STORYTELLING STORYSHOWING Analisi sperimentale della comunicazione di marca
Politecnico di Milano Scuola del Design Design della Comunicazione A.A 2016/2017
Elia Bozzato 780766 Relatrice: Fulvia Bleu
STORYTELLING STORYSHOWING Analisi sperimentale della comunicazione di marca
Politecnico di Milano Scuola del Design Design della Comunicazione A.A 2016/2017
Elia Bozzato 780766 Relatrice: Fulvia Bleu
INDEX
INTRO
CA P I TO L O 1 : B R A N D S T O RY T E L L I N G
1.1 Dal marchio alla storia: un cambiamento di tendenza 1.2 Narrare, non solo storie. La forma e il ruolo del design 1.3 Identità come racconto 1.4 Conclusioni: scatto attenzionale e patto fiduciario
CA P I TO L O 2 : L E I N F LU E N Z E D E L C O N T E S T O AT T U A L E
2.1 Guerra e pace 2.1.1 Ashley’s story 2.1.2 Yes we can 2.1.3 Immersive reality 2.2 Transmedia storytelling 2.2.1 Il cinema oltre sé stesso: Il franchising multimediale 2.2.2 Online e offline narrative gaming 2.2.3 L’intelligenza collettiva come valore aggiunto per la narrazione transmediale 2.3 Conclusioni: la società dello spettacolo
Storytelling / Storyshowing
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CA P I TO L O 3 : L’A N A L I S I D E L L A N A R R A Z I O N E
3.1 Comunicazione e narrazione 3.2 L’analisi del racconto 3.3 I tre paradigmi di Ramzy 3.4 L’occhio semiotico sulla comunicazione 3.4.1 Le funzioni della comunicazione di Jakobson 3.4.2 Il modello attanziale di Greimas 3.4.3 Analisi di un artefatto pubblicitario di Barthes 3.5 Conclusioni: Oltre la pubblicità
CA P I TO L O 4 : GLI SCHEMI SEMIOTICI
4.1 Il quadrato semiotico di Greimas 4.1.1 Le ideologie pubblicitarie di Floch 4.2 Lo schema dei campi semantici di Remaury 4.3 La Storytelling Matrix di StoryWorldWide
C O N C LU S I O N I
BIBLIOGRAFIA
RINGRAZIAMENTI
Index
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“Well, i’m actually quite critical about the storytelling theme, i think that all the storytellers are not storytellers. Recently i’ve red an interview about somebody that designs rollercoaster and defined himself as a storytellers: no! You’re not a storyteller! You’re a rollercoaster designer, and it’s fantastic and more power to you, but why you wanna be a storyteller?”
Stefan Sagmeister Graphic designer Austriaco FORM festival di Toronto Aprile 2014.
INTRO
Quella della narrazione, nel suo senso più tradizionale, è una pratica che ha da sempre un posto fondamentale nella storia dell’uomo. Nel linguaggio, nella comunicazione in generale, nella letteratura, nel cinema e in svariate altre discipline e arti, così come gioca un ruolo fondamentale nel sottotesto del nostro vissuto quotidiano, direttamente o indirettamente. La presenza di narrazioni, viva in svariate forme e veicolata in innumerevoli canali, è spesso tanto impalpabile quanto innegabile se analizzata da vicino. Ciò che genera un dibattito è una contaminazione che discipline apparentemente avulse da un contesto narrativo hanno subìto nel corso degli anni, per adattarsi a un graduale cambiamento di tendenza e di mercato e non solo. Questo mutamento consiste nella consapevolezza che da un certo momento Introduzione
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in poi non è più stato possibile generare fidelizzazione con il solo pubblicizzare quello che si produceva, ma è divenuto necessario dover comunicare la propria identità e i propri valori come gruppo, come singolo o come corporation, e raccontarsi. Si è cominciato a utilizzare forme espositive tipiche del racconto, poiché quando ascoltiamo una storia siamo più coinvolti a livello percettivo e più disposti a un punto d’incontro con l’interlocutore. Si tratta di stilemi e di metodi di comunicazione che prendono i loro geni dalle principali arti narrative come la letteratura o il cinema e li portano nel marketing, nel design della comunicazione, nella politica, nell’impresa e nel mercato trasformandoli e adattandoli a infinite forme di applicazione. Presto è diventato tacita tendenza condivisa il concetto che per stare al passo con il cambiamento e guadagnare fidelizzazioni si sarebbe dovuto iniziare a raccontarsi, invece che focalizzarsi esclusivamente sulla promozione della propria offerta. Tale nozione – probabilmente concepita inconsapevolmente e nutrita durante una gravidanza di oltre cinquant’anni nelle thinking rooms delle prime grandi agenzie di pubblicità – partendo dall’advertising, ha visto la propria maturità nell’era della moderna brand communication propagandosi poi a macchia d’olio in campi come l’industria videoludica, la campagna elettorale o il reclutamento bellico, per fare alcuni esempi. Ad oggi è penetrato nel tessuto sociale a livelli inverosimili fino ad arrivare per esempio al “self branding”. Esso è una pratica quasi inconsapevole con la quale, mediante l’utilizzo Storytelling / Storyshowing
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dei social network un utente si racconta esponendo la propria “forma mentis” e il proprio “physique du role” mediante una scelta attenta di frasi, citazioni, immagini e filtri fotografici, opinioni o tendenze e via dicendo, da comunicare alla piazza informatica. Tutto postato sulla nostra “cornice narrativa” personale online. Questa inoltre non è altro che un’imitazione dell’impegno che le celebrità, con i loro manager e stylist, spendono quotidianamente per raccontarsi e creare la loro identità da fissare nell’immaginario collettivo globale. Così come i politici o i grandi brand, anche se ovviamente su diversa scala e modalità. Il trend dello storytelling è consapevole o inconsapevole, tangibile o impercettibile. È un modo per esporre dei concetti, dei valori, dei messaggi in maniera laterale, costruendo un determinato contesto percettivo e utilizzando dei soggetti utili alla comprensione e all’ interpretazione. Gli artefatti ai quali qualche decennio fa ci si riferiva come prodotto o servizio, ora invece sono un’esperienza o un valore. È l’utilizzo di concetti per la promozione di artefatti tangibili o intangibili. La forma che comunica essa stessa il contenuto. Il significante che si fa significato. Coloro che negli anni ‘90 erano “Spin doctor” hanno cambiato l’appellativo nel loro biglietto da visita in “Storyteller”. Dapprima furono le corporation, con i loro loghi e la conquista dei mercati, poi la concorrenza crebbe e nacque la pubblicità, e tutto cambiò. Cominciarono a sorgere i lovemarks e la lotta per la fidelizzazione dei consumatori si accese. Si aprì la strada verso l’identità aziendale e la comunicazione Introduzione
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di marca. Poi la fiducia nei marchi vacillò, e le corporation dovettero riadattarsi alla percezione consapevole del consumatore e ad un mercato sempre più altalenante e complicato. La reputazione divenne una questione prioritaria e l’advertising fù soverchiata dalla Brand storytelling. I mass media dovettero far spazio ai social media e venne la rivoluzione digitale. Oggi la comunicazione di Brand spazia e sperimenta su piattaforme tecnologiche innovative e in modalità fino a pochi anni prima impensabili, generando affascinanti sottotesti narrativi e transmediali. Adattandosi ai trend della rete o sfruttando la conoscenza derivata dall’analisi dei big data, intersecandosi con il mondo circostante, a tratti quasi indistinguibili, tramutandosi in entità vive e pulsanti, nella quotidianità degli utenti. Tante sono le discipline che hanno cercato di smontare le meccaniche e le strutture celate nella comunicazione, nella narrazione e nella pubblicità. La semiotica nel corso del tempo ha proposto metodi e tesi assai interessanti e adattabili, tenendo conto della natura cangiante e sfuggente che possono avere la percezione e l’interpretazione. Il mondo di marca è un universo altamente iconico e a tratti imprescindibile, quello che si è posto come obbiettivo in questa sede è stato provare a costruire un metodo di analisi delle campagne di marca attraverso l’occhio semiotico, e con l’aiuto del supporto dell’infografica; un metodo sperimentale e teorico per provare a mettere ordine lì dove la razionalità non trova regno. Storytelling / Storyshowing
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Capitolo 1
BRAND STORYTELLING
“La pubblicità ha perso il suo potere, non ha più potere sui consumatori che sono sempre più scettici”
Al e Laura Ries, “The fall of advertising” Harper business, 2002
1.1 Dal Marchio alla storia Un cambiamento di tendenza
La storia del cambiamento che ha portato all’avvento dello storytelling ha le sue radici su un graduale rifiuto della verticalità dei lovemarks da parte dei consumatori, unito a un aumento della consapevolezza di questi ultimi nei confronti della pubblicità come strumento non trasparente estraniante e passivo. In un certo senso si può dire che siano stati loro a fare la storia, e a obbligare gli esperti di marketing ad adattarsi a questo repentino cambiamento che ha causato non pochi problemi ad alcuni famosi brand. Fino a quel momento le corporation avevano costruito i loro imperi basandosi sui marchi e sulla brand image come principali vettori di comunicazione con il mondo, l’identità tutta era racchiusa nell’estrema sintesi visiva del marchio e nei brevi claim presenti in ogni spot pubblicitario. Il logo aveva esercitato per degli anni un potere autorevole e persuasivo, Capitolo 1 - Brand Storytelling
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Naomi Kleinn, “No logo: Taking Aim at the Brand Bullies” Picador, 1999
Storytelling / Storyshowing
facendo le veci di un vero e proprio distintivo, indice, dal punto di vista semiotico, di valori oltre della percezione superficiale del consumatore. “Alla fine degli anni Quaranta, si andava diffondendo l’idea che un marchio non fosse semplicemente una mascotte, uno slogan, una figurina stampata sull’etichetta del prodotto di una certa azienda; l’azienda nel suo complesso poteva incentrare sul marchio una forte identità o una ‘coscienza aziendale’, come veniva allora definita tale effimera qualità.” È stato quando i brand hanno dovuto interfacciarsi con un neo-nascituro, il canale di veicolazione di contenuti in ogni angolo del mondo più vasto in assoluto: Internet. Assieme ad esso sono nati i movimenti contro-culturali di nuova generazione, con un’informazione autogestita al di fuori del sistema dei mass media. La fruizione di contenuti di dominio pubblico alcuni anni prima impensabili, e
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La prima immagine ritrae un bambino Pakistano che concia un pallone nel 1996, ed è una delle immagini utilizzate da Life Magazine che provocarono scandalo. Le altre due immagini mostrano i laboratori Nike in Vietnam nel 2005, piÚ sicuri e in rispetto dei diritti dei lavoratori, verso la fine del tunnel di scandalo legato al brand. http://urly.it/2166u
Capitolo 1 - Brand Storytelling
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metodi di condivisioni e confronti di opinioni totalmente nuovi, hanno smosso dalle fondamenta il mondo del marketing e della pubblicità. Finalmente era possibile scoprire cosa stava dietro all’ingranaggio che faceva funzionare le grandi imprese, il marchio non era più solo un simbolo misterioso e inarrivabile. All’epoca era difficile prevedere questo a cosa avrebbe portato, e nessuno era preparato a interfacciarsi con il consumatore in questi termini. Fu quando cominciarono a diffondersi materiali che provavano un cattivo comportamento di determinate imprese che la fiducia nei marchi venne meno. La reputazione di un brand ora poteva venire compromessa fatalmente. Alcuni dei più grandi marchi americani furono letteralmente assorbiti in degli scandali mediatici e messi duramente in difficoltà. Divenne chiaro come la loro identità effimera non fosse più abbastanza per convincere i consumatori a fruire passivamente dei loro prodotti. Uno dei casi più indicativi di questo momento di rottura è quello di Nike, che a partire dal 1995 ha dovuto far fronte a delle pesanti accuse di sfruttamento di minori sul lavoro, risultato di indagini condotte nei confronti del marchio. In men che non si dica il “Nike spirit” venne accostato percettivamente dall’opinione pubblica allo sfruttamento dei poveri bambini cinesi costretti ai lavori forzati per un monte ore disumano e con una paga inaccettabile. In sintesi: la cosa peggiore che possa capitare a un brand. Un’azienda con la notorietà di Nike accostata a una tale diffusione di fatti e quindi di valori negativi può smantellarne “l’effimera Storytelling / Storyshowing
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Naomi Kleinn, (op. cit.)
Christian Salmon “Storytelling” Fazi, 2008
Capitolo 1 - Brand Storytelling
identità” fragile e fondata su delle basi obsolete, e può significare il fallimento totale. “Il branding è una specie di palloncino che si gonfia con estrema facilità, ma che in fondo è pieno d’aria. Non deve quindi stupire il fatto che questo sistema abbia generato dei veri e propri eserciti critici armati di spilloni che non vedono l’ora di far scoppiare i palloncini” Questa affermazione di Naomi Klein esprime piuttosto bene la situazione del rapporto corporazione-consumatore in quel momento storico, anche se per quanto riguarda Nike le accuse erano state condotte e dimostrate con una fondatezza incontrovertibile e costituirono un cancro all’interno dell’immagine dell’azienda. E i più grossi sono i palloncini, più assordante è il botto quando scoppiano. I portavoce della Nike si videro costretti a correre ai ripari scusandosi pubblicamente con i loro consumatori e promettendo di cambiare radicalmente la politica aziendale, cercando di riparare al danno. Ma ormai era chiaro che il danno era fatto e che per salvare la situazione ci sarebbe stato bisogno di un approccio mai utilizzato prima. “L’immagine non bastava più. Bisognava radicare la marca in qualcosa di meno volatile di uno slogan, di un elegante logo o di un assordante spot. […] La funzione del marketing è vendere. Si può raggiungere questo obbiettivo in diversi modi: con la pubblicità aggressiva o con gli incentivi materiali, in maniera diretta o indiretta, con una pubblicità che influenza in modo subliminale, ma anche coinvolgendo il consumatore in una relazione durevole ed 21
emozionale. Questo è il ruolo del marchio: ‘ coinvolgere’ il consumatore. Questa è la sua efficacia, li suo mistero.”
Steve Denning, “The leader’s guide to Storytelling, Mastering the Art and discipline of business narrative” Jossey-bass, 2005
Storytelling / Storyshowing
Nike aveva bisogno di costruire qualcosa che permettesse di far passare in secondo piano le storie che in tutto il mondo andavano ripetendosi attraverso ogni media, aveva bisogno di immagini da diffondere in contrasto a quelle dei bambini lavoratori pakistani piegati sui palloni da calcio, di concetti e di emozioni che fino a quel momento non erano esistite. Aveva bisogno di colmare quello spazio che ora era occupato da delle brutte storie con qualcosa di positivo, costruttivo e duraturo, qualcosa che potesse cancellare il ruolo passivo dei consumatori e instaurare una vera e propria relazione, poiché come afferma il guru dello storytelling Steve Denning: “Una marca è essenzialmente una relazione”. Nike cerca di risolvere il problema al nocciolo servendosi dei principali esponenti delle campagne contro se stessa. Alcuni dei nomi più di spicco che negli anni precedenti avevano dedicato la loro esperienza a cercare di smantellare il marchio, vengono assunti e messi al lavoro per la ricostruzione di esso. Partendo dal cambiamento della politica sul lavoro e puntando all’avvicinamento al consumatore, Nike provò a risollevarsi cominciando a prendere il controllo della propria narrazione e cambiando la propria storia. Questo è un primo esempio per capire quella che per Nike è stata una reazione quasi obbligatoria, dettata dalla necessità di sopravvivere alle accuse e al danno fatto alla 22
propria immagine, ma che per tutte le altre aziende ha costituito un segnale di allarme. Indice del tempo che stava cambiando e che l’era della focalizzazione assoluta sulla brand image era al tramonto, mentre quella della brand story era appena iniziata. Si assiste a un fondamentale cambio di linguaggio, dove tutto l’arco di vita del marchio viene concepito come una grande e continua narrazione, dove vengo mostrati degli scenari di possibili realtà e dove il marchio non è più il fine ma il mezzo, è una via di accesso a queste realtà. Le campagne pubblicitarie e di comunicazione cominciano a essere trattate come dei veri e propri episodi di fasi narrative di un brand, dove appaiono personaggi con determinate caratteristiche e in determinati contesti. In questo Nike è riuscita particolarmente bene: appropriandosi di valori legati allo sport, come il costante miglioramento di se stessi, o elevando lo “street playing“ a un’arte direttamente connessa alla vita sportiva, e rendendo il “trick“ tipico dei freestyler il suo marchio di fabbrica. Questi sono risultati ottenuti sullo studio di un impianto narrativo che perdura nel tempo e ha portato via via alla creazione di comunità che coinvolgono gli utenti in eventi sportivi collettivi sotto l’ala valoriale del brand.
Capitolo 1 - Brand Storytelling
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1.2 Narrare, non solo storie la forma e il ruolo del design
Antonella Penati “È il design una narrazione?” Mimesis Edizioni, Milano 2013, pg.19
Capitolo 3 - Design Storytelling Storytelling / Storyshowing
In una situazione progettuale dove l’obbiettivo è comunicare un brand, dei prodotti, e i valori ad essi correlati, la forma e la presentazione hanno la stessa importanza del contenuto. Essi sono interdipendenti, si fondono in una cosa sola; nella comunicazione di marca il significante si fa significato. Per ottenere un effetto di senso tale è necessario tenere conto di tutte le variabili in fase progettuale, ed è qui che entra in gioco il design e in particolare il design della comunicazione, come metodo per la progettazione visiva di messaggi e significati. Come dice Penati: “ Le azioni di traduzione, mediazione, codifica e decodifica investono il design, anche per la sua natura di disciplina aperta, quasi necessitata ad entrare in relazione ed accogliere i contributi di altre discipline e di altri saperi. Ed avendo a che fare sia con la dimensione esplicita che tacita della conoscenza, sia con quella analitica che sintetica, sia con quella teorica che pratica, il design ha anche costruito nel tempo forme sofisticate di manipolazione di testi verbali, visivi, materici e oggettuali passando attraverso strumenti di contestualizzazione, decontestualizzazione, astrazione, metaforizzazione”. Anche se non esplicito e diretto come il linguaggio parlato, il design comunica in modo laterale e spesso più efficace e funzionale della parola. Un errore a cui si va incontro è identificare il design nel solo oggetto finito, come prodotto indipendente dal suo processo creativo e comunicativo, avulso da ogni contesto. Per carpirne il fattore narrativo è necessario concepirlo come un “sistema” e come un “processo” dipendente da un iter creativo e progettuale, prima della produzione, e da uno 24
Acuni artefatti visivi di scena progettati da Annie Atkins per il film “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson, per il quale ha lavorato anche sul set di altri film. www.annieatkins.com/
promozionale comunicativo e di inserimento in un tessuto sociale e nel mercato, dopo la produzione. Davide Pinardi in “Narrare, dall’odissea al mondo Ikea”, analizza la natura ambivalente della narrazione quando parte da un ambito progettuale: “Le cose che nascono intenzionalmente già come oggetto narrativo sono frutto di una diretta volontà umana in tal senso. Questo si verifica quando sono frutto di un cosciente progetto narrativo che ha portato alla loro esistenza: pensiamo alle produzioni artistiche, a tanta parte dell’architettura, del design o della moda ma anche a tante invenzioni e creazioni umane
Capitolo 1 - Brand Storytelling
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Davide Pinardi “Narrare, dall’odissea al mondo Ikea” Paginauno, Milano 2010, pg. 174
non necessariamente artistiche ma frutto di ingegno per rispondere a necessità materiali. Dunque un progetto narrativo può nascere già tale in seguito a un progetto (e dunque ha assorbito narrazione nella fase generativa); oppure non lo è ma lo diventa in seguito alle narrazioni umane.” Un segnale stradale ti dice una serie di azioni che è necessario svolgere o che è totalmente vietato fare e a volte ne esprime anche i motivi, comunica in maniera il più possibile universale e neutrale ed è narrativo; gli artefatti grafici della designer Americana Annie Atkins (http://annieatkins.com/), sono progettati come artefatti pubblicitari e di promozione, o per essere oggetto di scena in film e serie tv, per essere quindi a supporto di una sceneggiatura, funzionali alla narrazione. In maniera differente, ad esempio, un logo non è narrativo nel senso che racconta esplicitamente una storia con un inizio e una fine, ma è narrante nel senso che comunica una serie di valori fondanti l’azienda che rappresenta, comunica quello che il brand rappresenta, quello che sta dietro e quello che ha significato per i consumatori nel corso della sua presenza sul mercato e nell’immaginario collettivo. Allo stesso modo quando un oggetto di design per una serie di fattori (pensati o imprevisti) riesce ad acquisire un certo significato sociale diventa rappresentativo di uno “status simbol”, è narrante quindi di una certa immagine sociale. È il processo secondo il quale gli oggetti di design tipici di un certo periodo storico non emanano soltanto quello che sono in realtà, ma portano con sé tutto quello che voleva dire vivere in quegli anni, gli eventi storici che Capitolo 3 - Design Storytelling Storytelling / Storyshowing
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Antonella Penati “È il design una narrazione?” Mimesis Edizioni, Milano 2013, pg. 174
Op. cit.
Capitolo 1 - Brand Storytelling
sono accaduti, le mode, le abitudini sociali e via dicendo, gli artefatti tipici di un’era sono narranti di quel dato periodo storico. È il senso a raccontare, è il significato che è rappresentato da un significante. Crea, dal punto di vista semiotico, un effetto di senso, un significato dato sia dall’insieme che da una parte di esso: “È alla vetrina, alla mostra e ai suoi cataloghi, agli allestimenti museali che il design affida il compito di creare cornici di senso, veri e propri espedienti narrativi chiamati ad unificare le micronarrazioni oggettuali in un unico grande racconto.” L’artefatto è quindi comunicativo e narrativo per “evocazione”, per le sensazioni percettive, per gli effetti di senso che provoca: “Le storie che ascoltiamo o leggiamo sono solo la modalità in cui si manifesta ciò che la semiotica strutturale ha chiamato ‘narratività’: la quale genera pratiche quotidiane, credenze e stili di vita. Persino forme di organizzazione sociale. In altre parole, la narratività è lo schema logicosintattico attraverso cui il senso si organizza per essere manifestato. E di conseguenza, possiamo dire, anche il modo in cui il senso può essere progettato. […] Così, quando l’allestimento di una mostra o le fasi di una campagna di comunicazione provocano nell’utenza un’esperienza di coinvolgimento – ‘come in un film’ _, possiamo dire che si presentano come elemento di una storia possibile: non si limitano all’informazione, mirano all’evocazione. E perché in tal modo il soggetto utente è chiamato a diventare parte di quella storia, come seguendo un’avventura. Allo stesso modo, gli artefatti
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d’uso entrano nella nostra storia quotidiana, spesso come oggetti del desiderio o come oggetti magici, altre volte come angeli che ci guidano e aiutano, altre ancora come demoni che creano dipendenza.” Il design è tale quindi anche per questa sua natura narrativa dialogica. Un artefatto diventa leggendario e immortale quando racconta in maniera efficace ed evocativa la sua funzione e quello che significa, quando è portatore di un’identità poetica, di un plus valore che lo contraddistingue da qualsiasi altro oggetto o, nel caso del design della comunicazione, quando utilizza un linguaggio o un supporto non convenzionali per fissare l’informazione e il contenuto nel fruitore in maniera più efficace e duratura possibile.
Storytelling / Storyshowing
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Capitolo - Paragrafo
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1.3 Identità come racconto
Per il design della comunicazione la questione è leggermente diversa. Queste caratteristiche narrative dialogiche e ambivalenti si intersecano e si mischiano e agiscono sullo stesso piano percettivo. Questo avviene poiché un artefatto comunicativo è strettamente collegato al contenuto che comunica e da esso non può ovviamente prescindere. Il testo o le immagini, il contenuto esplicito che viene presentato coopera sullo stesso piano con una serie di scelte progettuali compositive ed esecutive, espositive e di “gestalt”, dando vita ogni volta a nuove modalità di fruizione e a volte anche a nuovi linguaggi visivi. Il design della comunicazione ha a che fare con la parola scritta e parlata, la tipografia ,con le immagini e con le forme, stampate e in movimento, con differenti linguaggi, con il colore, con i formati e la leggibilità, la coerenza compositiva e la percezione. Ma come il design in generale (e in maniera più determinante) deve tenere conto delle leggi (scritte e non scritte) e delle convenzioni sociali del paese in cui opera e per il quale un artefatto viene progettato. Il progetto di design della comunicazione è una mediazione fra i fattori in gioco, un’organizzazione dialogante fra tutti gli attori meta-progettuali presi in considerazione. Per creare una narrazione implicita oltre che esplicita è necessario che ogni fattore venga progettato e pensato nella direzione di senso che si vuole ottenere. “Niente è più evidente del fatto che ogni intreccio degno del nome deve essere elaborato fino al suo dènouement prima che si tenti la stesura di qualche parte. Solo
Capitolo 3 - Design Storytelling Storytelling / Storyshowing
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Riccardo Falcinelli “Critica portatile al visual design, da Gutneberg ai social network.” Einaudi, Torino, 2014, pg. 17
Capitolo 1 - Brand Storytelling
tenendo sempre presente il dènouement si può dare a un intreccio il suo necessario aspetto di coerenza, o connessione causale, facendo in modo che, in ogni punto, gli avvenimenti e soprattutto il tono seguano lo sviluppo del disegno” In “Philosophy of composition”, pubblicato per la prima volta 230 anni fa, Edgar Allan Poe fornisce degli elementi meta-progettuali per la scrittura di una poesia, mettendo dei punti fermi sul modo in cui una narrazione dovrebbe essere progettata per conseguire un determinato ed efficace risultato di senso nel lettore. Oggi, nel progetto di design della comunicazione, deve avvenire lo stesso. Perché un artefatto visivo sia narrante e non semplicemente informativo, ogni suo elemento deve essere progettato in direzione di un certo obiettivo di senso, in maniera da offrire stimoli multisensoriali, deve quindi essere, come afferma Riccardo Falcinelli, “sinestesico”: “Il visual design è quindi sempre sinestesico e, anche con l’artefatto apparentemente più elementare come un semplice foglio stampato, dobbiamo essere consapevoli del flusso multisensoriale in cui verrà percepito. Ecco dunque che la grafica di un libro non sarà solo la figura di copertina, ma anche il titolo, l’autore, il prezzo, la sua forma, la carta, la colla, l’odore, il numero di pagine, il peso, la sensazione al tatto e tutto ciò che si presenta alla percezione del lettore. Vedere è un atto complesso che non può essere ridotto alla mera decifrazione di una bella composizione.”
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Ibidem
Falcinelli esprime come un artefatto comunicativo dev’essere un “contenitore narrativo” oltre che un veicolo di contenuto. Per spiegare questo fattore descrive una delle famose opere di Bruno Munari: i Libri illeggibili che, creati utilizzando diversi tipi di carte, con diverse forme, giocando sulle trasparenze, i tagli, i colori e i pieni e vuoti, portano all’estremo questa riflessione sull’aspetto multisensoriale dell’approccio al libro, eliminando totalmente la parola e spostando l’attenzione su una narrazione sensoriale: “Prescindendo dal testo, e sfruttando tutte le possibilità della tipografia e della cartotecnica, Munari arriva a concepire un libro che , senza parole, costruisce una storia leggibile seguendo un filo puramente visivo.”
Alcune pagine dei “Libri Illeggibili” di Bruno Munari www.officina-creativa.net/articoli/i-prelibri-di-bruno-munari.html
Storytelling / Storyshowing
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Immagini dai titoli di testa del capolavoro cinematografico di Alfred Hitchcock: “Vertigo” Youtube
Capitolo 1 - Brand Storytelling
Anche nel grande e nel piccolo schermo ci sono testimonianze di come questa consapevolezza sia fondamentale. Il cinema ne è anzi un’espressione quintessenziale, poiché sceneggiatura, copione, recitazione, riprese, fotografia, costumi, trucco, scenografia e post-produzione sono tutte sfumature dello stesso progetto, e devono andare nella stessa direzione di senso. La storia deve essere pre-raccontata dalle sensazioni sinestesiche provocate da tutti gli artifici tecnici e progettuali possibili, che sono anch’essi comunicativi di un contesto inconscio espresso dalla narrazione. Questo viene espresso ad esempio nei titoli di testa; come avviene nella famosissima sequenza di apertura del film di Alfred Hitchcock Vertigo: un susseguirsi di composizioni grafiche vorticose che fanno girare la testa, accompagnati da un sottofondo musicale che non fa che alimentare l’ansia. 33
Storytelling / Storyshowing
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Antonella Penati “È il design una narrazione?” Mimesis Edizioni, Milano 2013,
Nella pagina a sinistra, alcune immagini dalla sigla della serie televisiva “American Horror Story: Asylum” della Fox (2012) Youtube
Capitolo 1 - Brand Storytelling
In tempi più recenti per la serie tv American Horror Story: Asylum della Fox (2012), viene progettata una sigla di apertura dai toni veramente efficaci di orrore e fastidio. La colonna sonora è più un collage sinistro e alienante di suoni angoscianti che un vero e proprio motivo; ad essa è accostato un susseguirsi di immagini scattose e ”sporche” di un manicomio dove gli inservienti e il corpo rieducativo sono più deviati dei loro pazienti. Scattose come se le vedessimo attraverso gli occhi di uno dei pazienti di cui la storia parla, e sporche come se fossero trasmesse da una vecchia pellicola degli anni in cui si svolge la storia. Il carattere utilizzato è strano e poco leggibile (come se fosse la scrittura di un pazzo), ed aumenta la sensazione di estraniamento comparendo a scatti e disturbato, proprio come fosse una vecchia diapositiva. Questa è l’introduzione che prepara lo spettatore a recepire gli timoli visivi in un certo modo, e a vivere la narrazione della storia con determinati stimoli sensoriali ed emotivi ancora prima che essa cominci. È anche questo il ruolo del design della comunicazione: creare “micro-narrazioni di anticipo”, e questo vale sia per le tempistiche di una sigla che per il millisecondo necessario a percepire l’icona dello strumento che ci serve in una determinata interfaccia. “La lettera variabile di Gutenberg, la vignetta dell’Encyclopédie, lo schermo del cinematografo, l’icona del file nell’interfaccia del personal computer si susseguono con dettagli rivelatori che sono frammenti dotati di senso perché carichi di una componente predittiva: celano nuclei di mitografie prospettiche, micro-narrazioni di anticipazione.” 35
1.4 Conclusioni Scatto attenzionale e patto fiduciario
Davide Pinardi “Narrare, Dall’Odissea al mondo Ikea” Paginauno, Milano 2009
Storytelling / Storyshowing
Assumendo come dato di fatto che il raccontare una storia e/o comunicare un messaggio non avvenga solo in maniera attiva attraverso il contenuto in sè, ma anche attraverso la forma visiva, il tone of voice e le modalità in cui viene presentato è chiaro che essi devono essere trattati sullo stesso piano. Sono entrambi atti alla buona riuscita della percezione del messaggio. Forma e contenuto devono dialogare, come afferma Poe. Essi devono entrambi quindi portare alla creazione di quelli che Davide Pinardi descrive come due elementi fondamentali della comunicazione: scatto attenzionale prima e patto fiduciario; artifici necessari per la costruzione di un “dialogo” che accenda emozioni memorabili e perfettamente inseribile, fra tanti, nell’universo valoriale di un brand. L’obbiettivo è quello di catturare la percezione dello spettatore mediante uno scatto attenzionale, per poi instaurare un patto fiduciario. Due azioni fondamentali per l’efficacia di una narrazione, soprattutto nell’advertising. Davide pinardi descrive in questo modo lo scatto attenzionale:“È l’elemento che fa aprire il sipario dello spettacolo. È la frattura, il moto oppositivo, la differenza dall’abituale, dall’atteso, dal consuetudinario che genera un’attesa potenzialmente emozionante. […] un clic che faccia emergere da un continuum indifferenziato quella narrazione che ora andrà a esitere, precisamente quella, specificatamente quella.” In determinate factis specie lo scatto attenzionale si traduce in scelte compositive come ad esempio una ripresa del nostro eroe 36
in una situazione non ortodossa oppure un accadimento che generi stupore e via dicendo. Una volta provocato il “clic” attenzionale la strada è spianata verso il patto fiduciario, situazione percettiva che si attiva nel fruitore che di nuovo Pinardi descrive come una sorta di “contratto emozionale”; il narratore (inteso in senso generale, nel nostro caso il brand che diffonde lo spot) crea un patto di credito fiduciario dove a livello subliminale promette al narratario (nel nostro caso lo spettatore) che la narrazione che sta per fruire lo stupirà e sarà per lui memorabile. “Con lo stabilimento del patto fiduciario il narratario accetta la sfida del narratore che si è dichiarato in grado di sedurlo.” Questi due artifici del rapporto fra messaggio e destinatario sono due fasi chiave per la buona riuscita di un artefatto pubblicitario. Per quanto riguarda l’advertising queste fasi si consumano in pochi secondi, in altri casi e in altre aree di fruizione sono elementi che si manifestano e si instaurano in tempi più dilatati e in diverse modalità, come si vedrà più avanti.
Capitolo 1 - Brand Storytelling
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Capitolo 2
LE INFLUENZE DEL CONTESTO
“Credo che potremmo eleggere uno qualunque degli attori di Hollywood, a condizione che abbia una storia da raccontare; una storia che dica alla gente che cos’è il paese e come lo vede.”
James Carville, Spin doctor. Huffington post, 2004
2.1 Guerra e pace
L’atto di raccontare una storia per comunicare in modo laterale è dunque nato da una matrice di natura pubblicitaria, come artificio al servizio della comunicazione di marca. Come detto in precedenza però, questo è presto divenuto un modus operandi efficace anche in aree di applicazione che vanno al di là dell’advertising, ma che con esso hanno più a che vedere di quanto si possa pensare. Come un metodo come questo risulta molto funzionante là dove l’intento è pubblicizzare un prodotto o comunicare i propri brand values, è divenuto evidente che possa essere ugualmente efficace applicato al servizio di una propaganda politica, o del reclutamento militare. Più che un consapevole cambio di metodo, si tratta di aree di competenza diverse, che però convergono a obbiettivi finali molto simili. È evidente quindi che se un Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
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Christian Salmon “Storytelling” Fazi, 2001.
Huffinton post 2004
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esperto di marketing comincia a pensare con la sua squadra di creativi a come pubblicizzare il prossimo prodotto, mentre un politico si prepara al prossimo evento in cui apparirà in pubblico, progettando il proprio discorso, i contenuti da esporre, il tono, il look e l’appeal finale, in realtà in entrambi i casi si tratta dello stesso metodo di base. Ragionare in questi termini in campo politico è proprio di un mestiere nato più di vent’anni fa: lo spin doctor. Il termine spin doctor si riferiva: “Alla distorsione e al capovolgimento. Si ispirava all’effetto che si da a una palla da tennis o al biliardo, o ancora al modo di far girare una trottola. Gli spin doctor si definivano dunque come degli agenti di influenza che fornivano argomenti, immagini e regia al fine di produrre l’effetto di opinione desiderato”. Piuttosto simile al ruolo dell’Art Director dopotutto. Questa definizione è nata per la prima volta negli anni ‘80 con il presidente Ronald Reagan che i famosi spin doctor James Carville e Paul Begala definirono: “il più grande narratore della storia politica degli ultimi cinquanta anni, anche se la maggior parte delle storie che raccontava erano tutte false.”
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Ronald Reagan, soprannominato “Il Presidente Attore”, fu uno dei primi grandi Storyteller, anche grazie ai suoi Spin Doctors. (Huffington post)
op. cit.
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
In politica fare dello storytelling può rivelarsi un’arma a doppio taglio poiché un politico è più soggetto a critiche ed esaminazioni di chiunque altro personaggio pubblico. Reagan non inventava di sana pianta, ma era solito creare delle metafore e delle situazioni narrative che potessero far capire determinati concetti in maniera semplice e immediata, un metodo efficace, ma controproducente se portato oltre certi limiti. Egli fu un precursore dell’uso delle storie allo scopo di comunicare fatti e informazioni in politica, del racconto di situazioni evocative al posto di una semplice esposizione di dati. Gli esperti ancora oggi imputano all’introduzione del metodo di Reagan il motivo per cui gli Americani sono sempre stati via via più disposti ad appoggiare ed apprezzare questo approccio, insieme alla influenza di Hollywood che ha educato le menti a un certo tipo di linguaggio narrativo, e al fatto che negli ultimi tempi la confusione, 43
op. cit.
op. cit.
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la disomogeneità, e la enorme quantità di informazioni politiche ha spinto sempre di più la popolazione a focalizzarsi su delle storie semplici. D’altronde come affermò Barthes: “Il racconto è una delle grandi categorie della conoscenza che ci permettono di comprendere e ordinare il mondo”. Molti anni dopo, in un’ottica più vicina alla nostra, Carville e Begala ribadiscono il concetto: “Se non comunicate con le storie, non comunicate. Gli uomini trattano le informazioni sotto forma narrativa. Ecco perché fin dai miti greci e dai griot Africani, la storia dell’umanità è sempre stata trasmessa attraverso le narrazioni.”
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2.1.1 Ashley’s Story
Spesso fare del buon storytelling significa anche saper sfruttare l’occasione giusta quando essa si presenta. Quando accade qualcosa di imprevisto ed eclatante, dalla grande carica iconica e valoriale, è giusto poi elaborarlo e raccontarlo, e utilizzarlo ad esempio per fare una buona propaganda. Questo è quello che è successo durante la campagna elettorale repubblicana in America nel 2004. Il giorno 6 maggio di quell’anno, il presidente uscente George W. Bush era in visita a Lebanon, Ohio, in una delle tappe della sua campagna elettorale attraverso gli Stati Uniti. Fu dopo un comizio pubblico, durante le strette di mano e i saluti con gli elettori che avvengono
“The Hug” La foto scattata dal Sig. Faulkner, il giorno dell’incontro fra Ashley e il presidente Bush www.ashleystory.com
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Frame dal video Ashley’s Story www.youtube.com/watch?v=LWA052-Bl48
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di consueto, il presidente incontrò Ashley Faulkner.Ashley è una ragazzina di 16 anni che ha perso la madre durante l’attentato terroristico dell’11 settembre al World Trade Center. Da quel momento non è più stata la stessa, il trauma subito l’ha segnata. Quel giorno era uscita ad ascoltare Bush insieme a un’amica di famiglia che richiamò l’attenzione del presidente dicendogli che Ashley aveva perso la madre durante l’attentato. Il presidente si rivolse quindi ad Ashley chiedendole come stava, se era tutto ok, abbracciandola. Fu in quel momento che la povera ragazza rilasciò tutta la sua disperazione, scoppiando a 47
piangere. Momento che venne fotografato dal padre della ragazza, John Faulkner. Si dà il caso che il Sig. Faulkner fosse un consulente di marketing che capì il valore autentico di quel momento immortalato prontamente, e quando ccondivise la foto per mail con degli amici di famiglia sostenitori del presidente, lo scatto, da quel momento rinominato “The Hug”, in poco tempo divenne virale diffondendosi attraverso l’America. Quando tempo dopo gli venne proposto da una compagnia conservatrice sostenitrice di Bush di utilizzare la storia della famiglia Faulkner per farne uno spot elettorale, John accetta. E così è nato “Ashley’s story”; lo spot viene prodotto e trasmesso durante la campagna elettorale in quegli stati dove i pronostici della sfida fra repubblicani e democratici erano ancora incerti. E questo secondo molti studiosi della materia, ha in parte cambiato il risultato delle elezioni di quell’anno. Lo spot si apre con il Sig. Faulkner che spiega che sua moglie è morta durante il World Trade Center. Le immagini passano da un serissimo Padre, a una foto della figlia con sua madre, alla stessa figlia malinconica stesa su un’amaca a leggere in solitudine, al presidente che approda in città quel famoso 6 maggio 2004. “Dalla morte di sua madre, Ashley, la bambina dei Faulkner si è chiusa in sé stessa. Ma quando il presidente George W. Bush è venuto a Lebanon, Ashley è andata a vederlo, come aveva fatto quattro anni prima con sua madre...” recita la voce narrante. Poi interviene l’amica di famiglia che era presente quel giorno: “Il presidente veniva verso di me, Allora gli ho detto: ‘Signor Presidente, questa ragazza Storytelling / Storyshowing
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Youtube op.cit.
ha perso sua madre al World Trade Center.’ ”, poi è la stessa Ashley a continuare: “Lui si è voltato e mi ha detto, ‘ So che è difficile. Come stai? ‘ . Ed io ho pensato: ‘ È l’uomo piu potente del mondo e vuole essere sicuro che io stia bene, che per me sia tutto ok”. Poi di nuovo la signora: “Il nostro Presidente allora ha preso Ashley tra le braccia e se l’è portata al cuore, ed è stato allora che abbiamo visto i suoi occhi riempirsi di lacrime”, ed è in questo momento che compare sullo schermo il famoso scatto, “The Hug”. “Bush consola la figlia di una vittima dell’11 settembre” recita su una foto il titolo di un giornale mentre il padre conclude: ”È ciò che voglio vedere nel cuore e nell’anima di un uomo che occupa le più alte cariche del nostro paese.” Lo spot termina con una foto del presidente con lo sguardo chino in un atteggiamento serio e riflessivo. Esattamente come avviene per i prodotti degli spot analizzati in precedenza, il soggetto della narrazione non è il presidente, ma Ashley e la sua storia. Bush interviene solo come Deus ex machina della narrazione, un santo che porta alla redenzione una povera ragazzina tormentata dal dolore. Il presidente non parla e non compare se non in foto, quasi come se fosse un’icona religiosa. È appunto dagli stilemi del linguaggio religioso da cui viene presa ispirazione per raccontare la vicenda, le frasi dette sembrano citazioni misteriche di un libro sacro e le immagini del presidente mostrate durante lo spot richiamano le raffigurazioni dei santi intenti a svolgere le loro gesta misericordiose. Questo spot è passato alla storia non solo per essere stato uno dei progetti più costosi della storia della campagna elettorale Americana, ma anche
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per aver riscosso un successo ammesso persino dalla fazione politica avversaria, grazie all’innegabile autenticità che comunicava. E’ stata un’opera di storytelling molto costosa poiché si è voluta sfruttare questa occasione per raccontare una storia unica, in quello che all’epoca era poco tempo rimasto per la campagna elettorale e inoltre il progetto si è esteso alla creazione di un sito (www.ashleysstory.com), alla spedizione di milioni di opuscoli e l’avvio di una campagna di chiamate telefoniche automatiche. Questo è il punto in cui ci si può spingere rendendosi conto di avere del buon materiale per le mani, un contenuto sensibile da comunicare ai propri sostenitori.
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2.1.2 Yes we can
Il 4 novembre 2008, per la prima volta nella storia del popolo Americano, viene eletto il primo presidente Afroamericano: Barack Obama. L’elezione di Obama è un evento senza precedenti, che passerà però alla storia non solo per una questione di natura sociale e razziale, ma anche per le innovative tecniche messe in pratica durante la sua (ormai famosa) campagna elettorale. All’inizio della sua corsa al titolo di presidente, Obama si era trovato subito a dover fronteggiare due avversari assai temibili, Hillary Clinton alle primarie, e John McCain all’eventuale confronto conseguente.
L’iconica immagine del presidente Obama, illustrata da Shepard Fairey famoso illustratore, attivista politico, e fondatore di OBEY clothing, noto brand di abbigliamento streetwear . www.newsbusters.org/blogs/ warner-todd-huston/2008/06/22/ obamas-propagandistic-iconography-making-messiah www.obey.com
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Immagini delle home del sito principale della campagna Obama all’inizio del mandato e ad oggi. www.mybo.com www.barackobama.com
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Per riuscire ad avere qualche possibilità contro due figure politiche affermate come queste, Obama e il suo team decisero di rivolgersi a quelle frange della popolazione che non costituivano il target principale degli altri due avversari, interessati principalmente alla classe dirigente del partito. Per raggiungere e creare un contatto in modo efficace con la classe media, le migliaia famiglie normali che popolavano l’America in ogni angolo, c’era soltanto un modo: Internet. Fin da subito gli investimenti per la campagna elettorale furono indirizzati verso questa direzione, con un gruppo di ben 11 persone dedicato alla gestione dei “new media” (un numero all’epoca piuttosto alto per una campagna elettorale) e la creazione di un social 53
www.peachpit.com/articles/article. aspx?p=1352540&seqNum=4
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network dedicato chiamato My.BarackObama (poi abbreviato in My.Bo), partendo dai contatti del blog di Obama. Rivolgersi alla rete per creare un vero e proprio movimento a sostegno della causa di Barack Obama, questo era l’obbiettivo. In realtà già altri candidati (McCain e Dean) avevano già provato anni prima ad espandere la propria influenza anche nella rete, ma senza dargli troppa fiducia, e non riuscendo quindi a tradurre gli sforzi in attività pratica. Obama invece ha tentato il tutto per tutto, dando piena fiducia alla comunità online e investendo quasi 20 milioni di dollari per questo tipo di campagna, rischiando molto, ma ottenendo tantissimo. Quello che ha ottenuto Obama lo deve a un impegno notevole nel capire le meccaniche dei social network, per poi creare dei profili con cui interagire in qualsiasi tipo diverso di queste piattaforme, rivolgendosi a tutte le nicchie sociali, le minoranze e le frange demografiche della popolazione Americana. In questo modo è riuscito ad intercettare i futuri sostenitori con i quali entrare in contatto per creare una comunità, compilando un inestimabile database di 13 milioni di indirizzi email, attraverso i quali comunicare direttamente e richiedere delle piccole donazioni. Le donazioni sono state un altro grande risultato, e alla fine della campagna sono stati raccolti $750 milioni, dei quali $500 milioni sono stati acquisiti grazie alla raccolta fondi online. Per incentivare gli elettori a fare una piccola donazione venne introdotta la distribuzione di piccoli premi e riconoscimenti a coloro che acquisivano più punti donazione. Venne persino organizzata una lotteria che consisteva, ogni mese, nell’estrazione a 54
www.campaignstops.blogs. nytimes.com/2008/11/20/the-o-inobama/?_r=1
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sorte di un nome fra quelli dei sostenitori più volenterosi; coloro il cui nome veniva estratto avevano la possibilità di cenare con il futuro presidente, avendo l’occasione di avere un colloquio privato con lui e di esporgli le proprie storie personali. E questo è un punto nevralgico del successo di questa campagna: le storie degli elettori. Dopo ogni cena venivano selezionate le storie più rilevanti e venivano postate sul blog ufficiale, dove gli altri utenti potevano fruire dei contenuti sempre nuovi, che arrivavano da persone normali come loro. I sostenitori venivano ingaggiati per poi diventare loro stessi dei “profeti” dei valori del presidente attraverso la loro esperienza quotidiana. 55
Valerio Quatrano “Come Vincere le elezioni con Internet” www.faicomeobama.com
Ogni passo della campagna era rivolto verso questo obbiettivo, dalle domande poste agli utenti attraverso Yahoo Answers, ai video di vari testimonial più o meno celebri postati su youtube senza i diritti d’autore, permettendo così la rielaborazione e la condivisione dei contenuti da parte dei sostenitori. Obama ha saputo sfruttare la rete a suo vantaggio ma non per amplificare il proprio ego e le proprie idee univoche, ma per poter raggiungere più a fondo i suoi elettori e poterli ascoltare. Quando un possibile elettore si rende conto che raccontando la propria storia viene ascoltato, si trasformerà in un attivo sostenitore. È così che sostanzialmente la campagna ad un certo punto viveva di vita propria poiché erano gli utenti, le persone normali che la portavano avanti. Valerio Quatrano, nel suo “Come vincere le elezioni con internet” riassume: “Il vero punto forte di questa strategia non erano le storie del candidato, ma quelle dei suoi sostenitori. Plouffe [David Plouffe, il manager della campagna di Obama, ovvero il suo spin doctor] aveva capito bene che c’erano centinaia di attivisti che avevano storie interessanti e commoventi da raccontare. La strategia della campagna era quella di dare massimo risalto alle storie del movimento direttamente sul blog e sui canali correlati. Solo così l’America avrebbe capito che dietro Obama c’erano persone comuni, non lobby del petrolio o delle sigarette...” Per la prima volta non era un candidato che propinava le proprie arringhe a un pubblico passivo, era la popolazione a portare avanti la propria campagna, il focus non era concentrato sull’ aspirante al titolo, ma sui suoi sostenitori
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(esattamente come i prodotti e i servizi negli spot di brand storytelling) e attraverso di essi, la forza dei suoi valori. Persino a livello di comunicazione visiva in questa campagna è stata riservata un’attenzione particolare: l’onnipresente logo del presidente è diventato il simbolo della speranza, icona evocativa di un mondo valoriale, e unito ad un utilizzo ponderato dei famosi claim che giravano (e girano tutt’oggi) tutti attorno alle parola chiave “Hope” e “Change”, il risultato è stato la creazione di una identità visiva esattamente come funziona per un brand. Obama e il suo team hanno sfruttato al cento per cento le possibilità che internet offre, costruendo una comunità attivista molto estesa, condividendo contenuti e spronando i fruitori a condividerli a loro volta, reclutando sostenitori, comunicando valori e raccogliendo fondi, portandola offline, coinvolgendo persone e permettendo ai propri profeti di organizzare incontri ed eventi, iniziative e manifestazioni, raccontando la grande storia di speranza alla quale chiunque avrebbe potuto partecipare, dando il proprio contributo e avendo una parte in essa.
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2.1.3 Immersive reality
Nonny De La Peña conosciuta come la “Madrina della realtà virtuale” www.immersivejournalism. com/key-bios/
Esistono due motivi per i quali la guerra deve essere raccontata che vanno in due diverse direzioni: il primo è di natura giornalistica, mosso dal diritto all’informazione; il secondo invece riguarda la preparazione di un militare prima di scendere sul campo. In entrambi i casi, la necessità è di rendere l’esperienza della guerra sempre più reale e credibile, in modo da poterla raccontare nel modo più esaustivo possibile, a un livello impossibile da raggiungere mediante un articolo di giornale o di una rivista, o uno studio tattico a tavolino. Con l’aumentare della violenza e delle situazioni critiche nei paesi in guerra civile, è sempre più difficile salvaguardare la situazione dei giornalisti inviati in queste zone, che mettono a rischio la propria vita per riportare le notizie delle atrocità che succedono nel mondo, notizie che spesso vengono spesso percepite in modo freddo e distaccato, come qualcosa di remoto. È per questo motivo che Nonny De La Peña, ricercatrice della Southern California’s Annenberg School of Journalism, cerca da diversi anni di spingersi oltre i limiti
http://www.immersivejournalism.com/key-bios/
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Immagini dalla sequenza dell’esplosione che avviene in “Project Syria” (YouTube)
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della tecnologia, applicando al giornalismo delle tecniche per renderlo più efficace e suggestivo, per coinvolgere il lettore nella notizia. Soprannominata “Una delle 13 persone che hanno reso il 2012 più creativo” dalla FasCompany’s CoCreate: Nonny De La Peña si è dedicata nelle sue ricerche a quello che lei stessa ha definito “Immersive Journalism”; e cioè l’utilizzo della tecnologia 3D, per rendere la notizia un’esperienza “immersiva”, in cui si viene coinvolti a 360, e dove il lettore non è più solo tale ma diventa parte della notizia, andando quindi anche oltre lo status di spettatore. Nel suo progetto chiamato “Project Syria”, indossando un casco per la visualizzazione 3D, lo spettatore si ritrova in una strada di Aleppo, suoni e immagini sono progettati per riprodurre al meglio una situazione di normale vita quotidiana cittadina, ma proprio quando i sensi si sono abituati a quest’ambientazione, esplode una bomba in uno degli edifici circostanti. 60
La gente scappa in tutte le direzioni terrorizzata, alcuni feriti rimangono a terra agonizzanti, i suoni simulano lo stordimento tipico di chi è stato investito da un violento scoppio. Un progetto di questo genere potrebbe essere paragonato ad un “News Game”, videogioco con lo scopo finale di informare su un argomento, ma è in realtà ben diverso poiché un videogioco implica il raggiungimento di determinati obbiettivi, il superamento di livelli e via dicendo… “Project Syria” invece non da nessun vincolo, non fa altro che ricostruire l’evento nella maniera più accurata possibile trasmettendo un’esperienza multisensoriale dell’accaduto. Per riuscire a raggiungere questa resa dal punto di vista tecnologico, De La Peña e il suo team hanno condotto una ricerca estesa a qualsiasi materiale di repertorio originale sull’evento, arrivando a scoprire dei video amatoriali dell’attentato, analizzandoli e utilizzandoli per ricostruire Schema della triangolazione di reperimento dei dati necessari alla resa realistica della sequenza virtuale. motherboard.vice.com/read/virtual-reality-is-bringing-the-syrian-war-to-life
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motherboard.vice.com/read/virtual-reality-is-bringing-the-syrian-war-to-life
www.pagina99.it/news/societa/7090/Immersive-journalism--se-le-notizie.html
con la grafica computer il posto esatto in cui è avvenuto, prestando attenzione persino al viso delle persone presenti. Applicando poi l’audio originale dell’accaduto, il risultato è talmente efficace da togliere il fiato, generando sgomento e angoscia in coloro che hanno provato questa esperienza in prima persona. Ecco come viene utilizzato ogni tassello di materiale reale a disposizione per ricreare una storia nella quale essere immersi totalmente, in modo da percepire il messaggio direttamente, facendone addirittura parte. La stessa ricercatrice racconta a Creators Project: “Una persona mi ha detto che, due settimane dopo l’esperienza virtuale, sentiva ancora il ricordo della storia nel suo corpo. È incredibile vedere le persone agitarsi, saltare, correre e piegarsi, nel tentativo di interagire con la realtà virtuale circostante”. Nel periodo in cui Facebook ha comprato per ben due miliardi di dollari la tecnologia “Oculus rift”, la più innovativa nel campo dell’esperienza della realtà virtuale, questo potrebbe essere un modo per calare lo spettatore dentro la notizia, dandogli la possibilità di muoversi a suo piacimento all’interno di essa, come potrebbe avvenire in un videogioco, ma in una dimensione interattiva e coinvolgente che va persino oltre il cinema, creando un’empatia con il contesto in cui si dipana la vicenda irraggiungibile tramite la sola parola stampata. La questione è se questo metodo sia compatibile con il giornalismo così com’ è diventato nei nostri giorni: oggi l’informazione corre velocissima in format sempre più rapidi che possano soddisfare l’attenzione sempre più scarsa
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dei lettori, ma è forse proprio questo che ha sviluppato una reazione sempre più fredda e distaccata degli stessi, che trattano le notizie che avvengono nel mondo come lontane a meno che non accadano nel proprio paese, o a meno che non venga dedicata un’attenzione particolare dal mittente stesso. Su questo ultimo punto in particolare entra in gioco una questione deontologica: spesso le testate giornalistiche presentano le notizie nella maniera che trovano più congegnale per ottenere l’effetto desiderato, e in realtà dal punto di vista semiotico questo gesto è comunque un atto di storytelling, ma in questa sede non ci soffermeremo su questioni di morale che non ci concernono.
Davide Pinardi “Narrare, dall’Odissea al mondo Ikea” Paginauno, Milano, 2010,
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Il giornalismo e già di per se narrazione, ma questo ci dà l’occasione per tracciare una linea divisoria fra la narrazione pura e lo storytelling. Ponendo che un giornalista per etica professionale dovrebbe riportare i fatti così come sono, senza esprimere opinioni personali o di parte, senza quindi dare un impronta personale al racconto, il prodotto che ne esce sarebbe una semplice narrazione neutrale dei fatti. Davide Pinardi però, nel suo “Narrare, dall’Odissea al mondo Ikea” afferma che non è possibile generare un racconto totalmente neutrale, senza porre l’accento su determinati fattori che daranno una percezione diversa della vicenda, poiché già l’azione di raccontare una cosa piuttosto che un’altra, o utilizzare un determinato lessico piuttosto che un altro registro, è effettivamente una scelta arbitraria e quindi non neutrale: “Narrare non è mai trasmettere in modo neutrale un pacchetto di informazioni prefissate e pretese come 63
oggettive [...] Quindi la realtà di qualcosa che ha dato origine a una narrazione di realtà è qualcosa la cui natura e identità non ci è dato conoscere in modo assoluto e a cui piuttosto tentiamo di avvicinarci [...] Ciò che si narra insomma, non è mai realtà anche se si fanno narrazioni di realtà: è approssimazione di realtà.” Storytelling è quindi l’effetto di senso che avviene quando il mittente ha un determinato obiettivo di senso che vuole provocare nel destinatario, o quando inconsapevolmente egli trasmette il messaggio in un certo modo generando un effetto di senso imprevisto, ed è un effetto che il destinatario volente o nolente percepirà, e che condizionerà la stessa lettura del messaggio. L’utilizzo della tecnologia sviluppata da Nonny De La Peña potrebbe essere un metodo per fare storytelling in maniera il più possibile neutrale. Il fatto di non raccontare una vicenda con la parola scritta, ma utilizzando del materiale sensoriale realmente esistito, lascia poco all’immaginazione dello spettatore, che viene immerso a tuttotondo in un mondo dove invece l’esperienza è molto vicina al reale, generando spontaneamente emozioni reali che gli faranno vivere in prima persona la vicenda, anziché leggerla attraverso dei filtri formali. Utilizzare un medium il più possibile privo di scelte stilistiche arbitrarie, che si propone di riprodurre la realtà con più accuratezza possibile, potrebbe generare una narrazione trasparente e neutrale ma comunque dotata di un potere emozionale forte. Il futuro del giornalismo e della tecnologia faranno presto luce sull’utilizzo di questo metodo, che ad oggi è ancora troppo Storytelling / Storyshowing
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http://www.panorama.it/ mytech/giornalismo-immersivo-oculus/
oneroso in termini di lavorazione e costo. In conclusione, De la Peña non si sbilancia troppo sul futuro di questa innovativa pratica : “Non so se l’introduzione della realtà virtuale nel giornalismo possa cambiare il modo in cui le persone vedono le notizie; sicuramente cambierà il modo in cui le ricevono. Proprio com’ è stato con l’introduzione della radio o della televisione, cambierà la nostra percezione del mondo in cui viviamo”. Il secondo motivo per cui la guerra viene raccontata riguarda le difficoltà di addestramento di un corpo militare a fronte delle nuove modalità in cui viene condotto un conflitto. Dopo i grandi scontri storici, i meccanismi di come deve essere affrontato un conflitto militare sono cambiati: un soldato deve essere preparato a una guerriglia urbana, deve essere preparato a centinaia di situazioni e dinamiche diverse, a muoversi all’interno di un paese sconosciuto e fra culture diverse. Queste difficoltà con il tempo si sono unite a una crescente mancanza di fondi governativi e alla costante mancanza di tempo e di mezzi per l’addestramento del corpo militare. Si è detto che uno dei motivi per i quali lo storytelling sia efficace nella politica Americana (e non solo) è grazie all’influenza che Hollywood ha sull’immaginario popolare. C’è chi invece ha sfruttato direttamente le risorse che l’industria cinematografica può mettere a disposizione, per costruire la propria storia. Nel 1999, per la prima volta nella storia, si è formata una vera e propria collaborazione fra il Pentagono, l’università della California del sud e gli studios di Hollywood, per creare la vera prima esperienza di addestramento immersivo
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www.ict.usc.edu/prototypes/ jfets/
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di guerra. “Utilizzare un simulatore è dare un’opportunità a un individuo di fare degli errori qui, E ve lo garantisco, non farà quell’errore una seconda volta.”; Così parla il Sergente dell’esercito americano Gary Turner, a proposito del JFETS, ovvero: “Join Fire and Effects Training System” la tecnologia virtuale sviluppata in occasione di questa unione di forze voluta dalla sezione Army’s Simulation, Training and Instrumentation del governo Americano. Il JFETS è un simulatore semivirtuale costituito da uno schermo cilindrico all’interno del quale viene posto lo spettatore offrendo una visuale a 360 gradi e un audio ad alta definizione. Il punto di forza di questa tecnologia, come avviene per l’immersive journalism, è che tutti i dati, gli accadimenti e le ricostruzioni virtuali di quello che avviene durante un addestramento, sono basati sui racconti reali di chi si è trovato realmente
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Nota di spiegazione alla frase di questa riga. Un po più lunga per occupare più spazio.
http://archive.wired.com/ wired/archive/12.09/warroom. html?pg=2)
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in quel determinato tipo di situazione in precedenza. Di nuovo quindi il reale che viene raccontato per immergere uno spettatore in una situazione il più possibile autentica, per ottenere il maggior risultato di immedesimazione e quindi di esperienza accumulata. Per sapere come muoversi abilmente fra diverse dinamiche di risoluzione di problemi, un soldato deve affrontare un addestramento che lo metta alla prova tanto fisicamente quanto psicologicamente. E perché la mente di un soldato venga messa alla prova sotto stress, l’esperienza che vive deve risultare il più possibile convincente, il che coinvolge necessariamente tutti i sensi e implica una certa credibilità nello scorrere degli eventi. “Guardo dalla finestra, e il mio cervello non crede più che ciò che vedo sia il mondo reale, le macchine sull’autostrada e le villette 67
di Marina del Rey mi sembrano virtuali”. Così racconta Steve Silberman, il primo civile ad aver provato un’esperienza di immersive training militare, in un suo articolo per Wired magazine del 2004 ( , e prosegue in un estratto dal medesimo articolo: op. cit.
Per insegnare alle reclute come navigare in situazioni complesse, i pacchetti di formazione virtuali di ICT (Insitute for Creative Technologies, ndr) sono costruiti intorno alla più antica forma di esperienza coinvolgente: la narrazione. “Invece di spostare la classe sul campo, stiamo portando il campo in classe”, dice Randy Hill, vice direttore della sezione tecnologia dell’istituto. Un pacchetto software ICT per computer, chiamato ‘Pensa come un comandante’, impegna i capitani sotto addestramento in scenari di conflitto derivati da interviste con altri ufficiali che hanno prestato servizio in Bosnia o in Afghanistan. In una story-line, dei signori della guerra scendono su un avamposto di distribuzione alimentare, e il tirocinante deve determinare rapidamente di chi fidarsi e come costruire alleanze con la gente del posto. I ruoli dei soldati della coalizione, i leader tribali, e gli abitanti dei villaggi sono interpretati da avatar realistici programmati con megabyte di intelligenza artificiale, dottrina militare, e software di riconoscimento vocale e testuale.” Fin dal primo momento, nel mezzo di questa collaborazione fra Hollywood e l’apparato militare governativo, c’è stato un dibattito. Secondo l’ITC bisognava dare più importanza
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Michael Macedonia Capo Ufficio Simulazioni U.S. Army op.cit.
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alla cura dei dettagli tecnici di resa visiva della simulazione per renderli più realistici possibili, invece secondo gli specialisti del cinema il focus doveva essere posto sulla storia e sul suo grado di efficacia a livello di narrazione, anche a discapito di una resa visiva migliore. Nello stesso articolo Silberman cita le parole di Michael Macedonia, il capo dell’ufficio simulazioni dell’esercito Americano: “Si ricorre alle simulazioni da migliaia di anni, fin da quando esistono i soldati. La narrazione di storie, il disegno di immagini sulla sabbia, il gioco degli scacchi: queste astrazioni sono state costruite nella speranza di comprendere la natura e la dinamica della guerra. Tutti questi metodi stanno oggi convergendo nella nuova generazione di simulazione d’addestramento. [...] La grande
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sfida, non è avere la tecnologia giusta. Ci siamo quasi. La sfida è: abbiamo la storia giusta? Corrisponde alla realtà? Insegniamo le cose giuste? La vera storia dell’arte della guerra è che il tuo compagno sta morendo: che cosa fai?” Il coinvolgimento di una storia realistica è da reputarsi quindi più importante di una particolare attenzione estetica, anche se come vedremo più avanti, la cura estetica e l’attenzione degli elementi formali e visivi sono anch’essi essenziali se si vuole raggiungere un determinato obbiettivo di senso. L’ITC questi fattori li ha capiti bene, schierando dalla propria parte consiglieri, tecnici e ricercatori provenienti da ogni branca dell’entertainment: cinema, videogiochi e rappresentanti dell’industria videoludica e del divertimento. Una fattore di rilievo dell’impiego dello storytelling in ambito di guerra è la possibilità di utilizzo in ogni fase di approccio: in prima istanza per il reclutamento, attraverso campagne di comunicazione e promozione dell’esercito, con dei veri e propri spot televisivi o mediante dei punti di promozione outdoor. In seconda istanza, come abbiamo visto, per l’addestramento delle reclute. E infine può essere addirittura utilizzato per la cura dei disturbi da stress post-traumatico dei soldati che tornano a casa segnati da una esperienza fondamentalmente terribile. Robert McLay, uno psichiatra della Marina militare, ritiene che l’utilizzo della realtà virtuale per curare i soldati affetti da PTSD (post-traumatic shock disorder) sia di un’efficacia assai sottovalutata, poiché una possibile cura di questo grave disturbo Storytelling / Storyshowing
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Larry Gordon, “Virtual war, real healing” febbraio 2007 http://articles.latimes.com/2007/ feb/09/local/me-virtual9/2
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comprenderebbe la necessità di tornare sul posto dove si è subito lo shock. Egli afferma: “Non si può rimandare in iraq chi ha subito un trauma. La realtà virtuale rende possibile questo ritorno, ma sul posto. Alcune vittime del PTSD non possono o non vogliono ricordare certe cose [...] senza degli stimoli, come immagini di un ospedale di guerra, la registrazione di un canto di preghiera musulmana o la diffusione di odori di esplosivi nell’ufficio dello psicologo”. Di nuovo, anche in una fase di guarigione e quasi di smantellamento di quello che si era costruito in precedenza durante l’addestramento, è essenziale il grado di coinvolgimento di una storia. Come è essenziale la componente sensoriale e formale, capace di rievocare sensazioni vissute ed emozioni provate, specialmente quando si è vissuta una storia di una fortissima componente suggestiva. Questo è il potere dello storytelling, talmente forte da poter creare e distruggere a livello emozionale, da poter “guarire o agguerrire” a seconda delle necessità e degli obbiettivi.
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“Narrare è sapere che tutto quello che dici dalla prima frase all’ultima porta a un solo obbiettivo, e idealmente a confermare una verità che approfondisce la conoscenza di chi siamo come esseri umani. A tutti piacciono le storie. Siamo nati per questo. Le storie affermano chi siamo. Vogliamo tutti conferma che le nostre vite hanno un significato.”
Andrew Stanton Sceneggiatore della Pixar “The Clue to A great Story” TED - Storytelling conference Febbraio 2012.
2.2 Transmedia storytelling
“Make me care” , “Fa’ in modo che mi interessi” una delle regole per la creazione di una grande storia secondo Andrew Stanton. https://www.ted.com/talks/andrew_stanton_the_clues_ to_a_great_story
Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling
Fino a questo punto si è vista la sfaccettatura delle possibilità di utilizzo dell’ arte di comunicare attraverso le storie, come fosse uno strumento altamente ergonomico e malleabile, adattabile a svariati tipi di situazioni comunicative. Si è citato più volte come l’influenza della letteratura, del dramma, e del cinema abbiano da una parte forgiato lo spettatore, abituandolo ad una certa poetica e un determinato linguaggio visivo, dall’altra abbiano insegnato e stimolato i praticanti e i ricercatori a trovare delle modalità per emozionare e coinvolgere allo stesso modo. Storytelling quindi è ciò che la storia comunica, qualcosa di secondario alla narrazione stessa, un sottotesto percepito quasi inconsciamente seppur ben presente; Una storia dentro la
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storia. Nel nostro secolo, anche le arti maggiori da cui deriva questa pratica hanno subito delle trasformazioni per adattarsi alla tecnologia e ai cambiamenti di mercato. Industria videoludica e cinematografica sono cambiate radicalmente nel corso degli anni, inserendosi nella società in format cangianti e in continuo rinnovamento, sfruttando ogni nuovo canale di comunicazione dove è possibile estendersi. La tecnologia e la poetica che advertising e propaganda politica hanno preso in prestito dall’industria del cinema e dei videogiochi, in essi viene amplificata, estesa e fusa dando vita a degli universi ipertestuali che si muovono costantemente da un canale all’altro e dal flusso vitale potenzialmente infinito.
Storytelling / Storyshowing
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Capitolo - Paragrafo
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2.2.1 Il cinema oltre sè stesso
Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling Storytelling / Storyshowing
Henry Jenkins, studioso americano esperto di new media e direttore del Comparative Media Studies Program del MIT, la definisce “Cultura convergente”. È il fenomeno mediante il quale il cambiamento tecnologico e la sete degli spettatori di fruire contenuti sempre più stratificati e interconnessi fra di loro hanno contribuito allo sviluppo di una nuova forma di prodotto dell’entertainment: La narrazione transmediale. Si ha una narrazione transmediale quando la trama di un prodotto commerciale d’intrattenimento non viene scritta in modo lineare e chiuso, ma viene progettata in modo da fornire varie linee narrative che possono intersecarsi, espandersi e correre parallele partendo da un comune punto d’inizio o da punti iniziali differenti, sviluppandosi in diversi canali di fruizione. Con canali di fruizione ci si riferisce ai differenti device che vengono utilizzati per fruire i relativi contenuti d’intrattenimento che devono essere organizzati in modo correlato e interdipendente. Per poter sviluppare un’architettura narrativa così articolata si parte, nella maggior parte dei casi, da quello che è una pietra miliare per la narrazione transmediale: il cinema. La sceneggiatura di un lungometraggio con i giusti attributi, fornisce contenuti narrativi potenzialmente infiniti fra i quali costruire una transmedialità. Non tutti i film si prestano per uno sviluppo di questo tipo: la trama deve essere molto ricca di spunti e di riferimenti autoreferenziali mitologici, che creino la visione di un mondo alternativo il più possibile approfondita. Nella narrazione transmediale la storia di un film va oltre i contenuti raccontati nei minuti della pellicola, e getta le basi di un intreccio che per essere 76
fruito nella sua totalità muove gli spettatori su altri medium e su altre piattaforme: videogiochi online e non, fumetti, libri, serie tv, dvd con contenuti extra, promozione di gadget, articoli di abbigliamento e via dicendo. Il prodotto nella sua totale estensione prende il nome di franchising multimediale. Jenkins descrive in modo efficacie questo concetto parlando della trilogia cinematografica “The Matrix”: Henry Jenkins “Cultura Convergemte” Milano, Apogeo 2007
The Matrix è intrattenimento per l’era della convergenza mediatica. In esso molteplici testi sono integrati in una trama narrativa così complessa da non potersi dipanare attraverso un singolo medium. I fratelli Wachowski (gli autori del film ndr) hanno condotto magistralmente il gioco transmediale, prima facendo uscire il film per stimolare l’interesse e concedendo qualche raro fumetto sul Web ai fan più accaniti e curiosi, poi lanciando l’anteprima animata della seconda puntata e contemporaneamente il gioco per computer, così da sfruttarne la pubblicità. Infine, hanno chiuso il cerchio con The Matrix Revolutions e affidato tutta la mitologia prodotta nelle mani dei giocatori del gioco multiplayer online. Ogni gradino della scala sfrutta tutto quel che è venuto prima e offre nuovi punti d’ingresso. The Matrix rappresenta uno dei primi progetti di tale estensione multimediale, e un esempio perfetto di franchising multimediale. Durante la stesura della trama, gli autori erano ben focalizzati sul loro obbiettivo: creare una mitologia epica da poter veicolare su diversi medium. Ecco dunque che molti aspetti e caratteristiche, a volte anche fondamentali, della storia vengono lasciati in secondo
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
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Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling Storytelling / Storyshowing
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Nella pagina a sinistra una overview visiva di quella che è l’estensione del franchising multimediale di “The Matrix”: Dalla trilogia cinematrografica, allo spinoff animato, dal videogioco per consolle al MMORPG online, dalle action figures e dai fumetti agli eventi tematici. Una narrazione con innumerevoli diramazioni. http://it.matrix.wikia.com/
https://it.wikimarvel.org/wiki/ Marvel_Cinematic_Universe
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
piano e non approfonditi, in modo da poterli riprendere in una serie animata da trasmettere tempo dopo il film; Oppure ancora: ecco che durante la storia compaiono sempre più personaggi secondari con i loro segreti e il loro ruolo nella storia, tutti contenuti che verranno rivelati nella serie a fumetti. Alla fine della trilogia cinematografica inoltre, viene avviato il videogioco “The Matrix Online”, dove la storia viene ripresa da dove i film la avevano lasciata e, tramite gli accadimenti che avvengono in tempo reale durante il gioco, viene continuata dai giocatori, i fan del franchising, ansiosi di dare il loro contributo per mantenere in vita la loro storia preferita. Nonostante la sua innovazione e la grandiosa meraviglia che ha destato, in realtà dal punto di vista economico e della critica The Matrix è stato in parte un fiasco, dopo il secondo film l’interesse è calato notevolmente, sostanzialmente deludendo le aspettative. Questo parziale fallimento è forse dovuto alle troppo elevate ambizioni del franchising che chiedeva molto agli spettatori: un fruitore medio, per capire totalmente la storia ed avere una visione esaustiva delle “zone d’ombra” narrative, era chiamato ad impegnarsi a scandagliare tutte le fasi della narrazione su fumetti, animazioni spin-off e videogame, per creare un coinvolgimento perfetto; questo è un fattore al quale all’epoca lo spettatore non era ancora pronto, poiché abituato alla visione lineare ed univoca del lungometraggio senza necessità di costante ricerca e aggiornamento. Un esempio simile, che ha riscosso e sta continuando a riscuotere un notevole successo commerciale, si ha nel più recente franchising prodotto dalla casa cinematografica Marvel studios: 79
Kevin Feige, il presidente dei Marvel studios, presenta il piano delle uscite dell’universo cinematico della Marvel dal 2016 al 2019, durante un evento tenuto a Hollywood nel 2014. http://www.slashfilm.com/marvelphase-3-kevin-feige/
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“The Avengers”. In esso vengono riprese le storie dei principali personaggi fumettistici della famosa casa editrice Marvel Comics. Storie che vengono trasposte cinematograficamente in una narrazione che coprirà un lasso temporale di almeno un decennio. I supereroi sono notoriamente dei personaggi di fantasia nati fra le pagine dei fumetti con una storia che ha inizio fin dal primo dopoguerra; il trend di trasporre le loro storie in film è una caratteristica degli anni dal 2000 in poi e richiede un’analisi e un’opera di sintesi notevole per il riadattamento delle vicende a un ritmo cinematografico. Dopo quasi dieci anni passati fra disordinate produzioni dalla dubbia qualità narrativa, nel 2008 la Marvel dà inizio al suo megalitico universo narrativo cinematografico articolato. Con i primi film, la saga inizia introducendo 80
alcuni dei personaggi principali nelle loro storyline dedicate e divise in trilogie, prima distaccate l’una dall’altra, poi via via che i film escono al cinema le storie vengono disseminate di indizi che rimandano reciprocamente alle altre storyline, finchè ogni flusso narrativo trova un punto di incontro nella trilogia principale “Avengers”, dove i personaggi principali si uniscono formando il gruppo de “I Vendicatori” appunto. Una particolarità sta nel flusso articolato di fruizione della narrazione: per dare un senso di continuità realistico alle vicende, le storie di ogni personaggio si intersecano cronologicamente, formando un continuum narrativo irregolare dove lo spettatore salta da un mini mondo all’altro, invece che affrontare ordinatamente prima tutte le storie secondarie e poi quella principale o viceversa. Questa caratteristica fornisce una dinamicità molto forte alla narrazione: lo spettatore fruisce parti autoconclusive differenti di narrazione da film diversi, ma è in realtà conscio di star vedendo le vicende che si dipanano tutte dentro la stessa grande storia. Questo franchising inoltre presenta al suo interno un prodotto assai innovativo che rappresenta un’ulteriore stratificazione della narrazione. “Marvel’s Agents of Shield” è una serie tv ad alto budget e dalla programmazione assai longeva, dipendente dalla storyline principale, in cui i protagonisti sono dei personaggi che nella trilogia “The Avengers” svolgono un ruolo molto secondario, ma dalla forte caratterizzazione emotiva. La serie trae linfa vitale dagli appassionati del franchise che vogliono sviscerare sempre di più la storia ed essere immersi il più possibile in quel mondo.
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http://frenckcinema.altervista.org/portale/?q=content/luniverso-cinematografico-marvel-super-harry-potter-come-saga-pi%C3%B9-redditizia-della-storia-am
Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling Storytelling / Storyshowing
A differenza di The Matrix, la narrazione transmediale della Marvel è scritta e articolata il più possibile in modo da non penalizzare uno spettatore che vi accede in punti diversi dalla fruizione ideale. Ad esempio: se uno spettatore vede la serie tv prima dei film non si troverà nella situazione di non capire determinate cose che non ha ancora visto. Questo fattore di “salvaguardia” dei nuovi affiliati, vale però soltanto nella prima fase del franchising, poiché le date di uscita dei film sono programmate e divise in tre fasi. Una volta che la narrazione è arrivata, nel corso degli anni, alla seconda fase, non è più possibile accedervi senza aver fruito prima dei contenuti della fase uno e senza aver assimilato quel background contenutistico. Questo è certamente penalizzante nei confronti degli eventuali spettatori che si interfacceranno con il franchise nei prossimi anni, ma è anche necessario poiché uno degli scopi prettamente commerciali della narrazione transmediale è immergere lo spettatore in una storia che lo accompagni “vita natural durante” e crei fidelizzazione allargando sempre di più il ”fandom”. I nuovi spettatori dovranno quindi pianificare l’acquisto dei dvd dei film e degli episodi della serie già usciti, per poi rimettersi in pari con le uscite cinematografiche. All’inizio del 2014 il cosiddetto “Marvel cinematic universe” ha totalizzato un guadagno di 2,456 miliardi di dollari, battendo il record di franchising più redditizio della storia americana e superando l’amatissimo franchising di Harry Potter che da anni era il primo in classifica. Harry potter è un altro esempio di franchising che ha fatto la storia, partendo da un incredibile 82
Il Binario 9 di King’s Cross a Londra. Flickr
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
successo della collana di libri, e arrivando con le trasposizioni cinematografiche là dove non era arrivato con la carta stampata. A Londra, sul binario numero nove della stazione ferroviaria di King’s Cross, in una delle colonne di mattoni si può osservare un carrello di ferro che scompare per metà dentro la colonna. È il carrello utilizzato da Harry Potter per portare i suoi effetti personali e la sua attrezzatura da mago al magico treno per Hogwarts attraverso l’illusione della colonna, oltre il quale c’è il famoso binario nove e tre quarti. Il carrello è incastonato nella colonna, mezzo immerso nel mondo della magia. I turisti si fermano a fotografarsi mimando il gesto di spingerlo oltre l’illusione. È una meta turistica attraente quasi al pari dei gioielli della regina.
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https://www.youtube.com/user/airnewzealand
Il Wellington International Airport, in Nuova Zelanda. Flickr
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In Nuova Zelanda, al Wellington International Airport, dal tetto della sala principale si erge imperiosa l’immensa figura di un gigantesco “Gollum”, famigerato personaggio del franchising de Il Signore degli Anelli. In Nuova Zelanda sono state girate la maggior parte delle sequenze della trilogia ed è un fattore identitario talmente forte che hanno deciso di dedicare una ricostruzione di 13 metri e 1,2 tonnellate a uno dei personaggi più caratteristici della storia per sponsorizzare l’uscita del film “Lo Hobbit: un viaggio inaspettato”, e non finisce qui. La compagnia aerea Air New Zealand ha commissionato uno spot proprio al regista della trilogia: Peter Jackson, che ha utilizzato i personaggi della saga come veri e propri testimonial della compagnia aerea. Il video ha riscosso un notevole successo, riuscendo a sfruttare la spinta attrattiva offerta dal franchising.
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Le storie che amiamo viaggiano in un andirivieni tra un medium e l’altro, fissandosi nel nostro immaginario collettivo e accostandosi alle vicende che nella nostra vita ci hanno appassionato. Noi non vogliamo dimenticarle e vogliamo che facciano parte del nostro quotidiano, vogliamo toccarle con mano e gli dedichiamo sempre più tempo e spazio poiché ormai sono per noi valori identitari tanto quanto le nostre vicende reali, e forse anche di più: oggi manifestare un’affiliazione ad un franchising e far parte di un fandom è considerato quasi un modo per manifestare il proprio status symbol. Jeff Gomez Storytelling guru http://www.wuz.it/articolo-libri/6813/JeffGomez-Meet-the-Media-Guru.html
http://www.starlightrunner.com/transmedia
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
“Transmedia in sé e per sé non significa molto. Si tratta di essere in grado di comunicare attraverso diverse piattaforme in qualche modo significativo. Ma quando è collegato ad un’azione come la narrazione, transmedia storytelling significa che stai raccontando storie, ma che stai usando diversi media, per creare l’intero racconto. Stai usando i media in modo coordinato. In un mondo ideale, l’elemento transmediale è qualcosa che migliorerà l’esperienza della narrazione stessa. Darà una nuova visione con cui relazionarsi con la forza del medium.” Così parla Jeff Gomez, il guru del transmedia storytelling, durante una rivista per indiwire del 2013. La sua esperienza deriva da marchi come Avatar, Pirati dei Caraibi, Hot wheels, Teenage mutant ninja turtles, Spider man, Men in black e molti altri per i quali ha lavorato con la sua Starlight runner entertainment, di cui è l’amministratore delegato. La Starlight si occupa di “creazione e produzione di 85
http://blog.intelligistgroup.com/ lets-call-it-pervasive-communication/
op. cit.
Storytelling / Storyshowing
transmedia franchising di grande successo, massimizzando il valore delle proprietà intellettuali per prepararle all’estensione attraverso piattaforme mediali multiple.”, offrendo un sevizio di transmedia storytelling in quella che loro stessi definiscono “l’era della comunicazione pervasiva”, cioè un’era dove ogni giorno siamo bombardati dal caos di contenuti di ogni tipo che arrivano da ogni angolo del mondo, per la gestione dei quali abbiamo bisogno di nuovi mezzi di lettura. Nella sezione “service” del sito web della Starlight runner entertainment (vedi supra) descrivono in questo modo la situazione: “I più desiderabili target di mercato oggi, i Millennial giovani adulti, e i ragazzi adolescenti della “Generation Z”, hanno raggiunto la maggiore età in un momento di estrema comunicazione pervasiva. Come risultato, essi sono molto più dei mediaconsapevoli, collegati interpersonalmente, e in grado di esprimersi meglio attraverso i media rispetto a qualsiasi generazione precedente. Il problema affrontato da aziende e grandi media è che molti si comunicano su modelli di trasmissione vecchi, dove il racconto è lineare, il mezzo è a sé stante, e la narrazione si muove in un solo senso.Un nuovo set di strumenti e nuove tecniche sono necessari per raggiungere e coinvolgere il pubblico di massa nell’era digitale. Il consumatore e spettatore è ormai un utente e un partecipante. Il racconto deve essere accessibile attraverso una serie di piattaforme multimediali, e la storia deve essere progettata per mostrare i punti di 86
forza della piattaforma a portata di mano. Invece della trasmissione vi è una necessità urgente di dialogo.Il termine ‘narrazione transmediale’ ha visto la sua prima pubblicazione in ‘Cultura Convergente: dove i vecchi e nuovi media collidono”, un testo del professor Henry Jenkins (allora del MIT, attualmente insegna presso la University of Southern California). In seguito produttori e registi come Tim Kring, Guillermo del Toro, e Jeff Gomez hanno reso popolare il termine come una tecnica narrativa di Hollywood e internazionale.Il transmedia storytelling, secondo Jeff Gomez, è il processo di trasmettere messaggi, temi o storyline a un pubblico di massa attraverso l’uso sapiente e ben pianificato di molteplici piattaforme multimediali. Si tratta sia di una tecnica che di una filosofia della comunicazione e della brand extension che arricchisce e amplia il ciclo di vita dei contenuti creativi. È evidente come l’elemento transmediale sia fondamentale nell’efficacia di queste architetture narrative e come esse siano nate grazie a questo sviluppo tecnologico. Per poter continuare a vivere di vita propria un franchising deve essere applicabile a più canali di fruizione, perché è così che l’esperienza può essere totalmente “immersiva” per un fruitore. Essa deve coinvolgere il più possibile esattamente come avviene nelle realtà virtuali nell’addestramento militare o nell’immersive journalism, anche se in questo caso il coinvolgimento non è sensoriale ma contenutistico. Il cinema deve andare oltre sé stesso, la storia deve andare oltre la pellicola del film, ed entrare nei device dello spettatore accompagnandolo in ogni forma possibile. Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
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2.2.2 Online and Offline narrative gaming
Wired Magazine 55 2014
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
L’aumento del livello di consapevolezza delle masse, e delle possibilità tecnologiche a disposizione degli storyteller, hanno permesso un’evoluzione del cinema portandolo a convergere con altri media attraverso il potere delle storie. Questa sorta di evoluzione per mezzo della narrazione ha cambiato anche un altro grande mondo dell’intrattenimento in sinergia con le altre forze del transmedia storytelling: il mondo dei videogiochi. Dalla prima loro apparizione, passando per il boom della fine degli anni ‘80, stiamo ora passando in un momento in cui i videogiochi sono oramai capolavori di coinvolgimento narrativo. Sia dal punto di vista del potere commerciale che dal punto di vista di potere d’intrattenimento ormai i videogiochi vengono messi quasi sullo stesso piano dei prodotti cinematografici, arrivando all’investimento nella produzione di un videogioco cifre fino ad ora immaginabili solo per la produzione di un film; come nel caso del videogioco “Destiny” i cui costi di progettazione, sviluppo e promozione hanno
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Wired Magazine 55 2014
raggiunto i cinquecento milioni di dollari, una cifra che costituisce un primato nel mondo dell’intrattenimento videoludico e si accosta a quelle di produzione hollywoodiana. La marcia in più che i videogiochi hanno rispetto ai film, è naturalmente la componente interattiva, quel fattore di totale coinvolgimento emozionale che ha reso possibile lo sviluppo dei progetti di realtà virtuale di cui si parlava nei paragrafi precedenti. In questa sede però verranno presentate quelle tipologie di videogiochi in cui l’intrattenimento e l’interazione ha strettamente a che vedere con l’andamento della narrazione, diversamente quindi da ciò che avviene nelle tradizionali tipologie di videogiochi dove il raggiungimento di determinati obbiettivi preordinati permette l’accesso ogni volta ad un livello successivo. Nel corso della sua storia evolutiva il mondo videoludico ha visto la nascita di svariati tipi di piattaforme d’intrattenimento ognuna con la propria modalità di gioco e la propria tipologia d’interazione con gli altri giocatori o con l’environment circostante. C’è una categoria in particolare di videogiochi online chiamati “Giochi di narrazione” (Gdn) nei quali l’intrattenimento principale riguarda la narrazione della storia e come essa viene creata e portata avanti dai giocatori stessi. I GdN sono videogiochi online dove non esiste una rappresentazione visiva in computer grafica dei personaggi che fisicamente si muovono in uno spazio; visivamente si presenta come un wall dove appaiono gli interventi scritti dei giocatori (regolati da un rigoroso sistema a turno) che descrivono con la
Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling Storytelling / Storyshowing
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“Cross-media, le nuove narrazioni” Max Giovagnoli Apogeo, Milano 2009
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
parola scritta il personaggio che interpretano, i suoi movimenti nell’ambiente immaginario e le interazioni con gli altri personaggi presenti in quel momento. Ogni giocatore è l’autore di sé stesso e del proprio personaggio e la scrittura collaborativa della storia è il punto centrale dell’intrattenimento. La storia viene creata e portata avanti sinergicamente fra i giocatori in tempo reale e “Il tempo della narrazione coincide con quello della fruizione”. Ovviamente la buona riuscita in una modalità di gioco di questo genere necessita di una supervisione da parte di moderatori che monitorano costantemente il comportamento dei giocatori e l’andamento della narrazione. Un fattore fondamentale è inoltre che ogni Gdn fa riferimento a un determinato universo immaginativo, sia esso fantasy, science fiction, wargame o altro, e presenta una introduzione narrativa di base sulla quale ogni utente si deve aggiornare e a cui deve adattare la storia del proprio personaggio per essere introdotto nel gioco. Con questi presupposti un giocatore crea il proprio avatar ed entra nel gioco, narrando la sua parte di storia in una scrittura collaborativa, dando dei risvolti sempre nuovi e imprevedibili alle vicende. Per indagare sulle origini di questa modalità di giochi online è necessario fare un notevole passo indietro a quelli che possono ritenersi i precursori offline dei Gdn: i “Giochi di Ruolo”(Gdr). Un Gdr è un gioco dove i giocatori interpretano il ruolo di uno o più personaggi e tramite la conversazione e lo scambio dialettico creano uno spazio immaginario, dove avvengono fatti fittizi, avventurosi, in un’ambientazione narrativa che può ispirarsi ad un romanzo, ad un film, ad una qualsiasi fonte creativa, storica 91
John Kim “What is a Role-Playing Game?” www.darkshire.net/~jhkim/rpg/whatis/
Lawrence Schick “Heroic Worlds: A History and Guide to Role-Playing Games ” Prometheus Books, New York 1991
Capitolo 2 -/2.2 Transmedia storytelling Storytelling Storyshowing
o di pura invenzione. Le regole di un gioco di ruolo indicano come, quando e in che misura, ciascun giocatore può influenzare lo spazio immaginato. Nella maggior parte di questi giochi, quelli più tradizionali, un giocatore specialmente designato, detto master (o “gamemaster”, “custode”, “narratore”, ecc.) seguendo il regolamento e l’ambientazione del gioco, agisce da arbitro e conduce la seduta di gioco, descrive il mondo nel quale i giocatori si muovono e determina i risultati delle azioni che gli altri giocatori intendono far compiere al proprio personaggio. Ogni personaggio è caratterizzato da svariate caratteristiche a seconda del tipo di gioco di ruolo (ad esempio forza, destrezza, intelligenza, carisma e così via), generalmente definite tramite punteggi, che ne descrivono le capacità. I personaggi possono essere rappresentati fisicamente da delle miniature su una griglia di gioco cartacea, e le azioni intraprese nel gioco vengono determinate dal lancio di un dado (come in un tradizionale gioco da tavolo) e secondo un sistema di statistiche e regole formali raccolte solitamente all’interno di manuali che è possibile consultare durante una sessione di gioco. Il capostipite universalmente riconosciuto di questo genere di giochi da tavolo narrativi è il GdR fantasy medioevale “Dungeons and Dragons”, creato nel 1972 da Dave Arneson e Gary Gygax. Inizialmente il gioco era costituito da una piccola scatola rossa con dentro tre piccoli libri di regole, la scatola recava la scritta “Regole per campagne wargame fantastiche medievali giocabili con carta, penna e miniature”. Dopo un periodo di due anni di diffusione in 92
La prima versione del kit di Dungeons and Dragons a destra (1975), a sinistra alcuni manuali della versione più recente. www.darkshire.net/~jhkim/rpg/whatis/
sordina, si rivelò poi un vero e proprio successo arrivando di recente fino alla quarta edizione di pubblicazione ed affermandosi come il più famoso e rappresentativo Gdr di stampo fantasy medievale. Anche se i Gdr si possono definire i progenitori dei Gdn online, fra di essi esistono delle differenze significative. La caratteristica principale dei Gdn è l’assenza di regole di gioco (fatta eccezione per quelle generali di moderazione e rispetto reciproco fra giocatori) che viene espresso con la parola scritta e auto-gestito da una sorta di senso di “automoderazione” nella scrittura della narrazione di ogni utente. Nei Gdr invece il gioco si svolge attraverso un’interpretazione vocale del proprio personaggio a livello di dialogo “ongame”, mentre le azioni pratiche vengono indicate dalle miniature che si muovono su una griglia, e gestite con il tiro del dado secondo delle regole prestabilite di bonus e malus che dipendono dal livello e dal punteggio accumulato dal proprio personaggio nel corso delle sessioni di gioco. Un’altra grande differenza sta nel fatto che nei Gdr la
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Henry Jenkins “Cultura Convergemte” Milano, Apogeo 2007
Storytelling / Storyshowing
narrazione cardine è creata quasi totalmente dal narratore alle decisioni del quale i giocatori devono sottostare; nei Gdn invece la storia viene portata avanti in maniera equivalente dalle influenze di ogni giocatore. Questo ultimo fattore, unito alla ovvia distinzione fra online offline delle due tipologie di giochi, ci porta a un importante concetto del transmedia storytelling: quello di “Intelligenza collettiva” (Pierre Levy, 2002).
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2.2.3 Intelligenza collettiva Il valore aggiunto della narrazione transmediale
Partendo da in alto a sinistra delle immagini da: Neverwinter nigthts, World of Warcraft, Warhammer Online e Eve Online. Danno un’idea della complessità delle regole di questi videogiochi e della mole delle comunità online che li popolano. reddit.com
Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling Storytelling / Storyshowing
Uno dei fattori pratici che ha permesso lo sviluppo di una disciplina come il transmedia storytelling è l’esistenza del web. I videogiochi online costituiscono un canale di condivisione e fruizione di contenuti inestimabile, ed anche se devono le loro caratteristiche ai loro antenati Gdr offline, è la svolta online che ha rivoluzionato il mondo videoludico facendolo entrare in una sfera di fruizione totalmente nuova: quella della cross-medialità. C’è un’ultima categoria di narrative videogames, che costituisce una sorta di evoluzione dei GdN, ma anche un vero e proprio punto di rottura da essi: I MMoRPG (massively multiplayer online role-play games). I MMoRPG riprendono lo schema di regole dei
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Max Giovagnoli “Cross-media, le nuove narrazioni” Apogeo, Milano 2009
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
Gdr e lo tramutano in algoritmi che regolano le statistiche di gioco in background, unendoli a una visualizzazione in computer grafica 3d molto più accattivante, ma mantenendo le caratteristiche di libertà narrativa tipiche dei Gdn, costituendo il prodotto perfetto per il transmedia storytelling. Le saghe di “World of Warcraft”, “Neverwinter Nights” e “EVE online” sono solo alcune di quelle più longeve nella marea di questo tipo di piattaforme di intrattenimento esistenti in rete. Come spiega Giovagnoli: “Dotati di una libertà creativa grande, pur non assoluta come quella dei giochi di narrazione (nei quali tutto è frutto della fantasia dei coautori, senza interventi da parte di un grandmaster né di game designr o della corporate) e provvisti di una rapidità di azione/reazione molto più veloce del consumo del racconto, oltre che graficamente ed esteticamente più appaganti: i MMoRPG hanno iniziato la loro avventura nella rete del 1996-97 e hanno superato da subito la semplice dimensione narrativa dei Gdn, ricostruendo in Altrove digitali le quattro variabili indicate da Pierre Lévy per lo sviluppo globale dell’intelligenza collettiva, ovvero: la mobilità nomadica (dei giocatori e dei character da loro impersonati), il controllo sul territorio, la proprietà delle merci (scambiate talvolta sia sul piano virtuale che su quello reale) e la padronanza della conoscenza (condivisa o nascosta, in base agli obbiettivi del gioco).” I MMoRPG sono l’evoluzione che ha potuto portare i videogiochi online ad essere un tassello fondamentale della cross-medialità dei contenuti tipica della narrazione transmediale. 97
Matrix, Harry Potter, Il signore degli anelli, Marvel e DC comics sono tutti universi narrativi che hanno lasciato le redini della creazione del racconto in mano al proprio fandom attraverso un MMoRPG online gratuito. 4chan.com
Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling Storytelling / Storyshowing
La caratteristica di attrattiva principale di questi media è la co-autorialità dei contenuti, cioè il fatto che non esista una storia alla quale i giocatori devono attenersi durante il corso del gioco, ma che essa venga scritta secondo le vicende che avvengono durante la sessione in tempo reale. Sono quindi gli utenti stessi a creare il contenuto, e i videogiochi vivono di user-generated contents, dando vita a quella che Levy chiama appunto “Intelligenza collettiva”, un background di contenuti al quale tutti possono dare un contributo, partecipando alla narrazione. Questo importante fattore è quello che viene sfruttato nei più grandi franchising per estendere la storia oltre il circuito finito del cinema e facendola proseguire, o anche semplicemente sviluppandola in un senso lateralmente diverso dalla storyline principale, dandola in mano al fandom online. “Star wars the old
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Henry Jenkins “Cultura convergente“ Milano, Apogeo 2010, p. 83
republic”, “DC universe Online” o “The Lord of the Rings online” sono solo alcuni esempi di franchise che si sono estesi ai videogiochi online, anche se uno degli esempi più peculiari resta il franchising di “The Matrix” come spiega Henry Jenkins: “The Matrix è anche intrattenimento per l’era dell’intelligenza collettiva. Pierre Lèvy teorizza su quali tipi di opere estetiche rispondano alla domanda della cultura della conoscenza. Innanzi tutto, egli sostiene che la “distinzione fra autori e lettori, produttori e spettatori, creatori e interpreti si confonderà” per formare “un circuito” (non proprio una matrice) di espressione, in cui ogni partecipante è impegnato a “sostenere l’attività” degli altri. L’opera diverrà cio che Lèvy chiama un “attrattore culturale”, vale a dire un prodotto che unisce diverse comunità offrendo loro un terreno comune; possiamo anche descriverla come un attivatore culturale, perché stimola attivamente alla sua interpretazione, esplorazione ed elaborazione. La sfida, consiste nel creare opere di uno spessore tale da giustificare sforzi su larga scala: “Qui si mira innanzitutto a impedire che si chiuda troppo presto, senza aver dispiegato la varietà delle sue ricche potenzialità”. Nel transmedia storytelling le piattaforme di gioco online hanno costituito e stanno costituendo un passo altamente innovativo, sia dal punto di vista della tecnologia che dal punto di vista della progettazione dei contenuti narrativi: sempre più interattivi e customizzabili, sempre in evoluzione. È grazie a piattaforme di questo tipo che l’efficacia interattiva delle storie dei franchising
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
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Pierre Levy Filosofo Francese, esperto di nuovi media /www.mediamente.rai.it/home/ bibliote/intervis/l/levy.htm
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multimediali può diffondersi a macchia d’olio in quel mare imprevedibile di comunicazione che è la rete, e continuare a viverci per degli anni. Si può dire inoltre che è partendo dall’idea di immersione interattiva di questi games che stanno nascendo narrazioni in realtà virtuale come l’immersive journalism o l’immersive training di guerra, veri prodigi dello storytelling in perfetta sinergia con l’innovazione tecnologica. Questo tipo di videogames danno un esempio semplificaro e videoludico di come l’intelligenza collettiva possa essere uno strumento inestimabile per la costruzione della conoscenza attraverso le culture di tutto il globo. Dopotutto: “L’intelligenza è distribuita dovunque c’è umanità, e questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l’intelligenza collettiva »
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Capitolo - Paragrafo
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2.3 Conclusioni La società dello spettacolo
Guy Debord “La Società dello spettacolo” Baldini Castoldi Dalai Milano, 2008
Capitolo 2 - 2.2 Transmedia storytelling Storytelling / Storyshowing
Guy Debord, nel suo manoscritto più famoso, descrive lo spettacolo come “un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini”. Viviamo in una società in cui si è costantemente bombardati da nozioni, contenuti e messaggi in decine di medium differenti che ci stimolano quotidianamente tutti i sensi percettivi che riescono a raggiungere. Li dove si trovano le crepe, le pause, i silenzi fra le azioni che svolgiamo ogni giorno, li si trovano tutte le narrazioni che ci vengono inviate da innumerevoli destinatari con i loro diversi obbiettivi di senso. Al di là della visione negativa di Debord, la nostra società cross e trans-mediale offre ad oggi nuovi punti di accesso all’intrattenimento, rendendolo non più passivo e fine a sé stesso, ma condiviso e partecipativo, da fruire all’interno di una comunità, votato verso la partecipazione 102
attiva degli spettatori, che, come è stato visto, in determinate situazioni si fanno co-autori e contribuiscono alla formazione di un’intelligenza collettiva. La cultura convergente di Jenkins parla di fiducia nel nuovo orizzonte dell’intrattenimento e va contro la visione oscura e Orwelliana della società dello spettacolo di Debord. In questo tipo di narrazioni scatto attenzionale e patto fiduciario si svolgono assai lentamente e consapevolmente, al contrario di quanto avviene nell’advertising, un utente sceglie, attraverso la stratificazione dei media offerta, attivamente e consapevolmente a quale tipo di comunità o fandom appartenere e se, come e quali contenuti vuole condividere o fruire. Prodotti come film e videogiochi qualche tempo fa non avevano la profondità e la potenzialità narrativa che hanno oggi, i politici invece godevano di più alta credibilità a discapito di un’informazione poco trasparente e poco diffusa. Ed è proprio in queste narrazioni che fruiamo ogni giorno che entrano in gioco le marche con i loro mondi e le loro storie, accaparrandosi i loro spazi e comunicando i loro valori, come personaggi senzienti portatori di determinate peculiarità, attori nel gioco della comunicazione.
Capitolo 2 - Le infuenze del contesto
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Capitolo 3
L’ANALISI DELLA COMUNICAZIONE
Capitolo - Paragrafo
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3.1 Comunicazione e narrazione
Ruth Finnegan “Comunicare, Le molteplici modalità dell’interconnessione umana” UTET Università, Milano 2009
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“Mentre sono qui seduta a digitare sul mio computer, mi tornano alla memoria i cantastorie dell’africa occidentale con le loro canzoni, i movimenti del corpo, e il pubblico che prende parte attiva alla performance; mi ricordo dei richiami, dei colori e dei profumi che si diffondono dai prodotti messi in mostra per attirare gli acquirenti in un mercato delle Fiji, e dell’esperienza condivisa, non solo acustica ma anche corporea e visiva dei concerti inglesi. Penso ai gesti e ai segnali della quotidianità e alla comunicazione lungo grandi distanze tramite il telefono, le lettere, i regali; penso anche al passaggio materiale di beni che caratterizza la comunicazione fra le generazioni delle grandi dinastie. Non posso poi dimenticare né l’esperienza della lettura di autori dell’antichità, le cadenze, i ritmi, le parole dei poemi di Omero né l’eccitazione 106
che provoca nel corpo la metrica della tragedia Greca, con la danza e suoi corpi. Tutti questi, mi sembra, sono i modi con cui tutti gli esseri umani si interconnettono l’un l’altro, modi di comunicare. Eppure sono moltissimi, che sembrano non considerare questo ambito pienamente multisensoriale, e che presentano invece una visione ristretta e molto più semplice del comunicare, come fosse limitato alle parole; nel migliore dei casi ci si spinge fino a includere la recente espansione del mondo delle immagini e della tecnologia dell’informazione, oggi in forte crescita. Le parole anno in effetti un potere straordinario e la mia storia personale e professionale è stata pervasa da esse, ma c’è anche moltissimo altro.” La comunicazione è un atto insito degli esseri viventi, esiste da quando esiste la vita. Essa avviene tramite un numero quasi infinitesimale di codici, linguaggi e metodi, avviene attraverso tutti e cinque i sensi, in maniera esplicita e didascalica o in maniera metaforica ed allegorica, in maniera attiva o passiva, attraverso la lunga o la breve distanza. Se effettuata con le modalità giuste, può toccare delle corde emozionali molto profonde, può smuovere le masse. È uno degli aspetti più studiati dell’esistenza. Sociologi, antropologi, semiologi, narratologi, linguisti e svariati altri tipi di studiosi scientifici e umanistici studiano la comunicazione da tempi antichi. Nell’estratto con il quale si è aperto questo paragrafo, l’antropologa Inglese Ruth Finnegan esprime riassumendo perfettamente cosa significa comunicazione. La parola orale e scritta è solo uno dei canali possibili, una delle sfumature esistenti Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
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fra le innumerevoli della comunicazione. L’antropologia si sofferma in particolare sul contesto socio culturale sul quale avviene la comunicazione, come sottotesto obbligatorio nella considerazione dei sistemi e dei metodi di come essa avvenga. Per i semiologi comunicazione è “significazione”, cioè il processo di produzione di significato che avviene mediante un messaggio che intercorre fra un emittente e un destinatario, tale messaggio ed è costituito da referenti (oggetti/eventi dei quali o sui quali si comunica) e dei determinati codici (sistemi e linguaggi utilizzati dagli attori per comunicare). Questo punto di vista semiotico è applicabile a qualsiasi tipo di comunicazione. La narrazione è una modalità del comunicare al giorno d’oggi molto utilizzata nella politica, nel giornalismo nell’intrattenimento e nell’insegnamento, come si è visto in precedenza. E questo perché comunicare sinestesicamente, raccontando a più livelli sensoriali possibili, è uno dei modi per comunicare in assoluto più efficaci. Le storie fanno riferimento a mondi valoriali che riaccendono in noi stati emozionali che possono smuovere il nostro modo di vedere il mondo. Con la forza della metafora e dell’allegoria siamo stimolati a entrare nel gioco comunicativo di produzione di significato. Roland Barthes “Introduzione all’analisi strutturale dei racconti” Bompiani, Milano 2002
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“Innumerevoli sono i racconti del mondo” scriveva Roland Barthes nel suo “Introduzione all’analisi strutturale dei racconti” il suo studio alla base della narratologia. “Sotto queste forme quasi infinite il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la 108
storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in nessun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi tutti i gruppi umani, hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in comune da uomini di culture diverse, talora opposte; il racconto si fa gioco della buona e cattiva letteratura; internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è come la vita” Le narrazioni sono una forma di comunicazione e in quanto tali vanno oltre il semplice linguaggio esplicito costituito di parole e concetti.
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3.2 L’analisi del racconto
Lo studio delle strutture narrative è una disciplina che trova una definizione precisa soltanto nel 1969 quando il filosofo Tzvetan Todorov, conia il termine Narratologia. Il filosofo Russo sostiene che l’opera letteraria è composta da storia e discorso allo stesso tempo. Storia perché comprende una certa realtà, eventi e personaggi che si confondono con quelli della vita reale. Una storia che può essere raccontata senza essere per forza esposta in un libro ma anche in un film o tramite racconto orale. Ma l’opera letteraria è anche discorso perché vi è un narratore che narra la storia e un lettore che la percepisce e a questo livello, quello che ha importanza non sono gli avvenimenti raccontati ma il modo in cui il narratore li ha fatti conoscere. Molto della narratologia si deve agli studi dell’antropologo russo Vladimir Propp, che nel 1928 pubblicò il suo saggio intitolato Storytelling / Storyshowing
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“Morfologia della fiaba“ nel quale espone il famoso “Schema di Propp”. Questo schema è nato come risultato degli studi condotti sulle narrazioni fiabesche di magia del folklore Russo. Nel suo schema egli divide le fiabe in 31 funzioni, note anche come Sequenze di Propp, che compongono il racconto. Ogni funzione rappresenta una situazione tipica nello svolgimento della trama di una fiaba, riferendosi in particolare ai personaggi e ai loro precisi ruoli (ad es. l’eroe o l’antagonista). Nell’analisi di Propp, cioè, è più importante quello che fa il personaggio che non chi è il personaggio: se l’eroe è una fanciulla, un principe o un orso è indifferente, a caratterizzare lo svolgimento della trama è l’azione che l’eroe compie e non le sue caratteristiche fisiche.
Edgar Allan Poe “Filosofia della composizione” Guerini, Milano 2000
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
Questa ed altre definizioni, come la fabula e l’intreccio, fanno parte degli studi della narratologia, una disciplina ovviamente legata alla letteratura, e che oggi non ha più la rilevanza di un tempo, ma che ha gettato le basi dell’analisi di quello che oggi viene comunemente chiamato storytelling. Molti anni prima nel 1846 Edgar Allan Poe pubblica la sua “Philosophy of compositon“ dove spiega la sua tecnica pratica di composizione narrativa mediante la quale è necessario scrivere, come critica verso scrittori che “preferiscono dare a intendere che essi compongono in uno stato di splendida frenesia”. Critica a parte, e nonostante l’approccio di Poe parta a monte del processo narrativo, la “Philosophy of compositon“ consiste comunque come una testimonianza di come una narrazione può essere smontata 111
ed osservata al microscopio, dimostrando che a determinati obbiettivi di senso conseguono determinate scelte formali, di fatto anticipando l’approccio semiotico alla creazione di senso. È proprio per questo approccio che l’analisi semiotica si è dimostrata adatta allo studio della comunicazione di marca. Molti semiologi infatti (a partire da Barthes) hanno dedicato i loro studi all’analisi della pubblicità e delle metodologie con cui le marche comunicano le loro storie. È stato quindi opportuno, nei prossimi paragrafi, esporre la visione della narrazione dal punto di vista del cosiddetto occhio semiotico.
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3.3 I tre paradigmi di Ramzy
Per definire meglio questi concetti è interessante citare questo passo raccontato da Ashraf Ramzy, il fondatore del Narrativity Group di Amsterdam, in un articolo da lui pubblicato sul sito del gruppo il 12 ottobre 2013 e intitolato “Anatomy of a Brand Story” Ashraf Ramzy, Fondatore di “Narrativity® Corporate Story Consultancy” http://www.narrativity-group.com/ anatomy-of-a-brand-story/
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Nel bel mezzo della mia ricerca per capire il sistema narrativo Hollywoodiano (1982) mi sono imbattuto sul concetto di Mitologia come storia della società che parla di se stessa per dare un senso alla vita. E mi sono imbattuto sul concetto che il “Sogno Americano” è tanto Mitologico per l’America quanto la Mitologia Greca lo era per i Greci, i Romani e per l’Europa tutta. Nel maggio 1985 la Coca Cola ha annunciato che avrebbe cambiato il gusto della propria bevanda. Ho assistito a una rivoluzione. La gente in tutto il mondo ha protestato. Tutti erano 114
realmente scioccati. Ho sentito che ci sono stati cortei a Washington, e che alcuni hanno persino scritto al Presidente. Un’osservazione in particolare fu davvero eclatante: “Non è possibile cambiare il gusto della Coca; La Coca Cola è il Sogno Americano in bottiglia.”All’epoca stavo studiando l’arte, il business e il mestiere dello Storytelling e del Mythmaking, analizzando e interpretando la mitologia di Hollywood, il Sogno Americano, leggendo libri, guardando e analizzando film. E poi è successo questo. Questo evento mi ha fatto capire che la storia non si limita alla narrazione, alla sola finzione, e che una storia può essere raccontata anche attraverso prodotti e marchi. Infatti, questo mi ha fatto capire che la gente non compra prodotti, ma storie. La gente non compra le marche, compra i Miti e gli Archetipi che quelle marche rappresentano. Accanto a uno scopo strumentale, prodotti e marchi hanno anche un obiettivov simbolico. In questo estratto emerge chiaramente come fin dagli anni ‘80 fosse presente e crescente l’attaccamento e il senso di fidelizzazione ai cosiddetti lovemarks, derivati dalla storia che essi consistevano per i consumatori a livello quasi inconscio, eppure così forte da generare sommosse e proteste in determinati casi. In questo articolo del 2013 lo scopo di Ramzy è quello di analizzare dal punto di vista teorico e formale uno spot di 7up intitolato “Black belt”, dimostrando come rientri in uno schema narrativo, e analizzandone l’efficacia nei confronti dell’obbiettivo prefissato: accostare il brand a dei valori esperienziali e attraenti. Perché è proprio di questo che si tratta. Nella Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
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Un frame da “Black Belt” lo spot di 7up analizzato da Ramzy. http://www.culturepub.fr/videos/7up-black-belt-2/
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sua analisi Ramzy traccia una distinzione delle tecniche di advertising su due diversi livelli: uno “tecnico” e uno “formale”(Ramzy, 2013). Il primo, quello “tecnico”, è diviso a sua volta in due tipi: “hard sell” e “soft sell”; L’ “Hard sell” consiste nell’ottenere il successo di un prodotto nella distinzione di esso dagli altri prodotti di una stessa categoria. Ovviamente questo è un livello di comunicazione abbastanza superficiale, solitamente utilizzato per gli standard di prima/dopo e problema/soluzione utilizzati per le pubblicità per prodotti di pulizia, e non ha molto a che vedere con lo storytelling. Il “soft sell” invece, sposta il focus sull’immagine e sull’identità. Le informazioni riguardanti il prodotto vengono rimpiazzate, o supportate, dalla costruzione di una “brand 116
image”. Questo avviene ad esempio negli spot della Apple, ed ha strettamente a che fare con un sistema di advertising basato sullo storytelling. La seconda distinzione che Ramzy traccia avviene, come è stato detto, a livello “formale” e si divide in tre tipi: - Il testimonial: dove un’autorità parla agli spettatori a proposito del prodotto/brand - la dimostrazione: dove i benefici del prodotto/brand sono dimostrati agli spettatori - Il dramma: il racconto di una narrazione in cui il prodotto/brand svolge un ruolo strumentale. Ramzy afferma che: “La pubblicità commerciale è solitamente comunicazione persuasiva che impiega una logica causale elementare unita a delle tecniche retoriche.” Nel dramma invece viene utilizzata una comunicazione narrativa, con una logica poetica e associativa. Al giorno d’oggi le due cose si fondono, le distinzioni e i limiti fra la pubblicità in senso stretto e le altre fasi della comunicazione valoriale di marca si assottigliano sempre di più, rendendo di fatto tutta la comunicazione un unico grande racconto continuo, evocativo e coninvolgente.
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
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3.4 L’occhio semiotico sulla comunicazione
Quando ci si avventura nella progettazione di un messaggio comunicativo si va incontro a numerose complicazioni di natura semantica, legate alle intenzioni comunicative e di obbiettivo di senso, al canale e alla forma utilizzate, ai metodi di rappresentazione e linguaggio e alle diverse possibilità di interpretazione e percezione dello stesso. È proprio per questa serie di aspetti che l’analisi a posteriori si rivela un lavoro criptico e difficile da condurre. È possibile arrivare al nocciolo di un insieme di segni? Capire l’intenzione comunicativa dei progettisti? Arrivare a determinare quanti e quali sono le interpretazioni possibili e quindi valutarne l’efficacia formale e semantica? Quando ci si addentra in argomenti come l’analisi della comunicazione in tutte le sue potenzialmente infinite sfaccettature è Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
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inevitabile non imbattersi in riflessioni di natura Semiotica. Psicologia, antropologia, sociologia e semiotica sono tutte discipline i cui studiosi hanno da sempre cercato di smontare e osservare al microscopio quei fenomeni così spontanei, eppure così complicati, quali sono la comunicazione e il linguaggio. La Semiotica però, riguardando lo “studio dei segni” ed essendo per eccellenza la materia che studia i processi di produzione di senso che avvengono nella società, è la disciplina che più si è prestata nel corso del tempo all’analisi della pubblicità e della comunicazione di marca. Per sua stessa natura però, essa presenta dei limiti. Come ad esempio le varie differenze di definizione dei concetti fra diverse correnti di pensiero, oppure il fatto che l’efficacia di un’analisi dipenda molto dalle capacità dello studioso, oppure ancora il fatto che non tutti i metodi semiotici siano applicabili a tutti i tipi di messaggi pubblicitari. Ma è proprio la mancanza di rigidità teorica della semiotica che fa di questa disciplina uno strumento utile per la ricerca sulla comunicazione di marca, perché la rende maggiormente flessibile e adattabile alle molteplici necessità date dalle diverse casistiche. A partire dagli studi di Roland Barthes degli anni 60 la semiotica cominciò ad approcciarsi alla pubblicità. Tra tutte le forme di comunicazione Barthes riteneva che la pubblicità fosse una fra le più importanti, poiché la riteneva: “uno strumento in grado di consentire di superare i problemi connessi Storytelling / Storyshowing
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con l’interpretazione di oggetti statici quali le merci mediante la sua capacità di “mettere in scena”. Un altro motivo per cui la semiotica è adatta ad essere usata come strumento di analisi per la comunicazione di un marchio è che prima della pubblicità un argomento di ricerca è stata, ed è tutt’ora, la narrazione. Partendo dagli studi sulla letteratura sono stati sviluppati dei metodi per analizzare i racconti, (come per Propp e Jakobson) e capire le strutture secondo i quali essi vengono pensati e scritti. La pubblicità è sempre stata vista dall’occhio semiotico come una forma di narrazione abduttiva, laterale, ed oggi si rivela tale più che mai. Oggi non si parla più di pubblicità, ma si pensa al brand come ad un soggetto/entità che muove delle azioni nel nostro mondo, sfruttando varie dimensioni narrative e diversi linguaggi visivi e non.
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3.4.1 Le funzioni della comunicazione di Jakobson
Roman Jakobson 1896 - 1982 Linguista e semiologo Russo, uno dei principali esponenti della scuola del formalismo e dello strutturalismo.
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
Per capire come si pone l’occhio semiotico nei confronti di un testo/messaggio verranno esposti due dei metodi di decodifica della comunicazione e del linguaggio. Nel 1963, basandosi su degli studi sulle telecomunicazioni, il linguista e semiologo russo Roman Jakobson pubblicò un saggio dove schematizzò quelli che secondo si suoi studi erano gli aspetti fondamentali della comunicazione. Questi aspetti fanno riferimento alla comunicazione verbale ma anche quella non verbale, e possono essere estesi ad ogni tipo di linguaggio, poiché ovunque si palesi un messaggio di qualunque tipo, ovunque sia presente un “testo” e un destinatario a interpretarlo, si instaurerà un dialogo.
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Le funzioni della comunicazione sono 6 e sono le seguenti: la funzione referenziale (riferita al contesto): è la funzione più pratica, quella che riguarda il contenuto comunicato e il contesto fisico. Solitamente fa riferimento a merci o servizi realmente esistenti. la funzione emotiva (riferita al mittente): con la funzione emotiva l’intento è prendere l’io del mittente ed inserirlo nel messaggio, stimolanto i suoi sentimenti e umori, e facendo appello alla sua visione del mondo e alle sue idee la funzione conativa (riferita al destinatario): la funzione conativa fa riferimento a un messaggio che contenga un comando o un appello riferito direttamente al destinatario, con lo scopo di chiamarlo all’attenzione direttamente e suscitare una reazione attiva. la funzione fàtica (riferita al contatto): questa funzione riguarda l’attenzione al mantenimento del canale di comunicazione in sè per sé, con lo scopo di mantenere viva la relazione con i destinatari. la funzione poetica (riferita al messaggio): riguarda il modo in cui il messaggio si presenta ai destinatari, dal punto di vista estetico e di forma, le sue proprietà dal punto di vista dei sensi, e il modo in cui si fa percepire e comprendere. la funzione metalinguistica (riferita al codice): è la funzione che riguarda le regole di esposizione e le forme di espressione di un messaggio. È predominante quando usiamo un linguaggio per parlare di un altro linguaggio, oppure per spiegare una legge o descrivere delle regole. Storytelling / Storyshowing
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Bonfantini, Bramati, Zingale “Sussidiario di semiotica” ATìeditore, 2007
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
Le funzioni della comunicazione fanno riferimento si alla comunicazione, ma lateralmente ad un modo di vedere il mondo, decodificandolo secondo quella rete relazionale di continua suggestione e interpretazione dialogica. Con l’emergere della definizione delle funzioni comunicative di Jakobson è possibile osservare la comunicazione in maniera non convenzionale, come fosse un gioco di relazioni dinamiche e dialogiche e non lineari, in quello che viene recentemente definito “Gioco semiotico”. “Comunicare non è trasmettere e decodificare un messaggio, ma è agire all’interno di un gioco di relazioni dialogiche[…] un atto di relazione sociale condivisa e sorretta da regole, di individuazione di spazi di azione, di strategie per il conseguimento di un fine, di azioni che producono senso”. Jakobson afferma anche che esse non sono per forza tutte presenti in ogni tipo di messaggio e che dipende dal tipo di comunicazione, per lo stesso motivo inoltre la gerarchia delle funzioni può cambiare; Egli inoltre spiega come la funzione emotiva/espressiva sia quella più utilizzata nella pubblicità e più in generale nella comunicazione del mondo di marca, poiché l’intento è comunicare delle storie attraverso suggestioni ed emozioni, costruendo delle dimensioni narrative iconiche.
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3.4.2 Il modello attanziale di Greimas
Algirdas Julien Greimas 1915 - 1992
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Un tipo di analisi semiotica sorta fra gli anni ‘60 e ‘70 riguarda un livello più profondo rispetto a quello sintattico: quello narrativo. Secondo un punto di vista semiotico, tutto ciò che ci circonda è racconto, poiché è messaggio che stimola interpretazione e crea del senso, e perché in qualsiasi tipo di comunicazione avviene una semiosi. Per l’interpretazione del livello narrativo di una forma di comunicazione è possibile applicare lo schema di analisi degli attanti di Greimas. Algirdas Julien Greimas è stato un linguista e semiologo Lituano, ha fortemente contribuito allo sviluppo della teoria semiotica fondando la semiotica strutturale. Il suo modello mira appunto ad evidenziare i cosiddetti attanti, che sono gli elementi che agiscono all’interno di un gioco comunicativo. Essi sono sei, e sono divisi fra attanti, che operano in una sfera narrativa astratta, 127
e attori, che vivono nella narrazione ed interagiscono con gli avvenimenti della storia. Il destinatore affida un compito a un destinatario, il quale diviene un soggetto alla ricerca di un oggetto; nel corso della narrazione il soggetto incontra un aiutante e un opponente, che rispettivamente faciliteranno la ricerca o la contrasteranno. Esistono alcuni casi in cui destinatario e soggetto coincidono, e quindi gli elementi del modello diventano cinque, mentre in altri casi ancora avviene che oltre a questa coincidenza il soggetto si autodestini (Per esempio uno studente che inizia a studiare pensando “voglio passare l’esame�)
SOGGETTO
Lo schema del modello attanziale di Greimas Op. Cit.
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“Sussidiario di semiotica” Bonfantini, Bramati, Zingale ATìeditore, 2007
Naturalmente i risultati di questo modello di analisi emergono palesemente analizzando una storia letteraria o cinematografica, ma la cosa interessante è che con un sforzo di analisi ulteriore può essere applicata potenzialmente a qualsiasi situazione. Per esempio: “Anche entrare in una stanza è un compito. E a suo modo, entrare in una stanza, è anche una microstoria. È un’azione nella quale rispecchiano tutte le figure attanziali. Se la porta è l’opponente, l’aiutante sarà la maniglia.” Per la comunicazione di marca però avviene un altro tipo di processo. In un universo narrativo di marca il ruolo dell’oggetto non riguarda un certo prodotto o il marchio in sé, ma è rappresentato da una serie di valori, qualità o stati associati ad essi, e il consumatore, (tu stesso fruitore) è contemporaneamente soggetto e destinatario Questo perché la pubblicità non cerca generalmente di convincere il consumatore che ha bisogno dei prodotti pubblicizzati in quanto tali, ma piuttosto che questi prodotti possono aiutarlo ad ottenere qualcos’altro di cui sente di avere la necessità, come ad esempio la salute o il successo o ancora l’autorealizzazione
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3.4.3 Analisi di un artefatto pubblicitario di Barthes
Stefano Traini “Semiotica della comunicazione pubblicitaria” Bompiani, Milano 2008
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
Si può risalire a un momento preciso in cui è nata la semiotica della comunicazione pubblicitaria: nel 1964, con la pubblicazione del saggio intitolato “Retorica dell’mmagine” di Roland Barthes. In esso egli analizza un annuncio pubblicitario stampato della marca di prodotti da cucina Panzani, sancendo di fatto l’ingrasso della semiotica nel mondo delle marche. Con questa analisi egli evidenzia come: “Il messaggio pubblicitario inscrive in un piano ideologico secondo (connotativo), all’interno del primo piano di lettura (denotativo). L’immagine che noi vediamo incorpora e naturalizza un messaggio ideologico che veicola effetti connotativi secondi. […] questo significa che l’immagine pubblicitaria possiede un complesso valore comunicativo, e che lo scopo della semiologia deve essere quello di studiare il suo potenziale di significazioni attraverso una 131
retorica delle immagini� Secondo Barthes ogni messaggio visivo è costituito da due livelli di lettura, uno intrinseco all’altro, rimandando a significati e valori che spaziano al di là del primo livello di lettura, quello estetico e linguistico. Egli dimostra questi concetti analizzando un artefatto pubblicitario della marca Panzani. Ecco allora che la borsa che viene appoggiata sul piano significa il ritorno dal mercato appena avvenuto e quindi una freschezza dei prodotti, mentre i colori della composizione rimandano a quelli del tricolore italiano e
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Gianfranco Marrone “Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo“ Einaudi, Torino 2001
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
quindi alla tradizione genuina del nostro paese. I prodotti Panzani insieme a prodotti naturali dimostra come Panzani produca tutto quello di cui si ha biosgno, ma nel rispetto della natura, sottolineandone ancora la genuinità e la freschezza. Inoltre la composizione degli elementi e l’inquadratura rimandano a un valore artistico che riferisce alla natura morta. L’analisi di Barthes getta le basi per l’analisi semiotica nel campo della pubblicità, anche se ad oggi essa è concettualmente superata, poiché si fermava soltanto agli elementi presi così come vengono presentati nella composizione, e non la composizione nel suo complesso e significati che può comunicare al di là della componente visiva. Gianfranco Marrone dimostra ad esempio come nell’immagine dell’annuncio Panzani sia presente una narrazione di tipo implicito: la partenza, il viaggio, e l’azione della scelta dei prodotti, il viaggio di ritorno, la futura preparazione della pietanza e il suo consumo. Visivamente non sono presenti soggetti umani o attori espliciti in questa narrazione, ma essa è presente come sottotesto concettuale, ad un livello più profondo del messaggio. Lo spettatore può cioè ricostruire mentalmente un racconto chenell’immagine pubblicitaria non è narrato esplicitamente, ma soltanto suggerito. Ampliando il punto di vista, Marrone ci dimostra la potenza della comunicazione di marca, di come possa sfondare i limiti della composizione visiva, e possa comunicare implicitamente un messaggio narrativo al di là del significato più esplicito. 133
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3.5 Conclusioni: Oltre la pubblicità
Stefano Traini “Semiotica della comunicazione pubblicitaria” Bompiani, Milano 2008
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
In tempi recenti, quest’occhio analitico delle narrazioni ha ampliato il suo sguardo, staccandosi dalla narrazione nel senso letterale e letterario del termine; Osservando la realtà sociale, il sistema di linguaggi e comunicazioni di ogni sfumatura del nostro mondo, e in particolare delle relazioni che avvengono nel mondo della comunicazione di marca. “Il nuovo marketing ha lo scopo di raccontare storie, e non di concepire pubblicità” ha detto Seth Godin, l’inventore americano del marketing virale. Con l’infittirsi di nuove strategie comunicative e con il continuo sviluppo di nuove tecnologie il passaggio è stato via via inevitabile, partendo dall’analisi degli artefatti pubblicitari stampati, per i messaggi pubblicitari trasmessi in televisione, per poi arrivare ad oggi.
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Oggi, il mondo di marca non si costruisce più soltanto su un logo e sull’immagine coordinata, o su una storia raccontata nei 30 secondi di uno spot, o sui banner stampati; esso emerge da un insieme intrinseco e corale di vari elementi, caratterizzati da diversi formati e composti da diversi messaggi coordinati, veicolati su differenti canali. Universi transmediali tutto intorno a noi, le narrazioni ci sono ancora, solo che è più difficile distinguerle, ci parlano con un efficacia e un coinvolgimento sempre più forte e con delle tecnologie sempre più stupefacenti e pervasive. “Le grandi narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità, da Omero a Tolstoj e da Sofocle a Shakespeare, raccontavano miti universali e trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni di saggezza, frutto dell’esperienza accumulata. Lo storytelling percorre il cammino inverso: incolla sulla realtà racconti artificiali, blocca gli scambi, satura lo spazio simbolico di sceneggiati e di stories. Non racconta l’esperienza del passato, ma disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza la loro circolazione.” Quello che prima era solo narrazione e racconto oggi è storytelling. È qualcosa che va oltre la narrazione classica e oltre la pubblicità. Oggi le marche vivono con noi. Ma con l’infittirsi e lo stratificarsi delle informazioni e dei canali è ancora possibile decodificarle e analizzarne le caratteristiche? È ancora possibile utilizzare i mezzi che Storytelling / Storyshowing
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i semiologi hanno creato? È possibile far emergere delle tendenze e delle metodologie? Queste domande sono alla base della ricerca e dell’analisi di questa tesi; di seguito si esporranno una selezione di schemi e matrici semiotiche che sono state ritenute le più utili alla stesura di un’analisi sperimentale di un corpus di casi studio.
Capitolo 3 - L’analisi della comunicazione
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Capitolo 4
GLI SCHEMI
Capitolo - Paragrafo
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4.1 Il quadrato semiotico di Greimas
Uno dei contributi di Greimas più importanti e conosciuti nel campo della semiotica è stato l’introduzione del cosiddetto “quadrato semiotico”. Il quadrato semiotico è un metodo di analisi e classificazione dei concetti di un determinato testo(dove con la parola “testo” si intende la definizione in semiotica di un messaggio comunicativo contenente dei segni che stimolano un’interpretazione), ponendoli in una condizione di contrasto e opposizione. Questo schema trova le sue radici sulla teoria Aristoteliana del “Quadrato delle opposizioni”, un metodo creato dal filosofo per l’analisi delle relazioni logiche fra quattro proposizioni di un determinato sistema. Una sorta di schema grafico, atto a facilitare l’analisi dei soggetti in gioco all’interno di un sillogismo.
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Gli elementi che fanno parte del quadrato semiotico sono ovviamente quattro e sono disposti uno per angolo e collegati tra loro da relazioni di natura differente: contrarietà (sui lati orizzontali), complementarietà (sui lati verticali) e contraddizione (sulle diagonali). Osservando lo schema si può quindi vedere la seguente divisione delle relazioni fra i soggetti: - S1 e S2, ~S1 e ~S2: sono contrari - S1 e ~S1, S2 e ~S2: sono contraddittori - S1 e ~S2, S2 e ~S1: sono complementari
Il quadrato semiotico è uno schema di tipo logico che consente di raffigurare le principali tra le possibili articolazioni di una qualunque categoria semantica. Esso è la matrice dal quale sono state in seguito sviluppate numerose varianti, sulla base di diverse necessità derivanti da differenti studi sula classificazione dei concetti semantici. Ovviamente essendo un metodo semiotico non tratta i concetti con una precisione e una Capitolo 4 - Gli schemi
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sicurezza scientifiche, ma si affida alla capacità di analisi del semiologo che li prende in esame. Ciò non toglie che sia comunque uno schema di classificazione utile per la comprensione di testi più o meno complessi, è anzi proprio per questo tipo di flessibilità empirica si offre come un efficace metodo di analisi concettuale della comunicazione di Brand.
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4.1.1 Le ideologie pubblicitarie di Floch
Jean Marie Floch 1947 - 2001
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Colui che per primo pensò di utilizzare il quadrato semiotico per decodificare il confuso campo della comunicazione di marca fu il semiologo francese Jean-Marie Floch. Egli fu un importante collaboratore di Greimas e, parallelamente al suo interesse per lo studio della semiotica, svolgeva la professione di pubblicitario professionista. Questi due fattori spinsero Floch a volgere lo sguardo semiotico sullo studio della fenomeno pubblicitario e a capire fino a che punto si potesse spingere un’analisi semiotica dei messaggi pubblicitari, di qualsiasi tipo essi fossero. Egli ha impiegato il quadrato semiotico per analizzare numerosi fenomeni di consumo. In particolare, ha individuato e verificato sperimentalmente mediante apposite ricerche condotte su campioni di consumatori, quattro tipi di possibili «valorizzazioni dei beni di consumo», ponendole sugli angoli del quadrato 144
- Pratica, relativa al valore d’uso e all’utilità del bene: confort, affidabilità, ecc.; - Utopica, relativa agli aspetti esistenziali del rapporto di consumo: identità, avventura, ecc. (come sottolinea lo stesso Floch, qui utopico non è da intendersi con il significato di illusorio, ma nel senso di tensione ideale, di valore immaginifico. ); - Critica, relativa agli aspetti non-esistenziali del consumo: rapporto qualità-prezzo, rapporto costo-benefici, esame circostanziato del bene, ecc; - Ludica, relativa agli aspetti non utilitari: gratuità, raffinatezza, ecc. (qui Floch con l’aggettivo «ludico» vuole intendere l’attività libera per eccellenza, non semplicemente quella che ha a che fare con il gioco). Ora, questi concetti si riferiscono alla valorizzazione del bene di consumo, e quindi al prodotto in sé. il passaggio determinante fu invece il seguente. Partendo dalle basi fornite da queste valorizzazioni, Floch elaborò i concetti secondo i quali idealmente una marca poteva scegliere di posizionarsi nell’atto dell’elaborazione di un messaggio pubblicitario, o più in generale nella ricerca di una linea di condotta per una campagna pubblicitaria, e quindi, pensando ancora più in grande, nella costruzione della propria identità di marca.
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Questi concetti presero il nome di “ideologie pubblicitarie” e furono così suddivise: Ideologia referenziale: il messaggio svolge una funzione rappresentativa, cioè di semplice rappresentazione della realtà. La pubblicità si limita a rispecchiare la realtà del prodotto (spesso attraverso il meccanismo della dimostrazione) Nella pubblicità il consumatore deve ritrovare elementi del suo vissuto, come una situazione di necessità, o un problema ricorrente, ed essa deve essere onesta per poter garantire l’acquisto del prodotto; Ideologia sostanziale: è la negazione della pubblicità mitica, considerata in questo caso una forma di pubblicità che usa il prodotto in maniera pretestuosa. Essa si batte invece per far vivere il prodotto in pubblicità, attribuendogli, con le sue virtù, una chiara centralità. Si focalizza sulla centralità del prodotto a discapito del consumatore. Si tratta di una valorizzazione critica dei valori del prodotto che non ha nulla a che fare con la valorizzazione esistenziale. Vengono proposti valori come rapporto qualità/prezzo e costi/ benefici. È differente dalla valorizzazione pratica della pubblicità referenziale perché non si parla di fruibilità del prodotto ma di utilitàbeneficio. Ideologia mitica: sostiene che la pubblicità debba far sognare il consumatore, distrarre dalla monotonia dell’acquisto, avvolgere il prodotto di altro senso, che non ha per sua natura, e rivestirlo di sogno; per ottenere questo effetto di senso si ricorre spesso a Storytelling / Storyshowing
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leggende, eroi e simboli, ovvero a referenti mitici che sono già conosciuti e strutturati e che vengono associati al brand.
Jean Marie Floch “Semiotica, marketing e comunicazione” FrancescoAngelli, Milano 2015
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Ideologia obliqua: è la negazione della pubblicità referenziale, in quanto sostiene che nel messaggio il significato non è già dato e utilizza la forza dell’ironia e del paradosso per attivare la capacità cognitiva del fruitore e stimolare quest’ultimo a co-produrre il significato attraverso una strategia di spostamento, di messa in distanza rispetto al discorso che riguarda le finalità del prodotto è contraddittoria rispetto all’ideologia referenziale, che sostiene la funzione rappresentazionale del linguaggio, perché essa nega questa funzione; sostiene che il senso sia da costruire, mediante l’ironia, la malizia; concepisce il consumatore come soggetto attivo, la cui intelligenza viene messa alla prova. Il momento cruciale è il passaggio dal pubblicitario allo spettatore, la sua capacità di comprenderne il messaggio;
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Nella definizione delle ideologie pubblicitarie Floch precisa che: «tale modello non va inteso come uno schema statico che illustra una serie di possibilità in alternativa fra loro, ma come uno strumento operativo utile a ricostruire i movimenti interni ai testi, le trasformazioni semantiche che sono presenti nelle varie storie pubblicitarie»21. Quindi anche se tendenzialmente un brand si posiziona prevalentemente su di una, è possibile che si verifichi un andamento altalenante che si sposti da una ideologia all’altra. È doveroso precisare che un modello del genere di fronte a dei consumatori instabili e consapevoli come quelli contemporanei può presentare delle imprecisioni di rappresentazione; specialmente considerando gli sforzi dei marchi talvolta di assecondarli, o di cercare sempre nuovi canali e linguaggi per veicolare messaggi diversi. Inoltre, come anticipato in precedenza, questo metodo è stato pensato per analizzare dei messaggi pubblicitari il cui spazio di fruizione fosse circoscritto a un messaggio stampato, divulgato via radio, o un breve messaggio pubblicitario; il fatto di utilizzare questo metodo per analizzare una campagna di comunicazione contemporanea rappresenta un intento sperimentale. Il quadrato semiotico è comunque uno strumento particolarmente utile per mettere a fuoco i concetti sui quali si basano gli immaginari delle marche, e per evidenziare se il cambiamento nella comunicazione di marca può ancora effettivamente essere osservato attraverso una sorta di lente d’ingrandimento.
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4.2 Lo schema dei campi semantici di Remaury
Bruno Remaury “Brands and Narrative - Brands and the cultural collective unconscious” Hors Coll, Parigi 2008
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Uno studioso che ha recentemente investito parte della sua opera nell’analisi della comunicazione di marca, è l’antropologo francese Bruno Remaury. Egli si è focalizzato sull’immaginario di marca, e sulle possibili aree di significato entro al quale il racconto valoriale di un brand può spaziare. Attraverso l’incrocio di discipline di analisi etnografica, storiografica, semiotica e di mercato egli ha sviluppato quella definisce la “Lettura antropologica del racconto della marca”. Questa teoria consiste nel racchiudere in sei differenti macrotipi o macrocategorie i campi semantici più rilevanti, entro ai quali un brand può decidere di far spaziare il proprio messaggio valoriale. Sei differenti campi semantici, come dei capisaldi dei valori comunicativi, entro i quali è possibile riassumere ogni immaginario di marca.
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Essi si dividono in: Tempo: il campo semantico del tempo riguarda la dimensione temporale originaria che identifica la marca; ha strettamente a che fare con il significato di tradizione (come le grandi marche di moda che fanno delle loro origini artigianali un valore fondante), ma può anche appoggiarsi all’immaginario di una determinata epoca temporale (come anni venti o anni sessanta). Luogo: i racconti nel campo semantico del luogo fanno riferimento a una determinata dimensione geografica e/o localizzata, ad esempio a un determinato paese o nazione, oppure anche ad un determinato posto in una città o in un edificio. Esso può fare riferimento ad esempio anche ad una terra fantasiosa, ad un luogo inventato, o ad un certo tipo di contestualizzazione. Stati esistenziali: questo campo fa riferimento alla gli stati esistenziali come femminilità/ mascolinità, ricchezza/povertà, giovinezza/ vecchiaia, alle estrazioni sociali, gli status quo, a tutto ciò che ci definisce come determinate persone nella società. Personaggi: il campo dei personaggi comprende racconti al cui interno viene utilizzato l’artificio della mascotte, o che comunque presentano dei personaggi stereotipati inventati che diventano incarnazione stessa dell’immaginario. Esso avviene sia con characters fantastici e inventati che con dei testimonial reali, che,
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come per i protagonisti di un film, si fanno portatori dei valori della marca. Saper fare: questo campo è legato ai mestieri qualificanti, è legato alla qualità e all’esperienza. Riguarda il saper fare ma anche il far saper fare, cioè l’essere un medium per riuscire ad ottenere quello che si desidera, come ad esempio un risultato atletico, come avviene negli immaginari di molti brand sportivi. Materia: infine i racconti che riguardano la materia fisica sia essa naturale o tecnologia, futuristica o retrò, riguarda gli ingredienti che compongono un determinato prodotto come ad esempio quelli caseari o i cosmetici. Questo campo è molto legato alla ricerca e all’innovazione.
Giulia Ceriani “Hot spots e sfere di cristallo. Semiotica della tendenza e ricerca strategica” Franco Angeli, 2007
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Questi sono i campi semantici pensati da Bruno Remaury, dai quali si può elaborare uno schema di analisi delle campagne di comunicazione di marca. D’altronde, come afferma Giulia Ceriani: “Il senso di queste tematiche brandizzate è quello di assegnare alla marca dei racconti culturali che ne integrano il discorso proprio, lo ancorano, gli associano tutta l’aurea e il potenziale connotativi che è dovuto alle forme mitologiche sulla base di sedimentazioni lontane nel tempo e consolidate dalla condivisione stereotipica.” Come funziona per una favola, per una leggenda, o per un film cult, il brand si inserisce in un immaginario collettivo, che sarà quello che la renderà veramente immortale. 152
4.3 La “Storytelling Matrix”
A seconda del canale e del tipo di supporto e di comunicazione in cui avviene la comunicazione, la narrazione può avere intensità diverse, nonché maggiori o minori possibilità di interazione un grado di interattività, aggiunto alla struttura della storia. Ad esempio, la televisione è un canale a interazione zero, ma può raggiungere intensità alte. Per quanto riguarda il digital invece avviene il contrario, l’interazione può essere molto alta, ma il contenuto diminuisce di intensità. D’altro canto, giochi e applicazioni sono quelli con il più alto grado di interattività ma con una minore intensità. www.storyworldwide.com Story worldwide studio specializzato in branding e digital storytelling
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Story Worldwide è un’agenzia newyorkese che focalizza il proprio lavoro sul brand storytelling, cercando costantemente nuovi metodi efficaci per la comunicazione di marca. Si sono costruiti una discreta fama basando 154
il loro lavoro sulla creazione di modalità innovative per veicolare il brand content, contribuendo ad ampliarne l’immaginario di marca e a raggiungere più utenti possibile. Il motivo per il quale vale la pena citare questa agenzia è la loro cosiddetta “Storytelling matrix”. La matrice dello storytelling, è uno schema tridimensionale inventato dai creativi di Story Worldwide, con lo scopo di avere uno strumento per aiutare i loro clienti a meglio capire in che tipo di canale mediatico essi vogliono posizionarsi, e quindi di conseguenza di elaborare dei metodi comunicativi e dei contenuti adeguati. La storytelling matrix si divide in 3 assi che rappresentano tre diverse caratteristiche: Attività, Complessità e Personalità; ognuna delle quali ha due vertici che rappresentano la diversa natura della caratteristica. L’asse dell’attività rappresenta il coinvolgimento a cui un utente viene stimolato nella fruizione di un contenuto; da una parte sarà lineare, quindi a bassa interazione e tendenzialmente passiva, come ad esempio accade con la tv, dalla parte opposta l’attività sarà alta e quindi sarà altamente interattivo. L’asse della complessità è composto dei due estremi opposti da bassa intensità e alta densità, aggettivi che si riferiscono all’intensità del contenuto che viene fruito. Contenuti documentaristici o istruttivi presenterebbero un’alta intensità, mentre ad esempio la fruzione di un video promozionale su youtube è generalmente a bassa intensità.
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L’asse della personalità infine si riferisce al grado di personalizzazione che un contenuto offre agli utenti, ed è diviso in prodotto di massa e customizzato. Esso esprime quanto un determinato contenuto sia stato creato ad-hoc per un certo tipo di target, o sia stato pensato per le masse, quindi per raggiungere il maggior numero di utenti.
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Frame dal video di spiegazione della matrice. https://www.youtube.com/ watch?v=Vr9adE55MzI
Fra gli estremi di ogni asse ovviamente risiedono tutti i gradi intermedi di questi tre attributi. A livello visivo ognuna di queste assi sono poste rispettivamente sugli assi dello spazio x, y e z a formare una matrice all’interno della quale ci si può posizionare, decidendo i vari gradi di attività, complessità e personalità che si vogliono comunicare. Questa matrice è stata ideata da Story Worldwide per aiutare i clienti in fase di definizione di un brief, a livello quindi preliminare per la definizione di un progetto. Questo non significa però, che non sia una matrice molto valida per analizzare una determinata tendenza comunicativa a posteriori, cercando di far emergere gli obbiettivi e le tendenze che stanno dietro alle scelte comunicative di un brand.
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CONCLUSIONI
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CONCLUSIONI
Giunti alla conclusione della ricerca degli schemi di più adatti e funzonali all’analisi della comunicazione di marca, e dopo aver delineato il contesto generale nel quale queste storie vengono raccontate, si è proceduto di conseguenza alla ricerca di un corpus di casi studio adatti ad essere analizzati. Tali casi studio sono stati scelti da un insieme delle migliori piattaforme sul marketing, sull’advertising, sul design e sul mondo della comunicazione più in generale. In seguito è stato elaborato uno standard di analisi che mette insieme tutti gli schemi esposti in precedenza, attraverso il quale è stato sondato ogni singolo caso studio, fino ad ottenere un report di analisi che è possibile consultare separatamente e che costituisce le conclusioni di analisi a questa tesi.
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RINGRAZIAMENTI
Ringrazio innanzitutto coloro che sono stati un monolite indistruttibile nel sostenere i miei cambiamenti, sopportare le mie nevrosi e supportare la mia crescita, e senza i quali non sarei quello che sono e non starei finalmente scrivendo dei ringraziamenti così scontati e mielosi: la mia famiglia. I miei genitori, mia nonna, e quell’individuo insostituibile, il The partner in crime, il braccio destro: mio fratello. Ringrazio coloro che mi sono stati vicini in questo percorso e che continureanno ad esserlo nei prossimi. Ringrazio coloro che sono passati e sono andati e coloro che sono passati e sono rimasti. Ringrazio gli “Amichevoli caldi” per avermi assecondato e accettato come quel cugino un po’ strano che non capisci bene ma gli vuoi bene uguale, e in particolare “I Coguari:” Gabbo, Giacomo e Modo, che anche se distanti sempre tenuti vicini dal legame indissolubile del bromance; ringrazio “I Nefandi”: Storchi, Matt, Flo e il Cugino più bello e buono del mondo: Matteo, per farmi sempre sentire a casa e in famiglia; ringrazio Marco e Bea, per avermi praticamente adottato; ringrazio Ste Lari e tutti i “Bisteccas”, perché non c’è niente di meglio dei soci con cui ti vedi 3 volte ogni 5 mesi, ma ti capisci come fossero 5 minuti; ringrazio Beppe, per volermi bene ed essere diventato praticamente un fratello acquisito; ringrazio Nicolò, l’amico e coinquilino più nerd e più altruista che potessi desiderare; ringrazio “Il Turco” Nikolai Rizo, per la sua amicizia e per avermi accettato nella cumpa salvandomi dai meandri della Bovisa; ringrazio Fulvia Bleu, per la sua pazienza e fiducia nei miei confronti; ringrazio di cuore tutti i Bonsaininja, dal primo all’ultimo, per avermi accettato nella loro grande famiglia di pazzoidi in maniera così candida e commovente; ringrazio Netflix, Hbo, Showtime, Sky, e tutti i produttori delle mie serie tv preferite per essersi uniti ed aver deciso all’unanimità di creare una finestra temporale di stasi fra le stagioni e permettermi di laurearmi prima del 2025. Grazie, senza il vostro intervento non ce l’avrei fatta. Ringrazio infine me stesso, per essere stato il mio peggior nemico, spingendomi invece ad essere il mio migliore alleato.
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