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Capitolo 2 La supplente

Prima che la giornata cominci con l’ora di scienze, in classe la confusione regna sovrana. Anzi, pare crescere sempre di più, come una valanga che parte da una pietruzza per trasformarsi in un vero disastro. Marco, il solito casinista, gira per la classe chiedendo a chiunque di farsi volontario, perché lui non ha potuto studiare, aveva gli allenamenti. Silvia non se ne cura, lei ha già il voto e non deve preoccuparsi di niente. Finge anche di non accorgersi delle occhiate dolci che le lancia Filippo, che le va dietro da mesi, senza risultato. Non è proprio il suo tipo, con quei capelli ricci, rasati ai lati e tinti di giallo senape sopra; quello si è trasformato in uno strano tipo di volatile esotico. Allora la ragazzina cerca di riempire il panorama della vista con ciò che sta fuori dalla finestra.

La distrae il movimento in giardino un piano più sotto, dove un paio di addetti è intento a un preciso lavoro di potatura della siepe, che circonda il perimetro della scuola. Con una specie di lungo coltello elettrico i due ci danno dentro, partendo dai due lati opposti fino a incontrarsi al centro, dove c’è il cancello d’ingresso. Una nuvola di polvere vegetale si solleva in alto, sospinta dal vento primaverile.

Si vede già a occhio che uno dei due taglia un po’ più basso dell’altro e che, quando si incontreranno, l’armonia progettata nelle intenzioni non ci sarà per niente. – Dovranno rimetterci le mani per pareggiare, di sicuro – pensa ad alta voce Silvia, rallegrata dalla sua acuta capacità di osservazione. – Sì, perché adesso ti intendi di potature, eh? – entra il vocione di Juri a interrompere il flusso dei suoi pensieri. – Be’, si vede che non stanno potando alla stessa altezza, dai!

– Ma lascia perdere... non è un lavoro da femmine, cosa ne vuoi sapere tu?!

Silvia non riesce a replicare immediatamente a quell’affermazione, che lei definirebbe razzista verso le donne.

Decide di lasciar perdere e battere in ritirata. Quello Juri è grande e grosso e ultimamente anche pericoloso. Si è messo in testa di essere superiore a tutti, soprattutto alle ragazze, che tratta davvero in malo modo, senza riuscire a smettere di cercare di offenderle per dimostrare la loro inferiorità.

L’idea di inventarsi qualche modo di tormentarlo si insinua nella sua mente, facendo apparire scene vivide1 di sofferenza.

Un grido collettivo di gioia la distoglie da quei brutti pensieri. La bidella si è affacciata in classe, per annunciare che la professoressa di scienze è malata e che verrà una supplente.

La tensione pare allentarsi un po’ e ognuno raggiunge il proprio posto a sedere. – Chiudete quella finestra, che entra la polvere della siepe! – ordina Federica dal posto vicino alla porta. – Lo sapete che sono allergica!

Silvia chiude i vetri spalancati, sotto le lamentele di Juri, che ha sempre caldo, anche quando fuori c’è un metro di neve. – Arriva, arriva! – mormora Marco, affacciato sull’atrio, reggendosi allo stipite di legno verde della porta. – È una giovane; mai vista – aggiunge, mentre si avvia al suo posto in ultima fila.

Fa il suo ingresso una donna, veramente più una ragazza, una specie di sorella maggiore. Jeans blu, camicia azzurra maschile con una collana vistosa che le spunta dalla scollatura e stivali rossi in tinta con la collana. Borsone tipico da professoressa, dove spunta un tablet. Registro sotto il braccio, minaccioso come sempre.

La supplente va a sedersi alla cattedra, sorridendo. Poi solleva lo sguardo, soppesando i presenti. Infine saluta. – Buongiorno ragazze! – ‘Giorno prof – gridano tutti in coro.

Lo spilungone della 2a C solleva il braccio, chiedendo la parola.

1 Intensamente chiare e limpide.

– Prego – dice la professoressa – Tu sei...? – Ettore Damiani, prof. Volevo solo chiedere perché ha detto “buongiorno ragazze”, ci siamo anche noi maschi. – Lo so, Ettore, ma le ragazze sono più numerose, sono almeno il doppio di voi, se non ho contato male. – Allora avrebbe dovuto dire “buongiorno ragazze e ragazzi” – insiste il giovane studente.

Gelo in classe. Contraddire la prof al primo incontro: sbagliato, molto sbagliato.

La supplente invece sorride, si alza e fa il giro della cattedra, rimanendo in piedi, appoggiata al bordo. – Vedete, se avessi detto “buongiorno ragazzi”, a nessuna ragazza sarebbe venuto in mente di chiedere come mai avessi usato solo il maschile nel mio saluto. – Sì, però usare il maschile è un’abitudine – dice Elena, con la mano alzata, senza saper tenere a freno la sua voglia di manifestare di essere sempre sul pezzo. – Si dice anche “uomini”, per indicare il genere umano – aggiunge, facendo il gesto delle virgolette con le dita, mentre pronuncia la parola “uomini”. – Esatto, un’abitudine. Solo di quello si tratta – commenta la professoressa. – Ma se vi chiedessi di dirmi cos’è il genere umano, cosa mi direste?

Chiara non si fa sfuggire l’occasione per dare forza al dibattito e far dimenticare alla supplente di dover fare scienze; lei la odia quella materia. – L’insieme di tutte le persone, di qualsiasi tipo. – Corretto... – lascia la voce in sospeso l’insegnante, indicando la studentessa con un dito. – Chiara Rignini. – Corretto Chiara, però provate a fare una ricerca. Qualcuno ha un telefonino collegato a internet?

Mezza classe alza la mano, mentre l’altra metà evita di farlo per timidezza; anche se tutti hanno il telefonino, almeno dal giorno della comunione in quinta elementare. – Bene, googlate2 la definizione di genere umano.

2 Cercare notizie e informazioni digitando nella casella del motore di ricerca Google.

Antonella è la più veloce. – La Treccani3 dice che umano, aggettivo, significa dell’uomo, che è proprio degli uomini (in quanto distinti rispetto agli altri esseri animati). – Il dizionario De Mauro dice che è l’insieme degli uomini, l’umanità – dice Matteo. – E Wikipedia… – Basta, basta così – la supplente fa cenno di smettere. – La definizione migliore rimane quella della vostra compagna Chiara.

Chiara si raddrizza sulla schiena, fiera del suo successo.

Chiara 1, Internet 0, evviva. – Vedete quanti pregiudizi che ci sono ancora, se anche i dizionari fanno riferimento alla parola uomo per comprendere anche tutte le altre persone? – continua l’insegnante. – Ma non apriamo oggi questa discussione, visto che dobbiamo fare scienze. Dove siete arrivati?

Elena alza la mano, ma Marco è più veloce. – Dobbiamo iniziare la fotosintesi clorofilliana – mente spudoratamente, da lazzarone4 qual è sempre stato.

Silvia blocca il braccio di Chiara, seduta di fianco a lei e pronta a dire la verità, ora che ha ottenuto il suo piccolo successo. Marco le lancia un pollice alzato, cosa che le fa venire voglia di dire che la fotosintesi l’hanno già fatta. – La fotosintesi, eh? – la prof si massaggia il mento, pensierosa. – Strano, la vostra insegnante mi ha scritto che l’avete già fatta. – Sì, ma non l’abbiamo capita bene… – ci riprova Marco. – E poi ‘sta roba di maschi e femmine è interessante.

Per Silvia la curiosità sul nuovo argomento introdotto dalla professoressa ha la meglio, anche se significa assecondare Marco e il suo atteggiamento, che lei non sopporta proprio. – Prof, se vuole, potremmo parlare dei pregiudizi – comincia a proporre con timidezza. – A me tocca sempre lavare i piatti perché sono una femmina e a mio fratello mai...

3 L’enciclopedia più famosa e completa in Italia. 4 Dotato di una pigrizia indisponente.

– Ok, se non volete parlare di fotosintesi, facciamo un po’ di educazione civica, allora – la professoressa pare davvero sollevata dal non doversi occupare del respiro delle foglie.

Un coro di ringraziamento colora il momento, sottolineato da un “E vai!” gridato da Marco, prima che la sedia, sulla quale dondola in continuazione, precipiti rovinosamente al suolo con un tonfo bello grosso. – Ti sei fatto male? – chiede la supplente, facendosi spazio tra una folla di risate e “ti sta bene” qua e là. – No, niente... tutto ok – bofonchia Marco, rimettendo la sedia in posizione e massaggiandosi la testa che, sbattendo sul muro, ha frenato la caduta. – Comunque io mi chiamo Catia – dice l’insegnante, rivolgendosi a tutta la classe.

Poi la donna si avvia tra i banchi, con il passo di chi vuole godersi il paesaggio e con lo sguardo rivolto in alto.

Silvia la osserva e a un tratto le viene da ridere; la scena di Catia, che cerca ispirazione dai rettangoli di luci al neon appesi al soffitto, è davvero irresistibile. Si mette la mano davanti alla bocca e lascia uscire un colpetto di tosse, di quelli che servono a nascondere un attacco di ilarità.

La voce dell’insegnante riempie la stanza. L’importanza della parità, il rispetto e tutte quelle cose che si dicono per introdurre un argomento importante.

All’inizio Silvia sbadiglia; quelle cose le sente da quando faceva l’asilo e le pare che non sia mai cambiato niente. – Fiato sprecato – pensa, per niente interessata alle varie alzate di mano di quei compagni buoni a intervenire solo per arruffianarsi la supplente.

E poi si sa che l’attenzione bisogna guadagnarsela, perché è uno dei regali più preziosi che si possono fare a qualcuno.

Ma quando la discussione si muove intorno all’importanza del linguaggio, solo allora Silvia inizia a sentire qualcosa crescere dentro di lei, il suo blocco di sfiducia che si scioglie grazie ai dettagli. – Ditemi cosa vi viene in mente se vi dico uomo di strada – inizia la professoressa – con alzata di mano, prego – aggiunge,

quando vede qualcuno prendere fiato per parlare senza chiedere il permesso. – Un vagabondo, uno che gira a caso – propone Marco, serio e attento, almeno per farsi perdonare la botta con caduta di poco prima. – Uno abituato a cavarsela, anche nei momenti più difficili – aggiunge Chiara. – Oppure uno che sa come vivere di espedienti – dice Elena, schiena dritta e voce bella stentorea5 a dimostrare la sua superiorità nella ricchezza del linguaggio. – Espe... cosa? – le fa eco Filippo, sottolineando il tono interrogativo per un effetto ancora più ironico.

Elena gli rilancia una linguaccia. – Ignorante! – mormora a denti stretti. – Gallina! – sibila il compagno.

Catia, la supplente, solleva le mani per riportare la calma. Sa benissimo che l’incomprensione tra persone è simile a un labirinto: più si va dentro e più difficile diventa trovare la via d’uscita. – Ok, bene. Avete azzeccato il significato. Bene – inizia a dire, dimenticando le frecciatine tra gli studenti. Poi lascia cadere un po’ di silenzio, quell’attesa che crea un pochino di suspense6 . – E se invece vi chiedessi che cosa significa donna di strada?

Ragazze e ragazzi si osservano l’un l’altro, per vedere chi ha il coraggio di dire qualcosa, mentre i più timidi si fissano i piedi sotto il banco, per non incontrare lo sguardo della professoressa, che magari finisce per chiedere a qualcuno di rispondere.

Juri alza il braccio sinistro, facendolo roteare con l’indice puntato verso il soffitto. – Eeeeh, chissà! – dice, osservando le sue compagne per vedere la reazione. – Tipico! – esplode Silvia, indicandolo con entrambe le mani aperte a palmi all’insù. – Sei irrecuperabile... – Ecco quello che intendo, ragazze. Vedo che avete capito

5 Forte e chiara. 6 Stato di tensione ansiosa per il fatto di non riuscire a prevedere cosa accadrà.

quanto cambia il significato delle parole se abbinato a una figura maschile o femminile. Questo è l’indizio che ci fa capire quanto i pregiudizi siano dominanti nel nostro modo di parlare e quindi di pensare – commenta Catia, ora seduta dietro la sua cattedra. – Potremmo andare avanti per ore a scovare parole gonfie di pensieri stereotipati, cioè preconfezionati sull’essere donna oppure uomo. C’è ancora tanta strada da fare, anche se per fortuna oggi non partiamo da zero. – Vero prof – dice Ester dal fondo della classe, tenendo un braccio in alto per sentirsi così autorizzata a intervenire. – Non parliamo poi di quelli che ti fischiano per strada o fanno commenti pesanti. – Sì, vabbè – commenta Juri. – Tu sei alta, bionda e già formata… è normale. – Normale? – chiede Silvia, indignata dal commento del compagno. – Vero, dovresti anzi sentirti orgogliosa di essere apprezzata – aggiunge Matteo – vuol dire che sei bella... Ahi!

Non fa in tempo a finire la frase che un calcio gli è arrivato da sotto il banco. Chiara non ha perso un secondo a punire l’insolenza di Matteo, che pure le piace un po’. Una puntina di gelosia l’ha aiutata a colpire più duro. – Non c’entra la bellezza – inizia a spiegare la prof Catia, che ha fatto finta di non vedere i movimenti sottobanco nella seconda fila – il catcalling, così si chiama il commentare in modo volgare e ad alta voce la figura di una persona incrociata per strada, è un tipico esempio di cultura aggressiva verso l’altro sesso. Inutile aggiungere che le vittime sono quasi esclusivamente donne. – Sì, ma così non si può dire più niente! – sbotta Marco, che ha ricominciato a dondolarsi pericolosamente sulla sedia. – Ciò che conta è il rispetto! – esclama Antonella, che di solito se ne sta sulle sue, senza intervenire. – Ho visto una serie tv dove se ne parla – aggiunge, mentre il suo vicino Matteo si mette una mano sulla fronte in segno di disperazione. Quando Antonella attacca con le serie, potrebbe andare avanti per ore, fino allo sfinimento.

La supplente pare aver intuito il pericolo di andare fuori tema. Allora lancia la sua proposta: mezz’ora di tempo per scrivere un breve testo sull’argomento “parità uomo donna” e pregiudizi vari.

Qualcuno accenna una protesta, ma alla fine è sempre meglio che fare un test di scienze. Perciò gli studenti si mettono al lavoro, sperando così di tirarla lunga fino al suono della campanella.

Silvia ripensa a tutto quello che è appena successo. Non vuole ripetere gli argomenti toccati nella discussione in classe; quindi cerca di ripescare dalla sua mente qualcosa di più originale.

Le viene in mente sua madre, che sta passando un brutto periodo sul lavoro, a causa dei problemi economici scatenati dalla recente pandemia. Il calo degli affari ha messo a rischio la vita dell’azienda. Chi ha risentito di più del pericolo sono state le lavoratrici donne, che hanno fatto la cassa integrazione molto più degli uomini; almeno il doppio delle ore. Il proprietario ha detto che era importante che gli uomini mantenessero il lavoro, mentre le donne hanno anche la casa e i figli di cui occuparsi e possono stare a casa più facilmente. – Quanto mi fa arrabbiare ‘sta storia – riflette Silvia – come se gli uomini non possono prendere uno straccio e lavare il pavimento o cambiare un pannolino – pensa, cercando le parole migliori per mettere i suoi pensieri per iscritto sul foglio a righe, che ha strappato dal centro del suo quaderno.

Il pensiero scorre lentamente, ma il tempo scivola via a una velocità impressionante. Le biro si muovono rapide quanto le lancette dell’orologio e in un attimo arriva il suono che annuncia la fine dell’ora.

La mattinata delle lezioni successive vola via, senza lasciare traccia nella mente di Silvia, presa com’è a rimuginare su quanto ha detto la supplente Catia.

Le parole della professoressa hanno incrociato i suoi problemi. Il fatto di sentirsi sminuita in quanto femmina, come le capita in casa o nello sport. È vero che si cerca spesso di fare qualcosa per la parità, però c’è sempre un ostacolo che impedisce di riuscirci,

come se appena arrivati al dunque, scatti il timore di farcela. E allora si fa marcia indietro con le scuse più incredibili.

La considerazione finale che ha messo nel testo scritto della prima ora è che il cambiamento bisognerebbe farlo dentro ognuno di noi, perché è lì che si annidano i pensieri più difficili, le paure e i pregiudizi. Poi si potrà vedere un vero cambiamento nel mondo. Le è parso di aver trovato un modo saggio di dire la cosa e ora, inseguendo i suoi pensieri sul marciapiede per la strada di casa, col suo zaino in spalla, Silvia si sente soddisfatta di sé.

Il suono del motore di una moto si avvicina alle sue spalle, diminuendo di intensità, segno che sta rallentando. Silvia si allontana istintivamente dal bordo del marciapiede, avvicinandosi alla siepe che circonda una palazzina bassa, di recente costruzione. – Ehi, cosa vuoi fare, metterti a potare la siepe? – grida un tipo col casco, seduto dietro al motociclista, che Silvia riconosce subito dalla voce. Juri, il compagno di classe, il maschilista che allunga una mano per tentare di prenderla e tirarla verso di sé.

Silvia fa un balzo in avanti, evitando il contatto, ma la moto la segue scattando, con il motociclista, un ragazzo più grande che lei non conosce, impegnato a dare colpetti brevi e nervosi di acceleratore. E Juri che sghignazza come un animale da sotto il casco. Le pare di rivivere la scena che ha visto la notte prima dalla finestra e non è una cosa bella, per niente. Al posto di combattere, come aveva sognato, abbassa il capo e prosegue il suo cammino, incollata alla siepe, con le lacrime che spingono per tracimare7 dal bordo degli occhi.

L’arrivo di una coppia di adulti dal senso opposto costringe la moto a riprendere il suo tragitto, scomparendo dopo un’accelerata con la ruota davanti sollevata da terra.

Silvia fa un sospiro di sollievo e accelera il passo, quasi di corsa. Fa così fino a raggiungere la sua zona, dove tutto le appare più familiare. – Che stupida ad aver avuto paura di quello! – mormora tra

7 Superare il limite.

sé, lanciando occhiate rapide a destra e a sinistra per assicurarsi di non vedere nessuno di minaccioso. – Anzi, questa corsetta mi ha fatto bene; speriamo solo che ci sia qualcosa di buono da mangiare; ho una fame – pensa ad alta voce, non appena le compare davanti agli occhi il portone a vetri del suo palazzo. Oggi è sabato e i suoi sono tutti a casa. Pranzo in famiglia allora, sufficiente a spazzar via dalla sua testa la paura di poco prima, che finisce rapidamente nel cestino delle cose da dimenticare.

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