagner eserciterà, a sua volta, una notevole influenza sul romanzo dello storico francese Joseph Bedier, pubblicato nel 1900, e su tutta l’iconografia relativa al mito, dall’affresco del castello voluto dal sovrano Ludwing di Baviera, alle visioni dei preraffaelliti, al noto dipinto del 1944, alle incisioni di Dalì, fino a rapire l’attenzione di Appia.
Tristano beve il filtro magico, dal manoscritto di Histoire de Tristan et Iseult Augsburg, 1484.
3.5 La quiete prima della tempesta
Nonostante il fervore dell’attesa e tutti i curatissimi preparativi, il 20 dicembre il rinomato Teatro milanese era oppresso da un clima piuttosto pesante. Tanto che colui che avrebbe dovuto presenziare come ospite d’onore, preferisce starsene tra le mura di una stanza d’hotel – l’hotel Marino – piuttosto che rassegnarsi ad una visuale scenica che, ancora una volta, non si rivelava all’altezza della visione ideale. La produzione della Scala conosceva il suo pubblico, così tenta, forse, di trovare un compromesso. I collaboratori aggirano le precise indicazioni dello scenografo e salvano così qualche vecchia consuetudine, di modo che i più conservatori ne siano rassicurati. Ne scaturisce una sintesi poco felice, e non solo per Appia, condannato ad una realtà mai all’altezza dell’idea – “la fantasia e il sentimento sono, ahimè, una coppia di cavalli indomiti, che di troppo precorrono il segno più modesto, che la realtà delle condizioni sceniche può attingere” 166, scrive Paribeni – , ma anche per i conservatori, che non mostrano nessuna gratitudine per lo sforzo, forse sconsiderato, fatto per loro, per non turbarli 166
G. C. Paribeni, Tristano, in L’Ambrosiano, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 60–61.
e deluderli, nell’illusione di aprirli così a nuove forme di pensiero. Scrive, infatti, La Sera poche ore prima dello spettacolo: “l’applicazione di questi principii [esposti da Appia in occasione degli incontri che il giornalista ricorda] non si vedrà forse, nel Tristano della Scala, realizzata in tutto il suo rigore: chè qualcosa della realtà rappresentativa è rimasto in ciascuna delle tre scene”. Ma ‘rassicura’ poi: “ad ogni modo quanto si vedrà nei tre quadri del vascello, della foresta e del Kareòl darà un’idea più che sufficiente del punto al quale l’Appia e i suoi sodali ci vogliono condurre. E il pubblico, che è quello che conta, deciderà”. 167
3.6 L’ azione drammatica
Si schiude il sipario: “gli spettatori s’accomodano nelle poltrone, a fondo, cercando di fare con esse un sol corpo, per comodo e per difesa, pronti a tutto. Sembrano passeggeri nelle poltrone sul ponte d’un piroscafo che salpi verso un mare agitato. […] Mare, notturno mare. Se dal buio della platea fisso 167
Fossati, Il Tristano e Isotta di stasera, in La Sera, 20 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 52.
le file dei palchi silenziosi con pochi e fiochi lumi, mi par di vedere un transatlantico immenso che naviga nelle tenebre coi finestrini illuminati”. 168 Anche Wagner amava paragonare la musica al mare, che avvicina i continenti della danza e della poesia. Tuffandosi in questo mare l’uomo “sente il proprio cuore mirabilmente allargarsi quando mira nelle profondità inaccessibili, ricche di ogni possibilità, che lo riempiono di stupore e gli fanno presentire l’infinito”. 169 Fondamentali per la ricostruzione dello spettacolo atto per atto sono, sicuramente, le numerose e animate recensioni comparse nelle maggiori testate dell’epoca, ma, oltre a queste, ci sono pervenuti gli appunti di lavoro consegnati da Appia all’assistente Jean Mercier, il cahier di quest’ultimo, e la dettagliatissima lettera – alla cui consegna ha probabilmente provveduto il regista Ernst Lert – indirizzata dallo scenografo a Caramba, responsabile dell’allestimento scenico della Scala e costumista, contenente i particolari sui cambiamenti di luce e colore in relazione ad ogni pagina dello spartito cantopianoforte. 168
Ugo Ojetti, Calvino alla Scala, in Cose viste, 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 85–86. 169 Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo La musica, p. 166.
La lettera, rimasta inedita fino alla pubblicazione da parte degli Amici della Scala, recita:
“Ginevra - 6 Belmont - 5\I.24 Gentile signore, spero che lei capisca il mio rammarico per aver dovuto lasciare Milano ammalato e senza poter stringere ancora una volta la sua mano così schietta. Sia certo in ogni modo della mia viva riconoscenza per il sostegno che mi ha offerto, per la sua instancabile buona volontà nei miei confronti e per la benevola accoglienza che ha riservato al mio amico Jean Lucrein. Sono convinto che il Tristano alla Scala aprirà la giusta strada; era necessario, il tempo poi farà ciò che deve. Caro signore, voglio esprimerle la mia sincera simpatia, insieme a un amichevole ricordo. Suo devotissimo Adolphe Appia. Luci I atto: La tenda di Isotta deve essere ben illuminata, perché non vada persa neanche un’espressione del volto; ma questa luce dev’essere neutra e non creare ombre portate. Pagina 20 (Ricordi) la scena all’aria aperta dev’essere illuminata in modo brillante, quasi violento, e con un chiarore che viene dal cielo, dall’alto e non dai lati. Molte ombre portate; massimo realismo. Ma questa luce dall’alto deve, per quanto possibile, fermarsi esattamente sulla soglia della tenda e far così vedere
Isotta come silhouette, senza per questo cambiare la luce della tenda. All’inizio, pagina 8, l’apertura della tenda, a destra, deve ugualmente dare, un’impressione molto viva di aria aperta, ma non dentro la tenda. Pagina 142, la luce, un po’ obliqua e che parte da destra, deve invadere completamente la scena fino alla rampa, e creare le ombre portate dietro i personaggi, cioè sul lato della sala. Luce più gialla che a pagina 20. II atto: da pagina 155 a 186 non si potranno regolare le luci senza avere la fiaccola. Probabilmente bisognerà tenerle più basse, per far risaltare la fiaccola e poi, nel preciso momento in cui questa si spegne, rialzarle sensibilmente. Per le pagine 176-180, forse un po’ del riflettore del lampadario della sala; la stessa cosa per 186, prima riga. Quando la fiaccola è spenta, la luce dev’essere molto chiara, non solo blu e l’espressione del volto dei personaggi dev’essere perfettamente visibile. Bisognerà cercare di mettere bene in evidenza i piani orizzontali della scena e, probabilmente, rendere per questo il muro della grande terrazza leggermente più scuro e più verde del resto. Pagina 243 la luce generale si abbassa in maniera impercettibile, ma i personaggi sulla panca restano perfettamente nitidi. Pagina 252 terza riga, la luce si abbassa ancora un po’. Pagina 274 la luce aumenta poco a poco poi rimane stabile a 275, terza riga. Per le pagine 276-290 ci sarà
probabilmente bisogno del riflettore del lampadario per illuminare bene gli occhi dei personaggi. A pagina 284 comincia a fare giorno nell’apertura della tenda senza cambiare niente all’illuminazione generale. La luce del giorno aumenta fino a 309, dove si stabilizza. Pagina 315 è giorno fatto. Pagina 319 la scena è sgradevolmente visibile. III atto. Illuminazione generale calda, gialla, che lascia delle ombre sullo sfondo e dietro il tronco. Illuminazione specifica che crea una macchia di luce sul pavimento davanti a Tristano. Tranquillità; cielo e mare molto luminosi. Pagina 390 l’illuminazione specifica (macchia di luce) inizia a lambire i piedi di Tristano. Pagina 396 questa luce illumina già gli occhi di Tristano e continua a salire lungo il tronco. Pagina 411 Tristano è inondato di luce e la scena sembra illuminata come dagli ultimi raggi della sera. Pagina 419 la luce inizia a diminuire. Pagina 427 la luce inizia ad assumere una colorazione rosata, tramonto. Pagina 435 la notte cala lentamente. Pagina 442 è notte ma non ancora scuro! Pagina 453 si distinguono solo le forme dei personaggi. Da pagina 322 a 419 si devono vedere perfettamente Tristano e ogni tratto del suo volto”. 170
170
Lettera di Appia a Caramba, 28 novembre 1923 (donata agli Amici della Scala dai pronipoti di Caramba, Emilia e Ernesto Pasquali e Uberto Pestalozza), in Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C.,Torino, 2011, pp. 37–41.
Lettera di Appia a Caramba, 28 novembre 1923, in Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C.,Torino, 2011, p. 36.
Da queste indicazioni molto precise può dedursi la principale preoccupazione di Appia, chiaramente espressa in un articolo per la Semaine littéraire di Ginevra: “Tristano è un dramma di pura passione, dramma assolutamente interiore. Il problema consiste nel far vedere questo dramma, ossia nell’introdurre lo spettatore nell’anima degli eroi medesimi, in modo che esso veda ciò che Tristano vede, ciò che Isotta vede”. L’obiettivo di Appia non pare, dunque, tradire l’ultimo desiderio espresso da Wagner. Egli coltivava la profonda speranza che il suo genio creativo trovasse, prima o poi, la chiave del “teatro invisibile” – “ho creato l’orchestra invisibile, se potessi ora inventare il teatro invisibile” 171 dice egli stesso – , che potrebbe interpretarsi anche come un teatro interiore, una scena che vive dell’anima dei suoi protagonisti. Appia ha modo di ottenere il risultato sperato soprattutto nel secondo atto, al quale non a caso è riservata la maggioranza delle direttive. Nel corso del secondo atto la scena sarà più che mai in balia del flusso del divenire musicale, che spazza via dalla visuale anche i pochi elementi del copione wagneriano rimasti – nave, castello, alberi – , affinché gli spettatori 171
Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivoluzione all’utopia, pp. 10–11.
sprofondino totalmente nell’esperienza dell’amore e della notte vissuta dagli attori. Lo sguardo si affida alla guida costante della luce, mediatrice tra le brutali irruzioni del realismo – gl’ingressi in scena di re Marco – e l’esperienza tutta interiore di cui Tristano e Isotta sono protagonisti. L’inusuale uso delle luci sarà, anche, uno dei motivi di polemica più gettonati nei giorni che seguono la prima. Uno spettatore, l’on. Nello Toscanelli invia una lettera aperta al Secolo, in cui manifesta il suo dissenso verso l’oscurità prescritta da Appia. Questa avrebbe ostacolato la lettura del libretto durante la rappresentazione, rendendo la comprensione dell’opera impossibile per chi non la conosceva e difficile per chi sapeva la vicenda ma non ne aveva chiari alcuni passaggi:
“dalla Germania è venuto l’uso della oscurità nella sala teatrale, durante lo svolgimento dell’opera. Uso opportunissimo, perché concentra tutte le facoltà dell’uditore in un raccoglimento che si dirige alla scena. Ma alla Scala mi pare che si sia andati all’eccesso, perché il teatro piomba assolutamente nelle tenebre quando incomincia la musica. Questo è poco male finché si debbano udire opere popolarissime e note a tutti in Italia; ma quando si deve giudicare di un’opera nuova è pur necessario per molti seguire
il libretto. […] A Bayreuth, io ricordo di aver notato il curioso effetto di un fruscìo di carte maneggiate ogni tanto. […] Già la traduzione in italiano dei libretti di Wagner peggiora le condizioni del pubblico; e le tenebre della Scala corrono rischio di mettere al buio anche il suo spirito”. 172
Sulla stessa questione si pronuncia con tono sarcastico il critico Ojetti, affermando: “le donne quasi nude […] in siffatti spettacoli, adempiono a compiti, credo, inattesi: quando […] dalla scena si diffonde una luce piena, le bianche spalle fanno nella sala buia come da riflettore; e se ti trovi seduto accanto o dietro a una di queste dame benigne, puoi, piegando verso la sua nudità il libretto o lo spartito, leggere le parole o le note come al tenue lucore di un’alba”. 173 Nei teatri italiani il problema delle luci era, già, particolarmente sentito, poiché non riusciva a realizzarsi lo stacco netto caratteristico dei teatri degli altri paesi, in particolare di quelli tedeschi. 172
Nello Toscanelli, La Scala e il buio, in Il Secolo, 23 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 76. 173 Ugo Ojetti, Calvino alla Scala, in Cose viste, 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 85–86.
Tra polemiche, preoccupazioni e, soprattutto, grandi aspettative, giunge finalmente il 19 dicembre. È il Corriere della sera a pubblicare l’atteso annuncio: “per domani sera è fissata la prima rappresentazione del Tristano e Isotta. Dirigerà il maestro Toscanini e saranno interpreti principali la Signora Larsen e Capuana e i signori Bielina, Franci e Pinza. La recita è in abbonamento (serie A)” 174, che verrà ribadito il giorno della première con l’aggiunta di ulteriori e fondamentali dettagli, come i nomi dei curatori della messa in scena. Sulla stessa testata, il giorno dopo la prima, comparirà una pubblicità ispirata alle romantiche e surreali atmosfere dell’opera: “Scala. 1923. Tristano e Isotta. Ecco il vero filtro d’amore: Cordial Campari Liquor”.
174
Corriere della sera, 19 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 48.
PubblicitĂ sul Corriere della Sera, in Mirella Schino, Carla Arduini, Rosalba De Amicis, Raffaella Di Tizio, Eleonora Egizi, Doriana Legge, Fabrizio Pompei, Francesca Ponzetti, Noemi Tiberio (a cura di), Italia 1911-1934, mappa della ricezione della grande regia, 2008, p. 13.
La Sera si sofferma subito sull’ elemento di maggiore curiosità, e azzarda previsioni che verranno tutt’altro che smentite: “alle venti e mezzo precise, stasera, Toscanini attaccherà il magico preludio del Tristano e Isotta. Il pubblico già conosce quest’opera […] attraverso a degnissime esecuzioni fra le quali primeggiano quelle dirette ancora da Toscanini: questa volta poi un elemento assolutamente nuovo si aggiunge per acuire l’interesse e stimolare la curiosità: la messa in scena di Adolfo Appia la quale – se deve dedursi da quanto avvenne la sera della prova generale, nei conversari del piccolo pubblico che vi è ammesso – susciterà grandi discussioni”. 175 “L’attesa prima rappresentazione di Tristano e Isotta” 176 è segnalata anche dal quotidiano Il Sole. Le pubblicazioni che seguono si concentrano, invece, sullo spettacolo e sulle “grandi discussioni” indovinate da La Sera. Come si diceva, attraverso queste è possibile figurarsi mentalmente il susseguirsi delle scenografie allestite per la
175
Fossati, Il Tristano e Isotta di stasera, in La Sera, 20 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 52. 176 Scala, in Il Sole, 20 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 53.
rappresentazione, di cui è stata diffusa la sola foto di scena rappresentante l’intera figura in costume della signora Larsen (Isotta), pubblicata dal quotidiano L’Ambrosiano. Per capire i motivi della sommossa che si sarebbe scatenata la mattina seguente, i cui primi sintomi si manifestano già “nella platea e nel Ridotto della Scala” 177, è utile confrontare le scenografie di ogni atto realizzate per la Scala con le disposizioni indicate da Wagner per la rappresentazione di quegli stessi atti al Teatro di Vienna, che però rifiutò l’opera giudicandola ineseguibile, e riadattate per la prima al Munich Hofoper di Monaco di Baviera.
177
Adriano Lualdi, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Secolo, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 65–67.
Locandina della prima rappresentazione di Tristano e Isotta al Teatro Nazionale di Corte di Monaco, 1865.
Ludwing e Malwina Schnorr von Carolsfeld, primi interpreti di Tristano e Isotta, Monaco, Kรถnigliches Hof- und Nationaltheater, 10 giugno 1865.
ANTEFATTO – affidato, in forma tanto concisa quanto drammatica, al racconto di Isotta nella scena centrale del primo atto – : per liberare la Cornovaglia da un ingiusto tributo imposto dagli irlandesi, Tristano ha ucciso il cavaliere Moroldo, patriota irlandese e promesso sposo della principessa Isotta, figlia del re d'Irlanda. Creduto morto, Tristano viene lasciato alla deriva su una barca che approda sulla riva irlandese. Qui viene trovato da Isotta che, ignara della sua vera identità, lo cura e lo protegge. Soltanto notando un incavo nella spada del cavaliere, e confrontandolo poi con la scheggia trovata nella testa di Moroldo (che Tristano aveva rimandato in Irlanda), Isotta capisce di trovarsi di fronte all’assassino del promesso sposo: “un grido mi sorse dal profondo dell’anima! Con la lucida spada davanti a lui mi posi, per vendicare in lui, nel tracotante, la morte di Moroldo. Dal suo giaciglio egli alzò gli occhi, non sulla spada, non sulla mano, egli fissò i miei occhi. Della sua pena sentii pietà”. 178 La principessa decide di risparmiare l’uomo di cui si è innamorata, facendogli, però, promettere che lascerà subito la sua terra e che non avranno più occasione di rivedersi. Tristano si troverà, però, costretto ad 178
Richard Wagner, Tristano e Isotta, Kalmus & Co., New York, trad. di Franco Serpa (proprietà Fondazione Teatro alla Scala), 2009, atto primo, pp. 7–29.
infrangere il giuramento per obbedire allo zio, re Marco di Cornovaglia, che se ne prese cura in luogo della madre, sorella del re Marco, e del padre Rivalven, re della Britannia, morto in guerra. Torna allora in Irlanda dove si batte, al posto dello zio, per la mano della principessa Isotta, conquistata come pegno di riconciliazione tra i due paesi. ATTO I: la nave inglese è in rotta verso “la verde sponda” della Cornovaglia: “verso ponente vaga lo sguardo; verso levante muove la nave. Fresco soffia il vento verso il nostro paese”, 179 esclama un giovane marinaio. Isotta, vinta per il re Marco, è furiosa per l’affronto subito e fa chiamare Tristano che, turbato, preferisce non raggiungerla. In entrambi divampano e si scontrano sentimenti opposti e, soprattutto, inconfessabili. Così Isotta dopo aver raccontato alla sua ancella Brangania la vicenda che l’ha legata al misterioso menestrello Tantris, che si è rivelato essere Tristano, cioè l’uccisore del suo promesso sposo, le ordina di preparare una pozione letale, affinché la morte ponga fine ai loro tormenti. I due bevono così il filtro che credono essere fatale, ma che in realtà Brangania ha sostituito con un filtro d’amore. Questo priva di significato ogni cosa, al di fuori del loro irreprimibile 179
Ibidem.
sentimento: “presi da spavento, entrambi si guardano nella massima esaltazione, ma in rigido atteggiamento, con gli occhi fissi, nella cui espressione la sfida alla morte cede presto alla fiamma d’amore. Un brivido li afferra. Con un gesto convulso si premono il cuore, poi riportano la mano alla fronte. Si cercano ancora con lo sguardo, lo abbassano confusi e di nuovo lo portano l’uno sull’altra con un anelito crescente”. 180 Quando lo scudiero di Tristano, Curvenaldo, giunge ad avvertirlo dell'imminente incontro col re, il giovane risponde: “quale re?” 181 ormai del tutto rapito dal suo mondo interiore. La nave approda nel porto, ma i due amanti in un indefinibile altrove. ♦ Disposizioni di Wagner: “sul ponte di prora di un vascello, un padiglione riccamente addobbato di tappeti, dapprima completamente chiuso sul fondo; sul lato una stretta scala scende sottocoperta. – Isotta su un giaciglio, il viso premuto nei cuscini. – Brangania, tenendo sollevato un tappeto, guarda di lato oltre bordo”. 182
180
Ibidem. Ibidem. 182 Ibidem. 181
♦ Messa in scena di Appia: “si schiude il sipario. Le mille e mille anime che si precipitano nel gran spazio vuoto come a toccar terra dopo il navigare, s’urtano contro un telone rossiccio, uguale, duro e ruvido quanto un muro: il muro inventato da Appia”. 183 La tenda situata sulla tolda della nave, “ricostruita con meticolosità particolaristica” 184, è resa attraverso un immenso drappeggio rosso scuro, dall’aspetto di una vecchia coltre, che, distendendosi dall’alto in basso, chiude completamente la scena. Isotta e la sua ampia veste azzurra risaltano in rilievo sul fondo scuro e, a causa della presenza della tenda “forse agganciata a qualche costellazione celeste” 185, pare non esserci unità di luogo tra lo spazio in cui Isotta somministra a Tristano – che, da vassallo fedele, accetta il sacrificio, come insegnano
183
Ugo Ojetti, Calvino alla Scala, in Cose viste, 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 85–86. 184 Alceo Toni, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Popolo d’Italia, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 63–64. 185 Carlo Gatti, La prima di Tristano e Isotta, in Corriere della sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 54–56.
le saghe nordiche – il veleno e lo sfondo, senza mare, su cui, poco dopo, appare il vascello.
Bozzetto di Wagner, Tristano e Isotta atto I
Tristan und Isolde atto I, bozzetto di Angelo Quaglio II (1829-1890) per la prima di Monaco, Kรถnigliches Hof- und Nationaltheater, 10 giugno 1865, Monaco di Baviera, Theatermuseum.
Tristan und Isolde atto I. Litografia di Michael Echter (1812-1879) da un disegno di Angelo Quaglio II (1829-1890) per la prima rappresentazione assoluta a Monaco, Kรถnigliches Hofund Nationaltheater, 10 giugno 1865.
ATTO II: nel giardino del castello di re Marco, ormai sposo di Isotta, la principessa, approfittando della battuta di caccia in cui è impegnato il marito, attende ansiosamente Tristano. Brangania le consiglia di fare attenzione, soprattutto a Melot, amico di Tristano ma invaghitosi anch’egli della giovane sposa. Tristano arriva e i due si abbandonano al loro sogno d’amore, rassicurati dalla complicità della notte: “io alla luce del giorno volli sfuggire, e laggiù nella notte attirarti con me, dove la fine dell’illusione il cuore mi prometteva”, 186 confessa Isotta, ed entrambi invocano, così, la loro protettrice, “o quaggiù scendi, notte dell’amore”, che si augurano “duri eterna”, poiché a colui che ha conosciuto la verità “tra gli aridi fantasmi del giorno rimane unico un anelito, l’anelito teso alla santa notte, dove infinita eterna unicamente vera la beatitudine d’amore gli sorride!”. 187 Ma, improvvisamente, un lampo di luce squarcia l’intima oscurità che nascondeva gli amanti: “il giorno! Il giorno! Al tristo giorno, al più duro nemico odio e accusa!”. 188 L’alba del giorno avverso svela così la verità agli occhi increduli del re e 186
Richard Wagner, Tristano e Isotta, Kalmus & Co., New York, trad. di Franco Serpa (proprietà Fondazione Teatro alla Scala), 2009, atto secondo, pp. 30–50. 187 Ibidem. 188 Ibidem.
di tutti i cortigiani: “a me questo? Tristano, questo a me? E se mi ha ingannato Tristano, dove va ormai la fede? Dove l’onore e la leale usanza, se li smarrì Tristano, baluardo di ogni onore?”. 189 Il magnanimo re Marco è profondamente combattuto tra la collera per l’onore colpito e l’amarezza ed il dolore per il comportamento di Tristano, cui lo lega un sincero affetto e che, oltretutto, non è in grado di fornirgli alcuna spiegazione e pare avvertire la sola presenza dell’amata: “colui che l’oscurità della morte amorosamente ha guardato, colui al quale ella in profondo ha affidato il suo mistero: le menzogne del giorno, fama e dignità, potenza e ricchezza, quanto superbe splendano, come secca polvere del sole davanti a lui si sono dissipate!”. 190 Nella stato stralunato di Tristano si rivede quello di un’altra ‘vittima’ dell’amore, Brunnhilde, che, come riporta Porges, osservando le prove de Il crepuscolo degli dei, “is as though lost to the world, a world to which her behaviour is completely unintelligible”. 191 Melot, che ha tradito l’amico conducendo il re da lui e da Isotta, incita il re a reagire, ma suscita, invece, la prima ed 189
Ibidem. Ibidem. 191 Heinrich Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, capitolo Gotterdammerung, pp. 117–145. 190
ultima reazione di Tristano, che si ferisce a morte e si lascia cadere tra le braccia di Curvenaldo. ♦ Disposizioni di Wagner: “un giardino con alti alberi davanti alla stanza di Isotta, alla quale conduce una scala, posta di fianco. È una notte d’estate, chiara e mite. Sulla porta, che è aperta, è infissa una fiaccola accesa. Suoni di una caccia. Sulla scala presso la stanza Brangania spia attenta il corteo di caccia che si allontana. Impetuosamente agitata Isotta esce dalla stanza,verso Brangania”. 192 ♦ Messa in scena di Appia: in luogo del giardino rigoglioso e della magnifica notte estiva, Appia dispone cortine funebri ed un cupo fondale grigio. “Estate, giardino, fiori, profumi, voluttà, questo calvinista spietato li ha cacciati dalle scene come una contaminazione diabolica”. 193 Le nude colonne degli alberi senza fronde sono costituite dalle pieghe di un solo ampio tendone, del
192
Richard Wagner, Tristano e Isotta, Kalmus & Co., New York, trad. di Franco Serpa (proprietà Fondazione Teatro alla Scala), 2009, atto secondo, pp. 30–50. 193 Ugo Ojetti, Calvino alla Scala, in Cose viste, 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 85–86.
colore di una tonaca d’anacoreta, che restringe e soffoca lo spazio scenico. Oltre la dimora d’ Isotta in primo piano, si staglia uno scorcio di muro grezzo, null’altro. Il momento saliente dell’opera, quello in cui i protagonisti si liberano alla più struggente passione, è ambientato nel fondo di un claustrofobico pozzo color fango, dove riesce a stanarli l’occhio della luna (proiettore) che li fissa con il suo sguardo agghiacciante. Sfiorandosi firmano il loro ineluttabile destino. Sono già sepolti, la luna li immortala l’uno nelle braccia dell’altra, per l’eternità, come la coppia di amanti neolitici ritrovata a Valdaro, cui s’ispira una drammatica scena di Viaggio in Italia di Rossellini e a cui, forse, pensa anche Verdi, che proprio nei pressi di Mantova ambienta l’amorosa vicenda del Rigoletto. Isotta spegne la fiamma della fiaccola e lascia che si accenda quella della passione, che ne altera ogni percezione. Attraverso gli occhi degli amanti, tutto appare travolto da una sottile nebbia dai colori tenui, dall’argento all’azzurro. Ma più ci si allontana dagli amanti più la scena si fa buia e le quinte nere e verdastre non s’intravedono neppure.
Finché la luce non risveglia bruscamente gli amanti dall’idillio, pervadendo ogni cosa. Solo la panca – in Wagner “sedile fiorito” – , simbolo romantico, rimane in penombra. Il giardino senz’alberi fa pensare ad un altro secondo atto, quello del Siegfried. Per quest’atto Appia aveva stabilito: “non cercheremo più di dare l’illusione di una foresta, ma l’illusione di un uomo nell’atmosfera di una foresta; […] noi spettatori non guarderemo Sigfrido bagnato da ombre mobili, e nemmeno dei lenzuoli tagliati messi in moto da cordicelle”. 194 Dunque il bosco di Fafner non avrà alberi, ma solo rocce e un tronco, e saranno sufficienti i movimenti dell’attore a suggerire che la scena in cui Siegfried uccide il drago si svolge in una foresta, saranno le luci ad evocare lo stormire delle fronde, non foglie di cartapesta. Non si vuole, insomma, rappresentare l’ambiente in sé, ma la percezione che ne hanno i personaggi. Se disegnassimo nelle nostre menti, seguendo le indicazioni di Appia, uno schizzo di questa scena otterremmo un’immagine 194
Appia, 1900, cit. in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, sezione Pannelli, pannello Siegfried, atto II: foresta (STS Berna), p. 83.
non dissimile pure dai due spazi ritmici, risalenti al 1909, intitolati L’ombra del cipresso e La radura, dei quali Appia scrive: “l’autore […] ha eliminato poco a poco gli alberi lasciando sole le ombre. […] È sufficiente ad evocare tutto un paesaggio”, a proposito del primo, ed “esempio di una foresta semplicemente evocata da tele tagliate e da un’illuminazione appropriata, […] la luce è attutita e modificata a piacere da cartoni tagliati e invisibili e le ombre che cadono sui personaggi possono così diventare mobili. La fusione è completa” 195, del secondo.
195
Appia, 1921, cit. in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, sezione Pannelli, pannello Spazi Ritmici, p. 83.
Bozzetto di Wagner, Tristano e Isotta atto II
“Come si presenta la scena all’alzarsi del sipario: una grande torcia che brilla al centro del quadro. Lo spazio abbastanza ristretto che presenta la scena è rischiarato da una luce diffusa che basta a rendere i personaggi nettamente distinti senza però togliere alla torcia la sua luminosità un po’ accecante, né soprattutto distruggere le ombre che questa luminosità potrebbe produrre” “Wagner ci ha permesso, con Tristano, di vivere la vita passionale dei suoi eroi in modo più completo che in qualsiasi altro dramma. I nostri occhi messi a profitto restano però sempre estranei a questa vita: ‘veggenti’ da un lato, noi siamo delle comparse cieche dall’altro. […] Il filo conduttore della messa in scena di Tristano e Isotta consiste perciò nel dare al pubblico una visione quale è quella degli eroi del dramma”
Appia, atto II Tristano e Isotta, 1896, in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, sezione Pannelli, n. 21, pp. 79–80.
Harry Zaugg, Steffan Rebsamen, plastico atto II Tristano e Isotta, in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia, illustrazioni, D.
Appia, spazio ritmico l’ombra del cipresso, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
ATTO III: sotto l’ala del fedele scudiero, Tristano delira febbricitante tra le rovine del castello. “Rivive la triste esistenza, la fulgida, invitta passione”, 196 l’estremo rifugio degli amanti è la memoria, ultima anticamera della morte. Egli cerca Isotta, la invoca: “Isotta viene! Isotta giunge! […] Il desiderio atroce mi dilania, lo spasimo bruciante mi consuma”. 197 Anche la musica è in preda al delirio ed ecco che, finalmente, lei appare all’orizzonte, accolta da un’allegra cantilena del corno inglese e dall’amato sanguinante: “heia, mio sangue! Scorri ora allegro! (…) Colei che per sempre la piaga a me chiuda, come eroe s’avvicina, s’avvicina a sanarmi!”. 198 Nell’abbraccio tra i due si spegne l’ultimo spasmo di vita di Tristano e, con questo, ogni attaccamento di Isotta ad una vita che, non condivisa con l’amato, non sarebbe che fittizia. Nel frattempo sopraggiungono il re Marco e il vassallo Melot, ma la loro sorte non si rivela migliore. Melot è colpito a morte da Curvenaldo, furioso per la morte del padrone accanto al quale si spegne a sua volta. Mentre il re, 196
Tristano e Isotta alla Scala, in L’Avanti, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 57–59. 197 Richard Wagner, Tristano e Isotta, Kalmus & Co., New York, trad. di Franco Serpa (proprietà Fondazione Teatro alla Scala), 2009, atto secondo, pp. 51–68. 198 Ibidem.
venuto a conoscenza di tutto il trascorso degli amanti, è costretto a rinunciare al tentativo di ottenere il perdono di Isotta, presa totalmente dall’invocazione della liebestod (morte d’amore) che la ricongiungerà all’amato: “odo io sola questo canto, che, sublime e calmo, piangendo felicità, tutto dicendo, mite e rasserenante risuonando da lui, penetra in me, si slancia, gentilmente echeggiando tutta m’avvolge?”. 199 ♦ Disposizioni di Wagner: “il giardino di un castello. Da un lato alti edifici , dall’altro un basso parapetto, interrotto da una torre di guardia; in fondo il portone del castello. Si immagina che il luogo sia sulla sommità di una rupe; per le aperture si guarda su un ampio orizzonte marino. Il castello sembra abbandonato dai suoi signori, negletto, qua e là cadente e coperto di rovi. Al proscenio, dalla parte degli edifici, all’ombra di un grande tiglio è disteso Tristano, addormentato su un giaciglio e come privo di vita. Accanto a lui siede Kurwenal, il quale, dolorosamente chino, spia con ansia il suo respiro. Al levarsi del sipario dall’esterno si ode un motivo pastorale, il suono nostalgico e triste di una
199
Ibidem.
cornamusa. Alla fine compare il pastore stesso, a mezzo busto oltre il parapetto, e guarda con compassione”. 200 ♦ Messa in scena di Appia: “fatta eccezione per i pochi segni indispensabili per l’inquadratura dell’azione, la scena di questo atto deve solo avvolgere un malato come un paravento con il quale Kurwenal protegge teneramente il suo maestro e amico”, 201 indica lo stesso Appia. Il giardino wagneriano si spoglia di ogni rigoglio. Resta un terreno nudo e color di pomice. Non c’è nemmeno uno stecco, figurarsi il grande tiglio che, con la sua ombra, protegge Tristano. L’eroe languisce in un nero angolo del cortile, ai piedi di un palo fatto di rozza lana e chiomato di stoffa: “il tiglio sotto cui Tristano dorme, prende forme tanto inverosimili da sembrare l’avanzo di un tubo idrico superstite al disastro del Gleno”. 202 Il suo scarno frondame è, infatti, realizzato attraverso
200
Ibidem. Appia, 1921, cit. in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, sezione Pannelli, pannello 21, Tristano e Isotta, atto III: il castello di Kurwenal (STS Berna), pp. 79–80. 202 Carlo Gatti, La prima di Tristano e Isotta, in Corriere della sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 54–56. 201
cinque pieghe di un panno color cenere. Il mare, come nel primo atto, non si vede, ma se ne avverte la presenza riflessa dal cielo – Toni parla di “cielo marino” 203 – , che s’insidia nella crepa della cortina del castello. La notte, invocata dagli amanti, si materializza sulla scena, che s’inabissa in un grigiore assoluto. Solo qualche raggio, a tratti, interviene a disturbare i due, annaspando in cerca delle loro membra frementi. In quest’ultimo atto, la poesia raggiunge il proprio apice: “L’aver tenuto invisibile il mare e l’averne lasciato sentire la presenza soltanto con l’apertura del cielo attraverso lo spacco della cortina del castello è un’idea sottile e profonda, che rivela una sensibilità delicata: le figure che salendo sullo spalto si profilano sul cielo acquistano una grandezza nuova. Se del chiaroscuro generale non sarebbe, difficile, gli antecedenti in qualche acquaforte del Rembrandt, l’effetto di parete obliqua, irraggiata dal tramonto, ricorda consimili romantici effetti del Bocklin. […] In quella chiostra
203
Alceo Toni, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Popolo d’Italia, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 63–64.
bockliniana quasi funerea lo strazio del gruppo umano, acquista una severità tragica nuova e degna”. 204
204
Enrico Thovez, Scenarii, Il Secolo, 29 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 96–98.
Bozzetto di Wagner, Tristano e Isotta atto III
Il giardino del castello di Tristano atto III, in Ugo Blatter, Appia e la scena costruita, F.lli Bocca, Roma, 1944, capitolo L’arte scenica di Appia, p. 17.
Qualche nota a proposito della musica: si è intuito come il nodo centrale sia rappresentato dal simbolo psicologico del filtro magico, poiché i protagonisti, nel momento in cui sanno di morire, possono finalmente rivelarsi la passione costretta nei loro cuori. Il tema del filtro d’amore (anche detto dello sguardo) compare infatti sin dall’inizio del preludio, unito a quello del desiderio, ovvero della sofferenza per l’amore taciuto, e si trascina – non a caso Wagner in testa alla partitura non scrive opera o dramma musicale ma handlung – fino all’annichilimento del desiderio passionale nel puro ideale di una felicità universale. Nelle ultime parole di Isotta, in cui la gioia di riunirsi all’amato diviene emblema di questa gioia cosmica, torna, preceduto dal tema del giorno avverso, già comparso nel secondo atto, il motivo del preludio, che distende il suo avvolgente cromatismo in una risoluzione ascendente che si compie, finalmente, nella chiusa risonante di un’armonia perfetta.
Inizio del terzo atto di Tristano e Isotta nell’abbozzo autografo: la pagina è datata 1 maggio 1859 (Bayreuth, Richard-Wagner-Museum)
3.7 La reazione drammatica
Il 21 dicembre il Tristano e Isotta occupa le testate di tutti i più quotati giornali milanesi. Nessun giornalista può trattenersi dall’esprimere il proprio giudizio, che si rivela deleterio nella maggioranza dei casi: “questo Tristano e Isotta ha scandalizzato più di uno spettatore: il vecchio scaligero sapiente di ogni tradizione e come fossilizzato in esse, quanto il nuovo non ancora o solo in parte iniziato ai riti e alle celebrazioni del teatro melodrammatico”. 205 Sul piano musicale lo spettacolo è, però, riconosciuto come un vero evento, tanto che Il Sole dirà che gli unici spettatori riusciti a goderne siano stati quelli che non badarono che al rapimento musicale e un giornalista de La Sera confesserà di aver dovuto “chiudere gli occhi per godere, nella raccolta immaginazione di un quadro più adatto, la scena indimenticabile d’amore” 206 dell’ultimo atto. Il lavoro di Toscanini, che aveva già diretto il Tristano alla Scala nel 1901 e nel 1907, è apprezzato da tutti, ma sono, 205
Alceo Toni, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Popolo d’Italia, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 63–64. 206 G. M. C., Tristano e Isotta alla Scala, in La Sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 68–69.
al contrario, in pochi a condividere la fiducia che egli aveva deciso di concedere ad Appia – “se non fosse sempre lodevole il senso avanguardistico che spinge la Direzione della Scala alle maggiori audacie rappresentative, ci sarebbe da fare le meraviglie per il suo consenso a tale arbitrio” 207 – e che, nonostante le opposizioni, continua a dimostrargli mantenendo in repertorio lo spettacolo, che andrà in scena per altre cinque volte distribuite nello spazio di un mese (il 22 dicembre per l’abbonamento serie B, il 29 per l’abbonamento serie A, il 2 gennaio, il 5 gennaio come serata popolare fuori abbonamento ed il 13) e reinvitandolo per il progetto (che non fu poi realizzato) dell’ Orfeo ed Euridice di Gluck. Nel corso delle repliche il pubblico pian piano metabolizza la delusione, coglie ulteriori aspetti dello spettacolo e ne discute, riuscendo, infine, ad apprezzarlo almeno in parte o lasciandosene, in ogni caso, coinvolgere, che sia per elogiarlo o per condannarlo. Scrive Carlo Gatti:
“Tristano e Isotta, il più profondo e vorremmo dire sentito fra i drammi musicali wagneriani, si afferma oggi quale realmente
207
C. F., Tristano e Isotta alla Scala, in Il Sole, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 70–71.
è: un capolavoro che non altrimenti può essere rappresentato né intensamente goduto senza quel concorso perfetto delle diverse arti sul quale Wagner tanto contava. Concorso complesso che, in ultima analisi, vuol dire esecuzione sia musicale che scenica. Ora, nel Tristano udito ieri alla Scala, l’elemento sinfonico, quale al musicografo francese Marnold [che relegava il Tristano fra le opere nate per essere eseguite nelle sole sale da concerto] parve costituire l’essenza unica del capolavoro wagneriano, riuscì davvero a primeggiare, grazie alla bacchetta meravigliosa del Toscanini. Nei valori estetici esecutivi di questo Tristano,l’orchestra, espressiva, potente, elastica, si prese quella che comunemente si dice la parte del leone” 208,
il che non differiva, in fondo, dal proposito che guidava la gestione della messa in scena da parte di Appia. Ma la sostanziale contraddizione che vincola la riuscita dei lavori di Appia e che ne angustia la persona, si trasmette anche alla critica. Tolstoj, secondo quanto esprime nel saggio Che cos’è l’arte?, attribuirebbe al fatto un’accezione positiva, giudicandolo un sintomo del valore artistico del lavoro, dato che l’autore è in grado di trasmettere ad altri il suo sentimento
208
Ibidem.
e questo è il precetto cui l’arte dovrebbe attenersi per essere definita tale. Anche Wagner, scrivendo ne l’Opera d’arte dell’avvenire che l’arte moderna può redimersi solo “uscendo dall’isolamento della sua essenza incompresa verso la comprensione universale della vita pubblica”, 209 pare alludere all’importanza del fatto che l’artista riesca a comunicare la propria ispirazione. Purtroppo, però, molti critici ne fanno un punto a sfavore dell’artista. Dice infatti Gatti:
“Appia è uno studioso, un idealista in senso metafisico ed è anche se vogliamo un po’ poeta. Finché Appia scrive libri […] egli può fino ad un certo punto aver ragione. La scena non deve essere una esposizione di cartoni colorati; ha bisogno di calcolare nella terza dimensione, mettersi in rapporto col personaggio vivente, intonarsi con lo stato d’animo dei personaggi, fino ad esteriorizzarlo, come fa co’ suoi mezzi la musica. Ma, a proposito del Tristano e degli altri drammi musicali del maestro di Bayreuth, Appia vuol essere più wagneriano di Wagner. Secondo la sua teoria, lo scenografo dovrebbe tener conto soltanto delle condizioni astratte del dramma wagneriano, perché in esse, Wagner fixait tacitement les conditions représentatives. […] Le didascalie, dunque, 209
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, p. 282.
apposte da Wagner nella partitura a chiarimento dei luoghi e del modo di rappresentazione; la visione scenica fissata da Wagner nel teatro modello di Bayreuth, non conterebbero più nulla. Volete sapere come il dramma di Tristano e Isotta debba essere rappresentato, chiedetelo alle anime dei due protagonisti. Il loro pessimismo, l’eroismo della rinuncia, la voluttà dolorosa e la negazione finale della vita, Schopenhauer e il contenuto filosofico del meraviglioso opus metaphysicum si tradurranno in una specie di metafisica della scena”.210
Ma “in pratica, che avviene? Il pubblico non s’accorge del senso simbolico cercato nei contrasti di luce e di oscurità, nella persistenza delle oscurità e di altri particolari scenici. Scorge innanzi a sé il fatto reale; e poiché di questo e soltanto di questo, subisce l’impressione, anzi che ambientarsi finisce a trovarsi disorientato”. Certi particolari sono, effettivamente, tanto simbolici quanto inverosimili: “certi tendaggi sospesi nell’aria non si sa che ci stiano a fare in un
210
Carlo Gatti, La prima di Tristano e Isotta, in Corriere della sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 54–56.
giardino”, ma questa era esattamente l’intenzione di Appia, sprezzante, come l’autore dell’opera, verso ogni forzato realismo, che sarebbe parso ancor più assurdo di quanto lo fossero delle tende volanti. Per quanto concerne, invece, l’ispirazione a Schopenhauer, Wagner, nel periodo di stesura del Tristano, ne è sicuramente influenzato, ma non per questo applica nell’opera quelli che sarebbero stati i consigli del filosofo. Wagner condivide pienamente le convinzioni di quest’ultimo; nell’ Opera d’arte dell’avvenire si legge: “il cuore racchiude i sentimenti dell’amore e del desiderio nella loro essenza infinita, […] eternamente insaziabile, eternamente avida e in continua, rinnovellata agitazione”. 211 Ai due innamorati il filosofo non prescriverebbe, però, nessuna pozione di morte che li liberi dalla loro frustrazione, ma, semplicemente, di ignorare e negare i propri desideri, come professavano pure il Buddhismo ed il Cristianesimo delle origini. Tristano e Isotta, invece, non fuggono per nulla la loro passione ma la assecondano, seppur segretamente – il che tradisce ulteriormente la morale del filosofo – .
211
Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, introd. di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983, paragrafo Il popolo e l’arte.
Sentenzia infine il critico Gatti: “così […] i libri e le teorie dell’Appia, attraenti per sé e dettati da uno spirito mirante ad un’arte più del solito profonda, non danno, in pratica, i risultati promessi. Fortunatamente per le sorti dello spettacolo, la musica ieri soggiogò il pubblico come al solito magnifico delle premiéres; e la superba esecuzione orchestrale ebbe la potenza di richiamare sopra di sé l’intensa attenzione dell’uditorio, scuoterlo, commuoverlo anche ogni volta che da una pagina divina sgorgava, come una rivelazione, l’onda dei suoni dell’orchestra diretta da Toscanini; le maggiori acclamazioni della serata furono quindi dirette a lui”. 212 Per rendersi conto del successo ottenuto in particolar modo dall’orchestra, basta infatti prendere atto, come fa Lualdi, della reazione del pubblico: “cinque chiamate dopo il primo atto delle quali due, abbastanza calorose, agli artisti e tre unanimi ed entusiastiche all’apparire del maestro Toscanini” e così dopo il secondo e dopo l’ultimo atto, “con i medesimi sbalzi di temperatura”. 213 Qual è la base dell’arte di Toscanini, “il 212
Carlo Gatti, La prima di Tristano e Isotta, in Corriere della sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 54–56. 213 Adriano Lualdi, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Secolo, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 65–67.
semplice e grande segreto che permette al maestro di imprimere una vivezza e varietà di carattere nelle sue interpretazioni?”, immagina Lualdi che i suoi lettori e gli spettatori si chiedano. È “liberare il melos wagneriano”, ovvero individuarlo e metterlo in piena evidenza. Ma ciò che Lualdi ritiene sia stato “monumentale” nell’ esecuzione dell’orchestra scaligera, è il “profondo senso di poesia e d’amore che ha avvolto ieri sera tutta la tragedia di Isotta e Tristano”. Il veemente articolo che appare su L’Avanti ne è, ancora, la conferma:
“se la magica bacchetta di Toscanini suscita dal profondo i suoni incantatori, sveglia all’amore i prodigiosi amanti, come non sentire – io ve lo chieggio: – come non sentire lo spasimo di quella passione indomabile, […] come non fremere ad accenti d’odio che sono gridi d’amore; come non esaltarci presso le divine anime che, credendo d’aver bevuta la morte, osano rivelarsi il lacerante segreto?! […] Poema immortale, ancora e sempre nella mirabile evocazione di Arturo Toscanini; ma a lui, a lui soltanto, a Toscanini, alla sua agile, poderosa, evanescente, sensibilissima orchestra, fu rivolto ieri sera, l’applauso incondizionato della folla esaltata e commossa. Gli artisti – ahimè – appagarono meno; e la messa
in scena – ah! la messa in scena – goffa, ignobile, pretenziosa, oppresse la vista, avvelenò l’incanto, s’affaticò a disperdere ogni suggestione!”. Insomma, “quanto alla messa in scena […] – ahimè! – son dolori…”. 214
Un’altra polemica avanzata da molti concerne il minimalismo che regna sovrano in ogni scena. Il critico Thovez si chiede, uscendo da teatro dopo una delle ultime repliche del Tristano, cosa, in particolare, lo abbia ripugnato. “Mi ripugna”, si risponde, “ciò che ripugna alla maggior parte del pubblico e che ha provocato ire, proteste e umoristiche derisioni: la rudimentalità puerile di certe forme sempliciste,volutamente rigide e povere, i muri che sembrano gradini tagliati in una forma di cacio, gli alberi che arieggiano colonne di latta, il fogliame sostituito da cortinaggi”. 215 Ma per l’autore dell’articolo su L’Avanti questo non sembra che un trascurabile problema, rispetto a tutto il resto: “passi il primo quadro meschino, e nulla più; ma chi poteva concepire scenario – ma che sintetico! – più antiestetico, disgustoso, 214
Tristano e Isotta alla Scala, in L’Avanti, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 57–59. 215 Enrico Thovez, Scenarii, in Il Secolo, 29 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 96–98.
inverecondo,di quello del secondo atto? Chi? ma l’autore del terzo quadro!” Di questo il critico continua a parlare in termini drasticamente negativi, dipingendolo come un presuntuoso profanatore:
“è Wagner, autore della musica, autore del libretto, è Wagner che scrive le didascalie e compone lo scenario del suo Tristano; è lui che precisa ‘albero di tiglio’ piuttosto che un baobab, un pero o un castagno; che vuole erbe selvagge, ruderi e rovine! Perché un signor Appia pretende regalarci – in luogo di un quadro definito, che, nella mente del maestro, aveva rapporti e rispondenze con l’azione scenica – questa specie di collettore da cloaca massima, questo immenso budello, quel fondo di pozzo... nero, che vorrebbe essere lo spiazzo del castello di Kareol?! Se ne stacca un gran fungo color cacao; ed è lì sotto che Tristano, ha da morire; nero su bigio, bigio sul nero con un quadrataccio luminoso, aperto su un cielo rosso giallastro. Anche il ‘giardino’ del secondo atto […] è tradotto dal signor Appia con una squallida muraglia tagliata da un’angusta porticina d’apparenza sospetta fra tendaggi di color sporco, che nel tenebrore non riesci a distinguere se sono dighe, piloni o palizzate, e bigio, grigio, foscaggine, coi soliti proiettori in funzione, e niente del folto parco, niente della ‘chiara, deliziosa notte d’estate’ che Wagner vede, che
Wagner vuole, che nel pensiero di Wagner dovrebbe concorre ad infondere dolcezza, languore, voluttuoso incanto al duetto d’amore!”. 216
La scelta di affidare a tonalità cupe il dominio della scena è discutibile anche secondo Il Popolo d’Italia: “perché quel colore di topo bigio diffuso in tutta questa scena? Se si dovesse esprimere con un colore l’espressione generale dal languido e parossistico atto d’amore del Tristano non si ricorrerebbe ai toni afrodisiaci del verde di un giardino sommerso nella luce lunare?”. 217 Il critico de L’Avanti getterebbe, comunque, tonnellate di “bigio” cemento su tutte le scenografie dell’artista, che, a parer suo, oltre a tradire l’intenzione del maestro, riducono pure la portata emotiva del dramma. Eppure dall’incipit dell’articolo si deduce tutt’altro. Se l’autore non si fosse emozionato abbastanza, non si sarebbe di certo abbandonato a un linguaggio tanto lirico come questo: “infine, gemma fra le 216
Tristano e Isotta alla Scala, in L’Avanti, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 57–59. 217 Alceo Toni, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Popolo d’Italia, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 63–64.
gemme, ci afferra lo spasimo di bocche che si cercano, d’anime che si confondono e insieme, – struggimento inestinguibile – l’ansia di protendersi verso la meta ideale: la morte, l’eternità!...”. Tuttavia insiste, sempre più sarcastico: “ma il signor Appia sente così: il signor Appia non vuol distrarre lo spettatore dalla figura fisica dei protagonisti, dal ‘corpo vivente’ che ‘ci si impone come strumento incomparabile ed onnipotente d’espressione’. (Anche se è secco come una sardella, o adiposo, naticuto e ventruto come un Budda?)”. I fisici asciutti degli attori, sottoposti da Appia a prove effettivamente estenuanti, non rientrano nei gusti estetici del giornalista. Ma non crediate che le invettive terminino qui:
“il signor Appia ficca questo ‘corpo vivente, al quale ogni sacrificio è ben dovuto’, in un’atmosfera informe, incongrua, imprecisabile, dove oggetti inanimati, ma ben definiti: la coppa, la spada, lo scrigno, la fiaccola, porte, scale, finestre ed armature, si associano a tendaggi simbolici, ghiribizzosamente danneggiati, che vorrebbero significare – indifferentemente – alberi fronzuti, giardini, muraglie, fontane o vulcani in eruzione! Come se un quadro, un paesaggio: cielo, mare, montagne, prospettati con arte, non avessero, pur nella
loro fissità, elementi squisiti di suggestione! Goffe e mostruose rigatterie simili, per non distrarre il nostro comprendonio! Accipicchio! Ma nessuno mai, nemmeno la caravella ballonzolante del Cristoforo Colombo, ci ha disturbati, sconvolti, depressi quanto queste diavolerie supertrascendentali del signor Adolfo Appia! Il duetto d’amore su un terrapieno di cemento armato! La morte di Isotta e di Tristano in fondo a un imbuto!”. 218
Il critico pone poi un'altra questione, più o meno condivisibile, relativa all’essenza stessa dell’opera. Dalle sue parole pare che Appia abbia travisato anche questa: “ma poi, perché tanto squallore, tanto grigiore, tanta desolazione di tinte opache, buie, uniformi che s’accentuano d’atto in atto in questo Tristano e Isotta?! Ma il Tristano e Isotta non è una tregenda, non è un incubo; è piuttosto un’apoteosi. […] Angosciosa e lacerante alle prime scene, si fa, poco a poco, più pacata, serena fin gaudiosa, man mano che gli incomparabili amanti tendono a spiritualizzarsi nella morte!...”. Insomma, “no, non ci seduce il superintellettualismo dei scenari sintetici di Adolfo Appia. Ridateci i nostri fondali ampi, luminosi con boschi, prati e giardini; piante fronde e foglioline così che non sembri 218
Ibidem.
assurdo che Isotta mormori lieta a Brangania: “T’illude del fogliame la sussurrante canzone, che ridendo agita il vento” ”. Ma, mentre tutte queste valutazioni hanno carattere relativo e possono facilmente confutarsi, poiché, ad esempio, la vicenda rappresentata può apparire ad alcuni tragica e ad altri un religioso trionfo e le parole di Isotta, “suprema letizia!... Nell’ondeggiante oceano, nell’armonia sonora, nell’alitante Tutto, naufragare, affondare incosapevolmente...”, possono essere lette come un “inno di beatitudine”, ma pure come un disperato delirio di fronte al destino nefasto cui il tirannico amore ha condotto lei e l’amante – Paribeni parla di “sofferenza rinnovata e purificatrice”, ma pur sempre di sofferenza e Porges annoverava tra i talenti di Wagner quello, che lo accomuna a Shakespeare e Goethe, “of presenting the tragic with a frightening objectivity bearing no trace of sentimentality” 219 – , c’è una questione su cui il meticoloso Appia pare aver davvero trasalito. È suggerita dallo stesso spietato giornalista: “la signora Nanni Larsen e il tenore Stefano Bielina […] non mancano di buone intenzioni; hanno voci sufficiente; non dico, un po’ ingrata, un po’ opaca, talvolta, ma sufficiente; difettano però entrambi d’espressione, 219
Heinrich Porges, Wagner Rehearsing the ‘Ring’, trad. di Robert Jacobs, 2009, p. 140.
e sono traditi dall’accento esotico che rende troppo spesso strane e incomprensibili parole che in Wagner bisognerebbe sempre sentire... Ne abbondano in finezze interpretative; sono monotoni e grigi anch’essi come gli scenari: sordi alle sfumature del pensiero e del sentimento musicale: troppo freddi o stilizzati nel gesto”. Sembra, dunque, che la recitazione degli attori, come Appia l’ha teorizzata, abbia qualche pecca o esalti troppo certi aspetti, come la fisicità degli attori, data la capacità espressiva del corpo in movimento, a scapito di altri, come, appunto, la recitazione in sé, di cui è pure innegabile il potere espressivo. Manca, insomma, una precisa chiarificazione su come gli attori dovessero recitare – sempre obbedendo all’imperativo di assecondare l’esperienza musicale, senza aggiungerle nulla – . “Come potrebbe un pubblico italiano […] rinunciare alla bellezza dell’elemento che predilige, pel quale egli possiede una rara immediatezza di appercezione, e senza il quale difficilmente si commuove e s’accende?”, fa, appunto, notare Gatti, che degli interpreti dice: “Nanni Larsen […] possiede una figura assai adatta a rappresentare l’eroina wagneriana. La sua voce è simpatica di timbro, sale senza sforzo e, spiegandosi squillante allorché tocca il registro acuto, possiede l’intensità
necessaria. Negli altri registri invece la Larsen canta sì, ma senza scolpire la parola. […] Il colore della voce del Bielina è quello del tenore cosiddétto eroico. Ma gutturale, com’essa è, questa voce vibra difficilmente, ed ancora più difficilmente serve a trasfondere nell’uditore quel calore interno che il canto di Tristano richiederebbe”. 220 Dello stesso pensiero sono il critico de L’Avanti: “povera è l’espressione del canto insieme alla voce aspra, disuguale ed alla intonazione non sempre felice e perfetta: sono quelle inflessioni di voci febbrili, ardenti, soavi o tempestose che noi vorremmo sorprendere nel canto di Tristano da quando solleva la tenda d’Isotta a quando le spira fra le braccia. Così è d’Isotta”, che, “se mentre crede di odiare Tristano ha gesti e movenze d’una insistente ed eccessiva nervosità, ci sembra troppo frigida ed uguale quando potrebbe abbandonarsi con appassionato ardore a Tristano ed il suo ultimo canto difetta, ci sembra, di quel mistico lirismo, di quella pura soavità che ne è la significativa bellezza”, quello de L’Ambrosiano: “il violento e automatico gestire della signora Larsen, il timbro rigido e poco espressivo della sua voce, allontanano dalla odierna raffigurazione d’Isotta tutta quella 220
Carlo Gatti, La prima di Tristano e Isotta, in Corriere della sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 54–56.
appassionata femminilità che da altre interpreti vedemmo con successo cercata. Furibonda drammaticità la sua, che potrebbe convenire forse a un’Elettra, ma non all’eroina dell’amore”, e, ancora, de Il Popolo d’Italia: “dove fu la superba e regale fierezza d’Isotta, l’accento direi quasi affannoso come presentimento tragico del suo palpitare amoroso? Dove l’impeto travolgente di Tristano e dove la lancinante frenesia erotica d’entrambi e il loro sublime trasumanare, si può dire, nella catarsi dell’ora mortale? Alla signora Larsen […] manca […] la calda comunicativa, mentre al tenore Bielina fa difetto non solo la voce, […] ma, soprattutto, lo spirito artistico capace di animare col maschio accento necessario e la forza passionale l’anima canora di Tristano”, e de Il Secolo: “c’è nella sua interpretazione [della Larsen], anche vocale, qualche cosa di molto esteriore e scomposto ed esagerato - stavo per scrivere esasperato - che contrasta fortemente con la larghezza di modellazione, e la vita tutta interiore, e il carattere statico dell’eroina wagneriana”. Analizzando l’interpretazione dei cantanti non si può non tenere a mente, fa notare ancora il giornalista de Il Secolo, l’‘italianità’ di questa particolare opera wagneriana, italianità
che della Larsen non è propria né geneticamente né artisticamente:
“è vero che Wagner si è notevolmente allontanato, nel ricreare Isotta, dalle tradizioni medioevali del troviero Thomas e di Béroul e di Goffredo di Strasburgo, che davano ad Isotta la Bionda un’anima non solo capace di immenso amore e di grande ira, ma aperta, anche, ad ogni più squisita leggiadria e ad ogni astuzia femminile; è vero che Wagner ha voluto togliere, alla sua eroina, quelle grazie e quei profumi e quella levità d’animo di cui l’avevano adorna i trovatori e i trovieri provenzali e fiamminghi. Ma è anche vero che, nello stesso momento in cui Wagner immaginava e creava una Isotta teutonicamente energica e fiera, pur nella sua passionalità, pensava al Teatro italiano di Rio de Janeiro e a cantanti italiani per l’esecuzione. Dolcezza di voce anche nei momenti di forza, dunque; e varietà grande, soavità di espressioni e di colori; e femminilità niente affatto priva di grazia e di sensualità. Come in gran parte della musica, insomma”. 221
221
Adriano Lualdi, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Secolo, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 65–67.
Sull’ “influsso italiano” si sofferma anche La Sera, rintracciandone un segno non tanto nel “fatto contingente” che Wagner componendo pensasse a cantanti italiani, quanto in quello “essenziale dello slancio lirico e dell’ampiezza canora delle parti melodiche: che cosa è più italiano, […] più patetico, al modo che fu ‘sentito’ dai nostri operisti dell’ottocento, dell’invito di Tristano […]: ‘Tristano va in esilio... vuoi tu seguirlo, Isotta?’. Persino il sistema del motivo conduttore che nell’Anello e ne I Maestri è prevalentemente fondato sugli strumenti, qui trova la sua radice in frammenti del canto umano. Comunque sia, Tritano e Isotta è fra tutte le creazioni wagneriane quella che più compiutamente aderisce al nostro spirito latino, meglio dirò, al nostro sentimento”. Tutti si mostrano, però, riconfortati dalle altre interpretazioni: “sembrarono deliziose oasi vocali le larghe frasi di Brangania che veglia sugl’immemori amanti. La voce della signora Capuana – una vera voce – si librava dolce sull’ampio alitare sinfonico, e l’equilibrio d’interesse tra gli strumenti e il palcoscenico si stabiliva spontaneo, grazie alla proporzionata bontà dei mezzi. La stessa impressione ci è venuta dal canto del baritono Franci (Kurvenaldo) e del basso Pinza (Re Marke)”. In definitiva, il
risultato raggiunto alla Scala risulta “opposto a quello che Wagner vagheggiava” se si tiene in considerazione quanto egli lasciò scritto dell’interpretazione del suo Tristano, Luigi Schnorr: “dalla prima all’ultima battuta, tutta l’attenzione, tutto l’interesse, si concentravano esclusivamente sull’attore, sul cantante, come fossero incatenati alla sua persona; che non si ebbe un solo istante di distrazione per una semplice parola del testo; anzi che l’orchestra scompariva completamente davanti al cantante, o piuttosto l’una o l’altra, sembravano avviluppati dalla stessa esecuzione”. Nel teatro milanese si è avverato l’esatto contrario: “la partitura orchestrale ci ha parlato con voce di tanto più espressiva e commossa dei personaggi e della visione scenica, […] tutto ha dominato la possente ondata melodica dell’orchestra e il suo pilota Toscanini”. “E la tanto attesa messa in scena dell’Appia?” Con un brillante paragone, Paribeni rende l’idea dello stravolgimento che questa, assieme alla molle interpretazione dei cantanti, ha recato all’opera, rispetto al ricordo che se ne aveva sulla base delle rappresentazioni precedenti (compresa la prima di Monaco): “se v’accadesse di assistere allo spettacolo di una natura più
degli uomini commossa per le umane sventure; se vedeste i cipressi piegarsi e piangere sulle tombe […] e se con questa strana sensibilità della serena anima del mondo dovesse paragonare l’indifferenza di quella dei vostri simili, non direste forse che un meraviglioso, ma non desiderabile, destino abbia capovolto l’ordine naturale delle cose terrene? Ebbene a un fatto, certamente meno miracoloso, ma non meno inaspettato, abbiamo assistito ieri sera alla Scala”. Dunque “dovremmo”, continua il critico, “ringoiarci in silenzio la predilezione per il sintetismo, tante volte da noi propugnato?”. Sono necessarie due premesse: la prima consiste nel precisare cosa s’intende per “sintetismo”, la seconda nel chiedersi se questo sia adattabile ad ogni situazione artistica. Chiarisce allora Paribeni: “noi riteniamo che la concezione sintetica della scena esiga un preciso richiamo ad immagini note all’esperienza visiva” e “la stoffa non è fogliame, lo spalto di una prigione non è la facciata di un castello regale, il drappeggio posto sulla tolda d’un vascello non può essere più alto dell’albero maestro, tranne che non ne tengano il lembo i gabbiani col becco”, inoltre, “ci domandiamo se un giuoco arbitrario di fantasia interpretativa sia lecito verso un autore, come Wagner, che ha lasciato minutamente descritto quanto si
riferisce alla messa in scena delle sue opere”. Certe considerazioni, dal tono che non lascerebbe prospettare un happy ending, si chiudono, invece, su una nota positiva, che accenna – non troppo velatamente – anche una critica al preponderante atteggiamento conservatore: “ma questa volta si trattava di esperimenti, e naturalmente noi – tanto circospetti a farne con italiani – abbiamo cominciato da uno svizzero”. Anche il critico Toni tenta di avvicinarsi alla definizione più corretta di “sintetismo”: “le scene dell’Appia sono figurazioni sintetiche: svolgono cioè un tema pittorico condensando e parafrasando in modi e forme soggettive quasi sempre irreali la realtà visiva”, ma “che cos’è questo sintetismo […] che crea e scompone la realtà al di fuori assolutamente della loro essenza e consistenza positiva? Sintetizzare non è snaturare; parafrasare non è distruggere, idealizzare non è invertire o pervertire i termini donde la idealizzazione avviene”. 222 Secondo quanto afferma Toni, sarebbe lo stesso Appia a non aver colto il significato corretto di “sintetismo” e a parlarne impropriamente. Di conseguenza tutte le sue operazioni, etichettate come sintetiche, non troverebbero più una 222
Alceo Toni, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Popolo d’Italia, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 63–64.
giustificazione plausibile. Continua Toni, alludendo al carattere eccessivamente astratto delle scelte scenografiche: “non si vuole né in teatro né in qualsiasi altro mezzo di espressione artistica la verità fotografica. L’arte è per sua natura propria poesia: l’apparenza idealizzata delle cose: la loro sostanza eterna o immateriale se così vi piace, ma non un’operazione esoterica”. Dalla prospettiva del giornalista le scelte di Appia appaiono addirittura sacrileghe – “si è gridato all’arbitrio stolido, se non proprio al sacrilegio” – , considerando il convinto asservimento al realismo che egli riconosce nel modus operandi di Wagner, il quale “fissò esattamente ed inequivocabilmente i termini delle sue modalità rappresentative. Tutto, per esse, dev’essere concreto e tangibile. […] A bene osservarlo il melodramma wagneriano segue nel suo processo creativo gli andamenti della oggettivazione verista. Ha il mormorio dell’onda se accenna allo scorrere lieve del ruscello; lo squillo degli oricalchi se appare il guerriero…” Ma “se l’Appia non è riuscito – secondo me – a realizzare nulla che in sé sia totalmente accettabile, per l’ibridismo ed il compromesso stilistico [tra un quadro scenico nuovo e quello originale e consuetudinario] di cui s’è detto, non è detto che
l’idea da cui è partito sia da abbandonarsi e da rigettarsi�, prosegue Toni, alludendo alla solita discrepanza tra pratica e teoria.
Tristano e Isotta alla Scala, 1923, foto di scena, in Vittoria Crespi Morbio, Appia alla Scala, Umberto Allemandi & C.,Torino, 2011, p. 24.
3.8 Il bilancio della catastrofe ed i primi raggi della luce del nuovo giorno
A non prendere, invece, per nulla in considerazione l’aspetto teorico è Lualdi. Eppure quest’ultimo esprime sulla messa in scena di Appia, e sono in pochi a farlo, delle opinioni positive: “non discuto di teorie di Adolfo Appia. […] Guardo i risultati artistici. […] Guardando il palcoscenico con occhio sensibile ai bei contrasti o alle belle armonie di toni e di colori si deve riconoscere che vi sono momenti nei quali gli effetti raggiunti sono dei più felici: il forte e grandioso rilievo della bella dai capelli d’oro e dall’ampia veste azzurra sul fondo rosso della tenda; l’istante in cui nel second’atto, Isotta spegne la falce, e allora scena e persone sono tutta una sinfonia delicatissima di grigio argento e di azzurri; il potente disegnarsi dell’ombra di Kurnevaldo, nel terz’atto, sul muraglione della torre, quando il fedele di Tristano avvista e annuncia la nave d’Isotta”. 223 Il critico ridimensiona anche “i fatti tutti esteriori” che in teatro aveva sentito deprecare tanto, ovvero “la tenda del primo atto, troppo grande per un vascello così piccolo, i panneggiamenti di 223
Adriano Lualdi, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Secolo, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 65–67.
fondo del II atto che non la danno ad intendere a nessuno, perché neanche il più fantastico e suggestionabile spettatore potrà mai vedere in essi né un giardino, né un bosco; l’albero cresciuto in casa, e il mare che non si vede all’atto terzo. Nessuna osservanza delle didascalie di Wagner dunque; ma pazienza”, dice Lualdi, “Adolfo Appia ha voluto interpretare”. Si potrebbe invece sottolineare alcune “disarmonie”, quali “la coraggiosa iperbole della tenda contrapposta alla timidissima esecuzione del vascello, che non è né vero, né falso; né analisi, né sintesi; un tronco d’albero plastico, e non molto dissimile da quelli veristi delle solite messe in scena, contrapposto a tendaggi assai ben disposti, riuscitissima sintesi del frondeggio. Ma anche queste cose hanno un’importanza relativa”. 224 L’unico errore, che non può non riconoscersi come tale, sarebbe invece il “profondo insanabile dissidio che esiste fra lo spirito e lo stile del capolavoro wagneriano e della umanità in esso rappresentata, e lo spirito e lo stile della messa in scena che ieri sera abbiamo veduta. […] Wagner ha dato al mondo, con Tristano e Isotta, l’opera d’arte forse più rappresentativa e completa del Romanticismo tedesco. […] Nella costruzione del dramma, come nelle risonanze autobiografiche [come è noto e 224
Ibidem.
come ricorda La Sera, quest’opera è stata “spremuta a Riccardo dallo strazio inconsolato per la inesorabile separazione da Matilde” 225] che danno alla passione dei due eroi una così travolgente forza di vissuta umanità, come nella sostanza e nella straricca forma musicale, tutto appartiene al più alto spirito romantico”. E che cosa ha ‘combinato’ Appia? “Al colore ha contrapposto l’assenza di colore; all’esuberante ricchezza, la più striminzita sintesi; al focoso romanticismo del passato la più gelida celebrità moderna. Riccardo Wagner col suo gran cuore romantico aspirante al Medioevo, si è impossessato di alcune figure medioevali e con esse ha istoriato una meravigliosa vetrata portentosamente ricca e sfolgorante di colori e di luci preziose. Ma Adolfo Appia con le sue tende e i suoi panneggi, ha tolto quasi completamente, a questa vetrata, la sua forza maggiore, il suo necessario mezzo di vita: la luce del sole” 226. La Sera giudica invece intollerabili il contrasto tra il “neutro della tenda eccessivamente ampia e la realtà […] della nave”, il bosco che “non c’è”, il sedile fiorito
225
G. M. C., Tristano e Isotta alla Scala, in La Sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 68–69. 226 Adriano Lualdi, Tristano e Isotta alla Scala, in Il Secolo, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 65–67.
che “non è fiorito”, il frammento di castello, che ritiene “un’ala di assai umile architettura per un palagio dugentesco di re”, l’albero in un luogo chiuso non chiaramente identificabile, ed infine l’arbitrarietà del “gioco delle luci”, poichè “la suggestione che l’inscenatore se ne ripromette è soggettiva: il pubblico non la sente”. Il giornalista individua l’ostacolo maggiore al lavoro dello scenografo nell’ “l’ampiezza eccezionale della scena scaligera, certo troppo greve per un dramma così statico com’è Tristano e Isotta”. Ma al finale dell’articolo riserva un commento positivo: “magnifici invece i costumi, specialmente quelli di Isotta che la regale figura della signora Larsen pose squisitamente in valore”. 227 Trova i costumi “talvolta assai belli” anche Gatti, incapace di “negare che certe colorazioni negli sfondi non riescono gustose e che si intonino piacevolmente coi costumi degli attori (…) e che la sobrietà delle linee di questi quadri scenici non giovi al gestire misurato dei personaggi”. 228 Anche a questo la scenografia di Appia è, però, apparsa nel complesso poco rispondente alle 227
G. M. C., Tristano e Isotta alla Scala, in La Sera, 21 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 68–69. 228 Carlo Gatti, Ripresa di opere. Tristano e Isotta, in L’Illustrazione italiana, 30 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 82–84.
intenzioni e allo spirito dell’opera wagneriana. Il critico ne spiega i motivi che, anche a parer suo, nascerebbero dalla mala interpretazione del sintetismo, che, all’epoca, in molti si proponevano di attuare, con risultati anche palesemente forzati:
“si è ripetuto tante e tante volte: la scenografia deve rinnovarsi, deve ridiventare semplice; così la fantasia dello spettatore potrà sciogliere libera il volo. Eh sì; ne abbiamo avuta una prova convincente degli scenari dell’Appia! Più semplici non si sarebbero potuti desiderare; ma di volare con la fantasia non c’è stato modo. […] Drappeggi e drappeggi, ancora e sempre, dappertutto, disposti ad arbitrio. Sarà rinnovare, questo; ma rinnovare contro Wagner. Tutti sanno quale formidabile ideatore di quadri scenici sia stato il Wagner. Max Nordau (non precisamente in qualcuno dei suoi Paradossi) si compiaceva di sostenere che la vera grandezza di Wagner è la sua grandezza di pittore. […] Adolfo Appia contesta che Wagner abbia considerato giustamente i valori pittorici apportati nell’opera sua. E rifà i calcoli a modo suo – quanta geometria nelle sue scene – ma, per noi, li sbaglia. Intanto,gli occorrerebbe una tavola d’operazioni più ristretta di quella del palcoscenico della Scala; inoltre, alcuni elementi su cui fonda i suoi calcoli dovrebbero essere meglio scelti. Vogliamo accennare alle luci, […] che piovono o profilano
dall’alto o di fianco senza ragioni plausibili: solo perché servono qua e là ad ottenere qualche buon effetto”. 229
Queste conclusioni avvicinano Gatti ai sacerdoti di Wagner, di cui un altro critico, Calzini, in un articolo ricorda la salda posizione: così “intervengono i sacerdoti di Wagner: Wagner aveva concetti ben chiari e ben definiti e sistematici anche in tema di messa in scena, […] uscire da quei vincoli, superare i confini di quei desideri, interpretare invece di riprodurre quelle indicazioni del libretto è un sacrilegio: l’unica messa in scena che fa testo è quella del Teatro wagneriano di Bayreuth; da quella non si deve prescindere”. Thovez, a sua volta, ci terrà inoltre a precisare come Wagner non fosse “un mediocre nemmeno nella realizzazione scenica”, negli scenari del Tristano “aveva aveva dato prova di una viva intelligenza degli effetti teatrali, di un vivace gusto del pittoresco, di un profondo senso di poesia di ambiente; non per nulla Nietzsche scriveva che era nato commediante, e Max Nordau concedeva che
229
Carlo Gatti, Ripresa di opere. Tristano e Isotta, in L’Illustrazione italiana, 30 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 82–84.
avrebbe potuto forse in scena fare il pittore”. 230 Persino di Baudelaire si ricorda, in proposito, un commosso intervento: “nessun musicista come Wagner, nel dipingere lo spazio e la profondità materiali e spirituali, […] possiede l’arte di tradurre con sottili gradazioni tutto quanto c’è di eccessivo, immenso, ambizioso nell’uomo spirituale e naturale”. 231 Certamente furono concepiti secondo i criteri peculiari delle correnti artistiche più attaccate nel tempo in cui si scrive – “si dice che bisogna cacciare il verismo della scena; qualcheduno lo ha anche detto “stupido” 232 [il riferimento è al senatore Corradini] – , ma in voga in quello di Wagner, ovvero il romanticismo ed il realismo: “tale era l’arte pittorica del tempo, anche quella che si chiama giustamente idealismo. […] La poesia doveva nascere dalla realtà rappresentata con intelligente naturalismo. […] Che farci? I romantici credevano alla poesia della realtà e cercavano di rispecchiarla idealmente 230
Enrico Thovez, Scenarii, in Il Secolo, 29 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 96–98. 231 Baudelaire, 1861, cit. in Lambelet, Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, sezione Pannelli. 232 Estratto da una lettera pubblica del senatore Enrico Corradini ad Appia, 18 gennaio 1924, in Stadler (a cura di), Mostra dell’opera di Adolphe Appia, catalogo ufficiale, p. 19, cit. in Mirella Schino, Carla Arduini, Rosalba De Amicis, Raffaella Di Tizio, Eleonora Egizi, Doriana Legge, Fabrizio Pompei, Francesca Ponzetti, Noemi Tiberio (a cura di), Italia 1911-1934, mappa della ricezione della grande regia, 2008, p. 15.
nell’arte”, dunque, “no: quegli scenari wagneriani tradizionali non erano né insufficienti né sciocchi: erano, anzi appropriati e spesso ricchi di poesia pittoresca”. Inoltre, il vero oggetto della polemica novecentesca non doveva essere il realismo in sé, ma il troppo realismo, troppo che stroppia anche se associato al sintetismo. Oltretutto, continua Thovez, “io non credo che il cosiddetto realismo scenico sia quella invenzione infernale che oggi si dipinge,come non credo che il sintetismo sia la beatitudine assoluta, è questione di stanchezza di nervi e di necessità di sensazioni nuove”, e quando ci si stancherà anche del sintetismo si tornerà al realismo, come dall’idealismo al positivismo e così via. L’unica “che non muta è la poesia”. Anche secondo Ojetti Appia avrebbe tradito Wagner, non tenendo in considerazione le sue aspettative e quelle dei suoi spettatori ideali o comunque interessati alle opere del drammaturgo: “qui, in teatro, lontani dai libri e dai calcolati disegni, vi sono due altri termini da non dimenticare: Wagner e io. Io spettatore qui sono il padrone, la méta cioè di tanta fatica; e quando Wagner ha creduto che dopo l’anelante sogno del preludio io debba destarmi dentro un ricco padiglione, tutto di lucide sete e molli tappeti, al cospetto d’una principessa bellissima e innamorata, quando ha voluto che ascoltando la
confessione di lei ribelle al destino io possa uguagliare alla sua la confusa anima mia in quel grido stupendo: “dal sonno scotete questo mare che sogna”, ecco, mandarmi invece a sbattere contro un greggio sordo tendone fa male a me e tradisce Wagner”. E lo stesso vale per il “sedile da cella mortuaria che Riccardo Wagner, pagano corrotto dal sole d’Italia, sognando, dicono, la sua lontana Matilde, aveva voluto morbido e profumato: ein Blumenbank, un sedile fiorito”, e per il tiglio che Wagner chiedeva: “Appia gliel’ha dato, ridotto in tisana”. 233 L’ “arte sintetica” su cui ironizza Ojetti è menzionata in termini negativi anche nel commento riservato al Tristano dalla Rivista illustrata del Popolo d’Italia: “il quadro scenico nel quale è apparso quest’anno alla Scala Tristano e Isotta ha sollevato accesi dibattiti. Avversato stupidamente ed irriducibilmente dai misoneisti, è stato però discusso anche da coloro che di un rinnovamento scenografico del teatro lirico si sono fatti caldi fautori. Il concetto estetico che ha guidato il pittore Appia, è parso a costoro […] riprovevole […] per l’eccesso, si può dire, metafisico in cui cade. Il sintetismo dell’Appia è quasi sempre astrazione completa della realtà: non 233
Ugo Ojetti, Calvino alla Scala, in Cose viste, 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 85–86.
idealizzazione poetica degli elementi fisici e materiali di una determinata scena, ma snaturazione, invece, e deformazione assoluta di essi”. 234 Ma Appia, il “buon vecchio in calzoni corti sportivi che riscaldava con compiacenza la persona e gl’ideali al sole autunnale italiano e ammirava tutto intorno a sé; le cose, le persone, i luoghi, gli usi, i costumi” 235, che per trent’anni si dedica a un problema “secondario, accidentale” come quello della messa in scena, che si “ritrova in piena maturità a difendere le sue idee, gli ideali che furono cari alla sua giovinezza”, come reagisce ad un esito di critica e pubblico così triste?
“Consolazioni di amici, prudenti parole per mitigare l’insuccesso del sistema e della sua applicazione, non valsero a liberarlo da una ondata di sconforto come se in un attimo egli vedesse crollare interamente il sogno della sua vita, la sua stessa vita ideale, e disperso il frutto di pazienti ricerche, e
234
Cronache musicali, in Rivista illustrata del Popolo d’Italia, gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 87. 235 Raffaele Calzini, Gli artisti e le opere. Il caso di Appia, in Il Secolo, 11 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 91– 93.
cancellate ideazioni e soluzioni che pure erano state salutate da applausi, da discussioni, da imitazioni al loro apparire. Non c’erano nemmeno in lui, il risentimento dell’incompreso, la reazione di chi si ritiene, in fondo, vittorioso; il dubbio di essere stato mal aiutato. Crollava il capo con una specie di pudore della propria tragedia intima che lo faceva singhiozzare. Ripartì vestito del suo abito turistico, umiliatissimo, se ne tornò a Ginevra, si richiuse in un eremo in montagna, non diete notizia di sé agli amici, a quanti avevano creduto opportuno di incoraggiarlo per l’ambizione che la Scala contendesse con altri teatri il primato delle audacie scenografiche, agli ammiratori che giurano ancora sulla bontà essenziale de’ suoi principi in materia di teatro”.236
Ma le repliche procurarono ad Appia almeno un po’ del consenso bramato e, senza dubbio, come dimostra la caparbietà dell’immenso Toscanini, meritato:
“nelle successive esecuzioni dell’opera, le scene di Appia non parvero al pubblico proprio così orrende, stonate, miserabili, come la prima sera: si cominciò a notare che il bellissimo giuoco plastico di gesti, di atteggiamenti, di passi, col quale nel primo atto Lotto Larsen si eleva all’altezza di una 236
Ibidem.
grandissima tragica non avrebbe tanto rilievo, e così disegnati e rilevabili ritmi se la sua plasticità non si staccasse dall’elementarità di quell’unico tendaggio che forma un fondo uguale. Si osservò che la delirante attesa, l’inquieta bramosia, si adagiano divinamente nei chiaroscuri del secondo atto e che, a un certo punto, (su noi scendi notte arcana...) l’atmosfera prende un bel colore viola, si smarrisce la corporeità degli amanti abbracciati, come in un quadro di Previati. […] E, da ultimo si capì, che il mare può circondare con il suo fascino la morte di Tristano, essere dominante dell’azione anche se proprio non disegnato sul fondale con le barchette e con le vele o completamente visibile: e si concluse... che tutto è sbagliato, ma però c’è del buono e se la recitazione ritmica della Larsen fosse comune a tutti gli artisti, se la stessa sintetizzazione si fosse applicata contemporaneamente alle scene e, per esempio, ai costumi dei personaggi, l’illusione pittorica sarebbe stata maggiore. Parve a qualcuno che il Tristano, l’opera di Wagner dove la parte descrittiva è minore e la partecipazione degli elementi esterni esigua, e l’insieme della vicenda più spirituale, trovasse qualche rispondenza nell’incertezza e imprecisa definizione dei particolari con cui sono appena caratterizzati i luoghi e i personaggi. Visione del Tristano e Isotta, sogno del Tristano e Isotta dentro sfere
vaghe, evanescenti, dentro spazi e luci inimmaginabili, proprio come le più deliranti ansie dell’amore sovrumano”. 237
A dispetto delle critiche rimane il fatto che “la riforma di Appia a detta dello stesso Appia e degli scenografi, non è strettamente e completamente applicata nella messa in scena scaligera del Tristano e Isotta: dunque non è giudicabile senza appello” e che “i pochi consigli che egli diede e che furono eseguiti produssero risultati innegabilmente nuovi e indubbiamente artistici”. E, soprattutto tali consigli nascevano da ragionamenti aderenti alla prospettiva da cui, negli ultimi anni, era stata affrontata la questione teatrale: “da venti anni ad oggi, molto si è scritto e tanto e fatto in tema di messa in scena anche fuori d’Italia. Le tendenze a unificare il movimento di tutte le arti che si fondono per creare lo spettacolo, esistono. La lotta contro il verismo, vittoriosa ormai in tutti i campi, attacca con decisa serietà anche questo regno”. Conclude felicemente Calzini: “il tempo ci darà ragione se ci permettiamo di applaudire a Appia e di essere grati a quanti credono che la Scala, cum juicio, debba pur incoraggiare una scenografia e una recitazione secondo nuove formule, perché
237
Ibidem.
l’arte, tutta l’arte è la più eterna e la meno immobile delle cose”. È sempre Calzini ad affrontare la questione della messa in scena del Tristano da una prospettiva ancora nuova, dietro alla quale si nasconde un pensiero che ha ancora molto di conservatore – “questo seguire la moda delle altre nazioni, importare proprio le più arrischiate tendenze, esperimentare le nuove forme audaci sul corpore vili della Scala mi pare degno di tutto l’ostracismo” 238 – ma, al tempo stesso, riconosce ciò che del nuovo deve accogliersi. Anch’egli si sofferma sul sintetismo di Appia, sulla “povertà” della sua scena, ma non gliene fa una colpa. Sarebbe stato proprio questo genere di messa in scena a dare risalto alla drammaticità della tragedia rappresentata, da cui le ultime, ricche e preponderanti messe in scena realizzate alla Scala, avevano, invece, distratto gli spettatori, “non soltanto a scapito dell’emozione uditiva ma proprio, anche, con una sensibile deformazione delle intenzioni dell’autore”. Il Tristano è una di quelle opere che hanno “per misura e per punto di partenza l’uomo, l’umanità, la passione umana. […] L’ambiente, le forze esteriori del mondo, le 238
Raffaele Calzini, Scenate per le scene; dove si naviga il mare di Cornovaglia, in Comoedia, 15 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 94–95.
bellezze eterne del mondo: stelle, fiumi, montagne non esistono, non hanno importanza”, l’elemento esteriore, lo “sfondo del quadro”, non ha importanza. “Il mondo del Tristano e Isotta non supera i confini dell’abbraccio dei due amanti anche se è così immenso, così grandioso da riempire di sé spazio e tempo”, e la sintesi scenica di Appia ne è la cornice ideale. È quanto esprime pure il senatore Corradini in una sentita lettera all’artista: “credo che il mio parere sopra i suoi scenari del Tristano e Isotta possa far cosa gradita ad un’artista. Posso dirle che la sua figurazione scenica mi dette godimento in comunione con la divina musica. Questo mi accadde la prima volta. Per la prima volta vidi la figurazione scenica cospirare con il dramma e con la musica a elevare il mio spirito nella sfera della poesia. E nel Tristano e Isotta, dramma, musica e poesia sono mistero. La sua figurazione scenica ‘rende’, se posso esprimermi così, il mistero. Lo scenario deve essere così sommario, come è così tutta la grande arte. Deve essere così una trasfigurazione, per giungere a trasfigurare il nostro spirito.
Quanto è ancora in uso nella nostra scena è residuo di stupido verismo”. 239 Anche il critico Thovez osserva il Tristano di Appia da un’ottica complessivamente positiva, folgorato dalla “poesia della luce, la ricchezza del chiaroscuro, quella penombra di mistero che si addice ad un’umanità di leggenda, l’intimità della scena più delicata e profonda che nelle realizzazioni sceniche consuete”. 240 Egli ammira grandemente quello che definisce “caravaggismo scenico”, al quale Appia è giunto nel tentativo “di trovare la transizione tra la sala e la scena”, dovendo allestire la sua messa in scena nelle sale di teatro italiane, “che non sono buie, ma al più godono di una discreta penombra”, ma abituato alle rappresentazioni wagneriane “in Germania a Bayreuth o al Prinzregententheater di Monaco” dove “transizione non c’è”, ovvero “la sala è assolutamente buia e la scena stacca in quel buio come un netto quadrato di luce” cosicché l’illusione scenica risulti assoluta. L’armoniosa 239
Lettera pubblica del senatore Enrico Corradini ad Appia, 18 gennaio 1924, in Stadler (a cura di), Mostra dell’opera di Adolphe Appia, catalogo ufficiale, p. 19, cit. in Mirella Schino, Carla Arduini, Rosalba De Amicis, Raffaella Di Tizio, Eleonora Egizi, Doriana Legge, Fabrizio Pompei, Francesca Ponzetti, Noemi Tiberio (a cura di), Italia 1911-1934, mappa della ricezione della grande regia, 2008, p. 15. 240 Enrico Thovez, Scenarii, in Il Secolo, 29 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 96–98.
soluzione escogitata da Appia è stata quella di circondare di “fasce di ombre la bocca scenica”, evitando, così, anche di abbacinare la vista degli spettatori: “dalla penombra della sala l’occhio giunge per sfumature insensibili alle scene illuminate: lo spacco brutale fra la sala e la scena è abolito e sostituito da un trapasso sapiente”. Da questa scelta, dal “cerchio d’ombre”, derivano la penombra ed il chiaroscuro predominanti sulle scene: “il colore, scarso, poco vi aggiunge e vi è sottomesso. Sono chiaroscuri tenebrosi nei quali la nota luminosa più alta: chiarore di cielo nel primo atto, raggio di luna nel secondo, riflesso di tramonto, nel terzo, è necessariamente moderata e concentrata nel suo effetto sui protagonisti”. Certo questa trovata pittorica non incontra il gusto del pubblico di massa: “il bianco e il nero non ha mai attratto la moltitudine nelle mostre d’arte, non è probabile che lo affascini a teatro”. Eppure essa vestiva splendidamente un’opera che sta a sé già nel complesso delle creazioni wagneriane: “in un’opera in cui si inneggia alla benefica notte e si impreca al «giorno avverso», la poesia misteriosa delle luci e delle ombre avrebbe trovato una figurazione singolarmente opportuna e suggestiva”. “Avrebbe” dice Thovez, se nel corso della traduzione pratica questa poetica idea non si fosse ‘ammalata’ di quel “sintetismo
geometrico che va sotto il nome di cubismo”. Secondo il critico, i puri parallelepipedi al posto dei muriccioli, i cilindri che fanno da tronchi ed i drappeggi che sostituiscono le fronde degli alberi sono da considerarsi semplici “idiozie da asilo infantile” che non possono aspirare a riformare alcunché. Eliminando, in nome della semplificazione, il pittoresco dalla nave d’Isotta, essa assume l’aspetto di un “cargo-boat che trasporta acciughe”, e l’effetto è assurdo, povero e sgradevole come quello del castello di re Marco, che pare “un angolo di osteria di campagna” o “una specie di stallaggio suburbano”, e della vegetazione del parco, rappresentata “da tre rigidi pilastri rossastri composti di cortinaggi che con le loro scanellature sembrano le basi di tre grattaceli di stile dorico”. Così, la perfezione del magnifico scenario del terzo atto è intaccata dal rigido spacco, “fatto col coltello”, del muro, dal tiglio che pare “un tubo di latta” sormontato da un drappeggio nero. Ma tutti questi elementi, nonostante gli angoli taglienti, non riescono a lacerare la tela che Appia ha dipinto nella sua mente geniale e che, con i mezzi possibili, ha trasferito sul palcoscenico della Scala e da lì al cuore di spettatori come Thovez, al quale è bastato “l’effetto di luce del raggio di luna che investe gli amanti, proiettando le loro ombre portate verso la ribalta, per
mostrare l’intimo senso di poesia con cui la scena è stata vissuta dall’artista, […] poeta della scena”.
Conclusioni Riassumendo…
“Una concezione drammatica che per manifestarsi ha bisogno dell’espressione musicale”, quale è il Wort-Tondrama e quale sarà pure la sua evoluzione-sintesi, a cui calzerebbe il nome di opera d’arte vivente dell’avvenire, “appartiene al mondo nascosto della nostra vita interiore, dato che questa vita non saprebbe esprimersi che attraverso la musica e dato che la musica non può esprimere che questa vita”. Il creatore del nuovo dramma, cui finora solo l’opera di Wagner si è avvicinata, ovvero
“il poeta musicista, estrae quindi la sua visione dal seno stesso della musica. Attraverso il linguaggio parlato le dà una forma drammatica positiva e costituisce il testo poetico musicale, la partitura; questo testo impone all’attore il suo ruolo, […] non deve far altro che impadronirsene. Le proporzioni di questo ruolo pongono all’evocazione scenica delle condizioni formali per mezzo della praticabilità (il punto di contatto tra l’attore vivente e il quadro scenico inanimato); dal grado e dalla natura di questa praticabilità dipende poi la piantazione della
scenografia, e questa trascina a sua volta l’illuminazione e la pittura. Questa gerarchia, come si vede, è costituita organicamente: l’anima del dramma (la musica) gli comunica la vita e determina con le sue pulsazioni i movimenti di tutto l’organismo, nei suoi rapporti e nel suo svilupparsi”. 241
Queste parole appartengono allo stesso “geniale innovatore” 242, “visionario” 243, “artista-teorico” 244, “poeta della scena” 245, che si è applicato in tale studio pionieristico, che “senza Richard Wagner […] non esisterebbe, perché senza di lui non avremmo alcuna possibilità di conoscere per esperienza la portata della musica nel dramma”, e che si assume la missione di superare quelle “particolari circostanze che hanno impedito a questo
241
Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–87. 242 Le scene di Appia per la Scala, Il Secolo, 14 dicembre 1923, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 45. 243 Walther Volbach, Adolphe Appia prophet of the modern theatre: a profile, Wesleyan University Press, Middletown 1968. 244 Ferruccio Marotti, Adolphe Appia, Attore musica e scena, La messa in scena del dramma wagneriano, La musica e la messa in scena, L’opera d’arte vivente, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 12. 245 Enrico Thovez, Scenarii, Il Secolo, 29 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 96–98.
incomparabile rivelatore di portare avanti logicamente le conseguenze della sua creazione fino alla forma scenica”. 246 Nessuna anacronistica legge va conservata, unico e sacro imperativo cui restare devoti è quello professato da Goethe: “l’arte s’impone da sé e domina il tempo”. 247
Mejerchol’d, in Attore-spazio-luce, capitolo Appia attraverso gli altri, p. 28. 246
Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–87. 247 Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–87.
Ma c’è anche un Appia oltre Wagner e oltre il dramma…
“Certamente gli schizzi di Appia che vanno dal 1892 al 1896 sono rivoluzionari per la loro stilizzazione; ma Appia va ben oltre, giunge all’essenzialità delle forme primarie, costruzioni fuori dal tempo, scale, pendii dove ombre e luci danzano, […] spazi ritmici […] destinati a valorizzare il corpo umano secondo gli imperativi della musica, pura ‘topografia ritmica’ [espressione che Appia usava a proposito di uno degli spazi ritmici forse tra i più belli, essenziale e carico di mistero: Scherzo]”. 248 L’essenzialità degli spazi disegnati da Appia, che si fa esasperata negli ultimi anni della sua esistenza, può leggersi come l’ indizio più tangibile della sua volontà, della soffocante esigenza, di eliminare ogni ostacolo che possa, materialmente, intralciare la sua fervida immaginazione. Egli fugge i dettagli che ingombrano la sua, pur moderna, epoca e che ingombravano già quella del suo ispiratore. Diceva
248
Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivolta all’utopia, p. 13.
Wagner: “ogni dettaglio è una stonatura, è moderno e quindi superfluo”. 249 Nulla, che non sia essenziale, deve distrarre, contaminare, corrompere la sua visione: “esiste incontestabilmente uno scambio tra la concezione primigenia del drammaturgo e i mezzi di realizzazione scenica sui quali può far conto”, anzi, “dovrebbe esistere, perché ai nostri giorni purtroppo, tranne alcune eccezioni, l’influenza determinante non viene che da un solo lato: è soltanto la nostra concezione moderna della scena e del teatro che obbliga il drammaturgo a limitare la sua concezione, a restringere la sua visione, senza reciprocità possibile da parte sua nei confronti della messa in scena”. 250 Più gli oggetti sono eletti, ovvero sono quelli ritenuti degni di essere risparmiati al peso schiacciante della rinuncia, più si caricheranno di significato e più l’evocazione sarà potente, l’opera d’arte sarà coesa e le sue arterie pulsanti di vita autonoma. Allo stesso insignificante affollamento a cui deve essere risparmiata la scena deve essere risparmiato il suo artista. 249
Richard Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, con un saggio introduttivo di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983. 250 Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 86.
Meno orpelli e persone possibile devono circondare la sua persona esteriore, che, come quella interiore, pare si consacri totalmente agli ideali artistici. Come Cezanne, come Van Gogh, ai quali è stato accostato, Appia è confinato ai margini della società culturale rivoluzionata dal suo stesso genio. Sono tanti gli aspetti del vecchio teatro che Appia vorrebbe superare definitivamente, ma è soprattutto contro l’illusione scenica che egli combatte con fervore. L’illusione, nella sua accezione generale, pare essere il fantasma che maggiormente attanaglia la sua infelice vita terrena. È un “essere tormentato” che tenta di superare “la sua estrema sensibilità e le sue lacerazioni […] creando una seconda natura, […] una natura nuova, concepita a misura di quella in cui vive e che percorre nelle sue strutture essenziali e nei suoi elementi primari, l’acqua, il cielo, le mura, la luce”. 251 Egli non sembra adatto, dunque, ad altra vita che non sia la sua vita interiore. Quella che lui definisce “une disposition héréditaire” 252, e che, forse, altro non è che una straordinaria
251
Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attorespazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivolta all’utopia, p. 13. 252 Adolphe Appia, Curriculum vitae d’Adolphe Appia écrit par lui même (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1927, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 11–12.
sensibilità artistica, plasma tutto ciò che lo circonda, e distruggere l’illusione teatrale non lo salverà dall’illusione in cui costringe se stesso a vivere quotidianamente. Appia non vuole e non può concepire una scena illusoriamente realistica perché egli non concepisce e non accetta una vita che corrisponda alla realtà oggettiva, comune, ordinaria. Spiritualmente vive e fisicamente esiste, il suo genio danza su terreni sconfinati, mentre il suo corpo non tollera che le dimore concesse da una povertà francescana. Allo specchio egli non vede che un ignoto “vecchio in calzoni corti” 253, è solo nel mare della musica che riconosce il riflesso di se stesso. Nella musica che, miracolosamente, appartiene a ‘quella’ ma pure a questa vita. E ciò che anima e riscatta il lavoro artistico di Appia è la certezza che questo sentimento, creandone le condizioni, potrebbe essere condiviso dall’intera umanità, divenire universale: “la musica […] viene ad allargare all’infinito, con indicibile magia, la nostra visione, proponendole un’esistenza superiore ad ogni realtà quotidiana. Per essa il pubblico non è che una sola individualità; essa non si occupa dei suoi bisogni o dei suoi gusti, ma lo trascina 253
Raffaele Calzini, Gli artisti e le opere. Il caso di Appia, in Il Secolo, 11 gennaio 1924, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 91– 93.
sovranamente nella sua vita ritmica; e questa violenza, lungi dall’esser odiosa, soddisfa evidentemente i più impossibili desideri di una umanità che non vuole uscire da se stessa che per ritrovarsi”. 254 In questa società redenta anch’egli, forse, troverebbe il suo posto:
“l’Appia era giunto a considerare tutti i problemi della vita dall’angolo visuale del Teatro. […] Egli intendeva che l’arte cessasse di essere un lusso, un ornamento, un’aggiunta in margine alla vita vera, e si era sforzato di risolvere il problema secondo lui essenziale dell’arte moderna, quello di vivere l’arte, invece di limitarci a contemplare opere artistiche. Insomma includere di nuovo l’arte nel pieno della vita sociale, facendola veicolo di comunione. ‘Nella nostra vita (sono parole dell’Appia), così bassa e monotona, in cui neppure alle più forti insurrezioni è dato di scuotere il torpore sociale, di far luce sui nostri egoismi e sul nostro dilettantismo barbarico,
254
Adolphe Appia, La musique et la mise en scène, 1963, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 45–87.
soltanto l’indescrivibile gioia dell’Arte come esperienza in comune, può consacrare una certa fraternità’ ”.255
Ma, in realtà, l’idea di Appia è molto più radicale: non si tratta di un “angolo visuale”, ma del progetto di un teatro che si sostituisca alla vita. Egli profetizza infatti: “l’uso del termine rappresentazione diventerà a poco a poco un anacronismo, un nonsenso”. 256 Per questo si è parlato di utopia. Appia vuole un mondo rivoluzionato, ma non ha che un mondo alternativo o, come direbbe Schopenhauer, un “mondo come rappresentazione”. Non a caso uno dei capitoli del tomo Attore-spazio-luce è intitolato Adolphe Appia e lo spazio teatrale, dalla rivolta all’utopia. La natura per Appia è cosa “morta”, solo l’arte vive, ed egli vive solo di arte: “Appia non era un sognatore, un mistico. La
255
Omaggio ad Adolphe Appia, in Scenario, 01 settembre 1932, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, p. 117. 256 Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 86.
realtà scenica lo possedeva, più viva di quanto noi la percepiamo a teatro”. 257
Adolphe Appia in un ritratto di René Martin, in Appia alla Scala, p. 20. 257
Estratto da Adolphe Appia et l’art scénique, in La Naciòn, Buenos Aires, 16 aprile 1928, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, capitolo Appia attraverso gli altri, pp. 22–23.
Quello che Appia chiede ai lettori e spettatori a cui sceglie di rivolgersi, sulla base della loro “disposizione” spirituale alla musica, è un atto di fede. E gli spazi ritmici, che paiono avvolti da un religioso silenzio, oltre che da una luce crepuscolare, e la cui inospitale rigidità parrebbe smentire l’intenzione sociale del teatro immaginato da Appia, sembra siano stati, invece, progettati dall’artista proprio per ospitare la preghiera dei suoi fiduciosi adepti. Tra i pilastri disposti a mo’ di colonne dei templi arcaici e sulle scale in pietra, che non si fanno mai troppo vertiginose, è facile immaginare lente processioni rituali o timide danze iniziatiche, spiate dalle ombre degli avi che si allungano quasi a voler sfiorare dolcemente i giovani corpi danzanti.
Appia, Le trois piliers, in schede iconografiche a cura di Roberto Ciancarelli e Stefano Ruggeri, 2006.
Louis Mouchet, Adolphe Appia, Visionary of Invisible, 1988.
Che cos’è l’arte del teatro
Ciò che fomenta il lavoro di Appia è, dunque, la determinazione a sradicare l’idea di teatro come semplice imitazione naturalistica, e a restituirgli la dignità di opera d’arte. E non c’è da meravigliarsi se egli pretende di raggiungere tale obiettivo applicandosi nella disciplina della messa in scena, poiché l’intera arte teatrale non può prescindere da questa componente altrettanto artistica ed altrettanto affidata ad artisti:
“ ‘Messa in scena’ è l’essenza stessa della creazione teatrale: non è soltanto la interpretazione dell’opera d’arte ma la sua ‘completa’ realizzazione sul teatro, il suo passaggio dall’immobilità alla vita; e in essa si assommano, senza esclusione, tutti gli elementi dello spettacolo. […] II carattere della recitazione è elemento importante, forse il più importante della messa in scena [e su quest’aspetto Appia, forse, non si è espresso abbastanza o non abbastanza chiaramente]; e del pari lo sono gli atteggiamenti, i gesti, e tutti i mezzi espressivi degli attori; senza dire poi dalla composizione e scomposizione dei quadri, dei movimenti singoli e delle masse, dell’impiego di tutti gli elementi concorrenti a creare nello spettatore uno stato
d’animo atto a ricevere l’impressione che dalla scena si vuol suscitare. Ognuno capisce dunque che gli scenografi e gli scenotecnici, come anche coloro che sono chiamati a immaginare o a riprodurre costumi per gli attori, sono artisti. È l’uso – o meglio l’abitudine – a trarre in inganno: col ricordo di un tempo nel quale la scenografia dominava la messa in scena. […] Ora è proprio il momento in cui l’arte teatrale vuoi camminare coi tempi. […] Non regole assolute, anzi grande varietà di realizzazione, secondo il genere e lo spirito dell’opera che si deve rappresentare, ma una mira costante: quella di stabilire una comunione più intima fra il dramma e lo spettatore”. 258
Non ci sono documenti che lo attestino ma, nella biblioteca paterna, in cui Appia trascorse anni leopardiani di “studio matto e disperatissimo”, si trovava, forse, anche qualche opera di Tolstoj. In un passaggio del suo saggio sull’arte, Tolstoj tratta dell’ ‘arte’ prodotta per le classi privilegiate della società europea. Queste chiedevano un’ arte che li divertisse e per procurargliela gli artisti escogitarono diversi metodi, tra cui 258
Carlo Lari, Della “messa in scena”. Veri e falsi registi, in Comoedia, maggio 1933, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 118–120.
quello dell’imitazione, consistente nel rendere con assoluta fedeltà ai particolari ciò che si vuole trasmettere, e “nell’arte drammatica questo metodo consiste nel rendere […] l’intero ambiente, tutte le azioni dei personaggi esattamente tali e quali sono nella vita reale”. 259 È quello che Appia chiama “dramma di parole”. Il fine del saggio è quello di distinguere la vera arte dall’arte richiesta dalle classi ricche, che hanno riempito il vuoto di credenze – in cui sono precipitate nell’ ‘800, rinnegando i dogmi della religione ecclesiastica – con nuove teorie, tra cui la scienza estetica, accettate solo perché non avrebbero compromesso la loro posizione privilegiata. Tolstoj, dunque, non solo concepisce, come Appia, il dramma di “parole” come ben altra cosa rispetto a quello detto di “parole e musica”, ma non lo ritiene arte. Gli concede, al massimo, l’accezione di arte cattiva, contraffatta, definendolo “un simulacro dell’opera d’arte, buono solo per le persone di gusto estetico corrotto”. Poiché “l’imitazione non può essere un criterio del valore dell’arte, perché se la principale qualità consiste nel contagio degli altri mediante il sentimento provato dall’artista, il contagio mediante l’arte non solo non coincide con la descrizione particolareggiata di ciò che viene 259
Lev Nikolaevic Tolstoj, Che cos’è l’arte, 1897, in Tolstoj, Scritti sull’arte, Boringhieri, Torino, 1974.
rappresentato, ma, nella maggior parte dei casi, viene distrutto dagli eccessivi particolari. L’attenzione di colui che riceve l’impressione artistica viene distratta da tutti questi particolari rilevati, e il sentimento dell’autore, se c’è, non viene trasmesso per colpa di questi. Se determiniamo il valore di un’opera d’arte in base al suo realismo, dimostriamo soltanto di non parlare di un’opera d’arte ma di una sua contraffazione”. Anche in un’altra opera dell’autore russo, La sonata a Kreutzer – precisamente nella postfazione a questo scritto – sono contenute delle considerazioni che Appia pare aver fatto sue. La messa in scena idealizzata da Appia potrebbe essere paragonata all’ideale tolstojano di una vita fondata sugl’ insegnamenti del cristianesimo delle origini. Si tratta appunto di ideali, per definizione inattuabili, eppure “tutto il senso della vita umana è racchiuso nel movimento verso” 260 questi. L’ideale consiste in “una perfezione che [l’uomo] non potrà mai raggiungere, ma verso la quale sente intimamente di tendere”, il che pone l’uomo “in una condizione di costante tormento”, poiché “non vedendo dietro di sé il cammino che ha percorso, e vedendo altresì sempre […] il cammino che ancora 260
Tolstoj, postfazione dell’autore (1891), in La sonata a Kreutzer, trad. di Raffaella Belletti, introd. di Francesca Legittimo, Giunti, Firenze, 1993, pp. 125–143.
lo aspetta […], si sente imperfetto”. 261 Ma non per questo è giusto rinunciarvi o abbassarne il livello. “La bussola è uno strumento indispensabile e accessibile al navigatore per orientarsi” e non può gettarla via o incollarne l’ago al punto che in un certo istante corrisponderà alla rotta della nave. Però “è necessario che il navigatore creda nella bussola, cessando di guardarsi intorno e di basarsi su quanto vede. […] Giunge il tempo in cui i nuotatori si sono allontanati dalla riva, e devono e possono servire loro da guida soltanto le stelle inaccessibili e la bussola che indica la direzione”. 262 La rivoluzione wagneriana è la bussola di Appia – egli stesso racconta di come l’opera di Wagner gli abbia “mostrato la strada da seguire, indipendentemente dalla sua volontà” 263 – , le sue ambizioni artistiche le stelle inaccessibili, verso cui egli non smetterà mai di tendere e che mai si spegneranno.
261
Ibidem. Ibidem. 263 Adolphe Appia, seconda prefazione a La musique et la mise en scène, Chexbres, 1918, trad. di Delia Gambelli, in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 86. 262
Un “geniale battistrada” 264, dove risuona l’eco della sua luce
“Quando la stella trova equilibrio tra gravità ed energia, tra ciò che schiaccia e ciò che spinge fuori, diventa una sfera infuocata, il cui nocciolo fonde a dieci milioni di gradi. Questo, basta a scaldarla e a tenerla stabile e rotonda, per miliardi di anni”. 265 “Né più né meno che il vangelo di tutta la regia moderna” 266, è così che il regista americano Lee Simonson, nel saggio sul Contributo di Appia alla messinscena moderna, citato nella rivista newyorkese Theatre Arts Monthly, definisce il primo capitolo de La musique et la mise en scène. È anche grazie al lavoro di Appia che “siamo giunti a sostituire totalmente alla scenografia dipinta una scenografia-atmosfera cromatica, ottenuta per mezzo di irradiazioni-pennellate dei riflettori”, e che “invece della figurazione o finzione scenica 264
Omaggio ad Adolphe Appia, in Scenario, 01 settembre 1932, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 116–117. 265 Deproducers , Neu - Nascita di una stella, Planetario, 2012. 266 Omaggio ad Adolphe Appia, in Scenario, 01 settembre 1932, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 116–117.
rappresentata pittoricamente, si ha oggi una sorta di musica di colori” che abbraccia “una scena plastica”. È Appia a mettere uno dei primi mattoni della tecnica moderna, che “reagisce alla vantata magia delle prospettive, genialissima nel ‘600 e ‘700”, ma “balordissima col verismo, naturalismo, impressionismo dell’ ‘800”. 267 Scrive difatti Copeau: “si ha una riforma radicale – Appia usava volentieri questa parola – le cui conseguenze, sviluppandosi vanno dalle scale di Reinhardt al costruttivismo russo. […] Si può lavorare sul dramma e sull’attore, invece di girare eternamente intorno a formule decorative più o meno originali, a processi di presentazione più o meno inediti, la cui ricerca ci fa perdere di vista l’obiettivo essenziale. L’idea fondamentale di Appia: un’azione in rapporto ad un’architettura dovrebbe bastarci per fare dei capolavori”. 268 E dichiara Appia stesso, parlando degl’ultimi spazi ritmici disegnati tra il 1909 ed il 1910: sono “destinati alla creazione di uno stile proprio, alla valorizzazione del corpo umano agli 267
Anton Giulio Bragaglia, Il teatro visivo e il visivo a teatro, in Comoedia, 20 marzo 1928, cit. in Fabrizio Pompei, La messa in scena di Adolphe Appia del Tristano e Isotta di Richard Wagner alla Scala di Milano, 2008, pp. 114–115. 268 Copeau, Comoedia, 12 marzo 1928, cit. in Irene Lambelet, Norberto Vezzoli, Adolphe Appia, 1862-1928, attore-spazio-luce, Garzanti, Milano, 1980, sezione Pannelli, n. 2, p.70.
ordini della musica. Senza altra destinazione, sono un punto di partenza”. 269 Le ambizioni della stella di Ginevra si vedranno risplendere innanzitutto sui palcoscenici che ospitano i lavori dei seguaci del costruttivismo, influenzati dai vari movimenti dell’avanguardia artistica, come la pittura e la scultura cubiste (sviluppatisi negli anni intorno alla prima guerra mondiale), fermamente decisi a combattere il realismo e ad eliminare il non essenziale. Ad animarli era, fondamentalmente, l’idea che del teatro dovesse emergere l’essenza, ovvero l’abilità degli attori e, affinché ciò potesse accadere, le scenografie dovevano diventare dinamiche, acquistare, cioè, significato solo per mezzo dei movimenti dell’attore. All’interno del costruttivismo nacquero poi diversi orientamenti. Il cubismo attribuiva maggiore importanza ai piani, il futurismo italiano propendeva per il semplice ammassamento della forma, i movimenti anticipatori del surrealismo si focalizzavano sull’uso dei simboli, ma tutti promuovevano la vitalità dinamica, attraverso scene disadorne con impalcature reggenti soppalchi e corridoi elevati. Lo scopo ultimo dell’impiego di queste tecniche era 269
Adolphe Appia, Expériences de théâtre et recherches personnelles (manoscritto inedito di proprietà della Fondazione Appia), Berna, 1922-24, cit. in Marotti, Attore musica e scena, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 11.
mettere in luce la qualità meccanica dell’epoca, nel tentativo di rivelare e riscattare l’umanità dei lavoratori oppressi dalle macchine. Come, prima dei costruttivisti, aveva già intuito Wagner: “la macchina è il benefattore freddo e senza cuore di un’umanità avida di lusso. La macchina ha piegato e assoggettato a sé l’intelligenza umana; questa infatti distolta dallo sforzo artistico, dall’invenzione artistica, rinnegata, disonorata, ha finito con l’esaurirsi nelle raffinatezze meccaniche, nel ‘farsi uno’ con la macchina invece che con la natura nell’opera d’arte”. 270 L’attività umana doveva, quindi, riuscire ad esibire il proprio valore, ed il metodo di una recitazione quasi acrobatica glielo consentiva. L’attore ideale era anche cantante, ballerino e acrobata ed era bene che tra i suoi modelli annoverasse ancora gl’interpreti, contorsionisti e giocolieri, oltre che professionisti dell’improvvisazione e dell’aria operistica, dell’antica commedia dell’arte – tipico della commedia dell’arte era, ad esempio, che gli attori recitassero su palchi nudi, che, a differenza delle ingombre scene realistiche, avrebbero facilitato un contatto più stretto con il pubblico – . 270
Richard Wagner, L'opera d'arte dell'avvenire, con un saggio introduttivo di Paolo Isotta, Rizzoli, Milano, 1983.
Ma la luce di Appia giunge ben oltre, arrivando a proiettarsi sulle scene del teatro formalizzato e rituale di Robert Wilson, detto Bob. Come lo scenografo ginevrino, questo regista statunitense convive con nervi piuttosto fragili, ma anche con una sensibilità spiccata (acuita dal lavoro nei laboratori di teatro per l’infanzia e per disabili). Di un loft al 147 di Spring Street, ex sede dell'Open Theatre, egli fa un luogo di ritrovo per artisti, ma anche artigiani, uomini d'affari, casalinghe, pensionati, studenti, insegnanti e portatori di handicap, che ben presto si uniscono nel gruppo chiamato Byrd Hoffman School of Byrds. Questo dà vita ad una rappresentazione itinerante che comincia nello spazio di Spring Street, di cui i Byrds sfruttano la “praticabilità” salendo su e giù da assi, appoggiandosi a fili e così via, e continua nella Jones Alley, dove il pubblico, trasferito a bordo di camion scoperti, viene a trovarsi al centro dell’azione che i Byrds creano sui tetti degli edifici circostanti. The King of Spain è il primo spettacolo di Wilson ambientato in un teatro, il fatiscente Anderson Theatre. È qui che Wilson comincia a pensare allo spazio bidimensionale e ad al particolare tempo teatrale che diverranno le cifre inconfondibili del suo stile. Le tre ambientazioni (una spiaggia, un salotto vittoriano e una caverna) della non-azione ed il puzzle forzato
di persone, luci, forme e oggetti diversi rimandano ad un ammaliante gioco neo-dadaista. In quella che viene detta “opera del silenzio”, presentata all'Università dello Iowa Deafman Glance, Wilson realizza, invece, con una sequenza di immagini che scorrono davanti agli occhi di un sordomuto, ciò che Wagner e Appia hanno fatto con il flusso della musica: accompagnare gli spettatori in una dimensione altra. La musica diventa un elemento ancor più importante nello spettacolo presentato al festival di Spoleto nel 1974, A Letter of Queen Victoria, e fondamentale nel successivo Einstein on the Beach, proposto nel ’76 al festival d'Avignone. Gli attori (tra cui Patricia Hearst, figlia di un magnate delI'editoria, che impersona se stessa in una serie di ‘istantanee’ ispirate alle fotografie delle pagine di cronaca dei quotidiani) si muovono, come indicato dalle coreografie di Andrew Degroat, in intima relazione con uno spazio scenico ridotto a pochi oggetti caricati di valore emblematico, tra cui la macchina del tempo che appare nel finale – lo spettacolo allude alla trasposizione delle teorie di Einstein in una riflessione sui tempi e i luoghi della scena – . In potenziale corrispondenza con quanto professato da Appia, in un’altra opera, Die Goldenen Fenster, le parole, concepite esclusivamente come materia sonora, determinano
con precisione la gestualità dell’attore. Sulla stessa linea di Appia e di Wagner, Wilson è orientato verso la realizzazione di uno spettacolo totale, come il suo interessamento alla tragedia classica conferma. Bob supera, però, anche questa concezione, arrivando ad ideare (per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984) un'opera addirittura globale, intitolata CIVL warS, a Tree is Best Measured When it is Down, affidata a duecentocinquanta interpreti ed ambientata in sei città diverse. Voleva, utopicamente, essere il più grande spettacolo del mondo, ovvero una sorta di campionario di episodi della storia umana raccontati alla sua maniera, ma finì per realizzarsi solo in parte, destino che pare accomunare tutti i grandi innovatori. Anche a Wilson aspetterà un insuccesso alla Scala, dove è chiamato a rappresentare la Salome di Strauss, e anch’egli combatterà – come si deduce dagli spettacoli accennati – costantemente il naturalismo, cui oppone una personale e suggestiva maniera di raccontare. Ciò appare evidente ne La mite, tratto da Dostoevskij, dove i tre personaggi maschili (tra cui lo stesso regista) recitano ognuno nella propria lingua madre (inglese, tedesco e francese) intrecciando un dialogo senza comunicazione, avvolti dalla presenza muta della ballerina Marianna Kavallieratos. Dal percorso artistico di
Wilson affiora, dunque, un'idea di teatro come spettacolo, in cui il formalismo, denotato dall'esasperata ricercatezza delle luci e dall'estrema precisione di ogni gesto sulla scena – Appia docet – si abbina ad una coscienza critica che anziché trattare problemi e avvenimenti in modo diretto, secondo canoni narrativi, affronta la contemporaneità frantumandola e presentandola nelle sue mille, e compresenti, sfaccettature. Wilson scompone i contenuti della storia e li ricompone in una sintesi immaginaria che, invece di procedere per sequenze lineari di causa-effetto, scandisce il nostro tempo interiore. I temi, da quelli individuali, legati al rapporto corpo-psiche, a quelli universali (l'avventura del progresso, la tragedia della guerra), vengono ripensati secondo un'estetica raffinata, che trasforma i grandi interrogativi etici in perfette e cristalline visioni. La stessa brillantezza del cristallo, ma pure la sua fragilità, appartiene alle visioni di Appia, la cui essenza vitale è condannata a restare nell’ altrove trascendente da cui proviene la matita dell’artista, poiché se venisse a contatto con la dura realtà si frantumerebbe. È lo stesso destino risparmiato ad un amore cui non si consente di realizzarsi, per non vederne corrotta e intaccata la perfezione. È quanto accade al
sentimento ideale tra Wagner e Matilde – i veri protagonisti dell’opera con cui termina questo “tragico” studio – destinato a tradursi in sogno artistico, poiché un impulso che nessuna realtà è in grado di contenere non può oggettivarsi se non nell’opera d’arte. Nel Tristano e Isotta è la musica stessa, che provvede allo scioglimento del dramma, a rappresentare, con un atto non di negazione e rinuncia, bensì di superba volontà di potenza, la perfezione dell’ideale, ovvero il più audace e romantico dei sogni wagneriani, la vera felicità dell’amore che non è. Con il Tristano Wagner concepisce, ed Appia erige, un monumento alla forza vitale di un ideale artistico e alla capacità della musica di redimere l’umanità dal suo, tanto puro quanto insopportabile, peso d’amore.
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ITALIA 1911 - 1934. Mappa della ricezione della Grande Regia