Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di
Filippo La Porta
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Edizione azzurra
L’amorosa a inchiesta Dalle origini al Trecento
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida equilibri
PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ
ORIENTAMENTO
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
Novella Gazich Manuela Lori
L’amorosa inchiesta 1a con la collaborazione di
Filippo La Porta
Edizione azzurra
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
Dalle origini al Trecento
secondo le NUOVE Linee guida
L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills
Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.
equilibri #PROGETTOPARITÀ
Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere
La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI
attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;
IMMAGINI
valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;
LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.
L’amorosa inchiesta Dentro la letteratura Il significato di un titolo Nessuno sa creare affascinanti metafore come Ludovico Ariosto. Per questa letteratura abbiamo così scelto come titolo proprio un’espressione ariostesca, densa di possibili significati metaforici: “l’amorosa inchiesta”. Nell’Orlando furioso l’”amorosa inchiesta” è la ricerca della perduta Angelica da parte del paladino Orlando, motivata dall’amore che prova per lei. Ma forse anche noi oggi (chi opera nella scuola, chi scrive libri per la scuola) abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare, come Orlando, di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola, spesso marginalizzata da una visione pragmatica della formazione scolastica, che privilegia saperi immediatamente fruibili nella vita pratica e professionale, sminuendo tutto ciò che è passato. L’ ”amorosa inchiesta” è allora per noi innanzitutto allusivo alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone. L’ ”amorosa inchiesta” vuole riferirsi anche all’atteggiamento che vorremmo che le ragazze e i ragazzi, come moderni “cavalieri erranti”, assumessero, entrando nell’universo labirintico della grande letteratura: non la passiva assunzione di dati, ma un atteggiamento interrogativo, curioso, esigente, per scoprire, insieme ai loro insegnanti, attraverso i testi letterari, piste da percorrere in un cammino che non è solo culturale, ma può e deve essere anche esistenziale e di orientamento per elaborare un progetto di vita e sostenere le relative scelte. L’ ”amorosa inchiesta”, infine, è la prospettiva che ha ispirato la progettazione di questa opera e ne ha motivato le scelte: il tentativo, forse utopistico, di suscitare curiosità, emozioni, interesse verso un patrimonio culturale, quello della secolare storia della letteratura, che ha ancora tanto da dire, così da ridare un senso centrale nella scuola di oggi alla lettura e interpretazione dei testi letterari.
La letteratura come “atlante delle emozioni” Recentemente è emerso nella riflessione didattica un volto della letteratura a lungo misconosciuto e a cui abbiamo cercato di dare spazio: quello di strumento chiave per attivare la conoscenza di sé e per sviluppare nella classe l’ “intelligenza emotiva”, cioè la capacità di riconoscere e descrivere in modo appropriato le emozioni proprie e altrui, così da saperle poi gestire e da assumere verso gli altri un atteggiamento di empatia.
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Senza la competenza emotiva si è facilmente vittime delle pulsioni, mentre saper identificare la paura, l’ansia, la frustrazione porta a ottimizzare le proprie risorse interiori, porta a saper gestire le situazioni problematiche che di certo non mancano nella fase adolescenziale. Ma la letteratura cosa ha a che fare con ciò? Attraverso i testi, i personaggi dei romanzi e le biografie stesse delle autrici e degli autori, la letteratura si presenta come la più straordinaria galleria delle emozioni che esista, a cominciare da Orlando che, da ingessato eroe al servizio della “guerra santa”, in nome di un amore malato, sperimenta via via nella sua “inchiesta” la delusione, l’autoinganno, la disperazione, la rabbia incontrollata e infine la degradazione della follia. Nelle emozioni rappresentate dalla letteratura di ogni tempo la classe, attraverso processi di identificazione, può riconoscere le proprie, può vivere altre vite da un osservatorio privilegiato e protetto e acquisire così gradualmente una competenza emotiva oggi riconosciuta sempre più importante. Perché questo avvenga, occorre però favorire l’incontro tra giovani lettori e testi letterari, respingendo una visione della letteratura come immutabile museo delle cere, interrogando i testi, come abbiamo cercato di fare, anche sotto il profilo emozionale e presentando le biografie delle autrici e degli autori, grandi e meno grandi, non come freddo insieme di nozioni da imparare, ma come racconti di vite vissute, con gioie, dolori, passioni, ma anche limiti e debolezze, come è la vita per ogni essere umano.
La letteratura come lettura del mondo Accanto alla competenza emotiva, alla conoscenza di sé, non è certo meno importante la capacità che gli studenti devono acquisire di interpretare il proprio tempo, i miti e i modelli di comportamento che lo governano. Anche in questo ambito la letteratura può e deve avere un ruolo fondamentale. La letteratura vive infatti nel mondo e il mondo rappresenta attraverso i testi e la personale interpretazione, il personale sguardo, di chi scirve. Perché la letteratura possa diventare strumento chiave di interpretazione critica del presente va costantemente ricercata e proposta, come abbiamo cercato di fare, l’interazione tra tendenze letterarie e visione del mondo, modelli comportamentali, nuclei dell’immaginario presenti nelle varie epoche. Questa visione coesa del sapere oltre tutto risulta, a nostro parere, molto più motivante per gli studenti e le studentesse di oggi che non lo studio asettico di autori e correnti a se stanti.
La letteratura come educazione ai valori civili I grandi temi socio-politici, le dinamiche del potere, la disuguaglianza, i rapporti tra le generazioni, la condizione femminile, l’ambiente, il valore dell’istruzione, non sono certo estranei alla letteratura e sono ben presenti sia nelle scelte testuali, sia nelle parti esercitative di questa opera: essa non si propone di formare specialisti in campo letterario, ma cittadini e cittadine consapevoli, sensibili ai valori civili e ai diritti dell’umanità. Gli autori
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Attraverso il libro
L’amorosa inchiesta
Struttura del testo Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana prevede una struttura composta da Scenari socio-culturali e Capitoli. Gli Scenari analizzano l’interazione della letteratura con la cultura, con la società e con i grandi temi e sono suddivisi in quattro sezioni: 1. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2. I modelli del sapere e le tendenze filosofico-scientifiche 3. I caratteri e le forme della letteratura (nelle diverse epoche); il dibattito culturale 4. L’evoluzione della lingua La trattazione degli Scenari è anticipata da una sezione, Sguardo sulla storia, dedicata a ricostruire il contesto storico con immagini e cronologia interattiva. Gli Scenari si chiudono con un percorso intitolato Libri, lettori, lettura ed uno spazio rivolto all’Arte, presentato con schede informative di inquadramento del periodo e letture iconologiche di opere esemplari per i vari periodi cronologici. I capitoli sono dedicati a generi, autori o temi ed i materiali sono organizzati in modo da creare una forte interazione tra profilo e testi. Sono presenti sia testi (T) sia documenti (D), entrambi con numerazione progressiva indipendente. I testi sono commentati mediante l’Analisi del testo, mentre per i documenti sono messi in evidenza solo i Concetti chiave. • Nei testi o nei documenti che presentino tematiche riconducibili a temi
di EDUCAZIONE CIVICA questo aspetto è messo in evidenza. Nella parte degli esercizi relativi al brano c’è almeno un’attività finale che chiede di lavorare su quest’aspetto.
Le rubriche Il testo è corredato da numerose rubriche: • Parola chiave : definisce in sintesi le idee guida, i motivi di un’epoca, di un genere o
dell’universo tematico di un autore. • PER APPROFONDIRE : schede che consentono al docente o allo studente di
approfondire maggiormente un aspetto della trattazione, senza creare eccessive digressioni nel profilo. Gli approfondimenti sono sempre posizionati vicino alla parte del profilo da cui scaturiscono. • VERSO IL NOVECENTO : ai testi del passato si accostano testi del Novecento e oltre, scelti
per l’affinità dei temi trattati o a volte anche per contrasto, per evidenziare come certe esperienze o sensazioni ritornino nel tempo o si trasformino, assumendo nuovi significati in un’ottica di intertestualità;
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ATTRAVERSO IL LIBRO
• EDUCAZIONE CIVICA secondo le Nuove Linee Guida / PARITÀ DI GENERE : l’attenzione a quest’aspetto
è stata tradotta in due direzioni. Tutti i testi antologizzati che presentino tematiche riconducibili ai tre nuclei: Costituzione, Sviluppo economico e Sostenibilità e Cittadinanza digitale e le relative competenze contenute nelle Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’educazione civica o ai Global Goals (17 obiettivi) dell’Agenda 2030, sono segnalati con evidenza. Questa indicazione è completata nella parte degli esercizi relativi al brano con almeno un’attività finale che chieda di lavorare su questi aspetti. Inoltre sono state realizzate schede di educazione civica su temi di interesse collettivo come la diversità, la parità di genere, la guerra, seguite da spunti di riflessione o attività didattiche; • LEGGERE LE EMOZIONI / EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI : questa rubrica intende stimolare nei
giovani la competenza emozionale e relazionale, in modo che la riflessione su loro stessi, sul loro vissuto personale e sulla realtà che li circonda li aiuti a crescere con maggiore consapevolezza; • Sguardo su… : è fondamentale comunicare l’idea che il sapere non sia isolato, ma
che dialoghi in continuazione anche con ambiti diversi. Nel manuale vengono dunque istituite numerose connessioni tra la letteratura e altre discipline come Storia, Filosofia, Arte, Letterature straniere, Musica, Teatro e Cinema; • Testi in dialogo : a numerosi testi vengono accostati brani di altri autori; questo
perché si ritiene che il confronto sia prezioso, per sviluppare capacità critiche e riflessive che servono per orientarsi meglio nelle scelte di vita; • INTERPRETAZIONI CRITICHE/INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO : il testo propone
numerosi passi critici legati alla trattazione o ai testi, scelti in base a una reale accessibilità di lettura e comprensione per gli studenti. I passi scelti vengono presentati sotto due forme: o un passo di un solo critico (Interpretazioni critiche) o passi di due critici messi a confronto sul medesimo tema (Interpretazioni critiche a confronto); la parte esercitativa di entrambe è stata concepita come tipologia B dell’esame di Stato, per far esercitare sull’analisi e la produzione di un testo argomentativo; • I LUOGHI DELLA CULTURA : mette in evidenza i luoghi-simbolo del periodo di
riferimento a seconda dei secoli analizzati sia attraverso la descrizione dei luoghi (monastero, castello, corte ecc.) sia attraverso le immagini.
Apparato didattico • Esercitare le competenze : i testi antologizzati sono corredati da un apparato
suddiviso in due parti: “Comprendere e analizzare” e “Interpretare”. Nel “Comprendere e analizzare” sono stati inseriti esercizi di parafrasi, sintesi, comprensione, tecnica narrativa, analisi, lessico e stile; nell’”Interpretare” esercizi di scrittura, scrittura creativa, scrittura argomentativa, esposizione orale, testi a confronto e competenza digitale. Le attività proposte sono volte al consolidamento delle competenze di lettura, di scrittura e di analisi testuale. • Verso l’esame di Stato : vengono proposte, sia in itinere sia in alcune zone di ciascun
volume, prove simili a quelle previste per la prima prova dell’esame di Stato secondo le tre tipologie A, B e C; • Zona competenze : al termine degli Scenari e di ciascun capitolo sono proposte attività
che attivano competenze trasversali, disciplinari e interdisciplinari in situazione nuove e per compiti svolti in autonomia, in forma individuale o di gruppo. ATTRAVERSO IL LIBRO
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Nell’opera è offerta inoltre una serie di supporti allo studio per favorire un apprendimento consapevole e duraturo. • Fissare i concetti : al termine di parti significative di profilo negli Scenari e nei
capitoli di genere/tema e al termine di ciascun autore vengono proposte domande che servono allo studente per individuare i punti chiave della trattazione, per ripassare i passaggi più significativi e per esercitarsi nell’esposizione orale. • Analisi passo dopo passo : annotazioni esplicativo-critiche, a lato del testo, che ne
accompagnano la lettura e aiutano a visualizzarne i principali elementi tematicostilistici. • Collabora all’analisi : consiste in un coinvolgimento diretto del giovane lettore nel
processo interpretativo: l’analisi, che segue le tradizionali partizioni (Comprendere e analizzare e Interpretare), “dialoga” attraverso specifiche richieste con lo studente, in modo tale che lo stesso studente dia il proprio contributo attivo al lavoro sul testo. • Lessico : sono stati inseriti nel corso della trattazione dei riquadri laterali di
definizioni in cui si spiegano i concetti più complessi o si definiscono termini specialistici o disciplinari. • Sintesi : alla fine di ogni capitolo sono state poste le sintesi, anche in formato audio,
che riassumono i contenuti principali della trattazione. Esse rappresentano un utile contributo per lo studio, la memorizzazione e il ripasso. • Studiare con l’immagine : pitture, sculture, fotografie corredate di didascalie ricche
e interessanti consentono la percezione immediata, visiva, di alcuni aspetti della letteratura e del suo contesto storico: attraverso l’immagine si riflette per comprendere meglio l’autore, l’opera o il contesto storico-sociale di riferimento. • Schemi: sistematica presenza di schemi e visualizzazioni che semplificano
l’apprendimento.
La didattica orientativa La didattica orientativa è un approccio educativo e formativo che ha come finalità quella di aiutare gli studenti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie attitudini e delle proprie capacità; può essere svolta in classe grazie all’aiuto della rubrica Leggere le emozioni e a tutti i numerosi spunti, come ad esempio le attività contemplate nell’Interpretare e nella Zona Competenze, e grazie ai testi segnalati, utili per svolgere attività di orientamento. Esse risultano disseminate in tutto il manuale al fine di sviluppare competenze di auto-orientamento e supportare l’assunzione di decisioni consapevoli riguardo a sé e alle proprie scelte professionali future. Aiutare lo studente a conoscere meglio se stesso, le sue inclinazioni, le sue attitudini, i suoi interessi e le sue aspirazioni farà sì che con più facilità sia orientato a una comunicazione efficace, a realizzare relazioni rispettose, a prendere decisioni e a sviluppare pensiero critico, pensiero creativo, empatia. Ogni volta che insieme a obiettivi di natura disciplinare si perseguono anche obiettivi di tipo orientativo si può parlare di didattica orientativa.
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ATTRAVERSO IL LIBRO
La didattica multimediale Nelle pagine sono inserite icone che indicano la presenza e il tipo di contenuti digitali disponibili sul libro. I contenuti digitali sono fruibili sul sito www.gruppoeli.it , sull’eBook+ e con l’App librARsi.
Contenuti digitali integrativi • Testi aggiuntivi integrati alla scelta su carta • Per approfondire
• Interpretazioni critiche
• Contributi Audio e Video
• Verso il Novecento
• Verso l’esame di Stato
• Sguardo su…
• Gallery gallerie di immagini
Attivazioni operative • Videolezioni mirano al racconto della biografia degli autori maggiori, ripercorrendone in maniera dinamica i momenti salienti e a fornire un quadro esaustivo delle opere principali dei medesimi autori, attraverso una narrazione accattivante. • Lezioni in PowerPoint percorsi didattici semplici e intuitivi che coincidono con l’accesso a dei Power Point modificabili e relativi ai principali contesti culturali in cui vengono concepite le opere della nostra letteratura e anche ai loro principali autori, di cui si riassumono i tratti biografici, la produzione e le opere maggiori. • Immagini interattive • Audioletture di alcuni testi scelti • Carte dei luoghi interattive consentono una lettura interattiva e agile della biografia dei classici della nostra letteratura. In particolare, le carte geografiche permettono di percorrere diacronicamente e collocare visivamente gli autori nei luoghi che ne hanno scandito la vita, dalla formazione alla nascita delle opere di maggior rilievo, dando accesso a dei contenuti multimediali come link, immagini, audio e video. • Mappe interattive e interdisciplinari incentrate sui temi più rilevanti, individuati all’interno delle opere e dei periodi letterari di maggior spessore consentono di svolgere un percorso interattivo e un’analisi trasversale di tematiche che dal passato affiorano fino ai giorni nostri, per mezzo di collegamenti para-testuali, garantiti dalla presenza di contenuti multimediali di vario tipo. • Cronologie interattive • Analisi interattive • Classe capovolta Sistema Digitale Accessibile
Il Sistema Digitale Accessibile soddisfa pienamente le esigenze della didattica inclusiva con queste funzionalità di base:
• carattere specifico ad alta leggibilità e alto contrasto • sintesi vocale dei contenuti testuali (audiolibro) • pagine “liquide” con possibilità d’ingrandimento
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Indice Duecento e Trecento Scenari socio-culturali Il Medioevo
33
Sguardo sulla storia
34
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
38
1 I cardini della visione medievale
38
Medioevo. Significato di un termine Il principio gerarchico
38 39
TESTI IN DIALOGO • Pro e contro la teocrazia
Innocenzo III
online D1a Il papa è il sole, l’imperatore è la luna
Dante Alighieri
online D1b «È giunta la spada col pasturale» Purgatorio XVI, 106-112
La visione simbolico-religiosa
40
online D2 Il Fisiologo
VERSO IL NOVECENTO Bestiari novecenteschi
41
Ugo di San Vittore secondo le NUOVE CIVICA D3 Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina EDUCAZIONE Linee guida
42
2 Il tempo e lo spazio
43
La concezione della storia e del tempo Una geografia favolosa cristianocentrica
43 43
online D4 Lettera del prete Gianni
L’immagine dell’universo nel Medioevo
44
3 I valori e i modelli di comportamento
44
Il modello clericale
44
Anonimo attribuito a Tommaso da Celano
online D5 Dies irae
PER APPROFONDIRE La fede nei miracoli e il culto delle reliquie
46
I LUOGHI DELLA CULTURA Il monastero
47
TESTI IN DIALOGO • Due visioni opposte del corpo umano
Lotario da Segni D6a Miseria della condizione umana Carmina Burana D6b Elogio del corpo femminile Il modello cavalleresco-cortese
10
INDICE
LEGGERE LE EMOZIONI
48 48 49
I LUOGHI DELLA CULTURA Il castello
50
Raimondo Lullo D7 Identità e doveri del cavaliere
52
I valori della società urbana e mercantile
53
Paolo da Certaldo
online D8 La morale mercantile Libro dei buoni costumi
TESTI IN DIALOGO • Lodi (e critiche) della città
Bonvesin de la Riva
online T9a L’orgoglio di un cittadino Le meraviglie di Milano, IV, XVII-XVIII
Giovanni Villani
online T9b Elogio di Firenze Nuova Cronica, XII, XCIV
Dante Alighieri
online T9c Contro la città moderna: «Fiorenza dentro de la cerchia antica» Paradiso XV, 97-120
Francesco Petrarca
online T9d La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti De vita solitaria, II, XV
I LUOGHI DELLA CULTURA La città
55
EDUCAZIONE CIVICA EDUCAZIONE
L'emarginazione dei diversi nel Medioevo CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
56
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche
57
1 Il complesso confronto tra la cultura cristiana e la cultura pagana
57
Sant’Agostino D10 I cristiani devono appropriarsi secondo le NUOVE CIVICA del sapere ingiustamente posseduto dai pagani EDUCAZIONE Linee guida
58
De doctrina christiana
2 Culto della tradizione ed enciclopedismo
59
Francesco Petrarca
online D11 Sull’ignoranza sua e di molti
3 Il modello dell’istruzione nel Medioevo
60
Nascita delle scuole L’università e la Scolastica
60 62
TESTI IN DIALOGO • Fede e ragione: attualità e storicità di un rapporto problematico
San Tommaso d’Aquino
online D12a Le verità di fede sono necessariamente conciliabili con le verità di ragione Summa contra gentiles I, 7
San Bonaventura
online D12b La via per giungere a Dio non passa attraverso gli strumenti razionali Itinerarium mentis in Deum
Giovanni Paolo II
online D12c Fede e ragione Enciclica Fides et ratio
I LUOGHI DELLA CULTURA L' università
63
PER APPROFONDIRE I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti
64
INDICE
11
3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo
65
1 La funzione della letteratura 65 La poesia come “competenza tecnica” e la codificazione retorica della prosa 65 Brunetto Latini
online D13 Cos’è la retorica Rettorica
2 Il concetto medievale di stile 66 Cassiodoro
online D14 I tre stili Variae
Dante Alighieri
online D15 Esempi di “contaminazione” degli stili Commedia, Purgatorio XVII, 76-78 e Paradiso XVII, 124-129
Sant’Agostino
online D16 Lo stile semplice delle Sacre Scritture Epistole
PER APPROFONDIRE La retorica e l'arte di comunicare ieri e oggi
68
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Erich Auerbach La lezione del Vangelo e lo stile umile 69
3 Il metodo allegorico 70 4 Forme e generi della letteratura nell’Alto e nel Basso Medioevo 72
4 L’evoluzione della lingua
75
1 Dal latino al volgare 75 PER APPROFONDIRE L'apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano
76
Primi documenti del volgare in Italia D17a L’indovinello veronese 78 D17b Il Placito di Capua 78
2 Da un panorama variegato alla preminenza del toscano 79 3 La sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari 79 PER APPROFONDIRE Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana
81
LIBRI, LETTORI, LETTURA
Il libro prima dell’invenzione della stampa 82 Come e perché si legge nel Medioevo 83 Il pubblico 84 ARTE NEL TEMPO
86
Il romanico Continuità con la tradizione romana 86 1 La decorazione scultorea del duomo di Modena 86 Il gotico Una nuova spazialità 88 2 Le storie di san Francesco 88 3 Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo 89 Sintesi con audiolettura 90 Zona Competenze 94
12
INDICE
online
Lezione in Power Point Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo Lo scriptorium I maestri fondatori del sapere medievale Il vocabolario dell’università “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario
Documento critico Jacques Le Goff Il simbolismo medievale. Uno dei maggiori studiosi della cultura medievale spiega le caratteristiche del simbolismo Gallery I bestiari medievali Simbolismo nell’architettura, scultura, pittura
1 La letteratura cortese nella Francia feudale
95
1 L’epica cristiana e le chansons de geste
96
1 Le chansons de geste
96
PER APPROFONDIRE Il genere epico
98
2 La Chanson de Roland e la mitizzazione dell’eroe cristiano
98
La vicenda e la struttura della Chanson de Roland
99
T1 «Orlando è prode ed Oliviero è saggio»
EDUCAZIONE CIVICA
Chanson de Roland, lasse LXXX-LXXXVIII
secondo le NUOVE Linee guida
100
Bernardo di Clairvaux online T2 Il martire guerriero e l’ideologia della guerra santa Lode della nuova milizia
Anonimo
online T3 La presa di Saragozza e la conversione forzata degli infedeli Chanson de Roland, lasse CCLXIII-CCLXV
2 Il romanzo cortese-cavalleresco
106
1 Un nuovo genere destinato alla corte feudale
106
2 I romanzi di Chrétien de Troyes
107
PER APPROFONDIRE La leggenda di re Artù e la sua fortuna
3 I temi: avventure e amori
108 108
VERSO IL NOVECENTO La fortuna del mito di Tristano e Isotta
111
Chrétien de Troyes T4 Lancillotto affronta la prova del ponte della spada
112
Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta
T5 L’apparizione del sacro Graal
114
Perceval
Tristano Riccardiano
online T6 Il fatale innamoramento di Tristano e Isotta
Thomas T7 La morte di Tristano e Isotta
117
Tristan
INDICE
13
VERSO IL NOVECENTO La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca John R.R. Tolkien La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica Italo Calvino Sotto l’armatura niente
121 121 122
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Erich Auerbach L’antirealismo dell’ideale cavalleresco 124 Franco Cardini L’avventura cavalleresca come metafora di esigenze/esperienze reali 125 SGUARDO SUL CINEMA I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone 126
3 La lirica provenzale
127
1 Una poesia “da ascoltare”: la lirica trobadorica 127 Andrea Cappellano T8 La codificazione dell’amore cortese 131 De amore
Guglielmo d’Aquitania T9 Con la dolce stagione rinnovata 133 Jaufre Rudel T10 Allor che i giorni sono lunghi in maggio
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
VERSO IL NOVECENTO Echi trobadorici nella poesia novecentesca Ezra Pound Alba Giovani Giudici Raggio che da fessura
135 138 138 139
2 Le trobairitz: le trovatrici occitaniche 140 Contessa di Dia
online T11 Mi appago di gioia e giovinezza
Azalais de Porcairagues T12 Or siam giunti al tempo freddo
141
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Morte eroica di Orlando paladino
143
Chanson de Roland, lasse CLXX-CLXXV
online
Sintesi con audiolettura 147 Zona Competenze 148
14
INDICE
Per approfondire Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco” Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese L’enigma della fin’amor Documento critico Michail Bachtin Il passato assoluto come tempo dell’epica
Audio Preludio dal Tristano e Isotta di Wagner: Morte di Isotta dal Tristano e Isotta, S 447 nella trascrizione per pianoforte di Franz Liszt (1867) dall’opera di Richard Wagner Tristan und Isolde, WWV 90 Sguardo sul cinema. Approfondimento I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone
2 La letteratura religiosa nell'età comunale
149
1 Il dissenso nei confronti
della mondanizzazione della Chiesa
150
1 Una letteratura critica verso la Chiesa
150
online T1 Un eretico condotto al rogo risponde alla folla
Contro la corruzione della Chiesa Dante Alighieri online T2a Invettiva contro l’avidità dei papi Inferno XIX, 100-117
Jacopone da Todi
online T2b O papa Bonifazio, vv. 1-54
VERSO IL NOVECENTO Umberto Eco Il nome della rosa Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale
151
2 Francesco d’Assisi: una figura leggendaria per la collettività cristiana
153
Il Cantico di frate Sole Francesco d’Assisi secondo le EDUCAZIONE NUOVE T3 Cantico di frate Sole CIVICA Linee guida
155 156
SGUARDO SUL CINEMA I volti di Francesco
160
3 Le laude e Jacopone da Todi
161
Jacopone: una fede intransigente
161
PER APPROFONDIRE La ballata
161
Salimbene
online T4 Nascita della lauda e movimenti penitenziali Cronica
Jacopone da Todi T5 Quando t’aliegre, omo d’altura T6 O iubelo del core T7 Donna de Paradiso
LEGGERE LE EMOZIONI
165 169 172
2 La produzione didattico-edificante
179
1 Le prediche, le Vite dei santi, i trattati morali
179
Domenico Cavalca online T8 Un esempio eloquente dell’ottica agiografica Vita di Sant’Elpidio
Jacopo Passavanti T9 Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
180
Lo specchio di vera penitenza
2 Rappresentare l’aldilà: la “letteratura dell’oltremondo”
182
PER APPROFONDIRE La raffigurazione del mondo ultraterreno Anonimo online T10 La nave di san Brandano avvista l’isola dell’Inferno
183
Navigazione di san Brandano
INDICE
15
Anonimo online T11 Il viaggio ultraterreno come ponte tra cultura araba ed europea Libro della Scala
Giacomino da Verona T12 Una raffigurazione terrifica dell’inferno: un monito per i fedeli
184
Babilonia, città infernale
PER APPROFONDIRE La figurazione del diavolo nella cultura medievale
187
online
Sintesi con audiolettura Zona Competenze Per approfondire Immagini dell’aldilà nel mondo antico Verso il Novecento Oltranza mistica ed espressionismo linguistico Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo
188 190 Percorso interdisciplinare Immagini di San Francesco tra arte, letteratura e teatro Cinema Dal film Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud (1986) Sguardo sul cinema. Approfondimento I volti di Francesco
3 Forme del narrare nella società comunale
191
1 Raccontare il viaggio nel Medioevo
192
1 L’affermazione della prosa in volgare
192
2 L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico
192
3 I racconti di viaggio
193
Rodolfo il Glabro D1 La vicenda di un pellegrino a Gerusalemme
195
Cronache dell’anno mille INTERPRETAZIONI CRITICHE
Franco Cardini Il significato del termine pellegrino
196
4 Marco Polo e Il Milione Marco Polo T1 Il pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo
197 EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
LEGGERE LE EMOZIONI
T2 I favolosi unicorni di Sumatra
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
199 201
Il Milione, 147 online T3 La pericolosa setta dei fumatori di hashish Il Milione, 35
VERSO IL NOVECENTO Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili Italo Calvino Le città invisibili
203 204
PER APPROFONDIRE La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Terzani, Pessoa e Laura Imai Messina
205
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Bruce Chatwin Questo nomade nomade mondo
16
INDICE
206 206
2 Narrare per il gusto di narrare: la novella
208
1 Un genere dalla vita secolare 208 2 Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux 208 Jacopo Passavanti
online T4 Le tentazioni di un asceta Lo specchio della vera penitenza, XVI
Anonimo
online T5 Il fabliaux del mugnaio e dei due studenti
3 Verso la definizione del genere: il Novellino
210
PER APPROFONDIRE Il titolo Novellino Anonimo T6 Raccontare per un nuovo pubblico
211 212
Novellino, Prologo
Anonimo
online T7 Pronta risposta di un frate al Vescovo Aldobrandino Novellino, XXXIX
TESTI IN DIALOGO • Il culto della parola
Anonimo T8a Il medico di Tolosa 214 Novellino, XLIX
Anonimo T8b Una “metanovella”: elogio della brevità 215 Novellino, LXXXIX
4 Una pietra miliare nella storia del genere “novella” 216 5 Dopo Boccaccio 216 Franco Sacchetti T9 Una burla: l’orsa e le campane 217 Trecentonovelle
PER APPROFONDIRE “Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni
3 Le cronache cittadine
220
221
1 Una storiografia militante 221 Giovanni Villani T10 Il ruolo di Brunetto Latini nella società comunale 223 Nuova Cronica, IX, x
Sintesi con audiolettura 224 LEGGERE Zona Competenze 226 LE EMOZIONI online
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Interpretazioni critiche Umberto Eco Un “inviato speciale” deluso dagli unicorni
INDICE
17
4 “Ragionar d’Amore”
227
1 La scuola siciliana
228
1 Il trapianto della lirica amorosa in Italia
228
Jacopo da Lentini T1 Amor è uno desio che ven da core T2 Io m’aggio posto in core a Dio servire
232 234
Pier della Vigna
online T3 Però ch’amore non si po’ vedere
PER APPROFONDIRE Il sonetto
236
VERSO IL NOVECENTO Il sonetto viaggia nel tempo… Umberto Saba Autobiografia – Ed amai nuovamente
237 237
Guido delle Colonne T4 Gioiosamente canto
238
T5a Tenzone di donna (forse Nina) e un anonimo Anonimo (forse Nina Siciliana) T5a Tapina ahimè, ch’amava uno sparvero Anonimo T5b Vis’ amoros’, angelico e clero Rinaldo d’Aquino T6 Giamäi non mi conforto
243
PER APPROFONDIRE La canzone e la canzonetta
246
Cielo d’Alcamo secondo le NUOVE T7 Rosa fresca aulentissima EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
241 241 242
247
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
2 I poeti siculo-toscani
251
1 La poesia nella Toscana comunale
251
Guittone d’Arezzo secondo le EDUCAZIONE NUOVE T8 Ahi lasso, or è stagion de doler tanto CIVICA Linee guida online T9 Ora parrà s’eo saverò cantare
253
Compiuta Donzella T10 A la stagion che ’l mondo foglia e fiora
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
258
#PROGETTOPARITÀ
3 Il dolce stil novo
260
1 Che cos’è lo stilnovismo
260
2 La lezione di Guido Guinizzelli e le caratteristiche del nuovo modo di poetare
260
Guido Guinizzelli T11 Al cor gentil rempaira sempre amore T12 Io voglio del ver la mia donna laudare
18
INDICE
263 267
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Mario Marti L’immagine della donna nei poeti nuovi
269
3 «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti
270
PER APPROFONDIRE L’averroismo
271
PER APPROFONDIRE La concezione medievale dell’amore come malattia La malattia d’amore come topos letterario Guido Cavalcanti LEGGERE T13 Voi che per li occhi mi passaste ’l core LE EMOZIONI
272 272 273
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Maria Corti L’iteratività come “cifra” della poesia cavalcantiana
275
Guido Cavalcanti T14 Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira COLLABORA ALL’ANALISI VERSO IL NOVECENTO Epifanie femminili novecentesche: due esempi Ezra Pound Apparuit Arturo Onofri Dea in forma di donna Guido Cavalcanti T15 Perch’i’ no spero di tornar giammai online T16 Deh, spiriti miei, quando mi vedete
276 278 278 279 279
EDUCAZIONE CIVICA secondo le
NUOVE Donne sommerse: le rimatrici trecentesche EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
282
#PROGETTOPARITÀ
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Guido Cavalcanti L’anima mia vilment’è sbigotita
online
Sintesi con audiolettura Zona Competenze Mappa interattiva La poesia delle origini
284 285 286
Audio e video Dario Fo, Mistero Buffo. Interpretazione di Cielo d’Alcamo
5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
287
1 Il comico
288
1 Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni
288
2 I temi principali del comico nel Medioevo
289
3 I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari
289
PER APPROFONDIRE Comico e “carnevalesco”
4 I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia”
289 290
VERSO IL NOVECENTO Il pericolo del riso e Il nome della rosa
290
T1 Un manifesto della poesia goliardica
291
INDICE
19
2 I poeti comico-realisti
294
I principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri 295 PER APPROFONDIRE Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comico-realisti”, “burleschi”, “giocosi” 295 Rustico Filippi T2 Oi dolce mio marito Aldobrandino 298 Cecco Angiolieri LEGGERE LE EMOZIONI T3 Tre cose solamente m’ènno in grado 300 LEGGERE T4 La mia malinconia è tanta e tale 302 LE EMOZIONI online T5 Accorri accorri accorri uom, a la strada! 304 T6 S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SGUARDO SULLA MUSICA Fabrizio De André S’i’ fosse foco
305
online
Sintesi con audiolettura 306 Zona Competenze 307 Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo
Sguardo sulla musica. Audio Fabrizio De Andrè S’i’ fosse foco
6 Dante Alighieri 308 1 Ritratto d’autore
310
1 La nascita, la giovinezza, la prima formazione 310 PER APPROFONDIRE Un padre rifiutato, dei padri ideali
312
2 La “donna della salute” e l’esperienza stilnovista 313 Giovanni Boccaccio
online D1 Il primo incontro tra Dante e Beatrice Vita di Dante
3 La consolazione della filosofia. La «selva oscura» e il mistero del traviamento 314 PER APPROFONDIRE Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta
314
4 La passione (e la delusione) della politica 315 5 Gli anni dell’esilio. La morte: Dante entra nella leggenda 316 SGUARDO SULLA STORIA La Firenze di Dante
316
D2 M’insegnavate come l’uom s’etterna 318 Inferno XV, 79-87 online Guido Cavalcanti
D3 Io vegno ’l giorno a te TESTI IN DIALOGO • Il dramma dell’esilio D4a Tu lascerai ogne cosa diletta 319 Paradiso XVII, 55-69
D4b Legno sanza vela 320 Convivio I, III, 4-5
20
INDICE
2 La Vita nuova
La rilettura simbolica di un’eccezionale esperienza d’amore
321
1 La struttura, la finalità, i destinatari 2 La vicenda
321
3 Un itinerario spirituale e poetico nel nome di Beatrice 4 Le interpretazioni della Vita nuova
323
T1 Il libro della memoria e la presentazione dell’opera
327
322 325
Vita nuova, I
T2 Il primo saluto di Beatrice. Un sogno inquietante
328
Vita nuova, III
T3 Il gioco degli sguardi. Schermaglie cortesi
333
Vita nuova, V
T4 Donne ch’avete intelletto d’amore
335
Vita nuova, XIX
T5 Tanto gentile e tanto onesta pare
340
Vita nuova, XXVI online T6 La morte di Beatrice: tra fantasia e realtà Vita nuova, XXIII e XXVIII passim online T7 Un nuovo sogno sconfigge la tentazione della “donna gentile” Vita nuova, XXXIX INTERPRETAZIONI CRITICHE
Gianfranco Contini Una celebre lettura di Tanto gentile e tanto onesta pare
343
VERSO IL NOVECENTO Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell’«angelo visitante» Eugenio Montale Ti libero la fronte dai ghiaccioli T8 Oltre la spera che più alta gira
345 346
Vita nuova, XLI-XLII
3 La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali
del suo tempo
349
1 Le Rime T9 Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io T10 Chi udisse tossir la malfatata T11 Così nel mio parlar voglio esser aspro
349 LEGGERE LE EMOZIONI
352 354 355
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
2 Un intellettuale al servizio del suo tempo: il progetto del Convivio
359
I caratteri dell’opera I contenuti Le fonti, i modelli e lo stile secondo le EDUCAZIONE NUOVE T12 L’obiettivo e i destinatari dell’opera CIVICA Linee guida
359 359 361 362
Convivio I, I secondo le
NUOVE T13 Perché è giusto impiegare il volgare EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
Convivio I, IX, 2-5
PARITÀ DI GENERE equilibri
366
#PROGETTOPARITÀ
online T14 Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete Convivio II, II, Canzone I online T15 Significato letterale e “sovrasensi” Convivio II, IX, 1-19; 11; 15 online T16 L’enigma della donna gentile - Filosofia Convivio II, XII, 1-8
INDICE
21
3 Dante teorico della lingua volgare: il De vulgari eloquentia
368
PER APPROFONDIRE La questione della lingua 370 T17 Caratteristiche del volgare illustre 371 De vulgari eloquentia I, XVI-XVIII
T18 Lo stile tragico
374
De vulgari eloquentia II, IV, 7-11
4 La riflessione politica: la Monarchia 376 T19 I due diversi fini dell’uomo e le due guide COLLABORA ALL’ANALISI 379 Monarchia, III, XV, 7-18
5 Epistole 382 online T20 A un amico fiorentino Epistole, XII
T21 Una introduzione “d’autore” alla lettura della Commedia 382 Epistole, XIII, 7-8; 10
4 Il poema sacro
385
1 Le caratteristiche generali 385 2 Il viaggio ultraterreno 386 PER APPROFONDIRE La configurazione dell’aldilà dantesco
388
3 La missione didattica e profetica di Dante 393 4 La Commedia come summa della cultura medievale 394 5 Le tecniche narrative 395 Lo statuto del narratore e l’immagine del lettore 395 Il colloquio con gli spiriti: la costante narrativa del poema 397 La concezione figurale 399 Le forme della rappresentazione: realismo e simbolismo 401
6 Lo stile, la lingua, la metrica 403 PER APPROFONDIRE Perché si parla di Dante come “padre” della lingua italiana?
405
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Mario Fubini Pensar per terzine 406 T22 Il viaggio provvidenziale di Dante vs il viaggio proibito 407 T22a Il prologo del poema 407 Inferno I online T22b Io non Enëa, io non Paulo sono… Inferno II, 1-36 VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
415
T22c L’inizio del viaggio 415 Inferno III, 1-30
T22d Il viaggio proibito: Ulisse “doppio” di Dante? Inferno XXVI, 85-142
418
T23 Una visione negativa del presente: Firenze, l’Italia, il papato 423
22
INDICE
T23a La città partita 423 Inferno VI, 58-75
T23b Ahi serva Italia... 425 Purgatorio VI, 76-90
T23c Fatto v’avete dio d’oro e d’argento 427 Purgatorio XIX, 88-96; 100-117
T24 Dante nuovo “auctor” e profeta 430 T24a La consacrazione della missione profetica di Dante COLLABORA ALL’ANALISI 430 Paradiso XVII, 106-142
T24b Io fui sesto tra cotanto senno 432 Inferno IV, 79-102 online T24c Un’immagine del lettore Paradiso II, 1-18
T25 La visione culturale di Dante 434 T25a Gli spiriti magni 434 Inferno IV, 106-144 online T25b La concezione dantesca di sapienza: pluralismo e unità Paradiso X, 94-138; XII, 127-141
T26 Il personaggio dantesco: esemplarità e sintesi 438 T26a Francesca o dei pericoli dell’amor cortese 438 Inferno V, 82-142 online T26b L’ingiusta giustizia del suicida Pier della Vigna Inferno XIII, 22-78
T27 La dimensione figurale 443 T27a Il ritorno di Beatrice: dalla Vita nuova alla Commedia 443 1 ... e donna mi chiamò beata e bella 443 Inferno II, 52-75
2 ... donna m’apparve, sotto verde manto 445 Purgatorio XXX, 22-48; 55-75; 109-145 online T27b Il personaggio di Catone Purgatorio I, 19-93
T28 Il pluristilismo della Commedia 449 T28a Il registro comico-realistico 449 1 Gli adulatori 449 Inferno XVIII, 100-136
2 L’invettiva di san Pietro 452 Paradiso XXVII, 16-30
T28b Il registro tragico. Un esempio: il proemio del Paradiso
454
Paradiso I, 1-36
7 La Commedia nel tempo 456 Le sorti alterne del classico per eccellenza della letteratura italiana 456 Tra pregiudizi linguistici e preconcetti ideologici: la lunga eclissi della fortuna di Dante 457 PER APPROFONDIRE Le letture dantesche di Sermonti e Benigni, eventi di massa
457
Fuori d’Italia 459 In Italia: omaggio formale ma scarsa influenza 460 SGUARDO SUL CINEMA Dante e il cinema
462
Sintesi con audiolettura 464 Zona Competenze 469 INDICE
23
VERSO L'ESAME DI STATO
T ipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Dante Alighieri Vede perfettamente onne salute
470
Vita nuova, XXVI
online
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Giuliano Procacci Storia degli italiani Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità R. Davidsohn, storia di Firenze Flipped Classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Vita nuova Commedia Per approfondire Sogni e visioni nella cultura medievale Ricostruire il testo originale della Commedia: un problema filologico ancora aperto Una poesia metamorfica Le lecturae Dantis
471 473
Pier Paolo Pasolini La Divina Mimesis Verso il Novecento Testimonianze dall’aldilà: l’Antologia di Spoon River Primo Levi Il canto di Ulisse, antidoto alla barbarie Gallery Immagini dell’aldilà nel mondo antico Paolo e Francesca nell’interpretazione di vari artisti Video e Audio Benigni e Sermonti leggono un canto della Commedia: due letture a confronto Sguardo sul cinema. Approfondimento Dante e il cinema
7 Francesco Petrarca
474
1 Ritratto d’autore
476
1 Una vita come ricerca 476 Petrarca e la solitudine
481
D1a Ideale di vita 482 De vita solitaria, I, VI
D1b La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
483
Lettere familiari, VI, 3 online D1c La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti De vita solitaria, II, XV online D1d Come leggeva Petrarca De vita solitaria, II, XIV INTERPRETAZIONI CRITICHE
Ugo Dotti Il significato della solitudine per Petrarca
485
2 Un nuovo modello di intellettuale e una nuova visione culturale: verso l’Umanesimo
486
La concezione filosofica e letteraria 486 PER APPROFONDIRE La crisi della Scolastica 486 T1 Petrarca e i classici 489 online T1a La lettura dei classici come occasione di meditazione Lettere familiari, XXIV, 1
T1b I classici come interlocutori viventi
489
Lettere familiari, I, 1
Due testi polemici 490 T2 La lettura di Aristotele serve forse a renderci più colti, ma non migliori 490 Sull’ignoranza sua e di molti
24
INDICE
online T3 Contro la cultura enciclopedica Sull’ignoranza sua e di molti
2 Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico 1 L’itinerario di Petrarca alla ricerca della propria identità di scrittore 2 Una multiforme produzione: il Petrarca latino
492 492 493
Opere di ispirazione storico-erudita 493 Opere di ispirazione morale-religiosa 494
3 Il Secretum, il libro dei conflitti T4 L’accidia, il male dell’uomo moderno
494 LEGGERE LE EMOZIONI
497
Secretum II, 13
T5 I due ostacoli al perfezionamento morale di Francesco 500 T5a L’amore per Laura 500 Secretum III, 5 online T5b L’ambizione e l’eccessiva attrazione per la gloria Secretum III, 14
4 L’epistolario: un ritratto di sé da consegnare ai posteri
502
PER APPROFONDIRE Il metodo di allestimento dell’epistolario
503
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Vinicio Pacca «Gestire la propria immagine in prima persona»: la funzione dell’Epistolario
T6 Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso
LEGGERE LE EMOZIONI
505
506
Lettere familiari, IV, 1
5 Il tentativo di un poema allegorico: i Trionfi
512
3 Il Canzoniere
513
1 L’elaborazione dell’opera, i modelli, la struttura 513 PER APPROFONDIRE Cos’è un macrotesto?
514
2 La modernità del Canzoniere: la scoperta di un io diviso 516 PER APPROFONDIRE I volti di Laura
3 I temi del Canzoniere
517 518
Il paesaggio, riflesso dell’interiorità 518 La memoria 518 La fuga del tempo e la caducità delle cose umane 519 La visione politica 519 PER APPROFONDIRE Le parole chiave del Canzoniere Il tema religioso del pentimento e gli ultimi testi del Canzoniere
520 521
4 Le scelte stilistiche del Canzoniere e l’unilinguismo 521 PER APPROFONDIRE Come si legge la grafia di Petrarca 523 T7 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono 524 T8 Il dissidio interiore 528 T8a Era il giorno ch’al sol si scoloraro 528 T8b Movesi il vecchierel canuto et biancho 530 T9 L’ambivalenza dell’amore 533 INDICE
25
T9a Benedetto sia ’l giorno, et ’l mese, et l’anno T9b Padre del ciel, dopo i perduti giorni
533 534
T10 Lo spazio dell’io T10a Passa la nave mia colma d’oblio T10b O cameretta che già fosti un porto
536 536 539
LEGGERE LE EMOZIONI
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Marco Santagata Il nuovo spazio dell’io nella poesia petrarchesca
541
T11 Il paesaggio della natura come proiezione dell’io e come confidente T11a Solo et pensoso T11b Di pensier in pensier, di monte in monte
543 543 546
T12 Il tema della «memoria innamorata» T12a Erano i capei d’oro a l’aura sparsi T12b Chiare, fresche et dolci acque
550 550 553
PER APPROFONDIRE Un nome “segno”: Laura-l’aura-lauro
552
T13 Il tema della fuga del tempo e della caducità della vita T13a Quanto piú m’avicino al giorno extremo T13b La vita fugge et non s’arresta una hora online T13c Vago augelletto che cantando vai TESTI IN DIALOGO • Il sentimento del tempo: un tema transepocale Una testimonianza antica
Seneca D2 Ogni giorno si muore
558 558 559
562 562
Lettere a Lucilio, III, 24, 19-20
Due esempi novecenteschi
Gabriele D’Annunzio D3a La sabbia del Tempo
562 562
Alcyone
Eugenio Montale D3b Quartetto
563
Altri versi
T14 Il tema della morte di Laura T14a Se lamentar augelli, o verdi fronde T14b Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente COLLABORA ALL’ANALISI T14c Levommi il mio penser in parte ov’era T14d Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena VERSO IL NOVECENTO Due interpretazioni psicanalitiche del personaggio di Laura Pier Paolo Pasolini Laura non è una donna reale Umberto Saba Laura è una percezione della figura materna
565 565 567 569 571
T15 Il tema politico secondo le EDUCAZIONE NUOVE T15a Italia mia, benché ’l parlar sia indarno ANALISI PASSO DOPO PASSO CIVICA Linee guida T15b Fiamma dal ciel su le tue treccie piova
575 575 581
T16 Verso la chiusura del cerchio? T16a I’ vo piangendo i miei passati tempi T16b Vergine bella
583 583 585
5 Il Canzoniere nel tempo Pierre de Ronsard
online T17a Quando sarai ben vecchia... Sonnets pour Hélène
26
INDICE
573 573 574
591
William Shakespeare
online T17b Il Tempo divoratore Sonetti
Paolo Rolli
online T18 Solitario bosco ombroso Ode d'argomenti amorevoli
VERSO IL NOVECENTO Andrea Zanzotto Notificazione di presenza sui Colli Euganei
597
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Francesco Petrarca S’amor non è, che dunque è quel ch'io sento?
598
Canzoniere, 132
online
Sintesi con audiolettura Zona Competenze Flipped Classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Canzoniere Per approfondire Ma Laura è veramente esistita?
600 605 I libri come amici? Una data simbolica per una svolta paradigmatica Work in progress: la composizione del Canzoniere L’ombra di Dante, un modello “rimosso” “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario Interpretazioni critiche Karlheinz Stierle Il mondo gerarchico e verticale di Dante e il mondo orizzontale e molteplice di Petrarca Marco Santagata L’errore del sonetto proemiale
8 Giovanni Boccaccio
606
1 Ritratto d’autore
608
1 Un mercante mancato D1 Una ritrattazione del Decameron EDUCAZIONE CIVICA
608 secondo le NUOVE Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
Epistola XXI a Mainardo Cavalcanti
612
#PROGETTOPARITÀ
PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda
613
2 La produzione minore: all’insegna dello sperimentalismo
614
Le opere del periodo napoletano Le opere del periodo fiorentino Dopo il Decameron T1 Un libro galeotto: l’innamoramento di Florio e Biancifiore
615 617 619 621
Filocolo, II, 4
T2 Una confessione autobiografica: la tristezza del ritorno a Firenze
623
Commedia delle Ninfe fiorentine, XLIX, 64-84
T3 Una richiesta di solidarietà femminile
625
Elegia di Madonna Fiammetta, Prologo
2 Il Decameron
627
1 La composizione del Decameron. I modelli di riferimento
627
2 La struttura e la poetica
628
PER APPROFONDIRE Il manoscritto autografo del Decameron: la volontà editoriale dell’autore
628
3 La cornice, il gioco delle “voci narranti” e la dialettica delle interpretazioni
632
PER APPROFONDIRE Una comunicazione paritaria: il simbolo del “cerchio”
633
INDICE
27
4 L’ideologia di Boccaccio: fra innovazione e tradizione
634
5 I temi
635
L’amore… le donne L’intelligenza: l’industria La fortuna
635 636 637
6 La fondazione del realismo: i personaggi, il modello spaziale
638
7 Il Decameron come laboratorio narratologico
639
8 Lo stile e la lingua
642
T4 Dichiarazioni di poetica T4a Il Proemio e la dedica alle donne
644 644
Decameron, Proemio online T4b Introduzione alla quarta giornata: la naturalità dell’istinto amoroso e l’apologo delle
papere
Decameron, IV, Introduzione
T4c La Conclusione: l’autodifesa dall’accusa di immoralità
648
Decameron, Conclusione dell'autore online T4d Una novella sull’arte di raccontare: Madonna Oretta Decameron, VI, 1
T5 La cornice T5a Il divampare della peste in Firenze
650 650
Decameron, I, Introduzione
T5b Il giardino del piacere online Decameron, III giornata, Introduzione
SGUARDO SULL' ARTE In polemica con la cultura della penitenza T6 La riscrittura ironizzante e parodica dei modelli T6a La confessione di ser Ciappelletto
654 655 655
Decameron, I, 1 online T6b La “miracolosa” guarigione di Martellino Decameron, II, 1
T6c La strana storia di Nastagio degli Onesti
667
Decameron, V, 8
SGUARDO SULL' ARTE La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Sandro Botticelli T6d La predica magistrale di frate Cipolla
674 675
Decameron, VI, 10
T7 Amore e morte secondo le NUOVE T7a Tancredi e Ghismonda: una tragedia feudale EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Decameron, IV, 1
PARITÀ DI GENERE equilibri
684 684
#PROGETTOPARITÀ
secondo le
NUOVE T7b Lisabetta da Messina: una tragedia borghese EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
Decameron, IV, 5
PARITÀ DI GENERE equilibri
695
#PROGETTOPARITÀ
online T7c Simona e Pasquino: una tragedia popolana Decameron, IV, 7
T8 Eros e comicità T8a La badessa e le brache
701 701
Decameron, IX, 2 online T8b La notte degli equivoci Decameron, IX, 6
PER APPROFONDIRE Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco”
705
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio Peronella Decameron, VII, 2
28
INDICE
706
T9 Mondo borghese-mercantile e mondo cavalleresco 710 T9a Il ritmo della fortuna/il ritmo del mare: Landolfo Rufolo 710 Decameron, II, 4 INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Esaltazione o visione critica del mondo mercantile?
Vittore Branca L’epopea dei mercanti 717 Giorgio Padoan Una visione critica del mondo mercantile 718 T9b La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia ANALISI PASSO DOPO PASSO
LEGGERE LE EMOZIONI
719
Decameron, II, 5
T9c Come il nobile Federigo degli Alberighi divenne miglior massaio COLLABORA ALL’ANALISI 732 Decameron, V, 9
T10 La beffa e la dimensione comica 740 T10a Calandrino e l’elitropia 740 Decameron, VIII, 3
TESTI IN DIALOGO • Le due versioni di una scena: Calandrino lapidato
Piero Chiara
online T10b Il Decameron raccontato in 10 novelle
Aldo Busi
online T10c Decamerone da un italiano all’altro online T10d Calandrino aspetta un figlio Decameron, IX, 3
3 Il Decameron nel tempo
748
1 La ricezione del Decameron 748 Geoffrey Chaucer D2 Il ritratto del venditore di indulgenze 750 I racconti di Canterbury online D3 Il racconto delle comari di Bath I racconti di Canterbury
SGUARDO SULLA LETTERATURA Uno sguardo all’Europa: Chaucer e i Canterbury Tales
751
2 La “sfortuna” del Decameron: da libro censurato a libro incompreso 752 PER APPROFONDIRE L e tre edizioni del Decameron «rassettate» dai censori controriformistici
752
Esempi di censura sul Decameron nell'età della Controriforma
online T11a Monache, preti e monasteri online T11b La rivisitazione della conclusione
SGUARDO SUL CINEMA Boccaccio e il cinema. Il Decameron di Pasolini
754
Sintesi con audiolettura 755 Zona Competenze 760 VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio Madonna Filippa, Decameron, VI, 7 761 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Armando Sapori Lezioni di storia economica 763 764 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Le epidemie
INDICE
29
online
Flipped Classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Decameron Mappa interattiva La presenza femminile nel Decameron Per approfondire Boccaccio bibliofilo, filologo e copista La peste tra realtà e letteratura
Un “disegno ascensionale” o piuttosto un mondo “orizzontale”? Il concetto di realismo Interpretazioni critiche Francesco Petrarca I confini del realismo decameroniano Luigi Surdich La novella di Federigo come documento sociologico Verso il Novecento Libri “galeotti” Sguardo sul cinema. Approfondimento Pasolini e il Decameron
9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale
765
1 Parole sulle donne/parole alle donne
766
1 «Tu sei la porta del demonio»
766
Stefano di Borbone
online D1 Contro gli ornamenti sontuosi delle donne: un esempio misogino
2 Le prediche alle donne e la pedagogia “al femminile”
767
TESTI IN DIALOGO • Sull’educazione delle ragazze
Umberto da Romans D2a Un modello di predica per le adolescenti
768
De eruditione predicatorum
Paolo da Certaldo secondo le NUOVE D2b Come si devono educare le ragazze EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
Libro di buoni costumi
769
#PROGETTOPARITÀ
3 La letteratura laica delle origini e le donne
770
2 Parole delle donne
772
1 Le voci delle mistiche 2 «Una donna in lotta con la sua voce»: Caterina da Siena
772
T1 Le parole del discorso mistico femminile Angela da Foligno online T1a La mia anima fu rapita in estasi
775
774
Memoriale di frate Arnaldo, cap. VII
Caterina da Siena T1b «Annegatevi nel sangue di Cristo»
775
Epistolario
3 La voce di Eloisa
776
Pietro Abelardo secondo le NUOVE D3 Eloisa scrive ad Abelardo EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Storia delle mie disgrazie
PARITÀ DI GENERE equilibri
778
#PROGETTOPARITÀ
VERSO L'ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Il motivo letterario dell’evasione della realtà
Sintesi con audiolettura secondo le NUOVE Zona Competenze EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
780 781 781
#PROGETTOPARITÀ
INDICE DEI NOMI GLOSSARIO INDICE DELLE RUBRICHE
30
INDICE
782 785 795
Duecento e Trecento
Duecento e Trecento
Scenari socio-culturali Il Medioevo
LEZIONE IN POWERPOINT
La cultura medievale è permeata da una visione cristiana della vita di cui si fanno portavoce i chierici. Sono esponenti della Chiesa anche i docenti delle università, che trasmettono una concezione enciclopedica del sapere. Diverso è il modello cavalleresco cortese, che ruota intorno alla figura del cavaliere ed esalta la fedeltà al signore e alla fede, la cortesia e la gentilezza nobilitate dall’amore per la donna amata. La cultura cittadina valorizza invece l’intraprendenza e la spregiudicatezza. Ne sono interpreti gli intellettuali laici. Nel Basso Medioevo si compie il secolare processo linguistico che porta la lingua volgare in Italia ad affrancarsi dal latino da cui deriva. Tra i vari idiomi presenti in Italia si impone il toscano grazie all’eccellenza artistica dei tre capolavori del Trecento: la Commedia, il Canzoniere, il Decameron. Mentre nei primi secoli del Medioevo la letteratura è subordinata all’educazione morale e religiosa dei credenti, nel Basso Medioevo essa si svincola dalle finalità didattiche e ammette scopi di puro intrattenimento. Per tutto il Medioevo (e anche oltre) il testo letterario è vincolato a precise norme retoriche ereditate dall’antichità classica. Due sono i registri stilistici principali: alto-tragico e basso-comico realistico.
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 4 L’evoluzione della lingua 3333
Duecento e Trecento Sguardo sulla storia Il Medioevo Un lunghissimo periodo storico Con il termine Medioevo si fa riferimento a un periodo storico di oltre mille anni, identificato per convenzione da due eventi simbolici: la caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.) che in qualche modo chiude l’epoca antica, e la scoperta dell’America (1492) che inaugura l’era moderna. In una più ristretta periodizzazione (di fatto più usata) il Medioevo si divide in due grandi fasi storiche: Alto Medioevo (V-X secolo) e Basso Medioevo (XI-XIV secolo). È in questo secondo periodo che nascono le letterature europee, compresa quella italiana.
La crisi del secoli V-VIII La decadenza socio-politico-economica Il periodo compreso tra la caduta dell’Impero romano d’Occidente e l’VIII secolo vede la massima decadenza: le ripetute invasioni barbariche provocano il crollo delle istituzioni che assicuravano l’unità e garantivano la vita politico-amministrativa dell’Impero. Con l’interruzione delle vie di comunicazione gli scambi commerciali decadono rapidamente, le città si spopolano, si spegne ogni forma di vita sociale e culturale, la campagna prende il sopravvento. L’economia, esclusivamente agricola, si riduce a forme di sussistenza. Le frequenti epidemie e la dilagante povertà determinano una grave crisi demografica.
Cronologia interattiva 711
Gli Arabi conquistano la penisola iberica 569-774
Dominio dei Longobardi in Italia
500
600 540 ca
San Benedetto compone la sua Regola e getta le basi del monachesimo occidentale
34 DueCenTo e TreCenTo Scenari socio-culturali
700
Il ruolo primario della Chiesa Nel vuoto di potere e nella crisi generale, la Chiesa diventa punto di riferimento quasi esclusivo: il papato gestisce, come unico potere centrale rimasto a Roma, i rapporti con i sovrani delle popolazioni barbariche; alle abbazie e ai monasteri, che iniziano a svilupparsi nel VI secolo, sull’esempio di san Benedetto da Norcia, ricorrono per aiuto le popolazioni indifese delle campagne, nei monasteri si conserva ciò che resta del patrimonio librario dell’antichità che i monaci copiano a mano su codici.
Dal Sacro romano Impero alla società feudale Instabilità politica e immobilismo sociale Tra l’VIII e il IX secolo il re dei Franchi Carlo Magno (742-814), crea il Sacro Romano Impero, nell’ambizione di ricostruire l’unità e la grandezza dell’Impero romano, proponendosi al contempo come difensore della cristianità. Le tre aree europee riunite (Francia, Germania, Italia) già verso la metà del IX secolo tornano però a separarsi (nel corso del tempo sarà la parte germanica a rappresentare l’Impero). Inoltre l’autorità del potere centrale dell’imperatore è contrastata dal crescente potere dei feudatari, spesso in lotta tra di loro. Ai guerrieri che lo sostenevano Carlo Magno aveva concesso dei territori (feudi) in cambio della loro fedeltà, ma nel tempo i feudatari erano diventati sempre più autonomi dall’imperatore. I feudi maggiori (ereditari dagli ultimi decenni del IX secolo) diventano sempre più simili a regni, con vere e proprie corti, soprattutto in Francia, riservandosi il diritto di amministrare in proprio la giustizia, di riscuotere imposte, di armare un proprio esercito. La società feudale, che in alcune zone perdura ben oltre l’anno Mille, prevedeva al suo interno una struttura statica e gerarchica: i confini tra le diverse categorie sociali (aristocrazia feudale, clero e contadini) sono considerati invalicabili, in quanto la struttura sociale è ritenuta il riflesso della volontà divina.
800
Carlo Magno è incoronato imperatore del Sacro romano impero da papa Leone III
800
1037
La Constitutio de feudis sancisce l’ereditarietà dei feudi minori
1000
900
962
Ottone I dà vita al Sacro romano impero germanico
1096-1099
Prima crociata; assedio di Gerusalemme
Sguardo sulla storia 35
Verso una nuova civiltà
Lessico inurbamento Flusso di movimento degli abitanti che si spostano dalle campagne verso le città.
Rinascita economica e trasformazioni sociali Intorno al Mille in Italia e nel resto dell’Europa si verifica un profondo cambiamento, che investe innanzitutto l’agricoltura: l’impiego di nuove tecniche produce un aumento delle terre coltivate. Dopo secoli di crisi demografica, la popolazione torna a crescere e a inurbarsi , nelle città riprendono le attività produttive, gli scambi commerciali, l’uso della moneta. Mentre il potere dell’aristocrazia feudale inizia a indebolirsi, emerge un nuovo ceto, la borghesia, legato al dinamico universo cittadino. Protagonista della rinascita economica è la figura del mercante. Dai comuni alle Signorie In Italia il processo di trasformazione economica e sociale è particolarmente evidente nel Centro e nel Nord, dove fiorisce la civiltà comunale; invece nell’Italia meridionale si affermano forme monarchiche legate alla persistenza di strutture socio-economiche feudali. I comuni si reggono su ordinamenti e organismi di tipo repubblicano e ricercano l’autonomia sia dal modello feudale sia, e soprattutto, dal governo imperiale, che alla fine, dopo aspre lotte, è costretto ad accettarla. Ma ben presto i comuni, in particolare in Toscana, sono dilaniati da sanguinose lotte interne. Proprio il persistere di questi continui contrasti crea le basi per l’affermarsi nel XIV secolo delle signorie.
Impero e Papato La crisi dell’Impero e la corruzione della Chiesa Il ruolo dell’Impero nel tempo si fa sempre più limitato, anche il tentativo di Arrigo VII intenzionato a restaurare l’autorità imperiale con la sua discesa in Italia non produce risultati a causa della morte dell’imperatore. Nel frattempo in Francia e in Inghilterra si affermano le grandi monarchie nazionali che entrano ben presto in conflitto fra loro.
Cronologia interattiva 1223
Onorio III approva la regola francescana
metà XII secolo
Diffusione dei movimenti pauperistici
1163
Fondazione dell’università di Oxford
1100
1200 1122
Il concordato di Worms pone fine alla lotta per le investiture 1222 1158-1183
Lotta fra Federico I il Barbarossa e i comuni italiani
36 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
1220
Federico II nominato imperatore
Fondazione dell’università di Padova
Lessico mondanizzazione Progressivo aderire della Chiesa alle logiche del potere e della ricchezza entrando come parte attiva nelle vicende dei popoli e dei governi e condizionandone le sorti.
Ma anche l’altra grande istituzione universalistica del Medioevo, il Papato, attraversa una crisi profonda. Il suo ruolo morale-religioso è compromesso agli occhi del popolo cristiano dalla mondanizzazione della Chiesa e dalla contaminazione con il potere politico, che induce la Chiesa a lottare a lungo con l’Impero per affermare la propria supremazia. Nel XIII secolo Innocenzo III e Bonifacio VIII si faranno portavoce di una vera e propria concezione teocratica: secondo tale concezione, essendo il Papa il rappresentante di Dio sulla Terra, al Papato spetta la preminenza politica. Alla Chiesa ufficiale si oppongono i movimenti pauperistici e varie sette ereticali, che esprimono l’esigenza di un ritorno agli ideali evangelici, esigenza manifestata anche dagli ordini mendicanti: francescani e domenicani, fondati rispettivamente da san Francesco e san Domenico, che pure rimangono dentro la Chiesa. Le crociate Tra il 1096 e il 1270 si susseguono varie crociate in Terrasanta, con cui la Chiesa, anche per accrescere il proprio prestigio, mobilita la cristianità contro i musulmani, organizzando spedizioni militari per la liberazione del Santo Sepolcro a Gerusalemme e la riconquista della penisola iberica. La crisi del Trecento All’inizio del Trecento la sede del Papato, succube degli interessi della monarchia francese, si trasferisce da Roma ad Avignone, in Provenza, dove rimarrà per quasi settant’anni (1309-1377), periodo conosciuto come “cattività avignonese”. La società è caratterizzata da una grave crisi economica. L’ascesa della borghesia mercantile è minata da fallimenti bancari e da guerre che rallentano il traffico commerciale e la produzione di merci. Carestie ed epidemie si susseguono fino alla “peste nera” (1348) che riduce quasi di un terzo la popolazione europea.
1300 Bonifacio VIII proclama il primo giubileo 1348 1309-1377
Clemente V trasferisce la sede papale ad Avignone
Epidemia di peste nera
Cattività avignonese 1310
Discesa di Arrigo VII in Italia
1300
1400 1287
I Visconti a Milano 1250
Muore Federico II 1343-45
Fallimento dei banchieri Bardi e Peruzzi
Sguardo sulla storia 37
1
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 I cardini della visione medievale Medioevo. Significato di un termine “Età intermedia, età di mezzo” Il termine Medioevo significa letteralmente “età intermedia, età di mezzo” ed è nato nell’età umanistica (XV secolo). Gli umanisti si consideravano eredi della cultura classica e della sua grandezza. Con il termine Medioevo gli umanisti intendono, con implicita valutazione limitativo-negativa, un periodo intermedio, una sorta di intervallo, tra la grande età classica e la nuova età umanistica, enfatizzando la distanza rispetto al modello culturale precedente: l’età classica.
Lessico oscurantismo Si intende qui il giudizio degli illuministi sull’epoca medievale in cui non ci sarebbe stato alcun pensiero libero e autonomo rispetto all’ auctoritas, cioè gli autori classici, le Scritture, i Padri della Chiesa.
Un’età “buia”? Gli umanisti, e ancor più gli illuministi (XVIII secolo), ci hanno quindi trasmesso un’immagine del Medioevo che si è profondamente radicata nell’immaginario: un periodo “buio”, di decadenza, barbarie e violenza nei rapporti sociali, di irrazionalità, oscurantismo e regressione culturale. In realtà ciò può in parte essere vero per i primi secoli (in particolare V-VII secolo) e soltanto per la parte occidentale dell’ex Impero romano e soprattutto per l’Italia, sconvolta a più riprese dalle invasioni barbariche, iniziate già da due secoli prima della caduta dell’Impero e colpita da una gravissima crisi, economica, demografica, culturale. Ma è certo errato parlare di “secoli bui” dopo il Mille. In Francia, nei castelli dell’aristocrazia feudale, si sviluppa una civiltà raffinata; in Italia, nell’ambito della dinamica vita dei comuni, nasce, a partire dal XIII secolo, una ricca produzione letteraria che ha il suo epicentro in Toscana. Nel XIV secolo si darà vita a tre capolavori che dominano nel canone occidentale: La Divina Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio.
Miniatura medievale che rappresenta i tre ordini della società medievale. Intorno al 1025 Adalberone, vescovo di Laon, in un testo che ebbe larga fortuna, ritrae la società come rigidamente divisa in tre categorie, ognuna con compiti specifici, in nessun modo intercambiabili: oratores, coloro che pregano, cioè gli uomini di Chiesa, bellatores, coloro che combattono e laboratores, coloro che lavorano, i contadini (categoria quest’ultima inferiore alle altre due).
38 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Il principio gerarchico L’ordine gerarchico nella società e nel cosmo Nella mentalità dell’Alto Medioevo (V-X secolo) era radicata la convinzione che esistesse nella società una rigida gerarchia, per cui ogni uomo occupava una posizione fissa nella scala sociale. Una visione che inizialmente rifletteva la struttura feudale della società, ma che si può trovare ben oltre l’età feudale. A lungo anche solo pensare di poter cambiare la propria posizione sociale per elevarla era considerato dalla mentalità medievale quasi un peccato: si pensava infatti che l’ordine sociale fosse voluto da Dio e fosse specchio dell’ordine celeste, a sua volta strutturato, nell’immaginario medievale, in modo gerarchico. La società medievale era divisa in tre categorie, ognuna con compiti specifici: gli uomini di Chiesa (oratores), il cui compito era quello di pregare e lodare Dio; la classe guerriera (bellatores), incaricata di difendere con le armi la Chiesa e i cristiani; i lavoratori (laboratores), ovvero i contadini, a cui spettava solo il compito di lavorare.
Lessico istituzioni universalistiche Si ritiene che la Chiesa e l’Impero derivino la loro autorità da Dio e quindi siano universali, ovvero che il loro potere si estenda a tutti gli uomini.
Le due istituzioni “guida” dell’umanità: Papato e Impero Emanazione diretta dell’“ordine” voluto da Dio nell’universo e nel mondo sono i due massimi poteri della società medievale: l’Impero e il Papato, preposti da Dio stesso, con diversi compiti, a governare su tutta l’umanità. Proprio perché considerata di derivazione divina, la loro autorità (per lo meno sul piano teorico) è vista come indiscutibile. Ma proprio per la rilevanza del principio gerarchico, stabilire a quale delle due istituzioni spetti il primato sull’altra sarà motivo di aspre lotte. Il contrasto tra le due istituzioni universalistiche attraversa la storia medievale e si riflette anche nella letteratura: in particolare il tema riveste grande importanza nella Commedia di Dante. Il rispetto dell’autorità Nella mentalità medievale è radicata per secoli l’idea che si debba sempre rispettare l’autorità, sia in ambito politico-sociale (si deve obbedire al re, all’imperatore, al papa e alla gerarchia ecclesiastica), sia in ambito culturale e spirituale (si venera l’autorità della Bibbia, dei Padri della Chiesa, dei grandi autori dell’antichità). Il concetto di auctoritas è molto importante nel Medioevo, ciò che proveniva dalle auctoritates non poteva essere messo in discussione; non era quindi pensabile poter scoprire nuove cose: la verità è data una volta per tutte e quindi immutabile.
Nuove tendenze nel Basso Medioevo Solo tra il Duecento e il Trecento, all’interno della più generale evoluzione delle strutture sociali, del costume e della mentalità Testi in dialogo che caratterizza il consolidarsi della civiltà comunale, si fa strada Pro e contro la teocrazia I due testi evidenziano due posizioni la possibilità della ribellione sociale, della discussione e della opposte sul tema del rapporto gerarchico contestazione ideologica. Inoltre nei comuni dell’Italia centrotra il papa e l’imperatore settentrionale si creano le condizioni per una maggiore mobilità D1a Innocenzo III sociale e per l’affermazione della classe borghese: di conseguenIl papa è il sole, l’imperatore è la luna za entra definitivamente in crisi l’immagine statica dei tre ordini D1b Dante Alighieri «È giunta la spada col pasturale» feudali a cui sopra si è fatto riferimento e si fa strada una visione Pg XVI, 106-112 più articolata e dinamica della società e delle categorie sociali. online
La società medievale oratores uomini di Chiesa coloro che pregano La società alto-medievale era divisa in 3 categorie gerarchicamente ordinate
bellatores soldati coloro che combattono laboratores contadini coloro che lavorano
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 39
La visione simbolico-religiosa La fede cristiana come “mentalità” e come parametro assoluto di giudizio e il teocentrismo Nel Medioevo la fede cristiana non è, come per noi oggi, una scelta soggettiva di vita, ma è la visione dominante del mondo. Essa permea il modo di concepire la vita, la storia, il mondo stesso della natura: è insomma una “mentalità”. Si tratta di una visione chiusa ai valori culturali e religiosi degli “altri”, per nulla disposta a dialogare con chi considera “diverso”. Nel cristianesimo medievale una rigida frontiera divide i cristiani sia dai pagani sia dagli appartenenti ad altra fede, in particolare quella musulmana: i seguaci di Maometto sono infatti assimilati ai pagani, sono identificati come “infedeli” e considerati i nemici per definizione dei cristiani. Nel Medioevo domina infatti una visione della realtà secondo la quale tutto discende da Dio: la società, l’economia, il tempo. Questa visione prende il nome di teocentrismo. online
La realtà come universo di simboli Proprio per la forte influenza della fede cristiana sul pensiero medievale, la vita terJacques Le Goff, Il simbolismo medievale Uno dei maggiori studiosi della cultura medievale rena è considerata solo un transitorio passaggio verso la vera spiega le caratteristiche del simbolismo. vita, quella ultraterrena. La natura stessa è considerata non di per sé, ma in quanto specchio della grandezza e potenza di Dio; da qui l’idea che la realtà vera non sia quella che appare ed è percepita attraverso i sensi. Nella natura si nasconde un universo di simboli (simbolismo) che vanno decifrati per scoprirvi un significato religioso e cristiano: secondo la suggestiva definizione di Ugo di San Vittore (➜ D3 ), la natura è un «libro scritto dal dito di Dio», in cui leggere la presenza divina (e sono in grado di farlo soprattutto i rappresentanti della Chiesa). Documento critico
Una mentalità pre-scientifica Le pietre, le piante, gli animali non sono quindi visti e studiati secondo un’ottica naturalistica, scientifica, ma sono catalogati attraverso I bestiari una visione simbolica che ne individua presunte qualità positive o negative. Particomedievali larmente importanti nel Medioevo erano i bestiari, un genere sviluppatosi a partire dal XII secolo, nel quale le qualità di animali sia reali sia leggendario-fantastici (già nel mondo antico, nella mitologia classica trovavano posto animali favolosi come l’araba online fenice, le sirene o gli unicorni) venivano considerati simbolo di vizi D2 Il Fisiologo e virtù. Ai bestiari si ispirarono anche le arti figurative: sui portali Una lettura simbolica del mondo animale e sui capitelli delle chiese romaniche e gotiche sono raffigurate online
Parola chiave
Gallery
simbolo/simbolismo Il termine simbolo deriva dal greco sýmbolon, che indicava un segno di riconoscimento «rappresentato dalle due metà di un oggetto diviso tra due persone» (Le Goff): nella sua prima etimologia il termine rimanda perciò a un’unità che deve ricomporsi. Nel Medioevo realtà sensibile e realtà ultraterrena appaiono così intimamente legate da rappresentare appunto quasi due facce di una stessa medaglia, o meglio: in ogni fenomeno, evento, figura della realtà umana o naturale, si rispecchia, anche se in modo enigmatico, la dimensione del soprannaturale. Attraverso molteplici segni
simbolici la realtà sensibile rimanda sempre a quella soprannaturale e solo dal rapporto con quest’ultima riceve il suo pieno significato, di cui il simbolo è in un certo senso il “tramite”.
Miniatura in un bestiario francese del 1450 ca. (L’Aia, Museum Meermanno-Westreenianum). Nel Medioevo il pellicano era considerato simbolo di Cristo. Si riteneva infatti che questo uccello si ferisse il petto per nutrire i propri piccoli con il suo sangue. Il sacrificio del pellicano rappresenta la morte di Cristo sulla croce e quindi il suo sacrificio per la redenzione dell’umanità.
40 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
figure zoomorfe, spesso fantastiche e mostruose (draghi, grifoni), investite di un significato simbolico che intende trasmettere un insegnamento morale. Il simbolismo dei numeri e dei nomi Nella visione medievale hanno significato simbolico anche i nomi e i numeri, in particolar modo il tre e il dieci. Il primo (con i suoi multipli) è il simbolo della Trinità ed è il numero perfetto per definizione; il dieci è dato dal tre moltiplicato per se stesso più uno: allude quindi al mistero di Dio uno e trino. Nella Commedia, capolavoro dantesco e vera sintesi del sapere medievale, ricorrono costantemente entrambi i numeri: le cantiche sono tre, ognuna divisa in 33 canti, più un canto che funge da proemio. Ciascuno dei tre regni dell’aldilà è composto da dieci zone, ma più in generale la simbologia numerica ricorre in tutta l’opera. Il dieci è presente già nella Bibbia (dieci furono i Patriarchi, dieci sono i comandamenti). Quanto ai nomi, si credeva che fossero “segni” allusivi a qualità intrinseche delle cose (o delle persone): da qui la presenza ricorrente di etimologie spesso del tutto fantasiose per ricondurre a tutti i costi un nome a un preciso significato (ad es. il termine homo, “uomo”, viene ricondotto a humus, “terra”). Non a caso Dante attribuisce alla donna salvifica della Vita nuova, la sua opera giovanile, il nome di Beatrice, un nome non reale ma appunto simbolico: significa infatti “colei che rende beati”, il cui saluto produce salvezza spirituale. online
Gallery Simbolismo nell’architettura, scultura, pittura
Simbolismo nell’arte Il simbolismo interessa anche l’arte: la struttura architettonica della chiesa corrisponde a precisi significati simbolici di carattere religioso; le figure che la ornano sono spesso personificazioni delle virtù o dei vizi e costituiscono una sorta di “libro” per educare i fedeli attraverso l’immagine.
Fissare i concetti I cardini della visione medievale
VERSO IL NOVECENTO
1. Che cosa intendono gli umanisti con il termine Medioevo? 2. Il Medioevo può essere definito un’età “buia”? 3. Quale concezione della società domina nel Medioevo? 4. In quante e quali categorie e con quali compiti era divisa la società medievale? 5. Che cosa rappresentano l’Impero ed il Papato? 6. Che cosa vuol dire nel Medioevo rispettare l’auctoritas? 7. Quali sono le nuove tendenze che caratterizzano il Basso Medioevo? 8. Che cosa si intende con teocentrismo? 9. Che cosa vuol dire che la realtà è vista come un universo di simboli? 10. Qual è il significato simbolico di nomi e numeri?
Bestiari novecenteschi Alcuni autori moderni si sono espressamente richiamati alla tradizione dei “bestiari” medievali, ovviamente rivisitandola con moderna, sofisticata, consapevolezza letteraria. Pensiamo ad esempio alla “zoologia fantastica” dello scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), in cui egli riproduce, attingendo alla sua erudita memoria letteraria, lo spirito classificatorio degli antichi bestiari e ospita nel suo raffinato giardino zoologico animali inesistenti (come gli «animali degli specchi») o leggendari (come la chimera). Raramente negli scrittori moderni l’animale è una presenza amica e familiare; per lo più la sua figura si lega a un’inquietante valenza simbolica: «Spesse volte l’animale» ebbe a scrivere lo scrittore-giornalista Dino Buzzati (1906-1972) «si presta a incarnare il mistero». Da qui la presenza nei racconti di Buzzati di animali-mostro come il favoloso colombre (nel racconto omonimo Il colombre), investiti di un’arcana
significazione. In questo senso una raccolta assai suggestiva è Bestie (1917) dello scrittore toscano Federigo Tozzi (18831920): 67 brevissime prose in cui, di solito verso la fine, compare inaspettatamente un animale, nel quale Tozzi proietta, quasi simbolicamente, il suo mondo interiore angosciato e angoscioso e nel quale talvolta sembra quasi identificarsi. Anche lo sconcertante bestiario di Tommaso Landolfi (1908-1979) sembra legarsi a ossessioni inconsce (si pensi alle labrene [specie di geco] dell’omonimo racconto, agli scarafaggi del Mar delle Blatte, al gigantesco ragno con il volto umano de Il babbo di Kafka). Riferimenti bibliografici: J.L. Borges, Manuale di zoologia fantastica [1957], Einaudi, Torino 1962; D. Buzzati, Bestiario, Mondadori, Milano 1991; F. Tozzi, Bestie, Theoria, Roma-Napoli 1987; T. Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, Adelphi, Milano 1989.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 41
Ugo di San Vittore
Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina
D3 De tribus diebus, trad. di S. Vanni Rovighi, in Grande antologia filosofica Marzorati, vol. IV, Marzorati, Milano 1973
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6
In questo passo assai indicativo del modo in cui il Medioevo vedeva la realtà naturale, Ugo di San Vittore (1096-1141 ca), teologo francese, rappresenta con una suggestiva immagine il mondo naturale come «libro scritto dal dito di Dio».
Questo mondo sensibile, infatti, è quasi un libro scritto dal dito di Dio, cioè creato dalla virtù1 divina, e le singole creature sono come figure2, non inventate dall’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà divina per manifestare la sapienza invisibile3 di Dio. Ma come un analfabeta, quando vede un libro aperto, 5 scorge i segni, ma non capisce il senso, così lo stolto e l’uomo animale4, che non capisce le cose divine [...] in queste creature visibili vede l’aspetto esteriore, ma non ne capisce l’interiore significato. Colui che è spirituale5, invece, ed è capace di valutare tutte le cose, mentre considera di fuori la bellezza dell’opera, vi legge dentro quanto mirabile sia la sapienza del Creatore. Pure, non vi è nessuno a cui 10 le opere di Dio non appaiano mirabili, anche se l’insipiente6 mira in esse soltanto l’aspetto esteriore, mentre il sapiente da ciò che vede fuori scorge il pensiero della divina sapienza, così come se di una ed identica scrittura uno lodasse il valore o la forma dei segni, l’altro il senso e il significato.
1 virtù: potenza, capacità di creare. 2 creature… figure: il mondo è come un libro le cui figure sono disegnate da Dio stesso.
3 per manifestare… invisibile: le cose visibili sono simbolo di quelle invisibili. 4 l’uomo animale: l’uomo che, come gli animali, non va oltre le sensazioni, incapace di una visione razionale e spirituale.
5 spirituale: l’uomo che si è elevato alla sfera spirituale della fede e della trascendenza. 6 l’insipiente: l’uomo stolto e ignorante.
Concetti chiave Il libro della natura
In questo testo Ugo di San Vittore traccia una netta differenza tra il vedere la superficie delle cose sensibili e il cogliere in esse l’impronta di Dio. E lo fa con un’allegoria: di fronte a un testo, c’è chi afferra solo i segni con cui si presentano le parole e chi, invece, sa cogliere, delle parole, il senso profondo. Così, l’uomo limitato e incapace di elevarsi alla sfera spirituale coglie della realtà sensibile esclusivamente l’apparenza, la dimensione contingente e materiale; il sapiente invece riesce a individuare nei segni il rimando alla presenza di Dio che si manifesta nel creato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Chi sono i destinatari del «libro scritto dal dito di Dio»? 2. Quali elementi della natura costituiscono, secondo te, le parole del “libro”? ANALISI 3. A proposito del “libro” della natura il testo propone un’antitesi tra insipienti e sapienti. Spiega in che cosa consiste la differenza. LESSICO 4. Spiega la differenza semantica fra il verbo “vedere” e il verbo “scorgere” (r. 4 e 5).
Interpretare
SCRITTURA 5. Rifletti sul rapporto esistente tra “il valore o la forma dei segni” e “il senso e il significato” (max 5 righe).
EDUCAZIONE CIVICA
6. Confronta la visione medievale del mondo come «libro scritto dal dito di Dio» con la visione attuale della natura. Perché quest’ultima è più favorevole allo sviluppo della scienza?
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5, 6
42 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
2 Il tempo e lo spazio La concezione della storia e del tempo L’assenza di prospettiva storica e la visione provvidenziale Nel Medioevo, e in particolare nell’Alto Medioevo, non si fa alcuna distinzione tra passato e presente e non si ha assolutamente il senso della prospettiva storica. Nella concezione medievale il corso della storia è tutto già scritto nella mente di Dio, per cui i singoli eventi sono come tasselli collegati tra di loro attraverso un disegno provvidenziale. Esempi della concezione provvidenziale della storia si ritrovano anche nella Commedia, in particolare nel VI canto del Paradiso, in cui Dante, per bocca dell’imperatore Giustiniano, traccia una grandiosa sintesi della storia romana, concepita come progressiva realizzazione, voluta da Dio, dell’idea imperiale e preparazione alla nascita e morte di Cristo. Dal tempo della Chiesa al tempo dei mercanti Rispetto all’antichità, nell’Alto Medioevo la misurazione del tempo viene “cristianizzata”, per cui le scansioni temporali corrispondono ai momenti fondamentali della preghiera: le laudi (all’alba), i vespri (le 18), la compieta (le 21 circa). L’inizio dell’anno è fatto coincidere con la redenzione cristiana (inizialmente la Pasqua, in un secondo tempo, la Natività e in seguito il primo gennaio, la circoncisione di Gesù). Per secoli è esclusivamente la Chiesa a controllare e gestire la scansione del tempo: le ore del giorno sono infatti segnate dalle campane della chiesa. Nel corso del XIII secolo, con la ripresa della vita cittadina e dei traffici commerciali, i mercanti non vivono più nel tempo lento dell’agricoltura e della Chiesa: le molteplici attività della società urbana rendono necessaria la misurazione precisa. Già alla fine del XIII secolo appaiono così i primi orologi meccanici capaci di misurare l’ora in modo moderno, facendone la ventiquattresima parte della giornata (come oggi). Inoltre sono le torri comunali e non più le campane della chiesa a scandire la partizione del tempo, ormai un tempo “laico”, potenzialmente alternativo a quello della Chiesa.
Una geografia favolosa cristianocentrica Orizzonti simbolici Fin verso la fine dell’età medievale, cioè fino al XV secolo, le conoscenze geografiche sono scarsissime e l’immagine del mondo conosciuto è alquanto approssimativa. Le carte geografiche medievali non rappresentano realisticamente dei luoghi ma sono piuttosto delle figurazioni simbolico-religiose: ad esempio in tutte campeggia Gerusalemme, la città santa, collocata al centro del mondo esclusivamente sulla base di un passo della Bibbia in cui si dice che Dio ha posto Gerusalemme «in mezzo alle nazioni». La visione dominante si potrebbe quindi definire cristianocentrica, perché è fondata sull’esaltazione della cristianità rispetto al resto del mondo. Mappa del mondo (part.): Gerusalemme è al centro, circolare e perfetta (sec. XIII. British Library, Londra).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 43
La geografia dell’immaginario Sulle carte medievali figurano anche luoghi del tutto immaginari, come la favolosa Isola dei beati, che sarebbe stata raggiunta dal monaco irlandese san Brandano. Ancora nel Cinquecento, quando le scoperte geografiche svelano sempre più la reale fisionomia della terra, figura sulle carte “il paese del prete Gianni”, un personaggio leggendario che regnava su una regione favolosa, un vero e proprio paese delle meraviglie, collocato nelle lontane Indie. Inonline sieme all’Asia e all’Oriente le Indie sono i luoghi prediletti dalla geografia fantastica D4 Lettera del prete Gianni medievale, in cui vivono mostri e creature strane.
Il paese delle meraviglie
L’immagine dell’universo nel Medioevo
Lessico Scolastica Scuola filosofica nata tra il XII e il XIII secolo, il suo massimo esponente fu Tommaso d’Aquino (1225-1274), che riprende il pensiero di Aristotele.
Il modello geocentrico Nel Medioevo (e fino al Cinquecento) la visione dell’universo era fondata sul modello aristotelico-tolemaico, frutto del pensiero del filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.), poi completato dall’astronomo Tolomeo. Secondo tale concezione (geocentrica) la terra si trova, immobile, al centro dell’universo e attorno a essa ruotano, con movimento perfettamente circolare e uniforme, le sfere celesti e i pianeti (tra cui la luna e il sole). Mentre il mondo sublunare è caratterizzato dall’imperfezione e dalla corruttibilità, il mondo celeste è perfetto e incorruttibile. La Scolastica , la cultura medievale delle università (➜ PAG. 62), soprattutto attraverso il pensiero di Tommaso d’Aquino e Alberto Magno, arricchisce tale concezione, integrandola nella più generale visione religiosa del mondo: l’universo è concepito, in modo speculare all’immagine della società, come un organismo gerarchicamente ordinato dalla provvidenza, in cui il movimento delle sfere celesti è armonicamente ordinato da Dio, attraverso le intelligenze angeliche che presiedono ai vari cieli. È la concezione presente anche nella Divina Commedia.
3 I valori e i modelli di comportamento Il modello clericale
Parola chiave
Gli intellettuali della Chiesa Nei primi secoli del Medioevo gli intellettuali sono quasi esclusivamente uomini della Chiesa, gli unici a conoscere il latino, a lungo l’unica lingua della cultura: chierico (clericus) e intellettuale di fatto coincidono.
intellettuale Il moderno significato del termine “intellettuale” nasce in Francia verso la fine dell’Ottocento, quando un gruppo di scrittori firmò un manifesto degli intellettuali per esprimere solidarietà allo scrittore Émile Zola che si era apertamente schierato in difesa dell’ufficiale ebreo Dreyfus, ingiustamente accusato di tradimento. Da allora il termine è entrato larga-
mente nell’uso per identificare una categoria specifica della società, in qualche modo separata e considerata “superiore”: intellettuali sono in senso generico i filosofi, gli scrittori, gli artisti, tutti coloro che in qualche modo accrescono con il loro personale contributo il patrimonio culturale e, in senso più specifico, coloro che, animando con qualificati interventi il dibattito culturale su
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temi importanti, esercitano in un certo senso il ruolo di “coscienza critica” nella società. Se ci riferiamo ai secoli medievali l’intellettuale può essere specificamente considerato colui che «lavorava con la parola e con la mente, non viveva di rendita della terra né era costretto a lavorare con le mani e, in misura variabile, era consapevole di questa sua “diversità” dalle altre categorie umane».
La svalutazione della dimensione terrena e il terrore dell’aldilà La mentalità medievale è condizionata per secoli dalla visione della Chiesa: ne deriva, soprattutto nell’Alto Medioevo, un incombere del soprannaturale che comporta la svalutazione o addirittura il disprezzo per la dimensione terrena: nel trattato De contemptu mundi, noto anche con il titolo De miseria humanae conditionis [Il disprezzo del mondo o La miseria dell’esistenza umana], uno dei testi che ebbero maggiore fortuna nel Medioevo (ci è pervenuto in ben 700 manoscritti), Lotario da Segni, il futuro papa Innocenzo III (1198-1216), descrive l’uomo come una creatura misera e spregevole, destinata inesorabilmente al peccato (➜ TeSTI In DIALoGo D6a ). online L’uomo medievale ha il terrore del giudizio implacabile di D5 Anonimo attribuito a Tommaso da Dio, ben espresso nel celebre inno Dies irae: l’autore (sicuraCelano Dies irae mente un chierico) rappresenta con evidenza drammatica il giorno del giudizio universale, il “giorno dell’ira”, appunto, di un Dio immaginato come terrifico giustiziere. Il filo rosso del terrore della morte online Per approfondire e del giudizio di Dio collega nella cultura medievale documenti artistici anche La “buona morte” molto distanti nel tempo. nel Medioevo Predisporsi a una “buona morte” era pensiero di ogni cristiano e si temeva in particolare una morte improvvisa, che non consentisse di pentirsi dei propri peccati. La sorte dell’anima nell’aldilà poteva infatti essere terribile: la pene dell’inferno, descritte a forti tinte dai predicatori e della letteratura didattica (➜ C2 PAG. 182 SS.) erano una delle paure più radicate nell’uomo medievale. Per conquistare la salvezza nella vita eterna erano diffusi riti penitenziali collettivi, come gli estenuanti pellegrinaggi, che conducevano masse di fedeli in Terrasanta o a Santiago di Compostela, nella speranza di cancellare i propri peccati.
Lessico misogino Il termine, dal greco miséo, “odiare” e guné, “donna”, indica un atteggiamento di avversione e devalorizzazione delle donne.
Il disprezzo del corpo e la repressione della sessualità La civiltà greco-latina aveva valorizzato il corpo, nella scultura ne aveva rappresentato l’armoniosa bellezza e non aveva assolutamente represso, ma anzi esaltato il piacere dei sensi. Nell’Alto Medioevo invece subentra una diffusa condanna della sessualità (persino nell’ambito del matrimonio) e più in generale una svalutazione del corpo, «abominevole veste dell’anima», secondo la definizione di Gregorio Magno (ca 540-604). Alla rigida contrapposizione fra corpo e spirito, alla sostanziale identificazione tra sessualità e lussuria (uno dei peccati capitali condannati dalla Chiesa), si collega il diffuso atteggiamento misogino (➜ C9) che impronta la cultura dei chierici: esso caratterizza in particolare l’Alto Medioevo, ma di fatto rimane a lungo radicato nella mentalità e nel costume.
I confratelli flagellanti della Fraternità di Santa Maria della Carità di Venezia (da un Graduale del 1365).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 45
online
Per approfondire Lo scriptorium
La vita ascetica dei santi e dei monaci: modello per il cristiano Nei secoli dell’Alto Medioevo, i modelli cui il cristiano deve ispirarsi sono soprattutto i santi e i monaci, che vivono isolati dalla società e mortificano la carne attraverso l’autoimposizione di privazioni e addirittura di vere e proprie sofferenze fisiche. Una scelta che nella società medievale non era assolutamente considerata come un comportamento eccentrico, quasi folle, ma anzi come il modo più autentico di vivere il messaggio cristiano. I monaci infatti conducono una vita isolata nei monasteri, dedicata alla preghiera, allo studio, ma anche all’attività manuale. La celebre Regola di san Benedetto, sintetizzata nella locuzione Ora et labora (“Prega e lavora”), adottata dalle comunità monastiche in Occidente, attribuiva pari importanza alla preghiera e al lavoro manuale. Ogni monaco dunque aveva specifici compiti manuali; tra questi particolarmente importante era l’attività di trascrizione dei testi, grazie alla quale poté essere conservato il patrimonio culturale dell’antichità. Con la ripresa della vita urbana gli ecclesiastici vivono in conventi situati nelle città e svolgono un importante ruolo nel predicare i valori cristiani alla comunità dei fedeli. Anche in piena età comunale, dopo il tramonto del monachesimo, questo modello ascetico di vita viene riproposto e persino accentuato dai francescani spirituali, come dimostrano, in particolare, le laudi e la vita stessa di Jacopone da Todi (➜ C2)
Parola chiave
ascetismo
PER APPROFONDIRE
Un “antimodello”: la cultura popolare, giovanile e goliardica A quest’ottica dominante si contrappone una cultura parallela, certo marginale e subalterna, ma non trascurabile, proprio perché costituisce un “antimodello” attivo, di cui tenere conto per una visione non unilaterale della cultura medievale: è la cultura giovanile, quella degli studenti universitari o quella popolare, che si esprime, come ha dimostrato Michail Bachtin, nella festa (➜ C5), trasgressione tollerata dalla Chiesa solo perché transitoria. Ribaltando la cupa visione dei chierici, la cultura dei goliardi e quella popolare celebrano il sesso, il cibo, il vino (➜ D6b ), insistono nel rappresentare gioiosamente gli aspetti materiali e fisiologici e parodizzano in modo spesso irriverente le autorità religiose e culturali.
La fede nei miracoli e il culto delle reliquie
L’ascetismo è una scelta di vita che mira a realizzare l’ascesi (dal greco áskesis, “esercizio”, “addestramento” e dal latino tardo ascesis, “ascesi”) a Dio. L’asceta (chi pratica l’ascetismo) cerca di affinare le proprie qualità spirituali
Le paure derivate dalla precarietà della vita (carestie, pestilenze, guerre) e dall’incombere costante della morte, favorivano la fede nei miracoli e nella protezione dei santi, a cui l’uomo medievale è particolarmente devoto. I miracoli sono espressione dell’intervento diretto di Dio, che si serve di quegli intermediari privilegiati che sono i santi: le vite dei santi, assai popolari nel Medioevo, sono ricchissime di miracoli, la cui tipologia per lo più si ripete, come la capacità di addomesticare animali selvaggi, la cacciata dei demoni da persone ritenute possedute, ma soprattutto la guarigione delle malattie. Assai diffuso era poi il culto delle reliquie, la ricerca frenetica e l’appropriazione a fini devozionali di parti del corpo
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attraverso il distacco dal mondo e pratiche penitenziali come la mortificazione del corpo, la scelta di una alimentazione molto parca o spesso addirittura del digiuno. In senso lato si usa l’aggettivo ascetico come sinonimo di vita austera, fondata sulla rinuncia.
dei santi: un culto inizialmente alimentato dalla Chiesa, che si diffonde soprattutto durante le crociate in Terrasanta e che presto degenera da un lato, producendo un redditizio commercio di pseudo-reliquie, dall’altro alimentando fino a situazioni paradossali la credulità popolare. L’ingenua fede nelle reliquie viene gustosamente stigmatizzata da Boccaccio nella celeberrima novella di frate Cipolla (➜ C8 T6d ).
Riferimenti bibliografici: J. Le Goff, Il meraviglioso nell’Occidente medievale, in Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Laterza, Roma-Bari 2000; H. Fuhrmann, Guida al Medioevo, Laterza, Bari 2009.
I LUOGHI DELLA CULTURA
Il monastero Il monastero è uno dei luoghi-simbolo della civiltà dell’Alto Medioevo. Soprattutto dal VI al IX secolo i monasteri conoscono una diffusione capillare ed esercitano un ruolo fondamentale nella cultura europea. La struttura-tipo del monastero Il monastero, il luogo dove i monaci risiedevano stabilmente, sorgeva per lo più in posti isolati e spesso arroccati. Il centro del monastero era il chiostro, attorno al quale si trovavano i luoghi deputati alla vita e alla spiritualità monastica: la chiesa, la sala di riunione, il refettorio, lo scriptorium e il dormitorio. Non mancavano poi locali destinati a ospitare i pellegrini e chiunque avesse bisogno di rifugio in caso di necessità (in tempi di guerre e di carestie il monastero rappresentava un provvidenziale centro di accoglienza soprattutto per i più poveri e indifesi). I maggiori monasteri erano realtà perfettamente autosufficienti: da qui la presenza di stalle, porcili, pollai, mulini, forni
e frantoi. C’erano inoltre officine e laboratori, dove grazie ai monaci si mantennero vive e poterono essere trasmesse le tecniche artigianali dell’antichità. Lo scriptorium Lo scriptorium poteva essere la cella stessa dove alloggiava il singolo monaco, ma più comunemente era un locale abbastanza ampio dove si svolgeva il lavoro collettivo della trascrizione dei codici da parte dei monaci. Grazie a questa attività di trascrizione poté essere conservato il patrimonio culturale dell’antichità classica. Attraverso l’iconografia del tempo possiamo ricostruire l’attività del monaco e immaginarlo mentre scrive su un leggìo inclinato di legno. Gli “strumenti del mestiere” basilari dell’amanuense (chi trascriveva a mano i testi antichi) erano una penna d’oca, un raschietto per cancellare, inchiostri di diversi colori, un coltello per temperare.
Veduta aerea della Certosa di Pavia, fondata nel 1396. Sono ben riconoscibili le varie parti della struttura del monastero: la chiesa, il grande chiostro con le celle dei monaci, i locali di servizio, le stalle.
Il chiostro medievale del monastero cistercense di Heiligenkreuz, in Austria.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 47
Testi in dialogo
Due visioni opposte del corpo umano
LEGGERE LE EMOZIONI
Lotario da Segni
D6a Miseria della condizione umana, in Mistici del Duecento e del Trecento, a c. di A. Levasti, I, 1, Rizzoli, MilanoRoma 1935
Miseria della condizione umana Uno dei testi più celebri e indicativi della cultura clericale del Medioevo è Il disprezzo del mondo di Lotario da Segni (1160-1216), divenuto papa con il nome di Innocenzo III. Il testo è permeato da una concezione cupamente pessimistica dell’uomo, considerato un essere spregevole, disgustoso, concepito nella colpa (tale è considerato il congiungimento sessuale nell’ottica più rigoristica della cultura clericale), inevitabilmente portato al peccato e destinato alla putrefazione dopo la morte. Ispira le parole di Lotario una profonda avversione, quasi un orrore, per il corpo.
Dirollo io apertamente, dichiarerollo1 io apertamente: «L’uomo è formato di polvere, di loto2, di cenere, e d’una cosa ancor più vile: di spurcissimo seme umano; è stato concetto in pizzicore di carne3, in calore di libidine, in puzzo di lussuria e in macchia di peccato, che è il peggio; nato alla fatica4, al dolore, e alla paura, e, quello che è 5 più misero, alla morte. Fa le cose prave5 colle quali offende Iddio, offende il prossimo, offende se medesimo; fa le cose brutte colle quali macchia la fama6, la persona, la conscienzia7; fa le cose vane per le quali sprezza le cose d’importanzia, disprezza le cose utili, disprezza le cose necessarie. Diventerà cibo di fuoco, che sempre arderà, e arderà che non si potrà ispegnere8; esca di vermini9, che sempre rode e mangia; 10 massa immortale di bruttura, che sempre puzza, che è brutta e spaventevole». 1 Dirollo… dichiarerollo: lo dirò... lo dichiarerò. 2 loto: fango. 3 concetto... carne: concepito negli stimoli della carne.
4 nato alla fatica: nato per soffrire. 5 prave: malvagie. 6 la fama: l’onorabilità. 7 conscienzia: coscienza.
8 Diventerà… ispegnere: Lotario allude al fuoco infernale dal quale i peccatori sono destinati a essere arsi. 9 vermini: vermi.
Carmina Burana
D6b Carmina Burana (83), a c. di P. Rossi, Bompiani, Milano 1989
Elogio del corpo femminile Con questo testo mettiamo a confronto uno stralcio da uno dei Carmina Burana che, al contrario, esalta la bellezza del corpo femminile, la gioia di vivere, il piacere dei sensi. I Carmina Burana sono una raccolta di testi destinati a essere cantati, composti in latino tra il XII secolo e i primi trent’anni del XIII (➜ C5).
[…] 2 Non mi lamento di averla a lungo corteggiata: ne sono ben ricompensato e godo dei dolci premi che mi offre. Quando Flora mi saluta con i suoi occhi loquaci, provo una gioia che quasi non riesco a contenere, e sono felice di avere speso per lei tanta fatica. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora! 3 La sorte non mi è contraria: quando giochiamo nel segreto della camera, Venere mi sorride e mi protegge. Flora si scalda nuda nel letto, la sua pelle delicata è bianca come il latte e risplende il suo petto da fanciulla, sul quale si solleva il suo piccolo seno. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora! 4 Mi sembra di essere più che uomo e gioisco come fossi innalzato fra gli dèi, quando la mia mano tocca beata il suo morbido seno e scende poi leggera ad accarezzarle il grembo. Rit.: Quale dolcezza, quale gioia e felicità provo nelle ore che passo con la mia Flora!
48 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Nel testo 6a quali sentimenti secondo te vuole suscitare l’autore? Per quali ragioni? ANALISI 2. Sottolinea nei due testi le espressioni che con maggior forza ribadiscono rispettivamente un’idea negativa e positiva della natura umana.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 3. Metti a confronto la rappresentazione del corpo che emerge dai due testi. 4. In questi due testi si confrontano due posizioni diverse rispetto al corpo: il disprezzo nel primo, l’esaltazione nell’altro. Rifletti sul rapporto che tu hai con il tuo corpo: ti accetti per come sei? Vorresti cambiare qualcosa? Lo consideri un impedimento o una forza per il raggiungimento dei tuoi obiettivi?
Il modello cavalleresco-cortese I primi intellettuali laici Nel Basso Medioevo (in particolare dal 1230 alla metà del Trecento) emergono progressivamente figure di intellettuali laici, che non appartengono alla Chiesa (è questo il primo significato del termine “laico”, che nel tempo si è arricchito di varie connotazioni ideologiche). I primi scrittori laici sono i poeti (trovatori) delle corti feudali del sud della Francia (➜ C1). Essi operano nella corte, nell’ambiente raffinato dei castelli. Un secolo dopo, in Italia, sono laici e non più chierici i poeti della cosiddetta “scuola siciliana”, una raffinata esperienza poetica nata alla corte dell’imperatore Federico II a opera di dignitari di corte, notai, giuristi collaboratori del sovrano (➜ C4). Un modello dalla fortuna secolare Anche la classe feudale dei cavalieri elabora una propria concezione del mondo e propri modelli di comportamento, che in parte rimangono autonomi, in parte si sovrappongono a quelli della cultura clericale, in parte coesistono con essi. Modelli che non solo influenzarono profondamente la società e la cultura medievale, ma arrivarono a estendere l’influenza ben oltre tale età, almeno fino al Rinascimento. Le virtù basilari del cavaliere Essendo legato all’esercizio delle armi, tale modello inizialmente prevede soprattutto l’esaltazione della forza fisica e del coraggio, qualità assolutamente necessarie a chi deve combattere. Al contempo, riflettendo i rapporti feudali, il modello cavalleresco implica l’esaltazione della lealtà e il culto dell’onore. Al di là di ogni trasformazione storico-politico-sociale, questi valori rimarranno comunque una costante del comportamento cavalleresco.
Miniatura francese di fine Duecento che raffigura episodi del ciclo arturiano.
Il cavaliere cristiano Tra il X e l’XI secolo, la Chiesa cerca di contrastare la violenza dei cavalieri dirottandola verso nobili obiettivi (come quello di aiutare i più deboli), ma soprattutto impegnandoli a difendere la causa della fede cristiana contro gli infedeli: una trasformazione, questa, strettamente collegata alla controffensiva cristiana nei confronti dell’islam. Il prototipo del cavaliere al servizio della fede cristiana è Roland (Orlando), protagonista della Chanson de Roland (➜ C1). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 49
I LUOGHI DELLA CULTURA
Il castello L’epicentro del feudo Il castello, epicentro del feudo, è lo spazio sociale e culturale che caratterizza in particolare i secoli IX-XII. È la dimora, situata nelle campagne, di un grande feudatario e della sua corte, nella quale vive un’aristocrazia di cavalieri che ricava dalla proprietà terriera i mezzi economici per potersi dedicare esclusivamente all’attività militare. I castelli sono sempre circondati da mura con alte torri, dalla cui sommità può essere costantemente controllato a vista il territorio circostante. Le corti feudali di Francia A partire dall’XI secolo, i centri più importanti per la produzione letteraria sono le corti feudali di Francia: in esse i singoli feudatari gareggiano non più soltanto nell’esercizio della forza fisica e delle armi, ma anche nelle scelte di una vita elegante e raffinata. La superiorità di un signore e della sua corte si manifesta visibilmente nei sontuosi arredi del castello, nella magnificenza con cui sono organizzate le feste e i tornei cavallereschi.
Il centro della vita del castello è il grande salone con le pareti coperte da arazzi preziosi, dove hanno luogo innanzitutto i banchetti, ma dove si tengono anche le performances di giocolieri e giullari, e vengono recitate composizioni letterarie di vario genere: dalle poesie amorose dei trovatori, accompagnate dalla musica, ai romanzi cavallereschi letti di fronte al pubblico ristretto della corte. Le donne: una presenza fondamentale nel castello Nel castello è preminente il ruolo della donna: spesso dotate di buona cultura, le dame sono il vero centro della vita della corte, dato che le spedizioni militari tenevano assai spesso il signore lontano dal castello. Nelle corti feudali di Francia è proprio la forte presenza femminile che stimola e ispira una produzione lirica e narrativa incentrata sul tema dell’amore cortese. In parte diverso da quello qui tratteggiato sarà il modello della corte signorile che si sviluppa in Italia già ai primi del Trecento, poiché nasce all’interno della società urbana e come evoluzione delle strutture comunali.
Il castello medievale di Beynac a Beynac-et-Cazenac nel dipartimento francese della Dordogna.
Il mese di settembre miniato nel codice Le magnifiche ore del duca di Berry, 1410 (Museé Condé, Chantilly): sullo sfondo, il castello di Saumur, uno dei castelli della Loira.
50 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Il castello-fortezza di Carcassonne, nel sud della Francia.
Il cavaliere cortese e i valori della liberalità e della cortesia Con la diffusione nei castelli feudali di modi di vita più lussuosi e raffinati, si verifica un’ulteriore trasformazione dei modelli di comportamento collegati alla figura del cavaliere: all’immagine del cavaliere perfetto si associa il possesso della “gentilezza”, della “cortesia” , un insieme di valori grazie ai quali il cavaliere testimonia la sua superiorità rispetto agli altri esseri umani. Anche la “liberalità” si associa al modello comportamentale del cavaliere: un ideale che spinge a donare generosamente a chi ha bisogno, ma che comporta anche la tendenza allo sperpero, alla dissipazione. La “villania” Alla “cortesia” si contrappone la “villanìa”, che denota la bassezza morale, la grettezza, ma anche la rozzezza. È significativo che le qualità negative per eccellenza prendano nome dal villano, cioè il contadino: nella società medievale rimane costante nei secoli il disprezzo per la categoria sociale dei contadini, che alimenta una specifica tipologia testuale, la “satira del villano”, nella quale vengono crudelmente ridicolizzate la povertà e l’ignoranza dei contadini. Il mito dell’amore cortese: una visione opposta alla visione clericale Fondamentale componente del modello cortese-cavalleresco è inoltre l’esaltazione dell’amore. Mentre la cultura clericale è fondata sul disprezzo del corpo, sulla misoginia, sull’ossessione del peccato, l’ideale cortese fa dell’amore addirittura il centro dell’esistenza e la sintesi di un processo di affinamento, di elevazione. Si tratta di una concezione del tutto nuova, che alimenta una ricca produzione letteraria, romanzesca e lirica (➜ C3 e C4). La donna di cui si celebra la bellezza e la perfezione è decisamente agli antipodi dall’essere disgustoso e abominevole esecrato nei testi della cultura clericale: essa è sentita come superiore, distante, irraggiungibile, a lei si deve la stessa assoluta dedizione (il “servizio d’amore”) che, nei rapporti feudali, lega il vassallo al suo signore. Spesso i cavalieri gareggiano per conquistare i favori della dama in quelle battaglie simulate che erano i tornei, che si diffondono nel XII secolo e ai quali si associa nell’immaginario la figura del cavaliere (➜ D7).
Parola chiave
I luoghi della cultura medievale
monastero
Alto Medioevo
• centro di spiritualità e di accoglienza • sede di attività agricole, artigianali, culturali (scriptorium)
castello
secoli IX-XII
• dimora dell’aristocrazia terriera • attività militari e aggregazione sociale • motore economico-agricolo
cortesia Tra il XII e il XIII secolo in Francia viene elaborato l’ideale della “cortesia” che influenza la poesia trobadorica e il romanzo cavalleresco: un insieme di valori etico-intellettuali e di modelli di comportamento ispirati alla raffinatezza, alla gentilezza dei costumi, alla liberalità e al culto idealizzante della donna
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 51
Raimondo Lullo
Identità e doveri del cavaliere
D7
Nel 1276 fu pubblicato un manuale destinato alla formazione del cavaliere cristiano, a opera di Raimondo Lullo, nome italianizzato di Ramón Llull (1232-1316), teologo e filosofo catalano.
Il libro dell’ordine della cavalleria, in F. Cardini, L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1988
Il compito del cavaliere è di mantenere e difendere la santa fede cattolica, per la quale Dio padre inviò suo figlio nel mondo ad assumere la carne umana nella gloriosa vergine nostra signora Santa Maria. [...].
5
Il compito di un cavaliere è di difendere e sostenere il suo signore mondano o terreno1, perché né un re né un altro barone ha il potere di mantenere la giustizia fra i suoi uomini senza aiuto e assistenza2. [...].
I cavalieri devono mantenere destrieri per giostrare e frequentare i tornei, tener tavola imbandita3, e andare a caccia di cervi, orsi e altri animali selvatici, perché ciò facendo i cavalieri si tengono in esercizio nelle armi al fine di sostenere l’ordine della cavalleria. 10 Disdegnare e abbandonare quel costume per cui il cavaliere risulta più preparato a compiere il suo dovere, significa solo disprezzare l’ordine [...]. Il compito di cavaliere è di tenere la terra4, poiché in conseguenza della paura che la gente comune ha dei cavalieri, essa lavora e coltiva la terra, per il terrore di essere annientata. E per paura dei cavalieri essi rispettano i re, i principi e i signori da cui 15 i cavalieri ricevono il proprio potere. Il compito di cavaliere è di sostenere e difendere le donne, le vedove, gli orfani, e gli uomini afflitti e non potenti o forti. Perché come per abito e ragione5 il più grande e il più potente aiuta il debole e l’afflitto, che fanno ricorso al grande, così agisce l’ordine di cavalleria, poiché esso è grande, onorevole e potente. Il cavaliere 20 deve soccorrere e aiutare coloro che sono sotto di lui e sono meno potenti e meno onorati di quanto egli sia. Pertanto il far torto o violenza alle donne, alle vedove che hanno bisogno di aiuto, e agli orfani che hanno bisogno di guida, o derubare e mandare in rovina il debole che ha bisogno di sostegno, e togliere loro ciò che loro è dato, queste cose non si accordano con l’ordine di cavalleria [...]. 1 signore… terreno: il signore terreno è contrapposto a quello divino. 2 né un re… assistenza: sono valori fondamentali per il cavaliere la lealtà e la fedeltà verso il proprio signore, con cui egli deve collaborare per mantenere la giustizia.
3 tener tavola imbandita: essere sempre pronti a ospitare a pranzo e a cena. 4 tenere la terra: assicurare la disciplina dei contadini sottoposti. 5 per abito e ragione: per consuetudine e mentalità.
Concetti chiave Il codice del cavaliere
L’immagine di cavaliere proposta da Lullo è l’esito di una secolare evoluzione (dal IX al XIII secolo) di questa importante figura sociale e dei suoi ruoli. Nel testo proposto Lullo evidenzia quali sono i principi e le attività fondamentali che concorrono alla definizione della natura propria del cavaliere. Il cavaliere è innanzitutto difensore della fede cattolica, è colui che sostiene e difende il suo signore terreno e svolge tutta una serie di attività, anche di svago, al fine di mantenersi sempre pronto, efficiente e capace di sostenere l’ordine cavalleresco e i suoi impegni. Egli deve poi farsi rispettare dai contadini (perché questi continuino a lavorare la terra e per incutere in loro il rispetto dovuto ai potenti), protegge i più deboli e difende le donne.
52 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali precetti sono finalizzati a conciliare l’originario ruolo del cavaliere con i valori cristiani? 2. Quali precetti rientrano nella funzione del cavaliere nel mantenimento dell’ordine sociale proprio del feudalesimo? LESSICO 3. Nella frase «Perché come per abito e ragione» il termine abito vuol dire consuetudine, abitudine. Cerca sul vocabolario l’origine latina di tale termine e confrontala con il significato che nella società odierna attribuiamo al termine.
Interpretare
SCRITTURA 4. Quale valore proprio del cavaliere si esprime nel precetto di «tener tavola imbandita»?
I valori della società urbana e mercantile Gli intellettuali nella società comunale Nella vivace realtà dei comuni italiani gli intellettuali provengono non più soltanto dalla Chiesa, ma anche dalla nobiltà, e soprattutto dal mondo delle professioni: sono giudici, notai, maestri di retorica, impegnati nella vita politica, come Brunetto Latini, il “maestro” di Dante. Non mancano i mercanti, come Giovanni Villani (1280-1348), autore di una cronaca (Nuova cronica) di Firenze, che ne testimonia lo straordinario sviluppo, e anche la complessa dinamica della lotta tra le fazioni. Verso la condizione cortigiana Verso la fine del Trecento il modello politico comunale entra in crisi e iniziano ad affermarsi le signorie. Anche la fisionomia dell’intellettuale, di conseguenza, tende a trasformarsi: in varie zone d’Italia comincia a delinearsi quella figura di intellettuale “cortigiano” che dominerà per quasi tutta l’età moderna e di cui è un primo esempio Petrarca. Un intellettuale che, vivendo alle dipendenze di un signore, può dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria, che tende a diventare così una vera e propria professione. L’emergere della figura del mercante Gli schemi mentali e i modi di comportamento si modificano, come è logico pensare, in rapporto all’affermarsi della società urbana. Si tratta di un’evoluzione lenta, i cui risultati saranno evidenti in ambito online D8 Paolo da Certaldo La morale mercantile
Nella miniatura medievale sono raffigurati mercanti che noleggiano caravelle per il commercio delle spezie.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 53
online
Testi in dialogo Lodi (e critiche) della città Il percorso presenta testi che esaltano la città (in particolare Milano e Firenze) e testi che invece condannano lo sviluppo della civiltà urbana.
T9a Bonvesin de la Riva L’orgoglio di un cittadino T9b Giovanni Villani Elogio di Firenze T9c Dante Contro la città moderna: «Fiorenza dentro de la cerchia antica»
letterario solo verso la metà del XIV secolo quando Giovanni Boccaccio scrive il Decameron, che rispecchia i modelli culturali ed etici di una società in transizione. Nel Basso Medioevo la figura sociale emergente è quella del mercante: il XIII e XIV secolo vedono un forte incremento dell’attività commerciale e soprattutto nell’Italia settentrionale e nei comuni della Toscana, i più grandi mercanti arrivano a detenere il potere politico, gareggiando con le antiche famiglie nobiliari in uno stile di vita sfarzoso.
Una mentalità alternativa ai valori della cultura sia clericale sia aristocratica La mentalità, i valori, i modelli T9d Francesco Petrarca di comportamento della borghesia mercantile si contrapLa vita cittadina non è fatta pongono sia alla rigida visione clericale sia a quella aristoper gli spiriti eletti cratico-cavalleresca. La visione della Chiesa tende infatti a svalutare l’intraprendenza, a condannare il progresso economico e a giudicare come peccato ogni attività che produca guadagno. L’etica cavalleresca, dal canto suo, considera un segno distintivo della nobiltà spendere oltre misura un patrimonio ereditato dagli avi. L’etica del mercante è fondata invece proprio sulla saggia amministrazione dei capitali e sul loro incremento: è un’“etica dell’accumulazione”, che esalta chi con le sue sole forze sa costruirsi e mantenere un patrimonio. Documento significativo dell’etica mercantile è il libro di consigli composto a metà del Trecento dal mercante Paolo da Certaldo. Il fascino degli ideali cortesi D’altra parte la classe mercantile è affascinata dagli ideali cavallereschi e aspira anch’essa a nobilitarsi: i valori della “cortesia” e della “gentilezza” vengono così assimilati anche dal mondo borghese-mercantile.
Modelli e valori sociali modello clericale
modello cortesecavalleresco
•c ondanna la ricerca di guadagno • svaluta l’intraprendenza
• è prodigo nello spendere • ha fra i suoi valori “gentilezza” e “cortesia”
modello urbanomercantile
• amministra con oculatezza e ha spirito di intraprendenza • subisce il fascino degli ideali cavallereschi
Fissare i concetti Tempo, spazio, valori e modelli di comportamento 1. Qual è la concezione medievale della storia, del tempo e dello spazio? 2. Come cambia la misurazione del tempo a partire dal XIII secolo? 3. Quale immagine dell’universo ha il Medioevo? 4. Come cambia il ruolo dell’intellettuale dall’Alto al Basso Medioevo? 5. Come vengono visti la dimensione terrena e il corpo nel periodo medievale? 6. Che cos’è lo scriptorium? 7. Da che cosa è caratterizzato il modello cavalleresco-cortese? 8. Quale visione dell’amore caratterizza il modello cortese-cavalleresco? 9. Quale mentalità appartiene al mercante?
54 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
I LUOGHI DELLA CULTURA
La città La città, luogo dell’apertura e degli scambi Dopo il Mille la città torna ad essere centro della vita sociale, economica e culturale. Questo processo non comporta automaticamente la scomparsa del mondo del monastero e della civiltà feudale; per lo più intorno alla città continuano a esistere un paesaggio e un mondo ancora feudali, con castelli e monasteri. La città si differenzia dal castello e dal monastero, nei quali domina un unico modello culturale “forte”, perché è una realtà dinamica e tendenzialmente aperta. Grazie ai traffici mercantili, è presente nella città la dimensione dello scambio culturale, il confronto con altre mentalità, costumi, conoscenze. Il cuore della città comunale è la piazza, su cui si affacciano gli edifici in cui si gestisce la politica e dove si svolge il mercato, simbolo della vita aperta della città; vi si contrattano e scambiano merci ogni giorno, vi si svolgono periodicamente fiere, a cui partecipano mercanti di altre città; dal mercato si diramano le vie con le botteghe artigiane.
Uno scenario multiforme e vivace, ritratto realisticamente in una celebre novella di Boccaccio, che ha per protagonista il giovane mercante di cavalli Andreuccio (➜ C8 T9B ). Ritratti della città medievale Della variegata realtà economica e sociale della città in Italia ci forniscono un ritratto eloquente, frutto di un’ottica elogiativa, Bonvesin de la Riva, milanese (1240-1315 ca), che tesse le lodi di Milano; e Giovanni Villani, fiorentino (1280-1348), che esalta lo sviluppo di Firenze in ogni campo. Al contrario Dante in più passi della Commedia si mostra polemico verso la società fiorentina (e non solo fiorentina) del suo tempo ed evoca nostalgicamente l’immagine della Firenze dei tempi passati, in cui la brama della ricchezza non aveva ancora offuscato i valori morali e religiosi. Al tramonto del Medioevo Petrarca, intellettuale ormai itinerante, rifiuta la materialistica e frenetica vita della città.
Veduta della cittadina di San Gimignano, in Toscana.
Miniatura medievale che raffigura un mercato all’interno delle mura cittadine.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 55
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
L’emarginazione dei “diversi” nel Medioevo Una società che emargina i “diversi” La società medievale ha paura di chi avverte come “diverso”, ed è quindi una società che per sua natura favorisce massicciamente la tendenza all’emarginazione di ampi strati di popolazione, anche perché domina a lungo un sistema ideologico che non ammette sfumature e ha timore di ogni possibile contaminazione, anche e forse in primo luogo di quella ideologica. La diffidenza verso gli stranieri e i vagabondi Sono esclusi quindi da questa società tendenzialmente chiusa gli stranieri, poiché il Medioevo considera un potenziale pericolo tutto ciò che viene da “fuori”. Verso gli stranieri c’è la stessa diffidenza che esiste verso gli istrioni e i giullari, assimilati di fatto molto spesso ai vagabondi: l’ideologia medievale diffida infatti di chi non ha una dimora fissa e non appartiene stabilmente a un gruppo, a una comunità che lo identifichi e lo protegga. La persecuzione degli ebrei Più propriamente emarginati sono gli ebrei. Dopo la diaspora seguita alla distruzione romana del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), comunità ebraiche erano presenti in varie zone dell’Europa e anche in Egitto. Nelle regioni cristiane, già verso il III secolo d.C., essi sono accusati di deicidio, dell’uccisione di Cristo e guardati con crescente diffidenza se non aperta ostilità. Per lo più gli ebrei sono mercanti, artigiani e commerciano in stoffe pregiate, spezie, pietre preziose e, non di rado, poiché accumulano notevoli ricchezze con la loro attività, prestano denaro a interesse, suscitando così inevitabilmente l’invidia di una società in cui regna la povertà e la riprovazione morale di una cultura, quella clericale, che guarda negativamente al profitto. La persecuzione cristiana vera e propria degli ebrei comincia al tempo delle crociate (tra la fine dell’XI e la metà del XIII secolo). È un’età caratterizzata dalla chiusura ideologica verso le fedi degli altri ed è anche un’età in cui la frequenza delle guerre, delle pestilenze, di ricorrenti carestie ha bisogno di capri espiatori: si fa strada così nell’immaginario popolare l’immagine dell’ebreo come avido, astuto, maligno, e inizia quasi ovunque una persecuzione sistematica che spingerà gli ebrei a continue migrazioni o a conversioni forzate al cristianesimo. Nel 1215 gli ebrei vengono obbligati da una precisa disposi-
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
zione papale a portare un segno distintivo che li renda immediatamente identificabili: ad esempio un pezzo di stoffa colorata cucita sull’abito (un obbligo che ricorda anche troppo la stella gialla imposta dai nazisti). L’emarginazione dei malati e dei lebbrosi La società medievale emargina anche i folli, i malati poveri e soprattutto i deformi, gli storpi, i lebbrosi: nella malattia vede infatti un indicatore sicuro, un marchio a tutti visibile del peccato. Verso i lebbrosi (la lebbra è una terribile malattia deformante che si diffonde tra il XII e il XIII secolo) la società cristiana medievale, come osserva Le Goff, ha un atteggiamento ambiguo: da un lato li emargina e li allontana, confinandoli nei lebbrosari, mondi chiusi da cui essi possono uscire solo annunciando la propria indesiderata presenza con il suono di una campanella. Ma al tempo stesso i lebbrosari non distano molto dalla città, affinché chi lo desidera possa esercitare nei loro confronti la carità. Non di rado lebbrosi ed ebrei sono accomunati da uno stesso tragico destino: durante le carestie e le pestilenze assumono il ruolo di capri espiatori. Sono allora processati sommariamente e giustiziati. La scelta “scandalosa” di Francesco di Assisi In una società che costituzionalmente emarginava le categorie più deboli com’era quella medievale, era inevitabile che un comportamento come quello di Francesco di Assisi suscitasse sconcerto e addirittura scandalo: alter Christus, “nuovo Cristo”, egli usava accompagnarsi proprio con i poveri, i vagabondi, i malati e si autodefiniva provocatoriamente “giullare di Dio”, nella volontà di contrapporsi ai parametri di giudizio diffusi nella società del suo tempo.
Rogo di lebbrosi, miniatura del Maestro di Virgilio in Chroniques de France ou de SaintDenis, 1380 ca (London, British Library).
COMPRENSIONE 1. In che senso la società medievale è una società che emargina chi è diverso? 2. Quali categorie di persone vengono emarginate? ANALISI 3. Spiega la seguente affermazione: «Verso gli stranieri c’è la stessa diffidenza che esiste verso gli istrioni e i giullari». LESSICO 4. Cerca sul vocabolario la definizione e l’origine della parola “straniero”.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
SCRITTURA 5. Confronta in un testo di massimo 50 righe l’atteggiamento della società medievale nei confronti del diverso con la società attuale in cui vivi. Ti sembra che sia venuta meno la diffidenza verso lo straniero? Ritieni di vivere in una società inclusiva? DISCUSSIONE IN CLASSE 6. Dopo aver redatto il confronto discuti in classe del tema proposto con il docente e con i compagni, confrontandovi sui diversi punti di vista emersi.
56 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
2
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Il complesso confronto tra la cultura cristiana e la cultura pagana Dal rifiuto all’accettazione problematica Agli albori della civiltà medievale la cultura cristiana si trovò a confrontarsi con l’eredità della cultura pagana e il rapporto che ne derivò fu inizialmente difficile. I primi intellettuali cristiani, noti come “apologisti” per la loro appassionata difesa della nuova fede (apologia significa appunto “esaltazione, difesa” di qualcosa o qualcuno), rifiutano del tutto la cultura classica e la civiltà di Roma proprio perché pagane. In seguito, i padri della Chiesa (cioè Agostino, Girolamo, Ambrogio) assumono un atteggiamento più disponibile, ma anche inevitabilmente conflittuale: da un lato infatti essi erano consapevoli del grande valore del patrimonio culturale ereditato dalla civiltà antica; d’altra parte gli autori antichi erano pagani e in quanto tali avrebbero dovuto essere rifiutati.
Lessico concezione provvidenzialistica È una concezione secondo la quale Dio provvede a intervenire direttamente nelle vicende umane e nella storia.
La posizione di Agostino Agostino (354-430), grande filosofo (Confessioni, opera autobiografica di riflessioni sulla propria interiorità, sul tempo e la memoria) e teologo (De civitate Dei, sulla concezione cristiana e provvidenzialistica della storia) riconosce la radicale diversità della cultura pagana rispetto a quella cristiana, ma considera utile e doveroso appropriarsi di alcuni valori e del sapere retorico ereditato dai grandi autori della cultura pagana, purché vengano riportati attraverso la lettura allegorica al loro vero significato, che è sempre comunque conforme alle verità cristiane, anche se i pagani non ne erano consapevoli (➜ D10 ). La cultura pagana inglobata nell’universo etico-culturale cristiano Il Medioevo seguirà proprio la strada indicata da Agostino, integrando nella cultura e nella visione cristiano-medievale i testi dell’antichità sganciati però dal loro contesto originario. Al testo antico viene spesso sovrapposta l’interpretazione allegorico-cristiana: la lettera del testo viene considerata quasi come una veste che nasconde verità e valori che vanno portati alla luce attraverso una lettura di secondo grado, più profonda – la lettura allegorica appunto – che attribuisce al testo ciò che è considerato il suo vero significato, che è morale-religioso. Inoltre si verifica la tendenza a estrapolare dai testi antichi singole citazioni, passi scelti, che vengono poi liberamente assemblati e utilizzati dagli scrittori cristiani prescindendo del tutto dal contesto originario. Procedimenti che verranno aspramente criticati dagli umanisti, ma che il Medioevo considerava del tutto legittimi.
Platone, Seneca e Aristotele in una miniatura di inizio XIV secolo tratta da una raccolta di vari testi filosofici.
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 57
Sant’Agostino
I cristiani devono appropriarsi del sapere ingiustamente posseduto dai pagani
D10 De doctrina cristiana, trad. di M.T. Beonio Brocchieri Fumagalli, in Le enciclopedie dell’occidente medievale, a c. di M.L. Picascia, Zanichelli, Bologna 1980
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
In questo passo sant’Agostino si contrappone ad altri pensatori del primo cristianesimo che respingevano la cultura pagana, sostenendo la necessità per i cristiani di appropriarsi del sapere dei pagani, come se ne fossero i legittimi proprietari.
Non solo non dobbiamo temere1 ciò che hanno detto i filosofi antichi, soprattutto i platonici, quando i loro detti2 sono veri e congeniali alla nostra fede ma dobbiamo rivendicarli3 da loro come da ingiusti possessori. Gli Egizi non solo avevano idoli4 che il popolo di Israele detestava ma anche molte cose preziose, d’oro e d’argento, 5 e stoffe di pregio5 che Israele fuggendo dall’Egitto rivendicò a sé per un uso migliore e ciò fece non per autorità propria ma su comando di Dio6, poiché gli stessi egiziani erano inconsapevoli e non usavano bene ciò che avevano. Così se è vero che le dottrine dei pagani contengono elementi falsi e superstiziosi o inutili che ciascuno di noi, secondo le parole del Cristo, uscendo dalla società pagana, deve odiare ed 10 evitare, è anche vero che le discipline liberali7 sono adattabili all’uso della verità8 e esistono, sempre fra i pagani, utilissimi precetti morali e persino riferimenti al culto di un unico Dio. Non dimentichiamo le vesti e gli abiti preziosi che raffigurano le istituzioni umane congeniali e buone per la società degli uomini9, delle quali non possiamo fare a meno in questa vita, e che è lecito dunque ricevere e mantenere 15 purché le si converta a un uso cristiano.
1 temere: come contrario alla fede cristiana. 2 i loro detti: le loro parole. 3 rivendicarli: nel linguaggio del diritto, significa pretendere la restituzione di un possesso illegalmente detenuto da altri. 4 idoli: statue di dei pagani. 5 ma anche... stoffe di pregio: attraverso l’allegoria, sant’Agostino sottolinea il valore prezioso della cultura antica, invitando i cristiani a non respingerla, ma a raccoglierne l’eredità.
6 che Israele... su comando di Dio: nella Bibbia si racconta che quando gli Ebrei lasciarono la schiavitù d’Egitto «gli Israeliti eseguirono l’ordine di Mosè e si fecero dare dagli Egiziani oggetti d’argento e d’oro e vesti» (Esodo 12, 35). 7 discipline liberali: studi degni di un uomo libero, in questo caso, la letteratura e la filosofia. 8 sono adattabili all’uso della verità: Agostino intende dire che i testi classici devono essere decontestualizzati e riletti
alla luce della verità cristiana; l’affermazione è importantissima, perché suggerisce l’idea di una lettura allegorica, prima riservata soltanto alla Bibbia, anche per i testi classici. 9 Non dimentichiamo... uomini: sempre attraverso l’allegoria (le vesti e gli abiti preziosi), Agostino sottolinea come l’eredità degli antichi sia fondamentale anche nel campo del diritto e delle istituzioni politiche.
Concetti chiave La lettura allegorica dei chierici
Con le affermazioni contenute in questo testo, Agostino intende dire che i testi classici pagani devono essere decontestualizzati e rivisti secondo la verità cristiana. La tesi è anche più estrema e consiste nel ritenere che il senso più vero di quanto è proposto dai classici sia già connotato dalle verità cristiane, cosa di cui i pagani sono inconsapevoli, e che i cristiani possono ritenersi per questo già “proprietari” legittimi di questi scritti.
Esercitare le competenze COMPRENSIONE 1. Indica quali elementi della cultura pagana, secondo Agostino, sono ancora validi per i cristiani. 2. Con quale esempio di origine biblica Agostino sostiene la propria tesi?
58 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
ANALISI 3. Che cosa vuol dire l’espressione «Purché le si converta a un uso cristiano»? SINTESI 4. Riassumi in un breve paragrafo (max 4 righe) la tesi dello scritto di Agostino.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
5. Rifletti su quanto sostenuto da sant’Agostino nei confronti della cultura pagana così diversa da quella cristiana. Secondo te è giusto approcciarsi allo studio di una cultura diversa dalla nostra cercando di interpretarla con le categorie a noi contemporanee o avevano ragione gli umanisti a criticare questo metodo e a spingere allo studio di un periodo storico/letterario senza l’assimilazione proposta da sant’Agostino?
2 Culto della tradizione ed enciclopedismo Auctoritas/auctores: un’ottica tradizionalista, contraria al progresso intellettuale Nell’ottica medievale anche in ambito culturale, come in quello sociale, domina un rigido ossequio alle gerarchie e alle autorità, a cominciare naturalmente dalla venerazione dovuta al libro per eccellenza, cioè la Bibbia. Il Medioevo eredita dalla civiltà latina il concetto e il termine auctoritas (da cui “autorità”) e vi associa quello di auctores, che designa innanzitutto i padri della Chiesa che hanno interpretato, appunto, “autorevolmente”, le Sacre Scritture. Il Medioevo inserisce presto tra gli autori anche le figure della cultura antica considerate più importanti in ambito poetico-retorico e filosofico-morale: Orazio, Ovidio, Lucano, Cicerone e Seneca. Il “mito” di Virgilio e l’interpretazione allegorica dei testi virgiliani Tra gli autori più venerati dell’antichità spicca il poeta latino Virgilio, maestro indiscusso non solo di stile ma anche di sapienza. Già nel V secolo d.C. comincia a diffondersi un’interpretazione allegorica di alcuni suoi testi: grazie a tale interpretazione (che ne forza di fatto il reale significato sovrapponendovi la visione cristiana), i testi di Virgilio sono integrati nella cultura cristiana, divenendo fonti di insegnamenti morali e religiosi. In particolare l’Eneide è interpretata come allegoria della vita umana e la IV ecloga, in cui Virgilio profetizzava la nascita di un misterioso fanciullo che avrebbe riportato sulla terra la felice condizione dell’età dell’oro, una nuova età di pace e di giustizia, è letta nel Medioevo come profezia della nascita di Cristo. Non stupisce allora che nel viaggio della Commedia Dante scelga come guida proprio l’antico poeta latino a cui, con commosse parole, attribuisce il ruolo di suo “maestro” e “autore”, appunto nell’accezione sopra indicata del termine.
Il filosofo Aristotele, affresco nella sala a lui dedicata di palazzo Corboli, Asciano.
Aristotele, «maestro di color che sanno» In campo filosofico per secoli l’autorità per eccellenza, il filosofo per definizione, sarà Aristotele, il «maestro di color che sanno» nella celebre definizione dantesca (If IV), riscoperto grazie alla mediazione della cultura araba ed entrato nella circolazione culturale nel XIIXIII secolo, quando le sue opere vengono tradotte in latino e possono quindi essere conosciute anche da quegli intellettuali (ed erano la maggior parte nel Medioevo) che ignoravano la lingua greca. Il commento alle opere di Aristotele è al centro dell’insegnamento universitario. Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 59
online
Per approfondire I maestri fondatori del sapere medievale
La visione enciclopedica del sapere Un altro aspetto importante della cultura medievale è l’enciclopedismo, cioè la predilezione per una conoscenza onnicomprensiva del reale. L’intellettuale deve possedere tutto lo scibile umano, non può approfondire solo un campo d’indagine. Il sapere inoltre si configura non come ricerca ma come conservazione di testi tramandati, come accumulo di nozioni più che selezione critica di esse: da qui la secolare fortuna delle summae, monumentali manuali in cui l’uomo colto medievale poteva ritrovare tutto lo scibile, diviso per grandi categorie. La Divina Commedia stessa non è solo un’opera di altissimo valore letterario, ma costituisce anche una grandiosa sintesi di tutto il sapere del tempo (letterario, filosofico-teologico, scientifico-astronomico).
Ma già Petrarca contesta la cultura enciclopedica Questa visione del sapere (che oggi, in tempo di estrema specializzazione dei saperi, ci riesce difficile anche solo immaginare) viene contestata, nell’autunno del Medioevo (seconda metà del Trecento), già da Francesco Petrarca: la cultura enciclopedica non soddisfa più i bisogni dell’uomo perché non sa offrire adeguate risposte ai suoi online interrogativi interiori (➜ D11 ). L’uomo colto non è più chi D11 Francesco Petrarca padroneggia tutto lo scibile, ma chi sa scegliere ciò che lo Sull’ignoranza sua e di molti arricchisca spiritualmente.
I cardini della visione medievale
La concezione del mondo e della cultura nel Medioevo
TEOCENTRISMO
Concezione secondo la quale tutto deriva da Dio e a Dio si riconduce
ALLEGORISMO
Lettura allegorica dei testi antichi: i concetti sono rappresentati attraverso oggetti, animali o persone dotati di un significato più ampio
ENCICLOPEDISMO
L’uomo colto non è specializzato in un solo campo, ma deve possedere tutto il sapere
SIMBOLISMO
La realtà viene interpretata in modo simbolico: ogni aspetto del mondo rimanda a un significato nascosto
si traduce in
3 Il modello dell’istruzione nel Medioevo Nascita delle scuole Lo studio delle arti liberali: Trivio e Quadrivio Le prime scuole sorgono nei monasteri e sono rivolte alla formazione dei monaci. Successivamente nascono scuole cittadine laiche, in funzione dei bisogni formativi della civiltà dei Comuni. Dopo l’istruzione di base, che consisteva nell’imparare a leggere e a scrivere, la scuola medievale prevedeva lo studio delle arti liberali, che costituiva un apprendimento di livello medio, considerato propedeutico ai gradi più alti del sapere. Il termine liberale (che significa letteralmente “degno di un uomo libero”, non obbligato al lavoro) rimanda a un’idea aristocratica del sapere, ereditata dal mondo
60 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
classico, concepito come un complesso di discipline privo di finalità pratiche e del tutto separato dal mondo del lavoro e dall’impiego della manualità. Le arti liberali erano articolate nel Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e nel Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). All’interno delle arti liberali il posto principale fu a lungo occupato dalla grammatica, che di fatto consisteva nello studio della lingua latina: il latino era appreso sempre attraverso i testi dei medesimi autori (i padri della Chiesa e inoltre Seneca, Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio) che in un certo modo costituivano per il Medioevo quello che oggi chiameremmo “canone ”. La lingua impiegata per l’insegnamento non è quella usata comunemente, cioè il volgare, ma il latino; i fondamenti dell’istruzione sono soprattutto precetti morali, i metodi aridamente nozionistici e mnemonici. Ne derivava un sapere astratto e lontano dalla dinamica e multiforme realtà della vita cittadina. “Scuola del fare” contro “scuola dell’ascoltare”: la formazione dei mercanti Il divario tra bisogni reali e l’astrattezza del sapere scolastico spiega perché i ceti mercantili, dopo qualche anno di istruzione scolastica, preferissero per i loro figli l’apprendimento pratico nelle botteghe degli artigiani e nei fondachi, dove i giovani destinati all’attività artigianale o mercantile imparavano direttamente sul campo, attraverso un lungo apprendistato, i segreti del mestiere.
Le arti liberali
Parola chiave
Trivio
• grammatica • retorica • dialettica
Quadrivio
• aritmetica • geometria • musica • astronomia
canone Il termine canone, dal significato originario di “regola, unità di misura”, passa poi a indicare un elenco stilato secondo determinati criteri o parametri. Nel senso di “elenco di opere”, il termine è dapprima utilizzato in ambito religioso (i libri della Bibbia) e poi esteso anche al di fuori dell’ambito religioso, in particolare per liste di autori basilari da studiare nelle scuole. Quello di canone è dunque un concetto ancorato all’idea di una tradizione di testi nei quali una comunità riconosce la propria identità culturale e che perciò considera degni di essere tramandati. In ambito letterario, per secoli, il canone si è fondato sull’eccellenza stilistica degli autori prescelti e ha avuto anche valore normativo: chi voleva raggiungere la grandezza doveva imitare i grandi autori, considerati modelli di perfezione (Petrarca e Boccaccio nel Cinquecento). In altre epoche invece, nel costituirsi del canone, ha contato maggiormente la validità indiscussa (almeno in relazione
a un certo tempo) dei contenuti, la rilevanza della dimensione etico-valoriale e la statura umana degli autori riflessa nelle loro opere maggiori. Soprattutto in rapporto a questa seconda prospettiva di giudizio, il canone è destinato inevitabilmente a cambiare nel tempo (anche se alcuni autori, considerati grandi “classici”, mantengono stabilmente il loro posto): variando le coordinate culturali si ridefiniscono le gerarchie tra gli autori che contano. Può allora accadere che autori marginalizzati siano rivalutati ed entrino a far parte del canone, o, al contrario, che autori considerati fondamentali in un certo tempo escano dal canone degli autori maggiori (è il caso ad esempio di Carducci). Un ruolo primario e autorevole nella stabilizzazione – ma anche nella ridefinizione – del canone è tuttora esercitato dalla scuola soprattutto attraverso i manuali di storia letteraria. Dalla seconda metà del Novecento la definizione del canone letterario si è fatta comunque sempre più problema-
tica, anche per la continua immissione sul mercato da parte dell’industria editoriale di novità non sempre autorevoli per contenuti e validità estetica. Inoltre, verso gli anni Novanta del secolo scorso, a partire dagli Stati Uniti, è nato un vivace dibattito che ha messo in discussione sempre più l’oggettività, e quindi la legittimità stessa del concetto di canone, accusato di fondarsi sulla negazione di soggetti e aree culturali diversi da quelli della cultura egemone. A questa critica ha risposto polemicamente lo studioso americano Harold Bloom (1930-2019) che con Il canone occidentale ha proposto (con criteri di scelta da più parti discussi) una rosa di 26 autori che, sulla base del primato di valori estetici eterni, rappresenterebbero l’eccellenza della cultura occidentale. Riferimenti bibliografici: R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Laterza, RomaBari 1999; H. Bloom, Il canone occidentale [1994], Bompiani, Milano 1996; M. Onofri, Il canone letterario, Laterza, Roma-Bari 2001.
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L’università e la Scolastica online
Per approfondire Il vocabolario dell’università
Tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo in Europa si diffondono le università (l’università più antica è quella di Bologna che risale al 1088) come centri istituzionali di gestione e trasmissione della cultura. La tipologia, i metodi e i contenuti del sapere trasmessi per circa tre secoli dalle università vengono globalmente denominati con il termine di “Scolastica”, anche se poi successivamente il termine passerà a indicare il nuovo pensiero filosofico-teologico che si impone nel XIII secolo, basato sulla filosofia di Aristotele, il cui massimo esponente è Tommaso d’Aquino.
Il trionfo dell’aristotelismo Le basi istituzionali del sapere universitario hanno al centro la filosofia, intesa innanzitutto come esercizio del metodo razionale d’indagine: in particolare, la filosofia aristotelica, la cui influenza finisce per estendersi a tutti i campi del sapere, dalla medicina all’astronomia e alla stessa teologia, soprattutto dopo la conciliazione e la poderosa sintesi tra pensiero aristotelico e dottrina cristiana, operate dal domenicano Tommaso d’Aquino (1224-1274). Una conciliazione seguita online da aspri conflitti fra le diverse tendenze ideologiche e teologiche presenti nel mondo Testi in dialogo universitario e che contrappongono francescani e domenicani – Fede e ragione: attualità e storicità di un soprattutto riguardo al grande nodo problematico del rapporto tra rapporto problematico Tommaso d’Aquino fonda il suo fede e ragione – e anche diversi modi di intendere l’aristotelismo, pensiero sulla filosofia di Aristotele, alcuni dei quali sono ufficialmente condannati dalla Chiesa. adattandola cristianamente; incontra però l’opposizione di Bonaventura da Bagnoregio, il quale sostiene che la fede non ha nulla a che vedere con la ragione. San Tommaso rappresenta la tendenza razionalistica del pensiero medievale, san Bonaventura rappresenta invece l’altra tendenza, definita mistica. Il testo di Giovanni Paolo II è tratto dall’enciclica dedicata al rapporto tra fede e ragione.
D12a San Tommaso d’Aquino Le verità di fede sono necessariamente conciliabili con le verità di ragione D12b San Bonaventura La via per giungere a Dio non passa attraverso gli strumenti razionali D12c Giovanni Paolo II Fede e ragione
Un sapere “chiuso” fondato sull’autorità del testo e del magister Il sapere trasmesso dalle università rimane comunque un sapere “chiuso”, ancora fondato sul principio di autorità di cui si è parlato: è infatti il corpo dei docenti universitari che decide in modo programmatico gli auctores che devono essere letti e commentati dai magistri (i docenti universitari) e che si arroga il diritto di proibire ufficialmente di leggere alcuni testi. Fulcro dell’insegnamento universitario, sostenuto in un latino specialistico, è la lectio, cioè la lettura e il commento di un testo autorevole, condotti dal magister. La cultura universitaria non prevede dibattito, è sempre elargita dall’alto dal magister, interprete ufficiale della verità, agli studenti.
Città e università Città
Università
secoli XIII-XIV
secoli XII-XIII
• centro della vita sociale, economica e culturale • realtà aperta e dinamica e luogo di scambi
• centro di gestione e trasmissione della cultura • il sapere trasmesso è fondato sul principio di autorità
L’apporto della cultura araba In seguito all’espansione degli Arabi in Europa, la loro cultura si diffonde in particolare in Spagna e in Sicilia, svolgendo un ruolo culturale importantissimo, soprattutto in ambito filosofico-scientifico. L’islam viene fortemente attaccato in campo religioso dall’Occidente medievale, che vede nei musulmani i nemici per eccellenza della fede cristiana, ma la contrapposizione
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a livello ideologico-religioso non impedisce all’Occidente cristiano l’assimilazione di elementi rilevanti sul piano culturale. L’islam raccolse l’eredità del sapere filosofico-scientifico greco. Vennero tradotte in arabo e commentate le opere di Aristotele, ma anche i testi di medicina di Ippocrate, di matematica di Euclide e di astronomia di Tolomeo.
Fissare i concetti Modelli del sapere e tendenze filosofico–scientifiche
I LUOGHI DELLA CULTURA
1. Come si rapportano gli intellettuali cristiani con la cultura pagana? Qual è in merito la posizione di Agostino? 2. Che cosa si intende con auctoritas e auctores? 3. Che cos’è l’enciclopedismo? 4. Come si configura il sapere in ambito medievale? 5. Che cosa vuol dire l’espressione “arti liberali”? Come erano articolate? 6. Che cosa vuol dire il termine “università”? 7. Come è organizzato il sapere universitario?
L’università Il termine “università” In origine il termine “università” indica semplicemente l’insieme, la totalità (è questo il significato del termine latino universitas) dei docenti e degli studenti di una stessa città; in un secondo tempo identifica una vera e propria organizzazione corporativa stabile, integrata nel tessuto sociale della città che la ospita, ma al tempo stesso autonoma e indipendente da ogni forma di potere locale. Tra le prime prestigiose università si possono ricordare quella di Parigi (per la teologia), quella di Bologna (per il diritto), quella di Salerno (per la medicina) e inoltre quelle di Oxford, Tolosa e Coimbra.
L’organizzazione degli studi universitari Ogni università era organizzata in facoltà a seconda dell’indirizzo di studi: Parigi, ad esempio, aveva quattro facoltà di cui tre superiori (diritto canonico, medicina e teologia: quest’ultima durava circa quindici anni e richiedeva come età minima per la laurea i trentacinque anni) e una inferiore (la facoltà di arti liberali, a cui accedevano gli studenti più giovani, che aveva valore propedeutico agli studi superiori e quindi di carattere non specialistico). Il corso di studi prevedeva come oggi lezioni, esami, fino al conseguimento del titolo di studio finale, che consentiva ai neolaureati di insegnare ovunque. Le più importanti università del Medioevo in Europa (fra parentesi la data della fondazione).
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PER APPROFONDIRE
I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti Il maestro universitario, un intellettuale itinerante e internazionale Con il termine maestro (dal lat. magister) noi oggi intendiamo esclusivamente il maestro elementare, oppure usiamo il termine nell’accezione di “figura autorevole”, che si è distinta in modo particolare nel proprio campo. Nel Medioevo il termine designa invece il docente universitario (assai spesso un chierico), una figura che emerge sulla scena della società medievale solo a partire dal XII secolo. I maestri allora si spostavano da un’università a un’altra, potendo contare sulla omogeneità del sapere allora trasmesso e sull’unità linguistica dell’intero mondo universitario: le lezioni si svolgevano infatti unicamente in latino. Gli studenti universitari Le maggiori università, come Parigi o Bologna, arrivavano ad accogliere parecchie migliaia di studenti. Gli studenti medievali, provenienti da varie zone dell’Europa, si spostavano di sede in sede alla ricerca di docenti qualificati: da qui anche la denominazione di clerici vagantes (“chierici vaganti”) e usavano come lingua comune il latino. Molti (ma non tutti) erano chierici, appunto, e la loro estrazione sociale era per lo più agiata. Gli studenti costituivano un gruppo sociale per certi aspetti privilegiato: ad esempio, non erano soggetti alle leggi vigenti nella città e godevano di esenzioni fiscali. Per la città che li ospitava rappresentavano indubbiamente una fonte di guadagno (spendevano notevoli somme per nutrirsi, per i libri, il vestiario, i divertimenti), ma la loro
Studiare con l’immagine SCRITTURA Dopo aver osservato attentamente la miniatura trecentesca di Lorenzo di Volterra che rappresenta una lectio universitaria, rintraccia nell’immagine gli elementi che hai studiato in relazione alla tipologia e al metodo dell’insegnamento universitario.
Un momento di vita universitaria: nello studium bolognese l’erudito Enrico di Alemagna tiene la lectio dall’alta cattedra (miniatura trecentesca di Lorenzo di Volterra).
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presenza comportava anche non pochi oneri per l’amministrazione cittadina, che doveva creare strutture adeguate per rispondere alle loro richieste. Uno dei problemi più gravi era quello degli alloggi (come del resto anche oggi): talvolta gli studenti si sistemavano in camere private, più spesso vivevano in gruppo, così da dividere le spese, in case d’affitto. Le intemperanze degli studenti. I goliardi Le amministrazioni cittadine si trovavano spesso ad affrontare problemi di ordine pubblico creati da una categoria sociale costituita quasi esclusivamente di giovani esuberanti, che assumevano molto spesso atteggiamenti volutamente anarchici e irrispettosi nei confronti delle autorità. Proprio a questi atteggiamenti sembra possa essere ricondotto il termine stesso di goliardi (tuttora in uso) con cui gli studenti universitari sono stati spesso definiti: si tratta di un termine di origine incerta, forse derivato da Golia (il gigante biblico simbolo della voracità e della sensualità); in ogni caso, il termine sembra alludere a forme di comportamento trasgressive della rigida morale ascetica predicata dalla Chiesa. La letteratura goliardica Legata all’ambiente goliardico ed esclusivamente in latino è una particolare produzione letteraria, fondata essenzialmente sulla parodia e sull’irrisione dei potenti e della Chiesa: inni, giuramenti, testi comici, parodie sacre (come la celebre “messa dei bevitori”) e i versi dei cosiddetti Carmina Burana (➜ C5). Di questa particolare letteratura resta traccia nei riti ancora praticati dalla goliardia in alcune sedi universitarie, come Padova o Pavia.
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Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 1 La funzione della letteratura La visione moralistico-pedagogica dell’arte nell’Alto Medioevo Nell’Alto Medioevo la cultura è gestita unicamente dai chierici e perciò l’espressione artistica deve presentare contenuti utili all’educazione morale e religiosa del cristiano. Si tratta di una visione ancora centrale nel capolavoro assoluto della letteratura medievale: la Commedia di Dante. Verso l’affermazione di nuove funzioni della letteratura Nel corso del Basso Medioevo però gli intellettuali non sono più soltanto chierici: la visione del mondo diventa più sfaccettata rispetto al rigorismo etico dei primi secoli. All’arte e alla letteratura non vengono più attribuiti soltanto scopi educativi: ricompare allora il tema dell’amore, emarginato dalla cultura dei chierici, che diventa centrale nella poesia provenzale e, nel corso del Duecento, anche in Italia nella poesia stilnovistica. Si affermano inoltre generi letterari nuovi, come la novella, il cui successo testimonia l’emergere di un’idea di letteratura concepita come intrattenimento piacevole del lettore. Una funzione a cui Boccaccio, con il suo Decameron (metà del Trecento), conferirà altissimo valore letterario.
La poesia come “competenza tecnica” e la codificazione retorica della prosa La poesia è “arte” La poesia è concepita dal Medioevo non come creazione spontanea, ma come utilizzazione consapevole delle tecniche retoriche elaborate dalla cultura classica e poi trasmesse a quella cristiano-medievale.
Parole4 chiave
I manuali di retorica Proprio in rapporto all’idea di poesia come tecnica, tra il XII e il XIII secolo si intensifica la riflessione teorica sulle modalità di far poesia e si diffondono veri e propri manuali di poetica .
arte Il termine arte (dal latino ars “tecnica”) aveva un significato molto diverso dall’accezione odierna. Per tutto il Medioevo l’attività artistica era pensata essenzialmente come una particolare competenza tecnica: nel caso della poesia tale competenza riguardava l’uso accorto degli artifici retorici, nel caso della pittura quello dell’immagine e così via. Nell’ottica medievale il poeta era dunque una sorta di “tecnico della parola”, anche se gli scrittori non facevano poi parte di aggregazioni professionali come gli artigiani, organizzati nelle arti minori, o come gli uomini di legge, i medici e speziali (i farmacisti di quel tempo), a loro volta organizzati nelle arti maggiori sulla base della specifica competenza
tecnica. Il termine arti riguardava persino le attività intellettuali: i campi del sapere erano infatti distinti nelle arti del Trivio e del Quadrivio.
poetica
Il termine poetica indica nell’età classica (e medievale) un trattato che riguardi la letteratura e più specificamente la poesia. Ne sono celebri esempi la Poetica di Aristotele (all’incirca 334 a.C.) e l’Ars [Arte] poetica di Orazio (post 13 a.C.), che eserciteranno una vastissima influenza nei secoli. Oggi con il termine poetica si intende la concezione della letteratura propria di un singolo scrittore, o di un movimento letterario, l’insieme di riflessioni che motivano uno specifico modo di fare poesia.
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La prosa Anche per quanto riguarda la prosa, nella cultura medievale era inconcepibile che si potesse scrivere prescindendo dai modelli della tradizione e senza utilizzare adeguatamente regole e convenzioni della retorica. Per comporre testi in prosa gli scrittori attingevano alle artes dictandi (dal latino dictare, che significa “comporre, redigere un testo”), compendi di norme derivate dalla retorica classica, inizialmente in latino e relative solo a testi in latino. A partire dal XIII secolo le artes dictandi vengono stese in volgare e fanno riferimento anche a testi in volgare. Se persino i letterati ricorrevano alle artes dictandi, tanto più vi attingevano i funzionari delle corti e dei comuni: la vivace attività politica e amministrativa dei comuni richiedeva infatti persone capaci di parlare in modo persuasivo ed elegante e in grado di stendere documenti e lettere che dovevano rappresentare ufficialmente il comune. Il ruolo di Brunetto Latini A Firenze svolge un ruolo assai importante nel diffondere le competenze retoriche Brunetto Latini, che Dante ricorda con riconoscente affetto come suo maestro nel XV canto dell’Inferno. Brunetto Latini (post 12201294), notaio di professione, partecipa attivamente alla vita politica del comune; esiliato per motivi politici, vive in Francia per alcuni anni. Nel periodo dell’esilio scrive in francese un’opera enciclopedica, il Trésor, poi rielaborata e riscritta in versi italiani col titolo di Tesoretto. Ispira la composizione di questa opera una volontà didattico-divulgativa del sapere, online finalizzato alla buona gestione della cosa pubblica. Alla divulD13 Brunetto Latini gazione del sapere retorico sono rivolti il trattato Rettorica e Cos’è la retorica la traduzione in volgare di varie opere retoriche di Cicerone.
2 Il concetto medievale di stile
online D14 Cassiodoro I tre stili
Il principio della congruenza tra stile e materia e i tre stili Il Medioevo eredita dall’antichità classica (Cicerone, Orazio) un principio fondamentale: il registro stilistico e di conseguenza le scelte linguistiche dovevano essere rigorosamente adattate alla materia trattata, cioè ai temi, alla tipologia dei personaggi e all’ambientazione scelti dallo scrittore. Il Medioevo deriva dal mondo classico anche l’idea che tre erano gli stili fondamentali: alto (denominato anche tragico o grave), medio e basso (denominato anche umile o comico). Di fatto però lungo tutto il corso del Medioevo vige soprattutto la contrapposizione tra i due stili estremi. Una visione gerarchica degli argomenti e del modo di esprimerli La distinzione rigorosa degli stili presuppone una gerarchia tra gli argomenti stessi che rispecchia la visione della realtà e la concezione culturale proprie del Medioevo: nell’ottica del tempo, tutto ciò che riguarda la realtà quotidiana e le classi sociali più basse ha una dignità inferiore rispetto a quanto coinvolge la sfera intellettuale o riguarda le classi sociali elevate; dunque anche lo stile deve rispettare questa più generale gerarchia socio-culturale. Gli scrittori sperimentano diversi stili È importante precisare che la scelta dell’uno o dell’altro stile non implica di per sé una presa di posizione ideologica da parte dell’autore. L’adozione dello stile “comico”, ad esempio, non significa affatto che l’autore aderisca al mondo popolare e ai suoi valori, ma indica l’intenzione consapevole di sperimentare un “codice” letterario, magari per competere polemicamente con il
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codice alto (è il caso ad esempio di Cecco Angiolieri ➜ C5). Inoltre alcuni scrittori, pur dedicandosi in prevalenza allo stile alto e tragico, sperimentano saltuariamente anche lo stile basso, comico (Guinizzelli, Cavalcanti). Lo stesso Dante compone una serie di sonetti in stile comico rivolti all’amico Forese Donati (➜ C6 PAG. 354).
Lessico pluristilismo e plurilinguismo Il pluristilismo e il plurilinguismo si definiscono rispettivamente come l’uso di diversi registri stilistici e linguisticoespressivi all’interno di un unico testo.
La contaminazione degli stili nella Commedia Nella Commedia Dante attua una contaminazione dei tre stili. Già le tre cantiche implicano di per sé differenti scelte di fondo: l’Inferno è prevalentemente “comico”; il Paradiso, per l’altezza della materia trattata è prevalentemente “tragico”. Ma anche all’interno di una stessa cantica Dante adotta di fatto il pluristilismo e plurilinguismo , così che non mancano parti in stile tragico nell’Inferno, come non mancano al contrario nel Paradiso vistosi abbassamenti comico-realistici (➜ D15 OL).
Parola chiave
Le verità cristiane e lo stile “umile” Nel corso dell’Alto Medioevo, il principio tradizionale della congruenza tra stile e materia viene sistematicamente violato dagli scrittori cristiani nell’ambito della produzione di carattere religioso. I primi scrittori cristiani si trovarono nella pressante necessità di far comprendere a tutti il messaggio religioso anche nelle sue più complesse implicazioni teologiche, che avrebbero di per sé richiesto, secondo le norme retoriche della tradizione classica, uno stile elevato. Sant’Agostino, uno dei maestri della cultura cristianomedievale, ebbe significativamente a dichiarare: «È meglio che ci rimproverino i grammatici piuttosto che la gente non ci comprenda» (De doctrina crhistiana, XV, 10). Gli scrittori cristiani scelsero dunque di infrangere il principio della congruenza tra materia e stile e adottarono in ogni caso lo stile “basso”: una scelta densa di significato perché metteva in pratica nelle scelte comunicative i principi di uguaglianza predicati dal Vangelo (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE PAG. 69). online Una tendenza, questa, che continua anche nel Basso MedioeD15 Dante Alighieri vo, nell’ambito delle letterature volgari: allo stile alto e raffinato Esempi di “contaminazione” degli stili della lirica (dai provenzali agli stilnovisti) si contrappone infatti Commedia, Purgatorio, XVII, 76-78 e Paradiso, XVII, 124-129 la limpida semplicità del Cantico di frate Sole o, ancor più, lo stile volutamente basso e addirittura plebeo, di straordinaria D16 Sant’Agostino forza espressiva, utilizzato da Jacopone da Todi per la sua apLo stile semplice delle Sacre Scritture passionata testimonianza di fede (➜ C2).
stile Il termine stile deriva dal latino stilus, che indica lo strumento appuntito con cui si scriveva sulle tavolette di cera; ben presto, però, passò a designare metaforicamente il modo di scrivere. Nel Medioevo (e prima ancora nell’antichità classica) il termine “stile” non aveva nulla a che fare con l’accezione moderna, la quale implica, in ambito letterario, l’idea di un modo personale e originale di creare che sia proprio di uno scrittore, seppur all’interno delle tendenze letterarie di una determinata epoca. Nel Medioevo esso comportava, al contrario, l’obbligo per gli scrittori (e in particolare per i poeti) di conformarsi
alle codificazioni retoriche, che riguardavano in particolare i tre “stili”. Il termine viene usato oggi anche per quanto riguarda modi e soluzioni formali che si affermano in determinati momenti storici in ambito architettonico, pittorico, nell’arredamento (ad es. lo “stile impero”) o più recentemente anche nel design e nella moda, con un campo di applicazione amplissimo. Stile è poi parola assai diffusa anche nel linguaggio comune, dove designa un comportamento individuale elegante, raffinato, distinto dal gusto di massa, contrario alla volgarità (ad es. di una persona si può dire che “ha stile”).
Affresco pompeiano (I secolo d.C.) in cui Calliope, la musa della poesia epica, regge in una mano lo stilus e nell’altra una tavoletta di cera.
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PER APPROFONDIRE
La retorica e l’arte di comunicare ieri e oggi La retorica nasce in Grecia La retorica (dal greco rhetoriké téchne, “arte del discorso”, e poi dal latino rhetorica) è l’arte di parlare e scrivere in modo persuasivo. Essa nasce e trova ampio sviluppo e una codificazione nel mondo greco: nel V secolo a.C. ad Atene il vivace dibattito politico, la frequenza dei processi giudiziari, la riflessione filosofica (che implicava la contrapposizione di differenti punti di vista) favoriscono la nascita e lo sviluppo di un’“arte” che insegni a sostenere in modo efficace una tesi, a servirsi con abilità delle parole e del discorso per vincere l’avversario in un processo giudiziario, in uno scontro politico, in un dibattito intellettuale. La retorica nel mondo latino L’“arte del parlare bene” viene in seguito coltivata anche nel mondo latino, dove l’oratoria (specie quella giudiziaria) ha grande peso e ci è stata tramandata soprattutto da Cicerone (I secolo a.C.) in alcuni trattati (Orator, De oratore ecc.) e da Quintiliano (I secolo d.C.); quest’ultimo, nei 10 libri delle sue Institutiones oratoriae, esamina i fondamenti della materia, sintetizzando tutto il dibattito precedente e fissando la distinzione fra tre fondamentali tipologie stilistiche (stile umile, medio, sublime). Insieme alla Rhetorica ad Herennium (un trattatello erroneamente attribuito a Cicerone), l’opera di Quintiliano costituirà un fondamentale punto di riferimento fino al Rinascimento. Le cinque fasi del discorso Nell’elaborazione di un discorso i trattati di retorica distinguevano cinque fasi: l’inventio, la dispositio, l’elocutio, la memoria e l’actio. • L’inventio (letteralmente “rinvenimento”) corrisponde alla ricerca degli argomenti da utilizzare nel discorso. • La dispositio (“disposizione”) è la fase in cui gli argomenti scelti vengono organizzati in una successione che abbia una particolare efficacia persuasiva. • L’elocutio (“eloquio”) è la fase in cui l’oratore dà forma linguistica ai concetti precedentemente scelti e ordinati e li “orna” – come dicevano gli antichi – ovvero li arricchisce stilisticamente mediante il ricorso alle figure retoriche: ciò non solo per rendere più personale e originale il discorso ma anche per produrre particolari effetti sull’ascoltatore o il lettore, inducendolo a commuoversi, o a indignarsi e così via. • La memoria è la fase in cui l’oratore utilizza tecniche specifiche per memorizzare il discorso (è quella che ancora oggi viene chiamata “mnemotecnica”). • Infine l’actio (“azione”) è la fase della presentazione in pubblico del discorso, nella quale l’oratore deve saper accortamente utilizzare il tono della voce, la gestualità con cui sottolineare il suo discorso e gli altri elementi connessi all’esecuzione orale di composizioni scritte. È ancora attuale la retorica? Al di là delle classificazioni teoriche, l’impiego degli strumenti retorici è ancora oggi vitale in vari ambiti. Innanzitutto si può constatare che il dibattito forense (gli interventi dell’accusa e della difesa in qualsiasi processo) ricalca ancora le orme dell’oratoria ciceroniana; inoltre la necessità di parlare in pubblico, nelle più varie occasioni della vita politica e democratica, e
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soprattutto in rapporto alla diffusione e amplificazione mediatica del confronto politico, rendono sempre più attuali le vecchie regole che insegnano come essere persuasivi. Persino un genere come quello epidittico (che nella retorica classica riguardava la lode di personaggi potenti e che sembrerebbe totalmente caduto in disuso) ha trovato un nuovo rigoglio in una versione piuttosto particolare, cioè nel discorso pubblicitario, rivolto a tessere le lodi di un certo prodotto, col fine di persuadere circa la sua bontà. In tal caso, fondamentale deve essere la brevità dei mezzi impiegati, dato che il discorso pubblicitario non è richiesto dal pubblico, ma si insinua nei tempi e negli spazi morti, relegato a zone quasi subliminali. Retorica e comunicazione Nelle recenti fortune della retorica anche l’actio (la parte della retorica che insegnava come presentare un discorso in pubblico) ha un peso non irrilevante; l’importanza della gestualità e della mimica facciale ai fini della ricezione positiva di un messaggio trasmesso è oggi ben nota e coinvolge innanzitutto i personaggi con responsabilità pubbliche: grazie ai moderni mezzi di comunicazione, infatti, l’audience di un discorso orale può raggiungere in tempo reale milioni di ascoltatori. Non c’è azienda medio-grande, ormai, che non organizzi per il suo personale corsi mirati a ottimizzare – attraverso la conoscenza di opportune strategie retoriche – il modo di comunicare in pubblico: questa attività è sempre più concepita come una sorta di performance globale, che dunque necessita di essere curata anche negli aspetti non verbali (come attraverso lo studio della cinesica, disciplina che approfondisce lo studio dei movimenti del corpo, o della prossemica, che invece si interessa agli spazi e alle distanze che si interpongono tra gli interlocutori). In connessione all’actio, è tornata recentemente di moda anche la memoria (parte della retorica che si occupava delle tecniche per memorizzare il discorso prima di pronunciarlo) e si diffondono i manuali dedicati alla mnemotecnica: moltiplicandosi le occasioni di dover parlare in pubblico – anche solo di fronte a un’assemblea aziendale – si cerca di riapprendere l’arte, coltivata dagli antichi oratori, di ricordare la “scaletta” degli argomenti, l’ordine con cui li intendiamo esporre, ma in primo luogo le informazioni da trasmettere, la cui dimenticanza provocherebbe inevitabilmente una rovinosa perdita d’immagine.
Sant’Agostino in un affresco del VII secolo in San Giovanni in Laterano a Roma. Un lungo periodo della vita di Agostino fu dedicato alla retorica: la studiò a Cartagine e la insegnò a Cartagine, Roma e Milano.
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Erich Auerbach La lezione del Vangelo e lo stile umile Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale [1956], vol. I, Einaudi, Torino 1969, pp. 81-82
Nella sua opera più celebre, Mimesis (1946) – una vasta indagine, condotta attraverso una lettura eminentemente stilistica, sul realismo nella letteratura occidentale dalla Bibbia all’età contemporanea – il critico tedesco Erich Auerbach (1892-1957) si sofferma sulla diffusa tendenza degli scrittori cristiani a infrangere il principio retorico classico della separazione degli stili e ad adottare lo stile basso (sermo humilis). Le radici di questa scelta, appassionatamente difesa e fatta propria da sant’Agostino (➜ D16 OL), stanno nello “scandalo” stesso del cristianesimo, nella predicazione di Cristo rivolta prima di tutto agli umili e ai diseredati e nel mistero della Passione di Cristo, Dio e uomo, sulla croce.
Il vero fulcro della dottrina cristiana, l’Incarnazione e la Passione, fu del tutto inconciliabile col principio della separazione degli stili. Cristo era tutt’altro che un eroe o un re, era invece un uomo uscito dall’infimo gradino sociale, i suoi primi discepoli erano stati pescatori e artigiani, egli si muoveva entro la vita ordinaria 5 del popolino palestinese, parlava con pubblicani e con prostitute, con poveri, con ammalati, con fanciulli, e tuttavia ogni suo atto e ogni sua parola erano di somma dignità e più importanti di qualsiasi altra cosa che mai accadesse; nello stile in cui tutto ciò veniva raccontato non entrava la pur minima sapienza oratoria nel senso antico, esso era sermo piscatorius [linguaggio dei pescatori] e ciò nonostante oltre10 modo commovente e più efficace che la più sublime opera d’arte retorico-tragica; e più di tutto commovente era in quei racconti la Passione. Il re dei re, beffeggiato, sputacchiato, flagellato e inchiodato sulla croce come un volgare delinquente; oh, il racconto di queste cose, non appena penetra nel cuore degli uomini, annienta completamente l’estetica della separazione degli stili, pro15 duce un nuovo stile sublime, che non disdegna affatto il quotidiano e accoglie in sé il realismo sensibile, la bruttezza, l’indecenza, la miseria fisica; oppure, se si preferisce esprimersi inversamente, nasce un nuovo sermo humilis, uno stile basso, quale propriamente potrebbe usarsi soltanto nella commedia e nella satira, ma però ora conquista il sublime e l’eterno molto al di là dei suoi limiti originari [...]. 20 Sant’Agostino era dentro al mondo classico-retorico non meno che a quello giudaico-cristiano e forse per primo si è reso consapevole del problema dell’opposizione stilistica dei due mondi e l’ha formulato in modo efficacissimo nello scritto De doctrina christiana (4, 18).
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Perché secondo Auerbach il racconto evangelico della Passione contrasta con la dottrina classica della separazione degli stili? 2. Quali sono, secondo Auerbach, gli elementi che caratterizzano il «nuovo sermo humilis»? 3. Prova ora a formulare, con parole tue, la tesi sostenuta da Auerbach.
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3 Il metodo allegorico L’interpretazione allegorica: dalle Sacre Scritture ai testi letterari pagani Fin dai primi tempi della civiltà cristiana ci si era resi conto che il linguaggio e le immagini usati nella Bibbia avevano carattere allegorico: non andavano cioè presi alla lettera (il termine allegoría viene dal greco, da állon “altro” + agoréuo “parlo, dico”, letteralmente “dire altro”, “parlare d’altro”), ma dovevano essere decifrati, per comprenderne il reale significato, attraverso una particolare esegesi, ovvero un’interpretazione del testo. Il metodo di lettura allegorico delle Sacre Scritture fu presto esteso e venne impiegato per leggere in una prospettiva morale e religiosa le parole dei poeti antichi. In questo modo i testi della cultura pagana, reinterpretati in chiave cristiana, poterono essere immessi nel patrimonio culturale medievale (➜ PAG. 57).
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L’allegorismo: un’ottica centrale nella cultura medievale L’allegoria non è però solo un metodo per interpretare i testi antichi, ma riguarda anche la composizione di testi nuovi: si tratta di un metodo così praticato all’epoca che l’allegorismo si può considerare una delle componenti fondamentali della cultura medievale. L’allegoria costituiva l’applicazione, nell’ambito artistico-letterario, di una più generale visione del mondo di tipo simbolico, per cui tutto ciò che esiste in natura, nel mondo sensibile, reca i “segni” del divino e rimanda alla realtà soprannaturale (➜ PAG. 40).
allegoria Interpretazione allegorica e dimensione simbolica convivono nel Medioevo, pertanto distinguere tra simbolismo e allegoria non è sempre facile. Mentre la lettura simbolica è una più generale visione del mondo, l’allegoria (dal greco állon “altro” + agoréuo “parlo, dico”, letteralmente “dire altro”) appartiene all’ambito delle figure retoriche. Il significato di una allegoria non coincide con quello letterale e richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo. Di conseguenza chi legge dovrà scoprire nel testo tale significato. Proprio in quanto procedimento razionale l’allegoria spesso non riguarda una sola immagine, ma può articolarsi in un’intera sequenza (come l’incontro di Dante pellegrino con le tre fiere all’inizio del viaggio ultraterreno) o addirittura in un’intera narrazione: il viaggio di Dante nella Commedia è appunto allegoria dell’itinerario dell’anima dalla perdizione alla salvezza.
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1 Giotto ritrae una figura femminile dalla cui bocca esce un serpente, simbolo di malignità, che le si ritorce contro colpendola agli occhi. 2 Nella mano stringe un sacchetto,
simbolo di avarizia. Le fiamme che la avvolgono simboleggiano sia l’inferno (cui gli invidiosi sono destinati) sia il bruciante desiderio delle cose altrui.
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L’Allegoria dell’invidia, dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1306 circa).
Il simbolismo e l’allegoria Nel Medioevo la dimensione simbolica coesiste con la scrittura e l’interpretazione allegorica e non sempre è facile distinguere simbolismo e allegoria. Il termine allegoria appartiene all’ambito dei procedimenti retorici: un’allegoria è un discorso il cui significato non coincide con quello letterale. La principale differenza tra simbolo e allegoria è che, mentre la lettura simbolica (per lo meno nel Medioevo) è parte di una più generale visione del mondo, l’allegoria è sempre frutto di un procedimento intenzionale e razionale, che comporta la volontà in chi scrive di alludere a una verità (morale e religiosa nel caso del Medioevo) diversa dal semplice piano letterale (di conseguenza, analogamente, chi legge dovrà applicarsi a scoprire nel testo tale verità). I quattro sensi delle scritture Fin dall’Alto Medioevo si diffonde l’abitudine di rintracciare quattro livelli di senso nelle scritture, sia letterarie sia appartenenti al mondo cristiano. Come afferma Dante nell’opera intitolata Convivio ogni testo si può interpretare secondo quattro livelli o sensi di lettura:
Livello letterale
Riguarda il significato immediatamente comprensibile: letterale, appunto.
Livello allegorico
Riguarda il senso nascosto dietro quello letterale, ma a cui il letterale rimanda.
Livello morale
Dai fatti narrati si intende ricavare un modello di comportamento.
Livello anagogico
I significati del testo fanno riferimento alle verità divine.
L’interpretazione figurale: un particolare tipo di lettura allegorica Una particolare interpretazione allegorica è quella che viene chiamata figurale, che ha anch’essa il suo primo campo di applicazione nell’interpretazione delle Sacre Scritture. Secondo tale lettura, le profezie (nel senso etimologico greco del termine, che significa “annunciare in anticipo, parlare prima”) del Vecchio Testamento sono realizzate dal Nuovo Testamento, che porta a compimento ciò che è prefigurato nel Vecchio Testamento. In altre parole Cristo “adempie” ciò che eventi e personaggi biblici, come Mosè o Isacco, avevano prefigurato. Guidando Israele fuori dall’Egitto verso la Terra Promessa e liberandolo dalla schiavitù, Mosè prefigura Cristo che libera l’umanità dal peccato. Allo stesso modo Isacco, promesso in sacrificio da Abramo, prefigura il sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità. Nella visione cristiano-medievale la storia dell’umanità è guidata in ogni sua manifestazione dal progetto di Dio e, proprio per questo, eventi anche lontanissimi tra di loro sono collegati da un disegno provvidenziale che l’uomo può solo tentare di spiegare. «Allegoria dei teologi»/«allegoria dei poeti» Nell’allegoria figurale (definita da Dante «allegoria dei teologi») i due termini cui si fa riferimento sono entrambi già di per sé veri, anche se gli eventi narrati sono comunque portatori di un superiore significato. Solo le Sacre Scritture, dunque, sono completamente vere. Al contrario, in quella che Dante definisce «allegoria dei poeti» il senso letterale è fittizio, una veste esteriore che rimanda di necessità al significato allegorico, il quale costituisce l’unico piano di verità. Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 3 71
4 Forme e generi della letteratura nell’Alto e nel Basso Medioevo La produzione didattico-edificante Nell’Alto Medioevo i testi, opera di figure della Chiesa, sono permeati dalla dimensione religiosa e si propongono un fine di educazione morale più che intenti letterari. In alcune tipologie testuali, anche appartenenti al Basso Medioevo, questi due aspetti sono preminenti. • L’agiografia ovvero il racconto delle vite dei santi: narrazioni biografiche molto
conosciute anche a livello popolare attraverso le prediche, in cui domina il clima leggendario. • L’exemplum: un racconto di vicende esemplari da cui ricavare insegnamenti morali. I predicatori attingevano a questi esempi durante le prediche per renderle più efficaci. • Le “visioni” dell’aldilà: illustravano con vivaci particolari la terribile realtà dell’inferno che attende i peccatori e le delizie del paradiso con lo scopo di indurre i credenti a una vita virtuosa. Nel genere del viaggio oltremondano si iscrive anche la Commedia di Dante. • I bestiari e i lapidari: trattati illustrati in cui si attribuivano significati simbolici e morali agli animali, a volte del tutto fantastici e alle pietre. Queste opere sono espressione di una visione simbolica del mondo e della natura. • I trattati enciclopedici: testi filosofici e teologici in latino, destinati ai dotti. Sono spesso strutturati nella forma delle summae, grandiose sintesi enciclopediche del sapere. L’esempio più importante è la Summa Theologiae del filosofo Tommaso d’Aquino. I generi della cultura cortese In Francia e Provenza, nell’ambito di una società di tipo feudale, fiorisce la cultura cortese, i cui ideali e temi sono trasmessi alle letterature europee (compresa quella italiana) attraverso tre forme letterarie. • L’epica delle chansons de geste: poemi in lingua d’oïl, che trasfigurano epica-
mente le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini. La più celebre è la Chanson de Roland (sec. XII), incentrata sulla figura del paladino Orlando e sulla sua morte eroica per difendere la cristianità.
I sette peccati capitali in una miniatura del 1380 ca. tratta da un manoscritto del Roman de la Rose (British Library, Londra). Da sinistra: Superbia, Accidia, Lussuria, Invidia, Avarizia, Ira, Gola.
72 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
• Il romanzo cortese-cavalleresco: in lingua d’oïl, ha come soggetto principale
la formazione dei cavalieri della corte bretone del leggendario re Artù attraverso l’avventura e l’esperienza nobilitante dell’amore (seconda metà del secolo XII). • La poesia provenzale: in lingua d’oc, getta le basi di una raffinata tradizione lirica. Centro tematico è l’amore cortese verso una donna irraggiungibile, a cui il poeta (il trovatore, autore anche delle musiche che accompagnavano i testi) rivolge una sorta di omaggio feudale (secoli XII-XIII). La letteratura religiosa Nel XIII secolo emerge in Italia, in particolar modo nella zona umbra, una letteratura che ha al centro il tema religioso. È in questo ambito che nascono: • le laude testi religiosi cantati dai fedeli durante le processioni, sono legate alla devozione popolare e allo sviluppo delle confraternite religiose, in particolare in Umbria; • Il Cantico di frate Sole di san Francesco (1181-1226) un testo in volgare umbro concepito come una lode a Dio per tutto ciò che ha creato; • le laude di Jacopone da Todi. Il suo testo più celebre è la lauda “drammatica” Donna de Paradiso. La prosa in volgare La prosa in volgare nasce e si sviluppa dopo la poesia in volgare. Una vera produzione in prosa nasce soltanto nella seconda metà del Duecento. Le prime opere in prosa volgare sono di tre tipi: • le narrazioni storiche che raccontano le vicende politiche dei Comuni: i principali autori sono Dino Compagni e Giovanni Villani; • i libri di viaggio scritti dai mercanti che tracciano nuove rotte per i commerci ed esplorano terre lontane. Ha rilievo un celebre libro, Il Milione di Marco Polo, un mercante veneziano, che racconta il viaggio compiuto verso l’Estremo Oriente. Il suo interesse è offrire informazioni di carattere cultural-antropologico; • le novelle collegate alla vivace realtà dei comuni italiani, al diffondersi di una visione laica della vita e di un’idea della letteratura svincolata da funzioni educative e indirizzata invece al divertimento, si tratta di un genere narrativo; che avrà larga fortuna tra Duecento e Cinquecento. Primo esempio è la raccolta nota come Novellino. Giovanni Boccaccio con l’autorevolezza del suo Decameron, una La Grammatica insegna a leggere a un giovane scolaro, part. da un affresco di Gentile da Fabriano (Palazzo Trinci a Foligno, 1411-1412).
Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 3 73
raccolta di 100 novelle organizzata in 10 giornate, conferisce al genere novellistico grande valore artistico e una precisa identità, che rimarrà stabile per lungo tempo. La lirica in Italia I modi e i temi della poesia provenzale si diffondono in Europa e anche in Italia: è in particolare in Sicilia che si afferma l’eredità della poesia trobadorica. Da qui il testimone poetico passa alla Toscana dove, fra Due e Trecento, si hanno gli esiti più alti della lirica in volgare italiano. La scuola siciliana L’eredità della lirica provenzale è raccolta in Italia dalla cosiddetta scuola siciliana (prima metà del sec. XIII) sviluppatasi alla corte di Federico II a opera di funzionari della corte, che idealizzano ancor più la figura femminile e danno spazio all’indagine sulla natura dell’amore. I poeti siculo-toscani Riprendono il tema dell’amore affiancandolo a temi morali e politici ispirati alla realtà dei comuni toscani, come nella poesia di Guittone d’Arezzo, intellettuale politicamente impegnato nella sua città. Lo Stilnovo Capostipite del gruppo di poeti toscani denominato “stilnovo” (Guido Cavalcanti, Dante, Cino da Pistoia) è il bolognese Guido Guinizzelli. Con lo Stilnovo (ultimi due decenni del Duecento) la lirica italiana raggiunge un alto livello di perfezione formale. Tema esclusivo è l’amore, considerato dai più strumento di elevazione morale che può essere provato solo da chi è dotato di vera nobiltà d’animo. Il vertice di questa esperienza è rappresentato dalla produzione lirica di Dante, parzialmente raccolta nella giovanile operetta Vita nuova. Il Canzoniere di Petrarca Il capolavoro della lirica medievale e uno dei testi chiave nel canone dei classici italiani è il Canzoniere di Francesco Petrarca. La poesia comico-realista La poesia comico-realista si contrappone all’esperienza raffinata e stilisticamente alta della linea siciliano-stilnovista richiamandosi ai modi della poesia goliardica. Alla visione sublimante dell’amore e alle astrazioni intellettualistiche della lirica stilnovista alcuni poeti dell’area toscana (il più noto è Cecco Angiolieri) oppongono temi e modi poetici che si richiamano alla quotidianità e materialità e utilizzano un linguaggio espressivo, ricco di termini dialettali.
Fissare i concetti Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo 1. Quale funzione ha la letteratura nell’Alto Medioevo? Come cambia la sua funzione nel Basso Medioevo? 2. Come è concepita la poesia nel Medioevo? E la prosa? 3. Quanti sono e quali sono gli stili? 4. Perché sin dall’antichità si sviluppa una distinzione tra livelli stilistici? 5. Per quali motivi il cristianesimo sovverte l’idea di gerarchia stilistica? 6. Che cos’è il metodo di lettura allegorico? 7. Qual è la differenza tra simbolo e allegoria? 8. Che cosa si intende con interpretazione figurale? 9. Quali sono le tre forme letterarie della cultura cortese? 10. Quali sono i generi trattati nella prosa in volgare del Duecento?
74 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
4
L’evoluzione della lingua 1 Dal latino al volgare Una trasformazione lunga e complessa I primi testi letterari in volgare (cioè non in latino) si collocano nella prima metà del XIII secolo: in questo periodo vengono prodotti il Cantico di frate Sole di san Francesco d’Assisi, scritto nel 1224 circa, e soprattutto la poesia amorosa che fiorisce alla corte di Federico II entro il 1250. Questi testi sono l’esito finale di un lungo e complesso processo di trasformazione che dura per tutto l’Alto Medioevo e in cui si verifica la graduale emancipazione del volgare italiano dalla matrice latina: innanzitutto come lingua parlata, successivamente come lingua scritta d’uso pratico e infine come lingua letteraria. Oltre ai vari idiomi presenti nella penisola italiana, questo processo riguarda anche le altre lingue neolatine, cioè le lingue derivate dal latino, la lingua di Roma che si era imposta in tutta l’Italia e nel resto dell’Impero. Dall’unità linguistica alla differenziazione dei volgari Finché la struttura dell’Impero romano rimase salda e si mantenne l’unità politica, le sue diverse province, collegate dagli scambi commerciali e da un capillare apparato burocratico, comunicavano grazie al latino scritto (che rimase abbastanza stabile nel tempo) e, nella comunicazione quotidiana, attraverso il latino parlato: la base latina comune ai vari idiomi era infatti abbastanza riconoscibile, nonostante le differenze locali, così da consentire la comunicazione in quasi tutto il territorio. A partire però dal III secolo d.C., in seguito alla grave crisi politica ed economica che investe l’Impero romano, la forza accentratrice di Roma imperiale comincia a venir meno e gli elementi linguistici locali (a livello fonetico, morfosintattico e lessicale) finiscono per prevalere sul comune ceppo latino. L’ondata delle invasioni barbariche del V secolo dà il colpo di grazia all’unità linguistica: la vita culturale nelle città si spegne e si fanno sempre più rare le occasioni di usare la lingua scritta.
Le lingue neolatine Lingue neolatine tutte le lingue che derivano dal latino e in qualche modo lo rinnovano (da qui il prefisso neo-)
• italiano • francese • provenzale • castigliano (spagnolo) • catalano
• rumeno • sardo • ladino • portoghese • dalmatico (ora estinto)
Lingue romanze sinonimo di lingue “neolatine”
L’aggettivo romanze fa riferimento alla Romània, l’area geografica dell’Impero romano in cui si usava la lingua di Roma e in cui si verifica il passaggio dal latino alle lingue da esso derivate.
Lingue volgari o volgari altro sinonimo di lingue neolatine
Si parla di lingue volgari o di volgari quando emergono lingue romanze in cui è evidente la loro derivazione dal latino volgare (sermo vulgaris), quello cioè parlato dal popolo (vulgus).
L’evoluzione della lingua 4 75
I vari volgari si differenziano quindi sempre più non solo dal latino scritto ma anche tra di loro e assumono quelle specifiche caratteristiche che rendono l’italiano una lingua diversa, ad esempio, dal francese, pur essendo entrambe lingue derivate dal medesimo idioma. La consapevolezza dell’esistenza dei volgari Ma quando nasce la consapevolezza che il volgare è una lingua “diversa” dal latino? Gli storici della lingua considerano al proposito significativi due eventi, entrambi della prima metà del IX secolo. • Il concilio di Tours (813). Promosso da Carlo Magno, il concilio stabilisce che i
vescovi debbano “tradurre” (è significativo che il documento usi proprio questo verbo, il latino transferre) le prediche in volgare (in rusticam Romanam linguam) o in tedesco, perché tutti i fedeli possano capirle. Il documento testimonia la consapevolezza di una frattura ormai irrecuperabile fra il latino, avviato a diventare la lingua della Chiesa (incomprensibile ai più), e la lingua volgare parlata. Testimonia inoltre la consapevolezza che esistevano ormai lingue diverse anche in territori tra loro vicini (il tedesco e la rustica Romana lingua) e la necessità che i religiosi adattassero le prediche a tale realtà linguistica. • Il giuramento di Strasburgo (842). I successori di Carlo Magno – Carlo il Calvo,
sovrano della parte occidentale dell’impero, e Ludovico il Germanico, sovrano della parte orientale – alla presenza dei loro soldati, formulano un giuramento che sancisce un’alleanza politica tra i due sovrani. Carlo giura in francese e Ludovico in tedesco, per farsi capire dai rispettivi eserciti, ma poi giurano anche scambiandosi la lingua (per testimoniare espressamente ai soldati il loro reciproco impegno). Il giuramento testimonia con chiarezza che il latino è ormai diventato una lingua lontana e incomprensibile e si ritiene di non impiegarlo nemmeno in una cerimonia ufficiale importante come questa, affidata invece alle lingue volgari.
PER APPROFONDIRE
Le prime testimonianze del volgare scritto in Italia In Italia il riconoscimento dell’autosufficienza del volgare rispetto al latino si verifica molto più tardi rispetto agli altri paesi della Romània. Queste testimonianze in particolare lo documentano.
L’apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano Nella trasformazione del latino nelle lingue romanze hanno notevole importanza, in particolare a livello lessicale, anche gli influssi apportati dalle lingue dei conquistatori, cioè dei popoli che si succedettero nei territori di quello che era stato l’Impero romano; questi influssi vengono definiti dai linguisti superstrato. Particolarmente rilevante per il volgare italiano di questi secoli fu l’influenza di due ceppi linguistici: quello germanico e quello arabo. L’influsso germanico ha inizio ai tempi del tardo impero, con l’entrata dei primi gruppi di barbari nell’esercito romano e si accentuerà con l’invasione dei goti di Teodorico e più tardi con il regno dei longobardi. Dall’area linguistica germanica l’italiano trae molteplici termini, in particolare afferenti all’area semantica della guerra (come appunto proprio il termine guerra, dal germanico
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werra, oppure elmo o strale), termini come panca, stamberga, o il termine geografico Lombardia (da Longobardia). Dai franchi, che estesero a parte dell’Italia il sistema feudale, l’italiano deriva parole che hanno appunto a che fare con tale struttura, come feudo, barone, vassallo, marca, ma anche termini militari (schiera, dardo, gonfalone). L’influsso arabo inizia molto più tardi, nell’VIII secolo, sia in seguito alla conquista della Sicilia e della Sardegna da parte degli Arabi, sia attraverso i rapporti commerciali che le repubbliche marinare attivarono con gli Arabi. A livello linguistico l’influenza araba è particolarmente evidente nelle aree semantiche afferenti al commercio (dogana, tariffa, magazzino, arsenale), ai campi della matematica (algebra, zero, cifra), o dell’astronomia (zenith, nadir, astrolabio), ma non pochi apporti arabi interessano anche il campo dell’agricoltura (da arancio a carciofo a zucchero).
• L’indovinello veronese. Il celebre indovinello (➜ D17a) rappresenta la più antica
testimonianza scritta in volgare in Italia: è databile tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, e da qui deriva la sua importanza storica. Fu scoperto in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona contenente testi liturgici. Inserito a margine di una pagina del codice, il testo consiste in un indovinello riguardante l’attività dell’amanuense. È opera sicuramente di un autore colto, probabilmente un copista che si è divertito a rappresentare la sua stessa attività sotto forma, appunto, di un indovinello basato sull’analogia tra il lavoro dell’amanuense e quello dell’aratore. • Il Placito di Capua (960 ca). L’uso scritto del volgare è testimoniato anche nell’am-
bito giuridico-notarile: è il caso del Placito di Capua (➜ D17b), un documento giuridico successivo di circa un cinquantennio rispetto all’indovinello veronese e che fa riferimento a una causa relativa alla contestazione del possesso di una proprietà terriera. Il documento è in latino, ma include la citazione delle parole di un testimone che si esprime in volgare. È significativo che il giudice abbia ritenuto legittimo e importante inserire in un documento legale una testimonianza diretta in lingua volgare, riconoscendone implicitamente l’autonomia rispetto al latino. • L’iscrizione di San Clemente. Un altro testo interessante riguarda un’iscrizione
presente nella basilica di San Clemente a Roma databile intorno alla fine dell’XI secolo. È bilingue, parte in volgare e parte in latino, e visualizza un episodio della vita del santo: immagini e parole infatti si trovano affiancate come avviene nei moderni fumetti. Un pagano, Sisinnio, convinto che Clemente gli abbia fatto un grave affronto, ordina ai suoi servi di condurlo al martirio. Ma il santo (le cui parole sono nell’iscrizione in latino) compie un miracolo: anziché lui, i servi trasportano una colonna di marmo. Ciò scatena la colorita protesta di Sisinnio, espressa in volgare popolare: «Fili de le pute, traite» (“Figli di puttana, tirate”). Nel passaggio dal latino al volgare italiano si verificano trasformazioni a diversi livelli Il passaggio dal latino al volgare italiano comporta molte trasformazioni, sul piano morfosintattico e lessicale. Ne ricordiamo alcune tra le più importanti. • La scomparsa delle declinazioni e la sostituzione delle preposizioni di e a per esprimere le funzioni logiche corrispondenti al genitivo e dativo latini. • La scomparsa del genere neutro, assorbito nel maschile. • L’introduzione degli articoli. • La scomparsa dei verbi deponenti. • La sostituzione della coniugazione passiva con l’uso dell’ausiliare essere. • Nel lessico, proprio per l’influenza del parlato, prevale una maggiore concretezza, irrompono numerosi neologismi e molti termini subiscono un mutamento di significato, anche in rapporto all’influenza della predicazione cristiana, e assumono una specifica valenza morale. Può servire d’esempio il cambiamento di significato che si verifica dal latino fides (“fedeltà alla parola data”) al volgare fede (credenza in Dio).
Affresco con iscrizioni della fine del secolo XI nella basilica sotterranea di San Clemente a Roma.
L’evoluzione della lingua 4 77
Primi documenti del volgare in Italia D17a L’indovinello veronese S. Gensini, Elementi di storia linguistica italiana, Minerva Italica, Bergamo 1983
Il celebre indovinello (risale probabilmente alla fine dell’VIII secolo o all’inizio del IX) è un testo che contamina latino e volgare.
Se pareba boves, alba pratalia araba, (et) albo versorio teneba; (et) negro semen seminaba.
Spingeva avanti i buoi (le dita dello scrivano) arava bianchi prati (i fogli di pergamena) teneva un bianco aratro (una penna d’oca) seminava un nero seme (l’inchiostro).
ratias tibi agimus omnipotens G sempiterne Deus.
Ti rendiamo grazie, o Dio onnipotente ed eterno.
Concetti chiave Tra latino e volgare
Il breve testo rappresenta l’atto della scrittura e gli elementi materiali che consentono di realizzarla: i fogli di pergamena, la penna d’oca, l’inchiostro. Sotto il profilo linguistico si può notare la presenza di termini latini (i sostantivi boves, semen, l’aggettivo neutro plurale alba) accanto a forme che testimoniano la trasformazione in atto verso i volgari: in particolare si nota la caduta della desinenza -t nei verbi all’imperfetto (pareba, araba, teneba, seminaba; ma d’altra parte si mantiene la -b- dell’imperfetto latino, non ancora passata alla -v- dell’imperfetto volgare), la trasformazione da nigrum a negro, forma intermedia tra il latino e l’attuale nero, con caduta della desinenza del caso accusativo e passaggio vocalico da -i- a -e-. Un volgarismo lessicale è il termine femminile pratalia “campo, prato” al posto del latino agrum “campo”, da ager (Prataglia – o Praglia e forme analoghe – sono toponimi ancora esistenti). Rimane in latino e non fa del resto parte dell’indovinello la formula di ringraziamento a Dio che chiude il breve testo.
D17b S. Gensini, Elementi di storia linguistica italiana, Minerva Italica, Bergamo 1983
Il Placito di Capua Il termine medievale placito deriva dal latino e significa “sentenza”. Il testo che segue fa parte di un antichissimo testo giuridico, il Placito di Capua, che risale al 960.
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trenta anni li ha avuti in possesso il monastero di san Benedetto.
Concetti chiave Un uso pratico del volgare
Questo testo in volgare è parte integrante di un documento in latino e ha uno scopo pratico di natura giuridica. Colui che parla si esprime nella propria lingua e il notaio decide di riportarne la testimonianza nella lingua originale. L’occasione della sentenza è una controversia che oppone un certo Rodelgrimo di Aquino e l’abate del monastero benedettino di Montecassino a proposito di terreni, che Rodelgrimo sostiene di aver ereditato. L’abate del monastero produce però tre testimoni a suo favore. Il giudice emette la sentenza, includendo nel testo latino una formula in volgare pronunciata ad alta voce da tutti e tre i testimoni. Nel testo resta qualche latinismo come il genitivo latino Sancti Benedicti e la costruzione con pars (“parte”).
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è la finalità dell’autore dell’indovinello? STILE 2. Dal punto di vista linguistico che cosa risulta evidente nell’indovinello? 3. Quali differenze nell’analisi della lingua utilizzata si possono rilevare tra l’indovinello e il Placito?
Interpretare
SCRITTURA 4. Spiega perché in un atto giuridico (che è un documento redatto esclusivamente in latino), compaia una testimonianza in volgare (max 5 righe).
2 Da un panorama variegato alla preminenza del toscano Un universo linguistico sfaccettato Nel corso del XII secolo in varie zone d’Italia comincia a diffondersi l’uso del volgare scritto, innanzitutto in ambito notarile; occorrerà però molto tempo perché il volgare sia usato come lingua letteraria (prima metà del sec. XIII). Anche allora però non si può parlare veramente di “volgare italiano”: la frammentazione politica della penisola non consente infatti in Italia l’esistenza di un unico volgare, ma una pluralità di volgari. All’inizio del Trecento Dante identifica nella penisola la presenza di ben quattordici varietà linguistiche. online
Per approfondire “Italia”, “italiani”: un mito linguisticoletterario
L’affermazione del toscano e la marginalizzazione culturale degli altri idiomi in Italia Una lingua unitaria nascerà in Italia non come lingua della comunicazione ma soltanto nell’ambito letterario: questa lingua coinciderà di fatto con il toscano, specie dell’area fiorentina, che si afferma sugli altri volgari grazie al prestigio di tre grandissimi autori del Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio, che scrivono appunto in toscano.La supremazia del toscano fu favorita anche dalla centralità della Toscana nel territorio italiano e soprattutto dal primato economico di Firenze sugli altri comuni italiani. Le conseguenze dell’egemonia del toscano come lingua letteraria e più in generale come lingua scritta comportò conseguenze storiche molto rilevanti: innanzitutto si verificò una frattura tra lingua parlata nelle varie zone d’Italia e lingua scritta, ma anche la separazione tra una produzione culturale egemone e le multiformi culture regionali, di fatto condannate a una sostanziale subalternità. Nel corso del tempo esse si faranno portavoce di aree tematiche e di registri espressivi ignorati dalla letteratura ufficiale. La superiorità del toscano letterario verrà sancita ufficialmente nel 1525 dalle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo: è solo da questa data che si può in un certo senso parlare di “italiano”, ma bisogna sempre ricordare che l’“italiano” è nato dalla letteratura, dal mondo degli intellettuali, non dalla viva realtà di una nazione.La
3 La sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari La lingua della Chiesa, del diritto, della politica e dell’università Mentre i volgari romanzi si affermano lentamente anche come lingue scritte, il latino continua la sua vita secolare. Il latino è innanzitutto la lingua della Chiesa; del resto, fino all’affermarsi della società comunale – cioè fino alla fine del Duecento – coloro che usano la lingua scritta, gli intellettuali, sono esclusivamente chierici, cioè ec-
L’evoluzione della lingua 4 79
clesiastici. Ma anche ben oltre questi limiti cronologici la lingua del diritto, dell’alta politica, della diplomazia ma soprattutto della cultura universitaria resta il latino. Il latino rimane inoltre per secoli la lingua ufficiale della scienza e della filosofia: scrivono in latino ancora nel Cinquecento l’astronomo Copernico, nel Seicento il filosofo Spinoza, nel Settecento Leibniz e Kant.
Lessico encicliche Le encicliche sono lettere, indirizzate dal papa a tutti i vescovi o a una parte di essi, che riguardano argomenti dottrinali oppure teologici, sociali, economici o filosofici.
La scelta del latino corrisponde a una visione elitaria della cultura È evidente che a questa scelta linguistica corrisponde una visione elitaria della cultura, che intende mantenere scienza e filosofia confinate nell’ambito ristretto dei dotti, degli addetti ai lavori. A questa tendenza si oppongono coloro che lottano, al contrario, per divulgare il sapere: innanzitutto Dante che decide di scrivere in volgare il suo Convivio (➜ C6 PAG. 359). Significative poi sono le scelte di filosofi-scienziati fra Cinque e Seicento come Bruno, Campanella e soprattutto Galileo che, contro la tradizione filosofico-scientifica, userà il volgare per le sue opere di maggiore importanza (Il Saggiatore e Il Dialogo sui due massimi sistemi). La Chiesa tutela per secoli l’uso del latino A tutelare l’uso del latino nel tempo è però soprattutto la Chiesa (e ancora oggi le encicliche sono in latino). L’autorità ecclesiastica contrasta per secoli l’inserimento del volgare nella liturgia, concedendone l’utilizzo gradualmente solo alle prediche e ai testi religiosi divulgativi. Nel Cinquecento la Chiesa di Roma si opporrà (ma senza successo) all’uso dei volgari nel rito, rivendicato da Lutero e dai riformatori. La svolta del concilio Vaticano II Il cambiamento arriverà soltanto secoli dopo: nel 1963, sotto la spinta innovativa del concilio Vaticano II, si comincerà ad ammettere cautamente l’uso delle lingue nazionali. Una volta avviato, il processo risulterà inarrestabile e nel giro di pochi anni nella liturgia il latino lascerà il posto alle lingue nazionali.
Pagina tratta da una Bibbia dei poveri tedesca (seconda metà del secolo XV). Il testo è scritto in modo alterno sia in latino sia in tedesco.
Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. In quale periodo si collocano i primi testi letterari in volgare? 2. Quali sono le lingue neolatine? 3. Come avviene la trasformazione linguistica dal latino alle lingue volgari? 4. Quando si ha la consapevolezza che il volgare è diverso dal latino? 5. Quali sono le prime testimonianze del volgare scritto in Italia? 6. Quali sono le differenze linguistiche tra l’indovinello veronese e il Placito di Capua? 7. Quale tipo di lingua nasce in Italia? 8. Qual è la sorte del latino dopo l’affermazione dei volgari?
80 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
PER APPROFONDIRE
Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana Il ruolo chiave della Commedia nella storia della lingua Con la Divina Commedia, il neonato volgare si libera di ogni inferiorità e si rivela lingua capace non solo di alta poesia, ma anche di trattazione scientifica e filosofico-teologica. Dante “padre della lingua italiana” La scelta del plurilinguismo e delle possibilità espressive del volgare realizzati nella Commedia hanno giustamente fatto parlare di Dante come del “padre della lingua italiana”. Il vocabolario trasmesso dalla Commedia infatti è straordinariamente vario, adatto a esprimere un’incredibile varietà di argomenti, situazioni, idee. Nel lessico dantesco, sono compresenti forme più antiche accanto ad altre più recenti, termini dotti accanto ad altri popolari o, addirittura, gergali-triviali. Di fatto, questo linguaggio attinge pochissimo alle altre parlate d’Italia ed è, nella sostanza, fiorentino nei fondamenti grammaticali e nel lessico; ma è appunto Dante a fondare con autorevolezza la possibilità che questa lingua parli non solo ai fiorentini ma al pubblico di tutta Italia. L’unilinguismo di Petrarca: un modello per la lingua della poesia In contrapposizione al plurilinguismo dantesco, Petrarca si ispira invece all’unilinguismo, a una scelta cioè monocromatica. Petrarca compie un lavoro di selezione stilistico-linguistica, restringe i confini della lingua, rifiuta l’espressività a favore dell’eleganza e dell’armonia, fondando in questa specifica direzione il lessico della tradizione lirica. Sebbene sia meno “moderno” di Dante, l’intervento di Petrarca nella storia della lingua eserciterà un influsso più rilevante: forse perché più facilmente riproducibile, sarà il modello del Canzoniere, ben più che lo sperimentalismo ardito della Commedia, a far scuola, influenzando per secoli il lessico e le forme della poesia.
La lezione di Boccaccio: un modello per la prosa italiana Rispetto alla poesia, la prosa volgare è più lenta a maturare una propria originalità: le sue prime applicazioni dovevano infatti vincere la forte concorrenza del latino. Fondamentale, nell’ambito della prosa, fu la lezione di Boccaccio, capace di elevarla da forme pedestri e sostanzialmente mediocri: con il suo Decameron egli offre alla prosa italiana un modello non inferiore alla Divina Commedia per varietà di forme e registri, anche se si mantiene lontano dall’espressionismo e dal plurilinguismo dantesco, evitando in particolare le forme troppo “basse”. L’influenza di Boccaccio sull’evoluzione della lingua si fa sentire sul piano non tanto del lessico quanto della sintassi: fa scuola soprattutto il periodare ampio e complesso del Decameron, la generale prevalenza di strutture ipotattiche su quelle paratattiche, l’uso latineggiante, estremamente diffuso, del verbo alla fine della proposizione. Dante, Petrarca, Boccaccio “nuovi classici” Già nel corso del Trecento i tre grandi scrittori sono accomunati nella ammirazione del pubblico, che ne fa i “nuovi classici”, i modelli stilistici da imitare, creando le basi per l’affermazione del toscano sugli altri dialetti, quel toscano letterario che costituirà la base della lingua nazionale. L’“italiano”: una lingua colta per una minoranza In generale si può dunque dire che il linguaggio d’Italia ha basi letterarie molto forti e si indirizza per molto tempo alla cerchia chiusa degli uomini di lettere. Come ha sottolineato il linguista Giacomo Devoto, la lingua italiana – a differenza del francese, dell’inglese e del tedesco – nasce come lingua di una minoranza e tale rimarrà per secoli.
Da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio e Petrarca; dietro: Cino da Pistoia e Guittone d’Arezzo (part. di una tela di Giorgio Vasari, 1544, Institute of Arts, Minneapolis).
L’evoluzione della lingua 4 81
Libri, lettori, lettura
Il libro prima dell’invenzione della stampa
Lessico miniature Inizialmente il termine indicava l’illustrazione posta a decoro della lettera iniziale di un manoscritto, normalmente di colore rosso (minium è il minerale da cui si ricava il colore rosso). Successivamente, indica ogni pittura messa a ornamento di un libro antico.
Nel Medioevo i libri sono manoscritti Per tutto il Medioevo i libri sono dei manoscritti, sono cioè stesi a mano da singoli copisti detti amanuensi. I primi libri a stampa compariranno solo nel XV secolo. Nell’Alto Medioevo i pochi libri sono prodotti negli scriptoria dei monasteri e i copisti sono esclusivamente monaci. Essi trascrivono i testi sacri, ma anche i testi dell’antichità classica sopravvissuti alla dispersione e distruzione del patrimonio librario dell’Impero romano e li conservano poi nelle biblioteche dei monasteri. Come erano fatti i codici più antichi I libri manoscritti (definiti codici per distinguerli dal libro a rotolo, in uso nell’antichità) erano costituiti da fogli ripiegati e riuniti in fascicoli, poi cuciti e rilegati. Nell’Alto Medioevo come materiale scrittorio si usava esclusivamente la pergamena e il libro era massiccio, alto oltre 35-40 cm: è il cosiddetto libro da banco che, data la sua mole, doveva essere appoggiato per poter essere letto. È la situazione di lettura evocata da Dante in un passo del Paradiso (Pd X,22: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco»): un libro autorevole (come appunto la Commedia) non poteva essere che di grande mole e così fu per lungo tempo. Il testo era steso in “scrittura continua” (ovvero senza la separazione tra le parole) ed era disposto su due colonne, con il commento a lato in caratteri più piccoli e impreziosito da iniziali molto elaborate e da miniature , che ne accentuano il prestigio. La trasformazione della produzione di libri nella società urbana Verso il XII secolo lo sviluppo delle scuole cittadine e soprattutto delle università richiede sempre più manoscritti, per esigenze di studio e insegnamento.
Un monaco amanuense scrive su un rotolo. Davanti a lui, sull’armadietto, gli strumenti del copista. Tommaso da Modena, Ciclo dei domenicani illustri, affresco nel convento di San Nicolò a Treviso, 1352, particolare: un cardinale appartenente all’ordine dei domenicani studia e scrive (con ausilio di occhiali).
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Come e perché si legge nel Medioevo Leggere per meditare Nell’Alto Medioevo leggere non è certo una pratica comune: a leggere (e a scrivere) sono quasi esclusivamente i monaci nel chiuso delle loro celle, oppure nei refettori, nelle scuole, in chiesa. La stragrande maggioranza della popolazione è infatti analfabeta. Nelle occasioni della vita comunitaria si leggeva ad alta voce, mentre nella solitudine delle celle i monaci usano una lettura appena mormorata a voce bassa, compiuta con ritmo lento, così da favorire la memorizzazione del testo. Nel monastero si legge per avvicinarsi a Dio, per salvarsi l’anima: il testo va lentamente meditato e possibilmente imparato a memoria, perché possa diventare un patrimonio spirituale duraturo.
Le fasi di lavorazione di una pergamena In questa sequenza di quattro capolettera miniati di un codice medievale sono rappresentate le fasi di lavorazione di una pergamena. 1. il monaco compra la pergamena dal produttore
2. traccia le righe per la scrittura
3. taglia le pagine
4. inizia la sua opera di copista e miniatore
Due amanuensi al lavoro nello scriptorium del loro monastero (miniatura dai Vangeli di Echternach, secolo VIII).
Libri, lettori, lettura 4 83
Libri, lettori, lettura
Leggere per sapere Tra l’XI e il XIV secolo con lo sviluppo delle scuole cittadine e delle università si affermano funzioni diverse del libro e della lettura: si legge non più per raggiungere la saggezza ma per conquistare il sapere; la dimensione spirituale passa in secondo piano rispetto all’utilità dello studio. Da qui la necessità di una lettura rapida e selettiva, opposta alla lettura lenta e regolare propria del metodo monastico. Per rendere il testo più facilmente leggibile vengono introdotte varie innovazioni nelle tecniche di scrittura e composizione del testo (la divisione delle parole, la segnalazione dei paragrafi). Ma qualcuno legge anche “per diletto” Un modello di lettura sicuramente diverso per finalità, modi e luoghi è quello cortese, proprio delle aristocrazie europee istruite. Fino a tutto il XIV secolo i nobili francesi leggevano raramente da soli, ma preferivano ascoltare chi leggeva e recitava per loro: testi di devozione, ma per lo più chansons de geste, poesie di trovatori, romanzi (➜ C1). A partire dal XIV secolo tra i nobili si diffuse però la pratica della lettura silenziosa individuale e il genere prediletto, espressamente nato per la lettura individuale, è il romanzo.
Il pubblico L’Alto Medioevo: un mondo di analfabeti Durante l’Alto Medioevo non si può ancora parlare di pubblico: pochissime persone in Occidente sapevano leggere e scrivere, gli stessi signori feudali e persino i re erano analfabeti e avevano perciò appositamente al loro servizio chi redigeva (in genere chierici) i documenti scritti. L’analfabetismo era talmente diffuso che anche il messaggio cristiano era trasmesso dai chierici essenzialmente in forma orale.
Gruppo di studenti alla lezione del magister: miniatura da Grandes Chroniques de France, secolo XIV (Castres, Biblioteca comunale).
Pagina di un codice manoscritto dell’Inferno di Dante con glosse ovvero annotazioni esplicative o commenti apposti nel margine del manoscritto (metà secolo XIV).
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Il pubblico raffinato (e femminile) della letteratura cortese-cavalleresca È nelle corti feudali di Francia che si può iniziare a parlare di pubblico, nel senso di destinatari a cui gli autori deliberatamente si rivolgono. In questo caso si tratta del pubblico raffinato della corte: il signore, le dame e i cavalieri, che condividono con gli autori della lirica e della narrativa cortese un modello culturale e valoriale incentrato sull’ideale della cortesia. All’interno del pubblico cortese hanno un posto rilevante le donne, così rilevante che la civiltà cortese medievale si distingue da ogni altra «soprattutto per il suo carattere spiccatamente femminile» (Hauser). Il pubblico stratificato del comune In Italia è nell’età comunale, e specialmente nel corso del XIII secolo, che si forma un pubblico in grado di leggere e apprezzare testi letterari; si tratta di un pubblico stratificato, che ha differenti esigenze e competenze di lettura: giudici, notai, medici sono in grado di leggere opere sia in volgare sia in latino, mentre i mercanti leggono esclusivamente opere in volgare (soprattutto novelle, romanzi, ma anche vite dei santi). Un pubblico emergente è quello delle donne: non è certo un caso che Boccaccio dedichi il suo Decameron proprio a loro. Il popolo e i contadini: “spettatori-ascoltatori” Per il popolo l’unica possibilità di accedere ai testi letterari e ai temi culturali è l’immagine (potente strumento, nel Medioevo, di acculturazione delle masse) o la forma orale: oltre ad ascoltare i sermoni dei predicatori (➜ C2), il popolo segue con passione le performances dei giullari (dal lat. ioculares o ioculatores, “buffoni”). I giullari erano “professionisti del divertimento” che vagavano di borgo in borgo guadagnandosi da vivere attraverso spettacoli allestiti dovunque si potesse radunare della gente: per lo più nelle piazze o lungo le strade dei pellegrinaggi. Assai importante era il loro ruolo come mediatori dei temi della cultura alta per un pubblico popolare: dalle vite dei santi alle affascinanti avventure dei paladini di Carlo Magno.
Francesco Petrarca nel suo studio (affresco attribuito ad Altichiero, Sala dei Giganti nel Liviano di Padova, 1368 ca.). Petrarca ha tra le mani un libro che appoggia su un piano inclinato. A fianco si trova un leggìo a ruota che diventerà comune negli studioli degli umanisti in cui si possono trovare molti volumi di piccolo e medio formato.
Libri, lettori, lettura 4 85
Arte nel tempo
Il romanico
Continuità con la tradizione romana
L’architettura e l’arte figurativa che caratterizzano l’Italia dopo l’anno 1000 sono testimonianza della rinascita economica e dell’espansione delle città. Le caratteristiche strutturali degli edifici e i canoni delle rappresentazioni cambiano rispetto ai secoli dell’Alto Medioevo: le architetture diventano più complesse e la figurazione recupera il realismo e il fine narrativo che aveva nel mondo antico. Nell’Ottocento si inizia a usare il termine romanico per identificare questo periodo, sottolineandone la continuità con la tradizione romana. Importanti esempi di questo nuovo modo di costruire sono le basiliche cristiane edificate all’interno delle cinta murarie delle città e le rappresentazioni (bassorilievi, affreschi, mosaici) che decorano l’interno e l’esterno di questi luoghi di culto. Si avviano colossali cantieri urbani in cui lavorano diverse maestranze (lavoratori della pietra e del legno, costruttori...) coordinate da un magister (una sorta di architetto). La costruzione di questi grandiosi edifici era un processo di lavoro collettivo e coinvolgeva tutta la cittadinanza. Queste chiese non erano solo il centro della religiosità, ma anche luoghi importanti per la vita civile. La loro struttura era caratterizzata dall’impiego dell’arco a tutto sesto di derivazione romana e della volta a crociera, da imponenti masse murarie e dall’equilibrio razionale delle strutture. Pittura e scultura erano impiegate come decorazioni dell’architettura, materialmente e concettualmente legate ad essa.
La 1 La decorazione scultorea del duomo di Modena La cattedrale di San Geminiano di Modena, consacrata nel 1099, è un esempio compiuto di stile romanico. Di questo importante cantiere, durato per oltre un secolo, conosciamo il nome del magister, Lanfranco, e ciò testimonia che si cominciasse a considerare il progettista degno di memoria. Sulla facciata della cattedrale (sopra i due portali laterali e nello spazio tra questi e quello centrale) sono inserite quattro lastre istoriate a bassorilievo (1099-1106) che raccontano le storie della Genesi dalla creazione di Adamo 1 al diluvio universale 4 , realizzate da Wiligelmo, il cui nome è inciso nell’epigrafe commemorativa collocata in facciata.
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Nella seconda lastra 2 Wiligelmo rappresenta la cacciata dal paradiso di Adamo ed Eva e la loro condanna al lavoro. Gli episodi seguono un senso orizzontale da sinistra a destra. I personaggi si muovono in uno spazio scandito da una serie di colonnine e arcatelle a tutto sesto, e delimitato dal piano orizzontale sul quale sono poste le figure, messe leggermente di profilo. Il piano di appoggio e la coerenza dei gesti aumentano l’effetto di realismo: nella prima scena a , Eva e Adamo, con una mano al volto e l’altra a coprire le parti intime, sono rivolti verso Dio, la cui natura divina è indicata dalla presenza dell’aureola; nella seconda b l’arcangelo, reso riconoscibile dalle ali e dalla spada, è alle spalle di Adamo ed Eva mentre accennano un passo (stanno camminando mentre vengono cacciati) e hanno il volto significativamente rivolto
verso il basso; nell’ultimo episodio c li vediamo uno di fronte all’altra, vestiti, mentre zappano la terra: a dividerli una pianta, simmetricamente posta al centro, frutto della loro fatica. Il lavoro a cui l’uomo e la donna sono condannati è quello agricolo, così familiare all’uomo medievale. La rappresentazione di profilo, oltre a non rispettare la frontalità tipica dei canoni bizantini, permette di creare interazione tra i personaggi. L’appoggio saldo dei piedi conferisce peso alle figure. La chiarezza dei gesti e l’essenzialità degli elementi scelti per la rappresentazione donano concretezza alle scene, trasformandole in un vero e proprio racconto per immagini. La facciata dell’edificio di culto è il confine tra lo spazio umano della città e quello divino della cattedrale, ed è su questa soglia che le parole bibliche diventano corpi, movimenti, emozioni ed azioni.
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Il duomo di Modena presenta un altro importante ciclo scultoreo: otto bassorilievi, chiamati metope che rappresentano figure fantastiche e mostruose tra le quali ci sono gli Antipodi 5 , luogo che nell’immaginario antico e medievale era popolato da esseri mostruosi e si trovava ai confini della terra. Le metope di Modena sono una delle massime espressioni della sopravvivenza del fantastico nella figurazione medievale e la collocazione alle estremità esterne della cattedrale richiamerebbe la posizione degli antipodi nelle mappe medievali, trasformando il duomo di Modena in una mappa mundi di pietra.
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Arte nel tempo
Il gotico
Una nuova spazialità
Con il termine gotico si nomina lo stile architettonico che nasce in Francia alla fine del XII secolo e si afferma in Europa lungo il Duecento e il Trecento. Vissuti fra XIII e XIV secolo e dunque contemporanei di Dante, Petrarca e Boccaccio, gli artisti Nicola e Giovanni Pisano, Cimabue, Giotto, Lorenzetti furono i grandi narratori visivi che trasformarono il linguaggio dell’arte figurativa italiana. Il lavoro di recupero della lingua e della letteratura latina classica operato da Petrarca può essere considerato in parallelo alla ripresa dei canoni scultorei grecoromani nella statuaria dei Pisano, con i quali assistiamo al progressivo ritorno della scultura “a tutto tondo”, cioè autonoma dalla struttura architettonica. Per quanto riguarda l’architettura religiosa, il gotico europeo si distingue per le forme slanciate delle cattedrali, sostenute da archi a sesto acuto e da longilinei ma solidi pilastri a fascio che permettono di costruire strutture in cui le mura non sono portanti: questo offre la possibilità di aprire grandi finestre caratterizzate da vetrate colorate che raccontano le storie sacre, materializzando la presenza di Dio attraverso i raggi di luce che le attraversano. La basilica di San Francesco ad Assisi è un esempio di come in Italia la tradizione costruttiva del Duecento, pur subendo l’influenza del gotico europeo, resta fortemente legata alle strutture basse e piene del romanico italico. La facciata a capanna è divisa in fasce orizzontali come nel gotico francese e vede la presenza di un rosone e del portale a doppio fornice. Nella navata centrale della basilica superiore Giotto dal 1292 dipinge le Storie di san Francesco, un ciclo di affreschi che racconta per episodi la vita del santo. Nella Rinuncia agli averi è raccontato il momento in cui san Francesco sceglie la povertà della vita religiosa e viene ripudiato dal padre.
La 2 Le storie di san Francesco
Per rappresentare visivamente il conflitto tra san Francesco e il padre, sottolineando l’inconciliabilità delle rispettive concezioni della vita, Giotto compone la scena dividendola verticalmente in due parti che si oppongono.
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A sinistra il padre è in piedi davanti a un gruppo di borghesi cittadini, a destra Francesco è coperto solo da un tessuto tenuto dal vescovo, seguito da una coppia di religiosi. La scena giottesca è un racconto visivo costruito attraverso azioni che parlano, inserita nello spazio concreto dell’architettura. I gesti creano delle corrispondenze che rafforzano il significato morale: la mano del padre verso il basso si contrappone al gesto di preghiera di Francesco rivolto verso l’alto direttamente indirizzato alla mano di Dio che appare concretamente nel cielo. I volti dei personaggi sono differenziati nei lineamenti e guardano in diverse direzioni, come a imitare la naturale varietà delle forme del reale. La resa anatomica del torace di san Francesco e le pieghe dei panneggi, sotto i quali sono percepibili i corpi, mostrano la conoscenza delle proporzioni e del chiaroscuro, tecnica che crea il senso di profondità attraverso l’accostamento di luci e ombre. A fare da sfondo ai due gruppi di
personaggi si stagliano due architetture utili a rendere visivamente l’ambiente urbano in cui si svolge la scena (secondo le fonti, Piazza del Vescovado ad Assisi). Le architetture sono rese attraverso l’uso di una prospettiva che, pur non essendo regolata da leggi matematiche come quella del primo Quattrocento, riesce a rendere la profondità dello spazio in cui i corpi dei personaggi stanno. È una spazialità concreta, caratterizzata da un cielo blu e non da uno sfondo oro come era uso nei Crocifissi, nelle Maestà e nei polittici ancorati alla tradizione bizantina. Il cielo di Giotto non è più un piano astratto di luce divina ma un cielo visto dal punto di vista dell’uomo. I protagonisti delle sue rappresentazioni non sono più presenze frontali, ieratiche e distanti ma esseri umani che agiscono come protagonisti della storia, rappresentati in spazi sempre più realistici (fai il confronto con la tavola San Francesco e storie della sua vita di Bonaventura Berlinghieri, del 1235 ➜ C2, PAG. 155).
La 3 Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo
La città, che nella pittura di Giotto è spesso contesto dell’azione, è uno dei soggetti del ciclo di affreschi Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo Governo realizzato da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena tra il 1338 e il 1339. In questo ciclo l’allegoria del Bene comune è accostata a un complesso ambiente urbano, si sviluppa in senso orizzontale, creando diversi piani di profondità attraverso l’impiego di una prospettiva in cui si ravvisa la lezione di Giotto. Questa imponente rappresentazione di significato laico e civile mostra non solo l’importanza della
vita urbana nella società del Trecento, ma anche il suo essere luogo in cui prendono forma nuove abitudini e valori, dove si strutturano diversi ruoli sociali e funzioni. L’affresco lega in un rapporto di causa-conseguenza lo stato di benessere di una città, e quindi dei suoi cittadini, al modo in cui essa è governata: la bellezza e la solidità dei palazzi sono resi vivi dai cittadini che li abitano in armonia e ricchezza. Il vivere civile trova in questa rappresentazione urbana una testimonianza della ricerca di razionalità, concretezza e verosimiglianza.
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Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Sintesi con audiolettura
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
Significato del termine Medioevo Il termine Medioevo è nato nell’età umanistica e indica il periodo intermedio tra l’età classica e l’età moderna. Gli umanisti ci hanno trasmesso l’immagine di un periodo “buio”: in realtà è un errore parlare del Medioevo in questi termini. In questo periodo si è sviluppata anche una civiltà raffinata e nasce una ricchissima produzione letteraria: nel XIV secolo prendono forma i capolavori di Dante, Petrarca e Boccaccio che sono l’apice del canone letterario occidentale. Il principio gerarchico Nel Medioevo vige l’idea che ci sia nella società una rigida gerarchia, per cui enti o categorie di persone sono distinti secondo un ordine di importanza, a lungo considerato immutabile: è un principio che permea sia l’immagine della società sia la visione dell’universo, concepito come un organismo ordinato da Dio attraverso le intelligenze angeliche, ma configura anche l’idea stessa della cultura e i modelli di comportamento che hanno nel concetto di auctoritas il principale punto di riferimento ordinatore. Il principio gerarchico è alla base anche del conflitto tra le due massime autorità medievali, il papato e l’impero: entrambe volute da Dio, secondo la concezione del tempo, rivendicano ognuna la propria superiorità sull’altra. La visione simbolico-religiosa Ispirata ai valori del cristianesimo, la visione simbolico-religiosa domina la mentalità medievale: essa non rimane limitata alla sfera del comportamento individuale, ma condiziona la visione della storia e persino l’immagine dello spazio. Il Medioevo non ha l’idea della prospettiva storica, della distinzione tra presente e passato, perché il tempo si iscrive nell’eterno, la storia è fatta non dall’uomo ma da Dio, che in essa realizza un disegno provvidenziale. L’interpretazione simbolica è strettamente connessa alla visione religiosa della vita, che permea il modo di vedere la natura, la storia, di interpretare gli eventi individuali e collettivi. La realtà vera non è quella che appare: nella natura stessa si cela un universo di simboli che rimandano sempre al trascendente. Persino i gesti (e soprattutto quelli della liturgia cristiana), i nomi, i numeri, i colori hanno significati simbolici. Il modello clericale Di una concezione rigorosamente religiosa e addirittura ascetica della vita si fa portatrice la cultura dei chierici, che orienta i modelli di comportamento soprattutto (ma non solo) nell’Alto Medioevo. Attraverso le prediche ai fedeli e generi popolari come le vite dei santi e la letteratura del viaggio nell’aldilà, i chierici impongono una visione cupa della vita umana, incline al peccato e passibile della punizione di Dio, immaginato e rappresentato soprattutto come giudice implacabile. La paura delle pene infernali induce alla mortificazione del corpo e dei piaceri terreni i credenti, che cercano di conquistare la salvezza dell’anima attraverso dure pratiche penitenziali, estenuanti pellegrinaggi ai luoghi consacrati e ai sepolcri dei santi, modelli di riferimento, insieme ai monaci, nella cultura clericale. All’esaltazione della
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vita ascetica e alla condanna di tutto ciò che è corporeo, l’irriverente letteratura goliardica, nata negli ambienti universitari, contrappone la gioia di vivere, il piacere del cibo e del sesso. Il modello cavalleresco-cortese Ben diverso è il modello umano e di comportamento cortese-cavalleresco, che viene elaborato nell’universo del castello feudale e che avrà enorme influenza ben oltre l’epoca e il contesto in cui nasce. La figura del cavaliere, il guerriero a cavallo, è soggetta dalla prima età feudale in poi a notevoli trasformazioni, che ne arricchiscono via via l’immagine: inizialmente prevalgono nel suo profilo qualità guerresche; verso l’XI secolo queste qualità sono subordinate alla difesa della fede: il cavaliere, come Roland della omonima chanson, diventa il paladino della cristianità nella lotta contro gli infedeli. Successivamente, nell’ambiente raffinato delle corti feudali di Francia, il cavaliere si ingentilisce e la sua figura diventa portatrice di nuovi valori: la liberalità, la gentilezza, la cortesia. Qualità esaltate soprattutto dal “servizio” nei confronti della donna, verso cui il cavaliere mostra assoluta dedizione, come il vassallo verso il suo signore. I valori della società urbana e mercantile Tra il XIII e il XIV secolo, nella civiltà urbana, nell’ambiente aperto e dinamico della città, si affermano modelli di comportamento e valori potenzialmente alternativi sia a quelli clericali sia a quelli cavallereschi. L’incremento degli scambi commerciali, soprattutto nei comuni dell’Italia centro-settentrionale, l’emergere nella società della figura del mercante valorizzano l’intraprendenza, la spregiudicatezza, l’abilità nel cogliere l’occasione per sviluppare i propri interessi.
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche
Il sapere medievale si struttura in continuità con il sapere antico Nei primi secoli del Medioevo, i monaci salvano quanto rimaneva di quel prezioso patrimonio, ricopiando i testi antichi su codici manoscritti e conservandoli nelle biblioteche dei monasteri. Quindi il sapere appartenente alla civiltà pagana viene inglobato in quella cristianomedievale attraverso un’opera di selezione di ciò che appare importante e utile (soprattutto nozioni filosofiche e retoriche), di sintesi, ma anche di reinterpretazione dei testi pagani alla luce delle verità cristiane. L’allegoria Fondamentale in quest’ultima operazione è l’applicazione della lettura allegorica dei testi: è proprio la lettura allegorica di alcune opere di Virgilio che ne fa una delle “autorità” del Medioevo. Il Medioevo applica anche al campo conoscitivo e letterario il principio gerarchico: esso induce ad appoggiarsi sempre a fonti autorevoli come la Bibbia, ma anche poeti e filosofi antichi a cui è riconosciuta particolare autorevolezza e che sono dunque auctores: da Virgilio a Orazio a Cicerone e, in ambito filosofico, Aristotele. La visione enciclopedica del sapere Il sapere è immaginato dal Medioevo come accumulo di nozioni di campi disparati, che vengono condensati in monumentali opere enciclopediche. Sapiente è chi conosce tutto lo scibile e non solo una parte di esso (ne è esempio Dante stesso nella Commedia, vera sintesi dell’intero sapere medievale). Una visione enciclopedica che Petrarca, nel tardo Trecento, già contesta in nome di un sapere selettivo, di tipo morale, più utile all’uomo perché lo aiuta a diventare migliore. Sintesi L’evoluzione Duecentodella e Trecento lingua 4 91
L’università e la Scolastica Depositarie della visione ufficiale del sapere saranno per circa tre secoli le università, che iniziano a svilupparsi tra XII e XIII secolo. Il sapere della Scolastica (il termine definisce metodi e contenuti del sapere universitario) è fondato sul principio di autorità: autorità indiscussa (e indiscutibile) dei testi da studiare, autorità del maestro universitario che legge e commenta il testo (la lectio), autorità di Aristotele, il “filosofo” per antonomasia, il cui pensiero influenza per secoli tutti i campi dello scibile, dalla medicina all’astronomia, dalla filosofia alla stessa teologia. Propedeutico ai gradi più alti del sapere è lo studio delle arti liberali, ereditato dalla scuola dell’età classica, così come la partizione in Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia).
3 Caratteri e forme della letteratura nel Medioevo
La funzione della letteratura Nell’Alto Medioevo la produzione letteraria è finalizzata all’educazione morale del cristiano. A una prospettiva morale e religiosa sono ricondotti anche i testi pagani, grazie alla lettura allegorica. Ma nel Basso Medioevo, poiché gli intellettuali non sono più solo chierici, la letteratura e l’arte si aprono a fini diversi, di piacevole intrattenimento, che vengono veicolati da nuovi generi letterari: ciò assumerà il massimo valore letterario con il Decameron di Giovanni Boccaccio. Gli stili Nel Medioevo la poesia non è mai concepita come produzione spontanea e personale: non può prescindere dalla competenza tecnica né dal possesso delle norme retoriche ereditate dalla cultura classica. Questo vale anche per la prosa, su cui esercitano grande influenza le artes dictandi, trattati di retorica che fissavano regole molto precise sul modo di scrivere. Il principio della congruenza Nello stile da usare il Medioevo accoglie un principio basilare ereditato dal sapere retorico antico: la coerenza tra stile e materia e la conseguente codificazione di tre stili: rigidamente contrapposti sono in particolare lo stile “alto” (o tragico) e il “basso” (o comico). Nella Commedia – così denominata in rapporto alla teoria degli stili – Dante utilizza tutti gli stili e li contamina fra loro a fini di espressività. Violazione del principio da parte degli scrittori cristiani Nel corso dell’Alto Medioevo il principio della congruenza è sistematicamente violato dagli scrittori cristiani nella loro produzione di testi a carattere religioso. Al fine di far comprendere a tutti il messaggio cristiano, tali scrittori lo veicolano con lo stile “basso”: questa scelta, già teorizzata da sant’Agostino, è evidente negli scritti di Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Allegoria e simbolismo Espressione della più generale visione simbolica propria del Medioevo, per cui tutto ciò che esiste in natura reca i “segni” del divino e rimanda alla realtà soprannaturale, il metodo di lettura allegorico si applica innanzitutto alle Sacre Scritture: il linguaggio e le immagini bibliche non vanno presi alla lettera ma sono da decifrare per comprenderne il reale significato, attraverso una particolare esegesi, ovvero un’interpretazione del testo. Lo stesso metodo viene presto esteso e impiegato per leggere – in una prospettiva morale e religiosa – anche le parole dei poeti antichi che in tal modo vengono integrati nel patrimonio della cultura medievale. Fin dall’Alto Medioevo si diffonde l’abitudine di rintracciare quattro livelli di senso nelle scritture, sia letterarie sia appartenenti al mondo cristiano. Ogni testo si può interpretare quindi secondo questi quattro livelli, o sensi, di lettura: livello letterale, allegorico, morale, anagogico.
92 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
L’interpretazione figurale Una particolare interpretazione allegorica è l’interpretazione figurale. Secondo tale lettura, le profezie del Vecchio Testamento trovano piena realizzazione nel Nuovo Testamento. Eventi della storia anche lontanissimi tra di loro sono collegati da un disegno provvidenziale (per cui alcuni eventi non sono da comprendere solamente in se stessi ma anche come figure, prefigurazioni, di altri che ne costituiscono il compimento) che l’uomo può solo tentare di spiegare.
4 L’evoluzione della lingua
Dal latino alla nascita delle lingue volgari La disgregazione politica ed economica dell’Impero romano determina anche la crisi del latino come lingua unitaria: da una parte si usa meno la lingua scritta (che rimane il latino), dall’altro gli idiomi parlati (i volgari) nelle varie zone dell’Impero vedono prevalere le componenti linguistiche locali sulla componente latina. Due documenti del IX secolo (Il concilio di Tours e Il giuramento di Strasburgo) testimoniano l’esistenza di lingue nuove, dette “neolatine”, autonome dal latino. In Italia la presenza del volgare è documentata dall’indovinello veronese (fine dell’VIII secolo), da un testo legale (il Placito di Capua, 960 ca.) e dall’iscrizione di San Clemente a Roma (fine dell’XI secolo). La preminenza del toscano Nel Trecento, in Italia, tre capolavori – la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca e il Decameron di Boccaccio – affermano la dignità letteraria della lingua volgare e in particolare del toscano: questo sarà destinato ad affermarsi su tutti gli altri dialetti come lingua letteraria comune degli scrittori e, più in generale, come lingua scritta in un paese come l’Italia in cui permarrà per secoli una situazione di estrema frammentazione linguistica. Come già Dante intuisce nel De vulgari eloquentia, una lingua unitaria potrà nascere solo come lingua letteraria, comune agli scrittori, ma non agli abitanti, con le conseguenze che ciò inevitabilmente comporta e ha effettivamente comportato. Il latino dopo il volgare Il latino rimane la lingua della Chiesa, del diritto, dell’alta politica, della diplomazia, della scienza e della filosofia. Questa scelta, è evidente, corrisponde a una visione elitaria della cultura, che intende confinare il sapere nell’ambito delle persone di cultura.
Libri, lettori, lettura Lo sviluppo delle università ha risvolti importantissimi nella promozione del libro manoscritto: la necessità di avere molti testi a disposizione degli studenti incrementa la produzione libraria: agli scriptoria dei monasteri si affiancano gli scriptoria cittadini per poter far fronte ai nuovi bisogni e si usa la carta al posto della pergamena perché meno costosa e di più facile lavorazione. Alla lettura dei monaci, finalizzata all’edificazione spirituale, oltre alla lettura per piacere, si sostituisce la lettura a fini di studio, spesso effettuata nelle biblioteche dei conventi cittadini, aperte al pubblico degli studiosi. Per agevolare questa lettura si attuano trasformazioni delle tecniche di scrittura (come la separazione tra le parole e i segni di paragrafo) e della disposizione del testo nella pagina. Nell’Alto Medioevo non si può parlare di pubblico, perché era molto diffuso l’analfabetismo. Solo nelle corti feudali di Francia si può parlare di pubblico: un pubblico raffinato di corte, composto anche da donne. Nel XIII secolo si forma in Italia un pubblico (giudici, notai, medici) in grado di leggere e apprezzare i testi letterari. Il popolo accede alla cultura attraverso le immagini o la trasmissione orale dei giullari.
Sintesi L’evoluzione DueCenTodella e TreCenTo lingua 4 93
Zona Competenze Sintesi
1. Attraverso un disegno o uno schema grafico, sintetizza la concezione gerarchica della società propria dell’età medievale. Puoi utilizzare questi documenti integrativi.
«E dimostrava questo [si parla di Gerardo, vescovo di Cambrai, vissuto nel sec. XI]: che dall’origine stessa era stata imposta all’umanità una divisione in tre: uomini che devono volgersi alla preghiera; uomini che devono piegarsi al lavoro dei campi; infine, uomini che devono dedicarsi alla guerra. Non solo: dimostrava poi con molta chiarezza che ogni categoria ha il preciso dovere di fornire sostegno alle altre due» (da Monumenta Germaniae Historica, vol. IX, trad. it. di M.L. Picascia, Hannover 1846).
«La casa di Dio, che si crede una, è dunque divisa in tre: gli uni pregano, gli altri combattono, gli altri infine lavorano. Queste tre parti coesistono e non sopportano di essere disgiunte; i servizi resi dall’una sono la condizione delle opere delle altre due; e ciascuna a sua volta s’incarica di soccorrere l’insieme. Perciò questo legame triplice è nondimeno uno; così la legge ha potuto trionfare, e il mondo godere della pace» (Adalberone di Laon [vescovo, vissuto tra il X e l’XI secolo], Carmen ad Rodbertum regem, in G. Duby, L’anno Mille, Einaudi, Torino 1976).
Scrittura creativa
2. Immagina e scrivi una discussione tra un chierico, un cavaliere e un mercante, in cui ciascuno difenda il suo sistema di valori e contesti quelli degli altri.
Lavoro di gruppo
3. La classe si divida in piccoli gruppi di lavoro, ognuno dei quali prenda in esame uno degli aspetti della mentalità e dei modelli di comportamento propri dei secoli in esame, sulla base del profilo, dei testi letti e di eventuali contributi e approfondimenti reperiti su libri e in rete. • Il principio gerarchico • I valori della società urbana e mercantile • La visione simbolico-religiosa • Il confronto tra cultura cristiana • La concezione del tempo e della storia e cultura pagana • Il modello clericale • La concezione del sapere • Il modello cavalleresco-cortese (fra tradizione ed enciclopedismo) Ogni gruppo di lavoro sceglierà il modo più efficace per illustrare agli altri gli aspetti salienti della tematica analizzata, utilizzando: a. un ipertesto (Word/Power Point/html) da presentare con l’ausilio della LIM b. una relazione scritta a più mani che sintetizzi i risultati del lavoro di gruppo c. una scaletta per una conferenza
Discussione orale
4. Scegliete una o più tematiche di studio presenti nell’attività 3. Avviate una discussione in classe sugli elementi più caratterizzanti e/o su aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea e stendete una dettagliata scaletta degli interventi che includa anche l’elenco dei documenti utilizzati (testi antologizzati, immagini, siti web ecc.).
Scrittura
5. In un breve testo espositivo-argomentativo distingui simbolo e allegoria; poi spiega come fu impiegata soprattutto l’allegoria nella cultura medievale.
94 Duecento e Trecento Scenari socio-culturali
Duecento e trecento CAPITOLO
1 La letteratura cortese nella Francia feudale
Le prime testimonianze di un uso letterario delle lingue romanze si ritrovano nel Nord della Francia dove si sviluppano l’epica delle chansons de geste (fine dell’XI secolo) e il romanzo cavalleresco (XI-XIII secolo), entrambi in lingua d’oïl, l’antico francese. Nella zona della Provenza, si afferma la lirica trobadorica in lingua d’oc, la lingua usata nella Francia meridionale. In questi generi, in vario modo, viene idealizzata la figura del cavaliere e sono celebrati gli ideali cortesi. Nelle chansons, e in particolare nella celebre Chanson de Roland, il cavaliere è il prode guerriero che difende la cristianità contro gli infedeli; nei romanzi è modello di virtù e coraggio, pronto ad affrontare mille avventure e pericoli per il proprio perfezionamento e per amore. Infine, nella lirica provenzale, l’ideale cortese-cavalleresco si lega strettamente alla devozione verso una figura femminile inaccessibile.
cristiana 1 L’epica e le chansons de geste romanzo 2 Ilcortese-cavalleresco lirica 3 Laprovenzale 95
1
L’epica cristiana e le chansons de geste La narrativa epico-cavalleresca in Francia Tra l’XI e il XIII secolo in Francia si sviluppano tre generi che eserciteranno grande influenza in particolare sulla letteratura italiana: l’epica delle chansons de geste e il romanzo cortese-cavalleresco entrambi in lingua d’oïl (il volgare usato nella Francia settentrionale) e la lirica provenzale in lingua d’oc (il volgare usato nella Francia meridionale). Mentre le chansons de geste sono incentrate sui temi dell’eroismo, della guerra e della fede, il romanzo cavalleresco introduce nelle letterature in volgare il tema dell’amore associato a quello dell’avventura cavalleresca.
La nascita della letteratura in Francia Dopo l’anno 1000 in Europa dalle lingue romanze o neolatine
nascono
le letterature romanze (la letteratura italiana è una di queste)
le chansons de geste
tra le prime a svilupparsi c’è la letteratura francese con tre generi diversi
il romanzo cortese cavalleresco
la lirica provenzale
1 Le chansons de geste Le chansons de geste, le “canzoni di gesta” (dal latino res gestae, “imprese compiute”), sono poemi epici organizzati in “cicli”, scritti in lingua d’oïl. Sono composti di lasse (strofe con un numero variabile di versi) assonanzate (cioè in versi caratterizzati dall’assonanza finale). Il verso utilizzato è il decasillabo (più o meno equivalente all’endecasillabo italiano). Le chansons de geste si ispirano a fatti realmente accaduti, trasfigurati in forma epica e celebrano le imprese delle grandi famiglie della nobiltà feudale.
Un episodio della Chanson de Roland in un rilievo del XII secolo della cattedrale SaintPierre d’Angoulême.
96 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Una produzione colta legata alla trasmissione orale Si ritiene oggi che le chansons siano opera di singoli autori, sicuramente colti, e che vennero poi diffuse oralmente per opera dei giullari in ambiti sociali diversi, sia aristocratici sia popolari, ad esempio lungo le vie dei pellegrinaggi, nelle piazze e nei mercati. A una destinazione orale allude il termine stesso chanson (da cui il nostro canzone), che indica una composizione recitata e accompagnata dalla musica. Inoltre in queste composizioni le ripetute allocuzioni al pubblico («udite!»), oltre che la ripetizione di versi similari, fanno pensare a espedienti con cui si cercava di stimolare l’attenzione di un pubblico di ascoltatori più che di lettori. La datazione Secondo gli studiosi le chansons vennero composte relativamente tardi (secoli XI-XII), in rapporto alla diffusione dello “spirito di crociata”; infatti in esse sono esaltati non solo l’eroismo individuale, ma soprattutto il suo impiego a difesa della cristianità in lotta contro gli “infedeli” (tali al tempo erano considerati gli arabi e più in generale i musulmani), un tema particolarmente sentito proprio ai tempi delle crociate. Il ciclo più celebre, che ebbe larga risonanza anche fuori di Francia, è il cosiddetto “ciclo carolingio”, dedicato alle imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i saraceni e inaugurato dalla Chanson de Roland (1080 circa), la più antica e famosa delle chansons de geste a noi pervenute.
I generi letterari dell’età cortese LE CHANSONS DE GESTE GENERE
poemi epici
LUOGO
Nord della Francia
TEMPO
XI secolo
LINGUA
d’oïl (antico francese diffuso nel Nord della Francia)
STILE
ripetitivo: concetti, frasi che ritornano a breve distanza
CONTENUTO
imprese di Carlo Magno, re dei Franchi e dei suoi cavalieri
DIFFUSIONE
orale per mezzo dei giullari
OPERE/AUTORI
la più nota è la Chanson de Roland
TEMI
guerra, fedeltà verso il re, fede in Dio
per aiutare il giullare che ripeteva a memoria per imprimere il messaggio nella mente degli ascoltatori
L’epica cristiana e le chansons de geste 1 97
PER APPROFONDIRE
Il genere epico L’epica (dal greco epos, “parola, canto”), insieme alla lirica e al dramma, è uno dei generi ereditati dall’antichità classica ed è considerato il più “alto”. I poemi epici attribuiti a Omero, l’Iliade e l’Odissea (secoli IX-VIII a.C.), sono i modelli assoluti del genere epico, che avrà una lunga vita nei secoli, assumendo nelle diverse epoche una diversa fisionomia, ma mantenendo al contempo alcune caratteristiche basilari, che di seguito sintetizziamo. L’epica celebra le imprese e i valori di un popolo, incarnati da un eroe protagonista Scopo principale dell’epica è la celebrazione di eventi passati (guerre e imprese di eroi), sentiti in qualche modo capaci di fondare l’identità di un popolo. Nei poemi epici non a caso è ricorrente l’organizzarsi delle azioni intorno a uno scontro tra parti contrapposte, presentato come decisivo per le sorti della comunità e per i suoi valori e ideali, nazionali e religiosi: è il caso della guerra tra Achei e Troiani nell’Iliade o dello scontro tra “pagani-infedeli” e i Franchi di Carlo Magno nella Chanson de Roland. Costante è la presenza di un eroe principale in cui la collettività si identifica, che si batte per essa e che per essa può anche morire, come Roland nella Chanson de Roland. Anche il Cantare del Cid [Cantar de mio Cid], poema epico in lingua castigliana, composto in Spagna agli inizi del XIII secolo, celebra la figura di un eroe, El Cid (o El Campeador) sullo sfondo delle guerre per la reconquista cristiana della Spagna in mano ai musulmani. L’autore come voce della collettività L’epica è poesia eminentemente collettiva. Soprattutto alle origini della produzione epica, autore e primi destinatari appartengono a una stessa comunità e non si distinguono da essa: la voce dell’autore è “voce” della comunità stessa, della quale condivide totalmente i valori e l’ideologia, rinunciando a esprimere valutazioni soggettive e tantomeno critiche.
L’oralità dell’epica Il testo epico è per secoli destinato alla recitazione pubblica a opera di un “professionista” (aedo, come nei poemi omerici; giullare, come nelle chansons medievali ecc.) che lo memorizza e lo recita con intonazione melodica accompagnandosi con uno strumento musicale durante i banchetti o in luoghi aperti dove può convenire un vasto pubblico. Il fatto che la parola epica sia destinata eminentemente all’ascolto comporta la forte presenza di un’immaginazione figurativa: i contenuti dell’epica non sono mai idee, entità astratte, ma sono azioni, eventi, rappresentabili per immagini, che si dispiegano ai nostri occhi come le sequenze di un film. Il passato assoluto Proprio dell’epica è quello che il critico letterario Michail Bachtin (1895-1975) ha definito il «passato assoluto», uno degli elementi che, a suo parere, differenziano l’epos dal romanzo. «Il mondo dell’epopea», egli scrive, «è il passato eroico nazionale, [...] il mondo dei padri e dei progenitori, il mondo dei “primi” e dei “migliori”». La vicenda dell’epica si colloca sempre nel passato, un passato che non è semplicemente una dimensione temporale, ma che assume anche una dimensione di valore assoluto, di indiscutibile modello positivo. Il “codice” epico Da qui anche le caratteristiche formali del genere: la parola epica non può essere che solenne e cristallizzata in formule potenzialmente immutabili e si affida perciò al cosiddetto “stile formulare”, ovvero l’uso di espressioni ricorrenti per designare situazioni, eventi e soprattutto personaggi identificati da specifici epiteti: ad esempio uno degli epiteti ricorrenti per Carlo Magno è “Carlo che ha la barba canuta”. Caratterizzano inoltre il “codice” epico l’uso del verso, il frequente impiego di similitudini, la presenza di un ricorrente repertorio di situazioni, come la descrizione di duelli, e infine, in molti casi, stereotipi come la protasi (la presentazione dell’argomento) e l’invocazione alle muse.
2 La Chanson de Roland e la mitizzazione dell’eroe cristiano La Chanson de Roland (➜ T1 ) è un lungo poema di 4000 versi circa, il cui autore è rimasto anonimo. Nel manoscritto più antico che ci ha trasmesso il testo, quello di Oxford, compare il nome di Turoldo, ma non è possibile stabilire se tale nome corrisponda all’autore oppure semplicemente al copista che stese il manoscritto. Il poema fa riferimento a un fatto storico realmente accaduto: la spedizione di Carlo Magno, re dei Franchi, in Spagna contro alcuni prìncipi musulmani e in particolare lo sterminio della retroguardia dell’esercito franco compiuto sui Pirenei, a Roncisvalle (778) da predoni baschi. Tra i morti, secondo un’autorevole fonte del tempo, vi fu anche il nobile paladino Orlando (Roland, in francese). La datazione Non esistono elementi per datare con sicurezza la composizione della Chanson de Roland, ma si pensa che sia stata scritta verso il 1080, circa tre secoli dopo gli avvenimenti narrati, che l’autore avrebbe epicamente trasfigurato in nome degli ideali della “guerra santa” propri del suo tempo (la prima crociata in Terrasanta si svolge proprio nel 1097-1099). I valori e i modelli di comportamento
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presenti nel poema non appartengono infatti all’epoca in cui si svolgono gli eventi narrati (VIII secolo), ma sono evidente espressione della società feudale (il termine stesso vassallage, che allude al rapporto di vassallaggio, ricorre più volte). online
Interpretazioni critiche Michail Bachtin, Il passato assoluto come tempo dell’epica
La trasfigurazione mitica L’autore della Chanson sottopone un episodio secondario della guerra (➜ D1 ) a un processo di mitizzazione che lo trasforma in una battaglia epica. La celebrazione epica che ispira la Chanson induce l’autore a non attribuire la strage di Roncisvalle, come realmente accadde, ai predoni baschi (che erano cristiani), ma alle forze saracene: degli infedeli viene enfatizzata la schiacciante superiorità numerica contro la quale nulla può l’eroica resistenza dei guerrieri franchi, capitanati dal paladino Orlando. Carlo Magno diventa il “campione” di tutta la cristianità in lotta contro gli infedeli e a sua volta Orlando, caduto da eroe per difendere il suo re, la sua patria, ma anche la fede cristiana, assume tratti leggendari che nel tempo faranno di lui il prototipo dell’eroe-martire.
La vicenda e la struttura della Chanson de Roland La Chanson de Roland si articola intorno a tre episodi fondamentali: a. il tradimento di Gano; b. la morte di Orlando; c. la vendetta di Carlo Magno. Il fulcro narrativo è contenuto nella parte centrale del testo. a. L’antefatto. Nella prima parte si racconta che Carlo Magno, da sette anni in Spagna, dove combatte contro i saraceni, pone l’assedio alla città di Saragozza di cui è re Marsilio. Questi propone ai cristiani di trattare la pace. Dovendo il re franco scegliere gli ambasciatori da inviare al re saraceno, Orlando propone il suo patrigno, Gano di Maganza. Gano pensa però, data la pericolosità della missione, che Orlando voglia sbarazzarsi di lui e medita la vendetta e il tradimento (diventerà nel tempo appunto il prototipo della figura del traditore). Giunto da Marsilio, si allea con lui e insieme progettano un inganno ai danni dei franchi: Marsilio finge di sottomettersi a Carlo, promettendo di convertirsi al cristianesimo se il sovrano franco lascerà la Spagna. Accettato il patto, l’imperatore organizza il ritorno del suo esercito in Francia e affida a Orlando, per suggerimento di Gano, il comando della retroguardia. b. Il fulcro narrativo: la morte di Orlando. Nella sezione centrale della Chanson domina la rappresentazione della battaglia di Roncisvalle: nella località dei Pirenei l’esercito saraceno attacca a tradimento le truppe della retroguardia capitanata da Orlando. Orlando combatte con eroismo, nonostante sappia che l’esercito franco è destinato alla sconfitta, data la sproporzione schiacciante delle forze in campo. Orlando potrebbe, suonando il suo corno, chiamare in soccorso Carlo, come lo supplica di fare l’amico Oliviero, ma il rispetto del codice cavalleresco gli impedisce di chiedere aiuto anche a costo di sacrificare la sua stessa vita e quella dei suoi soldati. Solo alla fine, ormai vicino alla morte, si decide a richiamare Carlo, suonando l’olifante. c. La vendetta di Carlo Magno. Nell’ultima parte della Chanson viene narrato il precipitoso ritorno di Carlo a Roncisvalle e la sua vittoria sulle forze saracene. Il traditore Gano viene giustiziato in modo atroce. Rolando suona l’olifante a Roncisvalle (miniatura da un manoscritto della Chanson de Roland del XIII secolo).
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T1 La canzone di Rolando, a c. di M. Bensi, Rizzoli, Milano 1985
«Orlando è prode ed Oliviero è saggio»
EDUCAZIONE CIVICA
Chanson de Roland, lasse LXXX-LXXXVIII
nucleo Costituzione competenza 2
L’esercito dei “pagani”, mosso da Saragozza per attaccare a sorpresa la retroguardia dei franchi capitanata da Orlando, appare improvvisamente alla vista di Orlando e del suo compagno Oliviero. I pagani sono in condizione di schiacciante superiorità numerica e quindi il destino dell’esercito cristiano è segnato in partenza, a meno che Orlando non chiami in soccorso, suonando il suo corno, l’imperatore Carlo Magno, come Oliviero gli suggerisce. Ma il senso feudale dell’onore impedisce a Orlando di farlo, nonostante le insistenti esortazioni del compagno.
LXXX Monta Oliviero or sopra un alto poggio: a destra guarda, dov’è una valle erbosa, vede la gente pagana che s’accosta. 1020 Al suo compagno Orlando egli si volge: «Vien dalla Spagna un così gran fragore: quanti elmi e usberghi1 luccicanti si scorgono! Sui nostri Franchi verranno con furore. Gano doveva saperlo, il traditore, 1025 che fece il nostro nome all’imperatore2». «Taci, Oliviero» Orlando gli risponde; «è mio padrigno: non farne più parola.» LXXXI È sopra un poggio Oliviero montato: bene di qui scopre il regno di Spagna, 1030 e dei pagani le schiere sterminate. Splendono gli elmi d’oro e di gemme ornati; e scudi e spiedi3 e usberghi ricamati; e i gonfaloni attaccati alle lance. Ma le colonne non potrebbe contare: 1035 ce ne son tante che il numero non sa; dentro se stesso ne resta assai turbato. Com’egli può, cala dal poggio al basso, vien dai Francesi ed ogni cosa narra. LXXXII Disse Oliviero: «I pagani ho veduti: 1040 nessuno in terra ne vide mai di più. Ne abbiam davanti centomila con scudi, elmi allacciati e bianchi usberghi chiusi, lance diritte, lucenti spiedi bruni. Battaglia avrete, quale mai non ci fu. 1 usberghi: corazze. 2 Gano... all’imperatore: Gano di Maganza, patrigno di Orlando, qui nominato con l’epiteto che farà di lui “il traditore” per
antonomasia, aveva convinto l’imperatore Carlo Magno a designare Orlando a capo della retroguardia. Si era accordato con il re Marsilio, tradendo la sua patria e con-
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sentendo ai saraceni l’attacco a sorpresa che sterminerà la retroguardia franca. 3 spiedi: un’arma costituita da un ferro lungo e acuminato.
1045
Da Dio, signori, vi venga ogni virtù! Restate in campo, perché non siam battuti!» Dicono i Franchi: «Maledetto chi fugge! Anche a morire, non mancherà nessuno».
LXXXIII Disse Oliviero: «I pagani han gran forza, 1050 e i nostri Franchi mi pare che sian pochi! Compagno Orlando, suonate il vostro corno. Carlo l’udrà: coi suoi farà ritorno». Risponde Orlando: «Sarebbe agir da folle! Nella mia Francia io perderei il mio nome. 1055 Di Durendala4 or darò grandi colpi: l’arrosserò fino nell’elsa d’oro. Son giunti ai valichi con lor danno i felloni5: giuro che tutti sono dannati a morte». LXXXIV «Compagno Orlando, l’olifante6 suonate: 1060 Carlo l’udrà, farà i Franchi tornare: coi suoi baroni il re ci aiuterà». Risponde Orlando: «Al Signore non piaccia che i miei parenti sian per me biasimati, e disonore ne abbia la dolce Francia! 1065 Prima gran colpi darò con Durendala, la buona spada che tengo cinta al fianco: tutto vedrete il brando insanguinato. Si son con danno qui i pagani adunati: giuro che a morte son tutti destinati». LXXXV 1070 «Compagno Orlando, suonate l’olifante. Carlo l’udrà, che sta passando i valichi. Io ve lo giuro che torneranno i Franchi». «A Dio non piaccia» così risponde Orlando «che mai si dica che per un uom mortale, 1075 per un pagano, il corno abbia suonato! I miei parenti mai non ne avranno biasimo. Quando nel mezzo sarò della battaglia, ben più di mille volte trarrò la spada: rosso di sangue ne vedrete l’acciaio. 1080 Son prodi i Franchi, e colpiran da bravi: quelli di Spagna non avran chi li salvi». 4 Durendala: è il nome della spada donata a Orlando da Carlo Magno.
5 felloni: traditori.
6 l’olifante: è il nome del corno da caccia (ricavato da una zanna di elefante) del paladino Orlando.
L’epica cristiana e le chansons de geste 1 101
LXXXVI Disse Oliviero: «Non ci può esser biasimo. Io li ho veduti i pagani di Spagna: ne son coperte le valli e le montagne, 1085 gli scabri picchi e tutte le campagne. Grandi gli eserciti sono qui dei pagani, e noi ben piccola compagnia vi teniamo». Risponde Orlando: «E cresce la mia brama. Non piaccia a Dio, ai suoi angeli, ai santi, 1090 che per me perda il suo valor la Francia! Meglio morire che restar nell’infamia! Se Carlo ci ama, è perché ben colpiamo». LXXXVII Orlando è prode ed Oliviero è saggio. Hanno bravura meravigliosa entrambi. 1095 Poiché a cavallo si trovano ed in armi, anche a morire7, non schiveran battaglia. Son prodi i conti, le parole son alte8. Ora i pagani con gran furor cavalcano. Disse Oliviero: «Orlando, un po’ guardate! 1100 Son qui vicini, e troppo lungi è Carlo! Voi l’olifante non voleste suonare: se il re qui fosse, noi non avremmo danno. Guardate a monte verso i valichi d’Aspra9: vedete come triste è la retroguardia! 1105 Chi questa fa, non ne farà più un’altra». Risponde Orlando: «Non dite enormità! Sia maledetto il cuore che s’abbatte! Al nostro posto noi rimarremo in campo: da noi verranno i colpi e il battagliare!» LXXXVIII Vedendo Orlando che vi sarà battaglia, si fa più fiero che leone o leopardo. Grida ai Francesi ed Oliviero chiama: «Signor compagno, amico, non parlare! L’imperatore, che ci affidò i suoi Franchi, 1115 qui ventimila ne ha radunati tali che a suo vedere nessuno vi è codardo. Or per il proprio signore grandi mali giusto è soffrire, e gran freddo e gran caldo: e deve perdersi anche sangue, anche carne. 1120 Tu con la lancia colpisci, io con la spada, con Durendala, che mi donò il sovrano! 7 anche a morire: anche a costo di morire. 8 alte: nobili. Se muoio, certo potrà dir chi l’avrà 9 i valichi d’Aspra: un passaggio attraverch’essa fu in mano a un nobile vassallo». so i Pirenei. 1110
102 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Analisi del testo Orlando e il codice cavalleresco La scena che abbiamo presentato, tra le più note e celebrate del poema, chiama in gioco la diversa identità cavalleresca dei due amici fraterni Orlando e Oliviero. La saggezza di Oliviero non è complementare bensì decisamente contrapposta alla prodezza di Orlando, che si assume la piena responsabilità di una scelta (cioè non chiamare in aiuto Carlo Magno con il suo corno) che condanna a morte certa i suoi uomini. Secondo parametri di giudizio normali, il comportamento di Orlando è espressione di un orgoglio smisurato o addirittura di una forma di follia, ma acquista un significato diverso all’interno del “codice cavalleresco”: Orlando esprime infatti in questo modo assoluta fedeltà alla propria missione, consacrata dall’investitura cavalleresca. È Orlando stesso a rovesciare la valutazione comune, quando definisce “pazzia” la possibilità di suonare il corno e richiamare Carlo Magno (lassa LXXXIII).
La vocazione al martirio In realtà il comportamento di Orlando è soprattutto espressione di una vocazione alla morte eroica, già scritta per lui nel disegno di Dio. In questa prospettiva egli assume i tratti di una sorta di santo laico e la sua morte in battaglia costituisce una fine esemplare, come quelle appunto dei santi e dei martiri cristiani, narrate con fini edificanti dai testi agiografici, molto diffusi nella letteratura religiosa medievale.
Il tema della guerra Oltre al confronto tra Orlando e Oliviero, nei versi compare anche il tema della guerra che contrappone l’esercito dei franchi alle armate saracene del re Marsilio. Nella Chanson la guerra è presentata secondo un punto di vista totalmente interno alla cultura cristiana ed è quindi sentita come necessaria e “santa” perché diretta contro gli infedeli, indentificati con assoluta sicurezza nella causa sbagliata ed empia. La Chanson de Roland è una delle prime testimonianze letterarie, se non la prima, del contrasto tra cristiani e musulmani: è significativo che in essa i guerrieri musulmani siano definiti “pagani”, il che implica il pregiudiziale disconoscimento dei contenuti religiosi dell’islam. La guerra è presentata nel passo proposto come “spettacolo” grandioso e suggestivo attraverso il punto di vista di Oliviero, che dall’alto vede avanzare le schiere dei nemici: armi sfavillanti, insegne decorate splendidamente, cimieri variopinti e adorni. La prevalenza di aspetti coloristici e di elementi ornamentali nella descrizione dell’esercito nemico ha a che fare con la destinazione orale del poema: recitato nelle fiere, durante i pellegrinaggi, esso doveva avvincere un pubblico multiforme, ma prevalentemente popolare, e colpirne la fantasia, l’immaginazione.
La tecnica narrativa e lo stile Come sempre nella Chanson de Roland, la narrazione si articola in una serie di quadri a loro modo autonomi, corrispondenti alla misura di una lassa. Ogni lassa però per lo più riprende qualche elemento (tematico o espressivo) della precedente, aggiungendovi variazioni minime, così da tenere fissa l’attenzione di un pubblico in ascolto. Allo stesso obiettivo è finalizzata la struttura delle frasi, semplice, quasi elementare (spesso il concetto si esaurisce nella misura di un verso) e l’uso dominante della paratassi. Le tecniche narrative e le scelte espressive presenti nella Chanson sono soprattutto riconducibili alla semplificazione idealizzante propria del discorso epico: l’enunciazione di verità indiscutibili non richiede infatti la presenza di nessi subordinanti complessi. Come ha osservato il critico tedesco Erich Auerbach, manca totalmente nella Chanson una dimensione problematica: la complessità del reale è ridotta a pochi, forti valori (la fede in Dio, la devozione alla patria, l’onore) e a un giudizio valutativo fortemente marcato, che distingue senza esitazioni e senza sfumature il positivo dal negativo, la causa giusta da quella sbagliata.
L’epica cristiana e le chansons de geste 1 103
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in circa 120 parole il contenuto del dialogo che si svolge tra Oliviero e Rolando nelle diverse lasse. COMPRENSIONE 2. Perché secondo Orlando suonare il corno significherebbe «agir da folle» (v. 1053)? 3. Che cosa contrappone Orlando e Oliviero? LESSICO 4. Analizza il brano dal punto di vista lessicale e indica i termini che appartengono al campo semantico della fedeltà. Quale rapporto lega il fedele Orlando all’imperatore? STILE 5. Individua nel testo gli aspetti formali che rimandano alla destinazione orale del poema. 6. Quale effetto produce l’uso insistito del tempo presente?
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 2
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 7. Nell’antichità classica l’eroe era in primo luogo un guerriero coraggioso che combatteva per la gloria, anche nel Medioevo l’eroe cavalleresco partecipa alla guerra e disprezza la propria vita pur di meritare la gloria con gesti eccezionali. Nel tempo questo modello è cambiato, l’eroe guerriero classico sembra scomparso dall’immaginario collettivo; ciò però non significa che non sia possibile ancora oggi identificare alcune forme di eroismo. Se non viene celebrato l’individuo straordinario per valore militare, si può riconoscere la qualità di eroe a chi manifesta il proprio valore in un altro modo: molto spesso l’eroe oggi è un uomo comune che lotta quotidianamente per difendere i valori della vita, della dignità, della solidarietà umana. Secondo te esistono ancora gli eroi oggi? A tuo parere può ancora essere usata questa parola nella società attuale? Chi secondo te meriterebbe un appellativo del genere? Chi è un eroe per te? SCRITTURA 8. Rintraccia nel testo (LXXX-LXXXII) le descrizioni dell’esercito dei saraceni: quale effetto producono le scelte lessicali e stilistiche? Secondo quali modalità è presentata la guerra tra franchi e saraceni? Argomenta la tua risposta.
Interpretare
CONFRONTO TRA TESTI 9. Confronta il passo di Eginardo, che presenta la realtà storica della battaglia di Roncisvalle, con i versi proposti dalla Chanson (➜ T1 ). Soffermati in particolare su: – l’identità del nemico dei Franchi; – le caratteristiche dell’esercito nemico; – le modalità dello scontro; – il ruolo dei personaggi. Illustra quindi come l’episodio storico viene mitizzato nel poema e con quali finalità.
Mentre si conducevano guerre assidue e quasi continue contro i Sassoni, Carlo, distribuiti convenienti presìdi nelle regioni di confine, assalì la Spagna con tutte le forze di cui poteva disporre. Valicati i Pirenei, ricevette la resa di tutte le città e di tutti i castelli che raggiunse e ricondusse in patria l’esercito sano e salvo, a parte il fatto che, proprio sul passaggio dei Pirenei, sulla via del ritorno, dovette fare esperienza della perfidia basca. Poiché l’esercito, a causa della strettezza delle gole, procedeva in lunga fila, i Baschi tesero un’imboscata – la regione vi si prestava perfettamente per la grande abbondanza di selve – e, piombando giù dall’alto, cacciarono verso il fondo della vallata l’ultima parte delle salmerie1 e i soldati della retroguardia, che coprivano la marcia del grosso. Poi, impegnato con questi il combattimento, li uccisero tutti fino all’ultimo uomo e, dopo aver saccheggiato le salmerie, protetti dalla notte sopraggiungente, si dispersero velocemente in ogni direzione. I Baschi furono favoriti in questa impresa dalla leggerezza del loro armamento e dalla configurazione del terreno, mentre la pesantezza delle armi e la posizione sfavorevole determinarono 1 salmerie: armi, munizioni, viveri.
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l’inferiorità dei Franchi. Nel combattimento caddero, insieme con moltissimi altri, il siniscalco2 Eggiardo, il conte palatino3 Anselmo e Rolando, governatore della marca4 di Bretagna. La sconfitta non poté essere vendicata subito, perché i nemici, compiuta l’azione, si dispersero in modo tale che non si riusciva a sapere dove mai li si dovesse cercare.
2 siniscalco: alto grado militare e amministrativo dell’età carolingia.
3 il conte palatino: il conte del “sacro” palazzo imperiale, massima carica giudiziaria al tempo dei franchi.
4 marca: termine geopolitico di età carolingia che designa una regione di confine.
A. Giardina e B. Gregori, Scenari di storia antica e medievale, Laterza, Roma-Bari 2000
online T2 Bernardo di Clairvaux Il martire guerriero e l’ideologia della guerra santa Lode della nuova milizia T3 Anonimo La presa di Saragozza e la conversione forzata degli infedeli Chanson de Roland, lasse CCLXIII-CCLXV
Scena di battaglia tra cavalieri in una miniatura del XIII secolo.
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Il romanzo cortese-cavalleresco 1 Un nuovo genere destinato alla corte feudale
Lessico cavalieri erranti Figure tipiche della letteratura cavalleresca medievale, erano cavalieri che girovagavano in cerca di ingaggi e avventure presso nobili e signori per dimostrare il loro valore.
online
Per approfondire Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco”
online
Per approfondire Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese
Un genere nato per la lettura In lingua d’oïl sono composti anche i romanzi cavallereschi, incentrati su amori e avventure di cavalieri erranti , una delle più significative testimonianze della letteratura medievale. I romanzi cavallereschi inizialmente erano in versi, successivamente vengono stesi in prosa, avvicinandosi così all’idea che abbiamo oggi di “romanzo” come affascinante narrazione in prosa: nel Medioevo invece, per lungo tempo, il termine roman (“romanzo”) aveva significato semplicemente componimento in lingua “romanza”, cioè neolatina. I romanzi cavallereschi sono opera di autori colti, che vivono e operano nelle corti feudali del Nord della Francia. Sono concepiti per intrattenere un pubblico raffinato di dame e cavalieri, del quale rispecchiano i valori e di cui ritraggono le abitudini e le occasioni della vita comunitaria, come il banchetto, la festa, il torneo. Mentre le chansons de geste sono destinate a una trasmissione orale, queste opere sono invece composte per la lettura, sia quella collettiva (pur sempre però all’interno dell’ambiente ristretto della corte) sia, più propriamente, quella individuale e silenziosa, magari nelle stanze private di qualche dama del castello. L’ideale cortese: un’immagine idealizzata del cavaliere e della figura femminile Attraverso i romanzi cavallereschi (e anche grazie alla lirica trobadorica) la cultura francese elabora un prestigioso modello culturale, quello “cortese”, sul quale si formerà l’“educazione sentimentale” delle classi colte in Europa e che rimarrà dominante per secoli anche in contesti del tutto diversi da quello delle corti feudali dove nacque (➜ SCENARI, PAG. 49). In origine l’ideale cortese è strettamente legato al mondo della cavalleria feudale ed è incentrato da una parte sull’esaltazione del coraggio, della lealtà, della liberalità (generosità nel dare) e dall’altra su un omaggio galante verso la donna, che riproduce sostanzialmente la dinamica dei rapporti di vassallaggio interni alla corte feudale. La “materia antica” Alcuni romanzi cavallereschi rielaborano temi e personaggi della storia e della letteratura antiche (la cosiddetta “materia antica” o “classica”), trasformandoli sulla base delle attese dei lettori e adattandoli alla mentalità e al gusto medievale per il “meraviglioso”: ne sono esempi il Romanzo di Troia, il Romanzo di Enea e il Romanzo di Tebe (composti tra il 1155 e il 1165).
n cavaliere giura fedeltà alla donna amata (miniature dal Codice di Manesse, U Biblioteca universitaria di Heidelberg).
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La “materia di Bretagna” I romanzi cavallereschi più noti attingono però non all’antichità classica ma alla cosiddetta “materia bretone” o “arturiana”. La fonte principale a cui fanno riferimento le varie narrazioni è La storia dei re di Britannia [Historia regum Britanniae] di Goffredo di Monmouth (tradotta in francese nel 1155): essa narra in modo romanzesco le imprese del leggendario re Artù e dei cavalieri della Tavola rotonda, cavalieri erranti in cerca di onore, gloria, avventure, tra i quali spiccano personaggi famosi come Lancillotto e Perceval. Sempre di origine bretone, ma non legata alla corte di re Artù, è la leggenda di un altro famosissimo cavaliere, Tristano.
2 I romanzi di Chrétien de Troyes Il più importante interprete della materia bretone Chrétien de Troyes, attivo tra il 1160 e il 1190, è considerato il più grande scrittore medievale prima di Dante. Originario della Champagne, probabilmente un chierico, svolse la maggior parte della sua attività alla corte di Maria di Champagne. Non si sa quale ruolo vi ricoprisse. Di lui ci sono rimasti cinque romanzi cavallereschi in versi, incentrati sulla “materia bretone”: nell’ordine, Erec et Enide (Erec e Enide), Cligès, Lancelot ou Le chevalier à la charrette (Lancillotto o Il cavaliere della carretta), incompiuto e completato da altri, Yvain ou Le chevalier au lion (Ivano o Il cavaliere del leone), Perceval ou Le conte du Graal (Perceval o Il racconto del Graal), rimasto incompiuto per la morte dell’autore e continuato da altri (➜ T5 ). Il codice cortese dell’amore Largo spazio ha nei romanzi di Chrétien il tema amoroso, indagato con grande finezza psicologica e con una visione sfaccettata e problematica: l’amore è comunque sempre concepito, secondo il codice “cortese”, come dedizione assoluta, “servizio”, anche se si tratta dell’amore coniugale (Erec e Enide, Cligès). Il romanzo che più di tutti traduce gli imperativi dell’amore cortese riguarda però un amore adultero, quello di Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di re Artù, che induce l’eroe a rinunciare per lei persino al suo onore di cavaliere. La scena del bacio tra Ginevra e Lancillotto ispirerà a Dante il celebre episodio di Paolo e Francesca nel quinto canto dell’Inferno. L’opera forse più nota di Chrétien, Perceval, non è incentrata sul tema amoroso ma su un cammino di iniziazione e perfezionamento morale-religioso, in cui ha un ruolo rivelatore la misteriosa immagine del Graal. La trama Nel romanzo il giovane Perceval viene allevato nella foresta dalla madre, che intende così impedire che possa morire in battaglia come il padre e i fratelli. Ma Perceval, affascinato dall’incontro con alcuni cavalieri, decide di abbandonare la madre (che morirà di dolore) per recarsi alla corte di re Artù e diventare cavaliere. Nella sua educazione cavalleresca conosce l’amore e sperimenta l’arte delle armi, ma gli manca ancora l’iniziazione alla fede. In un punto chiave del romanzo Perceval, dopo varie avventure e peregrinazioni, giunge al castello del re Pescatore, che lo ospita. Nella sala del castello assiste a una sorta di misteriosa processione, in cui compare una preziosa coppa, il Graal, il cui significato non gli viene svelato. La sua apparizione comunque ha un ruolo centrale nella vicenda e allude al processo di perfezionamento di Perceval, all’assunzione, che egli dovrà compiere, di una elevata coscienza morale per riscattare i suoi errori. Il romanzo cortese-cavalleresco 2 107
PER APPROFONDIRE
La leggenda di re Artù e la sua fortuna l mito di Artù, re cristiano La letteratura arturiana (incentrata cioè sulla figura di re Artù), che nasce nel XII secolo, ha come fonte principale La storia dei re di Britannia (Historia regum Britanniae), scritta verso il 1136 dal chierico Goffredo di Monmouth. Ma Artù è veramente esistito? È opinione generale che dietro la leggenda si nasconda un personaggio storico, vissuto fra la fine del V e l’inizio del VI secolo, ma di esso nulla si sa di certo. La sua figura ha comunque alimentato una ricca tradizione orale che fa di Artù un grande re, cristiano, leale, coraggioso e capace di restaurare l’ordine e la pace in un mondo degradato e selvaggio, preda di conflitti sanguinosi. I cavalieri della Tavola rotonda Il testo di Goffredo fu trasposto in versi nel 1155 dal poeta normanno Wace nel Roman de Brut. È Wace a introdurre nella materia arturiana il motivo, poi celeberrimo, della Tavola rotonda, istituita perché ciascun nobile della corte di Artù avesse la stessa dignità e fossero così prevenute le pretese di supremazia degli uni sugli altri. Nel XII secolo comincia a fiorire un’imponente tradizione narrativa che interpreta in chiave fantastica le avventure dei cavalieri di Artù. In particolare, è nota la vicenda di Lancillotto e del suo amore per Ginevra, moglie del sovrano, narrata da Chrétien de Troyes.
Il tema del Graal e il motivo della “spada nella roccia” Attorno al 1200 in Francia si manifesta un nuovo indirizzo narrativo, che collega il materiale arturiano con la storia del Graal (come nel Perceval di Chrétien de Troyes). Nello stesso periodo Robert de Boron nel suo romanzo Merlino introduce la figura del mago Merlino e il motivo della “spada nella roccia”: solo chi riuscirà a estrarre la spada conficcata in un’incudine poggiata su una pietra sarà il legittimo re di Britannia. Artù riesce a farlo e viene incoronato re. I motivi arturiani nel genere fantasy Molti romanzi arturiani dagli anni Settanta in poi possono essere ascritti al genere fantasy, molto popolare anche in Italia sull’onda della fortuna straordinaria del Signore degli Anelli di Tolkien (195455). Nel genere fantasy ricorrono moltissime componenti delle storie arturiane: dal tema della ricerca, alla figura di un eroe eletto, alla presenza della magia e del soprannaturale. Non è certo rimasta immune dal fascino della figura di Artù e del suo mondo la cinematografia: da Knights of the Round Table (1953) a Lancelot and Guinevere (1962) al Perceval (1978) di Rohmer allo spettacolare Excalibur (1981) e a Il primo cavaliere (1995). Persino alcuni cartoni giapponesi e videogiochi ne sono stati ispirati.
Sul mito di Artù: W. Gerritsen e A.G. van Melle, Miti e personaggi del Medioevo, Bruno Mondadori, Milano 1998. Un tentativo di dare consistenza storica alla leggenda di Artù si può trovare in N. Lorre Goodrich, Il mito della Tavola rotonda [1986], Bompiani, Milano 2003.
3 I temi: avventure e amori L’avventura del cavaliere cortese: un cammino di formazione Anche nei romanzi cavallereschi si ritrovano i valori che caratterizzano l’epica carolingia (l’esaltazione del valore e della lealtà), ma qui non sono finalizzati a un ideale collettivo, bensì sono espressione dello spirito d’avventura del singolo cavaliere, della sua volontà di mettersi alla prova per conquistare un’ideale perfezione. Per comprendere il senso dell’avventura cavalleresca è significativa questa definizione che di sé e della sua “ricerca” dà il cavaliere Calogrenant a un contadino nell’Ivano di Chrétien de Troyes: «Io sono, lo vedi, un cavaliere che cerca ciò che non può trovare: molto ho cercato e nulla trovo». «E che vorresti trovare?» «Avventura, per esercitare la mia prodezza e il mio ardimento». L’“avventura” dei romanzi cavallereschi ha quindi ben poco a che vedere con l’accezione moderna del termine (presente già nell’Orlando furioso), cioè l’irrompere casuale dell’imprevisto e dell’eccezionale nella vita dei personaggi. Per i personaggi dei romanzi cavallereschi l’avventura è invece la “norma” della loro esistenza, l’elemento fondante la loro stessa natura di cavalieri cortesi. Fondamentale ingrediente dei romanzi cavallereschi è il tema della quête, della “ricerca”: è infatti per cercare qualcuno o qualcosa che l’eroe affronta l’avventura, varcando la frontiera dell’ignoto e avventurandosi persino entro i confini della “terra proibita” (come il reame di Gorre nel Lancelot di Chrétien).
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Come accade nelle fiabe, nel suo peregrinare l’eroe attraversa luoghi-emblema – la selva labirintica, il castello, la fonte magica e altri ancora – e affronta ostacoli e prove “iniziatiche” che prevedono spesso l’incontro con esseri mostruosi o magici; i luoghi e gli spazi sono irreali e fiabeschi e la stessa dimensione temporale è indeterminata. La centralità del tema amoroso A differenza dell’epica carolingia, nei romanzi cavallereschi è centrale l’esperienza d’amore che rimanda, come nella lirica trobadorica, al modello dell’“amore cortese”, vero e proprio codice di comportamento di una società elitaria e raffinata: l’amore (per lo più extraconiugale) è concepito come attrazione fisica e al tempo stesso sentimento profondo, dedizione assoluta all’amata, che stimola nel cavaliere un processo di ingentilimento e perfezionamento interiore (➜ C4). Celebri sono gli amori “extraconiugali” (sul cui significato si veda De amore di Andrea Cappellano, (➜ T8 ) di Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di Artù, e soprattutto di Tristano per Isotta, moglie di re Marco. Le tecniche narrative La struttura narrativa del romanzo cortese è tendenzialmente “aperta”: le avventure si moltiplicano, creando per germinazione nuove narrazioni e storie parallele, che potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Viene comunque sempre sottolineata la continuità tra le vicende, la loro concatenazione in una “serie” dominata dal principio della causalità, a differenza del discorso epico, in cui la vicenda si dispiega in quadri in un certo senso autonomi tra di loro e caso mai collegati da ripetizioni e parallelismi. Inoltre nei romanzi cortesi l’intreccio tende a organizzarsi attorno a un protagonista, della cui storia focalizza i momenti salienti, le tappe di una progressiva formazione. La leggenda di Tristano e Isotta e il tema della passione fatale La vicenda dell’amore di Tristano e Isotta è ispirata a leggende celtiche. Della leggenda circolarono diverse versioni, alcune delle quali ci sono pervenute frammentarie: le due più importanti, in versi, sono il Tristan di Béroul e il Tristan di Thomas, e altre sono andate perdute (come quella di Chrétien de Troyes). L’enorme successo che la storia di Tristano ebbe nel Medioevo è legato a un’anonima versione in prosa, compilata intorno al 1230 e tradotta in molte lingue europee. La fortuna della leggenda in Italia è testimoniata in particolare dal Tristano Riccardiano, sostanzialmente una traduzione della prima parte del Roman de Tristan e dalla Tavola rotonda, che attinge episodi da Thomas. Una ricostruzione della complessa vicenda Dopo mirabili prodezze l’orfano Tristano, nipote del re di Cornovaglia Marco, ha conquistato Isotta, la bionda principessa irlandese, perché lo zio possa sposarla. Sulla nave che li riconduce in Cornovaglia i due giovani bevono per errore il filtro che avrebbe dovuto legare re Marco e Isotta di un amore profondo. Ormai Tristano e Isotta si ameranno. Re Marco sposa Isotta, ma un giorno, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende e li condanna. Tristano e Isotta riescono però a fuggire e a rifugiarsi nella foresta di Morrois. Qui vengono scoperti dal re che, commosso dal loro casto atteggiamento (riposano fianco a fianco ma separati dalla spada di Tristano) lascia la propria spada e l’anello di nozze e se ne va senza svegliarli. Colpiti da tanta clemenza i due giovani decidono di separarsi: Isotta ritorna a corte e Tristano si esilia in Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani. Non dimentica tuttavia la regina e, travestito da lebbroso, da mendicante, da pazzo, torna ogni tanto in Cornovaglia per brevi incontri con l’amata. Il romanzo cortese-cavalleresco 2 109
Nel corso di un combattimento Tristano è ferito a morte. Solo la regina Isotta potrebbe guarirlo. Il messaggero che la va a cercare concorda con Tristano un segnale: se Isotta avrà accettato di venire, la nave, al ritorno, isserà la vela bianca; isserà la vela nera se Isotta avrà rifiutato. Ma Isotta arriva troppo tardi. Tristano è morto, ingannato dalla moglie che gli ha annunciato che la vela era nera. La bionda regina muore di dolore sul corpo dell’amato. La tragica vicenda di Tristano e Isotta ha esercitato una grande suggestione nella letteratura occidentale. Il mito della passione fatale e l’associazione Amore-Morte affascinerà particolarmente la cultura romantica. Il personaggio di Tristano figura già nella Commedia: nel canto di Paolo e Francesca (If V) Dante inserisce i due amanti adulteri in un gruppo di spiriti in cui l’esperienza d’amore si è coniugata con la morte. Tra di essi spiccano celebri personaggi della letteratura, da quella classica (la Didone virgiliana) a quella romanza (Tristano appunto).
I generi letterari dell’età cortese IL ROMANZO CORTESE-CAVALLERESCO
GENERE
romanzo cavalleresco in versi o in prosa
LUOGO
Nord della Francia
TEMPO
XII secolo
LINGUA
d’oïl
STILE
raffinato
CONTENUTO
• “materia classica”
• “materia di Bretagna”
DIFFUSIONE
destinato a essere letto
OPERE/AUTORI
Lancillotto e Perceval di Chrétien de Troyes
TEMI
lealtà verso il signore, coraggio, generosità e amor cortese
Fissare i concetti L’epica cristiana, le chansons de geste e il romanzo cortese–cavalleresco 1. Quali sono le caratteristiche tematiche e formali delle chansons de geste? 2. Di che cosa tratta la Chanson de Roland? 3. Che cosa significa in origine la parola “romanzo”? 4. Che cosa si intende per “materia bretone”? 5. A quale pubblico si rivolgono i romanzi cavallereschi? E quale tipologia di lettore richiedono? 6. Quale ruolo e quali caratteri assume l’avventura nei romanzi cavallereschi?
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VERSO IL NOVECENTO
La fortuna del mito di Tristano e Isotta Tristano-Leopardi Giacomo Leopardi recupera la figura di Tristano in relazione non al tema amoroso ma a quello – costante in tutta la sua opera – dell’infelicità esistenziale, simboleggiata dal nome stesso del personaggio. In una delle Operette morali, il Dialogo di Tristano e di un amico (composto nel 1832, nello stesso anno del celebre Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere), Leopardi sceglie come suo portavoce e addirittura alter ego Tristano, eroe «malinconico» come si dice in apertura del dialogo: nella finzione letteraria è lui l’autore delle Operette morali, libro definito anch’esso «malinconico, sconsolato, disperato». Il Tristano e Isotta di Wagner Fra Ottocento e Novecento il mito di Tristano e Isotta viene ripreso da Richard Wagner in un dramma musicale (il compositore tedesco è autore anche del libretto) destinato a esercitare grandissima influenza sulla cultura del primo Novecento. Il Tristano e Isotta (Tristan und Isolde), rappresentato per la prima volta a Monaco il 10 giugno 1865, è il frutto di un’interpretazione originale da parte di Wagner del testo lasciato incompiuto dal poeta tedesco Goffredo di Strasburgo (1210 ca). La filosofia di Arthur Schopenhauer (1788-1860) e lo spirito del romanticismo tedesco fanno certamente da sfondo all’interpretazione wagneriana del mito dei due amanti. Nel dramma wagneriano i due amanti aspirano oscuramente alla morte perché è la conseguenza necessaria dell’amore: solo la morte infatti, in quanto eterno superamento della finitezza dell’io, dissoluzione nel Tutto, potrà rendere assoluta e definitiva la loro unione. Il Tristano di Thomas Mann Tristano (1903) di Thomas Mann, è un racconto lungo incentrato sul contrasto tra rapimento artistico e banalità dell’esistenza. Il tema dell’amore assoluto, insito nel mito di Tristano e Isotta, si coniuga nel racconto con le tematiche care al grande scrittore tedesco: il conflitto tra Arte, Bellezza e solidità borghese.
In un sanatorio (una clinica dove si curava soprattutto il “male del secolo”, cioè la tubercolosi) è ambientata una “vicenda a tre” che rimanda alla lontana al mito di Tristano: antagonisti un ricco commerciante, amante dei piaceri materiali della vita, un borghese saldamente ancorato alla realtà, e il signor Spinell, uno scrittore frigido e ironico, che si anima solo di fronte a oggetti, persone e spettacoli che stimolino il suo senso estetico, il suo culto del bello. Protagonista femminile è la fragile moglie del commerciante, la cui salute è minata. Spinell è attratto dalla bellezza “malata” della donna e si sente da essa trasportare, la idealizza, come gli amanti della letteratura cortese, ne fa una regina: «Io conosco un volto solo, di cui sarebbe peccato voler correggere la nobile realtà con la mia immaginazione, un volto che io vorrei guardare, su cui vorrei indugiare, non per minuti, non per ore, ma per tutta la mia vita, perdermi in esso completamente e dimenticare tutto ciò che è terreno». A sua volta la donna si lascia inebriare dalle rapite parole dello scrittore. Mediatrice tra i due è la musica (e, in particolare, il preludio del Tristano e Isotta di Wagner, che la donna suona al pianoforte), che li porta, esattamente come il “libro galeotto” di Paolo e Francesca, a riconoscersi come anime affini, inesorabilmente destinate a incontrarsi per completarsi vicendevolmente: «Che cosa accadeva? Due forze, due esseri rapiti anelavano l’uno verso l’altro soffrendo ed esultando e si abbracciavano nell’estatica e folle aspirazione all’eterno e all’assoluto...». La tumultuosa conclusione del racconto fa intuire un epilogo tragico: così Mann ripropone ancora una volta, in chiave però prettamente decadente, l’antico binomio Amore/Morte proprio del mito di Tristano e Isotta. (Le citazioni sono tratte da T. Mann, Tristan-Tristano, a c. di A.M. Giachino, Einaudi, Torino 2000).
online Audio
Preludio dal Tristano e Isotta di Wagner: Morte di Isotta dal Tristano e Isotta, S 447 nella trascrizione per pianoforte di Franz Liszt (1867) dall’opera di Richard Wagner Tristan und Isolde, WWV 90.
Tristano e Isotta bevono il filtro d’amore (da un codice del Romanzo di Tristano del secolo XV).
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 111
Chrétien de Troyes
T4
Lancillotto affronta la prova del ponte della spada Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta
A. Roncaglia, Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, Nuova Accademia, Milano 1961
Del Lancelot, che Chrétien lasciò incompiuto (fu terminato da altri), è nota la storia dell’amore adultero del cavaliere Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di re Artù, ricordato anche da Dante in un celebre passo dell’Inferno. Nel romanzo in realtà il tema centrale è quello della quête (o queste), ovvero della ricerca di Ginevra, rapita dal malvagio Meleagant, che porta Lancillotto ad affrontare nella terra proibita, il reame di Gorre, la prova del “ponte della spada”.
In capo al ponte ch’è perigliosissimo, sono smontati1 dai loro cavalli, e vedono giù l’acqua minacciosa, rapinosa e crosciante, oscura e gonfia, 5 orrida e spaventevole così come se fosse il fiume del demonio2, e tanto piena d’insidie e profonda che non v’è in tutto il mondo creatura, se vi cadesse, non fosse spacciata 10 non altrimenti che nel salso mare. Ed il ponte ch’è posto a traversarla era da tutti gli altri sì diverso che mai non fu, né mai sarà altrettale3. Giammai non fu, chi me ne chiede il vero, 15 ponte sì periglioso, o passerella: d’una spada forbita e rilucente fatto era il ponte sopra l’acqua gelida; ma forte e resistente era la spada e aveva la lunghezza di due lance. 20 A ciascuno dei capi stava un ceppo nel quale conficcata era la spada. Non tema alcuno che mai vi precipiti perché l’acciaio si spezzi o si pieghi, giacché era tanta la sua robustezza 25 che poteva gran pesi sopportare. Ma questo ancora molto disconforta entrambi i cavalieri che là stavano insieme al terzo: che loro pareva che due leoni, ovvero due leopardi, 30 in capo al ponte, sopra l’altra sponda, fossero incatenati ad un pilastro. 1 sono smontati: Lancillotto e altri due cavalieri. 2 il fiume del demonio: il fiume turbinoso è paragonato alle acque dell’Acheron-
[I due cavalieri rivolgono a Lancillotto un discorso ispirato a prudenza, con il quale tentano di dissuaderlo dall’impresa di attraversare il ponte.] «Signori, molte grazie, che per me tanto vi preoccupate: ciò nasce in voi da sincera amicizia. 35 Sono ben certo che per nessun modo vorreste la mia perdita. Ma io tal fede e tal fiducia ho in Dio ch’egli mi scamperà d’ogni periglio. Questo ponte non temo né quest’acqua 40 più ch’io non tema questa terra solida; anzi voglio tentare l’avventura d’attraversarlo e di venirne a capo. Preferisco morire che ritrarmene4». Essi non sanno più che cosa dirgli, 45 ma l’uno e l’altro di pietà sospira e piange assai. A traversare l’acque vorticose quegli come sa meglio s’apparecchia, e fa cosa stranissima e mirabile: 50 i suoi piedi disarma e le sue mani. Non sarà certo sano e senza piaga, quando sarà arrivato all’altra sponda; ma sulla spada avrà potuto reggersi, che ancor più d’una falce era tagliente, 55 a piedi scalzi e con le mani ignude, ché non aveva conservato al piede scarpa né calza né benda alle dita.
te, il fiume infernale. 3 altrettale: uguale. 4 anzi... ritrarmene: viene qui esplicitamente enunciata l’etica del cavaliere, lo
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sprezzo del pericolo e l’indomito spirito d’avventura che lo spinge a cimentarsi con le prove più difficili.
Non si turbava punto egli del fatto di doversi piagare mani e piedi; 60 ma preferiva coprirsi di piaghe piuttosto che cadere giù dal ponte nell’acqua, che non gli darebbe scampo. Con grande pena, come gli riuscì, traversa il ponte, e con molta destrezza. 65 Mani e ginocchi e piedi si ferisce, ma lo conforta e gli dà vigorìa amore che lo guida e lo conduce, sì ch’ogni cosa a soffrire gli è dolce5. Con le mani, coi piedi e coi ginocchi, 70 tanto fa che raggiunge l’altra sponda. Si risovviene allora e si ricorda dei due leoni che gli era sembrato
vedere quando stava dall’altra parte, e si guarda d’attorno, 75 e non vede nemmeno una lucertola, nulla insomma che possa fargli male6. Porta allora la mano innanzi al viso ed osserva il suo anello ed ha la prova, non trovando nessuno dei leoni 80 che già gli era sembrato di vedere, ch’era stato ingannato da incantesimo, ché là non c’era creatura viva. Quei ch’erano rimasti all’altra riva nel veder come è riuscito a passare 85 fanno tal gioia com’era ben giusto7.
5 amore... dolce: è appunto l’amore per la
6 Si risovviene... male: come nelle fiabe, il
regina Ginevra, che rende dolce persino la sofferenza.
pericolo dei due animali svanisce di fronte al risoluto coraggio dell’eroe.
7 fanno... ben giusto: si rallegrano come era giusto che fosse.
Analisi del testo L’avventura come strumento di affermazione delle virtù cavalleresche Nei romanzi cortesi l’avventura non è un elemento narrativo introdotto per avvincere i lettori, ma è una dimensione costitutiva dello stesso ideale cortese. Le virtù cortesi che contraddistinguono il cavaliere non sono infatti qualità innate, ma vengono affermate proprio per mezzo delle prove in cui il cavaliere esercita ed affina la sua volontà, il suo coraggio. Già nelle narrazioni antiche esistevano descrizioni di situazioni pericolose, di forze magiche che minacciavano l’uomo, e non mancavano eroi capaci di sfidare il pericolo e vincere su avversari temibili grazie alla loro forza o alla loro astuzia: ma certo è un fatto nuovo, come ha sottolineato Auerbach, che la perfezione del cavaliere si affermi proprio per mezzo dell’avventura. Da qui la presenza ricorrente degli incontri rischiosi che mettono alla prova il cavaliere.
Il carattere iniziatico della prova L’episodio riprodotto è fondato su ingredienti tradizionali della materia epica: il ponte da attraversare custodito da una creatura mostruosa e temibile costituisce una situazione topica, ma qui viene particolarmente enfatizzato il carattere iniziatico della prova, in cui si dimostra il valore e il coraggio dell’eroe. La descrizione dell’acqua e del ponte è realizzata con parole che alludono al freddo, alla profondità e al pericolo.
Rolando e Lancillotto L’ostinazione di Lancillotto nel voler attraversare il ponte nonostante i pericoli, non ascoltando i suoi compagni, ricorda la “follia” di Orlando a Roncisvalle, quando incurante del pericolo decide di non chiamare in aiuto Carlo Magno. Rolando non vuole assolutamente rinunciare a svolgere il proprio compito di cavaliere fedele; Lancillotto è spinto dall’amore per la propria dama tanto da non sentire dolore quando approda dall’altra parte del ponte ferito.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 113
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Suddividi il testo in sequenze, dai a esse un titolo e sintetizzane il contenuto. COMPRENSIONE 2. In che modo Lancillotto risponde ai suoi compagni che cercano di dissuaderlo dall’impresa? 3. Quale immagine spaventa di più i compagni di Lancillotto? ANALISI 4. Quale funzione ha l’anello? Ti sembra che Lancillotto abbia fatto affidamento sul suo aiuto? LESSICO 5. Con quali aggettivi è definita l’acqua? Quale effetto vuole procurare il narratore con l’uso di questi aggettivi?
Interpretare
SCRITTURA 6. Quali sono le qualità del perfetto cavaliere cortese attribuite a Lancillotto e che puoi ricavare dal testo? Ci sono differenze tra i cavalieri delle chansons de geste e quelli del romanzo cortese-cavalleresco?
Chrétien de Troyes
T5
L’apparizione del sacro Graal Perceval
Romanzi medioevali d’amore e di avventura, a. c. di A. Bianchini, Garzanti, Milano 1994
Perceval è ospite al castello del Re Pescatore, a cui è arrivato durante le sue peregrinazioni. Mentre si svolge un banchetto in suo onore, Perceval assiste a una misteriosa processione, in cui campeggia il Graal, di cui il giovane ignora il significato ma su cui non osa fare domande al re, pur sapendo dentro di sé che avrebbe dovuto farlo. Al suo risveglio all’alba troverà un inquietante silenzio: tutti gli abitanti del castello sembrano spariti...
Vi erano fiaccole che illuminavano la sala con un chiarore tale che al momento non sarebbe stato possibile trovare magione1 rischiarata più brillantemente. Mentre discorrevano di una cosa e dell’altra, da una camera apparve un valletto, che impugnava a metà una lancia splendente di biancore2. Passò accanto al fuoco e a 5 coloro che là sedevano e tutti quelli della sala videro la lancia e il ferro in tutto il loro biancore. Una goccia di sangue usciva dalla punta del ferro della lancia e colava fino alla mano del valletto, questa goccia vermiglia. Il nuovo arrivato vede questa meraviglia e si fa forza per non chiedere ciò che significa. Gli sovvengono infatti gli insegnamenti del suo maestro di cavalleria, che gli apprese che bisognava guardarsi 10 dal parlar troppo3. Se fa una domanda, teme che ciò gli sia imputato a villania4. E perciò non chiede nulla.
1 magione: dimora, casa. 2 splendente di biancore: risplendente di luce.
3 Gli sovvengono... parlar troppo: Perceval era stato addestrato ai valori cavallereschi da un nobile signore.
114 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
4 villania: è una parola chiave, contrapposta a “cortesia”, del codice di comportamento cortese.
Vennero allora due altri valletti, due bellissimi uomini, che tenevano in mano dei candelabri d’oro fino lavorato a niello5: erano bellissimi i valletti che portavano i candelabri: in ciascuno dei candelabri brillavano almeno dieci candele. Un graal 15 teneva una damigella nelle mani, e seguiva i valletti bella, gentile e nobilmente adornata. E quand’essa fu entrata, da tutto il graal che essa teneva s’irradiò per tutta la sala un chiarore sì grande che le candele impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il sole. Dopo questa damigella ne veniva un’altra, che portava un piatto d’argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell’oro più puro; vi erano 20 inserite pietre preziose delle più ricche e delle più varie che esistano per mare e per terra; nessuna gemma potrebbe paragonarsi a quelle del graal. Così come passò la lancia davanti al letto, passarono le damigelle per sparire in un’altra stanza. Il garzone6 lo vide passare e non osò chiedere a chi servissero questo graal, perché aveva sempre nel cuore l’ammonimento del valentuomo saggio. [...] 25 Il signore7 ordina di servire l’acqua e di mettere le tovaglie. I servitori obbediscono. Mentre il signore e il garzone si lavano le mani nell’acqua tiepida, due valletti portano una larga tavola d’avorio. Così come ci dice la storia, questa tavola era tutta d’un pezzo. Essi la tengono per un momento davanti al signore e all’ospite suo, mentre altri due valletti portano due trespoli il cui legno aveva due meriti: essendo 30 d’ebano, durava per sempre, ed invano ci si sarebbe sforzati di bruciarlo o di farlo marcire: son questi due rischi da cui è salvo. Su questi trespoli vien posata la tavola e sulla tavola vien messa la tovaglia. Che dire della tovaglia? Né legato8, né cardinale, né papa mangiarono mai su tovaglia più bianca. La prima portata è un’anca di cervo condito al pepe e cotto nel suo grasso. Non manca loro né vino bianco né 35 vino nuovo che bevono in una coppa d’oro. Un valletto taglia l’anca del cervo su un tagliere d’argento e pone i pezzi su un gran vassoio. E davanti ad essi un’altra volta ripassa il graal e il garzone non chiede a chi lo servano. Pensa al valentuomo che così cortesemente lo mise in guardia contro il parlar troppo e sempre gli rimane l’ammonimento nella memoria. Ma tace più di quanto 40 non gli convenga. Ad ogni nuova portata di cui vien servito vede passare davanti a sé il graal tutto scoperto e non sa a chi lo servano. Eppure vorrebbe saperlo. Ma ci sarà tempo di chiederlo a uno dei valletti della corte, egli pensa, quando al mattino prenderà commiato dal signore e da tutte le genti. Così la domanda è rimandata ed egli frattanto fa onore al pasto. 45 La tavola è servita a profusione di tutte quelle che sono le vivande ordinarie dei re, dei conti e degli imperatori, e i vini sono fra i più scelti e i più gradevoli. Dopo il pasto ambedue passano la veglia a discorrere, mentre i valletti apprestano i letti e recano datteri, fichi e noci moscate, garofani e melograni, elettuario9 per la fine, e ancora pasta allo zenzero d’Alessandria e gelatina aromatica. Dopo di che bevvero 50 molte bevande e vino al pimento10 in cui non vi era né miele né pepe, e buon vino di more e sciroppo chiaro.
5 lavorato a niello: si tratta di una particolare tecnica di lavorazione. 6 Il garzone: il ragazzo, Perceval.
7 Il signore: si tratta del Re Pescatore, il signore del castello dove è giunto Perceval. 8 legato: ambasciatore.
9 elettuario: sciroppo dolce. 10 pimento: spezia piccante.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 115
Analisi del testo Un’atmosfera fiabesca e onirica
Scena del Perceval in un manoscritto del 1330 (Parigi, Bibliothèque nationale de France).
Come spesso si verifica nei romanzi cavallereschi, la vicenda rappresentata si iscrive in un clima irreale. L’atmosfera sospesa, quasi onirica in cui si svolge la processione misteriosa affascina, irretisce il lettore, che abdica volentieri alla sua coscienza razionale per immedesimarsi nell’attonito stupore del protagonista. Il “meraviglioso” (il chiarore emanato dalla lancia e quello abbagliante del Graal) non entra nel racconto in modo dissonante, creando sconcerto o sorpresa, come avviene a volte nei racconti fantastici, ma si iscrive con naturalezza in un contesto già fiabesco. Ogni elemento del banchetto è infatti prezioso oltre ogni verosimiglianza, non a caso nella descrizione domina l’uso dell’iperbole. Così come Perceval, anche il lettore non ha elementi per comprendere il senso della processione e il significato degli elementi che la compongono, a cominciare dal Graal e nulla aggiunge al possibile svelamento di un qualche senso il ripetersi della processione più volte. Ma è proprio l’indeterminatezza, lo scarto da ogni logica a creare il senso di mistero che l’autore vuole evocare.
L’enigma del sacro Graal Quella del Graal è una storia infinita: sulla decifrazione di questo misterioso oggetto (simbolo o reliquia?) si sono cimentati storici, antropologi, teologi, filologi, e anche studiosi dell’occulto. Il mito del Graal è nato proprio con Perceval o il racconto del Graal, romanzo iniziatico composto da Chrétien de Troyes nella seconda metà del XII secolo. Nel racconto di Chrétien è ancora vago il significato religioso del Graal, che compare come una misteriosa coppa. Nei racconti successivi che trattano il tema del Graal, e in particolare nel romanzo La quête du Graal (La ricerca del Graal), il significato simbolico si esplicita, definendosi in senso espressamente cristiano. Parallelamente il Graal tende a diventare una reliquia, ovvero il calice nel quale Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo crocifisso. All’indomani della prima crociata (1096-1099) diverse chiese rivendicarono il possesso della preziosissima reliquia: in particolare fu identificato con il Graal il grande calice in pietra di calcedonio conservato nella cattedrale di Valencia in Spagna o, ancora, un largo piatto di pasta vitrea (il Santo catino di Cesarea) conservato nel tesoro della cattedrale genovese di San Lorenzo. Coppa, piatto, o altro, la ricerca del Graal assume sempre un significato salvifico e proprio per questo richiede particolari doti interiori.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Per quale motivo Perceval vede una goccia di sangue vermiglia che usciva dalla punta del ferro della lancia e colava fino alla mano del valletto e si fa forza per non chiedere ciò che significa? ANALISI 2. Individua nel testo gli elementi che conferiscono alla narrazione un senso di mistero. 3. Spiega la similitudine presente nella seguente frase del testo “un chiarore sì grande che le candele impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il sole”.
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 4. Come puoi leggere anche nell’analisi del testo, il significato del Graal rimane indeterminato e questo mistero è uno degli elementi che hanno contribuito al fascino che la leggenda ha mantenuto nel tempo. Fai una ricerca in internet per ritracciarne le più recenti rivisitazioni nella letteratura e/o nel cinema, poi stendi una breve relazione da presentare alla classe. CONFRONTO TRA TESTI 5. Confronta il testo che hai appena letto con T4 “Lancillotto affronta la prova del ponte della spada” di Chrétien de Troyes tratto da Lancillotto o Il Cavaliere della Carretta e rintraccia analogie e/o differenze.
online T6 Tristano Riccardiano Il fatale innamoramento di Tristano e Isotta
116 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Thomas
T7
La morte di Tristano e Isotta Tristan
La poesia dell’età cortese, a c. di A. Roncaglia, SansoniAccademia, Milano 1961
Della tragica fine dei due celebri amanti esistono diverse versioni: proponiamo quella di Thomas, poeta anglo-normanno, autore del Tristan (1170 circa), un poema di cui ci è pervenuta solo una parte limitata.
La vela bianca hanno issato. E a gran forza veleggiano, finché Caerdino avvista la Bretagna. Allora son gioiosi, allegri e lieti, 5 e issano la vela bene in alto che da lungi si possa riconoscere quale essa sia, la bianca o la nera: da lontano vuol mostrarne il colore perché s’era all’ultimo giorno 10 che Tristano aveva fissato come termine quando partirono dal paese. Mentre essi navigano felicemente, si leva la bonaccia e cade il vento sì che non possono più veleggiare. 15 Il mare è tranquillissimo e liscio: la nave non va né in qua né in là, se non quanto l’onda la sposta, né hanno scialuppa. Ora è grande l’angoscia. 20 Dinanzi a loro, vicina vedono la terra e non hanno vento con cui possano raggiungerla. Su e giù vanno dondolando, ora indietro e poi avanti. Non possono proseguire il loro cammino, 25 Vengono a trovarsi in grandissimo impaccio. Isotta n’è molto addolorata: vede la terra che ha tanto desiderata e non vi può approdare; per poco non muore dal desiderio. 30 Terra desiderano sulla nave, ma il vento spira troppo lene1. Spesso Isotta si chiama sventurata. La nave desiderano sulla riva: ancora non l’avevano avvistata.
1 lene: lieve, leggero.
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Tristano n’è dolente e infelice, sovente si lagna, sovente sospira per Isotta che tanto desidera, piange dagli occhi e si tormenta, per poco non muore dal desiderio. 40 In quell’angoscia, in quel cruccio, viene dinanzi a lui sua moglie Isotta2. Intesa al3 grande inganno che ha meditato, gli dice: «Amico, arriva Caerdino. Ho visto in mare la sua nave, 45 a fatica l’ho veduta navigare, tuttavia l’ho veduta sì che per sua l’ho riconosciuta. Dio conceda che porti tal novella4 di cui nel cuore abbiate conforto!». 50 All’annuncio Tristano ha un soprassalto, dice a Isotta: «Cara amica, siete sicura che è proprio la sua nave? Or ditemi: quale è la vela?». Così dice Isotta: «Sono sicura; 55 sappiate che la vela è tutta nera: l’hanno issata e levata su in alto, perché manca loro il vento». Allora Tristano ha sì gran dolore, che più grande non ebbe mai né avrà, 60 e si volta verso la parete, e dice: «Dio salvi Isotta e me! Poiché a me non volete venire, per vostro amore debbo morire. Io non posso più durare la vita5, 65 per voi muoio, Isotta, cara amica. Non avete pietà del mio languire, ma della mia morte avrete dolore. Questo m’è, amica, gran conforto, Che avrete pietà della mia morte». 70 «Amica Isotta!» tre volte ha esclamato, alla quarta rende lo spirito6. Allora piangono per la casa i cavalieri, i compagni. Il clamore è alto, il pianto grande. 75 Accorrono cavalieri e serventi e lo traggon fuori dal suo letto [...] 35
2 sua moglie Isotta: Isotta “dalle bianche mani” era la sposa di Tristano.
3 Intesa al: decisa a portare avanti il. 4 novella: notizia.
5 durare la vita: continuare a vivere (senza di lei).
6 rende lo spirito: muore.
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[Nel frattempo il vento si leva e la nave approda. Isotta la Bionda sente suonare le campane, un vecchio le annuncia la morte del prode Tristano. Annientata dalla tragica notizia, Isotta corre ad abbracciare l’amato.] Isotta corre là dove scorge la salma, si volge verso oriente, Prega piamente per lui: «Amico Tristano, dal momento che morto vi vedo, è ben ragione ch’io non debba più vivere! Siete morto per il mio amore, 115 E io muoio, amico, di tenerezza, Poiché a tempo non potei giungere voi e il vostro male a guarire. Amico, amico, per la vostra morte non avrò mai di nulla conforto, 120 gioia, letizia, né piacere alcuno. Quel maltempo7 sia maledetto, che tanto mi fece, amico, in mare tardare, sì ch’io non potei giungere. Se io fossi a tempo arrivata, 125 la vita v’avrei ridata, e dolcemente parlato con voi dell’amore ch’è stato tra noi; rimpianta avrei la nostra sorte, la nostra gioia, il nostro piacere, 130 e la pena e il gran dolore ch’è stato nel nostro amore, tutto ciò avrei ricordato e baciato v’avrei e abbracciato. Ma se io non v’ho potuto guarire, 135 che insieme dunque possiamo morire! Dal momento che non potei giungere in tempo e non seppi quel ch’era accaduto, e son giunta alla vostra morte, dello stesso filtro avrò conforto8. 140 Per me avete perduto la vita, ed io farò come verace amica: per voi del pari voglio morire». Lo abbraccia e s’abbandona distesa, gli bacia la bocca ed il viso 145 e strettamente a sé lo stringe, corpo a corpo, bocca a bocca, s’abbandona, 110
7 Quel maltempo: allude all’assenza di vento (bonaccia) che ha rallentato la nave.
8 dello stesso filtro avrò conforto: Isotta allude al filtro che li ha fatti innamorare
(➜ T6 OL ) ora però diventato strumento di morte.
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il suo spirito allora rende, e muore così al suo fianco Per il dolore del suo amico. 150 Tristano è morto per il suo desiderio, Isotta perché in tempo non poté giungere; Tristano è morto per suo amore e la bella Isotta di tenerezza.
Analisi del testo La morte dei due amanti Tristano, ferito a morte da un’arma avvelenata, attende Isotta, che sola potrebbe guarirlo perché esperta di erbe capaci di guarire. Il fedele Caerdino, che è stato inviato da Tristano a prendere Isotta nel suo paese lontano, ha convenuto con Tristano di innalzare la vela bianca come segno che Isotta è stata ritrovata e sta giungendo con la nave. Quando la nave è ormai prossima all’approdo, il vento cade e il corso della nave è inevitabilmente rallentato. Si crea così un’atmosfera di angosciosa attesa sia sulla nave sia a terra, dove Tristano attende spasmodicamente l’arrivo di Isotta. Finalmente la nave è in vista, ma Isotta dalle bianche mani, la moglie di Tristano, ingannando lo sposo per gelosia, gli annuncia che la nave issa una vela nera. A questa notizia, disperando ormai di rivedere l’amata Isotta, Tristano si abbandona volutamente alla morte. Giunta troppo tardi, anche Isotta muore di dolore, unita a Tristano in un supremo abbraccio d’amore.
Il mito letterario dell’amore infelice In un suo celebre saggio (L’amore e l’Occidente, del 1939) Denis de Rougemont (1906-1985) sviluppa una personale interpretazione del mito di Tristano e Isotta e sottolinea il ruolo fondamentale (secondo lui essenzialmente negativo) da esso esercitato nella letteratura occidentale. Capostipite di tutta la letteratura d’amore dell’Occidente, il romanzo di Tristano e Isotta è uno dei principali responsabili della costruzione dell’«amore su base negativa», dove ciò che conta (ciò che “fa amore”) è la tensione, l’ostacolo e l’irraggiungibilità, l’“assenza” della creatura amata. È una forma d’amore per certi aspetti patologica, commista di sofferenza e votata oscuramente alla morte. Scrive De Rougemont a proposito dell’amore di Tristano e Isotta: «Ciò che essi [Tristano e Isotta] amano è l’amore, è il fatto stesso d’amare. Ed agiscono come se avessero capito che tutto ciò che s’oppone all’amore lo garantisce e lo consacra nel loro cuore, per esaltarlo all’infinito nell’istante dell’abbattimento dell’ostacolo, che è la morte. Tristano ama di sentirsi amato, ben più che non ami Isotta la bionda. E Isotta non fa nulla per trattenere Tristano presso di sé: le basta un sogno appassionato. Hanno bisogno l’uno dell’altro per bruciare, ma non dell’altro come realtà; e non della presenza dell’altro, ma piuttosto della sua assenza!».
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Dividi il brano in sequenze, indica un titolo appropriato e sintetizza il contenuto di ciascuna sequenza. COMPRENSIONE 2. Qual è il ruolo della moglie di Tristano nella tragica vicenda narrata? ANALISI 3. La morte dei due amanti è preceduta da due monologhi (due dialoghi con l’amata/amato), più breve quello di Tristano, più lungo quello di Isotta. Analizzali evidenziando come in entrambi i casi l’amore, proprio perché irrealizzabile, si associ alla morte, rappresentata come scelta obbligata.
Interpretare
SCRITTURA 4. Immagina di essere stato testimone della morte dei due innamorati e scrivi un breve testo narrativo (max 20 righe) che fornisca una cronaca dell’episodio.
120 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
VERSO IL NOVECENTO
La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca
John R.R. Tolkien La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica J.R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli, trad. di V. Alliata di Villafranca, Rusconi, Milano 1977, cit. da P. Zanotti, Il modo romanzesco, Laterza, Roma-Bari 1998
5
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Nel suo best seller Il Signore degli anelli (1954-55), John R.R. Tolkien (1892-1973), un professore di Oxford studioso di fiabe e racconti mitologici, ha tentato di far rivivere il fascino delle storie medievali. Sulla scia del successo del suo libro è nato il genere fantasy, in cui si muovono esseri umani e non umani, in mondi paralleli di dimensioni meravigliose, s’incontrano oggetti magici e i personaggi seguono percorsi che li portano, attraverso avventure e prove, a una personale maturazione, proprio come gli eroi del romanzo medievale. Tolkien era un appassionato cultore della mitologia celtica e uno studioso delle lingue e letterature medievali anglosassoni. Il suo obiettivo, scrivendo Il Signore degli anelli, era quello di riportare in vita per sé e per i suoi amici una narrativa epico-fantastica come quella appunto medievale, un genere ormai scomparso. Come egli stesso ebbe a dire, cercava di «modernizzare i miti e renderli credibili», di proporre un’epica moderna in una società prosaica che aveva ormai smarrito il contatto con la dimensione epico-fantastica. Come i romances medievali, anche Il Signore degli anelli è un’opera complessa: in essa s’intrecciano motivi fiabeschi con trame di poemi cavallereschi, rivivono ambienti magici e personaggi mitologico-fantastici (hobbit, elfi, stregoni, nani, draghi ecc.) e ricorre il tipico motivo della quête (in due diverse versioni, quella di Frodo e quella di Aragorn). I vari episodi ruotano attorno all’eterno tema della lotta tra bene e male all’interno di un sistema di valori prettamente cavalleresco-religiosi. Tolkien non si limita a proporre la dimensione epico-cavalleresca a livello tematico, ma tenta anche di ricreare il fascino di una lingua “epica”, che egli costruisce attraverso le sue conoscenze filologiche di gran parte delle lingue romanze. Ecco un brevissimo esempio del “clima” epico-fantastico presente nel romanzo.
Su tutte le colline circostanti infuriavano gli eserciti di Mordor. I Capitani dell’Ovest venivano sommersi da flutti sempre più impetuosi. Il sole ardeva rosso, e sotto le ali dei Nazgûl le ombre della morte si proiettavano nere sulla terra. Aragorn si ergeva accanto al suo vessillo, silenzioso e severo, come perduto nel ricordo di cose remote o distanti; ma i suoi occhi brillavano come stelle che sfavillano con maggiore intensità a mano a mano che la notte s’infittisce. In cima al colle era Gandalf, bianco e freddo e nessun’ombra cadeva su di lui. L’assalto di Mordor irruppe come un’immensa ondata sulle colline assediate, e le voci ruggivano come una marea che sale fra boati e fragore. Come se ai suoi occhi fosse improvvisamente apparsa una visione, Gandalf trasalì: si voltò a guardare verso nord, dove i cieli erano limpidi e pallidi. Poi alzò le mani e gridò con voce possente che sovrastava ogni altro rumore: Arrivano le Aquile! Il successo de Il Signore degli anelli fu incredibile, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, quando il libro fu pubblicato negli Stati Uniti in edizione economica. Lo stesso Tolkien non riusciva a capacitarsi di come un’operazione nata quasi per sfida in un gruppo ristretto di amici avesse potuto suscitare tanto interesse. Di certo disapprovava le colorazioni politiche che gli venivano attribuite: da un lato la sua opera fu considerata un’operazione regressiva, di stampo reazionario, dall’altro divenne una lettura di culto per gli studenti che protestavano contro la società del benessere e per gli hippies che cercavano modi di vita alternativi. Essi videro in Tolkien una sorta di profeta e nel popolo degli hobbit la testimonianza di una scelta di vita arcaica, semplice e vicina alla natura.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 121
VERSO IL NOVECENTO
Italo Calvino Sotto l’armatura niente I. Calvino, Il cavaliere inesistente, Mondadori, Milano 2011
1 arma: insegna.
Sicuramente ispirata a un’ottica diversa o addirittura di segno opposto è la rivisitazione dell’epica cavalleresca compiuta da Calvino nel romanzo Il cavaliere inesistente (1959), che appartiene – insieme a Il visconte dimezzato (1952) e a Il barone rampante (1957) – alla trilogia I nostri antenati: non c’è in Calvino alcuna fiducia nella possibilità di riproporre valori e tematiche epiche, ma il codice cavalleresco è usato con consapevole distanza ironica. Quelle che seguono sono le pagine iniziali del primo capitolo del romanzo di Calvino. L’autore immagina che Carlo Magno al solito passi in rassegna i paladini che guidano le sue armate e lo servono fedelmente da anni. Tutto si ripete secondo uno stanco rituale, ma l’ultimo cavaliere della fila non risponde al solito cliché: dentro l’armatura di Agilulfo, il “cavaliere inesistente”, non c’è nessuno. È evidente la prospettiva ironica del testo.
Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiù in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva più grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po’ invecchiato, dall’ultima volta che l’avevano visto quei guerrieri. 5 Fermava il cavallo a ogni ufficiale e si voltava a guardarlo dal su in giù. – E chi siete voi, paladino di Francia? – Salomon di Bretagna, sire! – rispondeva quello a tutta voce, alzando la celata e scoprendo il viso accalorato; e aggiungeva qualche notizia pratica, come sarebbe: – Cinquemila cavalieri, tremilacinquecento fanti, milleottocento i servizi, cinque anni 10 di campagna. – Sotto coi brètoni, paladino! – diceva Carlo, e toc-toc, toc-toc, se ne arrivava a un altro capo di squadrone. – Ecchisietevòi, paladino di Francia? – riattaccava. – Ulivieri di Vienna, sire! – scandivano le labbra appena la griglia dell’elmo s’era 15 sollevata. E lì: – Tremila cavalieri scelti, settemila la truppa, venti macchine da assedio. Vincitore del pagano Fierabraccia, per grazia di Dio e gloria di Carlo re dei Franchi! – Ben fatto, bravo il viennese, – diceva Carlomagno, e agli ufficiali del seguito: – Magrolini quei cavalli, aumentategli la biada. – E andava avanti: – Ecchisietevòi, 20 paladino di Francia? – ripeteva, sempre con la stessa cadenza: «Tàtta-tatatài-tàtatàta-tatàta...» – Bernardo di Montpellier, sire! Vincitore di Brunamonte e Galiferno. – Bella città Montpellier! Città delle belle donne! – e al seguito: – Vedi se lo passiamo di grado – . Tutte cose che dette dal re fanno piacere, ma erano sempre le 25 stesse battute, da tanti anni. – Ecchisietevòi, con quello stemma che conosco? – Conosceva tutti dall’arma1 che portavano sullo scudo, senza bisogno che dicessero niente, ma così era l’usanza che fossero loro a palesare il nome e il viso. Forse perché altrimenti qualcuno, avendo di meglio da fare che prender parte alla rivista, avrebbe potuto mandar lì la sua 30 armatura con un altro dentro. – Alardo di Dordona, del duca Amone... – In gamba Alardo, cosa dice il papà, – e così via. «Tàtta-tatatài-tàta-tàta-tatàta...» – Gualfré di Mongioja! Cavalieri ottomila tranne i morti!
122 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Ondeggiavano i cimieri. – Uggeri Danese! Namo di Baviera! Palmerino d’lnghilterra! 35 Veniva sera. I visi, di tra la ventaglia e la bavaglia2, non si distinguevano neanche più tanto bene. Ogni parola, ogni gesto era prevedibile ormai, e così tutto in quella guerra durata da tanti anni, ogni scontro, ogni duello, condotto sempre secondo quelle regole, cosicché si sapeva già oggi per domani chi avrebbe vinto, chi perso, chi sarebbe stato eroe, chi vigliacco, a chi toccava di restare sbudellato e chi se la 40 sarebbe cavata con un disarcionamento e una culata in terra. Sulle corazze, la sera al lume delle torce i fabbri martellavano sempre le stesse ammaccature. – E voi? – Il re era giunto di fronte a un cavaliere dall’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennac45 chio di chissà che razza orientale di gallo, cangiante d’ogni colore dell’iride. Sullo scudo c’era disegnato uno stemma tra due lembi d’un ampio manto drappeggiato, e dentro lo stemma s’aprivano altri due lembi di manto con in mezzo uno stemma più piccolo, che conteneva un altro stemma ammantato3 più piccolo ancora. Con disegno sempre più sottile era raffigurato un seguito di manti che si schiudevano 50 uno dentro l’altro, e in mezzo ci doveva essere chissà che cosa, ma non si riusciva a scorgere, tanto il disegno diventava minuto. – E voi lì, messo su così in pulito... – disse Carlomagno che, più la guerra durava, meno rispetto della pulizia nei paladini gli capitava di vedere. – Io sono, – la voce giungeva metallica da dentro l’elmo chiuso, come fosse non 55 una gola ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare, e con un lieve rimbombo d’eco, – Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez! – Aaah... – fece Carlomagno e dal labbro di sotto, sporto avanti, gli uscì anche un piccolo strombettio, come a dire: «Dovessi ricordarmi il nome di tutti, starei fre60 sco!» Ma subito aggrottò le ciglia. – E perché non alzate la celata e non mostrate il vostro viso? Il cavaliere non fece nessun gesto; la sua destra inguantata d’una ferrea e ben connessa manopola si serrò più forte all’arcione, mentre l’altro braccio, che reggeva lo scudo, parve scosso come da un brivido. 2 la ventaglia e la bavaglia: sono due 65 – Dico a voi, ehi, paladino! – insisté Carlomagno. – Com’è che non mostrate la parti dell’elmo: la prifaccia al vostro re? ma, che era mobile, proteggeva il viso, La voce uscì netta dal barbazzale4. – Perché io non esisto, sire. la seconda è la parte – O questa poi! – esclamò l’imperatore. – Adesso ci abbiamo in forza anche un inferiore che copriva la bocca, con fessure cavaliere che non esiste! Fate un po’ vedere. e piccoli fori per consentire al cavaliere di 70 Agilulfo parve ancora esitare un momento, poi con mano ferma ma lenta sollevò respirare. la celata. L’elmo era vuoto. Nell’armatura bianca dall’iridescente cimiero non c’era 3 ammantato: fornidentro nessuno. to di manto. Il manto era attributo araldico – Mah, mah! Quante se ne vedono! – fece Carlomagno. – E com’è che fate a prestar di duchi e principi. servizio, se non ci siete? 4 barbazzale: parte inferiore dell’elmo 75 – Con la forza di volontà, – disse Agilulfo, – e la fede nella nostra santa causa! a visiera mobile (a – E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be’, per essere uno che protezione di mento e collo). non esiste, siete in gamba! 5 il serrafila: l’ultimo Agilulfo era il serrafila5. L’imperatore ormai aveva passato la rivista a tutti; voltò il dei paladini passati in rassegna. cavallo e s’allontanò verso le tende reali.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 123
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Erich Auerbach L’antirealismo dell’ideale cavalleresco E. Auerbach, Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956
All’interno di una sua celebre opera, Mimesis, che segue in un percorso secolare le tracce del realismo (e dell’antirealismo) nella letteratura occidentale, Erich Auerbach dedica un capitolo (La partenza del cavaliere cortese) alla letteratura cavalleresca, mettendone a fuoco soprattutto la tendenza idealizzante (e appunto antirealistica), che eserciterà un’influenza profonda anche in contesti socio-culturali del tutto differenti (come la società comunale in Italia), contribuendo in modo determinante alla diffusione di un modello etico-culturale costituzionalmente elitario.
Il mondo dell’affermazione cavalleresca è un mondo di avventure, non solo nel senso che troviamo in esso una serie quasi ininterrotta di avventure, ma anche nel senso che in esso non ci s’imbatte in nulla che non sia il palcoscenico o la preparazione dell’avventura; è un mondo fatto apposta per l’affermazione del cavaliere. 5 La scena della partenza di Calogrenant1 lo dimostra chiaramente. Egli cavalca tutto il giorno e incontra soltanto il castello destinato alla sua accoglienza; nulla è detto delle condizioni pratiche che rendono possibile l’esistenza d’un simile castello in piena solitudine, conciliandola con l’esperienza comune. Un’idealizzazione simile porta molto lontano dall’imitazione della realtà; nel romanzo cavalleresco è taciuto 10 il carattere funzionale, storicamente reale del ceto2. Questo genere poetico3 è ricco di notizie storiche sul costume e in genere sulla vita esteriore, ma non approfondisce la realtà del proprio tempo, nemmeno quella del ceto cavalleresco. Della realtà ritrae soltanto la superficie variopinta, e quando non è superficiale, ha altri argomenti e altri intenti che non la realtà contemporanea. Tuttavia esso contiene 15 un’etica sociale che come tale riuscí a imporsi al mondo reale perché possiede un grande fascino che si basa soprattutto su due qualità che lo distinguono: è assoluto, al di sopra di ogni contingenza terrena, e a colui che gli è soggetto conferisce il senso di appartenere a una comunità di eletti – a una cerchia di solidarietà [...] distanziata dalla gran massa degli uomini. Di conseguenza l’etica feudale, la con20 cezione ideale del cavaliere perfetto, durò a lungo e fu di grandissima efficacia. Le concezioni da lui inseparabili del valore militare, dell’onore, della fedeltà, del rispetto reciproco, dei costumi gentili e del culto della donna, esercitarono il loro fascino ancora su uomini di epoche completamente diverse; strati sociali sorti piú tardi, di origine cittadina e borghese accolsero quest’ideale, sebbene sia non 25 soltanto esclusivo ma anche completamente vuoto di realtà; non appena cerca di spingersi oltre la pura convenzione dei rapporti, di avvicinare gli affari pratici del mondo, diventa insufficiente e ha bisogno di un completamento col quale spesso si trova in urto. Ma proprio perché era tanto lontano dalla realtà, si adattò come ideale a qualsiasi situazione, per lo meno finché esistevano ceti dominanti.
1 Calogrenant: uno dei cavalieri della Tavola rotonda. Il riferimento è a una delle avventure narrate
nell’Ivano di Chrétien de Troyes.
2 ceto: si intende il ceto dei cavalieri.
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3 Questo genere poetico: il romanzo cavalleresco era originariamente in versi.
Franco Cardini L’avventura cavalleresca come metafora di esigenze/esperienze reali F. Cardini, il guerriero e il cavaliere, in J. Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1993
Nel passo critico che proponiamo, lo storico Franco Cardini sostiene che la situazione dell’“avventura”, vero e proprio topos della narrativa cavalleresca, sia originata da bisogni del tutto reali e concreti, comuni al ceto dei giovani cavalieri, e che trasformi in tema letterario concrete esperienze di vita, diffuse tra l’XI e il XIII secolo.
[Il] «cavaliere errante» è stato troppo a lungo considerato una figura del tutto letteraria, atemporale, improbabile anche come modello e assolutamente improponibile come specchio di una qualunque realtà vissuta. Non era così. Nuove tecniche d’interpretazione dei testi letterari e di interroga5 zione del passato ci hanno posto, anche in quest’ordine di problemi, dinanzi a una differente realtà. Psicanalisi, semiologia e antropologia culturale, congiunte, ci hanno invitato a leggere con altra ottica quegli «improbabili» testi arturiani. Un sociologo della letteratura come Eric Köhler e uno storico come Georges Duby ci hanno insegnato a cogliere, al di là dei sogni e delle finzioni letterarie [...], quelle 10 che potremmo definire le forme concrete dell’avventura. Certo, l’avventura cavalleresca è costellata di fate e di draghi, di mostri e di castelli o giardini incantati, di nani e di giganti. Ma si tratta, più che di fantasie, di metafore. L’avventura si correva sul serio. Georges Duby ha dimostrato come fra XI e XIII se15 colo l’elemento attivo della piccola aristocrazia europea – soprattutto francese; ma, seguendo il modello francese, anche di quella anglo-normanna, tedesca, spagnola e italica – sia costituito dagli iuvenes: vale a dire dai cavalieri «addobbati» da poco, che cioè hanno appena ricevuto le armi durante la cerimonia di vestizione e che sciamano raggruppati in più o meno numerose comitive fuori dal loro ambiente 20 abituale inseguendo forse anche sogni, ma certamente soprattutto ben concreti anche se non sempre raggiunti ideali di sicurezza e di prestigio sociale.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Che cosa si afferma nel testo di Auerbach a proposito della letteratura cavalleresca? Quali argomenti vengono addotti per sostenere la tesi principale? 2. Che cosa si afferma nel testo di Cardini in relazione all’avventura cavalleresca? Qual è la sua tesi? 3. Cardini sostiene che le fiabesche avventure dei cavalieri erranti più che fantasie sono metafore: sai spiegare la differenza tra fantasia e metafora? 4. Condividi le considerazioni di Auerbach in relazione alla letteratura cavalleresca o pensi che abbia ragione Cardini? Argomenta i tuoi giudizi con riferimento a ciò che hai studiato e scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
Il romanzo cortese-cavalleresco 2 125
Sguardo sul cinema I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone Nella storia del cinema la figura del cavaliere, personaggio al contempo storico ed eroico, a partire dalla metà del secolo scorso, è stata utilizzata con l’intento di coniugare raffigurazione storica e intrattenimento. L’immagine che il cinema americano ha fornito dei cavalieri e del Medioevo è caratterizzata dalla predominanza dell’immaginazione e della fantasia sulle fonti storiche utilizzate con molta libertà. Elizabeth Taylor e Robert Taylor in Ivanhoe (1952).
Nel 1966 in Italia esce il film di Mario Monicelli L’armata Brancaleone, uno dei ritratti cinematografici più efficaci della storia del cinema sull’epoca cavalleresca. Si configura come una parodia di tutto il cinema precedente sul Medioevo e sui cavalieri. Brancaleone, il protagonista, con il suo linguaggio e i suoi gesti costituisce una figura demitizzata, una sorta di cavaliere “di provincia”. Il Medioevo di questa pellicola è in fondo molto più realistico di quello idealizzato del cinema degli anni Cinquanta, la cui rievocazione appariva sempre stravolta e poco credibile. online
Approfondimento I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone
Vittorio Gassman nei panni di Brancaleone da Norcia in due scene da L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli.
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3
La lirica provenzale 1 Una poesia “da ascoltare”: la lirica trobadorica L’emergere della lirica nel tardo Medioevo Il termine “lirica” ha origine in Grecia, dove identificava un tipo di poesia accompagnata dal suono di uno strumento musicale a corde, la lira (la lirica denominata “monodica” era recitata da un solo cantore, quella “corale” coinvolgeva più cantori). È nel tardo Medioevo che la lirica emerge nel panorama delle forme letterarie, quando alla funzione di insegnamento di norme morali e religiose, che contraddistingue in particolare la cultura altomedievale, si affianca una concezione diversa della letteratura: la lirica implica infatti un’idea della letteratura come espressione di stati d’animo, di impressioni soggettive, in particolare in rapporto all’amore, che si impone nella produzione in lingua romanza come esperienza centrale del vissuto individuale.
Lessico trovatori Il termine indica il poeta della poesia provenzale e deriva da trobar.
Una poesia “d’autore” Tra la fine dell’XI secolo e la metà del XIII, nella zona meridionale della Francia denominata Occitania (dalla lingua d’oc lì utilizzata) si sviluppa la lirica trobadorica (dal provenzale trobar “trovare, inventare”, con allusione all’attività poetica del “comporre versi”) a opera dei trovatori . È significativo che i trovatori firmino per la prima volta le loro composizioni (ce ne sono pervenute ben 2542, con i nomi di circa 450 poeti) e si presentino talvolta al pubblico nel congedo delle canzoni, interrompendo quindi l’anonimato caratteristico dei primi secoli del Medioevo. Non è un caso che ci siano pervenute numerose biografie di trovatori (vidas), redatte nel XIII secolo, che accompagnano i testi insieme alle razos, note esplicative sulle occasioni che hanno originato i componimenti. Alcuni trovatori – come Guglielmo d’Aquitania, conte di Poitiers (1071-1126), Jaufre Rudel, principe di Blaye presso Bordeaux o Bertran de Born – appartenevano a famiglie di alta nobiltà; altri provenivano dalle più diverse estrazioni sociali, anche umili (come Marcabru e Bernart de Ventadorn) ed erano al servizio delle corti feudali, dove intrattenevano un pubblico di dame, cavalieri, nobili, ecclesiastici. Guglielmo d’Aquitania è il più antico dei trovatori provenzali. Potente feudatario, partecipò a due crociate (in Terrasanta e in Spagna). Presso i contemporanei aveva fama di uomo dissoluto, amante dei piaceri (per comportamenti illeciti fu anche scomunicato); anche la vida che ci è pervenuta conferma questo dato biografico. Ha lasciato 11 composizioni. Del trovatore Jaufre Rudel ben poco sappiamo (morì forse in Terrasanta durante la seconda crociata, 1147-1148). Ci sono pervenute di lui solo sei liriche, in cui domina il tema dell’“amore di lontano”. Forse proprio la ricorrenza di questo tema nella sua poesia ha ispirato la sua vida che favoleggia di un amore lontano che il poeta avrebbe realmente vissuto. Una poesia musicata e cantata La poesia trobadorica era scritta, musicata e recitata, con l’accompagnamento di uno strumento a corde, dai trovatori stessi (simili in questo ai moderni cantautori). Le composizioni scritte e musicate dai trovatori erano anche affidate ai giullari per l’esecuzione. Ci sono pervenute le notazioni muLa lirica provenzale 3 127
Lessico canto gregoriano È il canto liturgico della Chiesa cattolica latina, cantato da un coro o da un cantore senza accompagnamento musicale. Il nome deriva da Gregorio, papa dal 590 al 604 che raccolse in volume i canti liturgici.
sicali di 260 poesie soltanto: su questa base ristretta di testimonianze è impossibile ricostruire un modello musicale comune. Gli studiosi concordano però nel ritenere che la tecnica musicale dei trovatori fosse raffinata e complessa e che si distaccasse comunque dalla tradizione del canto gregoriano proprio della cultura della Chiesa. Un passatempo raffinato per pochi eletti La poesia provenzale inaugura una produzione letteraria svincolata da una visione pedagogico-morale della letteratura, in competizione con i temi e i valori della cultura clericale: quella trobadorica è infatti una poesia per la maggior parte amorosa e concepita come raffinato passatempo all’interno della vita di corte. All’interno della lirica trobadorica sono presenti due diverse tendenze di stile: il trobar clus cioè “il cantar chiuso, difficile”, volutamente oscuro, caratterizzato da un’insistita presenza di figure retoriche e da un lessico raro e prezioso, come nell’opera di Arnaut Daniel, ricordato da Dante per la sua eccellenza di poeta (Pg XXVI); e il trobar leu (“il cantar dolce, piano”), una poesia più leggera e comprensibile, il cui esponente principale è Bernart de Ventadorn. Il mito dell’amore cortese: un tema chiave della cultura occidentale Anche se nella lirica trobadorica non manca la componente satirico-politica, come nei cosiddetti sirventesi, il tema centrale è l’amore, che per la prima volta viene rappresentato come un’esperienza fondamentale della vita umana. La visione dell’amore prospettata dalla poesia provenzale (in lingua d’oc la fin’amor) è totalmente nuova: l’amore è concepito come passione struggente, non priva di tratti sensuali, il poeta prova un desiderio frustrato per la donna posta su un piedestallo irraggiungibile e adorata da chi affina il proprio animo pur nella sofferenza e nella rinuncia (o forse proprio grazie a esse). Amore cortese e modello feudale di comportamento L’identità della donna cantata dai trovatori è spesso nascosta da uno pseudonimo, il senhal (“segno” in provenzale), poiché si tratta di un amore che deve essere tenuto segreto per evitare la maldicenza e la calunnia degli invidiosi e perché la donna spesso è già sposata. Il “servizio d’amore” che lega l’innamorato alla donna, la fedeltà assoluta a lei ricorda da vicino il rapporto feudale di vassallaggio, che richiedeva al vassallo la fedeltà e l’omaggio devoto al signore: non a caso la donna è chiamata midons, “mio signore”. Nei testi trobadorici del resto vi sono così tanti parallelismi con i rituali feudali e così tanti termini giuridici di ascendenza feudale che si è arrivati a definire l’intera
Caratteristiche dell’amor cortese L’amor cortese
concepito come passione struggente
caratterizzato da: • lode della donna amata • segretezza del nome della donna indicata con uno pseudonimo (senhal), perché il più delle volte già sposata • sottomissione del poeta-amante, che promette assoluta fedeltà alla donna • insoddisfazione da parte del poeta per non essere ricambiato dalla donna • consapevolezza del poeta della funzione nobilitante dell’amore
indirizzato a una donna posta su un piedistallo irraggiungibile
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lirica trobadorica come una “metafora feudale” (Mancini), come se la devozione verso la donna, esaltata dai trovatori, fosse la trasposizione simbolica della sottomissione del cavaliere feudale al suo signore. L’enigma della fin’amor Nonostante i molteplici studi critici che si sono succeduti nel tempo, la fin’amor rimane un enigma. Il fatto che l’amore cortese sia un amore adultero, anche se destinato a non realizzarsi, potrebbe spiegarsi con la realtà sociale delle corti feudali, in cui i giovani cavalieri contemplavano le grandi dame o la moglie addirittura del loro signore, ma di certo non potevano pensare di conquistarle veramente. Ma sono diverse le ipotesi in campo.
online
Per approfondire L’enigma della fin’amor
Il trattato sull’amore di Andrea Cappellano L’amore cortese ha il suo teorico in Andrea Cappellano, un misterioso personaggio che visse forse alla corte di Maria di Champagne, autore del De amore, un trattato in latino che ebbe enorme diffusione e che offre una minuziosa casistica dei riti e delle regole della fin’amor (➜ T8 ). Il trattato, diviso in tre libri e scritto alla fine del XII secolo, svolse un ruolo fondamentale nella codificazione dell’amore cortese. L’autore si propone, attraverso una minuziosa casistica, di illustrare la natura dell’amore e di fissare le regole di comportamento da seguire in campo amoroso secondo una concezione dell’amore essenzialmente laica e svincolata dai principi religiosi. L’uso del latino e la struttura didattica del testo, che ricalca i trattati filosofici, conferisce autorevolezza a un tema, quello dell’amore, che poteva porsi in conflitto con la cultura e l’ottica della Chiesa. In alcune pagine fondamentali vengono gettate le basi teoriche dell’amore cortese, celebrato nel romanzo cavalleresco e nella lirica trobadorica: una passione esclusiva, che nasce in individui nobili di spirito, che affina l’animo e che, per sua natura, non può sorgere all’interno del legame matrimoniale. La poesia come tecnica e come insieme di convenzioni Quella trobadorica è in ogni caso una poesia caratterizzata da un alto grado di elaborazione tecnico-formale: i trovatori non concepivano assolutamente la poesia come spontanea espressione di sentimenti personali, né avevano come obiettivo l’originalità: nella poesia trobadorica circolano quindi motivi ricorrenti e situazioni convenzionali che danno vita a veri e propri sottogeneri, come le aubes (composizioni in cui due amanti si lamentano di doversi separare all’alba), le nuegs (composizioni in cui si elencano situazioni spiacevoli), i plazers (composizioni in cui si elencano situazioni piacevoli).
Incontro d’amore (miniatura francese, inizio secolo XV, British Library, Londra).
La lirica provenzale 3 129
L’influenza della poesia trobadorica L’influenza della concezione cortese dell’amore sulla letteratura occidentale sarà grandissima: attraverso gli stilnovisti e soprattutto Petrarca, giungerà fino al Romanticismo, a Goethe, a Novalis; ma la sua suggestione si espanderà ancora in pieno Novecento. Oltre al tema dell’amore cortese, i trovatori trasmettono alla poesia occidentale una tecnica della versificazione fondata sulla misura sillabica, sulla successione organizzata degli accenti e sul raggruppamento dei versi in strofe caratterizzate dalla presenza della rima. La forma metrica principale inventata dai trovatori è la canzone (canso in provenzale, con allusione allo stretto legame fra testo e musica), un genere metrico che avrà una fortuna secolare (➜ PER APPROFONDIRE, La canzone e la canzonetta, C4). La fine della cultura provenzale e la diaspora dei trovatori La civiltà provenzale conosce una fine traumatica in seguito alla crociata contro gli Albigesi (12091229), una delle più cruente della storia della cristianità. La crociata fu indetta da papa Innocenzo III per colpire l’eresia catara, che aveva uno dei suoi centri più importanti nella città di Albi, ma che era estesa in tutta la Linguadoca. Lo sterminio di migliaia di persone determinò la fine della civiltà occitanica e il rapido tramonto della stessa lingua d’oc. Queste drammatiche circostanze storiche disperdono i trovatori, che cercano rifugio e protezione in Spagna, in Germania, dove si creò il movimento poetico dei Minnesanger (da Minne “amore” e Sang “canto”) e anche in Italia.
I generi letterari dell’età cortese LA LIRICA PROVENZALE GENERE
lirica con accompagnamento musicale
LUOGO
Sud della Francia
TEMPO
XII secolo
LINGUA
d’oc (provenzale diffuso nella Francia meridionale)
STILE
• trobar clus “cantare diffcile”
• trobar leu “cantare dolce”
CONTENUTO
• lode della donna
• servizio d’amore
DIFFUSIONE
OPERE/AUTORI
orale da parte dei giullari
• Guglielmo d’Aquitania
TEMI
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amore cortese
• Jaufre Rudel
Andrea Cappellano
T8
La codificazione dell’amore cortese De amore
Andrea Cappellano, De amore, trad. di J. Insana, SE, Milano 1996
Il De amore è un trattato in latino della fine del XII secolo, che ebbe vastissima circolazione anche in Italia e che svolse un ruolo fondamentale nell’elaborazione dell’ideale cortese dell’amore. Proponiamo alcuni passi dal trattato che trovano precisi riscontri nella letteratura franco-provenzale (e in seguito anche nella lirica italiana), a testimonianza della sua influenza sul codice amoroso medievale.
Quale effetto produce l’amore Questo è l’effetto d’amore: poiché il vero amante non può peccare di avidità1, l’amore dà bellezza2 all’uomo incolto e rozzo, dà nobiltà anche ai più umili, rende umili3 anche i superbi, e l’innamorato generalmente è molto compiacente con tutti. 5 Che cosa meravigliosa è l’amore che fa splendere l’uomo di tante virtù e gli insegna ad avere tanti buoni costumi! C’è nell’amore un altro merito, degno di lunga lode: l’amore rende l’amante quasi casto perché chi è illuminato dal raggio di un solo amore, difficilmente pensa di fare l’amore con un’altra anche se bella. Finché pensa esclusivamente al suo amore, 10 orrida e brutta gli appare alla mente qualsiasi altra donna. L’amore non è compatibile con il matrimonio Perciò, avendo attentamente considerato l’affermazione di ciascuno di voi due e ricercato la verità, voglio subito in questo modo comporre la contesa4: con certezza 15 dico che amore non può affermare il suo potere tra due coniugi, perché gli amanti si scambiano gratis5 ogni piacere senza nessun tipo di costrizione, mentre i coniugi sono per legge tenuti a obbedire l’uno alla volontà dell’altro senza potersi rifiutare. E come può accrescersi l’onore della coppia se fanno l’amore come gli amanti, dal momento che non cresce la gentilezza né della moglie né del marito6 e non hanno 20 niente di più di quanto per diritto avevano prima? E dico questo anche per un’altra ragione, perché il precetto d’amore insegna che neppure la moglie del re può meritare la corona d’amore se non è legata alla cavalleria d’amore7 fuori del vincolo matrimoniale, mentre un’altra regola d’amore insegna che nessuno dei due può essere ferito da amore. Giustamente dunque amore non può accampare diritti tra 25 coniugi. Ma un’altra ragione ancora contrasta l’amore tra coniugi, perché non può esserci tra loro vera gelosia senza la quale non c’è vero amore, secondo la regola d’amore che dice: Chi non è geloso non può amare8.
1 il vero... di avidità: il vero amante non è mai avaro, ma diviene generoso e disinteressato. 2 bellezza: dote che è fatta di eleganza, gusto e raffinatezza. 3 umili: miti, cortesi. 4 comporre la contesa: decidere la questione. Chi parla è qui, in una lettera, Maria di Champagne, una delle quattro nobildonne a cui si rivolge nel trattato Gualtiero, un maestro d’amore dietro cui
si cela l’autore. La contesa è una questione relativa all’amore che era stata posta alla contessa. 5 gratis: disinteressatamente e liberamente. 6 non cresce... marito: per meritare l’amata e ottenerne l’amore, l’amante deve sempre migliorare; ma nel matrimonio l’amore è un dovere, perciò nei coniugi non si innesca alcun processo di perfezionamento.
7 se non è... d’amore: la donna, oltre al marito, deve avere un cavaliere innamorato che la serve e la onora; tra gli esempi più famosi nella tradizione cortese si possono citare Lancillotto, amante di Ginevra, moglie di re Artù, e Tristano, amante di Isotta, moglie di re Marco. 8 Chi ... amare: la gelosia è legata all’incertezza se l’amore sia ricambiato; perciò non dovrebbe esistere tra coniugi.
La lirica provenzale 3 131
È necessario tenere segreto l’amore Poiché dunque ho trattato sufficientemente della conquista di amore, giustamente ora devo considerare e aggiungere in che modo si deve conservare l’amore conquistato. Chi desidera tenere vivo a lungo il proprio amore, deve soprattutto fare in modo che l’amore non sia svelato a nessuno oltre i propri confini e resti nascosto a tutti9. Quando l’amore arriva a conoscenza di tutti, subito perde il naturale incentivo e viene a mancare. [...] Ognuno deve lodare poco l’amante tra la gente e non gli conviene parlare di lei troppo a lungo o riparlare, e raramente deve frequentare la sua contrada; anzi, se vede la sua amante in compagnia di altre persone, non deve fare nessun cenno col corpo e deve considerarla come un’estranea, affinché nessuno trami contro il suo amore e trovi il pretesto per parlarne male, perché gli amanti non devono scambiarsi cenni se non sono sicuri d’essere al sicuro da ogni inganno. [...] 9 deve... a tutti: poiché l’amore cortese è adultero, essendo fuori dal matrimonio, non è bene sia rivelato, perché susciterebbe
critiche e pettegolezzi; perciò i poeti usavano chiamare le donne amate con un senhal, cioè con un nome fittizio.
Analisi del testo Gli effetti dell’amore Il primo passo è incentrato sulle trasformazioni positive che l’amore, inteso come amore cortese, attiva in chi lo prova, modificandone in modo sensibile i comportamenti. Il riferimento agli “effetti d’amore” diventerà un vero e proprio topos, in particolare nella lirica stilnovistica, da Guinizzelli a Cavalcanti, allo stesso Dante della Vita nuova, dimostrando così la forte influenza esercitata dal trattato di Cappellano sulla nascente lirica italiana.
Amore e matrimonio Il secondo passo è dedicato a illustrare, attraverso una serrata argomentazione, l’incompatibilità tra amore cortese e legame matrimoniale. Tra chi è vincolato dal patto matrimoniale non può esistere vera passione: essa per sua natura sfugge infatti a ogni obbligo, è inappagata e implica inevitabilmente la gelosia verso chi si ama. La teorizzazione del carattere extramatrimoniale del vero amore costituiva una vera e propria sfida ai valori della cultura clericale.
Celare l’amore Il terzo testo teorizza la necessità della segretezza per gli amanti: una volta svelato ad altri l’amore perde la propria eccezionalità ed espone inoltre gli innamorati alla maldicenza altrui. Anche questo precetto diventa in ambito letterario motivo ricorrente: la necessità di “ben celare” l’amore induce il poeta provenzale a usare uno pseudonimo (senhal) per alludere alla donna amata.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto di ciascun paragrafo. COMPRENSIONE 2. Spiega perché, secondo Andrea Cappellano, il vero amore è incompatibile con il matrimonio.
Interpretare
SCRITTURA 3. La concezione cortese dell’amore ha lasciato qualche traccia ancor oggi, per esempio nell’espressione “fare la corte”. Quali abitudini, gesti, o espressioni riflettono tuttora, a tuo parere, un legame con il modello di comportamento cortese?
132 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Guglielmo d’Aquitania
T9 La poesia dell’antica Provenza, a c. di G.E. Sansone, Guanda, Parma 1984
Con la dolce stagione rinnovata La lirica che proponiamo è la più celebre delle composizioni dell’autore ed è considerata una sorta di manifesto della fin’amor e dei caratteri della lirica occitanica.
Con la dolce stagione rinnovata1 i boschi rinverdiscono e gli uccelli nella sua lingua ognuno va cantando con l’armonia del canto novello2: 5 è giusto allor che ognuno si procuri quello di cui ha brama più grande. Dal luogo in cui è tutto il mio piacere missiva o messaggero non mi viene, sicché non dorme né ride il mio cuore3, 10 e io non oso spingermi più avanti, finché non sappia che la conclusione sarà ben quale vado domandando4. Si porta il nostro amore alla maniera in cui si porta il ramo di biancospino5, 15 che avvinto all’albero tutta la notte tremando resta nella pioggia e al gelo fino al domani quando il sol s’effonde sul ramoscello tra il verde fogliame. Io mi ricordo ancora d’un mattino, quando mettemmo fine al nostro scontro e lei mi dette un dono così grande: l’amore pieno insieme con l’anello6. Iddio mi lasci vivere tanto ch’abbia le mani sotto il suo mantello7! 25 Non mi curo d’estranea diceria che mi separi dal mio Buon Vicino8. 20
La metrica Il testo originale in lingua d’oc è composto di cinque coblas, stanze di versi ottonari con schema AABCBC 1 Con la dolce... rinnovata: allusione alla stagione primaverile. 2 novello: primaverile. 3 Dal luogo... il mio cuore: il poeta si riferisce per estensione alla donna (il mio piacere), dalla quale non gli arriva alcun messaggio (né una lettera né un messaggero), cosicché non riesce ad aver pace né gioia (lett. “il mio cuore non dorme né ride”).
4 quale vado domandando: quella che desidero (cioè che la donna ricambi l’amore). 5 si porta... il ramo di biancospino: il nostro amore si comporta come il ramo (è simile al ramo) del biancospino. La fragilità, l’ansia connessa a un rapporto amoroso non sicuro giustifica il delicato e suggestivo paragone naturale di questa terza stanza. 6 insieme con l’anello: la cessione dell’anello è un gesto connesso al rituale feudale.
7 ch’abbia... mantello: anche questa immagine, senza che si possa escludere un velato richiamo erotico, si spiega innanzitutto attraverso il rimando al cerimoniale simbolico dell’investitura: il signore copriva con il suo mantello il vassallo a simboleggiare la protezione a lui accordata. 8 Non mi curo... Buon Vicino: non bado alle insinuazioni degli altri (estranea diceria) che mi allontanano dal mio Buon Vicino (in conformità con le regole del “ben celare”, il poeta allude alla donna amata attraverso un senhal, cioè uno pseudonimo volutamente criptico).
La lirica provenzale 3 133
Che cosa accade nel parlare so bene che si sparge da breve maldicenza9: che altri dell’amor menino vanto10, 30 ne abbiamo noi la stoffa col coltello11. 9 si sparge... maldicenza: deriva da una (in sé) insignificante (breve) maldicenza. 10 che altri... vanto: altri si vantino (menino vanto) dell’amore (che provano). 11 ne abbiamo... la stoffa col coltello: l’enigmatica espressione «la stoffa col
coltello» potrebbe indicare il possesso completo di qualcosa, oppure ciò che serve (in questo caso, in rapporto all’amore, di cui i maldicenti si limitano a chiacchierare). Altre traduzioni interpretano il termine provenzale pessa con “pezzo di
pane” o “pezzo di terra” pensando a un riferimento ancora una volta feudale. Il significato sostanziale però non cambia (“godiamo di un amore pienamente realizzato”).
Analisi del testo Il topos dell’esordio La lirica si apre con un’immagine naturale: il poeta guarda il rifiorire della natura in primavera e vi associa il rifiorire del suo animo grazie all’amore, la naturale attrazione per ciò che il cuore brama. Questo tipo di incipit, di inizio, è così ricorrente nella poesia occitanica da costituire un topos, cioè un’immagine convenzionale. In un’altra composizione di Guglielmo d’Aquitania si trova ad esempio questa apertura: «Poiché vediamo di nuovo fiorire / prati e rinvenire giardini / illimpidirsi fiumi e sorgenti / aure e venti / ben deve ciascuno gioire della gioia / di cui è gioioso». Il paesaggio evocato corrisponde all’immagine classica del locus amoenus, cioè un paesaggio bello e sereno, che a seconda dei casi può essere posto in un rapporto di somiglianza o di contrasto con lo stato d’animo del poeta.
La struttura e i temi La canzone è divisa in cinque stanze. Prima stanza: è evocata la stagione della primavera, il risveglio della natura come tempo favorevole all’amore. Seconda e terza stanza: l’attenzione si sposta sulla condizione interiore del poeta che manifesta il suo turbamento per il silenzio, l’“assenza” della donna amata ed esprime una condizione psicologica caratterizzata dall’incertezza e dal dubbio, anche se non si esclude la possibilità di una svolta positiva, come dimostra il suggestivo paragone con il ramo del biancospino: tremante in una gelida notte di pioggia, poi è rinvigorito dalla luce e dal calore del sole mattutino. Quarta stanza: è incentrata sul ricordo di un momento felice, in cui la donna aveva stretto un patto con il cavaliere, donandogli come pegno il suo anello: un momento che egli spera possa nuovamente ripetersi. Quinta stanza: è costruita su una rigida, aristocratica distinzione tra il poeta e la donna, da un lato, e le volgari maldicenze che vorrebbero allontanarlo da lei, dall’altro.
Le metafore feudali Nella canzone compaiono diverse immagini ed espressioni metaforiche, riconducibili al mondo feudale. L’amore è assimilato a un rapporto feudale: il poeta si rivolge alla donna come un vassallo al signore, e ha nei suoi confronti un atteggiamento di sottomissione e di timore, al punto che non osa prendere l’iniziativa (v. 10). Feudale è anche il riferimento all’anello (v. 22) che effettivamente il signore donava al vassallo nel corso della cerimonia di investitura. E anche l’immagine delle mani sotto il mantello dell’amata (v. 24), in cui non manca un’allusione erotica, rimanda ancora ai rituali feudali: all’atto dell’investitura il signore copriva con il lembo del suo mantello, in segno di protezione, il vassallo inginocchiato a mani giunte.
L’uso dello pseudonimo I trovatori spesso nascondono il nome della donna amata sotto uno pseudonimo (in questo caso «Buon Vicino», v. 26). L’amore cortese deve essere celato, tenuto nascosto da chi potrebbe nuocere ai due amanti e rovinarne la reputazione con la maldicenza. Bisogna ricordare che il tema della segretezza, del celar, del “ben celare”, teorizzato anche nel trattato di Andrea Cappellano, non è solo un motivo letterario, ma è anche suggerito da un obbligo di riservatezza: la donna è una dama di alto rango, spesso la sposa del signore del castello.
134 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della lirica in un breve testo (max 20 righe). ANALISI 2. Nel testo è presente un senhal: dopo averlo rintracciato, contestualizzane l’impiego in rapporto al contesto. LESSICO 3. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico del “servizio d’amore” (inteso come vassallaggio). Rifletti poi sui risultati della ricerca e scrivi una breve trattazione (max 10 righe). STILE 4. Quale figura retorica è presente ai vv. 13-18? Spiegala con parole tue.
Interpretare
SCRITTURA 5. La donna evocata nella lirica appare come una figura rarefatta, non delineata, distante. Pensi che questa rappresentazione sia casuale oppure possa essere ricondotta alla concezione cortese propria della poesia trobadorica? (max 20 righe). TESTI E TEMI A CONFRONTO 6. Sulla base dell’analisi svolta, delle tue conoscenze e dei documenti iconografici che ti forniamo, sviluppa il tema del rapporto tra l’amante e la donna, espresso attraverso la metafora medievale del vassallaggio inteso come “servizio d’amore” (max 20 righe).
LEGGERE LE EMOZIONI
Jaufre Rudel
T10 La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei Trovatori, a c. di G. E. Sansone, Guanda, Milano-Napoli 1999
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Allor che i giorni sono lunghi in maggio Proponiamo di seguito il testo di Jaufre Rudel nel quale il motivo topico è la lontananza della donna amata. Notiamo che lontano è la parola chiave, ricorrente in tutto il testo.
I Allor che i giorni sono lunghi in maggio amo d’uccelli il dolce canto, lontano, e quando poi di là io me ne vado mi risovvengo d’un amor lontano. 5 Di desiderio vado curvo e mesto, tanto che canto o fior di biancospino non m’è più grato del gelato inverno1.
1 Di desiderio... inverno: sono vittima infelice del desiderio, così che un canto o il fiore del biancospino non mi piacciono più di quanto mi piaccia l’inverno gelato. 2 perché non so... o lontano: perché non
II Già dell’amore non sarò più lieto se non godrò di questo amor lontano, 10 perché non so più eletta e più gentile in nessun luogo, prossimo o lontano2. Tanto è squisito e vero il pregio suo che fossi là, nel regno saraceno, a causa sua ridotto prigioniero3!
conosco in alcun luogo, vicino (prossimo) o lontano una donna più nobile (eletta) e gentile. 3 Tanto è squisito... prigioniero!: il poeta si augura di divenire schiavo della donna
in un reame lontano, abitato dai saraceni (il riferimento geografico rimane indeterminato), tanto sono preziose le sue qualità (pregio, provenzale pretz, è termine ricorrente nel lessico della poesia occitanica).
La lirica provenzale 3 135
III Felice e triste, mi allontanerò pur di vedere questo amor lontano, ma non so quando la potrò vedere: le nostre terre stan troppo lontano! Son tanti i valichi e tanti i cammini! 20 Ed è per questo che non so predirlo... Ma che sia tutto come piace a Dio!
VI Iddio che fece quel che viene e va assecondando questo amor lontano, mi dia potere, che l’animo6 ne ho, che veda presto questo amor lontano, 40 ma per davvero, in luogo che s’addice7, per cui la camera come il giardino a me appaiano sempre palazzo!
IV Sarò felice quando potrò chiederle, pregando Iddio, l’amor nato lontano; a lei piacendo, prenderò dimora presso di lei, 25 benché sia di lontano. Sarà perfetto il nostro incontro allora quando sarò, lontano amante, vicino4, esultando del nostro bel parlare.
VII Afferma il vero chi mi dice ingordo e pur bramoso dell’amor lontano, 45 ché non c’è gioia a me così gradita come il piacere dell’amor lontano. Ma m’è proibito tutto ciò che voglio, ché mi stregò così il mio padrino da farmi amare non essendo amato8.
15
V Nostro Signor son certo che non mente, 30 per cui vedrò l’amore lontano; ma per un bene che mi può venire due mali n’ho, ché tanto m’è lontano... Ahi! così fossi là da pellegrino sì che il mio saio con il mio bastone5 35 dai suoi begli occhi fosse rimirato!
4 quando sarò... vicino: quando io, che sono stato un amante lontano, sarò vicino a lei. 5 il mio saio con il mio bastone: il bastone e la cappa sono elementi tipici della condizione del pellegrino.
50
VIII Maledizione ne venga al mio padrino che mi stregò perché non fossi amato.
6 l’animo: la volontà. 7 in luogo che s’addice: in un luogo adatto. 8 ché mi stregò... amato: riferimento
conseguenza la condizione di amare senza essere riamati.
enigmatico: il poeta pensa che il suo padrino di battesimo gli abbia gettato addosso una specie di malocchio, che ha come
Analisi del testo Una biografia romanzata e una romantica storia d’amore Nonostante il numero esiguo di testi che ha lasciato, Jaufre Rudel è forse il più celebre dei trovatori: un personaggio mitizzato al punto da aver principalmente alimentato l’immagine stereotipata del trovatore che si diffuse in età romantica. Il successo della sua poesia si deve certo anche all’apparente semplicità e musicalità dei suoi versi, ma è stato soprattutto originato dalla suggestione esercitata dalle notizie biografiche contenute nella vida. Notizie a cui a lungo fu attribuita veridicità e che ci parlano del suo innamoramento, senza averla mai vista, per una dama bellissima, la contessa di Tripoli (gli studiosi del tardo Ottocento, tra cui lo stesso Carducci, cercarono persino di dare alla misteriosa dama un’identità precisa). In realtà «la vida non fa che sviluppare in forma narrativa, prendendolo alla lettera, il motivo dell’amore lontano cripticamente contenuto nelle canzoni del principe» (Di Girolamo).
136 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Riproduciamo la vida di Jaufre per il suo interesse documentario e per la sua piacevole brevità narrativa. Jaufre Rudel di Blaia fu persona assai nobile, principe di Blaia. E si innamorò della contessa di Tripoli, senza averla mai vista, per il bene che ne udì dire dai pellegrini che venivano da Antiochia. E scrisse su di lei parecchie poesie con bella musica e semplici parole. E per il desiderio di vederla si fece crociato prendendo il mare, e sulla nave fu colto da malattia e condotto in un albergo a Tripoli come morto. E lo si fece sapere alla contessa, ed ella si recò da lui, al suo capezzale, e lo strinse fra le braccia. E quando egli seppe che era la contessa, recuperò subito l’udito e il respiro, lodando Iddio per averlo tenuto in vita finché l’avesse vista; e così morì fra le braccia di lei. Ed ella lo fece seppellire con grande onore nella casa del Tempio; e poi, in quello stesso giorno, si fece monaca a causa del dolore che ebbe dalla morte di lui. La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei Trovatori, a c. di G.E. Sansone, Guanda, Milano-Napoli 1999
Come interpretare il motivo dell’“amore di lontano”? Se è ormai assodato che la vida di Jaufre costituisce un’invenzione a partire dai testi poetici del trovatore, per contro c’è chi ha forse ecceduto nella direzione opposta, dando all’“amore di lontano” di Jaufre Rudel un significato totalmente allegorico: l’“amore di lontano” avrebbe per oggetto la Vergine o addirittura simboleggerebbe la Terrasanta da riconquistare, sottraendola ai musulmani. Altre interpretazioni, forse più vicine alla realtà, fanno della lontananza geografica cui allude la poesia la metafora della distanza incolmabile che separa l’amante dalla donna nella poesia trobadorica, e in particolare nelle liriche di Jaufre, in cui il motivo ha una ricorrenza quasi ossessiva. La lontananza, l’assenza, l’impossibilità («Ma m’è proibito tutto ciò che voglio») è condizione imprescindibile nella poesia dei trovatori, che danno sfogo al loro desiderio amoroso quasi sempre in uno spazio onirico, nella fantasticheria più che nella realtà. Ma proprio la irrealizzabilità del desiderio amoroso, la sua costante frustrazione fa dell’esperienza amorosa un esercizio di affinamento delle qualità interiori.
Lo stile La ripetizione insistita dei termini “amore” e soprattutto “lontano” conferisce alla lirica un ritmo musicale. L’andamento piano della sintassi, il lessico semplice, lontano da ogni complicazione intellettualistica, fanno della lirica un esempio del poetare leggero (trobar leu).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Come spesso capita nella lirica trobadorica, ogni strofa costituisce una variazione sul tema: rintraccia tale caratteristica strofa per strofa e sintetizzala con un breve titolo. LESSICO 2. Rintraccia nel testo le occorrenze e le varianti (avverbi, aggettivi, preposizioni ecc.) della parola chiave lontano. STILE 3. Nella lirica si alternano riferimenti al presente e quelli al futuro con i relativi tempi verbali: rintracciali e spiega quali connotazioni vi si associano.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 4. In mezza pagina di foglio protocollo presenta la lirica evidenziandone il significato complessivo, la tematica principale e lo stile. 5. Nella lirica il poeta afferma: «Ma m’è proibito tutto ciò che voglio, ché mi stregò così il mio padrino da farmi amare non essendo amato». Ti è mai capitato di vivere direttamente o attraverso la vicinanza a un tuo amico l’esperienza raccontata dal poeta ovvero di amare senza essere riamato? Quali sensazioni hai provato?
La lirica provenzale 3 137
VERSO IL NOVECENTO
Echi trobadorici nella poesia novecentesca
Ezra Pound Alba E. Pound, I Cantos, a c. di M. de Rachewiltz, Mondadori, Milano 1985
Il poeta americano Ezra Pound (1885-1972), che è stato definito, per i suoi Cantos, «il Dante dei tempi moderni» fu, come il suo discepolo Thomas Eliot (1888-1965), un grande ammiratore della cultura e della letteratura europee, soprattutto dei primi secoli. Nell’idea che «la tradizione è una bellezza che noi conserviamo e non una serie di catene che ci legano», Pound studiò appassionatamente e tradusse la poesia provenzale e stilnovistica, la cui frequentazione lascia tracce evidenti in molte sue poesie. Alla tradizione lirica, dai provenzali a Petrarca, dedicò anche un saggio critico: Lo spirito romanzo (1910) e lavorò all’adattamento musicale di poesie trobadoriche, tentando di ricostruire l’originaria fusione tra poesia e musica che le caratterizzava. Il breve testo che presentiamo (del 1919) è quasi una scrittura “alla maniera di”: imita infatti in modo diretto il genere provenzale dell’aube, ovvero “alba”, una tipologia testuale ricorrente nella poesia trobadorica, nella quale è rappresentata la condizione di due amanti che, dopo aver trascorso la notte insieme, sono costretti a separarsi al sopraggiungere dell’alba.
Alba Alba When the nightingale to his mate Quando l’usignolo canta Sings day-long and night late alla sua compagna, My love and I keep state notte e dì, In bower, sto col mio amore In flower, sotto la pergola Till the watchman on the tower in fiore, Cry: finché la scolta1 sulla torre «Up! Thou rascal, Rise, grida: I see the white «Su, furfante, via! Light Vedo l’alba, la notte And the night fugge via». Flies». 1 la scolta: la sentinella.
F.E.Church, Sunrise, 1847 (Olana State Historic site)
138 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Giovanni Giudici Raggio che da fessura G. Giudici, Salutz, in Poesie, vol. II, Garzanti, Milano 1991
Con Salutz, la raccolta da cui è tratto il testo proposto, il poeta contemporaneo Giovanni Giudici (1924-2011) costruisce una sorta di mini-canzoniere composto di settanta liriche. La raccolta ha il suo elemento unificante nell’analisi del tema amoroso, esplorato da Giudici, per sua esplicita dichiarazione, attraverso una rivisitazione della lirica provenzale e dei motivi topici dell’amore cortese (ma anche dei miti femminili dello stilnovo). Nelle poesie di Salutz Giudici usa il repertorio “situazionale”, figurativo e lessicale proprio della tradizione cortese: come un cantore medievale l’io lirico si assoggetta alla donna nel “servizio d’amore”; la donna amata è evocata con l’appellativo trobadorico midons, “mio signore”, cui è associato spessissimo il termine minne “amore”, usato dai Minnesänger tedeschi. Ma l’occhio ironico del poeta moderno sottopone a smorzamenti dissacranti le immagini trobadoriche, definendo ad esempio il poeta che si scalda al fuoco d’amore che lo fa morire un bel ghiacciolo, o il vassallo d’amore nient’altro che uno zimbello della donna (II, 2). Come per i trovatori (ma anche gli stilnovisti) la donna in Salutz è lontana, astratta e perfetta nella sua inattingibilità, ma al contempo una serie di metafore ne ribadisce il ruolo centrale nella vita del poeta: zattera, maris stella (attributo della Vergine Maria) che guida in un mare buio, giroscopio assoluto. Gli effetti del suo potere sono contradditori: gli occhi di lei, in cui tradizionalmente risiede il potere fascinatore, possono trasformare chi ama in angelo o rospo (ironica evocazione di una nota favola?).
Raggio che da fessura spira nella stanza oscura nei trepidi colori ma capovolto a nude mura 5 specchia il vario mondo fuori1 io attraverso voi, Midons2, viaggio a verità per stella d’impostura3 a voi mi capovolgo in vostro omaggio – reo quanto più fedele 10 matto quanto più saggio: così siete il dolcissimo mio fiele4 la volatile chiave del passaggio un’altra un’altra ancora diventate voi che di me il contrario di me fate5
1 Raggio... fuori: il raggio di sole che da
3 a verità... impostura: l’amore per la
una fessura penetra nella stanza buia (la illumina) con la sua luce tremolante ma rispecchia capovolto sulle nude mura la varietà del mondo esterno. 2 Midons: è il termine con cui nella poesia provenzale veniva indicata la castellana, “signora” del poeta e oggetto del suo amore.
donna diventa un viaggio verso la verità ma guidato da una «stella d’impostura», cioè di tutte le falsità che contraddistinguono il sentimento amoroso. 4 così... fiele: forte ossimoro. La donna suscita sentimenti opposti, è fonte di dolcezza ma anche di odio e rancore.
5 la volatile... fate: le immagini riferite all’amata suggeriscono la natura continuamente metamorfica e sfuggente della donna, che ha sull’“io” lirico il potere di trasformarlo in un essere diverso, il contrario dalla sua natura, presumibilmente non migliore.
La lirica provenzale 3 139
2 Le trobairitz: le trovatrici occitaniche La lirica delle donne Il corpus dei poemi provenzali scritti da donne si attesta intorno a poco più di venti testi tra canzoni e testi dialogici – anche se sul numero vi è ancora incertezza – e copre un arco di più di un secolo. Tutti i critici sono d’accordo sul fatto che le trovatrici hanno cantato sentimenti veri, i loro testi ci mettono di fronte a una “poesia vissuta”, non si può non ammirare la semplicità e la naturalezza dei loro versi. Il tratto più importante è sicuramente la sensualità e l’abbandono al desiderio, ovvero la autenticità emotiva di una donna che dà candidamente voce ai propri desideri (Dronke). Oltre questi elementi c’è un altro filo rosso che caratterizza queste produzioni poetiche: l’inversione dei ruoli che fa di una donna adorata, oggetto dell’amore di un uomo, una adoratrice perché soggetto del canto d’amore. Preso atto di questi elementi, essi non possono però condurci a pensare al corpus delle trovatrici come a un insieme omogeneo, il nostro compito è quello di ricostruire un territorio complesso solo in apparenza uniforme. L’amore L’amore di cui le trovatrici cantano non è un astratto principio ideale, non è un’entità personificata, ma un valore relazionale che vincola due individui, è sempre l’amore di qualcuno per qualcun altro. Le storie d’amore che percorrono i loro testi sono storie interrotte per allontanamento o tradimento. L’uomo, dotato di tutte le virtù sociali, risulta manchevole dal punto di vista amoroso, mentre la donna possiede sia le virtù cortesi sia la capacità di amare. Aspetti metrici e formali Nelle loro liriche le trovatrici utilizzano il trobar léu, scrivono testi la cui comprensione è abbastanza immediata, con un linguaggio semplice, privo di artifici retorici. Le poetesse I testi più interessanti appaiono quelli della Contessa di Dia, di Azalais de Porcairagues e di Castelloza. La poetessa Azalais de Porcairagues è la più antica fra le poetesse di Provenza attiva sul finire del XII secolo. Nella sua breve biografia (Vida) si dice che proveniva dal territorio di Montpellier, era donna raffinata e colta e che sapeva comporre canzoni. Si può supporre che fosse di nobile famiglia, ma oltre non è possibile andare. Azalais fu attiva nel periodo classico, in cui la lirica trobadorica arriva al culmine della sua popolarità e diffusione. Di lei ci è stato tramandato un unico testo di 52 versi Ar em al freg temps vengut (Or siamo giunti al tempo freddo). online T11 Contessa di Dia Mi appago di gioia e giovinezza
Fissare i concetti La lirica provenzale 1. 2. 3. 4. 5.
Perché la lirica provenzale può essere definita una poesia “d’autore”? Qual è il tema principale della lirica provenzale e quali caratteristiche presenta? In che senso la lirica provenzale ha influenzato la produzione poetica successiva? Quando e come terminò la lirica provenzale? Quali caratteristiche presenta l'amore cantato dalle trobairitz?
140 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Azalais de Porcairagues
T12 La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei Trovatori. Volume primo, a c. di Giuseppe E. Sansone, Guanda, Milano 1984.
Or siam giunti al tempo freddo La canzone è stata scritta nel 1171, eccezione fatta per la sesta strofa composta dopo il 1173 ovvero dopo la morte di Raimbaut d’Aurenga, nobile trovatore cui è diretto il componimento.
Or siamo giunti al tempo freddo, alla neve, al fango, al gelo, e stanno muti gli uccellini, ché uno non si volge al canto; 5 sulle siepi sono secchi i rami, ché foglia o fiore non vi spunta e non gorgheggia l’usignolo, che là nel maggio mi risveglia.
Bell’amico, con il mio piacere son con voi in pegno per sempre 35 col mio aspetto bello e cortese, sol che onta non mi chiediate. Alla prova presto verremo, ché mi darò alla vostra mercé: voi m’avete fede giurato 40 di non richiedermi peccato.
Ho sì tanto il cuore deluso da restare estranea a tutti e ben so che l’uomo ha perduto di più di quello che guadagna. Se il vero dicendo mi sbaglio, il timore mi venne da Orange, 15 per cui sorpresa ne rimango e lo svago smarrisco in parte.
Bellosguardo affido a Dio e così la città d’Orange, il castello e la Glorietta, il signore di Provenza 45 e chi là vuole il mio bene, l’arco dove sono le gesta4. Persi chi ha la vita mia e ne sarò smarrita per sempre.
Dà la donna male l’amore se alterca con chi è potente, con più nobile di valvassore, 20 ché è da folle agire così1. Si dice perciò nel Velay che con ricchezza amor non va2 e la donna che n’è attirata io considero disonorata.
Giullare dal lieto cuore, 50 il mio canto con la chiusa portate a lei, verso Narbona, che guidan gioia e gioventù5.
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Ho amico di merito grande che predomina sopra chiunque e non m’è di cuore mendace, perché mi dà il proprio amore. Che gli do l’amor mio sostengo, 30 e che Dio porti mal sorte a chi dice ch’io non lo faccio, per cui mi tengo bene a salvo3. 25
La metrica Sei coblas doblas di otto versi ciascuna e una strofetta conclusiva di quattro versi.
1 ché è da folle agire così: è il senso del testo originale e s’il o fai, il folleia, letteralmente “se ella lo fa, ella folleggia”.
2 Si dice… non va: il fatto che l’amore non si coniughi con la ricchezza è un concetto ricorrente nei trovatori. 3 a chi dice… salvo: la poetessa si ritiene immune dalle maldicenze di chi sostiene che non ama il suo uomo.
4 l’arco dove sono le gesta: da identificare con l’arco romano di Orange, che presenta bassorilievi con imprese belliche. 5 Giullare… gioventù: nel congedo (tornada) la poetessa si riferisce a una dama di Narbona, identificata con Ermengarda, viscontessa di Narbona.
La lirica provenzale 3 141
Analisi del testo L’esordio Solitamente le poetesse nei loro testi non utilizzano la tecnica dell’esordio, ma entrano senza mediazioni nel vivo della poesia. L’unica eccezione è Azalais che inizia descrivendo la stagione invernale, tecnica molto cara al trovatore Raimbaut d’Aurenga con cui la poetessa ha intrattenuto una relazione poetica. La poesia infatti inizia con la descrizione dell’inverno: neve, fango e gelo, rami secchi, il silenzio degli uccelli, nessuna foglia, nessun fiore, premonizione di una situazione sentimentale dolorosa e sofferente.
La terza strofa Nella terza strofa la poetessa esprime il suo parere in merito a una questione molto importante nel mondo cortese del XII secolo ovvero se sia meglio per una donna innamorarsi di un uomo ricco e potente o di un uomo pregevole. Azalais non ha dubbi: l’amore non si sposa con la ricchezza e la donna che ne è attirata viene vista dalla poetessa come disonorata (envilanida).
La prova amorosa Nella quinta strofa la poetessa probabilmente allude alla prova amorosa (assai) ovvero giacere nudi insieme all’amato senza consumare l’unione; consisterebbe nella prova che le dame richiederebbero agli amanti per saggiare l’amore del loro amico, saggiarne l’autenticità, capire quindi il livello di cortesia da loro raggiunto. La poetessa chiede dunque al suo amante di non superare un limite oltre il quale commetterebbe un errore (faillida).
La sesta strofa Secondo Sakari questa strofa non era presente nella versione primitiva della trovatrice, ma è stata aggiunta in seguito alla morte di Raimbaut d’Aurenga (10 maggio 1173). I luoghi citati sono il castello di Belesgar vicino a dove visse e morì Raimbaut; Glorietta è l’antico palazzo dei principi d’Orange. I rapporti tra i due poeti sono certi anche per le analogie tra questo testo e il componimento Non chant per auzel ni per flor di Raimbaut sia dal punto di vista metrico sia per l’incipit in cui il poeta descrive una natura invernale.
Azalais de Porcairagues raffigurata in una miniatura di un codice che riporta il testo della sua canzone, conservato alla Bibliothèque nationale de France (Parigi).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della quarta e della quinta strofa. ANALISI 2. In che modo viene descritto l’inverno dalla poetessa nella prima strofa? LESSICO 3. Analizza il lessico presente nella strofetta conclusiva. A quale campo semantico rimanda?
Interpretare
LETTERATURA E NOI 4. Nella terza strofa si afferma che l’amore non si coniuga con la ricchezza e si considera come folle la donna che fa convivere amore e ricchezza. Il messaggio che la poetessa vuole inviare è che non bisogna scegliere i propri amanti in base a ricchezza e potere. Tu che cosa pensi in merito? La società di oggi è caratterizzata dallo stesso pensiero espresso nel testo?
142 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Morte eroica di Orlando paladino Chanson de Roland CLXX-CLXXV Chanson de Roland, in A. Roncaglia, Poesia dell’età cortese, SansoniAccademia, MilanoFirenze 1961
Nella Chanson de Roland la morte di Orlando non è solo la conclusione della vicenda terrena del paladino, ma il momento fondamentale della sua esistenza, quello su cui si costruisce la sua leggenda, grazie al quale Orlando diventa un mito letterario: l’eroe trova nella morte la rivelazione del suo destino immortale, diventa eterno; è grazie alla morte eroica e santa, in cui si ricapitolano fedeltà feudale al suo signore, devozione alla “dolce Francia” e fede cristiana che Orlando sarà ricordato e cantato presso i posteri.
CLXX Sente Rolando che la vista ha perduto. 40 Si leva in piedi; quanto più può si sforza. In viso ha perduto il colore. Davanti a lui c’è una pietra bruna: dieci colpi v’assesta con dolore e furore. Stride l’acciaio; non si spezza né s’intacca1. 45 «Ah!» disse il conte, «Santa Maria, aiuto! Oh, Durindarda, sì buona e sì in mal punto2! Ora ch’io perdo la vita, di voi più non posso aver cura. Tante battaglie con voi ho vinto in campo, e tante vaste terre sottomesse, 50 cui Carlo regge, che la barba ha canuta3! Non v’ottenga uomo che innanzi ad altro fugga! Un valoroso, invero, v’ha lungo tempo tenuta; Mai vi sarà l’eguale in Francia, la terra benedetta». CLXXI Rolando percosse sulla roccia di sardagna4: 55 stride l’acciaio, non si spezza né s’intacca. Quand’egli vide che non può spezzarla, con se medesimo comincia a piangerla: «Oh, Durindarda, come sei chiara e tersa! Sì riluci e fiammeggi contro al sole! 60 Carlo si stava nelle valli di Moriana quando Dio dal cielo gli comandò per mezzo del suo angelo che ti desse a un conte capitano.
1 dieci colpi... s’intacca: Orlando tenta di spezzare la sua spada per impedire che dopo la sua morte cada in mano ai nemici. 2 Oh, Durindarda... in mal punto: Orlando si rivolge alla sua spada,
simbolo della sua dignità di cavaliere, che si trova ora in estremo pericolo («in mal punto»). 3 che la barba ha canuta: la ricorrenza di epiteti (in un altro caso si dice «che la barba ha fiorita») è
caratteristica dello stile formulare (costituito da ripetizioni, patronimici, topoi), che contribuisce a dare solennità al narrare epico. 4 sardagna: pietra dura di colore rossiccio.
La lirica provenzale 3 143
Allora me la cinse il nobile re, il grande. Io con essa gli conquistai e Angiò e Bretagna, 65 e con essa gli conquistai e Poitou e il Maine; io con essa gli conquistai la franca Normandia, e con essa gli conquistai Provenza ed Aquitania, e Lombardia e tutta quanta Romagna; io con essa gli conquistai Baviera e tutta Fiandra, 70 e Bulgaria, e tutta quanta Puglia; Costantinopoli, di cui ebbe l’omaggio, e in Sassonia fa ciò che vuole; io con essa gli conquistai e Scozia e Irlanda e Inghilterra, ch’egli teneva come dominio privato5; 75 e con essa ho conquistato paesi e terre tante, cui6 Carlo regge, che ha la barba bianca. Per questa spada ho dolore e tristezza. Piuttosto voglio morire, che tra i pagani essa rimanga. Dio padre, non lasciare che Francia ne abbia scorno7!». CLXXII Rolando percosse su una roccia grigia, più ne dispicca ch’io non vi so dire8; la spada stride, non si rompe né si spezza: verso il cielo su è rimbalzata. Quando vede il conte che non riuscirà a spezzarla, 85 molto dolcemente la pianse con se medesimo: «Oh, Durindarda, come sei bella e santa! Nell’aureo pomo assai v’hanno reliquie9: un dente di San Pietro e del sangue di San Basilio, e dei capelli di monsignor San Dionigi, 90 un lembo v’ha della veste di Santa Maria: non è giusto che pagani t’abbiano in balìa: da cristiani dovete essere servita. Non vi possegga uomo che commetta codardia! Vastissime terre con voi ho conquistato, 95 cui Carlo regge, che la barba ha fiorita: l’imperatore n’è grande e potente». 80
5 io con essa... privato: le conquiste elencate da Orlando hanno tratti iperbolici e favolosi: riguardano infatti anche terre che non appartenevano all’impero carolingio. 6 cui: che.
7 non lasciare... scorno: non permettere che la Francia sia umiliata. 8 più ne dispicca... dire: spezza la roccia più di quanto io possa raccontare.
144 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
9 Nell’aureo... reliquie: l’enumerazione delle preziose reliquie contenute nel pomo della spada di Orlando la rendono un oggetto sacro, che sarebbe sacrilegio profanare.
CLXXIII Sente Rolando che la morte lo sopraffà, giù dalla testa sul cuore gli discende. Sotto un pino è andato di corsa, 100 sull’erba verde là s’è disteso prono, sotto di sé mette la sua spada e l’olifante10, girò la testa verso la gente pagana: per ciò l’ha fatto, perché egli vuole in verità che Carlo dica e tutta la sua gente, 105 il nobile conte, ch’egli morì vincitore11. Ripete il mea culpa spesso e sovente, per i suoi peccati a Dio offrì il guanto12. CLXXIV Sente Rolando che la sua vita è alla fine. Volto alla Spagna, sta su un’erta cima. 110 Con l’una mano il suo petto ha battuto: «Dio, mea culpa, dinanzi alla tua potenza, dei miei peccati, dei grandi e dei piccoli, che ho commesso dall’ora in cui nacqui, fino a questo giorno, che qui son colto!». 115 Il guanto destro ha teso verso Dio. Angeli del cielo là discendono a lui. CLXXV Il conte Rolando giaceva sotto un pino, verso la Spagna ha rivolto il viso. Di molte cose il sovvenire13 l’assale, 120 di tante terre, quante il valoroso conquistò, della dolce Francia, degli uomini di sua schiatta14, di Carlomagno, il suo signore, che lo allevò; non può tenersi che non15 ne pianga e sospiri. Ma se medesimo non volle dimenticare: 125 ripete il mea culpa, prega da Dio misericordia: «Verace Padre, che mai non mentisti, san Lazzaro da morte risuscitasti e Daniele dai leoni scampasti, scampa l’anima mia da ogni periglio
10 l’olifante: il corno. 11 morì vincitore: ovvero in terra nemica e con il volto rivolto al nemico. 12 per i suoi peccati… il guanto:
l’offerta del guanto appartiene al codice simbolico feudale; il gesto di Orlando indica il riconoscimento del potere divino e la completa sottomissione; così ai vv. 115 e 131.
13 il sovvenire: il ricordo. 14 schiatta: stirpe. 15 non può tenersi che non: non può trattenersi da.
La lirica provenzale 3 145
per i peccati che in vita mia commisi!». Il guanto destro a Dio per essi offrì: san Gabriele di sua mano l’ha preso. Sopra il braccio ha reclinato il capo: giunte le mani è arrivato alla fine. 135 Dio gl’inviò il suo angelo cherubino e san Michele del Mare del Periglio16; insieme ad essi san Gabriele vi scese: l’anima del conte portano in Paradiso. 130
16 san Michele… Periglio: l’arcangelo guerriero, protettore dei combattenti per la fede, qui è nominato soccorritore dei naviganti a rischio di naufragi.
Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte alle domande proposte. 1. Suddividi l’episodio in sequenze e fai la sintesi di ciascuna sequenza. 2. La Chanson de Roland, in particolare nell’episodio della morte di Orlando, è il primo testo che celebra le gesta del paladino e fa di lui un archetipo dell’eroe epico, un mito umano dell’immaginario occidentale: quali elementi ne caratterizzano la figura? Individuali nel testo. 3. Quale significato riveste il dialogo struggente e commosso di Orlando in punto di morte con la propria spada? Quali esperienze e valori Orlando associa alla propria spada? 4. L’epica carolingia è un’epica connotata da valori cristiani oltre che guerreschi. Individua i punti del testo che riguardano la sfera religiosa. 5. La struttura sintattica predilige la paratassi o l’ipotassi? Quali effetti comporta la scelta dell’autore in rapporto alla trasmissione orale che era tipica delle chansons de geste?
Interpretazione
Quale interpretazione della guerra emerge dall’analisi di questo testo?
146 Duecento e Trecento 1 La letteratura cortesenella Francia feudale
Duecento e Trecento La letteratura cortese nella Francia feudale
Sintesi con audiolettura
1 L’epica cristiana e le chansons de geste
La narrativa epico-cavalleresca in Francia, specchio della società In seguito alla disgregazione dell’Impero carolingio, a partire dal IX secolo si afferma il sistema feudale. È appunto nelle corti feudali, a cominciare dalla Francia, che si sviluppa la letteratura cortese nelle due lingue romanze d’oc (la lirica trobadorica) e d’oïl (l’epica cristiana e il romanzo cortese-cavalleresco). Le chansons de geste Intorno alla figura del cavaliere in Francia si sviluppa dapprima l’epica cristiana delle chansons de geste, destinate a essere recitate dai giullari. Composte tra l’XI e il XII secolo, le chansons sono poemi epici che celebrano le imprese di nobili famiglie e dei re di Francia: il ciclo più celebre è quello carolingio, incentrato sulle imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini. La più famosa chanson è la Chanson de Roland, un poema di 4000 versi che trasfigura in forma epica un episodio particolare: lo sterminio della retroguardia dell’esercito di Carlo Magno, avvenuto nel 778 a Roncisvalle a opera di predoni baschi. Lo spirito di crociata, l’ideologia della “guerra santa”, inducono l’autore a trasformare la battaglia in uno scontro epico di “civiltà”. Nella lotta tra forze della cristianità e “infedeli” (i saraceni) emerge il paladino Orlando, che muore eroicamente, diventando il prototipo del cavaliere cristiano che sacrifica la vita per difendere insieme la sua nazione e la fede.
2 Il romanzo cortese-cavalleresco
Il romanzo cortese-cavalleresco In lingua d’oïl sono composti anche i romanzi cavallereschi, concepiti per essere letti negli ambienti raffinati delle corti feudali. I romanzi più noti, appartenenti alla cosiddetta materia bretone, sono ispirati alla leggendaria figura di re Artù e alle avventure dei cavalieri della Tavola rotonda. Il più importante autore di romanzi arturiani è Chrétien de Troyes (Erec et Enide, Lancelot, Ivano, Cligés, Perceval). I romanzi cavallereschi sono incentrati sulla esaltazione delle virtù
Sintesi
Duecento e Trecento 147
cortesi del cavaliere (coraggio, lealtà, magnanimità). Sono virtù che il cavaliere conquista in un processo di perfezionamento attraverso l’avventura, la “ricerca” (quête), in un cammino costellato di prove e difficoltà, all’interno di scenari come foreste e castelli, in cui spesso intervengono elementi magici e fantastici. Fondamentale, oltre a quello dell’avventura, e spesso intrecciato a esso, è il tema dell’amore cortese (la fin’amor): è un amore concepito come strumento di perfezionamento, dedizione assoluta, indipendente e anzi alternativo all’unione coniugale. Celeberrimi gli amori di Lancillotto e Ginevra e di Tristano e Isotta.
3 La lirica provenzale
La poesia trobadorica Tra il XII e l’inizio del XIII secolo, nel Sud della Francia, si sviluppa la prima forma della lirica romanza: la lirica occitanica (dalla lingua d’oc in cui si espresse) o trobadorica. Autori e spesso esecutori dei testi, che erano musicati e cantati (il termine canzone allude appunto al canto), sono i trovatori, poeti di estrazione sociale diversa, che con le loro composizioni comunque si rivolgono al pubblico colto e raffinato delle corti feudali. Dalle composizioni trobadoriche traspare l’ottica feudale, in particolare il rapporto di vassallaggio: tema principale di esse (anche se non mancano composizioni sulla guerra o a soggetto politico-morale) è infatti l’amore cortese, in cui l’innamorato si pone in una condizione di “servizio” nei confronti della donna, che è sempre vista come superiore, oggetto di venerazione e di desiderio inappagato. L’esperienza trobadorica si esaurisce bruscamente all’inizio del XIII secolo in seguito a un grave evento: la crociata contro l’eresia catara promossa dalla Chiesa investe le corti feudali di Provenza e determina la diaspora dei trovatori.
Zona Competenze Esposizione orale
1 Prepara la scaletta di un intervento orale di circa 5 minuti sul confronto tra le chansons de geste e i romanzi cavallereschi.
Scrittura creativa
2. Scrivi il dialogo immaginario fra un paladino di Carlo Magno e un cavaliere di re Artù, in cui ciascuno dei due interlocutori sostiene la superiorità dei propri valori e codici di comportamento.
Passato presente
3. Discussione in classe La concezione cortese dell’amore ha lasciato qualche traccia ancor oggi, per esempio, nell’espressione “fare la corte”. Quali abitudini, gesti, termini di oggi secondo te riflettono un legame con il modello di comportamento cortese? Dopo aver risposto, confrontati in classe con il docente e con i compagni.
148 Duecento e Trecento La letteratura cortesenella Francia feudale
Duecento e trecento CAPITOLO
2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Nel Medioevo le prime testimonianze letterarie sono spesso concepite per promuovere nei cristiani atteggiamenti di vita virtuosi, come ad esempio il racconto delle vite esemplari dei santi o la narrazione dei viaggi ultraterreni, volti a rivelare a fini d’insegnamento morale il destino che attende le anime nell’aldilà. Nella letteratura propriamente religiosa si iscrive uno dei testi più celebri dell’intera letteratura italiana: il Cantico di frate Sole, in cui Francesco d’Assisi rivolge al creato un poetico inno d’amore, ispirato a una visione mistica. La fondazione dell’ordine francescano da parte di Francesco si colloca nell’area del dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa, che aveva smarrito gli ideali evangelici. Un dissenso che si acuisce con la figura di Jacopone da Todi, autore di laude ispirate a una visione intransigente della fede.
dissenso nei confronti 1 Ildella mondanizzazione della chiesa
produzione 2 Ladidattico-edificante 149
1
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 Una letteratura critica verso la Chiesa
Nel XIII secolo emerge in Italia, in particolare nella zona umbra, una produzione letteraria, che ha al centro il tema religioso. Molto spesso gli autori si fanno portavoLessico ordini ce di una posizione di dissenso nei confronti dell’istituzione ecclesiastica, accusata mendicanti di essersi allontanata dagli ideali della povertà evangelica. Ideali che intendono Sono gli ordini religiosi sorti riproporre i vari movimenti pauperistici (dal lat. pauper, “povero”), che polemizzano all’interno della contro una Chiesa sempre più compromessa con il potere. Chiesa tra il XII e il XIII secolo la cui È in questo ambito che nasce il movimento francescano fondato da Francesco regola imponeva un voto di povertà d’Assisi (1188-1226). A differenza però dei patarini o dei valdesi, condannati dalla sia individuale sia Chiesa come eretici, il movimento francescano viene riconosciuto ufficialmente collettivo. I frati si sostenevano con dal papa, come anche l’altro ordine mendicante dei domenicani fondato da Dole elemosine e il menico di Guzmán (1170-1221). lavoro. La polemica contro la corruzione della Chiesa si accentua dopo la morte di san Francesco: lo stesso Jacopone da Todi (1236-1306 ca), non esita ad attaccare duramente il pontefice stesso (➜ T2b OL). Vicino alle posizioni del dissenso è anche Dante, che in moltissimi passi della Commedia introduce aspre critiche contro le online colpe della Chiesa di Roma (➜ T2a OL). T1 Un eretico condotto al rogo Alcune frange del movimento francescano (come i seguaci risponde alla folla Il supplizio di fra Michele minorita di fra’ Dolcino e i “fraticelli”) sono condannate come eretiche, ma ogni forma di religiosità estremistica viene comunque online perseguitata dalla Chiesa, come accade persino a un famoso Contro la corruzione della Chiesa teologo dissidente, il francescano Ubertino da Casale, autore T2a Dante Invettiva contro l’avidità dei papi del trattato mistico Arbor vitae crucifixae Jesu (L’albero della Inferno XIX, 100-117 vita crocifissa di Gesù). Ispirandosi alla visione profetica di T2b Jacopone da Todi Gioacchino da Fiore (1130-1202), egli suddivide la storia della O papa Bonifazio, vv. 1-54 Chiesa in vari stadi. Nell’ultimo, considerato imminente, la spiritualità evangelica sarebbe stata riportata nel mondo.
Movimenti ereticali e pauperistici
movimenti ereticali
• opposizione alla secolarizzazione della vita ecclesiastica • devianza teologica
Il dissenso verso la Chiesa
movimenti pauperistici
150 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
• recupero della povertà evangelica • critica alla mondanità
Parola chiave
misticismo e ascetismo Il misticismo è una componente fondamentale della religiosità e della cultura medievale che si contrappone al filone razionalistico del pensiero filosofico-teologico: il maggior rappresentante del misticismo in ambito filosofico è il francescano Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274). Per il mistico la verità, che coincide con la conquista di Dio, si può raggiungere non con gli strumenti della ragione, ma solo attraverso uno slancio dell’anima. L’adesione al misticismo si lega alla valorizzazione dell’ideale ascetico. L’ascetismo è una scelta di vita che mira a realizzare l’ascesa a Dio attraverso il distacco dal mondo e pratiche come la mortificazione del corpo o il digiuno.
VERSO IL NOVECENTO
F. de Zurbarán, San Bonaventura in preghiera, 1629 (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister).
Umberto Eco Il nome della rosa Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980
Nel best seller Il nome della rosa (1980) Umberto Eco (1932-2016), profondo conoscitore della cultura medievale, ricostruisce il clima storico-culturale e alcuni tra i principali temi che animarono il dibattito ideologico del Medioevo, attraverso la finzione narrativa che vede il francescano Guglielmo di Baskerville e il suo giovane discepolo Adso (la voce narrante del romanzo) indagare sui misteri di un’abbazia nella quale avvengono strani delitti. Nel romanzo si affiancano personaggi immaginari, come gli stessi Guglielmo e Adso, e personaggi storici, seppur reinterpretati in chiave romanzesca: è il caso di Ubertino da Casale, mistico e teologo francescano, che fu uno dei protagonisti del dissenso che investì la Chiesa nel corso del Duecento e nei primi anni del Trecento. Nella scena proposta Eco immagina che i due protagonisti del romanzo incontrino Ubertino in preghiera.
Ai piedi della Vergine, in preghiera, quasi prostrato, stava un uomo, vestito con gli abiti dell’ordine cluniacense1. Ci appressammo. L’uomo, udendo il rumore dei nostri passi, alzò il volto. Era un vegliardo, col volto glabro2, il cranio senza capelli, i grandi occhi celesti, una bocca 5 sottile e rossa, la pelle candida, il teschio ossuto a cui la pelle aderiva come fosse una mummia conservata nel latte. Le mani erano bianche, dalle dita lunghe e sottili. Sembrava una fanciulla avvizzita da una morte precoce. Posò su di noi uno sguardo dapprima smarrito, come lo avessimo disturbato in una visione estatica, poi il volto gli si illuminò di gioia. 10 “Guglielmo!” esclamò. “Fratello mio carissimo!” Si alzò a fatica e si fece incontro al mio maestro, abbracciandolo e baciandolo sulla bocca. “Guglielmo!” ripeté, e 1 cluniacense: qui vale “benedettino”; l’ordine cluniacense, basato sulla regola di san Benedetto, fu fondato a Cluny, in Borgogna. Ubertino fu accolto nell’ordine
benedettino quando, per sfuggire alle persecuzioni, dovette abbandonare i francescani spirituali. 2 glabro: liscio, senza peli e privo di barba.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 151
VERSO IL NOVECENTO
gli occhi gli si inumidirono di pianto. “Quanto tempo! Ma ti riconosco ancora! Quanto tempo, quante vicende! Quante prove che il Signore ci ha imposto!” Pianse. Guglielmo gli rese l’abbraccio, evidentemente commosso. Ci trovavamo davanti a 15 Ubertino da Casale. Di lui avevo già sentito parlare e a lungo, anche prima di venire in Italia3, e ancor più frequentando i francescani della corte imperiale. Qualcuno mi aveva persino detto che il più grande poeta di quei tempi, Dante Alighieri da Firenze, morto da pochi anni, aveva composto un poema (che io non potei leggere perché era scritto 20 nel volgare toscano) a cui avevano posto mano e cielo e terra4, e di cui molti versi altro non erano che una parafrasi di brani scritti da Ubertino nel suo Arbor vitae crucifixae5. […] “O Signore, in quali mani è caduta la tua chiesa!” Volse il capo verso l’altare. “Trasformata in meretrice, ammollita nel lusso, si av25 voltola nella lussuria come una serpe in calore! Dalla purezza nuda della stalla di Bethlehem, legno come fu legno il lignum vitae6 della croce, ai baccanali d’oro e di pietra, guarda, anche qui, hai visto il portale, non ci si sottrae all’orgoglio delle immagini7! Sono infine prossimi i giorni dell’Anticristo e io ho paura, Guglielmo!” Si guardò intorno, fissando lo sguardo sbarrato entro le navate oscure, come se 30 l’Anticristo dovesse apparire da un momento all’altro, e io invero mi attendevo di scorgerlo. “I suoi luogotenenti sono già qui, mandati come Cristo mandò gli apostoli per il mondo! Stanno conculcando la Città di Dio, seducono con l’inganno, l’ipocrisia e la violenza. Sarà allora che Dio dovrà mandare i suoi servi, Elia ed Enoch8, che egli ha conservato ancora in vita nel paradiso terrestre perché un gior35 no confondano l’Anticristo, e verranno a profetare vestiti di sacco, e predicheranno la penitenza con l’esempio e con la parola…” “Sono già venuti, Ubertino,” disse Guglielmo, mostrando il suo saio di francescano. “Ma non hanno ancora vinto, è il momento che l’Anticristo, pieno di furore, comanderà di uccidere Enoch ed Elia e i loro corpi perché ognuno possa vederli e 40 tema di volerli imitare. Così come volevano uccidere me…” In quel momento, atterrito, pensavo che Ubertino fosse in preda a una sorta di online divina mania, e temetti per la sua ragione. Ora a distanza di tempo, sapendo quel Cinema che so, e cioè che qualche anno dopo fu misteriosamente ucciso in una città teDal film Il nome della rosa desca, e mai non si seppe da chi, sono più atterrito ancora, perché evidentemente di Jean-Jacques Annaud (1986) 45 quella sera Ubertino profetava.
3 anche prima di venire in Italia: nella finzione del romanzo Adso, il narratore, viene dalla Germania. 4 a cui... e cielo e terra: «’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Paradiso XXV 1-2). 5 molti versi... crucifixae: l’Arbor vitae del francescano Ubertino da Casale (ca 1305) è un voluminoso trattato sulla vita e la passione di Cristo. Alla base c’è l’immagine dell’albero della storia, le cui radici affondano nelle origini del mondo e arrivano fino all’Incarnazione divina; i
suoi rami sono le opere di Cristo, i fiori e i frutti le azioni dei credenti. Ubertino è tra le fonti del Paradiso dantesco, in particolare per il canto XI, dedicato a san Francesco. Alcuni temi della Divina Commedia, come la denuncia della corruzione degli ecclesiastici e del Papato e la profezia di un rinnovamento della Chiesa, indicano una vicinanza alle posizioni di Ubertino, di cui Dante dichiara però di non condividere l’estremismo. 6 lignum vitae: in lat. “il legno (cioè l’albero) della vita”, in riferimento all’antico
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tema dell’albero della vita e poi alla croce di Cristo; titolo (Lignum Vitae) di un libro di meditazioni del filosofo e generale dell’ordine francescano Bonaventura da Bagnoregio. 7 hai visto... immagini: Ubertino allude alla ricca decorazione del portale della chiesa, che gli sembra contrastare con gli ideali di povertà evangelica. 8 Elia ed Enoch: personaggi biblici, accomunati dal fatto di non essere mai morti, ma di essere ascesi in cielo.
d’Assisi: 2 Francesco una figura leggendaria per la collettività cristiana Una vita speciale All’inizio del XIII secolo, in un momento storico in cui la Chiesa di Roma con Innocenzo III affermava il principio della teocrazia (cioè del potere politico esercitato da un’autorità religiosa) e combatteva il dissenso e le eresie, Francesco d’Assisi (1181-1226) impone con forza il valore della pace, gli ideali evangelici della povertà, della solidarietà con gli umili e i sofferenti. Lo fa in modo provocatorio, con lo “scandalo” della sua vita, che diventa leggenda subito dopo la sua morte, anche per il processo di canonizzazione insolitamente rapido (1228), che lo rese santo a soli due anni dalla morte. La figura di Francesco continua, dopo secoli, ad affascinare, a costituire un modello, non solo per i credenti, e a essere fonte di ispirazione. La giovinezza e la “scoperta” del messaggio evangelico Figlio del mercante Pietro Bernardone, Francesco nasce ad Assisi nel 1181. Dopo una giovinezza trascorsa nella vita mondana, il suo orizzonte esistenziale cambia improvvisamente. Secondo quanto scrive nel Testamento, dettato in latino poco prima della morte (1226), l’esperienza determinante nell’orientare la sua vita verso l’ascesi fu la frequentazione dei lebbrosi: l’improvviso contatto con un mondo di estrema sofferenza ed emarginazione lo portò a interrogarsi sui valori fondamentali della vita.
San Francesco predica agli uccelli (part.) del Maestro di San Francesco (1255 ca) nella Basilica di Assisi.
Il “gran rifiuto” e i primi discepoli Destinato, nelle intenzioni della sua famiglia, a diventare un rappresentante della ricca borghesia di Assisi, educato dalla madre nella cultura cavalleresco-cortese, Francesco abbandona la vita mondana per seguire l’insegnamento di Cristo, rinunciando pubblicamente ai beni della famiglia e alla propria identità sociale attraverso il gesto simbolico e clamoroso della spogliazione degli abiti che indossava. Presto vengono a lui numerosi discepoli, attratti dal suo messaggio d’amore (nel Testamento Francesco li chiama semplicemente frati, cioè fratelli, a lui accomunati dalla scelta radicale della povertà). La crescita del movimento francescano Nel 1210 il gruppo dei seguaci di Francesco si reca a Roma dal papa e ottiene una prima, non formalizzata, approvazione: da quel momento è sancito il principio dell’obbedienza del movimento francescano al papa e alle gerarchie ecclesiastiche, ribadito anche nel Testamento. L’adesione al movimento denominato dei “frati minori” cresce e coinvolge progressivamente anche gli intellettuali della Chiesa che presto ne prendono le redini. Mentre Francesco intende continuare a seguire il modello di Cristo e chiede ai suoi frati di fare lo stesso, i frati “letterati” puntano a normalizzare l’ordine e in qualche modo “intellettualizzarlo”. Da qui probabilmente la decisione di Francesco di lasciare il governo dell’ordine a frate Elia (1220) e di ritirarsi per riflettere, dopo il fallimento della missione in Terra Santa per convertire il Sultano (1219). Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 153
La definizione ufficiale della Regola francescana Mentre i contrasti esplodono, Francesco contribuisce ugualmente nel 1223 alla definizione della Regola dell’ordine francescano, frutto di una mediazione “diplomatica” tra lo stesso Francesco, la nuova dirigenza dell’ordine e il papato (nella persona di papa Onorio III che la approvò con un documento ufficiale). Il Testamento di Francesco Nel 1226, anno della morte, Francesco detta il Testamento, che esprime le sue ultime volontà. Definito da lui stesso come «ricordo, ammonizione, esortazione», il Testamento contiene una sintesi della vita e delle scelte fondamentali di Francesco e l’indicazione per i futuri francescani dei valori che caratterizzano l’ordine: la scelta della povertà secondo la lezione del Vangelo ma anche l’obbedienza alla Chiesa. Un’eredità difficile: spirituali e conventuali Scomparsa la figura carismatica di Francesco, ben presto l’ordine francescano sarà dilaniato dal contrasto tra spirituali e conventuali. I primi volevano mantenersi fedeli al messaggio espresso da Francesco nel suo Testamento (soprattutto alla scelta della povertà assoluta), i conventuali davano invece un’interpretazione meno rigoristica del francescanesimo ed erano pienamente integrati nella vita cittadina, vivendo nei conventi, con gli inevitabili compromessi che ne derivavano. L’ascesa al pontificato di un eremita, Pietro da Morrone, papa Celestino V, nel 1294 suscitò negli spirituali la speranza che la loro linea potesse prevalere. La sua rinuncia aprì invece la strada al pontificato di Bonifacio VIII che si mostrò subito avverso agli spirituali, emarginandoli e addirittura perseguitandoli.
online
Percorso interdisciplinare Immagini di san Francesco tra arte, letteratura e teatro
Il Francesco dei Fioretti Alla mitizzazione di Francesco contribuirono in modo rilevante anche i Fioretti, un’antologia di aneddoti della vita del santo, popolarissima fino all’Ottocento. I Fioretti constano di 53 capitoli (fioretti come “antologia”, in quanto sono serie di aneddoti ed episodi) che un ignoto toscano ricavò, negli ultimi decenni del Trecento, traducendoli in volgare, dagli Actus beati Francisci et sociorum eius (Opere del beato Francesco e dei suoi compagni), composti probabilmente tra il 1327 e il 1340. La volgarizzazione del testo latino era evidentemente motivata dal desiderio dell’ordine francescano di diffondere i temi più suggestivi della spiritualità francescana fra un pubblico più ampio. Nei Fioretti – forse nati nell’ambiente della corrente francescana degli spirituali – i gesti, le parole di Francesco sono evocati senza un inquadramento e un preciso ordine cronologico, il che colloca gli eventi in una sorta di atmosfera atemporale propria della fiaba. Nel ricostruire la figura e l’opera di Francesco l’ignoto compilatore attinge anche alla tradizione orale, a racconti e testimonianze spontanee, che avevano costruito attorno al santo un’aura leggendaria. Del santo di Assisi i Fioretti mettono in rilievo soprattutto la semplicità, il candore ingenuo che si esprime in particolar modo nell’umile rapporto con tutte le creature, secondo il modello altissimo del Cantico. Un santo da guardare Nel Medioevo nessun’altra figura colpì l’immaginazione dei contemporanei e fu così popolare come Francesco: grazie anche alla sua rapidissima canonizzazione (1228), avvenuta a solo due anni dalla morte, il poverello di Assisi oscurò ben presto il prestigio di tutti i santi del primo cristianesimo. La popolarità di Francesco è attestata dalle numerosissime rappresentazioni pittoriche che lo ritraggono (tavole lignee, affreschi, miniature) eseguite nel corso del Duecento: la diffusione dell’immagine del santo è inferiore numericamente soltanto alle immagini di Cristo e di Maria. Il genere più caratteristico dell’iconografia francescana sono le tavole “istoriate”, utilizzate per la prima volta in Occidente
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Bonaventura Berlinghieri, San Francesco e le storie della sua vita, 1235 (Pescia, Chiesa di san Francesco).
proprio per ritrarre Francesco e prodotte in Italia esclusivamente nel XIII secolo. Le tavole lignee di soggetto francescano hanno la forma di un rettangolo cuspidato. Al centro di uno sfondo dorato campeggia ieratica la figura del santo, raffigurato costantemente con il volto scavato dalla pratica ascetica, il saio, i piedi nudi, il Vangelo in una mano, a sottolineare la sua fedeltà ai valori predicati da Cristo. La figura di san Francesco è contornata da un ciclo di piccole immagini che rappresentano episodi della sua vita (da qui il termine “istoriate” per definire questo tipo di tavole pittoriche). La funzione delle tavole istoriate non era diversa da quella delle numerosissime biografie e agiografie che furono prodotte dopo la morte di Francesco. Anche le tavole, come in seguito i cicli di affreschi, possono infatti essere considerate delle legendae (in latino “cose degne di essere lette”): servendosi della grande forza evocativa dell’immagine pittorica, esse illustrano episodi atti a documentare la santa vita e l’eccezionalità di Francesco.
Il Cantico di frate Sole Il testo poetico che inaugura la letteratura italiana Il Cantico di frate Sole (➜ t3 ), considerato per consolidata tradizione critica il testo che inaugura la letteratura italiana, è una preghiera in forma di lode a Dio, destinata al canto dei confratelli (la musica che doveva accompagnarlo però non ci è pervenuta). Fu composto probabilmente a San Damiano (presso Assisi) tra la fine del 1224 e l’inizio del 1225. Mentre gli altri testi di Francesco sono in latino, il Cantico è scritto in volgare umbro, impreziosito da molteplici latinismi che indicano la volontà dell’autore di elevare letterariamente il linguaggio. Il Cantico come testimonianza di misticismo Alla base della visione religiosa espressa nel Cantico sta la filosofia stessa del misticismo, «la persuasione […] di poter attingere l’essere divino attraverso il creato, non per via speculativa, ma per procedimento contemplativo» (Giovanni Pozzi). Una testimonianza, quella del Cantico, tanto più significativa in quanto viene scritto in un momento particolarmente doloroso della vita di Francesco: ormai quasi cieco, gravemente sofferente nel corpo e nello spirito, preoccupato per la crisi che serpeggiava nell’ordine da lui fondato, Francesco rivolge nonostante tutto questa lode gioiosa a Dio e a tutte le sue creature. In essa si manifesta la netta distanza di Francesco sia dalle forme più cupe dell’ascetismo medievale – basta confrontare il Cantico con le laude di Jacopone (➜ t5 e t7 ) – sia dalle correnti ereticali che, come i càtari, consideravano la vita terrena una maledizione e la bellezza del mondo una trappola capace di allettare gli spiriti deboli per indurli a peccare. Al contrario, Francesco ammira nella bellezza del creato, che dà gioia non solo allo spirito ma anche ai sensi, la grandezza e l’amore del creatore e si sente partecipe di questa bellezza, affratellato al sole, alla luna, alle stelle, all’acqua (era certamente inusuale nella letteratura religiosa del tempo chiamare “fratelli” e “sorelle” gli elementi della natura). Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 155
Francesco d’Assisi
T3 G. Contini, Poeti del Duecento, 2 voll., Ricciardi, MilanoNapoli 1960
AUDIOLETTURA
EDUCAZIONE CIVICA
Cantico di frate Sole
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6
Il Cantico di frate Sole (designato anche come Laudes creaturarum o Cantico delle creature) fu composto negli ultimi anni della vita di san Francesco, probabilmente tra il 1224 e il 1225. Si tratta di uno dei primi testi (forse il primo) della letteratura italiana. Altissimu, onnipotente, bon Signore1, tue so’2 le laude, la gloria e l’honore et onne3 benedictione. Ad te solo, Altissimo, se konfano4, et nullu homo ène dignu te mentovare5.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte6 le tue creature, spetialmente messor lo frate sole7, lo qual’ è iorno, et allumini noi per lui8. Et ellu è bellu e radiante9 cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione10. 5
Laudato si’, mi’ Signore, per11 sora12 luna e le stelle: in celu l’ài formate clarite13 et pretiose et belle. 10
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno14 et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento. 15
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile15 et pretiosa et casta16. Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini17 la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso18 et forte.
La metrica Versi di disuguale lunghezza, vicini alle sequenze liturgiche dei salmi, legati a due, tre, cinque, da assonanze e a volte rime irregolari. La scansione strofica è sottolineata dalla ripetizione della formula della lode. 1 Altissimu… Signore: la -u finale è tipica del dialetto umbro; bon corrisponde all’aggettivo latino bonus “eccellente, fonte del bene”, ha un valore più intenso rispetto al corrispettivo italiano. 2 tue so’: sono tue, a te appartengono. 3 onne: ogni; la forma, come molte altre del Cantico, è vicina al latino (omnis). 4 se konfano: si addicono. 5 et nullu... mentovare: e nessun uomo è degno di nominarti. Si ricorda qui il secondo precetto del Decalogo («Non pronuncerai invano il nome del Signore,
tuo Dio»). Il verso associa latinismi (Nullu homo, dignu), forme proprie del dialetto umbro (ène) e francesismi (mentovare). 6 cum tucte: così come tutte (o insieme a tutte). 7 messor lo frate sole: messor (forma umbra per messer) ha il valore del lat. dominus “signore”. L’appellativo sottolinea che il sole, “il fratello sole”, che illumina il mondo, è più di ogni altro elemento della natura immagine della grandezza di Dio. 8 è iorno... per lui: (il sole) è la luce diurna e tu (il Signore) ci illumini per mezzo suo (per lui). 9 radiante: raggiante, splendente. 10 de te... significatione: il sole è simbolo di Dio, come ricorderà Dante nel Convivio (III, xii, 7), affermando che «Nullo sensibile [Nulla che sia percepibile coi
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sensi] in tutto il mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ’l sole». 11 per: di questo e dei successivi per è discussa l’interpretazione. Tradizionalmente si propende per un valore causale, ma altri suggeriscono un valore medialestrumentale (= mediante, per mezzo di) o d’agente (= da parte di). 12 sora: sorella. 13 l’ài formate clarite: le hai create luminose, chiare, risplendenti. 14 nubilo et sereno: le nuvole e il sereno. 15 utile et humile: l’assonanza sottolinea il legame tra i due aggettivi, apparentemente in contrasto, e ne evidenzia la valenza etica. 16 casta: pura. 17 ennallumini: illumini. 18 robustoso: il suffisso in -oso rende espressivamente la forza del fuoco.
20
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa19, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba. Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione20.
Beati quelli ke ’l sosterrano in pace21, ka da te, Altissimo, sirano incoronati22. 25
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale23, da la quale nullu homo vivente pò skappare24: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda25 no ’l farrà male26. 30
Laudate27 e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli28 cum grande humilitate.
19 sustenta et governa: mantiene e alimenta. 20 sostengo... tribulatione: sopportano malattia e sofferenza. 21 Beati... in pace: beati quelli che sosterranno ciò (’l = lo) con fede, umiltà e rassegnazione. 22 ka… incoronati: poiché (ka è un elemento linguistico del dialetto umbro) riceveranno la ricompensa della beatitudine del Paradiso. San Francesco assume le Beatitudini evangeliche come modello per questa sequenza del testo, riferita al
premio ultraterreno per gli uomini giusti e benevoli; la ripresa è sottolineata dal ricalco della struttura sintattica del passo evangelico («Beati quelli che… perché...» Cfr. Matteo 5, 3-12). 23 sora... corporale: anche la morte del corpo è stata creata dalla volontà di Dio e perciò è nostra sorella. 24 skappare: scampare, sfuggire. 25 la morte secunda: è la dannazione, la morte dell’anima.
26 no ’l farrà male: a loro non farà male, non li colpirà; forma dialettale, con consonante doppia. 27 Laudate: mentre in tutta la parte precedente del testo il destinatario è il Signore, a cui è rivolta la lode, nella conclusione il santo si rivolge, con la seconda persona plurale, a un destinatario indeterminato, da identificare forse con la comunità dei fedeli. 28 serviateli: servitelo (congiuntivo esortativo; il verbo è costruito alla latina: -li vale gli, “a lui”).
Analisi del testo Il Cantico: un testo stratificato o unitario?
Secondo un’interpretazione già diffusa nel Medioevo, il testo sarebbe stato scritto da san Francesco in momenti successivi. L’ipotesi di una scrittura in diverse fasi è stata probabilmente originata dall’apparente contrasto tra la serenità dei primi versi e l’intonazione più cupa degli ultimi: i versetti sul perdono (vv. 23-24) sarebbero stati aggiunti in seguito a una controversia avvenuta tra il vescovo e il podestà d’Assisi, riconciliati per merito di san Francesco, mentre quelli finali sulla morte risalirebbero a un altro momento successivo, quello in cui al santo fu annunciata prossima la fine. Questa ipotesi non è in genere più accolta dagli studiosi, che tendono oggi a riconoscere nel Cantico un’unitaria ispirazione religiosa, fondata sulla piena accettazione della volontà di Dio, non solo quando si manifesta nella bellezza del creato, ma anche quando impone le prove della sofferenza, della malattia e della morte. Contribuisce in modo rilevante a unificare il componimento il tema della lode, che si dispiega secondo un ordine preciso, discendendo dalla contemplazione del cielo alla terra e ai diversi elementi della natura, e quindi all’uomo. Dell’uomo è sottolineata la particolare condizione determinata dal libero arbitrio, con la possibilità di commettere il peccato e perciò di incorrere nella condanna alla dannazione eterna («la morte secunda», v. 31), oppure di meritare la beatitudine del Paradiso («ka da te, Altissimo, sirano incoronati», v. 26).
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Costituisce un ulteriore indizio dell’unità del testo anche la sua precisa struttura circolare: il tema dell’umiltà apre e chiude il Cantico, sviluppandosi inizialmente come riferimento al comandamento biblico («nullu homo ène dignu te mentovare», v. 4) e, nella conclusione, come invito a servire il Signore «cum grande humilitate».
Un altro problema interpretativo: il significato della preposizione per La lingua arcaica del Cantico, che testimonia la fase di passaggio tra il latino e il volgare, pone alcuni problemi di ordine grammaticale, che hanno un rilievo anche per l’interpretazione contenutistica e teologica del testo. Il problema più discusso è quello relativo al significato da attribuire alla preposizione per. In alcuni casi il significato è indubbio: per esempio, nel v. 7 è evidente il valore strumentale della preposizione, secondo l’uso latino, con il significato di “per mezzo di”. In altri passi, invece, il testo, apparentemente semplice e chiaro, può in realtà ammettere differenti interpretazioni. Al v. 10, quando si dice che il Signore deve essere lodato «per sora luna e le stelle» si può intendere il per in diversi modi; ciò vale anche per i casi analoghi nei versi seguenti. Tra le molteplici interpretazioni proposte dagli studiosi e tutte sostenute da valide motivazioni, si possono ricordare le seguenti: alla preposizione per può essere attribuito un valore causale (Dio è lodato perché ha creato la luna e le stelle, ossia a causa dei suoi doni e benefici), oppure un valore mediale-strumentale (l’uomo loda Dio tramite le lodi alle sue creature, che portano il riflesso della sua sapienza e bontà). La questione riveste un particolare interesse perché una diversa interpretazione letterale del testo si riflette in una visione teologica che assume connotazioni differenti.
La docta simplicitas di san Francesco Il testo, rivolto a tutta la comunità dei fedeli, è solo apparentemente semplice e “ingenuo”. Vi si riconoscono infatti molti richiami alle Scritture e ai salmi in lode di Dio (soprattutto il Salmo 148) e al passo evangelico delle Beatitudini (Matteo 5, 1-12). Il Cantico è ispirato inoltre a una precisa concezione mistica, la “teologia della lode”: l’uomo percepisce nel creato l’essere divino e partecipa alla gloria di Dio attraverso la lode, espressa sia in modo diretto sia indirettamente attraverso le qualità di bellezza e utilità attribuite alle cose. L’operare di Dio, tuttavia, è sempre messo in primo piano: è Dio che forma le stelle, illumina per mezzo del sole, sostiene le sue creature attraverso le variazioni del tempo atmosferico, rischiara l’oscurità della notte attraverso il fuoco. La cultura teologica che ispira il Cantico si evidenzia anche nella rappresentazione dell’ordine del creato: la contemplazione muove dal mondo celeste, specchio del divino, e in particolare dal sole, immagine di Dio; segue quindi il mondo sublunare con gli elementi descritti dalla filosofia naturale, aria, acqua, fuoco, terra; si giunge infine all’umanità tormentata dal peccato e sofferente, invitata dal santo ad affidarsi umilmente a Dio, lodandolo e ringraziandolo. Il carattere al contempo semplice e dotto del testo è sottolineato anche dal linguaggio, che, su una base costituita dal volgare umbro, si innalza grazie a numerosi termini mutuati dal latino (direttamente o con lievi modificazioni fonetiche). Anche le consuetudini grafiche risentono del modello latino (ad es. la h iniziale di honore e di humile).
In questa miniatura del XIII secolo san Francesco riceve le stimmate ed è circondato dalle sue amate “creature”.
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Un rapporto armonico con la natura Francesco non accoglie l’antitesi tra materia e spirito e tra mondo terreno e ultraterreno, che induce al disprezzo del mondo e che è presente in altri autori medievali, ma sottolinea la positività di tutta la realtà creata. Secondo alcuni studiosi sarebbe evidente, a questo proposito, l’intenzione, da parte di Francesco, di contrapporsi all’eresia dei càtari, che considerava il mondo come fonte di peccato e corruzione e imponeva di purificarsi dal contatto con le cose materiali. D’altra parte, quella di Francesco non è l’orgogliosa concezione, che sarà propria del Rinascimento, dell’uomo come signore e dominatore della natura, ma un messaggio di umiltà e di rispetto, che può risultare ancor oggi molto attuale: come ha affermato padre Ernesto Balducci (1922-1992), esponente di spicco del cattolicesimo ecumenista e pacifista, la «povertà di Francesco era anche una forma d’amore per le generazioni future».
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSIone 1. Qual è il tema principale nel testo? tecnIcA nArrAtIVA 2. Suddividi in sequenze il testo. AnALISI 3. Secondo il critico Leo Spitzer, il Cantico evidenzierebbe l’importanza dell’uomo nella visione religiosa francescana: esso è al centro del creato, e ogni creatura nominata è vista in sé (caratteristiche proprie) e in rapporto all’uomo (per l’utilità e il significato che hanno per lui). Alla luce di questa interpretazione, completa la tabella (l’esercizio è avviato). creature
in sé
in rapporto all’uomo
luna e stelle
clarite et belle
pretiose
sole
bellu radiante cum grande splendore
allumini noi per lui de te… porta significatione
acqua aere fuoco LeSSIco 4. La cura formale del Cantico ne attesta il valore letterario. Il testo tende a un volgare illustre, testimoniato anche dalla massiccia presenza del modello latino, che lascia tracce anche nella grafia, nel lessico e nella sintassi. Con l’aiuto delle note rintraccia i latinismi presenti e inseriscili in una tabella simile a questa (l’esercizio è avviato). modello latino
versi
esempi
forma corrente
grafia
v. 2
honore
onore
lessico sintassi
Interpretare
ScrItturA 5. Il Cantico di frate Sole può essere considerato un testo “colto” o “popolare”? Argomenta la tua opinione in 10-15 righe.
EDUCAZIONE CIVICA
6. Nel Cantico san Francesco loda ogni elemento della natura per bellezza e per utilità all’uomo: il sole, la luna, le stelle, il vento,l’acqua, il fuoco, la terra, dandone una rappresentazione positiva. Ti sembra che l’uomo in generale ma anche le politiche governative dei vari paesi al mondo mostrino rispetto verso la natura? Ti sembra che il benessere della nostra Terra sia posto in primo piano? Noti già degli squilibri ambientali?
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5, 6
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 159
Sguardo sul cinema I volti di Francesco San Francesco d’Assisi è stato oggetto di grande interesse per i cineasti in vari momenti della storia del cinema. L’aspetto più sorprendente è che questa figura sia stata presentata in modi molto diversi sul piano sia formale sia ideologico, rispecchiando i momenti storici e i contesti delle varie epoche che hanno parlato di lui senza però perdere una sostanziale identità. Già all’epoca del muto erano state realizzate tre pellicole sul santo di Assisi: Il poverello di Assisi (di Enrico Guazzino, 1911); Fratello Sole (di Ugo Falena, 1918) e Frate Francesco (di Giulio Antamoro, 1927). Persino lo scrittore Guido Gozzano aveva scritto una lunga e articolata sceneggiatura su san Francesco all’inizio del 1916, che tuttavia non vide mai la luce a causa della sua morte nello stesso anno.
Bisogna attendere il secondo dopoguerra per l’incontro più rilevante del nostro cinema con la figura di Francesco. Nel 1950, infatti, esce Francesco giullare di Dio di Roberto Rossellini (1906-1977). Ventidue anni dopo esce la celebre pellicola di Franco Zeffirelli, Fratello sole, sorella luna (1972), una versione della vicenda di Francesco che riflette un approccio diametralmente opposto all’opera di Rossellini. La regista Liliana Cavani si confronterà ben tre volte con la figura del santo di Assisi. Nel primo dei suoi film, Francesco d’Assisi (1966), la Cavani sceglie di parlare dell’uomo Francesco: è un Francesco “terreno”, rivoluzionario e anticonformista, interpretato dall’attore Lou Castel. La pellicola a distanza di anni mantiene ancora una notevole forza espressiva.
La regista Liliana Cavani dà istruzioni all’operatore di macchina.
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Per approfondire I volti di Francesco
Lou Castel in Francesco d’Assisi (1966).
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3 Le laude e Jacopone da Todi Una testimonianza di religiosità collettiva Nel corso del Duecento la profonda esigenza di un rinnovamento religioso si manifesta anche nella formazione spontanea di gruppi che mobilitano grandi masse di fedeli e che sono accomunati da una devozione quasi fanatica. Si tratta di gruppi del tutto autonomi dalla Chiesa (e da essa mal tollerati perché poco controllabili). In questo ambito, soprattutto nell’Italia centrale, e in particolare nell’area umbra, si sviluppa la lauda religiosa (dal lat. laus, laudis “lode”) che inizialmente non doveva essere diversa dai salmi di lode recitati nella prima funzione religiosa giornaliera (abbastanza vicino a questa prima forma di lauda arcaica è il Cantico di frate Sole, il cui titolo in latino è appunto Laudes creaturarum). Verso il 1260 la lauda adottò stabilmente lo schema metrico della ballata, un metro usato per la poesia laica. La ripresa-ritornello, tipica delle ballate, nelle laude era affidata al canto corale dei fedeli che accompagnava la voce solista nelle litanie della tradizione liturgica. La lauda religiosa, spesso incentrata sul tema della Passione di Cristo, seguiva online le processioni dei fedeli nelle città e nelle campagne ed era T4 Salimbene accompagnata dalla musica, dal canto e spesso da rituali peNascita della lauda e movimenti penitenziali Cronica nitenziali come la flagellazione con sferze. Il testo da solo (ce ne sono pervenuti molti, raggruppati in circa 200 laudari) non rende quindi l’idea di queste che potremmo definire “sceneggiature collettive della fede” e che dovevano esercitare una fortissima suggestione sulle masse. Qualche analogia, a livello spettacolare, si può forse ritrovare nelle processioni che in varie località dell’Italia del Sud ancora mettono in scena la Passione nel periodo pasquale. Si deve forse a Jacopone da Todi l’invenzione della lauda drammatica, con personaggi che interpretano diverse parti, una forma embrionale di rappresentazione teatrale; di certo la sua Donna de Paradiso ne è l’esempio più noto e antico (➜ T7 ).
Jacopone: una fede intransigente
PER APPROFONDIRE
Di Jacopone da Todi (Jacopo de Benedetti), il maggiore scrittore religioso medievale dopo Dante, sono incerte le date stesse di nascita e morte (1236?-1306?). Le notizie tramandate sulla sua vita sono quasi certamente leggendarie, soprattutto per quanto riguarda l’improvvisa conversione, dopo anni di vita agiata e gaudente (di ricca e nobile famiglia, esercitava la professione di notaio), a una dura penitenza in seguito alla morte improvvisa della giovane moglie. Divenuto frate francescano, Jacopone aderisce alla corrente rigoristica degli spirituali.
La ballata Questa forma di componimento poetico, presente già nella tradizione provenzale, deve il nome al fatto che era destinata a essere cantata e ballata. Proprio per questo è caratterizzata (e ciò è l’unico elemento costante in un genere poetico che ammette numerose varietà) da un numero variabile di stanze e da un ritornello di introduzione, detto ripresa, cantato all’inizio del componimento e alla fine di ogni stanza; è tradizione che almeno l’ultimo verso di ciascuna di
queste rimi con l’ultimo verso della ripresa, ma frequentemente la seconda parte di ogni stanza riprende lo schema dell’intera parte introduttiva. In Italia compare verso la metà del XIII secolo come forma metrica popolare, legata in particolare alle laude religiose, cantate e recitate dagli adepti delle diverse confraternite. Con gli stilnovisti entra anche nel repertorio della lirica d’arte: scrisse ballate soprattutto Cavalcanti.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 161
Lessico potere temporale e potere spirituale Riferito al potere del pontefice della Chiesa cattolica, si intende per “temporale” il governo politico degli uomini, distinto dal potere “spirituale” che si riferisce all’attività di cura delle anime dei credenti.
La polemica nei confronti della mondanizzazione della Chiesa La sua fede intransigente lo porta naturalmente alla polemica verso una Chiesa ormai mondanizzata e più attenta al potere che alla spiritualità; aderisce così al gruppo variegato degli oppositori di papa Bonifacio VIII (➜ T2b OL), a cui si associò la potente famiglia romana dei Colonna che osteggiava la politica temporalistica del pontefice. La durissima repressione della rivolta antipapale comportò per Jacopone la scomunica e una lunga prigionia. Liberato nel 1303 dal nuovo papa Benedetto XI, trascorse gli ultimi anni della vita in un convento presso Todi. Le laude incentrate sulla polemica etico-politica e il richiamo ai valori ascetici Le laude jacoponiche (circa 90 testi) non sono pensate per un uso devozionale collettivo e riguardano diverse tematiche. Nella prima parte del laudario emergono la polemica etico-politica nei confronti del Papato (➜ T2a OL) e del clero, e l’esaltazione della vita ascetica, secondo un’ottica religiosa radicale che estremizza le posizioni già rigoristiche degli spirituali. Jacopone condivide gli obiettivi polemici dell’ascetismo medievale: la vuota arroganza della cultura universitaria che fornisce un falso sapere e il vano attaccamento ai beni terreni e alle ambizioni. L’originalità di Jacopone sta nell’accanimento quasi ossessivo e nell’impietoso sarcasmo con cui rappresenta l’infinita miseria dell’uomo, a cui ricorda la sua mortalità: in Quando t’aliegre, omo d’altura (➜ T5 ) non può non sgomentare l’insistita descrizione, affidata a particolari macabri e ripugnanti, di ciò che ci attende dopo il trapasso. Un sarcasmo che Jacopone non risparmia neppure a se stesso, dimostrando una volontà autodegradante e autolesiva (ad es. nella lauda O segnor per cortesia invoca per sé ogni tipo di ripugnante malattia, arrivando a immaginarsi «sterco di lupo» dopo la sua morte). La violenza polemica e il pessimismo delle laude ascetiche di Jacopone si spiegano in una società che cominciava a valorizzare gli aspetti piacevoli della vita e si mostrava sempre meno disponibile ad accogliere un messaggio incentrato sul rigorismo morale e sul rifiuto dei beni terreni. Si moltiplicavano di conseguenza, in ambienti che oggi diremmo di un cristianesimo integralista, gli sforzi per richiamare gli uomini a severi princìpi di vita attraverso il riferimento ossessivo al memento mori (“ricordati che devi morire”), che trova particolare forza rappresentativa nei cicli pittorici incentrati sul “Trionfo della morte”, assai diffusi nel tardo Medioevo.
Miniatura dal Laudario della Compagnia di Sant’Agnese, di Pacino di Buonaguida, 1320.
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Verso il Novecento Oltranza mistica ed espressionismo linguistico
Le laude mistiche Alla volontà accusatoria e polemica della maggior parte del laudario, si contrappone il gruppo di laude – concentrate soprattutto nella seconda parte del laudario – che esprimono poeticamente il contatto mistico con il divino; si tratta di testi più propriamente iscrivibili nel genere lirico perché privi, almeno tendenzialmente, di componenti didascalico-narrative. In queste laude l’estasi mistica è cantata come una sorta di “naufragio”, un’abdicazione totale della razionalità di fronte al contatto violento, annichilente, con il divino (➜ T6 ). L’esito espressivo che ne consegue è una sorta di antilingua che si traduce nel grido, nel balbettìo disarticolato («la lengua barbaglia» dice Jacopone), ed è un tratto comune ad altri mistici (e mistiche) (➜ C9, PAG. 772). Uno stile espressionistico Se il linguaggio delle laude propriamente mistiche è caratterizzato dalla tensione lirica, la disposizione ascetico-polemica, predominante nel laudario, porta Jacopone alla scelta di un registro espressivo per il quale si è spesso parlato di espressionismo come per altri mistici moderni come Clemente Rebora (1885-1957) e padre David Maria Turoldo (1916-1992). In essi, come già in Jacopone, la fede è vissuta in modo forte, polemico verso un mondo sordo ai valori. Da qui la scelta di una lingua che “rovesci” la comunicazione banale. Jacopone ricorre in modo intensivo agli artifici retorici (come le martellanti anafore, le allitterazioni), utilizza una struttura sintattica disarmonica e franta, con prevalente paratassi e frequentissime interrogazioni, apostrofi che mimano l’oralità e la gestualità.
Parola chiave
Il plurilinguismo di Jacopone Sotto il profilo lessicale, la lingua di Jacopone è composita: ha come base il dialetto umbro popolare (scelto per contrapporsi alla lingua dei filosofi) con espressioni corpose e popolari, ma contaminato, con effetti stridenti, con forme linguistiche alte, desunte dal linguaggio della lirica amorosa (provenzalismi), del diritto e della Chiesa.
espressionismo Il concetto e il termine di “espressionismo” appartengono al Novecento e designano una delle più importanti avanguardie storiche che, nata in Germania originariamente nell’ambito pittorico, interessò poi la letteratura, il teatro, la musica e il cinema. I caratteri propri dell’espressionismo furono il sovvertimento di ogni regola da parte dell’artista, la volontà di esprimere intense emozioni, la critica radicale di un mondo in disfacimento. Ma il termine “espressionismo” è usato anche in senso metastorico e metaforico. Per quanto riguarda la letteratura italiana, in un suo celebre saggio Gianfranco Contini ha individuato una “linea espressionistica”, appunto, che si sviluppa nel corso del tempo, a partire proprio dal Medioevo, e che accomuna autori di per sé diversi, da Jacopone ai novecenteschi Pirandello, Gadda, Fenoglio (e altri ancora). Quando parla di “espressionismo” per questi scrittori, Contini fa riferimento in particolare alle scelte stilistico-linguistiche degli autori citati (e di altri), che comportano il sovvertimento dei modi consueti della rappresentazione e la violazione delle tradizionali norme linguistiche, la tendenza a esasperare, forzare la lingua. Le forme in cui si esprime tale atteggiamento sono varie: immagini accentuate e deformate, lessico inusuale, passaggi bruschi da un registro elevato a un registro basso, realistico e grottesco, contaminazioni lingui-
stiche inattese, ad esempio tra lingua e dialetto, forzature sintattiche, esasperazione degli effetti fonici. La polemica linguistica si associa in genere, negli autori definibili in senso lato come “espressionistici”, con un atteggiamento ideologico critico verso la società, il costume, il mondo rappresentato. Non è casuale che una linea espressionistica unisca anche autori che hanno dato voce in tempi diversi alla tematica religiosa, come Jacopone, Rebora, Testori, padre Turoldo: per tutti questi scrittori si tratta infatti di una fede vissuta in modo impegnato e polemico, come un’apertura all’assoluto contro i limiti di un mondo comunemente acquietato nella sua mancanza di senso; a tale intento polemico corrisponde la scelta di una lingua che “aggredisca” la realtà e rovesci l’insignificanza di una comunicazione banale. Del resto anche l’espressionismo tedesco delle origini si ispirava spesso a temi religiosi e, in ambito figurativo, prendeva spunto dai soggetti cristiani delle antiche xilografie del tardo gotico germanico. Testo di riferimento: G. Contini, Espressionismo letterario, in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1988 (apparso per la prima volta come voce dell’Enciclopedia del Novecento, 1977).
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 163
La lauda “drammatica” e Donna de Paradiso Il testo forse più celebre di Jacopone è Donna de Paradiso, una lauda “drammatica”, cioè articolata in forma teatrale. Durante l’Alto Medioevo gli spettacoli teatrali erano completamente spariti, sia per la distruzione fisica dei luoghi in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali sia per la decadenza della vita cittadina. Agli inizi del X secolo inizia a svilupparsi una forma embrionale di teatro a soggetto religioso, in latino, che ha la funzione di supportare la liturgia della messa (sono i cosiddetti “drammi liturgici”) e che viene rappresentato nella chiesa stessa. Successivamente, il teatro, pur riguardando sempre contenuti religiosi, si riversa nelle piazze antistanti la chiesa. I testi iniziano a essere in volgare e sono prodotti e gestiti dalle confraternite laiche di fedeli, che ricercavano una religiosità più autentica e partecipata. Il contesto da cui nasce la lauda drammatica è quello delle laude di cui si è parlato e il testo di Jacopone ne è forse il primo esempio, probabilmente destinato alla recitazione di una confraternita.
La religiosità di san Francesco a confronto con la fede intransigente di Jacopone da Todi San Francesco
Jacopone
• ha una visione in cui domina la gioia
• ha una visione cupa della vita, dominata dal senso della morte
• celebra la bellezza del Creato: il Cantico
• esalta la vita ascetica e il misticismo: le Laude
• usa il volgare umbro illustre
• usa un audace plurilinguismo
S. Botticelli, Compianto sul Cristo morto con santi, tempera su tavola, 1495 ca. (Alte Pinakothek, Monaco di Baviera)
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Jacopone da Todi
T5
LEGGERE LE EMOZIONI
Quando t’aliegre, omo d’altura vv. 1-46; 79-82
Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Questa lauda, strutturata in forma di “contrasto” ovvero di un dialogo tra un vivo e un morto, si potrebbe considerare una sorta di memento mori, affine al motivo pittorico della “danza macabra”. Al vivo che lo interroga, chiedendogli dove sono gli abiti eleganti che sfoggiava quand’era vivo, i bei capelli biondi, gli occhi, le membra forti, il morto descrive il disfacimento del corpo dopo la sepoltura. Le immagini suscitano un crescente orrore e portano chi legge a meditare sul fatto che tutto quanto è legato alla sfera mondana si annulla con la morte.
Quando t’aliegre, omo d’altura, va’ poni mente a la sepoltura1; e loco pone lo tuo contemplare2, e pensa bene che tu dii3 tornare 5 en quella forma che tu vide stare l’omo che iace en la fossa scura. «Or me respondi, tu, om seppellito, che così ratto d’esto monno èi ’scito4: o’ so’ i bei panni, de ch’eri vestito5? 10 Ornato te veggio de molta bruttura6». «O frate mio, non me rampognare7, ché ’l fatto mio a te pò iovare8! Puoi che i parenti me fiero spogliare, de vil ciliccio me dier copretura9». 15
«Or ov’è ’l capo cusì pettenato? Con cui t’aragnasti10, che ’l t’ha sì pelato?
La metrica Lauda-ballata: composta da versi doppi quinari che in molti casi diventano senari o settenari; lo schema delle rime (miste ad assonanze) è XX nella ripresa/ritornello, AAAX nelle strofe (l’ultimo verso di ogni strofa usa sempre la rima della ripresa).
1 Quando… sepoltura: quando ti rallegri, uomo superbo, pensa a quando sarai morto e sepolto. La ripresa evidenzia il tema della ballata: l’uomo orgoglioso, superbo dei suoi fasti mondani, deve riflettere sulla morte, vincendo la tendenza al peccato che deriva dall’eccessivo attaccamento ai beni terreni.
2 loco... contemplare: poni, fissa là (loco) la tua contemplazione. L’invito è quello a immaginare il disfacimento del corpo dopo la morte, per comprendere quanto siano vani i beni mondani. 3 dii: devi. 4 così ratto... scito: sei uscito così in fretta da questo mondo. Il tono sarcastico del vivo che interroga il defunto sottolinea quanto la morte giunga inaspettata e sempre troppo in fretta (così ratto). 5 o’ so’ i bei panni... vestito?: dove sono i begli abiti di cui eri vestito? 6 Ornato... bruttura: (perché) ti vedo coperto di molto squallore.
7 frate... rampognare: fratello mio, non mi rimproverare.
8 ’l fatto mio a te pò iovare: ciò che è accaduto a me, a te può essere utile (come esempio). Emerge uno dei temi del contrasto: ciò che è accaduto all’uomo morto potrà essere d’esempio a chi è ancora in tempo per convertirsi e rinunciare ai beni mondani. L’appellativo frate sottolinea che anche il vivo presto sarà nella condizione del morto, una condizione comune a tutta l’umanità. 9 Puoi... copretura: dopo che i miei parenti mi spogliarono, mi coprirono con un panno di stoffa grossolana, ispida e pungente (vil); ciliccio vale “cilicio”. 10 Con cui t’aragnasti: con chi ti azzuffasti.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 165
Fo acqua bollita, che ’l t’ha sì calvato? Non te c’è opporto più spicciatura!11» «Questo mio capo, ch’abbi12 sì biondo, 20 cadut’ è la carne e la danza dentorno13: nol me pensava, quann’era nel mondo, cantando a rota facea portadura14». «Or ove so’ l’occhi così depurati? For de lor loco sì so’ iettati15. 25 Credo che i vermi li s’ho manecati16, del tuo regoglio non àver paura17». «Perduti m’ho gli occhi con che gia peccando18, aguardando a la gente, con issi accennando19. Ohimè dolente, or so’ nel malanno, 30 ché ’l corpo è vorato e l’alma en ardura20». «Or ov’è ’l naso, c’avì’ pro21 odorare? Quigna ’nfertade22 el n’ha fatto cascare? Non t’èi poduto dai vermi adiutare, molt’ è abbassata ’sta tua grossura23». 35
40
«Questo mio naso, c’abbi pro odore, caduto n’è con molto fetore: nol me pensava quann’ era ’n amore del mondo falso, pien di bruttura24». «Or ov’è la lengua cotanto tagliente? Apri la bocca, si tu n’hai nïente. Fone troncata, oi forsa fo ’l dente, che te n’ha fatta cotal rodetura?25»
11 Fo... spicciatura!: l’acqua bollente ti ha reso calvo? Non ti serve più la scriminatura! Insomma, i capelli ben pettinati del morto non ci sono più. Il tono di chi lo interroga è sarcastico, come in tutta la composizione. 12 ch’abbi: che avevo. 13 la danza dentorno: i capelli che danzano intorno al viso (scossi a ogni movimento del capo). 14 cantando... portadura: mi mettevo in mostra nella danza in tondo della canzone a ballo. Jacopone pone abilmente in contrasto le immagini di una gaudente vita mondana, con il giovane bello e ben pettinato, dai capelli biondi, elegantemente vestito, e la visione macabra del disfacimento del suo corpo dopo la morte.
15 ove so’… iettati: dove sono gli occhi così luminosi? Sono caduti fuori dalla loro sede (cioè dalle orbite). 16 i vermi li s’ho manecati: se li sono (riflessivo costruito con avere) mangiati i vermi. 17 del tuo regoglio non àver paura: non hanno avuto paura della tua alterigia. 18 con che gia peccando: con i quali andavo (gia da gire “andare”) peccando. 19 aguardando... accennando: guardando la gente, manifestando (la mia indole) con lo sguardo (come “ammiccando” con issi, cioè con gli occhi). 20 ché ’l corpo... en ardura: perché il corpo è divorato e l’anima arde nelle fiamme dell’inferno. In questa strofa si evidenzia un passaggio significativo dell’argomentazione sottesa al testo: il corpo, un tempo strumento di peccato, è ora distrutto, ma
166 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
ha provocato l’eterna dannazione dell’anima, che è ormai anch’essa irreparabilmente perduta e brucia nelle fiamme dell’inferno. Il vero contrasto è perciò quello fra corpo e anima. Nelle strofe successive, con l’accumulazione di altri particolari macabri e grotteschi e con lo stile espressionistico tipico di Jacopone, questo tema sarà accentuato fino all’esasperazione. 21 c’avì’ pro: che avevi per. 22 Quigna ’nfertade: quale infermità. 23 grossura: la prominenza del naso, di chi guarda altezzosamente “dall’alto in basso”; simboleggia perciò la superbia. 24 bruttura: la malvagità del mondo. È un concetto tipico della letteratura ascetica. 25 Fone... rodetura?: fu tagliata o forse furono i denti a roderla in tal modo? (Fone ha la ne enclitica.)
«Perdut’ho la lengua, co la qual parlava, molta descordia con essa ordenava26: 45 nol me pensava, quann’io manecava27 28 el cibo e ’l poto oltra mesura». […] «Or me contempla, oi omo mundano: 80 mentr’èi nel mondo, non esser pur vano; pènsate, folle, che a mano a mano tu serai messo en grande strettura»29. 26 ordenava: ordiva, tramava. 27 manecava: mangiavo. 28 ’l poto: le bevande (latinismo). 29 «Or me... grande strettura»: ora guardami, uomo dedito alla vita mondana, mentre sei (èi) al mondo, non continuare a
essere (non esser pur) vano, inconsistente. Pensa, pazzo, che ben presto (a mano a mano) ti troverai nello stretto spazio (strettura) della fossa (ma strettura significa anche “angustia, sofferenza)”. Nella strofa conclusiva il morto si rivolge, con un “tu”
fortemente espressivo, direttamente al destinatario dell’exemplum, l’omo mundano evocato all’inizio della lauda, a cui viene ricordata la sorte che attende tutti.
Analisi del testo La lauda di Jacopone e il motivo del “trionfo della morte” Il testo di Jacopone può essere collegato a diffusi motivi iconografici, finalizzati a presentare alle masse «un’immagine estremamente primitiva, popolaresca e lapidaria della morte» (Huizinga) che potesse risultare di forte impatto: il “trionfo della morte”, la “danza macabra”, il “paragone dei tre morti e dei tre vivi” (tre giovani nobili, sfarzosamente vestiti, si trovano improvvisamente di fronte tre orridi morti che descrivono loro la prossima fine che li attende (➜ STUDIARE CON L’IMMAGINE, p. 168).
Una struttura teatrale Nella lauda proposta Jacopone non introduce astratte considerazioni morali, ma affida il suo duro messaggio a una struttura teatrale di grande effetto, costruita sull’alternarsi di diverse voci. Apre in modo suggestivo il testo una voce “fuori campo”, ammonitrice e misteriosa, che si rivolge, con il “tu”, a un ascoltatore altezzoso e superbo, invitandolo a rispecchiarsi nella forma dell’uomo morto e a farne oggetto di meditazione. Nella seconda strofa è introdotto, a colloquio con il morto, un interlocutore vivente. Questo personaggio si rivolge al giovane morto con una serie di domande incalzanti e provocatorie, finalizzate a ricordare crudelmente al defunto il tempo nel quale anch’egli era in vita e si mostrava gaudente, orgoglioso e superbo. In contrasto con l’aggressività del suo interlocutore, nelle sue risposte il giovane morto assume toni avviliti e dimessi, ora di scusa e lamentosi, ora di amara sorpresa e di rimpianto per la passata inconsapevolezza (scanditi dalla ripetizione di nol me pensava), ora di fraterno ammonimento per il silenzioso spettatore evocato all’inizio, denominato omo mundano: raddoppiando le esortazioni della voce “fuori campo”, il morto lo invita ad abbandonare la folle vanità mondana e a non seguire il suo esempio.
Uno stile “espressionistico” Contribuisce all’efficacia del testo lo stile “espressionistico” di Jacopone, che traduce una sua visione del reale aggressiva e deformante. Essa si esprime nell’intensificazione e nello stravolgimento dei particolari: capelli, occhi, naso, lingua, labbra, devastati dalla decomposizione del corpo, sono rappresentati in “primo piano” e “in dettaglio”. Espressionistica è anche la lingua poetica, che conferisce concretezza alla rappresentazione, con un ampio utilizzo di espressioni popolaresche. I versi brevi della composizione, il rincorrersi delle rime frequenti e martellanti, le insistite iterazioni e le anafore contribuiscono ulteriormente all’incalzante svolgersi del contrasto drammatico.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 167
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSIone 1. Qual è la tematica principale di questa lauda? 2. A chi rivolge Jacopone il suo messaggio pedagogico? AnALISI 3. Evidenzia la struttura circolare che caratterizza la lauda. LeSSIco 4. Rintraccia nel testo le espressioni che servono a giustificare la tua risposta nell’esercizio 1 e trascrivile. 5. Il testo è caratterizzato dall’uso di un lessico popolareggiante e dall’insistenza su immagini macabre e iperrealistiche. Inserisci nella tabella almeno cinque esempi per ciascuna di queste caratteristiche stilistiche. lessico
immagini
StILe 6. Quale figura retorica ricorre insistentemente? Quale effetto produce?
Interpretare
teStI A conFronto 7. Confronta la visione della morte che ha san Francesco presente nel Cantico con quella descritta in questa lauda da Jacopone da Todi (max 30 righe).
Studiare con l'immagine ScrItturA 8. Il gusto del macabro si manifesta anche nell’iconografia. La sua più precoce espressione, già agli inizi del sec. XII, è rappresentata dal “tema dei tre vivi e dei tre morti”, successivamente ripreso con fortuna nella letteratura di molti paesi d’Europa. Ricollega la fonte iconografica proposta qui sotto al testo appena analizzato ed evidenzia le caratteristiche che testimoniano la visione morale e religiosa dell’autore. (max 20 righe). Su un affresco nella chiesa di St. Jodok (a Überlingen, sulla riva nord del lago di Costanza in Germania, fine ’400) è raffigurato l’incontro dei tre morti e dei tre vivi, un fortunato soggetto iconografico legato all’immagine della morte: tre giovani cavalieri incontrano tre “morti viventi”, che così li ammoniscono: «Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda se stesso».
LEGGERE LE EMOZIONI
9. La lauda attraverso il dialogo tra un vivo e un morto medita sul disfacimento del corpo e sulla vanità delle cose terrene per indurre il lettore al disprezzo del mondo e al pentimento. Quali sensazioni, emozioni suscita in te la lettura di questo testo? Sgomento, orrore, disgusto?
168 Duecento e trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Jacopone da Todi
T6 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
O iubelo del core In questa celebre lauda Jacopone evoca l’emozione travolgente del contatto mistico con Dio e ne descrive gli effetti: il cuore ennamorato di chi è preso dall’amore divino prorompe in manifestazioni caratterizzate dalla “dismisura” e dall’eccesso, estranee alla normale condotta soggetta al controllo razionale; agli occhi della gente il mistico può apparire perciò come un folle, suscitando lo scherno e la derisione di chi non ha mai provato tale intensa esperienza.
O iubelo del core, che fai cantar d’amore1!
AUDIOLETTURA
Quanno iubel se scalda, sì fa l’omo cantare2, 5 e la lengua barbaglia3, non sa que se parlare4: dentro non pò celare, tant’è granne ’l dolzore5.
10
Quanno iubel è acceso, sì fa l’omo clamare; lo cor d’amor è appreso, che nol pò comportare: stridenno el fa gridare, e non virgogna allore6.
Quanno iubelo ha preso lo core ennamorato, la gente l’ha ’n deriso7, pensanno el suo parlato8, parlanno esmesurato 20 de che sente calore9. 15
La metrica Lauda in forma di ballata di
2 Quanno… cantare: quando il giubilo
versi settenari, con ripresa (o ritornello) xx e schema strofico ababbx, perciò con ripresa della rima del ritornello alla fine di ciascuna strofa, secondo uno schema tipico della ballata jacoponica. In alcuni casi la rima è sostituita da una semplice assonanza: vv. 3 e 5; vv. 21-23. È presente (vv. 15 e 17) la rima siciliana preso/ deriso.
diviene più intenso e più caldo (si scalda) fa cantare chi lo prova. Al crescere della pienezza dell’amore divino non basta più la parola: solo il canto può esprimere l’intensità della lode. Quanno è forma del dialetto umbro in cui il suono nd si assimila in nn, come nei successivi granne (= grande), stridenno (= stridendo), pensanno (= pensando), e simili. L’anafora (Quanno iubel[o]) collega le prime tre strofe e sottolinea la parola chiave iubelo, con un effetto di progressiva intensificazione. 3 la lengua barbaglia: la lingua balbetta. Il vocabolo onomatopeico barbaglia riproduce fonicamente l’inceppamento della lingua e l’impossibilità di una comunicazione con gli altri uomini. Tale difficoltà è sottolineata dal fatto che barbaglia non è in rima con scalda, ma solo in assonanza.
1 O iubelo… amore: il ritornello, in cui compare la parola chiave iubelo, evidenzia il tema del testo, la gioia immensa dell’amore mistico, non commisurabile a nessuna esperienza umana. Nel linguaggio biblico e ascetico giubilo (latino jubilum, “grido di gioia, di esultanza”) indica un sentimento di gioia così vivo e profondo che traspare dai gesti, dallo sguardo, dal tono della voce.
4 que se parlare: quel che si dica (oppure “che cosa dire”). 5 dentro… dolzore: la dolcezza che si prova è così intensa che non può rimanere celata e nascosta nell’interiorità. 6 Quanno... allore: quando il giubilo si accende fa gridare (clamare); il cuore è infiammato (appreso) dall’amore, tanto da non poterlo sopportare in silenzio; tale amore fa gridare chi lo prova, in modo violento e dissonante (stridenno, lett. stridendo) e in quel momento non se ne vergogna. 7 la gente l’ha ’n deriso: la gente lo deride (deriso = derisione). 8 parlato: modo di parlare. 9 parlanno… calore: poiché parla smisuratamente dell’ardore che sente.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 169
O iubel, dolce gaudio ched entri ne la mente10, lo cor deventa savio celar suo convenente: 25 non pò esser soffrente che non faccia clamore11. Chi non à costumanza12 te reputa ’mpazzito, vedenno esvalïanza13 30 com’om ch’è desvanito;14 dentr’ha lo cor ferito, non se sente da fore15. 10 O iubel…mente: O gioia, dolce piacere, che sei nella mente. 11 lo cor... clamore: il cuore sarebbe saggio nel nascondere (celar) il proprio stato (suo convenente): (ma) non può fare a meno (non pò esser soffrente) di gridare. All’atteggiamento razionale (che implicherebbe il celare la propria condizione) si contrappone l’impeto incontenibile dell’amore mistico. È omessa la congiunzione avversativa che contrappone i due atteggiamenti, secondo una sintassi ellittica propria di Jacopone.
12 costumanza: pratica, esperienza. L’ultima strofa è l’unica che non presenta, in apertura, la parola chiave iubelo. Tale differenza sottolinea il carattere riassuntivo e gnomico della strofa, slegata dalla progressione di quelle precedenti. 13 esvalïanza: stranezza, comportamento fuor di norma. 14 desvanito: vaneggiante. I termini esvalïanza e desvanito, legati dall’allitterazione, sottolineano l’atteggiamento apparentemente delirante di chi è preso dal gaudio mistico.
15 non se sente da fore: da fuori non si può percepire quello che il mistico vive dentro il suo cuore. I termini dentr’ e fore, che aprono e chiudono i due versi finali, mettono in rilievo il contrasto fra la dimensione esteriore e quella più profonda e interiore, propria della comunione mistica con Dio. Nuovamente è sottolineato un motivo fondamentale nel testo.
Flagellanti o Fratelli della croce nella città olandese di Doornik in una miniatura trecentesca.
170 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Analisi del testo L’annullamento del mondo esterno e l’etica della “dismisura” L’amore mistico di cui parla Jacopone è rappresentato come un completo distacco dalla dimensione umana e terrena, fino all’annullamento della realtà esterna. Chi prova l’ardore mistico è afferrato da una sorta di rapimento e di estasi. In tale stato non solo il mondo esterno è totalmente indifferente, ma si crea una netta frattura con esso: le manifestazioni di gioia eccessive (esmesurate), che si traducono nel canto, nel grido, sono del tutto incomprensibili se valutate con il metro della logica comune. Jacopone rovescia i normali parametri valutativi del comportamento umano: all’etica della “misura” propria dell’ideale cortese nel Medioevo, Jacopone contrappone l’esmesuranza, propria di chi ha afferrato il messaggio cristiano in tutta la sua sconvolgente e rivoluzionaria portata.
Il linguaggio dell’amore mistico In questo testo, uno dei più intensi e significativi della poesia religiosa medievale, Jacopone sperimenta in modo ardito il linguaggio dell’amore mistico. Per rappresentare il sentimento che lo invade Jacopone attinge in parte alla poesia cortese e alla lirica amorosa italiana: ne sono spia presenze lessicali come dolzore, ma anche immagini come quella del fuoco ardente d’amore che consuma, o della ferita aperta nel cuore dell’innamorato. Mentre però l’amore cortese e profano si iscrive in precise norme e convenzioni, l’unica “norma” a cui risponde l’amore di Dio provato da Jacopone (e da altri mistici) è quella della follia, del deragliamento e dell’eccesso, come evidenziano, nel testo jacoponico, parole chiave come ’mpazzito, esvalïanza, desvanito. Prettamente jacoponica è l’iterazione di costrutti e termini e di anafore (a cominciare dalla ricorrenza in tutte le strofe, tranne l’ultima, del termine chiave iubelo), finalizzate in altri casi a enfatizzare quanto a Jacopone sta a cuore trasmettere al lettore. A questa esigenza comunicativa (e in altri casi didattica) si contrappone qui il tema dell’ineffabilità: l’esperienza mistica di fatto non può essere trasmessa, è inevitabilmente vissuta nella solitudine del proprio io e la parola comune non può in alcun modo descriverla perché essa trascende i limiti dell’umano: la sostituiscono un disarticolato balbettare (la lengua barbaglia) o addirittura il grido.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è il tema principale di questa lauda? ANALISI 2. Quali aspetti riconducono il testo all’esperienza mistica? Si tratta di un’esperienza che può essere condivisa con gli altri? Perché? 3. Quali reazioni e comportamenti induce l’esperienza mistica nell’io lirico? Come vengono giudicati dagli altri tali comportamenti? LESSICO 4. Analizza il lessico e individua i termini che appartengono al campo semantico del dire e del tacere e inseriscili in uno schema simile a questo. campo semantico del dire
campo semantico del tacere
5. Individua nel testo termini che alludono all’assenza di controllo, all’eccesso e alla vera e propria follia. STILE 6. Individua le ripetizioni di termini chiave e le anafore.
Interpretare
SCRITTURA 7. In che cosa consiste il tema dell’ineffabilità che è al centro della lauda? Spiegalo in un breve testo. TESTI A CONFRONTO 8. Confronta situazione e temi della lauda di Jacopone con la lode di ringraziamento e il messaggio profondo evocati da Francesco nel Cantico. Evidenzia analogie e differenze fra i due testi.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 171
Jacopone da Todi
Donna de Paradiso
T7 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Il testo è generalmente considerato il primo esempio di lauda drammatica; la sua struttura induce infatti a pensare che fosse destinato alla recitazione (forse da parte di una confraternita): la drammatica vicenda della Passione di Cristo è presentata attraverso le voci di diversi personaggi, che dialogano tra loro. Il primo è un nunzio, che alcuni identificano con san Giovanni, che descrive alla Madonna i vari momenti della Passione; si alternano quindi la voce tenera, dolente e accorata della Madonna, i toni crudeli e violenti della folla che chiede la crocifissione, e infine le parole di Gesù stesso che si rivolge alla madre e a san Giovanni.
[Nunzio] «Donna de Paradiso1, lo tuo figliolo è preso2, Iesù Cristo beato. Accurre, donna, e vide che la gente l’allide3: credo che lo s’occide4, tanto l’ho5 flagellato».
5
[Maria] 10
«Com’essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?6»
[Nunzio] «Madonna, ell’ è traduto7: Iuda8 sì l’ha venduto; trenta denar n’ha avuto, 15 fatto n’ha gran mercato9». [Maria]
«Soccurri, Maddalena! Ionta m’è adosso piena10: Cristo figlio se mena11, com’ è annunzïato12».
La metrica Ballata di settenari, di cui alcuni irregolari ed eccedenti la misura. Lo schema delle rime nelle strofe è aaax, quello della ripresa mmx.
1 de Paradiso: celeste. 2 è preso: è stato catturato. 3 Accurre... allide: accorri, donna e vedi (accurre e vide sono imperativi) che la gente lo percuote (l’allide).
4 lo s’occide: lo uccidano. 5 l’ho: lo hanno. 6 «Com’essere... pigliato?»: come potrebbe (porria) essere (come è possibile) che lo abbiano catturato (om l’avesse pigliato; om ha valore impersonale, come on francese), dato che non commise colpa (follia), Cristo, la mia speranza (spene, latinismo da spes). 7 è traduto: è stato tradito. 8 Iuda: Giuda.
172 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
9 fatto... mercato: l’ha venduto a vilissimo prezzo. È detto in modo antifrastico e ironico. 10 Ionta... piena: mi è venuto addosso un dolore improvviso e irreparabile (come la piena di un fiume). 11 se mena: viene portato via (con valore passivo, come i seguenti se sputa e se prende). 12 com’ è annunzïato: come è stato profetizzato.
20
[Nunzio] «Soccurre, donna, adiuta13, ca ’l tuo figlio se sputa14 e la gente lo muta15 hòlo16 dato a Pilato». [Maria]
«O Pilato, non fare el figlio mio tormentare, ch’io te pozzo mustrare17 como a torto è accusato».
[Folla]
«Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo nostra lege contradice al senato18».
[Maria]
«Prego che me ’ntennate19, nel mio dolor pensate20: forsa mo vo mutate de che avete pensato21».
[Folla]
«Traàm for22 li ladruni, che sian suoi compagnuni23: de spine se coroni, ché rege s’è chiamato!»
[Maria]
«O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! figlio, chi dà consiglio24 al cor mio angustïato?
25
30
35
40
45
Figlio occhi iocundi25, figlio, co’26 non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ si’ lattato27?»
13 adiuta: aiuta(lo). 14 ca ‘l tuo figlio se sputa: perché viene coperto di sputi. 15 lo muta: seguendo il racconto dei Vangeli, si può interpretare sia come “lo trasferisce” (dal sinedrio al tribunale di Pilato), sia “lo cambia di abito”, perché, come è narrato nel Vangelo secondo Matteo (27, 28) «spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto». 16 hòlo: lo hanno. 17 ch’io… mustrare: perché io ti posso dimostrare. 18 Crucifige... al senato: dal Vangelo secondo Giovanni (19, 7-12) è tratto il riferimento alla legge («Noi abbiamo una Legge
e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio») e all’Impero romano («Chiunque infatti si fa re si mette contro Cesare»). L’inserimento dell’espressione in latino Crucifige, ripresa alla lettera dai Vangeli, sottolinea efficacemente la distanza culturale e spirituale, rispetto alla figura di Cristo, del popolo degli ebrei, allora soggetto all’Impero romano, ed evidenzia l’orizzonte storico in cui esso si situa, che è ancora quello antico della legge, ebraica (come legge divina) e romana (come legge del senato). 19 me ’ntennate: comprendiate quello che provo. 20 nel... pensate: pensate al mio dolore.
21 forsa mo... pensato: forse (latino forsan) allora (mo è voce centro-meridionale) voi mutereste la vostra precedente opinione. 22 Traàm for: tiriamo fuori (dal carcere). 23 compagnuni: compagni. Nel termine si avverte una sfumatura spregiativa. 24 dà consiglio: consolerà. 25 occhi iocundi: dai begli occhi (apposizione al posto di un complemento di qualità). 26 co’: come. 27 al petto o’ si’ lattato: petto, in funzione metonimica per indicare la madre, sottolinea il legame viscerale fra la madre e suo figlio.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 173
[Nunzio] «Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce28, 50 ove la vera luce dèi essere levato29». [Maria]
55
«O croce30, e che farai? El figlio mio torrai31? Como tu ponirai32 chi non ha en sé peccato?»
[Nunzio] «Soccurri33, piena de doglia34, ca’l tuo figlio se spoglia35: la gente par che voglia che sia martirizzato!» 60 [Maria]
«Se i tollete el vestire36, lassatelme vedere, como el crudel ferire tutto l’ha ensanguenato!»
[Nunzio] «Donna, la man li è presa37, 65 ennella croce è stesa38; con un bollon l’ho fesa tanto lo ci ho ficcato39. L’altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è più moltiplicato.
70
Donna, li pè se prenno e chiavellanse al lenno: onne iontur’ aprenno, tutto l’ho sdenodato40».
75
[Maria]
«E io comenzo el corrotto41: figlio, lo mio deporto42,
28 l’aduce: la porta. 29 ove... levato: dove Cristo, vera luce, deve essere sollevato, posto. 30 O croce: la Madonna si rivolge alla croce con un’apostrofe, quasi personificandola, come se fosse un personaggio da aggiungere a quelli che agiscono nel dramma. 31 torrai: riceverai.
32 ponirai: accuserai. 33 Soccurri: soccorrilo. 34 doglia: dolore. 35 ca’… spoglia: perché stanno spogliando tuo figlio.
36 Se i … vestire: se gli togliete gli indumenti.
37 la man…presa: gli si prende la mano. 38 ennella…è stesa: e la si stende sulla croce.
174 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
39 con un bollon... ficcato: con un chiodo l’hanno trapassata (fesa), tanto (profondamente) ce lo hanno conficcato. 40 li pé... sdenodato: si prendono i piedi e si inchiodano al legno; aprendo ogni giuntura l’hanno tutto slogato. 41 io... corrotto: io comincio il lamento funebre. 42 deporto: gioia. Il termine è proprio della tradizione cortese.
figlio, chi me t’ha morto43, figlio mio dilicato? Meglio averiano fatto che ’l cor m’avesser tratto, che ne la croce è tratto stace descilïato44!»
80
[Cristo]
«Mamma, ove si’ venuta? Mortal me dài feruta, ca ’l tuo planger me stuta45, che ’l veio sì afferrato46».
[Maria]
«Figlio, che m’aio anvito47, figlio, pate e marito48! Figlio, chi t’ha ferito? Figlio, chi t’ha spogliato?»
[Cristo]
«Mamma49, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve ei mei50 compagni, ch’al mondo aio acquistato51».
[Maria]
«Figlio, questo non dire: voglio teco morire; non me voglio partire fin che mo m’esce ’l fiato52.
85
90
95
100
[Cristo] 105
C’una aiam sepoltura53, figlio de mamma scura54: trovarse en afrantura mate e figlio affocato55!» «Mamma col core afflitto, entro le man te metto de Ioanne, mio eletto56: sia tuo figlio appellato57.
43 chi me t’ha morto: chi ti ha ucciso. Ma si noti la connotazione affettiva struggente del me (a me, mi). 44 Meglio... stace descilïato: avrebbero fatto meglio a strapparmi il cuore, che è trascinato sulla croce e ci sta straziato (stace descilïato). 45 Mortal… me stuta: mi dai una ferita mortale perché il tuo pianto mi spegne (stuta dal latino tutare “smorzar”, detto della cenere sul fuoco). 46 che ’l veio... afferrato: perché lo vedo così angoscioso. 47 che... anvito: ne ho ben motivo.
48 figlio, pate e marito: l’espressione richiama la dottrina teologica trinitaria. Gesù è figlio, ma anche padre (pate), perché Dio, e marito, perché Spirito Santo, per virtù di cui Maria concepì il proprio figlio. Allo stesso modo Dante definirà Maria «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» (Pd XXXIII 1). 49 Mamma: il termine usato da Gesù è proprio del registro familiare e colloquiale. Il fatto che sia posto in bocca a Gesù sottolinea il registro “umile” scelto dall’autore. 50 ei mei: i miei. 51 ch’al mondo... acquistato: che ho acquistato per il mondo (per la salvezza del mondo).
52 fin che...’l fiato: finché avrò fiato, finché vivrò. 53 C’una... sepoltura: che possiamo avere (forma desiderativa) una sola sepoltura. 54 scura: infelice. 55 trovarse... affocato: trovarsi madre e figlio soffocato in una stessa sofferenza angosciosa (afrantura). 56 eletto: prediletto. I vv. 104-109 della lauda riecheggiano ancora il Vangelo secondo Giovanni (19, 26-27): «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”». 57 appellato: chiamato.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 175
Ioanni, èsto58 mia mate: tollela en caritate59, aggine pïetate, ca’l cor sì ha furato60».
110
[Maria]
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«Figlio, l’alma t’è ’scita61, figlio de la smarrita, figlio de la sparita62, figlio attossecato63! Figlio bianco e vermiglio64, figlio senza simiglio65, figlio, a chi m’apiglio66? Figlio, pur m’hai lassato!
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Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo67, figlio, per che t’ha ’l mondo, figlio, così sprezzato? Figlio dolze e placente, figlio de la dolente, figlio, hatte68 la gente malamente trattato! Ioanni, figlio novello, mort’è lo tuo fratello: ora sento ’l coltello che fo profitizzato69. Che moga70 figlio e mate d’una morte afferrate: trovarse abraccecate71 mate e figlio impiccato72».
58 èsto: ecco (forma dialettale umbra). 59 tollela en caritate: ricevila con amore. 60 ca’ l… furato: perché ha il cuore forato, trafitto.
61 t’è ’scita: ti è uscita (dal corpo). 62 sparita: distrutta, ridotta a niente. 63 attossecato: avvelenato.
64 bianco e vermiglio: bianco e rosso, candido e rubicondo (espressione del Cantico dei Cantici). 65 senza simiglio: senza somiglianza, senza pari. 66 apiglio: stringo, appoggio. 67 volto iocondo: dal volto lieto. 68 hatte: ti ha.
176 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
69 ora sento... profitizzato: Maria si riferisce a una profezia di Simeone, riportata nel Vangelo secondo Luca (2, 34-35), che le aveva preannunciato: «a te una spada trafiggerà l’anima». 70 moga: muoiano. 71 abraccecate: abbracciati (tratto umbro). 72 impiccato: appeso alla croce.
Analisi del testo La figura di Maria e l’“umanizzazione” del racconto evangelico della Passione Nel racconto dei Vangeli, durante la Passione, Maria non ha un ruolo centrale, anche se Giovanni ricorda che la madre stava presso la croce di Gesù. È nei Vangeli apocrifi che la Madonna comincia ad assumere un ruolo più rilevante anche negli ultimi momenti della vita di Cristo. Nel testo di Jacopone non soltanto Maria assume una parte molto più estesa e attiva che nei Vangeli, ma tutto il dramma è narrato secondo la sua prospettiva: è a lei, infatti, che si rivolge il nunzio all’inizio della narrazione, ed è a lei che sono descritti gli avvenimenti della Passione di Cristo. Nella lauda drammatica di Jacopone Maria è rappresentata non come la madre del figlio di Dio ma come una madre straziata dal martirio del figlio.
Il livello linguistico Il processo di umanizzazione e di “abbassamento” del racconto evangelico si riflette nel linguaggio della lauda, in cui, accanto a latinismi (ad esempio: allide, vide, torrai), si inseriscono termini propri di un registro “umile” e popolare (Ionta m’è adosso piena, mo, èsto, ensanguenato, lagni, furato). Anche il termine mamma (ma è presente anche il latineggiante mate, v. 103 e v. 108) posto in bocca a Gesù appartiene al registro “basso”. L’accorato lamento della Madonna ricorda inoltre i pianti funebri rituali, diffusi nella cultura popolare: l’iterazione esasperata di figlio, con la lunga anafora che percorre i vv. 112-126 – ulteriormente messa in rilievo dalle rime dei vv. 116-118 (vermiglio, simiglio, apiglio) – sottolinea il legame tutto umano e terreno tra il figlio e la madre e ne imprime il compianto nella memoria del lettore.
La teatralità di Donna de Paradiso Il testo di Jacopone può essere considerato, pur in forma ancora embrionale, il primo dei molti drammi che anche in seguito saranno dedicati alla Passione, in quanto presenta già vari elementi teatrali: nella lauda dialogano infatti diversi personaggi, mentre altri non parlano, ma sono citati come se fossero presenti sulla scena (Maddalena, Pilato, san Giovanni). Altri elementi che determinano l’effetto teatrale della lauda sono da una parte il contrasto fra i personaggi (in particolare la ferocia della folla contrapposta alla tenera dolcezza di Maria) e dall’altra parte la tensione drammatica assunta dalla vicenda, che viene rappresentata nel suo svolgersi, come se essa potesse ancora essere impedita per le preghiere e le suppliche di Maria. A potenziare l’effetto drammatico, si alternano inoltre nella lauda tempi molto rapidi e concitati e tempi rallentati, come quelli in cui è descritto quasi “al rallentatore”, tutto il dolore di Cristo nella crocifissione (vv. 68-71: «L’altra mano se prende, / ennella croce se stende / e lo dolor s’accende, / ch’è più moltiplicato»).
online
Verso il Novecento Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo.
La Crocifissione nel pannello centrale del polittico dell’Altare di Isenheim (1512-1515) del pittore tedesco Mathias Grünewald.
Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa 1 177
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza i contenuti della lauda in non meno di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è la tematica principale di questa lauda? ANALISI 3. In quali punti del testo è enunciata la posizione del popolo? Riassumi l’intervento del popolo. 4. Indica, motivando la tua scelta, i passi in cui è più evidente l’aspetto umano messo in luce da Jacopone nell’interpretazione della vicenda evangelica. LESSICO 5. Quale significato ha la ripetizione, quasi ossessiva, della parola figlio da parte di Maria?
Interpretare
SCRITTURA 6. Attraverso le voci che intervengono nel testo è “sceneggiata” la Passione di Cristo: ricostruiscine le fasi e stendi un copione della lauda, indicando: le sequenze fondamentali della lauda, le voci narranti, le scene, i dialoghi. COMPETENZA DIGITALE 7. Svolgi una ricerca anche in internet sul motivo della “madre addolorata”. Dopo esserti documentato, proponi esempi, anche attuali, di rappresentazione in altre forme d’arte (cinema, pittura, musica ecc.).
L’interprezione del videoartista statunitense Bill Viola (n. 1951), in Emergence 2002 (per il Paul Getty Museum, Los Angeles).
Capolettera da un codice medievale, con la crocifissione e il compianto della Vergine.
Una scena tratta dal film Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini. Il personaggio della Mater dolorosa fu interpretato dalla madre stessa del regista, Susanna Colussi.
178 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
2
La produzione didattico-edificante 1 Le prediche, le Vite dei santi, i trattati morali La predica: una forma particolare di comunicazione Nel XIII secolo la Chiesa aveva compreso l’importanza strategica della predicazione, soprattutto per le masse popolari, sempre più attratte dal dissenso religioso. Le prediche ai fedeli, raccolte da alcuni ascoltatori, ci sono in parte pervenute e testimoniano lo sforzo di divulgare a un pubblico eterogeneo, per larga parte analfabeta, i contenuti della fede cristiana (non è un caso che, in quello stesso periodo, si iniziasse a predicare in lingua volgare e non più in latino). Per realizzare questo scopo persuasivo i predicatori ricorrevano a vari espedienti: innanzitutto l’inserimento nelle omelie di brevi racconti a carattere “esemplare” (➜ C3, PAG. 208) di forte impatto sugli ascoltatori; poi l’utilizzazione di soluzioni “teatrali” per catturare l’attenzione: in alcuni casi l’enfatizzazione della gestualità accomunava le prediche addirittura alle performances dei giullari.
Storie incredibili per gente comune: le Vite dei santi Una tipologia di testi assai diffusa nel Medioevo, che esercitava un ruolo didattico affine alla predicazione, era la letteratura agiografica (dal greco hághios “santo” e grapho “scrivo”), cioè i racconti delle vite dei santi, proposte come modello di perfetta vita cristiana che i fedeli devono e possono imitare. Ne è un esempio illuminante un testo che appartiene alla raccolta agiografica Vite dei santi Padri del predicatore domenicano Domenico Cavalca (1270-1340), tratta da una raccolta in latino. L’autore si rivolge ad online un pubblico di illetterati, e divulga il sapere teologico attraverso T8 Domenico Cavalca efficaci “esempi”, inseriti in un clima fiabesco e meraviglioso, e Un esempio eloquente dell’ottica agiografica Vita di Sant’Elpidio ricorrendo a un toscano semplice ed efficace. I trattati di morale Il termine spesso usato nel Medioevo per i trattati che si proponevano l’educazione morale e religiosa dei fedeli era specchio (in latino medievale speculum): questa espressione metaforica suggeriva al lettore la possibilità di vedere, riflesso nel libro, come in uno specchio, il modello morale da imitare per vivere una vita secondo i valori cristiani. La “pedagogia del terrore” e Lo specchio di vera penitenza di Passavanti Uno dei più noti trattati di morale fu Lo specchio di vera penitenza del domenicano Jacopo Passavanti (1302-1357), raccolta dei suoi sermoni, resi più efficaci dalle narrazioni di molti esempi per l’edificazione dei fedeli. L’opera fu scritta nel momento storico in cui la terribile pestilenza del 1348 aveva posto i fedeli di fronte a quotidiani spettacoli di morte e il monito severo dei predicatori poteva perciò trovare più largo seguito: la peste veniva da essi interpretata come castigo di Dio per la corruzione dell’umanità. Interprete delle tendenze più tipiche della cultura ascetico-penitenziale del tardo Medioevo, Passavanti rivela una visione totalmente pessimista della natura umana. La produzione didattico-edificante 2 179
Jacopo Passavanti
T9
Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Lo specchio di vera penitenza J. Passavanti, Lo specchio di vera penitenza, Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano 1808
In questa narrazione, che si iscrive nel genere “esemplare”, una tipologia testuale assai diffusa nella cultura clericale e finalizzata all’edificazione morale dei lettori, il predicatore Jacopo Passavanti utilizza lo strumento del terrore per convincere chi legge della necessità di pentirsi prima che, come in questo caso, sia troppo tardi. Il tema della “contesa tra angeli e demoni” per il possesso dell’anima di chi sta per morire è diffusissimo non solo nella letteratura, ma anche nella pittura medievale. Dante stesso nella Commedia (Pg. V, 85-129) costruirà un celebre episodio su questo topos. Al testo originale segue la versione in italiano corrente.
Or te ne guarda: credimi, che chi non fa quando puote, quando vorrà, non potrà; o meriterà di mai non volere quello che sia di sua salute. Leggesi (e ’l venerabile dottore Beda1 lo scrive) ch’e’ fu uno cavaliere in Inghilterra, prode dell’arme, ma de’ costumi vizioso, il quale, gravemente infermato, fu 5 visitato dal Re, ch’era un santo uomo; e indotto, che dovesse acconciarsi dell’anima confessandosi come buono Cristiano, rispose, e disse: Che non era bisogno, e che non volea mostrare d’avere paura, né esser tenuto codardo o vile. Crescendo la infermità, e ’l Re un’altra volta venne a lui; e confortandolo, e come avea fatto in prima, inducendolo a penitenzia, e a confessare i suoi peccati, rispose: Tardi è 10 oggimai, messer lo Re; perocch’io sono già giudicato e condennato, che male a mio uopo non vi credetti l’altro giorno, quando mi visitaste, e consigliastemi della mia salute, che, misero a me! ancora era tempo di trovare misericordia. Ora, che mai non foss’io nato! m’è tolta ogni speranza; che poco dinanzi, che voi entraste a me, vennono due bellissimi giovani, e puosonsi l’uno da capo del letto, e l’altro da piè, e 15 dissono: Costui dee tosto morire, veggiamo se noi abbiamo veruna ragione in lui. E l’uno si trasse di seno uno picciolo libro, scritto di lettere d’oro, dove, avvegnaché in prima non sapessi leggere, lessi certi piccioli beni, e pochi, ch’io avea fatti nella mia giovinezza, innanzichè mortalmente peccassi: nè non me ne ricordava. E avendone grande letizia, sopravvennoro due grandissimi, nerissimi e crudelissimi Demonj, e 20 puosono davanti a’ miei occhi un grande libro aperto, ove erano scritti tutti i miei peccati, e tutt’i mali, ch’io avea mai fatti, e dissono a quelli due giovani, che erano gli Angeli di Dio: Che fate voi qui? conciossiacosachè in costui nulla ragione abbiate, e ’l vostro libro, già è molti anni, non sia valuto neente. E sguardando l’uno l’altro, gli Angeli dissono: E’ dicono vero. E così partendosi, mi lasciaro nelle mani de’ De25 monj: i quali con due coltella taglienti mi segano, l’uno dal capo, e l’altro da’ piedi. Ecco quelli da capo mi taglia ora gli occhi, e già ho perduto il vedere; e l’altro ha già segato insino al cuore, e non posso più vivere. E dicendo queste parole si morì.
1 ’l venerabile dottore Beda: Beda il Venerabile, monaco anglosassone, santo (ca 672-735), autore di una
180 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Storia ecclesiastica del popolo inglese; ebbe grande influenza sulla cultura della Scolastica.
VERSIONE IN ITALIANO attuale
Ora stai attento: credimi, che chi non fa quando può, quando vorrà, non potrà; o meriterà di non ottenere mai quello che gli giovi. Si legge (in uno scritto del Dottore della chiesa, Beda il Venerabile) che viveva in Inghilterra un cavaliere, valoroso nelle armi, ma licenzioso nei costumi, il quale, ammalatosi gravemente fu visitato dal re, ch’era un sant’uomo; e convinto che dovesse purgarsi l’anima, confessandosi come un buono cristiano, rispose dicendo che non c’era bisogno, e che non voleva mostrare d’avere paura, né esser tenuto codardo o vile. Aggravandosi sempre più, il re gli fece visita un’altra volta, lo confortò, cercando di convincerlo, come aveva fatto la prima volta, a fare penitenza e confessare i suoi peccati, al che il cavaliere rispose: «È ormai tardi, o mio re, sono già stato giudicato e condannato, io che a mio danno non vi credetti l’altro giorno, quando mi visitaste, e mi consigliaste per la mia salvezza, quando, me misero, era ancora tempo di trovare misericordia. Ora, che mai fossi nato! sono senza speranza, perché poco prima che voi entraste da me, vennero due bellissimi giovani, e si posero l’uno a capo del letto, e l’altro ai piedi, e dissero: «Costui presto morirà, vediamo se noi abbiamo qualche ragione su di lui. E uno estrasse un libriccino, scritto di lettere d’oro, dove, benché prima non sapessi leggere, lessi certe piccole buone azioni, e poche, che io avevo fatto nella mia giovinezza, prima che peccassi mortalmente, e di cui mi ero scordato. Ed essendone lieto, sopraggiunsero due grandissimi, nerissimi e crudelissimi demoni, e posero davanti ai miei occhi un grande libro aperto, ove erano scritti tutti i miei peccati e tutte le cattive azioni che io avevo fatto, e dissero a quegli altri due giovani, che erano angeli di Dio: “Che fate voi qui, che non potete avere nessuna pretesa nei confronti di costui e che il vostro libro, già da molti anni, non vale più niente. E guardandosi l’un l’altro, gli angeli dissero: “Questi affermano il vero”. E così allontanandosi, mi lasciarono nelle mani dei demoni, i quali con due coltellacci mi aprirono l’uno dal capo, e l’altro dai piedi. Ecco, quello mi taglia dalla testa ora gli occhi, e già ho perso la vista; e l’altro ha già segato fino al cuore, e non posso più vivere». E dicendo queste parole morì.
Analisi del testo Un racconto terrifico Il racconto (scritto per essere inserito come exemplum in una predica ecclesiastica) è breve e apparentemente molto semplice, ma molto significativo e rivelatore della cultura dell’epoca. Di questo genere di narrazioni era alimentato il ricchissimo immaginario medievale, dominato dal senso del divino e privo di una netta distinzione fra il visibile e l’invisibile. Appariva allora radicata la credenza che forze soprannaturali (angeli e demoni) vigilassero costantemente su ogni uomo. Il racconto trapassa perciò con estrema naturalezza e senza soluzione di continuità dal piano visibile a quello invisibile, passando dal racconto realistico dell’incontro tra il cavaliere superbo e il re saggio che tenta di indurlo al pentimento, alla visione del peccatore, che, ormai prossimo alla morte, ha un anticipo del giudizio divino e dei tormenti infernali. In questa seconda parte del racconto, non solo gli elementi soprannaturali non appaiono sfumati né evanescenti, ma anzi sembrano stagliarsi con contorni più netti e colori più vividi di quelli del mondo visibile. Nell’intento di indurre i fedeli al pentimento, il predicatore sa evocare nella fantasia degli ascoltatori immagini di grande impatto visivo, adatte a tenerne sospesa l’attenzione e a impressionarli vivamente fino alla terribile scena finale.
La produzione didattico-edificante 2 181
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto del testo in max 15 righe. ANALISI 2. Completa la tabella, indicando gli elementi di contrasto tra angeli e demoni, analizzandone l’aspetto, l’atteggiamento, i discorsi, le azioni. aspetto
atteggiamento
discorsi
azioni
angeli demoni
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 3. Pur nella sua semplicità, il racconto traccia un compiuto ritratto morale del peccatore. Indica gli elementi che concorrono a delinearlo. 4. Il predicatore Jacopo Passavanti, come già detto, utilizza lo strumento del terrore del giudizio di Dio per convincere chi legge della necessità di pentirsi prima che, come in questo caso, sia troppo tardi. Il tema della paura è presente in vari testi del Medioevo, ma in particolare nelle rappresentazioni terrifiche del trionfo della morte e dell’aldilà. Quali sono le paure che caratterizzano il Medioevo? Di che cosa, invece, si ha paura oggi e tu di che cosa hai paura?
2 Rappresentare l’aldilà: la “letteratura dell’oltremondo” Un genere di grande fortuna Uno dei generi più interessanti della letteratura religiosa medievale è la cosiddetta “letteratura dell’oltremondo”, incentrata sulle rappresentazioni dell’aldilà, che si diffonde tra il XII e il XIII secolo: ne è esempio la stessa Commedia. Il poema dantesco si distacca però nettamente dalle testimonianze coeve per l’eccezionale altezza poetica. Questo filone letterario si propone di suscitare nei fedeli l’orrore verso una vita peccaminosa e spingere a scelte di vita giuste e morali, mostrando con evidenza realistica le orribili pene dell’inferno e le delizie riservate ai giusti nel paradiso. Lo schema narrativo del viaggio Nella letteratura medievale il contatto di un vivente con l’oltretomba può avvenire attraverso una “visione” o un vero e proprio “viaggio”, inscritto entro riferimenti spazio-temporali che scandiscono le tappe di un itinerario: è il caso della Commedia, in particolare nelle prime due cantiche. Uno dei testi che ebbero maggiore diffusione in tutta Europa è la Navigazione di san Brandano, un testo anonimo redatto in latino nell’ambiente monastico irlandese non oltre il X secolo (➜ T10 OL). Nel tardo Medioevo il testo latino fu volgarizzato in vari dialetti, tra cui il veneto e il toscano. Il testo prende spunto dalla figura di un monaco irlandese realmente vissuto (sec. VI) che fondò numerosi conventi e viaggiò per l’opera di evangelizzazione. Nella Navigazione di san Brandano i viaggi del monaco-santo vengono trasfigurati e inscritti in un orizzonte fantastico: il viaggio del santo con pochi compagni lo conduce oltre i confini del mondo abitato, dove troverà le più incredibili meraviglie prima di giungere al paradiso terrestre, nei pressi del quale incontra l’inferno. I poemetti didattici di Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva Le più significative opere didattiche sull’aldilà nella cultura medievale (a parte ovviamente la Commedia) sono i poemetti di Bonvesin de la Riva (il Libro delle tre scritture: De scriptura nigra, De scriptura rubra, De scriptura aurea), e soprattutto di Giacomino
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online
Per approfondire Immagini dell’al di là nel mondo antico
da Verona, frate francescano: il De Babilonia civitate infernali (Babilonia città infernale) e il De Jerusalem celesti (La Gerusalemme celeste). Composti tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, i due poemetti di Giacomino raffigurano l’aldilà in modo ingenuo e pittoresco, utilizzando un volgare dell’area veneta volutamente “basso”, adatto a raffigurare in modo iperespressivo un mondo ultraterreno che deve colpire l’immaginazione più che lo spirito e l’intelletto del lettore (➜ T12 ).
I precedenti musulmani Il tema del viaggio nell’aldilà non riguarda solo la cultura cristiana, ma è presente anche in quella musulmana, nel Libro della Scala (➜ T11 OL). Il testo originale (del sec. VIII) in lingua araba è andato perduto, ma alla metà del XIII secolo, presso la corte di Alfonso di Spagna, se ne fecero tre traduzioni (spagnolo, francese, latino), che hanno permesso di conoscere questo importante documento della online spiritualità islamica. Il titolo allude alla lunga scala che conduce T10 Anonimo dalla terra al cielo e attraverso la quale il profeta Maometto, guiLa nave di san Brandano avvista l’isola dell’Inferno dato dall’angelo Gabriele, può intraprendere un viaggio nell’aldilà, Navigazione di san Brandano nell’inferno e nel paradiso. Il Libro della Scala ha suscitato l’inT11 Il viaggio ultraterreno come ponte tra cultura araba ed europea teresse degli studiosi per le analogie di temi e immagini ripresi Libro della Scala nella Commedia dantesca. Scopo dei testi edificanti
insegnare ai fedeli il giusto comportamento mediante
PER APPROFONDIRE
• vite dei santi • racconti ricchi di miracoli e fatti straordinari
• viaggi nell’aldilà • rappresentazioni di inferno e paradiso
La raffigurazione del mondo ultraterreno Il riferimento obbligato al mondo terreno Nel modo di raffigurare il mondo ultraterreno confluiscono ovviamente gli archetipi, i modelli culturali propri delle diverse culture, ma in quasi tutte le rappresentazioni, dall’antichità (➜ PER APPROFONDIRE OL Immagini dell’al di là nel mondo antico) al Medioevo, l’altro mondo è concepito e figurato a partire dal mondo terreno. Le immagini dell’aldilà di fatto sono abbastanza simili nelle diverse civiltà, innanzitutto nell’idea di un luogo fisico dove i morti convergono, con tratti di paesaggio che richiamano quelli terreni, un luogo in cui le anime conservano tratti umani, possono godere e soffrire: quando vengono descritti i dolori e le pene sono sempre accentuati e terribili, come accentuati sono i piaceri, seppur di tipo diverso a seconda delle diverse ottiche culturali. Un modello spaziale simbolico: l’opposizione “alto/basso” Uno degli archetipi fondamentali della rappresentazione ol-
tremondana, caratterizzante in particolare l’aldilà cristiano, è l’opposizione alto/basso, mutuata da quella cielo/terra, opposizione in cui ad “alto” si associa il polo della positività, dell’elevazione spirituale, al “basso” (destinato alle anime dannate) il polo negativo, i disvalori della malvagità e della corruzione. Nella Divina Commedia la “verticalità” del viaggio è fortemente sottolineata: dopo la discesa del protagonista-narratore negli abissi infernali e l’esperienza della disperazione e dell’orrore del peccato, il viaggio si configura, nella seconda e terza cantica, espressamente come ascesa. In altre culture il passaggio vitamorte è invece concepito in senso soprattutto “orizzontale”, in particolare nei popoli marinai come i Greci e i Celti, presso i quali la morte era immaginata come una lunga navigazione. Greci e Celti pongono la dimora dei morti in particolare su isole, come le Isole Fortunate. Ancora nella cristianità celtica sopravvive l’immagine dell’“isola dei morti” (➜ T10 OL).
Fissare i concetti La letteratura religiosa nell’età comunale 1. Che cosa si intende con mondanizzazione della Chiesa? 2. Che cosa accade all’interno dell’ordine francescano dopo la morte di Francesco? 3. In che senso il Cantico di frate Sole può essere considerato una testimonianza di misticismo? 4. Quali tematiche sono presenti nelle laude di Jacopone? 5. Quali sono le caratteristiche dello stile utilizzato da Jacopone nelle laude? 6. Da quali generi è caratterizzata la produzione didattico-edificante ?
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Giacomino da Verona
T12
Una raffigurazione terrifica dell’inferno: un monito per i fedeli Babilonia, città infernale
Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Il passo è tratto dal poemetto del frate francescano Giacomino da Verona De Babilonia civitate infernali, dedicato al viaggio ultraterreno nell’inferno, mentre al paradiso è dedicato il De Jerusalem celesti. Se per il genere e l’argomento i poemetti in volgare di Giacomino da Verona precorrono il grande poema dantesco, essi hanno tuttavia ancora un carattere ingenuo e primitivo; le descrizioni sono ricche di particolari concreti e realistici e, come si può notare dal passo proposto, alcune immagini di grossolana corposità generano un effetto involontariamente comico.
Mai no fo veçù logo né altra consa ké millo meia e plu 4 la puça e lo fetor
unca1 per nexun tempo cotanto puçolento, da la longa se sento ke d’entro quel poço enxo.
Asai g’è là çó bisse, vipere e basalischi agui plui ke rasuri 8 e tuto ’l tempo manja
liguri, roschi e serpenti, e dragoni mordenti: taia l’ong[l]e e li denti, e sempr’ è famolenti2.
Lì è li demonii ke ge speça li ossi, li quali è cento tanto 12 s’el no mento li diti
cun li grandi bastoni, le spalle e li galoni, plu nigri de carboni, de li sancti sermoni.
VERSIONE IN ITALIANO attuale
Mai non fu visto, proprio mai, in nessun tempo, luogo o altra cosa tanto puzzolente, che a mille miglia e più di distanza si sentono il tanfo e il fetore, che da dentro quel pozzo (infernale) escono. In gran numero laggiù ci sono bisce, ramarri, rospi e serpenti, vipere e basilischi e draghi che mordono; acuti più che rasoi tagliano le (loro) unghie e i denti, e tutto il tempo mangiano e sono sempre affamati. Lì ci sono i demoni con i grandi bastoni, che a loro spezzano le ossa, le spalle e i femori, i quali sono cento (volte) tanto più neri dei carboni, se non mentono i detti delle sante scritture.
La metrica Quartine di alessandrini (doppi settenari) monorimi; la rima può essere sostituita da una semplice assonanza. 1 unca: mai (dal lat. unquam).
2 Asai g’è là… è famolenti: nella voragine infernale si raccolgono spaventosi rettili di ogni sorta, alcuni reali, altri tratti dalle figure favolose dei bestiari, come i grandi draghi e il basilisco, un serpente caratterizzato, se-
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condo la leggenda, da uno sguardo capace di uccidere.
Tant à orribel volto k’el n’ave plu plaser esro scovai de spine 16 enanço k’encontrarne
quella crudel compagna, per valle e per montagna da Roma enfin en Spagna un sol en la campagna3.
Ked i çeta tutore, fora per mei’ la boca la testa igi à cornua 20 et urla como luvi
la sera e la doman, crudel fogo çamban, e pelose le man, e baia como can.
Ma poi ke l’omo è lì en un’aqua lo meto ke un dì ge par un anno, 24 enanço k’eli el meta
e igi l’à en soa cura, k’è de sì gran fredura segundo la scriptura, en logo de calura.
E quand ell’ è al caldo, tanto ge pare ’l dur, dond el non è mai livro 28 de planto e de grameça
al fredo el voravo esro, fer, forto et agresto, per nexun tempo adeso ede gran pena apresso.
Staganto en quel tormento, çoè Balçabù, ke lo meto a rostir, 32 en un gran spe’ de fer
sovra ge ven un cogo, de li peçor del logo, com’un bel porco, al fogo, per farlo tosto cosro.
Quella crudele compagnia ha un volto tanto orribile che si ha più piacere (a) essere colpiti, per valli e per montagne, con fasci di spine da Roma fino alla Spagna, piuttosto che incontrarne uno solo nella campagna. Ché essi, e la sera e la mattina, ininterrottamente, attraverso la bocca, gettano crudele fuoco diabolico, la testa hanno cornuta e pelose le mani, e urlano come lupi, e abbaiano come cani. Ma poiché l’uomo è lì ed essi l’hanno in loro cura, lo mettono in un’acqua talmente gelida che un giorno a loro pare un anno, secondo la scrittura, finché essi li mettono in un luogo di gran calura. E quando essi sono al caldo, essi vorrebbero essere al freddo, tanto a loro pare duro, feroce, forte e aspro (il calore), dove lui (il peccatore) non è mai libero, per nessun tempo ormai, da pianto e da tristezza e insieme da gran pena. Stando in quel tormento, gli viene addosso un cuoco, cioè Belzebù, dei peggiori del luogo, che lo mette ad arrostire, come un bel porco, al fuoco, su un grande spiedo di ferro, per farlo rosolare subito.
3 Tant’à orribel… en la campagna: l’immagine iperbolica sottolinea l’orrore suscitato dalla vista spaventosa dei diavoli.
La produzione didattico-edificante 2 185
4 E po’ prendo... divin: la miscela infernale è costituita principalmente da ingredienti velenosi, misti ad acqua e vino; l’autore osserva con ironia che è tanto buona e raffinata che Dio dovrebbe preservarne ogni cristiano.
E po’ prendo aqua e sal e fel e fort aseo e sì ne faso un solso 36 ca ognunca cristïan
e caluçen e vin e tosego e venin ke tant e bon e fin sì ’n guardo el Re divin4.
A lo re de l’inferno et el lo guarda dentro «E’ no ge ne daria 40 ké la carno è crua
per gran don lo trameto, e molto cria al messo: – ço diso – un figo seco, e ’l sango è bel e fresco.
Mo tornagel endreo e dige a quel fel cogo e k’el lo debia metro 44 entro quel fogo ch’ardo
vïaçament e tosto, k’el no me par ben coto, col cavo en çó stravolto sempromai çorno e noito.
E stretament ancor k’el no me’l mando plui, né no sia negligento 48 k’el sì è ben degno
dige da la mia parto mo sempro lì lo lasso, né pegro en questo fato, d’aver quel mal et altro».
E poi prende acqua e sale e fuliggine e vino e fiele e forte aceto e tossico e veleno, e così ne fa una salsa che è tanto buona e fine che il Re divino ne preservi ogni cristiano. Al re dell’inferno come grande dono lo manda ed egli lo guarda dentro e molto grida al messo (che lo ha portato): «Io non gliene darei (in cambio) – così dice – un fico secco, perché la carne è cruda e il sangue è bello fresco. Adesso riportaglielo indietro in fretta e subito, e di’ a quel cuoco incapace che non mi pare ben cotto, e che egli lo dovrebbe mettere col capo in giù, volto dall’alto in basso, dentro a quel fuoco che arde continuamente giorno e notte. E in modo perentorio digli ancora da parte mia che non me lo mandi più, ma sempre lì lo lasci, né sia negligente o pigro (in questo fatto), che il dannato è ben degno di subire quel male e altro».
Analisi del testo La raffigurazione dei demoni e delle pene infernali La rappresentazione del mondo infernale è ingenua e tutta fondata su impressioni sensoriali, che conferiscono al testo una concretezza quasi realistica. La prima percezione sensoriale è olfattiva e caratterizzata dall’iperbole: la puzza è tale che si avverte a distanza di mille miglia. L’impressione visiva della figura dei diavoli risulta altrettanto terrificante e viene anch’essa sottolineata da un’iperbole: piuttosto che vedere uno dei demoni si preferirebbe correre da Roma alla Spagna sotto i colpi di fasci spinosi. Viene poi evocata un’altra dimensione sensoriale, quella tattile: l’acqua ghiacciata si alterna alla crudeltà del fuoco «fer, forto et agresto». C’è anche la dimensione gustativa, nella descrizione dell’orrida miscela infernale utilizzata dai demoni per cucinare il dannato come un «bel porco».
Lo scopo della narrazione L’insistito riferimento alle impressioni sensoriali è da collegare con l’intento predicatorio dell’autore, che mira all’efficacia didattica della sua opera: suscitando raccapriccio e spavento per le pene infernali, essa si propone di distogliere i fedeli dal peccato. Il carattere popolare del testo è evidenziato dalla presenza di elementi comici e farseschi, fra i quali spicca la scena del dannato cucinato da Belzebù e respinto dal re dell’inferno perché non abbastanza cotto.
186 Duecento e Trecento 2 La letteratura religiosa nell'età comunale
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi in max 20 righe il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. Qual è lo scopo dell’autore?
PER APPROFONDIRE
Interpretare
SCRITTURA 3. Indica gli aspetti del mondo infernale che potevano apparire più terrificanti per l’ascoltatore o il lettore del poemetto di Giacomino da Verona e che perciò potevano risultare più persuasivi, dato l’intento didattico ed edificante del testo.
La figurazione del diavolo nella cultura medievale Alle radici della demonologia cristiano-medievale In tutte le manifestazioni della cultura medievale sono presenti il senso del peccato e la paura del diavolo (dal lat. diabolus, “calunniatore”), designato con vari nomi, come Satana, Belzebù, Lucifero. Nella concezione cristiano-medievale del diavolo confluirono elementi folclorici provenienti dal paganesimo (ad es. l’assimilazione tra il diavolo e il dio Pan) e dalle religioni dei celti, germani e slavi; ma i fondamentali cardini teologici della demonologia si devono a papa Gregorio Magno nel VI secolo: Lucifero, il maggiore fra gli angeli, a causa del suo orgoglio e della sua sfida a Dio, fu scaraventato nel profondo degli abissi, dove diventa il Principe dei demoni. Sotto le spoglie del serpente tentatore, spinge Adamo ed Eva a sfidare i limiti loro imposti da Dio e la sua opera seduttiva e malefica continua poi nei secoli, facendo leva sulla tendenza al peccato insita in ogni uomo. Di questa concezione di Satana come costante presenza, minacciosa e insieme tentatrice per ogni essere che viene al mondo, è improntato il rito stesso del battesimo, in cui sopravvivono tracce di una sorta di esorcismo nei confronti di Satana.
L’iconografia del diavolo Prima del VI secolo non esiste ancora nessuna raffigurazione pittorica o d’altro genere del diavolo (la prima sua comparsa è in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, verso il 520), ma dall’XI secolo le rappresentazioni del Maligno si diffondono e diventano comuni. Nel tempo il diavolo tende ad assumere aspetti sempre più bestiali. Se figurato in animale è un drago o un serpente, talora con volto umano. Anche quando il diavolo e i demoni suoi ministri hanno tratti umani, c’è sempre nel loro aspetto qualcosa di mostruoso e ripugnante, che li assimila agli animali: piedi caprini, coda, pelo, orecchie allungate, addirittura le corna o le ali di pipistrello, attributi fisici che sottolineano l’abiezione, la mancanza di armonia e bellezza e che contrappongono vistosamente il diavolo alle creature angeliche. A partire dall’XI-XII secolo alla figura del diavolo e dei demoni, assistenti del Maligno, sono associati spesso il nero (colore delle tenebre infernali) e il rosso (del sangue e delle fiamme). Infine il diavolo è quasi sempre nudo, perché legato all’oscenità e alla lussuria, come è ovvio in una cultura come quella medievale che demonizzava la sessualità. La più celebre raffigurazione del diavolo si trova nella prima cantica della Commedia. Con potente fantasia visionaria Dante immagina Satana conficcato al centro della Terra dopo la caduta dal cielo: è un mostro enorme, con ali di pipistrello, tre teste, coperto di pelo, immobile, immortalato nel gesto perenne di azzannare i traditori per eccellenza, Bruto, Cassio, Giuda. Gli “emissari di Satana” Sono coloro che sostengono tra gli uomini l’opera del Maligno, come le streghe o persino, in un’ottica evidentemente distorta, anche gli appartenenti ad altre fedi religiose: nella cultura medievale vennero “demonizzati”, considerati adepti di Satana anche ebrei e musulmani. Si diffuse anche l’idea che singoli esseri viventi potessero contrarre un patto con il diavolo. Si tratta di una leggenda trasmessa attraverso le prediche verso il XIII secolo, che ebbe grande diffusione in Europa (si pensi al mito di Faust) e che produsse funeste conseguenze, sostenendo la persecuzione agli eretici e in seguito la caccia alle streghe. Saggio di riferimento: B. Russell, Il diavolo nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1987.
Lucifero nel ghiaccio del Cocito (If XXXIV) dal Codex Altonensis della Commedia (metà secolo XIV).
La produzione didattico-edificante 2 187
Duecento e Trecento La letteratura religiosa nell’età comunale
Sintesi con audiolettura
1 Il dissenso nei confronti della mondanizzazione della Chiesa
Una letteratura critica verso la Chiesa La predominanza nel Medioevo di una concezione del mondo ispirata ai valori cristiani è diretta conseguenza del ruolo centrale esercitato per secoli dalla Chiesa nella società e nella cultura. Ma già a cavallo dei secoli XI e XII sorgono nella cristianità (italiana, in particolare) movimenti spontanei (detti pauperistici) che cercano di riproporre i valori evangelici e l’ideale della povertà, a fronte di un potere ecclesiastico verticistico e gerarchico ritenuto sempre più lontano da tali ideali originari. Il potere ecclesiastico reagisce contro ogni forma di dissenso alla parola ufficiale: promuove sanguinose crociate contro i movimenti ereticali veri e propri (in particolare verso quello dei càtari) e guarda con sospetto, spesso accomunandoli agli eretici, anche persone e gruppi che promuovono semplicemente un ritorno alla purezza del Vangelo. In questo contesto nasce il movimento francescano che scaturisce dalla vicenda di Francesco d’Assisi e che riesce a essere ufficialmente riconosciuto e approvato dalla Chiesa come ordine mendicante (insieme ai domenicani, fondati da Domenico di Guzmán). Dopo la morte di Francesco il dissenso non si placa e viene veicolato anche da una produzione letteraria che nel XIII secolo ha esponenti rilevanti in Jacopone da Todi e nello stesso Dante Alighieri.
188 Duecento e Trecento La letteratura religiosa nell'età comunale
Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi Figure di spicco dell’area del dissenso e al contempo principali rappresentanti della poesia religiosa medievale sono Francesco d’Assisi (1181-1226) e, in seguito, Jacopone da Todi (1236?-1306?). Mentre Francesco rimane però fino alla morte rispettoso dell’autorità del papa, che approva ufficialmente nel 1223 l’ordine mendicante francescano da lui fondato, Jacopone, strenuo oppositore del papa Bonifacio VIII, subisce la scomunica e il carcere. In entrambi si manifesta una visione mistica del rapporto con Dio, che si contrappone nettamente al filone razionalistico del pensiero medievale (rappresentato soprattutto da san Tommaso d’Aquino) e che trova in Bonaventura da Bagnoregio, francescano e biografo ufficiale di Francesco, il maggiore rappresentante a livello filosofico. Alla ricerca razionale il misticismo contrappone, come strumento per raggiungere Dio, la fede e una scelta di vita ascetica. Una scelta già testimoniata pienamente dalla vita controcorrente e dalla predicazione di Francesco, figura presto leggendaria per la comunità cristiana. Francesco è autore del celeberrimo Cantico di frate Sole, considerato il testo che inaugura la letteratura italiana: una preghiera in volgare umbro illustre che celebra la bellezza del creato e l’unità mistica di tutte le creature in Dio. Alla letizia di Francesco si contrappone la cupa visione presente nelle laude di Jacopone, rappresentante della corrente francescana degli spirituali, che interpreta in modo rigoristico il messaggio di Francesco. Nelle sue laude esalta in modo ossessivo la vita ascetica, che contrappone all’attrazione per i beni mondani e alla cultura delle università. Un altro filone delle sue laude celebra l’estasi mistica e l’amore esaltante per Dio. Tipica di Jacopone è la scelta di uno stile espressionistico che ricorre spesso a un ardito plurilinguismo.
2 La produzione didattico-edificante
Generi letterari per la conversione del peccatore Nella letteratura medievale alcuni generi sono espressamente concepiti per la diffusione efficace del messaggio cristiano e l’edificazione dei fedeli: ricordiamo le Vite dei santi, narrazioni scritte costellate di miracoli, visioni, episodi palesemente inverosimili, ma a cui nel Medioevo si prestava fede assoluta; a esse i predicatori attingevano ampiamente inserendo nelle loro omelie esempi (exempla) utili al convincimento morale dei fedeli. Altrettanto importanti sono gli specula, cioè i trattati per l’educazione morale dei fedeli, tra cui emerge lo Specchio della vera penitenza di Jacopo Passavanti, improntato a una “pedagogia del terrore” per cui il fedele è messo di fronte alle tremende ed eterne conseguenze dello stato di peccato.
Sintesi
Duecento e Trecento 189
La rappresentazione dell’aldilà Nel Medioevo hanno grande fortuna testi incentrati sui viaggi nell’aldilà già presenti nelle letterature classiche (Odissea, Eneide). Il resoconto di questi viaggi e le raffigurazioni “realistiche” dell’aldilà hanno una precisa finalità didattica: indurre il lettore a un comportamento morale, raffigurando le delizie del paradiso e le orribili pene che lo attendono nell’inferno. È il caso dei poemetti, stesi nella seconda metà del XIII secolo, di Bonvesin de la Riva (Libro delle tre scritture) e di Giacomino da Verona (De Babilonia civitate infernali e De Jerusalem celesti). Anche la Commedia di Dante si iscrive in questa tipologia, ma con risultati artistici del tutto incomparabili.
Zona Competenze Scrittura
1. Il misticismo è una caratteristica comune a tutta la religiosità medievale che però si esprime e si manifesta in forme e atteggiamenti diversi. Dopo aver fatto le opportune ricerche scrivi una relazione di massimo 30 righe.
Competenza 2. Dopo aver letto l’approfondimento OL Immagini dell’aldilà nel mondo antico scrivi un digitale resoconto sulle visioni dell’oltremondo a partire dall’Odissea e sul significato che esse assumono in rapporto al variare del contesto culturale e sociale. Realizza poi il tuo lavoro sotto forma di presentazione multimediale, corredata da immagini e didascalie.
190 Duecento e Trecento La letteratura religiosa nell'età comunale
Duecento e trecento CAPITOLO
3 Forme del narrare nella società comunale
Nel corso del Duecento, in relazione al nascere di una nuova realtà comunale, si assiste all’affermazione della prosa in volgare e all’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico. Tre sono i generi in cui si manifesta questo piacere di narrare: la letteratura di viaggio, la novella e le cronache cittadine. Nel primo spicca Il Milione, il celebre libro di Marco Polo; nel genere della novella emergerà in particolar modo il Decameron di Boccaccio e nelle cronache i cittadini ritroveranno il ritratto delle città comunali.
il viaggio 1 raccontare nel Medioevo per il gusto 2 narrare di narrare: la novella cronache 3 Lecittadine 191
1
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 L’affermazione della prosa in volgare
L’accoglienza del pellegrino, che impugna il bordone (part. della vetrata del rosone, duomo di Friburgo, Svizzera 1250 ca.).
I volgarizzamenti Nel corso del Duecento, in rapporto alle esigenze della vivace realtà comunale, conosce un forte incremento l’uso della prosa in volgare (o meglio nei vari volgari): molti testi sono in realtà traduzioni, adattamenti e riscritture di opere soprattutto latine, ma anche francesi. Per questa ricca produzione si parla di volgarizzamenti per precisare che non si tratta, appunto, di opere originali, anche se svolsero un ruolo indubbiamente importante nella formazione culturale dei ceti dirigenti nei comuni italiani. Si tratta di opere di diverso argomento e tipologia testuale, come ad esempio i trattati di retorica: il fiorentino Brunetto Latini, uno dei più importanti intellettuali del tempo, traduce nella sua Rettorica il De inventione di Cicerone (oltre a varie orazioni del grande scrittore latino). L’affermazione del ceto borghese-mercantile e le esigenze di un pubblico inserito nelle multiformi attività dei comuni alimenta però anche una produzione in prosa originale, finalizzata soprattutto alla divulgazione secondo l’ottica enciclopedica propria del tempo, come la Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo, o alla trasmissione di norme di comportamento morale secondo un’ottica laica, come il Libro de’ Vizi e delle Virtudi di Bono Giamboni.
2 L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico I tre generi della narrazione Più significative e interessanti per noi oggi sono le forme della prosa originate dal gusto del narrare, che incontra particolarmente il favore del nuovo pubblico cittadino. Tre sono principalmente i generi in cui si manifesta il gusto del narrare, con diverse modalità e funzioni: la letteratura di viaggio, la novella e le cronache cittadine. Nel primo filone spicca un libro celebre, già al tempo un vero bestseller, Il Milione del mercante veneziano Marco Polo. Nel genere della novella, particolarmente gradito ai lettori appartenenti al mondo mercantile, si iscriverà uno dei capolavori assoluti della letteratura italiana, il Decameron di Giovanni Boccaccio, che è appunto una raccolta di cento novelle. Nelle cronache cittadine infine i lettori del tempo potevano ritrovare il ritratto della società comunale, con particolare riferimento alle passioni politiche che ne caratterizzarono la vita.
192 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
3 I racconti di viaggio Un mondo in cammino Nel Medioevo l’esperienza del viaggiare era tutt’altro che rara (basti pensare ai clerici vagantes ➜ SCENARI, PAG. 64), nonostante le grandi difficoltà che comportava: si viaggiava in tempi lunghi, su strade dissestate, usando carretti e muli e non pochi erano i pericoli e le incognite, anche per la scarsità di conoscenze geografiche. Ancora più rischiosi, anche se più rapidi, erano i viaggi per mare, a causa delle tempeste e dei continui attacchi dei pirati (come dimostra la celebre novella di Landolfo Rufolo nel Decameron di Boccaccio ➜ C8 T9a ). Pellegrini e missionari Ma chi viaggiava? Innanzitutto i pellegrini. Fin dai primi secoli del Medioevo iniziano i pellegrinaggi verso le mete religiose più importanti della cristianità, concepiti dalla religiosità medievale come occasioni penitenziali e devozionali, veri e propri itinerari salvifici. Col tempo, emersero fra tutte tre mete di pellegrinaggio: Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela. Roma è il centro della cristianità, sede del martirio di Pietro e Paolo; Gerusalemme, la terra dove visse e morì Cristo, nei testi sacri è anche simbolo del paradiso (la Gerusalemme celeste); Compostela, secondo una pia tradizione, accoglie il corpo di san Giacomo. Uno degli itinerari più frequentati dalla massa di pellegrini è la via Francigena che dalla Francia, dalle regioni del bacino renano e dalle isole britanniche portava a Roma attraversando buona parte dell’Italia settentrionale e centrale. I due oggetti che accompagnavano il pellegrino (e che ne permettevano l’immediato riconoscimento) erano la bisaccia (una piccola borsa di pelle sempre aperta, con allusione ai princìpi di carità e povertà) e il bordone (un alto bastone dalla punta metallica che simboleggiava la difesa dal male e dalle tentazioni del viaggio). Dalla metà del XIII secolo iniziano anche i viaggi di alcune figure della Chiesa, in particolare appartenenti all’ordine francescano, verso l’Estremo Oriente, con l’obiettivo, già proprio di Francesco d’Assisi, di convertire al cristianesimo i popoli di quelle zone. I missionari lasciarono ampia testimonianza dei loro viaggi in relazioni dettagliate riguardanti anche le abitudini e le credenze dei popoli che avevano incontrato.
Pellegrini in viaggio (miniatura, secolo XII).
Intellettuali in viaggio La nascita delle università, prestigiose istituzioni che, nel corso del XII secolo, diventarono il centro dell’insegnamento superiore e dell’elaborazione del sapere, determinò una notevole mobilità degli intellettuali. Le università erano aperte a studenti di qualsiasi provenienza, che si spostavano nelle varie sedi (non per nulla erano comunemente chiamati clerici vagantes) per seguire i docenti più famosi, a loro volta in movimento, perché chiamati a insegnare da questa o quella sede. Nel corso del XIV secolo gli intellettuali iniziano a viaggiare anche in rapporto alle esigenze della nascente società signorile: i signori, sia laici sia ecclesiastici, cercano di aggregare alla loro corte gli intellettuali più noti. Oltre a muoversi tra le diverse corti, gli intellettuali svolgevano attività di mediazione fra diversi potentati e quindi compivano missioni e ambascerie diplomatiche. Esemplare in questo senso la vita di Francesco Petrarca (1304-1374), dominata dall’esperienza costante del viaggio, come ci testimoniano molte sue lettere. Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 193
I mercanti, viaggiatori per eccellenza Ma sono soprattutto i mercanti a viaggiare: il loro errare in aree geografiche lontane e spesso ignote è motivato da un interesse prevalentemente economico ed è espressione dell’intraprendenza propria del ceto borghese nella civiltà urbana del Basso Medioevo. Oltre a mete quali l’Europa settentrionale intorno al mar Baltico, le isole dell’Atlantico e l’Africa settentrionale, sicuramente la zona più attraente per i mercanti, anche per i rilevanti interessi economici coinvolti, è costituita dall’Estremo Oriente, soprattutto verso la metà del Duecento, quando vi si costituì il grande impero mongolo, che non si mostrava del tutto chiuso all’incontro con il mondo occidentale. Numerosi mercanti, come il veneziano Marco Polo, si avviarono verso quelle terre circondate da un’atmosfera di mistero, nelle quali si favoleggiava di immense ricchezze di personaggi spesso immaginari, come il prete Gianni (➜ SCENARI, D4 OL). Le relazioni di viaggio dei mercanti I mercanti erano consapevoli dell’utilità di divulgare la conoscenza di nuovi orizzonti geografici, nuovi costumi, lingue, religioni e nuove concezioni del mondo: da qui la preoccupazione di lasciare memoria scritta dei viaggi compiuti. È giunta fino a noi una grande quantità di documenti, di varia natura: dai portolani, guide per individuare porti, approdi, punti favorevoli delle coste, ai cataloghi di luoghi importanti per lo scambio commerciale, ai tariffari con indicazioni di costi e pratiche di mercatura, agli zibaldoni, diari di bordo utilizzati abitualmente dai membri delle corporazioni mercantili per le loro annotazioni di viaggio.
Viaggiatori nel Medioevo CHI VIAGGIA E PERCHÉ
Pellegrini
per penitenza o devozione verso Roma, Gerusalemme o Santiago de Compostela
Studenti
per seguire le lezioni di docenti famosi
Mercanti
per espandere i propri commerci
Pellegrini romei (cioè diretti a Roma) in un altorilievo della cattedrale di Fidenza (1180 ca.).
194 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
Rodolfo il Glabro
La vicenda di un pellegrino a Gerusalemme
D1
Cronache dell’anno mille Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille, a c. di G. Cavallo e G. Orlandi, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1989
1 Autun: cittadina della Borgogna, regione del centro della Francia. 2 vanagloria: vano orgoglio di chi, per il gusto di essere lodato dagli altri, si vanta di qualità e meriti inesistenti. 3 Bèze: abbazia benedettina francese, non lontana da Digione.
Il cronista medievale Rodolfo il Glabro descrive le folle di pellegrini di ogni ceto sociale che dopo il Mille si mossero verso Gerusalemme.
Nello stesso periodo da tutto il mondo cominciò a dirigersi verso il Sepolcro del Salvatore, a Gerusalemme, una folla immensa come mai nessuno prima d’allora aveva osato sperare. Vi andarono rappresentanti della bassa plebe, poi delle classi medie, in seguito tutti i grandi, re conti marchesi vescovi, e infine, come non era mai accaduto, 5 molte donne della nobiltà insieme con altre più povere. In molti di quei cuori v’era la speranza di morire prima di far ritorno in patria. Ecco la storia di un certo Letbaldo, d’origine borgognona, proveniente dalla zona di Autun1, che viaggiando con gli altri giunse a destinazione. Al cospetto di quei luoghi santissimi, arrivato che fu al punto del monte Oliveto dal quale il Salvatore, davanti a tanti autorevoli testimoni, 10 era asceso al cielo – e di là, secondo la promessa, verrà a giudicare i vivi e i morti –, quell’uomo, gettandosi disteso a terra con tutto il corpo nella posizione di chi è in croce e piangendo per la gioia inesprimibile del suo cuore, esultava nel Signore. Più volte, rialzatosi, con le mani aperte tese al cielo cercava con tutte le sue forze di librarsi verso l’alto, rivelando l’aspirazione della propria mente con parole simili 15 a queste: «Signore Gesù, che ti sei degnato di scendere in terra dal trono della tua maestà per salvare il genere umano, e che da questo luogo, che ora osservo coi miei occhi, rivestito di carne sei tornato al cielo da cui eri venuto, supplico la tua bontà onnipotente di far sì che, se la mia anima deve quest’anno separarsi dal corpo, io non mi allontani di qui, e il trapasso avvenga in vista del luogo della tua ascensione. 20 Come ti ho seguito col corpo fino a giungere in questo luogo, così penso che la mia anima, seguendoti, stia per entrare sana e salva nella gioia del paradiso». Dopo questa preghiera rientrò con i compagni al suo alloggio. Era già l’ora di desinare; mentre gli altri sedevano a tavola, egli se ne andò lieto in volto verso il letto, come se, preso da grave spossatezza, volesse riposare un poco; e subito si addormentò. Che cosa 25 vedesse nel sonno non si sa; ma d’un tratto mentre dormiva esclamò: «Gloria a te, Dio! gloria a te, Dio!». Udendolo, i compagni lo invitarono ad alzarsi e a venire a mangiare. Egli rifiutò, e girandosi sull’altro fianco disse di non sentirsi tanto bene. Restò sdraiato fino a sera, quando, chiamati a sé i compagni di pellegrinaggio, chiese e ottenne il viatico vivificante dell’eucarestia; e dopo averli dolcemente salutati, spi30 rò. Un uomo come lui, certamente libero dalla vanagloria2 che induce tanta gente a questo viaggio con l’unico fine di farsi belli come pellegrini a Gerusalemme, invocò il Padre con fede in nome del Signore Gesù e ottenne ciò che desiderava. Al loro ritorno i compagni ci riferirono, nel monastero di Bèze3 dove allora stavamo, i fatti come li abbiamo raccontati.
Concetti chiave Il pellegrinaggio come purificazione Dall’anno Mille, visto come momento di rinascita spirituale, inizia un’ondata di pellegrinaggi. Rodolfo il Glabro ritrae le folle in cammino verso il Santo Sepolcro di Gerusalemme con un entusiasmo anticipatore delle crociate e narra un episodio leggendario che rivela il significato di questi viaggi.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 195
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Chi sono coloro che si dirigono in pellegrinaggio verso il Santo Sepolcro? 2. Qual era la speranza dei pellegrini? ANALISI 3. Che cosa vuol dire la frase «Come non era mai accaduto, molte donne della nobiltà insieme con altre più povere»? 4. L’episodio di un certo Letbaldo può esser definito leggendario. Per quale motivo?
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Interpretare
SCRITTURA 5. In tempi recenti ha ripreso grande vigore il costume del pellegrinaggio (ad esempio proprio a Santiago di Compostela): come spieghi questo fenomeno? (max 20 righe)
Franco Cardini Il significato del termine pellegrino F. Cardini, Gerusalemme d’oro, di rame, di luce. Pellegrini, crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV secolo, Il Saggiatore, Milano 1991
Partendo dal significato del termine “pellegrino”, lo storico medievista Franco Cardini ci fornisce un’importante chiave di lettura del fenomeno dei pellegrinaggi medievali verso la Terra Santa.
A ben intendere il fenomeno cristiano del pellegrinaggio, è necessario anzitutto riflettere sull’avventura semantica della parola peregrinus. Essa, in origine, non ha niente che rinvii all’idea di un viaggio dal quale si torna, ma significa bensì “straniero”, “estraneo”. È peregrinus pertanto ogni cristiano, in quanto straniero su questa terra; in essa, il fedele del Cristo è d’altro canto peregrinus in quanto “esule”: cittadino dei cieli, confinato temporaneamente in questa valle di lacrime dove è costretto a scontare i peccati suoi e di tutto il genere umano, egli anela di continuo alla liberazione e al ritorno alla patria celeste. A Gerusalemme, nei primi secoli del cristianesimo, si giunge portati non solo dal desiderio di vedere i luoghi fisici della vita e della passione di Gesù Cristo; se è questo, la Città santa è anche il luogo della Fine dei Tempi, lo scenario del Giudizio. A Gerusalemme si viene per morire: e quindi per risorgere il più possibile prossimi al Cristo della Seconda Venuta. Il pellegrinaggio equivale al senso più definitivo e profondo della metànoia1, della conversio: una volta giunto in Gerusalemme il pellegrino è come morto al mondo, e tutto quello che gli resta da attendere è la fine e quindi la resurrezione. 1 metànoia: nella teologia cristiana, è il pentimento profondo che implica la rinuncia al peccato e il rivolgersi a Dio.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
1. Quale significato attribuisce al termine peregrinus lo storico Franco Cardini?
Produzione
3. Prova a formulare, con parole tue, la tesi sostenuta da Cardini (max 20 righe).
2. Perché il pellegrinaggio, secondo Cardini, corrisponde alla conversio?
196 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
4 Marco Polo e Il Milione
Lessico bestseller Il termine è moderno e indica un’opera, spesso un libro, ma non esclusivamente, che ha una vendita e dunque una diffusione particolarmente ampia.
La vita avventurosa di Marco Polo, emblema del viaggiatore Il veneziano Marco Polo (1254-1324), figlio e nipote di mercanti viaggiatori, accompagnò il padre Niccolò e lo zio Matteo nel loro secondo viaggio verso l’Estremo Oriente, rimanendovi per ben venticinque anni. Dopo un avventuroso viaggio attraverso l’Armenia, l’altipiano dell’Iran, il deserto del Gobi, i Polo giunsero a Cumbao (oggi Pechino), ben accolti alla corte di Qubilai, Gran Khan di tutti i Tartari. Il giovane Marco si guadagnò la stima del Gran Khan, che gli assegnò importanti incarichi politici e diplomatici (a ciò non fu estraneo il fatto che i tre veneziani conoscessero discretamente le lingue tartara, cinese e persiana). In qualità di governatore, Marco poté visitare la Cina meridionale, la Cocincina e forse l’India inferiore. Il ritorno in patria nel 1295 segnò un cambiamento radicale nella sua vita: preso prigioniero dai genovesi durante un conflitto tra le due repubbliche di Venezia e Genova, trascorse quattro anni in carcere prima di essere liberato e tornare alla mercatura, in forma però, pare, sedentaria. Nella sua prigionia il mercante si trovò ad avere come compagno di cella Rustichello da Pisa, autore in particolare del Meliadus, poema cavalleresco di un’ormai trita materia arturiana, non privo all’epoca di una certa fama. A Rustichello Marco Polo dettò le memorie dei suoi straordinari viaggi: ne nacque Il Milione, un vero e proprio bestseller . Il Milione: un doppio narratore Il Milione nasce così dalla felice cooperazione di due attitudini diverse: il racconto orale di Marco, basato essenzialmente sulla memoria, e la scrittura di Rustichello, che dovette fissare e dar veste letteraria a quei ricordi, divenendone corresponsabile. Tuttavia quest’ultimo definisce con chiarezza la propria posizione di narratore di “secondo livello”, poiché parla di Marco Polo in terza persona, raccontandone la figura, la biografia e le avventure senza mai uscire dall’ombra di un puro servizio di “trascrittore” delle sue memorie. La struttura e i contenuti Il libro si compone di due parti di diversa estensione. Nella prima, assai breve, definita dall’autore prologue (prologo), si narra in maniera concisa il succedersi delle vicende vere e proprie dei Polo, dal primo viaggio di Niccolò e Matteo al secondo, cui partecipò anche Marco, fino al loro rientro a Venezia dopo un soggiorno di diciassette anni in Cina. La seconda, considerata dall’autore stesso il libro vero e proprio, è un “trattato” etno-geografico composto sul modello delle sezioni tematicamente analoghe delle “pratiche della mercatura”. Seguendo l’itinerario compiuto da Marco, la trattazione è organizzata per località: di ogni zona viene descritto con abbondanza di particolari il paesaggio, il clima, la vegetazione, la fauna, i minerali ecc. senza escludere le strutture architettoniche delle varie città.
Struttura narrativa de Il Milione Rustichello scrive narratore di 1° grado ciò che Marco ha visto e udito narratore di 2° grado da testimoni degni di fede narratore di 3° grado
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 197
Delle diverse popolazioni incontrate personalmente o di cui ha avuto informazioni Marco Polo illustra le abitudini di vita, le attività economiche e commerciali, la moneta impiegata. Non mancano narrazioni mitologiche, aneddoti di tradizioni locali e simili. L’intento e la prospettiva della narrazione La narrazione de Il Milione è dominata da un intento eminentemente informativo e formativo (non a caso l’autore utilizza spesso la funzione conativa del linguaggio: “sappiate che”, e forme simili). L’interesse di Marco Polo nel comunicare la sua straordinaria esperienza non è però meramente commerciale e utilitaristico (offrire ai mercanti informazioni utili a sviluppare commerci futuri), ma essenzialmente cultural-antropologico. Lo testimonia il fatto che le informazioni relative a merci, prezzi, prodotti e materie prime sono sporadiche e la loro presenza nel testo è decisamente meno significativa delle osservazioni dedicate alla natura, agli animali e soprattutto agli aspetti antropologici (usi, costumi, leggende, credenze religiose diverse), che Marco Polo osserva con animo curioso e disponibile nei confronti dell’“altro”. Anche se talvolta Marco Polo indulge ancora a credenze medievali, che accettano l’esistenza del mostruoso e del fantastico, comincia a emergere ne Il Milione un’ottica critica e razionale, rivolta al nuovo, tipica della società mercantile.
Marco Polo salpa da Venezia in una miniatura dell’inizio del XV secolo (da un codice della Bodleian Library di Oxford).
Il titolo, la lingua e la trasmissione del testo L’opera diventò presto famosa col titolo di Il Milione, derivato presumibilmente dal soprannome che i Polo avevano ereditato da un loro antenato, Emilio o Emilione. Il titolo originale è ignoto; nel manoscritto più accreditato che ci ha trasmesso il testo compare il titolo Divisament du monde (“Descrizione del mondo”), che potrebbe essere quello del libro (o comunque vicino a esso) perché ne rispecchia la natura di trattato geografico-etnografico. Il Milione fu scritto in lingua d’oïl, la prestigiosa lingua romanza di cui si serviva abitualmente Rustichello; il manoscritto originale andò però perduto, mentre restano i volgarizzamenti, il più antico dei quali risale a prima del 1309. Il gran numero di volgarizzamenti, soprattutto in toscano, testimonia l’immediata e vasta fortuna dell’opera, che andava incontro alle attese e al gusto di un pubblico borghese e urbano, a vario titolo coinvolto nel mondo della mercatura.
Il Milione Racconto orale di Marco Polo
Scritto in lingua d’oïl da Rustichello da Pisa
198 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
Prima parte: resoconto di viaggio
Seconda parte: trattato etnogeografico
Marco Polo
EDUCAZIONE CIVICA
Il pubblico e il metodo della narrazione
T1
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3 LEGGERE LE EMOZIONI
Il Milione, Prologo
#PROGETTOPARITÀ
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Il Prologo, conciso ma fornito dei dati essenziali per comprendere le caratteristiche e le finalità dell’opera, si rivolge ai potenziali lettori. Viene sottolineata la novità dell’opera ed enunciato il metodo della narrazione.
M. Polo, Il Milione, a cura di Ruggero M. Ruggieri, Olschki, Firenze 1986
Signori imperadori, re e duci1 e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni2 delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia3, di Persia e di Tarteria4, d’India e di molte altre provincie. E questo vi conterà5 il libro 5 ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide. Ma ancora v’ha6 di quelle cose le quali elli7 non vide, ma udille da persone degne di fede, e però8 le cose vedute dirà di veduta e l’altre per udita9, acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna. Ma io voglio che voi sappiate che poi che Iddio fece Adamo nosto primo padre 10 insino al dì d’oggi10, né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno uomo di niuna generazione non vide né cercò tante maravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo: però disse infra sé medesimo che troppo sarebbe grande male s’egli non mettesse in iscritto tutte le maraviglie ch’egli ha vedute, perché chi non le sa l’appari11 per12 questo libro. 15 E sí vi dico ched egli dimorò in que’ paesi bene trentasei anni13, lo quale poi, stando nella prigione di Genova, fece mettere in iscritto tutte queste cose a messere Rustico da Pisa, lo quale era preso14 in quelle medesime carcere ne gli anni di Cristo 1298. 1 duci: comandanti. 2 generazioni: razze. 3 d’Erminia: Armenia. 4 Tarteria: Mongolia. 5 conterà: racconterà. 6 v’ha: ci sono.
7 elli: egli. 8 e però: perciò. 9 di veduta… per udita: per averle viste…
11 l’appari: le apprenda. 12 per: attraverso. 13 trentasei anni: errore del copista per
per averle udite.
“ventisei”.
10 poi che… d’oggi: dalla creazione fino
14 preso: imprigionato.
ad oggi.
Analisi del testo Un pubblico variegato Nel Prologo si nota innanzitutto la volontà di rivolgersi a un vasto pubblico, di lettori nobili e di «tutte le altre genti» che abbiano la stessa caratteristica di Marco Polo, ossia la curiosità di conoscere le «diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo». Il Milione non è dunque soltanto la relazione di un mercante per altri mercanti, ma il racconto di un viaggiatore che vuole comunicare la sua straordinaria esperienza a un pubblico variegato, composto di borghesi, nobili, e persino imperatori e re: affermazione non azzardata perché il primo “pubblico” di Marco Polo era stato lo stesso Gran Khan, che preferiva inviare in missione Marco Polo nei luoghi più lontani perché sapeva riferire cose molto più interessanti dei comuni ambasciatori.
Le circostanze della composizione e le indicazioni sul metodo Il narratore, Rustichello da Pisa, informa il lettore sulle qualità di Marco Polo «savio e nobile cittadino», per avvalorare indirettamente l’attendibilità del suo racconto. Indica poi le circostanze della composizione del libro, scritto in prigione, dove Marco e Rustichello si trovavano, dopo essere stati catturati in una guerra contro i genovesi. È poi presente una precisa indicazione di metodo: il libro racconterà «ordinatamente» le notizie sui paesi e sulle genti
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 199
dell’Estremo Oriente così come Marco le vide. La voce narrante del Prologo, in sostanza quella di Rustichello, sottolinea che quanto viene raccontato è frutto dell’esperienza diretta di Marco Polo; vi saranno anche cose che egli non vide di persona, «ma udì raccontare da persone degne di fede» e di questa differente modalità di acquisizione dei dati si darà chiara notizia, per amore di verità storica: «e però le cose vedute dirà di veduta e l’altre per udita, acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna». Significativa è l’espressione “nostro” attribuita al libro: con l’aggettivo Rustichello sottolinea la narrazione “a due mani” che presiede alla stesura de Il Milione.
La maraviglia e la diversità Nel Prologo emerge chiaramente la consapevolezza dell’eccezionalità dell’esperienza vissuta da Marco Polo, che ha potuto vedere cose straordinarie: lo testimonia la frequenza del lessema della maraviglia, riferito a luoghi, animali, persone incontrate («grandissime maraviglie», «tante maravigliose cose del mondo», «tutte le maraviglie ch’egli à vedute», rr. 3, 12, 14). Il termine maraviglia potrebbe però trarre in inganno: nel Medioevo il meraviglioso era in genere incredibile e fantastico, per lo più del tutto inverosimile. Per questa ragione veniva spesso associato ai luoghi ignoti dell’Oriente, dove si immaginava vivesse ogni sorta di esseri mostruosi e prodigiosi. Nulla di tutto questo ne Il Milione, in cui si afferma il nuovo orizzonte mentale dei mercanti: le cose descritte possono essere straordinarie, mai però inventate. Per la prima volta Marco Polo, testimone oculare, nel suo viaggio va alla ricerca della “verità”: «acciò che ’l nostro libro sia veritieri e sanza niuna menzogna». “Meraviglioso” per Marco Polo non è l’esotico e lo stravagante, ma ciò che colpisce la sua sempre vigile attenzione: luoghi, monumenti, fenomeni naturali, ma anche dati economici. Ne è un esempio un passo de Il Milione in cui, con la precisione caratteristica del mercante, Marco Polo riferisce il profitto ricavato dal sale nella contrada di Quisai: «il sale di questa contrada rende l’anno al Grande Kane 80 tomain d’oro: ciascuno tomain è 80.000 saggi d’oro, che monta per tutto 6400 di saggi d’oro – e ciascuno saggio d’oro vale piúe d’un fiorino d’oro –, e questo è maravigliosa cosa».
Un uomo moderno La maraviglia si associa ne Il Milione alla scoperta della diversità. Se la cultura medievale tende a prestar fede a tutto ciò che ha valore simbolico ed è confermato dalle auctoritates, Marco Polo è già un uomo moderno: non solo vuole verificare ogni cosa di persona, con notevole spirito critico, ma, come un viaggiatore di oggi, lo interessa ciò che è “diverso”, particolare, nuovo, peculiare di un’altra regione del mondo e di un’altra cultura e perciò degno di essere osservato e ricordato. Marco Polo indaga e investiga i costumi altrui con incredibile disponibilità conoscitiva: non giudica, non disprezza.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Rintraccia nel testo del Prologo il narratore, il destinatario, il contenuto del libro, lo scopo e il metodo della narrazione utilizzato. Poi sintetizza le informazioni raccolte in un testo espositivo di almeno 15 righe. COMPRENSIONE 2. Per quali aspetti il libro di Marco Polo si differenzia dai precedenti racconti di viaggio? ANALISI 3. Lo scrupolo di verità che anima tutta l’opera è riconoscibile anche nelle informazioni che il Prologo fornisce circa l’autore e le circostanze della composizione dell’opera. Rintracciale nel testo.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 4. A quale valore si riferisce la parola chiave diversità del testo originale di Marco Polo? (max 5 righe) 5. A Marco Polo, come viaggiatore, interessa ciò che è “diverso”, particolare, nuovo, peculiare di un’altra regione del mondo e di un’altra cultura e perciò degno di essere osservato e ricordato. C’è ancora la diversità nel mondo omologato e nell’industria del viaggio organizzato? La diversità ti fa paura, ti inquieta oppure ti attrae?
200 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Costituzione
competenza 3
6. La disponibilità a conoscere chi è diverso da noi non porta necessariamente con sé la rinuncia alla propria identità; al contrario il contatto con la diversità può arricchirci, può farci riflettere, apre la nostra mente e ci fa comprendere che esistono varie sfaccettature della realtà in cui viviamo. Ti sembra che nella società in cui vivi ci sia il rispetto delle diversità, l’apertura al confronto, la rivalutazione delle proprie convinzioni oppure ti sembra di vivere a contatto con chi ha paura del diverso, con chi non è disponibile a conoscere diversi usi o costumi nella convinzione che il proprio modo di vivere sia giusto? ScrItturA e cIneMA 7. Fai una ricerca su film che trattano il tema del viaggio, i più noti e quelli meno conosciuti, quelli che raccontano esplorazioni, imprese e storie di vita. Scegli quello che più ti attrae, guarda il film e scrivi una recensione in non più di 20 righe.
Marco Polo
t2
I favolosi unicorni di Sumatra Il Milione, 147
M. Polo, Il Milione, a cura di Ruggero M. Ruggieri, Olschki, Firenze 1986
Il passo costituisce un esempio delle descrizioni de Il Milione: condotte con ordine, concise e ricche di dati derivanti dall’osservazione diretta.
Quando l’uomo si parte dell’isola di Petam [...]trova l’isola di Iava la minore1: ma ella non è sì piccola ch’ella non giri duemilia miglia. E di questa isola vi conterò tutto il vero. Sappiate che in su questa isola hae otto re coronati, e sono tutti idoli, e ciascuno di questi reami ha lingua per sé. Qui ha grande ab2 3 5 bondanza di tesoro e di tutte care ispezierie. Or vi conterò la maniera di tutti questi reami, di ciascuno per sé. E dirovvi una cosa che parrà maraviglia ad ogni uomo: che questa isola è tanto verso mezzodì4, che la tramontana5 non si vede né poco né assai. Or torneremo alla maniera degli uomeni, e dirovvi de’ reame di Ferbet. Sappiate, 10 perché i mercatanti saracini usano in questo reame con lor navi6, e’ hanno convertita questa gente alla legge di Malcometto; e questi sono soli quelli della città. Quegli delle montagne sono come bestie, ch’egli mangiano carne d’uomo e d’ogni altra bestia e buona e rea7. Egli adorano molte cose8, ché la prima cosa ch’egliono veggiono la mattina sì la adorano. 15 Ora v’ho contato di Ferbet: ora vi conterò de’ reame di Basma. Lo reame di Basma, ch’è all’uscita di Ferbet è reame per sé, e loro linguaggio propio; e non hanno niuna legge se no come bestie. Egliono si richiamano per lo Gran Cane9, ma no gli fanno niuno trebuto, perché sono sìe alla lunga che la gente del Gran Cane non vi potrebbe andare10; ma alcuna volta lo presentono11 d’alcuna cara
1. Iava la minore: Sumatra, chiamata da-
6. usano… navi: frequentano questo rea-
gli Arabi “piccola Iava” o “Iava la minore”. 2. abbondanza di tesoro: le risorse del sottosuolo. 3. la maniera: le caratteristiche. 4. mezzodì: a sud. 5. la tramontana: è la stella polare che indica il Nord. Marco Polo vuole dire che Sumatra per la sua posizione non può mai vedere la stella polare.
me con le loro navi. 7. rea: cattiva. 8. Egli adorano molte cose: sono politeisti. 9. si richiamano… Gran Cane: si dichiarano sudditi del Gran Khan. Il titolo significa “gran signore” e identifica per antonomasia Kublai, signore dei Mongoli dal 1260 al 1294.
10. perché… non vi potrebbe andare: sono così distanti che gli emissari del Gran Khan non vi potrebbero andare. 11. presentono: gli fanno dono.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 201
cosa. Egli hanno leonfanti12 assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti13. E sono di pelo di bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno male co quel corno, ma co la lingua, ché l’hanno ispinosa tutta quanta di spine molte grandi. Lo capo hanno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso la terra; 25 ed istà molto volentieri tra li buoi14: ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere alla pulcella15, ma è il contradio16. Egli hanno iscimmie assai e di diverse fatte; egli hanno falconi neri buoni da uccellare. [...] Or lasciamo questo reame, ché non ci ha altro da ricordare; e dirovvi dell’altro c’ha 30 nome Samarca. 20
12. leonfanti: elefanti. 13. non sono… leonfanti: non sono per
nulla più piccoli degli elefanti. 14. tra li buoi: con i buoi.
15. alla pulcella: dalla fanciulla. 16. contradio: contrario.
Analisi del testo Uno sguardo da “testimone oculare” Il passo dedicato all’isola di Sumatra è esemplare per cogliere in tutta la sua portata il mutamento di prospettiva culturale rappresentato dall’esperienza di Marco Polo. Prima di tutto, il viaggiatore veneziano sa che cosa osservare: il suo sguardo, per nulla condizionato dal simbolismo medievale, è quello di un mercante, e insieme di un antropologo e di un naturalista. Nuovo e moderno è poi l’atteggiamento razionale e critico, da “testimone oculare”, con cui Marco Polo confronta la propria “enciclopedia mentale” con i dati offerti dalla realtà. Oltre ai luoghi, agli aspetti politici, economici e alle abitudini di vita degli abitanti, Polo si sofferma, come in questo passo, sulla descrizione degli elementi naturali, dei minerali, delle piante e degli animali. L’osservazione di questi ultimi, per un uomo medievale che si è formato sui bestiari e sulle fantasiose enciclopedie del tempo, riserva alcune sorprese. Un caso esemplare è quello degli unicorni: colpisce qui l’atteggiamento razionale e critico con cui Marco Polo mette a confronto i dati osservati con la tradizione medievale, di cui mostra gli errori e le ingenuità.
Il caso esemplare dell’unicorno Bestiari ed enciclopedie medievali concordavano nella rappresentazione di un animale di pura fantasia: bianco, aggraziato e simile a un capretto, con un corno solo, che si lasciava amabilmente catturare da una fanciulla vergine. A Sumatra Marco Polo credette di avere finalmente avvistato il favoloso e rarissimo animale, che nessuno aveva ancora mai visto, ma che delusione! Era una bestia laida e sgraziata, con un corno, ma con il pelo tutto nero e sporco (si trattava infatti di un rinoceronte). Tra le righe, il viaggiatore veneziano suggerisce di non avvicinare nessuna vergine a quel bestione grosso e feroce: «non è vero, come si dice in Occidente, che si lasci catturare da una fanciulla vergine, ma è il contrario». Marco Polo descrive dunque la realtà attraverso la sua cultura (nella quale esistevano gli unicorni), ma anche pronto a smentire ciò che non regge alla prova dei fatti. Tale atteggiamento mentale lo porta a sfatare diverse leggende medievali (ad esempio, in un altro passo osserva che la salamandra non vive nel fuoco come raccontavano i bestiari). Di contro, in Oriente, terra leggendaria di mostri e di prodigi, il suo occhio vigile di mercante sa scorgere cose di cui non si sospettava neppure l’esistenza, come il carbon fossile e il petrolio, che l’Occidente imparerà a conoscere e sfruttare soltanto secoli dopo.
Lo stile L’apertura mentale del viaggiatore e mercante veneziano si riflette anche nello stile comunicativo dialogico: si rivolge continuamente al lettore per rassicurarlo che non racconterà nulla di inventato, ma soltanto cose vere, seppure talvolta apparentemente inverosimili («vi conterò tutto ’l vero», «diròvi una cosa che parrà meraviglia a ogn’uomo», «non è, come si dice di qua»).
202 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il testo (non più di 10 righe), privilegiando la descrizione oggettiva del racconto di Marco Polo. ANALISI 2. Spiega quale atteggiamento assume l’autore nei confronti dei dati osservati. Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo (max 10 righe). LESSICO 3. Rintraccia nel testo le espressioni che indicano l’apertura mentale del viaggiatore e mercante veneziano.
Interpretare
SCRITTURA 4. Nel Medioevo il viaggiatore non conosceva i limiti del suo viaggiare, poteva soltanto immaginarli; il viaggio, qualsiasi viaggio, era pervaso da un’aura di avventura e di magia che spesso prevaleva sullo stesso intento del viaggio. Descrivi come tali aspetti si riflettano nei testi antologizzati.
online
Interpretazioni critiche Umberto Eco Un “inviato speciale” deluso dagli unicorni
online T3 Marco Polo La pericolosa setta dei fumatori di hashish Il Milione, 35
VERSO IL NOVECENTO
Kublai Khan offre il suo sigillo d’oro a Marco Polo e al padre Niccolò (miniatura da un manoscritto francese del XV secolo).
Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili Nel 1960, appena conclusa la Trilogia degli antenati (Il barone rampante, Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato), Italo Calvino (1923-1985) scrive un testo su Marco Polo come base per un film. Il film non fu mai realizzato e lo scritto di Calvino rimase allora inedito, ed è ora pubblicato in un volume dei Meridiani Mondadori dedicato alle opere dello scrittore. Calvino dedica particolare attenzione alla costruzione del personaggio di Marco Polo: lo presenta come un giovane curioso, a volte ancora ingenuo, ma accorto e desideroso di sapere cosa c’è dietro alle cose, e lo immagina mentre osserva l’Oriente «a occhi sgranati», col naso all’insù, pronto a immergersi nella realtà con tutti i sensi. («Nei banchi delle spezie, ci ficca il naso dentro»; a Baghdad lo prende il desiderio di «toccar tutto, assaggiare tutto»). All’imperatore Kublai Khan il Marco Polo immaginato da Calvino per il film si sarebbe presentato così: «Sono figlio di mercanti, nipote di mercanti; la mia vocazione quale volete che sia? Mercante anch’io. O meglio, cercatore: quello che mi piacerebbe di più è andare per i paesi, le terre sconosciute, e vedere tutte le qualità di cose che ci sono, bestie, pietre, merci, e rendermi conto di come sono fatte». Dieci anni dopo, nel 1970, Calvino inizia a elaborare il progetto delle Città invisibili: all’interno di una cornice, costituita dal dialogo, denso di riflessioni antropologiche e filosofiche tra Marco Polo e Kublai Khan, sono descritte 55 città che Marco ha visitato, come ambasciatore e consigliere del potente signore.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 203
VERSO IL NOVECENTO
Lo stesso Calvino per la sua opera parla espressamente di un “rifacimento” de Il Milione, di cui è evidente la suggestione; ma le città descritte dall’autore moderno sono immaginarie, proiezioni di temi conoscitivi e filosofici cari all’autore.
Italo Calvino Le città invisibili Rispetto al progetto cinematografico di dieci anni prima, nelle Città invisibili il personaggio di Marco Polo rivela un fondo di malinconia e di nostalgia: il suo pensiero torna continuamente a Venezia e, in uno dei dialoghi della cornice, Marco spiega che in fondo lui parla sempre di Venezia, perché quando descrive ogni città la confronta con quella che per lui è la città, Venezia, il luogo dove è nato. Ciò significa che ogni viaggio, attraverso il confronto con un mondo altro, è alla fine una messa a fuoco della propria identità.
VI. Dopo il tramonto, sulle terrazze della reggia, Marco Polo esponeva al sovrano le risultanze delle sue ambascerie. D’abitudine il Gran Kan terminava le sue sere assaporando a occhi socchiusi questi racconti finché il suo primo sbadiglio non dava il segnale al corteo dei paggi 5 d’accendere le fiaccole per guidare il sovrano al Padiglione dell’Augusto Sonno. Ma stavolta Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città, – insisteva. – [...] Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero 10 di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: – Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. – Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo. – Venezia, – disse il Kan. 15 Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi? L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. – Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. 20 – Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. – Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. L’acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell’antica reggia dei 25 Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano. – Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, – disse Polo. – Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta a poco a poco.
Testo di riferimento: B. Falcetto, Le cose e le ombre. “Marco Polo”: Calvino scrittore per il cinema, in La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su Le città invisibili di Italo Calvino, a c. di M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto, Mondadori, Milano 2002. La citazione è da I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
204 Duecento e Trecento 3 Forme del narrare nella società comunale
PER APPROFONDIRE
La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Terzani, Pessoa e Laura Imai Messina Il tema del viaggio è così connaturato all’esistenza umana che, in fondo, ogni libro parla di viaggi, effettivi o metaforici, mentali o reali. Come osserva Bruce Chatwin in Le vie dei canti «Ci sono critici francesi pronti ad acclamare in Proust, l’eremita della stanza foderata di sughero, il più grande viaggiatore della letteratura». Molti libri, tuttavia, sono rivolti in modo più specifico a comunicare esperienze ed emozioni di viaggi compiuti realmente. Un genere novecentesco di letteratura di viaggio è quello della narrazione (e del film) on the road, inaugurato dal famoso romanzo di Jack Kerouac Sulla strada (1957), in cui del viaggio interessa soprattutto la dimensione trasgressiva, il rifiuto di integrarsi in alienanti meccanismi sociali alla ricerca di una forse impossibile libertà. Ma vi è anche una letteratura di viaggio in cui, come ne Il Milione, l’attenzione è posta soprattutto su mondi diversi e lontani, e su ciò che di essi il viaggiatore ha visto, udito, compreso. In questo genere di letteratura l’autore, attraverso le proprie emozioni e riflessioni, apre lo sguardo del lettore su un “mondo altro”, rendendolo partecipe delle proprie esperienze. Così, analogamente a quanto Marco Polo sottolinea nel prologo a Il Milione, chi non ha potuto scoprire le straordinarie cose che ci sono sulla terra, può almeno apprezzarle per mezzo del racconto di altri viaggiatori. Il più famoso autore di tale genere di libri di viaggi è oggi probabilmente Bruce Chatwin (1940-1989), divenuto un vero e proprio mito e quasi il simbolo del viaggiatore per la sua vita breve e irrequieta, i suoi molteplici interessi (esperto d’arte e di architettura, archeologo, giornalista, viaggiatore, scrittore), il suo modo di viaggiare (con zaino in spalla, penna e quaderni Moleskine per annotare impressioni di viaggio, riflessioni, citazioni di libri, aneddoti), il rifiuto di ogni sistemazione stabile, l’irrequietezza. «Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?», scrive, ed è famoso il racconto di quando, vista una carta della Patagonia disegnata da un’anziana architetto, le confessa il suo desiderio di andarci. La vecchia signora lo incoraggia a realizzare il suo desiderio e Chatwin parte immediatamente, senza neppure il tempo di dare le dimissioni al giornale per cui lavorava, che avverte con un telegramma: «Sono andato in Patagonia». Ne nascerà uno dei suoi libri più famosi, In Patagonia (1982). Tra i libri di viaggio più significativi scritti da Chatwin sono Le vie dei canti (1988), sulla misteriosa cultura degli aborigeni australiani e la loro idea del sacro, e Anatomia dell’irrequietezza (1996, postumo), in cui l’autore inglese espone le sue idee sul nomadismo, spiegando perché secondo lui gli uomini sono fatti per viaggiare. Come Il Milione è stato l’archetipo della letteratura di viaggio e ha insegnato un nuovo modo di guardare il mondo, così, sulle orme di Chatwin, molti hanno esplorato i luoghi da lui amati, alla periferia della civiltà: in tal senso si può citare come esempio Patagonia Express (1999) dello scrittore cileno Luis Sepúlveda.
Un altro genere di letteratura di viaggio che ha grande sviluppo nel Novecento, ma il cui archetipo si può ancora una volta ricondurre a Marco Polo, è il reportage giornalistico: anche Marco Polo era stato incaricato da Kublai Khan di raccontare ciò che aveva visto negli sterminati territori dell’impero. Oggi, purtroppo, la letteratura di questo genere è per lo più letteratura di guerra; tra i libri italiani più interessanti del genere reportage sono quelli di Tiziano Terzani (19382004), giornalista che nella sua carriera ha sempre cercato di trovarsi nei “luoghi caldi” del pianeta, e che, con il suo stile chiaro e incisivo, ha testimoniato la guerra del Vietnam, i genocidi in Cambogia, il crollo del regime sovietico, la drammatica realtà dell’Afghanistan. Tra i suoi libri, In Asia (1998) ripercorre le vicende della storia asiatica e analizza le molteplici realtà di quel continente, dall’India, al Giappone, alla Cina, al Vietnam, unendo il reportage all’autobiografia; per le realtà descritte è interessante anche Lettere contro la guerra (2002), che mostra l’evoluzione di Terzani, nell’ultimo periodo della sua vita, da giornalista di guerra a giornalista contro la guerra, e presenta un’interessante testimonianza sulla realtà afghana e, più in generale, sul mondo dopo l’11 settembre. Un genere di letteratura di viaggio originale è rappresentato dai libri di Claudio Magris (nato nel 1939), dedicati in particolare alla Mitteleuropa, in cui al racconto di viaggio e alle descrizioni dei luoghi, dei popoli e delle persone, si intrecciano riflessioni sulla letteratura, la cultura, gli eventi, i personaggi che in quei luoghi hanno vissuto, alla ricerca delle più profonde radici storiche e culturali di ciò che si è visto durante il viaggio: ne è un esempio Danubio (1990), in cui il corso del fiume, dalle sorgenti al Mar Nero, simboleggia il cammino della storia e della cultura mitteleuropea. Dello stesso Claudio Magris è il libro L’infinito viaggiare (2006), in cui alle riflessioni sul viaggio si accompagnano brevi racconti sui tanti incontri dell’autore con libri, luoghi e persone. Grazie alla casa editrice Einaudi, nel 2016 viene pubblicato un testo, una piccola guida, Lisbona Quello che il turista deve vedere, scritta da Fernando Pessoa in inglese nel 1925, molto utile ancora oggi e arricchita da un’appendice Lisbona oggi, con suggerimenti utili anche al visitatore degli anni Duemila. All’interno del testo il lettore può percorrere con Pessoa le vie di Lisbona dal Bairro Alto all’Alfama, dal castello de Sâo Jorge al monastero dos Jerónimos, scoprendo le bellezze della città. Un grande scrittore portoghese guida quindi il lettore alla scoperta di una straordinaria capitale europea, dando modo di vedere monumenti, palazzi, piazze con gli occhi di chi è nato in quella città. Nel 2020 per Einaudi esce Tokyo tutto l’anno della scrittrice Laura Imai Messina. In questo libro l’autrice definisce Tokyo, una città «in uno stato di infanzia perenne», una delle grandi metropoli globali, ricchissima di storie, tradizioni e segni, una città dove usanze secolari convivono con gli appassionati di manga e videogame. Tokyo viene descritta come una città in cui i ritmi frenetici della vita odierna si alternano con quelli ritmati delle festività. Si tratta di un viaggio sentimentale all’interno di una grande metropoli.
Raccontare il viaggio nel Medioevo 1 205
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da B. Chatwin, Questo nomade nomade mondo in Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, Milano 1996
Diversivo. Distrazione. Fantasia. Cambiamento di moda, di cibo, amore e paesaggio. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. L’uomo che se ne sta quieto in una stanza chiusa rischia di impazzire, di essere tormentato da allucinazioni e introspezione. 5 Neurologi americani hanno fatto l’encefalografia a non pochi viaggiatori. È risultato che cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso dell’anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce a un senso di benessere, di iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgu10 sto di sé e reazioni violente. Nessuna meraviglia, dunque, se una generazione protetta dal freddo grazie al riscaldamento centrale e dal caldo grazie all’aria condizionata, trasportata su veicoli asettici da un’identica casa o albergo a un altro, sente il bisogno di viaggi mentali o fisici, di pillole stimolanti o sedative, o dei viaggi catartici del sesso, della musica e della danza. Passiamo troppo 15 tempo in stanze chiuse. Io preferisco lo scetticismo cosmopolita di Montaigne1. Per lui il viaggio era «un utile esercizio; la mente è stimolata di continuo dall’osservazione di cose nuove e sconosciute... Nessuna proposizione mi stupisce, nessuna credenza mi offende, per quanto contraria alle mie... I selvaggi che arrostiscono e mangiano 20 i corpi dei loro morti mi scandalizzano meno di coloro che perseguitano i vivi». L’abitudine, egli dice, e la fissità degli atteggiamenti mentali ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose. L’uomo è naturalmente curioso. «Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini» dice Ibn Battuta2, l’infaticabile girovago arabo che andò da Tangeri alla Cina e ritorno per il gusto di 25 viaggiare. Ma il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma. [...] I bambini hanno bisogno di sentieri da esplorare, di orientarsi sulla terra in cui vivono, come un navigatore si orienta in base a noti punti di riferimento. Se scaviamo nelle memorie dell’infanzia, ricordiamo dapprima i sentieri, poi cose e persone – sentieri nel giardino, la strada per la scuola, la strada intorno a 30 casa, corridoi attraverso le felci o l’erba alta. Rintracciare i sentieri degli animali era il primo e principale elemento nell’educazione dell’uomo primitivo. [...] I giochi agonistici sono anch’essi pellegrinaggi. In sanscrito una stessa parola designa il giocatore di scacchi e il pellegrino, «colui che raggiunge la sponda opposta». I calciatori non sanno di essere anch’essi dei pellegrini. La palla che 35 calciano simboleggia un uccello migratore. Tutte le nostre attività sono legate all’idea del viaggio. E a me piace pensare che il nostro cervello abbia un sistema informativo che ci dà ordini per il cammino, e che qui stia la molla della nostra irrequietezza. 1 Montaigne: Michel E. de Montaigne (1533-1592), scrittore moralista francese, autore di un Viaggio in Italia e soprattutto dei Saggi, un libro di colloqui interiori, in cui si rivela acuto e scettico indagatore dell’uomo.
2 Ibn Battuta: esploratore di origine berbera, visse nella prima metà del sec. XIV; è noto come il Marco Polo arabo.
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Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Come considera Chatwin il viaggio e perché? 2. Che cosa succede secondo Chatwin al corpo e al cervello senza il cambiamento? 3. Quali risultati hanno raggiunto alcuni neurologi americani? 4. Che cosa produce una vita ripetitiva? 5. Che cosa intende Chatwin con l’affermazione «identica casa o albergo»? 6. Dov’è, secondo Chatwin, la radice dell’irrequietezza umana?
Produzione
Chatwin fa affermazioni importanti sul viaggio: «Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo»; «Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono». Condividi le considerazioni di Chatwin sul viaggio contenute nel testo? Argomenta i tuoi giudizi con riferimenti alla tua esperienza e alle tue conoscenze e scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
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Narrare per il gusto di narrare: la novella 1 Un genere dalla vita secolare Un nuovo genere La novella è una narrazione in prosa, in genere breve, di contenuto vario, che si afferma in Italia tra la fine del Duecento e il Trecento, in rapporto con la dinamica vita dei comuni e le esigenze di un pubblico nuovo, interessato alla lettura di opere letterarie finalizzate non tanto all’edificazione morale-religiosa ma piuttosto all’evasione e al divertimento. Si tratta di un pubblico che cerca un testo facilmente fruibile, in cui rispecchiarsi. Il centro di produzione elettivo è la Toscana, dove verso la metà del Trecento sarà composto il capolavoro del genere e una delle opere più importanti della letteratura italiana, il Decameron di Giovanni Boccaccio. Il termine La parola novella ha un primo significato di “novità”: allude a una storia che vale la pena di raccontare perché insolita, capace di rivelare aspetti nuovi della realtà e dell’esperienza umana. Il testo narrativo breve è definito “novella” fino al Settecento, quando diventa prevalente la denominazione “racconto”. È però interessante ricordare che alcuni autori otto-novecenteschi come Verga, D’Annunzio, Pirandello preferirono ancora servirsi del termine tradizionale continuando a chiamare “novelle” i loro racconti. Un genere polimorfico e metamorfico La novella è il genere più mobile e polimorfico della letteratura. Sotto la denominazione di novella sono infatti comprese forme narrative molto varie, sia riguardo ai contenuti e ai temi, sia riguardo alle scelte del registro stilistico (comico, tragico, patetico), sia riguardo al fine, in quanto non si può certo dire, ad esempio, che le novelle di Verga o di Pirandello mantengano il fine di “piacevole intrattenimento” che caratterizza per lo più il genere narrativo breve nei primi secoli della sua lunga storia.
2 Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux La narrazione “esemplare” Le prime forme di narrazione breve che si incontrano nella cultura medievale, e che hanno influenzato la novella, subordinano in genere il racconto a un fine morale ed educativo, conferendogli carattere esemplare: negli exempla (“esempi”, in latino), spesso usati dai predicatori per convincere i fedeli, le vicende non sono realistiche, ma sono spesso inverosimili e si iscrivono in una dimensione spazio-temporale indeterminata; particolarmente importante diventa la conclusione in cui viene spiegato il valore emblematico del racconto; lo stile è semplice e facilmente comprensibile da tutti. Spunti didattici esistevano già nella novellistica indiana e orientale, che aveva elaborato un materiale narrativo molto ricco, poi trasmesso attraverso la mediazione araba anzitutto in Spagna e di qui in tutta Europa, grazie agli scambi tra le popolazioni di Oriente e Occidente, alle crociate e ai pellegrinaggi religiosi.
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Col tempo tali spunti vennero cristianizzati e, fondendosi con materiali narrativi di altra provenienza (leggende classiche, imprese cavalleresche del ciclo bretone ecc.), contribuirono a formare un vastissimo repertorio tematico che poi confluirà anche nella novella. Nel XIII secolo progressivamente il racconto va liberandosi della prevalente finalità moralistica: l’emergere della novella andrà di pari passo con la graduale affermazione della componente del “piacere” del narrare e con la consapevolezza che ci siano aspetti della realtà “nuovi”, che non possono essere inquadrati e spiegati ricorrendo ad astratti schemi morali. La permanenza nel tempo della narrazione esemplare Anche quando il racconto avrà assunto caratteri laici e prevalenti scopi di divertimento, l’“esempio” non scomparirà, proprio perché costituisce una forma di rappresentazione del mondo propria della mentalità medievale, come dimostra la stessa Divina Commedia. Gli episodi del capolavoro dantesco sono infatti ancora strutturati in forma “esemplare”: delle vicende narrate, delle biografie dei persoonline naggi chiamati alla ribalta del poema, Dante compie infatti T4 Jacopo Passavanti Le tentazioni di un asceta una selezione di dati strettamente funzionale al tema morale Specchio della vera penitenza, XVI che vuole illuminare attraverso di essi. I fabliaux e la tradizione del comico Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo nella Francia settentrionale si sviluppa un genere narrativo contrapposto agli exempla e che a sua volta ha inciso sulla storia del genere novellistico: alludiamo ai fabliaux, racconti in versi, in genere anonimi, piuttosto brevi e caratterizzati da un tono crudamente realistico, spesso apertamente osceno. Vi circolano motivi appartenenti al folklore, legati alla tradizione orale; e del resto, prima di venire scritti i fabliaux erano recitati nelle piazze dai giullari. Mentre gli exempla propongono insegnamenti morali-religiosi, i fabliaux valorizzano al contrario la fisicità, la sensualità; abbondano in questi testi i riferimenti al corporeo, alla sessualità: l’umanità rappresentata, deformata e soggetta al procedimento della parodia e del rovesciamento, risponde al modello carnevalesco del “mondo alla rovescia” (➜ C5). online Da questo repertorio la novella (anche quella di Boccaccio) T5 Anonimo attingerà a piene mani temi, personaggi e situazioni legati alla Il fabliaux del mugnaio e dei due studenti componente licenziosa e comica.
L’exemplum e la novella exemplum
novella
messaggio morale – religioso
piacevole intrattenimento
personaggi emblemi di vizi e di virtù
personaggi caratterizzati
eventi non verosimili
contenuti verosimili anche se immaginari
Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 209
3 Verso la definizione del genere: il Novellino La prima raccolta organica di racconti non solo italiana ma di tutta l’area romanza è nota con il titolo di Novellino ed è stata allestita a Firenze probabilmente nell’ultimo ventennio del XIII secolo da un autore rimasto sconosciuto. Il prologo: l’emergere dell’“autore” e di un nuovo pubblico Tutti i commentatori attribuiscono grande importanza al prologo del Novellino (➜ T6 ), perché segnala per la prima volta, nonostante l’opera sia anonima, la fisionomia di un autore, con una sua identità e sue proprie scelte (distinto dal semplice raccoglitore di testi); e al tempo stesso identifica un nuovo pubblico e, seppur ancora embrionalmente, una nuova forma di narrazione: la novella, appunto, tendenzialmente autonoma rispetto al fine esemplare-morale. Nel prologo l’autore si propone di fare «memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori». L’insistenza sul termine “bello” riveste particolare importanza: sembra infatti valorizzare la godibilità dei racconti, a prescindere dalla loro utilità didattico-morale. L’autore della raccolta assume inoltre espressamente un ruolo di mediatore tra i “nobili e gentili” del passato, e un nuovo pubblico («chi avrà cuore nobile e intelligenza sottile»). L’espressione citata identifica sul piano sociologico i ceti borghesimercantili, emergenti nella dinamica società comunale, che erano interessati, più che alle verità immutabili e trascendenti proposte dagli exempla, a quelle “novità” che appunto la novella desiderava narrare, e al contempo ambivano a far propri i raffinati modelli di comportamento e i valori della tramontante civiltà feudale. Il prologo del Novellino sembra perciò evocare come pubblico ideale proprio quell’“aristocrazia dell’intelligenza” a cui si indirizzava nel medesimo periodo anche la lirica stilnovista. La struttura Secondo alcuni interpreti, nella struttura organizzativa della materia si può forse individuare una progressione dall’exemplum morale alla novella: infatti, all’inizio del libro sono presenti soprattutto racconti che ricordano gli exempla, o che richiamano elevati ideali cortesi, mentre verso la fine i racconti sono più vicini alla dimensione della realtà quotidiana, e vi compaiono battute di spirito (anche oscene), scherzi, beffe, insomma quel “nuovo” da cui il nuovo pubblico era particolarmente attirato. Allo stesso modo, nella parte iniziale della raccolta, i personaggi appartengono soprattutto alle categorie sociali più elevate (re, cavalieri, nobili), mentre nella parte conclusiva sono esponenti della classe mercantile e popolare.
Scena di gioco fra giovani in un affresco della Stanza del Torneo di Castel Roncolo presso Bolzano (metà XIII secolo ca.).
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Il culto della parola Nel Novellino acquista un ruolo primario l’uso intelligente e divertente della parola (➜ T8a,b ). È significativo che la maggior parte dei racconti riguardi proprio motti, risposte argute e battute pronte, in accordo con l’importanza che andava assumendo nella società comunale l’“arte del dire”. La capacità di fare discorsi in pubblico, di stendere lettere diplomatiche, insomma, di saper parlare e scrivere con proprietà ed efficacia in rapporto a precisi fini e situazioni stava diventando una competenza sempre più necessaria alle classi dirigenti cittadine. Proprio in quegli stessi anni si collocava infatti il magistero di Brunetto Latini, il “maestro” di Dante in ambito retorico. Una tecnica narrativa minimalista Il Novellino incarna a livello estremo la brevità connaturale al genere novellistico: la raccolta infatti è per lo più costituita da raccontini molto stringati, fondati su intrecci assai semplici, quasi dei canovacci e spesso su una chiusa lapidaria. Lo stile, conciso, addirittura laconico, fa uso prevalentemente della paratassi e ricorre sovente all’asindeto. Una narrazione minimalista dunque, che rimanda indirettamente a situazioni comunicative legate all’oralità, quando gli spontanei commenti e gli interventi di chi ascoltava i racconti concorrevano a integrare liberamente i testi narrati. Il Novellino predilige la narrazione “breve” e valorizza in particolare la battuta pronta, icastica, pungente, che dimostra prontezza di spirito e intelligenza, preparando la strada al Decameron che dedicherà un’intera giornata, la VI, proprio ai motti arguti.
PER APPROFONDIRE
Il Novellino AUTORE
anonimo
EPOCA
fine Duecento
AREA
fiorentina
FONTI
classiche: exempla, fabliaux, romanzi cortesi
FINE
diletto
Il titolo Novellino Il titolo Novellino, usato per la prima volta nel 1525 in una lettera da Giovanni della Casa, autore del celebre Galateo, è entrato nell’uso, ma ben più rispondente alla natura e allo spirito della raccolta è il titolo presente nel codice più antico che ci ha trasmesso l’opera: Libro di novelle et di bel parlar gentile. Infatti pone in primo piano il termine “novella”, la componente fondamentale del “bello” e, attraverso il termine “libro”, suggerisce l’idea non di un aggregato casuale di testi, ma di un insieme a suo modo organico, pur nella grande varietà delle forme narrative presenti nella raccolta.
Il numero delle novelle e il loro ordinamento nella raccolta presentano numerose incertezze nella tradizione manoscritta: gli editori moderni ne riproducono cento, compreso l’importante prologo, distribuite secondo l’ordine della prima edizione a stampa cinquecentesca. Nell’opera confluiscono diverse tradizioni narrative (gli exempla, i fabliaux, i romanzi cavallereschi, le fonti classiche ecc.), filtrate dalla cultura letteraria dell’autore, che le rivisita, sceglie gli spunti, seleziona stralci narrativi indirizzandoli a nuove funzioni in rapporto a un nuovo pubblico.
Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 211
T6
Raccontare per un nuovo pubblico Novellino, Prologo
Prosa del Duecento, a c. di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
Il prologo del Novellino non è solo la necessaria premessa alla raccolta di racconti, ma costituisce una pagina di grande interesse sociologico. Dopo un doveroso omaggio alla tradizione religiosa, l’autore definisce infatti un nuovo pubblico e una nuova dimensione della scrittura: il piacere si contrappone alle finalità edificanti proprie della letteratura didattico-religiosa.
IL «NOVELLINO» QUESTO LIBRO TRATTA D’ALQUANTI FIORI DI PARLARE1, DI BELLE CORTESIE2 E DI BE’ RISPOSI3 E DI BELLE VALENTIE E DONI4, SECONDO CHE5 PER LO TEMPO PASSATO HANNO FATTI MOLTI VALENTI UOMINI Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente6 con noi, infra7 l’altre sue parole, ne disse che dell’abondanza del cuore parla la lingua8. Voi ch’avete i cuori gentili e nobili infra li altri9, acconciate10 le vostre menti e le vostre parole nel piacere11 di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore nostro che n’amò prima 12 5 che elli ne criasse , e prima che noi medesimi ce amassimo. E [se] in alcuna parte, non dispiacendo a lui, si può parlare, per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare, facciasi con più onestade e [con] più cortesia che fare si puote13. E acciò che14 li nobili e gentili sono nel parlare e ne l’opere quasi com’uno specchio appo i minori15, acciò che il loro parlare è più gradito, però ch’esce di più dilicato stormento16, facciamo 17 10 qui memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari18 e di belli amori, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti. E chi avrà cuore nobile e intelligenzia sottile sì l[i] potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi19, e argomentare e dire e raccontare in quelle parti dove avranno luogo20, a prode21 e a piacere di coloro che non sanno e disiderano di 22 15 sapere. E se i fiori che proporremo fossero misciati intra molte altre parole, non vi dispiaccia; ché ’l nero è ornamento dell’oro, e per un frutto nobile e dilicato piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino23. Non gravi a’ leggitori24: ché sono stati molti, che sono vivuti grande lunghezza di tempo, e in vita loro hanno appena tratto uno bel parlare, od alcuna cosa da mettere in conto fra i buoni25.
1 fiori di parlare: esempi scelti di detti. 2 belle cortesie: gesti, atti ispirati all’ideale della cortesia.
3 be’ risposi: argute risposte. 4 valentie e doni: atti di valore e generosità.
5 secondo che: come. 6 umanamente: come un uomo, durante la sua vita terrena. 7 infra: tra. 8 ne disse... la lingua: ci disse che le parole sono testimonianza di ciò che è contenuto nel cuore. 9 Voi ch’avete... li altri: con queste parole l’autore designa con chiarezza il pubblico a cui si rivolge. 10 acconciate: preparate, adattate. 11 nel piacere: secondo la volontà. 12 n’amò... criasse: ci amò prima ancora di crearci.
13 E [se]... si puote: e se in alcune circostanze, in alcuni ambiti, senza dispiacere a Dio, si può parlare per rallegrare il corpo, aiutarlo (sovenire: latinismo) e sostenerlo, lo si faccia con più decoro e cortesia che si può. 14 acciò che: dato che. 15 quasi... minori: quasi un modello presso chi è socialmente inferiore (minori). 16 il loro parlare... stormento: le loro parole escono da uno strumento più raffinato. 17 facciamo qui memoria: ricordiamo qui. 18 donari: atti di liberalità (secondo il codice cortese). 19 l[i] potrà... per innanzi: li potrà imitare nel futuro. 20 in quelle... luogo: in quelle circostanze e ambiti in cui sarà opportuno (fare riferimento a essi).
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21 a prode: a vantaggio (latinismo). 22 misciati: mescolati. 23 ché ’l nero... un giardino: attraverso un linguaggio metaforico l’autore intende dire che nella raccolta non ci saranno solo racconti elevati di argomento cortese, ma anche di altro tipo, più “basso” e di tono diverso. Ma questa varietà è positiva e farà apprezzare di più l’intera opera. 24 Non gravi a’ leggitori: non dispiaccia ai lettori. 25 ché sono stati... fra i buoni: perché vi sono state molte persone vissute molti anni e che in tutta la loro vita hanno appena saputo pronunciare una bella frase o hanno compiuto una sola azione degna di iscriverli nel numero delle persone di qualità.
Analisi del testo Una letteratura piacevole... La didascalia che presenta sinteticamente la raccolta è dominata dalla sottolineatura della bellezza («belle cortesie e di be’ risposi e di belle valentie») dei testi che saranno presentati e sembra ispirata a una nostalgica rievocazione di ideali cortesi inequivocabilmente appartenenti al passato. Il Prologo vero e proprio evidenzia la coesistenza di diversi modelli culturali e ideologici: si apre con un doveroso omaggio all’ottica religiosa e un richiamo obbligato al rispetto dei valori trascendenti; in questa dichiarazione di principio però si insinua significativamente un riferimento, seppur con cautela, al piacere che la narrazione può produrre («rallegrare il corpo»), come se l’autore volesse distinguere la raccolta che presenta dalla narrazione esemplare di ambito religioso che si rivolgeva unicamente all’edificazione dell’anima.
... per un pubblico nuovo Anche a livello sociologico il testo si presenta come emblema di una transizione di valori e di punti di vista: da un lato, l’autore sembra iscrivere la sua raccolta entro orizzonti legati alla nobiltà di sangue e ai valori cortesi di cui è considerata assoluta depositaria, dall’altro il pubblico a cui si rivolge non è nobile di schiatta ma di cuore ed è dotato di altezza intellettuale. Un criterio essenzialmente estetico ispira l’allestimento dell’opera: salvaguardare e trasmettere la bellezza e la cortesia, in modo che possano essere assimilate e imitate dalla nuova aristocrazia dell’intelligenza che emergeva nella società comunale, desiderosa di impadronirsi dei più elevati modelli culturali. È infine significativo il riferimento alle «molte altre parole» che nella raccolta andranno mescolate ai fiori, cioè ai racconti nobili e cortesi; una scelta di cui l’autore sente quasi di doversi giustificare presso i suoi lettori («non vi dispiaccia») e che potrebbe alludere, in modo ancora indistinto, alla varietà tematica (non esclusi riferimenti alla quotidianità) che contraddistinguerà il genere della novella nella sua storia. Una varietà che il Decameron esemplificherà in modo mirabile.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in max 10 righe il contenuto del testo. ANALISI 2. Chi sono i destinatari del Novellino? Sottolinea la risposta sul testo. 3. In quale punto del testo l’autore definisce l’obiettivo dell’opera? LESSICO 4. Nel testo, a cominciare dalla didascalia, ricorre il termine fiori. Spiega la specifica accezione del termine qui presente e ricerca sul vocabolario accezioni del termine che siano vicine all’uso che ne fa l’autore.
Interpretare
SCRITTURA 5. L’autore nel testo afferma che le parole sono testimonianza di ciò che è contenuto nel cuore. Secondo te è sempre così? Davvero le parole che pronunciamo sono espressione di quello che è riposto nel nostro cuore?
online T7 Anonimo Pronta risposta di un frate al Vescovo Aldobrandino Novellino, XXXIX
Affresco (part.) della sala baronale del Castello della Manta, presso Saluzzo, attribuito a un pittore noto come Maestro del Castello della Manta (XV secolo).
Narrare per il gusto di narrare: la novella 2 213
Testi in dialogo
T8a
ll culto della parola Il medico di Tolosa Novellino, XLIX
Prosa del Duecento, a c. di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
È considerata una delle novelle più indicative dello spirito del Novellino. Il protagonista è un medico “nobile” e “gentile”. Oltraggiato dal comportamento della giovane moglie, nipote dell’arcivescovo, e minacciato arrogantemente da questi, contrappone alla prepotenza del potente ecclesiastico la finezza della parola meditata e ironica.
XLIX QUI CONTA D’UNO MEDICO DI TOLOSA, COME TOLSE PER MOGLIE UNA NEPOTE DE L’ARCIVESCOVO DI TOLOSA.
La visita medica, da un manoscritto ebraico del XV secolo del Canone della medicina di Avicenna.
Uno medico di Tolosa tolse per moglie una gentile donna di Tolosa, nepote de l’arcivescovo. Menolla1. In due mesi fece una fanciulla2. Il medico non ne mostrò nullo cruccio3, anzi consolava la donna, e mostravale ragioni secondo fisica che ben poteva essere sua di ragione4. E con quelle parole e con belli sembianti5 fece sì 5 che la donna no la poté traviare6. Molto onoroe7 la donna nel parto. Dopo il parto sì le disse: – Madonna, io v’ho onorata quant’i’ ho potuto. Priegovi, per amore di me, che voi ritorniate omai a casa di vostro padre. E la vostra figliuola io terrò a grande onore. Tanto andaro le cose innanzi, che l’arcivescovo sentì che ’l medico avea dato 10 commiato a la nepote. Mandò per lui8. E acciò ch’era grande uomo, parlò sopra a lui molto grandi parole, mischiate con superbia e con minacce9. Quand’ebbe assai parlato, el medico rispuose e disse così: – Messere, io tolsi vostra nepote per moglie, credendomi della mia ricchezza potere fornire e pascere la mia famiglia10. E fu mia intenzione d’avere uno figliuolo l’anno, e non più. Onde11 la donna ha 15 cominciato a fare figliuoli in due mesi; per la qual cosa io non sono sì agiato, se ’l fatto dee così andare, ch’io li potesse notricare12, e voi, non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a povertade13. Perch’io vi chieggio mercede14 che voi la diate a un più ricco omo ch’io non sono [che possa notricare li suoi figlioli], sì che a voi non sia disinore. 1 Menolla: la condusse sposa (in casa sua). 2 In due mesi... fanciulla: dopo due mesi generò una bambina (che non poteva evidentemente essere frutto del matrimonio con il medico). 3 non ne mostrò nullo cruccio: non mostrò affatto di esserne turbato. 4 mostravale... di ragione: le mostrava i princìpi scientifici che consentivano che fosse sua figlia. 5 belli sembianti: modi gentili. 6 traviare: abortire. 7 onoroe: onorò. 8 Mandò per lui: lo mandò a chiamare.
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9 E acciò... minacce: e dato che era un uomo potente, gli si rivolse con parole arroganti e minacciose. 10 credendomi... la mia famiglia: credendo di poter mantenere con i miei beni la mia famiglia. 11 Onde: invece. 12 notricare: nutrire. 13 e voi... povertade: quanto a voi, non sarebbe onorevole che la vostra stirpe (la nipote e i figli nati da lei) si riducessero in povertà. 14 Perch’io... mercede: perciò vi chiedo il favore.
T8b
Una “metanovella”: elogio della brevità Novellino, LXXXIX
Prosa del Duecento, a c. di C. Segre e M. Marti, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
La maggior parte delle novelle del Novellino sono brevi ed evidentemente questa prerogativa è considerata un pregio da chi ha allestito la raccolta. Lo dimostra anche questa novelletta, fondata, come molto spesso si verifica nell’opera, su una battuta pronta e icastica. Il racconto si può considerare una dichiarazione di poetica.
LXXXIX QUI CONTA D’UN UOMO DI CORTE CHE COMINCIÒ UNA NOVELLA CHE NON VENIA MENO Brigata1 di cavalieri cenavano una sera in una gran casa2 fiorentina, e aveavi3 uno uomo di corte, il quale era grandissimo favellatore4. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venìa meno5. Uno donzello6 della casa che servia, e forse non era troppo satollo7, lo chiamò per nome, e disse: – Quelli che t’insegnò cotesta 5 novella, non la t’insegnò tutta. – Ed elli rispuose: – Perché no? – Ed elli rispuose: – Perché non t’insegnò la restata8. – Onde quelli si vergognò, e ristette9. 1 Brigata: un gruppo. 2 gran casa: casa di persone ragguardevoli.
3 avevi: vi si trovava. 4 favellatore: narratore di storie.
5 non venìa meno: non finiva mai. 6 donzello: garzone, servitore. 7 non era troppo satollo: aveva fame.
8 la restata: il modo di terminarla. 9 ristette: si fermò.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza la vicenda narrata in ➜ T8a in 10 righe. ANALISI 2. La vicenda narrata in ➜ T8a ha evidentemente un antefatto che mette in moto la storia. Quale? 3. Pur nella brevità della novella, la personalità del medico è ben delineata: tratteggiane un ritratto utilizzando tutte le possibili informazioni che ritrovi nel testo e individua l’atteggiamento dell’autore nei confronti del personaggio. LESSICO 4. Le nozze fra il medico e la ragazza sono rese sinteticamente dall’espressione Menolla (“la menò”). Fai una ricerca lessicale (su un vocabolario meglio se storico o in rete) e poi trascrivi le tue annotazioni sul verbo menare e sulle sue accezioni dal tempo del Novellino a oggi.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Quali caratteristiche del genere novellistico ritrovi in ➜ T8a (rileggi l’introduzione)? Quali tratti tipici del Novellino? SCRITTURA 6. La novelletta➜ T8b può avere un carattere metaletterario, quasi fosse un suggerimento su come si devono comporre delle novelle. Per quale ragione? Argomenta in un breve testo di 15 righe.
Franceschino Zavattari (e bottega), Banchetto delle nozze di Teodolinda (1444), dal ciclo Storie di Teodolinda, affresco, Cappella di Teodolinda, duomo di Monza.
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4 Una pietra miliare nella storia del genere “novella” Il modello perfetto di Boccaccio Quando pensiamo alla novella come a un genere con caratteristiche proprie che lo rendono riconoscibile è obbligatorio fare riferimento al modello consacrato da Boccaccio nel suo Decameron, una raccolta di cento novelle composta probabilmente tra il 1349 e il 1351: il capolavoro di Boccaccio occupa infatti una posizione di primo piano nella definizione del genere novellistico. Attingendo alla tradizione narrativa precedente e rielaborandola attraverso una raffinata coscienza letteraria e una profonda conoscenza del mondo, Boccaccio riuscì a creare un modello perfetto, a cui per secoli chi intendesse scrivere novelle non potrà non riferirsi. Con il Decameron di Boccaccio (➜ C8, PAG. 627) la novella raggiunge il più alto grado di elaborazione letteraria.
5 Dopo Boccaccio Trecentonovelle di Franco Sacchetti Nel corso del Trecento la novella consolida ulteriormente il suo successo, già avviato dalla grande fortuna del Decameron presso i ceti mercantili; successo che, pur con alterne vicende, legate al variare delle coordinate culturali e letterarie, durerà fino alla fine del Cinquecento. Dopo il Decameron, la novellistica tende in genere alla dipendenza anche a livello tematico dal modello illustre di Boccaccio, ma la visione del mondo risulta ben lontana dalla ricchezza culturale e ideologica del Decameron e testimonia piuttosto una dimensione angusta e municipale. Lo scrittore di novelle più significativo, capace di un vivace realismo rappresentativo, è il fiorentino Franco Sacchetti (1330 circa-1400) mercante-scrittore e uomo politico, autore del Trecentonovelle, una raccolta novellistica composta verso la fine del Trecento. La raccolta, che ci è giunta incompleta, non evidenzia un disegno unitario a cui i testi siano subordinati; i testi infatti non sono inseriti in una cornice. I contenuti si fondano su temi legati alla vita dei comuni toscani, con il gusto, proprio di quella regione, per gli scherzi, le battute di spirito e le beffe. La rappresentazione di Sacchetti predilige un’umanità comune (borghesi, paesani, popolani), protagonista di eventi di piccolo conto, riprodotti con vivace realismo. Lo stile è volto a rendere per lo più l’immediatezza del parlato. Geoffrey Chaucer Il più importante autore di novelle dopo Boccaccio è Geoffrey Chaucer (1343-1400) che scrive i The Canterbury Tales (“Racconti di Canterbury”), una raccolta incompiuta di racconti in versi che presenta analogie con il Decameron (➜ C8 D2 , D3 OL). In queste novelle Chaucer fornisce uno spaccato molto realistico della società inglese del tempo. L’effetto di realismo è ottenuto sia attraverso le situazioni (raccontate utilizzando generi diversi) e i temi coinvolti, sia mediante i profili dei narratori-pellegrini, estremamente precisi sul piano psico-sociologico. Si tratta della prima grande opera della letteratura britannica.
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Franco Sacchetti
T9
Una burla: l’orsa e le campane Trecentonovelle
F. Sacchetti, Il Trecentonovelle, a c. di V. Marucci, Salerno, Roma 1996
Questa novella è incentrata su una beffa che dei buontemponi organizzano ai danni di un prete, del suo sacrestano e di tutta la comunità del quartiere. Ambientata a Firenze, la beffa si comprende in rapporto al microcosmo della vita del quartiere, che ha al suo centro la chiesa parrocchiale.
[...] Certi Fiorentini erano a cena in una casa di Firenze, la quale era non molto a lungi dal palagio del Podestà; ed essendo tra loro in quel luogo entrata una orsa, la quale era del Podestà ed era molto domestica, andando questa piú volte sotto la mensa a loro, disse uno di loro: 5 – Vogliàn noi fare un bel fatto? Quando noi abbiamo cenato, conduciamo quest’orsa a Santa Maria in Campo1, dove il vescovo di Fiesole tien ragione2 (ché sapete che non vi s’incatenaccia mai la porta3) e leghiànli le zampe dinanzi l’una a una campana e l’altra a un’altra, e poi ce ne vegniamo4; e vedrete barili andare5 –. Dicono gli altri: 10 – Deh, facciànlo –. Era del mese di novembre, che si cena di notte6; essendo in concordia, danno di mano a l’orsa7 e per forza la conducono nel detto luogo; ed entrati nella chiesa si aviano verso le funi delle campane, e preso l’uno di loro l’una zampa e l’altro l’altra, le legorono alle dette campane e subito danno volta, andandosene ratti quanto 15 poterono8. L’orsa sentendosi cosí legata, tirando e tempestando9 per sciogliersi, le campane cominciano a sonare sanza niuna misura. Il prete e ’l cherico si destano; cominciano a smemorare10: – Che vuol dir questo? Chi suona quelle campane? – Di fuori si comincia a gridare: 20 – Al fuoco, al fuoco –. La Badía11 comincia a sonare, perché l’Arte della lana12 è presso a quel luogo. I lanaiuoli e ogni altra gente si levano e cominciano a trarre13: – Dov’è, dov’è? – In questo il prete ha mandato il cherico con una candela benedetta accesa, per 25 paura che non fosse la mala cosa, a sapere chi suona14. Il cherico ne va là con un passo inanzi e due a drieto e co’ capelli tutti arricciati per la paura; e accostandosi al fatto, si fa il segno della santa croce; e credendo che sia il demonio, il volgersi e ’l fuggire e ’l gridare: – In manus tuas, Domine15 –, è tutt’uno. Giugnendo con questo romore al prete, che non sapea dove si fosse, dice:
1 Santa Maria in Campo: antica chiesa
7 in concordia… a l’orsa: di comune ac-
12 l’Arte della lana: una delle corpora-
di Firenze amministrata dal vescovo di Fiesole. 2 tien ragione: amministra la giustizia. 3 non... la porta: la porta non è mai chiusa con il catenaccio. 4 ce ne vegniamo: ci allontaniamo. 5 vedrete barili andare: vedrete cose assurde (“come se i barili camminassero”). Espressione idiomatica. 6 di notte: quando è già buio.
cordo, catturano l’orsa. 8 le legorono… poterono: le (le zampe) legarono alle suddette campane e all’istante se ne vanno via il più velocemente possibile. 9 tempestando: infuriandosi. 10 smemorare: allarmarsi. 11 La Badía: chiesa vicina a Santa Maria in Campo.
zioni che aveva il deposito delle merci in quella zona. 13 trarre: accorrere. 14 per paura che… suona: temendo che fosse il diavolo (la mala cosa), per appurare chi suonasse. 15 In manus tuas, Domine: nelle tue mani, Signore (latino). Sono le parole di Cristo poco prima di morire.
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30 – Oimé, padre mio, che ’l diavolo è nella chiesa e suona quelle campane –.
Dice il prete: – Come, il diavolo? Truova de l’acqua benedetta –. Truova e ritruova, non ebbe ardire d’entrare nella chiesa, ma d’un buon galoppo per la porta del chiostro se n’uscí fuori, e ’l cherico drietogli16. E giugnendo, molta 35 gente trovò che cominciava a chiamare il prete, dicendo: – Dov’è il fuoco17? – E giugnendo fuori, essendo domandato18: – Dov’è questo fuoco, prete? –, appena potea rispondere, perché avea il battito della morte19. Pur con una boce affinita e affiocata20, dice: 40 – Io non so di fuoco alcuna cosa, né chi suona queste campane; costui v’è ito21 – e dice del cherico – a sapere chi le suona; par che dica che gli pare la mala cosa. – Come la mala cosa? – rispondono molti. – Reca qua i lumi; abbiàn noi paura di mali visi? Chi ha paura si fugga –. E aviandosi in là cosí al barlume e veggendo la bestia, non scorgendo bene quello 45 che si fosse, la maggior parte si tornano in drieto, gridando: – Alle guagnele22, che dice il vero! – Altri piú sicuri s’accostano e, veggendo quello ch’è, gridano: – Venite qua, brigata, ch’ell’è un’orsa –. Corrono là molti, e ’l prete e ’l cherico ancora; e veggendo questa orsa cosí legata 50 e tirare e inabissarsi con la boce23, ciascuno comincia a ridere: – Che vuol dir questo? E non era però niuno che ardisse di scioglierla, e tuttavia le campane sonavono, e tutto il mondo era tratto24. In fine certi che conosceano l’orsa del Podestà essere mansueta s’accostorono a lei 55 e sciolsonla25; avisandosi i piú che qualche nuovi pesci26 avessono fatto questo per far trarre tutti e’ Fiorentini. E tornatisi a casa, piú dí ragionorono di questo caso e ciascuno dicea chi serebbe stato. I piú rispondeano: – Dillo a me e io il dirò a te –. Alcuni diceano: 60 – Chiunque fu, fece molto bene; ché sempre sta quella porta aperta, che non ispenderebbe né ’l vescovo né il prete un picciolo27 per mettervi uno chiavistello –. E cosí terminò questa novella; e quelli che l’aveano fatto28, erano in un letto e scoppiavono delle risa, essendosi fatti piú volte alle finestre con gridare con le piú alte voci che aveano: 65 – Al fuoco, al fuoco! – E quanta piú gente traea29 piú ne godevano; domandando piú che gli altri in quelli dí che volle dir quello, per avere diletto di chi rispondea loro30. [...]. 16 drietogli: dietro a lui. 17 Dov’è il fuoco?: la domanda è motivata
21 ito: andato. 22 Alle guagnele: per i Vangeli, specie
dal fatto che ogni pericolo per la comunità (ad esempio, un incendio) era segnalato dal suono a distesa delle campane. 18 essendo domandato: essendogli chiesto. 19 avea il battito della morte: il cuore gli batteva da morire. 20 con una boce… affiocata: con un filo di voce, con voce flebile, fioca.
di giuramento popolare assai diffuso al tempo. 23 inabissarsi con la boce: urlare disperata. 24 tuttavia... era tratto: le campane continuavano a suonare e tutta la contrada era attirata là. 25 sciolsonla: la liberarono. 26 avisandosi... nuovi pesci: accorgendosi i più che qualche burlone avesse or-
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ganizzato lo scherzo per far accorrere tutti i fiorentini. 27 picciolo: soldino (il quarto di un quattrino). 28 quelli che l’aveno fatto: i responsabili della burla. 29 traea: accorreva. 30 domandando... loro: facendo domande più degli altri in quei giorni che cosa fosse successo per burlarsi di chi rispondeva loro.
Analisi del testo La particolare vena narrativa di Sacchetti La rappresentazione di Sacchetti predilige un’umanità anonima, socialmente insignificante e affida la narrazione al racconto di eventi di poca importanza. L’umanità e la vita che egli vede non hanno nulla di eccezionale. Gli ambienti e i personaggi sono comuni. Il suo è il mondo della piccola gente. Le reazioni nascono da fatti minuti e questa burla ne è un esempio: dei giovani fiorentini, di notte, legano le zampe di un’orsa alla fune delle campane della chiesa, così le campane suonano a distesa e la gente accorre, credendo che sia scoppiato un incendio. La critica ha notato nel Trecentonovelle di Sacchetti la particolare abilità nel rendere scene di confusione, di movimento concitato, come appunto in questa novella, dove l’obiettivo del narratore focalizza efficacemente, producendo quasi una scena teatrale, lo scompiglio creato nel quartiere dal suono inconsulto delle campane. La narrazione è caratterizzata, come in altri testi di Sacchetti, da un vivace ritmo narrativo.
Uno stile “immediato” A questa vena narrativa corrisponde l’immediatezza dello stile, che riproduce con vivace realismo i tratti del parlato. In proposito Cesare Segre ha osservato: «La sintassi partecipa anch’essa della felicità dell’invenzione: non tenta di ordinare intellettualmente la situazione, ma si lascia trarre nel vortice delle mosse e delle azioni. È una sintassi smaterializzata, giocosa come un gioco di bimbi, una sintassi che non si pone al di là dei fatti, descrivendoli, ma nasce insieme con essi, col loro tono e misura».
L’orso addomesticato da Saint Amand (miniatura francese, sec. XI). Valenciennes, Bibliothèque municipale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto della novella in un testo di 10 righe. SCRITTURA 2. Ti sarai reso conto che il contenuto è ben poca cosa (e forse la beffa stessa ad alcuni non è sembrata nemmeno troppo divertente) e che, in realtà, il pregio della novella è proprio nel ritmo indiavolato impresso dall’autore all’azione narrativa. Cerca di individuare nel testo i passaggi in cui il ritmo è molto sostenuto e utilizzando questi esempi scrivi un testo argomentativo di 20 righe, in cui sostieni che il pregio della novella è proprio la modalità di racconto.
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PER APPROFONDIRE
“Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni Il comico, il burlesco, il parodistico, in particolare legati alla scrittura novellistica, appartengono quasi costituzionalmente alla civiltà toscana, e particolarmente fiorentina, e si sono espressi soprattutto in due sottogeneri: la facezia (o battuta di spirito) e la beffa. In uno dei capitoli del Cortegiano, il Castiglione, che era lombardo, scrive: «le facezie e i motti sono più presto dono de grazia di natura che d’arte; ma bene in questo si trovano alcune nazioni pronte più l’una che l’altra, come i Toscani, che sono in vero acutissimi» (II, XLII). A proposito della “beffa”: «Ma i lochi [luoghi] donde cavar si possono le burle sono quasi i medesimi delle facezie», alludendo evidentemente alla Toscana. Parlando delle celebri Facezie del piovano Arlotto, il critico Giancarlo Mazzacurati le considera la testimonianza più eclatante di un costume tipicamente toscano-fiorentino. In esso vige «una vasta e complice abitudine all’affabulazione giocosa e ammiccante, che assume a lungo andare la forma di un abito popolare, di un sostrato ininterrotto dell’antropologia culturale fiorentina, nel piccolo dedalo di strade, laboratori e mercati in cui la comunità municipale si richiudeva, alla sera. Entro il circuito protettivo delle sue mura, delle sue genealogie riconosciute, delle sue figure caratteristiche, dei suoi linguaggi spontanei, l’eco di una vicenda o anche di una sola schermaglia, di una battuta salace e del suo autore, doveva rapidamente entrare a far parte di un patrimonio collettivo, ripetuto, a lungo andare automatico, come i proverbi. In questo stesso clima [...] il racconto della “beffa” si era formalizzato, fin da Boccaccio, come un altro “sotto-genere”, destinato a rimanere legato alla civilizzazione fiorentina e al suo costume [...] anche se, ovviamente, storie di beffe si diffonderanno ovunque, Firenze sembra assumersi il ruolo di un teatro specializzato, per l’attuazione e per la recitazione di questo gran gioco collettivo». In un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera», parlando della fortuna cinematografica dei comici di origine toscana, tra cui il celebratissimo Benigni, lo scrittore versiliese Giovanni
Mariotti (nato nel 1936) osserva: «A seconda delle epoche le categorie fondamentali dell’antropologia toscana hanno ricevuto nomi diversi, ma la sostanza è rimasta la stessa: da una parte i “bischeri” eterni e dall’altra parte i “ganzi”, coeterni; su questo, e sul turpiloquio si basa il background della comicità toscana». Incarnazione monumentale del “bischero” è il povero Calandrino immortalato dal Boccaccio, “uomo semplice” e “di pasta grossa”, oggetto costante di scherzi crudeli. Dopo il Boccaccio le burle continuano: dal Sacchetti al Grazzini, dal Firenzuola al Machiavelli della Mandragola. «Da lì, con un salto lungo ma agevole, si può arrivare fino ad Amici miei del toscano Monicelli, però immaginato e scritto da un non toscano (Pietro Germi) che seppe cogliere il fondo di malinconia e di horror vacui [paura del vuoto], la cupezza di certi scherzi e di certe zingarate». L’antecedente remoto degli atteggiamenti irriverenti e dissacranti dei toscani è Cecco Angiolieri (1260-1310) con i suoi “improperi” e “vituperi”, quasi un archetipo di certe sindromi che Mariotti considera tipiche dei toscani: «no alle languidezze a favore dell’espressione diretta; no alla circonlocuzione e all’eufemismo, sì alla bestemmia e al turpiloquio [...]. Per molti anni la loro tradizione e il loro dialetto hanno fatto figura di residui del “Dugento”: mentre il romanesco e il napoletano dilagavano in tv e al cinema, il toscano sopravviveva solo nelle sue contrade, nelle sue “corti”, nelle sue osterie [...]. Finché apparve Benigni. [...] L’interprete di Berlinguer ti voglio bene [film del 1977] correggeva con la sua grazia ballerina e la sua eleganza nativa quello che c’era di désagreable [sgradevole] nella tradizione toscana. Sulla sua bocca, l’antico turpiloquio suonava non edulcorato, ma genialmente alleggerito, così da non offendere nessuno». Da G. Mazzacurati, All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, La Nuova Italia, Firenze 1996, G. Mariotti, Comici toscani tra ganzi e bischeri, in «Corriere della Sera», 8 marzo 1999.
L’attore e regista toscano Roberto Benigni.
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Le cronache cittadine 1 Una storiografia militante Nel secondo Duecento, all’interno della prosa volgare si affermano, in particolare nei comuni della Toscana, le cronache cittadine. L’interesse di autori e pubblico per questo genere si spiega nel contesto della civiltà comunale, in cui i comuni cercano di affermare la propria specifica identità. Precedentemente non mancavano cronache di eventi locali, ma erano opera di monaci o comunque chierici ed erano commissionate dalle curie vescovili per fini documentari. La prospettiva di queste cronache, redatte in latino, in cui i singoli eventi erano narrati secondo un criterio annalistico, era sostanzialmente religiosa: negli eventi, seppur minuziosamente elencati, il cronista medievale cercava comunque di individuare e proporre un piano provvidenziale, un disegno divino. Le cronache in volgare sono invece opera di autori inseriti a vario titolo nella vita attiva del comune, di cui riflettono le passioni politiche e gli schieramenti ideologici. L’impostazione data alla lettura dei fatti è in genere laica; si presta attenzione, almeno in alcuni casi, agli aspetti economici e sociali e ci si focalizza soprattutto su vicende politiche di cui gli autori sono stati testimoni diretti. La modalità della narrazione è molto lontana dal distacco critico-razionale e dalla ricerca dell’imparzialità dei giudizi che oggi consideriamo necessari quando si affronta un discorso storico: anzi, si lascia spazio a prese di posizione “di parte”. Insomma, si tratta di una storiografia militante. Facciamo qui riferimento in particolare a due cronisti fiorentini: Dino Compagni e Giovanni Villani, ma altrove (➜ SCENARI, PAG. 55) abbiamo nominato anche la cronaca in latino di Bonvesin da la Riva (Le meraviglie di Milano). La Cronica di Dino Compagni Fiorentino, guelfo di parte bianca come Dante, Dino Compagni (metà del XIII secolo-1324) rivestì varie cariche politiche: in particolare quella di priore. In questo ruolo, promosse l’iniziativa di bandire i capi delle due fazioni, i Bianchi e i Neri (Guido Cavalcanti fu tra quelli colpiti dal provvedimento). La Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, composta tra il 1310 e il 1312, riguarda gli eventi avvenuti in Firenze e in Toscana negli anni tra il 1280 e il 1312, dei quali Compagni fu non solo testimone ma anche a volte protagonista. La passione politica, lo sdegno per la decadenza della sua città, il coinvolgimento anche emotivo, rende incisiva e vibrante la sua testimonianza, ma ne limita al contempo la credibilità storica. Del resto a Compagni interessa illuminare quelli che furono gli avvenimenti cruciali della sua città e della sua stessa vita e non tanto offrire un quadro esauriente dei fatti storici. La Nuova Cronica di Giovanni Villani Giovanni Villani (1280-1348), fiorentino, guelfo di parte nera, appartiene a una generazione successiva a quella di Compagni. Visse cinque anni nelle Fiandre, come socio della compagnia dei Peruzzi. Tornato a Firenze, rivestì importanti cariche politiche, tra cui quella di priore e ambasciatore del Comune. Lavorò alla sua Cronica dal 1308 alla morte, che ne interruppe la stesura al XII libro. L’impostazione della sua opera, che segue un Le cronache cittadine 3 221
criterio rigorosamente annalistico, è più arcaica della Cronica di Compagni, risale alle origini mitiche di Firenze e manifesta la persistenza di una visione religiosa nel valutare gli eventi storici, ma al contempo riflette anche l’interesse del mercante, quale lui stesso era, per le dinamiche economiche e la soddisfazione per la prosperità del comune di Firenze. Agli eventi più recenti del Comune fiorentino sono dedicati gli ultimi sei libri, che presentano l’ascesa economica della città con abbondanza di dati statistici. Lo stile dell’opera non indulge mai all’enfasi, ma è sempre referenziale e chiaro (si può leggere l’Elogio di Firenze di Villani in SCENARI, ➜ T9b OL).
Le cronache cittadine Le cronache cittadine
nuova concezione della storia non più provvidenzialistica ma laica
attenzione agli aspetti economici e sociali
storiografia militante
autori: Dino Compagni e Giovanni Villani
Fissare i concetti Forme del narrare nella società comunale 1. Che cosa sono i volgarizzamenti? 2. Di che cosa parla Il Milione di Marco Polo? Qual è la sua struttura? 3. Perché Il Milione ha un doppio narratore? 4. Qual è lo scopo della narrazione di Marco Polo? 5. Quali sono le caratteristiche della novella? 6. Che cos’è l’exemplum? 7. Che cosa sono i fabliaux? 8. Quali caratteristiche presenta il Novellino? 9. Quali sono le differenze tra il Trecentonovelle di Sacchetti e il Decameron? 10. Quali caratteristiche presentano le cronache cittadine rispetto alle cronache ecclesiastiche?
Scena popolare al mercato di frutta e verdura, in un affresco del castello di Issogne (XV secolo) in Valle d’Aosta.
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Giovanni Villani
T10
Il ruolo di Brunetto Latini nella società comunale Nuova Cronica, IX, x Nel sommario di eventi relativi all’anno 1294 Giovanni Villani, registra la morte di Brunetto Latini, figura di spicco a Firenze. Può essere interessante confrontare questo profilo con le informazioni che ci dà Dante nel celebre canto XV dell’Inferno (➜ C6 D9 ).
Nel detto anno MCCLXXXXIIII1 morì in Firenze uno valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosafo2, e fue3 sommo maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare4. E fu quegli che spuose la Rettorica di Tulio5, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto6, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de’ vizi e di virtù, e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano7 uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch’egli8 fue cominciatore e maestro in digrossare9 i Fiorentini, e farli scorti10 in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica. 1 MCCLXXXXIIII: è il 1294 in numeri romani. 2 filosafo: filosofo. 3 fue: “fu” con epitesi (aggiunta finale) della -e; è un tratto dell’italiano antico. 4 dittare: scrivere lettere e documenti, secondo le arti della retorica; più sotto, ditta-
tore vale “scrittore di trattati di retorica”, o anche “notaio”. 5 quegli... Tulio: colui che nella Rettorica commentò il De inventione di Cicerone. 6 Tesoro... Tesoretto: Li livres dou Trésor è un’opera enciclopedica scientifica, filosofica e politica, composta da Brunetto Latini in Francia, dove si trovava in esilio. Tor-
nato a Firenze, Brunetto rielaborò l’opera e la riscrisse in versi italiani, intitolandola Tesoretto. 7 mondano: brillante e conosciuto. 8 però ch’egli: per il fatto che egli. 9 cominciatore... digrossare: iniziatore e maestro nel rendere più colti e raffinati. 10 scorti: abili.
Analisi del testo Il profilo dell’intellettuale comunale Il ritratto che Villani elabora di Brunetto Latini è assai emblematico, soprattutto se messo in relazione al celebre profilo che ne fa Dante nel canto XV dell’Inferno; questo perché esso mette in evidenza il ruolo e quindi i meriti civili e politici del filosofo nella società comunale nuova che si sta disegnando a cavallo fra XIII e XIV secolo in Italia. In particolare Villani, con uno stile preciso ed essenziale, sottolinea il valore di Brunetto Latini come «sommo maestro in rettorica» e l’utilità dei suoi libri. Villani, allo stesso modo di Dante e altri pensatori del tempo, riserva alla filosofia un valore decisivo per la costruzione della personalità dell’uomo e per il governo dello stato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza la situazione descritta nel testo in due righe. ANALISI 2. Villani riesce a mettere in evidenza il rapporto tra Brunetto Latini, tipico intellettuale comunale, e i suoi concittadini. Che cosa insegna Brunetto ai fiorentini? 3. In che senso l’operato di Brunetto Latini fa progredire sul piano culturale e politico i fiorentini? LESSICO 4. Sottolinea le espressioni che delineano il ritratto di Brunetto e indica il registro stilistico utilizzato. TESTI A CONFRONTO 5. Confronta il passo di Villani con il XV canto dell’Inferno dantesco (➜ C6 D2 ), indicando le coincidenze tra i due testi nel delineare il ritratto di Brunetto Latini e il suo ruolo nella città di Firenze.
Interpretare
SCRITTURA 6. Il testo si può intendere anche come un suggerimento che Villani fornisce su come si dovrebbe comportare un retto e saggio filosofo. Per quale ragione? Argomenta in un breve testo di 5 righe.
Le cronache cittadine 3 223
Duecento e Trecento Forme del narrare nella società comunale
Sintesi con audiolettura
1 Raccontare il viaggio nel Medioevo
L’affermazione della prosa in volgare Nel XIII secolo conoscono grande successo i volgarizzamenti, ossia i rimaneggiamenti in volgare di opere latine o francesi oppure l’elaborazione di originali di diverso argomento e tipologia; tutto ciò in rapporto allo sviluppo della civiltà comunale e alla necessità di acculturamento dei ceti emergenti e delle sue classi dirigenti. L’emergere del gusto del narrare per un nuovo pubblico Il favore del nuovo pubblico cittadino si indirizza verso tre generi letterari: la letteratura di viaggio (in cui emerge Il Milione di Marco Polo), la novella (il cui esempio più famoso è il Decameron di Giovanni Boccaccio) e le cronache cittadine. I racconti di viaggio Nel Medioevo il viaggio è un’esperienza non rara ma lunga e difficile a causa dei numerosi pericoli e della scarsità di conoscenze geografiche. La affrontano soprattutto i pellegrini – che si dirigono per motivi devozionali e penitenziali a Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela oppure lungo la via Francigena – e i missionari, che partono per l’Estremo Oriente a convertirne le popolazioni, lasciando dettagliate relazioni sui propri incontri. Dal XII secolo, con la nascita delle prime università, anche intellettuali e studenti si spostano per l’Europa allo scopo di insegnare nelle sedi più prestigiose o di seguire i docenti più famosi; dal XIV secolo le personalità più note e capaci sono chiamate nelle corti signorili e a svolgere missioni diplomatiche. Ma a viaggiare sono soprattutto i mercanti, spinti dall’interesse economico: le loro mete vanno dall’estremo Nord all’Africa settentrionale, senza trascurare nemmeno le estreme propaggini orientali del misterioso impero mongolo; per diffondere utilitaristicamente ad altri la conoscenza di lingue, ambienti e tradizioni, essi lasciano memorie scritte delle proprie multiformi esperienze. Marco Polo e Il Milione Emblema del mercante è il veneziano Marco Polo (1254-1324) che attraversa l’Asia e rimane per molti anni in Cina. Le sue memorie, inizialmente stese in lingua d’oïl da Rustichello da Pisa, vengono ben presto volgarizzate e Il Milione (titolo con cui l’opera è nota) diventa un grande successo, soprattutto presso il pubblico borghese-mercantile. La prima parte dell’opera è un resoconto sintetico dei viaggi in Oriente; la seconda un vero e proprio trattato su usi, abitudini, flora e fauna di ciascun luogo visitato. L’obiettivo è certamente quello di fornire dati utili ai mercanti, ma si ritrova anche un genuino interesse etno-antropologico per mondi così diversi dall’Occidente. Nel modo di raccontare le sue esperienze di viaggiatore Marco Polo affianca alle credenze medievali, in parte accettate, una nuova mentalità razionale che lo induce a una valutazione critica di ciò che vede.
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2 Narrare per il gusto di narrare: la novella
Un genere dalla vita secolare La novella è una narrazione in prosa, facilmente fruibile, che fiorisce nella realtà comunale ed è caratterizzata da ampia varietà nei temi, nei contenuti, nello stile e nei fini. Essa rappresenta un genere di grande fortuna nella letteratura italiana (soprattutto dal Trecento al Cinquecento, quando è prodotta per evasione e divertimento, e fino al XX secolo), anche grazie all’eccellenza artistica del Decameron, una raccolta di cento novelle composta verso la metà del XIV secolo. Le prime forme di narrazione breve: gli exempla e i fabliaux Nella sua varietà, la novella si differenzia dagli exempla: questi ultimi, infatti, sono brevi narrazioni di remota origine orientale, mediata dall’influsso arabo e poi cristianizzata; schematici, inverosimili, indeterminati sotto il profilo spazio-temporale e popolati da personaggi emblematici, essi sono finalizzati alla trasmissione di un messaggio educativo di tipo morale-religioso. La loro fortuna inizia lentamente a declinare dal XII-XIII secolo in parallelo allo sviluppo, in Francia, dei fabliaux, che sul genere novellistico hanno grande influsso: racconti in versi di origine giullaresca, realistici e spesso osceni, senza fini didascalici ma, al contrario, comicoparodistici. Verso la definizione del genere: il Novellino La prima importante raccolta di novelle in area romanza è il Novellino, allestita in ambiente fiorentino probabilmente negli ultimi due decenni del Duecento da un autore sconosciuto. Nell’opera, costituita da racconti per lo più brevi, confluisce una ricca e multiforme tradizione narrativa: fonti classiche, romanzi cortesi, fabliaux ed exempla rivisitati. Obiettivo dell’opera, come dichiarato nel Prologo, è il diletto che deriva al lettore dalla bellezza delle storie raccontate, dall’arguzia e dall’intelligenza della parola, dal motto. Una pietra miliare nella storia del genere “novella” Tra il 1349 e il 1351 Boccaccio scrive uno dei capolavori della letteratura italiana: il Decameron, che occupa un posto centrale nella storia del genere novellistico. Boccaccio consacra il ruolo della novella come strumento realistico di lettura del mondo e della società contemporanea, e al contempo come genere di piacevole intrattenimento per un pubblico nuovo. Dopo Boccaccio Un significativo scrittore di novelle è anche Franco Sacchetti, autore di una raccolta, il Trecentonovelle, sul finire del XIV secolo. L’opera ci è giunta incompleta e non vi si ritrova un disegno organizzativo unitario. I personaggi appartengono a un mondo umile e lo stile è volto a ritrarre l’immediatezza del parlato. Gli episodi raccontati traggono spunto dal contesto dei comuni toscani e sono arricchiti dalla presenza di scherzi e beffe. Dopo Boccaccio, la raccolta novellistica più interessante viene dall’Inghilterra: si tratta di The Canterbury Tales (I racconti di Canterbury) di Geoffrey Chaucer, scritti verso la fine del Trecento, che offrono un ritratto realistico della società inglese del tempo non solo attraverso i testi narrati, ma anche attraverso i profili, estremamente individuati sul piano psico-sociologico, dei narratori di secondo livello.
Sintesi
Duecento e Trecento 225
3 Le cronache cittadine
Una storiografia militante Dalla seconda metà del Duecento si affermano, in particolare in ambito toscano, le cronache cittadine. Esse hanno precedenti negli annali locali che i monaci redigevano in latino con prospettiva religiosa. Le nuove cronache, laiche e redatte in volgare, sono invece opera di autori inseriti nella vita comunale e quindi testimonianze partigiane e militanti; vi si presta attenzione non solo agli avvenimenti politici, ma anche all’illustrazione di aspetti economici e sociali. I due cronisti più importanti sono i fiorentini Dino Compagni (metà del XIII secolo-1324) e Giovanni Villani (1280-1348). Il primo, guelfo bianco ed ex-Priore, è autore della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, che narra gli avvenimenti toscani tra il 1280 e il 1312 in modo assai emotivo e coinvolto, a scapito della credibilità storica. Il secondo, guelfo di parte nera, anch’egli Priore, è autore della Nuova cronica, opera che racconta Firenze dalle sue origini mitiche con impostazione annalistica e visione ancora religiosa, ma con stile piano e chiaro e con un particolare focus sugli aspetti economici della vita comunale.
Zona Competenze Riflessione critica
1 Ai nostri giorni la percezione dell’Oriente e della Cina in Occidente è profondamente mutata ma, nonostante sia passato molto tempo dal resoconto di Marco Polo, non mancano i pregiudizi. Quali sono secondo voi quelli più ricorrenti?
Esposizione orale
2 Nel libro di Marco Polo il viaggio e il soggiorno nei paesi lontani rappresentano anche un’occasione per aprirsi al nuovo, alle diversità, per sfatare false credenze e pregiudizi. Prepara un intervento orale di circa 5 minuti per esprimere la tua opinione sull’attualità di questo modo di intendere il viaggio proprio del ventunesimo secolo.
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
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Duecento e trecento CAPITOLO
4 “Ragionar d’Amore”
La lirica trobadorica influenza in Italia la scuola siciliana, nata alla corte di Federico II. È una poesia concepita come raffinato passatempo a opera dei funzionari della corte, in cui tema esclusivo è l’amore, cantato in un siciliano letterario, lontano dalla lingua parlata. È la Toscana la sede delle successive esperienze liriche duecentesche: prima con un gruppo di poeti, tra cui spicca Guittone d’Arezzo, che associano al tema amoroso i temi civili e politici; poi con lo stilnovo. Precursore e maestro degli stilnovisti è il bolognese Guido Guinizzelli; i rappresentanti più importanti sono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri. Con lo stilnovo la letteratura italiana crea un modello di raffinata poesia, che in uno stile piano e musicale celebra il mito di un amore “totalizzante”, in cui la donna, evanescente apparizione, è davvero capace di cambiare la vita, ora come tramite verso il divino (in Guinizzelli e Dante), ora come potenza distruttiva (in Cavalcanti).
1 La scuola siciliana 2 I poeti siculo-toscani 3 Il dolce stilnovo 227
1 La scuola siciliana 1 Il trapianto della lirica amorosa in Italia Lirica siciliana e politica culturale di Federico II I modi e i temi della lirica provenzale si diffondono in varie zone dell’Europa e anche in Italia. Oltre ad alcune regioni del Nord Italia, dove sono attivi poeti che utilizzano la lingua provenzale, l’eredità della poesia trobadorica si radica in particolare in Sicilia. L’isola era entrata in possesso degli Svevi verso la fine del XII secolo e costituiva, insieme all’Italia meridionale, il Regno di Sicilia. Divenuto imperatore, Federico II vi si stabilisce. All’interno della sua corte (la Magna Curia), per circa vent’anni, dal 1230 al 1250 circa, si afferma una raffinata esperienza poetica che inaugura in Italia un’alta tradizione lirica in volgare. La lirica siciliana va vista come un importante tassello di una più generale politica culturale: poeta egli stesso, come i figli Manfredi ed Enzo, Federico II cerca di mettere in atto una serie di misure volte a fondare una cultura laica di alto livello, in contrapposizione all’egemonia della Chiesa. Egli incentiva la formazione di intellettuali laici attraverso la scuola di retorica di Capua, la scuola di medicina di Salerno, l’università di Napoli e la promozione dello studio del diritto romano, finalizzata a legittimare la supremazia imperiale sul papato. I molteplici interessi culturali di Federico II – figura carismatica, poeta, conoscitore di molte lingue, appassionato di cultura filosofica, scientifica e astrologica, autore di un trattato di falconeria intitolato De arte venandi cum avibus (“L’arte di cacciare con i falconi”) – fanno della Magna Curia un ambiente di grande fervore intellettuale, aperto anche agli influssi della cultura araba. I funzionari di corte provengono da luoghi molto diversi tra loro, e questo aspetto rende la Magna Curia un ambiente multiculturale. In tale prospettiva di grande respiro culturale si inserisce anche l’impulso dato dal sovrano alla produzione lirica. Una stagione, tuttavia, di breve durata: lo stretto rapporto esistente fra la figura di Federico II e la lirica siciliana è evidenziato dal fatto che con la morte del monarca (1250) l’esperienza va esaurendosi. Modalità di produzione-ricezione diverse rispetto alla lirica trobadorica La lirica siciliana deriva temi e modi dalla poesia trobadorica ma, rispetto a essa, presenta anche delle diversità. Innanzitutto la prima è destinata alla lettura e non all’ascolto: di conseguenza mancano il canto e la musica; inoltre, non è opera di professionisti del poetare, come i trovatori, ma di funzionari della corte di Federico, che nella vita quotidiana ricoprono ruoli sociali specifici: Jacopo da Lentini è notaio, Pier della Vigna (ricordato in un celebre canto dell’Inferno dantesco) è cancelliere, Guido delle Colonne giudice e così via. Per essi la poesia è uno svago raffinato, a cui dedicarsi nel tempo libero dagli impegni. I siciliani, proprio per la loro condizione di poeti-cortigiani, non danno alcuno spazio al genere politico-satirico del sirventese, ma si concentrano esclusivamente sul tema dell’amore cortese, rendendolo ancora più astratto attraverso l’eliminazione di ogni riferimento contingente o autobiografico e idealizzando ancor più la figura femminile, che rappresentano in modo volutamente antirealistico e stereotipato: la donna «c’ha blonda testa e claro viso» di cui si parla in un sonetto di Jacopo da Lentini (➜ T2 ) corrisponde evidentemente a un modello di bellezza fissato dalla lirica trobadorica. Cambiando il contesto, vengono meno anche i riferimenti più
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specifici al codice feudale e al galateo cortese. Da parte loro i siciliani si mostrano soprattutto interessati a esplorare la fenomenologia dell’amore. La loro poesia evidenzia un accentuato intellettualismo, nello sforzo di chiarire l’essenza e le dinamiche psicologiche dell’esperienza amorosa; tendenza che sarà ripresa e ulteriormente accentuata dai poeti stilnovisti, soprattutto da Cavalcanti.
Lessico tenzone Discussione su un determinato tema che si svolgeva attraverso lo scambio di testi fra vari poeti.
I poeti Come già detto, i poeti della scuola siciliana sono funzionari della corte di Federico, che nella vita quotidiana ricoprono ruoli sociali specifici. La figura più rilevante è sicuramente quella di Jacopo (o Giacomo) da Lentini (1210 ca.-1260), ricordato da Dante come «’l Notaro» (Pg XXIV, 56) e considerato l’“inventore” del sonetto. Ha lasciato una quarantina di componimenti, tra cui sedici tra canzoni e canzonette e ventiquattro sonetti, dei quali tre in tenzone . È identificato come il caposcuola perché di lui ci rimane il corpus di testi più cospicuo tra quelli dei rimatori siciliani e per il fatto che le sue poesie sono sempre in apertura nei manoscritti che contengono la produzione poetica della scuola siciliana. Oltre a lui vanno annoverati, tra i poeti della scuola, lo stesso Federico II, suo figlio Enzo, Pier della Vigna, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Stefano Protonotaro, Jacopo Mostacci, Giacomino Pugliese. Guido delle Colonne, giudice messinese, di cui ci restano solo cinque canzoni, è considerato una delle figure di spicco della scuola siciliana. Dante cita in modo lusinghiero due sue canzoni nel De vulgari eloquentia. Rinaldo d’Aquino ci ha lasciato una dozzina di componimenti ascrivibili al movimento poetico della Magna Curia. Del personaggio non si hanno notizie certe: per alcuni ascrivibile alla nobile famiglia degli Aquino (e fratello di san Tommaso), per altri era un Rinaldo, falconiere alla corte di Federico II. All’interno di questa esperienza poetica si fa rientrare anche Cielo d’Alcamo, forse un giullare isolano di cui sappiamo pochissimo. A lui è attribuita una celebre composizione poetica, in forma di contrasto. Il manoscritto che conserva il contrasto, Rosa fresca aulentissima, lo tramanda anonimo; poi un erudito del ’500, Angelo Colocci, copiando il testo aggiunge il nome ricavandolo da una fonte a noi sconosciuta. “Cielo” è la forma toscanizzata del siciliano “Celi” (Michele) e il cognome risulta attestato a Palermo nel ’200. Rosa fresca aulentissima mette in scena un dialogo tra il poeta e una donna del popolo, inizialmente infastidita dal corteggiamento del poeta, ma poi disposta a concedersi. Da alcuni studiosi il testo è stato interpretato come una parodia dell’amore cantato dai poeti conterranei. Non conosciamo con precisione la data di composizione del testo, ma alcuni riferimenti storici presenti nel contrasto ci portano a pensare che sia stato composto dopo il 1231 e comunque prima della morte di Federico II (1250). Nina Siciliana Va ricordata inoltre Nina Siciliana, la cui figura è avvolta nel mistero come anche la sua appartenenza alla scuola siciliana. Poetessa della fine del XIII secolo, di lei non conosciamo con certezza né il nome completo né il luogo di nascita. A collocarla in Sicilia non è che una supposizione basata sulla distribuzione del nome Nina nel XIII secolo. La sua importanza consisterebbe nel fatto che è stata la prima donna, di cui si abbia notizia, a poetare in volgare. Su di lei continuano ad alternarsi i giudizi degli studiosi sulla sua effettiva storicità. Di lei abbiamo un sonetto, concepito come risposta al sonetto del poeta toscano Dante da Maiano, contenuto nella raccolta Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani edita da Filippo di Giunta nel 1527 a Firenze e detta anche “Giuntina di rime antiche” e le si attribuisce (Trucchi) anche un sonetto Tapina me presente nel codice Vaticano 3793 in forma anonima. L’ascrizione La scuola siciliana 1 229
ottocentesca alla mitica Nina siciliana è in particolare nel critico De Sanctis che ne elogia il volgare raffinatissimo. Un siciliano “illustre” La lingua usata è il volgare siciliano, ben lontano però da quella parlata: si tratta infatti di una lingua selezionata e aulica, con tratti latineggianti e qualche influsso del provenzale, una lingua che non a caso Dante propone come modello di volgare “illustre” nel De vulgari eloquentia. Occorre però precisare che i testi, tranne pochissime eccezioni, non ci sono pervenuti nell’idioma originale, bensì nelle trascrizioni effettuate dai copisti toscani, che sovrapposero all’originaria fisionomia linguistica una forte patina regionale. Possediamo una sola lirica completa in volgare siciliano: la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro, di cui riproduciamo qui la prima stanza, per dare almeno un’idea della lingua poetica siciliana in cui le liriche erano state composte e, di conseguenza, la distanza tra la veste originaria e la veste linguistica toscana in cui i testi ci sono stati trasmessi. Nella canzone sono presenti francesismi, provenzalismi e latinismi ed è grazie a questi elementi che il volgare siciliano acquista dignità letteraria. Alla base della canzone però troviamo voci della lingua siciliana, caratterizzata dalla presenza di molte parole che terminano in -u e -i (meu, cori), dal ricorso al condizionale in -ia (turniria) e dal “ca” causale. Pir meu cori1 alligrari, chi multu longiamenti senza alligranza e joi d’amuri2 è statu, mi ritornu3 in cantari, 5 sca forsi levimenti da dimuranza turniria in usatu di lu truppu taciri; e quandu l’omu ha rasuni di diri, ben di’ cantari e mustrari allegranza, 10 ca senza dimustranza joi siria sempri di pocu valuri: dunca ben di’ cantar onni amaduri. 1 meu cori: possessivo senza articolo per influenza del provenzale.
Per rallegrare il mio cuore, che molto a lungo è stato senza allegria e gioia d’amore, riprendo a poetare, perché forse facilmente muterei in abitudine la tendenza a indugiare troppo a lungo nel silenzio; e quando si ha ragione di poetare, si deve davvero cantare e mostrare allegria, perché senza una manifestazione esteriore la gioia sarebbe sempre poco valorizzata: dunque ogni persona che ama deve scrivere canzoni.
2 joi d’amuri: termine tecnico del linguaggio cortese.
3 mi ritornu: costrutto provenzale.
La rima siciliana Si è già ricordato che le liriche dei poeti della corte federiciana ci sono pervenute, per la quasi totalità, attraverso l’opera di copisti toscani, che toscanizzarono i testi privandoli così dell’originale veste linguistica siciliana. La toscanizzazione consistette essenzialmente in un adattamento a livello fonetico. Le variazioni fonetiche, e in particolare quelle dei gruppi vocalici (specie la e e la o toniche, che rimano rispettivamente con la i e la u toniche), influirono sulle parolerima, dando luogo a imperfezioni metriche, a rime “imperfette”, che però nell’originale evidentemente non esistevano. Ad esempio (citiamo da Ancor che l’aigua di Guido delle Colonne, vv. 3-5) natura è posto in rima con dimora: nell’originale natura rimava con il siciliano dimura, che poi è stato toscanizzato in dimora. I poeti del Due-Trecento che leggevano le liriche siciliane nella versione toscanizzata dei copisti pensarono che queste rime imperfette, queste anomalie (che tali in origine
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non erano) fossero delle ricercatezze volute o delle forme arcaiche e perciò una prerogativa stilistica dei siciliani: da qui il termine “rima siciliana”, rimasto in uso per moltissimo tempo. La stabilizzazione della canzone e la nascita del sonetto Le forme metriche usate dai siciliani sono la canzone (genere alto, poi immortalato da Dante e da Petrarca), la canzonetta (più adatta ad argomenti meno elevati), e il sonetto. Il sonetto, ideato quasi sicuramente da Jacopo da Lentini (1210 ca-1260) e la cui fortuna travalica i secoli per pervenire addirittura al Novecento, può essere definito il genere metrico “principe” della poesia italiana, sia per la sua fortuna nei secoli, sia per la varietà tematica che è stato capace di accogliere. Dai siciliani il sonetto non viene impiegato come spazio lirico della soggettività, ma quasi sempre come strumento di dibattito concettuale, per disquisizioni sulla natura dell’amore, come ben si può vedere nel primo testo proposto, di Jacopo da Lentini (➜ T1 ).
La scuola siciliana GENERE
lirica
TEMPO
1230-1250
LUOGO
corte di Federico II (Magna Curia)
LINGUA
volgare siciliano illustre
TEMI
amore cortese, idealizzazione della figura femminile
DESTINAZIONE
lettura, non ascolto
MODELLO
lirica provenzale
DIFFUSIONE
attraverso i copisti toscani
AUTORI
funzionari di corte: Jacopo da Lentini (notaio), Pier della Vigna, Guido delle Colonne
Fissare i concetti La scuola siciliana 1. Quali sono le caratteristiche della lirica siciliana rispetto alla lirica provenzale? 2. Chi sono i poeti della lirica siciliana e quale ruolo rivestono a corte? 3. Quale lingua utilizzano i poeti siciliani? Come ci sono pervenuti i loro testi? 4. Di che cosa tratta il contrasto di Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima?
La scuola siciliana 1 231
Jacopo da Lentini
T1 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Amor è uno desio che ven da core Il sonetto fa parte di una “tenzone” incentrata sulla definizione della natura dell’amore. La tenzone vede coinvolti tre poeti della scuola siciliana: Jacopo Mostacci apre il dibattito; gli rispondono Pier della Vigna con il sonetto Però ch’amore non si po’ vedere, qui proposto online, e appunto Jacopo da Lentini. Quest’ultimo sostiene il ruolo primario esercitato nell’innamoramento dalla vista dell’amata. Il cuore dà alimento a un sentimento-impulso che è attivato dalla bellezza della persona amata, la cui immagine è trasmessa appunto dalla vista.
Amor è uno desio1 che ven da core per abondanza di gran piacimento2; e li occhi in prima3 generan l’amore 4 e lo core li dà nutricamento4. Ben è alcuna fiata om amatore senza vedere so ’namoramento5, ma quell’amor che stringe con furore 8 da la vista de li occhi ha nascimento: ché li occhi rapresentan a lo core d’onni cosa che veden bono e rio, 11 com’è formata naturalemente6; e lo cor, che di zo è concepitore7, imagina, e li piace quel desio: 14 e questo amore regna fra la gente.
Scena cortese: il cavaliere offre alla dama il proprio cuore particolare di un arazzo del secolo XV. La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB ACD ACD.
1 desio: desiderio. 2 per abondanza di gran piacimento: per eccesso di piacere. 3 in prima: prima di tutto, in un primo tempo.
4 li dà nutricamento: gli dà nutrimento. 5 Ben è… ’namoramento: è pur vero che qualche volta (alcuna fiata) l’uomo ama senza vedere l’oggetto del proprio amore. Probabilmente Jacopo allude al trovatore Jaufre Rudel e al tema provenzale dell’“amore di lontano” (➜ C1 T10 ).
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6 ché li occhi… naturalemente: di ogni cosa che vedono, gli occhi rappresentano nella realtà (com’è... naturalemente) il positivo e il negativo. 7 che di zo è concepitore: che accoglie ciò (che gli occhi gli trasmettono).
Analisi del testo La struttura argomentativa Nella prima quartina l’autore sostiene che l’amore è una passione (disìo) che proviene dal cuore, ma è la vista (della donna) che la attiva, mentre il core poi la alimenta. Nella seconda quartina Jacopo sembra correggere l’assolutezza dell’asserzione presente nella prima strofa: vi è effettivamente qualche caso in cui ci si innamora a prescindere dalla visione della donna; aggiunge però che la forte passione amorosa (quell’amor che stringe con furore) deriva sempre dalla vista. Jacopo pare qui alludere al motivo convenzionale dell’“amore di lontano”, proprio in particolare del trovatore Jaufre Rudel (➜ C1), che di fatto Jacopo da Lentini ridimensiona. Le due terzine non presentano un’ulteriore progressione argomentativa, ma si limitano a richiamare la funzione, nel processo dell’innamoramento, esercitata rispettivamente dalla vista (prima terzina), considerata fonte di una fedele riproduzione della realtà, e dal cuore (seconda terzina), valutato quale fonte del processo immaginativo ed emotivo che genera l’amore.
Una definizione in poesia Anche un lettore sprovveduto si rende conto che questo sonetto non è un testo spontaneo sull’amore, l’effusione lirica di un sentimento individuale. Vi si oppone l’evidente uso di una struttura argomentativa e la frequenza di nessi logici finalizzati a evidenziare il rapporto tra i concetti. Il sonetto è espressione di un atteggiamento fortemente intellettualistico, del desiderio di chiarire la natura e il significato di un’esperienza chiave come quella d’amore; inoltre ha una precisa fonte, l’inizio del celebre trattato sull’argomento di Andrea Cappellano, di cui riprende sinteticamente alcuni punti. L’amore è una passione innata che procede per visione e per incessante pensiero di persona d’altro sesso [...]. La passione, a ben guardare la verità, non nasce da nessuna azione, ma la passione nasce dal solo pensiero che l’animo concepisce davanti alla visione. Quando, infatti, uno vede una donna che corrisponde al suo amore e che è bella secondo il suo gusto, subito in cuor suo comincia a desiderarla, e quanto più la pensa, tanto più arde d’amore [...]. Dunque la passione innata nasce da visione e da pensiero». Andrea Cappellano, De Amore, trad. di J. Insana, SE, Milano 1996
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in almeno 10 righe. COMPRENSIONE 2. Da che cosa nasce l’amore secondo il poeta? LESSICO 3. Nel sonetto sono presenti termini che appartengono al campo semantico dell’amore. Rintracciali e trascrivili. 4. I protagonisti dell’azione rappresentata sono gli occhi e il cuore: indica i termini che appartengono all’area semantica del “vedere” ed evidenzia le ricorrenze del termine core-cor. STILE 5. Quale figura retorica è utilizzata al v. 4? Rintracciala.
Interpretare
TESTI IN DIALOGO 6. Metti in evidenza il rapporto fra il testo di Andrea Cappellano e il sonetto, facendo un elenco dei punti di contatto e descrivendo l’elemento di novità introdotto da Jacopo da Lentini (max 15 righe).
La scuola siciliana 1 233
Jacopo da Lentini
T2 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Io m’aggio posto in core a Dio servire L’interesse primario di questo sonetto, al di là delle capacità retoriche e metriche che la critica riconosce proprie di Jacopo da Lentini, riguarda il contenuto: il poeta prospetta il difficile rapporto fra amore profano e dimensione religiosa, che tenta di conciliare. In un paradiso molto “terreno”, assai simile a una corte, egli immagina che, a rendere più completa la sua gioia, gli sia vicina la sua donna e possa continuare così a contemplarne la bellezza e ad ammirarne le virtù.
Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire1, com’io potesse gire in paradiso2, al santo loco ch’ag[g]io audito dire3, 4 u’ si manten sollazzo, gioco e riso4. Sanza mia donna non vi vorria gire5, quella c’ha blonda testa e claro viso6, ché sanza lei non poteria gaudere, 8 estando da la mia donna diviso7. Ma non lo dico a tale intendimento8, perch’io pec[c]ato ci volesse fare; 11 se non veder lo suo bel portamento9 e lo bel viso e ’l morbido sguardare10: ché lo mi teria in gran consolamento11, 14 veg[g]endo la mia donna in ghiora12 stare.
La metrica Sonetto con schema delle rime ABAB ABAB CDC DCD.
1 Io m’ag[g]io… servire: io mi sono riproposto di servire Dio. L’uso dell’ausiliare avere per rendere riflessivo il verbo appartiene ai dialetti meridionali. 2 com’io… in paradiso: così che io possa andare in paradiso. Anche l’uso del congiuntivo imperfetto per il presente è un meridionalismo. 3 ch’ag[g]io audito dire: di cui ho sentito parlare; audito è un latinismo. 4 u’ si manten… riso: dove (lat. ubi) dura ininterrottamente la gioia, il divertimento e l’allegria. I termini sollazzo, gioco e riso
ricorrono nella tradizione provenzale e rimandano alla raffinata e piacevole vita della corte (anche ➜ T4 , v. 59). 5 non... gire: non vorrei andarci. 6 quella… viso: la bellezza della donna è sintetizzata nel particolare dei capelli biondi e del viso luminoso secondo un’immagine topica derivata dalla tradizione cortese. 7 non poteria… diviso: non potrei essere felice stando separato dalla mia signora. donna dal lat. domina “signora”. 8 a tale intendimento: allo scopo di. Ha valore prolettico rispetto al successivo perch’io.
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9 se non veder… portamento: ma soltanto (se non) per vedere (anche in paradiso) il suo nobile modo di comportarsi. Nella poesia cortese il termine portamento ha un’accezione ben diversa da quella odierna. 10 ’l morbido sguardare: il dolce modo di guardare. 11 ché… consolamento: perché riterrei ciò per me (lo mi teria) una grande consolazione. 12 in ghiora: nella gloria (del paradiso). La forma popolare ghiora forse è dovuta al copista toscano.
Analisi del testo Il paradiso come immagine della corte Nella prima quartina il poeta enuncia il proponimento di una condotta morale tale da assicurargli il paradiso, un luogo che nessuno ha visto e che egli riesce a immaginare solo come “doppio” di una corte terrena, dove regnano la gioia e il divertimento (un paradiso dunque ben poco spirituale). Nella seconda quartina entra in scena la donna, che il poeta vorrebbe accanto a sé in paradiso, quasi come se gli riuscisse impossibile staccarsi dall’amore terreno per essa (dice espressamente che non potrebbe gaudere stando diviso da lei). Nella dimensione ultraterrena, che dovrebbe essere esclusivamente spirituale, viene dunque inserito l’elemento profano dell’amore per la donna. Le due terzine, introdotte dall’avversativa ma, contengono una giustificazione che il poeta ritiene di addurre per spiegare il suo desiderio: non intende certo commettere peccato quando sarà in paradiso con la sua donna, ma la vuole accanto a sé solo per poterla (castamente) contemplare (ricorre due volte un riferimento alla vista: veder [v. 11] e veggendo [v. 14]). In realtà, domina nelle due terzine la fascinosa immagine della bellezza femminile, enfatizzata dalla ripetizione dell’aggettivo bel, dall’enjambement e dal polisindeto (e... e..) che collegano le due terzine, oltre che dall’allitterazione (e ’l morbido sguardare).
L’embrionale conflittualità tra amore per la donna e amore per Dio Nel complesso il sonetto può testimoniare il difficile rapporto fra dimensione morale-religiosa e attrazione per la bellezza femminile e i piaceri terreni. Il sonetto ha suscitato diverse interpretazioni, fra cui quella di chi lo ritiene un’anticipazione della divinizzazione della donna e della spiritualizzazione del sentimento amoroso, poi sviluppati dagli stilnovisti.
Lo stile e la lingua Il sonetto evidenzia la scelta di Jacopo di utilizzare un siciliano “illustre”, lontano da forme del parlato e dialettali. La patina siciliana originale, al di là degli adattamenti fonetici toscani, si può ancora riscontrare in un verbo come aggio o nelle forme al condizionale voria (vorrei), poteria (potrei), teria (terrei). Ma evidente è d’altra parte l’apporto di latinismi (come claro, dal lat. clarus, cioè “chiaro” o audito e gaudere) e di provenzalismi (come il termine sollazzo, dal provenzale sollatz, a sua volta derivato dal latino solatium) o di vari termini con suffisso -mento. Da notare, come in altri testi della scuola siciliana, la presenza della cosidetta rima siciliana: in particolare, nella versione originaria, il v. 5 rimava correttamente con il v. 7 (giri/gaudiri), mentre nella versione dei copisti toscani si crea una anomalia: una parola come gire rima con gaudere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto e indica il tema principale. ANALISI 2. Rintraccia e sottolinea nel testo le espressioni che il poeta utilizza per descrivere la sua amata. 3. Come è rappresentato il paradiso nella lirica? Rintraccia nel testo i termini della descrizione. LESSICO 4. Nel sonetto sono più volte utilizzati termini e immagini tratti dalla poesia provenzale. In quali versi e a che proposito? STILE 5. Quale figura retorica è utilizzata nel primo verso?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 6. Il sonetto analizza il difficile rapporto tra “amor sacro” e “amor profano”. Prepara un intervento orale di circa 3 minuti per illustrare brevemente quest’aspetto.
online T3 Pier della Vigna
Però ch’amore non si po’ vedere
La scuola siciliana 1 235
PER APPROFONDIRE
Il sonetto Il termine sonetto deriva dal provenzale sonet e in origine indicava un testo destinato a essere cantato. Mentre l’ideazione della canzone si deve ai provenzali, il sonetto è stato “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo: quasi certamente il suo ideatore è il siciliano Jacopo da Lentini. La sua presenza si rileva fin dalle origini della tradizione lirica italiana e la sua presenza persiste fino al Novecento; in questo lungo periodo di tempo è stato imitato nelle principali letterature europee. Il sonetto è costituito da 14 versi endecasillabi, suddivisi in due quartine e due terzine, ognuna portatrice, almeno potenzialmente, di un’unità sul piano del senso: esiste quindi spesso, almeno alle origini del genere metrico, un rapporto tra struttura strofica e piano semantico. In realtà anche il sonetto, come la canzone, si presta a duttili funzioni poetiche: si può così andare dalla struttura chiusa e fortemente pausata del sonetto petrarchesco al vero e proprio
«gorgo ritmico» (Getto) del Foscolo, realizzato soprattutto attraverso l’uso degli enjambements. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate), mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni. Il sonetto nasce per ospitare la riflessione sulla natura d’amore, ma nella sua lunga storia fu anche impiegato nel registro comico (ad esempio da Cecco Angiolieri, Burchiello o Berni) o satirico (come nei poeti dialettali del primo Ottocento, Porta e Belli). Non viene abbandonato neppure nel Novecento (lo si ritrova in Saba, Zanzotto e altri). Riportiamo a titolo di esempio il sonetto [C]hi non avesse mai veduto foco di Jacopo da Lentini. La successione delle rime è ABAB, ABAB, CDE, CDE: rime alternate nelle quartine e ripetute nelle terzine.
[C]hi non avesse mai veduto foco
A
no crederia che cocere potesse,
B
anti li sembraria solazzo e gioco
A
4 lo so isprendor[e], quando lo vedesse.
B
Ma s’ello lo tocasse in alcun loco,
A
be·lli se[m]brara che forte cocesse:
B
quello d’Amore m’à tocato un poco,
A
8 molto me coce – Deo, che s’aprendesse!
B
prima quartina
seconda quartina
Che s’aprendesse in voi, [ma]donna mia, C che mi mostrate dar solazzo amando,
D
11 e voi mi date pur pen’e tormento.
E
Certo l’Amor[e] fa gran vilania,
C
che no distringe te che vai gabando,
D
14 a me che servo non dà isbaldimento
E
Scena di danza, particolare degli affreschi della Maison de la Reine Jeanne a Sorgues, secolo XIV (Musée du Petit Palais, Avignone).
236 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
prima terzina
seconda terzina
VERSO IL NOVECENTO
Il sonetto viaggia nel tempo… Il sonetto è il genere metrico più vitale nel tempo: se da una parte è il più costante nella struttura, dall’altra è il più eclettico e metamorfico per funzioni e temi; esso rappresenta una sorta di “contenitore” disponibile a ospitare le più eterogenee tematiche, tanto da essere stato definito la «metafora stessa del far poesia» (G. Gorni). Non è un caso che vari poeti abbiano scritto sonetti per elogiare il sonetto, come Giosue Carducci o, in tempi più recenti, Guido Gozzano (in un sonetto intitolato appunto Elogio del sonetto). Verso la fine dell’Ottocento si mostra ancora fautore del sonetto un grande innovatore delle forme liriche, il poeta francese Stéphane Mallarmé. Così ne parla scrivendo a un amico: «un gran poema, in piccolo: le quartine e le terzine mi paiono dei canti completi e certe volte impiego tre giorni a equilibrarne preliminarmente le parti, perché il tutto risulti armonioso e si approssimi al Bello». Anche l’esempio che qui presentiamo, del primo Novecento, se messo a confronto con le prime testimonianze del sonetto, mostra chiaramente le straordinarie capacità di trasformazione del genere più “chiuso” della tradizione lirica.
Umberto Saba Autobiografia – Ed amai nuovamente U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi, Torino 1948
Nel primo Novecento, quando anche in Italia si afferma la poesia moderna in forme arditamente sperimentali, il poeta triestino Umberto Saba (1883-1957) rilancia invece forme e linguaggi della tradizione, riproponendo addirittura – nel suo Canzoniere – il sonetto. Si tratta di una scelta polemica contro la voluta oscurità della linea ermetica, per una poesia apparentemente “facile” nel suo rassicurante tradizionalismo, comunicativa sul piano formale, ma che per contro scenda davvero nel cuore delle cose, andando alla ricerca di una verità nel profondo. Nella sua Storia e cronistoria del “Canzoniere”, pubblicata nel 1948, Saba dichiara: «A quei vecchi metri, a quelle trite parole occorreva solo imprimere il suggello di una personalità nuova e ben definita, piegare gli uni e le altre a dire, col massimo di esattezza e di aderenza alla verità interiore, quel tanto di nuovo che ognuno porta in sé nascendo». Questo sonetto è dedicato alla moglie Lina ed è tratto da una sorta di mini-raccolta intitolata Autobiografia (1922 o 1924).
Ed amai nuovamente; e fu di Lina dal rosso scialle il più della mia vita1. Quella che cresce accanto a noi, bambina 4 dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita2. Trieste è la città, la donna è Lina3, per cui scrissi il mio libro di più ardita sincerità; né dalla sua fu fin’ 8 ad oggi mai l’anima mia partita4. Ogni altro conobbi umano amore; ma per Lina torrei di nuovo un’altra 11 vita5, di nuovo vorrei cominciare. Per l’altezze6 l’amai del suo dolore; perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra, 14 e tutto seppe, e non sé stessa, amare7.
1 Ed amai... vita: dopo amori precedenti, quello per Lina – la moglie – prevale nella vita del poeta, che sente di appartenerle. Il rosso scialle è un riferimento all’abbigliamento di Lina durante il loro primo incontro, come rievocato in Storia e cronistoria del Canzoniere. 2 Quella... uscita: è la figlia Linuccia. 3 Trieste... Lina: la struttura a chiasmo del verso, con i due termini in posizione “forte” evoca il titolo della raccolta Trieste e una donna, indicato subito dopo come «il mio libro di più ardita sincerità», in cui i temi principali sono la città natale e la moglie. 4 né dalla sua... mia partita: l’espressione l’anima mia rivela la profondità del legame che perdura nel tempo; partita sta per “separata”. 5 torrei... vita: comincerei un’altra vita, da condividere con lei. 6 Per l’altezze: per l’intensità. 7 tutto... amare: nel carattere della moglie il poeta esalta l’assenza di calcolo (non mai scaltra) e lo slancio affettuoso che le ha fatto amare tutto tranne sé stessa.
La scuola siciliana 1 237
Guido delle Colonne
T4 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Gioiosamente canto In questa canzone il poeta dà espressione alla sua gioia per un amore ricambiato e loda la bellezza della donna. Gioiosamente canto e vivo in allegranza1, ca per la vostr’amanza2, madonna, gran gioi sento.
S’eo travagliai cotanto3, or aggio riposanza4: ben aia disïanza che vene a compimento5; ca tutto mal talento – torna in gioi, 10 quandunqua l’allegranza ven dipoi6; und’eo m’allegro di grande ardimento7: un giorno vene8, che val più di cento. 5
Ben passa rose e fiore9 la vostra fresca cera,
lucente più che spera10; e la bocca aulitosa11 più rende aulente aulore che non fa d’una fera c’ha nome la pantera, 20 che ’n India nasce ed usa12. Sovr’ogn’agua, amorosa – donna, sete fontana che m’ha tolta ognunqua sete, per ch’eo son vostro più leale e fino che non è al suo signore l’assessino13. 15
La metrica Canzone di cinque stanze, ciascuna di 12 versi, costituite da una fronte di due piedi di quattro settenari e da una sirma di quattro endecasillabi, collegata alla fronte da una rima interna. Lo schema metrico è ABBC ABBC-(C) DDEE. 1 allegranza: gioia, felicità. 2 ca per la vostr’ amanza: perché (ca è forma tipica del siciliano per introdurre la causale) per il vostro amore (in questo caso l’amore della donna per il poeta). La rima in -anza è un provenzalismo. 3 S’eo travagliai cotanto: se ho sofferto tanto. 4 aggio riposanza: ho pace (poiché ora il suo amore è ricambiato). 5 ben aia... compimento: abbia bene (sia benedetto) il desiderio che si realizza.
6 ca tutto... ven dipoi: perché ogni malumore si trasforma (torna è un francesismo) in gioia ogni volta che (quandunqua) è seguito dalla felicità. 7 und’eo… ardimento: per cui io gioisco della mia ardente passione (ardimento deriva dal provenzale ardemen, “fuoco amoroso”). 8 vene: viene. 9 Ben passa rose e fiore: davvero oltrepassa le rose e i fiori. Il soggetto è la vostra fresca cera (“volto”). 10 lucente più che spera: più luminoso della sfera (del sole). 11 aulitosa: profumata. Il termine è posto in rima con usa al v. 20 e con la “rima al mezzo” amorosa del v. 21. Per il concetto di “rima siciliana” ➜ pag. 230.
238 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
12 più rende… usa: il poeta paragona il profumo della bocca dell’amata a quello della pantera che vive (usa) in India. Secondo i bestiari medievali la pantera era capace di attrarre le prede con il proprio profumo. Si noti anche la raffinata figura etimologica aulente-aulore. 13 Sovr’ogn’agua… l’assessino: più di ogni acqua, o donna, siete un’amorosa fontana che mi ha tolto ogni sete, per cui io sono più leale e fedele a voi di quanto non sia al suo signore l’assassino. Come è narrato in una celebre pagina del Milione di Marco Polo (➜ C3 T3 OL), gli assassini (così chiamati dall’abitudine al consumo di hashish) erano una setta che obbediva ciecamente agli ordini di un sanguinario signore, il Veglio della Montagna.
25
Come fontana piena,
che spande14 tutta quanta, così lo meo cor canta, sì fortemente abonda de la gran gioi che mena15,
per voi, madonna, spanta16, che certamente è tanta, non ha dove s’asconda17. E più c’augello in fronda – so’ gioioso, e bene posso cantar più amoroso18 35 che non canta già mai null’altro amante, uso di bene amare otrapassante19. 30
Ben mi deggio20 allegrare d’Amor che ’mprimamente ristrinse la mia mente
d’amar voi, donna fina21; ma più deggio laudare voi, donna caunoscente22, donde lo meo cor sente la gioi che mai non fina23. 45 Ca se tutta Messina24 – fusse mia, senza voi, donna, nente mi saria25: quando con voi a sol mi sto, avenente26, ogn’altra gioi mi pare che sia nente. 40
La vostra gran bieltate27
m’ha fatto, donna, amare, e lo vostro ben fare m’ha fatto cantadore28: ca, s’eo canto la state, quando la fiore apare, 55 non poria ubrïare di cantar la fred[d]ore29. Così mi tene Amore – corgaudente30, ché voi siete la mia donna valente. Solazzo e gioco mai non vene mino31: 60 così v’adoro como servo e ’nchino32. 50
14 spande: si diffonde. 15 mena: prova (lett. “porta in sé”). 16 spanta: dilagata (riferito a gioi). 17 non ha dove s’asconda: non ha luogo [nel cuore] dove possa essere contenuta.
18 amoroso: pieno d’amore. 19 uso di bene amare otrapassante: abituato ad amare al grado più elevato. L’espressione non è del tutto chiara. 20 deggio: devo. 21 d’Amor… donna fina: del fatto che Amore ha indotto la mia mente per prima cosa (’mprimamente) ad amare voi, donna
nobile. Questo è un richiamo alla fin’amor della poesia trobadorica. 22 caunoscente: saggia. 23 fina: finisce. 24 Messina: è la città d’origine del poeta e qui è considerata emblema di una città ricca e importante. 25 nente mi saria: per me sarebbe niente. 26 avenente: bella. 27 bieltate: bellezza. 28 lo vostro ... cantadore: il vostro nobile comportamento mi ha fatto diventare poeta d’amore.
29 ca, s’eo… la fred[d]ore: perché se io canto d’estate quando appare il fiore (la fiore è un francesismo, come la freddore al v. 56), non potrei dimenticare (ubrïare “obliare”) di cantare d’inverno. Nella poesia trobadorica il cantar d’amore è associato spesso alla stagione bella, primaverile. Il poeta invece asserisce di voler cantare in tutte le stagioni, tanto grande è la gioia che prova. 30 corgaudente: con il cuore gioioso. 31 Sollazzo… mino: non viene mai meno per me il piacere. 32 ’nchino: vi porgo omaggio in ginocchio.
La scuola siciliana 1 239
Analisi del testo Il tema e la struttura La poesia celebra la gioia di un amore che, dopo l’attesa tormentosa, trova risposta e corresponsione da parte della donna amata. Il componimento è articolato in cinque stanze. La prima è dominata dall’espressione della gioia del poeta amante, il cui desiderio amoroso finalmente è accolto dalla donna: l’avverbio gioiosamente apre in modo suggestivo la composizione; il termine gioi torna altre due volte, intensificato dalla ripetizione del termine allegranza, ripreso dal verbo m’allegro. La seconda stanza è dedicata alla lode entusiastica della donna, attraverso riferimenti alla natura (le rose, i fiori, la luce del sole), ma anche alle leggendarie qualità degli animali, celebrate nei bestiari medievali (in questo caso alla leggenda riguardante la pantera, secondo la quale la bocca dell’animale emanava un particolare profumo). Alla sua donna il poeta si dichiara fedele (secondo la tradizione provenzale) più di quanto lo fossero al loro signore (il Veglio della Montagna) i fumatori di hashish, che, per ubbidirgli, arrivavano a commettere anche dei delitti (come ricorda un celebre passo de Il Milione di Marco Polo). (➜ C3 T3 OL) Con la terza stanza si torna al poeta e al tema della gioia d’amore, che si traduce in pienezza inusitata dell’ispirazione poetica. Un’ispirazione travolgente, che non trova eguali negli altri poeti che hanno provato l’intensità dell’amore. La quarta stanza introduce in forma embrionale un motivo poi ricorrente negli stilnovisti, ovvero il perfezionamento che l’amore per la donna (qui celebrata anche per le sue qualità interiori, per la sua nobiltà e saggezza) attiva nel poeta. La quinta e ultima stanza riprende l’omaggio alla donna associandolo strettamente al motivo della gioia, vero e proprio filo rosso dell’intera canzone, e del canto poetico che ne deriva.
I legami con la poesia trobadorica La canzone evidenzia uno stretto legame con il modello provenzale; in particolare, il rapporto fra il poeta amante e la donna è rappresentato come un rapporto di vassallaggio: lo dimostrano i vv. 23-24, in cui il poeta, con un paragone iperbolico, si dichiara più fedele alla donna di quanto non fossero gli assassini al loro signore e, soprattutto, il verso finale della canzone, nel quale è riprodotto l’omaggio feudale del cavaliere al suo signore: così v’adoro como servo e ’nchino. Anche la raffigurazione della donna risponde al modello della fin’amor, come evidenziano gli aggettivi che ad essa si riferiscono (fina, v. 40; caunoscente, v. 42; avenente, v. 47; valente, v. 58): la donna è evocata sia nelle sue qualità fisiche sia in quelle morali, in un modo che prefigura la “lode” stilnovistica. Infine l’immagine della gioia che si trova ai vv. 57-59 si concretizza con i termini canonici del lessico poetico cortese, che rimandano alla vita della corte (solazzo/gioco).
Una ricca strumentazione retorico-stilistica La canzone è una prova di grande sapienza retorica. Si susseguono molte immagini comparative, tratte soprattutto dalla realtà naturale (ma non solo): antitesi, come ai vv. 5-6; figure etimologiche, come ai vv. 16-17 (aulitosa... aulente, aulore); iperboli, adynaton (l’espressione Ca se tutta Messina fusse mia). Non mancano rime equivoche: ai vv. 21-22 il verbo sete (“siete”) rima con il sostantivo sete; ai vv. 40-44 l’aggettivo fina riferito alla donna è posto in rima con il verbo fina (“finisce”).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in una frase il contenuto di ogni stanza. I stanza II stanza III stanza IV stanza V stanza
240 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
LESSICO 2. Analizza il lessico e rintraccia le espressioni e i termini che rimandano alla tradizione provenzale. STILE 3. Motivo centrale della canzone è la felicità; per questo motivo alla parola chiave gioi (v. 4) si riconnettono molti termini appartenenti allo stesso campo semantico: rintracciali. 4. Individua le similitudini e spiegane il senso in rapporto al contesto. 5. Indica a quale campo semantico fanno riferimento i termini solazzo e gioco (v. 59).
Interpretare
T5
CONFRONTO TRA TESTI 6. Ricollega la canzone ai caratteri propri della lirica siciliana e indicane i debiti rispetto alla poesia provenzale.
Tenzone di donna (forse Nina) e un anonimo Si tratta di una tenzone (duello verbale) molto in uso nella lirica del periodo medievale ovvero sonetti di botta e risposta concepiti spesso come esercizio poetico.
T5a
Anonimo (forse Nina Siciliana)
Tapina ahimè, ch’amava uno sparvero Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
La poetessa è consapevole di aver dato il suo amore a un uomo inaffidabile, che come uno sparviero se ne è andato via.
Tapina ahimè1, ch’amava uno sparvero: amaval tanto ch’io me ne moria; a lo richiamo ben m’era manero2, e dunque pascer troppo nol dovia. 5
Or è montato e salito sì altero3, as[s]ai più alto che far non solia ed è asiso dentro a uno verzero4: un’altra donna lo tene in balìa5.
Isparvero mio, ch’io t’avea nodrito6, 10 sonaglio d’oro ti facea portare perché dell’uc[c]ellar fosse7 più ardito: or se’ salito sì come lo mare, ed ha’ rotti li geti8 e se’ fug[g]ito, quando eri fermo nel tuo uc[c]ellare.
La metrica Sonetto con schema di rime ABAB ABAB CDC DCD. 1 Tapina ahimè: Povera me. 2 manero: docile, domestico.
3 Or… altero: ora è volato e salito tanto in alto. 4 ed è… verzero: e si è stabilito dentro un giardino. 5 in balìa: in suo potere.
6 nodrito: allevato. 7 fosse: fossi. 8 geti: le pastoie applicate alle zampe dei rapaci. Qui è metafora della servitù d’amore, rotta dall’uomo amato.
La scuola siciliana 1 241
Anonimo
T5b Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
Vis’ amoros’, angelico e clero L’uomo accusato di aver lasciato la sua amata per un’altra donna, rifiuta le accuse e nega tutto.
Vis’ amoros’1, angelico e clero, in cui regna savere e cortesia, non v’apellate di tapin mestero2 per creder cosa ch’es[s]er non poria. 5
Ch’io partisse da voi core e penzero? 3 Inanti foss’io morto quella dia4: ch’io altra gioia non voglio né spero se no la vostra gaia segnoria5.
E ben confesso, sono alti salito, 10 pensando che cangiato6 son d’amare da voi, cui sono fedele e gechito7. Chi altro vi fa credere o pensare è disleale, larone e traìto8, che vuol la nostra gioia disturbare.
La metrica Sonetto con schema di rime AB AB AB AB CDC DCD
1 Vis’ amoros’: viso che fa innamorare. 2 di tapin mestero: disgraziata. 3 Ch’io…penzero?: [Credeste] che io allontanassi da voi il mio cuore e la mia mente? 4 dia: dal latino die, giorno. 5 segnoria: signoria. 6 cangiato: ricambiato. 7 gechito: sottomesso (gallicismo). 8 larone e traìto: mascalzone e traditore.
Analisi del testo La metafora dello sparviero La poetessa si definisce infelice in quanto ha mal riposto il suo amore in un uomo che si è rivelato essere uno sparviero, un uomo inaffidabile che è volato via dalla sua donna per vivere ora in potere di un’altra. A nulla è servito il fatto che lei lo amasse da morire. Nella descrizione dell’evento emerge lo stupore della donna in quanto il suo amato appariva docile al suo richiamo e si rammarica di averlo amato troppo. Di derivazione provenzale è sicuramente il servizio d’amore dell’uomo nei confronti della donna.
La netta smentita Nel sonetto di risposta l’uomo respinge tutte le accuse mossegli dalla sua amata, dichiarando di non aver mai commesso il fatto e di non desiderare altro che il gioioso servizio d’amore. Nell’incipit della risposta si colloca una sorta di captatio benevolentiae in quanto alle accuse l’uomo risponde con una lode, definendo il viso della sua amata angelico e luminoso, luogo in cui regnano saggezza e cortesia. Il sonetto in chiusura fa riferimento ai malparlieri, ovvero gli invidiosi che gelosi della felicità degli amanti cercano di separarli con bugie e invenzioni. Questi elementi di ascendenza provenzale confermano gli stretti contatti tra i primi poeti di lirica in volgare in Italia e la poesia provenzale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto delle due poesie in non più di 10 righe. ANALISI 2. Perché l’uomo amato viene paragonato a uno sparviero? STILE 3. Quale figura retorica riconosci al v. 12?
Interpretare
SCRITTURA 4. Rintraccia i motivi tipici della lirica provenzale e siciliana, e scrivi un testo di max 20 righe per ripercorrere gli elementi più importanti delle due manifestazioni poetiche.
242 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Rinaldo d’Aquino
T6 I poeti della scuola siciliana, a c. di C. Di Girolamo, Mondadori, Milano 2008
Giamäi non mi conforto In questa canzonetta, conosciuta anche come Lamento per la partenza del crociato, una voce femminile esprime in forma di monologo il suo dolore per la partenza dell’amato, arruolatosi per una crociata in Terrasanta (forse la sesta, a cui partecipò anche Federico II). I 5 II 10 15 III 20
Giamäi non mi conforto né mi voglio ralegrare1, le navi so’ giute al porto2 e vogliono collare3, vassene lo più gente4 in terra d’oltramare5: oimè, lassa dolente6, como deggio fare? Vassene in altra contrata7 e no lo mi manda a dire8 ed io rimagno ingannata: tanti sono li sospire che mi fanno gran guerra la notte co la dia9, né ’n cielo ned in terra non mi par ch’io sia. Santus, santus, santus Deo che ’n la Vergine venisti10, salva e guarda11 l’amor meo, poi da me lo dipartisti12. Oit alta potestade temuta e dotata, la mia dolze amistade ti sia acomandata13!
La metrica Canzonetta di otto strofe di otto versi ciascuna. 1 né mi voglio ralegrare: non ho motivo di gioire. 2 so’ giute al porto: sono andate in porto. L’indicazione sembra collegare la donna e la sua storia a una città di mare. 3 vogliono collare: stanno per salpare. collare indica più esattamente “issare le vele” (cfr. anche v. 49 e nota). 4 vassene lo più gente: il più gentile (cioè di animo nobile, secondo la terminologia cortese) se ne va (vassene).
5 in terra d’oltramare: in Terrasanta. 6 lassa dolente: infelice e prostrata dal
12 poi da me lo dipartisti: poiché da me
dolore. 7 in altra contrata: in un paese lontano. 8 e no lo... dire: e non me lo fa sapere. 9 tanti... dia: tanti sono i sospiri, cioè le sofferenze (indicare l’effetto per la causa rappresenta una metonimia), che mi tormentano notte e giorno (dia, femminile). 10 venisti: ti incarnasti. 11 guarda: proteggi.
13 Oit alta... acomandata: o alta potenza
lo allontanasti. (di Dio) oggetto di timore (da parte degli uomini), il mio dolce amore (dolze amistade) ti sia raccomandato; dotata (“temuta”) è un francesismo che ribadisce l’idea della venerazione unita al timore della dittologia sinonimica temuta e dotata. Oit, da Oi, equivale a “ohimè”, con la -t finale per evitare l’accumulo cacofonico di vocali.
La scuola siciliana 1 243
25
IV
30 V 35 40 VI 45 VII 50 55 VIII 60
La croce salva la gente e me face disvïare, la croce mi fa dolente e non mi val Dio pregare14. Oi croce pellegrina15, perché m’ài sì distrutta? Oimè, lassa tapina16, ch’i’ ardo e ’ncendo tuta17! Lo ’mperadore con pace tuto lo mondo mantene ed a meve guerra face18, che m’à tolta la mia spene19. Oit alta potestate temuta e dottata, la mia dolze amistate20 vi sia acomandata! Quando la croce pigliao, certo no lo mi pensai, quelli che tanto m’amao ed i’·llui tanto amai, ch’i’ ne fui batuta e messa in pregionia e in celata tenuta per la vita mia21. Le navi sono a le còlle22, in bonor23 possan andare, e lo mio amore colle e la gente che v’à andare24. Oi Padre Crïatore, a porto le conduce, ché vanno a servidore de la santa croce25. Però ti priego, dolcetto26, tu che·ssai la pena mia, che me ne face un sonetto e mandilo in Soria27, ch’io non posso abentare28 la notte né la dia: in terra d’oltremare sta la vita mia!
14 La croce... pregare: la croce salva i popoli e per me è causa di smarrimento; la croce è causa del mio dolore e non mi giova pregare Dio.
15 croce pellegrina: la croce portata dai crociati come loro emblema nel pellegrinaggio verso la conquista della Terrasanta. 16 lassa tapina: infelice misera.
244 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
17 ardo e ’ncendo tuta: i due sinonimi accoppiati indicano l’intensità della sofferenza. 18 Lo ’mperadore... face: l’imperatore Federico II governa con la pace tutto il mondo e (invece) a me fa guerra. 19 la mia spene: la mia speranza. Indica l’amato in cui riponeva, appunto, tutte le sue speranze. 20 amistate: amicizia, sinonimo di “amore”. Cfr. anche nota 13. 21 Quando... mia: quando il mio amato prese la croce (cioè si fece crociato), non immaginai di essere abbandonata, lui che tanto mi amò e io lui tanto amai, al punto che io fui battuta, imprigionata e segregata per tutta la mia vita. Le percosse dei familiari ostili o del marito geloso sono motivi topici della poesia popolareggiante. 22 sono a le còlle: hanno alzato le vele per partire. 23 in bonor: con buon vento. Quindi con buona sorte ed esito favorevole: è un’espressione augurale. 24 lo mio... andare: il mio amore (a sua volta possa andare col vento favorevole) con quelle (colle, per co’ lle, cioè le navi) e con la gente che deve andare. Altri spiegano colle con “raccolgono” (soggetto plurale Le navi al v. 49 con verbo sing.). 25 a servidore... croce: a servire la santa croce. 26 dolcetto: è il poeta, indicato con un vezzeggiativo del nome, a cui la donna chiede di comporre una poesia accompagnata dalla musica (sonetto) da inviare all’amato. 27 Soria: Siria; qui indica genericamente i luoghi delle crociate. 28 abentare: aver pace (meridionalismo).
Analisi del testo L’intreccio di generi Il componimento sembra riferirsi a un evento storico preciso, la sesta crociata (1227-1228), a cui partecipò con un contingente navale Federico II, lo ’mperadore invocato dalla donna nella quinta strofa. Per la corretta interpretazione del testo occorre però tener presente che la poesia d’Oltralpe, assunta a modello da parte dei compositori siciliani, aveva codificato il genere delle “canzoni di crociata”: la “canzonetta” di Rinaldo potrebbe ispirarsi ad esso, senza necessariamente un’occasione specifica. Il “canto di crociata” in questo caso si presenta, tuttavia, come una variante della canzone d’amore, sempre tipica della tradizione romanza: sviluppa infatti come motivo dominante il legame amoroso della donna con il crociato, la cui partenza diventa ostacolo insormontabile per il loro rapporto e causa di sofferenza. La prospettiva lirica, continuamente ribadita dalle espressioni di lamento, si rivela anche nel giudizio espresso sulla politica di Federico II (vv. 33-34): mentre per tutto il mondo rappresenta un’occasione di pace, per la donna è causa di guerra, cioè è causa d’infelicità personale. Il rilievo dato al motivo della sofferenza collega il “lamento” a un altro genere, quello della chanson de femme, la canzone sulla donna, tipologia più popolare e contraddistinta dal motivo conduttore dell’amore contrastato. Ad esso sembra riferirsi l’accenno all’opposizione e addirittura ai maltrattamenti dei parenti (vv. 45-48); anche la semplicità delle espressioni d’amore e il lamento nei confronti della croce, ritenuta dalla donna responsabile della sua sventura, rimandano a un repertorio tematico popolare.
Lo stile realistico-popolare: una scelta letteraria Il componimento di Rinaldo d’Aquino era stato esaltato dalla critica romantica come espressione di una poesia spontanea e popolare. In realtà già l’intreccio di generi a cui si è appena fatto riferimento testimonia la natura colta del testo, che attinge a ben precisi precedenti letterari nella tradizione romanza. Lo stesso si può dire delle scelte stilistiche operate nel testo (e consentite dal genere metrico meno impegnativo della canzonetta, qui scelto dall’autore). Rinaldo utilizza consapevolmente un registro popolareggiante: l’alternanza del lamento e dell’invocazione è propria delle formule devozionali diffuse anche nella cultura popolare, le rime sono semplici, la sintassi piana e caratterizzata da un andamento colloquiale, il lessico semplice, vicino al parlato. Conferisce, infine, un ritmo facile al testo la ripetizione di versi e gruppi di versi. Ne risulta in apparenza un’appassionata e immediata “confessione”, ma si tratta invece di una sapiente operazione letteraria.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della canzone in almeno 10 righe. COMPRENSIONE 2. Qual è il tema del componimento? 3. Nel testo, ai lamenti si alternano le invocazioni: a chi si rivolge la donna e che cosa chiede? ANALISI 4. Perché la donna si sente ingannata dall’amato (v. 11)? 5. Spiega il v. 26 (e me face disvïare): quale responsabilità è attribuita dalla donna alla croce e perché?
Interpretare
LESSICO 6. Rintraccia nel testo (indicando i versi) le espressioni di stile popolaresco o proprie di un registro colloquiale.
Studiare con l’immagine Commenta l’immagine a partire dalla didascalia e da alcune suggestioni del testo letto.
La partenza dell’amato, miniatura tratta dal Salterio di Luttrel (1320-1345, British Library, Londra)
La scuola siciliana 1 245
PER APPROFONDIRE
La canzone e la canzonetta La forma metrica principale introdotta dai provenzali è la canzone (canso in provenzale): nel nome essa testimonia la fusione fra testo lirico e musica tipica della poesia trobadorica e destinata a perdersi in Italia già con i siciliani. Nella nostra tradizione lirica è sicuramente il genere metrico più nobile: già Dante, nel De vulgari eloquentia, colloca la canzone al primo posto, per lo stile alto e i contenuti elevati che tratta. La canzone è caratterizzata dalla presenza di più strofe dette stanze (da cinque a sette) e da una forte simmetria: queste (dette coblas in provenzale) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema di rime. Le stanze di una canzone possono essere indivisibili, cioè prive di articolazione interna oppure divisibili, come è normale nella canzone italiana. I nomi usati sono fronte per la prima parte della stanza e sirma per la seconda. La fronte può essere ulteriormente divisibile in due piedi e la sirma, prima di Petrarca, in due volte. Le combinazioni possibili per la stanza divisibile sono quattro: stanza di fronte e sirma (non contemplata da Dante); stanza di piedi e sirma (Petrarca); stanza di fronte e volte; stanza di piedi e volte. Tra la fronte e la sirma ci può essere un verso di collegamento, detto chiave. Talvolta (spesso in Dante e sempre in Petrarca) si verificano legami tra le strofe: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma, istituendo una concatenazione tra le due parti della canzone; ma fin dai tempi della lirica provenzale
esistono diversi altri artifici finalizzati a creare un legame tra le strofe e, dunque, a rafforzare l’armonia e la simmetria della canzone: l’ultima rima di una stanza viene ripresa nel primo verso della successiva (coblas copcaudadas) oppure all’inizio di ogni stanza viene ripresa, magari modificata, l’ultima parola della strofa precedente (coblas capfinidas), come nella celebre canzone di Guido Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore. La canzone si può chiudere con una strofa più breve, detta congedo, con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa. La regolare successione delle parti e la simmetria architettonica proprie della canzone, consacrate dal Canzoniere di Petrarca, vengono rispettate per secoli nella tradizione lirica. Sarà Leopardi nel primo Ottocento, durante la sua ricerca di una poesia che sia “canto” e libera espressione dei moti dell’animo, a infrangere lo schema costrittivo della canzone per dare vita alla cosiddetta canzone libera, che abbandona lo schema delle strofe tutte uguali e alterna liberamente endecasillabi e settenari, con rime che ricorrono senza vincoli. Se una canzone è composta di soli settenari viene detta canzonetta. Riportiamo un esempio di canzone in stanze di piedi e volte; in questo caso è divisibile sia la prima sia la seconda parte. A questo tipo appartiene la stanza della canzone di Jacopo da Lentini Madonna dir vo voglio.
Madonna, dir vo voglio como l’amor m’à priso,
I PIEDE
inver’ lo grande orgoglio che voi bella mostrate, e no m’aita.
FRONTE 5O i lasso, lo meo core, che ‘n tante pene è miso che vive quando more
II PIEDE
per bene amare, e teneselo a vita. Dunque mor’e viv’eo? 10 No, ma lo core meo more più spesso e forte
I VOLTA
Che no faria di morte naturale, SIRMA per voi, donna, cui ama, più che se stesso brama, 15 e voi pur lo sdegnate: amor, vostra ’mistate vidi male. (Pietro G. Beltrami, La metrica italiana, Il Mulino 1991)
246 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
II VOLTA
Cielo d’Alcamo
T7 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
online
audio e video Dario Fo, Mistero Buffo Interpretazione di Cielo d’Alcamo
EDUCAZIONE CIVICA
Rosa fresca aulentissima
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
Si tratta di un vivace dialogo di 32 strofe (in tutto 160 versi): un “botta e risposta” tra un cavaliere e una donna del popolo che egli vorrebbe far sua, ma che lo rifiuta con motivazioni sempre più deboli, fino alla resa finale (lo schema e il contenuto richiamano direttamente il genere trobadorico della pastorella). «Rosa fresca aulentis[s]ima
ch’apari inver’ la state, pulzell’ e maritate: tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate; per te non ajo abento notte e dia, 5 penzando pur di voi, madonna mia.» le donne ti disiano,
«Se di meve trabàgliti,
follia lo ti fa fare. a venti asemenare, l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare: avere me non pòteri a esto monno; 10 avanti li cavelli m’aritonno.» Lo mar potresti arompere,
«Se li cavelli artón[n]iti,
avanti foss’io morto, lo solacc[i]o e’l diporto. Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto, bono conforto dónimi tut[t]ore: 15 poniamo che s’ajunga il nostro amore.» ca’n is[s]i [sì] mi pèrdera
«Ke ’l nostro amore ajùngasi,
non boglio m’atalenti cogli altri miei parenti, guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti. Como ti seppe bona la venuta, 20 consiglio che ti guardi a la partuta.» se ci ti trova pàremo
La metrica Contrasto di trentadue strofe totali, ciascuna di cinque versi, costituite da tre versi alessandrini con primo emistichio sdrucciolo e secondo emistichio piano, seguiti da un distico di endecasillabi a rima baciata. Lo schema metrico è AAA BB.
1-5 «Rosa… madonna mia»: nella prima strofa è il cavaliere che prende la parola per lodare la fanciulla e confessarle il suo tormento amoroso. «O rosa fresca profumatissima (aulentissima) che appari al sopraggiungere dell’estate, ti desiderano le donne, sia fanciulle (pulzell’) sia maritate: traimi da questi fuochi (focora) d’amore, se lo vuoi (se t’este a bolontate); a causa tua (per te) non ho pace (abento) né di notte né di giorno, continuando a pensare (penzando pur) a voi, madonna mia». 6-10 «Se di meve… m’aritonno»: la seconda strofa, con il rifiuto netto della donna, imposta la situazione del contra-
sto. «Se per me ti tormenti (se di meve trabàgliti), sei folle. Potresti arare (arompere) il mare, seminare ai venti, mettere insieme (asembrare) tutti i beni di questa terra, non potresti (pòteri) avermi in questo mondo; piuttosto mi taglio i capelli (la donna minaccia dunque di farsi monaca)». “Arare il mare”, “seminare al vento”, “assommare le ricchezze del mondo” sono immagini rispondenti alla figura retorica dell’adynaton, ovvero l’indicazione di condizioni per definizione impossibili a realizzarsi (in greco adynaton significa appunto “impossibile”). 11-15 «Se li cavelli artón[n]iti… il nostro amore»: «Se tu ti tagli i capelli (e quindi se ti fai monaca) prima possa io essere ucciso, perché (ca) in essi (i capelli dell’amata) perderei la mia gioia e il mio diletto (la coppia sinonimica è di derivazione provenzale: solatz et deport). Quando passo qui (ci) e ti vedo, rosa fresca dell’or-
to, mi doni sempre (tuttore) gioia: facciamo in modo che si congiunga il nostro amore». L’espressione, che allude spregiudicatamente all’unione fisica, contrasta con le lodi della donna, ispirate al codice amoroso cortese. 16-20 «Ke ’l nostro amore… a la partuta»: la donna, ribadendo il proprio diniego, prospetta al cavaliere i pericoli che potrebbero derivare dalla sua insistenza. «Non voglio che mi piaccia (atalenti: gallicismo) il realizzarsi del nostro amore: se mio padre, (pàremo: la posposizione del possessivo in posizione enclitica è ancora presente nei dialetti meridionali) con gli altri miei parenti, ti trova qui (ci), bada che essi, che corrono forte (questi forti correnti) non ti sorprendano. Ti è andata bene la venuta: ti consiglio di fare attenzione alla partenza».
La scuola siciliana 1 247
«Se i tuoi parenti trova[n]mi,
e che mi pozzon fare? di dumili’ agostari: non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari. Viva lo ’mperadore, graz[i’] a Deo! 25 Intendi, bella, quel che ti dico eo?» Una difensa mèt[t]oci
«Tu me no lasci vivere
né sera né maitino d’auro massamotino. Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino, e per ajunta quant’ha lo soldano, 30 toc[c]are me non pòteri a la mano.» Donna mi so’ di pèrperi,
«Molte sono le femine
c’hanno dura la testa, l’adimina e amonesta: tanto intorno procàzzala fin che.ll’ ha in sua podesta. Femina d’omo non si può tenere: 35 guàrdati, bella, pur de ripentere.» e l’omo con parabole
«K’eo ne [pur ri]pentésseme?
davanti foss’io aucisa per me fosse ripresa! [A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa. Aquìstati riposa, canzoneri: 40 le tue parole a me non piac[c]ion gueri.» ca nulla bona femina
«Quante sono le schiantora
che m’ha’ mise a lo core, la dia quanno vo fore! Femina d’esto secolo tanto non amai ancore quant’amo teve, rosa invidïata: 45 ben credo che mi fosti distinata.» e solo purpenzànnome
21-25 «Se i tuoi parenti… dico eo?»: il
26-30 «Tu me no… a la mano»: «Tu non
36-40 «K’eo ne… gueri»: la donna, ri-
cavaliere, di fronte alla larvata minaccia della donna, prospetta come difesa una legge, emanata da Federico II nel 1231, che imponeva una forte multa agli aggressori. «Se i tuoi parenti mi trovano, che cosa mi possono fare? Io metto avanti una multa di duemila augustali (monete che Federico aveva fatto coniare nel 1231: il componimento non può dunque essere precedente a questa data): non mi toccherà tuo padre (pàdreto) per quante ricchezze sono in Bari (qui sinonimo di città molto ricca). Viva l’imperatore, grazie a Dio!» L’esclamazione implica che Federico sia ancora vivo: il componimento non può quindi essere posteriore al 1250, data della morte dell’imperatore. Si allude a una disposizione in base alla quale un aggredito, appellandosi all’imperatore, poteva indicare la multa da comminare agli aggressori.
mi lasci vivere né di sera né di mattina. Io sono una donna preziosa (i pèrperi erano monete d’oro bizantine; il massamotino era una moneta d’oro in uso in Africa settentrionale e Andalusia). Se mi facessi dono dei tesori del Saladino e in più (per ajunta) del soldano (il sultano d’Egitto) non mi potresti (comunque) toccare». 31-35 «Molte sono le femine… pur de ripentere»: «Sono molte le donne dalla testa dura, e l’uomo con le parole le domina e le convince: tanto la incalza (procàzzala), che la riduce in suo potere (si passa dal plurale al singolare). La donna non può fare a meno dell’uomo: bella, sta’ attenta di non doverti pentire».
sentita («Pentirmi io?»), riprende le ultime parole del cavaliere e, per giustificare la sua resistenza, avanza ragioni morali: vorrebbe essere uccisa piuttosto che un’altra donna per bene (nulla bona femina) fosse a causa sua rimproverata. E aggiunge ironicamente: «Ieri sera sei passato di qua, correndo a perdifiato (a la distesa). Riposati, canterino (canzoneri): le tue parole a me non piacciono affatto (gueri)». 41-45 «Quante sono… distinata»: «Quanti sono gli affanni (schiantora, plurale della forma di focora, al v. 3) che mi hai posto nel cuore, anche solo al pensiero di te (e solo purpenzànnome) il giorno (la dia) quando esco! Io non ho ancora mai amato una donna quanto amo te, rosa desiderata (invidïata): davvero credo che tu mi sia stata destinata».
248 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
«Se distinata fósseti,
caderia de l’altezze, in teve mie bellezze. Se tut[t]o adivenìssemi, tagliàrami le trezze, e consore m’arenno a una magione, 50 avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone.» ché male messe fòrano
«Se tu consore arènneti,
donna col viso cleri, e rènnomi confleri: per tanta prova vencerti fàralo volonteri. Conteco stao la sera e lo maitino: 55 besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino.» [...] a lo mostero vènoci
[A questo punto la donna chiede al cavaliere di presentarsi a suo padre e a sua madre per chiedere la sua mano. Se acconsentiranno, vuole essere condotta in chiesa e sposata: solo allora cederà alle richieste amorose del cavaliere. Però, dopo una nuova serie di schermaglie, la donna viene a più miti consigli: il cavaliere giuri almeno fedeltà eterna sui Vangeli. Con le due strofe che seguono si chiude la composizione.] «Le Vangel[ï]e, càrama?
ch’io le porto in seno: (non ci era lo patrino). Sovr’esto libro jùroti mai non ti vegno meno. Arcompli mi’ talento in caritate, 155 ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate.» a lo mostero présile
«Meo sire, poi juràstimi,
eo tut[t]a quanta incenno. da voi non mi difenno. S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno. A lo letto ne gimo a la bon’ora, 160 ché chissa cosa n’è data in ventura.» Sono a la tua presenz[ï]a,
46-50 «Se distinata… ’n la persone»: la donna reagisce indignata alle ultime parole del cavaliere: cadrebbe proprio in basso (caderia de l’altezze) se fosse stata destinata al cavaliere, la sua bellezza sarebbe proprio sprecata per uno come lui. E aggiunge: «Se mi capitasse tutto ciò (se tut[t]o addivenìssemi), mi taglierò le trecce e mi ritirerò come suora in un convento (magione) prima che tu possa mettere le tue mani su di me». 51-55 «Se tu consore… al meo dimino»: pronta la risposta del cavaliere: se la don-
na dal luminoso viso (viso cleri) si farà suora, lui è pronto ad andare allo stesso monastero e a farsi frate (confleri); per vincerla in una gara così importante (tanta prova) lo farà volentieri. Almeno starà con lei sera e mattina: assolutamente deve averla in suo potere (al meo dimino). 151-155 «Le Vangel[ï]e, càrama?… sut[t] ilitate»: «I Vangeli, mia cara? Io li porto sul petto; li ho presi al monastero (non c’era il prete). Ti giuro su questo libro che non verrò mai meno al mio amore. Esaudisci ora il mio desiderio (Arcompli mi’
talento) in modo benigno, perché l’anima mi si sta consumando (l’arma me ne sta in sut[t]ilitate)». 156-160 «Meo sire… in ventura»: a questo punto la donna non può che arrendersi: «Mio signore, dato che hai giurato, io mi accendo tutta quanta (d’amore). Sono davanti a te, da voi non mi difendo. Se ti ho disprezzato (minespreso àjoti), perdono, a voi mi arrendo. Andiamo a letto subito (a la bon’ora), perché chissà che cosa ci riserva la sorte».
Analisi del testo Il genere del “contrasto” Rosa fresca aulentissima è una composizione strutturata in forma di contrasto: una tipologia testuale che implica il confronto tra due personaggi che rappresentano posizioni diverse, se non opposte. Un celebre esempio di contrasto riferito all’ambito della poesia religiosa è Quando t’aliegre, omo d’altura di Jacopone da Todi (➜ C2 T5 ) in cui si confrontano un vivo e un morto. Anche in questo testo, come in Rosa fresca aulentissima, la forma del contrasto implica un “botta e risposta” tra i due interlocutori-contendenti; in molte strofe c’è una ripresa diretta e precisa di un’espressione contenuta nella strofa precedente: ad es. li cavelli m’aritonno // Se li cavelli artón[n] iti (vv. 10-11), poniamo che s’ajunga il nostro amore // Ke ’l nostro amore ajùngasi (vv. 15-16).
La scuola siciliana 1 249
Chi era l’autore del contrasto? L’autore di questo componimento, che ci è stato tramandato nello stesso codice assieme ai testi dei poeti della corte di Federico II, è stato identificato da un erudito del Cinquecento in un certo Cielo (probabilmente toscanizzazione del copista per Celi, diminutivo di Miceli, ovvero Michele) d’Alcamo (cittadina della Sicilia nord-occidentale). Si tratta forse di un giullare, che dimostra però piena padronanza dei modi della poesia cortese e un’abilità metrico-retorica non consueta nella produzione giullaresca.
Un esercizio letterario a scopo probabilmente parodico Non si deve immaginare, dietro la composizione, una situazione reale: si tratta di un esercizio letterario, polemico verso la letteratura d’amore “alta”. I due contendenti appartengono, così sembra, più o meno alla stessa classe sociale e la donna, dopo aver avuto un’assicurazione puramente formale, alla fine cede all’insistenza dell’uomo e lo fa da consenziente. Lo scopo della composizione è probabilmente parodico nei confronti della tradizione cortese: l’obiettivo stesso dell’uomo che dialoga con la donna – la conquista sessuale – appare volutamente contrapposto all’idealizzazione dell’amore presente nei poeti della Magna Curia, che in seguito caratterizzerà ancor più, gli stilnovisti. Inoltre lo scrittore contamina consapevolmente modi e termini della poesia aulica con quelli popolareschi. Di conseguenza, anche il pubblico a cui presumibilmente l’autore si rivolge non è di persone incolte, incapaci di apprezzare la scaltrita parodizzazione delle modalità cortesi.
Un intarsio linguistico-stilistico multiforme Il contrasto utilizza un linguaggio e un registro stilistico compositi: la lingua di fondo è il siciliano medio – dunque non illustre (come invece è la lingua usata dai poeti della scuola siciliana) – arricchito da francesismi (come asembrare, atalenti, confleri, mosteri) e provenzalismi. A volte la contaminazione delle forme dialettali con i gallicismi suscita un effetto quasi comico. L’autore mostra piena padronanza delle formule cortesi, a cominciare dall’associazione donnarosa, intensificata dal raffinato aggettivo superlativo aulentissima, che apre il contrasto. Un altro esempio è il binomio sinonimico solacc[i]o-diporto al v. 12, ricorrente nella poesia trobadorica o ancora l’attributo viso cleri, che allude alla luminosa bellezza della donna (cfr. ad esempio Jacopo da Lentini «quella ch’ha blonda testa e claro viso»). D’altra parte queste formule cortesi sono associate – con stridente contrasto, appunto – a richieste di una corresponsione molto concreta da parte del cavaliere (poniamo che s’ajunga il nostro amore al v. 15) e da bruschi abbassamenti di tono (Molte sono le femine c’hanno dura la testa al v. 31). Anche da questi pochi esempi si può dunque comprendere che il contrasto non è certo frutto di un’ispirazione popolaresca e ingenua, ma al contrario nasce da una sofisticata operazione letteraria.
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
SInteSI 1. Sintetizza il componimento in 10 righe. coMPrenSIone 2. Chi sono i due contendenti del contrasto? Quale è l’oggetto della contesa? AnALISI 3. I due protagonisti sono contrassegnati da una forte personalità; rintraccia nel testo i termini e le espressioni che descrivono l’uomo e la donna. 4. Quali riferimenti del testo ci permettono di stabilirne la datazione? 5. L’uomo attua una vera e propria “strategia di seduzione” nei confronti della donna. Mettine in luce le principali modalità. LeSSIco 6. Fai una scheda con le espressioni popolaresche e quelle cortesi.
Interpretare
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
ScrItturA 7. In che senso questo testo può rappresentare una parodia della letteratura e in particolare della lirica cortese?
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
8. Nel testo il cavaliere afferma che «molte sono le femine c’hanno dura la testa, e l’omo con parabole l’adimina e amonesta». Secondo te, tenendo conto di quest’affermazione, quale immagine della donna emerge? È possibile parlare di parità di genere? Perché?
250 Duecento e trecento 4 “Ragionard’Amore”
2
I poeti siculo-toscani 1 La poesia nella Toscana comunale Dalla Sicilia alla Toscana Dopo la morte di Federico e il rapido declino della potenza sveva, il “testimone” della poesia lirica passa alla Toscana: una regione emergente, caratterizzata da un grande dinamismo culturale, che ha le sue basi nella prosperità economica di questa zona dell’Italia, creata soprattutto dalla fiorente attività delle banche di Firenze e di Siena e dal traffico commerciale del porto di Pisa. Nei vari comuni toscani fiorisce una produzione lirica i cui autori vengono in genere denominati “siculo-toscani” perché da un lato ereditano l’interesse al tema amoroso e le forme metriche dei siciliani, mentre dall’altro si aprono a tematiche nuove: ad esempio quella della riflessione morale e politica, a volte con toni polemici e satirici, ispirate dalla vivace realtà comunale nella quale vivono e scrivono. Nel complesso si può dire che l’universo poetico compatto della lirica siciliana, privo di un centro anche politico unificante, si sfaldi per dar vita a un policentrismo culturale; vengono contemporaneamente alla ribalta Lucca (nella quale vive e opera Bonagiunta Orbicciani), Pistoia, Pisa, Arezzo e infine Firenze, dove il gusto lirico, grazie alle personalità di Monte Andrea e di Chiaro Davanzati, inizia a orientarsi verso modalità relativamente autonome rispetto alla scuola siciliana. Guittone d’Arezzo Il maggiore dei poeti siculo-toscani è considerato Guittone d’Arezzo (1235 ca.-1294?), che, esempio paradigmatico di intellettuale comunale, segue con passione e partecipazione gli eventi politici del Comune di Arezzo e ne lamenta la decadenza e la lotta tra le fazioni. La sua ampia produzione (50 canzoni e ben 251 sonetti, oltre a numerose lettere) è divisa in due fasi: nella prima, accanto al tema amoroso, emerge significativamente il tema politico, trattato con una passione che riflette la diretta partecipazione del poeta alle lotte tra guelfi e ghibellini che agitavano il panorama politico dei comuni toscani (Guittone apparteneva al partito guelfo); nella seconda, successiva alla sua decisione di lasciare la sua città e la sua stessa famiglia per entrare in una confraternita religiosa, dominano testi di argomento religioso e morale. La forte personalità poetica di Guittone si manifesta nella predilezione per uno stile aspro – vicino, soprattutto nelle prime composizioni, ai modi del provenzale trobar clus – e nella propensione per un uso virtuosistico degli strumenti retorici, che rende i suoi testi ardui a comprendersi. Uno stile che suggestionò molti poeti, ma suscitò la forte critica di Dante, sebbene proprio quest’ultimo fosse stato influenzato dal poeta toscano, come si ricava da vari riferimenti del De vulgari eloquentia. Tumulti ad Arezzo, in una miniatura toscana del XIV secolo.
I poeti siculo-toscani 2 251
Nella Commedia il poeta fiorentino prende nettamente le distanze da Guittone (Pg XXIV, 55-57; XXVI 24-126) e in genere dai poeti siculo-toscani, mettendo in bocca a uno di essi, Bonagiunta Orbicciani, che immagina di incontrare nel Purgatorio, una celebre definizione del “dolce stil novo” che ne sancisce la netta distanza rispetto alle esperienze liriche immediatamente precedenti. Compiuta Donzella Come per Nina Siciliana i critici nel corso del tempo si sono divisi tra chi l’ha considerata tra le prime poetesse della letteratura italiana e chi invece ha pensato che dietro di lei si nascondesse una mano maschile, negandone l’esistenza. Nuove ipotesi confermano l’esistenza della poetessa e la collocano addirittura in un panorama europeo. L’ipotesi è che “compiuta” fosse il nome di battesimo, nome abbastanza diffuso a Firenze tra XIII e XIV secolo. Si ritiene invece che “Donzella” non potesse essere il cognome, anche se era diffuso già in epoca medioevale e tutt’oggi presente in Sicilia e in Toscana. Alla poetessa fanno riferimento un gran numero di testi di autori del 1200; tra questi segnaliamo: la lettera V dell’epistolario di Guittone d’Arezzo; i sonetti di Mastro Rinuccino, i sonetti attribuiti a Maestro Torrigiano. È possibile che lei fosse in contatto con altri poeti del Duecento fiorentino e fosse stata introdotta in qualche circolo letterario della città. A lei si attribuiscono tre sonetti contenuti nel codice Vaticano 3793: A la stagion che ’l mondo foglia e fiora; Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire e Ornato di gran pregio e valenza, ma è possibile che i testi a lei riconducibili possano essere superiori. Nei primi due sonetti compare il motivo del matrimonio forzato e la figura del padre-padrone che vuole obbligare la figlia ad adempiere al suo volere.
La lirica siculo-toscana GENERE
lirica
TEMPO
seconda metà del XIII secolo
LUOGO
comuni toscani (Arezzo, Lucca, Firenze)
LINGUA
volgare toscano
STILE
ricercato, complesso, arduo
TEMI
amoroso, morale e religioso
MODELLO
scuola siciliana e lirica provenzale
AUTORI
Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani
Fissare i concetti I poeti siculo-toscani 1. Quali caratteristiche presenta la poesia dei siculo-toscani rispetto alla lirica siciliana? 2. In quante fasi si può dividere la produzione di Guittone d’Arezzo e quali temi tratta? 3. Quale stile utilizza Guittone nelle sue poesie? 4. Come risulta composto il corpus delle poesie di Compiuta Donzella?
252 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Guittone d’Arezzo
T8 Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 2
La canzone qui riprodotta è la più nota tra quelle di argomento etico-politico di Guittone. Ahi lasso, or è stagion de doler tanto1 a ciascun om che ben ama Ragione2, ch’eo meraviglio u’3 trova guerigione4, ca morto no l’ha già corrotto e pianto5,
l’alta Fior sempre granata6 e l’onorato antico uso romano ch’a certo pèr7, crudel forte villano8, s’avaccio ella no è ricoverata9: ché l’onorata sua ricca grandezza 10 e ’l pregio quasi è già tutto perito e lo valor e ’l poder si desvia10. Oh lasso, or quale dia fu mai tanto crudel dannaggio audito?11 Deo, com’hailo sofrito, 15 deritto pèra e torto entri ’n altezza?12 5
Altezza tanta êlla sfiorata Fiore fo, mentre ver’ se stessa era leale13, che ritenëa modo imperïale, acquistando per suo alto valore
provinci’ e terre, press’o lunge, mante14; e sembrava che far volesse impero sì como Roma già fece, e leggero li era, c’alcun no i potea star avante15. E ciò li stava ben certo a ragione, 20
La metrica Canzone di sei stanze in versi endecasillabi e settenari, costituite da una fronte di due piedi simmetrici e da una sirma indivisa secondo lo schema ABBA CDDC EFGgFfE, seguite da un congedo metricamente identico alla sirma.
1 Ahi lasso… doler tanto: Ahimè, ora è tempo di provare un dolore così intenso. 2 a ciascun… Ragione: da parte di chiunque che (a ciascun om che) ami veramente la Giustizia (Ragione). Ragione, nel senso di “Giustizia”, è una personificazione. 3 u’: dove. 4 trova guerigione: egli possa trovare salvezza (guerigione). 5 ca morto… pianto: [e mi stupisco] che il lutto (corrotto) e il pianto non l’abbiano ancora ucciso (morto). Corrotto sta per lamentazione funebre e forma una coppia sinonimica con pianto. 6 l’alta… granata: in quanto constata che la nobile Firenze (l’alta Fior), un tempo
ricca sempre di frutti (granata). Fior è il giglio (in realtà l’iris o giaggiolo), simbolo di Firenze: per metonimia indica la città; granata è participio passato del verbo granare, “riempirsi di grani o semi”, in senso generico “fruttificare”. 7 e l’onorato… certo pèr: e l’onorevole, antica tradizione romana di certo periscono (ch’a certo pèr). L’espressione antico uso romano richiama la tradizione, ripresa anche da Dante, secondo cui Firenze era stata fondata dai Romani. 8. crudel… villano: crudeltà assai (forte) vergognosa (villano). 9. s’avaccio… ricoverata: se al più presto (s’avaccio) esse non vengono salvate, ripristinate. 10. e lo valor… si desvia: e il valore e la potenza mutano direzione. 11. Oh lasso… audito?: Ahimè, ora in qual giorno (dia) si sentì mai notizia di una tal sciagura (dannaggio)?
12. Deo… ’n altezza?: Dio, come hai potuto (hailo) permettere (sofrito, “sofferto”, cioè sopportato) che il diritto perisca (pèra) e l’ingiustizia (torto) trionfi (entri ’n altezza)? 13 Altezza tanta… leale: Nella sfiorita Firenze vi fu (fo) tanta grandezza (altezza), mentre era leale verso sé stessa. L’aggettivo leale descrive l’unità comunale del passato, contrapposta a un presente caratterizzato dalle lotte intestine tra guelfi e ghibellini. 14 che ritenëa… mante: che essa agiva come la Roma imperiale (modo imperïale) conquistando, grazie al proprio valore, molti (mante) territori e città, vicino e lontano (press’o lunge). 15 e leggero… avante: e sarebbe stato facile (leggero) perché nessuna città poteva superarla (star avante).
I poeti siculo-toscani 2 253
25
ché non se ne penava per pro tanto,
como per ritener giustizi’ e poso16; e poi folli amoroso de fare ciò, si trasse avante tanto17, ch’al mondo no ha canto 30
u’ non sonasse il pregio del Leone18.
Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo tratto l’onghie e li denti e lo valore19, e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore, ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo20.
E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono de la schiatta gentil sua stratti e nati21, che fun per lui cresciuti e avanzati sovra tutti altri, e collocati a bono22; e per la grande altezza ove li mise 40 ennantîr sì, che ’l piagâr quasi a morte23; ma Deo di guerigion feceli dono, ed el fe’ lor perdono24; e anche el refedier poi, ma fu forte e perdonò lor morte25: 45 or hanno lui e soie membre conquise26. 35
Conquis’è l’alto Comun fiorentino, e col senese in tal modo ha cangiato27, che tutta l’onta e ’l danno che dato
16 E ciò… e poso: E ciò le spettava per un giusto motivo (ben certo a ragione): perché in questo non si preoccupava (penava) solo (tanto) del vantaggio che le derivava (per pro), ma anche di mantenere (ritener) la giustizia e la pace (poso). 17 e poi folli… avante tanto: e poiché (poi) divenne desiderosa (folli amoroso, dove folli sta per le fu) di dedicarsi a ciò, divenì così potente (si trasse avante tanto). 18 ch’al mondo… del Leone: che al mondo non esisteva luogo (canto) dove non si celebrasse il valore (pregio) del Leone. Il leone, chiamato Marzocco, è il simbolo del Comune di Firenze: è tradizionalmente rappresentato mentre tiene uno scudo, raffigurante il giglio, con la zampa destra alzata. 19 Leone… lo valore: Ahimè, ora il Leone non c’è più, perché io (ch’eo) vedo che gli (li) hanno portato via (tratto) le unghie, i denti e la forza (valore). 20 e ’l gran lignaggio… a gran reo: e (vedo) la sua nobile stirpe (lignaggio) uccisa con dolore e messa in una crudele prigione con grande ingiustizia (a gran reo). Con lignaggio ci si riferisce alle famiglie guelfe fiorentine, perseguitate in città dopo essere state sconfitte dai ghibellini di
diversi comuni toscani – compresi quelli fuoriusciti da Firenze – nel 1260 nella battaglia di Montaperti. 21 E ciò… stratti e nati: E chi gli [al Leone, ossia a Firenze] ha fatto questo? Quelli che discendono (stratti) e sono nati dalla sua nobile stirpe (schiatta). 22 che fun… a bono: che furono (fun) da lui cresciuti e resi grandi (avanzati sovra) più di tutti gli altri e collocati in una posizione di vantaggio (a bono). Guittone utilizza qui una perifrasi per indicare i cittadini fiorentini di parte ghibellina. 23 e per… a morte: e per la posizione privilegiata (la grande altezza) alla quale li collocò, salirono tanto (ennantîr sì) che lo ferirono (piagâr) quasi a morte. Il riferimento è alla “ferita” all’unità di Firenze causata dalla cacciata dei guelfi da parte dei ghibellini nel 1248; in questo episodio ebbe un ruolo di rilievo Farinata degli Uberti, che compare nel canto X dell’Inferno dantesco. 24 ma Deo… perdono: ma Dio gli fece il dono della guarigione, ed egli (il Leone) li perdonò. Si ricorda, in questo caso, la pace tra le due fazioni nel 1251.
254 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
25 e anche… lor morte: e poi lo ferirono nuovamente (el refedier), ma egli riuscì a resistere e rinunciò a condannarli a morte (perdonò lor morte). Il poeta richiama la congiura (fallita) organizzata da alcune casate ghibelline nel 1258. 26 or hanno… conquise: ora hanno conquistato (hanno… conquise) lui e le sue (soie) membra. Or richiama il presente guittoniano, nel quale i ghibellini, espulsi da Firenze dopo il fallimento del complotto, rientrano da vincitori dopo lo scontro di Montaperti e si spartiscono cariche e ricchezze; anche in questo caso, come nei versi precedenti, il Comune e le sue articolazioni amministrative e politiche sono metaforicamente paragonate al leone e alle sue parti del corpo. 27 Conquis’è… ha cangiato: Il nobile (alto) Comune di Firenze è stato conquistato, e così ha fatto a cambio (cangiato) delle parti con Siena. L’autore descrive il cambiamento degli equilibri in Toscana dopo il 1260: Montaperti è anche la vittoria di Siena, città ghibellina rivale della guelfa Firenze; essa ora può avanzare in territorio avversario e sperare di condizionarne la politica.
li ha sempre, como sa ciascun latino,
li rende28, e i tolle il pro e l’onor tutto29: ché Montalcino av’abattuto a forza, Montepulciano miso en sua forza, e de Maremma ha la cervia e ’l frutto; Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle 55 e Volterra e ’l paiese a suo tene30; e la campana, le ’nsegne e li arnesi e li onor tutti presi ave con ciò che seco avea di bene31. E tutto ciò li avene 60 per quella schiatta che più ch’altra è folle32. 50
Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno, e l’onor suo fa che vergogna i torna33, e di bona libertà, ove soggiorna a gran piacer, s’aduce a suo gran danno
sotto signoria fella e malvagia, e suo signor fa suo grand’ enemico34. A voi che siete ora in Fiorenza dico, che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia35; e poi che li Alamanni in casa avete, 70 servite·i bene, e faitevo mostrare le spade lor, con che v’han fesso i visi, padri e figliuoli aucisi36; e piacemi che lor dobiate dare, perch’ebber en ciò fare 65
28 che tutta l’onta… li rende: così che tutta la vergogna (onta) e il danno che (Firenze) le ha sempre causato, come tutti gli italiani (ciascun latino) sanno, (Siena) ora li restituisce. 29 e i tolle… tutto: e le (a Firenze) sottrae (i tolle) tutto il guadagno (pro) e l’onore. 30 ché Montalcino… a suo tene: perché (Siena) ha abbattuto con la forza Montalcino, ha ridotto in proprio potere Montepulciano, riscuote (ha) la cerva e la rendita (frutto) della Maremma; tiene, come fosse cosa sua (a suo), Sangimignano, Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, e anche Volterra e il suo contado (paiese). Ecco un elenco delle conquiste di Siena dopo la battaglia: oltre a quelle geografiche viene citata anche la cervia, cioè un tributo simbolico, consistente in una cerva, che i conti Aldobrandeschi di Santa Fiora dovevano versare a Firenze, e il frutto, ovverosia una somma di denaro da pagare anch’essa regolarmente al Comune un tempo dominante.
31 e la campana… avea di bene: (Siena) ha conquistato (presi ave) la campana di guerra, gli stendardi, le armi (arnesi) e tutti gli arredi (onor), insieme con ciò che presso di sé (Firenze) aveva di valore (di bene). La campana, detta Martinella, era uno strumento montato sul Carroccio, simbolo del Comune, insieme agli stendardi; utilizzata in guerra per trasmettere gli ordini dai comandanti alle truppe in mezzo alla confusione dei combattimenti, la sua perdita era considerata un grande disonore. 32 E tutto ciò… è folle: E tutto ciò gli (a Firenze) succede (avene) per colpa di quella gente che è più folle di qualunque altra. Si parla ancora, ovviamente, dei ghibellini. 33 Foll’è chi fugge… i torna: È folle chi evita il proprio tornaconto (prode) e cerca (cher) il danno e fa in modo che quello che era onorevole diventi per lui (i torna) causa di vergogna. 34 e di bona libertà… grand’ enemico: e da una buona libertà, nella quale vive (soggiorna) con grande soddisfazione, si riduce, con propria grande sventura, alla mercè di un potere (signoria) traditore (fella) e mal-
vagio, e innalza (fa) a padrone il proprio peggior nemico. Emerge una volta in più il contrasto tra la Firenze libera e guelfa di un tempo e quella del presente di Guittone, controllata dai filoimperiali ghibellini. 35 A voi… v’adagia: A voi (ghibellini) che ora siete a Firenze dico che sembra (par) che vi piaccia (v’adagia) ciò che è accaduto. 36 e poi che… figliuoli aucisi: e poiché avete in casa i Tedeschi (li Alamanni) serviteli bene, e fatevi mostrare le loro spade, con le quali vi hanno ferito la faccia (fesso i visi) e ucciso genitori e figli. Il poeta, guelfo e originario della guelfa Arezzo, si serve di un evidente sarcasmo per esprimere sdegno e dolore: gli Alamanni, gruppo di antiche tribù stanziate nel sud dell’odierna Germania, vengono citati per indicare i loro stessi discendenti, cioè i cavalieri tedeschi inviati a Montaperti in aiuto di ghibellini e Senesi dal sovrano Manfredi di Svevia, della casata degli Hohenstaufen, originaria anch’essa della Germania meridionale.
I poeti siculo-toscani 2 255
fatica assai, de vostre gran monete37. Monete mante e gran gioi’ presentate ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti38 ch’a tanto grande onor v’hano condutti, che miso v’hano Sena in podestate39; 80 Pistoia e Colle e Volterra fanno ora guardar vostre castella a loro spese40; e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese, Montalcin sta sigur senza le mura41; de Ripafratta temor ha ’l pisano, 85 e ’l perogin che ’l lago no i tolliate, e Roma vol con voi far compagnia42. Onor e segnoria adunque par e che ben tutto abbiate43: ciò che desïavate 90 potete far, cioè re del toscano44. 75
Baron lombardi e romani e pugliesi e toschi e romagnuoli e marchigiani45, Fiorenza, fior che sempre rinovella, a sua corte v’apella46,
che fare vol de sé rei dei Toscani47, dapoi che li Alamani ave conquisi per forza e i Senesi48. 95
37 e piacemi che… gran monete: e sono contento (piacemi) che dobbiate dare loro – perché fecero grande fatica a portare a termine un tal compito (en ciò fare) – una grande quantità delle vostre ricchezze. 38 Monete mante… altri tutti: Donate (presentate) molte monete e gran quantità di gioielli (gran gioi’) ai Conti, agli Uberti e a tutti gli altri. I conti Guidi e gli Uberti erano due potenti famiglie ghibelline; della seconda faceva parte anche il già ricordato Farinata. 39 ch’a tanto grande… in podestate: che vi hanno portato a un così grande onore, che hanno ridotto (miso v’hano) Siena in vostro potere. L’affermazione è chiaramente ironica, come tutte quelle che seguono. 40 Pistoia e Colle… a loro spese: Pistoia, Colle Val d’Elsa e Volterra fanno ora sorvegliare (guardar) le vostre fortezze (castella) a proprie spese.
41 e ’l Conte Rosso… le mura: e il Conte Rosso domina la Maremma e il contado (paiese) e Montalcino è al sicuro senza le mura. Il Conte Rosso era Ildebrandino degli Aldobrandeschi, detto appunto “il Rosso”: personalità guelfa di spicco, alleato di Firenze e nemico di Siena, contro la quale combattè nel 1260, non poteva certo avere più il potere che i versi (non a caso sarcastici) gli attribuiscono. 42 de Ripafratta… far compagnia: i pisani hanno paura (temor ha) di Ripafratta, e i perugini che sottraiate loro (i tolliate) il lago e Roma vuole allearsi (far compagnia) con voi. Ripafratta era un castello, posto vicino a Pisa, conquistato dai fiorentini e donato ai lucchesi; il lago è il Trasimeno. 43 Onor e segnoria… tutto abbiate: Sembra dunque che abbiate onore, potere e tutti i vantaggi (ben tutto).
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44 ciò che desïavate… del toscano: ora potete diventare quello che desideravate (ciò che desïavate), cioè i signori indiscussi (re) della Toscana. 45 Baron lombardi… e marchigiani: Potenti del Settentrione, romani, pugliesi, toscani e marchigiani. Lombardi non indica solo gli abitanti dell’odierna Lombardia ma in generale quelli del Nord Italia. 46 Fiorenza… v’apella: Firenze, fiore che sempre rifiorisce (rinovella), vi chiama (v’apella) alla sua corte. 47 che fare… dei Toscani: (lei) che vuole diventare (fare vol de sé) regina della Toscana. 48 dapoi che… i Senesi: dal momento che ha sconfitto (ave conquisi) con la forza i tedeschi e i senesi.
Analisi del testo La decadenza di Firenze La canzone è stata composta dal poeta in seguito alla sconfitta subita dai guelfi fiorentini a Montaperti nel 1260 ad opera delle forze ghibelline appoggiate da re Manfredi. Nella canzone Guittone, guelfo aretino, esprime il suo dolore di uomo di parte per la perduta supremazia di Firenze. Il poeta vede nella sconfitta della sua fazione una drammatica testimonianza della rovina del Comune un tempo potente. Con questo componimento egli inaugura nella letteratura italiana la poesia civile: la scuola siciliana aveva infatti evitato di trattare temi diversi da quello d’amore. Nella prima strofa Guittone concentra l’attenzione al presente e alla sconfitta di Firenze e alla caduta del suo potere; nelle strofe successive la grandezza di Firenze viene paragonata a quella di Roma; è poi introdotta la polemica contro i ghibellini, colpevoli di una rovina così grande. Gli eventi vengono narrati dal punto di vista soggettivo; non mancano sarcasmo e ironia, che rendono più pungente la passione del poeta ferito per quanto accaduto.
Lo stile Lo stile, adattandosi al tema, risulta di registro elevato; la lingua toscana viene impreziosita dall’uso di provenzalismi e di termini del volgare siciliano illustre. Le parole chiave partecipano dei due temi principali della canzone: la grandezza passata di Firenze e la sua caduta. La sintassi è ipotattica; frequente è l’iperbato, ovvero l’inversione di parole rispetto all’ordine naturale. Ampio è l’uso delle figure retoriche come le personificazioni (Ragione), le metonimie (Fior), le interrogative retoriche (vv. 12-15).
La battaglia di Montaperti, illustrazione dalla Cronica nuova di Giovanni Villani, manoscritto Chigiano (XIII secolo), f. 85r. (Biblioteca apostolica vaticana, Città del Vaticano).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della prima strofa in 5 righe. ANALISI 2. La prospettiva attraverso la quale sono narrati i fatti è chiaramente soggettiva. Da che cosa lo puoi dedurre? LESSICO 3. La canzone si basa sulla contrapposizione tra la passata grandezza di Firenze e la sua caduta: cerca i termini che rimandano alle due sfere.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 2
SCRITTURA 4. In Ahi lasso Guittone presenta gli eventi da uomo attivo nella vita politica della propria città. Ti sembra che oggi da parte dei giovani sia ancora forte l’interesse verso la politica? Oppure anche tra loro sembra predominare il disinteresse e la sfiducia? (max 25 righe).
online T9 Guittone d’Arezzo Ora parrà s’eo saverò cantare I stanza
I poeti siculo-toscani 2 257
Compiuta Donzella
T10 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
A la stagion che ’l mondo foglia e fiora La poetessa a causa della sua sofferenza, derivante dal matrimonio forzato, si sente esclusa dalla gioia primaverile che si riflette su tutti gli altri.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
A1 la stagion che ’l mondo foglia e fiora2 acresce3 gioia a tut[t]i fin’ amanti: vanno insieme a li giardini alora che4 gli auscelletti fanno dolzi canti; 5
la franca5 gente tutta s’inamora, e di servir ciascun trag[g]es’ inanti6, ed ogni damigella in gioia dimora; e me, n’abondan mar[r]imenti7 e pianti.
Ca lo mio padre m’ha messa ’n er[r]ore8, 10 e tenemi sovente in forte doglia: donar mi vole a mia forza segnore9, ed io di ciò non ho disio né voglia, e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore; però non mi ralegra fior né foglia10. La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD 1 Il verso è affine alle poesie trobadoriche, ma soprattutto siciliane (Rinaldo d’Aquino). 2 foglia e fiora: mette foglie e fiori. Fiora: sta per fiore, cambiamento dovuto alla rima. 3 acresce: con prostesi di -a. 4 alora che: nell’ora in cui.
5 franca: moralmente nobile. 6 e di servir…inanti: e ognuno si predispone al servizio d’amore. 7 mar[r]imenti: tristezze, provenzalismo. 8 m’ha…er[r]ore: mi ha messa in una situazione dolorosa. 9 donar… segnore: mi vuole far sposare contro la mia volontà. 10 fior né foglia: ripresa in chiusura, ma in forma negativa, della formula dell’incipit “foglia e fiore”.
Analisi del testo Incipit La protagonista manifesta il suo dolore e il suo smarrimento in contrasto con il mondo che la circonda, che appare felice. Esprime inoltre tutto il suo dissenso verso la volontà paterna di volerla dare forzatamente in sposa a un uomo che non ama. I sonetti di Compiuta Donzella si possono analizzare alla luce della situazione sociale della Firenze del Duecento, dove i matrimoni forzati erano molto diffusi. Lauriello fa notare che pur avvertendosi l’influenza della poesia provenzale, nei sonetti di Compiuta Donzella emerge spontaneità, freschezza di sentimenti e immagini del tutto personali. Compiuta può essere ritenuta un’abile versificatrice, esperta di retorica e non priva di ironia nel momento in cui rovescia il canone delle chansons de toile, cioè quelle composizioni in lingua d’oil, di carattere lirico narrativo, in cui si finge che donne intente a tessere o cucire raccontino la storia di una donna che soffre per la lontananza del suo amante. Quasi tutte si concludono felicemente.
La struttura bipartita Il sonetto risulta bipartito: alla lode della gioia universale per l’arrivo della primavera si contrappone a partire dal v. 8 la sofferenza dell’autrice. Nella prima metà del sonetto è sottolineata l’universalità: tutti (v. 2), insieme (v. 3), tutta (v. 5), ciascun (v. 6), ogni (v. 7); nella seconda metà del sonetto l’autobiografismo è estremamente marcato: me (v. 8), mio; m’ (v. 9), -mi (v. 10), mi e mia (v. 11), io (v. 12), mi (v. 14).
La chiusura ad anello La chiusura del sonetto, come sottolineato nelle note, è circolare da foglia e fiora (v. 1) si giunge a fior né foglia (v. 14); da acresce gioia a tut[t]i fin’amanti, si giunge a non mi ralegra (v. 14).
258 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
PArAFrASI 1. Fai la parafrasi delle due quartine. AnALISI 2. Scrivi il verso in cui la poetessa inizia a descrivere il suo stato d’animo. StILe 3. Il sonetto è ricco di variazioni ovvero la poetessa esprime lo stesso concetto variando i termini. Rintraccia nel testo due esempi. 4. La poesia è caratterizzata dall’utilizzo di termini a coppia (binomi). Rintracciali nel testo e soffermati a spiegarne un binomio.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
coMPetenZA DIGItALe
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
5. In questo sonetto la poetessa descrive una situazione non molto lontana nel tempo e che ancora oggi caratterizza alcuni paesi: il diritto di decidere della vita di una donna da parte della componente maschile della famiglia (padre-fratello-marito). Fai una ricerca che ti porti a capire in quali paesi ancora la donna non ha diritto di scegliere per la sua vita chi sposare, quale lavoro praticare ecc. e condividi i risultati della tua ricerca con i compagni di classe attraverso un file con testo e immagini.
I luoghi della poesia Il dolce stilnovo (1280-1300 circa) Luogo: Bologna, Firenze Autori: Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante (anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani Lingua: volgare toscano Temi: identificazione di amore e gentilezza, donna angelo, amore spiritualizzato
Milano
Verona Venezia Ferrara Bologna
Genova
Pisa
I poeti comico-realisti (1260-1320 circa) Luogo: Toscana Autori: Rustico Filippi, Cecco Angiolieri Lingua: volgare toscano Temi: sessualità, «basso-corporeità», blasfemia
Firenze
Ancona
Arezzo Siena
I poeti siculo-toscani (seconda metà del XIII secolo) Luogo: comuni toscani Autori: Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani Lingua: volgare toscano Temi: amoroso, morale e religioso
Corsica Roma Benevento
Bari
Napoli
La scuola siciliana (1230-1250) Luogo: corte di Federico II (Magna Curia) Autori: funzionari di corte: Jacopo da Lentini (notaio), Pier della Vigna (cancelliere), Guido delle Colonne (giudice) Lingua: volgare siciliano illustre Temi: amore cortese, idealizzazione della figura femminile
Sardegna
Palermo
Sicilia
I poeti siculo-toscani 2 259
3 MAPPA INTERATTIVA. LA POESIA DELLE ORIGINI
Il dolce stilnovo 1 Che cos’è lo stilnovo Il ruolo di Dante nella fondazione del concetto di “stilnovo” Il “dolce stil novo”, dopo la scuola siciliana e il suo passaggio in Toscana, rappresenta un altro importante momento nella formazione della lirica italiana: ed è a Firenze che si sviluppa. Con il termine “stilnovo” si indica quindi l’esperienza poetica di alcuni autori fiorentini nella seconda metà del Duecento. La denominazione di «dolce stil novo» si ricava dalle parole che Dante fa pronunciare a Bonagiunta Orbicciani, da Lucca, un poeta siculo-toscano, nel XXIV canto del Purgatorio. Bonagiunta chiede a Dante se si trova di fronte all’iniziatore del nuovo stile con Donne ch’avete intelletto d’amore (nella Vita nova) e Dante chiarisce di essere un poeta che trae ispirazione dall’amore «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e' ditta dentro vo significando». Questa dichiarazione di Dante sottolinea a Bonagiunta la lontananza dei poeti della scuola siciliana, di Guittone e di lui stesso, dall’esperienza dei nuovi poeti: «“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”». Dal dialogo con Bonagiunta comprendiamo che la novità di questa poesia è la fedeltà assoluta all’ispirazione che proviene da Amore; grazie alla risposta di Dante, Bonagiunta comprende qual è il «nodo», l’impedimento che separa lui e gli altri poeti da questa nuova esperienza poetica, ovvero la assoluta adesione all’illuminazione provocata da Amore. Le caratteristiche dello stilnovo È necessario chiarire che cos’è il nodo di cui parla Dante nel colloquio con Bonagiunta e analizzarlo sia sul piano formale che su quello dei contenuti. Dal primo punto di vista ciò che distingue questi poeti è la scelta di uno stile raffinato e selettivo, la cui “dolcezza” si contrappone alle asprezze e alle oscurità dello stile guittoniano. Sul piano dei contenuti, all’omaggio rivolto alla dama, caratteristico dell’amore cortese, si sostituisce una visione più spiritualizzata della donna, che viene lodata come angelo in terra e come tramite per la salvezza. Si può con certezza affermare che la concezione dell’amore degli stilnovisti si riconnette ai trovatori della letteratura provenzale dell’ultimo periodo e a quella di Chiaro Davanzati, poeta siculo-toscano. Uno dei concetti più importanti che possiamo osservare nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido Guinizzelli (➜ T11 ) è l’identificazione dell’amore con la gentilezza, solo chi è dotato di nobiltà d’animo è in grado di provare amore. In questa affermazione è tutta la novità dello stilnovo: la nobiltà di cui si parla non è più quella di sangue ma quella di animo, come già affermato nel trattato De Amore di Andrea Cappellano (➜ C1 PAG. 129, T8 ).
lezione di Guido Guinizzelli 2 La e le caratteristiche del nuovo modo di poetare L’iniziatore dello stilnovismo L’iniziatore del gruppo è da considerare il bolognese Guido Guinizzelli, autore di quello che è ritenuto il manifesto della nuova scuola, ossia la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore e che Dante definisce «il padre mio e de li altri miei» nel XXVI canto del Purgatorio.
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Non c’è da stupirsi se l’iniziatore dello stilnovismo è stato un bolognese, in quanto la città emiliana era all’avanguardia dal punto di vista culturale per la presenza di una famosa università. Della vita del bolognese Guido Guinizzelli, di una generazione precedente a quella di Dante (sulla base di recenti documenti la sua nascita è oggi collocata intorno al 1218, ma altri la spostano molto più avanti), si sa pochissimo: se è corretta l’identificazione in Guido, figlio del giudice bolognese Guinizzello di Magnano, egli fu uomo di legge, attivo come giudice a Bologna tra il 1268 e il 1274; di parte ghibellina, fu esiliato nel 1274 a Monselice, presso Padova, in seguito alla sconfitta, nella sua città, della fazione ghibellina. Morì prima del novembre del 1276. La sua produzione (cinque canzoni e quindici sonetti) si muove tra ascendenze siciliane e guittoniane e intuizioni stilnovistiche. Gli stilnovisti e le caratteristiche dello stilnovo I principali esponenti del gruppo degli “stilnovisti”, come è consuetudine definirli, sono Guido Cavalcanti, Dante (ma solo negli anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani: se in passato è prevalsa, proprio per suggestione dei versi danteschi, l’idea della “scuola”, in tempi più recenti si tende piuttosto a sottolineare e valorizzare la diversità delle singole personalità poetiche tradizionalmente raggruppate sotto l’etichetta di “poeti stilnovisti”. Gli aspetti comuni Anche senza ammettere, appunto, l’esistenza di una vera e propria “scuola”, che implicherebbe l’adesione consapevole a una poetica da tutti condivisa, è possibile evidenziare aspetti che accomunano i cosiddetti “stilnovisti”. • Le loro liriche danno l’impressione di una vera e propria vocazione all’esercizio poetico, non più passatempo raffinato come per i siciliani, ma esperienza centrale di vita, fulcro della quale è l’amore. • Il tema amoroso occupa un posto di assoluta centralità: sebbene tutti i poeti partecipino alle lotte politiche del tempo, in poesia, come già i siciliani, trattano esclusivamente d’amore. La concezione d’amore si distacca ormai dal galateo cortese e dal codice feudale per diventare esperienza assoluta, percorso iniziatico, in alcuni casi (soprattutto Dante) proiettato verso una dimensione religiosa; ma comunque esperienza totalizzante, tale da isolare il soggetto dalla realtà comune. Per gli stilnovisti l’amore ha in ogni caso un valore conoscitivo, è lo strumento privilegiato per interpretare sé stessi. • La figura femminile è presentata non con particolari realistici ma come luminosa, sconvolgente apparizione: il suo manifestarsi agli occhi del poeta e il suo saluto acquistano quasi il valore di una rivelazione (➜ T12 ). La donna rimane lontana, irraggiungibile ma, mentre nella lirica provenzale la distanza aveva motivazioni soprattutto sociali, radicate nel costume dei rapporti feudali, ora essa diventa una lontananza metafisica, la percezione di una distanza che niente e nessuno potrà mai colmare. • Guinizzelli e (soprattutto) Dante attribuiscono virtù salvifiche alla donna, considerata sede di ogni valore spirituale e morale (➜ T12 ) e, associando tema amoroso e religioso, la concepiscono come un tramite per l’assoluto. Cavalcanti tende invece nella sua poesia a rappresentare l’amore come esperienza angosciosa e distruttiva. • Nelle liriche degli stilnovisti viene esaltato il valore della “gentilezza” , una riproposizione aggiornata della cortesia, che accomuna il poeta che ama, la donna amata e il pubblico ideale cui la loro poesia si rivolge. La gentilezza prescinde dalla nobiltà di sangue e si lega piuttosto alle qualità interiori, come precisa con forza Guinizzelli nella celebre canzone Al cor gentil. Il dolce stilnovo 3 261
• Sul piano linguistico i nuovi poeti si caratterizzano per una raffinata selezione
lessicale (prediligono, almeno nei momenti più propriamente lirici, termini piani, musicali) e per l’uso ricorrente della terminologia filosofica, che contrappone la loro poesia allo stile di Guittone, fondato soprattutto su un uso virtuosistico ed esibito degli artifici retorici (➜ T8 ). Proprio questa dimensione filosofica sarà rimproverata a Guinizzelli da Bonagiunta nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera. Il vertice dello stilnovo si trova nella poesia di Dante L’esperienza dei nuovi poeti toscani culmina nella produzione lirica di Dante, il maggiore poeta del suo tempo che, intorno al 1295, allestisce nella Vita nuova un’antologia delle sue poesie, caratterizzate dalla focalizzazione su un mito femminile – quello di Beatrice – centrale in tutta la sua esperienza umana e poetica.
Parola chiave
Lo stilnovo GENERE
lirica
TEMPO
1280-1300 ca.
LUOGO
Bologna e Firenze
LINGUA
volgare toscano
STILE
dolcezza espressiva
TEMI
identificazione di amore e gentilezza, donna angelo, amore spiritualizzato
AUTORI
Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante (solo negli anni giovanili), Lapo Gianni, Cino da Pistoia e Gianni Alfani
gentilezza/gentile Il termine gentile è per noi oggi sinonimo di persona dai modi cortesi, garbati e soprattutto attenta a rispettare il prossimo. In origine la parola non aveva affatto questa accezione: deriva infatti dal lat. gentilis, che significa semplicemente “appartenente alla gens”, cioè alla stirpe; in età feudale gentile diventa sinonimo di “persona di stirpe nobile”, cioè designa la classe sociale dei nobili. È in età comunale che il termine gentile subisce una profonda variazione di significato, in rapporto alla sempre maggiore importanza (non solo a livello economico ma anche di rappresentatività politica) della classe borghese nelle città del centro e nord d’Italia. Questi ceti si impegnano, attraverso gli intellettuali più importanti, a definire un quadro di valori e di prerogative atte a nobilitare
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la propria classe: rilievo particolare in questo processo ha proprio il concetto di gentilezza come sinonimo di nobiltà. Gentile non è più per definizione il nobile, la gentilezza non è più un privilegio di casta, ma un insieme di qualità morali e intellettuali che tutti possono possedere. Nelle liriche stilnovistiche, a cominciare dalla celebre canzone di Guinizzelli, alle liriche di Cavalcanti e di Dante, gentile e gentilezza nella nuova accezione sono vere e proprie parole chiave. Ma anche Brunetto Latini, uomo politico e intellettuale di spicco del comune di Firenze, nel suo Tesoretto (un’opera didattico-allegorica), sostiene con forza che gentile non è chi è altolocato ma chi «oltre suo lignaggio [il suo privilegio di nascita] / fa cose d’avantaggio [compie azioni nobilitanti] / e vive orratamente [in modo onorevole], / sì che piace a la gente».
Guido Guinizzelli
T11 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
AUDIOLETTURA
Al cor gentil rempaira sempre amore Questa celebre canzone di Guido Guinizzelli è tradizionalmente considerata il “manifesto” della poetica stilnovistica. Indubbiamente il carattere prettamente teorico della composizione testimonia la consapevole volontà dell’autore di esporre e chiarire, con stringente logica argomentativa, i nodi fondamentali della concezione d’amore che fu propria dei poeti comunemente definiti “stilnovisti”: in particolare l’associazione gentilezza-amore. È importante, però, anche precisare che il carattere programmatico e l’importanza stessa della canzone all’interno della poesia stilnovistica sono sanciti soprattutto dall’autorevole intervento di Dante, che la elogia come esempio di perfezione linguistico-stilistica e la richiama espressamente in un sonetto della Vita nuova (XX, 3) e soprattutto in un celeberrimo passo della Commedia (If V, 100). Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura: 5
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole; e prende amore in gentilezza loco così propïamente 10
come calore in clarità di foco.
Foco d’amore in gentil cor s’aprende come vertute in petra prezïosa, che da la stella valor no i discende anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà valore: così lo cor ch’è fatto da natura asletto, pur, gentile, 20 donna a guisa di stella lo ’nnamora. 15
La metrica Canzone di sei stanze di dieci
1-10 Al cor gentil… di foco: L’amore
versi ciascuna secondo lo schema ABAB (fronte) cDcEdE (sirma). Nella fronte i versi sono tutti endecasillabi, nella sirma si alternano endecasillabi e settenari. Il primo termine della II, III, IV, V stanza riprende l’ultimo della strofa precedente secondo la tecnica, propria della poesia trobadorica, della coblas capfinidas (I-II foco-foco; IIIII ’nnamora-Amor; III-IV ferro-fere; IV-V splendore-splende).
tende sempre a ritornare (rempaira, francesismo) al cuore nobile (gentil), come l’uccello ritorna fra le verdi foglie nel bosco; e la natura non ha creato l’amore prima (anti che) del cuore nobile, né il cuore nobile prima dell’amore (quindi la natura ha creato contemporaneamente l’amore e gli animi nobili): non appena (adesso con’) fu creato il sole, immediatamente (sì tosto) si manifestò lo splendore della sua luce; e non risplendette prima della creazione del sole. L’amore trova collocazione (prende… loco) nella gentilezza con la stessa naturalezza del (così propïamente / come) calore nello splendore del fuoco.
11-20 Foco d’amore… lo ‘nnamora: Il fuoco d’amore si accende nel cuore nobile come le proprietà (vertute) nella pietra preziosa, nella quale non giunge l’influenza della stella prima che (anti che) il sole l’abbia purificata; dopo che il sole, per il suo potere (forza), ha tolto da essa ogni impurità (ciò che li è vile), la stella le conferisce le sue proprietà (valore): allo stesso modo la donna, come la stella, fa innamorare il cuore creato dalla natura eletto (asletto, francesismo), puro, nobile.
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Amor per tal ragion sta ’n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: splendeli al su’ diletto, clar, sottile; no li stari’ altra guisa, tant’è fero. 25
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco caldo, per la freddura. Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco 30
com’adamàs del ferro in la minera.
Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno: vile reman, né ’l sol perde calore; dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»; lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d’ere’ sed a vertute non ha gentil core, com’aigua porta raggio 40 e ’l ciel riten le stelle e lo splendore. 35
Splende ’n la ’ntelligenzia del cielo Deo creator più che [’n] nostr’occhi ’l sole: ella intende suo fattor oltra ’l cielo, e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole; 45
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento, così dar dovria, al vero, la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende del suo gentil, talento 50
che mai di lei obedir non si disprende.
21-30 Amor per tal ragion… in la minera: L’amore risiede nel cuore nobile per la stessa ragione per la quale il fuoco arde in cima al candelabro (doplero): lì splende (splendeli) a suo piacere (al su’ diletto), luminoso, leggero; non potrebbe starci in modo diverso (non li stari’ altra guisa), tanto è indomabile (fero). Così una natura vile (prava) respinge (recontra) l’amore come l’acqua fa con il fuoco caldo, perché essa è fredda (per la freddura). L’amore prende dimora nel cuore gentile come luogo congeniale, come il diamante (adamàs) nel minerale (in la minera) del ferro. Anche questa immagine, come quella precedente della pietra preziosa, è tratta dai lapidari: si pensava che il diamante venisse prodotto da una modificazione del ferro.
31-40 Fere lo sol… lo splendore: Il sole colpisce (Fere) il fango tutto il giorno, ma questo rimane cosa vile e il sole non perde il suo calore (per il fatto di riscaldare il fango); l’uomo superbo (omo alter) dice: «Io sono nobile per stirpe (sclatta)»; io lo paragono (semblo) al fango, (mentre) al sole paragono la nobiltà d’animo: perché l’uomo non deve credere (non dé dar om fé) che la gentilezza sia fuori dal cuore (fòr di coraggio), nella dignità ereditaria (in degnità d’ere’), se una persona non possiede un cuore nobile predisposto alla virtù, proprio come l’acqua si lascia trapassare dalla luce e il cielo trattiene le stelle e il loro splendore. Il paragone intende sottolineare che l’uomo non può ricevere da altre fonti (come appunto la stirpe illustre) la nobiltà se non la possiede autonomamente.
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41-50 Splende… non si disprende: Dio creatore, più di quanto risplenda il sole nei nostri occhi, rifulge nelle intelligenze celesti (gli angeli): essi comprendono la volontà del loro creatore immediatamente, oltre il singolo cielo (al cui movimento sono preposte) e, imprimendo al cielo la rotazione (’l ciel volgiando), prendono (tole) a ubbidirgli; e come (con’) istantaneamente (al primero) segue la felice realizzazione (beato compimento) (della volontà) del giusto Dio, allo stesso modo, in verità, la bella donna dovrebbe imprimere (dar dovria), una volta che splende negli occhi del suo nobile innamorato, il desiderio (talento) di non allontanarsi mai (mai… non si disprende) dall’ubbidirle.
Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?», siando l’alma mia a lui davanti. «Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti e desti in vano amor Me per semblanti: 55
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude». Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza che fosse del Tuo regno; 60
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».
51-60 Donna, Deo mi dirà… posi amanza»: O donna, Dio mi dirà: «Che presunzione hai avuto?» quando la mia anima sarà (siando) davanti a lui. «Attraversasti il cielo e giungesti fino a Me e prendesti Me come termine di paragone (semblanti) per
un amore vano (un amore cioè terreno): (solo) a Me convengono le lodi (laude) e alla Madonna, regina del paradiso (la reina del regname degno), per i cui meriti è dissolto ogni peccato (fraude sta propr. per “inganno”). Gli potrò rispondere: «(La
donna che amo) ebbe l’aspetto (sembianza) di un angelo che appartenesse al tuo regno (cioè al paradiso); non ho commesso una colpa (fallo) se ho rivolto a lei il mio amore».
Analisi del testo Un testo argomentativo sul tema dell’amore In questo celebre testo Guinizzelli non vuole trasmettere al lettore sentimenti o impressioni legati alla sua personale esperienza amorosa, ma formula con autorevolezza una precisa concezione dell’amore: da questa ambizione teorica deriva la struttura della canzone, in cui le varie stanze si agganciano l’una all’altra, costruendo i nodi fondamentali dell’argomentazione in una rigorosa progressione logica. Il concetto chiave – cioè l’identità di gentilezza e amore – è asserito con forza nel primo verso della canzone e viene poi sviluppato attraverso una lunga serie di paragoni tratti dal mondo naturale e appartenenti alla comune “enciclopedia” di un uomo colto medievale, al suo bagaglio di conoscenze. Nella prima stanza la scelta dei paragoni è guidata dall’assoluta e indiscutibile evidenza dei referenti scelti per il confronto: si può immaginare il sole senza la presenza della luce? Si può pensare il fuoco luminoso senza il calore? Allo stesso modo, si può immaginare l’amore senza un animo nobile che possa accoglierlo, e viceversa? Il lettore è indotto a una conclusione presentata come necessaria. Resta invece implicito il fondamentale concetto che l’amore di cui si parla nel testo non è un amore comune, volgare, ma un’esperienza elevata destinata a pochi animi eletti. Il ruolo della seconda e terza stanza non è quello di far procedere ulteriormente l’argomentazione, ma di amplificare attraverso nuovi paragoni il concetto già enunciato nella prima. La quarta stanza, che si colloca idealmente e strutturalmente al centro della canzone, produce invece un importante avanzamento dell’argomentazione, proponendo un nucleo concettuale chiave di grande forza, anche ideologica: la stanza è focalizzata infatti sulla definizione di che cosa sia veramente la gentilezza, più volte nominata nelle parti precedenti. All’autore preme mettere in chiaro che essa nulla ha a che fare con i privilegi di una casta, quella nobiliare, ma è essenzialmente una qualità interiore, un privilegio di spiriti elevati. Per sostenere questa tesi l’autore ricorre, come fa in tutto il componimento, allo strumento del paragone, in questo caso esplicitando la funzione autoriale: lui semblo al fango. La quinta e la sesta stanza sono legate tra di loro. L’argomentazione conosce un ulteriore avanzamento: viene infatti definita la natura quasi ultraterrena della donna, che induce il poeta a elevare la sua riflessione con un ardito collegamento tra l’azione di Dio sulle intelligenze celesti e il potere salvifico esercitato sull’uomo dalla donna. L’angelica sembianza femminile è evocata alla fine della canzone come giustificazione dell’amore che il poeta ha riposto in lei.
La revisione del concetto di gentilezza Tranne l’ultima stanza, le altre cinque sono caratterizzate dalla presenza di termini ricorrenti in riferimento alla gentilezza (➜ PAROLA CHIAVE, PAG. 262): tre occorrenze nella prima stanza (vv.
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1, 3), tre nella seconda (vv. 11, 14, 19), due nella terza (21, 28), quattro nella quarta (vv. 33, 34, 36, 38), una nella quinta (v. 49). Più ancora che una teoria dell’amore, la canzone di Guinizzelli si configura come una decisiva valorizzazione dei valori spirituali e culturali del singolo individuo, nella prospettiva di una nuova aristocrazia, non più strettamente legata alla nobiltà di sangue, anche in relazione alle diverse condizioni socio-culturali in cui fiorisce la poesia degli stilnovisti.
La donna-angelo e la possibile risoluzione di un conflitto di coscienza e di poetica I poeti del tardo Duecento colsero nell’affermazione di Guinizzelli (Tenne d’angel sembianza) una grande portata innovativa. Esisteva indubbiamente un conflitto tra l’esaltazione dell’amore cortese (che implicava anche l’idea dell’adulterio) e la visione religiosa propria della cultura medievale. L’angelicazione della donna comportava la possibilità di fare del sentimento amoroso un tramite verso il divino, di conciliare la visione religiosa e le forme poetiche incentrate sull’esaltazione dell’amore. Come ha sottolineato il critico Mario Marti, il parallelismo donna-intelligenze celesti non è solo un’immagine ardita, ma ha un significato profondo. Anche il ruolo femminile, così come quello degli angeli che traducono in armonia cosmica il disegno di Dio, ha carattere provvidenziale: volgendo, grazie all’amore, l’animo dell’uomo verso il bene e alla fin fine verso Dio, la donna appare a sua volta mediatrice del disegno divino. Quella della donna-angelo non è dunque un’ennesima metafora galante, ma una vera e propria reimpostazione, più rigorosamente spirituale, del sentimento amoroso. Chi interpreterà nel modo più coerente la lezione guinizzelliana sarà Dante: non solo nell’itinerario poetico ed esistenziale tracciato nella Vita nuova, ma ancor più nel cammino della Commedia.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza con una breve frase il contenuto di ogni stanza. COMPRENSIONE 2. Su quale fondamentale concetto si fonda l’analogia fra le prime tre stanze? 3. Che cosa rimprovera Dio al poeta nell’immaginario colloquio dell’ultima strofa? Come si difende il poeta dall’accusa mossagli? 4. Nella quarta stanza, alla dichiarazione dell’uomo superbo si contrappone la posizione del poeta. Su quale aspetto verte la contrapposizione? ANALISI 5. Perché secondo te Guinizzelli ha tratto la maggior parte dei termini di paragone dalla realtà naturale? LESSICO 6. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico della luce. 7. Questi termini hanno un significato diverso da quello odierno: indicane il senso nel contesto della canzone. gentil / gentilezza ................................................................................................................................................................. verdura (v. 2) ........................................................................................................................................................................... vertute (v. 12) .......................................................................................................................................................................... valor (v. 13) .............................................................................................................................................................................. vile (v. 16) ................................................................................................................................................................................. freddura (v. 27) ....................................................................................................................................................................... intelligenzia (v. 41) ............................................................................................................................................................... talento (v. 49) .......................................................................................................................................................................... STILE 8. Nel testo è presente una rima siciliana: sai identificarla?
Interpretare
SCRITTURA 9. Delinea sinteticamente l’immagine della donna che si ricava dalla canzone (max 20 righe, facendo riferimento al testo).
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Guido Guinizzelli
T12 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Io voglio del ver la mia donna laudare Dei quindici sonetti presenti nel corpus delle poesie guinizzelliane, molti sono ancora legati alla tradizione cortese e presentano quindi elementi sicilianeggianti e provenzaleggianti. Alcuni, però, introducono motivi che saranno in vario modo ripresi dagli stilnovisti, e in particolare da Dante, che appunto guarderà a Guinizzelli come a un maestro. È il caso del sonetto che presentiamo, incentrato sulla lode della donna e sugli effetti miracolosi che il suo solo saluto produce in chi la incontra. Io voglio del ver1 la mia donna laudare2 ed asembrarli3 la rosa e lo giglio: più che stella dïana4 splende e pare5, 4
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio6.
Verde river’ a lei rasembro e l’âre7, tutti color di fior’, giano8 e vermiglio, oro ed azzurro9 e ricche gioi per dare10: 8
medesmo Amor per lei rafina meglio11.
Passa per via adorna12, e sì gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute13, 11
e fa ’l de nostra fé se non la crede14;
e no·lle pò apressare om che sia vile15; ancor ve dirò c’ha maggior vertute16: 14
null’om pò mal pensar fin che la vede.
La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CDE. 1 del ver: secondo verità. 2 la mia donna laudare: lodare (latinismo) la mia signora (lat. domina), la signora del mio cuore. 3 asembrarli: paragonarle. 4 stella dïana: Lucifero, la stella del mattino. 5 pare: appare, si manifesta. Allo stesso modo Dante in Tanto gentile e tanto onesta pare ➜ C6 T5 .
6 somiglio: paragono. 7 Verde… âre: paragono (cfr. v. 2) a lei una verde campagna e l’aria. âre è forma contratta per aere. 8 giano: giallo (francesismo). 9 azzurro: è il colore della pietra preziosa del lapislazzuli. 10 ricche… dare: gemme preziose degne di essere donate. 11 medesmo… meglio: persino l’Amore si perfeziona grazie a lei. 12 adorna: ornata della sua stessa bellezza.
13 ch’abassa... salute: che diminuisce l’orgoglio a colui a cui dona il suo saluto. Il termine salute allude anche alla salvezza (salus in latino) spirituale che la donna può dare già con l’atto del salutare. Il concetto ritornerà nella Vita nuova di Dante. 14 fa ’l… crede: lo converte alla nostra fede se ancora non è credente. 15 no·lle… vile: non si può avvicinare a lei una persona d’animo non nobile. 16 ch’a maggior vertute: che ha un potere ancor più straordinario.
Analisi del testo Una struttura bipartita Il sonetto è incentrato sul tema della lode della donna, come viene programmaticamente enunciato nel primo verso. La lode si articola in due momenti nettamente distinti, corrispondenti rispettivamente alle due quartine e alle due terzine: nelle quartine l’autore ne loda la bellezza, mentre nelle due terzine si sofferma sulle sue doti spirituali e sugli straordinari “effetti” della sua apparizione (qui esclusivamente positivi; in altri poeti, come Cavalcanti, tali effetti sono invece soprattutto angosciosi e distruttivi).
La rivisitazione del plazer La lode della bellezza è affidata al paragone con la bellezza della natura e con le pietre preziose e resa, tramite effetti soprattutto visivi, attraverso vivaci particolari coloristici (il verde, l’azzurro, il giallo, l’oro). Caro a Guinizzelli è il paragone donna-stella, che ricorre anche in un altro sonetto (Vedut’ho la lucente stella diana).
Il dolce stilnovo 3 267
L’elenco delle cose belle a cui la donna viene paragonata richiama il modello del plazer provenzale (un tipo di componimento in cui si elencano cose e situazioni considerate piacevoli).
L’archetipo dell’“angelo visitante” Nelle due terzine è proposta l’immagine di una donna non solo genericamente stilizzata, come nella poesia dei siciliani, ma addirittura non appartenente alla dimensione dell’umano, considerati gli straordinari effetti morali che il suo solo passare per la via e il saluto producono su chi la guarda. Effetti volutamente enfatizzati dal poeta, così da essere quasi delle iperboli: la donna è capace di convertire chi non crede, e addirittura di controllare, per il tempo in cui dura la “visione”, i pensieri delle persone (infatti nessuno può nutrire, in quel frammento di tempo, pensieri malvagi). Guinizzelli fornisce con questo sonetto il modello dell’apparizione quasi soprannaturale della donna: un’apparizione che può essere annichilente e addirittura terrifica (in Cavalcanti) o beatificante, come nel caso della Beatrice dantesca.
L’idealizzazione amorosa: tra dinamiche psicologiche e schemi culturali Nella letteratura medievale di argomento amoroso la donna è costantemente soggetta a un processo di idealizzazione: essa è posta su un piedestallo di perfezione assoluta, e l’uomo che la ama si trova abissalmente distante da lei senza riuscire a trovare nel linguaggio adeguati strumenti per cantare la sua sublime bellezza. Come interpretare questa costante propensione idealizzante? Da un lato, essa può rimandare ad alcuni processi tipici della dinamica amorosa, indagati dalle scienze psicologiche: secondo la psicanalisi, l’idealizzazione dell’oggetto amato gratifica il nostro narcisismo. D’altro canto, però, l’idealizzazione amorosa – cioè il riconoscimento dell’unicità dell’oggetto d’amore e l’assoluta dedizione ad esso – ricorre in determinate culture con maggior frequenza che in altre: la forma specifica assunta dall’idealizzazione della donna nella letteratura amorosa medievale è il frutto di un’elaborazione culturale specifica della cultura occidentale, inaugurata nell’XI secolo in Provenza, che ha prodotto determinati schemi attraverso i quali il singolo poeta è indotto a “leggere” la propria esperienza amorosa e che, in qualche modo, lo influenzano.
Le scelte stilistiche Dante considera Guinizzelli un maestro per chi compone «rime d’amor… dolci e leggiadre» (Pg XXVI, 99). Il sonetto Io voglio del ver costituisce un esempio particolarmente significativo di quello che Dante definirà “il dolce stile”, contrapponendolo in particolare allo stile difficile, denso di artifici retorici, di Guittone d’Arezzo. La composizione ha un andamento fluido e musicale, creato dai richiami fonici tra verso e verso e dalla scelta di una sintassi piana e lineare, in cui prevalgono le frasi coordinate. Il lessico predilige termini semplici, seppur eleganti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del sonetto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quale significato riveste l’associazione attraverso la rima dei termini-chiave gentile : vile? LESSICO 3. Nel sonetto sono presenti alcuni termini che nel linguaggio del tempo, e all’interno della poetica del “dolce stile”, hanno un significato lontano da quello odierno; spiega in rapporto al contesto i seguenti termini: pare, adorna, gentile, salute, vertute. STILE 4. Spiega perché Amor è scritto con la lettera maiuscola. 5. Individua le similitudini presenti nel sonetto, trascrivile e per ciascuna indica: ambito da cui è tratto il paragone – significato letterale – significato figurato
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 6. Confronta il contenuto delle terzine con le due stanze conclusive della canzone Al cor gentil (➜ T11 ) e spiega se e per quali motivi il sonetto rappresenta un’esemplificazione di quanto sostenuto a livello teorico nella canzone.
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INTERPRETAZIONI CRITICHE
Mario Marti L’immagine della donna nei poeti nuovi P. Canettieri, Laude di Jacopone da Todi, in LIE, Le Opere, I, Einaudi, Torino 1992
Il critico Mario Marti (1914 – 2015), nella sua introduzione a un’importante raccolta poetica da lui stesso curata, prospetta le differenze fondamentali che distinguono la figura della donna nella poesia pre-stilnovistica e in quella stilnovistica.
[...] La donna gentile dei poeti nuovi era davvero altra cosa dalla analoga immagine dei Toscani, dei Siciliani, dei Provenzali [...] poiché, se da una parte la nuova donna gentile – lo si è visto – è identificata in un angelo, in una Intelligenza Motrice che opera beneficamente sul cuore gentile dell’uomo, provocando, in 5 un continuo processo di perfettibilità morale, il passaggio dalla potenza all’atto1 [...]; dall’altra quella stessa immagine femminile viene trasposta da termine di un rapporto ideologicamente feudale e cavalleresco a termine di un rapporto ideologicamente borghese e comunale, storicamente impossibile ai poeti delle generazioni spente2. Insomma, mentre la donna dei poeti tradizionali, fantasti10 camente astratta o concreta, biograficamente identificabile o meno, socialmente più o meno qualificata, viene sempre inserita in un rapporto cortese di carattere feudale e cavalleresco e proiettata in un’altezza tendenzialmente politico-sociale [...], la donna degli stilnovisti è la donna della nuova borghesia comunale (vogliam dire della nuova nobiltà dei ricchi?), rivale su altro piano [...] delle reine 15 Ginevre e delle madonne Isotte3, sul piano cioè di una elezione letteraria che ha profonde e schiette motivazioni etiche; e viene inserita invece in un rapporto socialmente democratico, ma ugualmente proiettata verso altezze sublimi solo in grazia della funzione eticamente eudemonistica che il poeta le attribuisce4 e le riconosce [...]. 20 Beatrice, Giovanna, Mandetta, Selvaggia5 sono donne di una nuova realtà storicosociale, non espressioni di “cortesia”, perché a loro mancherebbe proprio la “corte” (e ripensiamo alle regine, alle contesse, alle duchesse ecc.); vivono e operano nelle loro città, sono visibili alle finestre delle loro case; passeggiano nelle strade, incontrano i loro poeti, li salutano, e muoiono infine suscitando pianto e 25 cordoglio nel cuore dei loro innamorati. Eppure queste democratiche e comunali vicende assumono, per via delle idee-forza sopra indicate, valori emblematici e paradigmatici di poesia e di civiltà, anche perché sono pronte a caricarsi di un simbolismo fresco ed ingenuo, percepibile subito, a occhio nudo, che ci riporta ad una sovra-realtà di carattere metafisico.
1 il passaggio... all’atto: la terminologia filosofica aristotelica allude alla canzone di Guinizzelli Al cor gentil, in particolare alla quinta stanza, nella quale il poeta bolognese assimila la donna alle intelligenze angeliche preposte, secondo la cosmologia medievale, al movimento dei cieli (da qui il termine usato di «Intelligenza Motrice»).
2 spente: passate. 3 reine Ginevre... madonne Isotte: riferimento a due personaggi di romanzi cavallereschi, cioè Ginevra, moglie di re Artù, amata da Lancillotto e Isotta, amata da Tristano. 4 in grazia... le attribuisce: grazie alla funzione, che il poeta le attribuisce, di strumento capace di dare la felicità (all’uomo).
5 Beatrice... Selvaggia: Marti nomina qui le donne cantate dai poeti stilnovisti: dalla Beatrice dantesca a Giovanna e Mandetta, cui fa riferimento Cavalcanti, a Selvaggia, la donna amata da Cino da Pistoia.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Riassumi per punti in sequenza le osservazioni di Marti. 2. Sai spiegare perché il critico usa il plurale parlando della regina Ginevra e di madonna Isotta? 3. Scrivi una definizione dell’espressione «Intelligenza Motrice». 4. Cerca sul dizionario il significato dell’aggettivo eudemonistico e poi spiegalo con parole tue (puoi prendere spunto dalla nota 4 per cogliere il senso dell’espressione usata da Marti «funzione eticamente eudemonistica» in relazione al suo contesto).
3 «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti Una vita all’insegna della passione filosofica, poetica, politica Guido Cavalcanti (1259 ca.-1300), fiorentino, appartenente a una ricca famiglia di recente nobiltà, è ritratto dai contemporanei come uomo dotato di grande intelligenza, dal carattere sdegnoso e aristocratico, dedito alla poesia ma al contempo «ottimo loico [logico, ragionatore] e buon filosofo» (Boccaccio). Fu legato per alcuni anni da amicizia con Dante, che a lui fu accomunato per l’«altezza d’ingegno» e che nella Vita nuova lo definisce «primo de li miei amici». La separazione tra i due fu probabilmente dovuta a differenti interessi culturali, cui alludono in modo alquanto enigmatico alcuni celebri versi della Commedia (If X). Come dimostra la sua opera, Cavalcanti fu vicino alle tesi dell’aristotelismo radicale, l’averroismo (➜ PER APPROFONDIRE, L’averroismo, PAG. 271), diffuso soprattutto negli ambienti universitari bolognesi da lui frequentati. Schierato, come l’amico Dante, tra i guelfi di parte bianca, nel 1284 Cavalcanti fece parte del Consiglio generale del comune di Firenze. Partecipò in prima persona alle lotte tra Bianchi e Neri. In seguito all’intensificarsi di episodi di violenza, il 24 giugno del 1300 fu esiliato, insieme ad altri capi delle due fazioni, per decisione dei Priori (tra di essi vi era anche Dante). A Sarzana, dove si trovava in esilio, contrasse la malaria. Rientrato a Firenze, vi morì in quello stesso anno. L’opera poetica Cavalcanti ha lasciato un canzoniere di circa cinquanta testi (sonetti, ballate, canzoni), non tutti di sicura attribuzione. Nella sua attività poetica prende sicuramente spunto dalla lezione di Guinizzelli; mentre però quest’ultimo è aperto a diverse suggestioni (dai siciliani ai provenzali, a Guittone), la poesia di Cavalcanti si mostra omogenea nei modi e nei temi, marcatamente personale nelle immagini scelte e globalmente innovativa. È perciò forse più giusto, come oggi si tende a fare, considerare Cavalcanti anziché Guinizzelli il vero maestro della nuova poesia. La concezione cavalcantiana dell’amore Proprio per suggestione del tardo averroismo, Cavalcanti concepisce l’amore non come strumento di elevazione spirituale ma, al contrario, come una passione irrazionale e incontrollabile che si origina nella parte sensitiva, il cuore (nelle sue poesie il «core» è contrapposto all’anima, centro delle funzioni vitali, ma soprattutto alla mente, facoltà intellettuale che osserva e analizza). Per Cavalcanti l’amore è sostanzialmente “malattia” (➜ PER APPROFONDIRE, La concezione medievale dell’amore come malattia, PAG. 272): di conseguenza la donna, nella sua poesia, non esercita, come per Guinizzelli e soprattutto
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Dante, il ruolo salvifico di mediatrice verso il bene e Dio; l’apparizione della donna provoca nel poeta un paralizzante smarrimento: la sua sublime bellezza non può essere interpretata con il filtro della ragione né essere pienamente rappresentata con le parole. Questa impotenza a capire e a dire insieme origina l’angoscia che domina nei testi cavalcantiani. È sicuramente fuori luogo vedere nella poesia di Guido (come spesso in passato si è fatto sulla scia di un pregiudizio romantico) la spontanea confessione di un’infelice passione amorosa; in realtà, al poeta interessa esplorare, in modo lucido e distaccato, la passione amorosa e gli effetti psicologici e fisiologici che produce su di lui; egli conduce quest’analisi attraverso i metodi e la terminologia della medicina araba ormai noti in Italia.
PER APPROFONDIRE
L’immaginario poetico cavalcantiano Protagonista della poesia di Cavalcanti, più che la donna, è dunque l’interiorità del poeta, esplorata attraverso una profonda autoanalisi che ha effetti destabilizzanti. Domina nella sua poesia un clima drammatico, reso stilisticamente da frequentissime personificazioni, interrogazioni, apostrofi, esclamazioni. Si ripetono inoltre vere e proprie “scene” (la critica ha parlato di “teatralizzazione”) che alludono alla vittoria della distruttiva passione amorosa su un io debole e franto; nel tessuto linguistico ricorrono ossessivamente espressioni che alludono a paura, dolore, distruzione, morte. Maria Corti ha sottolineato la particolare iteratività delle scelte lessicali del poeta fiorentino. (➜INTERPRETAZIONI CRITICHE, PAG. 275)
L’averroismo Il termine averroismo indica il pensiero filosofico e scientifico del filosofo di origine araba Averroè (Ibn Rušd, 1126-1198) – autore di un importante Commento ai testi aristotelici – e di quanti ne seguirono l’insegnamento: in particolare la scuola filosofica fiorita attorno al 1270 nello Studium di Parigi, che ebbe i suoi maggiori esponenti in Sigieri di Brabante e nel suo discepolo Boezio di Dacia. L’insegnamento averroista si basa su una interpretazione di Aristotele diversa da quella sostenuta dalla Chiesa (e concordante con gli insegnamenti della Scrittura) e che per questo motivo sarà condannata come dottrina eretica dall’arcivescovo di Parigi, Stefano Tempier, nel 1277. L’interpretazione fornita da Averroè della filosofia aristotelica metteva in discussione alcuni dogmi della dottrina cristiana: anzitutto, affermando la necessità ed eternità della materia e del mondo, metteva in dubbio il concetto di creazione divina dell’universo; in secondo luogo, indicando nella ragione l’unico strumento valido per acquisire delle conoscenze scientifiche, apriva un pericoloso campo di autonomia per la ricerca umana rispetto alle verità ritenute tali per fede. Fu, però, soprattutto il cosiddetto “monopsichismo” (gr. mònos, “solo” e psyché, “anima”) a essere maggiormente attaccato dalle autorità religiose: l’averroismo sosteneva l’esistenza di una sola anima sovraindividuale, della quale le singole anime sarebbero manifestazioni imperfette. Solo la prima esisteva eternamente, mentre l’anima degli uomini era da considerarsi mortale, con i problemi che derivavano per la giustificazione del sistema di premi e punizioni prospettato dalla dottrina cristiana. A titolo di esempio, ecco alcune delle tesi condannate nel 1277 dall’autorità ecclesiastica.
Aristotele e Averroè (miniatura di Girolamo da Cremona, 1483, The Morgan Library and Museum, New York).
Tesi 18: La resurrezione futura non deve essere ammessa dal filosofo, perché è impossibile esaminare razionalmente il problema. Tesi 40: Non vi è stato migliore di quello del filosofo. Tesi 144: Quanto di buono è possibile all’uomo risiede nelle virtù intellettuali. Tesi 154: Soltanto i filosofi sono i saggi di questo mondo. Tesi 175: La legge cristiana è di ostacolo alla conoscenza. Tesi 211: Il nostro intelletto può, per sua natura, giungere alla conoscenza della causa prima. Per un primo orientamento: G. Vasoli, La filosofia medievale, Feltrinelli, Milano 1982.
Il dolce stilnovo 3 271
Gli spiritelli Tipico della poesia cavalcantiana è il contrasto fra entità psichiche personalizzate (gli spiritelli) in cui viene in un certo senso “sceneggiata” la drammatica condizione della frantumazione dell’io in seguito alla vittoria delle pulsioni irrazionali e sensuali sulla ragione, che in altri poeti presiede all’idealizzazione della figura femminile. Modernità di Cavalcanti Nonostante la difficoltà di lettura dei suoi testi poetici, legata anche ai codici rappresentativi di un tempo ormai lontanissimo da noi, la poesia di Cavalcanti presenta indubbi elementi di suggestione anche per noi moderni: l’amore cavalcantiano rappresenta infatti il manifestarsi dei fantasmi interiori, l’emergere di forze oscure e irrazionali che provengono dagli abissi dell’io, da quello che dopo Freud sarà chiamato “inconscio”. Amore sta per scoccare la sua freccia (miniatura, secolo XIV).
Fissare i concetti Il dolce stilnovo
PER APPROFONDIRE
1. Che cosa si indica con il termine “stilnovo”? 2. Chi è l’iniziatore del nuovo stile? 3. Quali caratteristiche formali e contenutistiche presenta lo stilnovo? 4. Chi sono gli esponenti dello stilnovo? 5. Qual è la concezione dell’amore di Guido Cavalcanti?
La concezione medievale dell’amore come malattia Nella cultura medievale era assai diffusa la concezione che considerava la passione amorosa una vera e propria malattia. È una visione che sconcerta non poco noi moderni e che aveva le sue radici in fonti classiche: letterarie (Lucrezio, il grande poeta latino del I sec. a.C., nel De rerum natura dedica ampio spazio a un’analisi molto negativa dell’innamoramento); filosofiche (Aristotele); ma soprattutto mediche (da Ippocrate a Galeno, alla medicina araba). Le scuole mediche di Salerno, Montpellier e Bologna arrivarono a definire stabilmente cause, sintomatologia e possibili rimedi della malattia d’amore: la malattia d’amore è fatta derivare da un continuo pensare all’oggetto amato, la cui immagine, percepita come piacevole dai sensi, e soprattutto dalla vista, rimane così saldamente impressa nell’organo dell’immaginazione da diventare un’idea ossessiva che ottenebra la ragione; il che provoca gravi conseguenze per l’intero organismo.
La malattia d’amore come topos letterario Le cognizioni mediche e filosofiche sull’amore sono riprese in modo quasi stereotipato dalla letteratura medievale e la malattia d’amore diviene un vero e proprio topos: nel Roman de Tristan in prosa, ad esempio, Tristano impazzisce in seguito alla forzata separazione da Isotta. Le convenzioni della malattia d’amore passano ai poeti provenzali e poi alla lirica italiana del Duecento (da Cavalcanti a Dante), pervasa da continui riferimenti ai sospiri, al pallore, al tremore, agli svenimenti e così via. Anche nel Decameron trova posto questo topos. La novella del Decameron che meglio esprime la malattia d’amore come una forza rovinosa capace di diventare addirittura letale è certamente quella che ha per protagonista la giovane Lisabetta da Messina (IV, 5), forse la più celebre vittima letteraria della malattia amorosa: in lei la privazione dell’oggetto del desiderio assume i caratteri autodistruttivi di una vera e propria “psicosi delirante”, come la definirebbe la moderna scienza psichiatrica. Saggio di riferimento: M. Ciavolella, La “malattia d’amore” dall’antichità al Medioevo, Bulzoni, Roma 1976.
272 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Guido Cavalcanti
T13 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
AUDIOLETTURA ANALISI INTERATTIVA
LEGGERE LE EMOZIONI
Voi che per li occhi mi passaste ’l core
È questo uno dei più noti ed esemplificativi fra i trentasette sonetti composti da Cavalcanti. In esso il poeta si rivolge alla donna (Voi che…) e la invita a contemplare l’effetto distruttivo provocato dall’amore nel poeta (guardate a l’angosciosa vita mia): tutte le sue facoltà vitali sono annientate, tranne l’uso della parola, che però può essere impiegata solo per esprimere dolore.
Voi che per li occhi mi passaste ’l core1 e destaste la mente che dormia2, guardate a l’angosciosa vita mia, 4
che sospirando la distrugge Amore3.
E’ vèn tagliando di sì gran valore4, che’ deboletti spiriti5 van via: riman figura sol en segnoria 8
e voce alquanta, che parla dolore6.
Questa vertù d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’occhi gentil’ presta7 si mosse: 11
un dardo mi gittò dentro dal fianco.
Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto8, che l’anima tremando si riscosse9 14
veggendo morto ’l cor nel lato manco10.
La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CDE. 1 Voi… core: «Voi che, servendovi degli sguardi, mi trafiggeste il cuore» (Contini). L’interlocutore è la donna amata.
2 destaste… dormia: risvegliaste la mente assopita. 3 che… Amore: che Amore distrugge (la è pleonastico) a forza di sospiri (sospirando è riferito a vita). 4 E’ vèn... valore: egli [l’Amore] va colpen-
do di taglio con tale forza (di sì gran valore). 5 deboletti spiriti: gli spiriti sono una presenza costante nella poesia cavalcantiana e derivano dalla filosofia naturale del tempo: indicano le facoltà sensoriali (la vista, il tatto...) e psichiche. La dispersione, la fuga degli spiriti (deboletti... van via) indica un indebolimento dell’energia vitale. 6 riman… dolore: restano in potere dell’Amore (en segnoria) solo l’aspetto esterno e la voce che esprime dolore (uso transitivo di parlare). 7 presta: veloce (latinismo). 8 Sì giunse… tratto: giunse (sogg. ’l colpo) così preciso (ritto, con una traiettoria diretta) al primo lancio (tratto). 9 si riscosse: si risvegliò. 10 lato manco: fianco sinistro.
Analisi del testo L’analisi “scientifica” degli effetti distruttivi dell’amore Ciò che il lettore percepisce immediatamente è il fatto che l’esperienza d’amore per Cavalcanti è angosciosa e distruttiva: da qui la frequenza, nel sonetto, di termini “negativi” associati all’amore: angosciosa vita mia, distrugge (vv. 3-4), dolore (v. 8), disfatto (v. 9), morto (v. 14) e di un lessico che rimanda alla battaglia (tagliando... dardo... colpo). Ogni strofa è aperta da un’immagine che allude al “colpire”, al “ferire”. Questa drammatica condizione non è però trasmessa al lettore attraverso il filtro della soggettività, dell’emotività. A Cavalcanti interessa costruire una rappresentazione analitica, oggettiva, quasi scientifica, di ciò che accade dentro di lui in rapporto all’esperienza d’amore. In questa, come in altre sue poesie, non sono in primo piano né l’io lirico né la donna, ma l’analisi lucida degli “effetti d’amore”. Assistiamo in questa e in altre poesie cavalcantiane a una sorta di “dissezione anatomica” che interessa il corpo e lo spirito, in una prospettiva strettamente organicistica che deriva certamente dall’adesione di Cavalcanti all’averroismo.
Core-anima-mente: una terminologia “tecnica” per una scena teatrale Il lettore moderno legge istintivamente la parola core come sede dei sentimenti o anche come sinonimo di animo, mentre Guido Cavalcanti, in rapporto alle proprie conoscenze filosofiche, usa questo termine in modo tecnico, con una precisa accezione così come, del resto, i termini anima e mente, a cui corrispondono entità ben distinte: la mente è la sede del pensiero, l’atti-
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vità razionale che contempla e analizza (ma non riesce a comprendere); il core è il luogo della sensibilità cui afferiscono gli spiriti vitali; l’anima è il centro unificatore delle funzioni vitali e ha comunque a che fare con l’ambito sensibile, con il piano fisiologico. Il riferimento a queste tre entità è costante: «in Guido la mente, l’anima e il cuore si spartiscono i ruoli sul palcoscenico poetico della vicenda amorosa» (M. Corti). Nell’animazione teatrale degli stati d’animo si manifesta il bisogno di Cavalcanti di oggettivare la trattazione del tema amoroso, ma si esprime al tempo stesso anche il tema della dissociazione prodotta dall’amore all’interno del soggetto.
Guido e gli “spiriti” Nella poesia di Guido Cavalcanti è molto frequente la presenza degli spiriti o spiritelli (il termine ricorre più di 40 volte nel corpus). Cavalcanti rielabora e utilizza in modo del tutto personale un concetto che ha la sua radice nella medicina araba, e in particolare nel pensiero del medico e filosofo musulmano Avicenna (980-1037): gli spiriti si formano nel cuore, sono composti di materia sottile e presiedono alle funzioni vitali dell’organismo attraverso i nervi, le vene e le arterie. Cavalcanti va però oltre il piano fisiologico, per fare degli spiriti delle entità vive, funzionali alla sua drammatica e pessimistica visione: gli spiritelli agiscono su una specie di “scena” – che corrisponde all’io turbato del poeta – in cui avvengono continuamente battaglie, scontri, messe in fuga di queste entità da parte del nemico, identificato nella distruttiva passione amorosa. La presenza degli spiriti tornerà nella prima parte della Vita nuova di Dante, in cui più marcata è l’influenza di Cavalcanti, in particolare in rapporto alla descrizione degli effetti sconvolgenti prodotti nel poeta dalla prima comparsa di Beatrice (II, 4-7).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. ANALISI 2. La struttura del componimento prevede una progressione nelle due terzine oppure si può definire circolare? Motiva la tua risposta. 3. Osserva la scelta delle parole collocate in rima, in particolare: core : Amore : dolore e vita mia : en signoria. Quale significato si può attribuire a questi gruppi? LESSICO 4. Rintraccia nel testo i termini e le immagini che appartengono al campo semantico della guerra (riprendendo il tópos dell’“amore come guerra”) suddividendoli in sostantivi, aggettivi, verbi.
Interpretare
SCRITTURA DOCUMENTATA 5. Sulla base dei ➜ T12 - T13 sviluppa il tema della seduzione dello sguardo in amore (max 15-20 righe). Gli spunti di partenza forniti sono: una celeberrima tela (dipinta in un secolo lontano dal tempo in esame) D1 e la riflessione di un noto psicoanalista contemporaneo riferita al ➜ D1 .
D1 Jan Vermeer, La ragazza con l’orecchino di perla o col turbante (1660-65, L’Aja, Museo Mauritshuis). «L’occhio è uno specchio sul quale resta impressa l’immagine dell’amata, e dal quale
D2 essa giunge al “core”, e si imprime nell’anima. La percezione visiva dell’amata non
è sufficiente perché l’attrazione estetica diventi attrazione erotica. È necessaria una visione interna, interiorizzata, della donna e ciò può avvenire solo lasciando decantare l’immagine reale grazie all’assenza, alla lontananza nel tempo e nello spazio. […] L’immagine della donna amata perde così le sue reali connotazioni e si trasfigura in un’immagine psichica, contemplata non attraverso i sensi esterni ma attraverso un occhio interiore, l’occhio del poeta. Ciò che questa vista interna decifra e rivela sono le operazioni psicologiche più sottili, più segrete e più complesse dell’esperienza della seduzione amorosa, che, tradotte in parola, danno vita ad una tra le più alte pagine della letteratura occidentale». A. Carotenuto, Riti e miti della seduzione, Bompiani, Milano 1994 LEGGERE LE EMOZIONI
6. Attingendo a tue esperienze e convinzioni, spiega se e per quali motivi la concezione cavalcantiana dell’amore presenta aspetti di modernità.
274 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Maria Corti L’iteratività come “cifra” della poesia cavalcantiana M. Corti, L’iteratività come “cifra” della poesia cavalcantiana, prefaz. a G. Cavalcanti, Rime, a c. di M. Ciccuto, Rizzoli, Milano 1987
Nel saggio introduttivo alle Rime di Cavalcanti, Maria Corti sottolinea il carattere sostanzialmente statico della “scena” poetica cavalcantiana, che riproduce, secondo diverse angolazioni, una stessa tematica che al poeta sta a cuore indagare: l’effetto sconvolgente e addirittura distruttivo dell’amore. Da qui la presenza di situazioni ripetute e di segnali linguistici che alludono costantemente al dolore, alla distruzione, alla morte.
[Al] livello della animazione teatrale degli stati d’animo, la situazione ripetitiva si costruisce su alcuni precisi motivi: la battaglia, la sconfitta, la morte. Ciascuno di tali motivi è un centro focale, da cui parte il processo di espansione stilistica e di iteratività1; ciascuno di essi ha il suo corteggio2 di aggettivi e di sintagmi che rimbalzano da un testo all’altro: pochi, dunque, e ripetuti (dolente, pauroso, angoscioso, tristo, sbigottito, dispietato, disfatto, distrutto, dispento, morto): (la mente) piena di dolor, (l’anima) piena di sospir, (il cuore) pieno d’angoscia, (novelle) piene di doglia e di molta paura; e ancora nato di pianto, bagnato di pianto, adornato di pianto, ecc. [...] L’iteratività è elemento strutturale non soltanto a livello di intertestualità, cioè come struttura di riferimento, ma come repetitio [ripetizione] di un vocabolo a rendere all’interno di un solo testo l’immagine della progressiva e fatale sconfitta: XXXIV, I
5
La forte e nova mia disaventura m’ha desfatto nel core ogni dolce penser, ch’i’ avea, d’amore. Disfatta m’ha già tanto de la vita, che la gentil, piacevol donna mia dall’anima destrutta s’è partita, sì ch’i’ non veggio là dov’ella sia.
Disaventura, desfatto, disfatta, destrutta: qualcosa che è climax3, ma anche sinonimia amplificante e ancor più […] drammatizzazione di una stessa idea attraverso la ripetizione; e si aggiunga, nel caso, l’alternanza prefissale dis-/des- a incremento connotativo4. […] Si assiste a un continuo processo di ridistribuzione degli elementi di pochissimi campi semantici, a una ristrutturazione del materiale tematico e lessicale prestilnovistico e stilnovistico, notevolmente ridotto, ma utilizzato attraverso una nuova elaborazione concettuale: l’irreparabile contrasto fra la figura ideale della donna, che prende vita nella mente, e l’amore sensibile, cioè l’apporto passionale dell’anima sensitiva, del cuore e degli spiriti vitali all’interiore vicenda amorosa; tale contrasto e scontro è liricamente sublimato in una continua riscrittura, raffinatissimo gioco combinatorio di unità semantiche, di volta in volta sinonimi o antonimi, che lentamente creano nel lettore l’appropriato orizzonte d’attesa, donde lo straordinario fascino di questa altissima poesia. 1 iteratività: ripetizione. 2 corteggio: gruppo di elementi intorno a qualche cosa. 3 climax: vedi "climax" in glossario. 4 connotativo: vedi “connotazione” in glossario.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
Collabora all’analisi
T14 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
1. Che cosa intende la Corti con l’espressione «animazione teatrale degli stati d’animo»? 2. Secondo la Corti, la poesia cavalcantiana è fondata sull’«iteratività» e sulla «ristrutturazione del materiale tematico e lessicale prestilnovistico e stilnovistico», che Cavalcanti riduce notevolmente. Prova a spiegare i due concetti. 3. Nell’ultima parte del passo si parla di un «irreparabile contrasto»: che cosa riguarda? 4. Cerca il significato del termine antonimo (contrapposto a sinonimo) e spiegalo con parole tue. 5. Alla fine del passo si parla di un «orizzonte d’attesa» creato nel lettore da Cavalcanti. Sai spiegare questo concetto? Come Cavalcanti crea un «appropriato orizzonte d’attesa»?
Guido Cavalcanti
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira È, questo, uno dei più celebri sonetti cavalcantiani. Incentrato sulla lode della donna, il sonetto guarda espressamente al modello guinizzelliano; ma si avverte un clima poetico diverso, prettamente cavalcantiano: la lode sfocia nell’ammissione dell’ineffabilità, il tentativo di conoscere razionalmente l’essenza della bellezza femminile (e, alla fine, dell’Amore) naufraga di fronte a un’apparizione soprannaturale, più che terrena. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira1, che fa tremar di chiaritate l’âre2 e mena seco3 Amor, sì che parlare 4
null’omo pote, ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira, dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare4: cotanto d’umiltà donna mi pare, 8
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira5.
Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, 11
e la beltate per sua dea la mostra6.
Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose ’n noi tanta salute, 14
che propiamente n’aviàn canoscenza7.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE EDC. 1 Chi è… la mira: il sonetto si apre con una domanda, che si conclude al quarto verso. Si tratta in realtà di una domandaesclamazione di fronte alla straordinaria apparizione della donna, che attira su di sé gli sguardi ammirati di tutti. L’incipit del sonetto riecheggia passi biblici (in particolare «Chi è costei che avanza…» dal Cantico dei Cantici 6, 9) e traspone su un piano laico espressioni proprie del culto mariano.
2 che fa… l’âre: che trasmette un fremito
6 Non si poria… la mostra: non sarebbe
di luce all’aria, che fa palpitare di luminosità l’aria. Il tema della luce che la donna emana è probabilmente memore della cosiddetta “metafisica della luce”, elaborata dai francescani e dal filosofo domenicano Alberto Magno. 3 mena seco: conduce con sé. 4 dical’… contare: lo dica Amore in persona, perché io non lo saprei esprimere. 5 cotanto… ira: mi sembra una donna dotata di tanta umiltà che ogni altra, a paragone con lei, la chiamerei ira (ovvero “superba”, “sdegnosa”).
possibile descrivere la sua bellezza, perché davanti a lei si inchina ogni nobile virtù e la bellezza (personificazione) la indica come sua dea. 7 Non fu… canoscenza: la nostra capacità di conoscere (mente) non fu così elevata e non è stata posta in noi tanta perfezione (salute) che possiamo adeguatamente conoscere (un essere così perfetto).
276 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
Il sonetto si apre con una domanda relativa alla figura femminile, la cui folgorante apparizione domina l’intera composizione. 1. Il poeta si interroga sull’identità di una figura sconosciuta oppure il senso della sua domanda è un altro? È data, in seguito, risposta alla domanda? 2. Fai la parafrasi della prima quartina. La seconda quartina contiene la prima di tre dichiarazioni in successione che fanno riferimento all’inadeguatezza del poeta a rappresentare la donna, dichiarazioni sottolineate dalla ripetizione di formule negative. 3. Individua e trascrivi le tre formule negative presenti nel testo. 4. A che cosa si riferiscono le dichiarazioni di inadeguatezza del poeta e da che cosa è motivata la sua impotenza? La situazione rappresentata dal sonetto richiama esplicitamente il testo guinizzelliano Io voglio del ver la mia donna laudare (➜ T12 ) con il quale, probabilmente, Cavalcanti intende entrare in competizione: l’avanzare della donna tra gli sguardi stupefatti, la sua bellezza e gentilezza riprendono temi e anche singole espressioni del testo di Guinizzelli. 5. Individua nel sonetto le analogie tematiche e i termini che ricorrono anche nel testo guinizzelliano: hanno la stessa accezione? Con forte scarto rispetto alla lode di Guinizzelli, Cavalcanti rinuncia completamente ai parallelismi tra la bellezza della donna e gli elementi della natura e, qui come in altre composizioni, colloca la figura femminile in un orizzonte astratto: l’uomo può solo contemplare, in uno stato di sostanziale passività, quasi di estasi, il manifestarsi sconvolgente di un’apparizione sovrumana. 6. Può avere un significato l’assenza di ogni similitudine nel sonetto cavalcantiano? 7. La lirica è dominata dall’allusione al silenzio attonito di fronte all’apparizione della donna: in quali punti del testo vi si fa riferimento? Quale significato si può attribuire a questo silenzio? 8. Quali effetti produce l’apparizione della donna? Riguardano solo il poeta o un’intera collettività? Il sonetto cavalcantiano esemplifica in modo chiaro le più generali scelte stilistiche degli stilnovisti: la sintassi piana, con una tendenza alla ripetizione dei costrutti, e l’elegante medietà del lessico. Il risultato di questo insieme di scelte è una composizione armonica che si contrappone nettamente al trobar clus di Guittone. 9. La struttura sintattica del testo poggia sulla ricorrenza di una stessa proposizione subordinata, cosa che crea un effetto armonico: di quale proposizione si tratta? Individuane e trascrivine le occorrenze nel testo.
Interpretare
10. In un breve testo (15 righe circa) fai un confronto tra il sonetto di Guinizzelli Io voglio del ver e questo sonetto cavalcantiano, mettendo in luce le analogie, ascrivibili a un comune contesto, e le differenze.
Il dolce stilnovo 3 277
VERSO IL NOVECENTO
Epifanie femminili novecentesche: due esempi
Ezra Pound Apparuit E. Pound, Ripostes (1912), in Le poesie scelte, con un saggio di T.S. Eliot, trad. di A. Rizzardi, Mondadori, Milano 1960
Nel 1912 il poeta americano Ezra Pound (1885-1972) pubblicò una sua traduzione delle poesie di Guido Cavalcanti premettendovi un’ampia introduzione che, come sempre negli interventi critici di Pound, chiamava anche in causa la natura della poesia, la sua capacità di suscitare emozioni. Nella sua opera di traduttore egli cercò, per sua esplicita dichiarazione, di riprodurre il potere magico della parola, il valore esoterico della poesia, ponendosi in intima sintonia con i ritmi poetici propri della lirica cavalcantiana. Il testo lirico qui proposto è un indubbio frutto dell’appassionata frequentazione della poesia stilnovistica da parte di Pound. Forse, in particolare, vi si può vedere un’eco del celebre sonetto cavalcantiano Chi è questa che vèn (➜ T14 ). Nella lirica di Pound domina infatti la stessa stupefatta ammirazione dell’io lirico di fronte all’epifania (il titolo latino Apparuit significa appunto “apparve”) della donna, immagine abbagliante di luce, creatura a metà tra la terra e il cielo. La messaggera dell’“oltre” dilegua rapidamente e rimane la frustrazione della poesia che per un attimo l’ha percepita, ma che non può realmente possederla: un tema, quello dell’impotenza della parola a “dire” la sublime bellezza della donna, assai diffuso nello stilnovismo, soprattutto cavalcantiano e dantesco. Riproduciamo la seconda parte della poesia. Svelta al coraggio tu nella conchiglia d’oro, disciolta la forma del corpo, venivi risplendette allora il tuo verone e la meravigliosa luce impallidiva intorno a te1.
Metà dell’omero inciso2, la gola un bagliore di fili di luce che l’avvolgevano, vaghissima3 più d’ogni altra cosa, lieve alabastro, ahimè! rapida nell’allontanarsi. 5
Vestita di trame dorate, delicata e perfetta,
fuggita come un vento! La tela delle magiche mani!4 Tu5 cosa da nulla, tu nell’eccesso dell’artificio hai osato fingerti questo? 10
1 Svelta... intorno a te: la figura della donna (la cui identità rimane del tutto indeterminata) è connotata, come nelle poesie stilnoviste, dalla luce abbagliante che emana e che si trasfonde al balcone (verone). La conchiglia d’oro, associata alla donna, è probabilmente memore della Nascita di Venere di Botticelli. 2 Metà... inciso: immagine ermetica, di difficile decifrazione: allude forse ai capelli che ombreggia-
278 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
no per metà il collo e la spalla della donna (ancora come nella Venere di Botticelli). 3 vaghissima: bellissima. 4 La tela... mani!: allusione agli effetti miracolosi prodotti (come nello stilnovo) dalla donna. 5 Tu: Pound si riferisce probabilmente a sé stesso e, per estensione, a ogni altro poeta che ha preteso di rappresentare (fingerti) lo straordinario prodigio dell’apparizione della donna.
Arturo Onofri Dea in forma di donna A. Onofri, Terrestrità del sole, Edizioni La Finestra, Trento 1998
Ancora più evidente è il riferimento al testo cavalcantiano (in particolare nell’incipit, qui riprodotto) in questa lirica (1927) di un poeta primo-novecentesco, Arturo Onofri (1885-1928), collaboratore della rivista La Voce. All’apparizione della figura femminile sono conferiti, in questa poesia, tratti più espressamente religiosi e salvifici, che ne fanno una figura capace di attivare intorno a sé prodigiose metamorfosi. Chi è questa improvvisa dea che appare?1 Occhi diafani stellano di luna2 sotto il manto ondeggiante delle chiome. Da quella bocca, che sui denti abonda
nelle labbra imbronciate come un fiore, la voce non la intende altri che il mare3. Perché venne fra noi come una donna?4 [...] 5
1 Chi è... appare?: chi è questa dea che appare all’improvviso? 2 Occhi... di luna: immagine analogica: i suoi occhi chiari emanano una luce simile al chiarore lunare.
3 Da quella bocca... il mare: solo il mare può comprendere le parole che escono da quella bocca, le cui labbra imbronciate sembrano un fiore.
4 Perché... una donna?: il poeta si chiede perché l’essere soprannaturale ha assunto le sembianze di una donna terrena.
Guido Cavalcanti
T15 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Perch’i’ no spero di tornar giammai La ballata (➜ C2 PAG. 161) è certamente uno dei testi più conosciuti di Guido Cavalcanti. Questa notorietà si deve anche alla tradizionale interpretazione (oggi messa in discussione) che faceva del testo un doloroso messaggio alla donna amata composto quando Guido si trovava esiliato a Sarzana e gravemente malato. In realtà non esistono elementi per ascrivere la composizione a un preciso momento biografico. Più probabile è la radice letteraria del testo: la ballata ripropone il topos, comune nella poesia cortese, della “lontananza” associata all’amore. Nella ballata il poeta si rivolge alla sua stessa composizione attraverso un’espressione vezzeggiativa (ballatetta), invitandola a raggiungere la donna amata. Perch’i’ no spero di tornar giammai1, ballatetta, in Toscana, va’ tu, leggera e piana2, dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia3 ti farà molto onore. 5
Tu porterai novelle4 di sospiri piene di dogli’5 e di molta paura; ma guarda che persona non ti miri6 La metrica Ballata con schema ABAB (fron-
1 Perch’i’... giammai: dato che non spero
te) Bccddx (sirma). Le stanze sono di 10 versi ciascuna (5 endecasillabi e 5 settenari). La ripresa (vv. 1-6) riprende la sirma delle stanze.
di tornare più. 2 leggera e piana: veloce e lieve. 3 per sua cortesia: per la sua gentilezza.
4 novelle: notizie. 5 dogli’: dolore. 6 miri: scorga.
Il dolce stilnovo 3 279
che sia nemica di gentil natura: ché certo per la mia disaventura7 tu saresti contesa8, tanto da lei ripresa9 che mi sarebbe angoscia; 15 dopo la morte, poscia, pianto e novel dolore. 10
Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona10. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire11: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco12 25 (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core. 20
Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate13 quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate14,
a quella bella donna a cu’ ti mando. Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’presente: «Questa vostra servente vien per istar con voi, 35 partita da colui che fu servo d’Amore». 30
Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente, coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta15 mente. Voi troverete una donna piacente16, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora17. 45 Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore18. 40
7 per la mia disaventura: per mia sventura. 8 contesa: osteggiata. 9 ripresa: rimproverata. 10 per quel... ragiona: a causa di ciò di cui parlano tutti gli spiriti (l’imminenza della morte).
11 soffrire: resistere. 12 mena l’anima teco: conduci l’anima con te.
15 strutta: distrutta. 16 piacente: adorna di bellezza. 17 che vi... ognora: che vi darà piacere
13 amistate: amicizia. 14 nella sua pietate: nella sua pietosa
18 Anim’… valore: e tu, anima, adorala
condizione.
sempre per le sue virtù (valore).
280 Duecento e Trecento 4 “Ragionard’Amore”
starle sempre (ognora) davanti.
Analisi del testo Il codice cavalcantiano La ballata ripropone la visione pessimistica che caratterizza la poesia cavalcantiana, con il corollario abituale di termini che alludono all’angoscia, al dolore (sospiri, distrutta, piangendo, dolente ecc.). Qui, però, più che all’azione distruttiva e destabilizzante dell’amore-passione, Guido allude alla triste percezione dell’imminenza della morte (comunque si intenda questo riferimento, come reale o come immaginario). Il tono è più malinconico e pacato che drammatico.
Un’immagine femminile rassicurante La composizione inoltre non ruota, come di solito, intorno all’autoanalisi tormentosa del poeta, ma alla presenza della donna, che, contrariamente ad altri testi, è un’immagine rassicurante: la figura femminile non è presentata come sconvolgente apparizione capace di annichilire il poeta e metterne in fuga gli spiriti vitali, ma come immagine dolce e gentile, che saprà accogliere benevolmente la messaggera del poeta, ovvero la sua piccola ballata.
La piccola ballata Quest’ultima è il terzo personaggio della composizione, accanto all’io lirico e alla donna gentile: il poeta le si rivolge affettuosamente attraverso il vezzeggiativo ballatetta e le affida il suo messaggio, che ribadisce l’eterna “servitù d’amore” del poeta. Traspare dal testo, indirettamente, attraverso la personalizzazione della ballata, la fedeltà del poeta alla poesia amorosa nei modi del “dolce stile”, mentre il riferimento al timore che spiriti volgari possano intercettare la sua poesia («guarda che persona non ti miri / che sia nemica di gentil natura») ribadisce l’idea di una destinazione-circolazione limitata a un pubblico elitario e raffinato. Sarà questa “chiusura” programmatica che finirà per dividere Guido dall’amico Dante, proiettato invece verso un’idea di poesia come “missione” che lo condurrà oltre i ristretti confini dei “fedeli d’Amore”.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Completa la tabella sintetizzando il contenuto di ogni strofa e individuando tematiche e parole chiave. Infine, organizza i dati raccolti in un testo chiaro e completo (max 15 righe). sintesi
tema centrale
parola chiave
Ripresa vv. 1.6 I vv. 7-16 II vv. 17-26 III vv. 27-36 IV vv. 37-46 COMPRENSIONE 2. Chi è servente (v. 33)? 3. Quale funzione esercita nel testo la ballata, a cui il poeta si rivolge? LESSICO 4. Individua nel testo i termini e le espressioni che Cavalcanti utilizza per descrivere la ballatetta, a partire dall’uso del diminutivo affettivo. 5. Individua e trascrivi le espressioni che alludono al dolore. Quale visione traspare?
Il dolce stilnovo 3 281
StILe 6. Con quale procedimento stilistico si apre la ballata? 7. Riesci a individuare la sola rima siciliana presente nella ballata? (È nella penultima stanza).
Interpretare
conFronto trA teStI 8. In questo componimento è riproposto il topos della “lontananza” associata all’amore, motivo caro alla poesia cortese, ma affrontato da Cavalcanti con originalità. Argomenta in un breve testo (max 20 righe) e prova a mettere in evidenza le possibili differenze e analogie. Per la tua trattazione, possono esserti utili queste domande. a. La lontananza in Cavalcanti rende l’amore più sognato o reale? b. Come vive il poeta la separazione dall’amata? c. La solitudine provata dal poeta è angosciosamente reale? Perché? d. La dolorosa lontananza dalla donna amata è pretesto per un intimo colloquio del poeta con sé stesso? e. Il poeta intende raccontare un fatto o una dolorosa condizione di vita?
online t16 Guido cavalcanti Deh, spiriti miei, quando mi vedete
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
Donne sommerse: le rimatrici trecentesche Un attivo cenacolo poetico Fin dai primordi della letteratura italiana la donna è sostanzialmente destinataria silenziosa della parola poetica dell’uomo che la celebra come oggetto del desiderio nei differenti registri della dedizione cavalleresca, dell’elogio del corpo, della lirica che analizza la complessa natura dell’amore. A dispetto di quella che appare come una generalizzata “passività” della donna in questo iniziale ambito letterario, abbiamo, in epoca trecentesca e nello spazio geografico delle Marche, la testimonianza di un’attività letteraria femminile. Si tratta di un cenacolo poetico, tra i primi in epoca medievale, in cui alcune scrittrici affrontano, con netto anticipo sulla querelle des femmes rinascimentale, il tema della condizione di subordinazione al dominio maschile. La scoperta dei filologi Mercedes Arriaga Flórez e Daniele Cerrato, due studiosi rispettivamente dell’Università di Siviglia in Spagna e dell’Università Ateneum Gdansk in Polonia, hanno il merito di avere riscoperto, nel trattato Topica poetica (1580) dell’erudito Andrea Gilio da Fabriano, questa “generazione
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
cancellata” e di aver pubblicato un corpus di dieci sonetti nel libretto «Tacete, o maschi». Le poetesse marchigiane del ’300 accompagnate dai versi di Antonella Anedda, Mariangela Gualtieri e Franca Mancinelli, a cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini (Argolibri, Ancona 2020). Le poetesse di questo cenacolo propongono nei loro sonetti diversi temi; tra i più interessanti spicca la consapevolezza del femminile che rifiuta di essere considerata mero oggetto del desiderio maschile e si afferma come soggetto capace di autodeterminazione. Uno di questi componimenti viene attribuito a Leonora della Genga, appartenente a una nobile famiglia di Fabriano, vissuta intorno il 1360. Il testo Nel sonetto Tacete, o maschi, a dir, che la Natura, l’autrice si spinge ben oltre una semplice protesta: rivendica pari diritti per uomo e donna, partoriti allo stesso modo dalla natura. (Il testo, nella versione a stampa cinquecentesca è tratto da Topica poetica di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, 1580)
Tacete o maschi a dir, che la Natura In far il maschio solamente intenda, E per formar la femina non prenda, 4 Se non contra sua voglia alcuna cura.
State zitti, o maschi, e non dite che la natura sia intenta solo a creare il maschio e per creare la femmina non usi alcuna attenzione e lo faccia controvoglia.
Qual invidia fatal, qual nube oscura Fà, che la mente vostra non comprenda, Com’ella in farle ogni sua forza spenda, 8 Onde la gloria lor la vostra oscura?
Quale invidia fatale, quale forza oscura impedisce a voi uomini di comprendere che la Natura spende ogni sua forza per creare la donna, tanto che la vostra gloria è oscurata?
282 Duecento e trecento 4 “Ragionard’Amore”
Sanno le donne maneggiar le spade, Sanno regger gli Imperi, e sanno ancora 11 Trovar il camin dritto d’Elicona.
Le donne sanno combattere Sanno governare, e sanno anche poetare1.
In ogni cosa il valor vostro cade Huomini appresso loro, c’huomo non fora 14 Mai per torne di man pregio, ò corona.
Sotto ogni profilo il vostro valore cade uomini, a confronto con le donne. L’uomo non si attiva mai se non per ricavare gloria o potere.
1 È il senso del v. 11 cioè “camminare dritta sul monte residenza delle Muse”.
Comprensione del sonetto L’esordio è potente: «Tacete», state zitti, maschi; si rivolge al sesso (e non al genere) perché l’ambito dal quale la poetessa parte è quello della creazione: presenta la Natura intenta, attenta e desiderosa di realizzare il femminile, contrariamente a quanto affermato dalla sponda opposta. Per sottolineare l’opera utilizza il verbo formare, sottintendendo forse un medesimo materiale di partenza, possibile allusione alla costola di Adamo secondo il racconto biblico. Nella seconda quartina l’autrice lancia una sorta di sfida attraverso delle interrogative retoriche, tese a svelare la meschinità invidiosa e l’incapacità maschile di comprendere quante risorse abbia speso la Madre nel partorire l’essere femminile. La rivendicazione della prima terzina vede Leonora chiamare in causa il genere, perché l’ambito è cambiato, ora è quello sociale: le donne sanno muoversi in campo militare, politico e infine culturale, se addirittura trovano la strada “diritta” (senza troppa difficoltà?) verso il monte residenza delle Muse. Nell’ultima terzina l’uomo non regge il confronto con la donna; segue un verso controverso, che potrebbe essere sciolto così: perché l’uomo non si attiva mai se non per ricavare gloria o potere. L’autrice affermerebbe che l’universo maschile si muove solo per tornaconto personale, al contrario di quello
femminile, per cui il primo esce malconcio dal confronto. Quella di Leonora insomma si configurerebbe come una risposta ironica alla misoginia e alla misconoscenza del genere muliebre, genere ridotto al silenzio e al nascondimento dalla cultura maschile dominante.
Interrogarsi sulla disparità di genere La scelta di Leonora della Genga di interpretare il suo tempo, di affrontare tematiche civili e di confrontarsi con gli uomini la rende interlocutrice valida anche per noi oggi. La sua capacità di interrogarsi, la sua fierezza e la sua fermezza nell’affermare i diritti, almeno sulla carta, ce la rende vicina e ci aiuta a riflettere su temi importanti della nostra epoca, come quello della parità di genere. Tale diritto è inserito nell’Agenda 2030 ed è l’obiettivo n. 5: «non è solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace. Garantire alle donne e alle ragazze parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, a un lavoro dignitoso, così come la rappresentanza nei processi decisionali, politici ed economici, promuoverà economie sostenibili, di cui potranno beneficiare le società e l’umanità intera». Proviamo a confrontarci.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Rileggete con attenzione il testo con l’aiuto dell’insegnante, analizzate le parole chiave (maschio, femina, Natura, donna, huomo, maneggiar le spade, regger gli Imperi, trovar il camin dritto d’Elicona) e cercate di attribuire loro il significato. ANALISI E DISCUSSIONE 2. Partendo dal lavoro precedente, individuate su quale base si fonda la parità tra sessi che la poetessa rivendica e discutetene in classe.
Interpretare
RICERCA DI DOCUMENTAZIONE 3. Ricercate documentazione riguardo i campi della vita quotidiana in cui la disparità di genere è ancora molto pronunciata: politica, economia, cultura, sport (classe divisa in gruppi). CONDIVISIONE 4. Successivamente condividete i dati reperiti.
Il dolce stilnovo 3 283
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Guido Cavalcanti
L’anima mia vilment’ è sbigotita Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
L’anima mia vilment’ è sbigotita1 de la battaglia ch’e[l]l’ave dal core2: che s’ella sente pur un poco Amore 4 più presso a lui che non sòle, ella more3. Sta come quella che non ha valore, ch’è per temenza da lo cor partita4; e chi vedesse com’ ell’è fuggita 8 diria per certo5: «Questi non ha vita». Per li occhi venne la battaglia in pria6, che ruppe ogni valore immantenente7, 11 sì che del colpo fu strutta8 la mente. Qualunqu’è9 quei che più allegrezza sente, se vedesse li spirti fuggir via, 14 di grande sua pietate10 piangeria. 1 vilment’è sbigotita: ignobilmente sconfitta, vinta. 2 ch’e[l]l’ave dal core: che essa [l’anima] riceve dal cuore. 3 che s’ella… more: poiché, se essa avverte la presenza dell’Amore più vicino a lui [il cuore] di quanto di solito non accada, morirà. L’amore è presentato come un temibile nemico, come spesso nei versi di Cavalcanti.
Comprensione e analisi
Interpretazione
4 Sta… partita: la condizione
6 Per li occhi… in pria: gli occhi
dell’anima è quella di chi non ha più energia, forza vitale (valore), che si è allontanata per viltà dal cuore. 5 diria per certo: direbbe sicuramente. La desinenza del condizionale è siciliana; più sotto anche piangeria.
sono stati la prima sede della battaglia sferrata da amore. 7 immantenente: subito. 8 strutta: distrutta. 9 Qualunqu’è: chiunque. 10 di grande sua pietate: per la grande pietà che proverebbe.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprende le risposte alle domande proposte. 1. Dopo aver individuato le parole chiave, presenta il contenuto della lirica, mettendone in rilievo il tema fondamentale. 2. Indica lo schema metrico: è lo schema consueto delle rime nel sonetto? 3. Quali sono gli “attori” del dramma cui si fa riferimento nel testo? 4. Anima, core, mente sono usati nell’accezione comune di oggi? Motiva la tua risposta. 5. Li spirti cui fa riferimento il v. 13 sono frequentemente nominati da Cavalcanti: a che cosa si riferiscono? Qual è la loro funzione nella concezione amorosa di Cavalcanti e quale ruolo esercitano nello scenario poetico di questa e altre liriche cavalcantiane? 6. A quale campo semantico appartiene il lessico con cui il poeta esprime la forza distruttiva dell’amore? Metti in luce la concezione dell’amore che il sonetto esprime e fai adeguati collegamenti tematici e stilistici con altri testi.
284 Duecento e Trecento “Ragionard’Amore”
Duecento e Trecento “Ragionar d’amore”
Sintesi con audiolettura
1 La scuola siciliana
Il trapianto della lirica amorosa in Italia L’eredità della poesia trobadorica è alla base della cosiddetta “scuola siciliana” (circa 1230-1250): con il termine si designa la lirica che si sviluppa all’interno della multiculturale Magna Curia, la corte di Federico II di Svevia (in Sicilia e altri centri del Meridione). La sua fioritura si inscrive in un progetto culturale più ampio, volto a creare una cultura laica, aperta e avanzata. I poeti siciliani (tra di essi Jacopo da Lentini, considerato l’inventore del sonetto, Pier della Vigna e Guido delle Colonne) sono funzionari di corte e per lo più uomini di legge. La poesia è da essi concepita come oggetto raffinato di lettura che favorisca un’evasione intellettuale, destinata a un pubblico circoscritto; la lingua usata è il volgare siciliano illustre – ricco cioè di provenzalismi, francesismi e latinismi – e il tema è esclusivamente l’amore cortese, che i siciliani sottopongono a un’ulteriore astrazione e stilizzazione, così come accade alla figura femminile, fortemente idealizzata. Le liriche ci sono giunte grazie a copisti toscani coevi, che tuttavia ne “toscanizzano” foneticamente il testo (e dunque anche la componente vocalica delle parole-rima) creando così rime “imperfette”, dette anche “siciliane”.
2 I poeti siculo-toscani
La poesia nella Toscana comunale Caduto il regno svevo (1266), l’esperienza poetica dei siciliani passa in Toscana. In rapporto al diverso contesto (quello dei comuni), l’unità dell’universo poetico siciliano si sfalda e alla tematica amorosa si affiancano, nei lavori dei poeti toscani, temi morali e politici. La personalità di maggiore spicco è quella di Guittone d’Arezzo, autore di testi d’argomento amoroso e politico, mentre in un secondo tempo in lui prevale il tema religioso-morale. Il suo stile arduo e spesso oscuro fu criticato da Dante.
3 Il dolce stilnovo
Che cos’è lo stilnovo Nell’ultimo ventennio del Duecento e nei primi anni del Trecento si afferma a Firenze il cosiddetto “dolce stil novo”. È Dante, che ne fece parte e ne fu il principale esponente, a coniare la formula in un celebre verso della Commedia (Pg XXIV, 57) in cui è sottolineata la novità, introdotta da un gruppo di giovani poeti (Dante stesso, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia). Oltre alla dolcezza dello stile (armonia e limpidezza, sintassi piana) contrapposta alle astruserie di Guittone, l’originalità consiste in una totale fedeltà al tema amoroso, approfondito in senso filosofico e maggiormente spiritualizzato.
Sintesi
Duecento e Trecento 285
La lezione di Guido Guinizzelli e le caratteristiche del nuovo modo di poetare Questa visione è anticipata dal bolognese Guido Guinizzelli, considerato da Dante il maestro degli stilnovisti, in particolare per la celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore. In questo stesso componimento è sostenuto con forza il rapporto tra nobiltà d’animo e amore, e l’idea della gentilezza come valore della persona e non come privilegio di nascita. Ma in generale nuove, oltre alle caratteristiche già ricordate, sono anche la concezione della poesia come esperienza totalizzante e l’interpretazione (tipica soprattutto di Dante) della figura femminile, che da tutti i poeti è posta su un piedestallo per la sua perfezione morale e la sua bellezza, oltre che come tramite verso il divino. «Per altezza d’ingegno»: Guido Cavalcanti Nel gruppo degli stilnovisti spicca l’originale personalità di Guido Cavalcanti, amico di Dante: nella sua poesia, autoanalitica e personale, il concetto di amore attinge alla filosofia averroistica. Ne deriva una visione dell’amore come passione irrazionale originata nella sfera sensitiva, un sentimento capace di distruggere l’uomo poiché in conflitto con la sfera razionale. La donna, nella sua assoluta perfezione, rimane irraggiungibile ed è causa, per il poeta, di smarrimento e angoscia.
Zona Competenze Testi a confronto
1. Confronta il sonetto di Jacopo da Lentini Io m’aggio posto in core (➜ T2 ) e le due stanze conclusive della canzone di Guinizzelli, Al cor gentil (➜ T11 ). In un testo argomentativo di max 20 righe discuti il diverso approccio dei due autori al problema della conciliazione fra amore terreno e dimensione religiosa.
Esposizione orale
2. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulle differenze tra il concetto di “cortesia” e quello di “gentilezza”. Dopo averle individuate e brevemente illustrate, ricostruisci le condizioni storico-sociali che hanno motivato tale evoluzione, aiutandoti – se lo ritieni utile – con uno schema grafico. Hai a disposizione 10 minuti.
286 Duecento e Trecento “Ragionard’Amore”
Duecento e trecento CAPITOLO
5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Nel Medioevo la comicità originariamente ha a che fare con la dimensione liberatoria e trasgressiva della festa. Portavoce dei diritti del comico nella cultura medievale sono i giullari, professionisti del divertimento, e i goliardi: in particolare la poesia goliardica, nata negli ambienti universitari, esalta il divertimento, il gioco d’azzardo, il sesso e i piaceri della tavola. Non manca la satira contro i potenti, compresi gli ecclesiastici. La raccolta più celebre è quella dei Carmina Burana, scritta per la maggior parte in latino. Si ricollegano all’area della comicità anche i fabliaux, racconti licenziosi in versi, nati nel Nord della Francia. Alle tematiche presenti nei fabliaux e soprattutto nella poesia goliardica e allo spirito irriverente che le anima si ispirano alcuni poeti toscani, attivi tra la seconda metà del Duecento e l’inizio del Trecento, noti come poeti comico-realisti o giocosi: essi si contrappongono consapevolmente, attraverso la parodia e la scelta di uno stile "basso", alla coeva lirica stilnovistica. Il rappresentante più noto è il senese Cecco Angiolieri.
1 Il comico 2 I poeti comico-realisti 287
1 Il comico 1 Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni La dimensione del comico nel Medioevo La comicità è una dimensione che attraversa popoli e culture, secoli e generazioni, e cambia forme (e significato) nel corso della storia e delle vicende sociali, interessando non solo i testi letterari, ma più in generale il piano antropologico. Non si ride sempre alla stessa maniera, in ogni luogo e in ogni tempo: ad esempio, il comico medievale si manifesta in forme diverse rispetto al comico degli antichi greci e romani o a quello del Novecento. Sul piano letterario il comico si collega elettivamente a generi come la novella e la commedia, si insinua anche in generi “alti” come la lirica o l’epica e comporta scelte specifiche relative alla tipologia dei personaggi, ai contenuti (con il riferimento a una realtà materiale o addirittura sordida, a personaggi comuni e così via) e ai temi ricorrenti (come la beffa, molto presente nella novella). Fin dall’antichità classica il comico, come si può notare nelle commedie di Plauto, si è anche legato a espedienti retorici e, più in generale, linguistici, impiegati per suscitare il riso: dall’iperbole alla ripetizione, dall’errore volontario di grammatica o di ortografia, all’impiego di un linguaggio serio per una situazione con esso incongrua. Frequente è l’uso del doppio senso o addirittura del nonsense (come nella celebre novella di frate Cipolla di Boccaccio ➜ C8 T6d ). Spesso la dimensione del comico nei testi letterari si lega a procedimenti come la satira, che mette alla berlina comportamenti individuali o di un’intera categoria sociale, o la parodia, che rovescia in modo dissacrante i modelli letterari ‘alti’ ed egemoni in una data epoca: è appunto quello che fanno i poeti comico-realisti a cui si fa riferimento in questo capitolo. Due musici e un acrobata, part. di una miniatura da un manoscritto delle Decretali di Gregorio IX (1300-1340, British Library, Londra). Una festa in maschera, part. di una miniatura tratta dal Roman de Fauvel, poema francese allegorico-satirico, musicato (inizi XIV secolo, Bibliothèque nationale de France, Parigi).
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2 I temi principali del comico nel Medioevo Un diverso significato Nel Medioevo il termine “comico” non era usato nella nostra accezione, ma esclusivamente in rapporto alla dottrina degli stili (➜ SCENARI, PAG. 66): corrispondeva alla scelta di uno stile basso, adatto ad argomenti umili e quotidiani. All’area del comico si collegano soprattutto tre temi: il tema sessuale, quello che il critico russo Bachtin ha chiamato il «basso-corporeo» e il blasfemo. Il più importante è certamente il primo: l’oscenità è infatti per secoli una costante risorsa della comicità, ricorrente nel Medioevo soprattutto dalla novella e poi consegnata in eredità alla commedia cinquecentesca. La presenza di questo tema (ma anche di quello basso-corporeo) nella comicità medievale può essere spiegata come una forma di contrapposizione all’ascetismo del periodo: una sorta di rivincita dei diritti del corpo, che trae origine non dai luoghi della cultura ufficiale ma dalla “piazza”, e che nasce all’interno della dimensione popolare. La severa visione religiosa del Medioevo considerava con sospetto il riso e il comico e li ammetteva soltanto in occasioni di festa e in particolari momenti dell’anno, come il Carnevale. In ambito letterario il riso ha diritto di cittadinanza a patto che rimanga confinato nelle sfere inferiori della cultura, come nel caso dei fabliaux, racconti in versi diffusi in Francia, di contenuto basso e quotidiano, che hanno come tema centrale il sesso (➜ C3, PAG. 209).Una “minorità” che il Decameron metterà in discussione assicurando all’esperienza del ridere, anche in rapporto ad argomenti scabrosi, un posto elevato nella gerarchia delle forme letterarie.
3 I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari
PER APPROFONDIRE
I principali interpreti del comico nel Medioevo I giullari sono professionisti dello spettacolo, i goliardi hanno una cultura elevata e scrivono componimenti raffinati in latino. Sono accomunati entrambi dal nomadismo, dalla costante minaccia della povertà, dall’irriverenza nei confronti della rigida gerarchia sociale del tempo e delle regole che governano la vita sociale. Per i loro atteggiamenti dissacranti incorrono entrambi nella condanna della Chiesa.
Comico e “carnevalesco” Per secoli il comico si è manifestato soprattutto nella situazione della festa e nella cosiddetta “cultura del Carnevale”: una dimensione di grande rilevanza antropologica, sulla quale il critico russo Michail Bachtin (1895-1975), grazie alle sue indagini sul folklore e sulla cultura popolare, ha fornito indicazioni fondamentali. Bachtin ha evidenziato come nella dimensione della festa e del Carnevale, in un periodo transitorio e circoscritto nel tempo e in cui si interrompe la produzione, il popolo diventi protagonista. Costretto dalle strutture economico-politiche e culturali a un ruolo subalterno, il popolo si fa promotore di rappresentazioni comiche irriverenti e trasgressive, fondate sul rovesciamento delle gerarchie sociali, dei valori e dei modelli di comportamento prescritti (o addirittura imposti) dalla cultura ufficiale. Con la sua sregolatezza trasgressiva e liberatoria, la festa porta
in primo piano il sesso, la corporalità e le sue funzioni elementari (il «basso-corporeo»), rovesciando il disprezzo del mondo, caro agli asceti e ai chierici in genere (➜ SCENARI, PAG. 45). Veicolo e interprete del riso popolare è il buffone, il giullare, spirito allegro e beffardo, che si attribuisce, proprio per il suo status di professionista del divertimento, grande libertà d’espressione. Per estensione, il termine di “carnevalesco” (insieme alla categoria concettuale) ha trovato applicazione comune in ambito critico per alludere ad autori e tendenze letterarie, non solo medievali, caratterizzati da rovesciamenti parodici di temi e di convenzioni letterarie, da accostamenti dissacranti, contaminazioni, anche stilistico-linguistiche, tra ‘basso’ e ‘alto’, con effetti di comicità, e anche di iper-espressività. Nella letteratura medievale emblematica testimonianza del “carnevalesco” è la beffarda poesia goliardica.
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I goliardi I goliardi, sinonimo di studenti universitari e chierici vaganti, sono particolarmente attivi nel XII secolo, quando sorgono le prime università (➜ SCENARI, PAG. 62). Il termine goliardi (tuttora in uso) è di origine incerta; in ogni caso, esso sembra alludere a forme di comportamento trasgressive della rigida morale ascetica predicata dalla Chiesa. Oltre al piacere del cibo, i goliardi esaltano l’amore per le donne, il vino, il gioco, conducendo una vita scioperata e ribelle nei confronti dell’autorità ecclesiastica e dei poteri costituiti, che attaccano con il loro riso beffardo in una particolare produzione letteraria fondata essenzialmente sulla parodia e sull’irrisione: la più celebre testimonianza è costituita dai cosiddetti Carmina Burana. Di questa particolare letteratura è rimasta traccia nei riti ancora praticati dalla goliardia nelle più antiche sedi universitarie, come Padova o Pavia. I giullari Il giullare (dal lat. joculator) è un professionista dell’intrattenimento, con competenze e funzioni diverse in rapporto al luogo, al tempo e al pubblico della sua performance. Egli è, contemporaneamente, mimo, cantastorie, musico, danzatore, acrobata, saltimbanco, addestratore di animali; si esibisce nello spazio che trova, con preferenza per mercati, piazze, luoghi di pellegrinaggio, ma anche corti. Il giullare vive di elemosina, spostandosi di luogo in luogo alla ricerca di un uditorio generoso e questa condizione di sradicamento lo porta a sfuggire alle regole della convivenza civile. Si avvale, in genere, di una gestualità esagerata e buffonesca e utilizza abiti di scena dai colori sgargianti, senza trascurare piume, pellicce, campanelli e maschere mostruose.
4 I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia”
VERSO IL NOVECENTO
Una produzione colta, nata all’ombra delle università I Carmina Burana sono una raccolta di 228 canti anonimi in latino e in tedesco, composti tra il XII e il XIII secolo. Un tempo si pensavano frutto di un’elaborazione collettiva popolare, essendo privi del nome degli autori; al contrario, i Carmina Burana sono opera di autori colti, goliardi e chierici vaganti, e nascono all’interno delle scuole cattedrali e delle università europee. Il termine Carmina Burana richiama il nome del codice latino che li ha trasmessi, noto, appunto, come codex Buranus, perché proviene dall’abbazia di Benediktbeuern (Bura Sancti Benedicti) sulle Alpi bavaresi, in Germania.
Il pericolo del riso e Il nome della rosa La potenziale trasgressività e la pericolosità sociale connesse al riso e alla comicità costituiscono lo spunto fondamentale del best seller Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco (➜ C2 PAG. 151). L’autore, attento studioso della cultura e dell’estetica medievale, immagina che il secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla trattazione e teorizzazione del “comico”, sia stato volutamente tenuto nascosto in un’abbazia dal monaco Jorge, preoccupato del pericolo che avrebbe comportato la diffusione tra le persone colte di un’“estetica del comico” legittimata da Aristotele, massima autorità di pensiero nel Medioevo. Da questo spunto trae origine l’intreccio poliziesco dell’opera, che prevede una serie di terribili delitti. Così Jorge
spiega la sua posizione a Guglielmo di Baskerville, che sta appunto indagando sui misteriosi delitti commessi nell’abbazia: «Quando ride, mentre il vino gli gorgoglia in gola, il villano si sente padrone perché ha capovolto i rapporti di signoria: ma questo libro potrebbe insegnare ai dotti gli artifici arguti, e da quel momento illustri, con cui legittimare il capovolgimento. Allora si trasformerebbe in operazione dell’intelletto quello che nel gesto irriflesso del villano è ancora e fortunatamente operazione del ventre». Il riscatto del “comico” da una posizione bassa a un piano di raffinata letterarietà paventato da Jorge si verificherà realmente con il Decameron di Boccaccio, opera trasgressiva e al contempo di altissimo livello letterario.
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I temi: la satira anticuriale La prima parte dei Carmina Burana (➜ T1 ) ha carattere satirico: vi domina il tema della corruzione del clero e della decadenza della Chiesa. La denuncia di questi problemi dell’istituzione ecclesiastica corrisponde alla realtà storica: cioè a un periodo (secoli XI-XII) in cui la Chiesa è effettivamente esposta agli scismi e alla corruzione, e non ha più un ruolo propulsivo nella società.
Maestro di Jean Mansel, illustrazione a una novella del Decameron (IX, 4): Fortarrigo perde tutti i suoi averi al gioco; Fortarrigo accusa Angiolieri di averlo derubato, tempera e foglia d’oro su pergamena, 1430-1450 (Bibliothèque de l'Arsenal, Parigi).
L’amore: il rovesciamento dei canoni cortesi Il tema amoroso occupa il posto principale nei Carmina Burana. In contrapposizione alla morale ascetica della cultura clericale, in questi testi l’amore si identifica esclusivamente con il piacere e il desiderio; è una forza vitale, naturalmente gioiosa e libera. L’amore cantato dai goliardi non ha alcun tratto spirituale, non favorisce alcuna elevazione morale dell’amante, non si esaurisce certo nella contemplazione dell’amata e nella struggente nostalgia per una donna “assente” e lontana. La rappresentazione dell’amore presente nei Carmina Burana si configura dunque come un evidente rovesciamento della fin’amor dei poeti cortesi (➜ C1 PAG. 128). Il vino, il gioco, il cibo, la taverna: fenomenologia del “mondo alla rovescia” Secondo i principi del carnevalesco, domina nei canti goliardici la dimensione corporea, che rappresenta l’altra faccia della vita, quella comica e capovolta, quella dei disvalori opposti ai valori dominanti. Il tema del vino occupa un posto di rilievo all’interno della terza sezione della raccolta, intrecciandosi strettamente al gioco d’azzardo, che è spesso mezzo per procurarsi da bere quando la fortuna è favorevole al giocatore. Completa il quadro dei piaceri materiali – tanto più desiderabili in un tempo, come quello medievale, dominato dalle carestie – il riferimento al cibo. L’osteria, o taverna, è immagine funzionale a tale concezione del mondo, perché è associata al mito del paese di cuccagna: nella taverna si beve, si gioca e si gode collettivamente; essa protegge e separa i suoi frequentatori dalla realtà esterna dominata dalla miseria, da una rigida gerarchia sociale, da regole codificate.
T1 Carmina Burana, a c. di P. V. Rossi, Bompiani, Milano 1989
Un manifesto della poesia goliardica Il testo documenta in modo esemplare i tratti della poesia goliardica: l’anonimo autore rappresenta, attraverso una serie di immagini e metafore, la vita libera e scanzonata dei goliardi, il loro trasgressivo atteggiamento mentale e il rifiuto polemico di ogni convenzione.
Poiché provo nel mio animo un forte turbamento, al colmo dell’amarezza mi lamento di me stesso. Formato, come sono, di materia assai leggera, mi sento simile ad una foglia, con la quale gioca il vento. Mentre è proprio del saggio porre sulla roccia salde fondamenta, io, stolto mi para5 gono ad un fiume sempre in corsa che non si ferma mai sotto lo stesso cielo. Vado alla deriva come una nave priva del nocchiero, come un uccello che vaga per Il comico 1 291
le vie del cielo; non c’è catena che mi trattenga né chiave che mi rinchiuda, cerco chi mi è simile e mi unisco così ai malvagi. Condurre una vita austera è per me quasi impossibile; io amo infatti il gioco, che 10 mi piace più del miele. Qualunque impresa chieda Venere, che non risiede mai negli animi meschini, è una piacevole fatica. Percorro la via più facile com’è proprio dei giovani, e mi irretisco nei vizi1, scordando la virtù; più avido del piacere che della vita eterna, sono ormai morto nell’anima e curo solo il corpo. 15 O nobile vescovo2, imploro il tuo perdono, affronto una buona morte e mi consuma una dolcissima ferita: la bellezza delle fanciulle mi trafigge il cuore, e quelle che non riesco a possedere, le godo almeno col pensiero. È impresa ben difficile vincere la natura e non nutrire pensieri impuri vedendo una fanciulla; per noi giovani è impossibile seguire il rigido precetto che ci impone di 20 trascurare i loro corpi tanto belli. Chi mai, posto nel fuoco, non ne verrà bruciato? Chi mai, stando a Pavia3, può definirsi casto, dove Venere cattura i giovani con un cenno, li affascina con gli occhi e li conquista con il viso? Se si ponesse Ippolito oggi a Pavia, non sarebbe più Ippolito domani4. Ogni strada qui 25 conduce al talamo di Venere5 e non vi è fra tante torri la torre di Aletìa6. La seconda colpa che confesso è la mia passione per il gioco; ma quando esso mi lascia nudo e all’esterno infreddolito, mi sento l’animo infiammato e compongo proprio allora i miei canti migliori7. Il mio terzo peccato è di frequentare l’osteria: non l’ho mai disprezzata e non lo 30 farò mai, finché vedrò discendere i santi cori angelici che per i morti intonano: “Riposino in eterno”. È mia intenzione morire all’osteria, perché il vino mi sia accanto nel momento del trapasso; allora con più gioia canteranno i cori angelici: “Dio sia propizio a questo bevitore!”
1 mi irretisco nei vizi: mi faccio sedurre dai vizi. 2 O nobile vescovo: apostrofe ardita al vescovo, con sfumatura ironica, affinché comprenda le ragioni del clericus e accolga i suoi poco nobili desideri carnali. 3 Pavia: sede di una celebre università, era frequentata dai clerici vagantes, che si permettevano ogni forma di licenza. 4 Se si ponesse… domani: secondo il racconto mitologico, Ippolito, figlio di Teseo e di Ippolita, rifiutò le profferte della matrigna Fedra, che per vendetta lo accusò
di incesto; maledetto dal padre, fu ucciso dai suoi stessi cavalli spaventati. Il clericus vuole far capire che a Pavia anche un proverbiale modello di virtù come lui avrebbe cambiato stile di vita repentinamente, nel giro di una giornata, adeguandosi ai piaceri della gola, del corpo e dell’eros. 5 talamo di Venere: letti di piacere, dove si consuma l’amore carnale. Dietro l’espressione aulica (con la metonimia di Venere) si allude al sesso venale o facile da ottenere. 6 la torre di Aletìa: cioè la torre di Artemide (Diana), la dea della caccia, notoriamente restìa ad amare. L’espressione
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ironica, con il ricorso a una figura mitologica opposta a quella di Venere, vuole indicare l’assenza, nella città delle torri, di un luogo visibile di castità e di virtù femminile. 7 quando… migliori: la nudità a cui si allude è una reale conseguenza del gioco d’azzardo: il giocatore arrivava a impegnare anche i vestiti, affidandosi alla fortuna, la cui ruota inarrestabile girava spesso in senso contrario ai desideri dell’incauto scommettitore di turno.
Analisi del testo Un testo esemplare della poesia goliardica
online
Per approfondire La “buona morte” nel Medioevo
Il testo proposto costituisce una sorta di manifesto dei temi e, più in generale, dello spirito della poesia goliardica. Sotto l’apparenza di un’autoaccusa in forma di confessione dei propri peccati (è evocata anche la figura del vescovo a cui si chiede perdono), l’io lirico enuncia in realtà, in modo quasi programmatico, il “credo” irriverente dei goliardi, categoria cui lui stesso appartiene. La prima parte del testo è caratterizzata da una serie di similitudini che alludono tutte, in vario modo, all’incostanza che rende sregolata la vita dei goliardi, priva com’è di princìpi morali e di saldi punti di riferimento. Vengono poi enunciate le viziose abitudini praticate dal poeta, il riferimento alle quali ricorre costantemente nella poesia goliardica: la propensione ai piaceri amorosi, il vizio del gioco, la frequentazione dell’osteria; abitudini che l’autore quasi giustifica, presentandole come riti di passaggio, tappe obbligate della giovinezza («com’è proprio dei giovani»; «per noi giovani è impossibile seguire il rigido precetto»; «Venere cattura i giovani...»). La donna, la taverna e il gioco (che ricorrono in modo pressoché identico in un celebre sonetto di Cecco Angiolieri ➜ T3 ) costituiscono una sorta di Interno di una taverna (miniatura da un codice “trinità terrena”, che rovescia in modo dissacrante genovese del XIII secolo, British Library, Londra). la Trinità celeste. Netta appare la contrapposizione ai valori ascetici della cultura clericale: dall’aperta ammissione del poeta di curare il corpo a scapito dell’anima alla dissacrante immagine finale, in cui viene rovesciato il tema medievale della “buona morte” (➜ PER APPROFONDIRE La “buona morte” nel Medioevo): la “buona morte” immaginata per sé stesso dal poeta-goliardo è all’osteria, bevendo vino fino al trapasso, con i cori angelici che esaltano gioiosamente presso Dio la sua “virtù” di bevitore!
Pavia, la città del peccato Nel testo la vita viziosa e scapestrata dei goliardi viene collegata a un luogo preciso: si tratta di Pavia, città del Nord Italia, sede di una delle più importanti e antiche università italiane, nella cui area urbana spiccano le molte torri d’epoca medievale. Nella testimonianza del poeta goliardo si fa riferimento non all’eccellenza dell’insegnamento universitario, che richiamava studenti da varie parti d’Europa, ma alle attrazioni erotiche presenti nella cittadina («Venere cattura i giovani con un cenno»), a cui difficilmente si poteva resistere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale ritratto fornisce di sé l’autore dei carmi? ANALISI 2. Indica i comportamenti negativi enunciati dal poeta e spiega perché erano contrari ai modelli raccomandati. STILE 3. Individua e trascrivi le similitudini, particolarmente numerose nella prima parte del testo. Che cosa le accomuna? Quale concetto intende sottolineare il poeta attraverso questi paragoni?
Interpretare
SCRITTURA 4. Descrivi in max 20 righe il modo in cui viene descritto l’amore.
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2 I poeti comico-realisti I tempi e i luoghi Tra il 1260 circa e i primi vent’anni del Trecento si colloca anche in Italia un’esperienza poetica in cui la rappresentazione del quotidiano e l’attenzione a una realtà “bassa” sono enfatizzate dall’uso di un linguaggio vicino al parlato, con elementi popolari e gergali. I poeti comico-realisti si rivolgono a un pubblico ampio, di borghesi e artigiani, e operano nella vivace realtà comunale della Toscana: Firenze (da cui proviene Rustico Filippi, l’iniziatore del genere), Siena (patria di Cecco Angiolieri, il poeta più rappresentativo del gruppo), Lucca, Arezzo e San Gimignano. La contrapposizione alla lirica “alta” e i modelli La poesia comico-realistica si sviluppa negli stessi anni in cui si afferma lo stilnovo, a cui si contrappone volutamente sia nei temi sia nelle scelte linguistico-stilistiche. Ma non se ne deve dedurre che questa sia una poesia ingenua e primitiva: l’abbassamento dei motivi e del linguaggio della lirica d’amore è voluto per fini comico-parodistici, non è frutto di improvvisazione o di imperizia; al contrario, esso richiede una grande competenza e consapevolezza letteraria. E, infatti, i poeti comico-realisti si richiamano a fonti precise: in particolare ai fabliaux (➜ C3 PAG. 209) e alla poesia goliardica, oltre che alla poesia giullaresca in volgare (dalla quale deriva il “contrasto”, un tipo di composizione dialogica tra due amanti di bassa estrazione sociale). L’area tematica della poesia comico-realista I temi caratteristici della poesia comico-realista non sono originali, ma derivano dalle fonti letterarie sopra indicate. Il più noto dei poeti comico-realisti, Cecco Angiolieri, in un celebre sonetto (➜ T3 ), prospetta una triade dei desideri insoddisfatti a causa della povertà (la donna, la taverna, il dado) che ha certamente origini goliardiche. Illustrazione del Roman de la Rose (XIV secolo).
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In particolare il rapporto amore-denaro (riassumibile con: senza denaro non si può avere l’amore) costituisce un binomio inscindibile per i poeti giocosi, essendo le donne presentate come avide e venali, amanti del danaro e del lusso, secondo una concezione misogina risalente al mondo classico e poi continuata appunto nei Carmina Burana e nei fabliaux. L’amore, anche per i poeti giocosi toscani, è passione carnale, piacere dei sensi, possesso fisico; la donna ha un volto e soprattutto un corpo: è sensuale e per lo più capace di improperi e battute volgari all’indirizzo dell’amante. Siamo, com’è evidente, agli antipodi della concezione dell’amore e della donna stilnovistici: non c’è posto, nella poesia burlesca, per donne-angelo o per sentimenti spirituali, che portano alla perfezione interiore dell’amante. Lo stile Lo stile usato si adegua perfettamente ai contenuti dimessi e quotidiani scelti dai poeti giocosi nelle loro composizioni (con una netta prevalenza dell’utilizzo del sonetto), sia nel lessico, sia nella sintassi e nell’impiego di alcune figure retoriche appartenenti al registro del comico. • Il lessico si alimenta di espressioni popolari, gergali, plebee, da cui scaturiscono
doppi sensi ed equivoci a sfondo spesso osceno. • La sintassi è semplice, a volte spezzata da esclamazioni, domande, battute, che
riproducono la vivacità della lingua parlata. • La ricorrenza di alcune figure retoriche contribuisce a rinforzare l’effetto comico: frequente è l’uso dell’apostrofe, soprattutto nelle invettive, della similitudine, di iperboli e antitesi, per accentuare gli aspetti caricaturali e grotteschi di un personaggio o di una situazione. • A volte, infine, sono utilizzati termini ed espressioni dei poeti stilnovisti, con
accostamenti impropri o collocazioni inadatte e ridicole che mutano il contesto di partenza, il significato originario e lo scopo finale dei testi da cui sono tratti: la parodia è procedimento abitualmente usato dai poeti comico-realisti per rovesciare senso e funzioni della produzione poetica cortese e stilnovistica.
I principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri
PER APPROFONDIRE
Una doppia produzione Di origine fiorentina, appartenente alla fazione dei ghibellini, Rustico Filippi nasce tra gli anni ’30 e ’40 del Duecento e muore sul finire del secolo. Ci sono stati tramandati con il suo nome cinquantotto sonetti, alcuni dei quali riconducibili all’ambito cortese-amoroso e altri a quello comico-realistico.
Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comico-realisti”, “burleschi”, “giocosi” Ai poeti comunemente detti comico-realisti sono associate nella saggistica e nella manualistica scolastica anche altre denominazioni (“burleschi”, “giocosi”), ognuna delle quali valorizza e sottolinea un aspetto tipico del loro modo di far poesia. “Comico” si oppone, in questo caso, a “tragico”, secondo i trattati di retorica medievale, e “realista” a “idealista”, con riferimento alla scelta degli argomenti operata da tali poeti in contrasto parodico con i coevi esponenti del “dolce stil novo”,
attratti invece da realtà sublimi e spirituali, con corredo di donne angelicate, amori rarefatti e linguaggio aulico. Gli aggettivi “burlesco” e “giocoso”, che a volte sostituiscono e a volte affiancano la coppia “comico-realista”, criticamente più fortunata, sottolineano invece l’atteggiamento scanzonato (“burlesco”) e irriverente rispetto alla vita e alla società comunale, di cui questi poeti ritraggono gli aspetti più sordidi e quotidiani, ricorrendo alla satira, alla caricatura, alla parodia, a fini di divertimento letterario (“giocoso”).
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Lessico parodia La parodia è l’imitazione volontaria e caricaturale dello stile di un artista o di una corrente artistica all’interno di una nuova opera.
Nelle liriche amorose riprende come modello i poeti siciliani. Sul versante comicorealistico usa perlopiù una lingua scurrile e aspra e se fa ricorso al linguaggio aulico lo scopo è parodistico . Una vita ‘irregolare’: realtà o trasfigurazione letteraria? Cecco Angiolieri, il più noto fra i poeti comico-realisti, nasce a Siena nel 1260 da una ricca e importante famiglia di parte guelfa che milita nelle truppe comunali. Forse in occasione della battaglia di Campaldino conosce Dante, anch’egli schierato fra i guelfi bianchi contro Arezzo (del rapporto fra i due testimoniano tre sonetti di Cecco rivolti all’Alighieri). Muore prima del 1313, data di un documento in cui i figli rinunciano all’eredità paterna gravata da debiti e ipoteche; altri documenti riguardano una rissa e una multa. Tutto sembra rimandare a una condotta di vita non proprio irreprensibile. Su questa base, ma soprattutto grazie ai contenuti delle sue poesie, interpretate come sincere confessioni autobiografiche, la critica romantico-positivista ha costruito una biografia romanzesca di Cecco come poeta ribelle, dalla vita dissoluta e sregolata, perseguitato dalla povertà, amaramente malinconico. In realtà la poesia di Cecco, pur con spunti originali, riprende motivi già presenti nella poesia satirica latina e soprattutto nella tradizione goliardica. Il corpus dei suoi sonetti consta di più di cento componimenti. Vi si possono riscontrare due filoni tematici principali: le rime amorose, la maggior parte delle quali in stile comico, ispirate da una figura femminile, Becchina, antitetica alle donne stilnovistiche (volgare, infedele, avida) e le altre rime, che continuano la tradizione goliardica nell’esaltazione di piaceri terreni come il vino e il gioco, ma anche nel lamento per la povertà e per sfortune simili.
Fissare i concetti La dimensione del comico e i poeti comico-realisti 1. In che senso era usato il termine “comico” nel Medioevo? 2. Chi sono i goliardi e i giullari? 3. Che cosa sono i Carmina Burana? 4. Quali sono le caratteristiche tematiche e stilistiche della poesia comico-realistica? 5. Chi sono i maggiori esponenti della poesia comico-realistica? 6. Qual è il rapporto della poesia comico-realistica con la poesia “alta”?
296 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Il comico STILE
Basso, per argomenti umili e quotidiani
TEMI
• sessualità • «basso-corporeità» • blasfemia
MEZZI
• espedienti retorici e linguistici • satira • parodia
INTERPRETI
• goliardi • giullari • poeti comico-realisti
OCCASIONI DI ESPRESSIONE
LA POESIA COMICOREALISTA
• feste e Carnevale • spettacoli di giullari • Carmina Burana
• fabliaux • poesia comico-realista (sonetti) • novelle e commedie
• 1260-1320 circa • Toscana • principali esponenti: Rustico Filippi e Cecco Angiolieri
Scena di taverna, in un affresco del castello di Issogne (fine XV secolo), in Valle d’Aosta.
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Rustico Filippi
T2 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Oi dolce mio marito Aldobrandino Il sonetto del fiorentino Rustico Filippi (ca 1230-1300), iniziatore della poesia comicorealistica, è un esempio significativo del modo in cui questa esperienza poetica tratta il tema tradizionale – e per certi aspetti convenzionale – dell’amore: una donna palesemente adultera si difende di fronte al marito tradito negando con spudoratezza la propria colpa. Oi dolce1 mio marito Aldobrandino, rimanda ormai il farso2 suo a Pilletto, ch’egli è tanto cortese fante e fino3, 4 che creder non déi ciò che te n’è detto4. E non star tra la gente a capo chino, ché non se’ bozza5, e fòtine disdetto6; ma, sì come amorevole vicino, 8 con noi venne a dormir nel nostro letto7. Rimanda il farso ormai, più no il tenere, ché mai non ci verà oltre tua voglia8, 11 poi che n’ha conosciuto il tuo volere. Nel nostro letto già mai non si spoglia9. Tu non dovéi gridare, anzi10 tacere: 14 ch’a me non fece cosa ond’io mi doglia11.
La metrica Sonetto con schema metrico: ABAB ABAB CDC DCD. 1 dolce: aggettivo ironico, alla luce di quello che la donna sta per rivelare.
2 farso: farsetto (una specie di gilet del tempo, che si indossava sopra la camicia; anche al v. 9), abbandonato in casa dell’amante nella fuga frettolosa. Il motivo dell’indumento dimenticato è presente già nei fabliaux francesi. 3 Pilletto... fino: il giovane (fante) Pilletto è definito beneducato (cortese) e raffinato (fino) per la donna, ma nel contesto i due aggettivi assumono una voluta ambiguità semantica, ammiccante e divertita. Per alcuni, poi, Pilletto è comicamente derivato da pillo, “pestello”, con allusione erotica e, forse, velatamente oscena. 4 creder… detto: non devi (déi) credere ciò che ti è stato detto di lui.
5 ché non se’ bozza: perché non sei becco. Con riferimento al maschio della capra, ovvero alle corna. 6 fòtine disdetto: lo nego davanti a te (“ti dico di no”, con doppia enclitica: “te ne fo”). Ma è evidente che la negazione della donna si basa solo su una fiducia a senso unico, prendere o lasciare, senz’altra controprova. 7 venne a dormir nel nostro letto: è una confessione aperta della moglie fedifraga, attenuata (in realtà di fatto rafforzata), dal sintagma amorevole vicino. La “vicinanza” è stata di tipo amoroso, erotico, non amicale o fraterno; ma l’ambiguità del linguaggio viene spinta ai suoi limiti estremi, come accade anche nel v. 12. 8 ché… tua voglia: poiché non verrà più (mai) contro la tua volontà. Beffarda precisazione della donna: quasi che finora il povero Aldobrandino avesse voluto ricevere nel talamo nuziale un terzo incomodo e non si fosse dato pensiero di nulla!
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9 Nel nostro letto... spoglia: non si spoglierà più. La situazione è chiara: di fronte al mutato comportamento di Aldobrandino, Pilletto terrà conto della volontà dei suoi compagni di letto… 10 dovéi… anzi: dovevi… ma. 11 a me non... mi doglia: a me non ha fatto nulla di cui mi debba lamentare. Il verso chiude circolarmente il testo, richiamando l’equivoco che compare al v. 3 della prima quartina. La donna dichiara di non aver ricevuto alcun danno o dolore dalla vicinanza di Pilletto: di qui la necessità di una sorta di tacita gratitudine da parte di Aldobrandino nei confronti di quel fante «cortese… e fino», oltre che altruista.
Analisi del testo Una situazione paradossale Il sonetto propone, fin dall’inizio, una situazione paradossale, contraria a ogni verosimiglianza. La donna, regolarmente maritata, cerca di negare l’evidenza dell’adulterio da lei consumato, ma non può nasconderne al marito la prova tangibile: il giovane con cui si è unita sessualmente ha dimenticato infatti un suo indumento in camera. La donna gioca d’astuzia e, simulando un’assoluta innocenza sua e del giovane amante, invita il marito a restituirgli l’indumento, poiché non è avvenuto alcun tradimento. Nella sfrontata autodifesa della donna, il giovane amante diviene un uomo cortese e nobile, un «amorevole vicino» che solo per riposarsi è entrato nel letto della coppia.
Un testo “doppio”: livello letterale e livello metaforico La protagonista femminile rappresenta l’opposto della donna stilnovista, caratterizzata da sublime bellezza e perfezione morale (la donna che qui parla ben conosce le seduzioni del piacere); ma al contempo non si presenta rozza e aggressiva come Becchina, la donna evocata nei sonetti di Cecco Angiolieri: la sua autodifesa si fonda infatti su un lessico conciliante, con echi raffinati della tradizione aulica, a cominciare dall’aggettivo dolce con cui si rivolge al marito e alla coppia di aggettivi cortese e fino riferiti all’amante. L’intero discorso della donna è però fondato sull’ambiguità (alla quale è affidato l’effetto comico), perché implica un doppio livello di lettura: uno letterale (indirizzato al marito, presumibilmente sciocco e credulone) e l’altro metaforico, con evidente allusività erotica. L’esempio più chiaro è l’ultimo verso del sonetto («a me non fece cosa ond’io mi doglia»): la donna invita il marito a tranquillizzarsi perché Pilletto non le ha fatto nulla di cui si debba lamentare; letteralmente l’espressione significa che il comportamento di Pilletto è stato corretto, ma in realtà allude al fatto che la donna è stata consenziente al rapporto con il suo amante, che ne ha soddisfatto le aspettative erotiche.
Donne e maschere zoomorfe (miniatura da Li romans du boin roi Alixandre di Lambert Litors, prima metà del XIV secolo, Bodleian Library, Oxford).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Con l’aiuto delle note fai la parafrasi del sonetto. LESSICO 2. Analizza il sonetto dal punto di vista lessicale e rintraccia: a. i vocaboli che fanno riferimento alla vita quotidiana; b. i termini appartenenti alla lirica d’amore. STILE 3. Individua le espressioni ambigue, sulle quali si fonda l’efficacia comica del testo. 4. Nel sonetto il poeta fa ricorso all’imperativo: individua i versi dove è presente e valutane la funzione.
Interpretare
SCRITTURA 5. Ricostruisci in un breve testo la strategia difensiva della donna.
I poeti comico-realisti 2 299
Cecco Angiolieri
T3 Poeti del Duecento, a c. di G. Contini, Ricciardi, Milano-Napoli 1960
AUDIOLETTURA
Tre cose solamente m’ènno in grado
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Questo celebre sonetto sintetizza in modo esemplare i caratteri della poesia comicorealista: in esso Cecco enuncia il suo “credo” secondo modi assai vicini alla poesia goliardica (➜ T1 ), alla quale rimanda espressamente anche la lamentela sulla povertà, che non va quindi intesa come una realistica confessione autobiografica.
Tre cose solamente m’ènno in grado1, le quali posso non ben ben fornire2, cioè la donna, la taverna e ’l dado3: 4 queste mi fanno ’l cuor lieto sentire. Ma sì·mme le convene usar4 di rado, ché la mie borsa mi mett’al mentire5; e quando mi sovien, tutto mi sbrado6, 8 ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire. E dico: «Dato li sia d’una lancia!7» ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro8, 11 che tornare’ senza logro di Francia9. Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro10, la man di Pasqua che·ssi dà la mancia11, 14 che far pigliar la gru ad un bozzagro12!
La metrica Sonetto con schema metrico: ABAB ABAB CDC DCD.
1 m’ènno in grado: mi sono gradite. 2 le quali… fornire: che non riesco ad appagare, a procurarmi quanto vorrei (ben ben “pienamente”). 3 la donna, la taverna e ’l dado: gli amori, il vino e il gioco d’azzardo (la taverna e il dado sono metonimie). 4 sì.. usar: pure sono costretto a usufruirne. 5 ché… mentire: perché la mia (mie) borsa (cioè le mie sostanze) mi smentisce cioè non mi permette (impedendomi di accedere a questi piaceri). 6 quando... tutto mi sbrado: mi metto a imprecare, sbraito, quando mi ricordo (mi sovien, francesismo) della mia condizione di indigente, di povero.
7 Dato li sia d’una lancia!: che sia trafitto con una lancia! 8 ciò… magro: questo (la maledizione) a mio padre che mi tiene così a stecchetto. 9 che tornare’… Francia: che tornerei senza dimagrire (logro: dimagrimento) dalla Francia (cioè non si vedrebbero gli effetti del lungo viaggio). Cecco vuole dire che l’avarizia di suo padre lo mantiene già così magro, che non potrebbe dimagrire ulteriormente nemmeno dopo aver affrontato un lungo viaggio. Altri spiegano “senza richiamo”, perché il logro era un uccello finto usato per l’addestramento dei falchi nella caccia. Cecco, che maledice suo padre per la sua avarizia, sarebbe disposto a ritornare per fame a piedi dalla Francia, senza essere sollecitato da alcun richiamo.
300 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
10 Ché fora… più agro: perché sarebbe (fora) più difficile, malagevole (agro) spillargli (tôrli) un soldo. 11 la man di Pasqua... mancia: (anche) la mattina di festa, quando si dà la mancia; il termine Pasqua indica genericamente una qualsiasi festività. 12 pigliar… bozzagro: che far catturare una gru (che è agile e veloce) da una poiana (lenta e impacciata, inadatta alla caccia).
Analisi del testo La struttura e i contenuti Le due quartine del sonetto sono dedicate all’enunciazione dei piaceri della vita e al disappunto per l’impossibilità di ottenerli. Le due terzine sono invece dominate dall’invettiva contro il padre, a cui Cecco rimprovera la grettezza, l’avarizia nei suoi confronti e a cui augura addirittura la morte.
Il credo di Cecco: un topos letterario La passione per le donne, la taverna e il gioco d’azzardo, “professione di fede” del poeta, rimandano alla poesia goliardica, in cui già questi elementi sono presenti come dissacrante immagine parodica della Trinità. Di ascendente goliardico è anche il rapporto fra le tre cose a Cecco gradite sopra ogni cosa e il denaro che le rende accessibili: il piacere, connotato in termini rigorosamente materialistici, è presentato nel sonetto come figlio della borsa e cioè della disponibilità di danaro. (“Ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire”) Ricorrente nella poesia goliardica è anche l’invettiva, ma propria di Cecco è la specifica invettiva contro il padre avaro, che impedisce al figlio di essere pienamente felice a causa delle limitazioni imposte dalla sua spilorceria.
Le scelte stilistiche In antitesi alla poesia “alta”, le immagini impiegate da Cecco – e di conseguenza il lessico – appartengono alla vita quotidiana, anche se l’uso sapiente dell’iperbole (v. 11) e dell’adynaton (ultima terzina) ne esaspera il senso. I suoni e le rime sono aspri (“mi sbrado”; “magro/agro/bozzagro”), in antitesi al “dolce stile” degli stilnovisti.
Festa campestre con contadini che ballano la ronda, miniatura dalle Heures de Charles d’Angoulême, tardo XIV secolo (Bibliothèque nationale de France, Parigi).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Il sonetto è una sorta di plazer (rassegna di desideri e cose piacevoli), in questo caso però impossibile. Indica i desideri del poeta e spiega perché non riesce a realizzarli. LESSICO 3. Individua le scelte lessicali che ribadiscono il tema del denaro come condizione indispensabile per poter godere dei piaceri della vita. STILE 4. Illustra le caratteristiche che Cecco attribuisce al padre e le espressioni iperboliche relative.
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 5. Confronta il sonetto con il testo dei Carmina Burana, evidenziando contiguità tematiche e differenze. 6. La ribellione nei confronti del proprio padre e dell’autorità è un elemento caratterizzante le persone giovani. Hai mai avuto un contrasto con un adulto? Se sì, prova a raccontare i motivi che lo hanno generato e il tuo stato d’animo.
I poeti comico-realisti 2 301
Cecco Angiolieri
T4 Poeti giocosi del tempo di Dante, a c. di M. Marti, Rizzoli, Milano 1956
La mia malinconia è tanta e tale
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Il sonetto è incentrato sul tema dell’amore non corrisposto e sulla conseguente sofferenza del poeta. La “malattia d’amore” è tema prettamente stilnovistico, in particolare frequentato da Guido Cavalcanti: secondo i modi tipici della poesia comicorealista, il tema viene qui “abbassato”, soprattutto attraverso le vivaci risposte della donna alle proposte amorose del poeta.
La mia malinconia1 è tanta e tale, ch’i’ non discredo2 che, s’egli3 ’l sapesse un che mi fosse nemico mortale, 4 che di me di pietade non piangesse. Quella4, per cu’ m’avvèn5, poco ne cale6, ché mi potrebbe, sed ella volesse, guarir ’n un punto di tutto ’l mie male, 8 sed ella pur: – I’ t’odio – mi dicesse7. Ma quest’è la risposta c’ho da lei: ched ella non mi vòl né mal né bene8 11 e ched i’ vad’a far li fatti mei9: ch’ella non cura s’i’ ho gioi’ e pene, men ch’una paglia che le va tra’ piei10; 14 mal grado n’abbi’ Amor, ch’a le’ mi diène11.
Il gioco della mosca cieca, pagina miniata di un fabliau in Le Chansonnier de Paris, 1280-1315 (Museo Atger, Montpellier). La metrica Sonetto con rime ABAB ABAB
5 per…m’avvèn: a causa della quale mi
CDC DCD.
accade questo. 6 poco… cale: poco se ne cura. 7 sed… dicesse: se (-d eufonico; come più sotto ched “che”) soltanto mi dicesse: “Io ti odio”. 8 Ma quest’è…bene: l’unica risposta offerta dalla protagonista femminile è di una indifferenza disarmante. 9 e ched…fatti mei: e che io vada a farmi i fatti miei.
1 La mia malinconia: è da intendersi in senso etimologico e medico, come “umor nero”. Tutta la costruzione è un’iperbole. 2 ch’i’… discredo: che io penso che. 3 egli: prolettico del soggetto (cioè lo anticipa). 4 Quella: è Becchina, la donna presente anche in altri sonetti di Cecco.
302 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
10 ella non cura… tra’ piei: la totale estraneità affettiva della donna è ribadita: le è indifferente che l’innamorato gioisca o che soffra (gioi’ e pene sono termini del linguaggio cortese, adattati al contesto plebeo del sonetto). 11 mal… diène: sia maledetto Amore che mi diede a lei. L’Amore, personificato, viene maledetto per aver abbandonato Cecco nelle mani di una donna dispotica, ostile, arida di cuore. Siamo agli antipodi dell’amore stilnovistico, qui, come altrove, scopertamente parodiato. Diène = diè con epitesi finale -ne.
Analisi del testo La malinconia come malattia d’amore L’umor nero di Cecco non deriva dal “male di vivere” (come spesso in passato si è scritto, facendo di Cecco una sorta di “poeta maledetto”), ma più concretamente dall’indifferenza di Becchina, amante distratta e crudele. Ella potrebbe guarirlo dalla malattia d’amore, ma non mostra alcun sentimento verso di lui – neppure l’odio – limitandosi a ribadire la sua posizione di assoluta indifferenza nei confronti di un uomo che vale, per lei, meno di “una pagliuzza”. Di qui la maledizione finale del poeta contro Amore che lo ha legato alla donna.
La crudele Becchina La donna impersona, per molti aspetti, caratteristiche e comportamenti non estranei alla tradizione stilnovistica, poi riproposti anche nella Laura petrarchesca: la crudeltà, la superbia, il “disdegno” (o disprezzo) appartengono anche ad altre figure femminili della tradizione lirica. Ma ciò che differenzia la figura femminile evocata da Cecco rispetto ai modelli femminili stilnovistico-cortesi è il linguaggio plebeo e popolaresco con cui la donna risponde alle richieste d’aiuto dell’amante, che sarebbe inimmaginabile nelle creature angelicate dello stilnovo.
Il comico del discorso Il contrasto “alto-basso”, evidente nella mescolanza di termini e motivi della produzione stilnovistica con temi e linguaggio di livello popolare, è uno dei meccanismi del comico cui Cecco ricorre in più di un sonetto. La prima quartina ha una delicata musicalità e utilizza un registro elevato. La seconda quartina introduce un elemento dissonante e inatteso al v. 8, con l’inserzione del discorso diretto e un verbo (odiare), che non si addice alle donne “gentili”. Le due terzine finali accolgono espressioni popolaresche (vv. 10-11) e immagini realistiche basse (v. 13), inframmezzate a termini della tradizione cortese (v. 12). Il verso conclusivo fa convivere la tradizionale personificazione di Amore e il tema cortese del “servizio amoroso” con il cliché della maledizione (vituperium), anch’esso letterario.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto. COMPRENSIONE 2. Individua le principali caratteristiche della figura femminile ritratta nel sonetto. LESSICO 3. Indica i termini della tradizione lirica d’amore che sono ripresi, parodizzati o capovolti. ANALISI 4. Quale immagine è utilizzata dal poeta nella seconda terzina per descrivere l’indifferenza di Becchina? A quale registro appartiene questa immagine?
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 5. Spiega come il ritratto della donna presente in questo sonetto si differenzi dalle figure femminili rappresentate nelle loro poesie dai poeti stilnovisti. 6. Becchina non respinge Cecco, ma lo ignora. La sua risposta lo obbliga non solo a non avere il suo amore ma neanche il suo odio. La vera sofferenza per il poeta è la sua indifferenza. Ti è mai capitato di provare indifferenza per qualcuno o di subire l’indifferenza di una persona a te cara? Se sì, quando?
online T5 Cecco Angiolieri Accorri accorri accorri, uom, a la strada!
I poeti comico-realisti 2 303
Cecco Angiolieri
T6 Poeti giocosi del tempo di Dante, a c. di M. Marti, Rizzoli, Milano 1956
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo Si tratta del sonetto più famoso di Cecco Angiolieri, nel quale il poeta espone una serie di desideri impossibili che lo portano a inveire contro tutto e tutti.
4
S’i’ fosse foco, ardereï ’l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempestarei1; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo2;
8
s’i’ fosse papa, allor serei giocondo3, ché tutti cristïani imbrigarei4; s’i’ fosse ’mperator, ben lo farei; a tutti tagliarei lo capo a tondo5.
11
S’i’ fosse morte, andarei a mi’ padre; s’i’ fosse vita, non starei con lui: similemente 6 farìa da mi’ madre.
14
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei7 le donne giovani e leggiadre8: le zop[p]e e vecchie lasserei altrui9.
La metrica Sonetto con rime ABBA ABBA CDC DCD
1 tempestarei: lo tormenterei con tempeste; ar per er è un uso senese. 2 mandereil’ en profondo: lo farei sprofondare.
3 serei giocondo: sarei felice. 4 ché tutti cristïani imbrigarei: metterei in grossi guai tutti i cristiani. 5 a tondo: completamente; oppure, se lo riferiamo a tutti intorno: a tutti quelli che mi stanno intorno. 6 similemente: allo stesso modo.
7 torrei: prenderei. 8 leggiadre: belle. 9 altrui: ad altri.
Giocatori di dadi in taverna, miniatura da Codex Buranus, 1230 (Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera).
304 Duecento e Trecento 5 La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Analisi del testo Desideri irrealizzabili Con i periodi ipotetici dell’irrealtà (otto) che introducono piaceri irrealizzabili, Cecco gioca a parodiare il genere del plazer provenzale (un elenco di cose piacevoli) trasformandolo nel suo contrario, cioè l’enueg (un elenco di cose spiacevoli): il poeta vorrebbe bruciare il mondo, scuoterlo, annegarlo, sprofondarlo, mettere nei guai cristiani, decapitare tutti, andare dal padre e dalla madre nella veste della morte.
Parodia e gioco letterario Ciò che scrive il poeta nel sonetto non va quindi inteso come uno sfogo sincero: non bisogna infatti interpretare questo testo come una testimonianza reale, ma come un gioco letterario che si comprende solo alla fine del sonetto, quando il poeta afferma di essere Cecco e di esserlo sempre stato e sostituisce l’atteggiamento distruttivo alla enunciazione della sua filosofia di vita ispirata al godimento dei piaceri materiali. È chiaro quindi che, se nella poesia del poeta può ravvisarsi qualche elemento di verità autobiografica, essa è frutto di una elaborazione formale, ossia di un gioco letterario.
Lo stile Il fatto che si tratti di un gioco letterario è confermato dallo stile elaborato utilizzato dal poeta. Si può notare l’uso dell’anafora «S’i’ fosse», a cui fa da riscontro il condizionale in chiusura di verso in ben quattro casi (vv. 2-3-6-7), dando vita a una struttura simmetrica.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Fai il riassunto del sonetto. COMPRENSIONE 2. Fai un elenco dei desideri che Cecco esprime in questo sonetto. ANALISI 3. Come nel precedente sonetto Tre cose solamente m’enno in grado (➜ T3 ) è presente la figura paterna. In che modo viene descritta dal poeta?
Interpretare
STILE 4. Nei versi 13-14 è presente la figura retorica del chiasmo. Individuala. SCRITTURA CREATIVA 5. Immagina di scrivere un tuo sonetto intitolato S’i’ fosse foco. Su quali aspetti ti soffermeresti?
Sguardo sulla musica Fabrizio De André S’i’ fosse foco Nel 1968 Fabrizio de André mette in musica nell’album Volume III il componimento più famoso di Cecco Angiolieri senza alterarlo. Il periodo in cui incide è quello della “rivolta studentesca”: vengono occupate le università, i ragazzi girano con capelli e barba lunghi, si oppongono ai padri, alle madri e ai valori delle generazioni che li hanno preceduti. In questo clima diventa di grande attualità il sonetto del poeta Cecco Angiolieri. Cerca in rete la canzone di De André e dopo averla ascoltata esprimi le tue impressioni. Secondo te il ritmo scelto dal cantautore crea un clima drammatico o accentua gli aspetti comici?
online Audio
Fabrizio De Andrè S’i’ fosse foco
La copertina dell'album di Fabrizio De Andre' Volume III, del 1968, su cui è incisa la traccia di S'i' fosse foco.
I poeti comico-realisti 2 305
Duecento e Trecento La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
Sintesi con audiolettura
1 Il comico
Una nebulosa che sfugge alle categorizzazioni La comicità è una dimensione che attraversa epoche e culture diverse, collegandosi a generi sia popolari sia alti e utilizzando temi ricorrenti (come la beffa). Fin dall’antichità essa si lega a espedienti retorici e linguistici: dall’iperbole alla ripetizione, dall’errore volontario all’impiego di un linguaggio serio per una situazione con esso incongrua, dal doppio senso al nonsense, dalla satira alla parodia. Questi sono anche gli strumenti dei poeti comico-realisti medievali. I temi del comico nel Medioevo Nel Medioevo il “comico” era uno stile: quello della cultura bassa. Il suo utilizzo era focalizzato su tre temi: quello sessuale (contrapposto all’ascetismo), il «basso-corporeo» e quello blasfemo.
I portavoce del comico nella società medievale: goliardi e giullari La comicità nel Medioevo rappresenta innanzitutto una forma di trasgressione collegata alla dimensione della festa e del Carnevale, occasione per il popolo in cui contestare liberamente le gerarchie sociali e i modelli di comportamento. Al di fuori della festa, il comico è soprattutto presente negli spettacoli itineranti dei giullari, professionisti itineranti del divertimento buffonesco, e nella produzione dei goliardi: le composizioni dei goliardi (la più celebre raccolta è quella dei Carmina Burana), nate negli ambienti universitari e condannate dalla Chiesa, irridono le autorità e danno spazio al rifiuto dei principi proposti dalla cultura dominante. I Carmina Burana e il “mondo alla rovescia” Carmina Burana è appunto il titolo di una raccolta di canti anonimi in latino e in tedesco composti tra il XII e il XIII secolo da colti goliardi nell’ambito delle università tedesche ed europee. La prima parte ha carattere satirico verso la corruzione e la decadenza della Chiesa; centrale è poi il tema amoroso, elaborato mediante il rovesciamento dei canoni cortesi; i temi del bere, del cibo e del gioco d’azzardo, da vivere nella cornice dell’osteria, occupano la terza sezione della raccolta. Regnano, insomma, la dimensione corporea e il carnevalesco, in polemica con i valori cardine della società coeva.
306 Duecento e Trecento La dimensione del comico e i poeti comico-realisti
2 I poeti comico-realisti
Parallelamente all’esperienza della lirica stilnovistica, si afferma in Toscana una linea poetica che afferisce all’area della comicità (pur non identificandosi del tutto con essa): si tratta dei poeti “comico-realisti”, definiti anche “giocosi” o “burleschi”, i cui maggiori rappresentanti sono il fiorentino Rustico Filippi, i cui sonetti comici sono caratterizzati da una lingua aspra e scurrile, e il senese Cecco Angiolieri (1260-1313 ca). Un tempo considerata frutto di spontaneo realismo, ma anche di una sorta di “maledettismo” (anticipatorio degli atteggiamenti dei poeti francesi di fine Ottocento), in realtà la poesia di Cecco e di altri poeti del gruppo ha un carattere tutto letterario: infatti, nelle scelte tematiche, si richiama consapevolmente ai modelli europei del comico (dai fabliaux alla poesia goliardica). Temi come l’esaltazione dell’amore sensuale e dell’osteria, dove si gioca e si beve, hanno in questi ultimi precisi riscontri; anche la maledizione del padre per la sua avarizia, ricorrente in Cecco, ha ascendenze letterarie. L’adozione di tematiche del quotidiano e persino volgari si deve ricollegare alla voluta contrapposizione con i modelli stilnovistici.
Zona Competenze Scrittura
1. In un testo espositivo di circa 15 righe indica, facendo gli opportuni riferimenti ai testi analizzati, le scelte stilistiche che rivelano la competenza tecnico-letteraria dei poeti comico-realisti.
Scrittura argomentativa
2. Riflettendo sui contenuti appresi in PER APPROFONDIRE e VERSO IL NOVECENTO proposti alle pp. 289 e 290, spiega in che cosa consisteva la potenziale carica eversiva del comico nella civiltà medievale.
Sintesi
Duecento e Trecento 307
Duecento e Trecento CAPITOLO
6 Dante Alighieri LEZIONE IN POWERPOINT
L'uomo Dante Nell’appassionata biografia del poeta fiorentino che Giovanni Boccaccio, uno dei suoi primi estimatori, scrisse in tre redazioni (dal 1350 al 1370) si ritrova un vivace ritratto di Dante che ne delinea l’aspetto fisico e i tratti più caratterizzanti della personalità.
Fu dunque questo nostro poeta di media statura. Quando giunse in età matura prese a muoversi un po’ incurvato, conservando peraltro un incedere solenne e composto. Era sempre abbigliato nei modi confacenti perfettamente alla dignità dell’uomo maturo che egli era. Aveva viso affilato e naso aquilino, occhi più sul grande che sul piccolo, mascella squadrata e labbro inferiore prominente; carnagione scura, capelli (come i peli della barba) neri, spessi e crespi, volto sempre malinconico e pensoso...[...] Nessuno più di lui fu così preso dagli studi e da qualsiasi altro interesse da cui fosse stimolato, tanto che la moglie e la famiglia in genere se ne ebbero a lamentare, almeno fino a quando, per l’abitudine, non ci fecero più caso. Se non veniva richiesto parlava di rado, ma allora lo faceva con ponderatezza e con toni adeguati all’argomento trattato; quando invece le circostanze lo richiedevano, era facondo [eloquente] e brillante oratore. [...] Fu inoltre, il nostro poeta, meravigliosamente dotato di ferrea memoria oltre che di penetrante intelletto, tanto da darne ampia dimostrazione, quando si trovava a Parigi, discutendo un quesito in una disputa scolastica d’ambito teologico, come allora usava. Egli, infatti, in quella circostanza fu in grado di ricostruire senza la minima difficoltà, quattordici tesi presentate su svariati argomenti da diversi studiosi di valore, e di riproporle tali e quali, in rigorosa successione, complete delle loro argomentazioni pro e contro. [...] Dell’elevatissimo livello intellettuale e della raffinata originalità della sua arte, che parimenti lo caratterizzavano, rendono molto più ampia testimonianza le sue opere di quanto possano qui le mie parole. Boccaccio, Vita di Dante (1a versione), a c. di P. Baldan, Moretti & Vitali, Bergamo 1991
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Dante è il primo e il più grande dei nostri classici, e anche uno dei pilastri della letteratura occidentale d’ogni tempo. L’indiscussa fama mondiale di Dante è legata alla Commedia. Sintesi possente dell’eredità della cultura classica e della cultura cristiano-medievale, la Commedia è l’opera che meglio ci può far comprendere il Medioevo. Con il suo capolavoro Dante consacra la supremazia del volgare e assurge a padre della lingua italiana. La restante produzione del poeta fiorentino è legata ai generi e alle tendenze proprie della cultura medievale, a cominciare dalla Vita nuova, in cui ha un ruolo centrale la figura di Beatrice, che Dante trasfigura, attribuendole una funzione salvifica. Nelle successive opere Dante sintetizza i grandi temi culturali dell'epoca: dal Convivio, sintesi della filosofia del tempo, al De vulgari eloquentia, celebrazione delle potenzialità della lingua volgare, alla Monarchia, riflessione sul rapporto fra impero e papato.
1 ritratto d'autore 2 La Vita nuova parola di Dante nei 3 Lageneri e nei grandi temi culturali del suo tempo
4 Il poema sacro 309 309
1 Ritratto d’autore nascita, la giovinezza, 1 La la prima formazione VIDEOLEZIONE
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Una storia (ancora) avvolta nel mistero La vita del nostro maggior poeta rimane per molti aspetti oscura, nonostante secoli di indagini. Non ci è pervenuto alcuno scritto autografo e interi periodi della vita di Dante restano misteriosi. Le principali notizie provengono proprio dalla Commedia, in quanto disseminata Ritratto di Dante in un dipinto di riferimenti autobiografici che, per quanto preziosi, di Sandro Botticelli (1495 ca., collezione priv., Ginevra). tuttavia non riescono a colmare molte lacune. Dante (diminutivo di Durante) Alighieri nacque a Firenze tra il maggio e il giugno del 1265, in un’epoca in cui la città conosceva una grande espansione economica (nel 1252 era stato coniato il fiorino, prima moneta internazionale) sia come centro tessile sia come sede di floride attività bancarie (➜ SGUARDO SULLA STORIA La Firenze di Dante, PAG. 316). D’altra parte erano molto radicati nella città i conflitti tra le avverse fazioni dei guelfi (sostenitori del papa) e dei ghibellini (sostenitori dell’imperatore), destinate nel tempo a complicarsi ulteriormente per la divisione dei guelfi in Bianchi e Neri.
Cronologia interattiva
1294
Inizia il pontificato di Bonifacio VIII. 1293
Gli Ordinamenti di Giano della Bella escludono i nobili dalle cariche politiche.
1266
La battaglia di Benevento pone fine alla potenza sveva in Italia.
1250
1260
1270 1265
Nasce a Firenze da una famiglia della piccola nobiltà guelfa.
1280
1290
1283 ca
Segue gli insegnamenti di retorica di Brunetto Latini. Inizia il suo apprendistato poetico e frequenta Guido Cavalcanti, con cui stringe un rapporto di intensa amicizia.
1289
Partecipa alla battaglia di Campaldino nelle fila della lega guelfa contro i ghibellini di Arezzo. 1290
Muore Bice Portinari, sposa di Simone de’ Bardi, celebrata da Dante con il nome di Beatrice.
1293-95
Si dedica agli studi filosofici e teologici e compone la Vita nuova.
310 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
La famiglia di Dante apparteneva alla piccola nobiltà di parte guelfa. Anche se il poeta si mostra spesso fortemente critico verso la decadenza di valori che colpiva la classe nobiliare, manterrà comunque alcuni atteggiamenti propri della sua classe sociale: in particolare lo sdegnoso disprezzo per i nuovi ricchi, la gente nova, che animava la dinamica vita sociale del comune. Il padre di Dante, date le non elevate possibilità economiche della famiglia, esercitava un mestiere non molto onorevole: quello di cambiavalute (e forse anche di usuraio). Di lui Dante non parla mai, preferendo scegliersi nella Commedia una serie di “padri ideali”, a cominciare dal trisavolo Cacciaguida, cui affida nel Paradiso un ruolo assai rilevante (➜ PER APPROFONDIRE Un padre rifiutato, dei padri ideali, PAG. 312). Quanto alla madre Bella, essa muore quando il poeta ha solo dieci anni. Anche di lei nella Giotto, ritratto di Dante, particolare del Giudizio Commedia non resta traccia. universale, 1334-1337, affresco nella Cappella del podestà Sulla prima formazione di Dante possiamo fare solo (Palazzo del Bargello, Firenze). delle congetture: sarà stata certo conforme all’educazione che ricevevano i ceti superiori in quel tempo, che prevedeva il percorso del trivio e del quadrivio, ovvero lo studio delle sette arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia).
1300
1309
Bonifacio VIII indice il solenne giubileo. 1301
Carlo di Valois viene inviato dal papa a Firenze con lo scopo di pacificare la città, in realtà per favorire la presa di potere dei Neri. I priori in carica vengono deposti ed è avviata un’inchiesta sul loro operato.
1300
Clemente V, succeduto a Bonifacio VIII, trasferisce la sede papale ad Avignone.
1310
1310-1313
Arrigo VII scende in Italia per restaurare l’autorità imperiale. Incoronato a Roma, morirà improvvisamente nel 1313.
1330
1340
1320 1316
1300
Viene eletto priore.
1306-1307
1301
Probabile inizio della composizione della Commedia: l’Inferno (per alcuni 1304-1308).
È a Roma per un’ambasceria a Bonifacio VIII.
1315 1303-1304
Iniziano le peregrinazioni per l’Italia. Compone: il Convivio e il De vulgari eloquentia.
1295
Inizia la carriera politica, avvicinandosi alla linea dei guelfi bianchi.
1302
Rifiuta l’offerta del governo fiorentino di rientrare in Firenze a condizioni che considera umilianti.
Viene accusato di corruzione. È esiliato e condannato a morte in contumacia.
Comincia a scrivere il Paradiso.
1312-1313
1321
Dante è ospite di Cangrande della Scala a Verona (dove rimarrà, con qualche interruzione, fino al 1319 ca.). Con ogni probabilità, termina il Purgatorio (iniziato forse nel 1309). In questi anni compone anche la Monarchia.
Durante un’ambasceria a Venezia si ammala. Muore a Ravenna fra il 13 e il 14 settembre.
1319-20
È a Ravenna, ospite di Guido Novello da Polenta.
Ritratto d’autore 1 311
PER APPROFONDIRE
Forse già nella prima giovinezza Dante frequentò Brunetto Latini, maestro di retorica e intellettuale di spicco nel comune di Firenze (➜ SCENARI, PAG. 53), una delle figure guida della sua formazione, ricordato con commosse parole nella Commedia (➜ D2 ). Appena ventenne, Dante sposa Gemma Donati, appartenente a una delle famiglie guelfe più in vista in Firenze: da lei avrà i figli Jacopo e Pietro, poi letterati e primi commentatori della Commedia, Antonia (divenuta in seguito suor Beatrice) e forse un quarto figlio, Giovanni. Anche della moglie non esiste alcun cenno nella Commedia, ma occorre ricordare che i matrimoni erano al tempo di Dante esclusivamente patti economico-politici che le famiglie stringevano tra di loro e non erano certo fondati sul sentimento amoroso dei due coniugi.
Un padre rifiutato, dei padri ideali Alighiero II, il padre di Dante Dante non nomina mai, né nella Commedia, né in alcun altro suo scritto la figura di suo padre, Alighiero II, sebbene questi sia vissuto abbastanza a lungo (a differenza della madre Bella, morta prestissimo) per incidere sulla vita e sulla formazione di Dante. La figura di Alighiero II viene chiamata in causa (in modo volutamente offensivo per Dante) nella tenzone con Forese Donati, senza che Dante peraltro risponda in alcun modo alle provocazioni dell’amico. I pochi documenti di cui disponiamo ci parlano del padre del poeta come di un uomo d’affari piuttosto gretto; forse Dante non lo riteneva degno dell’alta immagine di sé che intendeva trasmettere ai lettori della Commedia. Il sostanziale rifiuto del proprio vero padre viene compensato nel poema dalla forte presenza di personaggi che ben possono essere definiti “padri ideali”: degni, essi sì, di figurare nel poema sacro come genitori elettivi di Dante.
di cui Dante rievoca con note nostalgiche «la cara e buona immagine paterna» e che a sua volta definisce Dante «figliol mio». In relazione alla fiorentinità del personaggio, Brunetto è utilizzato nella Commedia per costruire – con l’autorevolezza del “padre” appunto – l’antitesi netta tra Dante e gli ingrati fiorentini che l’hanno ingiustamente emarginato dalla vita attiva. Guinizzelli Ma altrettanto importante nella Commedia è la “paternità” in ambito culturale e letterario, come nel caso di Guido Guinizzelli, che Dante immagina di incontrare tra i lussuriosi nel Purgatorio e che definisce con suggestiva perifrasi «il padre mio e de li altri mei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre» (Pg XXVI), riconoscendo così esplicitamente al poeta bolognese il ruolo di caposcuola nella poesia amorosa.
Brunetto Latini Un ruolo importante e una funzione “paterna” sono inoltre affidati a Brunetto Latini (➜ SCENARI, PAG. 53)
Virgilio Tra i padri ideali spicca ovviamente la figura di Virgilio, indiscutibile auctoritas per il Medioevo («tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore»), ma che Dante ritrae, soprattutto nel Purgatorio, essenzialmente come guida sollecita e affettuosa, come sostegno nei momenti di dubbio e difficoltà, proprio come dovrebbe essere un padre. Assai spesso del resto Dante usa per Virgilio espressamente il termine padre (addirittura «lo più che padre» in Pg XXIII, 4), ma particolarmente intenso (e commovente), è l’appellativo dolcissimo patre che Dante rivolge al suo maestro nel momento doloroso e smarrito del congedo definitivo da lui: «Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé [ci aveva abbandonato], Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi [a cui mi ero affidato per la mia salvezza]» (Pg XXX, 49-51).
Dante e Virgilio incontrano Brunetto Latini, illustrazione di Gustave Doré per il canto XV dell’Inferno.
Mosaico del III secolo che raffigura il poeta Virgilio tra le muse Clio e Melpomene (Museo del Bardo, Tunisi).
Cacciaguida Il più importante di questi “padri ideali” è Cacciaguida, il trisavolo di Dante cui viene affidata l’importantissima funzione di svelare al poeta il suo destino di esule e di consacrarne la missione poetica. Cacciaguida è chiamato espressamente “padre” due volte (Pd XVI, 16 e XVII, 106), ma già l’incontro solenne tra Dante e il suo antenato (Pd XV), attraverso l’esplicito rimando all’incontro tra Enea e il padre Anchise nell’Ade, introduce il tema della paternità ideale.
312 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
2 La “donna della salute” e l’esperienza stilnovista Il mito di una donna Secondo quanto Dante narra nella Vita nuova (➜ PAG. 321), a soli nove anni incontrò per la prima volta Beatrice, la figura femminile che non solo ispirerà tante liriche di Dante, poi inserite nella Vita nuova, ma che costituisce il vero centro dell’itinerario poetico e umano del poeta fiorentino. La donna amata da Dante fu Bice Portinari, sposa di Simone de’ Bardi, morta nel 1290 a ventisei anni; ma non ha particolare importanza conoscere la reale identità storica di colei che Dante chiama, con nome allusivo e simbolico, Beatrice (“colei che beatifica”), dato che il poeta sottopone la sua figura a un processo di trasfigurazione sublimante, che ne fa un mito umano e insieme poetico. La devozione alla “donna della salute” (come Dante la definisce nella Vita nuova) è cantata in forme letterarie riconducibili alla linea poetica che si suole definire “dolce stil novo”, prendendo spunto dall’espressione usata da Dante nell’episodio dell’incontro con il poeta Bonagiunta da Lucca (Pg XXIV). Le prime esperienze poetiche Dante aveva iniziato a comporre poesie a partire dagli anni Ottanta del XIII secolo in modi poetici riconducibili alla linea dominante della poesia cortese, nata in Provenza e poi radicata anche in Italia attraverso l’esperienza della lirica siciliana e quindi siculo-toscana. Verso la fine del secolo (probabilmente tra il 1286 e il 1287) Dante si reca a Bologna, prestigioso centro della dotta cultura universitaria, dove operava il poeta Guido Guinizzelli. Gli anni dello stilnovismo Dante entra poi in contatto con il gruppo di poeti toscani (tra cui Lapo Gianni, Gianni Alfani, Guido Cavalcanti), i “fedeli d’Amore” secondo la definizione di Dante, che danno vita a un nuovo indirizzo poetico incentrato sulla celebrazione del tema amoroso (lo stilnovo, appunto): Dante stesso Dante e Beatrice nel vi contribuisce in modo rilevante con le sue liriche amorose. A distanza di anni, cielo della Luna quando compone il XXIV canto del Purgatorio, Dante tende a enfatizzare il proprio da un codice trecentesco contributo, attribuendosi un ruolo centrale nella poetica stilnovistica e assegnando della Divina un significato chiave alle “rime della loda”, inaugurate dalla canzone Donne ch’avete Commedia della Biblioteca intelletto d’amore e collocate al centro della Vita nuova (➜ PAG. 321). nazionale D’altra parte non manca nella Commedia (If XXVI) il riconoscimento dei meriti del Marciana di Venezia. bolognese Guido Guinizzelli, esaltato come il maestro che diede inizio alle “rime d’amor dolci e leggiadre”; appare invece strano che nella Commedia venga fatto passare sotto silenzio il magistero dell’amico Guido Cavalcanti, nonostante l’evidente influenza dei modi cavalcantiani presente soprattutto nella prima parte della Vita nuova. Ma questo silenzio ha forse a che fare con la storia di un’amicizia, quella appunto tra Dante e Guido, probabilmente interrotta per sopraggiunte divergenze ideologiche (➜ PER APPROFONDIRE Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta, pag. 314 ➜ D3 OL). La morte prematura di Beatrice (giugno 1290) pone fine a una fase della vita e insieme dell’esperienza poetica di Dante e provoca in lui grave sconforto. Scrive al proposito Boccaccio: «Questa perdita gettò Dante in un tale doloroso stato di prostrazione e di pianto, che i suoi più stretti familiari e amici online temettero a tutto ciò potesse porre fine solo con la morte; che D1 Giovanni Boccaccio Il primo incontro tra Dante e Beatrice ritennero anche imminente vistolo sordo a qualsiasi parola di Vita di Dante conforto, impenetrabile a ogni consolazione». Ritratto d’autore 1 313
consolazione della filosofia. 3 La La «selva oscura» e il mistero del traviamento La frequentazione del sapere filosofico Come scrive in un passo del Convivio (II, XII 1-7), dalla prostrazione seguita alla morte di Beatrice Dante cominciò a risollevarsi leggendo le opere di Boezio (soprattutto il De consolatione philosophiae) e di Cicerone (in particolare il De amicitia) e dedicandosi intensivamente allo studio della filosofia: «Cominciai ad andare là dov’ella [la filosofia] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti». Con “scuole de li religiosi” Dante si riferisce allo studium domenicano di Santa Maria Novella a Firenze (in cui dovette approfondire gli insegnamenti dei principali esponenti della filosofia scolastica, ovvero Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, e conoscere il pensiero di Aristotele) e al convento francescano di Santa Croce (dove entrò in contatto con il pensiero mistico-ascetico di Bonaventura da Bagnoregio e presumibilmente accostò il filone platonico-agostiniano del pensiero medievale). Negli anni tra il 1290 e il 1295 Dante acquisisce dunque un rigoroso sapere filosofico-teologico che confluirà in parte nel progetto enciclopedico del Convivio, nelle rime dottrinali e quindi nel poderoso edificio della Commedia. Oltre lo stilnovo: la sperimentazione della materia comico-realistica Al tempo stesso Dante sperimenta forme letterarie diverse, riconducibili allo stile “comicorealistico”, dietro le quali, come scrive Giorgio Petrocchi, sta un pubblico che apprezzava «le piacevolezze del parlar scurrile, le risate sguaiate […], i sottintesi maliziosi e le simbologie erotiche». All’interno della sperimentazione di questo ambito stilistico-tematico (in cui si colloca anche Il Fiore, da alcuni critici attribuito a Dante) riveste particolare importanza la tenzone con Forese Donati (➜ T10 ), collocabile tra il 1293 e il 1296, anno della morte di Forese: si tratta di uno scambio di sonetti ingiuriosi (alla maniera dei poeti giocosi toscani) con un amico fiorentino, poi ricordato affettuosamente nel canto XXIII del Purgatorio.
PER APPROFONDIRE
Il traviamento La forte coesione tra scelte poetiche e itinerario interiore che sempre caratterizza la figura intellettuale di Dante e il turbamento con cui il poeta
Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta L’amicizia con Guido Cavalcanti: un sodalizio poetico e intellettuale Come egli stesso ricorda nella Vita nuova, negli anni della sua giovinezza Dante stringe amicizia con Guido Cavalcanti, poeta fiorentino (ca. 1250-1300), definito «quelli che io chiamo primo de li miei amici» (Vita Nuova III). Un’amicizia fondata sull’appartenenza alla stessa raffinata élite dei poeti d’amore stilnovisti a cui allude metaforicamente il celebre sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. Negli anni della loro amicizia Dante e Guido devono aver condiviso anche una posizione filosofica: l’adesione all’aristotelismo radicale (o averroismo), una linea di pensiero presente all’Università di Parigi nella seconda metà del Duecento e che circolò anche in Italia, soprattutto a Bologna. Dell’averroismo restano tracce nel Convivio e nel De vulgari eloquentia, mentre nella Commedia Dante mostra di averne ormai preso le distanze. Il ripensamento di Dante e il distacco da Guido Se questa posizione filosofica all’inizio deve aver unito Dante e Guido,
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in seguito deve aver costituito la ragione principale del loro distacco. Come scrive Maria Corti (che ha dedicato uno studio fondamentale alla presenza dell’aristotelismo radicale in Dante e ai suoi rapporti con Guido Cavalcanti), a un certo punto, non sappiamo bene quando, Guido dovette «apparire a Dante su un’altra sponda». Mentre il poeta della Commedia si allontana dal fascino dell’aristotelismo radicale e la sua posizione filosofica si fonda sull’aristotelismo “ortodosso”, cioè tomistico, con aperture al misticismo francescano, Guido deve essere rimasto legato ad esso: del resto la figura di sé che Guido trasmette ai posteri, come ci testimonia una celebre novella di Boccaccio, è quella di «loico e filosofo naturale», ovvero colui che non ammette nulla che non abbia a che fare con cause naturali. Non c’è quindi da stupirsi se i due amici si dovettero allontanare l’uno dall’altro. Anche se in modo criptico, Dante allude alla frattura tra lui e l’amico nel celebre canto X dell’Inferno.
rievoca nella Commedia i tempi dell’amicizia con Forese inducono a pensare che l’esperienza della tenzone abbia in qualche modo a che fare con il misterioso “traviamento” di Dante. Esso, come si deduce dai rimproveri di Beatrice nel canto XXX del Purgatorio, iniziò dopo la morte della donna amata, quando il poeta, secondo le accuse della donna, cominciò a volgere «i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false». Un traviamento che, in assenza di più precisi elementi, deve collocarsi dopo il 1290 (anno appunto della morte di Beatrice) e prima del 1300 (per la verità lo smarrimento nella selva oscura del peccato è collocato nella Commedia in questa data, ma esclusivamente secondo una logica simbolico-narrativa che esclude un preciso rimando realistico). Come deve essere interpretato il traviamento di Dante? È da intendersi in senso morale, letterario, dottrinale o, più probabilmente, tutte queste cose insieme? Negli anni del lutto, approfondendo le sue conoscenze filosofiche, Dante conobbe forse la seduzione dell’aristotelismo radicale e quindi del razionalismo estremo, che fu condiviso dall’amico Guido. Quello che è certo è che Dante vive una crisi che rischia di disperdere le sue energie anche come poeta e di introdurre nella sua storia intellettuale pericolosi elementi devianti rispetto al rigore morale e insieme stilistico delle “rime della loda”, che lo avevano consacrato raffinato cantore di un purissimo sentimento amoroso. Il “ritorno a Beatrice” A distanza di anni, ponendo mano al poema sacro, Dante sa che occorreva “ricominciare da Beatrice”, la donna dell’amore virtuoso e salvifico, tramite verso l’amore di Dio, per completare degnamente la sua carriera poetica e la sua stessa storia personale.
4 La passione (e la delusione) della politica Lessico priori A Firenze i priori erano dapprima i rappresentanti delle Arti più importanti; poi, dalla fine del XIII secolo, i capi del governo della città.
Gli esordi Nel 1295 fa il suo ingresso nella vita politica dopo essersi iscritto all’Arte dei medici e degli speziali: per i nobili era necessario, infatti, iscriversi a una delle Arti qualora volessero ricoprire una carica pubblica. Dante priore Nel 1300, dopo essere stato ambasciatore a San Gimignano, Dante diventa uno dei priori di Firenze. In quello stesso anno, con l’obiettivo di porre un freno agli scontri sanguinosi tra Bianchi e Neri che funestavano quotidianamente la vita della città, i priori decidono di esiliare i capi delle due fazioni (otto di parte nera e sette di parte bianca): tra questi ultimi figura anche Guido Cavalcanti, amico di Dante e appartenente, come il poeta, ai Bianchi. L’ambasceria a Roma Nel 1301 Dante è a Roma alla guida di un’ambasceria presso il papa, volta a sondarne le reali intenzioni. Intanto Carlo di Valois, chiamato dal pontefice per far da paciere (ma in realtà per sostenere la politica ecclesiastica e favorire l’affermazione del partito dei Neri), entra in Firenze: i Neri ne approfittano per abbandonarsi a rappresaglie e violenze nei confronti dei capi bianchi, che lasciano precipitosamente la città, e per istituire nei loro confronti processi sommari. Battaglia di Montaperti tra ghibellini e guelfi, in una miniatura dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani (XIV secolo, Biblioteca Apostolica Vaticana).
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La condanna A Dante – che, dice il Boccaccio, «fu trattato non come un avversario minore bensì alla stregua di uno dei massimi caporioni» – viene rivolta l’accusa di baratteria, cioè di corruzione nell’amministrazione pubblica. Invitato a discolparsi di persona, il poeta, come del resto la maggior parte dei capi bianchi, non si presenta e viene allora condannato alla confisca permanente dei beni e alla morte sul rogo, nel caso fosse stato catturato (l’atto di condanna è uno dei rari documenti che possediamo relativi alla biografia dantesca). Inizia così il doloroso periodo dell’esilio: a Firenze Dante lascia la moglie, Gemma Donati, e tre figli.
5 Gli anni dell’esilio. La morte: Dante entra nella leggenda L’esilio: un’esperienza drammatica ma ricca di frutti L’esilio fu prima di tutto un’esperienza dolorosa e umiliante per il poeta («per le parti tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato», scrive nel Convivio (➜ D4b ). D’altra parte, se non fosse stato bandito da Firenze, forse Dante sarebbe
Sguardo sulla storia La Firenze di Dante Firenze emerge abbastanza tardi nel panorama dei comuni italiani, ma in compenso raggiunge una posizione preminente già nella seconda metà del Duecento, distinguendosi nell’attività commerciale e bancaria. Firenze si specializza nel settore della lana (e successivamente della seta): quando Dante nasce (1265) quasi un terzo della popolazione di Firenze è occupata in questo ambito lavorativo. Man mano che la produzione si intensifica e cresce il giro d’affari, all’azienda familiare o comunque di tipo artigianale (la “bottega”), si affiancano fabbriche di grandi dimensioni, in cui operano concentrazioni di lavoratori salariati. L’incremento della ricchezza e la presenza in Firenze di forti concentrazioni di capitali alimentano ben presto la nascita di compagnie bancarie in mano a potenti famiglie (come i Peruzzi, gli Adimari, i Portinari, i Rucellai), che gestiscono il traffico di capitali e prestano denaro a chiunque (compresi re e papi) ne faccia richiesta. Si crea così a Firenze una ricca classe di mercanti, imprenditori, banchieri che non ha eguali in Europa. La potenza economica di Firenze trova la testimonianza più evidente e insieme il suo strumento più valido nella coniazione del fiorino d’oro (1252), destinato a diventare nel giro di pochi anni la moneta più accreditata nel commercio internazionale. La presenza di una ricca borghesia mercantile e finanziaria spiega anche l’evoluzione istituzionale del comune di Firenze: questa classe, organizzata corporativamente nelle Arti maggiori, che già detiene il potere economico nella città, rivendica per sé la direzione degli affari cittadini, giungendo ben presto a conquistarla. Queste le tappe essenziali della conquista. Nel 1282 sono conferiti i maggiori poteri politici a una nuova magistratura (i sei priori), che era espressione delle Arti maggiori e mediane. Nel 1293 gli Ordinamenti di Giano della Bella riservano l’esercizio delle cariche pubbliche solo a chi è iscritto alle Arti
316 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri
(maggiori, mediane e minori), aprendole quindi anche al popolo minuto e negandole invece alle famiglie che appartenevano all’aristocrazia feudale. Gli Ordinamenti furono effettivamente applicati solo per due anni; nel 1295 alcune famiglie nobiliari riprendono l’egemonia, dando luogo a un breve e precario equilibrio. Lo scenario politico fiorentino, negli anni immediatamente successivi, è dominato dagli aspri contrasti tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri. I Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, venuta dal contado e arricchitasi in poche generazioni, erano disponibili nell’ambito della vita del comune alla collaborazione con il popolo grasso (ovvero i ceti artigiani e mercantili) e nell’ambito politico più generale erano gelosi custodi dell’autonomia comunale. La fazione dei Neri (capeggiati dalla famiglia dei Donati), rappresentava la classe magnatizia ed era disposta a sacrificare l’autonomia del comune con concessioni alla politica del papato nel momento in cui essa appare coincidere con i loro interessi economici.
1° maggio 1300: gli scontri tra le brigate dei giovani Cerchi e Donati (miniatura di un manoscritto della Biblioteca Vaticana).
rimasto legato a un’ottica municipale, non avrebbe superato l’ambito della poetica stilnovistica, e probabilmente non sarebbe arrivato a immaginare un’opera di ambizioni universalistiche come la Commedia. In esilio, oltre a realizzare il grandioso progetto della Commedia, Dante compone tutte le opere di più vasto impegno culturale, come il Convivio, il De vulgari eloquentia, il Monarchia, nelle quali si pronuncia autorevolmente sulle più importanti problematiche del suo tempo. Al periodo dell’esilio appartengono anche le tredici epistole in latino, nelle più significative delle quali campeggia la figura fiera e risentita, l’alta statura morale e civile dell’exul immeritus, che assume quel ruolo di severo moralista e profeta del proprio tempo che si ritrova anche nella Commedia. Le peregrinazioni per l’Italia Dopo qualche iniziale contatto con gli altri esuli di parte bianca (poi definiti «compagnia malvagia e scempia», Pd XVII), Dante si isola e inizia una solitaria peregrinazione in varie zone e corti d’Italia, dove riesce a trovare ospitalità e protezione (➜ D4a ). Il primo refugio è Verona, presso la corte degli Scaligeri, dove soggiorna tra il 1303 e il 1304 e dove ritornerà forse già nel 1312; quindi forse nella Marca Trevigiana, in Lunigiana nel 1306, a Lucca forse nel 1308. Secondo la testimonianza di Boccaccio (ma anche di altri contemporanei, tra cui il cronista Villani), si reca addirittura a Parigi; non abbiamo, però, alcuna conferma di un soggiorno parigino del poeta. L’elezione di Arrigo VII alimenta le speranze di Dante L’elezione di Arrigo VII al soglio imperiale nel 1308 anima le speranze di Dante in una restaurazione dell’autorità imperiale e in una renovatio dell’Europa cristiana. Nell’attesa che l’imperatore scenda in Italia («il giardino dell’impero») per l’incoronazione, stabilita per il 2 febbraio 1312, Dante decide di esporsi personalmente scrivendo una lettera ai re e signori d’Italia in cui, con tono biblico-profetico, annuncia la venuta del “messo di Dio” che avrebbe riportato la giustizia in Italia e stroncato ogni ribellione all’autorità dell’imperatore, preposto dalla volontà di Dio al governo del mondo. La delusione La spedizione si rivela però ben presto inconcludente e Firenze rimane ribelle all’autorità imperiale. Nel 1313 Arrigo VII muore improvvisamente infrangendo crudelmente la generosa utopia dantesca e troncando definitivamente ogni speranza del poeta di poter rientrare in patria. Non riuscì più a rivedere Firenze, abbandonata vent’anni prima. Aveva rifiutato con indignazione un compromesso umiliante (riconoscere le proprie colpe) che gli avrebbe consentito di ritornare in città. Il comune rinnova la condanna a morte nel 1315, estendendola anche ai figli. L’ultimo soggiorno. La morte Dopo aver soggiornato a lungo a Verona alla corte di Cangrande della Scala (esaltato nel canto XVII del Paradiso), Dante è infine ospite di Guido da Polenta, a Ravenna. Sarà l’ultima tappa dell’esilio e del suo itinerario su questa terra: colpito da malaria, muore nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, all’età di 56 anni. Guido da Polenta gli fa porre sul capo quella corona d’alloro che invano aveva desiderato di ricevere dalla sua città per i suoi altissimi meriti poetici. Pur essendone ormai da tempo diffusa la conoscenza, il poema sacro non era infatti riuscito a infrangere la dura condanna delle autorità fiorentine nei confronti del poeta. Le esequie, a quanto ci testimonia Boccaccio, furono particolarmente solenni; manifestazioni di costernazione per la scomparsa del grande poeta vennero da più parti (ma non dalla sua Firenze) e iniziò a crearsi nell’immaginario popolare quella trasfigurazione di Dante che nel giro di pochi anni ne avrebbe fatto una figura leggendaria. Ritratto d’autore 1 317
Dante Alighieri
D2
M’insegnavate come l’uom s’etterna Inferno XV, 79-87
D. Alighieri Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
Dante rivolge a Brunetto commosse parole, rievocando il suo alto magistero (sono i versi qui presentati).
«Se fosse tutto pieno il mio dimando1», rispuos’io lui, «voi non sareste ancora 81 de l’umana natura posto in bando2; ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna 84 di voi quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna3: e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo 87 convien che ne la mia lingua si scerna4.
1 Se fosse… il mio dimando: se potesse essere esaudito il mio desiderio (dimando). 2 voi… in bando: voi non sareste ancora morto. 3 ché… s’etterna: perché mi è impressa nella memoria (mente) e ora mi addolora la cara e buona immagine paterna di voi quando in terra (nel mondo) m’insegnava-
te come l’uomo possa rendersi immortale (attraverso le opere meritorie che gli assicurino una fama imperitura). La vaghezza dell’espressione usata da Dante, poeticamente molto suggestiva e giustamente celebre, non ci consente di definire in cosa consistette l’insegnamento di Brunetto: probabilmente una lezione insieme di retorica e di princìpi etico-politici. Anche nella
Cronica di Villani (VIII, 10) peraltro Brunetto è celebrato come autorevole maestro. 4 e quant’io… si scerna: e finché sarò vivo occorrerà (convien) che nelle mie parole (ne la mia lingua) si veda (si scerna) quanto io vi sia grato di tale insegnamento (quant’io l’abbia in grado).
Concetti chiave L'autorevole maestro
Brunetto Latini (1220-1294) fu un personaggio di grande rilievo nella Firenze dei tempi di Dante. Nell’Inferno Dante immagina di incontrarlo tra gli omosessuali (condannati a quel tempo come peccatori) e di avere con lui un vivace dialogo, volto indirettamente a celebrare Dante stesso isolandolo dai suoi concittadini, per i quali Brunetto ha aspre parole di condanna. È probabile che proprio da Brunetto Dante abbia appreso il legame fra sapere retorico e politica necessario al tempo per distinguersi nella società comunale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi dei versi proposti. COMPRENSIONE 2. Da quali espressioni puoi dedurre che, per Dante, Brunetto rappresentò un padre ideale (➜ PER APPROFONDIRE, Un padre rifiutato, dei padri ideali, PAG. 312)? ANALISI 3. Tra le parole in rima quali sono quelle che hanno valore chiave per intendere il senso profondo del passo?
Interpretare
SCRITTURA 4. In che modo, secondo Dante, l’uom s’etterna (v. 85)? Perché il poeta sembra insistere su questo punto? (max 20 righe)
online D3 Guido Cavalcanti
Io vegno ’l giorno a te Rime
318 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Testi In dialogo
D4a
Il dramma dell’esilio Dante Alighieri
Tu lascerai ogne cosa diletta Paradiso XVII, 55-69 D. Alighieri Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
Nel corso del viaggio nel paradiso, Dante immagina di incontrare lo spirito di Cacciaguida, suo antenato, spirito nobile vissuto nella Firenze antica e morto in una crociata in Terrasanta, che gli profetizza la dolorosa esperienza dell’esilio. Mentre compone questi versi, Dante si trova già da molti anni in esilio (il viaggio ultraterreno, nella finzione narrativa, è ambientato nel 1300), e quindi queste parole fatte pronunciare da Cacciaguida sono il frutto dell’amara esperienza che il poeta stava da tempo effettivamente vivendo.
Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale 57 che l’arco de lo essilio pria saetta1. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle 60 lo scendere e ’l salir per l’altrui scale2. E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia 63 con la qual tu cadrai in questa valle3; che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’a te; ma, poco appresso, 66 ella, non tu, n’avrà rossa la tempia4. Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch’a te fia bello 69 averti fatta parte per te stesso5.
L’esilio di Dante in due particolari di una miniatura dal codice Yates Thompson 36 illustrato da Giovanni di Paolo (1445 ca., British Library, Londra). 1 Tu lascerai… pria saetta: tu lascerai tutto ciò che ti è più caro; e questa è la prima dolorosa conseguenza dell’esilio. 2 Tu proverai… l’altrui scale: attraverso le metafore impiegate si allude al disagio che Dante proverà per essere costretto a chiede-
re ospitalità; duro calle significa “strada difficile”. 3 E quel… valle: e ciò che più ti opprimerà saranno i compagni malvagi e stolti con i quali ti ritroverai in questa difficile condizione (ovvero l’esilio). 4 ella... la tempia: allusione agli
inutili tentativi dei fuoriusciti bianchi per rientrare in Firenze. 5 Di sua bestialitate… per te stesso: gli eventi mostreranno l’insipienza (bestialitate) dei compagni d’esilio di Dante, per il quale sarà onorevole essere rimasto al di sopra delle parti.
Ritratto d’autore 1 319
D4b
Dante Alighieri
Legno sanza vela Convivio I, III, 4-5 D. Alighieri Convivio, a c. di F. Brambilla Ageno, 2 voll., Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1995 (Edizione nazionale delle Opere di Dante Alighieri a cura della Società Dantesca Italiana)
Nel primo trattato del Convivio Dante chiama in causa la durezza dell’esilio per giustificare le difficoltà contenutistiche e stilistiche della sua opera. Il passo costituisce un documento prezioso poiché è il poeta stesso, senza intermediari (come è invece il caso delle terzine di Cacciaguida) a parlarci dell’esilio, e lo fa con grande pathos, per sensibilizzare il lettore nei riguardi di quella che Dante considera una grave ingiustizia. Si ricordi che lo scrittore concepisce un’opera ardua come il trattato enciclopedico denominato Convivio anche per riscattare la propria immagine, gravemente compromessa dalle infamanti accuse che gli erano state rivolte e alle quali non poté replicare, non essendosi presentato al processo.
Poi che fu piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma1, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo della vita mia2, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo core di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti 5 quasi tutte alle quali questa lingua3 si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della fortuna4, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo5, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora6 la dolorosa povertade; e sono apparito alli 10 occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato: nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare7.
1 figlia di Roma: secondo una leggenda diffusa ai tempi di Dante, Firenze sarebbe stata fondata dai Romani. 2 in fino... vita mia: fino al culmine della mia vita. Al tempo di Dante il culmine della vita umana era collocato fra i trenta e i quarant’anni. Dante fu bandito all’età di 36 anni, nel marzo del 1302. 3 questa lingua: la lingua volga-
re, nella quale appunto è scritto il Convivio. 4 la piaga de la fortuna: la ferita che mi ha inferto la sorte. 5 Veramente… governo: Dante si paragona a una nave (legno) in balìa dei flutti, priva di chi la governi. 6 vapora: fa spirare (riferito a dolorosa povertade, soggetto). 7 e sono apparito… a fare: E sono apparso a molte persone (in
questa veste di esule) agli occhi dei quali non solo la mia persona s’avvilì, perse valore (invilìo), ma ogni mia opera, già composta o da comporre, acquistò minor valore. Dante esprime in questo punto la dolorosa consapevolezza che la condizione misera di esule potesse in qualche modo ledere la fama che già si era acquistato con le sue opere e svalutare queste stesse.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi dei versi proposti e poi indica il tema centrale. SINTESI 2. Sintetizza il contenuto del passo tratto dal Convivio. STILE 3. Rintraccia le metafore presenti nei due testi, spiegale ed evidenziane la funzione.
Interpretare
SCRITTURA 4. Fai un confronto tra i due testi in merito al tema dell’esilio.
320 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
2
La Vita nuova
La rilettura simbolica di un’eccezionale esperienza d’amore
1 La struttura, la finalità, i destinatari VIDEOLEZIONE
La struttura La Vita nuova – la prima opera in volgare scritta da Dante, allestita tra il 1293 e il 1295 – raccoglie una trentina di sue poesie giovanili, collegate con prose che sono presumibilmente successive ai testi poetici. La Vita nuova è dunque un prosimetro, cioè un componimento misto di prosa e poesia, costituito di 42 capitoli che includono 31 testi poetici (la maggior parte dei quali sono sonetti). I testi in prosa hanno due funzioni: introdurre e contestualizzare i componimenti poetici e fornire un commento prettamente retorico che segua i testi poetici. Il ruolo dell’introduzione in prosa ai testi poetici è fondamentale perché crea un tessuto connettivo fra le liriche e fornisce al contempo un’interpretazione organica di un periodo fondamentale nella biografia umana e intellettuale di Dante, dominato dalla presenza di Beatrice. Un tempo che il poeta rivisita e ripensa anni dopo, immaginando di ritrovarlo nel “libro” della sua memoria (➜ T1 ). Una narrazione “a tesi” Dante riflette dunque a posteriori sulla natura e sul significato del suo amore per la «gentilissima» e scopre che esso ha avuto il potere di «rinnovare» totalmente la sua esistenza: a questa radicale trasformazione interiore attivata dall’esperienza amorosa allude il titolo stesso di Vita nuova con cui l’opera è stata trasmessa nei secoli. Il titolo si ricava dal primo capitolo, in cui Dante usa l’espressione latina “vita nova” in riferimento appunto a una fase della sua vita profondamente rinnovata dall’esperienza dell’amore. Il poeta si propone allora di testimoniare l’eccezionale esperienza da lui vissuta, ripercorrendone le tappe fondamentali: in questa prospettiva seleziona i testi che aveva precedentemente scritto e li riorienta, attraverso il commento interpretativo, esclusivamente in funzione dell’esaltazione della donna amata.
Danza delle donzelle nel giardino d’amore, particolare dell’affresco di Andrea Bonaiuti nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze nel Cappellone degli Spagnoli (1355 ca.).
Un consuntivo poetico Al contempo, considerata ormai conclusa l’esperienza stilnovistica, Dante traccia nella Vita nuova un consuntivo e una sintesi della sua esperienza poetica fino a quel momento, nella consapevolezza di poter occupare con le sue poesie un posto importante nell’ambito della tradizione lirica alta, che si era ormai affermata anche in Italia. In questo senso la Vita nuova non è solo l’opera che chiude e sigilla la giovinezza umana e poetica di Dante, da cui il poeta prende congedo nel nome di Beatrice, ma è anche la più alta e coerente testimonianza dell’esperienza stilnovista, che Dante interpreta con l’originalità propria del suo genio. La Vita nuova 2 321
I destinatari: i “fedeli d’Amore” L’autore rivolge la sua opera a un pubblico ristretto di amici e di “fedeli d’Amore”, una cerchia culturalmente raffinata, di fatto coincidente con l’élite cui già si rivolgeva la canzone programmatica di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre Amore. In particolare Dante indirizza l’opera a Guido Cavalcanti «questo mio primo amico a cui io ciò scrivo» (cap. XXX), già ricordato nel cap. III con analoga perifrasi («quelli cui io chiamo primo de li miei amici»). Guido si delinea dunque come figura chiave nell’esistenza e nell’apprendistato poetico di Dante (e soprattutto la prima parte dell’operetta rivela marcatamente l’influenza dello stile cavalcantiano).
2 La vicenda Attraverso lo snodarsi delle liriche e il commento in prosa l’autore narra la vicenda del suo amore per Beatrice non tanto in sé, ma dando spazio piuttosto agli effetti psicologici e ai riflessi etici e spirituali che l’amore ha prodotto in lui. Il primo incontro, le schermaglie cortesi, la negazione del saluto L’iniziazione all’esperienza amorosa avviene – secondo il racconto di Dante – nel 1274, quando, all’età di nove anni, vede per la prima volta Beatrice durante una funzione religiosa, evento che Dante interpreta come segno di predestinazione e che rappresenta in un’aura di sacralità. Nove anni dopo, Dante incontra Beatrice la seconda volta, ne riceve il saluto e se ne innamora perdutamente. Dopo un sogno in cui Amore invita la donna a cibarsi del cuore del poeta, Dante scrive il suo primo sonetto, un saluto a «tutti i fedeli d’Amore». Per qualche tempo, temendo che si identifichi la donna amata con Beatrice, Dante corteggia altre donne per farne «schermo de la veritade», secondo le convenzioni dell’amore cortese; ma Beatrice, offesa, gli nega il suo saluto. Il poeta decide allora di manifestare i propri sentimenti, ma la sola presenza di Beatrice è per lui motivo di sconvolgente turbamento. Proprio per questo viene schernito da Beatrice e dalle donne in sua compagnia: è la scena del «gabbo», ricorrente nella letteratura cortese. La svolta e le «rime della loda» Se le liriche contenute nei primi capitoli riprendono i motivi cavalcantiani dell’amore doloroso e delle forze irrazionali che agiscono sui sentimenti dell’amante, nei capitoli XVIII-XIX Dante preannuncia una svolta poetica: abbandonerà la rappresentazione dei propri tormentati stati d’animo per dare voce unicamente alla lode disinteressata della donna amata. Ispirato e sorretto da una forza superiore e dalla «volontade di dire», Dante inizia le «rime della loda»: nascono da questa nuova condizione, insieme interiore e poetica, alcuni dei testi più celebri della produzione lirica dantesca, come la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e i sonetti Ne li occhi porta la mia donna amore, Tanto gentile e tanto onesta pare, Vede perfettamente onne salute. Tutta la parte centrale della Vita nuova insiste fondamentalmente sul tema della loda, anche se sono inserite situazioni dolorose, quali la morte del padre di Beatrice e la malattia del poeta, accompagnata dall’apocalittica visione in cui si annuncia la morte della donna amata. Al suo risveglio da questa visione Dante viene confortato da una giovane donna (cui il poeta rivolge la canzone Donna pietosa e di novella etate), grazie alla quale l’angoscia si dissolve, lasciando spazio alla contemplazione di Beatrice che si eleva al cielo.
322 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
La morte di Beatrice, lo sviamento, la missione Giunge però realmente la morte di Beatrice, che Dante non narra in modo diretto, limitandosi a trasmettere al lettore il proprio angoscioso smarrimento. Trascorso un anno, il poeta viene confortato da una «gentile donna giovane e bella molto», che nel Convivio apparirà come allegoria della filosofia. Il poeta vive un forte contrasto tra i sentimenti suscitati dalla donna gentile e il ricordo di Beatrice, ma una «forte immaginazione» gli fa apparire Beatrice come Dante la vide la prima volta: il poeta comprende allora che il suo compito è ormai quello di esaltare di fronte al mondo la figura di Beatrice (sonetto Deh peregrini che pensosi andate), elevando il proprio pensiero e il proprio spirito fino al cielo per contemplarla da vicino (Oltre la spera che più larga gira). L’opera si conclude con l’accenno a una «mirabile visione» che il poeta non descrive, dichiarando soltanto il proposito di non scrivere più di Beatrice fino a quando non sarà in grado di dire di lei «quello che mai non fue detto d’alcuna».
3 Un itinerario spirituale e poetico nel nome di Beatrice La centralità dell’esperienza d’amore La Vita nuova, come già si è accennato, delinea, intorno all’esperienza dell’amore per Beatrice, un itinerario interiore e insieme una storia della poesia dantesca: essa muove dall’influenza della poesia siculo-toscana, attraversa i toni drammatici dell’amore cavalcantiano per approdare al nuovo stile, lo «stilo della loda», in cui si esprime pienamente il contributo originale di Dante alla poetica stilnovista. Nella parte centrale dell’opera, l’amore cantato alla maniera di Cavalcanti cede il posto esclusivamente alla contemplazione di Beatrice: se l’attenzione di Dante è in un primo tempo rivolta su di sé e sugli effetti che la visione dell’amata produce in lui, successivamente il poeta supera una visione limitata dell’amore come ricerca di gratificazione e autoanalisi: la poesia stessa assume allora come unico fine la lode disinteressata della gentilissima.
Incontro di Dante con Beatrice al ponte Santa Trinita, in un dipinto di Henry Holiday (1883, Walker Art Gallery, Liverpool).
La Vita nuova 2 323
Come per un’improvvisa rivelazione (così almeno egli ci fa credere) Dante scopre il valore assoluto dell’amore, esperienza unica e salvifica: la Beatrice dantesca non è allora solo metafora angelica (come le figure femminili di altri stilnovisti), ma è «colei che beatifica» con la sua sola presenza, creatura «venuta di cielo in terra a miracol mostrare», miracolo essa stessa (➜ T4-5 ). La stupefatta scoperta della natura soprannaturale dell’amata è il fondamento di un modo più alto d’amare, totalmente disinteressato e rivolto verso l’estatica contemplazione di lei; a questa “scoperta” consegue un modo diverso di cantare l’amore, i cui principi sono esposti nella celebre canzone Donne ch’avete intelletto d’amore e che trova altissima manifestazione poetica in alcuni sonetti, a cominciare dal celeberrimo Tanto gentile e tanto onesta pare (➜ T5 ). La fondazione del mito di Beatrice, una figura sacrale I critici sono sempre stati d’accordo nel riconoscere che Beatrice, già nella Vita nuova, non sia semplicemente una donna ma piuttosto una figura sacralizzata, che trascende la realtà terrena. Gli studiosi non concordano però sul senso preciso di questa sacralità: per alcuni Dante ha voluto fare di Beatrice la figura, l’immagine di Cristo e la Vita nuova intenderebbe tracciare, sotto l’apparente vicenda d’amore, un itinerario mistico a Dio, come più esplicitamente accadrà nella Commedia; per altri invece l’amore per Beatrice è certamente spiritualizzato, ma la prospettiva dell’opera non sarebbe ancora quella mistica: quando scrive la Vita nuova l’amore di Dante è comunque rivolto a Beatrice, non a Dio, anche se l’amata è paragonata a Cristo. I modelli della Vita nuova I precedenti del prosimetro dantesco si possono individuare nel De consolatione philosophiae di Severino Boezio, allo studio del quale Dante si era dedicato dopo la morte di Beatrice. Ma sicuramente influenza Dante anche l’uso presente nella cultura occitanica di fornire spiegazioni in prosa (razos) alle poesie e di narrare le vite romanzate (vidas) degli autori a partire dai loro testi. Componendo la Vita nuova Dante si confronta anche con l’autorevole modello delle Confessioni di Agostino, esempio di scrittura introspettiva e di un’autoanalisi che non è fine a se stessa, ma il cui scopo è l’educazione morale di chi legge; inoltre le modalità narrative, la presenza di eventi prodigiosi, l’esaltazione delle straordinarie virtù della donna e la sua stessa morte gloriosa testimoniano l’influenza sull’operetta dantesca delle vite dei santi, un genere assai popolare nel Medioevo (➜ PAG. 179). Infine, nella concezione d’amore che viene espressa nell’opera è evidente l’influenza sia di Cavalcanti (soprattutto nella prima parte), di cui Dante riprende la “drammatizzazione” dell’esperienza amorosa, sia di Guinizzelli, che trasmette a Dante la visione angelicata della controparte femminile e alcune situazioni topiche, come il saluto della donna. La dimensione simbolica In stretta relazione con quanto appena detto sulla “sacralizzazione” della figura di Beatrice, tutto ciò che accade nella Vita nuova si iscrive in un orizzonte non realistico ma simbolico. Almeno tre sono i campi simbolici, spesso tra di loro interconnessi, cui fa riferimento l’operetta dantesca: scritturali, astronomico-astrologici e numerologici. L’autore costruisce spesso analogie fra Cristo e Beatrice: in particolare l’incontro della fanciulla con Dante avviene all’ora in cui Cristo muore in croce (➜ T2 ); la visione profetica della morte di Beatrice rievoca lo sconvolgimento della terra alla morte del Salvatore (➜ T6 OL). Non è certo casuale l’insistenza sul numero nove: il numero nove deriva dal tre, che è il numero della Trinità. Dante e Beatrice si incontrano rispettivamente alla
324 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
fine e all’inizio del loro nono anno di vita e nuovamente dopo nove anni (➜ T2 ); l’incontro avviene all'ora nona (cioè alle tre del pomeriggio); inoltre nel cap. VI Dante ricorda d’aver scritto, al tempo della prima donna-schermo, un’epistola in forma di sirventese sulle sessanta donne più belle di Firenze e nell’elenco Beatrice occupava la nona posizione. Ciò non deve certo stupire: la mente dell’uomo medievale legge l’universo in chiave simbolica e il numero, insieme ai nomi e ai colori fa parte del “sistema di segni” proprio dell’epoca (➜ SCENARI, PAG. 40).
online
Per approfondire Sogni e visioni nella cultura medievale
La dimensione visionario-profetica Nella Vita nuova ha inoltre un ruolo fondamentale la componente onirico-visionaria e profetica: sogni e visioni scandiscono i momenti salienti dell’esperienza narrata contribuendo in modo rilevante a sottrarla a una dimensione realistica e contingente per aprirla ad arcane significazioni. I sogni veri e propri presenti nel prosimetro sono due, collocati rispettivamente nel III capitolo («un soave sonno, ne lo quale m’apparve una meravigliosa visione» (➜ T2 ) e nel XII capitolo, quando Dante, dopo la negazione del saluto da parte di Beatrice, si ritira nella sua camera e s’addormenta. Già al primo sogno Dante tende ad attribuire carattere profetico (la morte di Beatrice), ma è la «mirabile visione» dell’ultimo capitolo (➜ T8 ) a costituire una vera e propria rivelazione: dopo l’esperienza dello sviamento, Dante contempla Beatrice ormai assunta nella gloria dei cieli, ritornata alla sede naturale da cui è discesa «per miracol mostrare» agli uomini. La visione induce il poeta a «non dire più», a interrompere la sua narrazione finché non in grado di «più degnamente trattare di lei». Le apparizioni stesse della donna della salute non sono certo casuali accadimenti, ma vere e proprie epifanie, apparizioni di una figura sacrale: importanti la prima (cap. II) e la seconda, nove anni dopo.
4 Le interpretazioni della Vita nuova La Vita nuova è un’opera complessa e misteriosa, frutto di un’esperienza insieme intellettuale e sentimentale, di vita e di poesia, connesse fra loro al punto di non essere distinguibili. Proprio per questo l’opera è stata diversamente interpretata e si può dire che ancora oggi non abbia rivelato del tutto il suo segreto. Tra autobiografia e simbolismo Non è sicuramente corretto leggere la Vita nuova come un romanzo autobiografico: se la figura del narratore (che ricostruisce la vicenda di Beatrice dopo la sua morte) e quella del protagonista della vicenda narrata possono essere ricondotte alla reale figura di Dante, le persone, a cominciare da Beatrice stessa, i luoghi, persino i nomi sfumano nell’indeterminatezza; dalla realtà vengono come filtrati pochi gesti e azioni, privati di ogni immediatezza realistica e iscritti in una dimensione irreale, rarefatta, sospesa. D’altra parte non si può neppure considerare la Vita nuova esclusivamente come un testo simbolico: al di sotto di una vicenda sottratta al tempo e allo spazio perché assurta a emblema universale, esiste una trama di vicende realmente vissute dal poeta, che non a caso nel Convivio definisce la sua operetta giovanile «fervida e passionata», quasi a rivendicarne la veridicità biografica. Un itinerario mistico a Dio? Secondo il dantista americano Charles S. Singleton (1909-1985), autore di un Saggio sulla Vita Nuova (1958), per essere correttamente compresa, l’opera va ricollegata al misticismo medievale. In particolare, la svolta che ha come esito le «nove rime», secondo Singleton, ha affinità con la dottrina La Vita nuova 2 325
dell’amore mistico elaborata da Bernardo di Chiaravalle e Riccardo di San Vittore: l’amore che Dante scopre per Beatrice è l’amore proprio dei beati in cielo, che non mira a ricompense materiali, ma trova la sua beatitudine nella contemplazione e lode di Dio. Nella Vita nuova l’amore non è più la passione cortese dei trovatori, che pur ingentiliva l’animo, e non è neppure più l’amore degli stilnovisti. Guinizzelli e Cavalcanti cantavano la donna come miracolo e dono di Dio, ma l’amore era esclusivamente un processo discendente da Dio al poeta attraverso la donna, mentre il processo ascendente si arrestava alla donna. Era perciò inevitabile il conflitto tra l’amore per la donna e l’amore per Dio (cfr. al proposito l’ultima strofa di Al cor gentil di Guinizzelli). In Dante il conflitto è superato: il processo ascendente termina in Dio per il tramite della donna, la salute che proviene dal suo saluto è proprio la salvezza dell’anima e l’amore per la donna innalza l’anima fino alla contemplazione del divino. Dietro le apparenze di una vicenda d’amore, la Vita nuova narrerebbe dunque un’esperienza mistica, un itinerarium mentis in Deum (come quello descritto da san Bonaventura). Un’opera agiografica? Infine altri critici, come Alfredo Schiaffini (1895-1971) e Vittore Branca (1913-2004), hanno suggerito il richiamo a modelli agiografici, soprattutto alle vite di sante francescane, che farebbero della Vita nuova un’opera di consapevole edificazione cristiana, al di sotto delle parvenze di una vicenda amorosa. Una dimensione universale Comunque si voglia indirizzare l’interpretazione dell’opera, quello che è certo è che l’intento di presentare una narrazione esemplare allontana la Vita nuova dai propositi di confessione e sincerità che caratterizzano le autobiografie moderne. Il poeta inserisce la propria esperienza entro schemi simbolici che tendono a elevarla a una dimensione universale.
La Vita nuova GENERE
prosimetro (un componimento misto di prosa e poesia)
METRICA
principalmente sonetti (25), ma non mancano canzoni e altre forme metriche
STRUTTURA
42 capitoli in prosa che includono 32 testi poetici
CONTENUTO
racconto dell’esperienza d’amore per Beatrice; ma, pur ispirandosi alla vita reale, l’amore è rivissuto in chiave letteraria
SCOPO
lodare Beatrice senza volere nulla in cambio
STILE E LINGUA
• lingua volgare • stile raffinato • sintassi piana
COMPOSIZIONE
allestita tra il 1293 e il 1295
PUBBLICO
i "fedeli d’Amore"
326 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Dante Alighieri
T1
Il libro della memoria e la presentazione dell’opera Vita nuova, I
D. Alighieri Vita Nuova, a c. di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980
Nel brevissimo esordio dell’opera Dante enuncia gli intenti della Vita nuova e riconduce il libello entro l’immagine usuale del “libro della memoria”, mettendo subito in primo piano la dimensione autobiografica che è centrale nell’opera.
I. In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere1, si trova una rubrica2 la quale dice: Incipit vita nova3. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare4 in questo libello5; e se non tutte, almeno la loro sentenzia6. 1 In quella parte... leggere: il senso dell’intera espressione è: all’interno dei miei primi ricordi precisi. La memoria di Dante conserva poche tracce del tempo che precede la Vita nuova. 2 una rubrica: un titolo scritto in rosso, dal latino rubrum (rosso), proprio come
erano al tempo di Dante i titoli nei codici manoscritti. 3 Incipit vita nova: comincia la vita nuova. Il termine incipit ha significato strettamente tecnico: era la formula con cui si aprivano i libri medievali. Oggi usiamo ancora il termine latino come sinonimo
di “inizio” di un testo, le prime parole di esso (contrapposto a explicit che indica le parole finali di un testo). 4 assemplare: trascrivere, ricopiare. 5 libello: piccolo libro. 6 sentenzia: significato complessivo.
Analisi del testo L’autore e il libro della memoria L’immagine che apre la Vita nuova è quella del “libro della memoria”, in cui Dante rintraccia una particolare serie di eventi (legati all’innamoramento per Beatrice) che si accinge a narrare. Al tempo di Dante, per designare la memoria era abbastanza comune impiegare l’immagine metaforica del libro nel quale si legge. L’insieme dei termini con cui Dante presenta la sua opera appartengono tutti al campo semantico della scrittura e della produzione libraria («libro de la mia memoria, leggere, rubrica, Incipit, scritte, parole»); ciò che farà lo scrittore è identificato nell’attività dello scriba, del semplice copista (assemplare, ovvero “copiare”). Per contro, l’allusione alla sentenzia implica l’operazione di selezione “esemplare” dei dati biografici che l’autore compirà nell’opera per celebrare l’amore per Beatrice.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il proemio dell’opera. COMPRENSIONE 2. Qual è l’intento del poeta? ANALISI 3. Nel breve testo vengono usati il termine libro e libello: a che cosa rispettivamente si riferiscono? LESSICO 4. Rintraccia nel proemio i termini che appartengono al campo semantico della lettura e della scrittura. 5. Il breve testo contiene vari termini ancora in uso, ma con un significato diverso da quello attuale: indica il significato di questi termini nel testo di Dante e oggi (puoi consultare il vocabolario). rubrica; libello; sentenza/sentenzia STILE 6. A quale tradizionale immagine metaforica ricorre il poeta fin dall’esordio? Individuala e poi spiegala attraverso una similitudine.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 7. Ripercorri in max 2 minuti le varie interpretazioni che sono state date della Vita nuova.
La Vita nuova 2 327
Dante Alighieri
T2
Il primo saluto di Beatrice. Un sogno inquietante Vita nuova, III
D. Alighieri Vita Nuova, a c. di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980
Nel terzo capitolo della Vita nuova Dante rievoca il secondo incontro con Beatrice, esattamente nove anni dopo il primo (a sua volta avvenuto a nove anni: cap. II).
III [II]. Poi che fuoro passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima1, ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade2; e passando per una 5 via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso3, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo4, mi salutoe molto virtuosamente5, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno6; e però che7 quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei 10 orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti8, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi9 a pensare di questa cortesissima. [III] E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula10 di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso 15 aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé11, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus»12. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno13 leggeramente, la quale io riguardando molto intentivamente14, conobbi 20 ch’era la donna de la salute15, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum»16. E quando elli era stato alquanto17, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno18, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella 25 mangiava dubitosamente19. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si conver-
1 Poi che... gentilissima: dopo che furono trascorsi tanti giorni (die è latinismo) quanti erano necessari per compiere nove anni dopo la prima apparizione (apparimento) di Beatrice (definita, come molte altre volte in seguito, gentilissima). 2 di più lunga etade: maggiori d’età. 3 pauroso: timoroso, turbato. 4 meritata... secolo: «ricompensata nella vita eterna» (Contini). 5 mi salutoe molto virtuosamente: mi salutò (epitesi) in modo da esercitare su di me uno straordinario effetto. 6 nona di quello giorno: cominciando a contare le ore diurne dalle sei del mattino, l’ora del saluto corrisponde alle tre del pomeriggio.
7 però che: poiché. 8 mi partio da le genti: mi allontanai dalla folla. 9 puosimi: mi misi. 10 nebula: nuvola. 11 pareami... quanto a sé: l’immagine del misterioso personaggio ha tratti contraddittori (come spesso avviene nei sogni): incute paura, ma nondimeno il suo volto è lieto e sereno; pareami, “mi appariva”. 12 «Ego dominus tuus»: “Io sono il tuo signore”. 13 sanguigno: di color rosso. 14 molto intentivamente: con grande attenzione.
328 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
15 la donna de la salute: Beatrice, la donna del saluto (ma anche della salvezza: Dante gioca sull’ambiguità terminologica salutosalute). 16 «Vide cor tuum»: “Guarda il tuo cuore”. 17 elli era stato alquanto: era rimasto fermo per un po’. 18 per suo ingegno: per la sua abilità, con ogni mezzo a sua disposizione. 19 la quale... dubitosamente: che essa mangiava con esitazione. Il motivo del cuore mangiato è assai diffuso nella cultura romanza e tornerà anche nel Decameron (IV, 9).
tia in amarissimo pianto20; e così piangendo, si ricogliea21 questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse22 verso lo cielo; onde io sostenea23 sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere24, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente25 cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale 30 m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte26 stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte. Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire27 a molti li quali erano famosi trovatori28 in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima29, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale 35 io salutasse tutti li fedeli d’Amore30; e pregandoli che giudicassero31 la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun’alma presa. Questo sonetto si divide in due parti; che ne la prima parte saluto e domando risponsione32, ne la seconda significo a che si dee rispondere33. La seconda parte 40 comincia quivi: Già eran. A ciascun’alma presa34 e gentil core nel cui cospetto35 ven lo dir presente36, in ciò che mi rescrivan suo parvente37, 4 salute in lor segnor38, cioè Amore. Già eran quasi che atterzate l’ore39 del tempo che onne stella n’è lucente, quando m’apparve Amor subitamente40, 8 cui essenza membrar mi dà orrore41. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea 11 madonna involta in un drappo dormendo42.
20 Appresso... pianto: dopo questo gesto non passava molto tempo che la sua letizia si trasformava in amarissimo pianto. 21 si ricogliea: prendeva. 22 si ne gisse: se ne andasse. 23 onde io sostenea: per la qual cosa io provavo. 24 non poteo sostenere: non poté durare. 25 mantenente: subito. 26 la quarta della notte: ovvero tra le nove e le dieci di sera (dato che si iniziava a contare le ore della notte dalle sei del pomeriggio). 27 sentire: conoscere. 28 trovatori: poeti. 29 con ciò... per rima: dato che avevo già appreso per conto mio l’arte di poetare. Dante testimonia qui di aver iniziato molto presto a scrivere liriche.
30 li fedeli d’Amore: Dante definisce qui idealmente il pubblico stesso della Vita nuova, ovvero i poeti d’amore, coloro che conoscono l’esperienza amorosa (gli innamorati) e anche quelli che l’hanno cantata in poesia. 31 giudicassero: spiegassero. 32 risponsione: risposta. 33 ne la seconda... rispondere: nella seconda parte (a partire dalla seconda quartina, dove Dante inizia a narrare il sogno) dico a cosa si deve dare risposta (ovvero al significato del bianco sogno). La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDC CDC.
34 A ciascun’alma presa: a ogni anima innamorata (catturata dall’amore). 35 cospetto: presenza.
36 lo dir presente: questa poesia (dir: “dire”).
37 in ciò... parvente: affinché mi dicano il loro parere. 38 salute in lor segnor: porgo un saluto nel nome del loro signore. È sottinteso un verbo reggente, come nella formula latina salutem dicere “salutare”. 39 Già eran... l’ore: era già quasi passato un terzo delle ore della notte (che, come detto, si riteneva iniziassero alle sei del pomeriggio). 40 subitamente: improvvisamente. 41 cui essenza... orrore: ricordare il cui aspetto mi dà (ancora) terrore. 42 dormendo: che dormiva (riferito alla donna); è gerundio con valore di participio presente (come gli altri nel sonetto: temendo, ardendo, “ardente”).
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Poi la svegliava, e d’esto43 core ardendo lei paventosa umilmente pascea44: 14 appresso gir lo ne vedea piangendo45. A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie46; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici47, e disse48 allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’amistà49 tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò man45 dato. Lo verace giudicio50 del detto sogno non fue veduto allora per alcuno51, ma ora è manifestissimo a li più semplici52. 43 esto: questo (latino iste). 44 lei... pascea: in atteggiamento umile
46 sentenzie: pareri. 47 quelli... amici: si tratta di Guido Caval-
51 per alcuno: da alcuno (complemento
Amore nutriva (pascea) con il cuore di Dante la donna esitante (paventosa, latinismo da paveo, “temo”). 45 appresso... piangendo: in seguito, poco dopo, lo vedevo andare via (gir) piangendo.
canti, uno dei poeti più importanti dello stilnovo. 48 disse: scrisse, compose. 49 amistà: amicizia. 50 Lo verace giudicio: l’interpretazione esatta.
52 ma ora... semplici: ma ora è chiarissi-
d’agente: cfr. il francese par). mo anche alle persone più sprovvedute. Dante ritiene che il sogno abbia voluto profetizzare la morte prematura di Beatrice.
Analisi del testo Il secondo incontro con Beatrice Durante il secondo incontro, per la prima volta Beatrice gli concede il suo saluto. Inebriato per la dolcezza provata, il giovane poeta si ritira nella solitudine della sua camera e si addormenta. In sogno ha una singolare visione, dai tratti così angosciosi da farlo risvegliare bruscamente. Compone allora un sonetto che ha per tema la visione stessa e decide di inviarlo ai maggiori poeti del tempo che fossero anche “fedeli d’Amore”, perché interpretassero il significato del sogno. Tra i vari poeti che accolsero la sua richiesta Dante ricorda in particolare Guido Cavalcanti: la loro amicizia nacque proprio in questa occasione.
La dimensione simbolica Le prime pagine della Vita nuova affascinano il lettore, restituendo la freschezza giovanile del testo e, in un certo senso, l’emozione. D’altra parte fin dall’inizio il racconto si proietta al di là di un’esperienza comune di vita, è quindi ben lontano dai caratteri di una narrazione diaristica. Basterebbe a provarlo l’insistenza, che anche il giovane lettore può cogliere immediatamente, sulla simbologia numerica, ricorrente nella cultura medievale. Nella prima apparizione di Beatrice (cap. II) Dante e la gentilissima hanno entrambi nove anni. Il numero si ripete nella seconda comparsa della giovane (di cui si parla appunto in questo capitolo): non solo sono passati esattamente nove anni dalla prima, ma il numero nove ricorre anche nell’ora in cui avviene il primo saluto di Beatrice e successivamente nell’ora in cui Dante ha il sogno misterioso. Non si tratta certamente di una coincidenza: Dante stesso in un capitolo successivo dell’opera (il XXIX) collegherà la figura “sacrale” di Beatrice al numero nove, che, essendo multiplo di tre, rimanda alla Trinità. Con la continua insistenza sul numero nove (che tornerà anche nella Commedia) Dante iscrive dunque consapevolmente fin dall’inizio quella che potrebbe sembrare una semplice vicenda d’amore in un orizzonte simbolico e metafisico. Contribuiscono a creare questa dimensione l’indeterminatezza antirealistica dei luoghi in cui si verifica l’“apparizione” della donna e la sottolineatura del colore della veste. Questa non
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viene descritta realisticamente, ma il gioco dei colori appare come elemento caratterizzante di una sorta di liturgia sacra (il rosso domina nella prima comparsa, il bianco nella seconda, ma rosso è nuovamente il panno che copre la donna nel sogno). Anche i colori avevano nel Medioevo significato simbolico. Contribuisce a intensificare la significazione “religiosa” dell’incontro, l’eco insistita di passi tratti dalle Sacre Scritture, che creano fin dall’inizio una sorta di equiparazione tra Cristo e Beatrice e ne sacralizzano quindi l’immagine. E, del resto, il nome stesso della gentilissima rimanda a una natura celeste: ella è «la Beatrice», colei che dona, come il suo nome promette, la beatitudine.
Il rapporto prosa-poesia Il capitolo III illustra con particolare evidenza il rapporto che intercorre nell’opera tra prosa e poesia e le due diverse funzioni esercitate dal commento in prosa, precedente e successivo alla poesia. Come si può facilmente notare, la parte introduttiva ricostruisce, con informazioni qui molto analitiche e ricche di notazioni anche di tipo psicologico, il contesto da cui è scaturito il sonetto, a cominciare dalla seconda apparizione della donna e dal suo saluto al poeta, che innesca la condizione emotiva da cui poi si origina il sogno. Nel sonetto si fa invece esclusivamente allusione al sogno, sinteticamente narrato, di cui si chiede l’interpretazione. Il commento che segue il sonetto si limita a una semplice (persino scontata) divisione del testo, ma introduce anche la preziosa informazione riferita a Guido Cavalcanti e all’inizio dell’amicizia tra i due poeti.
Il cuore mangiato Non bisogna dimenticare che nel testo sono operanti motivi propri della tradizione cortese: in particolare il motivo del “cuore mangiato”, che allude alla piena fusione tra l’innamorato e la donna amata. Mangiare il cuore di qualcuno simbolicamente vuol dire appropriarsi della sua anima.
Lo stile Nel capitolo emergono caratteristiche stilistiche che saranno poi ricorrenti in ampia parte del libello di Dante. Il ritmo della prosa è lento e fluido, funzionale a creare l’atmosfera sospesa, quasi fuori dal tempo, che domina nell’intera opera. Molto fitta, a livello lessicale, è la presenza di termini ed espressioni tipici del “codice” stilnovistico, in relazione a situazioni “topiche”, come il passare per via della donna, il suo saluto, il forte turbamento del poeta. Da notare la ricorrenza di superlativi, che proiettano la figura di Beatrice e il suo incontro con Dante in una dimensione straordinaria, quasi miracolosa: gentilissima, bianchissimo, dolcissimo, cortesissima.
Il saluto di Beatrice di Dante Gabriel Rossetti 1859 (National Gallery of Canada, Ottawa).
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del capitolo dividendolo in tre sequenze: per ciascuna sequenza fai una breve sintesi (max 2-3 righe) e dai un titolo. COMPRENSIONE 2. Quali effetti ha su Dante il saluto di Beatrice? 3. A chi si rivolge Dante per avere spiegazione del sogno? Potrebbe aver alluso anche al pubblico ideale della Vita nuova? Chi gli risponde in particolare? Con quali termini Dante allude a questa persona? 4. Perché Dante qui utilizza superlativi e termini iperbolici (es. bianchissima, ineffabile, cortesissima)? ANALISI 5. L’incontro con Beatrice è contrassegnato da un clima volutamente sacro, reso anche dai frequenti ricorsi alla simbologia (numeri, colori, nome stesso dell’amata ecc.). Ricerca nel testo gli elementi simbolici riferiti all’apparizione di Beatrice e poi completa una tabella come questa, spiegandone per ciascuno il valore simbolico (l’esercizio è già avviato). simbologia
esempi
significato simbolico
numero nove
li nove anni
il numero nove è il quadrato di tre (già numero trinitario, simbolo di perfezione): indica il miracolo.
LESSICO 6. In particolare nella prima parte del capitolo, in cui si narra del secondo incontro tra Dante e Beatrice, si addensano molti termini che appartengono alla costellazione linguistica dello stilnovo, che Dante stesso contribuì a creare. Identificali e trascrivili.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 7. Il tema del saluto è centrale in questo passo della Vita nuova: confronta il «dolcissimo salutare» di Dante con la nota terzina guinizzelliana del sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare che hai già studiato (➜ C4 T12 ). Evidenzia in una tabella come questa analogie e differenze, prestando attenzione agli elementi di novità introdotti. analogie
differenze
Dante, Vita nuova, III «e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine.» Guido Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare (vv. 9-11) «Passa per via adorna, e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute / e fa ’l de nostra fé se non la crede.» COMPETENZA DIGITALE 8. Svolgi in internet una ricerca sul motivo del cuore mangiato, un topos della letteratura, non solo cortese. Dopo esserti documentato, prova a domandarti se ancora oggi questo motivo sia stato ripreso in qualche forma d’arte (letteratura, cinema, pittura, musica ecc.).
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Dante Alighieri
Il gioco degli sguardi. Schermaglie cortesi
T3
Vita nuova, V D. Alighieri Vita Nuova, a c. di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980
Secondo le consuetudini cortesi che imponevano il «ben celare», la segretezza del rapporto amoroso, Dante cerca di tenere nascosto agli altri il suo amore per Beatrice. Lo soccorrono in questa scelta due donne che assumono il ruolo di “schermo”, ovvero difendono il suo segreto, facendo credere agli altri che egli sia innamorato di loro anziché di Beatrice. Ma quest’ultima, offesa dal suo comportamento, gli negherà il saluto (CAP. X).
V. Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria1, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine2; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei 5 terminasse. Onde molti s’accorsero de lo suo mirare; e in tanto vi fue posto mente3, che, partendomi4 da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me5: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui»6; e nominandola, io intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea de7 la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei. Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno 10 altrui per mia vista8. E mantenente9 pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade10; e tanto ne mostrai in poco di tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano11. Con questa donna mi celai12 alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui13, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui14, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; 15 e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei15. La dama riceve l’omaggio dell’amato, miniatura da un canzoniere italiano del XIII secolo (Firenze, Biblioteca Laurenziana).
1 in parte... gloria: Beatrice (poco prima definita questa gentilissima) sedeva in chiesa durante una funzione che celebrava la Madonna. 2 la mia beatitudine: si allude a Beatrice (per metonimia). 3 e in tanto... mente: e tanto vi si pose attenzione (da parte delle persone presenti nella chiesa). 4 partendomi: allontanandomi. 5 appresso di me: dietro di me. 6 «Vedi... costui»: «guarda come quella donna distrugge (per amore) costui». L’equivoco che si è creato porta la gente a pensare che Dante sia follemente innamorato della donna su cui, del tutto casualmente, si è posato il suo sguardo, in realtà diretto a Beatrice.
7 movea de: partiva da. 8 assicurandomi... per mia vista: rassicurandomi che il mio segreto (l’amore per Beatrice) quel giorno non era stato divulgato ad altri (altrui) dal mio sguardo (per mia vista). 9 mantenente: subito. 10 schermo de la veritade: Dante intende con questa espressione alludere alla consapevole finzione che proietta il suo amore, agli occhi della gente, su una donna diversa da quella da lui realmente amata, ovvero Beatrice. 11 e tanto... ragionavano: e tanto feci mostra (di amare questa donna) che in poco tempo la maggior parte delle persone che parlavano di me credevano di sapere il mio segreto.
12 mi celai: mi nascosi. Dante dà pieno credito alle opinioni della gente, fingendo per molto tempo di essere innamorato della donna intravista in chiesa. 13 per più... altrui: per convincere ancor più la gente. 14 le quali... scrivere qui: che non ho intenzione qui di riportare (infatti la Vita nuova è totalmente dedicata alla figura di Beatrice). 15 se non in quanto... di lei: a meno che non contribuiscano a lodare Beatrice; e perciò non le nominerò affatto (le lascerò tutte), tranne pochi riferimenti che concorrano alla sua lode.
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Analisi del testo La ripresa di un topos cortese Il tema della donna schermo che è al centro di questo capitoletto – ma che poi si protrae fino al cap. IX – ha precise ascendenze nella cultura cortese (ne teorizza espressamente la funzione Andrea Cappellano nel trattato De Amore): i trovatori sentivano la necessità di nascondere, attraverso vari espedienti (tra cui l’uso del senhal), l’identità e il nome della donna amata per difenderla dalla curiosità importuna degli invidiosi (lausengiers, in lingua d’oc). Dante riprende consapevolmente il topos cortese, ma lo rivisita e trasforma in modo significativo: innanzitutto la convenzione della “donna schermo” diventa un avvincente spunto narrativo, una volta inserito nell’autobiografia giovanile di Dante; il poeta crea infatti in chi legge l’illusione di una precisa occasione biografica, contestualizzando l’episodio: è in una chiesa, durante una funzione dedicata al culto mariano, che si svolge la scena della “donna schermo”. In secondo luogo, con tutta probabilità, nel “monumento a Beatrice” che Dante vuole edificare con la sua operetta, egli utilizza il topos della “donna schermo” per subordinare all’amore per la “gentilissima” altri amori da lui effettivamente vissuti e le composizioni poetiche che ne derivarono.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del capitolo. COMPRENSIONE 2. Chi è colei che mezzo era stata ne la linea retta? Qual è il suo ruolo nella vicenda narrata? ANALISI 3. Sottolinea nel testo e poi descrivi la raffinata simulazione messa in atto dal poeta per celare l’amore verso la donna amata. LESSICO 4. Analizza il lessico e rifletti sulle scelte soprattutto verbali: da quale campo semantico è tratta la maggior parte dei termini? STILE 5. Il luogo in cui si svolge la vicenda narrata è designato con una perifrasi: individuala nel testo e spiega il motivo di questa scelta. Verifica infine la presenza di altri particolari che consentano l’identificazione del luogo; quale riflessione puoi fare in proposito?
Interpretare
SCRITTURA 6. Vari elementi nel racconto di Dante ne limitano la portata realistica: quali sono, secondo te? Individuali e commentali in rapporto al contesto.
Loyset Liedet, Il giardino dell'amore, dal ciclo di Rinaldo di Montalbano, miniatura, XV secolo (Bibliothèque de l'Arsenal, Parigi).
334 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Dante Alighieri
T4
Donne ch’avete intelletto d’amore Vita nuova, XIX
D. Alighieri Vita Nuova, a c. di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980
La negazione del saluto da parte di Beatrice (e la conseguente disperazione del poeta) costituisce la premessa per la radicale svolta interiore, ma soprattutto poetica (una vera e propria “conversione”), che porta Dante a comporre le «rime della loda»: una svolta siglata dalla celebre canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, alla quale Dante stesso, a distanza di anni, attribuirà un ruolo chiave non solo nel suo personale itinerario poetico ma anche, e soprattutto, nella definizione del “dolce stile” a cui ritiene di aver dato un contributo fondamentale. Nella canzone Dante imbocca, come per improvvisa ispirazione, la strada dell’esaltazione estatica, del tutto disinteressata, della donna amata.
XIX. Avvenne poi che passando per uno cammino1 lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto2, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse3; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine4. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa5, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento6, onde poi, ritornato a la sopradetta cittade7, pensando alquanti die8, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione9. La canzone comincia: Donne ch’avete. Donne ch’avete intelletto d’amore10, i’ vo’ con voi de la mia donna dire11, non perch’io creda sua laude finire12, ma ragionar per isfogar la mente13.
Io dico che pensando il suo valore14, Amor sì dolce15 mi si fa sentire16, che s’io allora non perdessi ardire17, farei parlando innamorar la gente. 5
1 cammino: strada. 2 sen gia... chiaro molto: scorreva un ruscello limpidissimo. 3 lo modo ch’io tenesse: pensare, alla tecnica poetica, con cui esprimermi. 4 e pensai... femmine: e pensai che non fosse opportuno parlare di lei direttamente, ma che fosse necessario rivolgermi indirettamente (usando dunque la seconda persona) ad altre donne, ma non certo a donne qualsiasi (femmine) bensì esclusivamente alle donne gentili. 5 come per sé stessa mossa: come se si muovesse da sola. 6 Queste parole... cominciamento: io impressi nella mia memoria queste parole pensando di utilizzarle come inizio (cominciamento) di una composizione poetica.
7 la sopradetta cittade: Firenze. 8 die: giorni (latinismo). 9 divisione: illustrazione della struttura del testo. (Dante allude al commento retorico che segue la lirica, in questo come in molti altri casi).
La metrica Canzone di cinque strofe, costituite ciascuna di 14 endecasillabi, con schema metrico ABBC ABBC CDD CEE.
10 Donne ch’avete intelletto d’amore: O donne che comprendete (per esperienza personale e capacità) la natura dell’amore. 11 con voi de la mia donna dire: parlare con voi della mia donna. 12 non perch’io... finire: non perché pensi di esaurire la sua lode (in questi miei versi). Il motivo della sproporzione
tra la perfezione della donna e i limiti del poeta che la esalta costituisce un topos molto diffuso nella poesia cortese e stilnovista. 13 ragionar... la mente: (sott. “intendo” con ellissi del verbo reggente) parlarne (ragionar) per dar sfogo a quanto ho dentro di me. 14 valore: qui sinonimo di “doti”. 15 sì dolce: così dolcemente. “Dolce” usato con valore avverbiale. 16 mi si fa sentire: viene percepito da me. 17 ardire: coraggio.
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E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile18; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente19, donne e donzelle amorose, con vui, ché non è cosa da parlarne altrui. 10
Angelo clama in divino intelletto20 e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l’atto che procede d’un’anima che ’nfin qua su risplende»21. Lo cielo, che non have altro difetto 20 che d’aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede22. Sola Pietà nostra parte difende, che parla Dio, che di madonna intende23: «Diletti miei, or sofferite in pace 25 che vostra spene sia quanto me piace là ’v’è alcun che perder lei s’attende, e che dirà ne lo inferno: O mal nati, io vidi la speranza de’ beati»24. 15
Madonna è disiata in sommo cielo25:
or voi di sua virtù farvi savere26. Dico, qual vuol gentil donna parere27 vada con lei, che quando va per via, gitta nei cor villani28 Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e pere29; 35 e qual soffrisse di starla a vedere30 diverria nobil cosa, o si morria31. E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ché li avvien, ciò che li dona, in salute, 40 e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia32. 30
18 E io... vile: e (d’altra parte) non voglio parlare di lei con uno stile così elevato che mi renda timoroso per la preoccupazione di non essere all’altezza del compito. 19 a respetto di lei leggeramente: in modo superficiale rispetto al suo reale valore. Leggeramente potrebbe forse anche alludere al trobar leu in contrapposizione al trobar clus proprio di poeti come Arnaut Daniel e, in Italia, di Guittone. 20 Angelo… in divino intelletto: un angelo implora Dio (letteralmente “reclama” presso Dio). 21 «Sire... risplende»: «Signore, sulla terra si vede un miracolo in atto che deriva da un’anima (quella di Beatrice) che risplende fino al cielo». 22 Lo cielo... merzede: il paradiso, a cui non manca nulla se non la presenza di
Beatrice, la richiede a Dio e ciascun santo chiede la grazia di averla. 23 Sola Pietà... intende: soltanto la pietà (di Dio) difende la causa di noi uomini, perché Dio, riferendosi a Beatrice, dice... 24 «Diletti miei... de’ beati»: «Miei diletti (i santi e gli angeli), tollerate in pace che la vostra speranza (Beatrice) rimanga ancora per quanto tempo vorrò sulla terra, dove c’è qualcuno che si aspetta di perderla (Dante stesso) e che nell’inferno (se mai dovesse andarci) dirà “O dannati, io ho visto la speranza dei beati”». 25 Madonna... in sommo cielo: Madonna (Beatrice) è desiderata nell’alto dei cieli. 26 or voi... farvi savere: ora voglio che conosciate attraverso le mie parole la sua virtù. Nella Vita nuova vale “capacità di operare straordinari effetti”.
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27 qual vuol... parere: qualunque donna vuole apparire gentile. 28 cor villani: scortesi (in opposizione a gentili). 29 per che... pere: a causa del quale (gelo) ogni loro pensiero si raggela e perisce. 30 qual soffrisse... vedere: chiunque avesse la forza di stare a guardarla. 31 diverria... o si morria: diverrebbe nobile (d’animo) o morirebbe. L’iperbole sottolinea il tema, centrale in questa strofa, degli effetti nobilitanti e salvifici che la donna produce in chi anche solo la guarda. 32 E quando... oblia: e quando trova qualcuno degno di guardarla, costui (quei) sperimenta (prova) il suo valore, perché ciò che ella gli dona si trasforma (avvien) in salvezza, ed ella lo rende tanto mite che dimentica ogni offesa.
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l’ha parlato33. Dice di lei Amor: «Cosa34 mortale come esser pò sì adorna e sì pura?». 45
Poi la reguarda, e fra se stesso giura
che Dio ne ’ntenda di far cosa nova35. Color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver, non for misura: ella è quanto de ben pò far natura36;
per essemplo di lei bieltà si prova37. De li occhi suoi, come ch’ella li mova, escono spirti d’amore inflammati, che feron li occhi a qual che allor la guati, e passan sì che ’l cor ciascun retrova38: 55 voi le vedete Amor pinto nel viso39, là ’ve non pote alcun mirarla fiso40. 50
Canzone, io so che tu girai parlando a donne assai, quand’io t’avrò avanzata41. Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata
per figliuola d’Amor giovane e piana42, che là ’ve giugni tu diche pregando43: «Insegnatemi gir, ch’io son mandata a quella di cui laude so’ adornata»44. E se non vuoli andar sì come vana, 65 non restare ove sia gente villana: ingegnati, se puoi, d’esser palese solo con donne o con omo cortese, che ti merranno là per via tostana45. Tu troverai Amor con esso lei46; 70 raccomandami a lui come tu dei47. 60
33 Ancor l’ha... parlato: Dio inoltre le ha concesso per maggior grazia che nessuno che le abbia parlato può finire male (ovvero essere dannato). 34 Cosa: creatura. 35 cosa nova: qualcosa di prodigioso, di mai visto. 36 è... natura: è il massimo della perfezione che possa produrre la natura. 37 per essemplo... si prova: la bellezza assoluta si misura sul suo esempio (rispetto a lei come parametro). 38 De li occhi... retrova: dai suoi occhi, non appena li muove, escono fiammeggianti spiriti d’amore che feriscono gli occhi a chiunque allora la guardi, e penetrano in modo tale che ciascuno di essi raggiun-
ge il cuore. Si avverte nella rappresentazione un’evidente eco cavalcantiana (ad es. Voi che per li occhi mi passaste ’l core ➜ C4 T13 ). Il percorso dell’innamoramento qui descritto è tradizionale secondo il tragitto che dagli occhi della donna attraverso gli occhi del poeta penetra nel cuore. 39 pinto nel viso: dipinto nello sguardo. 40 là ’ve... mirarla fiso: là (cioè negli occhi) dove nessuno può guardarla fisso. 41 Canzone... avanzata: il poeta si rivolge, nel congedo alla sua stessa composizione, esprimendo la certezza che quando egli l’avrà resa pubblica (quand’io t’avrò avanzata) la canzone verrà conosciuta da molte donne. 42 perch’io... giovane e piana: dato che io ti ho cresciuta come figlia d’Amore giova-
ne e soave, gentile. Il poeta allude qui metaforicamente ai caratteri della sua poesia. 43 che là ’ve... pregando: che là dove tu giungerai dica pregando. 44 «Insegnatemi... adornata»: «Indicatemi la strada, perché io sono mandata a colei della cui lode sono adornata» (ovvero Beatrice). 45 E se non vuoli... via tostana: e se non vuoi compiere un cammino vano, non fermarti presso persone scortesi: cerca, se puoi, di farti conoscere solo da donne o uomini cortesi, che ti condurranno da Beatrice per la via diretta, più breve (tostana). 46 con esso lei: con lei. 47 dei: devi (fare).
La Vita nuova 2 337
Analisi del testo La struttura e i contenuti Nella prima strofa della canzone, cui Dante stesso nel commento che segue la lirica assegna una funzione proemiale, il poeta si rivolge alle donne gentili che sono in grado di comprendere chi parla d’amore e possono quindi intendere la lode che il poeta rivolge a Beatrice. Nella seconda parte della strofa Dante introduce un’importante dichiarazione di poetica: lo stile che userà non sarà difficile e astruso, ma volutamente semplice, umile. Nella seconda strofa, come nella celebre canzone di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre Amore, la scena si trasferisce dalla terra al cielo, dimora elettiva di Beatrice. Nella strofa domina il discorso diretto: rispettivamente di un angelo, che a nome di tutti i santi e degli angeli reclama presso Dio la presenza di Beatrice nel cielo, e di Dio stesso, che invita i suoi diletti (i santi e gli angeli, appunto) ad attendere con pazienza per tutto il tempo in cui Egli deciderà di lasciare Beatrice sulla terra, dove c’è qualcuno (Dante stesso) che teme di perderla presto. Nella terza strofa comincia (e si protrarrà nella successiva) la lode di Beatrice, la descrizione, attraverso l’insistito uso dell’iperbole, dei suoi miracolosi poteri: anche solo attraverso uno sguardo o una semplice parola, la “donna della salute” produce straordinari effetti morali sugli uomini. Ritroviamo nei versi di Dante la fenomenologia degli effetti d’amore propria della poesia stilnovista. Nella quarta strofa continua la lode della donna, incentrata soprattutto sulla bellezza fisica, seppur rappresentata nei modi stilizzati e secondo immagini stilnovistiche, in particolare cavalcantiane (come gli spiriti d’amore che hanno la loro sede negli occhi dell’amata e raggiungono facilmente il cuore). Nell’ultima strofa (il cosiddetto “congedo” della canzone) il poeta si rivolge alla sua stessa composizione nel momento in cui si accinge ad affidarla ai lettori. Dante utilizza questo spazio convenzionale per sottolineare la destinazione della sua poesia, e in particolare quella delle “rime della loda”: la natura dell’amore per Beatrice esclude dal contatto con questa poesia ogni persona che non sia gentile e cortese.
Una dichiarazione di poetica Nella breve prosa che precede la canzone e nella prima strofa di essa Dante introduce in modo indiretto precise notazioni di poetica relative alla nuova poesia a cui da quel momento in poi darà voce. Le osservazioni in prosa ricostruiscono la situazione, il contesto da cui traggono origine le «nove rime» (così sono definite in Pg XXIV): la nuova poesia non è costruita intellettualisticamente a tavolino, non è solo ars, ma è soprattutto frutto (almeno così Dante vuole farci credere) di un’irrefrenabile necessità interiore («a me giunse tanta volontade di dire»). Il poeta arriva ad annullare il proprio ruolo: non è lui che compone, ma è Amore che «ditta», ed egli è semplicemente il tramite attraverso cui Amore parla («la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa»). Anni dopo, nel riferimento abbastanza enigmatico alle «nove rime» contenuto nel canto XXIV del Purgatorio, si può dire che Dante chiosi se stesso, postilli le sue stesse affermazioni. Rispondendo al poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca (un rappresentante della scuola di transizione fra siciliani e stilnovisti) che gli chiede se è veramente colui che diede inizio con la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore a una nuova forma di poesia, Dante risponde significativamente: «I’mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro / vo significando», versi che possono essere correttamente interpretati solo se ci si rifà al cap. XIX della Vita nuova. Quanto alla prima strofa della canzone, Dante definisce il pubblico ideale (le donne gentili che conoscono l’amore elevato); il soggetto della poesia (la donna amata); la funzione e i limiti della poesia (il poeta vuole dare sfogo a ciò che ha dentro e sa bene che la sua poesia non potrà in alcun modo esaurire la lode di Beatrice); e lo stile: Dante rifiuta per questo tipo di poesia lo stile sublime, forse anche in rapporto alle aspettative del pubblico. Peraltro la scelta dell’endecasillabo – che Dante considera proprio dello stile “tragico” e adatto ad argomenti “alti” (De vulgari eloquentia, II, XII, 3) – ci testimonia l’importanza che egli attribuiva a questo testo programmatico.
La realizzazione del «dolce stil novo» Nel passo sopra citato del Purgatorio per definire il “nuovo stile” che egli inaugura con la canzone Donne ch’avete, Dante userà la celebre espressione «dolce stil novo», a cui la critica sarebbe ricorsa in seguito per identificare il gruppo di poeti a cui Dante aveva preso parte; ma è bene precisare che egli utilizza l’espressione per riferirsi in particolare alla sua poesia. La “dolcezza” dello stile a cui Dante si riferisce nell’incontro con Bonagiunta da Lucca, la voluta rinuncia a uno stile troppo alto, enunciato nella prima strofa, programmatica, della canzone,
338 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
sono realizzati concretamente attraverso una serie di scelte che investono il piano sintattico, lessicale, fonico, retorico e ritmico: • la sintassi non è appesantita da un uso eccessivo di subordinate e di inversioni; • la scelta delle parole tiene debito conto del loro effetto fonico e vengono quindi accuratamente evitati suoni aspri. Pochissimi sono i latinismi (es. laude, clama) e anche i termini che appartengono al lessico specialistico della tradizione provenzale-siciliana (es. merzede, bieltà); • le pause sintattiche coincidono in genere con le pause metriche, conferendo alla canzone un ritmo piano e regolare. Allo stesso risultato concorre la disposizione regolare e simmetrica degli accenti dell’endecasillabo (posizione 1, 4, 7, 10 Dòn|ne|ch’a|vé|tein|tel|lèt|to|d’a|mò|re); • le figure retoriche sono usate in modo parco e rimandano a un codice convenzionale immediatamente decifrabile dai lettori: ad es. la consueta personificazione dell’Amore e le usuali metafore della fiamma («spiriti... infiammati») e della ferita («feron li occhi»).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1 Fai la parafrasi della I e della IV strofa. ANALISI 2 Nelle strofe III e IV si sviluppa la lode vera e propria di Beatrice: rintraccia nel testo i termini e le espressioni che fanno riferimento ai due momenti della lode e sintetizzali in una tabella come questa. lode delle virtù interiori
lode delle qualità fisiche
v. ......................................................................................
v. ......................................................................................
LESSICO 3 Nell’ultima strofa (congedo) il poeta si rivolge alla composizione stessa. Rintraccia, trascrivi e commenta brevemente i termini e le espressioni che identificano la tipologia di pubblico a cui Dante intende rivolgersi. 4 Nella canzone ricorrono termini che rimandano al vocabolario amoroso della poesia stilnovistica: indica il significato che assumono in questa canzone e, più in generale, nella poesia stilnovistica questi termini. valore (v. 5) ����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� vile (v. 10) �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� gentile (v. 11), gentil (v. 31) ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������ virtù (v. 30) ����������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� villani (v. 33) �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� nobil (v. 36) ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� salute (v. 39) �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� cortese (v. 67) ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5 Metti a confronto la seconda strofa di Donne ch’avete intelletto d’amore e l’ultima della canzone di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre Amore (➜ C4 T11 ): quali analogie e quali differenze noti? Prevalgono le affinità o le differenze fra i due testi? affinità o analogie
differenze
Donne ch’avete intelletto d’amore (II str.) Al cor gentil rempaira sempre amore (ultima str.) SCRITTURA 6 Spiega in un testo di 20 righe circa il ruolo chiave della canzone: a. nell’evoluzione della poetica di Dante; b. nella definizione delle caratteristiche generali che Dante attribuisce allo stilnovo.
La Vita nuova 2 339
Dante Alighieri
T5
Tanto gentile e tanto onesta pare Vita nuova, XXVI
D. Alighieri, Vita Nuova, a c. di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980
AUDIOLETTURA ANALISI INTERATTIVA
La forma enunciativa della lode non è un tratto originale di Dante, ma è comune ad altri poeti dello stilnovo. Unica, sicuramente è però l’essenzialità, la purezza di forme, la musicalità che la lode della donna amata conosce in questo sonetto di Dante, non solo tra i testi più celebri del poeta fiorentino ma uno dei vertici della poesia italiana di ogni tempo.
Questa gentilissima donna1, di cui ragionato è ne le precedenti parole2, venne in tanta grazia de le genti3, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea4. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di 5 rispondere a lo suo saluto5; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse6. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia7. Diceano molti poi che passata era: «Questa non è femmina8, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente 10 sae adoperare!9». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri10, che quelli che la miravano comprendeano11 in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridicere non lo sapeano12; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare13. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente14: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua 15 loda15, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni16; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere17. Allora dissi18 questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.
1 Questa gentilissima donna: Beatrice, qui designata con il consueto aggettivo al superlativo. 2 ragionato.. parole: si è parlato nei capitoli precedenti. 3 venne... de le genti: ottenne tale ammirazione presso la gente, le persone. 4 onde... me ne giungea: per cui me ne derivava straordinaria gioia. 5 quando... suo saluto: quando si trovava vicino a qualcuno, nel cuore di quello perveniva tanta nobiltà d’animo che non osava guardarla, né rispondere al suo saluto. 6 di questo... credesse: di quanto asserisco, molti, per averlo sperimentato perso-
nalmente, potrebbero testimoniare per me agli increduli. 7 Ella coronata... udia: Ella andava, ornata di umiltà, senza mostrare alcuna vanagloria (nulla gloria), alcuna superbia di ciò che vedeva e udiva. 8 non è femmina: non è una donna comune. 9 Questa... adoperare!: Questo è un miracolo, benedetto sia il Signore, che sa (sae) compiere cose così meravigliose! 10 piaceri: bellezze, virtù. 11 comprendeano: accoglievano. 12 ridicere non lo sapeano: non sapevano esprimerlo a parole.
340 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
13 né alcuno era... sospirare: e non c’era nessuno che potesse guardarla senza essere dall’inizio obbligato a sospirare. 14 da lei... virtuosamente: derivavano dalla potenza che emanava da lei. 15 volendo ripigliare... la sua loda: volendo riprendere lo stile poetico della lode di lei. 16 propuosi... operazioni: decisi di scrivere versi nei quali facessi capire i miracoli operati da lei. 17 acciò che... intendere: affinché non solo le persone che la potevano vedere con i loro occhi, ma (anche) gli altri sappiano di lei ciò che le parole possono far capire. 18 dissi: composi.
Tanto gentile e tanto onesta pare19 la donna mia20 quand’ella altrui saluta21, ch’ogne lingua deven tremando muta, 4
e li occhi no l’ardiscon di guardare22.
Ella si va23, sentendosi laudare, benignamente d’umiltà vestuta24; e par25 che sia una cosa26 venuta 8
da cielo in terra a miracol mostrare27.
Mostrasi sì piacente28 a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core29, 11
che ’ntender no la può chi no la prova30:
e par che de la sua labbia31 si mova un spirito soave pien d’amore, 14
che va dicendo a l’anima: Sospira.
La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDE EDC 19 Tanto gentile... pare: tanto nobile (in senso spirituale) e piena di decoro (di dignità, onesta; latinismo) si manifesta (pare; latinismo, dal verbo pareo). Come afferma il critico Contini, questi tre vocaboli hanno un’accezione completamente diversa rispetto alla lingua contemporanea. 20 la donna mia: la mia signora (dal latino domina). 21 quand’ella altrui saluta: nel suo saluto (letteralmente “quando saluta qualcuno”).
Beatrice di Odilon Redon (1885, collezione priv.).
22 ch’ogne lingua... guardare: che ogni
come suggerisce il critico Contini, “ap-
lingua tremando ammutolisce e gli occhi non hanno il coraggio di guardarla. Il tremore, l’impossibilità di parlare di fronte all’apparizione della donna sono motivi ricorrenti soprattutto nella poesia di Cavalcanti: ➜ C4 T14 Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira . 23 Ella si va: ella avanza, procede. 24 benignamente d’umiltà vestuta: benevolmente adorna (vestuta è sicilianismo per “vestita”) di umiltà. 25 par: riprende il pare del verso 1: non significa semplicemente “sembra” ma,
pare in piena evidenza” e reca in sé l’idea dell’apparizione di un essere soprannaturale. 26 una cosa: una creatura. 27 a miracol mostrare: per dimostrare la potenza miracolosa di Dio. 28 sì piacente: così dotata di bellezza. 29 dà per li occhi... al core: attraverso gli occhi riversa nel cuore una dolcezza. 30 che...prova: che non può essere compresa da chi non ne fa esperienza. 31 labbia: labbra (sineddoche per “volto”).
Analisi del testo L’attitudine contemplativa Il sonetto costituisce la realizzazione più coerente e stilisticamente perfetta della poetica delle “nove rime”, incentrata sulla celebrazione estatica della donna amata, teorizzata da Dante in Donne ch’avete intelletto d’amore (➜ T4 ). Più che un’attitudine descrittiva, come è tipico della “lode”, si manifesta nel sonetto un’attitudine contemplativa, in stretta relazione con il nuovo atteggiamento di Dante nei confronti della “gentilissima” dopo la svolta psicologico-poetica di Donne ch’avete intelletto d’amore: per il poeta la donna è ormai un’icona del divino, che si manifesta temporaneamente sulla terra tramite la sua apparizione. Di fronte a questa “epifania” sconvolgente non c’è più posto per l’analitica descrizione degli effetti d’amore: il poeta non è più co-protagonista di un dramma amoroso e il suo sguardo non è più rivolto su di sé, ma ormai contempla, da attonito spettatore, lo strumento stesso della Provvidenza divina. La donna è ora – se possibile – ancora più distante; lontana, nella sua perfezione, dal poeta, che ne canta la bellezza e la virtù rinunciando ormai a ogni sua rappresentazione fisica. Addirittura la dolcezza che egli prova non si esprime più in parole, ma in un sospiro amoroso: un sospiro che traduce la constatazione dell’“ineffabilità”, cioè l’impossibilità di esprimere una bellezza e perfezione sovrumane.
La Vita nuova 2 341
Gli echi e le fonti
Nel sonetto si ravvisano molteplici influenze: innanzitutto quella di Guinizzelli (si veda in particolare Io voglio del ver la mia donna laudare), di cui Dante riprende la situazione del passaggio della donna tra gli uomini e il tema del saluto, oltre al termine chiave pare del v. 1. Il carattere sconvolgente dell’apparizione (che fa ammutolire tremando chi assiste ad essa), ma anche la centralità degli occhi nel flusso che muove dalla donna a chi le sta intorno («che dà per li occhi...» v. 10), rimandano al repertorio cavalcantiano (in particolare ➜ C4 T14 Chi è questa che vèn), ma la situazione è qui molto diversa: alla drammaticità della poesia cavalcantiana, agli effetti angosciosi e distruttivi dell’amore si sostituisce qui la dolcezza, la pienezza di un amore che è già elevazione dalla terra al cielo, dal sé al Creatore, grazie a una figura femminile che è più soprannaturale che terrena. A conferire un clima sacrale alla scena contribuisce, come è stato scritto, l’eco nel sonetto di passi evangelici (in particolare dal Vangelo di Giovanni), nella descrizione dell’incedere di Beatrice tra la gente e dei miracolosi effetti prodotti dalla sua presenza e dal suo saluto.
Una prova altissima del “dolce stile” Questa lirica costituisce la più felice ed emblematica testimonianza del “dolce stile”: il lessico è piano, caratterizzato da una sostanziale “medietà” e le rime sono facili. Il sonetto è dominato da un ritmo particolarmente lento e fluido, che traduce sul piano poetico l’attitudine contemplativa di cui sopra si è detto, creando un’atmosfera di estatico rapimento, di immobilità sospesa fuori dal tempo. Concorre in modo rilevante a creare questo effetto la frequenza (tre occorrenze) e la forte rilevanza del verbo par/pare. Il significato del verbo, come ha sottolineato la celebre lettura critica di Gianfranco Contini, è quello di «apparire con evidenza»; un verbo statico dunque, legato all’apparizione soprannaturale della donna, emissaria del divino. La medesima valenza ha il verbo sinonimico Mostrasi (“si mostra”), particolarmente enfatizzato dalla posizione incipitale (v. 9, all’inizio della prima terzina) in cui il poeta lo ha collocato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1 Sintetizza il contenuto del sonetto in non meno di 10 righe e indicane il tema fondamentale. COMPRENSIONE 2 Quali effetti produce il saluto di Beatrice? Motiva la tua risposta facendo riferimento al testo e al significato etimologico del verbo salutare. 3 Quale topos cortese è presente al v. 10? ANALISI 4 Sottolinea nel sonetto i due versi che descrivono il tema dell’ineffabilità della bellezza della donna. A quale poeta e componimento che hai già studiato si può ricollegare questa tematica? LESSICO 5 Ricerca e trascrivi i termini o le espressioni che fanno di Beatrice una “figura sacrale”. STILE 6 I termini che Dante sceglie di far rimare ai vv. 1, 4, 5, 8, possono essere messi in rapporto al tema fondamentale del sonetto e all’atmosfera poetica in esso dominante? In che modo? 7 Quale figura retorica è utilizzata nell’espressione d’umiltà vestuta (v. 6)?
Interpretare
SCRITTURA 8 Confronta il sonetto dantesco con un altro sonetto canonico “di lode”: Io voglio del ver la mia donna laudare di Guinizzelli (➜ C4 T12 ). Quale ti sembra l’apporto originale di Dante? Spiegalo in un breve testo di max 15 righe, mettendo in luce punti di contatto e differenze.
online T6 Dante Alighieri
La morte di Beatrice: tra fantasia e realtà Vita nuova, capp. XXIII e XXVIII passim
342 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
online T7 Dante Alighieri
Un nuovo sogno sconfigge la tentazione della “donna gentile” Vita nuova, cap. XXXIX
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Gianfranco Contini Una celebre lettura di Tanto gentile e tanto onesta pare G. Contini Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante, [1947], ora in Un’idea di Dante, Einaudi, Torino 1970
Il grande filologo e critico Gianfranco Contini (1912-1990) ha fatto una lettura del sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare che è divenuta giustamente celebre e su cui anche noi ci soffermiamo per due ragioni essenziali: innanzitutto perché è rivolta idealmente proprio agli studenti e poi perché costituisce un saggio esemplare di analisi filologica di un testo, in questo caso antico e quindi ancora più bisognoso – come Contini dimostra – di un’attenta interpretazione, senza la quale si rischia di cadere in errore. Infatti, solo in apparenza il sonetto di Dante è di facile lettura: in realtà quasi nessuna parola del testo ha un significato corrispondente nella lingua attuale, ed è quindi assolutamente necessario utilizzare sussidi linguistici adeguati per poterne comprendere correttamente il senso.
Non parrebbe che ci fosse bisogno di giustificare la scelta dell’esemplare1: considerato tipico della lirica di Dante, o più esattamente della fase stilnovistica della sua lirica giovanile, e come tale mandato a memoria2 da ogni italiano mediocremente colto fin dai suoi anni liceali. Ora noi ambiremmo a che questo esercizio 5 d’interpretazione cadesse specialmente sotto occhi liceali; sì che, entrando nella memoria, questa poesia vi s’imprimesse con un significato diverso da quello che di solito ritiene3. Passa per il tipo di componimento linguisticamente limpido, che non richiede spiegazioni, che potrebbe “essere stato scritto ieri”; e si può dire invece che non ci sia parola, almeno delle essenziali, che abbia mantenuto nella lingua 10 moderna il valore dell’originale. Si pone dunque, anzitutto, un problema di esegesi letterale, anzi lessicale. [...] Ben tre vocaboli del primo verso stanno in tutt’altra accezione4 da quella della lingua contemporanea. Gentile è ‘nobile’, termine tecnico del linguaggio cortese; onesta, naturalmente latinismo5, è un suo sinonimo, nel senso però del decoro esterno 15 [...]; più importante, essenziale anzi, determinare che pare non vale già ‘sembra’, e neppure soltanto ‘appare’, ma ‘appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza’. Questo valore di pare, parola-chiave, ricompare nella seconda quartina e nella seconda terzina, cioè, in posizione strategica, in ognuno dei periodi di cui si compone il discorso del sonetto. Sembra assente dalla prima terzina, ma solo 20 perché essa si inizia con l’equivalente Mostrasi, il quale riprende l’ultima parola della seconda quartina: non si scordi che il sonetto è una strofe di canzone, in cui le quartine sono i piedi della fronte, le terzine le volte della sirma; e concluderemo che un tal collegamento tra fronte e sirma è quello medesimo che s’incontra con tanta frequenza tra le strofi della canzone arcaica (coblas capfinidas6 in provenzale), 25 mettiamo la celeberrima Al cor gentil del Guinizzelli.
1 la scelta dell’esemplare: Contini si riferisce al testo che ha scelto per la sua analisi: appunto Tanto gentile e tanto onesta pare. 2 mandato a memoria: imparato a memoria (per lo meno ai tempi in cui Contini scrive il saggio, ovvero nell’immediato dopoguerra).
3 Ora noi ambiremmo... ritiene: Contini auspica che la sua interpretazione del sonetto di Dante vada letta soprattutto da studenti liceali che memorizzino il testo e il suo significato in modo corretto (diversamente da come di solito avviene). 4 accezione: significato.
5 onesta... latinismo: honestus e honestas in latino alludono alla nobiltà dei gesti, al decoro del portamento. 6 coblas capfinidas: un tipo di canzone in cui, in ogni stanza, l’inizio del primo verso riprende l’ultima parola dell’ultimo verso della stanza precedente.
La Vita nuova 2 343
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Questo ci ha permesso di metter la mano sul concetto strutturalmente capitale del componimento. Proseguendo, s’avrà minor occasione di scoperte. Ma è opportuno segnare che donna ha esclusivamente il suo significato primitivo di ‘signora (del cuore)’, è 30 insomma un termine con desinenza femminile puramente grammaticale, in cui il genere non segna opposizione (si pensa alla poesia portoghese del tempo, dove si può apostrofare col maschile senhor l’amata, si pensa al provenzale midons); per ‘donna’ la prosa-commento della Vita Nuova usa, in opposizione ad angeli, femmina. [...]. 35 Piacente (che del resto è l’occitanico plazen) non significa la semplice gradevolezza soggettiva per il contemplante: come tutto insiste sulla manifestazione delle qualità [...], così piacente allude a un attributo oggettivo in quanto si palesa, ‘fornita di bellezza’, ‘determinante l’effetto che la bellezza necessariamente produce’. Non per nulla ‘piacere’ significa nel linguaggio stilnovistico ‘bellezza’, addirittura ‘bel 40 volto’, e la prosa stessa dichiara: «ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri». [...] Riassumendo in uno schema di parafrasi la nostra esposizione, si ottiene press’a poco: «Tale è l’evidenza della nobiltà e del decoro di colei ch’è mia signora, nel suo salutare, che ogni lingua trema tanto da ammutolirne, e gli occhi non osano 45 guardarla. Essa procede, mentre sente le parole di lode, esternamente atteggiata alla sua interna benevolenza, e si fa evidente la sua natura di essere venuto di cielo in terra per rappresentare in concreto la potenza divina. Questa rappresentazione è, per chi la contempla, così carica di bellezza che per il canale degli occhi entra in cuore una dolcezza conoscibile solo per diretta esperienza. E dalla sua fisionomia 50 muove, oggettivata e fatta visibile, una soave ispirazione amorosa che non fa se non suggerire all’anima di sospirare».
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1 Per quale motivo il critico non ha bisogno di giustificare la scelta del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare per la sua analisi? 2 Con quale sinonimo si potrebbe sostituire l’avverbio mediocremente ? 3 Qual è lo scopo della lettura del sonetto da parte del critico? 4 Qual è la tesi espressa nel testo? 5 Rintraccia e sottolinea nel testo le motivazioni che il critico adduce a sostegno della sua tesi. 6 Sintetizza il contenuto del sonetto riportato in parafrasi nel testo critico.
344 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
VERSO IL NOVECENTO
Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell’«angelo visitante» Nella poesia di un grande poeta del Novecento, Eugenio Montale (1896-1981), è centrale l’immagine di una donna angelo, presente-assente, che si manifesta in precari momenti epifanici, una figura che certamente raccoglie l’eredità delle figure femminili dello stilnovo e soprattutto della Beatrice dantesca della Vita nuova. Il mito poetico della donna angelo viene elaborato da Montale intorno al 1938 e compare per la prima volta nella lirica Ti libero la fronte dai ghiaccioli, che apparve nella seconda edizione (1940) di Le occasioni e che qui presentiamo: la donna (che Montale designa nella serie dei 21 Mottetti con il senhal di Clizia) è rappresentata come una creatura angelica, che ha percorso un lungo e difficile viaggio da un cielo remoto alla terra, rimanendone sofferente e ferita. Nell’Elegia di Pico Farnese (sempre nella raccolta Le occasioni) la figura femminile assume più propriamente le vesti di una messaggera dell’“oltre”, di una realtà “diversa”, e riveste un ruolo salvifico di fronte a un presente ottuso e feroce. Ruolo che nella successiva raccolta, La bufera, si approfondisce ulteriormente, prendendo nuove valenze simboliche e poetiche: al messaggio salvifico di cui la donna-angelo si fa portatrice sono attribuiti caratteri più espressamente religiosi e a sua volta la donna-angelo diventerà colei che rinnova per il bene di tutti il sacrificio di Cristo, figura di Cristo essa stessa. Di fronte a queste tematiche, che qui ovviamente ci limitiamo ad accennare, è inevitabile parlare, come la critica ha fatto, di stilnovismo e più espressamente di dantismo montaliani, ma certamente le antiche suggestioni sono rivisitate da Montale «con l’ansia tutta moderna ed esistenziale di chi è lungi dalle sicurezze di una fede teologica» (Marchese).
Eugenio Montale Ti libero la fronte dai ghiaccioli E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984
Ti libero la fronte dai ghiaccioli che raccogliesti traversando l’alte nebulose1; hai le penne lacerate 4 dai cicloni2, ti desti a soprassalti. Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo l’ombra nera3, s’ostina in cielo un sole freddoloso4; e l’altre ombre che scantonano 8 nel vicolo non sanno che sei qui5.
1 l’alte nebulose: gli strati alti e freddi del cielo. 2 cicloni: tempeste che hanno reso drammatico il viaggio di Clizia verso la terra e che alludono, metaforicamente a una dimensione apocalittica.
3 allunga... nera: il nespolo è il soggetto; il riquadro è quello della finestra. L’aggettivo nera, attribuito all’ombra del nespolo, suggerisce un’atmosfera lugubre. 4 un sole freddoloso: è un ossimoro. 5 l’altre ombre... sei qui: l’apparizione dell’angelo visitante è destinata a pochi
eletti, la sua venuta dagli spazi siderali per portare un messaggio salutare si contrappone all’angustia e alla cecità ottusa in cui si muovono gli uomini, non a caso definiti ombre, esclusi persino dalla possibilità di “vedere” la salvifica apparizione.
La Vita nuova 2 345
Dante Alighieri
T8
Oltre la spera che più alta gira Vita nuova, XLI-XLII
D. Alighieri, Vita Nuova, a c. di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980
Dopo lo sviamento legato all’interesse del poeta per la «donna pietosa e gentile» che allontana temporaneamente Dante dal culto di Beatrice (capp. XXXV-XXXIX), l’ultima parte della Vita nuova vede definitivamente riconfermata la fedeltà del poeta alla sua ispiratrice. Superata la tentazione di un nuovo amore (comunque esso possa essere interpretato), Dante torna a Beatrice e la celebra con l’ultimo sonetto dell’opera. Dopo una nuova visione, infine, Dante si congeda dall’opera e dai lettori con una misteriosa promessa. «La Vita nuova, apertasi con l’immagine del “libro della memoria”, si chiude su quella del libro da scrivere» (De Robertis).
Oltre la spera che più larga gira passa ’l sospiro ch’esce del mio core1: intelligenza nova, che l’Amore 4 piangendo mette in lui, pur su lo tira2. Quand’elli è giunto là dove disira3, vede una donna, che riceve onore, e luce sì4, che per lo suo splendore 8 lo peregrino spirito la mira5. Vedela tal, che quando ’l mi ridice, io no lo intendo, sì parla sottile 11 al cor dolente, che lo fa parlare6. So io che parla di quella gentile, però che7 spesso ricorda Beatrice, 14 sì ch’io lo ’ntendo ben8, donne mie care9.
La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDE DCE.
1 Oltre la spera... core: il sospiro che esce dal mio cuore oltrepassa la sfera celeste che compie la rotazione più ampia. Secondo la concezione cosmologica del tempo, si tratta del nono cielo, il Cristallino o Primo Mobile, oltre il quale c’è l’empireo, la sede dei beati, dove, dopo la sua morte, si trova anche Beatrice. 2 intelligenza nova... lo tira: una comprensione inusitata (una nuova capaci-
tà di intendere), che l’Amore, piangendo (attraverso il dolore) ha posto in esso (nel cuore del poeta) lo eleva fino al paradiso. 3 là dove disira: là dove desidera giungere (ovvero la sede celeste di Beatrice; il soggetto è sempre ’l sospiro). 4 luce sì: risplende (luce è un verbo) con tale intensità. 5 lo peregrino spirito la mira: lo spirito che migra oltre la dimensione terrena la contempla. 6 Vedela tal... parlare: la vede così bella che (soggetto è lo spirito, qui immagina-
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to quasi staccato dal corpo, rimasto sulla terra) quando me ne riferisce, io non lo comprendo tanto è complesso (sottile) il discorso che rivolge al cuore dolente che lo fa parlare. 7 però che: dato che. 8 sì ch’io... ben: cosicché lo capisco bene (che sta parlando di Beatrice). 9 donne mie care: il vocativo che chiude il sonetto riporta sulla scena le donne gentili cui si rivolge la canzone Donne ch’avete intelletto d’amore.
XLII. Appresso questo sonetto10 apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre11 di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente12. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le 5 cose vivono13, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer14 di lei quello che mai non fue detto d’alcuna15. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia16, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per 10 omnia secula benedictus17.
10 Appresso questo sonetto: subito dopo che ebbi composto questo sonetto. 11 proporre: decidere. 12 E di venire... veracemente: e io mi impegno quanto posso per raggiungere questo obiettivo (e cioè cantare nuovamente Beatrice in modo adeguato alla sua perfezione), come lei certamente sa.
13 se piacere... vivono: se vorrà colui che fa vivere tutte le cose, cioè Dio (perifrasi). 14 dicer: dire (latinismo). 15 quello che... d’alcuna: Dante si propone di esaltare Beatrice attraverso la sua poesia come non è avvenuto di nessuna altra donna (una sfida che il poeta fiorentino vincerà scrivendo la Commedia).
16 colui... cortesia: nuova perifrasi per intendere Dio. 17 qui est per omnia secula benedictus: che è benedetto per tutti i secoli. L’operetta si era aperta con una formula in latino («Incipit vita nova») e si chiude solennemente con un’espressione biblica (Salmo 71): Sit nomen eius benedictum in saecula, “Sia benedetto nei secoli il suo nome”.
Analisi del testo Intelligenza nova: verso una nuova poetica dell’amore La Vita nuova si chiude con un sonetto che dimostra come l’ispirazione di Dante rispetto al tema amoroso sia ormai lontana non solo dai modi della poesia cortese, ma anche dagli stessi stilnovisti. Negli stilnovisti l’amore per la donna, pur stilizzato e sublimato, si conciliava comunque con difficoltà con la dimensione religiosa (e non è un caso che Guinizzelli sia posto da Dante nel Purgatorio tra i lussuriosi). Dante invece, attraverso il rigoroso e coerente itinerario tracciato nella Vita nuova, ha superato ogni conflitto: l’ultimo sonetto sottrae la donna amata al mondo dell’imperfezione, della contingenza terrena e la colloca stabilmente nella dimensione del trascendente a cui è sempre appartenuta. Anche il poeta deve compiere allora una radicale trasformazione: non è più possibile usare gli stessi codici poetici. Un’«intelligenza nova», l’intuizione mistica della natura ultraterrena del suo amore, lo proietta necessariamente verso nuove dimensioni poetiche, che preludono forse – anche se Dante non ne è ancora del tutto consapevole – alla Commedia. Nel «poema di Dio» la funzione severamente didattica attribuita alla poesia non implicherà però la rinuncia per il poeta a cantare la sua Beatrice, ma lo indurrà coerentemente ad attribuirle un ruolo altissimo: quello di guida alla visione di Dio.
Un progetto misterioso Strettamente conseguente alla visione rappresentata nel sonetto è perciò l’ultimo capitolo, in cui Dante, congedandosi dai lettori, enuncia, seppur in modo vago, il progetto di una nuova opera che canterà Beatrice come nessuna donna al mondo è mai stata celebrata. La «beatrice» è ormai significativamente trasformata nella «benedetta». E non a caso la Vita nuova, che si è aperta con l’immagine del libro della memoria di Dante stesso, si chiude nel nome di Dio, che sarà il nuovo soggetto della poesia di Dante.
La Vita nuova 2 347
La riapparizione di Beatrice Come segnala opportunamente il critico Gorni nel suo commento, la formula biblica che chiude la Vita nuova («qui est per omnia saecula benedictus») troverà il suo corrispettivo nella formula «Benedictus qui venis!» (Pg XXX, 19), cantata dagli angeli in riferimento alla riapparizione – verso la fine del Purgatorio, in un clima sacrale – di Beatrice, ormai trasfigurata nel simbolo della Fede e della Teologia (Pg XXX, 28-33):
così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva 30 e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto 33 vestita di color di fiamma viva.
IMMAGINE INTERATTIVA
Il progetto, ancora indeterminato, enunciato alla fine dell’operetta giovanile risulterà allora pienamente realizzato. Il poeta aveva già fugacemente evocato sulla scena del poema «la gentilissima», accorsa dal cielo a soccorrere l’amato smarrito nella selva oscura (If II, 53 e sgg.); ma è nella terza cantica che il mito poetico di Beatrice trionfa: essa guida il percorso del poeta verso Dio, scioglie con sollecitudine materna ogni suo dubbio, ogni sua esitazione. La sua bellezza, l’intensità meravigliosa del suo sorriso crescono di cielo in cielo, fino all’ultima visione, quando Dante la contempla nella gloria dei beati riuniti nella Candida Rosa.
Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, olio su tela, (1863 ca., Tate Gallery, Londra).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1 Presenta in sintesi il contenuto del capitolo conclusivo (max 10 righe) e indicane il tema principale. COMPRENSIONE 2 Qual è secondo te la parola chiave del sonetto? Motiva la tua scelta. ANALISI 3 In quale punto del sonetto si allude al tema dell’ineffabilità? LESSICO 4 Rintraccia nelle due quartine la presenza di verbi che alludono al viaggio e spiega a quale viaggio fanno riferimento. 5 A quale campo semantico può essere ricondotta la maggior parte dei termini?
Interpretare
SCRITTURA 6 In un testo espositivo-argomentativo di max 20 righe spiega come gli ultimi due capitoli chiarifichino il senso della Vita nuova quale percorso di Dante verso Dio.
348 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
3
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo Oltre la Vita nuova Dopo la stesura della Vita nuova maturano in Dante nuovi interessi, soprattutto di tipo etico-politico e filosofico. Cantato l’amore per Beatrice, Dante passa a esaltare, attraverso una serie di canzoni allegorico-dottrinali, l’amore per la sapienza, la rettitudine morale, la giustizia. Il passaggio dall’esplorazione dell’ambito esistenziale-amoroso a una complessa analisi filosofica, etica, linguistica e politica è documentato dalle tre opere successive all’esilio: Convivio, De vulgari eloquentia e Monarchia oltre che, naturalmente, dalla Commedia. A questo ampliamento di vedute culturali, a questo più ambizioso impegno intellettuale, corrisponde l’immagine di un pubblico diverso, più ampio ed eterogeneo, rispetto ai “fedeli d’Amore” a cui era espressamente rivolta l’operetta giovanile. In un lungo arco di tempo si colloca una vasta produzione poetica in parte precedente alla Vita nuova, in parte successiva (Rime) che attesta nel suo insieme la sperimentazione di forme e temi molto diversificati.
1 Le Rime Un itinerario poetico all’insegna dello sperimentalismo Con Rime (o talvolta Rime extravaganti) si intende il complesso di testi poetici (54 quelli sicuramente attribuibili a Dante) prodotto da Dante dal 1283 al 1307 circa e che non vennero inclusi nella Vita nuova o nel Convivio. Si tratta di un insieme di composizioni non organico, non organizzato in alcun modo dall’autore, a differenza del grande modello del Canzoniere petrarchesco. Proprio per questa ragione i singoli testi ebbero anche una diffusione autonoma. Le liriche si distribuiscono in un arco di tempo molto ampio (25 anni) e anche per questo presentano una grande varietà, in rapporto alle molteplici esperienze di vita e letterarie dell’autore. L’unica costante che vi si può ritrovare è lo sperimentalismo, la curiosità di Dante nel saggiare le proprie capacità in ambiti poetici diversissimi, sotto lo stimolo delle suggestioni che via via gli si presentavano.
Luca Signorelli, Ritratto di Dante, affresco (databile fra il 1500 e il 1504) nella Cappella della Madonna di San Brizio, nel Duomo di Orvieto.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 349
L’apprendistato poetico e l’esperienza stilnovistica Le primissime esperienze poetiche di Dante hanno come modello Guittone d’Arezzo, poi rifiutato come maestro (Pg XXIV) e sostituito nella memoria da Guinizzelli («il padre mio»). L’identità di Dante come poeta si costruisce soprattutto all’interno dell’esperienza dello stilnovo, e si definisce in particolare attraverso l’amicizia e il sodalizio poetico con Guido Cavalcanti, a cui lo accomuna il culto dell’amore, il gusto per una poesia raffinata e l’atteggiamento di aristocratico distacco: aspetti ben evidenziati dal celebre sonetto Guido, i’ vorrei (➜ T9 ). Un gruppo selezionato di componimenti scritti in quel periodo sono poi inseriti nella Vita nuova, nella quale Dante fonda un modo nuovo di fare poesia rispetto agli altri stilnovisti, consapevolmente rivolto alla lode della donna amata, trasfigurata in mediatrice del divino. Oltre il “dolce stile”: la scelta dello stile “comico” Già durante la stagione dello stilnovo, che si conclude con la stesura della Vita nuova (una sorta di bilancio, come si è detto, insieme esistenziale e poetico), Dante esplora anche modalità poetiche diverse: in particolare sperimenta lo stile “comico”, che mostra di padroneggiare nella Tenzone con Forese Donati. Una volta esaurita l’esperienza stilnovista, Dante si aprirà ancor più a nuove suggestioni e arricchirà ulteriormente il suo repertorio tematico e le forme del suo stile. La tenzone con Forese Donati Al realismo proprio della tradizione giocosa e dello stile comico (Dante ha conosciuto Cecco Angiolieri) si richiama espressamente la tenzone con Forese Donati, uno scambio di sei sonetti ingiuriosi (il primo, il terzo, il quinto di Dante; il secondo, il quarto, il sesto di Forese Donati). Anche in rapporto al giudizio severo pronunciato nei confronti di Forese in un passo della Commedia (Pg XXIII, 115-117), gli studiosi collocano la tenzone al tempo dello smarrimento morale del poeta seguìto alla morte di Beatrice (ovvero tra il 1293 circa, anno in cui Dante si innamora della «donna gentile», e il 1296, anno della morte di Forese). Quest’ultimo, sebbene appartenesse alla famiglia Donati, che era a capo della fazione dei Neri, e fosse quindi avversario politico di Dante, era legato al poeta da rapporti molto affettuosi, come si deduce appunto dal canto citato del Purgatorio. In questo canto l’autore compirà una sorta di ritrattazione di quella ormai lontana esperienza: in particolare riabiliterà, tessendone un alto elogio, la moglie di Forese, Nella, sulla quale aveva scritto volgari espressioni nella tenzone (➜ T10 ).
Cristofano degli Altissimi, Ritratto di Guido Cavalcanti, olio su tavola, 1552-1568 (Galleria degli Uffizi, Firenze).
350 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Il Fiore Un’ulteriore testimonianza della sperimentazione dello stile “comico” da parte di Dante potrebbe essere rappresentata dal Fiore: una corona di 232 sonetti in cui vengono rimaneggiate e rielaborate in volgare fiorentino parti di una delle opere allegoriche più note della cultura medievale, ovvero il Roman de la Rose, scritto nel 1237 da Guillaume de Lorris e ampliato decenni dopo da Jean de Meung. La paternità dantesca dell’opera è però discussa. Le rime “petrose” L’infrazione del “dolce stile” si manifesta anche nella direzione di una poesia aspra, dura, secondo il modello del poeta provenzale Arnaut Daniel, maestro del trobar clus, che Dante celebra nel XXVI canto del Purgatorio. L’esito di questa sperimentazione è documentato dalle rime “petrose”, un gruppetto di quattro composizioni (due canzoni, una sestina e una sestina doppia) composte probabilmente tra il 1296 e il 1298, così denominate dalla critica per la ricorrenza in esse del senhal «Petra/petra», immagine metaforica con cui Dante allude alla durezza di una misteriosa figura femminile che non è stato possibile identificare. Verso di essa il poeta esibisce una disposizione di accesa passionalità che nulla ha a che vedere con l’amore sublime e del tutto spirituale per la «gentilissima». Molto probabilmente, più che un’esperienza amorosa realmente vissuta dal poeta dopo la morte di Beatrice, le “petrose” testimoniano la volontà di Dante di saggiare le proprie capacità, come si è detto, in nuove direzioni stilistiche, in questo caso verso uno stile “aspro” e difficile ma anche realistico, contrapposto vistosamente allo stile “dolce” e “piano” esperito nella fase stilnovistica. Lo testimonia chiaramente la dichiarazione di poetica contenuta nel primo verso della più nota delle “petrose”: Così nel mio parlar voglio esser aspro (➜ T11 ). Le rime allegorico-dottrinali e morali Su un versante opposto il poeta fiorentino affronta una poesia più complessa e impegnata in senso morale e civile, nella quale emerge spesso la dimensione allegorica. Ne è esempio la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, composta nei primi tempi dell’esilio (e molto probabilmente destinata a essere inclusa nel Convivio): la dolorosa vicenda personale vissuta da Dante diventa nella canzone occasione per una vibrante denuncia della decadenza della giustizia.
Le rime di Dante POESIE STILNOVISTICHE
poesia raffinata e culto d’amore
POESIE IN STILE “COMICO”
realismo e stile comico; tenzone con Forese Donati
IL FIORE (DI DUBBIA ATTRIBUZIONE)
stile comico; rimaneggiamento del Roman de la Rose
RIME “PETROSE”
poesia aspra e dura (modello per il trobar clus); misteriosa figura femminile (Petra)
RIME ALLEGORICODOTTRINALI E MORALI
dimensione allegorica; poesia impegnata
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 351
Dante Alighieri
T9
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Rime (9) (LII) D. Alighieri, Rime, a c. di G. Contini, Einaudi, Torino 1965
AUDIOLETTURA ANALISI INTERATTIVA
I poeti che è consuetudine denominare “stilnovisti” erano legati da rapporti di amicizia e da un sodalizio fondato su una raffinata concezione della poesia, che faceva di essi un’élite intellettuale nella prosaica, e a volte gretta, realtà dei comuni. In questo celeberrimo sonetto, Dante evoca, attraverso un’affascinante fantasticheria, il mondo “separato” dei giovani poeti di cui fece parte.
Guido1, i’ vorrei che tu e Lapo2 ed io fossimo presi per incantamento3, e messi in un vasel4 ch’ad ogni vento5 4 per mare andasse al6 voler vostro e mio, sí che fortuna od altro tempo rio7 non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento8, 8 di stare insieme crescesse ’l disio9. E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta 11 con noi ponesse il buono incantatore10: e quivi ragionar11 sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, 14 sì come i’ credo che saremmo noi.
La metrica: Sonetto con schema ABBA ABBA CDE EDC. 1 Guido: è Guido Cavalcanti. 2 Lapo: presumibilmente il notaio e poeta Lapo Gianni, elogiato da Dante nel De vulgari eloquentia (I, xiii, 4). Il filologo Guglielmo Gorni ha però sostenuto, con convincenti motivazioni scientifiche, che il nome sia un errore del copista e che l’amico evocato sia invece un rimatore fiorentino, Lippo Pasci de’ Bardi. 3 presi per incantamento: catturati da un incantesimo.
4 vasel: navicella, imbarcazione (anche Pg II, 41). 5 ch’ad ogni vento: con qualunque vento. 6 al: secondo il. 7 fortuna od altro tempo rio: un fortunale, una tempesta o altro tempo cattivo (rio). 8 in un talento: in una stessa volontà, in pieno accordo. 9 ’l disio: il desiderio. 10 monna Vanna… incantatore: [vorrei] che il valente mago (il mago Merlino) ponesse insieme a noi monna (= m[ad]onna) Vanna e monna Lagia. Si
tratta delle donne amate rispettivamente da Guido Cavalcanti e Lapo Gianni. Una terza donna è indicata dalla perifrasi (quella ch’è sul numer de le trenta): in un sirventese, andato perduto, Dante elencava le sessanta donne più belle di Firenze. La donna misteriosa (forse una delle “donne schermo” della Vita nuova) occupava il trentesimo posto della lista o forse, più genericamente, era una delle prime trenta. 11 ragionar: [vorrei che si potesse] conversare.
Analisi del testo Un elogio dell’amicizia Il tema dell’amicizia domina il sonetto ed è proposto fin dall’incipit, che associa strettamente, in un solo verso, i tre amici: Guido, Lapo e Dante. Significativa è la frequenza, poi, di espressioni che sottolineano l’unità d’intenti che lega gli amici-poeti (gli aggettivi possessivi vostro e mio, le parole sempre in un talento e stare insieme). Nella concezione di Dante e dei poeti stilnovisti l’amicizia ha a che fare indissolubilmente con il comune culto dell’amore: nel sogno d’evasione i poeti non sono soli, ma sono accompagnati dalle donne amate, che a loro volta sono donne gentili, che hanno “intelletto d’amore”.
352 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Sul vascello incantato Dante immagina che la compagnia di amici si dedichi esclusivamente a ragionar... d’amore: il verbo all’infinito, che si sgancia inaspettatamente dalla catena dei verbi al congiuntivo retti dall’iniziale vorrei, intensificato dall’avverbio sempre, prospetta una dimensione di continuità atemporale. L’amicizia infine non può non essere associata alla gioia (sottolineata dagli ultimi due versi) e soprattutto all’evasione dalla prosaica realtà comune, qui prospettata come fantasia, come desiderio (l’intera struttura sintattica del sonetto è retta dalla forma desiderativa del verbo vorrei), ma certo propria anche della realtà di vita dei giovani poeti, almeno come atteggiamento mentale. Spiriti eletti, accomunati da una visione dell’amore e della poesia, animi “gentili” secondo i dettami del maestro Guinizzelli, la cerchia di poeti di cui fece parte Dante per una stagione importante della sua vita costituiva un’élite intellettuale. Come tutte le avanguardie, sdegnavano “gli altri”, il pubblico comune. In questa condizione di spirito sta la genesi del sonetto.
Suggestioni letterarie Il tema cui sopra si è fatto riferimento è proiettato in una dimensione fantastica: Dante immagina che lui e i suoi amici con le loro dame siano soggetti all’incantesimo del mago Merlino e trasportati su un vascello incantato. Nell’ideazione di questa affascinante fantasticheria, Dante da un lato riprende la tipologia del plazer (elenco di situazioni che danno piacere) della tradizione occitanica, dall’altro attinge al repertorio della narrativa cortese bretone, cui appartiene il motivo della magia, la figura del mago Merlino e quella del vascello incantato. Vita e letteratura, sogno e realtà si intrecciano dunque in questa raffinata composizione poetica, che ci sembra presentare in modo particolarmente efficace il clima psicologico e spirituale in cui nacque la poesia degli stilnovisti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto e indicane il tema principale. ANALISI 2. Chi sono Guido, Lapo, Vanna e Lagia e perché il poeta li nomina? 3. I veri “padroni” del vascello sono i poeti-amici: è il loro concorde volere che muove il vascello. Che significato può avere questa immagine metaforica? 4. Rintraccia nel sonetto gli elementi afferenti al magico e al meraviglioso. A quale tradizione letteraria rimandano? LESSICO 5. Analizza il lessico e individua i termini che appartengono al campo semantico dell’amicizia e del desiderio di isolamento. STILE 6. Quale figura retorica è presente al v. 10?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 7. Quali elementi consentono di ascrivere il sonetto alla tipologia del plazer, presente nella poesia occitanica? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Il sonetto presenta una struttura simmetrica e circolare, abilmente intrecciata alle tematiche trattate. Argomenta in un breve testo (max 15 righe) e metti soprattutto in evidenza: – uso della prima persona; – presentazione dei protagonisti; – uso dell’antitesi di parole in rima; – rapporti tra quartine e terzine. 9. In questo sonetto Dante affronta il tema dell’amicizia come condizione di vita. Ritieni che l’amicizia sia fondamentale nella vita di una persona? Quale importanza riveste nella tua vita?
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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 353
Dante Alighieri
T10
Chi udisse tossir la malfatata Rime (26) (LXXIII)
D. Alighieri, Rime, a c. di G. Contini, Einaudi, Torino 1965
Nel primo dei sonetti della tenzone con Forese Donati, Dante prende la parola per ironizzare sulla moglie di Forese, Nella. La donna soffre di una tosse continua e di raffreddori. Per Dante la colpa è tutta del marito, che trascura i propri obblighi coniugali. Forese risponde con il sonetto L’altra notte mi venne una gran tosse.
Dante a Forese Chi udisse tossir la malfatata1 moglie di Bicci vocato Forese2, potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata 4 ove si fa ’1 cristallo, in quel paese3. Di mezzo agosto la truovi infreddata: or sappi che de’ far d’ogni altro mese...4; e non le val perché dorma calzata5, 8 merzé del copertoio c’ha cortonese6. La tosse, ’1 freddo e l’altra mala voglia7 no l’addovien per omor’ ch’abbia vecchi8, 11 ma per difetto ch’ella sente al nido9. Piange la madre10, c’ha più d’una doglia, dicendo: «Lassa11, che per fichi secchi 14 messa l’avre’ ’n casa del conte Guido12». La metrica: Sonetto con schema ABAB ABAB CDC CDC.
1 malfatata: “disgraziata” (provenzalismo). 2 moglie... Forese: moglie di Forese, soprannominato (vocato) Bicci. Si osserva qui l’inversione dei due nomi. 3 potrebbe dir… paese: potrebbe dire che forse ha passato l’inverno nel paese dove si forma il cristallo. Si pensava che il cristallo si formasse nei gelidi paesi nordici. 4 or sappi… mese…: ora pensa cosa deve fare in ogni altro mese (se, come si dice nel verso precedente, è raffreddata ad agosto).
5 e non le val… calzata: e non le serve dormire (con la coperta) ben rimboccata. 6 merzé… cortonese: a causa della coperta (copertoio) corta che ha (cortonese: lett. “di Cortona”, località toscana; il termine è qui usato, in un gioco di parole, per corto). Dante allude qui, neanche troppo velatamente, all’incapacità di Forese di soddisfare sessualmente la moglie. 7 ’l freddo e l’altra mala voglia: il raffreddore e ogni altra indisposizione. 8 no l’addivien… vecchi: non le derivano dal fatto che i suoi umori sono vecchi. La medicina del tempo faceva riferimento agli umori: in questo caso si allude all’idea che gli umori dei vecchi siano freddi.
9 per difetto… al nido: per le manchevolezze della vita coniugale: nido qui è sinonimo di “casa” o, forse, di “letto”. 10 la madre: si tratta della madre di Nella, che è insoddisfatta (più d’una doglia, “più di un motivo di lamentarsi”) del matrimonio della figlia. 11 Lassa: me infelice. 12 che per fichi secchi… Guido: che avrei potuto farla sposare anche con una dote da niente (per fichi secchi) nella casa del conte Guido. Quest’ultimo è probabilmente Guido Novello.
Analisi del testo Ingiurie scherzose Il sonetto di Dante apre la sequenza della tenzone tra Dante e Forese Donati. Nei versi danteschi Forese è accusato di essere responsabile della continua tosse della moglie, costantemente raffreddata e malaticcia, letteralmente perché usa una coperta troppo corta (ma il riferimento contiene una pesante allusione all’inadeguatezza sessuale del marito).
354 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Il concetto è ribadito nella prima terzina: non sono gli umori della donna a essere vecchi e a provocarle la tosse, il freddo e il malessere, come sostenevano le teorie fisiologiche del tempo, derivate da Aristotele, per le quali gli umori vitali nella vecchiaia diventavano freddi; la donna risente invece delle privazioni presenti nella sua casa (nido): espressione in cui forse si legge un’allusione maliziosa alle privazioni che la donna subisce nel letto nuziale. La seconda terzina sposta l’attenzione sulla madre della donna, che si lamenta del fatto che avrebbe potuto dare la figlia in sposa a un nobile gentiluomo con una dote irrilevante (per fichi secchi). Le offese di Dante a Forese non devono essere prese alla lettera: tra i due esisteva un rapporto di amicizia, che viene confermato in un noto episodio del Purgatorio (XXIII-XXIV). Piuttosto lo scambio di ingiurie tra i due si colloca in un contesto scherzoso e soprattutto all’interno di uno schema letterario proprio della letteratura comico-realistica, in cui la tenzone consapevolmente si iscrive e che implica un vivace scambio di battute, la presenza di riferimenti al quotidiano e un lessico vivacemente realistico.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. Il sonetto fa parte di una “tenzone”: che cosa implica questa appartenenza? ANALISI 3. In che modo Dante offende Forese?
Interpretare
TESTI IN DIALOGO 4. Rintraccia nel testo elementi che possono accomunarlo alla poesia comico-realistica (➜C5U2).
Dante Alighieri
T11
Così nel mio parlar voglio esser aspro Rime (46) (CIII)
D. Alighieri, Rime, a c. di G. Contini, Einaudi, Torino 1965
Proponiamo la più nota delle “petrose”. Dopo l’importante dichiarazione iniziale, in cui Dante associa strettamente la scelta di uno stile aspro al particolare contenuto della sua poesia, in cui campeggia la figura di una donna dura e sprezzante che ferisce il suo cuore, la canzone si articola, nella prima parte, in un ritratto della donna e nella descrizione della sua insensibilità verso il poeta; nella seconda (ultime due strofe e congedo) si illustra il desiderio del poeta di vendicarsi. Riproduciamo le prime due e le ultime due strofe, seguite dal “congedo”.
Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra1, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda2, 5 e veste sua persona d’un dïaspro3 La metrica: Canzone secondo lo schema AbbC Abbc (fronte) CddEE (sirma). 1 Così… petra: gli atteggiamenti duri della “donna pietra” (è il senhal) inducono il poeta alla scelta di uno stile aspro e difficile, opposto alla musicalità del “dolce stile”.
2 la quale… cruda: la quale sempre desidera e ottiene. Ma, spiega il Contini, si può pensare anche a «racchiude in sé come in una pietra» una durezza maggiore e un’indole più crudele (natura cruda).
3 diaspro: pietra preziosa durissima; per i lapidari medievali era capace di rendere inattaccabile chi la portasse.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 355
tal che per lui, o perch’ella s’arretra, non esce di faretra saetta che già mai la colga ignuda4; ed ella ancide5, e non val ch’om si chiuda 10 né si dilunghi da’ colpi mortali6, che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme7; sí ch’io non so da lei né posso atarme8. Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi 15 né loco che dal suo viso m’asconda: ché, come fior di fronda, così de la mia mente tien la cima9. Cotanto del mio mal par che si prezzi quanto legno di mar che non lieva onda10; 20 e ’1 peso che m’affonda è tal che non potrebbe adequar rima11. Ahi angosciosa e dispietata lima12 che sordamente la mia vita scemi13, perché non ti ritemi 25 sí di rodermi il core a scorza a scorza com’io di dire altrui chi ti dà forza14? […] [Nelle due strofe successive il poeta tratteggia un fosco quadro degli effetti d’amore, tutt’altro che salvifici, prodotti in lui dalla passione per la donna. Amore, armato di spada, è presentato come un guerriero crudele e sanguinario che vuole la morte del poeta.] Così vedess’io lui fender per mezzo lo core a la crudele che ’1 mio squatra15; 55 poi non mi sarebb’atra16
4 tal che… ignuda: tale che, grazie ad esso (per lui, cioè il diaspro) o perché ella si tira indietro (s’arretra), dalla faretra non esca mai una freccia che la colga indifesa (ignuda). Dante usa qui la tradizionale immagine metaforica che presenta Amore come un arciere che colpisce con le sue frecce. 5 ancide: uccide. 6 e non val… mortali: e non serve (non val) che una persona (ch’om) si difenda (si chiuda) e si allontani (si dilunghi) dai colpi mortali. 7 giungono... arme: raggiungono ogni persona e trapassano ogni armatura (arme). 8 sí ch’io… atarme: sì che io non so né posso proteggermi (atarme “aiutarmi”) da lei. 9 ché, come… la cima: perché, come il
fiore (occupa la cima) del ramo (di fronda), così ella occupa la cima della mia mente. Oggi si direbbe: “è in cima ai miei pensieri”. 10 Cotanto… onda: sembra che si curi (si prezzi) della mia sofferenza (mal) quanto una nave (legno) si può curare di un mare calmo (che non lieva onda). 11 e ’l peso… adequar rima: e l’angoscia che mi opprime (m’affonda) è tale che nessuna poesia (rima) potrebbe adeguatamente rappresentarla (adequar). 12 lima: metafora riferita alla passione amorosa. 13 scemi: logori. 14 perché non ti ritemi… forza?: perché non hai ritegno di rodermi il cuore a poco a poco, come io ho ritegno di rivelare alla
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gente (dire altrui) il nome di chi (ovvero della donna) ti dà tanto vigore? Nella poesia trobadorica vigeva la consuetudine cortese di non rivelare l’identità della donna amata: da qui l’uso appunto del senhal, a cui anche Dante stesso ricorre occultando l’identità della donna sotto la denominazione di petra. 15 Così vedess’io… squatra: Allo stesso modo (con la stessa violenza) potessi io vedere (vedess’io) da lui (ovvero da Amore; lui è dativo d’agente) spaccare a metà (fender per mezzo) il cuore alla crudele (cioè alla donna petra) che squarta il mio. 16 atra: dolorosa, crudele (lett. “nera”, dal lat. ater).
la morte, ov’io per sua bellezza corro17: ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo questa scherana micidiale e latra18. Omè, perché non latra 60 per me, com’io per lei, nel caldo borro19? ché tosto griderei: «Io vi soccorro»; e fare’1 volentier, sì come quelli che ne’ biondi capelli ch’Amor per consumarmi increspa e dora 65 metterei mano, e piacere’le allora20. S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille21: 70 e non sarei pietoso né cortese, anzi farei com’orso quando scherza22; e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di più di mille23. Ancor ne li occhi, ond’escon le faville 75 che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, guarderei presso e fiso, per vendicar lo fuggir che mi face; e poi le renderei con amor pace24. Canzon, vattene dritto a quella donna 80 che m’ha ferito il core e che m’invola quello ond’io ho più gola25, e dàlle per lo cor d’una saetta26: ché bell’onor s’acquista in far vendetta. 17 ov’io... corro: verso la quale io (ov’io) corro a causa della sua bellezza. 18 ché tanto dà… latra: perché questa assassina (scherana micidiale) e ladra colpisce (dà) tanto nel sole quanto nell’ombra (rezzo). Ossia che colpisce in ogni circostanza. 19 Omè, perché… borro?: ohimè, perché non urla (latra) d’amore per me come faccio io per lei nel caldo precipizio della passione? Propriamente il borro è un burrone, una gola scoscesa in cui scorre un corso d’acqua. Per alcuni commentatori è l’inferno. 20 sì come quelli… allora: inizia da questo punto la serie di immagini ispirate a un rovesciamento delle condizioni dell’amore cortese. Il poeta si autoritrae nell’atto di vendicarsi della crudeltà della donna, infliggendole delle sofferenze fisiche: verrebbe in soccorso della donna, ma come uno che (sì come quelli che) metterebbe le mani a forza nei biondi capelli, che Amore
stesso rende ricci e dorati (increspa e dora) per consumare di passione il poeta; e, finalmente, piacerebbe alla donna crudele (e piacere’le: le piacerei). 21 S’io avessi… squille: se io avessi afferrato le belle trecce che sono diventate (fatte son) per me una frusta (scudiscio e ferza è una dittologia sinonimica), prendendole in mano prima della terza ora (anzi terza), passerei con esse (con le trecce, continuando a tenerle) pomeriggio e sera (vespero e squille). Con anzi terza si indicano circa le nove del mattino; vespro è la penultima ora della giornata; squille sono le campane suonate durante compieta, l’ultima ora, dopo le diciotto. Seguendo le consuetudini liturgiche, il suono delle campane ritmava la giornata dell’uomo medievale. 22 com’orso quando scherza: il senso del paragone è sempre allusivo alla violenza: l’orso, anche quando scherza, rimane pericoloso.
23 se Amor… più di mille: se l’Amore mi sferza con quelle trecce (me ne sferza) io mi vendicherei con più di mille volte tanto (di frustate). 24 Ancor… pace: inoltre la guarderei da vicino (presso) e fissamente (fiso) negli occhi dai quali escono le fiamme che mi incendiano il cuore, che io porto (dentro di me) ucciso (ch’io porto anciso), per vendicare il suo fuggire da me, e solo allora la perdonerei (le renderei pace) e tornerei ad amarla. 25 m’invola… gola: mi sottrae (m’invola) ciò che più desidero, ovvero il suo amore. Ma il termine greve e materiale gola allude a un amore afferente alla sfera dei sensi: “quello che più mi fa gola”. 26 e dàlle per lo cor d’una saetta: e colpiscila con una freccia in mezzo al cuore. È la canzone stessa ora, nel canonico congedo, a farsi strumento della volontà di vendetta del poeta.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 357
Analisi del testo Il rovesciamento della poetica stilnovistica Chi è la donna denominata petra? A quale situazione di vita allude la composizione? Forse rispondere a questi interrogativi non è così importante. La canzone è infatti innanzitutto il frutto di una consapevole operazione letteraria e si iscrive nel costante sperimentalismo poetico di Dante. Dopo aver esaurito i modi della poesia d’amore aulica, dopo aver magistralmente interpretato la lezione di Guinizzelli e Cavalcanti, Dante intende provare le sue capacità di scrittore nell’ambito di uno stile diverso: è significativo che proprio all’inizio della canzone Dante sottolinei la forte intenzionalità che, come autore, lo ispira: Così nel mio parlar voglio esser aspro. Come la critica ha puntualmente messo in luce, gli è maestro questa volta il provenzale Arnaut Daniel, che già aveva attuato in alcune sue composizioni una «carnalizzazione» (Sansone) dell’amore e offerto esempi di uno stile aspro e difficile (➜ C1). Una lezione che Dante estremizza ulteriormente in questa canzone. L’asprezza dello stile, che si concretizzerà in scelte espressive omogenee, è richiesta – secondo il principio cardine della poetica medievale – dalla natura della materia che il poeta si appresta a cantare: la durezza, l’insensibilità della donna verso di lui e, per contro, il suo desiderio di vendicarsi per un amore tutto fisico, una bruciante passione non corrisposta. L’amore per la donna “petra” costituisce il voluto rovesciamento dei canoni stilnovistici: non è un amore sublime, non eleva lo spirito, ma anzi lo trascina in basso, nei cupi gorghi di una passione sensuale, quasi bestiale (v. 81 e, ancor più, v. 58).
Lo stile Lo stile della canzone e le specifiche scelte lessicali, ritmiche e soprattutto foniche sono frutto di una virtuosistica competenza tecnica. Segnaliamo, in particolare: • la netta prevalenza (spesso enfatizzata dalla collocazione in rima delle parole che li contengono) di nessi consonantici aspri, come -TR- (petra, impetra, arretra, squatra, latra ecc.), -RZ- (scorza, forza, ferza, terza ecc.) e altri ancora. • la presenza di rime rare, difficili e di una rima equivoca (ossia latra, ai vv. 58 e 59) in cui il primo termine è un sostantivo, il secondo una voce verbale. • la presenza fittissima di metafore. Lo stile delle “petrose” ritornerà, ulteriormente accentuato, in alcune terzine dell’Inferno. Il poeta, indotto dalla “bassezza” della materia, non arretrerà di fronte a scelte linguistiche estreme, percorrendo senza esitazione la strada di un abbassamento dello stile che ancora oggi non manca di colpirci e sconcertarci. La rappresentazione del «tristo buco», ovvero il fondo dell’inferno, richiede obbligatoriamente – Dante ben lo sa – «rime aspre e chiocce» (If XXXII 1-2) dure, dissonanti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Dopo aver fatto la parafrasi completa del testo, presentane sinteticamente il contenuto. COMPRENSIONE 2. Per quale motivo nel congedo Dante chiede alla canzone di andare dall’amata? ANALISI 3. Perché Dante ha scelto per la donna di cui si parla nel testo il senhal Petra/petra? In quale punto del testo si fa allusione all’occultamento del vero nome della donna? STILE 4. La canzone è caratterizzata da un linguaggio figurato ricchissimo. Individua le numerose metafore, similitudini e personificazioni presenti nel testo e poi rispondi: a quali tematiche riconducono? A quali campi semantici appartengono? Quale rapporto si instaura con il linguaggio dolce e soave degli stilnovisti?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Fai un confronto tra i due ritratti di donna (Petra e Beatrice) che Dante ci consegna e prova a mettere in evidenza: - gli effetti delle donne sul poeta; - i rapporti con la letteratura cortese - la visione dell’amore (sensuale o spirituale); e stilnovista.
358 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
2 Un intellettuale al servizio del suo tempo: il progetto del Convivio I caratteri dell’opera Il titolo e la struttura La dolorosa condizione di exul immeritus, aggravata dall’interruzione dei rapporti con gli altri fuoriusciti bianchi, avrebbe potuto indurre Dante a chiudersi in uno sterile isolamento. Al contrario, il poeta reagisce alla sventura che lo ha colpito con una forte tensione progettuale, con l’assunzione di un ruolo operativo e costruttivo: quello di «inducere… a scienza e virtù» (Convivio, I, IX), di trasmettere parole di verità e moralità attraverso l’allestimento di un “banchetto” di sapere (da qui il titolo dell’opera). Nel trattato, sempre utilizzando il campo metaforico del cibo e del banchetto, le “vivande” saranno le canzoni e il “pane” il commento che le accompagna. Anche il Convivio è dunque un prosimetrum, come la Vita nuova. Lo scrittore si propone di trattare i diversi ambiti del sapere, rendendoli accessibili a quanti non possono soddisfare la naturale inclinazione umana alla conoscenza per ostacoli di diversa natura, ma soprattutto per incombenze civili e politiche. Un progetto interrotto La maggior parte degli studiosi concorda nel collocare la stesura del Convivio tra il 1303-4 e il 1307. Maria Corti propende per uno stacco netto fra il tempo in cui vennero stesi i primi tre trattati (1303-4) e l’ultimo, che la studiosa fa risalire al 1306-1308. Occorre in ogni caso precisare che, come già i testi poetici inseriti nella Vita nuova, anche nel Convivio le tre canzoni sono sicuramente precedenti all’allestimento delle parti in prosa. Come Dante dichiara espressamente nell’introduzione all’opera, il Convivio avrebbe dovuto comprendere quindici libri o trattati, uno introduttivo e gli altri quattordici a commento di altrettante canzoni. L’opera si interrompe però dopo il quarto trattato, rimanendo incompiuta, probabilmente perché le energie del poeta vennero totalmente assorbite dalla composizione della Commedia, iniziata verso il 1307. Un’opera enciclopedica per un nuovo pubblico Il Convivio si iscrive nel genere delle summae medievali: è, cioè, un’opera enciclopedica, che si rivolge però a un pubblico ampio di persone: uomini e donne, dice Dante, nobili d’animo, anche se «non letterati», cioè privi della conoscenza del latino. Proprio per questo Dante decide di utilizzare il volgare anziché il latino, compiendo una scelta fortemente innovativa, volta a sottrarre le chiavi del sapere “alto” al mondo chiuso e autoreferenziale dei litterati (sui quali dà un giudizio molto severo ➜ T12 ) per offrirle al pubblico emergente della società comunale. Una tale opera di divulgazione è veramente necessaria perché, secondo Dante – ed è questa la convinzione su cui si fonda l’opera – la perfezione e la felicità su questa terra sono realizzabili solo attraverso la Filosofia: solo l’esercizio della ragione rende l’uomo partecipe della natura divina. Con questo lavoro di alto profilo Dante sperava anche di riscattare la sua fama, compromessa dall’esilio, proponendosi come intellettuale autorevole sia alle nuove élite della società, sia ai signori delle corti dai quali avrebbe potuto ricevere incarichi diplomatici e protezione.
I contenuti Il primo trattato Dopo l’introduzione, in cui spiega il significato del titolo, lo scopo dell’opera e il pubblico a cui il trattato intende rivolgersi, Dante difende la propria scelta di scrivere in volgare (definito entusiasticamente «luce nuova, sole nuovo» rispetto al latino): la maggior parte dei capitoli del primo libro serve per giustificare questa preferenza innovativa.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 359
La prima parte dell’opera allude anche alle drammatiche circostanze autobiografiche (l’esilio) che spingono il poeta a difendersi dai suoi ingiusti detrattori anche grazie a un’opera caratterizzata da «autoritade» e «gravezza». Il secondo e il terzo trattato I due successivi trattati costituiscono un blocco unico, poiché si articolano intorno a un solo argomento: la lode della Filosofia. Prima di commentare la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (che risale probabilmente al 1293-1294), Dante fa riferimento ai quattro sensi dei testi scritti – letterale, allegorico, morale, anagogico – e distingue fra l’allegoria dei poeti, che è «veritade ascosa sotto bella menzogna», e l’allegoria dei filosofi (➜ T14 OL E ➜ T15 OL). Dopo il commento letterale della canzone, che contiene varie digressioni dottrinarie, Dante parla del suo innamoramento per la «donna gentile», che già nominava nella Vita nuova (capp. XXXV-XXXIX). Nel nuovo contesto, e a distanza di alcuni anni, lo scrittore identifica allegoricamente la donna gentile con la Filosofia: dopo la morte di Beatrice, per trovare consolazione, egli si era dedicato alla lettura di Cicerone e di Boezio e alla frequentazione delle scuole filosofiche del tempo. Una volta “allegorizzato”, il nuovo amore che sottrasse Dante al culto di Beatrice non è più considerato uno sviamento, una crisi della ragione, come nell’operetta giovanile, ma assume un carattere positivo. Nel terzo trattato, che commenta la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, Dante riprende e sviluppa la lode della donna gentile-Filosofia, definita «amoroso uso di sapienza» e della felicità che essa suscita in chi la pratica. Nella canzone Dante utilizza nuovamente le modalità poetiche della «loda», stilnovisticamente costruita sull’immagine della donna-angelo e della donna-miracolo, ma il nuovo contesto in cui la lode è inserita ne modifica di fatto il significato. Il quarto trattato Nell’ultimo trattato, molto più esteso dei precedenti (30 capitoli anziché 15), commentando la canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, Dante affronta un argomento di grande attualità ai suoi tempi: la definizione di che cosa sia la vera nobiltà. Egli confuta attraverso serrate argomentazioni la teoria che la nobiltà dipenda da «antiche ricchezze e belli costumi» (attribuita a Federico II) o che sia legata alla nascita e sostiene invece che essa è una disposizione individuale, frutto di un dono divino, una condizione che può essere sviluppata nell’esercizio pratico delle virtù morali. Si tratta di affermazioni non certo esclusive di Dante (basti pensare a Brunetto Latini e allo stesso Guinizzelli della celebre canzone Al cor gentil), frutto anche di un momento storico che, in particolare a Firenze, aveva messo in discussione l’egemonia della classe nobiliare, aprendo la strada all’ascesa politica della borghesia, forte delle proprie doti intellettuali e del proprio prestigio economico. Nel quarto trattato entra in campo anche il tema politico, con alcune anticipazioni (come la missione provvidenziale dell’Impero) di quanto sarà poi sviluppato nella Monarchia.
La Filosofia presenta a Boezio le Sette Arti Liberali in una miniatura francese (1460-1470 ca., J. Paul Getty Museum, Los Angeles).
360 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Le fonti, i modelli e lo stile Fonti e modelli Data l’impostazione enciclopedica dell’opera, molteplici sono i modelli utilizzati da Dante: da Aristotele a Tommaso d’Aquino e soprattutto Alberto Magno, dalle Sacre Scritture al De consolatione philosophiae di Boezio e alle Confessioni di Agostino; testi, questi ultimi, già conosciuti da Dante negli anni della Vita nuova. Il Convivio fonda la prosa filosofica in volgare Nel Convivio, Dante non solo difende la possibilità del volgare di trattare, con la stessa dignità del latino, argomenti elevati, ma sperimenta egli stesso queste potenzialità della nuova lingua, facendosi divulgatore, presso un nuovo pubblico, di alti concetti filosofici. All’andamento essenzialmente lirico dell’opera giovanile, si sostituisce nel Convivio un periodare ampio, uno stile argomentativo ed espositivo, adatto a trattare i grandi temi della cultura filosofica del tempo. La prosa del Convivio, ispirata al periodare del latino classico, è caratterizzata da una sintassi complessa, ricca di subordinate, ma al contempo chiara e vigorosa. Frequente, in particolare nel quarto trattato, è l’impiego di procedimenti tipici della filosofia scolastica, come i sillogismi, la discussione di ipotetiche obiezioni e, in generale, l’andamento dimostrativo. Dante utilizza però abbondantemente anche metafore e similitudini, attraverso le quali conferisce immediata evidenza e vigore rappresentativo ai concetti esposti. Giustamente, dunque, è stato affermato che Dante con il Convivio fonda la prosa filosofica in volgare (Segre).
Convivio FORMA
prosimetro
DATAZIONE
1303-1307 ca.
STRUTTURA
il progetto prevedeva 14 trattati + 1 di introduzione a commento di altrettante canzoni; Dante ne ha scritti solo 4
LINGUA
volgare
GENERE
si colloca tra le summae medievali
TEMI
sintesi del pensiero filosofico del tempo
SCOPO
rendere accessibili alcuni ambiti del sapere
DESTINATARI
pubblico di uomini e donne, nobili d’animo, privi della conoscenza del latino
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 361
Dante Alighieri
T12
L’obiettivo e i destinatari dell’opera Convivio I, I
D. Alighieri, Convivio, a c. di F. Brambilla Ageno, Le Lettere, Firenze 1995
ANALISI INTERATTIVA
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Cittadinanza digitale competenza 10
Il primo capitolo del Convivio ne costituisce la necessaria introduzione. Dante motiva infatti in modo molto chiaro le ragioni che ispirano il progetto culturale dell’opera: se è vero che in tutti gli uomini si fa sentire il desiderio di conoscere, è altrettanto vero che la maggior parte delle persone è esclusa da essa per vari impedimenti (e, in particolare, per incombenze familiari e civili). Lo scrittore si propone quindi di imbandire un “banchetto” del sapere, facendosi mediatore fra i dotti e chi non ha potuto godere della cultura “alta”.
Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia1, tutti li uomini naturalmente2 desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propia perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale 5 sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti3. Veramente4 da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all’uomo e di fuori da esso lui rimovono dall’abito di scienza5. Dentro dall’uomo possono essere due difetti6 e impedi[men]ti: l’uno dalla parte del corpo, l’altro dalla parte de l’anima. Dalla parte del corpo è quando le parti sono indebita10 mente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili7. Dalla parte dell’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile8. Di fuori dall’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una delle quali 15 è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia9. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non possono10. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano11.
1 Sì come dice… Prima Filosofia: il Convivio si apre nel nome autorevole di Aristotele, lo Filosofo per antonomasia, massima auctoritas della materia nel Medioevo: Dante lo definisce in If IV, 131 «’l maestro di color che sanno». Con Prima Filosofia si riferisce ai trattati della Metafisica. 2 naturalmente: per natura. 3 La ragione di che… subietti: la ragione di questo può essere ed è che ciascuna creatura (cosa), spinta dalla legge provvidenziale della natura universale (da providenza di prima natura impinta) tende (è inclinabile) a realizzare la propria perfezione; per cui (onde) dato che la conoscenza (scienza) è la somma (ultima) perfezione della nostra anima, nella quale risiede la nostra massima felicità, tutti siamo soggetti (semo subietti) al desiderio di essa (cioè della conoscenza). 4 Veramente: ma, però (dal latino verum). Ha valore avversativo.
5 lui rimovono dall’abito di scienza: lo allontanano (rimovono è un latinismo, da removere) dalla conquista della scienza. Il soggetto è diverse cagioni, ovvero i vari motivi, interni all’uomo ed esterni, che lo scrittore analizzerà subito dopo. 6 difetti: mancanze. 7 Dalla parte del corpo… loro simili: gli impedimenti fisici (dalla parte del corpo), spiega Dante, si verificano, come nel caso dei muti e dei sordi, quando le parti del corpo sono mal disposte, così che il corpo non può ricevere né dare alcun messaggio. 8 Dalla parte de l’anima… tiene a vile: per quanto riguarda l’anima (il difetto) è quando prevale la disposizione al male, così che (l’anima) inizia a perseguire piaceri viziosi (viziose delettazioni), dai quali è talmente ingannata che per quelli disprezza (tiene a vile) ogni cosa.
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9 Di fuori… pigrizia: delle due ragioni esterne all’uomo, l’una induce una situazione di necessità, l’altra comporta pigrizia, disinteresse. 10 La prima… non possono: la prima consiste negli obblighi (cura) della vita familiare e civile, che impegnano giustamente (convenevolemente) la maggior parte degli uomini, così che non possono dedicarsi all’attività intellettuale (ozio di speculazione). Ozio è un latinismo: l’otium per i romani era l’assenza di un’occupazione (che si diceva negotium), la quale consentiva appunto di poter dedicarsi agli studi. 11 L’altra… lontano: l’altra (ragione) consiste nei limiti del luogo dove si vive, che talora (tal ora) sarà privo di occasioni culturali (ogni studio) e lontano da chi si dedica al sapere (gente studiosa).
Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte [di dentro e la prima dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione12. Manifestamente13 adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all’abito da tutti desiderato possano pervenire14, e innumerabili quasi sono 25 li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati15. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo16! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono 30 cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire mangiando17. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata18. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito 35 della pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi19. Per che20 40 ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio21 di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata22. [...] 20
12 Le due… abominazione: il primo impedimento relativo all’interno dell’uomo (ovvero le malformazioni fisiche) e il primo relativo all’esterno dell’uomo (ovvero le cure familiari e civili) non sono da biasimare, ma si devono scusare e sono meritevoli di perdono; gli altri due (ovvero l’inclinazione al male e i limiti del luogo che possono impigrire) sono degni di riprovazione, anche se l’uno più dell’altro (ovvero l’inclinazione al male, che più di tutto, secondo Dante, ostacola il cammino della conoscenza). 13 Manifestamente: chiaramente. 14 pochi… possano pervenire: rimangono in pochi quelli che possano pervenire alla consuetudine degli studi. Letteralmente: “all’abito da tutti desiderato”, cioè alla conquista del sapere, di cui si è parlato all’inizio. 15 e innumerabili… affamati: la maggioranza delle persone vive priva di questo cibo, cioè del sapere. È qui introdotta la metafora del cibo che dominerà i paragrafi successivi (e che ispira il titolo dell’opera). 16 Oh beati… comune cibo!: Dante distingue le persone che condividono il cibo (hanno comune cibo) degli animali (fuor di metafora: coloro che non si elevano alla conoscenza) dai pochi fortunati (quelli pochi) che si cibano (manucare, “mangia-
re”) della scienza filosofica e teologica (lo pane delli angeli, con espressione biblica). 17 Ma però che… mangiando!: Ma, dato che per natura ogni uomo è amico all’altro uomo e ciascun amico si addolora di ciò che manca (difetto) a chi ama, coloro che si cibano a una mensa così alta (cioè i pochi privilegiati di cui si è parlato prima) provano compassione (misericordia) per quelli che vedono andarsene (se[n] gire) cibandosi di erba e ghiande in un pascolo per animali (bestiale pastura), cioè vivendo nell’ignoranza. Dante continua a usare la metafora del cibo nel suo argomentare. 18 E acciò che… è nominata: Dante sostiene che la misericordia necessariamente ispira opere di generosità (è madre di beneficio); di conseguenza le persone che possiedono la sapienza la offrono a chi non la possiede (alli veri poveri) e rappresentano quasi una fonte viva che può dissetare (refrigera) la sete naturale, il desiderio di sapere, insito nell’uomo, di cui si è parlato prima. 19 E io adunque… vogliosi: entra in scena l’autore che ora si autorappresenta, definendo (non senza modestia) il proprio ruolo di intellettuale, e che presenta la propria opera, le finalità che si propone, e anche il pubblico a cui si rivolge. Lo scrittore non si colloca tra i sapienti (che siedono alla beata mensa), ma si raffigura
come colui che, allontanatosi dalla massa ignorante (fuggito della pastura del vulgo), raccoglie ciò che cade dalla mensa, ne gusta la dolcezza e, spinto appunto dalla misericordia, memore della propria condizione (non me dimenticando), pensa di renderne partecipi i miseri (cioè chi è privo di sapere) e ha riservato per essi qualcosa, che ha fatto conoscere da tempo, accendendo il loro desiderio di sapere (e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi): Dante si riferisce ad alcune canzoni dottrinali che intende commentare nel Convivio e che in parte erano divulgate già prima, appunto, del progetto dell’opera. 20 Per che: Per cui. 21 un generale convivio: un banchetto di sapienza per tutti. 22 di ciò… esser mangiata: Dante intende offrire nel banchetto come vivanda le canzoni dottrinali, appunto (ciò ch’i’ ho loro mostrato), e accompagnarle con del pane (il commento alle canzoni stesse) che è necessario (ch’è mestiere) a una vivanda di quel tipo, senza il quale non potrebbe essere mangiata da quelle persone. Fuor di metafora: il commento è necessario perché i non specialisti in materia possano comprendere il contenuto delle canzoni.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 363
E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore de’ vizii, perché lo stomaco suo 45 è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe23. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti s’assetti24; e alli loro piedi si pongono tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere25: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e gustare e patire26. [...] [Nella parte conclusiva del capitolo Dante spiega che il Convivio sarà composto da 14 canzoni che, se prive del commento, sarebbero rimaste in parte oscure e apprezzate esclusivamente per i loro pregi artistici (e non per il loro profondo significato). Allude quindi al diverso carattere del Convivio rispetto alla Vita nuova: fervida e passionata quest’ultima, proprio perché libro della giovinezza; temperata e virile la nuova opera, come si conviene a uno scritto che non appartiene più all’età giovanile. Infine lo scrittore enuncia la volontà di spiegare le canzoni per allegorica esposizione, cioè attribuendo alla lettera del testo un significato allegorico, che corrisponde alla vera intenzione del poeta nel comporre quei testi.] 23 però ad esso… non terrebbe: perciò non si sieda (assetti) ad esso chi ha carenze fisiche (alcuno... disposto) perché non sarebbe in grado di gustare il cibo offerto (però che né denti, né lingua ha né palato) ma neppure i malvagi (alcuno assettatore de’ vizii) perché il loro stomaco è pieno di umori velenosi che impedirebbero di trattenere (non terrebbe) nel loro stomaco ogni cibo. Dante dunque, sempre attraverso un linguaggio metaforico, fissa limiti precisi perché si possa
accedere al suo banchetto, richiamandosi agli impedimenti fisici e spirituali di cui ha parlato nella prima parte del trattato; assettatore, cioè “seguace”, è un latinismo da asseditare. 24 Ma vegna qua… s’assetti: ma venga qui chiunque sia rimasto nella naturale fame (del sapere) a causa di impegni familiari o civili e si sieda (s’assetti) alla stessa mensa con gli altri che hanno avuto gli stessi impedimenti (colli altri simili impediti).
25 e alli loro piedi… sedere: nella sua ideale rappresentazione del convivio, Dante pone a un gradino più basso (immagina infatti che stiano ai piedi dei convitati prima nominati) coloro che sono stati lontani dalla conoscenza a causa della pigrizia, perché non sono degni di stare seduti a mensa alla pari con gli altri. 26 prendano... patire: prendano la mia vivanda insieme al pane (cioè il commento), che la farà loro gustare e digerire (patire).
Analisi del testo Un’opera di alta divulgazione per un nuovo pubblico Il Convivio si apre nel nome del filosofo greco Aristotele, massima auctoritas filosofica nel Medioevo. Del filosofo Dante fa sua, prospettandola come un assioma, l’asserzione della congenita aspirazione dell’essere umano alla conoscenza, in cui risiede la sua perfezione. Su questa autorevole premessa si regge a ben vedere l’intero progetto del Convivio: se questa è la natura dell’uomo, è doveroso che chi è in grado di farlo si adoperi per rimuovere ogni ostacolo che impedisca la conquista del sapere a cui ognuno tende. In realtà è facile constatare che solo pochi riescono, a causa di vari impedimenti, ad accedere al sapere. Di fatto Dante si pone al servizio di coloro che sono occupati nelle incombenze familiari e soprattutto civili, e con acuta lungimiranza intercetta la necessità di acculturazione dei nuovi ceti dirigenti della società comunale, tenuti lontani dall’alta cultura anche dall’ignoranza del latino. L’immagine metaforica con cui il poeta si ritrae (non è uno dei sapienti, ma raccoglie le briciole del loro sapere e le dispensa a chi ne ha bisogno) identifica il ruolo di divulgatore che lo scrittore si attribuisce e che comporta, di conseguenza, la scelta rivoluzionaria della lingua volgare in un trattato filosofico. Un compito arduo e prestigioso quello che Dante si assume, nella speranza di recuperare innanzitutto, presso i suoi concittadini, la propria fama umiliata dalla condanna.
La tecnica argomentativa Il testo di Dante è strutturato secondo lo schema espositivo proprio della filosofia scolastica, che comportava la proposta di un principio generale e la verifica o discussione di esso attraverso successive distinzioni. Molto forte è l’asserzione iniziale tutti li uomini naturalmente
364 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
desiderano di sapere, presentata come principio indiscutibile (soprattutto perché sostenuta dall’autorità di Aristotele). Segue un procedimento di tipo sillogistico: a) ogni cosa tende alla perfezione; b) la massima perfezione dell’anima consiste nella scienza; c) dunque tutti per natura desideriamo il sapere (di fatto ribadendo il principio generale enunciato all’inizio). Si enunciano poi le ragioni che privano non poche persone della possibilità di accedere al sapere attraverso l’uso di una struttura bipartita, che distingue innanzitutto cause interne ed esterne, a cui segue una ulteriore differenziazione. Il procedere, sempre rigorosamente logico, dell’argomentazione, trova uno snodo fondamentale nella constatazione che ciascun uomo a ciascun uomo naturalmente è amico, quindi nell’idea che la solidarietà sia naturale tra chi possiede qualcosa (in questo caso il sapere) e chi ne è privo: sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri. Da questo principio, posto anch’esso come indiscutibile, deriva, secondo la rigorosa logica argomentativa che struttura il capitolo, la scelta stessa del Convivio di dispensare il sapere di cui Dante dispone (per quanto esso possa essere limitato) a chi ne è privo e merita di riceverlo: Dante esclude per definizione chi è assettatore de’ vizii, cioè chi persegue una vita viziosa.
Il ruolo delle metafore Oltre alla rigorosa argomentazione, caratterizza il passo l’uso di immagini metaforiche, che sono al servizio delle tesi sostenute dall’autore. Come è stato osservato, le metafore contribuiscono a chiarire i concetti, riportando il discorso teorico a una dimensione concreta, familiare al lettore non specialista a cui Dante intende rivolgersi con la propria opera. Nel passo le metafore afferiscono per lo più al campo semantico del banchetto e del cibo, che dà il titolo all’opera. Ad es. mensa, pane (delli angeli), si manuca, pane, vivanda in contrapposizione a bestiale pastura.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Il capitolo del Convivio si apre con una “dichiarazione di intenti” da parte di Dante: quale? 3. Quale tra gli impedimenti indicati è per Dante superabile e non implica un giudizio limitativo da parte dello scrittore? ANALISI 4. Il capitolo si apre con un’affermazione generale, quale? Da quale autorità è sostenuta? 5. Schematizza la solida struttura argomentativa del testo completando questa tabella. A Enunciazione del principio generale ������������������������������������������������������������������������� �������������������������������������������������������������������������
Spiegazione attraverso il sillogismo premessa maggiore: ��������������������������������������������������������������������������������� ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������
premessa minore: ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� conclusione: ��������������������������������������������� B Cause che impediscono di raggiungere il sapere
C Metafora del banchetto della sapienza
Spiegazione attraverso un procedimento bipartito intrinseche: dentro da l’uomo 1 �������������������������������������������������������� 2 ��������������������������������������������������������
estrinseche: di fuori da l’uomo 1 �������������������������������������������������������� 2 ��������������������������������������������������������
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D Ruolo di Dante intellettuale presentazione dell’opera finalità pubblico
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La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 365
STILe 6. Spiega il significato delle seguenti metafore, identificando a che cosa o a chi si riferiscono: a. pane delli angeli ........................................................................................................................................................................ b. quelli pochi che seggiono a quella mensa ................................................................................................................... c. quelli che con le pecore hanno comune cibo .............................................................................................................. d. un generale convivio ................................................................................................................................................................ e. quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda ......................................................................................................... ..............................................................................................................................................................................................................
Interpretare
ScrITTurA 7. L’operazione compiuta da Dante nel Convivio è quella di divulgare un sapere destinato tradizionalmente agli “addetti ai lavori” a un pubblico diverso, con mezzi e linguaggio adatti all’obiettivo. Immagina un progetto di questo genere oggi. Quali campi conoscitivi ti sembrano necessitare di un’opera di divulgazione? Per quale pubblico? Con quali mezzi? Elabora un testo argomentativo su questo tema.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Cittadinanza digitale
competenza 10
Dante Alighieri
T13
Perché è giusto impiegare il volgare
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Convivio I, IX, 2-5 D. Alighieri, Convivio, a c. di F. Brambilla Ageno, Le Lettere, Firenze 1995
Alla riflessione teorica sulla dignità e sulle caratteristiche del volgare “illustre” affrontata nel De vulgari eloquentia, Dante affianca nel Convivio, pressoché nello stesso periodo, l’effettiva fondazione della prosa volgare, in un’opera che si propone la divulgazione del sapere filosofico a un pubblico di non specialisti. La consapevolezza che si trattasse di una difficile sfida anima questo testo di toni polemici nei confronti della condotta dei letterati, chiusi in un’arrogante difesa di un sapere dal quale ricavano prestigio sociale ed economico, tenendone volutamente lontani coloro che non conoscono più il latino.
Non avrebbe lo latino così servito a molti1: ché se noi reducemo a memoria quello che di sopra è ragionato2, li litterati fuori di lingua italica non averebbon potuto avere questo servigio3, e quelli di questa lingua, se noi volemo4 bene vedere chi sono, troveremo che de’ mille l’uno ragionevolmente non sarebbe stato servito5; 5 però che non l’averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da ogni nobilitade d’animo li rimuove6, la quale massimamente desidera questo cibo7. E a vituperio8 di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso9, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate10; sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per 10 prestarla per prezzo11, e non per usarla per sonare. Tornando dunque al princi-
1 Non avrebbe… molti: il latino non sarebbe stato utile a molti. Dante spiega di aver scritto in italiano e non in latino il commento alle canzoni del Convivio perché fosse inteso da un maggior numero di persone. 2 ché se noi… ragionato: perché se noi ricordiamo ciò che prima è stato detto. 3 li litterati… servigio: le persone colte [che quindi conoscono il latino e] che non sanno l’italiano, non avrebbero potuto avvantaggiarsene: perché avrebbe-
ro compreso il commento in latino, ma non le canzoni in volgare italiano. 4 volemo: vogliamo. 5 de’ mille l’uno… servito: neppure uno su mille se ne sarebbe avvantaggiato. 6 però che… li rimuove: perché non avrebbero potuto recepire il “servizio” che Dante propone, a causa dell’avidità (avarizia) che li tiene lontani (rimuove) da ogni nobiltà d’animo. 7 cibo: in senso metaforico è la sapienza. 8 a vituperio: a vergogna.
366 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri
9 non si deono… uso: non si devono chiamare persone colte (ossia intellettuali) poiché non acquistano la cultura per renderla utile. In tutta l’opera è fondamentale l’idea dell’utilità, dell’insegnamento che la cultura può e deve offrire ai singoli e alla collettività. 10 dignitate: cariche onorifiche. Dante critica quelli che usano il sapere per arricchirsi o per guadagnare onori. 11 non si dee… per prezzo: non si deve chiamare suonatore di cetra chi tiene la cetra in casa per noleggiarla.
pale proposito12, dico che manifestamente si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. Ché la bontà dell’animo, la quale questo servigio attende13, è14 in coloro che per malvagia disusanza15 del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice16; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt’altra no20 bile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati17. 15
12 principale proposito: tema principale. 13 la quale… attende: che necessita di
15 malvagia disusanza: cattivi costumi. 16 l’hanno fatta… meretrice: l’hanno trat-
questo servizio.
tata come una prostituta. Questo perché hanno ricercato, attraverso di essa, ricchezze e onori.
14 è: si trova.
17 in questa… litterati: che conoscono solo il volgare italiano, ma non il latino.
Analisi del testo Verso un nuovo pubblico Dante identifica con sicurezza, non senza note polemiche, il pubblico nuovo a cui intende rivolgere la sua opera di divulgazione, il “banchetto di sapere” cui allude la scelta del titolo dell’opera, Convivio. La missione culturale che si propone passa necessariamente attraverso la scelta del volgare, che ha motivazioni insieme sociali e morali. Ci sono persone nobili d’animo, e in numero ampio, anche e soprattutto tra coloro che la non conoscenza del latino escluderebbe dalla cultura, e Dante precisa che sono sia uomini sia donne. Per contro, la sua opera non intende rivolgersi – perché non sarebbe compresa – ai litterati italiani (letteralmente “coloro che conoscono la littera”, cioè il latino), dei quali traccia un profilo fortemente negativo, dipingendoli come persone avide, che prostituiscono la cultura per interesse personale. Al contrario Dante si propone una missione nella società del suo tempo, valorizzando l’immagine di un nuovo intellettuale disinteressatamente posto al servizio degli altri.
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSIone 1. A chi si rivolge Dante con la propria opera? AnALISI 2. Quali sono le critiche rivolte da Dante agli intellettuali italiani? Qual è l’idea dell’intellettuale e della missione a lui affidata che emerge nel passo proposto?
Interpretare
ScrITTurA ArGoMenTATIVA 3. Perché Dante intende rivolgersi non agli intellettuali italiani, ma a un pubblico nuovo? Argomenta in un breve testo orale (max 2 minuti). ScrITTurA
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
4. A quale fine, secondo Dante, deve tendere la cultura? Si rivolge solo agli uomini? Rintraccia nel testo le espressioni che possano giustificare la tua risposta e trascrivile.
online T14 Dante Alighieri Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete Convivio II, II, canzone I T15 Dante Alighieri Significato letterale e “sovrasensi” Convivio II, IX, 1-19; 11; 15 T16 Dante Alighieri L’enigma della donna gentile - Filosofia Convivio II, XII, 1-8
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 367
3 Dante teorico della lingua volgare: il De vulgari eloquentia Una monografia sul volgare scritta in latino: una scelta paradossale? Nel primo trattato del Convivio (I, v, 10) Dante preannuncia l’intenzione di scrivere «uno libello [...] di Volgare Eloquenza»: da qui il titolo comunemente attribuito all’opera, a cui lo scrittore si dedicò probabilmente fra il 1303 e il 1305 e la cui finalità era quella di illustrare la dignità e le potenzialità letterarie della lingua volgare. Presumibilmente la scelta innovativa che Dante compie nel Convivio – cioè l’uso della lingua volgare per un trattato filosofico – stimola nello scrittore la necessità di una riflessione teorica sulla natura, le caratteristiche e i pregi del volgare. La lingua che Dante utilizza per questo scopo è però il latino. Una scelta che a prima vista potrebbe sembrare paradossale, ma che invece è spiegabile: il De vulgari eloquentia non è rivolto a un vasto pubblico come il Convivio, ma è programmaticamente destinato a un pubblico specialistico di “addetti ai lavori”, uomini di cultura che l’autore vuole convincere della piena legittimità di scegliere il volgare per scrivere e ai quali Dante si rivolge nel ruolo di autorevole maestro. Un altro progetto interrotto L’ambizioso progetto concepito in origine, che prevedeva quattro libri, non fu portato a termine: l’opera è interrotta al capitolo 14 del secondo libro, nel punto in cui l’autore analizza la forma della canzone. Da alcuni passi sappiamo che avrebbero dovuto seguire altri due libri: nulla si può dire del contenuto del terzo, mentre il quarto avrebbe dovuto trattare lo stile comico e il volgare «mediocre» ad esso relativo. Come per il Convivio, anche per il De vulgari eloquentia si può ipotizzare che l’interruzione dell’opera sia stata determinata dalla sovrapposizione del progetto della Commedia, destinato inevitabilmente ad assorbire ogni energia intellettuale e creativa dell’autore. Una (favolosa) storia della lingua L’opera si apre con l’affermazione che il volgare è la lingua “naturale”, in quanto appreso fin dall’infanzia in modo spontaneo; perciò (contrariamente a quanto affermato nel primo trattato del Convivio) è più nobile del latino, che Dante immaginava fosse una lingua “artificiale”, stabile nel tempo proprio perché non parlata ma solo appresa attraverso lo studio. Secondo Dante (che segue il racconto biblico della Genesi 11, 1-9) la lingua, dono di Dio all’uomo, era originariamente unica ma, in seguito all’atto di superbia che indusse gli uomini a costruire la torre di Babele per innalzarsi al cielo, Dio volle punirli mediante la loro divisione e confusione. L’idioma unitario delle origini si divise dunque in molteplici lingue. L’interesse di Dante si rivolge in particolare all’idioma dell’Europa sud-occidentale, tripartito (ma con elementi linguistici comuni) in lingua d’oc (parlata fra il Sud della Francia e la Catalogna), lingua d’oïl (nella Francia settentrionale) e lingua del sì (parlata dai Latini, o Ytali, appunto nelle diverse zone dell’Italia). Le tre aree linguistiche sono designate dall’avverbio di affermazione: oc, oïl, sì. Nell’invettiva contro la città di Pisa (If XXXIII 80), colpevole dell’orribile fine di Ugolino e dei suoi cari, Dante allude all’Italia con l’espressione «bel paese là dove ’l sì suona», divenuta poi proverbiale. Alla ricerca del volgare illustre Sia la lingua d’oc sia quella d’oil hanno prodotto grandi opere, ma la più nobile è per Dante quella del sì, in quanto più vicina al latino. Dante esamina quindi le varianti locali del volgare italiano, chiedendosi quale di esse possa assurgere a modello di volgare «illustre» (ideale lingua unitaria della penisola, che dovrebbe essere al di sopra dei regionalismi e, ancor più, dei municipalismi).
368 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Egli ne individua quattordici varianti locali, ma a suo giudizio nessuna (neppure il toscano e il fiorentino) può aspirare al titolo di volgare «illustre», pur possedendo ciascuna di esse alcune tracce della lingua ideale. La ricerca del volgare illustre è metaforicamente rappresentata da Dante come una caccia e la lingua di cui egli va alla ricerca è assimilata alla pantera della quale, secondo la tradizione dei bestiari medievali, si avverte il profumo ma che non si lascia né trovare né catturare. La rassegna dei volgari italiani compiuta da Dante è la prima analisi di questo genere nella cultura del paese e dimostra la presenza, nello scrittore fiorentino, di una particolare sensibilità al problema linguistico e di una non comune competenza critica in questo ambito. Una lingua per una nazione che non c’è Ma quali sono secondo Dante le prerogative del volgare? Deve essere illustre, cioè di alto livello stilistico; cardinale, cioè il cardine attorno a cui ruotano gli altri volgari municipali; regale o aulico, degno di una reggia (in latino aula): se in Italia ce ne fosse una, sarebbe parlato lì; curiale, ovvero dotato di quella qualità (la curialità, consistente nell’equilibrata norma nell’agire politico-civile) che si trova nelle curie superiori. Dalle ultime due prerogative che Dante assegna al volgare ideale-illustre, si comprende che la riflessione sulla lingua si intreccia inevitabilmente, nel suo pensiero, con il problema politico: egli è ben consapevole della mancanza, in Italia, di un organismo politico capace di assicurare l’unità della penisola e di conseguenza l’unità linguistica. Afferma allora un principio fondamentale: in mancanza di un’autorità politica, di un sovrano, è ai letterati (e in particolare ai poeti) che spetta il compito di fornire un modello linguistico esemplare, supplendo alle carenze istituzionali. La poesia italiana, in particolare nelle forme dello stile tragico, è per Dante in grado di gareggiare con le altre tradizioni dell’area romanza e di assumere il compito di “guida” linguistica per l’area italiana. La prima “storia della letteratura italiana” Nel secondo libro, sulla base delle premesse appena enunciate, Dante analizza puntualmente modelli stilistici e contenuti della poesia “alta”, partendo dal più generale presupposto che la poesia sia superiore alla prosa. L’analisi letteraria di Dante costituisce la prima organica trattazione della letteratura duecentesca e fonda il canone dei modelli più autorevoli, tra i quali lo scrittore pone anche sé stesso e con un ruolo non certo marginale. Come è stato osservato, l’idea della letteratura delle origini tuttora corrente si deve proprio all’autorevolezza del giudizio dantesco (Mengaldo): ad esempio, l’esistenza stessa di una “scuola siciliana”, aggregatasi attorno alle corti di Federico II e Manfredi, come pure la sostanziale continuità (poi smentita dalla Commedia) tra siciliani e stilnovisti,
Caratteri del volgare ILLUSTRE
dotato di alto livello stilistico
CARDINALE
lingua guida e riferimento dei volgari municipali
AULICO
degno di essere parlato in una reggia, se in Italia ce ne fosse una
CURIALE
dotato dell’equilibrata norma dell’agire politico-civile
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 369
e soprattutto l’importanza indiscutibile di questi ultimi nel panorama letterario italiano, i più grandi tra i quali sono Cavalcanti, Cino da Pistoia e lo stesso Dante. Secondo una concezione prettamente gerarchica dei contenuti e dei corrispondenti stili poetici, il volgare illustre, secondo Dante, deve essere impiegato per trattare argomenti nobili (quelli che egli definisce i «magnalia», dal latino magnus, “grande”): il valore nelle armi, la passione amorosa e la retta volontà. Stabiliti gli argomenti degni del volgare illustre, l’autore passa in rassegna le forme metriche: la più alta è la canzone, adatta allo stile tragico; alla commedia si addice invece un volgare «humile» e «mediocre», mentre all’elegia solo il volgare «humile». Il trattato si interrompe dopo la rassegna dei caratteri retorici della canzone, condotta attraverso numerosi esempi dalla letteratura provenzale e italiana. Oltre il “volgare illustre” La concezione della lingua che Dante espone nel trattato è senza dubbio selettiva, aristocratica: essa riflette l’idioma concretamente esperito da Dante nella prosa della Vita nuova e/o nelle canzoni dottrinali del Convivio, ma è invece ben lontana dalla prassi linguistica della Commedia. All’universo multiforme del poema il volgare “illustre” celebrato nel trattato non poteva che andare stretto. Senza esitazioni il poeta supera il teorico e accoglie nel repertorio linguistico della Commedia persino quei termini rozzi e municipali che il trattato espressamente condanna.
PER APPROFONDIRE
De vulgari eloquentia DATAZIONE
1303-1305 ca.
STRUTTURA
il progetto prevedeva 4 libri ma si interrompe al XIV capitolo del secondo libro
LINGUA
latino
GENERE
trattato di retorica
TEMI
la difesa del volgare
SCOPO
convincere i dotti a utilizzare il volgare
DESTINATARI
pubblico di letterati
La questione della lingua Si può dire che Dante inauguri il dibattito sulla lingua scritta (la cosiddetta “questione della lingua”) che, ripresa in modo più o meno accentuato e polemico a seconda dei periodi storici e del dibattito ideologico delle varie epoche, attraversa l’intero corso della letteratura italiana. In estrema sintesi, segnaliamo i momenti particolarmente importanti di essa nel corso del tempo: • nel Quattrocento gli scrittori tornarono a usare prevalentemente il latino come lingua scritta; • nel primo Cinquecento Pietro Bembo, prevalendo su altre tesi, sancì lo scollamento fra lingua parlata e lingua scritta e, all’interno di quest’ultima, impose l’osservanza dei mo-
370 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
delli linguistici più autorevoli (per la poesia Petrarca e per la prosa Boccaccio); • nel Settecento la rivista illuminista Il Caffè tentò di svecchiare la lingua immobile della cultura italiana, battendosi per «una lingua di cose», aperta alle suggestioni anche straniere (in particolare il francese); • nell’Ottocento Alessandro Manzoni, col suo best seller, offrì un modello per una lingua antiaccademica, vicina all’uso (seppur colto) ma al contempo con il successo dei Promessi sposi consacrò ulteriormente il prestigio del fiorentino, battendosi per farne realmente la lingua nazionale, da insegnarsi in tutte le scuole d’Italia.
Dante Alighieri
T17
Caratteristiche del volgare illustre De vulgari eloquentia I, XVI-XVIII
D. Alighieri, Opere minori, II, a c. di P.V. Mengaldo Ricciardi, MilanoNapoli 1979
Presentiamo, dal primo libro del De vulgari eloquentia, i capitoli XVI-XVIII, in cui Dante indica le prerogative del volgare nobile e unitario che sta ricercando.
XVI. [...] definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, regale e curiale quello che è di ogni città italiana e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati1. XVII. A questo punto occorre esporre con ordine le ragioni per cui chiamiamo con 5 gli attributi di illustre, cardinale, regale e curiale questo volgare che abbiamo trovato: procedimento attraverso il quale ne faremo risaltare in modo più limpido l’intrinseca essenza. E in primo luogo dunque mettiamo in chiaro cosa vogliamo significare con l’attributo di illustre e perché definiamo quel volgare come illustre. Invero, quando usiamo il termine “illustre” intendiamo qualcosa che diffonde luce e che, investito 10 dalla luce, risplende chiaro su tutto: ed è a questa stregua che chiamiamo certi uomini illustri, o perché illuminati dal potere diffondono sugli altri una luce di giustizia e carità, o perché, depositari di un alto magistero, sanno altamente ammaestrare: come Seneca e Numa Pompilio2. Ora il volgare di cui stiamo parlando è investito da un magistero e da un potere che lo sollevano in alto, e solleva in alto i suoi con 15 l’onore e la gloria. Che possieda un magistero che lo inalza è manifesto, dato che lo vediamo, cavato fuori com’è da tanti vocaboli rozzi che usano gli Italiani, da tante costruzioni intricate, da tante desinenze erronee, da tanti accenti campagnoli3, emergere così nobile, così limpido, così perfetto e così urbano come mostrano Cino Pistoiese e l’amico 20 suo4 nelle loro canzoni. [...] XVIII. E non è senza ragione che fregiamo questo volgare illustre del secondo attributo, per cui cioè si chiama cardinale. Come infatti la porta intera va dietro al cardine, in modo da volgersi anch’essa nel senso in cui il cardine si volge, sia che si pieghi verso l’interno sia che si apra verso l’esterno, così l’intero gregge dei volgari 25 municipali si volge e rivolge, si muove e s’arresta secondo gli ordini di questo, che si mostra un vero e proprio capofamiglia5. Non strappa egli ogni giorno i cespugli spinosi dalla selva italica? Non innesta ogni giorno germogli e trapianta pianticelle? A che altro sono intenti i suoi giardinieri se non a togliere e a inserire, come si è detto? Per cui merita pienamente di fregiarsi di un epiteto così nobile.
1 definiamo… comparati: nella parte conclusiva del capitolo XVI Dante definisce il carattere di modello ideale della lingua italiana a cui pensa: esso funge da parametro su cui giudicare i singoli volgari locali. 2 Seneca e Numa Pompilio: Dante associa due figure appartenenti alla civiltà latina, ma molto distanti nel tempo: Numa Pompilio è uno dei mitici re di Roma, noto come saggio legislatore, mentre Seneca è il filosofo stoico (I sec. d.C.) che per alcuni anni fu consigliere di Nerone
e poi vittima della crudele repressione dell’imperatore. 3 vocaboli rozzi... campagnoli: Dante si riferisce alle espressioni dialettali che ha esaminato nei capitoli precedenti per dimostrare che nessuno dei volgari d’Italia può essere identificato nel volgare illustre che sta definendo. 4 Cino Pistoiese e l’amico suo: come modelli della lingua nobile di cui Dante sta trattando vengono scelti due poeti dello stilnovo: Cino da Pistoia e Dante stesso (l’amico suo).
5 capofamiglia: per rappresentare il ruolo regolatore e modellizzante del volgare illustre sulle lingue locali, Dante usa l’immagine molto efficace di un capofamiglia che dà ordini precisi e opera lui stesso perché il suo podere sia ordinato e ben coltivato; il paragone è sottolineato anche dalle metafore seguenti, in cui i giardinieri sono gli autori impegnati nell’attuazione di questo modello.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 371
Quanto poi al nome di regale che gli attribuiamo, il motivo è questo, che se noi Italiani avessimo una reggia, esso prenderebbe posto in quel palazzo. Perché se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le sue parti, qualunque cosa è tale da esser comune a tutti senza appartenere in proprio a nessuno, deve necessariamente abitare nella reggia e praticarla, e non vi è altra dimora degna di 35 un così nobile inquilino: tale veramente appare il volgare del quale parliamo. Di qui deriva che tutti coloro che frequentano le reggie parlano sempre il volgare illustre; e ne deriva anche che il nostro volgare illustre se ne va pellegrino come uno straniero e trova ospitalità in umili asili, dato che noi siamo privi di una reggia6. Infine quel volgare va definito a buon diritto curiale7, poiché la curialità non è altro 40 che una norma ben soppesata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia8 capace di soppesare in questo modo si trova d’abitudine solo nelle curie più eccelse, ne viene che tutto quanto nelle nostre azioni è soppesato con esattezza, viene chiamato curiale. Per cui questo volgare, poiché è stato soppesato nella curia più eccelsa degli Italiani, è degno di essere definito curiale. 45 Ma dire che è stato soppesato nella più eccelsa curia degli Italiani sembra una burla, dato che siamo privi d’una curia. Ma è facile rispondere. Perché se è vero che in Italia non esiste una curia, nell’accezione di curia unificata – come quella del re di Germania – tuttavia non fanno difetto le membra che la costituiscono; e come le membra di quella curia traggono la loro unità dalla persona unica del Principe, 50 così le membra di questa sono state unite dalla luce di grazia della ragione. Perciò sarebbe falso sostenere che gli Italiani mancano di curia, anche se manchiamo di un Principe, perché in realtà una curia la possediamo, anche se fisicamente dispersa9. 30
Costruzione della Torre di Babele in una miniatura per una Bibbia del XIV secolo (Bibliothèque Municipale, Troyes, Francia).
6 se ne va pellegrino… privi di una reggia: Dante allude probabilmente al fatto che i poeti, depositari per eccellenza del volgare illustre, vagano per le corti minori d’Italia (è forse questo il senso di umili asili) perché la penisola è priva di una reggia. 7 curiale: il termine deriva da curia, il centro dell’amministrazione politica e della giustizia all’interno della corte e
al contempo l’insieme dei dignitari che assistono il sovrano nel governo (come i poeti-funzionari della Magna Curia di Federico II). 8 la bilancia: immagine simbolica comunemente associata alla giustizia. 9 Perché se è vero… fisicamente dispersa: Dante non nega l’assenza di una vera e propria curia nell’Italia del suo tempo,
372 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri
ma sostiene che essa esista solo potenzialmente, perché esistono individui nobili (gli intellettuali) degni di farne parte, anche se ora sono dispersi. Il concetto non risulta molto convincente sul piano logico-argomentativo, ma esprime più che altro la forte aspirazione di Dante a una struttura politica (e di conseguenza linguistica) unificante.
Analisi del testo Un volgare regale e curiale Tra le varie definizioni che Dante dà del volgare-modello a cui pensa, sicuramente le più interessanti sono le ultime due (regale e curiale) in cui il problema linguistico si aggancia indissolubilmente, nella riflessione dello scrittore, al problema politico italiano: Dante lamenta l’assenza in Italia di un forte organismo centrale, conformemente alle sue più generali convinzioni testimoniate dal Convivio e dalla Monarchia. Interessante (e davvero premonitrice) è l’idea che gli intellettuali (le membra di quella curia ideale fondata, per Dante, sull’esercizio della ragione) potessero avere un ruolo determinante nel creare, almeno a livello di alta cultura, quell’unità nazionale che la realtà storica negava e avrebbe a lungo negato all’Italia. Su questo punto proponiamo un’incisiva riflessione del critico e storico della letteratura Giuseppe Petronio (1909-2003): «Questo volgare, pensa Dante, oggi virtuale [potenziale], poteva diventare una realtà effettuale [effettiva] solo che in Italia si costituisse un’“aula”, una corte dove concorresse il fior fiore degli intellettuali di tutto il Paese, e lì, dal loro conversare, si formasse una lingua depurata di tratti municipali, costituita dagli elementi comuni a tutti i volgari, modellata sul grande esemplare latino. Questa lingua sarebbe naturalmente capita da tutti, moderna, in grado di cantare letterariamente i massimi temi, quelli propri della tragedìa, come allora dicevano: le armi, l’amore, la magnanimità. Questo progetto o sogno di Dante non si realizzò, almeno non si realizzò nei modi che lui auspicava. Gli imperatori tedeschi trascurarono l’Italia, che pure era il giardin de l’Impero e non la unificarono; l’Italia rimase divisa, e mezzo secolo dopo invano Petrarca avrebbe predicato ai tanti Signori: “I’ vo gridando: ‘Pace, pace, pace’”; un’“aula” italiana, cioè la corte di uno Stato nazionale italiano, non ci sarebbe stata, fino al 1861. Eppure, quel sogno o progetto si realizzò, in parte, già nel Trecento; di fatto già allora si costituì in Italia, dispersa per tutta la penisola, quella società letteraria [...] e usò una lingua forgiata sulle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio; una lingua che, fra alterne vicende, è stata poi la lingua della letteratura italiana e, nello stesso tempo, la base di una lingua nazionale parlata, ma solo a un certo livello di società e di cultura. Ma, pure con questo limite, quella lingua e quella letteratura – italiane, e sentite tali – hanno tenuto viva nei secoli la coscienza di una unità nazionale, un fatto che ha rappresentato, più tardi, un elemento essenziale per la nascita di uno Stato su basi nazionali». Giuseppe Petronio, La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio, vol. I, Mondadori, Milano 1995
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dividi il testo in sequenze e per ciascuna di esse assegna un titolo; poi riassumi l’intero brano in non più di 10 righe. ANALISI 2. Nel testo si parla di lingua, ma si formula anche un giudizio politico: quale? STILE 3. Il carattere del passo non è “discorsivo”, ma si fonda su una serie di articolate argomentazioni, strutturate secondo un procedimento deduttivo. Tuttavia, come già nel Convivio, anche in questo caso Dante ricorre a paragoni e immagini metaforiche per conferire al discorso una più immediata evidenza. Individua paragoni e metafore, spiegane la funzione in rapporto al contesto e valutane l’efficacia.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. L’ottica con cui Dante parla del volgare in questo passo – e in genere nel trattato – ti sembra la stessa del Convivio? Per rispondere leggi anche il testo del Convivio proposto in ➜ T13 , dove Dante parla della necessità di impiegare il volgare (anziché il latino).
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 373
Dante Alighieri
T18
Lo stile tragico De vulgari eloquentia, II, IV, 7-11
D. Alighieri, Opere minori, II, trad. di P.V. Mengaldo Ricciardi, MilanoNapoli 1979
In questo breve passo, tratto dal II libro dell’opera che Dante dedica alle questioni di lingua, egli delinea in modo molto chiaro le caratteristiche che dovrebbe avere lo stile sommo, che nelle poetiche medievali era anche definito tragico. Secondo l’autore, questo è adatto al genere metrico della canzone e ad argomenti particolarmente elevati, che Dante definisce magnalia.
Ma lasciamo da parte gli altri1 e ora, come è opportuno, trattiamo dello stile tragico. È ben chiaro che usiamo veramente uno stile tragico solo quando con la profondità del pensiero s’accordano sia la magnificenza dei versi che l’altezza della costruzione e l’eccellenza dei vocaboli. Per cui se è già stato dimostrato, come si ricorderà, che 5 quanto sta al sommo è degno di ciò ch’è pure sommo, e questo che chiamiamo tragico è il sommo degli stili, gli argomenti che abbiamo distinto come tali da cantarsi a livello sommo vanno cantati solo in questo stile2: vale a dire la salvezza, l’amore e la virtù3 e i concetti che formuliamo in funzione di essi, purché non siano sviliti da nessun fenomeno accidentale4. 10 E dunque ognuno affronti con cautela e discernimento ciò di cui parliamo, e quando intende cantare questi tre temi nella loro pura essenza, o ciò che ne è diretta ed essenziale conseguenza, si abbeveri prima alle acque d’Elicona5 e poi, quando avrà teso al massimo le corde dello strumento, allora potrà cominciare senza timore a muovere il plettro6. Ma quanto a imparare questa cautela e questo discernimento, 15 come è doveroso, è qui che sta l’impresa e la fatica, perché non è cosa che possa darsi senza vigore d’ingegno e assidua frequentazione della tecnica e possesso della cultura7. E questi sono coloro che il Poeta8 nel sesto dell’Eneide chiama (benché parli figuratamente) diletti da Dio e innalzati fino ai cieli dall’ardore della virtù e figli degli dèi. E allora resti dimostrata e svergognata la stoltezza di coloro che, privi 20 di capacità tecnica e di cultura, fidando nel solo ingegno, si precipitano sui sommi temi che vanno cantati in forma somma; e la smettano con una simile presuntuosità, e se la natura o la fannullaggine li ha fatti oche, non pretendano di imitare l’aquila che si slancia verso gli astri.
1 gli altri: sottinteso stili, con riferimento alla tradizionale tripartizione. 2 solo in questo stile: vige nelle poetiche medievali una rigida distinzione fra le diverse categorie stilistiche (e le diverse aree tematiche). 3 vale a dire… la virtù: Dante indica qui gli argomenti (meglio sarebbe dire “le aree tematiche”) a cui si addice esclusivamente lo stile tragico: la salvezza (nel testo originale salus) si riferisce alla prodezza nelle armi, tipica del genere epico; l’amore (in latino venus) si riferisce appunto al campo dell’esperienza amorosa, nobilitato dalla lirica provenzalesiciliana-stilnovistica; la virtù (in latino
virtus) si riferisce alla letteratura filosofico-morale. 4 purché… accidentale: purché questi nobili argomenti siano liberati da ogni riferimento contingente, non essenziale. 5 si abbeveri… Elicona: in questo punto del testo Dante usa un linguaggio metaforico; nella mitologia classica Elicona è il monte dove risiedevano le Muse; quindi Dante invita chi voglia cantare in poesia i tre alti temi che si addicono allo stile tragico ad attingere alla lezione della tradizione poetica. 6 e poi… il plettro: altre immagini metaforiche della tradizione classica: la cetra (lo strumento di cui si parla) è il simbolo
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della poesia mentre il plettro è letteralmente la lamina con cui si fanno vibrare le corde della cetra. Fuor di metafora, Dante vuol invitare i poeti a un tirocinio che li abiliti all’esercizio della poesia. 7 Ma… cultura: viene qui enunciata con chiarezza l’idea medievale del far poesia, che è fondata sulla competenza “tecnica” e sul possesso di adeguati strumenti culturali. 8 il Poeta: si tratta di Virgilio, che Dante, e con lui ampia parte della cultura medievale, considerava il “poeta” per antonomasia; non a caso viene scelto come guida nel viaggio ultraterreno attraverso l’inferno e il purgatorio.
Analisi del testo Lo stile più elevato Secondo Dante, lo stile tragico poggia su quattro elementi: la profondità dei contenuti, l’andamento solenne della versificazione, la particolare sostenutezza della costruzione sintattica e, soprattutto, la selezione del lessico. Sono poi definiti gli argomenti che si adattano allo stile tragico (nel testo originale i magnalia). Particolarmente significativo è l’inserimento della tematica amorosa tra gli argomenti nobili e alti, in riferimento alla ormai consolidata tradizione lirica che aveva trasposto in Italia i modi raffinati della lirica provenzale. Nella parte conclusiva del testo, Dante esorta i poeti a un adeguato apprendistato prima di cimentarsi con lo stile più alto: se ne ricava un’idea di poesia concepita innanzitutto come ars, ovvero come scaltrita competenza tecnica e meditato possesso di un adeguato bagaglio culturale. Non bastano quindi solo le doti naturali, ma occorre anche il sapiente utilizzo dei mezzi propri della poesia e il possesso della cultura.
I requisiti del volgare Dante precisa che tra lo stile più elevato, chiamato “tragico”, e la canzone c’è un legame inscindibile e che il volgare è degno di trattare argomenti alti fino a quel momento esclusi dalla letteratura italiana. Lo stesso Dante fino a quel momento aveva usato il volgare solo per la tematica amorosa (Vita nuova).
Il tono del poeta La trattazione di Dante non presenta le caratteristiche di un’esposizione scientifica fredda e razionale: al contrario, il tono è ricco di entusiasmo e di passione per l’argomento trattato. Dal discorso di Dante emerge con chiarezza la sua fiducia nelle potenzialità del volgare.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Nei due capoversi finali Dante fa delle richieste ai poeti. Sintetizzale in max 20 righe. COMPRENSIONE 2. Dante definisce tragico lo stile più elevato: indicane le caratteristiche completando lo schema. argomenti trattati pensieri versi lessico riferimenti contingenti ANALISI 3. Quali elementi Dante ritiene necessari per coloro che vogliono cimentarsi con lo stile tragico? STILE 4. Quale metafora indica l’ambizione di coloro che lo affrontano senza averne i mezzi? Quali metafore invece si riferiscono all’acquisizione dell’abilità stilistica occorrente per affrontare i temi più elevati?
Interpretare
LETTERATURA E NOI 5. Dante nel testo afferma: E allora resti dimostrata e svergognata la stoltezza di coloro che, privi di capacità tecnica e di cultura, fidando nel solo ingegno, si precipitano sui sommi temi che vanno cantati in forma somma. In questo punto del testo, il sommo poeta critica coloro che, fidandosi solo delle doti naturali, senza cultura né competenza, si accingono a grandi imprese. Sei d’accordo? Pensi che le doti naturali debbano sempre essere sostenute dalle competenze o a volte sono sufficienti per realizzare i propri progetti?
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 375
4 La riflessione politica: la Monarchia Un trattato politico di scottante attualità nel primo Trecento Il De Monarchia è l’unica opera teorica completata da Dante. È un trattato in tre libri scritto in latino, perché l’autore si rivolge a un pubblico di dotti, e non solo italiani (sappiamo che a quel tempo il latino è la lingua “internazionale” della cultura). In esso il fiorentino riprende in parte temi già presenti nel Convivio, di cui la Monarchia è un approfondimento e insieme uno sviluppo, e interviene nella polemica giuridica e politica sui ruoli delle due istituzioni universali, il papato e l’impero, che all’epoca manifestavano evidenti segni di crisi. Stimolato dalla difficile situazione del suo tempo e dalla sua stessa dolorosa esperienza di exul immeritus, Dante si inserisce autorevolmente nel dibattito che contrapponeva i sostenitori della teocrazia, assertori della superiorità del potere spirituale attraverso il rappresentante di Dio in terra, il papa, e coloro che invece difendevano l’autonomia del potere politico da quello religioso. Dante si schiera nettamente con questi ultimi. L’opera è importante per comprendere il pensiero politico dello scrittore e costituisce un fondamentale commento a molti passi della Commedia. La datazione dell’opera Il De Monarchia è sicuramente posteriore al Convivio e, in particolare, si può considerare uno sviluppo del quarto libro dell’opera. I critici propongono però datazioni diverse: la Monarchia potrebbe essere una risposta alla bolla Unam Sanctam (1302) in cui Bonifacio VIII affermava la superiorità del potere spirituale del papa su quello dell’imperatore, e in questo caso risalirebbe al 13071309; oppure (ed è l’ipotesi più probabile) potrebbe essere stata composta al tempo della discesa di Arrigo VII in Italia (1310): tesi, questa, avallata dalla testimonianza di Boccaccio (Trattatello in laude di Dante, XXVI). In tal caso l’opera avrebbe avuto come fine quello di favorire l’impresa imperiale, nella quale Dante riponeva molte speranze; infine, considerando un rinvio esplicito (Monarchia I, XII, 6) a un passo del Paradiso (V, 19-22) e varie concordanze ideologiche e formali tra l’opera e la terza cantica, alcuni hanno pensato a una stesura più tarda dell’opera (forse il 1317). La monarchia universale è necessaria Il primo libro dell’opera sostiene la necessità della monarchia universale per consentire all’uomo la realizzazione delle potenzialità intellettuali. Essa è possibile solo se regnano la pace e la giustizia e se è messa a tacere l’avidità di beni materiali: essa, infatti, impedisce al genere umano di conquistare la piena felicità terrena, che per Dante si raggiunge dedicandosi alla conoscenza e alla filosofia. Solo un imperatore nelle cui mani siano concentrati il potere temporale e le ricchezze può essere al di sopra delle parti e garante di pace, come avvenne durante l’impero di Augusto, che portò uno stato di pace universale.
Oratorio di S. Silvestro, Chiesa dei Quattro Santi Incoronati, Roma. L’affresco si riferisce alla leggenda secondo cui Costantino, miracolosamente guarito dalla lebbra, all’atto di trasferire la capitale dell’impero a Costantinopoli, concesse a papa Silvestro I le insegne imperiali, il dominio su Roma e sulla parte occidentale dell’impero, nonché il primato sulle sedi orientali.
376 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
L’impero romano è stato voluto da Dio Nel secondo libro, Dante individua nel disegno di Dio l’affermazione dell’impero romano. A differenza di quanto lui stesso pensava un tempo, ora Dante sostiene che i Romani basarono il proprio dominio sul diritto e non sulla violenza e furono quindi meritevoli di dare vita all’istituzione imperiale, la cui realizzazione fu favorita da Dio con numerosi miracoli. L’unità del mondo sotto l’autorità di Roma è stata voluta da Dio perché potesse diffondersi la parola di Cristo, nato e morto durante l’impero romano. Dante interpreta la storia dell’impero secondo la prospettiva provvidenziale che ritorna anche nel canto VI del Paradiso, quando, per bocca di Giustiniano, viene difeso e celebrato il potere romano. Papato e impero Il tema affrontato nel terzo libro della Monarchia rappresenta l’argomento più spinoso del trattato. Dante afferma che sia il potere temporale sia il potere spirituale derivano direttamente da Dio, perciò l’impero risulta autonomo rispetto alla Chiesa. Dante sa di avere molti avversari e confuta le loro diverse tesi con argomentazioni derivate dalla Bibbia e dai dati storici. Nel primo caso si oppone a coloro che applicano l’immagine biblica (Genesi 1, 16) dei «duo magna luminaria», i due grandi astri luminosi, cioè il sole e la luna, rispettivamente al papa e all’imperatore, e dimostra la falsità e tendenziosità delle loro interpretazioni; relativamente al secondo ordine di argomenti, Dante dichiara giuridicamente nulla la donazione di Costantino, cioè l’atto a cui si faceva risalire il potere temporale della Chiesa (nel Quattrocento ne sarà dimostrata la falsità dal filologo Lorenzo Valla nel De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio [La falsa donazione di Costantino]). Infine, adducendo un’altra argomentazione di ordine razionale, afferma che l’imperatore solo in quanto uomo e credente risulta soggetto al papa, e dunque la mediazione del pontefice nell’investitura dell’imperatore è indebita. Dante conclude l’opera affermando che, se la Provvidenza ha stabilito due fini per l’uomo, cioè la felicità terrena e la beatitudine eterna, due sono le guide per conseguirli: l’imperatore, che ha il dovere di condurre gli uomini alla felicità terrena, e il papa, che deve alimentare negli animi le virtù teologali; ma, poiché la felicità terrena è imperfetta senza l’eterna beatitudine, l’imperatore deve considerare il papa come un padre, anche se ciascuno dei due risponde solo a Dio della propria autorità.
Teoria dei “due soli” Dio pone due autorità alla guida degli uomini
al papa la guida spirituale
all’imperatore la guida temporale
per raggiungere la
per raggiungere la
beatitudine eterna
felicità terrena
ciascuno risponde solo a Dio
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 377
Un’opera utopistica? Il sogno di un impero sovranazionale, universalmente accettato all’inizio del XIV secolo, era certamente irrealizzabile all’epoca di Dante: sia i comuni italiani sia i principati territoriali non erano disposti a rinunciare alla loro autonomia. Sotto questo aspetto la prospettiva di Dante appare utopistica, come utopistica, a ben vedere, è l’idea che l’imperatore guidi l’umanità a lui sottoposta attraverso gli insegnamenti della filosofia (➜ T19 ). Però utopistica non è, ma anzi risulta volutamente propositiva e polemica, la netta opposizione che Dante manifesta nel trattato nei confronti della concezione teocratica. In questo senso la Monarchia si lega alle molte pagine della Commedia in cui Dante attacca severamente il potere temporale della Chiesa e le pretese di ingerenza negli affari pubblici e politici. Una diffusione ostacolata L’opera suscitò aspre condanne da parte delle gerarchie ecclesiastiche, mentre ebbe fortuna in ambienti ostili al potere temporale della Chiesa, in particolare presso i riformatori protestanti. La Monarchia fu pubblicamente bruciata per volere del cardinal Bertrando del Poggetto a Bologna nel 1329 e inserita, nel XVI secolo, nell’Indice dei libri proibiti, in cui rimase addirittura fino al 1881. Non è dunque certo un caso che la prima edizione a stampa avvenisse in un paese luterano, a Basilea, nel 1559.
Monarchia DATAZIONE
incerta
STRUTTURA
3 libri (completi)
LINGUA
latino
GENERE
trattato politico
TEMI
necessità della monarchia universale (I libro); l’origine divina dell’impero romano (II libro); il rapporto tra Papato e Impero (III libro)
DESTINATARI
pubblico di dotti
L’incoronazione di Arrigo VII, miniatura in un codice manoscritto di scuola lombarda, secolo XIV.
378 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
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T19 D. Alighieri, Opere minori, II, trad. di B. Nardi, Ricciardi, Milano-Napoli 1979
Dante Alighieri
I due diversi fini dell’uomo e le due guide Monarchia, III, XV, 7-18 Nell’ultimo capitolo dell’opera Dante chiarisce con grande evidenza dimostrativa il suo pensiero riguardo alle due autorità preposte alla guida dell’umanità: il papa e l’imperatore. Nella prima parte del capitolo (non riportata) Dante sottolinea che l’uomo è composto di una natura corruttibile (il corpo) e di una incorruttibile (l’anima). Proprio per questa sua duplice natura, egli ha due diversi fini, al raggiungimento dei quali è guidato, in piena autonomia, rispettivamente dall’autorità temporale (l’imperatore) e spirituale (il papa). II primo non dipende in alcun modo dal secondo, anche se l’imperatore deve comunque avere verso di lui una reverenza filiale.
XV. [...] Due fini, adunque, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose innanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre1; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non 5 può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombrata nel paradiso celeste. A queste [due] beatitudini, come a [due] conclusioni2 diverse, conviene arrivare con procedimenti diversi. Alla prima invero noi perveniamo per mezzo delle dottrine filosofiche, purché le seguiamo praticando le virtù morali3 e quelle intellettuali; alla seconda invece giungiamo per mezzo degl’insegnamenti divini che trascendono la 10 ragione umana, purché li seguiamo praticando le virtù teologiche, cioè la fede, la speranza e la carità. Benché queste conclusioni e questi procedimenti siano stati a noi mostrati, quelli dalla ragione umana, tutta quanta per noi spiegata ad opera dei filosofi, questi4 dallo Spirito Santo che per mezzo dei profeti e degli scrittori ispirati, per mezzo 15 di Gesù Cristo, figliuol di Dio, a lui coeterno, e dei suoi discepoli ci ha rivelato la verità sovrannaturale a noi necessaria, tuttavia l’umana cupidigia se li butterebbe dietro le spalle, se gli uomini, a guisa di cavalli5, portati dalla loro bestialità ad andar vagando, non fossero trattenuti nel loro viaggio «con la briglia e col freno»6. Per questo fu necessaria all’uomo una duplice guida corrispondente al duplice fine: 20 cioè il sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna per mezzo delle dottrine rivelate; e l’Imperatore, il quale indirizzasse il genere umano alla felicità temporale per mezzo degl’insegnamenti della filosofia. E siccome a questo porto nessuno, o soltanto pochi, e anche questi con soverchia7 difficoltà, possono arrivare, se il genere umano, sedati i flutti della blanda cupidigia8, non riposa libero 25 nella tranquillità della pace, a questo fine appunto deve tendere con tutte le forze colui che ha cura del mondo e che dicesi Principe romano, che si possa cioè vivere liberamente in pace in questa aiuola dei mortali9. E siccome la disposizione di que1 raffigurata nel paradiso terrestre: la condizione di felicità terrena è rappresentata nel paradiso terrestre, una condizione che l’uomo, a causa del peccato originale, ha perduto e deve faticosamente riacquistare. 2 conclusioni: fini, obiettivi. 3 le virtù morali: sono prudenza, fortezza, giustizia, temperanza.
4 quelli... questi: quelli sono i comportamenti che conducono alla beatitudine terrena, questi i comportamenti che conducono alla beatitudine celeste. 5 a guisa di cavalli: come cavalli. 6 «con la briglia e col freno»: l’espressione biblica (Salmi 31, 9) è giustificata dal paragone tra gli uomini, vittime della cupidigia, e i cavalli sfrenati.
7 soverchia: eccessiva. 8 sedati... cupidigia: placate le onde della cupidigia seduttrice. È un’immagine metaforica appartenente al campo della navigazione, come prima l’immagine del porto. 9 aiuola dei mortali: è la terra.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 379
sto mondo è conseguenza della disposizione risultante dal ruotare dei cieli10 perché gli utili insegnamenti della libertà e della pace vengano applicati senza intoppo ai 30 luoghi e ai tempi, è necessario che a questo curatore11 sia provveduto da Colui che ha presente al suo sguardo tutta quanta la disposizione dei cieli. Or questi è soltanto colui che tal disposizione preordinò, sì che per mezzo di essa, nella sua provvidenza, ogni cosa ha legato al posto che le spetta12. Se così è, egli solo elegge13, egli solo conferma poiché non ha alcuno sopra di sé. Dal che si può inoltre ricavare, che né 35 quelli dei nostri giorni né altri che in qualunque modo sono stati detti “elettori”14, han da chiamarsi con questo nome; ma piuttosto son da ritenere “annunciatori del provvedere divino”. Onde avviene che talvolta quelli cui è stato conferito l’onore di dare questo annuncio, son tra loro discordi, o perché tutti o perché alcuni di loro, ottenebrati dalla nebbia della cupidigia, non riescono a discernere la faccia della 40 divina disposizione15. Così appar dunque evidente che l’autorità del Monarca temporale discende in esso senza alcun intermediario dal Fonte dell’universale autorità16; il qual Fonte, unito nella rocca17 della sua semplice natura, si spande in molteplici rivi per sovrabbondanza della sua bontà. E ciò mi par che basti ormai al raggiungimento della mèta propostami. Giacché è 45 stata svelata appieno la verità sul problema, se al benessere del mondo fosse necessario l’ufficio del Monarca, e sul problema se il popolo romano a buon diritto si sia arrogato l’Impero, nonché sull’ultimo quesito, se l’autorità del Monarca dipendesse immediatamente da Dio oppure da qualche altro18. La verità, per altro, a riguardo dell’ultima questione non va intesa così strettamente, nel senso che il Principe 50 romano non sottostia in qualche cosa al romano Pontefice, essendo la beatitudine di questa vita mortale ordinata in qualche modo alla beatitudine immortale. Usi pertanto Cesare quella riverenza verso Pietro, che il figlio primogenito ha da usare verso il padre; sì che, illuminato dalla luce della grazia paterna, possa con maggiore efficacia irraggiare la terra, al cui governo è stato preposto soltanto da Colui che di 55 tutte le cose spirituali e temporali ha il dominio19.
10 E siccome... dei cieli: secondo la concezione astronomico-astrologica del tempo, Dante ammette l’influenza della rotazione delle sfere celesti sul mondo e sui comportamenti umani. 11 a questo curatore: all’imperatore, più sopra definito Principe romano. 12 Or questi... le spetta: ora questi (si riferisce alla perifrasi precedente) è soltanto colui che ha creato un disegno provvidenziale (Dio) per mezzo del quale ogni elemento è nel posto che è preordinato a occupare nell’universo. 13 egli solo elegge: solo a Dio spetta scegliere (latinismo da eligere). 14 “elettori”: i principi tedeschi, elettori dell’imperatore. Il ragionamento di Dante è il seguente: se solo Dio può “eleggere”
chi è alla guida terrena dell’umanità, nessuno può usurpare il titolo di “elettore”. 15 la faccia della divina disposizione: il vero disegno di Dio. 16 Fonte dell’universale autorità: Dio, da cui emana ogni autorità. 17 rocca: roccaforte. È un’immagine metaforica. 18 se al benessere... qualche altro: Dante riassume qui i nuclei fondamentali dei tre libri che compongono il trattato: si ricordi che il primo libro ha come tema fondamentale la necessità di una monarchia universale che garantisca giustizia e pace; il secondo dimostra che l’autorità imperiale è stata provvidenzialmente concessa da Dio al popolo romano perché unifichi e pacifichi il mondo preparando la dif-
380 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
fusione del messaggio cristiano; il terzo affronta il problema cruciale dei rapporti tra impero e papato e se l’autorità dell’imperatore derivi dal papa o da Dio. 19 La verità... ha il dominio: come colto da scrupoli, Dante precisa nella conclusione del trattato che in ogni caso la beatitudine immortale è superiore a quella terrena e quindi l’imperatore deve avere un atteggiamento di riverenza filiale verso il papa così che, da lui illuminato, possa meglio reggere i popoli della terra, al cui governo comunque è stato preposto da Dio, signore di tutte le cose spirituali e temporali. Cesare e Pietro sono per Dante rispettivamente i fondatori dell’impero e della Chiesa.
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Il passo si legge nella conclusione dell’opera, dove Dante riprende e ribadisce la tesi generale del Monarchia. La prima parte (rr. 1-22, fino a filosofia) consiste in un’ampia premessa, sostenuta da una rigorosa struttura argomentativa, finalizzata a giustificare la necessità di due guide per l’umanità. 1. Indica: – i due fini che Dio ha voluto per l’uomo; – i mezzi con cui è possibile raggiungere tali fini; – l’ostacolo al loro raggiungimento che Dante individua; – le guide che Dio ha stabilito provvidenzialmente per l’umanità; – i diversi compiti e i diversi strumenti delle due guide in rapporto ai fini. Nella seconda parte del passo (rr. 22-48, da E siccome a qualche altro) Dante si sofferma a riflettere sul potere dell’imperatore, che chiama Principe romano, al quale spetta l’importante compito di assicurare all’uomo la possibilità di vivere in pace e libertà. Lo scrittore sostiene con convinzione che l’autorità dell’imperatore derivi da Dio, dei cui provvidenziali progetti questa figura è solo uno strumento. 2. Perché Dante asserisce che gli elettori dell’imperatore non possono essere definiti con questo termine? Con quale espressione, invece, dovrebbero essere definiti secondo lui e perché? Nell’ultima parte del suo discorso (rr. 48-55) Dante sembra attenuare la rigida separazione tra potere spirituale e temporale e sancire la pari dignità di impero e papato, in quanto entrambi voluti da Dio. 3. Quale motivo adduce Dante per giustificare la riverenza dovuta dall’imperatore al papa? Il testo è fortemente coeso grazie alla presenza insistita di parallelismi e contrapposizioni, nonché di connettivi testuali che scandiscono con incisività il procedere dell’argomentazione. (Ricorda che connettivi non sono solo congiunzioni e avverbi, ma anche locuzioni o intere proposizioni.) 4. Individua e trascrivi: – i connettivi testuali; – le opposizioni. Nella struttura logica particolarmente accentuata del testo sono presenti anche similitudini e immagini metaforiche particolarmente efficaci. 5. Individua e spiega, in rapporto al contesto, le similitudini e le metafore. Nella cultura medievale e ancora nella visione di Dante la dimensione trascendente permea ogni manifestazione della vita terrena e condiziona i comportamenti umani. Anche nella riflessione di Dante la presenza della dimensione morale e religiosa si intreccia costantemente ai riferimenti alla vita e alla gestione politica. 6. Esemplifica con qualche opportuno riferimento.
Interpretare
Il trattato dantesco prende le mosse da una concreta situazione storico-politica e da un acceso dibattito sulle due autorità universalistiche. 7. Riassumi la tesi di Dante e quindi esprimi una valutazione critica: la posizione di Dante ti sembra realistica oppure utopistica o anacronistica, come è parso a molti?
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 381
5 Epistole Di Dante ci sono pervenute 13 epistole, composte tra il 1304 e il 1317. Le Epistole sono scritte, come era consueto a quel tempo, in latino e secondo lo stile – alto, sostenuto, denso di riferimenti colti e di figure retoriche – previsto dalle artes dictandi, i manuali sull’arte di scrivere. Tra di esse alcune hanno carattere autobiografico (II, IV e XII) e testimoniano lo stato d’animo di Dante negli anni dell’esilio. Notevole interesse rivestono le cinque epistole dedicate al tema politico (I, V, VI, VII, XI): una delle più significative è la VII, indirizzata all’imperatore Arrigo VII, che nel 1310 era disceso in Italia con l’intenzione di pacificarne le città e di restaurare l’autorità imperiale. Un progetto che suscitò l’entusiasmo e le speranze (poi deluse) di Dante, che nell’epistola si rivolge all’imperatore invitandolo, con enfasi e immagini bibliche, a rompere ogni indugio. In rapporto alla discesa dell’imperatore, Dante rivolge anche (V) un invito ai signori d’Italia affinché collaborino con il sovrano e sostengano la sua missione, e un’apostrofe minacciosa agli scellerati fiorentini (VI). Molto nota (anche se tuttora si discute sulla sua autenticità) è l’Epistola XIII, rivolta a Cangrande della Scala, il signore di Verona presso il quale Dante aveva trovato accoglienza. A Cangrande, Dante dedica e invia il Paradiso (o parte di esso) quale ringraziamento, come specifica nella prima parte della lettera. L’importanza dell’Epistola XIII sta nel fatto che in essa Dante (ammesso che ne sia l’autore) introduce una serie online di indicazioni sul modo di accostarsi alla Commedia (secondo T20 Dante Alighieri A un amico fiorentino lo schema medievale dell’accessus ad auctores), sul significato Epistole, XII del titolo e sul rapporto tra lettera e allegoria.
Dante Alighieri
T21
Una introduzione “d’autore” alla lettura della Commedia Epistole, XIII, 7-8; 10
D. Alighieri, Opere minori, II, a c. di A. Frugoni e G.Brugnoli, Ricciardi, Milano-Napoli 1979
L’Epistola XIII è una lunga lettera rivolta a Cangrande della Scala, signore di Verona, che aveva ospitato il poeta esule da Firenze fin dai primi tempi dell’esilio e che Dante celebra con gratitudine nel canto XVII del Paradiso. Nell’epistola Dante dedica a Cangrande la terza cantica. Sull’autenticità della lettera si è a lungo discusso senza pervenire a una conclusione certa, ma essa risulta comunque importante perché contiene precise indicazioni sul titolo dell’opera, sul suo carattere allegorico e sull’obiettivo stesso che ne ha motivato la stesura: in un passo qui non riprodotto, Dante asserisce che il fine dell’opera è «togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato della felicità».
7. Per chiarire quello che si dirà bisogna premettere che il significato di codesta opera non è uno solo, anzi può definirsi un significato polisemos, cioè di più significati. Infatti il primo significato è quello che si ha dalla lettera del testo, l’altro è quello che si ha da quel che si volle significare con la lettera del testo. Il primo si 5 dice letterale, il secondo invece significato allegorico o morale o anagogico1. 1 anagogico: indica il rapimento dell’anima che si volge alla contemplazione del divino.
382 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Questi diversi modi di trattare un argomento si possono esemplificare, per maggior chiarezza, con i versetti: «Allorché dall’Egitto uscì Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro, la nazione giudea venne consacrata a Dio; e dominio di Lui venne ad essere Israele2». Infatti se guardiamo alla sola lettera del testo, il 10 significato è che i figli di Israele uscirono d’Egitto, al tempo di Mosè; se guardiamo all’allegoria, il significato è che noi siamo stati redenti da Cristo; se guardiamo al significato morale, il senso è che l’anima passa dalle tenebre e dalla infelicità del peccato allo stato di grazia; se guardiamo al significato anagogico, il senso è che l’anima santificata esce dalla schiavitù della presente corruzione terrena alla libertà 15 dell’eterna gloria. E benché questi significati mistici siano definiti con diversi nomi, generalmente si possono tutti definire allegorici, in quanto si differenziano dal significato letterale ossia storico. Infatti la parola “allegoria” deriva dal greco alleon che è reso in latino con alienum ossia “diverso”. 20 8. Ciò premesso è chiaro che il soggetto di un’opera, sotto posto a due diversi significati, sarà duplice. E perciò si dovrà esaminare il soggetto della presente opera se esso si prende alla lettera e poi se s’interpreta allegoricamente. È dunque il soggetto di tutta l’opera, se si prende alla lettera, lo stato delle anime dopo la morte inteso in generale; su questo soggetto e intorno ad esso si svolge tutta l’opera. 25 Ma se si considera l’opera sul piano allegorico, il soggetto è l’uomo in quanto, per i meriti e demeriti acquisiti con libero arbitrio, ha conseguito premi e punizioni da parte della giustizia divina. […] 10. Il titolo del libro è: «Incomincia la Comedìa di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi». […] Ed è la comedìa un genere di narrazione poetica 30 diverso da tutti gli altri. Si diversifica dalla tragedìa per la materia in questo che la tragedìa all’inizio è meravigliosa e placida e alla fine, cioè nella conclusione, fetida e paurosa. […] La comedìa invece inizia dalla narrazione di situazioni difficili, ma la sua materia finisce bene, come risulta dalle commedie di Terenzio3. […] Similmente tragedìa e comedìa si diversificano per il linguaggio che è alto e sublime nella tra35 gedìa, dimesso e umile nella comedìa, come dice Orazio4 nella sua Poetica quando dichiara che è permesso qualche volta agli scrittori di comedìe di esprimersi come gli scrittori di tragedìe e viceversa. […] E da questo è chiaro che Comedìa si può definire la presente opera. Infatti se guardiamo alla materia, all’inizio essa è paurosa e fetida perché tratta dell’Inferno, ma ha una fine buona, desiderabile e gradita, 40 perché tratta del Paradiso. Per quel che riguarda il linguaggio questo è dimesso e umile perché si tratta della parlata volgare che usano anche le donnette.
2 Allorché … Israele: inizio del salmo 113, in cui si ricorda l’uscita degli Ebrei dall’Egitto; la casa di Giacobbe è il popolo ebraico e la nazione barbara è l’Egitto.
3 Terenzio: commediografo latino del II secolo a. C.
4 Orazio: celebre autore latino di età augustea.
La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 3 383
Analisi del testo La tradizione degli accessus ad auctores e la struttura Nel Medioevo era diffusa l’abitudine di premettere alle opere più importanti (tali cioè da risultare “autorevoli”) delle introduzioni che ne orientassero la lettura (questo il significato del termine accessus) e che contenessero quelli che erano considerati i fondamentali punti di riferimento per chi avrebbe letto il testo. Tra questi necessari riferimenti troviamo il titolo, l’autore, il soggetto, il genere letterario, la struttura, lo scopo dell’opera. Anche solo dalla parte dell’epistola riportata è evidente l’appartenenza di essa alla tradizione medievale degli accessus ad auctores.
Lettera e allegoria Facendo riferimento all’episodio biblico dell’esodo del popolo di Israele dall’Egitto, Dante riprende una distinzione già operata nel Convivio sui quattro sensi dei testi (letterale, allegorico, morale e anagogico). Si sofferma poi sul soggetto del poema enunciandone il significato sul piano letterale e sul piano allegorico. Importante è il fatto che Dante presenti come veri sia l’uno sia l’altro piano (mentre nel Convivio aveva distinto l’allegoria dei poeti, in cui il piano letterale è finzione poetica, da quella dei teologi) quasi rivendicando alla Commedia il carattere di un testo profetico, sacro.
Il titolo e il genere Dante procede poi a spiegare il titolo dell’opera riconducendolo alla distinzione tra tragedia e commedia, sia riguardo al contenuto sia allo stile. La commedia implica un inizio “difficile” e un finale felice, positivo; quindi il titolo comedìa si addice alla sua opera, che inizia con l’Inferno e termina con il Paradiso. Inoltre il titolo ha a che fare con la scelta, propria della commedia, di uno stile “umile”. Dante opta per il volgare, che è usato anche dalle donnette. Ma d’altra parte egli è certo ben consapevole delle straordinarie potenzialità di questa lingua, il cui uso difende appassionatamente e sperimenta nel Convivio. Quanto alla sua opera più celebre, poi, il poeta oltrepassa le asserzioni presenti nella lettera. Dante, se è veramente l’autore della lettera, mantiene il titolo, per certi aspetti modesto, di Commedia, ma chi la legge ben sa che l’autore pratica di fatto la contaminazione degli stili comico e tragico e nel poema sperimenta tutte le potenzialità del volgare, dalle “bassezze” di certi canti dell’Inferno fino alle vertiginose altezze del Paradiso.
Agnolo Bronzino, Ritratto di Dante Alighieri, olio su tela, 1532-1533 (Galleria degli Uffizi, Firenze).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quanti sono, secondo Dante, i sensi delle Scritture? 2. In che cosa la commedia si differenzia dalla tragedia? ANALISI 3. Qual è il soggetto della Commedia?
Interpretare
SCRITTURA 4. Dante nel testo si descrive attraverso l’espressione fiorentino di nascita, non di costumi. Come mai Dante si definisce in questo modo? Quali rapporti esistevano tra lui e la sua città?
384 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
4 Il poema sacro 1 Le caratteristiche generali VIDEOLEZIONE
Un grandioso poema La Commedia è un poema in terzine di endecasillabi a rima alternata. È diviso in tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso), ognuna delle quali è costituita da trentatré canti. A essi si aggiunge il primo canto dell’Inferno che funge da proemio all’intera opera, che risulta dunque composta complessivamente da cento canti. Colpisce subito la ricorrenza, persino nella struttura metrica, del numero tre, che nella cultura cristiano-medievale aveva una forte valenza simbolica: è infatti il numero sacro per eccellenza, il numero della Trinità. Non a caso il tre (o il suo multiplo perfetto, ovvero il nove, quindi il tre considerato tre volte) ricorre anche nella strutturazione dei tre regni ultraterreni: nove sono i cerchi infernali, nove le zone in cui è diviso il Purgatorio, nove i cieli del Paradiso. Perché Commedia? L’enigma del titolo L’aggettivo divina, che il lettore è abituato da secoli ad associare al capolavoro di Dante, si deve non all’autore, ma a Giovanni Boccaccio, grande estimatore del poeta fiorentino, il quale lo usa però riferendosi al solo Paradiso (dove si parla appunto di cose «divine»). L’aggettivo fu incorporato stabilmente nel titolo del capolavoro dantesco a partire dall’edizione curata da Ludovico Dolce e stampata a Venezia nel 1555. Dante denomina la propria opera semplicemente comedìa (secondo l’accentazione in uso nel Medioevo), ovvero commedia, sulla base di criteri essenzialmente retorici, riconducibili alla distinzione medievale degli stili di cui anche Dante tratta nel De vulgari eloquentia. Il termine è usato espressamente in due passi dell’Inferno (If XVI, 127-128: «e per le note / di questa comedìa, lettor ti giuro»; e If XXI, 1-2: «Così di ponte in ponte, altro parlando / che la mia comedìa cantar non cura») e nella celebre Epistola a Cangrande della Scala, benefattore e protettore del poeta (➜ T21 ), dove si giustifica il titolo dell’opera in relazione sia al contenuto sia alla lingua impiegata.
Dante verso il Purgatorio, in un capolettera miniato illustrato da Priamo della Quercia (1444-1450, dal codice Yates Thompson, The British Library, Londra).
Il poema sacro 4 385
Il poema è definibile come “commedia” innanzitutto per la materia, che trascorre dal tragico orrore dell’Inferno alla gioiosa letizia del Paradiso. Quanto al linguaggio impiegato, Dante lo definisce «dimesso e umile perché si tratta della parlata volgare che usano anche le donnette» in contrapposizione al latino, lingua dell’alta cultura e del poema epico cui l’autore guarda come riferimento, ovvero l’Eneide di Virgilio, definita «alta [...] tragedìa» in If XX, 113. Probabilmente il termine “commedia” deve essere nato nella mente di Dante quando il poeta componeva la prima cantica e ad essa principalmente sembra adeguato. Non a caso nel Paradiso (XXIII, 62) Dante usa altre parole per riferirsi alla sua opera, come sacrato poema. Quando è stata composta la Commedia? La cronologia di composizione della Commedia è alquanto incerta e su di essa esistono soltanto delle congetture. Si concorda, ormai, sul fatto che il poema sia stato iniziato quando il poeta si trovava già in esilio: forse nel 1304, ma secondo la maggioranza degli studiosi nel 13061307. L’Inferno fu probabilmente concluso nel 1308, il Purgatorio intorno al 1312, mentre il Paradiso, avviato intorno al 1316, fu terminato poco prima della morte del poeta (1321). L’idea dell’opera non sorse probabilmente all’improvviso, né la sua complessa struttura fu certo il frutto di tentativi: la straordinaria compattezza dell’insieme e la rigorosa coerenza interna fanno pensare piuttosto a un progetto elaborato in un lungo arco di tempo e già definito, almeno nelle sue linee portanti, quando il poeta iniziò a scrivere.
online
Per approfondire Ricostruire il testo originale della Commedia: un problema filologico ancora aperto
A quale genere appartiene la Commedia? Fin dal Trecento vennero colte l’unicità e l’atipicità della Commedia nel panorama culturale e letterario del tempo: essa non poteva infatti essere iscritta in nessuno dei modelli letterari coevi (letteratura allegorico-didattica? letteratura di viaggio o letteratura “visionaria”?). Nell’opera confluiscono infatti, in un’originale sintesi, più tipologie testuali, senza che però ciò ne faccia una creazione ibrida. Piuttosto, la Commedia potrebbe essere considerata una sorta di «architesto onnicomprensivo» (Baranski): il poema dantesco infatti non solo ingloba l’intera tradizione letteraria, ma risponde pienamente all’ambizione di Dante di dare forma artistica a un pensiero totalizzante, alla sua volontà cioè di rappresentare contemporaneamente il mondo e l’oltremondo, l’umano e il trascendente, proponendosi agli uomini del suo tempo non solo come poeta ma addirittura come profeta.
2 Il viaggio ultraterreno online
Gallery Immagini dell’aldilà nel mondo antico
Lo schema narrativo del viaggio Per assolvere al compito educativo che si è imposto e nell’intenzione consapevole di rivolgersi a un pubblico vasto ed eterogeneo, Dante non utilizza il trattato in prosa ma sceglie il genere del poema e adotta lo schema narrativo del viaggio, assai familiare ai lettori del tempo perché radicato nella letteratura classica (si pensi all’Odissea e all’Eneide) e medievale (➜ C3, PAG. 193). Nella Commedia Dante assume dunque le vesti di un pellegrino che visita i tre regni dell’aldilà – Inferno, Purgatorio e Paradiso – per ricavarne insegnamenti morali utili a sé e a tutta l’umanità: un viaggio conoscitivo, fondato sul modello romanzesco dell’“inchiesta”, in questo caso di carattere etico-religioso (➜ T22 ).
386 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Il modello delle “visioni” e la reinterpretazione di Dante Al suo viaggio, Dante conferisce i caratteri di un’esperienza verificatasi realmente adottando il modello della letteratura delle “visioni”, assai popolare nel Medioevo (dall’apocrifa Visione di san Paolo alla Visione di Alberico, a quella di Tugdalo e a molte altre). Al tempo, gli episodi visionari erano ritenuti degni di credibilità: anzi, è proprio il configurarsi come visione che conferisce al testo dantesco l’autorità di un messaggio salvifico, in rapporto appunto alla missione provvidenziale che lo scrittore si attribuisce. Mentre però le visioni medievali si iscrivevano in un tempo metafisico, non misurabile in modo preciso, il poeta colloca gli accadimenti del poema entro coordinate cronologiche (e spaziali) precise, che creano un effetto di realtà estremamente coinvolgente per il lettore. È la primavera del 1300, l’anno del primo Giubileo; Dante ha 35 anni e si trova dunque «nel mezzo» della propria esistenza (il corso della vita umana allora era fissato all’incirca intorno ai settant’anni) quando inizia il viaggio: nella notte dell’8 aprile, venerdì santo (ci troviamo dunque nella settimana della Passione di Cristo), egli si ritrova nella «selva oscura» e inizia il suo avventuroso cammino (➜ T22a ). L’intero viaggio si completerà nel corso di una sola settimana. Lo spazio delle visioni era, inoltre, sostanzialmente simbolico e le descrizioni di esso frammentarie e occasionali; Dante delinea invece una vera e propria “mappa” dell’oltretomba, costruendo realisticamente lo spazio. Inoltre, mentre il viaggio nelle visioni è esperienza individuale dell’autore, nella Commedia – come l’autore stesso spiega nell’Epistola a Cangrande – è anche allegoria dell’itinerario dell’anima dalla caduta alla salvezza: nel suo capolavoro, Dante si prospetta come simbolo dell’umanità intera in cammino dall’oscurità del peccato alla luce di Dio. Il sogno di Dante nella pagina iniziale della Divina Commedia Egerton (1340 ca., The British Library, Londra).
Viaggiare nell’aldilà Il topos letterario del viaggio nel mondo dei morti, naturalmente, non è nato nel medioevo: illustri precedenti sono nelle opere di Omero e di Virgilio, a cui gli scrittori medievali guardavano come modelli letterari e insieme sapienziali. Numerose furono nella cultura medievale le descrizioni di viaggi nell’oltretomba, anche se poche raggiunsero risultati letterari apprezzabili e nessuna si avvicinò alla grandiosa visione dantesca. Il tema del viaggio nell’aldilà non riguarda solo la cultura cristiana, ma è presente anche in quella musulmana, nel Libro della Scala. Il testo originale (del sec. VIII) in lingua araba è andato perduto, ma alla metà del XIII secolo, presso la corte di Alfonso di Spagna, se ne fecero tre traduzioni (spagnolo, francese, latino), che hanno permesso di conoscere questo importante documento della spiritualità islamica. Il titolo allude alla lunga scala che conduce dalla terra al cielo e attraverso la quale il profeta Muhàmmad (Maometto), guidato dall’angelo Gabriele, può intraprendere un viaggio nell’aldilà, nell’inferno e nel paradiso. Il Libro della Scala ha suscitato l’interesse degli studiosi per le analogie di temi e immagini ripresi nella Commedia dantesca.
Il poema sacro 4 387
PER APPROFONDIRE
La configurazione dell’aldilà dantesco Il viaggio di Dante attraverso i tre regni dell’aldilà si iscrive in una topografia precisa, in parte collegata alla cosmologia medievale e in parte frutto dell’originale creazione dell’autore. La Terra, posta immobile al centro dell’universo secondo la concezione aristotelico-tolemaica, è divisa in due emisferi: quello boreale, dove si trovano le terre emerse, è abitato, mentre quello australe è completamente coperto dalle acque e disabitato («mondo sanza gente»: If XXVI, 117).
L’Inferno è una voragine che si sprofonda sotto la città santa, Gerusalemme, immaginata al centro dell’emisfero superiore. Il baratro dell’Inferno si è formato in seguito alla caduta dai cieli di Lucifero, l’angelo ribelle, da allora conficcato per sempre nel centro della Terra. Dante lo rappresenta come un enorme mostro con tre facce e ali di pipistrello, bloccato al centro del lago di ghiaccio in cui sono imprigionati i peccatori più gravi, i traditori. I dannati, tormentati da pene atroci, sono distribuiti in nove zone concentriche via via più ristrette, secondo la crescente gravità delle colpe commesse. La tipologia delle colpe corrisponde a tre fondamentali disposizioni negative dell’animo già definite da Aristotele: l’incontinenza (il desiderare cioè smodatamente i beni e i piaceri terreni) punita dal II al V cerchio; la violenza (VII cerchio, diviso in tre gironi) e infine la frode, considerata il peggiore dei peccati perché nel perpetrarla l’uomo perverte la qualità che lo distingue, cioè la ragione. Dante incontra i fraudolenti nell’VIII cerchio, diviso in dieci fosse concentriche (le Malebolge) e nel IX e ultimo cerchio, a sua volta diviso in quattro zone, i traditori. Al di fuori della tipologia aristotelica stanno gli eretici (VI cerchio), puniti entro tombe infuocate. Il primo cerchio dell’Inferno è costituito dal Limbo, dove stanno i bambini morti senza aver ricevuto il battesimo. In una zona isolata nel Limbo, all’interno di un nobile castello, Dante immagina la sede dei grandi spiriti dell’antichità (gli «spiriti magni»), tra i quali Virgilio stesso: pur essendo vissuti nella virtù, essi non possono accedere né al Paradiso né al Purgatorio perché non hanno conosciuto la parola di Cristo. La loro pena non è fisica, ma consiste unicamente nel tormento interiore che deriva loro dall’impossibilità di appagare il desiderio di conoscere il vero bene. I nove cerchi dell’Inferno sono preceduti dall’Antinferno, dove si trovano gli ignavi: la loro incapacità di scegliere nella vita terrena tra male e bene li emargina sia dal regno infernale sia dal Paradiso. Accompagnato dal poeta latino Virgilio, invocato da Beatrice in suo soccorso, Dante percorre l’intero regno infernale, fino a giungere al centro della Terra, da dove risale, attraverso un lungo cunicolo, la natural burella (If XXXIV, 98), in superficie. Si ritrova agli antipodi di Gerusalemme, sulla spiaggia del Purgatorio.
Anonimo cremonese, Giudizio universale, dipinto del XVII secolo (Museo civico Ala Ponzone, Cremona).
388 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri
Il Purgatorio è un’altissima montagna che si eleva nell’emisfero australe, coperto dalle acque, esattamente dalla parte opposta della Terra rispetto a Gerusalemme. È stata formata dalla Terra che si è ritratta inorridita quando Lucifero cadde dal cielo. Alla spiaggia del Purgatorio i penitenti arrivano attraversando le acque su una barca condotta dall’angelo nocchiero, che raccoglie gli spiriti sulle rive del Tevere. Alle basi della montagna si stende la zona dell’Antipurgatorio, dove gli spiriti che si sono pentiti dei loro peccati solo al termine della vita devono rimanere lungo tempo prima di poter essere ammessi al Purgatorio vero e proprio. Questo è costituito da sette cornici: nelle più basse gli spiriti, attraverso pene che non sono meno dolorose di quelle dei dannati, espiano le colpe della superbia, dell’invidia e dell’ira. Nella quarta cornice ci si purifica dall’accidia, nelle ultime tre dall’avarizia e dalla prodigalità, dalla gola e infine dalla lussuria. Nel Purgatorio gli spiriti percorrono tutte le cornici, purificandosi di tutti i tipi di peccato, a differenza dei dannati che scontano la loro colpa più grave, quella che maggiormente li identifica come peccatori e sono quindi confinati per l’eternità in un’unica zona dell’Inferno. Sulla sommità del Purgatorio si trova il Paradiso Terrestre (la «divina foresta spessa e viva»: Pg XXVIII, 2), dove scorrono due fiumi in cui Dante stesso, accomunato nel suo cammino ai penitenti, si immergerà per completare così la sua purificazione: il Lete è il fiume che induce l’oblìo dei peccati commessi in vita; l’Eunoè, il fiume della “buona conoscenza”, restituisce la memoria di tutto il bene che si è compiuto nella vita. Nel Paradiso Terrestre Virgilio abbandona improvvisamente Dante. La sua nuova guida è Beatrice, che lo condurrà nel regno dei beati.
Il Paradiso è costituito da nove cieli che ruotano intorno alla Terra e che prendono nome dal pianeta che in essi si trova, secondo la concezione cosmologica del tempo. Il movimento, impresso dai nove gruppi di intelligenze angeliche che presiedono ai vari cieli, è via via più rapido man mano che ci si allontana dalla Terra. A differenza di quanto accade nell’Inferno e nel Purgatorio, i beati non hanno sedi diverse ma stanno tutti nell’Empireo, il decimo cielo, fuori dal tempo e dallo spazio, l’unico non in movimento perché pienamente appagato dalla luce di Dio. Essi sono distribuiti nella “candida rosa”, una sorta di immenso anfiteatro dove, insieme agli angeli, contemplano Dio. Per evidenziare però sensibilmente a Dante le loro qualità e i diversi gradi della loro perfezione spirituale, i beati si fanno incontro al poeta nei vari cieli: Dante incontra così nel cielo della Luna gli spiriti che furono costretti dalla volontà altrui a rinunciare ai voti; nel cielo di Mercurio gli spiriti che operarono il bene per desiderio di fama e gloria; nel cielo di Venere gli spiriti amanti; nel cielo del Sole i sapienti; nel cielo di Marte i combattenti per la fede; nel cielo di Giove gli spiriti giusti; in quello di Saturno gli spiriti contemplanti. Se nel cielo della Luna i beati conservano ancora una pallida traccia di corporeità, in seguito si presentano come parvenze luminose, spesso danzanti e, nei cieli più alti, disposte in figure simboliche, come la grande croce luminosa del cielo di Marte di cui fa parte Cacciaguida, l’antenato di Dante che gli rivelerà il suo destino. Il colloquio con gli spiriti si esaurisce nel cielo di Saturno. Dopo le sublimi visioni del trionfo di Cristo e Maria nel cielo delle Stelle fisse e del trionfo delle gerarchie angeliche intorno alla luce di Dio nel Primo Mobile (il cielo cui per primo è impresso il movimento che anima l’universo), Dante giunge al Paradiso vero e proprio, l’Empireo, dove ha la visione della “candida rosa”. Rivolgendogli un ultimo sorriso Beatrice, terminato il suo compito di guida, riprende il suo posto tra gli altri beati. Dopo Virgilio e Beatrice l’ultima guida di Dante sarà il grande mistico Bernardo di Chiaravalle. Sarà lui a chiedere a Maria per Dante la grazia di accedere alla visione suprema di Dio, con la quale si chiude il poema.
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PER APPROFONDIRE
Inferno
390 DuecenTo e TrecenTo 6 Dante Alighieri
Purgatorio
Il poema sacro 4 391
PER APPROFONDIRE
Paradiso
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3 La missione didattica e profetica di Dante «In pro del mondo che mal vive» Quando si accinge a comporre la Commedia, Dante ha ormai maturato una concezione della letteratura esclusivamente incentrata sulla funzione didattica. L’esperienza dolorosa dell’esilio, che proietta l’autore fuori dei confini della sua Firenze e al di là della ristretta dimensione municipale, sviluppa in Dante la piena consapevolezza del doveroso compito educativo che spetta all’intellettuale. Ne deriva la scelta, già di per sé significativa, del Convivio; ma Dante aspira ad ampliare ulteriormente i suoi orizzonti: in una società che ha smarrito persino i valori basilari, che ha perso ogni orientamento morale, il poeta fiorentino si attribuisce il ruolo di nuovo “auctor” per la civiltà intera dell’Europa cristiana, presentandosi come investito da Dio stesso di una missione profetica di salvezza tra gli uomini. È probabile che Dante considerasse veramente la sua opera come riproposizione e continuazione nel mondo moderno del profetismo biblico, in particolare dell’Apocalisse di Giovanni. Una missione che trova la sua consacrazione ufficiale nel Paradiso attraverso le parole di Cacciaguida (Pd XVII ➜ T24a ), di san Pietro (Pd XXVII, 64-66) e prima ancora, verso la fine del Purgatorio, nell’esplicita esortazione che Beatrice rivolge al poeta: «in pro del mondo che mal vive / ... quel che vedi / ritornato di là, fa’ che tu scrive» (Pg XXXII, 103-105). Il fine della Commedia, come si legge nell’Epistola a Cangrande, sarà allora quello di «allontanare gli uomini dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità». Una visione negativa del presente La missione profetica di Dante si origina da una visione amaramente pessimistica del presente che, prendendo le mosse dalla decadenza di Firenze, patria del poeta, investe l’Italia intera (ad es. Pg VI e XIV). Il giudizio di Dante mette in primo piano soprattutto la degenerazione morale che ha investito la società e persino gli ordini religiosi, ma non manca di cogliere le cause sociali e politiche della grave crisi delle istituzioni comunali, identificate da un lato nell’avanzare della cinica e affaristica civiltà mercantile e dall’altro nella sempre più forte ingerenza della Chiesa nelle questioni temporali e nella crisi dell’autorità imperiale, con la conseguente mancanza di una forte presenza, anche fisica, dell’imperatore in Italia (➜ T23 ). La problematica politica che emerge dal complesso della Commedia ricalca da vicino le concezioni espresse prima nel Convivio e quindi nella Monarchia, e a esse è perciò opportuno riferirsi. Nella Commedia, però, il discorso politico, proposto nei trattati in termini astratti, viene “drammatizzato” attraverso la situazione dell’incontro e del colloquio tra il poeta pellegrino e le personalità del suo tempo. Gli spazi particolarmente deputati a ospitare la polemica etico-politica nel poema sono sicuramente le invettive, le apostrofi (come quella celeberrima rivolta all’Italia nel canto VI del Purgatorio), o ancora le molte profezie affidate ai personaggi incontrati dal poeta nel suo viaggio. Utopia e agonismo L’appassionata esaltazione del ruolo chiave dell’istituzione imperiale e l’affermazione della sua provvidenzialità ha indubbiamente i tratti di una generosa utopia di fronte a una realtà storico-sociale che ne smentiva inesorabilmente le premesse: la decadenza dell’impero era ormai realtà, come del tutto insperabile e improbabile la speranza che un salvatore fosse mandato da Dio a por fine all’anarchia delle fazioni dell’Italia comunale. Il poema sacro 4 393
Allo stesso modo, sul piano sociale, era impossibile un ritorno a forme economicosociali ormai legate al passato: soprattutto in Firenze, infatti, lo sviluppo socioeconomico incrementava inesorabilmente l’urbanizzazione, promuoveva sempre più i commerci, la mobilità sociale, l’avanzata del ceto borghese e la diffusione di una visione laica della vita. Eppure l’ispirazione della Commedia è appassionatamente agonistica, attiva: la Commedia non si limita a constatare la presenza del male nella storia, ma incita ogni uomo all’azione generosa che può cambiare il corso della storia e restaurare una civiltà autenticamente cristiana, fedele ai dettami del Vangelo.
4 La Commedia come summa della cultura medievale
Lessico aristotelismo tomistico Influente corrente filosofica basata sul tentativo di armonizzazione tra le dottrine di Aristotele e la teologia cristiana; elaborata nel XIII secolo dal frate domenicano Tommaso d’Aquino, illustre filosofo e teologo medievale, fu criticata specialmente dai francescani.
Lessico eterodosso
Parola chiave
Contrario a quanto ritenuto comunemente vero o giusto nel contesto in cui si vive o a cui ci si riferisce; il contrario di questo aggettivo è “ortodosso” o “conforme”.
Un’opera enciclopedica La Commedia è un’opera enciclopedica, frutto di una cultura sterminata, che intende trasmettere ai lettori insegnamenti morali, concetti filosofici, scientifici e precetti etico-politici. Il capolavoro dantesco si può leggere quindi non solo come testo letterario di altissimo valore poetico, ma anche come grandiosa sintesi dell’intera tradizione culturale classicomedievale. Nella Commedia si danno appuntamento i temi più rilevanti del dibattito ideologico del tempo, come il ruolo e la qualità dell’amore, il rapporto tra fede e ragione e il confronto fra papato e impero. Inoltre appaiono, in veste suggestiva di personaggi, i protagonisti della storia antica (come Giustiniano) e medievale (come Manfredi o Carlo Martello); i più importanti filosofi, pagani e cristiani, da Aristotele («il maestro di color che sanno») a san Bonaventura, ma anche san Tommaso, san Pier Damiani e san Benedetto; ancora, i maggiori poeti antichi (come Omero e lo stesso Virgilio) e del tempo di Dante, da Arnaut Daniel a Guido Guinizzelli. Il modello ideologico-culturale della Commedia: “pluralità nell’unità” La potente tendenza alla sintesi e al sincretismo culturale è percepibile in ogni pagina della Commedia. Soprattutto quando scrive il Paradiso, Dante è ormai al di sopra delle aspre battaglie ideologiche che nel suo tempo contrapponevano, in modo a volte addirittura feroce, esponenti di diverse correnti filosofiche e politiche. L’autore della Commedia crede invece nella possibilità e nella positività della conciliazione in particolare, pur subordinandola alla fede, salvaguarda la dignità della ragione, e assume una posizione equilibrata tra aristotelismo tomistico e misticismo francescano accogliendo nel poema le suggestioni di entrambe le correnti senza escludere posizioni eterodosse . L’apertura al pluralismo ideologico è da Dante efficacemente ritratta nella figurazione delle due “corone” di spiriti che, nel cielo del Sole (il cielo dei sapienti), circondano Beatrice e Dante, forse a simboleggiare la necessaria convergenza delle varie posizioni ideologiche verso la fede e la verità rivelata.
Sincretismo Il termine sincretismo (dal greco synkretismós, in origine nel senso di “coalizione cretese”, a proposito della capacità mostrata dai cretesi di coalizzarsi di fronte a un grave pericolo esterno) nel tempo passa a indicare la tendenza a conciliare, fondendone i diversi elementi, tradizioni religiose differenti (come avvenne nell’età
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dell’ellenismo o nel tardo Impero romano) o modelli culturali diversi. Nel Medioevo molti elementi della cultura pagana furono assorbiti da quella cristiana attraverso una reinterpretazione e un adattamento di essi ai parametri della cultura cristiano-medievale.
Tra i giuristi, gli enciclopedisti, i filosofi e teologi che nel loro insieme concretizzano l’idea medievale del sapere, Dante rappresenta sia la posizione “ufficiale” di un indirizzo di pensiero, sia le posizioni di “frontiera”, di cui implicitamente riconosce la piena legittimità nella comune ricerca della verità: l’averroista Sigieri di Brabante, antagonista di Tommaso e personaggio sospetto di eresia, nel Paradiso di Dante trova significativamente posto proprio accanto a Tommaso; Gioacchino da Fiore è alla sinistra di Bonaventura da Bagnoregio. Dante e la cultura classica Non manca infine – e ha anzi un ruolo fondamentale – l’apporto della cultura classica: il sostrato letterario della Commedia testimonia la costante influenza della letteratura latina, da Virgilio a Stazio, da Cicerone a Livio, senza dimenticare Orazio, Persio e Lucano. La cultura classica è da Dante interpretata, secondo l’ottica medievale, come prefigurazione della cultura cristiana: ne sono piena espressione il ruolo guida di Virgilio e l’interpretazione della sua opera (vedi in particolare Pg XXI e XXII). «E io fui sesto tra cotanto senno»: un nuovo “auctor” Che Dante avesse piena consapevolezza del posto privilegiato che occupava nella cultura del suo tempo lo dimostra un celebre passo dell’Inferno. Nel IV canto, in cui immagina di incontrare nel Limbo i grandi spiriti dell’antichità classica (gli “spiriti magni”), egli si unisce al gruppo delle maggiori auctoritates letterarie del Medioevo (Omero, Orazio, Virgilio, Ovidio e Lucano) e immagina di poter conversare con loro «alla pari», di essere «sesto tra cotanto senno» (➜ T24b ): attraverso questa celeberrima espressione, il poeta fiorentino traduce l’orgogliosa consapevolezza della propria grandezza di scrittore e di intellettuale, riconoscendosi il ruolo di principale mediatore tra cultura classica e cultura medievale. Il poeta fiorentino va considerato come nuovo “auctor“ della cultura romanza, capace di proporsi al suo tempo con la stessa “autorevolezza”, appunto, dei grandi autori classici che costituivano i pilastri della cultura medievale (➜ T24a,b ).
5 Le tecniche narrative Lo statuto del narratore e l’immagine del lettore La Commedia come “Danteide” La Commedia è un poema epico-romanzesco narrato in prima persona. Una tipologia narrativa non nuova nella tradizione romanza (è presente tra l’altro nel Roman de la Rose e nel Tesoretto); ma originale è certamente la marcata identità, lo spessore psicologico del narratore, che è anche il protagonista dell’opera: una figura largamente sovrapponibile alla figura storica di Dante. Nel poema vibrano infatti le passioni, fremono gli odi stessi di un uomo vero, si riflette l’avventura umana e intellettuale del poeta fiorentino Dante Alighieri. La duplicità dei piani narrativi: Dante autore/narratore e Dante personaggio È una consuetudine critica ormai consolidata la distinzione nell’opera tra Dante autore e Dante personaggio o, con maggiore precisione, tra autore/io narrante e personaggio/io narrato. Per lo più, la narrazione adotta il “punto di vista” limitato, incompleto, a volte addirittura erroneo, del personaggio: una strategia narrativa che favorisce l’immedesimazione del lettore, necessaria affinché egli possa compiere lo stesso cammino salvifico del protagonista. Il poema sacro 4 395
Il protagonista, di cui si narra il viaggio e la cui figura si palesa soprattutto attraverso i dialoghi con gli spiriti, è un personaggio “dinamico”, non fissato per l’eternità (come invece le anime che incontra), è un soggetto alla ricerca di sé e della propria salvezza spirituale. Soprattutto all’inizio dell’opera egli appare esitante, dubbioso, timoroso che il viaggio stesso possa essere “folle”, ovvero frutto di superbia intellettuale (➜ T22d ). Di fatto, comunque, le due figure interagiscono con diversi equilibri e modalità per tutto il poema: ad esempio, nel canto XXXIII dell’Inferno, al silenzio del personaggio di fronte al tragico racconto di Ugolino fa da contrappunto il prorompente sdegno dell’io narrante, che condanna senza mezze misure lo spegnersi di ogni umana pietà, l’assenza di valori che ha consentito in Pisa l’orribile fine del dannato e della sua famiglia («Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese là dove ’l sì suona...» If XXXIII, 79-80). Noi lettori (di allora e di oggi) ora prestiamo orecchio alle severe rampogne dell’io narrante, ora trepidiamo con il personaggio di fronte alle minacciose parole che legge sulla porta dell’Inferno (➜ T22c ) e fatichiamo fisicamente con lui a scendere e salire nell’oscurità delle Malebolge. Il risultato è qualcosa di straordinario, di assolutamente unico: un’altissima lezione morale, religiosa, culturale, ma anche una narrazione mozzafiato, non priva di momenti di vera e propria suspense e sempre avvincente, come nella scena chiave in cui Lucifero, il signore del male, è presentato attraverso lo sguardo inorridito di Dante personaggio.
Lessico allocuzione Atto, intervento del parlante (o dello scrivente) attraverso il quale egli si rivolge a chi ascolta (o legge).
L’immagine del lettore: doppio del protagonista Nell’itinerario del protagonista si rispecchia anche il lettore: anche lui è “un uomo in cammino”, accomunato al personaggio dal viaggio conoscitivo e morale che egli compie in nome di tutta l’umanità. Proprio perché l’autore attiva forti processi di immedesimazione, il lettore della Commedia si sente vicino e quasi sovrapponibile al pellegrino protagonista; ne condivide dubbi, paure, turbamenti; “vede” con i suoi occhi (un’immedesimazione ancora più facile per il lettore contemporaneo a Dante, coinvolto anche dai frequenti riferimenti alla cronaca e alla realtà politica del tempo). Al suo lettore, Dante/autore non chiede però solo immedesimazione e partecipazione emotiva, ma anche attitudine critico-interpretativa: da qui le allocuzioni dirette al lettore perché presti attenzione non superficiale a quanto legge («Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero» Pg VIII, 19). IMMAGINE INTERATTIVA
Ritratto di Dante, la città di Firenze e l’allegoria della Divina Commedia, in un affresco di Domenico di Michelino (1465, Santa Maria del Fiore, Firenze). Dante mostra sul libro aperto l’incipit del poema; a destra Firenze con alcuni monumenti rappresentativi, a sinistra la porta dell’Inferno con figure di ignavi e diavoli. In secondo piano, la montagna del Purgatorio con le sette cornici, l’arcangelo Michele e il Paradiso Terrestre.
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Un pubblico virtuale? Ma concretamente quale pubblico si poteva immaginare Dante come possibile lettore della sua Commedia? Dall’allocuzione che apre il canto II del Paradiso (➜ T24c OL) pare che Dante pensasse per l’ultima cantica a un pubblico elitario («Voialtri pochi», v. 10), munito di un adeguato bagaglio filosofico-teologico. Ma certamente ciò non vale per il complesso del capolavoro dantesco: di fatto, la Commedia (e anche questo è uno dei suoi “miracoli”), proprio per la missione profetica che si propone di svolgere, prevede un pubblico vasto, indifferenziato, di dotti e insieme di gente comune, che di fatto ancora non esisteva: «Dante» – scrive Auerbach – «si creò un pubblico, ma non lo creò solo per sé: creò anche il pubblico per i suoi successori. Egli formò, come possibili lettori per il suo poema, un mondo di uomini che non esisteva ancora quando scriveva e che si costituì lentamente grazie al suo poema e ai poeti che vennero dopo di lui».
Il colloquio con gli spiriti: la costante narrativa del poema Una scelta narrativa funzionale all’obiettivo didattico Per assolvere alla funzione didattica che si propone, Dante non sceglie l’argomentazione astratta ma opta per una struttura narrativa di straordinaria suggestione: il colloquio del protagonista con i morti. Ad esso non rinuncia neppure nel Paradiso e non solo per ragioni legate alla simmetria richiesta dalla poetica medievale, ma perché nelle prime due cantiche ne ha saggiato la forte efficacia, dal momento che le tre parti del lavoro ebbero una diffusione separata. Le problematiche filosofiche, etiche, politiche che il poeta si propone di trattare vengono via via evocate attraverso la viva voce degli spiriti, chiamati al palcoscenico della Commedia dalla potente fantasia creatrice di Dante autore che li porta a colloquiare con Dante personaggio. online
Verso il Novecento Testimonianze dall’aldilà: l’Antologia di Spoon River
Una straordinaria galleria di personaggi La Commedia è la più vasta galleria di personaggi mai creata da alcuno scrittore nella letteratura mondiale: più di cinquecento, alcuni dei quali – come il conte Ugolino e Farinata degli Uberti – iscritti indelebilmente nella memoria collettiva. Si tratta di personalità dalle più varie provenienze: possono essere ai vertici della gerarchia sociale (come re, imperatori, papi, grandi nobili) ma possono essere anche borghesi; molti sono tratti dalla cronaca locale fiorentina e toscana o da un recente passato e riverberano nella Commedia le aspre contese che contrapponevano i comuni dell’area. Non mancano personaggi, come lo stesso Virgilio o Ulisse, tratti dall’antichità classica e dalla letteratura. Essenze di vite e testimonianze “esemplari” Tutti i personaggi della Commedia rispondono, in modo più o meno marcato a seconda dell’importanza del tema che Dante intende trattare, alla funzione di exempla morali, in positivo e in negativo: il Sommo Poeta li fa riemergere dalla memoria personale o collettiva non per interessare genericamente il lettore alle loro vicende personali, ai loro intimi segreti, ma esclusivamente per trasmettere un insegnamento morale-religioso. Da questa fondamentale funzione del personaggio dantesco deriva una costante nel “metodo” con cui Dante costruisce il personaggio stesso e struttura il colloquio. La brevitas come metodo narrativo È giustamente celebrata la potente capacità sintetica di Dante: in pochissimi versi egli è capace di delineare una figura, di tratteggiare una vita intera. Ma forse non si sottolinea abbastanza che questa brevitas Il poema sacro 4 397
è la diretta conseguenza della prospettiva didattica adottata dall’autore in tutta la Commedia: lo scrittore infatti evidenzia solo quegli aspetti ed elementi biografici che concorrono all’esemplarità della testimonianza, fissando il personaggio nel momento culminante della sua vita che decide la sua sorte nell’eternità, come è evidente nel celeberrimo discorso di Francesca da Rimini o nella tragica testimonianza del suicida Pier delle Vigne (➜ T26a ➜ T26b OL). Il principio del contrappasso Sia nell’Inferno che nel Purgatorio Dante istituisce, seppur in modo non meccanico e ripetitivo, un particolare rapporto tra colpa e pena noto come principio del “contrappasso”: la pena corrisponde, per analogia oppure per contrasto, al tipo di colpa o comunque in qualche modo la richiama. Si tratta di una scelta, è bene sottolinearlo, che ha pur sempre a che fare con la finalità didattica che ispira il poema: la sottolineatura del parallelismo colpa-pena è volta infatti a enfatizzare il peccato, a stamparlo, attraverso immagini di grande evidenza, nella mente del lettore. Qualche esempio: lo struggente racconto di Francesca da Rimini (If V), caduta in peccato di lussuria con il cognato Paolo, non avrebbe lo stesso impatto sul lettore e la stessa forza dimostrativa se chi legge non iscrivesse mentalmente la dolorosa testimonianza della giovane donna sullo sfondo della tempesta («La bufera infernal, che mai non resta»: If V, 31) che trascina in eterno i lussuriosi, così come in vita li travolse la bufera dei sensi (è questo, appunto, il peccato dei lussuriosi). E ancora più angoscioso (e perciò esemplare) risulta il racconto del suicida Pier della Vigna (If XIII), se si considera che le sue parole fuoriescono stentatamente da un tronco spinoso; chi ha scelto, come appunto i suicidi, di far violenza a quella vita che è dono di Dio e che solo Dio può togliere, è sottoposto dal suo severo giudizio – di cui la fantasia del poeta si fa interprete – a un’orrenda metamorfosi: è infatti un albero contorto, è regredito al regno vegetale, non è degno neppure di sembianze umane, come dis-umana è stata la sua tragica scelta. Il basso peccato della gola trasforma Ciacco e i suoi miseri compagni (If VI) in esseri subumani, («urlar li fa la pioggia come cani»: If VI, 19) la cui coscienza è come assopita perché nella vita hanno assecondato il lato bestiale della natura umana. Sono immersi in una fanghiglia puzzolente, graffiati dal mostro Cerbero che nel suo stesso repellente aspetto traduce visivamente l’ingordigia senza freni. Ancor più evidente è il legame colpa-pena nei golosi del Purgatorio, tra i quali Dante immagina di incontrare l’amico di gioventù Forese Donati: i golosi sono trasformati in scheletri viventi dal desiderio costantemente insoddisfatto di mangiare e di bere. Ma l’espiazione, in questo caso, prevede per i golosi anche la dolcezza di cantare tutti insieme il salmo 50 a Dio, di forte allusività simbolica (per contrasto) alla colpa di cui si sono macchiati in vita e che vanno ormai scontando. «Aprirai le mie labbra, Signore, per cantare le tue lodi» («Labïa mëa, Domine»: Pg XXIII, 11): le labbra che hanno cercato voracemente soddisfazione nel cibo sono ora impiegate per cantare l’amore di Dio. Un ultimo illuminante esempio, tra i moltissimi citabili, dell’efficacia didattica del principio del contrappasso: difficilmente chi legge il canto XI nella seconda cantica può dimenticare l’immagine del gruppo dei penitenti che avanzano lentamente, oppressi da un masso che li costringe a tenere chino quel capo che nella vita terrena usavano altezzosamente tenere alto, come dice uno di loro, il nobile Guglielmo Aldobrandeschi: «...dal sasso / che la cervice mia superba doma, / onde portar convienmi il viso basso» (Pg XI, 52-54).
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La concezione figurale Secondo il critico Auerbach, nella Commedia è ampiamente riscontrabile un metodo di lettura e interpretazione della realtà che era particolarmente diffuso nella cultura cristiana: il metodo “figurale”, attribuzione che deriva dal significato che il termine figura aveva assunto nella tarda latinità, ovvero quello di “prefigurazione” di qualcosa, evento o personaggio. Il primo impiego del termine fu quello di istituire un rapporto tra Vecchio e Nuovo Testamento per il quale il secondo, attuando il disegno di Dio, è “adempimento”, realizzazione del primo, che lo anticipa e prefigura: Cristo dunque “adempie” e completa le figure dei profeti dell’Antico; per contro Mosè, liberando dalla schiavitù d’Egitto il popolo di Israele, è “figura” di Cristo che nel corso successivo della storia libera l’umanità tutta dalla schiavitù del peccato. Secondo questa stessa visione, personalità del mondo pagano possono in qualche modo prefigurare, “adombrare” figure ed eventi del cristianesimo, i quali ne completano il significato in senso appunto religioso e cristiano. Anche la costruzione della maggior parte dei personaggi danteschi nella Commedia risponde alla concezione figurale. Essi conservano la loro individualità terrena, ma al contempo la realizzano nell’aldilà, la “adempiono”: la prospettiva dell’eterno svela il vero senso della loro vita. In particolare la figuralità è evidente in Virgilio, Beatrice, Catone (quest’ultimo non è propriamente una guida, come i primi due personaggi ma, in quanto custode del Purgatorio, ha comunque grande rilevanza simbolica come personaggio). Le guide di Dante: personaggi figurali Virgilio, grande poeta latino del I sec. a.C., autore dell’Eneide, è la prima guida di Dante: accompagna il poeta-pellegrino attraverso Inferno e Purgatorio, per affidarlo poi alla seconda guida, Beatrice. Per comprendere l’importantissimo ruolo che Dante gli affida nella Commedia, è riduttivo e forse anche inesatto considerare Virgilio, come spesso si fa, allegoria della ragione umana. Intanto egli non ha la freddezza di un simbolo astratto: Dante ne fa un personaggio vivo, un vero e proprio deuteragonista, come si dice in ambito drammaturgico, che dialoga costantemente con il protagonista, ed è figura autorevole e insieme amicale, prestigiosa auctoritas culturale e al contempo sostegno, conforto umano per il pellegrino spesso in difficoltà e preda di dubbi. Ma soprattutto Virgilio è personaggio prettamente “figurale” e solo facendo riferimento, come ha fatto Auerbach, al metodo e all’interpretazione figurale, è possibile intenderne pienamente la natura: Virgilio non è solo il poeta ammirato nel Medioevo, ma è l’autore che nel suo poema (l’Eneide) ha già rappresentato l’esperienza del viaggio nell’oltretomba (VI canto) e che ha esaltato, ben prima di Dante, il ruolo provvidenziale dell’Impero, in particolare di quell’Impero di Augusto che celebrò la giustizia e la pace; è colui che, nella quarta ecloga, inconsapevolmente profetizza (secondo un’interpretazione medievale) il nuovo ordine che sarebbe stato portato da Cristo. E dunque il Virgilio della Commedia è “adempimento”, “completamento” del Virgilio storico: il lavoro dantesco completa, in una prospettiva metafisica e cristiana, il viaggio già provvidenziale di Enea, iscrivendo il nuovo iter in un campo di valori nuovo, da cui tutto trae rinnovata illuminazione e spiegazione, anche il ruolo provvidenziale dell’Impero e della storia romana. Con tutto ciò, è certamente vero che Virgilio è anche il simbolo della cultura classica tanto amata e Il poema sacro 4 399
ammirata da Dante, dei suoi valori intellettuali (la razionalità) e comportamentali (la virtù, la saggezza, l’equilibrio); una cultura che Dante valorizza al massimo, ma che non può costituire un riferimento assoluto per l’uomo: anche se Virgilio è stato capace di illuminare la via degli altri verso la verità, non ha potuto raggiungerla ed è escluso per sempre, come il mondo di cui è il portavoce autorevole, dal possesso di tale verità, che coincide con il Verbo di Cristo. Beatrice: come Virgilio, anche Beatrice, la seconda guida di Dante, non è un’allegoria, ma una figura storica reinterpretata in prospettiva figurale. Beatrice è figura chiave nella vita e nell’esperienza poetica di Dante: proviene dal suo passato personale e la sua evocazione nella Commedia concretizza il progetto annunciato nella conclusione della Vita nuova. Con la Commedia il trauma della morte della «gentilissima» viene finalmente colmato con una «rinascita gloriosa della leggenda giovanile» (Borsellino): l’embrione della Commedia, secondo recenti studi, starebbe proprio nel “ritorno a Beatrice”, per la quale il poeta avrebbe pensato inizialmente di comporre un poema “paradisiaco”. Ma il nuovo e ancor più grave trauma dell’esilio deve poi aver trasformato le intenzioni di Dante: ne derivò il grandioso progetto della Commedia, che non nega, ma assorbe al suo interno la celebrazione della donna amata, la quale ricompare nel poema come guida attraverso il Paradiso. Sulla figura di Beatrice, Dante opera una rilettura figurale: l’apparizione della donna amata, accorsa dal cielo in soccorso del suo fedele amico (If II), è costellata di “segnali stilnovistici”, certo non casuali ma intesi a collegare espressamente il personaggio ultraterreno a quello terreno, di cui il primo costituisce non la negazione, ma anzi il pieno completamento, l’adempimento. La donna gentile e cortese, modello di perfezione e bellezza secondo i moduli stilnovistico-cortesi, assume, verso la fine del Purgatorio, quando prende in consegna Dante per accompagnarlo nell’ultimo viaggio, il volto di “madre severa” e insieme diviene figura della fede e della teologia. La “donna della salute”, che già in Terra indusse nel poeta un cammino di salvazione e di elevazione spirituale, nel Paradiso completa il suo ruolo (importante, per il “mito di Beatrice”, tutto il passo di Pd XXXI, 79-90): colei che gli fu guida nel breve e fallace itinerario terreno, diventa ora guida alla visione di Dio, che solo la fede e i sussidi della “scienza del divino”, ovvero la teologia, possono garantire. Nel Paradiso, Beatrice risolve dubbi filosofici e illustra al poeta complesse verità teologiche; ma non per questo è censurata quella bellezza che un giorno lontano ammaliò il giovane poeta, bensì è ulteriormente esaltata: anzi, quella che caratterizza la Beatrice del Paradiso è una bellezza molto meno astratta e stilizzata rispetto al libello giovanile.
Beatrice e Virgilio in una tavola di Gustave Doré per l’edizione illustrata del poema (Parigi, 1861-68).
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Le forme della rappresentazione: realismo e simbolismo Il realismo È giustamente celebrata l’ineguagliabile potenza del realismo dantesco. Già Leopardi nello Zibaldone identificava la forza dello stile di Dante nella sua capacità immaginativa e più di un secolo dopo Montale parlava di capacità di «rendere sensibile l’astratto, di rendere corporeo anche l’immateriale». Ed effettivamente, soprattutto nell’Inferno, la rappresentazione di Dante è sempre “visiva”, affidata a immagini di concreta evidenza: l’autore è maestro nel rappresentare aspetti fisici e sensibili delle anime, a fissarli in gesti espressivi. Gli stessi stati d’animo, come è stato osservato, si traducono in immagini di forte plasticità: non a caso il poeta è contemporaneo di Giotto. Il realismo dantesco è anche e soprattutto realismo linguistico e corrisponde a un’esplorazione del reale a tutto campo, dalla quale nulla rimane escluso: lo sguardo di Dante trapassa dal mondo naturale a quello cosmologico, dalla vita quotidiana alla sfera intellettuale e alla rappresentazione di sensazioni e passioni. È importante però precisare che, allo stesso modo del simbolismo (l’altra faccia dell’arte dantesca), anche il realismo è finalizzato all’obiettivo didattico che tanto sta a cuore a Dante: proprio colpendo, come egli magistralmente sa fare, la fantasia, i sensi, la vista, l’udito del lettore, il poeta della Commedia può svolgere la sua missione educativa. Uno strumento del realismo: la similitudine Strumento fondamentale del realismo dantesco è la similitudine: figura retorica tipica dell’epica classica, usata (e abusata) nella nostra tradizione poetica con funzione essenzialmente esornativa, la similitudine è invece per lo più impiegata da Dante proprio in funzione del realismo rappresentativo. Attraverso la similitudine il poeta riconduce infatti gli accadimenti ultraterreni, difficilmente commensurabili all’esperienza umana, soprattutto nel Paradiso, al vissuto e all’immaginario di ogni uomo. Il critico Nicolò Mineo distingue più precisamente nella Commedia due tipi di similitudine: «quella tendente a dar rilievo, attraverso un richiamo paradigmatico, a un momento della narrazione e quella destinata ad illustrare un contenuto astratto»; in ogni caso, la similitudine risponde a una funzionalità di “intensificazione realistica” e di “oratoria didascalica”. Ciò è evidente fin dalla prima, celeberrima similitudine del poema: uscito a fatica dalla selva oscura, Dante si paragona a un naufrago che si volge a guardare, una volta scampato al pericolo, il mare: «E come quei che con lena affannata» (➜ T22a If I, 22-27). I luoghi dell’aldilà evocati dalla fantasia dantesca sono riportati all’esperienza dei lettori del tempo attraverso similitudini che chiamano in gioco zone dell’Italia, ma anche dell’Europa, certo note ai mercanti e ai molti viaggiatori dell’Italia trecentesca: ad esempio le alte muraglie entro cui scorre il fiume infernale Flegetonte sono paragonate alle dighe erette dai «Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia» (If XV, 4); la ripidezza della montagna del Purgatorio è ancora maggiore della costa ligure tra Lerici e Monaco: «Tra Lerice e Turbìa la più diserta, / la più rotta ruina è una scala, verso di quella (in confronto a quella) agevole e aperta» (Pg III, 49-51). È costante in tutta la Commedia lo sforzo di ricondurre ciò che accade nel viaggio oltremondano alla vita comune: circondato dai penitenti, incuriositi dalla sua privilegiata condizione di vivo tra i morti e desiderosi di ottenere preghiere da parte dei viventi quando sarà tornato sulla Terra, il poeta si paragona al giocatore vincitore di un gioco allora popolare «Quando si parte il gioco de la zara» (Pg VI, 1). Lo strumento della similitudine diventa ancor più necessario nel Paradiso, il regno della “poesia impossibile” che impone al poeta ardue e nuove sfide: la luce abbaglianIl poema sacro 4 401
te che colpisce il pellegrino che con Beatrice sta attraversando la sfera del fuoco è allora paragonata al ferro incandescente «che bogliente esce dal foco» (Pd I, 60). Gli spiriti mancanti ai voti del cielo della Luna (Pd III, 10-16) appaiono a Dante come immagini riflesse: «Quali per vetri trasparenti e tersi, / o ver per acque nitide e tranquille, / [...] tornan d’i nostri visi le postille / [...] tali vid’io più facce a parlar pronte». Non mancano ovviamente, e sono anzi assai diffuse, similitudini destinate soprattutto al lettore colto e attinte per lo più dalla mitologia classica attraverso la costante mediazione delle Metamorfosi di Ovidio: ad esempio l’esperienza sconvolgente del “trasumanare”, dell’oltrepassare cioè i confini della dimensione umana, non è certo comprensibile a chi è ancora totalmente immerso nella condizione terrestre; e il poeta ben lo sa: «Trasumanar significar per verba / non si porìa» (Pd I, 70-71). Dante ricorre allora a un esempio mitologico certo noto ai lettori colti del tempo, paragonandosi a Glauco, divenuto divinità marina. Il simbolismo La tendenza opposta a quella del realismo, ma cooperante con essa al fine educativo del poema, è il simbolismo, più direttamente connesso alla poetica e all’ottica stessa del Medioevo, che percepisce la realtà sensibile come specchio e figura di una più profonda realtà religioso-spirituale (➜ SCENARI, PAG. 40). La tendenza a una rappresentazione simbolico-allegorica è particolarmente evidente (e doveva esserlo tanto più per il lettore del tempo) in alcune immagini e figure del primo canto della Commedia: la selva oscura in cui il poeta si smarrisce rimanda alla condizione angosciosa del peccato, le tre fiere che ostacolano la sua ascesa del dilettoso monte (la via del bene, illuminata dalla Grazia divina) simboleggiano tre peccati capitali (la lussuria, la superbia, l’avidità) mentre il cane da caccia (il «veltro» nel testo) che ricaccerà la lupa nell’Inferno è immagine allegorica di un misterioso salvatore dell’umanità. Spazio e tempo Gli stessi modelli spaziali entro cui si iscrive il viaggio di Dante sono simbolici. Nella Commedia è fortemente marcata l’opposizione alto/basso, con connotazione rispettivamente positiva e negativa: la voragine dell’Inferno è la traduzione, di immediata evidenza simbolica, della caduta nel peccato, così come la montagna del Purgatorio che Dante e Virgilio salgono corrisponde simbolicamente all’ascesa, alla purificazione dal peccato. Anche le connotazioni temporali del viaggio si prestano a significazioni simboliche. L’ingresso nell’Inferno avviene di notte, il cammino del Purgatorio inizia all’alba, l’ascesa del Paradiso a mezzogiorno: nella simbologia cristiano-medievale questi tre momenti della giornata erano comunemente associati alla disperazione, alla speranza, alla salvezza.
Realismo e simbolismo nella Commedia Le due dimensioni della narrazione nella Commedia
Realismo
Simbolismo - allegorismo
Forte caratterizzazione nella presentazione di situazioni, ambienti e personaggi
Rimando a un significato religioso di personaggi, spazi e tempi
contribuiscono entrambe al fine didattico
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6 Lo stile, la lingua, la metrica Dallo sperimentalismo delle Rime alla lingua “globale” della Commedia All’inizio del Trecento la lingua poetica contava in Italia meno di un secolo di vita ed era testimoniata soprattutto da due opposte esperienze, certo importanti, ma entrambe per ragioni diverse destinate a non influire in modo rilevante sul destino della lingua: da un lato la poesia religiosa, con la sua virulenza plebea, i suoi forti prestiti dialettali; sul fronte opposto, la lingua selettiva e raffinata della lirica siciliana e poi stilnovistica, impiegata esclusivamente per rappresentare la sfera dell’io in rapporto al tema dell’amore. Con la Commedia Dante invece “inventa” (in un modo che appare ancora oggi sbalorditivo) una lingua “globale” per una rappresentazione “globale”. Già aveva evidenziato nelle sue precedenti esperienze poetiche, in particolare nelle Rime, una forte vocazione sperimentale; nella Commedia egli non solo mette a frutto le conoscenze linguistiche acquisite, ma le amplia enormemente grazie anche a un’illimitata curiosità terminologico-lessicale. Nel poema dominano infatti una ricchezza e un’originalità di scelte formali e stilistiche che non ha precedenti né modelli canonici: la Commedia non è infatti scritta in stile “mezzano”, come ci si sarebbe potuti aspettare, né tragico o umile, bensì in tutti gli stili possibili. Oltre il De vulgari eloquentia: fiorentinità e plurilinguismo Nella realizzazione del suo capolavoro, dunque, Dante oltrepassa (e di fatto contesta) le posizioni da lui stesso assunte nel De vulgari eloquentia: innanzitutto la Commedia attinge la maggior parte delle parole impiegate dal fiorentino (di cui oltretutto accoglie anche forme prettamente vernacolari), mentre il trattato teorizzava la necessità di una lingua sovra-regionale, di fatto ideale. Inoltre la lingua usata è spesso (soprattutto nella prima cantica) ben lontana dal volgare illustre, aulico che Dante aveva cercato di delineare: utilizza infatti una varietà estrema di registri, che non escludono il lessico familiare, considerato inopportuno nel trattato (come ad es. i termini «pappo» e «dindi» usati dai bambini piccoli), e persino quello scurrile («puttaneggiar»). La “contaminazione” degli stili Nella Commedia domina un’assoluta libertà linguistica, sempre funzionale a specifici obiettivi; la lingua di Dante spazia dal linguaggio comico-realistico al sublime-tragico e di fatto attua la contaminazione degli stili non solo nel complesso dell’opera, ma all’interno di una stessa cantica: il Paradiso, prevalentemente scritto in stile tragico, sotto la spinta dell’indignazione e della polemica, ospita vertiginosi abbassamenti linguistici, come nel caso della tirata contro la degenerazione del papato messa in bocca niente meno che a san Pietro (nelle parole dell’apostolo la sede papale è definita «cloaca / del sangue e de la puzza»: Pd XXVII 25-26 ➜ T28a 2 ). Ma l’abbattimento degli “steccati” linguistici propri del Medioevo si verifica anche nelle parole di uno stesso personaggio: Cacciaguida, il trisavolo di Dante, esordisce con solenni parole in latino: «O sanguis meus, o superinfusa / gratïa Deï...» (Pd XV, 28-29); ma, per invitare Dante a mostrare ai viventi quello che ha visto nel viaggio e a ignorare le inevitabili reazioni negative che le sue parole susciteranno, usa un’icastica espressione che starebbe bene in bocca a un popolano («e lascia pur grattar dov’è la rogna»: Pd XVII, 129). La contaminazione degli stili può persino verificarsi all’interno della breve misura di un solo verso: all’incipit della celebre apostrofe all’Italia («Ahi serva Italia, di doIl poema sacro 4 403
lore ostello») segue la fremente denuncia della decadenza del paese: «non donna di provincie, ma bordello!» (Pg VI, 78): in un solo verso Dante contrappone, in forte antitesi, il latinismo «donna di provincie» (domina provinciarum, signora di province, come era stata l’Italia al tempo dell’Impero romano) a «bordello», termine inequivocabilmente basso. Una straordinaria ricchezza lessicale Nella Commedia Dante attua un’esplorazione a tutto campo del linguaggio a disposizione della sua ricca competenza linguistico-culturale: usa molti latinismi, soprattutto nel Paradiso; assume termini da altre aree linguistiche, italiane e non (in particolare alcuni gallicismi, come «miraglio» “specchio” o «riviera» “fiume”); dà spazio a seconda delle necessità poetiche a tutte le varianti linguistiche possibili per uno stesso termine: ad es., per dire “vecchio” il poeta usa ben tre varianti: «vecchio» per Caronte, il nocchiero infernale (If II, 83), il gallicismo «veglio» per il custode autorevole del Purgatorio, Catone l’Uticense (Pg I, 31) e infine il latinismo «sene» per san Bernardo nel Paradiso (Pd XXXI, 59). Ma le parole a disposizione a volte non bastano e Dante allora conia dei neologismi (circa cento; ad es. da pronomi possessivi: «in-lui-arsi»; da avverbi: «in-semprarsi»), in particolare nel Paradiso, la cantica in cui le possibilità espressive della lingua sono portate ai confini stessi della significatività. Il vero miracolo della Commedia non è allora l’ideazione o la grande capacità narrativa, il vero miracolo è la lingua: una lingua straordinariamente duttile a evocare suoni («che mugghia come fa mar per tempesta»: If V, 29) e sensazioni fisiche (come nella terribile descrizione di Ugolino che riprende a mordere il cranio dell’arcivescovo Ruggeri: «riprese ’l teschio misero co’denti, / che furo a l’osso, come d’un can, forti»: If XXXIII, 77-78), o che sa inglobare termini della speculazione filosofica o della teologia, ma anche creare un verso di sublime semplicità come «la bocca mi basciò tutto tremante» (If V, 136), che si scolpisce nella memoria del lettore. La metrica: la terzina dantesca Anche sul piano delle scelte metriche Dante mostra nella Commedia straordinaria originalità: non è possibile ridurre a schemi univoci la metrica dantesca, tanto è ricca e variata nella scelta delle rime, delle simmetrie, delle cadenze ritmiche del verso. Il verso usato dall’autore per il suo poema è l’endecasillabo, organizzato sul piano strofico in terzine a rima incatenata, secondo cioè lo schema ABA BCB CDC e così via, fino a concludere ogni canto con un verso isolato che rima con il terz’ultimo: «La terzina di Dante» scrive Fortini «protende un verso – il secondo – che non ha pace finché non trova una sua rima oltre il terzo verso e così spinge avanti il processo sonoro fino a quando, con quell’ultimo verso isolato, lo arresta». Dante incontra le fiere. Incipit dell’Inferno in un manoscritto del XIV secolo (Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze).
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Una scelta dunque, quella della terzina, che risulta pienamente funzionale al movimento narrativo: da un lato, infatti, la strofe dantesca è una struttura compatta (circa nella metà dei casi ogni terzina corrisponde a un periodo concluso), dall’altro l’incatenamento delle rime apre ogni strofa alle successive, rilanciando continuamente in avanti la narrazione. Nell’universo della Commedia la terzina è impiegata con straordinaria elasticità, piegandosi a ospitare parti narrative e dialoghi, enunciati di carattere descrittivo e riflessivo, squarci lirici, aspre invettive. La naturalezza con cui il poeta utilizza la “sua” terzina è tale che giustamente è stato detto che Dante “pensa per terzine” (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE, Pensar per terzine, PAG. 406). La rima e il ritmo degli endecasillabi La rima è di sicuro uno degli strumenti espressivi fondamentali della Commedia e collabora intensivamente nell’organizzare il ritmo poetico. La ricerca di rime inusuali, inattese, ricche, che ha stimolato in Dante la stessa invenzione linguistica, non ha mai valore fine a sé stesso, non è mai preziosismo da letterati, ma tende a fissare in modo icastico un concetto, un’immagine, nella mente dei lettori. Attraverso lo studio attento delle rime il poeta cercava forse anche di favorire (e ci riuscì pienamente) la memorabilità dei versi. Estremamente vario è anche l’endecasillabo dantesco: Dante ne utilizza tutte le possibili accentazioni, conferendo al verso ritmi e quindi effetti poetici sempre diversi. Addirittura possono avere diversissimo timbro espressivo due endecasillabi con lo stesso ritmo di accenti tonici (ictus): ad esempio l’endecasillabo «E càddi còme còrpo mòrto càde» (If V, 142), lento e franto, suona ben diversamente da «Di quà, di là, di giù, di sù li mèna» (If V, 43), in un movimento regolare a monosillabi, sebbene la disposizione degli ictus sia identica (in 2a, 4a, 6a, 8a, fissa 10a).
PER APPROFONDIRE
Lingua e stile della Commedia
Lingua
• volgare fiorentino • prestiti da: altri volgari italiani, latino, lingue romanze • neologismi (dantismi)
Plurilinguismo
Stile
• commistione di comico e tragico
Pluristilismo
Perché si parla di Dante come “padre” della lingua italiana? Il contributo della Commedia all’arricchimento e stabilizzazione della lingua volgare, e non solo in ambito strettamente poetico, è stato fondamentale. È stato calcolato che il 50% delle parole base dell’italiano (almeno fino alla metà del Novecento) era già in uso nel Duecento, di cui ben il 15%, secondo gli studi del linguista Tullio De Mauro, è frutto proprio dell’apporto di Dante. Di fatto però, come osserva il critico Enrico Malato, il ruolo del poema nella storia della lingua italiana va accentuato
ulteriormente, perché moltissime parole attestate nel XIII secolo sono accolte dalla Commedia, che le ha vitalizzate e ha conferito loro autorevolezza, acquisendole definitivamente al patrimonio linguistico nazionale. Dunque fu soprattutto Dante a mostrare «ciò che potea la lingua nostra» (Pg VII, 17), facendone un potente strumento di cultura anche a livello popolare, ed è perciò pienamente motivato il tradizionale giudizio che ne fa il “padre” della lingua italiana.
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INTERPRETAZIONI CRITICHE
Mario Fubini Pensar per terzine M. Fubini, La terzina dantesca, in Metrica e poesia, Feltrinelli, Milano 1975
Nel breve passo critico che presentiamo, lo studioso Mario Fubini mette in luce l’importanza che a suo giudizio ebbe la consuetudine di Dante nel ragionamento scolastico, che induce il poeta, appunto, a “pensare per terzine”.
Ora senza dubbio se non nell’invenzione prima, nella creazione della terzina ha avuto una parte determinante la consuetudine del ragionamento scolastico, del sillogismo ternario, per il quale il pensiero si articola attraverso tre proposizioni. Ricordiamo anche l’importanza delle sentenze di Dante, come esse rispondessero al gusto proprio del Medioevo, quando le arti poetiche insegnavano che le sentenze servono per adornare un componimento, ed esistevano veri e propri repertori di aforismi, sentenze, proverbi a uso degli scrittori e predicatori; Dante in ciò non faceva che seguire il suo tempo, ma quello che per gli altri era un semplice ornato retorico, egli assimilò e fece suo proprio nella Divina Commedia che si snoda attraverso un gioco di sentenze, poste al principio (e seguite da un però) o alla chiusa della terzina (precedute da un ché). Questo continuo trapasso dal particolare all’universale e viceversa, che rispondeva all’abito del ragionamento sillogistico, alla mentalità, alla personalità di Dante, ha avuto un’importanza fondamentale nella formazione della terzina; ne derivano certi elementi della sua sintassi, i però, i ché, «ditene dove la montagna giace, /sì che possibil sia l’andare in suso; /ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Pg III, 76 sgg.) e l’incastrarsi di sentenze e definizioni nel periodo principale, per mezzo di proposizioni relative. Tutto ciò si riconnette alla concezione stessa della Divina Commedia, che è la rappresentazione del mondo terreno alla luce di una verità universale, che scende dal cielo e parla per bocca delle guide di Dante. Ma anche nel racconto stesso sentiamo questa tendenza di Dante a riportare ogni fatto particolare a una norma universale, e inserendo ogni fatto nel giro di un sillogismo Dante tende a portare nel suo racconto il ritmo ternario della terzina [...] proprio per questo le sentenze vengono ad avere un valore ritmico e sintattico dominante: molte terzine si aprono [...] con una sentenza, altre invece da una sentenza sono chiuse solennemente [...]. Dante pensa per terzine, discendendo dalle sentenze ai particolari, o risalendo dai particolari alle sentenze, e nelle terzine sentiamo la robusta architettura intellettuale del suo poema.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Interpretazione
1. Che cos’è il sillogismo ternario secondo il critico Fubini? 2. Perché sono importanti le sentenze in Dante? In che cosa si differenzia Dante nell’uso delle sentenze? 3. Grazie a quale cultura a Dante viene naturale ragionare per terzine? 4. Rintraccia e sottolinea nel testo la tesi del brano. 5. Spiega come le scelte stilistiche di Dante si riconnettono alla concezione della Commedia (max 15 righe).
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T22
Il viaggio provvidenziale di Dante vs il viaggio proibito Il viaggio di Dante ha valenza simbolica: è il percorso dell’uomo (o meglio del cosiddetto ego agens) verso la purificazione e la redenzione, personale e sociale. Si tratta cioè di un percorso interiore e universale, intimo e collettivo, fondato su tappe di rivelazionevisione, per ritrovare la smarrita retta via. Proponiamo di seguito alcuni passaggi del poema in cui si delineano queste tappe simboliche.
T22a
Dante Alighieri
Il prologo del poema Inferno I D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Il primo canto della Commedia costituisce il prologo non solo dell’Inferno ma dell’intero poema. Pone infatti le premesse che giustificano l’esperienza eccezionale del viaggio oltremondano e ne rappresenta il necessario antefatto. Insieme al protagonista, che emerge subito in primo piano nell’incipit dell’opera, anche il lettore si trova catapultato in un universo simbolico e assiste allo svolgersi del dramma della coscienza umana smarrita nelle tenebre del male (la selva oscura), anelante alla salvezza (il colle illuminato dal sole), ma incapace di raggiungerla con le proprie forze, perché facile preda delle tendenze peccaminose (le tre fiere). Insperato e inatteso, giunge al protagonista l’aiuto di un misterioso personaggio, che si rivela presto essere il grande poeta latino Virgilio, autore dell’Eneide. Egli si propone di guidarlo attraverso l’Inferno e il Purgatorio: infatti, solo affrontando questo viaggio conoscitivo nel regno dei morti (che sarà completato da Beatrice, guida nel Paradiso) il protagonista potrà ritrovare la diritta via e raggiungere la salvezza. Dante accetta la proposta dell’antico poeta e il viaggio ultraterreno ha inizio.
Nel mezzo del cammin di nostra vita1 mi ritrovai per una selva oscura, 3 ché la diritta via era smarrita2. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte 6 che nel pensier rinova la paura3! Tant’è amara che poco è più morte4; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, 9 dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte5.
1 Nel mezzo... vita: l’indicazione cronologica è di ispirazione biblica (cfr. Isaia 38, 10: «Dissi: nel mezzo della mia vita andrò alle porte dell’Inferno»); nostra connota il carattere universale dell’esperienza del poeta. Le teorie medievali attribuivano all’esistenza umana la durata media di settant’anni. 2 Mi ritrovai... smarrita: la selva oscura rappresenta per allegoria la condizione
della coscienza caduta nel peccato, con riferimento allo smarrimento interiore del poeta dopo la morte della donna amata ma anche all’abbandono della rettitudine morale da parte della società del tempo e, in generale, dell’umanità. 3 Ahi... paura: l’autore segnala la difficoltà a raccontare l’esperienza vissuta nella selva, evidenziando in questo modo il suo doppio ruolo di protagonista e di narratore.
vv. 1-3 A metà del percorso della vita umana mi ritrovai in un bosco privo di luce, perché la via del bene era stata abbandonata. vv. 4-6 Ahimè, quanto è penoso spiegare come era questa selva orrida, intricata e difficile da attraversare, al punto che solo a pensarvi si rinnova la paura. vv. 7-9 La selva è tanto angosciosa che la morte lo è poco di più; ma per parlare del bene che vi trovai, racconterò le altre cose che vi ho visto.
4 Tant’è... morte: la morte a cui il poeta qui allude è quella dell’anima, cioè la dannazione eterna. 5 ma... scorte: prima di intraprendere la strada della salvezza, Dante deve superare le tentazioni sul suo cammino, rappresentate dai successivi incontri.
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Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto 12 che la verace via abbandonai6. Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle7 giunto, là dove terminava quella valle 15 che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta 18 che mena dritto altrui per ogne calle8. Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor9 m’era durata 21 la notte10 ch’i’ passai con tanta pieta. E come quei che11 con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, 24 si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo 27 che non lasciò già mai persona viva12. Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, 30 sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso13. Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta, una lonza14 leggera e presta molto, 33 che di pel macolato era coverta; e non mi si partia dinanzi al volto, anzi ’mpediva tanto il mio cammino, 36 ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto15.
6 Io... abbandonai: il sonno da cui il poeta si dice colpito rappresenta simbolicamente il forte turbamento della coscienza, preludio al peccato. 7 colle: qui, in opposizione alla selva, è l’allegoria della via della virtù. 8 guardai... calle: il gesto di guardare verso l’alto ha valore simbolico, in quanto rappresenta la volontà di sottrarsi al peccato, mentre la luce del sole che illumina il colle allude alla grazia divina, guida degli uomini nella vita virtuosa. Pianeta: secondo la concezione tolemaica il sole è un pianeta che gira intorno alla Terra, immobile al centro dell’universo. 9 lago del cor: l’immagine del lago del cor, già presente nella poesia stilnovisti-
ca, viene dalla medicina del tempo, che concepiva il cuore come una cavità in cui si raccoglie il sangue. 10 notte: è simbolo del peccato e dell’ottenebramento della coscienza. 11 E come quei che...: è la prima similitudine del poema, procedimento che Dante utilizza con grande frequenza; come in seguito, lo stato d’animo del protagonista è reso attraverso il paragone con una situazione reale, che qui è quella del naufrago sfuggito al rischio di morire affogato, la quale ben rende il sollievo per il superamento del pericolo mortale. 12 non lasciò... viva: in quanto il peccato conduce alla dannazione eterna e quindi alla morte dell’anima.
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vv. 10-12 Io non so spiegare bene come vi entrai, tanto ero addormentato nel momento in cui lasciai la via del bene, della verità. vv. 13-15 Ma dopo che giunsi ai piedi di un colle, dove terminava la valle che mi aveva riempito di paura il cuore, vv. 16-18 guardai verso l’alto e vidi i pendii del colle illuminati dai raggi del sole che guida sulla retta via ogni uomo, qualunque cammino percorra. vv. 19-21 Si acquieta un poco allora l’angoscia, che era perdurata nel profondo del cuore per tutto il tempo trascorso con tanta inquietudine. vv. 22-24 E come colui che, con respiro affannato, uscito dal mare e giunto sulla riva, si volge indietro a guardare l’acqua pericolosa, vv. 25-27 così il mio animo, che ancora stava fuggendo dal pericolo, si rivolse a guardare quel passaggio che non lasciò mai persona viva. vv. 28-30 Dopo che ebbi riposato brevemente il corpo stanco, ripresi il cammino lungo il pendio solitario, procedendo in salita, per cui il piede fermo stava sempre più in basso. vv. 31-33 Ed ecco, all’inizio della salita, una lonza agile e veloce, che era coperta da un pelo maculato; vv. 34-36 e non si allontanava da davanti, anzi mi ostacolava il cammino, tanto che più volte fui sul punto di tornare indietro.
13 Poi... basso: l’elemento descrittivo ha valore allegorico: rappresenta gli ostacoli interiori che frenano il poeta nel suo cammino verso il colle, cioè verso la salvezza. 14 lonza: simile a un leopardo o a una lince, questo felino ha significato allegorico; l’ipotesi più accreditata la identifica nel simbolo della lussuria, per le sue caratteristiche che rimandano a qualcosa di attraente, che affascina. 15 volte vòlto: oltre alla paronomasia (accostamento di parole con suoni simili) è presente la rima equivoca (cioè con una parola eguale ma di significato diverso) con volto del v. 34.
Temp’era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle 39 ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle16; sì ch’a bene sperar m’era cagione 42 di quella fiera a la gaetta pelle l’ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse 45 la vista che m’apparve d’un leone17. Questi parea che contra me venisse con la test’alta e con rabbiosa fame, 48 sì che parea che l’aere ne tremesse18. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, 51 e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, 54 ch’io perdei la speranza de l’altezza19. E qual è quei che volontieri acquista, e giugne ’l tempo che perder lo face, 57 che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi ’ncontro, a poco a poco 60 mi ripigneva là dove ’l sol tace20. Mentre ch’i’ rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto 63 chi per lungo silenzio parea fioco21. Quando vidi costui nel gran diserto22, «Miserere23 di me», gridai a lui, 66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
16 Temp’era... belle: secondo la tradizione, la creazione dell’universo sarebbe avvenuta sotto il segno zodiacale dell’Ariete, e precisamente nell’equinozio di primavera. 17 sì... leone: il poeta fa coincidere il sentimento interiore di speranza col risveglio della natura, che corrisponde alla nascita del giorno e alla primavera. 18 Questi... tremesse: l’immagine del leone famelico (rabbiosa fame) è emblema della violenza. 19 Ed una lupa... altezza: sul significato allegorico delle tre fiere diverse sono le interpretazioni: alcuni studiosi identi-
ficano la lonza con la lussuria, il leone con la superbia e la lupa con la cupidigia; altri le fanno corrispondere alle tre inclinazioni al vizio – frode, violenza e incontinenza, cioè incapacità di frenare i propri impulsi – rispecchiate dalle tre grandi ripartizioni dell’Inferno. 20 là dove... tace: cioè nella selva e quindi nel peccato. La sinestesia ’l sol tace (con accostati due termini appartenenti a percezioni sensoriali diverse: vista e udito) acuisce l’immagine del buio grazie al senso di solitudine evocato dal silenzio. 21 chi per lungo... fioco: il v. 63 non risulta molto chiaro a livello letterale, poi-
vv. 37-39 Era l’inizio del mattino e il sole saliva in cielo congiunto con quella costellazione in cui si trovava quando Dio, con un atto d’amore, vv. 40-42 impresse per la prima volta il movimento ai corpi celesti. Cosicché m’inducevano a sperare di poter sfuggire a quella fiera dal pelo maculato vv. 43-45 l’ora mattutina e la stagione primaverile; ma non al punto da evitarmi lo spavento nel veder comparire un leone. vv. 46-48 La nuova fiera sembrava dirigersi contro di me, con la testa alta e con fame rabbiosa, tanto che sembrava che l’aria intorno ne tremasse. vv. 49-51 E una lupa, che di tutti i segni della cupidigia sembrava piena per la sua magrezza, e aveva già provocato sofferenze a molte persone, vv. 52-54 mi causò un tale affanno, con la paura suscitata dal suo aspetto, che perdetti la speranza di raggiungere la cima del colle. vv. 55-57 E come colui che volentieri accumula ricchezze e, quando giunge il momento che gli fa perdere tutto, dentro di sé non smette di piangere e di incupirsi, vv. 58-60 tale mi rese la bestia insaziabile che, venendomi incontro, a poco a poco mi ricacciava là dove non giunge la luce del sole. vv. 61-63 Mentre io precipitavo in basso verso la selva, dinanzi agli occhi mi apparve uno che, per essere stato a lungo silenzioso, sembrava aver perso la parola. vv. 64-66 Quando vidi questa figura in quel luogo solitario, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, anima o uomo reale!».
ché Dante non poteva sapere se la voce era fioca, dal momento che la figura era apparsa ma non aveva ancora parlato; le parole sono da intendere piuttosto in senso allegorico: l’apparizione (il poeta latino Virgilio) rappresenta la ragione che ha taciuto a lungo e la cui voce risulta ora debole. 22 diserto: qui nel significato di “senza vita spirituale”. 23 Miserere: è l’espressione latina usata nella liturgia per invocare la misericordia divina.
Il poema sacro 4 409
Rispuosemi24: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi25, 69 mantoani per patrïa ambedui. Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto 72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi26. Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d’Anchise che venne di Troia, 75 poi che ’l superbo Ilïón fu combusto27. Ma tu perché ritorni a tanta noia28? perché non sali il dilettoso monte 78 ch’è principio e cagion di tutta gioia?». «Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?», 81 rispuos’io lui con vergognosa fronte29. «O de li altri poeti onore e lume, vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore 84 che m’ ha fatto cercar lo tuo volume. Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, tu se’ solo colui da cu’ io tolsi 87 lo bello stilo che m’ ha fatto onore30. Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, 90 ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi31». «A te convien tenere altro vïaggio», rispuose, poi che lagrimar mi vide, 93 «se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
24 Rispuosemi: chi parla è Virgilio, nato ad Andes (Mantova) e vissuto a Roma alla corte dell'imperatore Augusto. Scrisse le Bucoliche, le Georgiche e l’Eneide, opere lette e ammirate nel Medioevo. Sul piano allegorico egli rappresenta la ragione umana, che guida l’uomo ma rimane inadeguata, senza il supporto della Grazia, al raggiungimento della verità rivelata e quindi della salvezza. 25 parenti... lombardi: parenti per genitori è un latinismo; lombardi perché nel Medioevo l’Italia settentrionale era chiamata “Lombardia”. 26 falsi e bugiardi: perché della religione pagana. 27 combusto: è un latinismo.
28 noia: indica la condizione psicologica di afflizione, di pena dolorosa, con un significato molto più forte di quello attuale del termine. 29 Or... fronte: nel Medioevo, Virgilio era considerato il più grande poeta del mondo pagano, in quanto si riteneva che nella quarta bucolica, dove annuncia la nascita di un fanciullo che riporterà sulla Terra l’età dell’oro, avesse profetizzato la venuta di Cristo. Il poeta aveva inoltre celebrato la grandezza dell’Impero romano, la cui funzione universale è il perno della concezione politica di Dante. 30 Tu... onore: tu sei il mio maestro (il modello poetico) e il mio autore (la guida in senso morale e culturale). Il bello stile
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vv. 67-69 Mi rispose: «Non sono un uomo reale ma lo fui e i miei genitori furono lombardi e per nascita entrambi mantovani. vv. 70-72 Nacqui al tempo di Giulio Cesare, ma verso la fine, e vissi a Roma sotto il regno del valente Augusto, quando ancora si credeva alle divinità false e ingannevoli. vv. 73-75 Fui poeta e narrai le vicende di quel giusto figlio di Anchise, che venne da Troia dopo che la superba Ilio fu bruciata. vv. 76-78 Ma tu perché ritorni a quel luogo di dolore? Perché non sali il colle, fonte di un piacere che è inizio e causa di gioia perfetta?». vv. 79-81 «Sei tu il famoso Virgilio e quella fonte che diffonde un così ampio fiume di eloquenza poetica?», gli risposi abbassando la testa in segno di stupore reverenziale. vv. 82-84 «O [tu che] onori e illumini l’operato degli altri poeti, mi giovi l’assiduo studio e il grande amore che mi ha fatto esplorare la tua opera. vv. 85-87 Tu sei il mio maestro e il mio autore, tu sei colui da cui appresi lo stile illustre che mi procurò la fama. vv. 88-90 Vedi la bestia che mi ha fatto retrocedere: aiutami contro di lei, famoso maestro, poiché mi fa tremare vene e arterie». vv. 91-93 «È necessario che tu segua una via diversa», rispose vedendomi piangere, «se vuoi scampare da questa selva»;
di cui Dante si dichiara debitore è quello tragico, che nel De vulgari eloquentia è indicato per gli argomenti moralmente elevati, trattati dal poeta nelle canzoni filosofiche. Autore è un latinismo, con la stessa radice di auctoritas, cioè “autorevolezza”. 31 Vedi... polsi: Dante giustifica la sua reticenza a proseguire il cammino attribuendola alla paura suscitata dalla lupa, che gli fa tremare il sangue nelle vene e nelle arterie (polsi) e chiede aiuto a Virgilio, da lui definito famoso saggio, a conferma dell’immagine di sapienza già riconosciutagli nella terzina precedente e che rispecchia la fama che tutto il Medioevo gli tributò.
ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, 96 ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide; e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, 99 e dopo ’l pasto ha più fame che pria. Molti son li animali a cui s’ammoglia, e più saranno ancora, infin che ’l veltro 102 verrà, che la farà morir con doglia32. Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, 105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro33. Di quella umile Italia34 fia salute per cui morì la vergine Cammilla, 108 Eurialo e Turno e Niso35 di ferute. Questi la caccerà per ogne villa, fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno, 111 là onde ’nvidia prima dipartilla36. Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, 114 e trarrotti di qui per loco etterno37; ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, 117 ch’a la seconda morte38 ciascun grida;
32 Molti... doglia: è la prima profezia del poema: l’immagine del veltro (un cane da caccia) rappresenta allegoricamente un uomo dotato di valori morali che contrasterà la cupidigia e le sue conseguenze negative. 33 Questi... feltro: terra e peltro sono sogg. di ciberà, che regge l’ogg. Questi. Sapienza, amore, virtute sono gli attributi delle tre persone della Trinità. Il peltro è una lega di piombo e stagno: qui indica per metonimia le monete e quindi le ricchezze in denaro. Il veltro, dunque, cioè il riformatore preannunciato, non avrà brama di denaro e di proprietà, ma si ispirerà al valore della povertà. L’espressione tra feltro e feltro è stata variamente interpretata: in senso geografico, è stata letta come identificazione della zona compresa
tra Feltre (nel Veneto) e Montefeltro (nel pesarese, in Romagna); altri hanno interpretato feltro come il panno che veniva usato per foderare le urne per le elezioni dei magistrati o del papa; o, ancora, come un tessuto di poco valore, per alludere alla povertà del salvatore atteso della profezia. 34 umile Italia: secondo altre interpretazioni “misera”, “decaduta”. 35 Cammilla... Niso: i personaggi, ripresi dall’Eneide, sono eroi troiani e latini morti nella guerra per la conquista del Lazio da parte di Enea e dei suoi compagni. Camilla è la regina dei Volsci; Turno il re dei Rutuli, strenuo oppositore di Enea; Eurialo e Niso sono due giovani troiani che si sacrificarono per amicizia. 36 Questi... dipartilla: l’invidia, intesa come odio per gli uomini, del demonio
vv. 94-96 poiché questa bestia, a causa della quale tu invochi aiuto, non lascia passare nessuno sulla sua strada, ma lo ostacola tanto da ucciderlo; vv. 97-99 e ha una natura così malvagia e crudele, che non soddisfa mai il suo desiderio insaziabile, e dopo il pasto ha più fame di prima. vv. 100-102 Molti sono gli animali a cui si unisce e saranno ancora di più in seguito, fino a quando verrà il veltro che la farà morire con dolore. vv. 103-105 Questi non sarà avido di possedimenti né di ricchezze, ma di sapienza, amore e virtù, e la sua origine sarà tra feltro e feltro. vv. 106-108 Sarà la salvezza di quella umile Italia per la quale morirono, per le ferite, la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso combattendo. vv. 109-111 Il veltro darà la caccia alla lupa per ogni luogo, finché non l’avrà respinta nell’Inferno, da dove la trasse l’invidia del demonio. vv. 112-114 Per questa ragione io per il tuo meglio penso e ritengo opportuno che tu mi segua nel viaggio, e io sarò la tua guida, e ti trarrò da qui, attraverso un luogo eterno; vv. 115-117: dove udirai le grida di disperazione, vedrai gli antichi spiriti pieni di dolore che si lamentano per la dannazione eterna;
(Lucifero). Prima si può intendere in funzione avverbiale, e quindi con valore di “primamente”, o aggettivale in unione con invidia, a indicare il diavolo (come primo Amore è Dio). Resta insoluto il problema della identificazione del veltro con uno specifico personaggio. Il veltro è stato identificato da alcuni commentatori con l’imperatore Arrigo VII, da altri con Cangrande della Scala, signore di Verona, alla cui corte Dante visse durante l’esilio. 37 per loco etterno: attraverso l’Inferno (loco etterno in quanto le pene durano per l’eternità). 38 seconda morte: la dannazione eterna dell’anima; ma da alcuni commentatori la seconda morte è stata interpretata come l’annientamento che ogni anima grida, invoca, perché annullerebbe i tormenti.
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e vederai color che son contenti nel foco39, perché speran di venire 120 quando che sia a le beate genti. A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna40: 123 con lei ti lascerò nel mio partire; ché quello imperador che là sù regna, perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge, 126 non vuol che ’n sua città per me41 si vegna. In tutte parti impera e quivi regge42; quivi43 è la sua città e l’alto seggio: 129 oh felice colui cu’ ivi elegge!». E io a lui: «Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, 132 acciò ch’io fugga questo male e peggio44, che tu mi meni là dov’or dicesti, sì ch’io veggia la porta di san Pietro45 135 e color cui tu fai cotanto mesti». Allor si mosse, e io li tenni dietro.
39 contenti nel foco: le anime che (essendo nel Purgatorio) sono contente della pena (perché questa è la condizione per poter espiare). 40 A le quai... degna: a Virgilio, guida del viaggio nell’oltretomba fino al Purgatorio, subentrerà un’altra guida, Beatrice, simbolo della verità rivelata.
41 per me: per (cfr. par francese) me è compl. d’agente, in costrutto impersonale alla latina. 42 impera... regge: i due termini impera e regge appartengono al linguaggio politico: il primo indica la giurisdizione universale, il secondo il luogo dove Dio governa direttamente.
vv. 118-120 e vedrai anche le anime che sono contente nel fuoco, perché sperano di essere assunte un giorno tra i beati. vv. 121-123 Se tu vorrai ascendere a queste genti beate ci sarà per questo compito un’anima con meriti superiori ai miei: con lei ti lascerò al momento di andarmene via; vv. 124-126 perché l’imperatore che regna lassù, non essendo stato io seguace della sua legge, non mi permette di entrare nella sua città. vv. 127-129 Egli comanda su tutto l’universo e qui regna; qui è la sua città e il suo trono: oh felice colui che vi è destinato!». vv. 130-132 E io a lui: «Poeta, io ti richiedo per quel Dio che tu non conoscesti, affinché io fugga questo male e uno peggiore, vv. 133-136 che tu mi conduca dove hai appena detto, in modo che io veda la porta di san Pietro e coloro che hai rappresentato come tanto infelici». Allora (Virgilio) si mosse e io lo seguii. 43 quivi: nell’Empireo. 44 questo male e peggio: la lupa e la dannazione (peggio).
45 la porta di san Pietro: allusione o alla porta del Paradiso, anche se questa propriamente non esiste, o del Purgatorio, anche se là ci troverà un angelo a sorvegliarla.
Analisi del testo Lo scenario e le figurazioni simboliche Già dal primo canto della Commedia la potenza realistica e narrativa dell’arte dantesca coesiste con la dimensione simbolica: fin dal celeberrimo incipit, il lettore è infatti invitato a entrare nell’universo simbolico del poema, che proprio nel primo canto trova alcune delle sue più note figurazioni, a cominciare dalla selva oscura (v. 2). Chi legge i primi versi del poema dantesco (e in particolare il lettore medievale) interpreta subito la selva oscura come immagine prettamente simbolica. E ciò grazie alla proposizione causale che immediatamente segue (v. 3) e alla tipologia dell’aggettivazione riferita alla selva (aspra e forte, amara, vv. 5 e 7) che non allude ad aspetti esteriori, paesaggistici, ma richiama esclusivamente i riflessi psicologico-morali suscitati nel protagonista dallo smarrimento in essa. La dimensione simbolica è particolarmente presente nel primo canto, dato il suo carattere di proemio, volto a segnalare con forza l’ispirazione religiosa dell’intera opera. Innanzitutto, il protagonista stesso, smarrito nella selva oscura, simboleggia nel primo canto l’umanità intera del suo tempo, sviata da falsi valori e dall’attrazione per i beni terreni. All’“oscurità” della selva si contrappone la luce del sole (simbolo della luce di Dio), che rischiara
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la cima del dilettoso monte (la via del bene) che il protagonista cerca di salire. Già in queste prime figurazioni si insinua una simbologia spazio-temporale assai diffusa al tempo di Dante: la contrapposizione alto (il monte)/basso (la selva, la valle); ascesa/discesa, con connotazione rispettivamente positiva (si sale verso la salvezza) e negativa (si scende verso la perdizione); e quella notte/giorno e buio/luce. Lo smarrimento del protagonista è collocato significativamente nelle ore della notte (la notte ch’i’ passai con tanta pieta, v. 21), simbolo della morte spirituale, delle tenebre del peccato. Ma un nuovo riferimento al tempo (vv. 37-40) stempera l’angoscia della situazione, facendo intravedere al poeta la speranza della salvezza: è primavera ed è ormai mattina, una stagione e un momento della giornata che rimandano simbolicamente alla rinascita spirituale. Altra importante presenza simbolica è quella delle tre fiere che ostacolano, in rapida successione, il tentativo del protagonista di salire il colle: nella lonza, nel leone e nella lupa il lettore medievale, avvezzo alle immagini dei bestiari (➜ SCENARI), identificava immediatamente la presenza di un sovrasenso allegorico, cogliendo con facilità l’allusione ai pericoli morali in esse rappresentati. Peraltro anche il lettore di oggi, in particolare quando si parla della lupa, non può non avvertire la presenza di un significato simbolico: la bestia sanza pace (v. 58) che molte genti fé già viver grame (v. 51) non può infatti certamente essere una lupa reale. Ancor più dichiaratamente allegorica appare l’immagine del misterioso veltro, nel ritratto del quale il simbolismo soverchia nettamente la letteralità: il cibarsi di sapïenza, amore e virtute (v. 104) si addice infatti esclusivamente al personaggio provvidenziale che questo (un cane da caccia) simboleggia, alla sua natura di antagonista della lupa-cupidigia, in quanto riformatore morale e politico. Quanto a Virgilio, che enuncia la profezia del veltro e che si propone come guida al protagonista nel suo/nostro viaggio di salvazione, fu identificato fin dai primi commentatori come simbolo della ragione e, in seguito, con varie sfumature, tra le quali quella di testimonesimbolo dei valori della cultura pagana più illuminata. Certo è una ragione di cui già si prospettano i limiti, se è vero che solo un’anima più degna di lui (Beatrice, figura della fede e della teologia) potrà fare da guida al pellegrino nel Paradiso.
Le modalità narrative Il primo canto si apre in medias res e si tratta di una scelta narrativa di grande efficacia, che cattura immediatamente l’attenzione: il lettore è infatti proiettato nel mezzo di una vicenda che si delinea come drammatica, paurosa, senza alcun preambolo preparatorio che possa orientarlo, così da creare in lui subito il desiderio di proseguire nella lettura. Una disposizione favorevole che il narratore alimenta ulteriormente attraverso la prolessi dei vv. 8-9, che preannuncia importanti rivelazioni. Dopo l’alternarsi di angoscia e speranza che caratterizza la prima scena (smarrimento nella selva, visione del colle e tentativo di salirvi), una condizione psicologica icasticamente fissata nella similitudine del naufrago (vv. 22-25), la narrazione è animata da un forte colpo di scena: l’inaspettata irruzione delle tre fiere (vv. 31 e sgg.), che infrange drammaticamente un precario equilibrio costringendo il protagonista a retrocedere nuovamente verso la selva oscura. La struttura narrativa in corso di delineamento riproduce uno schema narrativo ricorrente nelle fiabe e negli stessi romanzi cavallereschi medievali: un eroe si trova in una situazione iniziale di difficoltà, ha la possibilità di superarla, ma sul suo cammino si frappongono figure antagonistiche e difficili prove da superare. A questo punto, quando la tensione drammatica ha raggiunto l’acme (in termini narratologici si parla di Spannung) sulla scena appare, quasi emergendo dall’ombra, una misteriosa presenza. La sua incerta identità (od ombra od omo certo, v. 66) accresce l’aspettativa del lettore creando un effetto di suspense. L’autopresentazione e il colloquio successivo con Dante ne chiariranno l’identità e soprattutto la funzione “narrativa”: quella di aiutante del protagonista. Al confronto diretto con gli antagonisti (che per ora il protagonista non è in grado di vincere), Virgilio propone la sostituzione di un’altra “prova”: il viaggio oltremondano, prospettato come difficile e doloroso (non a caso nel secondo canto si parlerà di una “guerra” da vincere), ma che ha maggiori possibilità di riuscita.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dividi il canto in sequenze, quindi schematizzalo indicando per ciascuna sequenza i versi, un titolo, la tipologia (narrativa, descrittiva, riflessiva, dialogica). LESSICO 2. Indica tre aggettivi che definiscano l’atteggiamento con cui il protagonista si rivolge al poeta latino. STILE 3. Indica per ogni elemento indicato il significato simbolico che riveste nel primo canto: la selva oscura – la diritta via – il sonno – il colle illuminato – il pianeta [...] calle (vv. 17-18) – la lonza – il leone – la lupa – chi [...] parea fioco (v. 63) – il veltro. 4. Fin dal primo canto è riconoscibile lo sdoppiamento di Dante in autore/narratore (colui che scrive la Commedia e ne organizza i contenuti) e personaggio (colui che vive l’esperienza del viaggio ultraterreno). Nell’incipit del canto (vv. 1-12) tale distinzione emerge dall’alternanza dei tempi verbali: quali si riferiscono al narratore e quali al personaggio? 5. Nel canto sono presenti due celebri similitudini: riassumile e valutane l’efficacia in rapporto al contesto.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 6. Esponi oralmente (max 3 minuti) i motivi storico-politici per i quali l’avarizia – simboleggiata dalla lupa – è presentata come il peccato più grave.
Studiare con l’immagine ANALIZZA L’IMMAGINE: a. E samina gli elementi del paesaggio: la radura, la selva, i cipressi, i monti lontani ecc. Qual è la percezione dello spazio secondo Dalí? b. Si può affermare che lo smarrimento nella selva viene “evidenziato geometricamente”? c. D escrivi e confronta il silenzio, la quiete e la luce nell’opera di Dalí e nei versi danteschi; d. Osserva l’ombra del protagonista e rifletti (max 15 righe) sul tema dello smarrimento di Dante nella ricerca di Dalì, che affermò in proposito:
«Quando mi chiedono perché ho rappresentato l’Inferno in colori vivaci, rispondo che il romanticismo ha commesso l’ignominia di farci credere che l’Inferno era nero come le miniere di carbone di Gustave Doré, dove non si vede niente. Tutto ciò è sbagliato. L’Inferno di Dante è illuminato dal sole e dal miele del Mediterraneo». (Salvator Dalí, Diario di un genio, 1965)
L’immagine è una delle cento xilografie a colori che illustrano la Commedia di Dante e che il pittore spagnolo Salvador Dalí (1904-1989) realizzò tra il 1951 e il 1960.
online T22b Dante Alighieri Io non Enëa, io non Paulo sono… Inferno II, 1-36
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Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto dalla voce "veltro" in EnciclopediaDantesca Treccani www.treccani. it/enciclopedia/ veltro_ (EnciclopediaDantesca)
«Di fronte a tali incertezze, i primi commentatori si mantennero cauti nell’attribuire una specifica identità al v[eltro], mentre maggiore audacia hanno spesso mostrato i commentatori posteriori, nonostante s’ignorasse l’epoca di composizione del primo canto dell’Inferno. Tuttavia, più che l’identità del v[eltro] – ammesso pure che D[ante] ritenesse di conoscerla – quello che importa è il suo ufficio e, soprattutto, la sua funzione: quella cioè di purificare il mondo da quel veleno dell’avarizia da cui D[ante] lo riteneva infetto». Nel I canto assume particolare rilievo l’enigmatica “profezia del veltro”, che sembra rinviare a un desiderio di rinnovamento morale e spirituale. Secondo te, la speranza di Dante in un rinnovamento della città terrena potrebbe essere fatta propria anche da un lettore del nostro tempo? Rifletti articolando le tue considerazioni e convinzioni al riguardo in un’ottica tutta contemporanea. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
T22c
Dante Alighieri
L’inizio del viaggio Inferno III, 1-30 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
L’inizio del III canto pone il lettore, insieme al protagonista, di fronte alla porta dell’Inferno, sulla quale sono iscritte terribili parole che suscitano un senso di angoscioso sgomento nel pellegrino. Egli si rivolge a Virgilio, come sempre farà nel corso del viaggio attraverso i due regni dell’aldilà, cercando da lui conforto e appoggio. Incoraggiato e rassicurato dal maestro, Dante si ritrova oltre la porta ed è subito assalito da impressioni uditive molto forti, enfatizzate dal buio che regna nel luogo: il mondo che si delinea, seppur confusamente, nella mente del poeta è certo un mondo di dolore e di angoscia. Il primo impatto con una realtà percepita come orribile sconvolge l’autore al punto da procurargli il pianto.
‘Per me1 si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, 3 per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina podestate, 6 la somma sapïenza e ’l primo amore2.
1 Per me…: le prime tre terzine del canto riproducono l’iscrizione collocata come terribile monito sulla porta dell’Inferno, a imitazione delle epigrafi poste effettivamente molto spesso sulle porte delle città medievali. Ai vv. 1-9 è la porta stessa
(e si tratta di un espediente narrativo di forte suggestione) a parlare. Il mondo infernale in cui il poeta si prepara a entrare è presentato come l’universo del dolore e gli spiriti che vi si trovano come esseri per sempre perduti. In questo mondo si
vv. 1-3 ‘Attraverso di me si va nella città del dolore, attraverso di me si va nel dolore che dura in eterno, attraverso di me si va tra le anime perdute. vv. 4-6 È la giustizia che ha spinto il mio sommo creatore; mi generò la potenza divina (del Padre), la suprema sapienza (del Figlio) e il primo amore (dello Spirito Santo).
entra attraverso la porta: per me significa appunto “attraverso di me”. 2 la divina podestate... ’l primo amore: perifrasi per alludere alla Trinità.
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Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne3, e io etterno4 duro. 9 Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’5 Queste parole di colore oscuro6 vid’ïo scritte al sommo d’una porta; 12 per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro7». Ed elli a me, come persona accorta: «Qui si convien lasciare ogne sospetto; 15 ogne viltà convien che qui sia morta. Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto che tu vedrai le genti dolorose8 18 c’hanno perduto il ben de l’intelletto9». E poi che la sua mano a la mia puose con lieto volto, ond’io mi confortai, 21 mi mise dentro a le segrete cose10. Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere sanza stelle11, 24 per ch’io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, 27 voci alte e fioche, e suon di man con elle12 facevano un tumulto, il qual s’aggira sempre in quell’aura sanza tempo tinta13, 30 come la rena quando turbo spira.
vv. 7-9 Prima di me furono create soltanto cose eterne, e io durerò in eterno. Abbandonate ogni speranza, voi che entrate.’ vv. 10-12 Queste parole composte in caratteri scuri io vidi scritte in cima a una porta; per cui io dissi «Maestro, il loro significato mi è penoso». vv. 13-15 Ed egli a me, come una persona esperta e comprensiva: «Qui occorre lasciare ogni esitazione timorosa; ogni viltà conviene che qui sia distrutta. vv. 16-18 Noi siamo venuti nel luogo in cui, come ti ho detto, vedrai le persone sofferenti che hanno perso il bene dell’intelletto». vv. 19-21 E dopo che mi ebbe preso la mano con volto sereno, per cui io mi confortai, mi introdusse nel mondo nascosto. vv. 22-24 Qui, sospiri, pianti e acuti lamenti risuonavano attraverso l’aria priva della luce delle stelle, per cui io mi abbandonai al pianto. vv. 25-27 Lingue diverse tra loro, orribili pronunce, parole di dolore, esclamazioni d’ira, voci acute e deboli, e il battere delle mani con esse vv. 28-30 formavano un tumulto, che si avverte sempre in quell’atmosfera scura e senza tempo, come la terra sabbiosa quando soffia un forte vento.
Dante e Virgilio alle porte dell’inferno in una miniatura da un manoscritto del XV secolo illustrata da Altichiero (Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia). 3 Dinanzi... etterne: le cose etterne sono i cieli e gli angeli. Secondo la concezione dantesca, infatti, l’Inferno è una voragine prodotta dalla caduta dell’angelo ribelle Lucifero. Gli animali, le piante e l’uomo stesso, esseri mortali, furono creati dopo tale caduta. 4 etterno: è aggettivo predicativo. 5 Lasciate... intrate: uno dei molti versi divenuti proverbiali della Commedia. 6 di colore oscuro: da intendersi probabilmente alla lettera come “scritte in ca-
ratteri scuri” o, secondo alcuni interpreti, in senso metaforico come “di carattere minaccioso”. 7 il senso lor m’è duro: due le possibili interpretazioni: “il senso di queste parole è per me penoso”, oppure “difficile da intendere”. 8 le genti dolorose: le persone preda del dolore fisico e spirituale, cioè i dannati. 9 il ben de l’intelletto: Dio, che nella visione cristiana corrisponde alla verità, che sola può appagare l’uomo.
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10 le segrete cose: il mondo dei morti, nascosto ai vivi. 11 aere sanza stelle: l’Inferno è immerso nell’oscurità, a simboleggiare la privazione della luce della grazia di Dio. 12 suon di man con elle: rumore di mani battute fra loro o sul corpo. 13 aura sanza tempo tinta: la suggestiva perifrasi allude ancora all’oscurità dell’Inferno che non consente di percepire il trascorrere del tempo e delle stagioni.
Analisi del testo Il primo saggio della poesia “infernale” I primi due canti costruiscono le premesse e la legittimazione del viaggio ultraterreno e sono densi di riferimenti allegorici e di complessi rimandi culturali, spesso espressamente destinati al lettore colto. Il terzo canto, invece, in cui propriamente ha inizio il viaggio, fin dal suo celeberrimo incipit imposta un diverso clima poetico, mettendo già in luce il genio narrativo di Dante. Con questo canto il lettore comune si trova infatti di fronte a un’avvincente narrazione di grande potenza drammatica.
La tecnica narrativa: il discorso diretto iniziale Il canto si apre ex abrupto con parole talmente famose che è quasi impossibile che un lettore di oggi non le conosca e non ne identifichi almeno parzialmente il senso. È chiaro che questo limita oggi in parte la forte suggestione che i versi iniziali dovevano produrre sui primi lettori del poema. L’attenzione doveva essere catturata da un discorso diretto, dal contenuto evidentemente angoscioso, di cui il lettore ignora l’emittente: Per me si va... Chi o che cosa è questo me? Chi pronuncia la frase lapidaria che chiude il discorso e acquista il sapore di una inesorabile sentenza ‘Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate’? Il differimento della spiegazione dell’enigma protrae la suspense fino al momento in cui il protagonista spiega che le parole appartengono a un’iscrizione posta sulla porta dell’Inferno. Dunque, per nove versi il lettore possiede una conoscenza non solo inferiore a quella dell’autore che ha ideato la narrazione, ma anche a quella del protagonista del poema che legge la scritta all’entrata dell’Inferno.
La prima descrizione dell’oltremondo I vv. 22-30 ospitano una breve sequenza descrittiva, che costituisce la prima effettiva presentazione dell’oltremondo: in essa Dante sperimenta per la prima volta quel realismo rappresentativo che assicurerà lo straordinario successo della Commedia. L’Inferno si presenta a Dante nel suo tragico orrore attraverso impressioni uditive che producono una rappresentazione mentale. La prima serie di termini, che si susseguono in crescendo (sospiri, pianti e alti guai, v. 22) è intesa soprattutto a richiamare il dolore, mentre la seconda (vv. 25-27) evoca il senso di un caos indistinto: il critico Ugo Dotti parla di una sorta di traduzione fonica del disordine che caratterizzerà l’Inferno dantesco, simile al caos che infuriò ai tempi della biblica torre di Babele. L’assenza di un ordine e di gerarchie armoniche era avvertita dalla mentalità medievale di per sé come pericolo, come sovvertimento della comune visione ed esperienza: da qui il terrificante impatto che la prima presentazione del mondo infernale doveva produrre nei primi lettori della Commedia.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi dei vv. 14-21. ANALISI 2. Quale ruolo e atteggiamento assume Virgilio nei versi sopracitati? 3. Quali atteggiamenti caratterizzano invece il personaggio di Dante? LESSICO 4. Identifica l’aggettivo che ricorre con maggiore frequenza nell’epigrafe posta sulla porta dell’Inferno. Che cosa intende sottolineare Dante con questa ripetizione? STILE 5. Quale figura retorica riconosci nella prima terzina? Quale effetto produce alla lettura?
Interpretare
SCRITTURA 6. Tra le impressioni che suscita l’ingresso nell’Inferno, una è dominante fin dall’epigrafe sulla porta d’entrata. Qual è? Che cosa evoca? (max 20 righe)
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T22d
Dante Alighieri
Il viaggio proibito: Ulisse “doppio” di Dante? Inferno XXVI, 85-142 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Dante e Virgilio si trovano nella parte più bassa dell’Inferno e attraversano le Malebolge, il regno della frode, che costituiscono, nelle loro dieci parti, il cerchio ottavo. Nell’ottava bolgia sono puniti i consiglieri fraudolenti, ispiratori di inganni, chiusi in fiamme che, viste dall’alto, ricordano al poeta le lucciole in una sera d’estate. L’attenzione di Dante personaggio è subito colpita da una fiamma a due punte e ne chiede notizia a Virgilio. Il poeta latino gli spiega che in essa si trovano gli eroi greci Ulisse e Diomede, puniti insieme dalla giustizia divina, come insieme furono autori dell’inganno del cavallo che determinò la caduta di Troia. Dante arde dal desiderio di parlare con Ulisse, anche se non fa espressamente il suo nome, mostrando un’ansiosa aspettativa nei confronti del colloquio, che indirettamente rivela il suo forte coinvolgimento personale nella problematica del canto: maestro, assai ten priego / e ripriego, che ’l priego vaglia mille, / che non mi facci de l’attender niego (che tu mi consenta di aspettare) / fin che la fiamma cornuta qua vegna (If XXVI, 65-68). Sarà invece Virgilio, in quanto cantore epico del viaggio di Enea seguito alla caduta di Troia, a rivolgere la parola a Ulisse, invitandolo a raccontare dove andò a morire, dopo che si erano perse le sue tracce: l’un di voi dica / dove, per lui, perduto a morir gissi (If XXVI, 83-84). Inizia a questo punto il celebre racconto dell’ultimo viaggio di Ulisse, una delle pagine più alte della Commedia (e della poesia di ogni tempo). Per l’interpretazione dei valori simbolici connessi a questo episodio, di fondamentale importanza nell’economia complessiva dell’opera, rimandiamo all’analisi: qui ci limitiamo a dire che il viaggio di Ulisse, proprio perché motivato esclusivamente dal desiderio di conoscere e non sostenuto dalla grazia di Dio, si configura nella Commedia come evidente antitesi del viaggio provvidenziale di Dante (e per certi aspetti anche di quello di Enea). Da qui la tragica conclusione immaginata dal narratore.
Lo maggior corno1 de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, 87 pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, 90 gittò voce di fuori2 e disse: «Quando mi diparti’ da Circe3, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, 93 prima che sì Enëa la nomasse4, né dolcezza di figlio, né la pieta5 del vecchio padre, né ’l debito amore 96 lo qual dovea Penelopè6 far lieta,
1 Lo maggior corno: la punta più alta
3 Circe: la maga che aveva trattenuto Ulis-
[delle due], quella dove si trova Ulisse. 2 gittò voce di fuori: la voce di Ulisse erompe finalmente dalla fiamma.
se con le sue seduzioni per più di un anno. 4 prima che... la nomasse: Enea chiamò quella località (che si trova sulla co-
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vv. 85-87 La punta più alta di quella fiamma antica cominciò ad agitarsi mormorando proprio come una fiamma agitata dal vento; vv. 88-90 quindi muovendo qua e là la cima, come fa la lingua quando si parla, tirò fuori la voce e disse: «Quando vv. 91-93 mi allontanai da Circe, che mi trattenne per più di un anno vicino a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così, vv. 94-96 né la tenerezza per mio figlio, né la venerazione per il mio vecchio padre, né il dovuto amore che avrebbe dovuto rendere felice Penelope,
sta campana) Gaeta (dal nome della sua nutrice). 5 pieta: è la pietas degli antichi. 6 Penelopè: Penelope, sposa di Ulisse.
vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto 99 e de li vizi umani e del valore7; ma misi me per l’alto mare8 aperto sol con un legno e con quella compagna 102 picciola da la qual non fui diserto. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, 105 e l’altre che quel mare intorno bagna. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta 108 dov’Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l’uom più oltre non si metta9; da la man destra mi lasciai Sibilia10, 111 da l’altra già m’avea lasciata Setta11. “O frati12,” dissi, “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, 114 a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, 117 di retro al sol13, del mondo sanza gente14. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, 120 ma per seguir virtute e canoscenza15”. Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, 123 che a pena poscia li avrei ritenuti16;
7 vincer... valore: Ulisse si autorappresenta come dominato da una divorante passione (ardore) che in lui ebbe la meglio persino sugli affetti famigliari: il desiderio di conoscere il mondo (divenir del mondo esperto) e i vari comportamenti umani. 8 mare: è il Mediterraneo. 9 quella foce... metta: la perifrasi indica lo stretto passaggio tra il Mediterraneo e l’oceano Atlantico (oggi stretto di Gibilterra), considerato già presso i greci e i fenici il confine del mondo conosciuto, oltre il quale era proibito avventurarsi. Da qui il mito delle “colonne d’Ercole”, corrispondenti nella realtà alle due alte pareti rocciose che delimitano lo stretto.
Ai tempi di Dante c’erano stati i primi tentativi di superare lo stretto e di certo il poeta ne era al corrente quando immaginò il canto di Ulisse. 10 Sibilia: Siviglia (in Spagna). 11 Setta: Ceuta (sulla costa africana). 12 O frati...: inizia qui, per concludersi al v. 120, la celebre orazion picciola, ovvero il brevissimo, ma estremamente incisivo, discorso con cui Ulisse convince i compagni a seguirlo e a oltrepassare il limite proibito. 13 di retro al sol: cioè andando da est a ovest. 14 mondo sanza gente: il mondo disabitato; si pensava che al di là delle colonne d’Ercole vi fossero solo distese d’acqua. 15 Considerate... canoscenza: è forse la
vv. 97-99 poterono vincere l’ardore che dentro di me avevo di fare esperienza del mondo, dei vizi e dei valori umani; vv. 100-102 ma affrontai il mare aperto soltanto con una nave e con quel ristretto gruppo di compagni dal quale non fui abbandonato. vv. 103-105 Vidi la costa europea e quella africana fino alla Spagna, fino al Marocco e alla Sardegna, oltre alle altre terre che quel mare bagna. vv. 106-108 Io e i miei compagni eravamo vecchi e stanchi quando giungemmo a quello stretto passaggio dove Ercole segnò i suoi limiti, vv. 109-111 perché l’uomo più oltre non andasse; a destra sorpassai Siviglia, a sinistra mi ero già lasciato alle spalle Ceuta. vv. 112-114 “O fratelli”, dissi, “che attraverso centomila pericoli siete giunti al confine occidentale del mondo, a questa ormai così piccola porzione vv. 115-117 di vita che ci rimane non vogliate negare la possibilità di conoscere, seguendo il corso del sole, il mondo disabitato. vv. 118-120 Considerate la vostra natura: non siete nati per vivere come bestie, ma per seguire la virtù e la conoscenza”. vv. 121-123 Resi i miei compagni così desiderosi, con questo breve discorso, di intraprendere il cammino, che a malapena poi li avrei potuti trattenere;
terzina più celebre dell’intera Commedia. Nell’esortazione vibrante di Ulisse – in cui la dignità, l’essenza stessa dell’uomo, è fatta coincidere con la ricerca conoscitiva – è impossibile non avvertire la concezione stessa di Dante. 16 Li miei compagni... ritenuti: Ulisse ottiene l’effetto che si riprometteva con il suo discorso: i compagni sono galvanizzati da esso e così desiderosi di intraprendere il cammino (aguti... al cammino) che a malapena poi (poscia) Ulisse avrebbe potuto trattenerli.
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e volta nostra poppa nel mattino17, de’ remi facemmo ali al folle volo18, 126 sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, 129 che non surgëa fuor del marin suolo19. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna20, 132 poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, quando n’apparve una montagna21, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto 135 quanto veduta non avëa alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque 138 e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso 141 e la prora ire in giù, com’altrui piacque22, infin che ’l mar fu sovra noi richiuso23».
17 nel mattino: verso est (se la poppa viene volta a est, la prua è rivolta a ovest). 18 de’ remi... folle volo: è un verso di suggestione così potente che è quasi impossibile parafrasarlo. La nave, spinta freneticamente dai remi dei naviganti, non avanza, ma vola addirittura verso la temeraria avventura, qui definita “folle” dall’eroe stesso, come avesse ormai acquisito consapevolezza della tragica presunzione che perderà lui e i compagni.
19 Tutte le stelle... suolo: le stelle che vedono di notte i naviganti (una volta oltrepassato l’equatore) non sono più quelle del polo artico (’l nostro) ormai troppo basse per essere visibili, ma quelle, mai viste da nessuno, del polo antartico. 20 Cinque volte... luna: erano trascorse cinque lunazioni ossia quasi cinque mesi. 21 montagna: il Purgatorio. 22 com’altrui piacque: che l’inabissamento della nave di Ulisse abbia a che fa-
vv. 124-126 e rivolta la poppa verso Oriente, dei remi facemmo delle ali per spiccare quel folle volo, avanzando sempre più verso sud-ovest. vv. 127-129 Già tutte le stelle dell’altro polo (l’Antartico) mostrava la notte, e quelle del nostro polo (l’Artico) erano tanto basse che non emergevano dalla superficie del mare. vv. 130-132 Si era cinque volte illuminata e altrettante oscurata la parte inferiore della luna, da quando avevamo iniziato il rischioso cammino, vv. 133-135 quando ci apparve una montagna, scura per la lontananza, e mi parve tanto alta quanto non ne avevo veduta nessuna. vv. 136-138 Ci rallegrammo, ma subito [la nostra allegria] si trasformò in pianto; perché da quella terra sconosciuta si levò un turbine di vento e colpì il lato anteriore della nave. vv. 139-142 Tre volte ci fece girare in un vortice d’acqua; alla quarta [fece] alzare la poppa in alto e la prua verso il basso, come volle Dio, finché il mare si richiuse sopra di noi».
re con una sentenza divina appare anche dalla presenza del numero simbolico “tre” («Tre volte il fé girar»). 23 infin... richiuso: il racconto di Ulisse si chiude senza alcun commento, né di Dante né di Virgilio. Il messaggio esemplare che Dante voleva trasmettere è affidato tutto alla forza drammatica della narrazione.
Analisi del testo Il viaggio proibito di Ulisse e il viaggio provvidenziale di Dante (e di Enea) Attraverso precisi richiami testuali, Dante costruisce consapevolmente un parallelismo antitetico tra il suo viaggio, che si iscrive nel campo dei valori cristiani e che è voluto da Dio per la salvezza non solo del poeta-pellegrino ma dell’umanità intera, e il viaggio “proibito” di Ulisse, dall’esito tragico perché motivato esclusivamente dalla presunzione intellettuale, dalla temerarietà dell’antico eroe nel voler sfidare i limiti. L’antitesi è già presente nel contrapposto modello spaziale in cui i due viaggi si iscrivono: mentre complessivamente il viaggio di Dante si inserisce entro i parametri cristiani della “verticalità” e dell’“ascesa”, il viaggio di Ulisse si svolge nell’“orizzontalità” e per di più è orientato verso sinistra: nel momento della suprema decisione Ulisse volge la prua della nave verso ovest e procede sempre acquistando dal lato mancino (cioè verso sinistra, appunto).
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Nella topologia simbolica medievale questa direzione è connotata negativamente: quella che Ulisse imbocca è dunque simbolicamente la via della perdizione (il suo essersi “perduto” acquista, quindi, un senso morale oltre che letterale). «Il viaggio di Dante» – scrive il critico Roberto Mercuri – «inizia dove finisce quello di Ulisse, comincia cioè dal naufragio e dallo smarrimento», dalla selva oscura, ma prosegue poi verso la salvezza e la redenzione: dopo la drammatica conoscenza del mondo del peccato e dell’errore, il viaggiatore cristiano riuscirà ad approdare a quella spiaggia del Purgatorio dove il viaggiatore pagano non riuscì a sbarcare. A differenza di quello dell’eroe greco, il viaggio di Dante è infatti un viaggio conoscitivo voluto da Dio (e il modello letterario che lo ispira è quello romanzo dell’“inchiesta”, volta a raggiungere un fine mistico-religioso, come nel mito del Graal). Il viaggio di Ulisse avrebbe dovuto essere un nostos, cioè un viaggio di ritorno (da Troia al padre, alla moglie, al figlio, alla patria), ma costui (l’Ulisse ideato da Dante, naturalmente), dimentico di ogni legame affettivo, lo trasforma in un “antinostos”, in un viaggio volto alla conoscenza senza limiti che non prevede ritorno alcuno: le acque da cui si eleva la montagna del Purgatorio infatti non furono mai percorse da «omo, che di tornar sia poscia esperto» (Pg I, 132: l’allusione al naufragio di Ulisse è evidente). Prima di iniziare l’ascesa della montagna del Purgatorio, che Ulisse riuscì solo a intravedere, il pellegrino cristiano acquisisce non a caso, con il rito simbolico del giunco (➜ T27b OL), la dote dell’umiltà: proprio quella che mancò a Odisseo. E nuovamente, a conclusione del rito, il lettore ritrova una ripresa, in questo caso letterale e non solo allusiva, al canto di Ulisse: ritorna tale e quale il sintagma com’altrui piacque (e cioè come volle Dio) che compare nel finale del canto XXVI, quando la nave dell’eroe si inabissa. Con questa ripresa il poeta intende evidentemente sottolineare un parallelismo ancora una volta antitetico tra il suo viaggio e quello di Ulisse: la volontà di Dio, che ha condannato come empio il viaggio del greco, appoggia la missione profetica di Dante. Al contempo il viaggio di Ulisse si contrappone anche a quello di Enea, originato non da personali motivazioni, ma da un progetto provvidenziale, di cui egli è solo uno strumento: quello di fondare una grande civiltà, trasferendo in essa la patria troiana perduta. Con la Commedia, Dante si confronta dunque con i due grandi poeti epici, Omero e Virgilio, ma mentre fa di Ulisse la propria antitesi (da qui l’aggettivo folle ripreso espressamente nel canto II), si considera da un lato continuatore di Enea come personaggio-viaggiatore, e dall’altro continuatore di Virgilio come autore-narratore del viaggio stesso.
Ulisse “doppio” di Dante Molti commentatori hanno sottolineato che l’Ulisse dantesco non è solo simbolo del desiderio umano di conoscenza, ma è anche proiezione di un momento molto importante dell’itinerario intellettuale di Dante stesso: il dramma di Ulisse (che è anche il dramma di tutta la cultura antica) traspone il dramma vissuto personalmente un tempo da Dante nel segreto della sua coscienza e poi risolto e superato. Ulisse sarebbe “figura” di una trasgressione che attrasse, nella sua giovinezza, lo stesso Dante, ma che egli riuscì ad arginare, mentre l’eroe greco non ha saputo porre un freno alla sua curiosità intellettuale, spingendosi, privo della “bussola” della fede, in un “territorio” proibito ai pagani (l’approdo alla spiaggia del Purgatorio). Presumibilmente, come ha intuito per prima la critica e scrittrice Maria Corti, la trasgressione era per Dante quella tentazione dell’aristotelismo radicale, del razionalismo estremo proprio degli amici stessi della sua giovinezza, come Guido Cavalcanti (dal quale, non a caso, il poeta della Commedia si allontanò definitivamente). Un momento della storia intellettuale di Dante poi superato e definitivamente rinnegato: quando scrive la Commedia (e il celebre canto di Ulisse) lo scrittore ha definitivamente acquisito che non esiste progresso intellettuale che non sia anche crescita e progresso morale. Dante sa ormai con chiarezza che occorre subordinare la ragione alla fede, che sola diventa conoscenza di valore assoluto; ha ormai fatto della sua intelligenza uno strumento al servizio di Dio. Anche Dante-poeta si avventura in un’«acqua» che «già mai non si corse» (Pd II, 7), ma alle spalle non ha, come Ulisse, un divieto, bensì un privilegio accordato da Dio stesso. D’altra parte le parole messe in bocca a Ulisse nella celeberrima orazion picciola sembrano dirci che il fascino di quel momento lontano non è del tutto spento nel poeta fiorentino: non si poteva infatti esaltare con parole più ispirate e appassionate la dignità dell’intelletto umano.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Suddividi il racconto di Ulisse in sequenze titolate. COMPRENSIONE 2. Che cosa determina il naufragio e la morte di Ulisse e dei suoi compagni? ANALISI 3. Perché Ulisse non ritorna a Itaca, nonostante lo attendano il figlio, il padre e la moglie? Che cosa lo attira oltre le colonne d’Ercole? 4. L’altissima montagna intravista da Ulisse e dai compagni è la montagna del Purgatorio: da che cosa lo si può dedurre? STILE 5. Il racconto di Ulisse è preceduto dalla descrizione realistica del movimento della fiamma, che si traduce poi (si direbbe faticosamente) in parola: quale figura di suono utilizza Dante ai vv. 85-86? Quale effetto produce? 6. Individua le strategie retoriche finalizzate al convincimento su cui è costruita l’orazion picciola.
Interpretare
SCRITTURA 7. Il personaggio di Ulisse è certamente concepito da Dante come exemplum: fanne una presentazione in un testo di non più di 20 righe. LETTERATURA E NOI 8. Nella società attuale il progresso intellettuale e scientifico ha posto e pone numerosi e complessi problemi di natura etica. Esistono oggi delle “colonne d’Ercole”? Quali sono? A quale ambito eticoconoscitivo lo potresti associare? (max 25 righe)
online
Verso il Novecento Primo Levi Il canto di Ulisse, antidoto alla barbarie
Dante e Virgilio incontrano Ulisse e Diomede (Inferno XXVI) in una miniatura del manoscritto. Holkham misc. 48 della Biblioteca Bodleiana di Oxford.
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Una visione negativa del presente: Firenze, l’Italia, il papato Il viaggio ultraterreno della Commedia, nelle sue molteplici valenze simboliche, si propone anzitutto come un percorso di provvidenziale visione-rivelazione, allo scopo di indirizzare nuovamente il cammino dell’umanità verso la diritta via. In tal senso, la missione di Dante trae origine dalla constatazione del degrado della società contemporanea, originato prima di tutto dalla caduta dei valori morali, dallo smarrimento dei princìpi evangelici, dalla corruzione che coinvolge persino, nella pessimistica visione del poeta, la suprema autorità religiosa. Proponiamo qui tre brevi passi che documentano in modo eloquente la polemica dantesca verso il suo tempo.
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Dante Alighieri
La città partita Inferno VI, 58-75 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998 AUDIOLETTURA
La polemica contro Firenze, la città natale del poeta ma che è stata “matrigna”, percorre tutto il poema. Tale invettiva è inaugurata dal canto VI dell’Inferno, in cui l’incontro con Ciacco nel cerchio dei golosi offre lo spunto al poeta per una diagnosi impietosa dei mali della città partita (ovvero dilaniata dalle lotte tra fazioni, parti avverse).
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita; 60 ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin de la città partita; s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione 63 per che l’ha tanta discordia assalita1». E quelli a me2: «Dopo lunga tencione verranno al sangue3, e la parte selvaggia 66 caccerà l’altra con molta offensione4. Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l’altra sormonti 69 con la forza di tal che testé piaggia5.
1 ma dimmi... assalita: Dante pone a Ciacco tre domande in rapida successione; li cittadin de la città partita sono i fiorentini. 2 E quelli a me...: alla prima domanda segue la risposta più estesa (vv. 64-72): Ciacco delinea attraverso una profezia gli eventi della storia fiorentina dal 1300 (anno in cui è immaginato il viaggio) al 1302. Eventi che coinvolsero Dante stesso in prima persona e ne decretarono l’esilio. 3 Dopo lunga... sangue: dopo una serie di contrasti (lunga tencione, forma antica per “tenzone”) i Cerchi e i Donati arriveranno alla violenza (sangue): si allude a un mo-
mento chiave nelle contese tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati, quando il ferimento di un rappresentante dei Cerchi da parte di uno dei Donati, il 1° maggio del 1300, fece precipitare i dissidi in aperta frattura tra le due famiglie, che capitanavano le due fazioni dei Bianchi e dei Neri in cui si divise in Firenze la parte guelfa. 4 la parte selvaggia… molta offensione: la parte selvaggia è il partito della gente di campagna (si allude ai Cerchi, così definiti perché provenienti prevalentemente dal contado: selvaggia vale “rustica, selvatica”); l’altra è il partito dei Donati, ovvero dei
vv. 58-60 Io gli risposi: «Ciacco, la tua sofferenza mi pesa a tal punto che mi induce a piangere; ma dimmi, se lo sai, a che punto arriveranno vv. 61-63 i cittadini della città lacerata; se ci sono ancora persone giuste; e dimmi la causa per cui [la città] è stata attaccata da tante contese». vv. 64-66 Ed egli [rispose] a me: «Dopo una serie di contrasti arriveranno a spargere il sangue, e il partito della gente di campagna caccerà l’altro [partito] con gravi ritorsioni. vv. 67-69 Poco dopo accadrà che questa [parte dei Bianchi] perda l’egemonia entro tre anni, e che l’altra prevalga con l’appoggio di una persona che attualmente si barcamena senza prendere posizione. Neri. Nel giugno del 1301 i principali esponenti dei Neri (in cui si riconoscevano le famiglie del ceto nobiliare) furono esiliati. 5 Poi appresso... testé piaggia: convien, forma latineggiante che significa “è necessario”; questa si riferisce alla parte bianca della fazione dei Guelfi, mentre l’altra rimanda ai Neri; piaggiare appartiene al campo semantico della navigazione e significa “navigare tra la terra e l’alto mare”. La perifrasi allude a Bonifacio VIII, che nel 1301 invierà a Firenze Carlo di Valois, apparentemente per pacificare la città, in realtà per appoggiare i Neri.
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Alte terrà lungo tempo le fronti6, tenendo l’altra sotto gravi pesi, 72 come che di ciò pianga o che n’aonti. Giusti son due, e non vi sono intesi7; superbia, invidia e avarizia sono 75 le tre faville c’hanno i cuori accesi8».
6 Alte... fronti: cioè “terranno il potere”. 7 Giusti son... intesi: è impossibile dire a chi Dante qui si riferisca. Di certo c’è solo l’evidente constatazione che la giustizia è pressoché scomparsa da Firenze; non vi sono intesi vale “non sono ascoltati (o “seguiti”).
8 superbia... accesi: le tre disposizioni negative che hanno acceso i cuori dei fiorentini e hanno dato origine alla discordia civile sono dunque la superbia, l’invidia e l’avidità (avarizia), peccati che ricordano le tre fiere del I canto (alla lussuria-lonza
vv. 70-72 Per molto tempo [la parte dei Neri] terrà la testa alta, opprimendo l’altra con misure vessatorie, nonostante questi se ne lamentino o se ne adirino. vv. 73-75 Sono rimasti due uomini giusti, ma non sono ascoltati; la superbia, l’invidia e l’avidità sono le tre scintille che hanno acceso i cuori». si sostituisce qui, data la tematica, l’invidia). Le stesse disposizioni negative sono ricordate da Brunetto Latini in If XV, 68 come prerogativa dei fiorentini («gent’è avara, invidiosa e superba»).
Analisi del testo L’obiettivo di Dante è politico In questi versi Dante chiede a Ciacco, frequentatore dei banchetti delle famiglie fiorentine in vista, quale sarà il futuro di Firenze. L’unico elemento di convergenza tra Dante e Ciacco, così diverso dal poeta e dedito in vita a un peccato degradante come la gola, è la fiorentinità. E non a caso su Firenze è incentrato il loro dialogo, che riveste una componente profondamente politica. Tutti i canti VI nella Commedia sono dedicati, nell’articolata struttura del poema, a temi politici: così come nel VI del Purgatorio si affronta il tema politico dell’Italia e nel VI del Paradiso il tema politico dell’Impero, a questo VI canto dell’Inferno Dante assegna simmetricamente la trattazione delle profonde lacerazioni che dilaniano la città di Firenze (una città partita, v. 61). Sono versi di aspra invettiva, non esenti da un doloroso coinvolgimento sentimentale del poeta, nella consapevolezza della crisi irreversibile in cui è precipitata la sua città, infuocata da tre implacabili «faville», quali «superbia, invidia e avarizia» (vv. 74-5). Alcuni critici hanno osservato una certa disorganicità e discontinuità rispetto alla descrizione, di poco precedente, del peccato di gola di Ciacco: è stato messo in dubbio, cioè, il coerente collegamento fra il vizio in questione e il tema politico, tant’è che alcuni studiosi riducono il peccato a un ruolo di «mero pretesto» (Iannucci). Ma è necessario invece proporre una lettura coesa del canto, «indicando la “prima cagione” delle sventure di Firenze proprio nel vizio della gola» (Bellomo). In tal senso, il vizio capitale di Ciacco, e la scelta di Dante di presentare questo personaggio come referente per un dialogo sulla corruzione di Firenze, non sono affatto casuali, ma sono funzionali alla rappresentazione del degrado della città. Il vizio della gola è legato al peccato originale e fu alla radice di molti altri vizi, «perché il mangiare un frutto determinò la cacciata dell’uomo dall’Eden» (Bellomo). In questa prospettiva, Dante attribuisce al peccato della gola un valore simbolico evocativo per il destino dell’umanità, e attraverso Ciacco lo pone a coerente antefatto della crisi della sua città.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza le tre domande che Dante rivolge a Ciacco. COMPRENSIONE 2. A quali vicende politiche si riferisce Ciacco nella sua risposta? 3. Quali sono le tre faville che infuocano la città di Firenze? LESSICO 4. Il termine partita è un latinismo dal verbo partio, “divido, separo”, da cui deriva anche la parola “partito”. Svolgi una ricerca su questo termine e compila una scheda storico-lessicale con i risultati. 5. Con quali termini vengono indicate, le due fazioni in opposizione: il partito dei Bianchi e il partito dei Neri? E a quali famiglie si riferiscono?
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ESPOSIZIONE ORALE 6. Le ragioni della crisi di Firenze per Dante sono politiche o morali? Quale relazione sussiste per Dante tra politica e morale, fra il peccato della gola e la corruzione della “città partita”, e quindi fra la figura di Ciacco e il degrado di Firenze? Motiva la tua risposta (max 3 minuti).
424 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
T23b
Dante Alighieri
Ahi serva Italia... Purgatorio VI, 76-90 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998 AUDIOLETTURA
Anche il VI canto del Purgatorio, come tutti i canti VI del poema, affronta il tema politico: dalla dimensione prettamente municipale che ispira il colloquio tra Dante e Ciacco (canto VI dell’Inferno) nel canto VI del Purgatorio l’ottica del poeta, probabilmente anche in seguito all’ampliamento di prospettive che comportò l’esperienza dell’esilio, si allarga a investire l’Italia intera.
Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, 78 non donna di provincie, ma bordello1! Quell’anima gentil fu così presta, sol per lo dolce suon de la sua terra, 81 di fare al cittadin suo quivi festa2; e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode 84 di quei ch’un muro e una fossa serra3. Cerca, misera, intorno da le prode le tue marine, e poi ti guarda in seno, 87 s’alcuna parte in te di pace gode4. Che val perché ti racconciasse il freno Iustinïano, se la sella è vòta? 90 Sanz’esso fora la vergogna meno5.
1 Ahi serva Italia... bordello: una delle terzine più celebri della Commedia per la straordinaria forza polemica che la ispira: l’Italia del tempo di Dante vi appare come serva, luogo (ostello) di dolore, nave in preda alla tempesta perché priva di guida, luogo di depravazione (bordello) e non più (come ai tempi dell’Impero romano) signora di province; donna è un latinismo: equivale a domina, ovvero signora, dominatrice. 2 Quell’anima... festa: l’anima gentil di cui si parla è appunto Sordello, pronto a festeggiare Virgilio.
3 e ora... serra: la contrapposizione tra il gesto spontaneo di Sordello, motivato dall’amor di patria, e la situazione dell’Italia è sottolineata fortemente: in Italia domina la discordia e addirittura chi vive entro le mura di una stessa città e uno stesso fossato (quei ch’un muro e una fossa serra) combatte (ma il verbo scelto da Dante è ben più forte: si rode) contro i propri concittadini. 4 Cerca... gode: inizia da qui (vv. 85-90) la personificazione dell’Italia. 5 Che val... meno: l’immagine dell’Italia da quella di una donna infelice trapassa
vv. 76-78 Ahi serva Italia, luogo di dolore, nave senza timoniere in una grande tempesta, non sei dominatrice di province ma luogo di depravazione! vv. 79-81 Quell’anima nobile fu così pronta, al solo sentir pronunciare il nome della sua patria, a festeggiare con il suo abbraccio qui il suo concittadino; vv. 82-84 e ora in te [Italia] non stanno senza farsi guerra i tuoi abitanti, e l’un l’altro si combattono coloro che vivono entro le mura di una stessa città e uno stesso fossato. vv. 85-87 Cerca, infelice, sui litorali le tue città di mare e poi guardati [le tue città] all’interno, se qualche angolo del tuo territorio vive in pace. vv. 88-90 A che cosa è servito che Giustiniano ti aggiustasse il morso, se la sella è vuota? Senza quel freno la vergogna sarebbe minore.
nella metafora di un cavallo la cui sella è vuota (allusione all’assenza di una guida stabile, che Dante identificava nell’imperatore, apertamente accusato in seguito, ai vv. 97 e sgg.). Dante allude qui, attraverso la metafora del “freno raggiustato”, all’opera dell’imperatore Giustiniano che fece riordinare l’intero patrimonio giuridico romano. Le leggi servono se possono essere applicate, cosa impossibile dove manchi un’autorità suprema, come appunto, secondo Dante, in Italia.
Il poema sacro 4 425
Analisi del testo Apostrofe all’Italia Dopo aver sviluppato un’aspra invettiva contro Firenze, nel VI canto dell’Inferno, anche in questo VI canto del Purgatorio Dante elabora una dura apostrofe all’Italia. Si possono riconoscere una serie di parallelismi fra i due canti. Come nel canto infernale l’occasione per la riflessione sul degrado di Firenze era data dall’incontro con un personaggio, Ciacco, anche in questo canto del Purgatorio i versi di Dante prendono spunto da un incontro. Si tratta qui dell’affettuoso abbraccio tra due compatrioti: Virgilio e Sordello, trovatore italiano del XIII secolo nato a Goito (cittadina presso Mantova). Inoltre, così come i mali di Firenze sono legati, essenzialmente, alle sue divisioni interne (città partita), ossia a una inguaribile letale anarchia, allo stesso modo la «solenne deprecazione dei mali che affliggono l’Italia», è legata al fatto di essere “serva”, non nel «significato risorgimentale di schiava dello straniero, ma in quello tipicamente dantesco, di priva di libertà in quanto sprovvista dell’ordine e delle leggi garantiti dall’autorità imperiale» (Emilio Pasquini). In altre parole, ciò che Dante denuncia della condizione italiana, così come aveva fatto anche per la sua città partita, è l’assenza di un’unità, di un ordine istituzionale, di un’armonia superiore alle minute contese partitiche.
La voce dell’autore-narratore L’apostrofe all’Italia è l’esempio forse più noto di irruzione della “voce” dell’autorenarratore nel contesto della finzione narrativa del viaggio ultraterreno. È come se il Dante autore togliesse la parola bruscamente al Dante personaggio, ossia al cosiddetto ego agens, il personaggio che “agisce” sulla scena, che si muove e si relaziona coi vari personaggi. Troppo importante è il tema politico italiano, troppo sta a cuore a Dante, profeta sdegnato del suo tempo, la decadenza morale e politica della penisola per non dire apertamente la sua.
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COMPRENSIONE 1. Quale problema individuava Dante nell’Italia del proprio tempo? E in tal senso quale parallelo Dante sviluppa fra la condizione di Firenze e la condizione dell’Italia? 2. A che proposito è nominato l’imperatore Giustiniano? STILE 3. Nella parte iniziale del testo Dante ricorre a una serie di metafore per rappresentare la degradata situazione dell’Italia del proprio tempo: individuale e spiegane il senso. 4. Secondo te, quali effetti Dante voleva realizzare attraverso la personificazione ai vv. 85 e sgg.?
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SCRITTURA 5. Nei vv. 83-84 si può riconoscere un’eco della vicenda personale di Dante? Quale? (max 15 righe)
Virgilio e Dante incontrano Sordello (miniatura del manoscritto Holkham).
426 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
T23c
Dante Alighieri
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento Purgatorio XIX, 88-96; 100-117 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Il canto XIX è senza dubbio uno di quelli in cui la vis, la forza polemica dell’indignazione di Dante, si manifesta con maggiore asprezza. L’obiettivo polemico è la corruzione della Chiesa: in tutta la Commedia Dante, vicino in ciò alle posizioni dei francescani spirituali, condanna severamente l’attaccamento del papato ai beni terreni e la compromissione della Chiesa con il potere politico, ma nei versi che presentiamo tale risentimento raggiunge una virulenza che ha confronto forse solo nell’invettiva di san Pietro nel Paradiso (Pd XXVII, 19-66). Dante si trova nella terza bolgia, dove sono puniti i simoniaci (cioè coloro che facevano commercio di beni spirituali, come assoluzioni dai peccati e indulgenze) e incontra il papa Niccolò III. Questi non può vedere chi sta parlando con lui (e infatti pensa che Dante sia il suo successore, Bonifacio VIII): come gli altri simoniaci è conficcato a testa in giù in una buca, da cui sporgono solo le gambe, che agita freneticamente perché sulla pianta dei piedi arde una fiamma. Questa la situazione (in cui è evidente un dissacrante rovesciamento della dignità papale) da cui trae origine la violenta invettiva di Dante.
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro: 90 «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle Nostro Segnore in prima da san Pietro ch’ei ponesse le chiavi1 in sua balìa? 93 Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’. Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito 96 al loco2 che perdé l’anima ria3. [...] E se non fosse ch’ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi4 102 che tu tenesti ne la vita lieta, io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, 105 calcando i buoni e sollevando5 i pravi. Di voi pastor s’accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l’acque 108 puttaneggiar coi regi a lui fu vista6;
1 le chiavi: le chiavi della Chiesa, cioè l’autorità del rappresentante di Cristo sulla Terra. 2 loco: complemento oggetto. 3 anima ria: Giuda, qui definito anima ria, cioè rea, malvagia; è il soggetto. 4 le somme chiavi: simboleggiano l’autorità papale.
5 sollevando: innalzando alle cariche ecclesiastiche. 6 Di voi pastor... fu vista: viene qui citato un passo dell’Apocalisse di Giovanni Evangelista (17, 1-3) in cui si parla in un linguaggio profetico e oscuramente simbolico di una “grande meretrice” con la quale si unirono i potenti della Terra: «la
vv. 88-90 Io non so se fui a questo punto troppo ardito, poiché gli risposi proprio in questo tono: «Ora dimmi: quanto denaro volle vv. 91-93 Nostro Signore da san Pietro prima che egli gli affidasse le chiavi [della Chiesa]? Certo non gli disse altro se non: ‘Seguimi’. vv. 94-96 Né Pietro né gli altri apostoli ottennero da Mattia oro o argento quando fu sorteggiato per prendere il posto che perdette l’anima malvagia. [...] vv. 100-102 E se non fosse per il rispetto che provo verso le sacre chiavi che tu tenesti nella vita terrena, che mi impedisce di farlo, vv. 103-105 userei parole ancora più severe; perché la vostra avidità corrompe il mondo, calpestando i virtuosi e innalzando i corrotti. vv. 106-108 A voi papi corrotti pensò l’Evangelista quando la donna che siede sopra le acque da lui fu vista prostituirsi con i re:
meretrix magna indicava, secondo i Padri, la Roma imperiale pagana, ma molti autori cristiani, e in particolare ai tempi di Dante i gruppi riformatori, come spirituali e gioachimiti, vi scorgevano la Roma papale corrotta» (Chiavacci Leonardi). La figura femminile rappresenterebbe dunque la Chiesa e i regi sarebbero i potenti.
Il poema sacro 4 427
quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, 111 fin che virtute al suo marito piacque7. Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; e che altro è da voi a l’idolatre, 114 se non ch’elli uno, e voi ne orate cento8? Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote 117 che da te prese il primo ricco patre9!».
7 quella che... piacque: nel testo biblico le sette teste appartengono a una bestia su cui siede la donna. Le sette teste sarebbero i sette doni dello Spirito Santo dal quale essa nacque e le dieci corna i dieci comandamenti di Dio. Il marito sarebbe dunque il papa. 8 Fatto v’avete... cento: il linguaggio esce dall’oscuro simbolismo profetico per ri-
diventare duramente accusatorio: i papi che adorano l’oro e l’argento anziché Dio non sono troppo diversi dall’idolatra. 9 Ahi, Costantin... ricco patre: Dante conclude la sua requisitoria accusando come origine del potere temporale la cosiddetta “donazione di Costantino” che egli credeva autentica, come in genere tutti al suo tempo. Costantino, converti-
vv. 109-111 quella che nacque con le sette teste e ricevette forza e potere dalle dieci corna, finché il marito ne onorò la virtù. vv. 112-114 Vi siete fabbricati un dio d’oro e d’argento; e che differenza c’è tra voi e l’idolatra, se non che quello ha un solo idolo, e voi ne adorate cento? vv. 115-117 Ah, Costantino, quanto male produsse non la tua conversione, ma quella donazione che il primo papa ricevette da te arricchendosene!».
tosi al cristianesimo, aveva donato la città di Roma al papa Silvestro. Una donazione documentata ufficialmente da un atto, la cui falsità fu dimostrata con inoppugnabili ragioni filologiche dall’umanista Lorenzo Valla nel XV secolo.
Analisi del testo I simoniaci e Niccolò III Dante si trova nella terza bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i simoniaci, cioè coloro che, per venale interesse, fanno commercio con le cose sacre (come assoluzioni dai peccati e indulgenze), distraendo i beni spirituali dalla loro legittima destinazione. Il peccato è fondato sull’avarizia, declinato nei confronti dei beni sacri, quindi ancora più grave, al punto che confina con una sorta di idolatria delle ricchezze, tant’è che «Dante assimila il peccato a quello dell’adulterio, poiché i simoniaci per denaro contaminano le cose di Dio che dovrebbero essere di bontate spose» (Saverio Bellomo). Al centro del canto viene rappresentato l’incontro col papa Niccolò III, al secolo Giovanni Gaetano Orsini, papa dal 1277, noto per le sue pratiche nepotistiche, il quale nell’inferno non può vedere chi sta parlando con lui (e infatti pensa che Dante sia il suo successore, Bonifacio VIII): come gli altri simoniaci è conficcato a testa in giù in una buca, da cui sporgono solo le gambe, che agita freneticamente perché sulla pianta dei piedi arde una fiamma. Questa è la situazione (in cui è evidente, secondo la legge del contrappasso, un dissacrante rovesciamento della dignità papale) da cui trae origine la violenta invettiva di Dante.
L’aspra invettiva di Dante La violenta requisitoria di Dante, raffigurata entro una condizione paesaggistica di forte impatto, con tragici chiaroscuri e corposi contrasti, si muove anzitutto contro i simoniaci, in particolare contro tre papi, uno presente (Niccolò III) e due di cui si preannuncia l’arrivo (Bonifacio VIII e Clemente V), che si sono intromessi negli affari politici e hanno commerciato coi beni sacri. Niccolò III, nella fattispecie, con la famosa pace del cardinal Latino del 1280, ha avviato la politica espansionistica del Papato in Firenze, generando così la condanna di Dante, geloso delle autonomie comunali. L’ira di Dante, tuttavia, non si limita ai tre papi, ma sfocia «in un’alta sinfonia dolente e sdegnosa» (Emilio Pasquini), contro le colpe dei simoniaci: la lunga invettiva di Dante non è solo contro Niccolò III, ma anche contro tutti i falsi pastori intenti ai beni terreni.
428 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Stile Nello stile ricorre una raffinata tessitura retorica, che punta sull’enfasi, utilizzando esclamazioni (vv. 115-7) e interrogazioni (vv. 113-4), e si sviluppa sulle metafore, come quella della Chiesa sposa, all’inizio del canto, che si rafforza nell’immagine della meretrice apocalittica per indicare la corruzione della Chiesa (vv. 106-111). A tali metafore si accostano, non a caso, vocaboli che rinviano al tema della cupidigia, «designata col termine di avarizia al verso 104» (Saverio Bellomo). Allo stesso modo l’indignazione per il peccato trova sfogo in termini forti, di registro infimo, come puttaneggiar (v. 108)», termine che è un ricalco in tono “basso” dell’Apocalisse biblica.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Con chi parla Dante? 2. Quali sono i papi di cui si preannuncia l’avvento? 3. A chi/a che cosa allude l’apocalittica immagine della meretrice che “puttaneggia” con i regnanti? ANALISI 4. Ti sembra che la situazione in cui avviene il colloquio abbia una qualche rilevanza? 5. L’invettiva di Dante si limita a un solo papa? LESSICO 6. Al v. 88 Dante usa l’aggettivo folle in rapporto alla violenta apostrofe che nei versi successivi rivolge al papa. L’aggettivo folle ricorre varie volte nella Commedia: nella nostra antologizzazione lo puoi trovare in ➜ T22d . Esamina come Dante abbia fatto uso del termine nei casi indicati.
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SCRITTURA 7. Sintetizza i tre passi proposti, identifica gli obiettivi polemici di Dante che se ne ricavano, ricollegali alla situazione storica del tempo di Dante. Su questa base, stendi sul tema un testo di circa 20-30 righe.
Supplizio dei simoniaci di Priamo della Quercia, dal ciclo di miniature dell’Inferno e del Purgatorio danteschi nel manoscritto Yates Thompson 36, foglio 34r (1442-1450, British Library, Londra).
Il poema sacro 4 429
T24 Collabora all’analisi
T24a
Dante nuovo “auctor” e profeta Dante Alighieri
La consacrazione della missione profetica di Dante Paradiso XVII, 106-142
D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
Nei canti centrali del Paradiso (XV, XVI e XVII: la cosiddetta “trilogia di Cacciaguida”) Dante immagina di incontrare il suo antenato Cacciaguida. Un incontro solenne, che ricorda espressamente quello di Anchise ed Enea. Dal suo trisavolo Dante riceve la spiegazione delle oscure profezie che gli sono state rivolte da vari spiriti nel corso del viaggio (prima parte del canto XVII): lo attende l’amara esperienza dell’esilio da Firenze. Avuta la rivelazione del suo destino doloroso, Dante formula al suo antenato un dubbio cruciale. La risposta che vi fornisce Cacciaguida giustifica l’ideazione stessa della Commedia e consacra la missione di Dante tra gli uomini e l’alta funzione didattica della sua poesia.
«Ben veggio, padre mio1, sì come sprona vv. 106-108 «Vedo bene, padre mio, come incalza il tempo verso di me, per infliggermi lo tempo verso me, per colpo2 darmi un colpo tale che è più difficile da sopportare 108 tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; per chi vi si lascia andare; per che di provedenza è buon ch’io m’armi, vv. 109-111 per cui è necessario che mi armi di previdenza, così che, se mi verrà tolto il sì che, se loco m’è tolto più caro3, luogo più caro, non abbia a perdere gli altri 111 io non perdessi li altri4 per miei carmi. luoghi a causa dei miei versi. Giù per lo mondo sanza fine amaro, vv. 112-114 Giù nel mondo del dolore etere per lo monte del cui bel cacume no, e attraverso il monte dalla cui vetta gli occhi della mia donna mi innalzarono 114 li occhi de la mia donna mi levaro5, vv. 115-117 e poi attraverso i cieli, di stella e poscia per lo ciel, di lume in lume, in stella, ho sentito cose che, se io le riferiho io appreso quel che s’io ridico, sco, per molti avranno aspro sapore; vv. 118-120 ma se io ho paura di dire la 117 a molti fia sapor di forte agrume; verità, temo di perdere la possibilità di ese s’io al vero son timido amico, sere ricordato tra i posteri, che chiameranno temo di perder viver6 tra coloro antico questo tempo». 120 che questo tempo chiameranno antico». vv. 121-123 La luce in cui risplendeva la pietra preziosa che io trovai in quel cielo La luce in che rideva il mio tesoro7 si fece dapprima lampeggiante, come uno ch’io trovai lì, si fé prima corusca, specchio d’oro colpito da un raggio di sole; 123 quale a raggio di sole specchio d’oro; vv. 124-126 quindi rispose: «Una coscienza indi rispuose: «Coscïenza fusca offuscata dalle proprie colpe vergognose o da quelle della sua famiglia effettivamente o de la propria o de l’altrui vergogna troverà aspre le tue parole. 126 pur sentirà la tua parola brusca. vv. 127-129 Tuttavia, messa da parte ogni Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, reticenza, rivela interamente la visione che hai avuto; e lascia che chi se lo merita si tutta tua visïon fa manifesta; lamenti pure. 129 e lascia pur grattar dov’è la rogna8.
AUDIOLETTURA
1 padre mio: per Dante, Cacciaguida assu-
5 e per lo monte... mi levaro: si parla qui
me i tratti di un’autorevole figura paterna. 2 colpo: l’esilio. 3 loco più caro: la patria. 4 li altri: la possibilità di rifugiarmi presso qualche signore.
del Purgatorio; cacume è un latinismo. Dante allude all’incontro con Beatrice nell’Eden. 6 viver: è infinito sostantivato.
430 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
7 il mio tesoro: è Cacciaguida la pietra preziosa che risplende metaforicamente. 8 lascia pur... rogna: espressione di tono proverbiale, tratta dal gergo popolare.
Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento 132 lascerà poi, quando sarà digesta. Questo tuo grido9 farà come vento, che le più alte cime più percuote; 135 e ciò10 non fa d’onor poco argomento. Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa 138 pur l’anime che son di fama note11, che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia 141 la sua radice incognita e ascosa12, né per altro argomento che non paia».
vv. 130-132 Poiché, se la tua parola darà fastidio al primo assaggio, produrrà un vitale nutrimento una volta assimilata. vv. 133-135 La forza della tua poesia farà come il vento che scuote le più alte cime degli alberi: e ciò non è piccolo motivo d’onore. vv. 136-138 Perciò ti sono state mostrate in questi cieli, nel monte e nella valle del dolore solo le anime famose, vv. 139-142 perché colui che ascolta non ferma l’attenzione né presta fede a un esempio che abbia il suo fondamento oscuramente sconosciuto, né ad altre argomentazioni che non appaiano chiaramente evidenti».
9 Questo tuo grido: la forza della tua po-
11 Però... note: si fa qui riferimento al Pa-
esia (qui definita grido). 10 ciò: ovvero il colpire chi sta molto in alto, i potenti della Terra.
radiso (in queste rote), al Purgatorio (nel monte) e all’Inferno (valle dolorosa).
12 incognita e ascosa: endiadi.
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Dopo aver avuto dal suo trisavolo, nei versi precedenti del canto XVII (non antologizzati), la spiegazione delle misteriose allusioni riguardo un oscuro destino che lo attende (l’esilio), Dante ha un dubbio: rivelare ciò che ha vissuto nel viaggio nell’aldilà, anche se sgradito a molte persone? Cacciaguida dà una risposta molto netta alla domanda di Dante, che allude indirettamente all’alto ruolo educativo della Commedia e consacra la missione di Dante tra gli uomini. 1. Quali timori sono rispettivamente associati dal poeta al censurare o no quanto ha visto nel suo viaggio? 2. Indica e spiega le espressioni che identificano i tre regni dell’aldilà (nota che il riferimento compare nel testo due volte). 3. I posteri sono definiti attraverso una perifrasi: individuala e spiegala. 4. Perché il dubbio di Dante può essere definito un dubbio “retorico”? 5. Quale visione del ruolo del poeta e della poesia emerge dalle parole di Cacciaguida? Dante attribuisce a Cacciaguida – un suo nobile alter ego – la consacrazione solenne della propria missione profetica: denunciare i mali del mondo per ricreare una società più giusta. Una missione che, il poeta ne è consapevole, sarà riconosciuta soprattutto dai posteri: è ad essi ormai, e non tanto ai contemporanei, che Dante rivolge il suo messaggio salvifico, consapevolmente affidato all’esemplarità delle figure e delle vicende evocate nel poema (vv. 136-142). 6. Scheda i termini con cui Cacciaguida allude alla poesia di Dante. 7. A quale campo metaforico rimandano i termini impiegati ai vv. 130-132? Quale idea del ruolo della poesia in generale, e di quella di Dante in particolare, se ne può dedurre? 8. Il v. 129 colpisce il lettore per il brusco abbassamento del registro linguistico. Come spieghi la scelta del poeta? In quali più generali tendenze stilistico-linguistiche della Commedia si iscrive? 9. I versi finali (vv. 136-142) del canto alludono a una componente molto importante della poetica narrativa di Dante nella Commedia: di che si tratta? A quale ruolo dell’opera va collegata? Fu una scelta effettivamente seguita da Dante?
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10. Scrivi un testo di circa 20 righe che illustri e discuta il seguente enunciato: “La missione profetica e salvifica della Divina Commedia si fonda sul giudizio pessimistico che l’autore vi dà del proprio tempo”.
Il poema sacro 4 431
T24b
Dante Alighieri
Io fui sesto tra cotanto senno Inferno IV, 79-102 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
Nel canto IV ci troviamo nel Limbo, il primo dei nove cerchi infernali. Avanzando insieme a Virgilio, Dante vede una luce che spezza l’angosciante oscurità dell’Inferno. Nella semioscurità intravede delle figure che gli sembrano distinguersi per autorevolezza e ne chiede spiegazione al suo accompagnatore: il poeta gli rivela che in quella zona stanno gli spiriti che in vita hanno acquistato un nome onorevole e che proprio per questo sono distinti dagli altri abitatori del luogo. Si muovono, quindi, verso Dante e Virgilio quattro entità, che si rivelano essere grandi poeti dell’antichità classica (Omero, Orazio, Ovidio e Lucano), ai quali va aggiunto Virgilio stesso, che si era staccato dal gruppo per soccorrere e guidare Dante. Anche il poeta fiorentino è accolto amichevolmente tra di essi e si sofferma a conversare con loro, presumibilmente di poesia.
Intanto voce fu per me udita: «Onorate l’altissimo poeta; 81 l’ombra sua torna, ch’era dipartita1». Poi che la voce fu restata e queta, vidi quattro grand’ombre a noi venire: 84 sembianz’avevan né trista né lieta2. Lo buon maestro cominciò a dire: «Mira colui con quella spada in mano, 87 che vien dinanzi ai tre sì come sire: quelli è Omero poeta sovrano3; l’altro è Orazio satiro4 che vene; 90 Ovidio5 è ’l terzo, e l’ultimo Lucano6. Però che ciascun meco si convene nel nome che sonò la voce sola, 93 fannomi onore, e di ciò fanno bene7». Così vid’i’ adunar la bella scola di quel segnor de l’altissimo canto 96 che sovra li altri com’aquila vola8. Da ch’ebber ragionato insieme alquanto, volsersi a me con salutevol cenno, 99 e ’l mio maestro sorrise di tanto; e più d’onore ancora assai mi fenno, ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera, 102 sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
AUDIOLETTURA
1 Onorate... dipartita: le parole udite da Dante si riferiscono a Virgilio (l’altissimo poeta) che è appunto ritornato nel luogo dove eternamente vive la sua ombra e tra i compagni che gli sono più vicini, grandi poeti come lui; dipartita sta per “allontanata”. 2 sembianz’avevan... lieta: il fatto che l’espressione (sembianza) del volto dei quattro spiriti non tradisca tristezza o gioia potrebbe alludere all’idea che l’antichità (e in seguito anche il Medioevo) aveva del saggio, contraddistinto da un perfetto equilibrio e da padronanza delle emozioni.
vv. 79-81 Intanto una voce fu da me udita: «Onorate l’altissimo poeta; la cui ombra, che si era allontanata, torna». vv. 82-84 Dopo che la voce si fu fermata e tacque, vidi quattro grandi ombre venire verso di noi: la cui espressione del volto non esprimeva né tristezza né gioia. vv. 85-87 Il buon maestro cominciò a dire: «Osserva colui che, con la spada in mano, viene precedendo gli altri tre come fosse un re: vv. 88-90 quello è Omero, il più grande dei poeti; l’altro che viene è Orazio, autore delle Satire; Ovidio è il terzo e l’ultimo è Lucano. vv. 91-93 Dato che ciascuno ha in comune con me il nome fatto risuonare dalla voce solitaria, mi onorano ed è giusto che lo facciano». vv. 94-96 Così vidi radunarsi il bel gruppo guidato dal re della poesia epica, che sopra agli altri vola come un’aquila. vv. 97-99 Dopo che ebbero conversato a lungo fra di loro, si rivolsero a me salutandomi, e il mio maestro sorrise di ciò; vv. 100-102 e mi onorarono ancor più perché mi ammisero nel loro gruppo, così che fui al sesto posto fra spiriti di così alto ingegno.
3 Mira... sovrano: Omero, il più grande dei poeti (sovrano) è rappresentato davanti agli altri tre con la spada in mano, perché nell’Iliade cantò le gesta degli antichi eroi. 4 Orazio satiro: è Orazio Flacco, grande poeta latino dell’età augustea, qui ricordato come autore delle Satire, la sua opera più nota nel Medioevo. 5 Ovidio: poeta latino autore delle Metamorfosi e dell’Ars amatoria. Era notissimo nel Medioevo e Dante stesso lo utilizza come principale fonte per i riferimenti mitologici del poema.
432 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
6 Lucano: poeta epico del I sec. a.C., autore del poema Pharsalia (Farsaglia). 7 Però... fanno bene: il nome è quello di poeta; Virgilio sottolinea che l’onore riguarda la condizione di poeta e non la sua persona in particolare. 8 Così... vola: Omero è definito, con una suggestiva perifrasi, come il re della poesia epica (altissimo canto) che è superiore a tutti i poeti come l’aquila vola più in alto di tutti i volatili.
Analisi del testo La legge del contrappasso Come tutto l’Inferno, anche il Limbo, immerso nelle tenebre, è soggetto alla legge del passaggio dalla vita alla morte, ossia al rapporto di corrispondenza fra il peccato commesso in vita e la punizione nella dimensione ultraterrena. In questo caso, poiché il Limbo ospita le anime di uomini virtuosi non battezzati ovvero anime vissute prima della predicazione di Cristo che non credettero in Cristo venturo, esse non soffrono pene sensibili, ma sopportano il desiderio di Dio in eterno senza speranza. La loro è una cosiddetta poena damni e non una poena sensus, cioè soffrono per il desiderio inappagabile della beatitudine, ma non hanno tormenti fisici. Non pianti ma sospiri: è questa la situazione che caratterizza il Limbo. Non a caso l’angosciante oscurità dell’Inferno è spezzata qui da un riverbero di luce.
Filosofi, poeti e scienziati Dante si pone dunque una questione di nevralgica importanza: l’uomo che adempie in massimo grado le virtù intellettuali, si dedica alla filosofia e alla scienza in esemplari forme, potrà salvarsi senza la fede cristiana, senza il sacramento del battesimo e quindi senza la ricchezza delle virtù cardinali? E quindi: se le virtù intellettuali, senza battesimo, non potranno salvare il filosofo (nel senso ampio e medievale del termine, comprendente cioè anche gli scienziati e i poeti), è comunque giusto che i meriti terreni restino senza riconoscimento nella dimensione oltremondana? A Dante sta molto a cuore la questione, e in questo canto sembra «trovare una soluzione non propriamente teologica, ma poetica, immaginando con la scorta di Virgilio, nel privilegio del Limbo da lui stabilito per i giusti senza battesimo, un ulteriore privilegio per alcuni di essi, cioè per coloro che tra loro eccelsero» (Umberto Bosco): il privilegio di trovarsi a conversare di filosofia in un appartato «nobile castello», cerchiato da sette mura e difeso da un bel fiumicello, in un ameno prato verdeggiante.
Stile La situazione intima ed emotiva di questa zona infernale, in cui Dante incontra i filosofi a lui più cari, corrisponde a una «tonalità decorosa dello stile, ad una nobiltà temperata da indugi colloquiali, scevra di particolari teneri o elegiaci […]. Di qui la funzione di intermezzo del Limbo, quasi di pausa dolce-amara (soffusa di memoria culturale e allusiva) fra l’orchestrazione drammatica del III e del V canto» (Emilio Pasquini).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. A che cosa allude il termine bella scola (v. 94)? Da quali poeti è costituita la bella scola? 2. In che cosa consiste la “pena”, secondo la legge del contrappasso, delle anime del Limbo? ANALISI 3. A quale ambito culturale appartengono i poeti citati? 4. Qual è la condizione di “privilegio” dei filosofi del Limbo? STILE 5. Al v. 87 e ai vv. 95-96 Virgilio usa, in rapporto alla figura di Omero, due significativi paragoni e una solenne perifrasi: individuali e commentali. 6. Quale caratteristica generale presenta lo stile di questo canto infernale?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 7. Interpreta e spiega oralmente (max 3 minuti), anche servendoti delle informazioni del profilo, la celebre espressione sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
online T24c Dante Alighieri Un’immagine del lettore Paradiso II, 1-18
Il poema sacro 4 433
T25
La visione culturale di Dante Il poema dantesco è intessuto di moltissimi riferimenti culturali a letterati, filosofi, artisti che sono stati il modello di Dante e che denotano la modernità della concezione culturale del poeta. Il brano che segue mette in evidenza il modo originale con cui Dante rappresenta gli spiriti magni, i grandi pensatori dell’età precristiana.
T25a
Dante Alighieri
Gli spiriti magni Inferno IV, 106-144 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Il passo proposto è tratto da uno dei canti più alti e suggestivi della Commedia (ma raramente proposto nelle letture scolastiche): Dante e Virgilio entrano nel primo cerchio dell’Inferno, il Limbo, dove si trovano le anime che non ricevettero il battesimo e gli spiriti di coloro che vissero prima di Cristo e quindi non conobbero la fede. Non avendo propriamente delle colpe, questi spiriti non sono puniti con pene fisiche, ma sono esclusi per sempre dalla possibilità di godere del Paradiso e della luce di Dio. Perciò non si odono lamenti, come negli altri cerchi, ma sospiri (che l’aura etterna facevan tremare, v. 27). Sospiri che traducono il loro struggente, inappagato desiderio di conoscere Dio, il ben dell’intelletto: sanza speme vivemo (viviamo) in disio, dice tristemente Virgilio (v. 42), che fa parte appunto lui stesso del gruppo di questi spiriti. Riportiamo qui la parte finale del canto: Dante, con Virgilio e gli altri quattro grandi poeti classici da lui poco prima incontrati, entra attraverso sette porte in un castello circondato da sette cerchia di mura (sul significato simbolico della figurazione diverse sono le interpretazioni: potrebbe rappresentare le sette arti liberali del trivio e del quadrivio, le sette partizioni della filosofia o altro ancora). All’interno del castello Dante può scorgere, da un’altura illuminata, radunati su un verde prato, gli spiriti magni, ovvero le grandi (magnus in latino significa “grande”) personalità del passato che hanno lasciato una rilevante impronta nella storia e nella cultura. L’elenco corrisponde a una sorta di “biblioteca ideale” di Dante e ne traduce la disposizione al sincretismo culturale tipica del suo tempo e in particolare dei primi decenni del Trecento.
Venimmo al piè d’un nobile castello, sette volte cerchiato d’alte mura, 108 difeso intorno d’un bel fiumicello1. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: 111 giugnemmo in prato di fresca verdura2. Genti v’eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne’ lor sembianti: 114 parlavan rado, con voci soavi3.
1 Venimmo... fiumicello: l’immagine del castello circondato da alte mura e “difeso” dal fiumicello, al di là dello specifico valore simbolico, rimanda all’isolamento del luogo rispetto all’orrore dell’Inferno. L’andamento della narrazione costruisce un clima fiabesco, da romanzo cavalleresco. 2 Questo passammo... verdura: è probabi-
le che nella felicità di oltrepassare il fiumicello si celi un senso simbolico, così come simbolica è la ripetizione del numero sette; questi savi sono i grandi poeti che Dante ha incontrato poco prima (Omero, Ovidio, Lucano, Orazio e lo stesso Virgilio). 3 Genti v’eran... soavi: ogni particolare della presentazione rimanda al prototipo
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vv. 106-108 Giungemmo ai piedi di un nobile castello, circondato da sette ordini di alte mura, difeso tutt’intorno da un bel fiumicello. vv. 109-111 Lo passammo come se fosse terra asciutta; entrai nel castello con i grandi poeti attraverso sette porte: giungemmo in un prato di fresca vegetazione. vv. 112-114 Vi erano personaggi dallo sguardo tranquillo e austero, dall’aspetto che esprimeva autorevolezza: parlavano in modo misurato, con voci delicate. del saggio, il cui equilibrato contegno ispira rispetto e ammirazione: il lento volgere degli sguardi (occhi tardi e gravi), l’autorevolezza dell’espressione del volto, la parola ponderata e misurata (parlavan rado, con voci soavi). Un ritratto, quello degli spiriti magni, che si contrappone al clima di scomposto dolore proprio dell’Inferno.
Traemmoci così da l’un de’ canti, in loco aperto, luminoso e alto, 117 sì che veder si potien tutti quanti. Colà diritto, sovra ’l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, 120 che del vedere in me stesso m’essalto. I’ vidi4 Eletra con molti compagni, tra’ quai conobbi Ettòr ed Enea5, Cesare6 armato con li occhi grifagni. Vidi Cammilla e la Pantasilea; da l’altra parte vidi ’l re Latino 126 che con Lavina7 sua figlia sedea. Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino, Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia8; 129 e solo, in parte, vidi ’l Saladino9. Poi ch’innalzai un poco più le ciglia, vidi ’l maestro di color che sanno 132 seder tra filosofica famiglia. Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid’ïo Socrate e Platone, 135 che ’nnanzi a li altri più presso li stanno10; Democrito che ’l mondo a caso pone, Dïogenès, Anassagora e Tale, 138 Empedoclès, Eraclito e Zenone11;
4 I’ vidi...: inizia da qui, aperto dal pronome personale I’, “io”, e dal verbo vidi (che ricorrono insistentemente per tutto il passo, quasi a sottolineare lo stupore ammirato del protagonista per aver potuto vivere questa eccezionale esperienza) la rassegna dei grandi personaggi della storia e della cultura vissuti prima di Cristo. 5 Eletra... Ettòr... Enea: Elettra, Ettore ed Enea sono grandi figure della storia di Troia che, attraverso la persona di Enea, continua in quella di Roma. 6 Cesare: Giulio Cesare, qui rappresentato con occhi fieri e minacciosi (grifagni), si trova nello stesso gruppo degli eroi prima nominati perché Dante lo considerava il fondatore dell’Impero romano che, nella sua concezione provvidenziale, continuava la civiltà di Troia. 7 Cammilla... Pantasilea... Lavina: vergine guerriera come Pantasilea (regina delle Amazzoni, uccisa a Troia da Achille), Camilla muore combattendo contro i Troiani. Lavinia, figlia del re Latino, diventerà la sposa di Enea.
vv. 115-117 Ci spostammo così verso uno dei lati, raggiungendo un luogo aperto, luminoso e sopraelevato, da dove si potevano vedere tutti. vv. 118-120 Là davanti, sopra l’erba verde, mi furono indicati i grandi spiriti, che mi esalto dentro di me di aver potuto vedere. vv. 121-123 Io vidi Elettra insieme ad altri suoi compagni, tra i quali riconobbi Ettore ed Enea, Cesare armato, con occhi fieri e minacciosi. vv. 124-126 Vidi Camilla e Pantasilea; dall’altra parte vidi il re Latino che sedeva con sua figlia Lavinia. vv. 127-129 Vidi il Bruto che cacciò Tarquinio, Lucrezia, Iulia, Marzia e Cornelia; e solitario, in disparte, vidi il Saladino. vv. 130-132 Poi, sollevando un po’ lo sguardo, vidi il maestro di coloro che sanno sedere con gli altri filosofi. vv. 133-135 Tutti lo ammirano, tutti gli dimostrano onore: là vidi Socrate e Platone, che gli stanno più vicino rispetto agli altri filosofi; vv. 136-138 Democrito, che dispone il mondo a caso, Diogene, Anassagora e Talete, Empedocle, Eraclito e Zenone;
8 Vidi quel Bruto... Corniglia: vengono
10 vidi ’l maestro... li stanno: Aristotele
ora nominate figure della prima storia romana: da Lucio Giunio Bruto, che cacciò Tarquinio il Superbo ponendo fine al dominio etrusco, a un gruppo di donne celebrate per la loro proverbiale virtù: Lucrezia, suicida per essere stata oltraggiata da Tarquinio; Iulia, figlia di Cesare e sposa di Pompeo; Marzia, moglie di Catone l’Uticense (ricordata anche nel primo canto del Purgatorio); Cornelia, la madre dei due Gracchi. 9 e solo... Saladino: Salah-ed-Din (XII sec.), sultano d’Egitto, che nel Medioevo fu una figura leggendaria per la sua liberalità e le sue imprese. In questa veste compare ad esempio in una novella del Novellino (XXIII). Il fatto che sia qui rappresentato in disparte, isolato dagli altri, segnala forse la sua “diversità” culturale rispetto alla tradizione occidentale e cristiana.
(384-322 a.C.), considerato dalla cultura medievale il filosofo per antonomasia (’l maestro di color che sanno), indiscutibile auctoritas per studiosi e sapienti. L’antico filosofo è qui rappresentato seduto, nell’atto di conversare in mezzo agli altri filosofi; più vicino a lui stanno Socrate (469-399 a.C.) e Platone (427-347 a.C.), perché il loro pensiero aveva nutrito più direttamente quello di Aristotele. 11 Democrito... Zenone: vengono quindi nominati, tra i filosofi, Democrito (V sec.), la cui dottrina filosofica (nota come atomismo) sosteneva che l’universo si fosse originato in seguito a casuale aggregazione di atomi (che ’l mondo a caso pone); Diogene (probabilmente il filosofo del IV sec. a.C. sostenitore della filosofia cinica) e i filosofi naturalisti presocratici Anassagora, Talete, Empedocle ed Eraclito, vissuti tra il VI e il V sec. a.C. Quanto a Zenone rimane il dubbio se Dante alluda a Zenone di Elea, vissuto nel V secolo o al ben più noto Zenone di Cizio (III sec. a.C.) fondatore dello stoicismo.
Il poema sacro 4 435
e vidi il buono accoglitor del quale, Dïascoride12 dico; e vidi Orfeo13, 141 Tulïo e Lino e Seneca morale14; Euclide geomètra e Tolomeo, Ipocràte, Avicenna e Galïeno, 144 Averoìs che ’l gran comento feo15.
12 e vidi... Dïascoride: si tratta questa volta di un medico, che in un suo trattato catalogò (da qui il termine accoglitor) le qualità medicinali delle erbe; quale è termine del linguaggio filosofico scientifico che vale come “qualità”. 13 Orfeo: come Lino, del verso successivo, è un poeta greco appartenente al mito. 14 Tulïo... Seneca morale: si tratta di due grandi personaggi della cultura latina,
entrambi molto importanti nel sapere medievale: Marco Tullio Cicerone, oratore, uomo politico e filosofo (I sec. a.C.) e Lucio Anneo Seneca (I sec. d.C.), filosofo e consigliere di Nerone, i cui scritti – dalle Epistole morali a Lucilio a trattati come il De brevitate vitae (La brevità della vita) – erano assai noti all’epoca. 15 Euclide... feo: in questa terzina trovano posto gli uomini di scienza: matematici (come Euclide di Alessandria, vissuto tra
vv. 139-141 e vidi il valente classificatore delle qualità delle piante, vale a dire Dioscoride; e vidi Orfeo, Tullio e Lino e Seneca il filosofo; vv. 142-144 il fondatore della geometria Euclide e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna e Galeno, Averroè, che si dedicò al grande commento.
il IV e il III sec. a.C.); astronomi, come il grande Tolomeo (II sec. a.C.), che diede il nome alla concezione geocentrica del cosmo vigente nel Medioevo (sistema aristotelico-tolemaico); medici come Ippocrate (IV sec. a.C.) o Galeno (II sec. d.C.) e infine due grandi pensatori arabi, Avicenna (X sec.) e Averroè (XII sec.), colui che trasmise e commentò in chiave decisamente razionalistica il pensiero di Aristotele.
Analisi del testo Dante preumanista? L’idea di un luogo apposito nel Limbo riservato agli spiriti magni, ai grandi sapienti e personaggi dell’antichità precristiana, è ideazione esclusiva del genio di Dante: nella tradizione cristiana non esisteva, infatti, un Limbo degli adulti, perché questo spazio era esclusivamente la dimora dei bambini morti prima d’essere battezzati. Spinto dal suo grande amore per l’antichità classica, Dante osa (e non è certo l’unico caso nella Commedia) sfidare i severi princìpi teologici, immaginando una sede appartata dall’orrore dell’Inferno per i magnanimi spiriti di eroi, poeti, filosofi precristiani (tra i quali vi è anche Virgilio) e persino, cosa ancor più sorprendente, per qualche sapiente appartenente alla fede musulmana (il Saladino, Avicenna e Averroè). Nel nobile castello dove risiedono gli spiriti magni brilla una luce isolata (forse simbolo della cultura stessa) che squarcia le angosciose tenebre infernali. Entrato in questo luogo sereno e calmo, seppur non certo felice (lo dimostrano i sospiri degli spiriti magni, che traducono il loro tormento interiore), Dante personaggio individua, con un’emozione che coinvolge anche il lettore, grandi filosofi (come Aristotele, Platone, Socrate), scienziati (come Euclide), medici (Ippocrate, Galeno), poeti (Orfeo, Lino) mischiati a personaggi storici (Cesare) o letterari (come Elettra, Enea, Ettore) e a molti altri ancora. La sorte privilegiata che Dante autore riserva a questi spiriti antichi, l’enfatizzazione commossa della loro grandezza, hanno fatto parlare di “preumanesimo”: come se Dante, pur appartenendo pienamente alla cultura medievale, avesse voluto in qualche modo esaltare, ben prima dell’età umanistica, i grandi valori umani e culturali del mondo antico e valorizzare la sapienza a prescindere dalla fede. Occorre, però, contestualizzare il lungo passo che qui abbiamo proposto nel generale clima di pensosa malinconia che caratterizza questo canto e soprattutto tener conto di altri punti della Commedia in cui Virgilio stesso (simbolo della ragione e dei valori della cultura antica) sottolinea i limiti del pensiero, che non può da solo pervenire alla verità.
online T25b Dante Alighieri La concezione dantesca di sapienza: pluralismo e unità Paradiso X, 94-138; XII, 127-141
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali qualità sono rappresentate nella rassegna dei grandi dell’antichità? ANALISI 2. Individua i simboli dei vari elementi descrittivi del castello e illustrane il significato. LESSICO 3. La magnanimità è un valore cardine dell’etica antica; cerca sul vocabolario il significato del termine e poi rispondi alla domanda: un catalogo di “magnanimi” come quello dantesco oggi chi potrebbe comprendere, secondo te?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 4. La visione culturale che ispira il passo è definibile come sincretistica ed enciclopedica: spiega in un intervento orale di max 3 minuti il significato di questi termini in rapporto ai versi letti. TESTI A CONFRONTO 5. Nel terzo canto del Purgatorio, Virgilio pronuncia un’appassionata requisitoria nei confronti dei limiti della ragione (Pg III, 34-45): Questi versi, che documentano stretti collegamenti intratestuali nella Commedia, possono retrospettivamente servire come commento alla condizione degli spiriti magni: utilizza queste terzine e la parte del IV canto proposta per trattare in un testo di circa 30 righe il problema dei rapporti tra fede e valori razionali nella concezione di Dante.
«Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via 36 che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, 39 mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, 42 ch’etternalmente è dato lor per lutto: io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri»; e qui chinò la fronte, 45 e più non disse, e rimase turbato.
vv. 34-36 «È folle chi spera che la nostra ragione possa percorrere lo spazio infinito dell’agire segnato da Dio, una sostanza e tre persone. vv. 37-39 Accontentatevi di sapere ciò che accade, senza chiedervene il motivo, perché non ci sarebbe stato bisogno che la Madonna generasse Cristo; vv. 40-42 e vedeste desiderare vanamente [di conoscere le verità ultime] persone così grandi che il loro desiderio sarebbe stato certo soddisfatto, mentre invece in eterno questo desiderio insoddisfatto li tormenta: vv. 43-45 io parlo di Aristotele e di Platone e di molti altri»; e a questo punto chinò la fronte e, senza aggiungere parola, rimase turbato.
Raffaello Sanzio, Scuola di Atene (al centro Platone e Aristotele), 15091511 ca., affresco (Musei Vaticani, Città del Vaticano).
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T26
Il personaggio dantesco: esemplarità e sintesi La scrittura del poema possiede una grande capacità di sintesi, ossia di condensare in pochi esemplari e scultorei versi un’immagine, un concetto complesso e articolato, il destino di un personaggio. Ciò si denota, ad esempio, nel brano proposto di seguito.
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Dante Alighieri
Francesca o dei pericoli dell’amor cortese Inferno V, 82-142 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Nel secondo cerchio dell’Inferno, Dante incontra i lussuriosi: coloro che si abbandonarono alla passione amorosa, dimenticando i valori morali e il controllo razionale. I lussuriosi sono trascinati senza sosta nell’oscurità da una bufera di vento, che simboleggia la bufera dei sensi che li travolse in vita: un esempio tra i più evidenti del principio del contrappasso che regola nella Commedia il rapporto tra colpa e pena (➜ Il principio del contrappasso, PAG. 398). Tra i lussuriosi Dante distingue un gruppo particolare di anime: coloro che morirono per amore. Tra di essi il poeta identifica con forte turbamento grandi figure della cultura antica (come Didone) e medievale (come Tristano) ed è vinto dalla pietà. Quindi è colpito da due spiriti che appaiono inseparabili, nonostante la violenza della bufera: si tratta di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, due cognati adulteri, che furono uccisi dal marito di lei e fratello di Paolo, Gianciotto Malatesta, signore di Rimini. Il fatto di sangue era avvenuto probabilmente nel 1285 ed era quindi ben presente nella memoria collettiva al tempo della stesura dell’episodio dantesco. Quello di Francesca è uno dei più celebri racconti della Commedia: interrogata da Dante, la giovane donna rievoca le circostanze in cui lei e il cognato Paolo furono travolti dalla passione amorosa che li condanna all’eterna dannazione. Il racconto di Francesca chiama in causa le responsabilità morali della letteratura cortese: fu infatti proprio la lettura, fatta insieme, di un romanzo cavalleresco a svelare la loro reciproca attrazione. Sconvolto dal racconto della giovane, in quanto a sua volta interprete un tempo della lirica amorosa cortese, Dante arriva addirittura a svenire.
Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido 84 vegnon per l’aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, 87 sì forte fu l’affettüoso grido1. «O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l’aere perso 90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, 93 poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
1 Quali colombe... grido: è una delle più celebri similitudini del poema: i due spiriti (Paolo e Francesca) che si staccano dalla
loro schiera (dove si trova anche l’eroina virgiliana Didone) per parlare con i due pellegrini della loro tragica storia, sono
438 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
vv. 82-84 Come una coppia di colombe che, richiamate dal desiderio, con le ali spiegate e tese si dirigono insieme al loro dolce nido attraverso l’aria, spinte dall’istinto, vv. 85-87 così si staccano dalla loro schiera, dove si trova anche Didone, e si dirigono verso di noi attraverso l’aria mefitica attratti dall’appassionato richiamo. vv. 88-90 «O creatura cortese e gentile, che vai visitando attraverso l’aria tenebrosa noi che tingemmo il mondo del colore del sangue, vv. 91-93 se il re dell’universo [Dio] ci fosse amico, noi lo pregheremmo di darti la pace, perché hai pietà della nostra terribile condizione.
paragonati da Dante a una coppia di colombe che, spinte dall’istinto amoroso, si dirigono insieme al loro nido.
Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, 96 mentre che ’l vento, come fa, ci tace2. Siede la terra dove nata fui su la marina dove ’l Po discende 99 per aver pace co’ seguaci sui3. Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona 102 che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende4. Amor, ch’a nullo5 amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, 105 che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense6». 108 Queste parole da lor ci fuor porte. Quand’io intesi quell’anime offense, china’ il viso, e tanto il tenni basso, 111 fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?». Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio 114 menò costoro al doloroso passo!». Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri 117 a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette amore 120 che conosceste i dubbiosi disiri?7». E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice 123 ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore8. Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, 126 dirò come colui che piange e dice.
2 O animal... ci tace: Francesca si rivolge a Dante, dichiarando la disponibilità sua e del compagno a parlare, mentre il vento della bufera, nel luogo dove sono riparati, non soffia. 3 Siede la terra... seguaci sui: attraverso una perifrasi geografica, nella terzina Francesca indica la sua terra d’origine, Ravenna. Inizia qui il flashback autobiografico di Francesca, che occuperà il seguito del canto.
4 Amor... m’offende: è la prima delle tre terzine aperte dalla parola Amor, parola chiave del canto. L’apertura della terzina, in cui l’amore è associato strettamente alla nobiltà d’animo (cor gentil) richiama, certo non a caso, l’incipit della celebre canzone di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore. 5 nullo: latinismo. 6 Amor... ci spense: Gianciotto Malatesta, marito di Francesca e fratello di Paolo,
vv. 94-96 Di quello che desiderate ascoltare e di cui volete parlare, noi ascolteremo da voi e parleremo con voi, mentre il vento, come ora sta facendo, in questo luogo non soffia. vv. 97-99 La città dove nacqui si trova sul litorale dove il Po sfocia per trovare pace con i suoi affluenti. vv. 100-102 L’amore, che si trasmette rapidamente al cuore gentile, fece innamorare costui [Paolo] del mio bel corpo che mi fu tolto e l’intensità di quell’amore ancora mi vince. vv. 103-105 Amore, che non permette a nessuno che sia amato di non riamare, mi fece innamorare della bellezza di costui, con tale forza che, come vedi, ancora non mi abbandona. vv. 106-108 Amore ci portò alla stessa morte. Caina attende chi ci tolse la vita». Queste parole furono pronunciate da essi. vv. 109-111 Dopo che ebbi ascoltato quelle anime travagliate abbassai gli occhi e così rimasi fino a che il poeta mi chiese: «A che cosa pensi?». vv. 112-114 Quando risposi, incominciai: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio portò costoro al peccato!». vv. 115-117 Poi mi rivolsi a loro per parlare e dissi: «Francesca, le tue sofferenze mi rendono angosciato e impietosito fino a farmi piangere. vv. 118-120 Ma dimmi, all’epoca dei vostri dolci sospiri, in che modo amore vi concedette di conoscere i vostri incerti desideri?». vv. 121-123 Ed ella mi rispose: «Non c’è maggiore dolore che ricordare il tempo felice nella disgrazia, cosa che sa bene il tuo maestro. vv. 124-126 Ma se tu hai così tanto desiderio di conoscere l’origine del nostro amore, te lo dirò come chi piange e intanto parla.
che uccise entrambi, è punito nella zona infernale di Caina, dove sono puniti i traditori dei parenti. 7 Ma dimmi... disiri?: Dante chiede a Francesca che cosa li indusse a rivelare i loro reciproci desideri, che non erano ancora palesi (i dubbiosi disiri). 8 ’l tuo dottore: Virgilio (dottore è latinismo dal verbo doceo, insegno).
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Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; 129 soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; 132 ma solo un punto fu quel che ci vinse9. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, 135 questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: 138 quel giorno più non vi leggemmo avante10». Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangëa; sì che di pietade 141 io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade.
9 Noi leggiavamo... vinse: Francesca rievoca l’occasione che rivelò l’amore tra lei e Paolo. I due erano soli e sanza alcun sospetto (non avevano cioè alcun presentimento di quanto sarebbe successo a breve tra di loro). Erano immersi nella piacevole lettura di un romanzo cortese, il Lancelot du Lac, e in particolare leggevano dell’innamoramento di Lancil-
lotto, cavaliere della Tavola Rotonda, per Ginevra, moglie del re Artù. Più volte la lettura li turba, ma un passo in particolare li sopraffece. 10 Quando leggemmo... avante: la scena del libro che induce i due a rivelare il proprio amore è quella in cui, secondo un rituale feudale, Lancillotto bacia Ginevra, inducendo Paolo a fare altrettanto con
vv. 127-129 Un giorno stavamo leggendo per divertimento come l’amore vinse Lancillotto; eravamo soli e senza alcun presentimento. vv. 130-132 Più volte quella lettura ci indusse a guardarci negli occhi e ci fece impallidire; ma fu solo un passo [del racconto] che ci vinse. vv. 133-135 Quando leggemmo della sorridente bocca desiderata [di Ginevra] baciata da un amante tale, questi [Paolo], che mai sarà separato da me, vv. 136-138 tutto tremante mi baciò la bocca. Il libro e il suo autore fu per noi galeotto. Quel giorno non proseguimmo oltre la lettura». vv. 139-142 Mentre una delle due anime raccontava questo l’altro piangeva, così che io, sopraffatto dalla pietà, persi i sensi, come se morissi. E caddi svenuto, come cade un corpo privo di vita.
Francesca; in realtà nel romanzo francese è Ginevra a baciare Lancillotto. Come nel romanzo arturiano Galehaut aveva fatto da tramite tra Lancillotto e Ginevra, così il libro (e colui che lo scrisse) funge da “galeotto” nella rivelazione della passione fra Paolo e Francesca.
Analisi del testo Una narrazione “sintetica” di carattere esemplare Il racconto di Francesca, cui fa da contrappunto il pianto silenzioso di Paolo, si articola in due momenti: il primo (vv. 97-107) sembrerebbe finalizzato a ospitare la biografia della giovane donna dalla prima terzina, in cui Francesca indica con una perifrasi la propria città natale (Ravenna); per questo, il lettore è indotto ad aspettarsi una serie di dati biografici nel seguito del passo. Invece Dante omette tutti i “passaggi” intermedi non strettamente necessari al tema che egli vuole proporre attraverso la testimonianza di Francesca: il lettore è condotto subito, infatti, all’evento centrale di quella esistenza, all’esperienza che ha determinato la tragica morte di Francesca e soprattutto la sua sorte ultraterrena. È come se la vita di Francesca si ricapitolasse tutta nell’esperienza dell’innamoramento: la narrazione, dopo la prima terzina, pone subito in primo piano ed enfatizza, attraverso l’anafora, il tema della forza travolgente dell’amore, vero protagonista del canto (vv. 100-108). È giustamente celebrata la potente capacità di sintesi che caratterizza la narrazione della Commedia: con pochissimi tratti Dante delinea un personaggio, una vita, un destino. Bisogna ricordare, però, che questa tecnica narrativa è strettamente funzionale alla finalità didattica del poema: Dante non narra infatti per il gusto di narrare, ma per fornire degli esempi, negativi o positivi, da cui il destinatario della poesia può trarre una chiara lezione di vita. È evidentissima, nell’episodio di Francesca, la prospettiva esemplare, che impone di per sé la selezione rigorosa delle informazioni: attraverso il taglio specifico scelto dall’autore, un episodio minore, “da cronaca nera” diremmo oggi, che non avrebbe lasciato alcuna traccia, diventa una memorabile lezione morale.
440 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
I pericoli dell’amor cortese Il tema centrale del canto, sul quale Dante vuole sollecitare la riflessione del lettore, è sicuramente l’esperienza d’amore, di cui Francesca fornisce una testimonianza tragicamente negativa. Non a caso, come sopra si è detto, la prima parte del suo discorso non è affatto incentrata sulla individualità della donna e del suo amante, ma piuttosto sulla forza irresistibile di Amore, attore principale della tragica vicenda, quasi che Francesca a Paolo ne fossero solo gli inconsapevoli strumenti. Inoltre, dell’innamoramento non si parla in termini personali, ma attraverso l’esplicito rimando alle concezioni cortesi-stilnovistiche diffuse verso la fine del Duecento. In particolare, le prime due terzine sottolineano: a. l’identità tra nobiltà d’animo e amore, teorizzata da Guido Guinizzelli nella celebre canzone Al cor gentil rempaira sempre amore e fatta propria da Dante stesso nella Vita nuova («Amore e ’l cor gentil sono una cosa», Vita nuova XX, 3); b. la necessità, per chi è amato, di corrispondere al sentimento, teorizzata (II, 8, Reg. XXVI) nel De amore di Andrea Cappellano, il trattato che fonda la concezione dell’amor cortese. Si tratta di un amore assoluto, anche se non privo di sensualità, incentrato sulla venerazione per la donna amata, “necessariamente” adultero poiché non può veramente esprimersi nei vincoli del matrimonio. La terza terzina associa però inaspettatamente l’amore-passione alla morte (del corpo ma anche dell’anima, condannata alla dannazione eterna) e ne svela dunque drammaticamente la negatività.
Il libro “galeotto” Già la prima parte del canto, qui non riprodotta, documenta che a Dante sta a cuore sollevare il grave problema delle responsabilità morale di un’intera cultura: Virgilio nomina infatti tra i lussuriosi illustri figure della letteratura classica (come Didone) e medievale (come Tristano), la cui evocazione costruisce una pista segnaletica per interpretare correttamente il grande episodio tragico che segue. Non a caso già di fronte alle donne antiche e’ cavalieri (v. 71) il poeta è colto dalla pietà, anticipazione della ben più intensa emozione che lo porterà addirittura a perdere i sensi dopo il racconto di Francesca. La seconda parte del racconto (vv. 127-138) è stimolata dal turbamento di Dante personaggio di fronte alle prime parole di Francesca e dal suo desiderio di conoscere l’occasione determinante che indusse i due giovani a rivelare il loro reciproco amore, trasformando un’inconsapevole e innocente attrazione in passione colpevole e peccaminosa. La situazione che viene evocata rispecchia la tipica fruizione dei romanzi cortesi: in un ambiente sicuramente raffinato, probabilmente la sala di una dimora signorile, un uomo e una donna leggono insieme per diletto, come era costume, un romanzo del ciclo bretone in cui si parla dell’amore di Lancillotto per la regina Ginevra, moglie di re Artù. Paolo e Francesca sono due persone nobili e gentili, ignare (soli eravamo e sanza alcun sospetto, v. 129) della bufera che il “libro galeotto” abbatterà su di loro. Il bacio fra i due personaggi letterari (per altro iscritto in una situazione “ritualizzata” propria del codice feudale, che Dante volutamente mette in secondo piano) induce Paolo, ormai preda della passione (tutto tremante), a baciare Francesca. Il passaggio da una situazione convenzionale e letteraria (ma secondo Dante potenzialmente seduttiva) alla realtà dell’amore peccaminoso tra i due è segnalata in modo magistrale attraverso l’antitesi che contrappone l’espressione raffinata disïato riso, riferita a Ginevra, al forte realismo della bocca di Francesca. Dante e Beatrice, in un disegno di Sandro Botticelli (1480 ca., Staatliche Museen, Berlino).
Paolo e Francesca di Jean-Auguste Dominique Ingres (part., 1819, Musée des BeauxArts, Angers).
Il poema sacro 4 441
La pietà e lo svenimento di Dante personaggio
online
Gallery Paolo e Francesca nell’interpretazione di vari artisti
Questi due eventi chiudono il canto e sono coerente espressione del forte coinvolgimento di Dante autore nella problematica evocata dal racconto di Francesca: la responsabilità morale della letteratura cortese, che ha esaltato l’amore-passione e l’adulterio. Lo stesso stilnovo (cui alludono vistosamente le parole di Francesca in riferimento all’amore), che pure tentò di nobilitare l’amore, appare ormai al poeta di Dio non privo di ambiguità poiché non è stato veramente in grado di sollevare l’amore oltre la sfera della sensualità (lo dimostra oltre a tutto il significativo inserimento di Guinizzelli tra i lussuriosi del Purgatorio). Nel canto dunque Dante ripensa criticamente le sue stesse radici culturali, giudicando con severità una dimensione letteraria che avverte ormai come estranea e lontana: nella caduta morale di Francesca si rispecchia un pericolo che lo stesso Dante visse e superò, scegliendo con la Commedia il ruolo di educatore alla luce dei più alti valori cristiani.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Attraverso quale paragone sono presentati Francesca e Paolo? ANALISI 2. Che cosa significa l’espressione Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse (v. 137)? Questo verso è rilevante, secondo te, per la comprensione dell’intero episodio? Perché? 3. Come si spiega lo svenimento di Dante alla fine del racconto? È frutto di semplice commozione? 4. Qual è il senso profondo della domanda che Dante rivolge a Francesca ai vv. 118-120? LESSICO 5. Quale differenza intercorre tra l’uso attuale e comune di questi termini e quello da essi assunto nel testo dantesco nelle espressioni indicate? dottore (v. 123) animal (v. 88) piacer (v. 104) spense (v. 107) pio (v. 117) affetto (v. 125)
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 6. L’episodio di Paolo e Francesca, tra i più celebri della Commedia, ha stimolato molti illustratori e pittori. a. Ricerca sul web alcune “versioni” della scena centrale dell’episodio. b. Illustrale e corredale di brevi didascalie. Quale ritieni rispecchi meglio lo spirito del testo di Dante? Quale ti sembra invece più lontana da esso? Motiva adeguatamente la tua risposta.
Francesca da Rimini nell’Inferno dantesco di Nicola Monti (1810, olio su tela, Galleria degli Uffizi, Firenze).
online T26b Dante Alighieri L’ingiusta giustizia del suicida Pier della Vigna Inferno XIII, 22-78
442 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
T27
La dimensione figurale L’intera opera dantesca si costruisce su un costante riferimento simbolico, dove personaggi e situazioni sono carichi di allegorie religiose e filosofiche. Senza dubbio, il personaggio figurale per eccellenza è Beatrice, simbolo di fede e teologia, come emerge nei brani che seguono.
T27a
Dante Alighieri
Il ritorno di Beatrice: dalla Vita nuova alla Commedia Inferno II, 52-75; Purgatorio XXX, 22-48; 55-75; 109-145 Il personaggio figurale per eccellenza della Commedia è sicuramente Beatrice, che, al centro dell’operetta giovanile Vita nuova (➜ PAG. 321), ricompare a distanza di anni come figura chiave nel poema. Secondo il “metodo” figurale medievale (➜ SCENARI, PAG. 71) la Beatrice ultraterrena “realizza”, completandola, la Beatrice terrena. Non esiste frattura, ma continuità tra la fanciulla angelicata della Vita nuova, capace di elevare lo spirito del poeta, e la Beatrice, simbolo della fede e della scienza teologica, che guida il pellegrino Dante attraverso i cieli, risolvendo via via i suoi dubbi. Per sottolineare questa continuità, Dante utilizza proprio il codice, gli stilemi propri dello stilnovo per le due apparizioni di Beatrice prima del Paradiso (Inferno II e Purgatorio XXX). Un segnale testuale importante, che il poeta indirizza consapevolmente ai suoi lettori e che quindi non va ignorato.
Dante Alighieri
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... e donna mi chiamò beata e bella Inferno II, 52-75
D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
All’inizio del canto II dell’Inferno Dante formula a Virgilio il dubbio che il viaggio che si prepara a compiere possa essere folle (➜ T22b OL, v. 35). Virgilio lo rassicura: una donna beata, che gli ha rivelato di essere Beatrice, con il beneplacito della vergine Maria (e quindi di Dio stesso), è scesa dal Paradiso per accorrere in soccorso di Dante, impedito dal procedere verso la salvezza dalle tre fiere (➜ T22a ). Beatrice si è quindi rivolta a Virgilio, chiedendogli di aiutare Dante. E l’antico poeta, convinto dalle sue supplichevoli parole e dalle lacrime dei suoi occhi lucenti, si pone, come è narrato nel I canto, a fianco di Dante per guidarlo nell’itinerario di salvezza.
Io era tra color che son sospesi, e donna mi chiamò beata e bella, 54 tal che di comandare io la richiesi. Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, 57 con angelica voce, in sua favella1: «O anima cortese mantoana2, di cui la fama ancor nel mondo dura, 60 e durerà quanto ’l mondo lontana,
1 Io era... in sua favella: io mi trovavo nel Limbo, tra gli spiriti protesi al desiderio costantemente insoddisfatto di vedere Dio (sospesi). Sta parlando Virgilio, che spiega
a Dante di essere venuto in suo soccorso indotto da Beatrice, scesa dai cieli per aiutare colui che l’aveva tanto amata e che era smarrito nella selva oscura del peccato.
vv. 52-54 Io mi trovavo tra gli spiriti che sono sospesi e si rivolse a me una donna beata e bella, tanto che io le chiesi di darmi i suoi ordini. vv. 55-57 I suoi occhi splendevano più di una stella e incominciò a parlarmi in modo soave e pacato con voce angelica, nella sua lingua: vv. 58-60 «O nobile anima che provieni da Mantova, la cui fama ancora perdura nel mondo terreno, e durerà tanto a lungo quanto il mondo, 2 O anima cortese mantoana: rivolgendosi a Virgilio, Beatrice fa riferimento all’origine del poeta.
Il poema sacro 4 443
l’amico mio, e non de la ventura3, ne la diserta piaggia è impedito 63 sì nel cammin, che vòlt’è per paura; e temo che non sia già sì smarrito, ch’io mi sia tardi al soccorso levata, 66 per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito4. Or movi, e con la tua parola ornata e con ciò c’ha mestieri al suo campare, 69 l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata5. I’ son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; 72 amor mi mosse, che mi fa parlare6. Quando sarò dinanzi al segnor mio, di te mi loderò sovente a lui7». 75 Tacette8 allora, e poi comincia’ io: 3 e non de la ventura: altri intendono l’espressione come riferita al fatto che Dante non fu amato dalla fortuna, anzi ne fu perseguitato. 4 per quel… cielo udito: in sé l’affermazione non ha senso: Beatrice non avrebbe dovuto venire a sapere nulla, in quanto i beati conoscono presente, passato e futuro. 5 Or movi... consolata: Beatrice invita Virgilio ad andare in aiuto di Dante.
6 amor... parlare: più che all’amore per Dante, Beatrice allude ormai all’amore per Dio, che muove ogni suo impulso. 7 di te... a lui: probabilmente il senso è allegorico: Beatrice parla qui anche nelle vesti della Teologia, che loda l’intervento della Ragione, di cui è figurazione Virgilio. 8 Tacette: tacque; questa, che è la forma debole del passato remoto, è tipica di alcuni dialetti toscani.
vv. 61-63 colui che mi ama disinteressatamente, e non secondo il mutare della sorte, sul pendio deserto è a tal punto ostacolato nel suo cammino, che per paura sta tornando sui suoi passi, vv. 64-66 e temo che sia già smarrito, a tal punto di essermi mossa tardi in suo soccorso, stando a quel che io ho udito riguardo a lui nel cielo. vv. 67-69 Ora vai, e con la tua eloquenza e con tutto ciò che è necessario per salvarlo, aiutalo, così che io ne sia rassicurata. vv. 70-72 Io, che ti chiedo di andare, sono Beatrice; vengo dal luogo [il Paradiso] dove desidero tornare; l’amore mi ha indotto a venire da te e a parlarti. vv. 73-75 Quando sarò davanti al signore mio, spesso ti loderò presso di lui». Tacque allora, e poi cominciai io [a parlare]:
Analisi del testo Segnali stilnovistici La rievocazione, da parte di Virgilio, dell’apparizione di Beatrice nel Limbo è ricca di aspetti stilistici propri dello stilnovo: si può notare in particolare l’uso di una coppia sinonimica di aggettivi (beata e bella, soave e piana) che, così come l’aggettivo angelica (v. 57), rimanda al “dolce stile” e al codice amoroso elaborato dai poeti stilnovistici. In seguito il v. 55 (Lucevan li occhi suoi più che la stella), ripreso al v. 116 (li occhi lucenti lagrimando volse), conferma la presenza di immagini stilnovistiche: la rilevanza dello sguardo, vero e proprio topos nella fenomenologia amorosa («Voi che per li occhi mi passaste ’l core» scrive ad es. Cavalcanti) e il paragone prezioso con le stelle («più che stella dïana splende e pare»: così il “padre” degli stilnovisti, Guinizzelli, loda la donna amata).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Che cosa chiede Beatrice a Virgilio? 2. Dove si trova quest’ultimo quando Beatrice lo raggiunge? ANALISI 3. Nella raffigurazione di Beatrice molti elementi rimandano al “codice stilnovistico”: rintracciali nel testo e scrivili sul tuo quaderno.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Confronta la Beatrice della Vita nuova con quella rappresentata in questi versi. In un intervento orale di max 3 minuti individua e illustra le analogie e le differenze che hai riscontrato tra le due immagini.
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... donna m’apparve, sotto verde manto
2
Purgatorio XXX, 22-48; 55-75; 109-145 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Dopo aver compiuto il cammino di purificazione attraverso le balze del Purgatorio, Dante si trova nel Paradiso terrestre. Qui assiste allo spettacolo di una grandiosa processione dal complesso significato allegorico. Al centro di essa avanza un carro trionfale (che rappresenta la Chiesa), sopra il quale, seminascosta dai fiori gettati dagli angeli sul carro, gli appare una donna, vestita di rosso, con un verde manto, e velata di bianco. Il poeta non sa chi sia, ma prova un fortissimo turbamento alla sua vista e si rivolge a Virgilio per chiedergli aiuto. Ma il poeta latino è scomparso, il suo compito è ormai terminato. La donna misteriosa è Beatrice, che si rivolge al poeta nei toni di una dura requisitoria, rimproverandogli lo sviamento morale che seguì la propria morte e inducendolo al pentimento.
Io vidi già nel cominciar del giorno la parte orïental tutta rosata, 24 e l’altro ciel di bel sereno addorno; e la faccia del sol nascere ombrata, sì che per temperanza di vapori 27 l’occhio la sostenea lunga fïata1: così dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva 30 e ricadeva in giù dentro e di fori, sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto 33 vestita di color di fiamma viva2. E lo spirito mio, che già cotanto tempo era stato ch’a la sua presenza 36 non era di stupor, tremando, affranto, sanza de li occhi aver più conoscenza, per occulta virtù che da lei mosse, 39 d’antico amor sentì la gran potenza3. Tosto che ne la vista mi percosse l’alta virtù che già m’avea trafitto 42 prima ch’io fuor di püerizia fosse,
1 Io vidi già... lunga fïata: la raffigurazione del sorgere del sole costituisce il primo termine di una similitudine, che prosegue nei successivi vv. 28-33. 2 così... fiamma viva: si tratta di un carro trionfale, tirato da un grifone e accompagnato da varie figure, che nel canto precedente il poeta aveva visto avanzare. Nella simbologia medievale,
vv. 22-24 Io vidi altre volte all’alba il cielo verso oriente tutto rosato e le altre sue parti ornate di un bel sereno; vv. 25-27 e [vidi] il disco del sole spuntare all’orizzonte velato, così che, per la presenza dei vapori che ne temperavano la luminosità, l’occhio poteva sostenerne la vista a lungo: vv. 28-30 allo stesso modo, dentro una nuvola di fiori che erano lanciati in alto dalle mani degli angeli e che ricadevano in basso sul carro e fuori da esso, vv. 31-33 coronata da una ghirlanda di ulivo posta sopra un velo bianco, mi apparve una donna vestita di rosso vivo sotto un verde mantello. vv. 34-36 E il mio spirito, che già da tanto tempo non era stato più sconvolto, tremante, soverchiato dal turbamento, alla sua presenza, vv. 37-39 senza che gli occhi la riconoscessero, per il misterioso potere che da lei promanava, avvertì la grande forza dell’antico amore. vv. 40-42 Appena fui colpito negli occhi dalla forza dell’amore che già mi aveva trafitto prima che uscissi dalla fanciullezza,
i colori che la donna indossa indicano le tre virtù teologali (il bianco la fede, il rosso la carità, il verde la speranza), mentre l’ulivo che le cinge il capo è simbolo della sapienza. 3 E lo spirito mio... potenza: Dante non riconosce Beatrice a causa della presenza del velo e della nube di fiori gettati dagli angeli. Le due terzine rimandano alla fe-
nomenologia degli effetti d’amore propria, in particolare, dello stilnovismo cavalcantiano. Dante riprova nuovamente, dopo dieci anni dalla morte di Beatrice (avvenuta nel 1290, mentre il viaggio ultraterreno è immaginato accadere nel 1300) lo stesso turbamento prodotto dall’amore.
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volsimi a la sinistra col respitto col quale il fantolin corre a la mamma 45 quando ha paura o quando elli è afflitto, per dicere a Virgilio: “Men che dramma4 di sangue m’è rimaso che non tremi: 48 conosco i segni de l’antica fiamma”. […] «Dante, perché Virgilio se ne vada, non pianger anco, non piangere ancora; 57 ché pianger ti conven per altra spada»5. Quasi ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministra 60 per li altri legni, e a ben far l’incora; in su la sponda del carro sinistra, quando mi volsi al suon del nome mio, 63 che di necessità qui si registra, vidi la donna che pria m’appario velata sotto l’angelica festa, 66 drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio6. Tutto che ’l vel che le scendea di testa, cerchiato de le fronde di Minerva7, 69 non la lasciasse parer manifesta, regalmente ne l’atto ancor proterva continüò come colui che dice 72 e ’l più caldo parlar dietro reserva: «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice. Come degnasti d’accedere al monte8? 75 non sapei tu che qui è l’uom felice?». […] Non pur per ovra de le rote magne, che drizzan ciascun seme ad alcun fine 111 secondo che le stelle son compagne, ma per larghezza di grazie divine, che sì alti vapori hanno a lor piova, 114 che nostre viste là non van vicine, questi fu tal ne la sua vita nova virtüalmente, ch’ogne abito destro 117 fatto averebbe in lui mirabil prova9. 4 dramma: la dramma è l’ottava parte di un’oncia; qui indica una misura minima. 5 «Dante... spada»: la misteriosa figura femminile, che il poeta ha già riconosciuto dentro di sé, prende la parola per apostrofarlo duramente, chiamandolo in causa con il nome proprio (unico caso in tutta la Commedia): “Dante, non piangere così presto perché Virgilio se n’è andato; perché dovrai piangere per un’altra pena, come per una spada che ti ferirà”. 6 rio: il Lete.
vv. 43-45 mi volsi verso sinistra con l’atteggiamento fiducioso con cui il bambino corre dalla mamma quando è impaurito o infelice, vv. 46-48 per dire a Virgilio: “Non mi è rimasta neppure una piccola goccia di sangue che non tremi: riconosco i segni dell’antica passione”. [...] vv. 55-57 «Dante, non piangere così presto perché Virgilio se n’è andato; perché dovrai ancora piangere per un’altra pena». vv. 58-60 Come un ammiraglio che, su una nave, da poppa a prora va e viene a controllare i marinai che operano sulle altre navi della flotta e li incoraggia a operare bene, vv. 61-63 quando mi volsi verso la sponda sinistra del carro, sentendomi chiamare per nome, che qui scrivo per necessità, vv. 64-66 vidi la donna che prima mi era apparsa offuscata dal tripudio dei fiori gettati guardare direttamente verso di me, di qua dal fiume. vv. 67-69 Sebbene il velo che le scendeva dal capo cinto di ulivo, sacro a Minerva, non la lasciasse vedere chiaramente, vv. 70-72 sempre regalmente altera nel portamento, essa continuò a parlare come un oratore che riserva per ultime le parole più aspre: vv. 73-75 «Guarda qui! Sono io, sono io Beatrice. Come hai potuto ritenerti degno di accedere al monte? non sapevi che qui si trova chi è destinato alla felicità?». [...] vv. 109-111 Non solo per influsso dei cieli che indirizzano ciascuna potenzialità a un determinato fine, a seconda della costellazione nella quale nasce, vv. 112-114 ma per abbondanza particolare delle grazie divine, che piovono da così alte nuvole che noi non riusciamo a vedere, vv. 115-117 costui fu tale potenzialmente nella sua giovinezza che ogni [sua] disposizione positiva avrebbe avuto un mirabile risultato.
7 Minerva: dea della sapienza e della conoscenza. 8 Come... al monte: Beatrice chiede a Dante come abbia potuto ritenersi degno (ma altri danno una sfumatura ironica al verbo degnasti) di accedere al monte (il Purgatorio), dato che in quel luogo si trova chi è destinato alla felicità (e cioè alla beatitudine del Paradiso), mentre egli è un peccatore. 9 Non pur... mirabil prova: dal v. 103 Beatrice sta rispondendo a una domanda degli angeli che le hanno chiesto perché
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sia così severa con Dante (vv. 92-102): la donna mette in luce le grandi qualità che Dante in potenza aveva dentro di sé, elargite dalla generosità della grazia divina, e non solo emanate dagli influssi astrali (che, secondo la concezione cosmologica e astrologica medievale, irraggiavano determinate tendenze negli esseri umani). Le grazie divine (sì alti vapor) derivano da ragioni per noi imperscrutabili (hanno a lor piova alla lettera significa “piovono da così alte nuvole”).
Ma tanto più maligno e più silvestro si fa ’l terren col mal seme e non cólto, 120 quant’elli ha più di buon vigor terrestro. Alcun tempo il sostenni col mio volto: mostrando li occhi giovanetti a lui, 123 meco il menava in dritta parte vòlto. Sì tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, 126 questi si tolse a me, e diessi altrui10. Quando di carne a spirto era salita, e bellezza e virtù cresciuta m’era, 129 fu’ io a lui men cara e men gradita; e volse i passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, 132 che nulla promession rendono intera. Né l’impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimenti 135 lo rivocai: sì poco a lui ne calse11! Tanto giù cadde, che tutti argomenti a la salute sua eran già corti, 138 fuor che mostrarli le perdute genti. Per questo visitai l’uscio d’i morti, e a colui che l’ha qua sù condotto, 141 li preghi miei, piangendo, furon porti12. Alto fato di Dio sarebbe rotto, se Letè si passasse e tal vivanda 144 fosse gustata sanza alcuno scotto di pentimento che lagrime spanda».
10 Alcun tempo... altrui: Beatrice ricorda il ruolo salvifico (dritta parte: la dritta via, cioè la via verso la perfezione) svolto nei confronti di Dante mentre era appena entrata nella giovinezza. Quindi allude al traviamento di Dante (di qualunque natura esso sia stato), che motiva la celebre immagine iniziale del poema dello smarrimento nella selva oscura. Si segnalano
vv. 118-120 Ma tanto più diventa improduttivo e selvatico un terreno se vi si gettano semi cattivi ed è lasciato incolto quanto più possiede vigore e fertilità naturale. vv. 121-123 Per un periodo lo sostenni con la mia presenza: mostrandogli i miei occhi di giovinetta, lo conducevo con me facendogli tenere la dritta via. vv. 124-126 Non appena fui sulla soglia della giovinezza e morii, costui si sottrasse a me e si diede ad altri. vv. 127-129 Quando ascesi dall’esistenza terrena a quella celeste, e bellezza e virtù s’erano accresciute, io gli divenni meno cara e meno gradita; vv. 130-132 egli iniziò a seguire una via erronea e perseguì false parvenze di bene, che non mantengono interamente alcuna promessa. vv. 133-135 A nulla servì impetrare e ottenere buone disposizioni, con le quali in sogno e in altri modi cercai di richiamarlo: così poco egli se ne curò. vv. 136-138 Cadde tanto in basso che tutti i rimedi per poterlo salvare erano ormai insufficienti, tranne che mostrargli le anime dannate. vv. 139-141 Per questo scesi nella soglia dell’Inferno e, a colui che l’ha condotto fin quassù, rivolsi tra le lacrime le mie preghiere. vv. 142-145 L’alta legge di Dio sarebbe infranta se [egli] passasse il Lete e potesse berne l’acqua senza pagare il prezzo di un pentimento che gli faccia versare lacrime».
due significativi echi intertestuali: il riferimento tutto stilnovistico all’azione dello sguardo (li occhi giovanetti) e la ripresa dell’espressione incipitaria del poema (ché la diritta via era smarrita) con in dritta parte. 11 Quando... ne calse: da questo allontanamento dalla propria guida morale Beatrice fa dunque derivare lo smarrimento di Dante.
12 Tanto giù... furon porti: Beatrice rievoca la sua decisione di scendere nella soglia dell’Inferno (cioè nel Limbo) e di rivolgere, tra le lacrime, a Virgilio (indicato con perifrasi: a colui che l’ha qua sù condotto) la preghiera di guidare Dante nel viaggio ultraterreno tra le perdute genti (cfr. If III, 3).
Analisi del testo La sconvolgente riapparizione di Beatrice Anche nel canto XXX del Purgatorio il ritorno di Beatrice, questa volta con un ruolo molto definito e figurazioni simboliche assai complesse, che preparano il compito che essa rivestirà nel Paradiso, è denso di segnali stilnovistici. Innanzitutto la sua comparsa ha i caratteri di una vera e propria sconvolgente apparizione (il periodo che si apre al v. 28 culmina nel sintagma donna m’apparve, in cui il termine donna è ulteriormente intensificato dalla posizione incipitale), che ricorda un celebre testo cavalcantiano: «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, / che fa tremar di chiaritate l’âre?».
Il poema sacro 4 447
Ma la donna che ora appare sul carro trionfale della Chiesa non è una donna, ma è la “donna della salute” in persona, comparsa al poeta tanti anni prima. A Dante preme segnalarlo al lettore attraverso precisi rimandi alla Vita nuova e allo stilnovismo: anche nel poemetto giovanile, infatti, compaiono più volte forme del verbo apparire, e i colori stessi di cui Beatrice è ora vestita richiamano quelli della Vita nuova: «Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno» (II, 3), «avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo» (III, 1). Al bianco e al rosso si aggiunge ora il verde. I colori hanno un significato dichiaratamente allegorico, consono al nuovo ruolo della donna: ora essa giunge come emissaria del divino e perciò i tre colori simboleggiano le tre virtù teologali (fede, speranza, carità). All’apparizione seguono i vv. 34-42, che riproducono la fenomenologia degli effetti d’amore tipica soprattutto della poesia cavalcantiana: al lessico della “malattia d’amore” (➜ C4U3) rimandano termini come tremando, affranto, percosse, trafitto. Vera parola chiave del “codice” stilnovistico è poi la parola virtù, nel senso di “potenza”. Infine la situazione evocata, in cui il poeta è sconvolto dall’apparizione della donna senza averla ancora identificata (sanza de li occhi aver più conoscenza, v. 37) richiama in modo diretto la scena del “gabbo” (cap. XIV) della Vita nuova. Anche in quel caso il poeta avverte «uno mirabile tremore», “sente” la presenza di Beatrice, prima ancora di vederla.
Una nuova Beatrice, “adempimento” della Beatrice terrena Una volta costruita, attraverso inequivocabili segnali testuali, l’identificazione fra la Beatrice terrena e l’apparizione ultraterrena, il metodo figurale prevede però che la nuova Beatrice sia anche “diversa” dall’antica Beatrice, proprio in quanto realizzazione, adempimento totale di essa. Dal v. 58 in poi emerge una Beatrice appunto diversa dalla dolce fanciulla della Vita nuova: una Beatrice altera, che sembra a Dante una madre [...] superba (v. 79), e che viene paragonata addirittura a un autorevole ammiraglio che si rivolge con toni anche aspri ai suoi marinai per incoraggiarli. Essa ricorda significativamente il ruolo centrale che aveva avuto nella giovinezza di Dante (ne la sua vita nova si dice espressamente al v. 115), quando era intermediaria tra il poeta e Dio e con i suoi occhi giovanetti lo indirizzava al bene perfetto (meco il menava in dritta parte vòlto, v. 123). Una lezione salvifica che il poeta abbandonò dopo la morte della donna amata, lasciandosi andare al traviamento morale (vv. 130-131). La figura femminile che con aspri rimproveri induce il poeta, quasi fosse la sua coscienza profonda, alla contrizione e al pentimento, ha ancora in sé le tracce della donna angelicata, ma è evidentemente ormai qualcosa di più: è simbolo della grazia di Dio e della scienza teologica, che sole potranno condurre il poeta alla visione di Dio.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in un breve testo (max 5 righe) i rimproveri che Beatrice rivolge a Dante. COMPRENSIONE 2. Come appare Beatrice a Dante? Perché il poeta non riesce a riconoscerla subito? ANALISI 3. Quale effetto produce su Dante la visione della donna? 4. Identifica i molteplici “segnali stilnovistici” che accompagnano la comparsa di Beatrice. Credi che siano casuali o frutto di una precisa scelta del poeta? Motiva la tua risposta. STILE 5. Riconosci le similitudini usate da Dante nel passo e cerca di spiegarne la funzione in contesto.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 6. Nelle parole accusatorie di Beatrice si ritrova il tema dello smarrimento nella selva oscura che sta alla base dell’ideazione stessa del poema. Cerca di mettere a fuoco il problema del traviamento di Dante utilizzando le informazioni di cui disponi (max 2 minuti).
online T27b Dante Alighieri Il personaggio di Catone Purgatorio I, 19-93
448 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
T28
Il pluristilismo della Commedia Il critico letterario Gianfranco Contini fu tra i primi a segnalare l’originale caratteristica dello stile della Commedia, ossia il cosiddetto “pluristilismo”, la capacità di Dante di variare in modo sapiente forme diverse di scrittura, registri e musicalità, a seconda delle situazioni e dei personaggi. I brani seguenti mettono in evidenza questa prodigiosa abilità del poeta.
T28a
Dante Alighieri
Il registro comico-realistico Inferno XVIII, 100-136; Paradiso XXVII, 16-30 Particolarmente nella prima cantica, e soprattutto nei canti delle Malebolge, il linguaggio dantesco conosce le sue note più “basse”, nella volontà di rispecchiare l’abiezione e la miseria morale dei peccatori. La pietà del poeta ormai tace: egli attraversa con fredda indifferenza o con disgusto queste zone dell’Inferno dove sembra scomparso ogni barlume di umanità. Solo talvolta, quando incontra qualche sua conoscenza, si riaccende la sua partecipazione, ma solo per trovare note di sarcasmo quasi crudele, come in ➜ T28 a 1 . Non bisogna, però, pensare che il registro basso scompaia nelle altre due cantiche. Al contrario, Dante pratica di fatto una contaminazione linguistico-stilistica: stimolata dalla volontà polemica, la sua poesia infrange assai spesso le barriere degli stili, inserendo in contesti alti e solenni termini iperespressivi di registro stilistico inferiore. Persino san Pietro può arrivare a esprimersi con parole plebee, quando si tratta, come in ➜ T28 a 2 , di condannare lo sviamento morale del papato.
1
Dante Alighieri
Gli adulatori Inferno XVIII, 100-136 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Dante e Virgilio osservano un disgustoso spettacolo dall’alto di uno dei ponticelli che collegano le varie zone in cui sono divise le Malebolge: nella seconda bolgia, immersi nello sterco, stanno gli adulatori; tra di essi Dante individua un personaggio a lui noto e ha un breve, pungente, scambio di battute con lui. Il passo, ricco di rime aspre e di termini plebei, o addirittura triviali, è un’eloquente testimonianza di registro comico-realistico.
Già eravam là ’ve lo stretto calle con l’argine secondo s’incrocicchia, 102 e fa di quello ad un altr’arco spalle. Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l’altra bolgia e che col muso scuffa, 105 e sé medesma con le palme picchia1. Le ripe eran grommate2 d’una muffa, per l’alito di giù che vi s’appasta, 108 che con li occhi e col naso facea zuffa. 1 Quindi... picchia: attraverso una serie di termini estremamente realistici e derivati dal parlato popolare toscano, Dante presenta gli adulatori. Scuffa: soffia rumorosamente, come fanno i maiali quando mangiano voracemente. 2 eran grommate: verbo denominale, da gromma, cioè il “tartaro che il vino deposita sulla parete interna delle botti”.
vv. 100-102 Ci trovavamo già dove lo stretto passaggio del ponte si interseca con il secondo argine e di questo fa sostegno a un altro ponticello. vv. 103-105 Quindi sentimmo gente che gemeva nell’altra bolgia e che soffiava rumorosamente con naso e bocca, e si percuoteva da sola con le mani. vv. 106-108 Le pareti [della bolgia] erano incrostate di muffa a causa della fetida esalazione che sale dal fondo e si deposita sulle pareti, e che irritava gli occhi e il naso.
Il poema sacro 4 449
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso 111 de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta3. Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco 114 che da li uman privadi4 parea mosso. E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, 117 che non parëa s’era laico o cherco5. Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo6 di riguardar più me che li altri brutti?». 120 E io a lui: «Perché, se ben ricordo, già t’ho veduto coi capelli asciutti, e se’ Alessio Interminei da Lucca7: 123 però t’adocchio8 più che li altri tutti». Ed elli allor, battendosi la zucca9: «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe 126 ond’io non ebbi mai la lingua stucca10». Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», mi disse, «il viso un poco più avante, 129 sì che la faccia ben con l’occhio attinghe11 di quella sozza e scapigliata fante12 che là si graffia con l’unghie merdose, 132 e or s’accoscia e ora è in piedi stante. Taïde13 è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse “Ho io grazie grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”. 136 E quinci sian le nostre viste sazie».
3 Lo fondo... sovrasta: Dante sottolinea il fatto che, a causa dell’oscurità e della ristrettezza della bolgia, era impossibile vederne il fondo se non salendo al centro del ponticello (e gettando quindi lo sguardo perpendicolarmente al fondo). 4 da li uman privadi: dalle latrine delle case. 5 che non... cherco: lo sterco di cui era coperto impediva di vedere se avesse la tonsura, la chierica, che un tempo distingueva gli uomini di chiesa. 6 gordo: «L’aggettivo, che indica forte bra-
ma, rispecchia il modo con cui il dannato sente lo sguardo di Dante, per lui intollerabile; di qui la sua ira» (Chiavacci Leonardi). 7 Alessio Interminei da Lucca: Alessio Interminelli era personaggio di nobile famiglia lucchese, che Dante mostra di aver conosciuto molto bene. 8 t’adocchio: ti guardo con intensità. 9 zucca: vocabolo tratto dal parlato popolare. 10 Qua giù... stucca: stuccare è vocabolo ancora usato che appartiene, come molti altri di questo canto, al campo semantico
450 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
vv. 109-111 La bolgia è talmente oscura che è impossibile vederne il fondo se non salendo al centro del ponticello, dove il ponte sovrasta maggiormente il fossato. vv. 112-114 Qui giungemmo; e quindi sul fondo vidi delle persone immerse profondamente nello sterco, che sembrava provenire dalle case di tutti. vv. 115-117 E mentre osservavo laggiù con lo sguardo, vidi qualcuno con la testa così ricoperta di sterco, che non appariva chiaro se fosse laico e chierico. vv. 118-120 Quello mi gridò: «Perché sei così ingordo di guardare me più degli altri insozzati?». E io gli risposi: «Perché, se ben ricordo, vv. 121-123 ti ho già visto quando avevi i capelli asciutti, e sei Alessio Interminelli da Lucca: perciò ti osservo più di quanto non guardi gli altri. vv. 124-126 E allora lui, dandosi un colpo in testa: «Mi hanno condannato a questa condizione le adulazioni delle quali la mia lingua non si è mai saziata». vv. 127-129 Dopo ciò la mia guida mi disse: «Fai in modo da spingere lo sguardo un po’ più avanti, così che tu possa ben raggiungere con la vista la faccia vv. 130-132 della donna sporca e scapigliata, di condizione modesta, che si graffia là con le unghie piene di sterco, e talvolta si china sulle cosce e talvolta sta in piedi. vv. 133-136 È Taide, la meretrice, che al suo amante, quando le chiese: “Ho dei meriti davanti ai tuoi occhi?”, rispose: “Addirittura incredibili!”. E di queste scene, sia sufficiente ciò che abbiamo visto».
del cibo; si riferisce a cibi che stancano, ad esempio perché troppo dolci o troppo piccanti. 11 sì che... attinghe: attinghe ha desinenza arcaica in -e come pinghe; la faccia è quella della donna presentata con la perifrasi dei vv. 130-132. 12 fante: nel senso di «donna di condizione modesta» (Chiavacci Leonardi). 13 Taïde: la meretrice Taide è un personaggio letterario, presente in una commedia dello scrittore latino Terenzio, l’Eunuchus (Eunuco).
Analisi del testo Stile comico Lo stile comico-realistico, o addirittura la trasposizione immediata del parlato, che Dante realizza in diversi passaggi della Commedia, ha in questi versi una delle sue applicazioni esemplari. Il poeta fa qui un uso quasi esclusivo di rime «aspre o chiocce» (If XXXII, 1-2), in coerenza con la gravità della condizione dei dannati e con la bassezza dell’argomento. Si tratta, come osserva Umberto Bosco, di «rime costituite da consonanti doppie, spesso incupite dal suono della u (-uffa, - icchia, -osso, - utti, - ucca) o formanti suoni duri (-asta, -erco, - ordo, -inghe). […] Per di più, si tratta nella quasi totalità di bisillabi in rima, sì che parole e rime s’identificano; e sono spesso rinforzate da allitterazioni (muso – scuffia; palme – picchia; merda – lordo)». Ancora più esibito è il lessico fra il più basso usato in tutto il poema, al limite della decenza, quali nicchia (v. 103), scuffa (v. 104), grommata e muffa (v. 106), appasta (v. 107), sterco (v. 113), privadi (v. 114), merda e lordo (v. 116), gordo (v. 118), zucca (v. 124), sozza e scapigliata (v. 130), merdose (v. 131), s’accoscia (v. 132), puttana (v. 133). È interessante notare che «il lessico comico ruota attorno alla pena: […] la pena dei lusingatori non solo è repellente per l’osservatore, ma proviene dagli stessi peccatori: è il loro peccato stesso che si materializza e li coinvolge, sommerge e avvolge tutt’intorno chi sta loro appresso» (Saverio Bellomo).
Il paesaggio infernale Questa scelta formale, così aspra e dura, di registro comico-realistico, si riverbera nell’altrettanto angosciante durezza del paesaggio, articolato nei dieci comparti delle bolge infernali dall’aspra nettezza del disegno: «lo scheletrico paesaggio – una ferrigna scenografia – della frode, schematizzato dalla limpida e concisa esposizione, assume l’implacabile fisionomia di un carcere eterno e il tetro colore di una sconfinata disperazione» (Emilio Pasquini). Il rigore geometrico della costruzione strutturale delle Malebolge si rispecchia anche nel meccanismo della presentazione dei personaggi, in un’alternanza sapiente e teatrale fra personaggi coevi a Dante e figure del mito o della letteratura: un personaggio contemporaneo, Venedico Caccianemico è seguito da un esempio classico, Giasone, additato da Virgilio; un altro dannato coevo, Alessio Interminelli, dialoga con il poeta ed è poi accompagnato dall’antica Taide, che si ascrive ai lusingatori a causa di una risposta adulatoria che avrebbe dato al soldato Trasone, suo spasimante.
La condizione dei dannati Questa seconda bolgia nel nono cerchio ospita i lusingatori, colpevoli di aver simulato con la parola l’amore per l'interesse personale. Si tratta quindi di un peccato particolarmente infimo, nella misura in cui l’intelligenza e l’abilità dell’adulazione sono orientate e declinate a un fine malvagio. Come pena, in perfetta consonanza con il principio della legge del contrappasso, gli adulatori sono immersi nello sterco, che pare generato dagli stessi dannati, colpiti da una continua incontenibile dissenteria, creando quindi un collegamento simbolico fra la discesa degli escrementi e l’olio dell’adulazione.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Fai la sintesi del passo proposto. STILE 2. Nel passo tratto dal canto XVIII dell’Inferno, Dante raggiunge effetti realistici estremi. Evidenzia attraverso l’analisi puntuale come a tale realismo concorrano in modo sinergico: a. la particolare scelta lessicale; b. la disposizione delle parole in rima; c. il livello fonico-timbrico.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Rintraccia nel testo tutti i termini derivanti dal parlare popolare e scrivi un breve testo sullo stile di Dante, soffermandoti in particolar modo su quello comico-realistico.
Il poema sacro 4 451
2
L’invettiva di san Pietro Paradiso XXVII, 16-30
D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
AUDIOLETTURA
Nell’VIII cielo (il cielo delle Stelle Fisse) Dante incontra san Pietro, che lo sottopone a una sorta di esame sulla prima virtù teologale (la fede), mentre san Giacomo e san Giovanni lo interrogano rispettivamente sulla speranza e la carità. Terminato positivamente l’esame, san Pietro inizia un’aspra invettiva contro la cupidigia dei papi simoniaci (sullo stesso tema ➜ T23c .). Alle violente parole del santo tutto il cielo si colora di rosso, il colore della vergogna.
La provedenza, che quivi1 comparte2 vice e officio, nel beato coro 18 silenzio posto avea da ogne parte, quand’ïo udi’: «Se io mi trascoloro3, non ti maravigliar, ché, dicend’io, 21 vedrai trascolorar tutti costoro. Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio4, il luogo mio, il luogo mio che vaca5 24 ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ’l perverso 27 che cadde di qua sù, là giù si placa6». Di quel color che per lo sole avverso nube dipigne da sera e da mane, 30 vid’ïo allora tutto ’l ciel cosperso.
1 quivi: in cielo. 2 comparte: propr. “distribuisce”. 3 Se io mi trascoloro: sta parlando san Pietro. 4 Quelli... luogo mio: la perifrasi designa Bonifacio VIII, papa nel 1300 e qui definito usurpatore del soglio papale (il
luogo mio). Bonifacio VIII è più volte attaccato nel poema (specie If XIX), ma qui la condanna appare più pesante essendo pronunciata da chi fondò la Chiesa. 5 vaca: il posto di Pietro è di fatto vacante perché Cristo non può certo riconoscere in Bonifacio VIII il suo vicario.
vv. 16-18 La provvidenza, che qui stabilisce il loro avvicendarsi e i compiti, al coro dei beati aveva imposto il silenzio in ogni sua parte, vv. 19-21 quando io udii: «Se io cambio colore [nel volto], non ti meravigliare, perché, alle mie parole, vedrai cambiare colore a tutti i beati. vv. 22-24 Colui che sulla Terra usurpa il mio posto, il mio posto, il mio posto vacante pur nella presenza del Figlio di Dio, vv. 25-27 ha fatto del mio sepolcro una fetida fogna di sangue; cosicché il malvagio che fu precipitato dai cieli ne gode». vv. 28-30 Allora io vidi tutto il cielo coperto di quel colore che le nubi assumono a sera e al mattino per via del sole opposto.
6 fatt’ha... si placa: il soggetto è ancora Bonifacio VIII; si allude alle turpitudini e alle violenze suscitate dalla brama di potere del papa. ’l perverso / che cadde di qua sù è una perifrasi per indicare Satana.
Analisi del testo Stile comico e degradazione morale Proponiamo qui, come analisi del testo, alcune illuminanti osservazioni di Anna Maria Chiavacci Leonardi, tratte dall’introduzione al canto XVIII ed espressamente dedicate ai modi linguistici di questa sezione dell’opera, ma utilmente riferibili, nell’ultima parte, anche al passo del Paradiso che proponiamo di seguito: «Lo stile abbandona i modi solenni ed epici per scendere al livello umile e comico: bassezza di stile e bassezza di colpa, e massima degradazione della figura umana. Qui Dante si gioverà della sua esperienza di rime comiche e petrose, ma soprattutto del linguaggio realistico già sperimentato più volte nei diciassette canti che precedono [...]. Il paesaggio è quindi degradato a fossi di pietra, la figura umana avvilita in pene mortificanti, il linguaggio abbassato al più umile livello (che richiede beninteso non minore impegno stilistico). Questo è Malebolge, il luogo più misero dell’Inferno dantesco».
452 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
La studiosa rileva per tutto il canto la presenza dello stile comico, che prevede la scelta del realismo espressivo, l’uso di un lessico quotidiano e popolare, in rapporto a figure e personaggi che sono oggetto del disprezzo del poeta pellegrino. E continua: «ma l’ultima breve sequenza, dedicata alla seconda bolgia dei lusingatori immersi nello sterco, si differenzia da quanto precede per una sorta di appesantimento fisico e morale: l’infittirsi di suoni grossi e plebei, di rime in doppia consonante labiale e gutturale, di vocaboli vili, crea un’atmosfera di particolare oppressione, forse la più greve e irrespirabile di tutto l’Inferno». L’uso dello stile comico non è in realtà prerogativa del basso Inferno, ma è una costante nella Commedia, in quanto “segno” della miseria morale dell’umanità. Lo stile comico, osserva opportunamente la studiosa, «nasce da una essenziale matrice etica, esprimendo insieme la bassezza di certa condizione umana e l’amarezza di colui che la descrive. Così si spiega che le stesse forme e parole siano ritrovabili nel Paradiso, nei luoghi dove tale vile condizione viene violentemente allo sguardo, tanto più amara ed evidente in quanto vista in contrasto con la pura luminosità della vita beata».
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Fai la sintesi del passo proposto. ANALISI 2. Secondo te, quale effetto vuole produrre Dante con questa scelta lessicale? LESSICO 3. Nel tratto di canto proposto, colpisce la voluta vicinanza (che crea uno stridente contrasto) fra i termini afferenti alla dimensione religiosa e quelli “triviali” che turbano il lettore, tenuto conto dell’autorevole personaggio che li sta usando (san Pietro): elenca gli uni e gli altri.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 4. Leggi attentamente le osservazioni critiche proposte nell’analisi del testo. Rintraccia nel testo la tesi sostenuta nell’ultimo paragrafo e discutila facendo riferimento al passo dantesco presentato.
Dante e Beatrice davanti a san Pietro di Giovanni di Paolo, dal ciclo di miniature del Paradiso dantesco nel manoscritto Yates Thompson 36, foglio 177r (ca. 1450, British Library, Londra).
Il poema sacro 4 453
T28b
Dante Alighieri
Il registro tragico. Un esempio: il proemio del Paradiso Paradiso I, 1-36 D. Alighieri, Commedia, con il commento di A.M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Mondadori, Milano 1998
Il primo canto del Paradiso si apre con un solenne prologo, di ampiezza decisamente maggiore rispetto agli altri due proemi (➜ T22a e ➜ T27b OL). Dante, dopo aver dichiarato l'argomento del canto, invoca Apollo, dio e simbolo della poesia, affinché lo aiuti nel suo compito. Solo così potrà sperare nella corona d’alloro, premio assai ambito e raro sulla terra. Vi troviamo poi i motivi essenziali che sorreggono l’intera cantica: l’universo nelle mani del suo artefice che tutto muove, il tutto nell’uno, il volo dell’anima per giungere a Dio. Dunque Dio concepito come luce, che man mano che l’anima si eleva si fa sempre più intensa e trionfale.
La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende 3 in una parte più e meno altrove1. Nel ciel che più de la sua luce prende fu’ io, e vidi cose che ridire 6 né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire2, nostro intelletto si profonda tanto, 9 che dietro la memoria non può ire3. Veramente quant’io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, 12 sarà ora materia del mio canto4. O buono Appollo, a l’ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, 15 come dimandi a dar l’amato alloro. Infino a qui l’un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue 18 m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso5. [...] O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno 24 segnata nel mio capo io manifesti,
AUDIOLETTURA
1 La gloria... altrove: nella concezione aristotelica che traspare dalla perifrasi dantesca, Dio è concepito come Primo motore immobile (colui che tutto move). Ma nel riferimento alla luce che si irradia da Dio a tutte le creature si avverte anche un’eco neo-platonica. 2 al suo disire: a Dio. 3 Nel ciel... non può ire: nell’Empireo. 4 Veramente... mio canto: il regno santo è il Paradiso (al v. 23 beato regno). Termina qui la prima parte del proemio della terza cantica, ovvero l’enunciazione del tema
vv. 1-3 La gloriosa potenza di colui che trasmette il movimento a tutte le cose penetra e si diffonde nell’universo in misura maggiore in alcune parti o minore in altre. vv. 4-6 Io fui nel cielo che più di tutti gli altri riceve la luce divina, e vidi cose che chi discende da lassù non è in grado di dire né può riferirle; vv. 7-9 perché, avvicinandosi all’oggetto del suo desiderio, il nostro intelletto raggiunge tali livelli di profondità che la memoria non può seguirlo. vv. 10-12 Tuttavia quanto del regno santo ho potuto conservare nella mia mente, sarà ora materia del mio canto. vv. 13-15 O valente Apollo, per l’ultima fatica rendimi capace di ricevere la tua virtù poetica, così come tu richiedi per assegnare l’alloro da te amato. vv. 16-18 Fino a qui mi è bastata una sola vetta del monte Parnaso; ma ora mi è necessario affrontare la sfida che rimane con entrambe. [...] vv. 22-24 O potenza divina, se ti concedi a me tanto che io possa esprimere almeno una vaga immagine del beato regno impressa nella mia memoria,
(la propositio, secondo le norme della retorica classica). A partire dal v. 13 Dante introduce, secondo tradizione, l’invocazione; in questo caso non alle Muse ma ad Apollo, dio della poesia. 5 O buono Appollo... aringo rimaso: Dante usa la metafora del vaso per esprimere la capacità di accogliere la virtù poetica; l’alloro era simbolo della gloria poetica, poiché con le sue fronde erano incoronati i poeti. Fino alla composizione delle due precedenti cantiche gli era stata sufficiente una sola vetta del
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monte Parnaso (ovvero Nisa, sacro alle Muse); ma per affrontare l’arengo, letteralmente il campo dove si svolge una sfida, ha bisogno anche di Cirra, sacro ad Apollo. Con linguaggio metaforico il riferimento alle due vette del Parnaso allude alla necessità – data la difficoltà del compito connessa alla terza, e più alta, cantica del poema – di ricorrere non solo all’aiuto delle Muse, già richiesto per la composizione delle prime due cantiche, ma anche a quello del dio stesso della poesia, Apollo.
vedra’mi al piè del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie 27 che la materia e tu mi farai degno6. Sì rade volte, padre, se ne coglie per trïunfare o cesare o poeta, 30 colpa e vergogna de l’umane voglie, che parturir letizia in su la lieta delfica deïtà dovria la fronda 33 peneia, quando alcun di sé asseta7. Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci 36 si pregherà perché Cirra risponda8. 6 O divina virtù... farai degno: Dante esprime la speranza che la composizione della terza cantica lo renda degno dell’alloro poetico.
vv. 25-27 mi vedrai venire ai piedi della pianta da te amata e incoronarmi delle [sue] foglie, delle quali mi renderanno degno l’argomento e la tua ispirazione. vv. 28-30 È così raro, o padre, che si colgano le foglie dell’alloro per incoronare o un imperatore o un poeta, colpa e vergogna delle [basse] aspirazioni dell’uomo, vv. 31-33 che quando l’alloro rende qualcuno desideroso di gloria, ciò dovrebbe rendere lieta la divinità delfica. vv. 34-36 Una fiammella fomenta un grande incendio: forse dopo di me con voci poetiche migliori della mia si invocherà l’aiuto di Apollo.
7 Sì rade volte... di sé asseta: Dante si ri-
8 Poca favilla... Cirra risponda: ad Apollo
volge sempre ad Apollo; fronda peneia è l’alloro, così detto da Dafne, figlia del fiume Penèo, trasformata in questa pianta; delfica deïtà è Apollo stesso, definito così perché venerato nel santuario di Delfi.
era sacro, come detto, Cirra, uno dei due gioghi del monte Parnaso; il dio qui è richiamato per metonimia.
Analisi del testo L’esperienza della luce Dopo la prima terzina, il cui soggetto è la gloria di Dio che pervade tutto l’universo, riappare in primo piano il protagonista-viaggiatore (fu’ io, e vidi cose). Il narratore sottolinea l’eccezionale esperienza vissuta, «l’ebbrezza gioiosa di chi ha fatto esperienza diretta, nella sede suprema, di quella luce che pure risplende per tutto l’universo» (Emilio Pasquini). Al contempo il poeta ammette l’impossibilità di narrare interamente questa situazione, a causa dei difetti della memoria nel registrare fedelmente un’esperienza intellettuale così alta e profonda.
L’invocazione ad Apollo e il tono “tragico”
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Per approfondire Una poesia metamorfica
Terminata l’enunciazione dell’argomento (Dante parlerà del regno santo, cioè del Paradiso), si apre l’ampia invocazione ad Apollo, il dio della poesia nella tradizione classica, cui Dante chiede aiuto e ispirazione per l’ultimo lavoro (l’elevatezza dell’argomento rende ormai insufficiente il solo aiuto delle Muse). Tale invocazione infatti si presenta assai più intensa rispetto a quella delle due cantiche precedenti (ossia all’invocazione alle Muse nell’Inferno e nel Purgatorio), non solo per il passaggio dai simboli pagani della poesia a quelli cristiani di Apollo-Cristo, ma anche per l’ampiezza di tale invocazione che si distende in 23 versi (di contro ai 3 dell’Inferno e ai 6 del Purgatorio). In questo modo, Dante vuole segnalare al lettore la difficoltà della materia, il carattere diverso di questa divina ispirazione e l’eccezionale mutamento di prospettiva rispetto alla cantica precedente, sperando così di ottenere la corona d’alloro che spetta ai grandi poeti. In tal senso, per queste ragioni, il registro stilistico del proemio è interamente inscrivibile nel cosiddetto stile “tragico” o solenne.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza brevemente il contenuto del proemio. ANALISI 2. Come si è detto, il proemio del Paradiso è interamente ascrivibile allo stile tragico sia per le scelte lessicali, costantemente auliche, sia per le immagini mitologiche impiegate: individua i latinismi e i riferimenti alla mitologia classica.
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STILE 3. Individua le perifrasi e le metafore che rendono particolarmente sostenuto, a livello retorico, il passo. Trascrivile e indica ciò a cui si riferiscono.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 4. Fin dal proemio, Dante annuncia la sfida della poesia del Paradiso: rappresentare l’indicibile. Fin dall’inizio il poeta ha chiara l’ineffabilità, ovvero l’impotenza a dire, che percorrerà tutta la cantica. Dopo aver letto l’approfondimento online Una poesia metamorfica, argomenta su quest’aspetto (max 2 minuti).
7 La Commedia nel tempo Le sorti alterne del classico per eccellenza della letteratura italiana
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Per approfondire Le lecturae Dantis
Lessico lezione (latino lectio) La forma in cui una parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile.
I tempi di Dante: una circolazione ampia ed eterogenea La fortuna di Dante nei secoli, come è logico pensare, è indissolubilmente associata alla fortuna della Commedia. Il capolavoro dantesco conobbe immediatamente una straordinaria diffusione: la Commedia fu subito considerata libro “sapienziale”, meritevole quindi di essere letto in pubblico e commentato nelle scuole, proprio come i testi più autorevoli della tradizione classica e cristiana. La Commedia fu apprezzata da un pubblico elevato culturalmente e anche socialmente, ma la forza realistica delle immagini e del linguaggio ne favorirono la diffusione anche tra i ceti borghesi-mercantili e persino popolari grazie alle letture pubbliche e alla circolazione orale. Proprio la circolazione orale dell’opera fece sì che interi episodi e soprattutto singole massime si iscrivessero nella memoria collettiva popolare, soprattutto dei fiorentini; ancora oggi, del resto, in Toscana non è raro incontrare osti e contadini che sfoggiano la loro conoscenza a memoria di interi canti della Commedia. Per contro, il fatto che l’opera non fosse scritta in latino (la lingua allora internazionale) ne ostacolò inizialmente la penetrazione fuori dall’Italia, sebbene mercanti, studenti, dotti ne diffondessero la fama oltralpe: la prima traduzione della Commedia in uno dei volgari europei (il castigliano) si avrà solo nel 1428, mentre in Francia il capolavoro dantesco sarà tradotto solo alla fine del Cinquecento. L’eccezionale interesse suscitato dal capolavoro di Dante si tradusse nella rapidissima fioritura di commenti, motivata dal sentito bisogno di spiegazioni che rendessero più accessibile il difficile testo del poeta fiorentino, considerato ai tempi non tanto per il suo altissimo valore poetico, quanto come summa del sapere filosofico-teologico. La tradizione delle “lecturae Dantis” A partire dall’ottobre 1373 si iniziarono a tenere anche letture pubbliche volte a commentare e interpretare i singoli canti (il primo illustre “lettore” di Dante fu Boccaccio): una tradizione continuata poi nei secoli e ripresa di recente con grande successo di pubblico. I due grandi trecentisti di fronte alla Commedia: l’entusiasmo di Boccaccio e l’«omaggio senza simpatia» di Petrarca Grandissimo ammiratore di Dante, Boccaccio si può di fatto considerare il primo “dantista”: tratteggia infatti la più antica biografia del poeta nel suo Trattatello in laude di Dante (1352 o 1355-70), ne copia di suo pugno l’opera stabilendo una lezione del testo che avrà poi largo seguito e dà anche inizio, il 23 ottobre 1373, alle letture pubbliche della Commedia a Firenze, in Santo Stefano di Badia. Quanto a Petrarca, anche se imita apertamente Dante nei Trionfi, non si può certo dire che ne sia un ammiratore; anzi, era addirittura
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accusato di invidiarlo e disprezzarlo. In una lettera all’amico Boccaccio (Familiares, XXI 15 ), il poeta del Canzoniere si difende dalle accuse lodando l’ingegno e lo stile dell’autore della Commedia, ma lo fa in modo non certo caloroso (Sapegno lo ha definito un «frettoloso atto di omaggio senza simpatia»). In effetti Dante e Petrarca vivono contesti culturali assai diversi: Petrarca non condivide più il patriottismo municipalistico che ispira celebri pagine della Commedia, ma soprattutto ha una concezione alta ed elitaria della letteratura, opposta alla passione pedagogica che è alla base della stessa Commedia.
Tra pregiudizi linguistici e preconcetti ideologici: la lunga eclissi della fortuna di Dante L’umanesimo Se già nella lettera a Boccaccio sopra ricordata Petrarca parla di “indegnità” del volgare, considerato inferiore al latino in un’ottica aristocratica della letteratura, non c’è da stupirsi se con l’umanesimo, che riporta in auge il latino e declassa il volgare, la fortuna di Dante declini rapidamente: c’è addirittura chi (l’umanista Niccolò Niccoli) arriva a definire sprezzantemente l’autore «poeta da ciabattini e da fornai». Del resto la cultura umanistica non poteva apprezzare un’opera come la Commedia, che rappresenta pienamente quel Medioevo che gli umanisti considerano epoca di oscurità e barbarie. Il Cinquecento Nel Cinquecento la situazione non cambia: la stampa diffonde tra il pubblico la conoscenza della Commedia, cui si lega ormai in modo stabile l’aggettivo di “divina”, ma l’affermarsi della tesi del Bembo (che aveva curato nel 1502 una fortunata edizione dell’opera) ne condanna di fatto le scelte linguistiche nell’opinione dei letterati che contano; egli contrappone infatti l’elegante monolinguismo di Petrarca (eletto, insieme alla prosa di Boccaccio, a modello della lingua nazionale), al plurilinguismo del poema, considerato rozzo e sgradevole (Prose II, 5). D’altra parte il più grande poeta del Cinquecento, Ariosto, non solo apprezza la Commedia ma mostra di averne assimilato la lezione: l’Orlando furioso testimonia infatti in interi episodi e in singole immagini l’assimilazione-emulazione del capolavoro dantesco.
PER APPROFONDIRE
Il Seicento Nella storia secolare della ricezione della Commedia il momento di più basso apprezzamento è sicuramente il Seicento (in tutto il secolo si ebbero solo tre edizioni del poema), anche se non mancano estimatori del calibro di Galileo e Campanella. Certamente il secolo della “poetica della meraviglia” e dei funambolismi metaforici non è il più idoneo ad apprezzare la severa poesia di Dante e la sua scrittura essenziale e incisiva. E d’altra parte la cultura controriformistica non può che mostrare imbarazzo di fronte alle feroci critiche all’operato della Chiesa che percorrono tutta l’opera.
Le letture dantesche di Sermonti e Benigni, eventi di massa Il critico e scrittore Vittorio Sermonti (1929-2016) in varie trasmissioni radiofoniche e in più di cinquecento letture pubbliche in Italia (tra cui il cenacolo di Santa Croce a Firenze e la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano) ha raccontato, letto e commentato le tre cantiche dantesche. Sempre rispettoso dell’autorevolezza del testo, Sermonti ne fa un commento attento, puntuale, fruibile anche da un pubblico variegato socialmente e culturalmente, quale è quello delle sue letture. Più disinvolto e istrionico, in rapporto alla sua straordinaria capacità di comunicare, è l’approccio al testo di Dante che caratterizza le applauditissime letture pubbliche e anche televisive di Roberto Benigni (n. 1956).
L’attore toscano muove da un grandissimo amore per il capolavoro di Dante: ispira i suoi interventi l’autentico desiderio di portare il messaggio del poeta a quante più persone possibile, e soprattutto alle giovani generazioni. Da qui una lettura appassionata, con toni a tratti giullareschi, che glissa sulle difficoltà e i nodi problematici della complessa scrittura dantesca per portarne alla luce soprattutto i valori etico-civili attuali e l’altissima poeticità.
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Video e Audio Benigni e Sermonti leggono un canto della Commedia: due letture a confronto
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Il Settecento Nel nuovo secolo le sorti della Commedia non accennano a risollevarsi: il razionalismo classicista, il culto della semplicità e della chiarezza che caratterizzano il gusto poetico del primo Settecento precludono l’apprezzamento del poema dantesco, giudicato barbaro e rozzo, noioso (Baretti) o oscuro (Muratori). Ma la Commedia è rifiutata anche per ragioni ideologiche, connesse alla più generale polemica illuminista verso il Medioevo, considerato epoca del trionfo dell’oscurantismo, epoca dominata dalla superstizione. Particolarmente violenta è la condanna da parte di uno dei “padri” del movimento illuminista, Voltaire. Nella generale svalutazione o indifferenza, in Italia spicca una voce isolata di dissenso, quella del filosofo Giambattista Vico, la cui interpretazione di Dante, pur antistorica, dà origine alla successiva riscoperta romantica della figura del poeta fiorentino e della sua opera. La lettura vichiana di Dante va collocata all’interno della sua valorizzazione in ambito poetico del ruolo della fantasia. Sottraendo Dante al suo retroterra culturale, Vico esalta la presenza nella Commedia dei sentimenti, delle passioni, di una potente fantasia (su queste basi si comprende il successo dell’Inferno sulle altre due cantiche che rimarrà poi costante anche nel Romanticismo). Il mito romantico-risorgimentale di Dante Già in alcuni autori che si suole tradizionalmente iscrivere nell’area del cosiddetto “preromanticismo” (come Vittorio Alfieri) inizia a manifestarsi l’identificazione di Dante come esule perseguitato, eroico cantore delle sorti della patria, esempio per eccellenza del libertario, dell’uomo sdegnoso di compromessi. Nella Vita Alfieri racconta di aver sostato un giorno intero dinanzi al sepolcro di Dante «fantasticando, pregando e piangendo». Nell’Ottocento in tutta Europa rinasce – o forse meglio sarebbe dire nasce – il culto di Dante, considerato l’Omero dei tempi moderni: da Foscolo a Hegel a Madame de Staël, a Shelley e Byron al grande critico italiano Francesco De Sanctis. A quest’ultimo, nella sua Storia della letteratura italiana, si deve la contrapposizione, che contiene un evidente giudizio di valore, tra un Dante “poeta” e un Petrarca “artista”: mentre il primo riesce a trasformare il «mondo intellettuale in natura vivente» nel secondo «la perfetta levigatezza e armonia» va a scapito della «profondità del sentimento». Sono gli anni in cui la fortuna di Dante eclissa quella di Petrarca, che per secoli gli era stato preferito. Naturalmente, come sempre, le ragioni di questa riscoperta stanno nelle tendenze culturali del tempo: il Romanticismo è epoca di forti passioni, esalta la libertà e il genio creativo, aspetti che ai romantici sembrano tutti presenti nella Commedia e nella vita stessa del poeta fiorentino. È un Dante ardente e sdegnoso quello che in Inghilterra affascina Blake e in Francia Balzac, Hugo, Dumas e Stendhal.
Dante e Virgilio nel ghiaccio del Cocito di Johann Heinrich Füssli (1774, Kunsthaus, Zurigo).
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L’incontro di Dante e Beatrice, in un disegno di John Flaxman (1807, Tate Gallery, Londra).
In Italia, inoltre, la lotta risorgimentale concorre a riassegnare alla letteratura una missione civile e porta dunque all’esaltazione dell’esule, del perseguitato politico: si tende a leggere Dante come profeta dell’unità nazionale (così Mazzini, a sua volta esule in Inghilterra), capace di spronare con la sua parola un paese diviso e umiliato dalla presenza straniera. L’occasione del sesto centenario della nascita del poeta (1865) dà luogo a solenni celebrazioni a Firenze, capitale del nuovo Regno d’Italia: viene inaugurato il monumento a Dante davanti alla chiesa di Santa Croce, l’intera neonata nazione si riunisce idealmente nel nome di Dante e innumerevoli componimenti poetici sono ispirati dall’evento stesso del centenario. Il culto di Dante diventa un vero e proprio fenomeno di costume: in tutta Italia sorgono società dantesche per diffondere la conoscenza della Commedia tra la popolazione. Di questo culto prenderà le consegne “il vate della terza Italia”, Carducci, che attingerà a piene mani ai versi della Commedia per sostenere con l’autorità di Dante le sue invettive e i suoi sdegni patriottici.
Fuori d’Italia Nel Novecento Dante è modello per grandi scrittori fuori d’Italia, soprattutto nell’area anglofona: da Joyce, che riprende la lezione del plurilinguismo dantesco per dare voce alle dissacranti avventure del suo Ulisse piccolo borghese, a Ezra Pound (18851972) e Thomas Eliot (1888-1965), che ne celebrano il ruolo di indiscusso maestro della poesia mondiale. Ma anche lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (18991986), studioso di Dante, alimenta con la lezione del poeta fiorentino il suo interesse metafisico e la tendenza a un sofisticato simbolismo, come nel celebre racconto L’Aleph, forse il più “dantesco” dei suoi lavori. Pound Dietro l’interesse di Pound (e poi del suo allievo Eliot) per Dante c’è la tradizione della scuola di Harvard, che nel 1894 produsse un’edizione filologica della Commedia. Una tradizione del tutto antitetica all’interpretazione romantica del poema di cui si è detto, poiché studiava e valorizzava soprattutto le componenti simbolico-allegoriche dell’ispirazione dantesca, riconducibili alle coordinate culturali del Medioevo (una tradizione fruttuosamente continuata negli studi di Charles S. Singleton [1909-1985], che ha concentrato la sua attenzione proprio sulla complessa simbologia della Commedia, cercando di dimostrare come essa stessa contribuisca alla poesia dell’opera). L’incontro di Pound con Dante e il Medioevo nasce dalla sua personale ricerca di una poesia lucida ed essenziale, da una concezione antisentimentale e antiromantica di poesia. Pound si richiama alla grande tradizione romanza, dai provenzali al Sommo Poeta, che per primi hanno portato nella poesia il rigore intellettuale e la chiarezza dell’intelletto. Inizialmente progettati nel numero di cento, come nella Commedia, sono i Cantos di Pound (1917-1970 circa). Nel complesso i Cantos sono una Commedia tutta umana, che tocca infiniti temi e personaggi, evocati entro un universo poetico disgregato, ben lontano dalla rigorosa simmetria del poema dantesco e forse più che altro vicino all’Ulisse di Joyce: «Poema dantesco-joyciano», sono stati definiti da Montale. Eliot Sulla scia di Pound, Eliot, suo allievo e amico, definirà la Commedia «la più esauriente e la più ordinata presentazione delle emozioni che sia mai stata fatta» e Dante «maestro per un poeta che scriva oggi in qualsiasi lingua». Sia per Pound sia per Eliot l’allegoria esercita un ruolo fondamentale nel poema dantesco: infatti è proprio attraverso l’allegoria che il poeta impara a distaccarsi dalle passioni, a “visualizzarle”. In questa linea Eliot teorizza e utilizza poi nella sua poesia il “correlativo oggettivo”, in base al quale «un gruppo di oggetti, una situazione, una conIl poema sacro 4 459
catenazione di eventi» hanno la facoltà di suscitare una emozione poetica. In questo modo l’autore oggettiva in cose e persone i propri stati d’animo, distaccandosi da essi. Memore della città infernale di Dante è già il titolo del poemetto eliotiano La terra desolata (1922), ma più espressamente orientata verso una poesia allegorica è la lirica in sei sezioni Gli uomini vuoti (1925).
In Italia: omaggio formale ma scarsa influenza
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Per approfondire Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis
Raramente Dante è stato un polo di riferimento per la nostra cultura letteraria del Novecento: il modello della Commedia è stato poco recepito e difficilmente si è amalgamato in nuovi modelli letterari, come fosse «un enorme masso erratico» (secondo la pregnante espressione del critico Mario Petrucciani). L’inevitabile omaggio formale di quasi tutti gli intellettuali all’indiscusso padre della poesia e della lingua italiana dà l’impressione molto spesso di coprire un sostanziale imbarazzo verso un modello sentito come ingombrante perché di fatto inimitabile. A eccezione di Montale, Pasolini e in parte Luzi, nei quali l’influenza di Dante è marcata e ben documentabile, nella maggior parte dei casi si può parlare di una presenza rara, riscontrabile in criptiche allusioni e sporadiche utilizzazioni lessicali (come in Sereni o Zanzotto, che peraltro rifiutano ironicamente la dimensione escatologica della Commedia dantesca). Montale Per Montale, invece, l’attraversamento di Dante è condizione fondamentale per il definirsi della sua stessa poetica secondo la linea portante dell’allegorismo. Montale nega una visione organica della realtà, non ha fiducia che esistano profonde “corrispondenze” che al poeta sia possibile cogliere e non si riconosce quindi nel simbolismo decadente incentrato sull’analogia (come è proprio di Ungaretti). Rappresenta dunque la condizione umana attraverso figure, oggetti caricati di valenza allegorica, secondo il grande modello dantesco. Spesso la citazione del poeta fiorentino segnala il carattere allegorico di un testo, divenendo quindi elemento essenziale per la sua stessa interpretazione. Inoltre non si può dimenticare la rivisitazione della “donna angelo”, che domina l’immaginario montaliano: come la Beatrice dantesca, anche Clizia, pseudonimo usato da Montale nelle sue liriche per una donna da lui amata, è investita di un ruolo salvifico ed è misteriosa messaggera dell’“oltre”. Pasolini Quanto a Pasolini, si può dire che lo scrittore friulano sia l’unico a tentare la sfida di “rifare” la Commedia nella sua Divina Mimesis, rimasta incompiuta e pubblicata postuma: in quest’opera, in cui l’Inferno è l’età neocapitalistica nella quale Pasolini stesso si trova a vivere, l’imitazione di Dante è il supporto per un viaggio autobiografico negli inferni della psiche alla ricerca di una verità esistenziale liberatoria (➜ PER APPROFONDIRE La Divina Mimesis). Il titolo, ammiccando a un celeberrimo saggio di Erich Auerbach – Mimesis appunto – tradotto in italiano nel 1956, sembra alludere alla volontà di incontrare in Dante il realismo che Auerbach ripercorre attraverso la sua ampia analisi nella cultura occidentale. Ma Pasolini aveva già incontrato Dante quando scriveva Le ceneri di Gramsci (1957). La memoria dantesca si avverte in quest’opera in molteplici direzioni: innanzitutto nella forte disposizione polemica che ispira le tematiche (condanna della Chiesa, denuncia del conformismo dei più, compresi gli intellettuali), poi nell’esibito realismo linguistico e infine nella scelta metrica della terzina dantesca, una scelta certo inusitata e sostanzialmente provocatoria rispetto alla linea poetica del tempo. Peraltro, la suggestione dantesca torna anche nel suo ultimo monumentale romanzo lasciato incompiuto, Petrolio, uscito postumo nel 1992 (a 17 anni dalla morte dello scrittore).
460 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Dante nel “canone occidentale” e poeta del mondo In un libro che a suo tempo fece molto scalpore (Il canone occidentale, 1996) il critico americano Harold Bloom ha consacrato l’indiscutibile importanza di Dante nell’intera cultura dell’Occidente, definendo il poeta della Commedia «unico, autentico rivale poetico di Shakespeare» e secondo “centro”, appunto, del canone occidentale per la sua straordinaria originalità inventiva. La grandezza del «più aggressivo e polemico dei grandi scrittori occidentali» (che riesce a sopravvivere nelle traduzioni in altre lingue e addirittura nelle versioni in prosa) ha a che fare per Bloom con la straordinaria audacia di Dante «che non ha paragoni nell’intera tradizione della letteratura suppostamente cristiana, Milton stesso compreso». Dante impone infatti autorevolmente la sua visione dell’eternità, presentandola come fosse il “terzo Testamento” (dopo l’Antico e il Nuovo), capace di trasmettere verità di indiscutibile valore universale. «Il lettore che approda per la prima volta a Dante» scrive Bloom «si renderà conto assai presto che nessun altro autore secolare è convinto con pari assolutezza che la propria opera sia la verità». E ancora: «Dante ha concesso a sé stesso l’ultima parola e mentre lo si legge non si ha certo voglia di discutere con lui, soprattutto perché si vuole ascoltare e visualizzare ciò che ha visto per noi». Per Bloom l’originalità della Commedia, capace di demolire la distinzione tra scrittura sacra e profana, ha il suo perno nel mito di Beatrice, vero centro dell’opera, nella costruzione del quale il poeta ha operato una totale fusione di sacro e profano; una fusione certamente ardita, e non solo nel tempo di Dante. La Commedia è stata tradotta in tantissime lingue del mondo (serbo-croato, svedese, norvegese, ebraico, giapponese, cinese e altre, oltre che naturalmente in francese, inglese e tedesco). Il poema di Dante è oggetto di specifici corsi in molte università straniere, in particolare americane.
La Commedia
DATAZIONE
incerta: l’opera è iniziata quando Dante era già in esilio. • 1304-1308 Inferno • 1309-1312 Purgatorio • 1316-1321 Paradiso
STRUTTURA
3 cantiche di 100 canti: (1+33) Inferno, (33) Purgatorio e (33) Paradiso
ARGOMENTO
il viaggio di Dante attraverso i tre regni dell’oltretomba
GENERE
poema sacro didascalico-allegorico
SCOPO
salvare l’umanità dal peccato
METRO
terzine dantesche di endecasillabi a rima alternata
STILE
dal tragico al sublime
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Sguardo sul cinema Dante e il cinema La Divina Commedia, in particolar modo l’Inferno, è stata oggetto di grande interesse da parte dei cineasti: tra il 1908 e il 1930 sono usciti numerosi film tratti dal capolavoro di Dante. Il suo viaggio apparve da subito adatto ad assecondare i gusti del pubblico, che richiedeva storie di forte impatto e spettacolari. Il primo è L’Inferno di Giuseppe de Liguoro del 1911, che ebbe un successo enorme sia in Italia sia all’estero.
La Divina Commedia servì da ispirazione anche a due film americani, entrambi intitolati Dante’s Inferno, del 1924 e del 1935, quest’ultimo uscito in Italia con il titolo La nave di Satana. In tempi recenti ha riscosso grande approvazione la versione di Peter Greenaway per la televisione inglese, intitolata A TV Dante - The Inferno, del 1989: i canti da I a VIII vennero trasmessi a puntate e realizzati in chiave underground.
Fotogrammi da L’Inferno di de Liguoro: Dante e Virgilio, Paolo e Francesca.
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Approfondimento Dante e il cinema
Locandine dei due film americani del 1924 e 1935.
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Locandina di A TV Dante-The Inferno di Greenaway.
Fissare i concetti Dante Alighieri Ritratto d’autore 1. Quando Dante fa il suo ingresso nella vita politica? 2. Che cosa succede a Firenze nel 1301 nel momento in cui Dante si trova a Roma? 3. Per quale motivo Dante viene condannato all’esilio? La Vita nuova 4. Quale struttura presenta l’opera? 5. A che cosa allude il titolo? 6. Chi sono i destinatari dell’opera? 7. Quali sono le vicende narrate nella Vita nuova? 8. Qual è l’itinerario spirituale che Dante compie nell’opera? La parola di Dante nei generi e nei grandi temi culturali del suo tempo 9. Che cosa si intende con Rime? 10. Quale costante caratterizza le rime dantesche? 11. Quali elementi presentano le rime cosiddette “petrose”? 12. Qual è il significato del titolo Convivio? 13. Quale struttura presenta? 14. A quale pubblico si rivolge? 15. Quale argomento affronta nel quarto trattato? 16. A chi Dante dedica l’opera De vulgari eloquentia e perché? 17. Quali caratteristiche deve possedere il volgare? 18. Per quale motivo Dante nel secondo libro del Monarchia sostiene l’origine divina dell’impero romano? 19. Che cosa afferma Dante nel terzo libro del Monarchia in relazione al Papato e all’Impero? 20. Quante epistole di Dante ci sono pervenute e quando sono state composte? 21. Perché è importante l’epistola a Cangrande della Scala? Il poema sacro 22. Quale struttura presenta la Commedia? 23. A che cosa si deve il titolo? 24. Con quale scopo Dante scrive la Commedia? 25. Per quale motivo è definita un’opera enciclopedica? 26. Quali punti di vista adotta Dante nella narrazione? 27. Che cos’è il principio del contrappasso? 28. In che cosa consiste la concezione figurale applicata alla Commedia? 29. Quali scelte metriche e linguistiche compie Dante nella Commedia?
Giovanni di Paolo, Dante con Beatrice di fronte alla Vergine, dal ciclo di miniature del Paradiso dantesco (1450 ca. British Library, Londra).
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Duecento e Trecento Dante Alighieri
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
La vita Dante (diminutivo di Durante) Alighieri nasce tra il maggio e il giugno del 1265 a Firenze, città all’epoca profondamente divisa tra ghibellini e guelfi. All’età di nove anni vi incontra Beatrice (Bice Portinari), la donna che diventerà il centro del suo itinerario poetico e umano attraverso un processo di trasfigurazione letteraria. Tra il 1286 e il 1287 è a Bologna, dove opera Guido Guinizzelli. In seguito conosce anche altri poeti toscani, i “fedeli d’Amore”, insieme ai quali dà vita a un nuovo indirizzo poetico incentrato sulla celebrazione dell’amore: lo stilnovo. La morte prematura di Beatrice nel 1290 rappresenta uno spartiacque nella sua vita e nell’esperienza poetica. Dalla grave prostrazione che ne consegue egli sfugge attraverso lo studio intenso di filosofia e teologia, condotto tra il 1290 e il 1295, i cui risultati verranno trasfusi in tutte le opere principali. Nello stesso tempo, però, Dante sperimenta anche forme letterarie diverse, riconducibili allo stile “comico-realistico”, caratterizzato da contenuti più bassi e meno curati. È probabile che si debba ascrivere a questo periodo il misterioso “traviamento”: egli devia dal rigore stilistico e morale della Vita nuova forse per l’influsso dell’aristotelismo radicale e quindi del razionalismo estremo. Dopo anni, iniziando la redazione della Commedia, lo scrittore decide tuttavia di “ricominciare da Beatrice”, la donna dell’amore virtuoso e salvifico, tramite verso Dio, per completare la carriera poetica e la sua stessa storia personale. Nel 1295 lo scrittore fa anche il proprio ingresso nella vita politica fiorentina tra i guelfi Bianchi; l’esperienza culmina nel 1300, con la nomina a priore del comune. Già nel 1301, però, egli è accusato di corruzione dai guelfi Neri mentre si trova a Roma per un’ambasceria: processato in contumacia per corruzione, viene condannato a morte. Non potendo tornare in città, inizia l’esilio. Durante questo doloroso periodo, che dura sino alla morte, Dante compone i lavori più celebri, riuscendo ad abbandonare l’ottica esclusivamente municipale e gli influssi stilnovistici. Il poeta trova ospitalità in diverse zone e corti d’Italia (Verona, la Marca trevigiana, la Lunigiana, Lucca), sempre sperando in una restaurazione dell’autorità imperiale (idea vanamente alimentata da Arrigo VII nel 1308) e in una renovatio dell’Europa cristiana. Muore a Ravenna, ultima tappa dell’esilio, tra il 13 e il 14 settembre 1321.
Vita nuova. 2 La La rilettura simbolica di un’eccezionale esperienza d’amore La struttura, la finalità, i destinatari La Vita nuova è un prosimetrum, cioè un componimento misto di prosa e di poesia in 42 capitoli. È infatti un’antologia delle rime giovanili di Dante, attentamente selezionate e collegate da una parte in prosa che le commenta e contestualizza. Rappresenta la prima opera in volgare scritta dall’autore e la sua realizzazione è collocabile tra il 1293-94 o, secondo altri, nel periodo 1293-95. La destinazione è elitaria: il lavoro è indirizzato a Guido Cavalcanti e alla cerchia di amici e “fedeli d’amore”. Nella raccolta viene ricostruita a posteriori la vicenda dell’amore di Dante per Beatrice fino alla morte della donna e agli eventi ad essa immediatamente successivi. Questo
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racconto per tappe esemplari è accompagnato dalla riflessione sul potere dei sentimenti, in grado di cambiare un’intera esistenza. Da ciò deriva la reinterpretazione dell’esperienza stilnovistica dantesca, che chiude una fase esistenziale e poetica per farne iniziare una più matura sotto tutti i punti di vista. La vicenda La Vita nuova non è una semplice narrazione autobiografica: i dati servono a delineare non solo un racconto di vita, ma anche l’itinerario di Dante da un amore terreno a un amore spirituale. Nella prima parte dell’opera Dante racconta i due incontri con Beatrice, il saluto che riceve e il suo innamoramento; ma anche le schermaglie tipiche della letteratura cortese. Nei capitoli XVIII-XIX, invece, l’autore compie una svolta, tralasciando la descrizione dei propri stati d’animo per concentrarsi sulla lode disinteressata della donna amata: iniziano le celebri «rime della loda», che non escludono, comunque, la trattazione di situazioni dolorose. Nella parte finale si illustra lo smarrimento che segue la morte di Beatrice: Dante, tuttavia, è salvato da una donna, allegoria della Filosofia, che gli permette di capire come il suo compito sia ora quello di esaltare la figura dell’amata innalzando verso il divino il proprio pensiero. Un itinerario spirituale e poetico nel nome di Beatrice La Vita nuova narra, attraverso un’esperienza di vita riletta in modo simbolico e la figura sacralizzata di Beatrice, la scoperta di una concezione più alta dell’amore, che si riflette in un nuovo modo di fare poesia. I modelli che si possono individuare per l’opera (Boezio, sant’Agostino, la poesia occitanica, le Vite dei Santi, Cavalcanti e Guinizzelli) rivelano l’influenza che su Dante hanno avuto sia gli studi filosofici sia l’interpretazione stilnovistica dell’amore. Le interpretazioni della Vita nuova La Vita nuova è un’opera complessa, né totalmente autobiografica né completamente simbolica, seppur finalizzata a conferire un significato universale a una vicenda individuale: da ciò derivano diverse interpretazioni. Da una parte il lavoro può essere letto come il racconto di un itinerario mistico verso Dio per il tramite della donna: un percorso, quindi, inverso rispetto a quanto teorizzato nei componimenti stilnovistici. Dall’altra vi si può vedere un’opera agiografica, con lo scopo di edificare cristianamente i lettori per il tramite di una storia d’amore.
parola di Dante nei generi 3 La e nei grandi temi culturali del suo tempo Le Rime I testi poetici di Dante non inseriti nella Vita nuova confluiscono nelle Rime. Essi abbracciano un periodo che va dal 1283 ai primi anni dell’esilio. Vi si può constatare l’attitudine dello scrittore a sperimentare diverse forme poetiche: dai modi cortesi-stilnovistici (che si definiscono soprattutto attraverso l’amicizia e il sodalizio con Guido Cavalcanti) alla tendenza comico-burlesca e realista (la “tenzone” con Forese Donati), allo stile “aspro” secondo il modello del provenzale Arnaut Daniel (le “rime petrose”), all’impegno allegorico-dottrinale. Un intellettuale al servizio del suo tempo: il progetto del Convivio Il Convivio è anch’esso un prosimetrum. Composto tra il 1304 e il 1307, è rimasto incompiuto: avrebbe dovuto comprendere 14 trattazioni oltre al proemio, mentre consta solo di questa prima parte (in cui Dante illustra gli obiettivi dell’opera) e di tre trattati, strutturati come commento ad altrettante canzoni, delle quali è spiegato il senso letterale e allegorico. Si tratta di un’opera enciclopedica, una summa medievale modellata sui grandi testi filosofici del passato, in
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cui Dante si propone di diffondere nozioni e conoscenze allestendo per un pubblico ampio, quello emergente nella civiltà comunale, formato da non dotti, un “banchetto” del sapere (da qui il titolo dell’opera). L’obiettivo didattico e divulgativo del Convivio è quello di permettere ai lettori di esercitare la ragione attraverso la filosofia, e dunque raggiungere la felicità su questa terra avvicinandosi anche alla perfezione divina; esso motiva la scelta dell’autore, certo allora non usuale per argomenti filosofici, di usare il volgare. Dante teorico della lingua volgare: il De vulgari eloquentia Composto contemporaneamente al Convivio (probabilmente tra il 1304 e il 1305), il De vulgari eloquentia è un trattato di retorica in latino, rimasto anch’esso incompiuto. L’opera mira a spiegare la natura, le caratteristiche e i pregi del volgare ma, essendo rivolta a un pubblico di dotti e specialisti, è scritta in latino. Dante difende la dignità e le potenzialità di questa lingua e cerca di dimostrare che essa è degna di affrontare anche argomenti alti e nobili; ma afferma che debba trattarsi di un volgare “illustre”, non municipale. Intrecciando il discorso retoricolinguistico con quello politico, l’autore asserisce che – poiché in Italia manca, a livello politico, una “curia”, ossia un centro di governo – lo sviluppo del volgare è e deve essere affidato ai più prestigiosi letterati. Segue una trattazione dei suoi usi possibili in poesia, con particolare riferimento al genere metrico della canzone. L’opera si interrompe all’inizio del XIV capitolo del secondo libro, cui avrebbero dovuto far seguito altri due volumi. La riflessione politica: la Monarchia La datazione dell’ultimo trattato di Dante, la Monarchia, è incerta, ma l’opera è sicuramente posteriore al Convivio, di cui riprende e sviluppa alcune fondamentali riflessioni. La Monarchia è scritta in latino perché si rivolge a un pubblico di dotti e non solo italiano, dati i temi affrontati. La riflessione si incentra sulla natura e sul ruolo dell’autorità imperiale (la Monarchia appunto) e sul rapporto tra papato e impero, un tema di scottante attualità nel primo Trecento. Dante sostiene la derivazione da Dio di entrambi i poteri, la piena autonomia reciproca (ma anche la loro complementarità) e illustra i diversi fini che essi si propongono: l’imperatore deve realizzare la felicità terrena, strumento fondamentale della quale è la pace, mentre il papa deve guidare gli uomini a raggiungere la beatitudine eterna. Epistole Di Dante ci sono pervenute anche 13 epistole scritte in latino tra il 1304 e il 1317. Lo stile è estremamente curato e l’autore se ne serve per parlare di argomenti diversi: alcune lettere accennano a episodi autobiografici, altre trattano il tema politico. Una delle più celebri è la XIII: indirizzata a Cangrande della Scala, signore di Verona, cui Dante dedica e invia la cantica del Paradiso, essa riporta indicazioni del poeta sulle modalità con le quali accostarsi alla sua Commedia.
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Il poema sacro Le caratteristiche generali La Commedia è un grandioso poema in tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso), ognuna a sua volta divisa in 33 canti, a cui si aggiunge il primo, proemio all’intera opera. Già nella strutturazione generale è evidente il gusto medievale della simbologia numerica (ricorrono il numero 3 e i suoi multipli). L’opera fu composta in esilio, forse a partire dal 1304, e fu conclusa poco prima della
morte del poeta (1321). Il titolo si deve essenzialmente allo stile impiegato: quello “comico” (congruente alla commedia, appunto; nella tripartizione coeva degli stili è lo stile basso), che Dante utilizza soprattutto nell’Inferno. Probabilmente il poeta adottò il titolo mentre scriveva questa cantica, o forse pensò alla commistione degli stili propria dell’opera nel suo insieme. Il viaggio ultraterreno La Commedia, pur non potendo ascriversi a nessun genere, rimanda a quello del viaggio, profondamente radicato nella cultura classica e qui ambientato nel mondo ultraterreno: vi si narra infatti di un’allegorica “inchiesta” etico-religiosa di Dante stesso, accompagnato prima dal poeta latino Virgilio (Inferno e Purgatorio) e poi da Beatrice (Paradiso), nei tre regni dei morti. Un simbolo, dunque, dell’itinerario dell’anima dal peccato alla salvezza, ma anche dell’intera umanità alla ricerca del vero bene. Il viaggio è immaginato secondo il modello medievale delle “visioni”, estremamente popolare, inserito però all’interno di coordinate geografiche e cosmologiche molto precise e proprie della concezione aristotelico-tolemaica dominante nel Medioevo: in grado, quindi di creare un coinvolgente effetto di realtà per i lettori. Si svolge, nella finzione letteraria, nella settimana santa del 1300. È quindi retrodatato rispetto al tempo della composizione: questo espediente consente a Dante-autore di profetizzare, spesso con toni apocalittici e accusatori, eventi in realtà già accaduti. La missione didattica e profetica di Dante Quando compone la Commedia, Dante attribuisce all’intellettuale e alla letteratura una funzione didattica. Dopo il Convivio, egli si sente investito di una missione profetica: incitare l’umanità all’azione generosa che può cambiare il corso della storia e restaurare una civiltà autenticamente cristiana. Questo volontarismo si origina da una visione pessimistica del proprio presente; a provocarla sono la degenerazione morale della società e del mondo ecclesiastico sotto forma di crisi istituzionale determinata sia dalla rampante cultura mercantile sia dall’ingerenza della Chiesa negli affari temporali, oltre che dall’assenza dell’autorità imperiale. Nella Commedia questo discorso politico, fino a quel momento trattato in termini astratti, viene “drammatizzato” attraverso l’incontro e il colloquio tra il poeta pellegrino e le personalità del suo tempo all’interno di invettive, apostrofi o profezie. Gli obiettivi danteschi che seguono alle osservazioni sono indubbiamente utopici; ciononostante la Commedia è un’opera appassionatamente agonistica, capace di chiamare il lettore all’azione.
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La Commedia come summa della cultura medievale La Commedia si configura, oltre che come testo letterario, anche come una summa del sapere tardo-medievale: essa accoglie i temi più dibattuti al tempo in un’atmosfera di pluralismo ideologico, senza escludere la presentazione di posizioni teoriche eterodosse in campo filosofico e politico. Dante è consapevole del proprio ruolo e della propria autorevolezza culturale e funge da mediatore tra diverse istanze, arrivando a conciliare componenti della cultura classica e cristianomedievale secondo un’ottica enciclopedica e sincretistica. Le tecniche narrative L’opera è un poema epico-romanzesco raccontato in prima persona. Il narratore è il protagonista e coincide con il Dante storico. Si distinguono, però, un Dante personaggio e un Dante autore; la narrazione adotta il “punto di vista” del primo, caratterizzato con tratti psicologicamente dinamici, senza escludere interventi del secondo: strategia che favorisce nel lettore l’immedesimazione necessaria per compiere lo stesso cammino salvifico. Per assolvere alla funzione didattica, Dante sviscera i contenuti da trattare in colloqui con i morti: un enorme numero di personaggi dalle più varie provenienze utilizzati come exempla morali, positivi o meno, per trasmettere un messaggio etico. In ossequio al principio della brevitas, intere personalità vengono dipinte in pochi tratti e ognuna è fissata in quel momento esemplare e culminante della vita che ne decide la sorte nell’eternità. Nell’Inferno e nel Purgatorio, infatti, tutti sono sottomessi al rapporto tra colpa e pena noto come “principio del contrappasso”: la pena corrisponde, per analogia oppure per contrasto, al tipo di peccato prevalente in vita; una scelta che imprime immagini nitide nella mente di chi legge. Nel viaggio, Dante è accompagnato da due guide: il poeta Virgilio e Beatrice. Entrambi sono personaggi figurali, ossia entità che conservano la propria individualità terrena ma al contempo la realizzano nell’aldilà, svelandone il vero senso. Il lavoro del poeta si caratterizza per due aspetti in particolare: il realismo e il simbolismo, entrambi finalizzati al ricercato obiettivo didattico. Il primo si esplica nella resa “visiva”, concreta, degli aspetti fisici delle anime e nella plasticità delle immagini con cui è tratteggiata l’interiorità; ma è inteso anche in senso linguistico, per riuscire a coprire tutti gli aspetti del reale e, attraverso lo strumento della similitudine, a descrivere anche gli incommensurabili accadimenti ultraterreni. Il secondo, invece, si configura come presentazione di personaggi, spazi e tempi quali specchi, simboli di una realtà spirituale ben più profonda. Lo stile, la lingua, la metrica Per la rappresentazione di una realtà così diversificata e globale, Dante sperimenta un numero senza precedenti di soluzioni formalmente e stilisticamente originali. L’impianto linguistico dell’opera si serve, alla base, del volgare fiorentino, ma aperto a prestiti degli altri dialetti italiani e degli altri idiomi romanzi, oltre che del latino, senza escludere non pochi neologismi. Amplissimo è lo spettro dei registri e delle scelte stilistico-linguistiche del poema, che spaziano dal comico al tragico, spesso in pochi versi. Il risultato è, dunque, uno strumento comunicativo estremamente vario e duttile, che caratterizza il poema nel segno del plurilinguismo e del pluristilismo. Dal punto di vista metrico, l’autore si vale di terzine di endecasillabi a rime incatenate, in tutte le accentazioni possibili, per sottolineare il movimento narrativo incalzante e rendere memorabili, anche grazie alle rime, i propri versi.
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La Commedia nel tempo La fortuna di Dante nei secoli è associata a quella della Commedia. Il capolavoro conosce subito una diffusione trasversale, sia orale che scritta, e ne vengono organizzate anche letture pubbliche. Nel coevo mondo delle lettere il primo ammiratore ne è Boccaccio, mentre Petrarca riserva all’opera un entusiasmo solo formale. Il suo stile, il plurilinguismo e il legame con la cultura medievale, tuttavia, ne pregiudicano pesantemente il successo fino alla fine del Settecento. La riscoperta del poema e del suo autore, in Italia e all’estero, avviene compiutamente nell’Ottocento: personalità quali Vittorio Alfieri, Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci ma anche Giuseppe Mazzini vedono in Dante il cantore delle sorti della patria e il profeta dell’unità nazionale, mentre i romantici apprezzano l’artista libero, sdegnoso dei compromessi, fantasioso e immaginifico. Nel Novecento l’omaggio continua, anche se l’influenza della Commedia e del suo autore verso nuovi modelli letterari rimane scarsa. All’estero la prima traduzione è quella in castigliano del 1428 e la fama dello scrittore segue gli stessi alti e bassi che caratterizzano la realtà italiana. Nel XX secolo, tuttavia, egli diviene modello per scrittori come James Joyce, Ezra Pound e Thomas Eliot, che ne esaltano la capacità di manipolazione linguistica, l’essenzialità, il rigore intellettuale e il raffinato simbolismo.
Zona Competenze Competenza digitale
1. Prepara un PowerPoint da illustrare alla classe sulla compresenza di realismo e simbolismo nella Divina Commedia: puoi procedere definendo le due modalità di rappresentazione e poi esemplificandole con riferimenti ai testi letti ed esaminati.
Scrittura argomentativa
2. Scrivi un testo espositivo-argomentativo sul percorso poetico e spirituale attraverso cui Dante supera e trasforma la concezione dell’amore cortese (max 30 righe).
Sintesi
3. In alcuni passi del Convivio, della Monarchia e della Commedia Dante denuncia i mali che affliggono la politica e la società del suo tempo. Individuali e sintetizzali in una tabella.
Sintesi
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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Dante Alighieri
Vede perfettamente onne salute Vita nuova, XXVI D. Alighieri, Vita Nuova, a.c. di D. De Robertis, Ricciardi, MilanoNapoli 1980
Vede perfettamente1 onne salute2 chi la mia donna tra le donne3 vede; quelle che vanno con lei son tenute4 4 di bella grazia a Dio render merzede5. E sua bieltate è di tanta vertute6, che nulla7 invidia a l’altre ne procede8, anzi le face andar seco vestute 8 di gentilezza, d’amore e di fede. La vista sua fa onne cosa umile; e non fa sola sé parer piacente9, 11 ma ciascuna per10 lei riceve onore. Ed è ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si può recare a mente11, 14 che non sospiri12 in dolcezza d’amore. 1 perfettamente: del tutto, completamente. 2 onne salute: ogni perfezione e beatitudine. 3 tra le donne: in compagnia di altre donne. 4 son tenute: devono, sono obbligate a.
Comprensione e analisi
Interpretazione
5 di bella... merzede: a rendere grazie a Dio per il grande bene ricevuto. 6 sua bieltate… tanta vertute: la sua bellezza (francesismo) è di tale potere. 7 nulla: nessuna.
8 procede: deriva. 9 parer piacente: apparire bella. 10 per: attraverso. 11 la si... mente: ricordarsela. 12 che non sospiri: senza sospirare.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. In quante parti si può suddividere il sonetto? Indicale e fai una sintesi di ciascuna. 2. Individua nel sonetto i termini legati al campo semantico della vista. 3. Quale reazione genera nelle altre donne la vista di Beatrice? 4. Elenca gli effetti di Beatrice elencati dal poeta nella prima terzina. 5. Individua le caratteristiche dello stile “dolce”: ci sono suoni aspri? Ci sono enjambements? Ci sono termini inconsueti? La sintassi è semplice o complessa? 6. Sia in questo sonetto sia in Tanto gentile e tanto onesta pare nell’ultimo verso il poeta fa riferimento all’atto del sospirare: fai un confronto tra gli ultimi due versi dei sonetti. Confronta il testo dantesco con Io voglio del ver la mia donna laudare di Guido Guinizzelli e Chi è questa che ven ch’ogn’om la mira di Guido Cavalcanti, indicando gli elementi comuni e quelli che invece contraddistinguono ciascuno dei tre sonetti.
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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da Giuliano Procacci, Storia degli italiani, 1, Laterza, Bari 1968
La storia religiosa italiana nei secoli XI e XII non differisce sostanzialmente da quella degli altri paesi dell’Europa cristiana. Anche nella penisola infatti i primi fermenti ereticali ebbero la loro culla nell’ambiente agitato e ricettivo delle città in via di sviluppo e di trasformazione. Milano in particolare, che più tardi si meritò l’appellativo di «fossa degli eretici», ebbe sin dal secolo XI i suoi “patari” e i suoi eretici. Ma anche in Italia il movimento per la riforma della Chiesa riuscì in buona parte a riassorbire temporaneamente le istanze di rinnovamento religioso e sociale che si esprimevano attraverso il fermento innovatore ed ereticale. Nel corso del secolo XII quest’ultimo conobbe però un nuovo potente rilancio. La stessa Roma, dalla quale una sollevazione cittadina aveva temporaneamente cacciato il pontefice, fu teatro negli anni tra il 1146 e il 1154 della predicazione di Arnaldo da Brescia, un inquieto allievo dell’inquieto Abelardo1. Come in tutti i movimenti ereticali medievali, in essa il motivo principale era quello della rampogna contro la degenerazione e la corruzione degli ecclesiastici e l’ottica quella della restituzione della Chiesa alla sua primitiva purezza. Arnaldo, catturato dal Barbarossa e da questi consegnato al papa, finì coraggiosamente e virilmente i suoi giorni sul rogo, ma ciò non valse ad arrestare i progressi dell’eresia e delle istanze rinnovatrici. Nell’evoluta società urbana della fine del secolo XII e degli inizi del secolo XIII questi pullulavano dovunque: nell’Italia settentrionale si diffusero largamente, con diversi nomi, con diverse ramificazioni, il movimento dei valdesi e quello, più intransigente e manicheo, dei càtari; dalle campagne della Calabria veniva la predicazione millenaristica2 di Gioacchino da Fiore, un cistercense staccatosi dal suo ordine per formare un proprio monastero, autore di scritti profetici che avranno larga risonanza e forza di suggestione su intere generazioni di fedeli. Certo, dal punto di vista dottrinale, questi movimenti presentavano sensibili differenze ed è estremamente difficile stabilire ove veramente passasse il confine tra eresia e ortodossia3. Essi però erano tutti insieme la testimonianza di una diffusa inquietudine, del disagio di una società nuova o in via di rapida trasformazione nei confronti di una fede e di una liturgia che stentavano a tenere il passo coi tempi. È noto che anche questa volta la Chiesa reagì sotto il papato di Innocenzo III e che la sua reazione fu diretta da una parte a reprimere, dall’altra ad assorbire e a incanalare verso l’ortodossia le agitazioni e le istanze rinnovatrici del movimento ereticale. Abbiamo così da una parte la crociata contro gli albigesi (1209) e l’istituzione dell’Inquisizione, dall’altra l’approvazione dei nuovi ordini mendicanti con le nuove forme di devozione da essi introdotte. Ma i modi e l’efficacia di questa duplice reazione, fatta di riforma e controriforma, non furono gli stessi dovunque ed è appunto a partire di qui che la storia religiosa italiana comincia a divergere da quella degli altri paesi dell’Occidente europeo. Men1 Abelardo: Pietro Abelardo (1079-1142), uno dei massimi filosofi medievali. 2 millenaristica: ispirata alla credenza e all’attesa del regno di Cristo
in terra, prima del giudizio finale; riservato ai soli giusti, secondo un computo respinto dall’interpretazione ufficiale delle Sacre Scritture, era destinato a durare 1000 anni.
3 ortodossia: conformità a una determinata religione, di cui si accetta integralmente la dottrina.
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tre infatti fuori d’Italia la complessa azione antiereticale del Papato non riuscì né a reprimere né ad assorbire completamente le virtualità4 ereticali della religiosità popolare e queste seguiteranno a vivere sotterraneamente per affiorare di volta in volta sotto questa o quella forma e per confluire infine nel grande moto della Riforma, in Italia invece l’operazione poté dirsi riuscita. Non bisogna, tra l’altro, dimenticare che l’Italia era e continuò ad essere, salvo la parentesi avignonese, la sedia e la sede del Papato. Ma essa fu anche – e ciò ci riporta nel cuore del secolo XIII – la culla della rivoluzione francescana, la quale vi ebbe un seguito e un’influenza in profondità che difficilmente possono essere sopravvalutate. Ad essa perciò, ai suoi sviluppi e alle sue forme, noi siamo condotti se vogliamo renderci ragione della particolarità che la storia religiosa italiana (e non solo quella religiosa) presenta a partire dal secolo XIII. 4 virtualità: potenzialità.
Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Riassumi il testo mettendone in luce gli snodi argomentativi. 2. Quali sono secondo lo storico gli elementi che accomunano la storia religiosa italiana dei primi secoli del basso Medioevo a quella di altri paesi europei? 3. Quando e perché, invece, la situazione italiana e quella europea cominciano a divergere? 4. In che senso Procacci parla di «riforma» e «controriforma» a proposito delle scelte e delle reazioni della Chiesa di Roma nei confronti dei molteplici e diversificati movimenti di inquietudine religiosa del XII e XIII secolo? 5. Quale fattore, secondo lo storico, caratterizza e identifica in specifico la situazione italiana?
Produzione
Nei movimenti ereticali del Medioevo confluiscono molti e diversi fattori che la storiografia di volta in volta ha enfatizzato o ridimensionato: aspirazioni ideali e spirituali, disagio sociale, nuovi impulsi economici, fermenti politici. Riflettendo sul giudizio formulato dallo storico Giuliano Procacci nel brano proposto, ricostruisci il complesso fenomeno dei movimenti ereticali e in generale del dissenso religioso sullo sfondo dei profondi cambiamenti sociali, culturali, politici dei secoli appena successivi al Mille. Illustra le tue riflessioni in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
472 Duecento e Trecento 6 Dante Alighieri
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da R. Davidsohn, Storia di Firenze, VII, Trad. di E. DupréTheseider, Sansoni, Firenze 1973
Giacché l’esperienza insegnava che nelle piante e nei minerali esistevano delle forze attive, e d’altra parte mancava l’esatta conoscenza delle reazioni biologico-chimiche, fu la fantasia che si impadronì di questo dominio. Si pensò che tutto quello ch’era prezioso dovesse esser anche efficace: orbene, il fiorino d’oro era coniato, come si riteneva, in metallo purissimo, ed in più recava l’effigie del Battista1, il che avrà anche accresciuto la fede nel suo potere benefico, e pertanto la limatura del fiorino, finemente polverizzata, era considerata un rimedio mirabile, dal quale perfino il primo pontefice avignonese2 si era atteso un effetto benefico. E il medesimo Clemente V faceva unire alle sue vivande della polvere di pietre preziose a scopo di medicamento. Dino Compagni3 [...] enumera i magici poteri dei gioielli: gli uni eliminano la febbre, lo zaffiro conserva la gioventù, altri giovano contro gli spettri notturni, contro il sonnambulismo, guariscono le emorroidi. Cecco d’Ascoli4 [...] narra come il diamante liberi dalla malìa, dal veleno e dagli spettri, come ravvivi l’amore spento – la qual cosa può realmente avverarsi – come protegga dai nemici colui che lo porta al braccio sinistro; lo smeraldo poi scaccia l’epilessia e rafforza la memoria. Dante menziona la fede dei ladri che l’elitropia5 avesse il potere di renderli invisibili ed introvabili. Tra le cose lasciate da un armaiolo fiorentino v’era un gioiello montato in argento, che aveva la virtù di arrestare le emorragie. Si comprende come fosse facile in questo campo l’impostura […]. La conoscenza dell’efficacia delle piante fa parte della storia della medicina popolare, ma noi vogliamo in queste pagine ricordare le fantasticherie e le esagerazioni su tale argomento. 1 Battista: san Giovanni Battista è il protettore di Firenze, e come tale la sua immagine era riportata sulla moneta cittadina. 2 primo pontefice avignonese: si tratta di Clemente V, citato ancora di seguito, e così definito in
quanto fu il primo dei papi che stabilirono la sede in Francia. 3 Dino Compagni: uomo politico e scrittore fiorentino (ca. 12471324) cui si deve un’importante cronaca delle contemporanee vicende di Firenze.
4 Cecco d’Ascoli: astrologo e scrittore (1269-1327), condannato al rogo come eretico. 5 elitropia: minerale di calcedonio. Sul suo presunto potere di rendere invisibili è incentrata anche una novella di Boccaccio.
Il passo riportato offre una rassegna delle credenze sui poteri magici di elementi naturali, assai diffuse nel Medioevo anche presso i ceti colti e spesso condivise anche dagli stessi ecclesiastici. Se tali interpretazioni potevano essere in parte giustificate da una visione della natura ancora prescientifica, stupisce che nella civiltà odierna, intrisa di conoscenze scientifiche e tecnologie avanzate, possano sopravvivere credenze e comportamenti che fanno affidamento sulle arti magiche. Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali, di letture e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
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Duecento e Trecento CAPITOLO
7 Francesco Petrarca LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Petrarca visto da Giovanni Boccaccio... Nell’ammirata biografia (Vita e costumi di messer Francesco Petrarca da Firenze) che Boccaccio dedica a Petrarca, suo maestro e amico, l’autore del Decameron così presenta il grande poeta...
Alto di statura, di leggiadro aspetto, e piacevole per il viso tondeggiante [...]. Severo il movimento degli occhi; felice e insieme sottile l’intuito per acuta perspicacia; mite nell’aspetto, quanto mai misurato nei gesti: senz’altro disponibile al riso, ma non fu mai visto agitarsi per una risata stupida e scomposta. Controllato nel camminare, sereno e gioioso nell’esporre, parla tuttavia di rado, a meno che non gli siano poste delle domande: ma allora porge parole così chiare a chi lo interroga, soppesate con tale serietà, da guadagnare all’ascolto anche i più semplici... E che dire della sua indole? In lui non c’è nulla di ambiguo, nulla di oscuro, ma ogni cosa gli si manifesta come chiara, limpida e aperta... Quanto poi alla memoria, credo che lui debba essere ritenuto piuttosto divino che umano: sembra, indubbiamente, conoscere e ricordare qualsiasi cosa, quasi fosse sempre presente. G. Boccaccio, Vita di Petrarca, Salerno, Roma 2004
... e da sé medesimo All’inizio dell’epistola Posteritati (una lettera del 1367 in forma di autobiografia indirizzata ai posteri) Petrarca delinea un autoritratto fisico e morale.
Ebbi sempre grande disprezzo per le ricchezze, e non perché non le desiderassi, ma perché avevo in odio le preoccupazioni e gli affanni che ne sono inseparabili compagni. [...] Quelli che si chiamano banchetti (e sono gozzoviglie, nemiche del vivere misurato e costumato) mi sono sempre dispiaciuti: e mi è parsa una fatica inutile invitarvi gli altri o, dagli altri, esservi invitato. Mi è piaciuto invece pranzare con gli amici, e mi è piaciuto a tal punto da non provare nulla di più gradito dell’averli a tavola e mai, di mia volontà, ho mangiato senza compagnia. Nulla mi è mai tanto dispiaciuto quanto il fasto, e non solo perché si tratta di un vizio contrario all’umiltà, ma anche perché oneroso e nemico della quiete. [...] Ebbi la fortuna, sino all’invidia, di godere della dimestichezza dei principi e dei re e dell’amicizia di persone altolocate. Cercai comunque di tenermi lontano da molti di costoro, che pure amavo assai: tanto fu in me radicato l’amore per la libertà da evitare con ogni cura chi mi pareva fosse contrario anche al suo nome soltanto. [...]. Fui d’intelligenza piuttosto equilibrata che acuta, [...] particolarmente disposta alla filosofia morale e alla poesia». F. Petrarca, Epistole, a c. di U. Dotti, Utet, Torino 1978
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Francesco Petrarca occupa un ruolo chiave nella letteratura italiana ed europea per la raccolta di liriche nota come Canzoniere, incentrata sul tormentato amore del poeta per Laura. Per il suo altissimo valore artistico l’opera costituirà per secoli l’indiscusso modello della poesia amorosa in tutta Europa. Per la prima volta Petrarca pone al centro della poesia la vita interiore dell’“io”: un io che si presenta lacerato dal conflitto tra il divino e il terreno, fra la tensione all’ascesi e l’opposta attrazione della gloria e delle passioni, che ne fa un personaggio moderno, ormai ai confini del Medioevo. Anche per le sue scelte di vita e letterarie, come il culto dei classici e l’uso del latino per molte sue opere, Petrarca rappresenta un nuovo tipo di intellettuale che prelude all’età umanistica.
1 ritratto d'autore Dalla mancanza di un
al progetto 2 "centro" autobiogarfico
3 Il canzoniere 475 475
1 Ritratto d’autore 1 Una vita come ricerca «Sono nato in esilio»: il destino annunciato di un intellettuale cosmopolita Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio 1304. Il padre, il notaio fiorentino ser Petracco, in quanto schierato con la fazione dei Bianchi, sopraffatta dalla parte dei Neri, era stato esiliato nel 1302, contemporaneamente a Dante di cui era amico. Dopo un breve soggiorno in terra toscana, il notaio Giusto di Gand, Ritratto di Francesco si trasferisce con la famiglia a Carpentras, nelle Petrarca, dipinto con la corona di lauro vicinanze di Avignone, dove aveva ottenuto un (XV secolo, Urbino, Galleria Nazionale incarico presso la curia papale (la sede del papato delle Marche). era stata trasferita nella città provenzale nel 1309). In alcune lettere Petrarca enfatizza la condizione di esiliato, che non gli ha consentito l’appartenenza a una “sua” città: «sono nato in esilio ad Arezzo» afferma nella celebre lettera Posteritati, facendo dell’esilio il motivo-chiave iniziale della sua biografia, forse anche per suggestione del grande modello di Dante, l’esule per eccellenza. La condizione di sradicamento, l’assenza di una patria, sarà quasi un destino per Petrarca, la cui intera esistenza sarà caratterizzata da continui spostamenti, da moltissimi viaggi in Italia e anche in Europa.
VIDEOLEZIONE
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva 1309
1321
Il papato e la corte papale di trasferiscono ad Avignone, in Provenza.
1300
Muore in esilio Dante.
1310
1320
1330
1340
1327
Il 6 aprile, nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, incontra Laura per la prima volta.
1312
1304
Nasce ad Arezzo il 20 luglio.
Con la famiglia Francesco si trasferisce a Carpentras.
1330
1316-26
Petrarca studia diritto all’università di Montpellier e in seguito a Bologna. Nel 1326 la morte del padre lo richiama ad Avignone.
476 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Prende gli ordini minori ed entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Ai Colonna rimarrà legato fino al 1348 compiendo numerose missioni diplomatiche in vari paesi europei. 1336
Verso la fine dell’anno visita Roma
Un giurista mancato Dopo la prima formazione, Petrarca viene avviato dal padre agli studi giuridici, a cui si dedica, insieme al fratello Gherardo e all’amico Guido Sette, prima a Montpellier e poi a Bologna. Fin dagli anni giovanili è però attratto dalla letteratura classica, in cui ritrovava un mondo più nobile e affascinante di quello contemporaneo. A Bologna entra anche in contatto con la poesia stilnovistica e diventa amico di Cino da Pistoia, ultimo esponente della modalità poetica del “dolce stile”. Avignone. L’incontro con Laura (1326-1337) Dopo il rientro ad Avignone, in seguito alla morte del padre (1326), abbandona gli studi giuridici, entra negli ambienti colti della città e partecipa, insieme al fratello Gherardo, alla vita mondana avignonese, attratto dai lussi e dai divertimenti offerti in quel tempo dalla città che ospitava la curia papale. Ad Avignone avviene l’incontro con Laura, la misteriosa figura che Petrarca immortalerà nel Canzoniere e intorno alla quale ruota la complessa vicenda umana ritratta nell’opera. Il primo incontro con la donna avviene, secondo la testimonianza dello stesso poeta, nella chiesa di Santa Chiara, il 6 aprile del 1327: da quella fatale apparizione nasce una lunga passione amorosa, che segnerà tutta la vicenda esistenziale e letteraria del poeta.
Ritratto presunto di Laura in una miniatura del 1463. Particolare dal manoscritto del Canzoniere e Trionfi del Petrarca (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana).
1345
La guerra nel territorio di Parma, che vede lo scontro tra gli Este da una parte e i Gonzaga e i Visconti dall’altra, ispira la Canzone all’Italia. 1337
Inizia la guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra.
1347
Appoggia il tentativo rivoluzionario di Cola di Rienzo, ispirato al sogno di restaurare l’antica repubblica romana. Il progetto fallirà miseramente.
1375
A un anno di distanza muore pure Boccaccio.
1348
La peste infuria in Europa. Il 6 aprile muore anche Laura.
1350
1360
1370
1380
1361-68 1349-1351
Boccaccio compone il Decameron.
1341
L’8 aprile è incoronato poeta in Campidoglio.
1337-1340
Di ritorno da Roma, si stabilisce a Valchiusa, presso Avignone, dove inizia l’Africa e il De viris illustribus.
1350
In viaggio per Roma in occasione del giubileo, a Firenze incontra Boccaccio. 1345
A Verona, nella biblioteca della cattedrale, scopre le lettere di Cicerone ad Attico, a Bruto, al fratello Quinto. Da questo fortunato ritrovamento nasce l’idea delle Familiares.
L’avanzare della peste lo induce a lasciare Milano e a stabilirsi prima a Padova e poi a Venezia. Nel 1366 inizia a far trascrivere il Canzoniere e si dedica alle Seniles.
1374
Nella notte tra il 18 e il 19 luglio muore. 1370
Pone la sua residenza ad Arquà, sui colli Euganei, non lontano da Padova. 1351-53
Vive a Padova, ospite di Francesco da Carrara, e quindi, per l’ultima volta, a Valchiusa che lascia definitivamente nel 1353. Si stabilisce a Milano, dove rimarrà fino al 1361, presso i Visconti; missioni diplomatiche anche fuori d’Italia (Parigi, Praga).
Ritratto d’autore 1 477
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Per approfondire Ma Laura è veramente esistita?
Lessico ordini minori Sono così definiti quei ministeri che nella Chiesa cattolica latina erano legati a una particolare funzione all’interno della comunità cristiana e conferivano lo status di chierico (cui corrispondeva una rendita). A partire dall’Alto Medioevo diventarono prevalentemente delle tappe nell’itinerario di un chierico verso il sacerdozio sacramentale (nei suoi tre gradi maggiori del diaconato, presbiterato, episcopato).
Come apparve chiaro già ai contemporanei di Petrarca, le vicissitudini dell’amore per Laura a cui fa riferimento il Canzoniere, più che con un sentimento amoroso reale hanno a che fare con il complesso itinerario, interiore e insieme letterario, del poeta e Laura stessa è soprattutto una presenza poetica. Non a caso dunque vi fu, già al tempo di Petrarca, chi dubitò della sua reale esistenza. La fedeltà alla professione di letterato Rientrato ad Avignone Petrarca decide di intraprendere la carriera ecclesiastica prendendo gli ordini minori . Una scelta comune a quel tempo, che non imponeva impegni vincolanti e che Petrarca compie non certo per vocazione, ma per garantirsi una rendita fissa che gli consenta di dedicarsi senza preoccupazioni economiche agli amati studi. La sua vocazione è infatti sempre più quella letteraria, anche se non ha ancora scoperto la sua strada maestra come autore: legge molto i classici latini, in particolare Cicerone e Virgilio (che, insieme poi ad Agostino, rimarranno nel tempo i “suoi” autori) e si apre all’interesse per la storia romana. Nella stessa ottica si spiega anche la scelta di entrare al servizio a partire dal 1330 (e fino al 1347) della potente famiglia dei Colonna per i quali compirà missioni diplomatiche importanti che lo porteranno a viaggiare a Parigi, nel Belgio, in Germania. La fama di letterato prestigioso gli consentirà in seguito, una volta lasciati i Colonna, di essere riverito e ospitato da grandi famiglie signorili, come i Visconti (presso i quali rimarrà per otto anni, dal 1353, anno in cui lascia definitivamente Avignone, al 1361) o da governi repubblicani come Venezia, senza propriamente essere al loro servizio, ma limitandosi a svolgere funzioni diplomatiche di alto livello o a tenere discorsi in momenti particolarmente importanti. Vi fu chi rimproverò a Petrarca questi legami (in particolare, l’amico Boccaccio lo accusò in una lettera di essersi messo al servizio di un tiranno, nemico di Firenze), ma la realtà è che egli fu veramente al servizio solo della letteratura, da lui intesa come missione e professione, a cui subordinò ogni scelta di vita. I luoghi di Petrarca Nel 1360 va a Parigi per conto dei Visconti Nel 1353 si trasferisce a Milano presso i Visconti, dove resterà fino al 1361 Dal 1337 al 1353 risiede periodicamente Dal 1312 con la famiglia a Valchiusa si trasferisce ad Avignone, sede papale. Qui incontra Laura Dal 1316 al 1320 studia Legge a Montpellier
Nasce ad Arezzo nel 1304
Nel 1345 si stabilisce a Verona
Si trasferisce nel 1361 a Venezia
Dal 1320 studia Legge a Bologna
A Roma riceve la corona poetica nel 1341
478 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Nel 1370 si trasferisce ad Arquà,dove morirà nel 1374
Un intellettuale “europeo” attento ai problemi italiani Le tappe del percorso di vita di Petrarca lo portano a muoversi tra i centri più importanti dell’Italia, da Roma a Parma, Verona, Mantova, Ferrara, Firenze, e altre città ancora ma anche a spaziare entro il territorio europeo, in una dimensione di apertura ormai cosmopolita. Questa dimensione “internazionale” fa di Petrarca un nuovo tipo di intellettuale, ormai slegato dai ristretti orizzonti della cultura comunale, che si propone come portavoce delle ragioni universali della cultura, in grado per il suo prestigio di dialogare alla pari con i potenti. Pur ormai proiettato in una dimensione europea, Petrarca ha però a cuore i problemi dell’Italia, nella quale lamenta la mancanza di un centro politico e culturale in grado di arginare le contese fra i signori italiani e le lotte tra le fazioni. Uno dei temi principali della riflessione di Petrarca è la perenne situazione di conflittualità in Italia (celebre è l’accorato appello alla pace nella Canzone all’Italia, (➜ T15a ), dovuta alla mancanza di un centro politico forte e autorevole. Dalla dimensione comunale alla dimensione nazionale Per Petrarca, ormai, la “patria” non è più un singolo comune, ma l’Italia. All’Italia rivolge dall’alto del Monginevro, nel momento di rientrarvi definitivamente lasciando la Provenza, un commosso saluto, non privo di quell’enfasi retorica che sarà poi comune ai tanti elogi nazionalistici tipici della cultura italiana: l’Italia è salutata come terra «veneranda per la gloria d’armi e di sacre leggi, dimora delle Muse, ricca di tesori e d’eroi […]». Certo, il sentimento nazionale di Petrarca non poteva ancora poggiare su alcun concreto elemento politico, ma si fonda su un’idea tutta letteraria, e in qualche modo mitica, dell’Italia. L’appoggio al progetto di Cola di Rienzo In questa prospettiva si spiega l’appoggio entusiastico di Petrarca al progetto di Cola di Rienzo, grande ammiratore della storia e della cultura romana, che gli pareva potesse fare di Roma il centro politico dell’Italia e insieme il centro della cristianità. Di fatto Cola, che Petrarca aveva personalmente conosciuto ad Avignone, intendeva porre fine allo strapotere della nobiltà romana e progettava un governo democratico popolare che restaurasse l’antica repubblica romana. Quando Cola nel 1347 riesce a prendere il potere, Petrarca scrive un’orazione in cui condanna i privilegi delle grandi famiglie nobiliari, compresi i Colonna, e presenta Cola come l’uomo della Provvidenza. Ma il tentativo fallisce e Cola, scomunicato dal papa, viene ucciso nel 1354 dalla plebe romana. L’intellettuale a confronto con il potere signorile Petrarca ormai accetta l’esistenza dei regimi signorili e la conseguente necessità che occorra confrontarsi con una realtà che non è più quella comunale, per trovare un personale spazio di azione e di libertà. Lasciata la Provenza quando ormai è un intellettuale celebre, sceglie di vivere non a Firenze, ma presso la signoria dei Visconti. Una scelta, come già detto, contestata da chi, come l’amico Boccaccio, lo accusa di servire un tiranno. Petrarca era fermamente convinto che la politica non potesse fare a meno della cultura e che l’intellettuale, nella difficile contingenza storica, dovesse rappresentare una figura super partes, un consigliere saggio che operasse per la pace rimanendo indipendente da ogni ideologia. Valchiusa: il buon ritiro e l’“officina” di Petrarca Dal 1337 al 1353 quando, disgustato dalla corte avignonese, deciderà di stabilirsi definitivamente in Italia, Petrarca vive a periodi alterni a Valchiusa (Vaucluse), presso Avignone in una piccola casa addossata a una rupe, sulla riva sinistra del fiume Sorga. Ritratto d’autore 1 479
Valchiusa rappresentò per molti anni il “buon ritiro” di Petrarca, che amava tornarvi appena possibile come a un porto sicuro, lontano dagli obblighi sociali e dagli intrighi della corte papale ad Avignone. Nella pace del ritiro campestre Petrarca concepisce e scrive (per lo meno in una prima stesura) le sue opere più importanti, come egli stesso riconobbe: il De vita solitaria (La vita solitaria) e il De otio religioso (La quiete della vita religiosa), il Bucolicum carmen, parte dell’Epistolario e il Secretum. Lo stesso Canzoniere ha la sua genesi e viene elaborato nelle sue prime fasi compositive proprio a Valchiusa. Petrarca poeta “laureato” Pur consapevole della labilità della gloria, Petrarca aspirava ardentemente a un riconoscimento ufficiale dei suoi meriti e riuscì a ottenerlo: nel 1341, dopo esser stato sottoposto per sua richiesta a Napoli a un esame dal re Roberto d’Angiò, cultore delle lettere, ottiene la “laurea” poetica a Roma con una solenne cerimonia in Campidoglio, che ebbe vasta eco in Italia (il termine laurea e l’aggettivo derivato laureatus alludevano allora alla consuetudine, già presente nella tradizione latina, di porre sul capo dei grandi poeti una corona di alloro, laurum in latino). Il riconoscimento ufficiale accresce ulteriormente la fama di Petrarca e ne fa un intellettuale corteggiato dai potenti per il suo indubbio prestigio.
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Per approfondire I libri come amici?
Sulle tracce del passato: la ricerca dei codici antichi Le missioni diplomatiche e gli incarichi importanti affidatigli prima dai Colonna e più tardi dai Visconti rappresentano per Petrarca, amante della classicità, occasioni preziose per andare alla ricerca, nelle biblioteche d’Italia e d’Europa (da Parigi a Gand, da Lione a Liegi), di testi classici andati perduti. L’appassionata ricerca dei codici antichi, ispirata dal desiderio di riportare in vita dall’oblio gli amati classici, preannuncia la vera e propria “febbre” degli umanisti, sempre alla caccia dei testi classici scomparsi dalla circolazione. Nel 1333 a Liegi Petrarca ritrova l’orazione di Cicerone Pro Archia, che contiene un elogio della poesia e della figura del poeta, in sintonia con la valorizzazione della letteratura propria dello stesso Petrarca. Folgorante sarà poi per lui la fortunata scoperta, nel 1345, di ampia parte dell’epistolario di Cicerone nella Biblioteca capitolare di Verona. Un ritrovamento che influenzerà non poco le scelte compositive dello scrittore: Petrarca deciderà infatti di sistemare in forma organica le proprie lettere sul modello autorevole del grande scrittore latino.
Simone Martini, allegoria virgiliana per il “Virgilio ambrosiano di Francesco Petrarca”, volume conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Nella miniatura sono rappresentati, oltre al commentatore latino Servio che “svela” il poeta, un soldato, un contadino e un pastore, facendo riferimento a Eneide, Georgiche e Bucoliche di Virgilio contenute nel volume.
480 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Il culto dell’amicizia e il legame con Boccaccio Petrarca tenne in grande considerazione l’amicizia, come testimonia in più punti il suo epistolario. Pur amando la solitudine, lo scrittore ricercava al tempo stesso la compagnia di persone vicine a lui culturalmente e spiritualmente, anticipando in questo atteggiamento il culto dell’amicizia che sarà proprio degli umanisti. Tra gli amici di Petrarca, uniti a lui dalla comune aspirazione alla formazione di una nuova cultura e dall’amore per i testi antichi, il posto più importante è occupato da Giovanni Boccaccio, l’altro grande scrittore trecentesco, che Petrarca conobbe a Firenze nel 1350 durante una sosta del suo viaggio verso Roma, in occasione del giubileo. I rapporti affettuosi tra i due grandi letterati, testimoniati da varie lettere, durarono fino alla morte di Francesco (Per la profonda influenza esercitata da Petrarca sull’amico Boccaccio ➜ PER APPROFONDIRE, Boccaccio e Petrarca: un'amicizia con qualche punto di domanda; C8 PAG. 613).
Boccaccio e Petrarca leggono dei libri in un particolare di una miniatura del XV secolo (Londra, British Library).
D1
L’ultimo rifugio Petrarca lascia definitivamente Milano nel 1361 per sfuggire a un’epidemia di peste. Dopo vari spostamenti, finisce per stabilirsi ad Arquà, una cittadina collinare sui Colli Euganei presso Padova, che ora porta anche il suo nome. Qui lo scrittore sembra ritrovare la pace di Valchiusa: la casa in collina che si fece costruire era circondata da alberi e viti, ai quali lavorava lo stesso poeta nei momenti in cui abbandonava la sua principale attività di studioso e scrittore. Non rifiuta però di compiere missioni diplomatiche: per i Visconti, recandosi a Pavia, e infine a Venezia per un trattato di pace tra Veneziani e Padovani. Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, alla vigilia del suo settantesimo compleanno, Petrarca muore, dopo aver lavorato fino all’ultimo all’ordinamento del suo Canzoniere. Il destinatario della sua ultima lettera era stato Boccaccio, che l’anno dopo seguirà nella morte l’amico e maestro.
Petrarca e la solitudine Per la solitudine Petrarca aveva una vera e propria vocazione. Lo scrittore dedica a questa condizione anche un’intera opera, in latino: il De vita solitaria, composto nel 1346 (e ripreso negli anni a seguire), ma l’esaltazione della solitudine, ricorre in più testi perché Petrarca la riteneva una condizione essenziale per l’uomo di cultura, necessaria agli studi e all’esplorazione della propria interiorità (➜ D1a ). Riteneva al contrario la vita cittadina, con le sue assillanti incombenze e i ritmi di vita affannosi, fonte di disagio e di squilibrio (➜ D1c OL). Anche per compensare i continui viaggi che caratterizzarono la sua vita e le missioni diplomatiche che lo ponevano in costante contatto con gli ambienti della politica, Petrarca cerca la solitudine, che si concretizza in un luogo “del cuore”: Valchiusa, in Provenza, dove compone molte sue opere (tra cui appunto il De vita solitaria) e dove ama rifugiarsi appena può (➜ D1b ). L’esaltazione della solitudine (con la denigrazione della vita cittadina) non è certo una prerogativa esclusivamente petrarchesca: costituisce anzi un vero e proprio topos, ricorrente negli scrittori classici, da Orazio a Seneca. Ritratto d’autore 1 481
Francesco Petrarca
Ideale di vita
D1a
De vita solitaria, I, VI Le opere di Petrarca, per la loro complessità, non sono facilmente accessibili per il lettore di oggi. Tuttavia, anche da singoli, brevi passi, come quello qui estrapolato, si possono trarre riflessioni sulla vita umana, sul senso della cultura, di grande suggestione. Assai significativo, ad esempio, è questa sorta di “breviario laico”, tratto dal De vita solitaria in cui Petrarca enuncia il suo insegnamento di vita e dichiara il suo amore per i classici.
F. Petrarca, De vita solitaria, a c. di M. Noce, Mondadori, Milano 1992
Non amare le cose effimere; desiderare quelle durature: sopportare però le cose di questo mondo, finché ci sono vicine, placidamente1. Ricordarci sempre che siamo mortali, ma che ci è stata promessa l’immortalità. Mandare indietro la memoria, vagare con il pensiero per tutti i tempi e per tutti i luoghi; aggirarsi qua e là e 5 discorrere con tutti gli uomini illustri di un tempo; dimenticare così gli odierni artefici di tutti i mali, talvolta anche noi stessi e, dopo averlo elevato al di sopra di noi, spingere l’animo verso le cose celesti […]. Questo è il frutto, non ultimo, della vita solitaria, non compreso da chi non lo ha ancora assaporato. Nel frattempo, per non passare sotto silenzio le occupazioni più consuete, dedicarsi alla lettura e 10 allo scrivere, dandosi alternatamente all’una per riposarsi dalle fatiche dell’altro, leggere le opere degli antichi e scriverne altre che saranno lette dai posteri e dimostrarci grati e memori del beneficio delle lettere2 dagli antichi ricevuto, almeno nei confronti dei posteri, poiché non possiamo nei confronti degli antichi stessi. Verso costoro, per quanto possiamo, non essere ingrati, bensì divulgare i nomi di 15 quelli tra loro che sono ancora sconosciuti, ridare lustro a quelli che hanno perso il loro splendore, trar fuori quelli sepolti dalle macerie del tempo3 e tramandarli alle moltitudini dei nostri discendenti come degni di venerazione; portare loro nel cuore, averli sulle labbra come qualcosa di dolce e infine rendere loro una riconoscenza se non proporzionata, certo dovuta ai loro meriti in tutti i modi: amandoli, 20 serbandone memoria, esaltandoli. 1 desiderare... placidamente: desiderare ciò che permane nel tempo (contrapposto all’effimero), ma finché ci è vicino il
transitorio, sopportarlo e affrontarlo con serenità. 2 lettere: letteratura. 3 trar fuori… del tempo: è proprio quan-
to cerca di fare Petrarca, specie anticipando la ricerca appassionata dei testi antichi dispersi che sarà propria degli umanisti.
Concetti chiave Un ideale e degli obiettivi Nel passo Petrarca fornisce dei consigli di vita: non perdere tempo dietro le cose effimere e dedicarsi alle cose durature, sopportare le cose di questo mondo con serenità, spingere l’animo verso le cose celesti, privilegio di chi ha assaporato la vita solitaria, dedicarsi alla lettura delle opere degli antichi e alla scrittura. Petrarca si pone come obiettivo di diffondere i valori della cultura e affermando «trar fuori quelli sepolti dalle macerie del tempo» anticipa la ricerca appassionata dei testi antichi dispersi, che sarà caratteristica degli umanisti. L’invito finale è ad amare i classici, conservandone la memoria ed esaltarli.
482 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Fai una sintesi del contenuto del testo proposto. COMPRENSIONE 2. In che cosa consiste per Petrarca l’ideale di vita? ANALISI 3. Cerca di spiegare il senso dell’espressione: «Ricordar sempre di essere mortali, cui tuttavia è stata assicurata l’immortalità». COMPRENSIONE 4. Quali frutti produce per Petrarca il ritiro nella solitudine?
Interpretare
SCRITTURA 5. Per Petrarca si parla di “Umanesimo cristiano”, ovvero di una visione della vita e della cultura che concilia l’ottica cristiana con la valorizzazione della cultura classica che sarà propria dell’Umanesimo: ti sembra che questo giudizio possa applicarsi anche a questo breve passo? Motiva il tuo giudizio con riferimenti al testo (max 20 righe).
Francesco Petrarca
D1b
La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Lettere familiari, VI, 3 F. Petrarca, Familiares, a c. di U. Dotti, Argalia, Urbino 1974
Nella parte conclusiva di una lettera al cardinale Giovanni Colonna, in cui invita a Valchiusa questo potente prelato, Petrarca delinea un quadro che associa la descrizione della serena bellezza campestre del luogo in cui egli amava soggiornare, lontano dalle incombenze e dai traffici della curia avignonese, a una sorta di autoritratto.
Dove mai, fuori d’Italia, potrei vivere con maggiore tranquillità? Mi vedrai contento di un piccolo, ombroso giardino e di una piccola casa, ma tale che all’arrivo di tanto ospite1 riterrai ancor più piccola; vedrai colui che desideri in buona salute, senza bisogno di nulla e che nulla si aspetta dalle mani della fortuna2. Lo vedrai, 5 da mattina a sera, passeggiare solitario tra prati, monti e sorgenti, abitare nei boschi e nel verde; lo vedrai evitare le orme degli uomini, cercare i sentieri fuori mano, amare i luoghi ombrosi, godere degli angoli rugiadosi e dei prati verdeggianti3; lo vedrai maledire le mene della curia4, evitare il tumulto delle città, star lontano dalle soglie dei superbi5, farsi beffe degli affari del volgo, restare a metà strada tra letizia 10 e tristezza; lo vedrai libero per interi giorni e intere notti, gloriarsi della compagnia delle muse6, del canto degli uccelli, del mormorio delle ninfe7, in compagnia di pochi
1 tanto ospite: un ospite così importante: si tratta appunto del cardinale. 2 vedrai... fortuna: Petrarca rappresenta se stesso nella condizione del saggio antico, quale viene delineato in particolare dalla filosofia stoica: il saggio è autosufficiente, equilibrato, non dipende in alcun modo dai capricci della sorte; colui che
desideri: colui di cui cerchi la compagnia (come amico). 3 Lo vedrai... verdeggianti: il poeta ritrae se stesso nella solitudine campestre in modo molto simile a quanto leggiamo nel celebre sonetto Solo et pensoso (➜ T11a ). 4 le mene della curia: gli intrighi della corte papale.
5 star… superbi: evitare di andare a bussare alle porte (soglie; vale “case” per sineddoche) dei superbi. 6 compagnia delle muse: si riferisce alla lettura dei poeti e alla composizione lirica. 7 ninfe: le divinità che secondo la mitologia classica vivono nelle fonti e nei boschi.
Ritratto d’autore 1 483
servi e di molti libri; ed ora rimanere a casa, ora passeggiare, ora soffermarsi, ora adagiare sulla riva di un ruscello gorgogliante, ora sull’erba tenera il capo stanco e il corpo affaticato e, non ultima ragione di conforto, vedrai che nessuno, se non raramente, osa disturbarlo per ripetergli anche la millesima parte delle sue preoccupazioni; ed oltre a ciò, lo vedrai ora immobile ed assorto tacere, ora a lungo parlare con se stesso ed infine disprezzare e sé e tutto ciò che è mortale.
Concetti chiave «Il mio dolcissimo eremo transalpino»
Il paesaggio di Valchiusa illustrato da Francesco Petrarca.
Questa espressione è usata come didascalia per un grazioso schizzo (conservato alla Bibliothèque nationale de France a Parigi) che rappresenta il paesaggio di Valchiusa come locus amoenus (con un airone in primo piano e le acque del Sorga); forse di mano dello stesso Petrarca, è tracciato in margine a un foglio di un codice della Storia naturale dello scrittore latino Plinio il Vecchio appartenuto al poeta. Il termine eremo allude alla solitudine, per la quale Petrarca aveva una vera e propria vocazione e a cui dedica l’opera De vita solitaria; ma la solitudine è motivo ricorrente in più di un suo testo e rappresenta per Petrarca una dimensione essenziale per l’uomo di cultura. Al di là dei ritratti un po’ di maniera della propria condizione come quello presentato nel passo, non si deve però pensare che la vita di Petrarca a Valchiusa si traducesse nell’isolamento totale. In realtà lo scrittore pensava già alla dimensione del cenacolo umanistico: alla serenità del paesaggio, alla bellezza della natura amava associare anche la frequentazione di pochi amici intimi, uniti a lui da reali affinità elettive. Inoltre, di certo Valchiusa non rappresentò per lui l’inattività oziosa; anzi, Petrarca vi svolse quella che considerava la propria attività vocazionale: la lettura e lo studio degli amati classici da un lato e dall’altro, come si è detto, la produzione della maggior parte delle proprie opere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il passo proposto in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. Il passo presenta una località, Valchiusa appunto, ma delinea soprattutto un modello di uomo: quali ne sono i tratti caratterizzanti? ANALISI 3. Individua nel testo le espressioni che rimandano a un ideale di vita sobrio e schivo.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
COMPRENSIONE 4. A quali aspetti negativi della vita cittadina allude l’autore compiacendosi del suo ritiro a Valchiusa? 5. Nel testo Petrarca loda la vita solitaria. Oggi viviamo in un mondo sempre rumoroso, sempre più frenetico, all’interno del quale però si sono complicate le relazioni umane, che appaiono sempre più “liquide”. I giovani in particolar modo trascorrono sempre più tempo chiusi nella propria stanza, accompagnati solo dai social o dai giochi virtuali, con amici virtuali. Come vivi la tua giovinezza? Cerchi il contatto con i tuoi coetanei o ti rifugi in un mondo di giochi virtuali? Secondo te come bisognerebbe vivere? La solitudine presenta solo aspetti negativi o ha anche un suo valore?
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D1c Francesco Petrarca La vita cittadina non è fatta per gli spiriti eletti De vita solitaria, II, XV
D1d Francesco Petrarca Come leggeva Petrarca De vita solitaria, II, XIV
484 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Ugo Dotti Il significato della solitudine per Petrarca U. Dotti, Petrarca civile. Alle origini dell’intellettuale moderno, Donzelli, Roma 2001
1 d’elezione: frutto di una scelta.
Sul rapporto quasi di identificazione tra Valchiusa e scelta della solitudine e sul significato che tale scelta ebbe per Petrarca proponiamo alcune osservazioni del critico Ugo Dotti.
Valchiusa dunque o della vita solitaria. Ma in che senso? Certo [...] come l’officina «naturale» dell’arte petrarchesca; ma non questo soltanto. Trasferendosi a Valchiusa attorno al 1337, Petrarca non conquistava soltanto la propria indipendenza e autonomia; non si liberava soltanto dei fastidi chiassosi della vita cittadina; conquistava finalmente, per così dire, uno degli strumenti necessari alla vera conoscenza. Il vecchio contrasto città-campagna, l’odio per l’una e l’amore per l’altra (motivo antico della tradizione letteraria) divengono in lui – grazie a Valchiusa – dei punti fermi che rimarranno come imprescindibili per il nuovo intellettuale e ancor oggi, del resto, non c’è artista che non si compiaccia, in questa o in quella parte più remota della terra, di una propria dimora d’elezione1. Solo che per Petrarca Vaucluse non si limitò a costituire un vezzo poetico o il privato rifugio di un’inquietudine privata (come per esempio la Tivoli o la Gabii di Orazio); essa divenne piuttosto [...] il punto di partenza per l’esplorazione dell’umano tanto nella sua interiorità quanto nei suoi aspetti sociali. Ritirandosi in solitudine, Petrarca non intese né fuggire né evitare gli uomini, ma osservarli invece, e conoscerli, proprio in quanto, nella solitudine, poteva meglio conoscere e osservare se stesso. La solitudine, come quasi all’opposto i suoi primi viaggi di educazione e formazione per tanta parte dell’Europa, si configura pertanto come una delle grandi forme che l’uomo possiede per conoscere il mondo e se stesso e che, proprio in quanto tale, proprio in quanto forma del conoscere, non contraddice l’altra del viaggiare e dell’immergersi nel rapporto diretto con la società o con società altre e diverse. Al di là delle sue vistose ed emblematiche dimensioni, il giovanile «sogno di Valchiusa» poi realizzato nel concreto dell’esistenza – si profila quindi come l’aspetto sensibile di quel primato della coscienza e della libera soggettività che, mentre ambisce al possesso intellettuale della realtà esterna, sa anche che il primo punto d’appoggio le viene offerto proprio da quella interna. E in questo [...] Petrarca gettò le basi per una lotta tenace, e infine vincente, contro un diverso modo, ai suoi tempi ancora in auge, di sentire e di apprendere.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Sintetizza la tesi del critico. 2. Ricostruisci i passaggi argomentativi. 3. Che cosa intende il critico quando scrive «non c’è artista che non si compiaccia, in questa o in quella parte più remota della terra, di una propria dimora d’elezione»? 4. Il critico afferma: «Nella solitudine poteva meglio conoscere e osservare se stesso. La solitudine […] si configura pertanto come una delle grandi forme che l’uomo possiede per conoscere il mondo e se stesso e […] non contraddice l’altra del viaggiare e dell’immergersi nel rapporto diretto con la società o con società altre e diverse». Petrarca per conoscere il mondo e sé stesso sceglie la strada della solitudine; secondo te quale delle due forme ti sembra preferibile: la solitudine o l’immergersi direttamente a contatto con società anche diverse dalla propria?
Ritratto d’autore 1 485
nuovo modello di intellettuale 2 Un e una nuova visione culturale: verso l’Umanesimo
La concezione filosofica e letteraria
Sant’Agostino di Antonello da Messina (1473, tempera su tela, palazzo Abatellis, Palermo)
La polemica contro l’aristotelismo e l’esaltazione della filosofia morale Immerso nel confronto con una realtà che è ormai mutata – come abbiamo visto, l’esperienza storico-sociale dei comuni ha lasciato il posto ai regimi signorili –, Petrarca rifiuta nettamente, ormai, le interpretazioni generali e totalizzanti del mondo che dominavano nella cultura medievale: in particolare, prende le distanze dal sistema aristotelico e dalla filosofia Scolastica, in accordo del resto con le più generali tendenze della filosofia del suo tempo. Il poeta considera ormai astratta e lontana la visione enciclopedica e classificatoria della cultura ancora vigente nelle università e contrappone ai metodi della Scolastica – fondati sulla valorizzazione della logica e della dialettica – una “cultura dell’interiorità”. Per Petrarca l’unica filosofia che serva veramente all’uomo è quella morale: alle scienze naturali, come alle speculazioni astrattamente metafisiche, Petrarca contrappone l’indagine sull’interiorità dell’uomo già presente nel pensiero di Seneca e soprattutto nell’opera di sant’Agostino, principale “maestro di pensiero” per Petrarca (➜ T2 ). Il ruolo della letteratura Un ruolo formativo altrettanto importante è rivestito dalle lettere e dalla poesia, in cui per Petrarca si esprimono i più alti valori umani. Egli istituisce ormai una netta distanza tra poesia e teologia, rivendicando l’autonomia della letteratura: essa non ha il compito per Petrarca, a differenza di Dante, di comunicare immutabili verità trascendenti, ma di indurre nell’uomo la crescita morale e spirituale, di portarlo alla coscienza di sé.
PER APPROFONDIRE
Il classicismo preumanistico di Petrarca Nella personalità culturale di Petrarca è centrale il culto dell’antichità classica, concepito fin dalla prima giovinezza e alimentato per tutta la vita, che lo induce, già ai suoi esordi come poeta, a imitare i grandi autori dell’antichità (Virgilio, Livio, Seneca). Il rapporto di Petrarca con i classici prefigura, per più di un aspetto, l’età umanistica. • Mentre i contemporanei di Petrarca non avevano ancora riscoperta nella sua integrità autonoma la tradizione classica e vedevano ancora come irraggiungibili i modelli antichi, Petrarca invece coglie già in pieno la “modernità dell’antico” e si riallaccia agli autori del mondo antico per attingere dalle loro pagine verità morali e insegnamenti civili (➜ T1 ). • Nel rapportarsi ai classici, Petrarca si dissocia dalle interpretazioni talora deformanti che di alcuni di essi (si pensi a Virgilio) aveva fatto il
La crisi della Scolastica I fondamenti della filosofia Scolastica di san Tommaso e in particolare l’interdipendenza tra ragione e fede, tra teologia e filosofia, le stesse complesse categorie metafisiche su cui si strutturava il pensiero scolastico erano messi in discussione nel corso del Trecento da vari pensatori. La più radicale contestazione del rapporto fede-ragione elaborato dal tomismo viene dal francescano Guglielmo di Ockham (1290-1349), docente all’università di Oxford.
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Ockham infrange il legame tra fede e ragione. Esse operano in campi diversi e separati: la ragione ha a che fare con l’osservazione del reale e i dati dell’esperienza, la fede conduce alla conoscenza di Dio per vie del tutto autonome dalla ragione. Una distinzione che liberava la riflessione razionale-scientifica dal controllo della teologia, aprendo la strada alla futura ricerca sperimentale.
Medioevo, anticipando lo spirito critico e filologico dell’età umanistica. Allestisce lui stesso quella che è considerata la prima edizione critica mettendo a confronto, grazie alle sue competenze linguistiche, più copie delle tre Decadi di Tito Livio, per ricavarne un testo più corretto e presumibilmente vicino all’originale. Petrarca istituisce con i grandi del passato un rapporto di familiarità che sarebbe stato inimmaginabile ai tempi di Dante, in cui vigeva il concetto di auctoritas (➜ SCENARI, PAGG. 39, 59). La testimonianza più eloquente di questo nuovo modo di rapportarsi ai classici sono le lettere del XXIV libro delle Familiares, che Petrarca scrive ai grandi dell’antichità: in queste lo scrittore si rivolge a essi come se fossero suoi interlocutori (➜ T1a OL), addirittura degli amici con cui intrattenere un rapporto alla pari. In questo ideale colloquio con i classici si può scorgere il preludio di quello stretto rapporto con gli antichi scrittori latini che caratterizzerà l’Umanesimo-Rinascimento. Un Umanesimo cristiano Petrarca non vive il suo amore per i classici come conflittuale con la cultura cristiana, ma tenta di operare una sintesi fra tradizione classica e pensiero cristiano sentendosi erede e portavoce di entrambe: da qui la compresenza nelle sue opere di motivi e modelli classico-pagani e cristiano-medievali. Fondamento di questa conciliazione, per la quale si è parlato per Petrarca di “Umanesimo cristiano”, è innanzitutto l’idea di una sostanziale uguaglianza dell’animo umano nelle diverse epoche storiche, ma soprattutto la convinzione che compito della cultura è insegnare a diventare uomini migliori. Su questa base Petrarca non vede alcuna frattura, ma anzi constata una forte continuità tra pensatori come Platone, Cicerone, Seneca, vissuti in un’età precristiana, e Agostino. La scelta dominante del latino Petrarca può essere definito uno scrittore “bilingue”, nell’accezione più propria del termine: egli utilizza infatti con la stessa naturalezza ed eleganza sia il latino sia il volgare. La maggior parte delle sue opere sono però scritte in latino (usa il volgare soltanto per il Canzoniere e i Trionfi): una scelta che testimonia indubbiamente una concezione elitaria di cultura, espressione di un ceto intellettuale che tende a separarsi dalla cultura dei più. Si tratta di una condizione destinata ad accentuarsi con l’Umanesimo. Petrarca, peraltro, si serviva del latino addirittura come lingua della comunicazione
I classici dal Medioevo a Petrarca Nel Medioevo…
Per Petrarca...
i classici sono modelli irraggiungibili
i classici sono modelli cui attingere
i classici sono visti come auctoritas
si deve instaurare con i classici un rapporto di “familiarità”: ci si pone alla pari con essi
i testi classici sono soggetti a interpretazioni allegoriche e fuorvianti
i testi classici sono letti con senso della prospettiva storica
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quotidiana (lo testimoniano le note e le postille al Canzoniere, scritte appunto in latino). È probabile – è stato osservato – che Petrarca in latino addirittura pensasse. Occorre precisare che il latino di Petrarca non è più quello medievale della filosofia Scolastica, irto di tecnicismi, né d’altra parte quello infarcito di volgarismi delle cronache e dei documenti di carattere pratico. Petrarca intendeva infatti ripristinare la dignità del latino classico. Crea così un “suo” latino, modellato su Cicerone per quanto riguarda la prosa, soprattutto nelle Epistole, mentre i suoi versi riecheggiano il ritmo armonioso degli esametri virgiliani. Petrarca uomo delle contraddizioni Già i contemporanei di Petrarca avevano rilevato la presenza nel poeta di opposti richiami esistenziali e di pensiero. Un’oscillazione che fu sintetizzata nel secolo XIX dalla celebre definizione di Francesco De Sanctis, grande critico di età romantica, che inquadrò la personalità di Petrarca nell’ambito di un dissidio «tra terra e cielo». L’opera e la figura di Petrarca sono effettivamente segnate da elementi di conflittualità e da un’insoddisfazione interiore che l’autore non solo non nasconde ma addirittura esibisce, presentando se stesso ai lettori come uomo irrisolto e non come autorevole modello di vita. Un momento di transizione Le indubbie contraddizioni che percorrono la vita e le opere di Petrarca e che interessano anche il suo ruolo come intellettuale, non sono solo espressione di un dramma individuale, ma appaiono in rapporto a un momento storico di crisi e di transizione negli scenari storico-sociali, valoriali e culturali. Petrarca interpreta e amplifica, per la sua acuta sensibilità, il contrasto tra due grandi modelli culturali: da un lato la visione del mondo medievale, giunta ormai al crepuscolo, incentrata sul trascendente e sulla svalutazione della dimensione terrena, dall’altro l’incipiente civiltà umanistico-rinascimentale, caratterizzata dalla rivalutazione della sfera terrena e dall’autonomia della cultura e della ricerca intellettuale rispetto ai valori religiosi.
Due visioni del mondo a confronto Visione tardo-medievale
Visione preumanistica
aspirazione profonda all’unità e alla coerenza
consapevolezza e quasi compiacimento delle proprie contraddizioni
desiderio di ascesi e tensione religiosa
fascino della bellezza e della sensualità
desiderio di gloria e aspirazione al successo letterario
consapevolezza della precarietà e transitorietà di ogni cosa umana
attrazione per la dimensione del viaggio e la vita pubblica nel ruolo dell’intellettuale
amore per la solitudine e il raccoglimento
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T1
Petrarca e i classici Moltissimi sono, nelle opere di Petrarca, e soprattutto nell’epistolario, i riferimenti al modo nuovo in cui lo scrittore leggeva gli amati classici. Abbiamo scelto due brevi passi.
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T1a Francesco Petrarca La lettura dei classici come occasione di meditazione Lettere familiari, XXIV, 1
T1b
Francesco Petrarca
I classici come interlocutori viventi Lettere familiari, I, 1 F. Petrarca, Familiares, a c. di U. Dotti, Utet, Torino 1978
Il breve stralcio della prima lettera delle Familiares documenta l’ottica tutta nuova con cui Petrarca si rivolge ai grandi autori della latinità che ispirerà poi, come lo scrittore stesso dichiara nel passo, delle vere e proprie “lettere” loro inviate nell’ultimo libro delle Familiares.
[... Chi] ha mai udito da me un lamento per l’esilio, le malattie, le liti, la carriera, le controversie giudiziarie? Ho forse piagnucolato per l’abbandono della casa paterna, per il patrimonio perduto, per il mio buon nome offuscato, per i pagamenti differiti, per la lontananza degli amici? In tali difficoltà Cicerone si è comportato con tanta debolezza che, quanto mi piace il suo stile, tanto sono sovente offeso da ciò che le parole dicono. Mettici poi quelle sue lettere litigiose, quei suoi insulti e diverbi con stupefacente voltafaccia, con persone illustri e da lui stesso poco prima tanto elogiate; leggendo queste sue cose, affascinato ma sdegnato al contempo, non ho potuto fare a meno, sotto l’impeto della collera, di scrivergli, quasi dimenticandomi del tempo, come a un amico vivente anche per quella dimestichezza che ho con le sue opere, e di rimproverarlo per tutto quello che mi era dispiaciuto.
Analisi del testo Petrarca rimprovera a Cicerone le sue debolezze Petrarca si rivolge qui a Cicerone. Nel passo l’autore dichiara il suo dissenso dall’“uomo Cicerone”, che nell’Epistolario, in gran parte scoperto proprio da Petrarca, mostra meschinità e debolezze, in particolare in rapporto alla penosa condizione dell’esilio. Le contraddizioni palesi dell’antico scrittore suscitano lo sdegno di Petrarca, ispirandogli una lettera accusatoria. Anche da queste poche parole possiamo cogliere l’enorme distanza che separa l’atteggiamento riverente di Dante verso l’auctor Virgilio dal rapporto confidenziale che Petrarca istituisce fra uomini colti della stessa levatura, precorrendo l’atteggiamento dell’Umanesimo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto del brano in 5 righe e individua il tema centrale. COMPRENSIONE 2. Per quale motivo Petrarca decide di scrivere a Cicerone? ANALISI 3. In che modo Petrarca si rivolge ai grandi del passato?
Interpretare
SCRITTURA 4. Petrarca dichiara il suo dissenso per certe affermazioni di Cicerone contenute nel suo epistolario. Scrivi una lettera a un grande del passato sia esso uno scienziato, un filosofo o uno scrittore ed esprimi il tuo dissenso o la tua approvazione per alcuni aspetti del suo pensiero che hai studiato.
Ritratto d’autore 1 489
Due testi polemici Per testimoniare la visione petrarchesca della filosofia e della cultura sono molto significativi, due testi polemici nei quali lo scrittore enuncia in modo particolarmente vibrante le proprie idee al proposito: le Invective contra medicum quendam (Invettive contro un medico) e il De sui ipsius et multorum ignorantia (Dell’ignoranza propria e di molti). L’occasione delle Invective contra medicum quendam (1352-1355) fu offerta dal contrasto con un eminente medico, che si era offeso per le critiche di Petrarca nei confronti delle sterili dispute dei medici che curavano, in pieno disaccordo tra loro, papa Clemente VI. Petrarca accusa di ciarlataneria e di ignoranza coloro che esercitano professioni da cui traggono guadagno, come la medicina, ostenta disprezzo per il sapere tecnico-scientifico, a cui contrappone la disinteressata nobiltà della poesia e la funzione civile delle lettere, collocate ai vertici delle gerarchie del sapere, come sarà poi consueto per gli umanisti. Per Petrarca l’intellettuale coincide essenzialmente con il letterato, cui egli affida una missione civilizzatrice tra gli uomini. Il trattatello De sui ipsius et multorum ignorantia (1367-1370) è polemicamente rivolto contro quattro filosofi averroisti che avevano accusato lo scrittore di ignoranza. Al dogmatico sapere aristotelico Petrarca contrappone la superiorità della filosofia morale, che ha come obiettivo la conoscenza del proprio “io” interiore e il raggiungimento della virtù attraverso un faticoso percorso di perfezionamento etico.
T2
Francesco Petrarca
La lettura di Aristotele serve forse a renderci più colti, ma non migliori Sull’ignoranza sua e di molti F. Petrarca. De sui ipsius et multorum ignorantia (Sull’ignoranza sua e di molti), in Prose, a c. di G. Martellotti, P.G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Ricciardi, MilanoNapoli 1955
Nel passo che qui presentiamo (tratto da uno dei suoi scritti polemici), Petrarca prende nettamente le distanze dal culto dogmatico di Aristotele, che era stato tipico della cultura universitaria medievale e contrappone ai testi del filosofo greco la lezione di autori come Cicerone e Seneca. In realtà, nelle parole di Petrarca si può intravvedere una nuova concezione del sapere.
Ho letto, se non erro, tutte le opere morali d’Aristotele, certe altre le ho sentite esporre, e prima che fosse messa a nudo l’enorme mia ignoranza1 sembrava che ne capissi qualcosa. Da quelle opere me ne tornai forse più dotto, ma non migliore, come pur sarebbe stato conveniente, e spesso tra me, e talvolta anche con gli altri, mi lagno che nella realtà non si verifichi ciò che nel primo libro dell’Etica2 quel filosofo premette: che cioè egli vuole insegnare quella parte della filosofia non per aumentare il nostro sapere, ma per farci buoni. In verità m’accorgo ch’egli ha definito con acutezza la virtù, e l’ha egregiamente suddivisa, trattando degli attributi che sono propri sia del vizio sia della virtù. Dopo aver imparato tutto questo, io so un po’ più di quel che sapevo, ma l’animo è rimasto quello che era e la volontà è la medesima, e il medesimo sono io. In realtà, altro è sapere e altro è amare; altro è comprendere e altro è volere3. Egli insegna, non
1 prima che... mia ignoranza: Petrarca
2 Etica: è l’Etica nicomachea.
ironizza sulla propria ignoranza, alludendo alla critica mossagli dai giovani averroisti che motiva il suo intervento polemico.
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3 altro è sapere... altro è volere: Petrarca ama condensare il suo pensiero in massime, come in questo caso, che possono meglio rimanere impresse nel lettore.
lo contesto, che cos’è la virtù; ma la sua lezione non possiede – o ne possiede pochissimi – quegli sproni, quei caldi appelli che spingono l’anima e la infiammano ad amare la virtù e ad aborrire il vizio. Chi li cerca può trovarli nei nostri scrittori, specialmente in Cicerone e Seneca. [...]
Analisi del testo Il significato della cultura Prendendo spunto dall’accusa di ignoranza che gli era stata rivolta, Petrarca qui evidenzia i limiti dell’opera di Aristotele ed enuncia una visione della cultura e delle sue funzioni di tipo nuovo: riconosce ad Aristotele grande capacità di definire e classificare ciò che concerne la virtù, ma gli rimprovera di non insegnare ad amare la virtù.Per Petrarca la conoscenza fine a se stessa non serve, solo una conoscenza che diventa maestra di vita è apprezzabile. A nulla servono allora testi, pur autorevoli, che non stimolano ardentemente in noi l’amore per la vita virtuosa e non ci danno la volontà di perseguirla, cosa che, a differenza di Aristotele, ci insegnano i grandi autori della latinità.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Che cosa rimprovera Petrarca ad Aristotele? Che cosa cercava nella sua Etica che poi non ha trovato? 2. Quali autori Petrarca contrappone ad Aristotele? ANALISI 3. Quale significato riveste secondo te questa contrapposizione? LESSICO 4. Il breve testo è costruito sull’opposizione di alcune parole chiave che delineano indirettamente una nuova visione della cultura di cui Petrarca si fa portavoce. Dopo averle individuate, inseriscile in uno schema che visualizzi l’antitesi.
Interpretare
SCRITTURA 5. Sulla base di questo testo ed eventualmente anche di ➜ T3 OL scrivi un breve testo (max 20 righe) dal titolo: “La concezione di cultura di Petrarca”.
Francesco Petrarca nello studium (particolare), affresco anonimo (ca. 1385, Reggia Carrarese, Sala dei Giganti, Padova).
online T3 Francesco Petrarca Contro la cultura enciclopedica Sull’ignoranza sua e di molti
Ritratto d’autore 1 491
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Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico di Petrarca alla ricerca 1 L’itinerario della propria identità di scrittore L’interesse per la dimensione storico-erudita Petrarca esordì come autore di rime in volgare, scritte in varie occasioni e del tutto sciolte l’una dall’altra. Nei primi anni della sua produzione egli era però anche attratto dal modello del grande “autore” della tradizione classica, che compone opere su grandi temi e illustri personaggi nella lingua della letteratura “alta”, cioè in latino. Era da queste ultime che lo scrittore si attendeva la gloria e la fama presso i posteri, e in particolare dall’Africa, un grande poema sulla guerra punica (➜ PAG. 493). Quasi tutte le opere di Petrarca sono in latino: sono scritti in volgare i Trionfi, un poema allegorico incompiuto, e il Canzoniere, il suo capolavoro e una delle opere più importanti della letteratura italiana. La crisi spirituale e il mutamento di vita: mito o realtà? Nel Secretum, una sorta di “libro-confessione”, oltre che in alcune lettere, Petrarca ricostruisce a posteriori una crisi spirituale e una vera e propria svolta (la chiama mutatio vitae) che l’avrebbe colto quando aveva circa quarant’anni (1344), destinata a trasformare radicalmente il suo modo di essere e le sue scelte letterarie. La critica dava un tempo ampio credito all’idea di un vero e proprio spartiacque nella vita e nella produzione di Petrarca. La crisi sarebbe stata motivata dal concorrere di eventi biografici assai rilevanti per lo scrittore, collocati nel 1343: da un lato la nascita a Valchiusa di una figlia illegittima, Francesca, che appariva al poeta testimonianza palese della sua sensualità; dall’altro, nello stesso anno, la monacazione dell’amato fratello Gherardo, che col suo esempio indicava la strada opposta dell’ascesi. La critica moderna più accreditata ha ormai da tempo ridimensionato la cosa: «si tratta con ogni probabilità» scrive ad esempio Vinicio Pacca «di una costruzione fittizia, architettata da Petrarca sulla falsariga di vari precedenti letterari per accreditare una presunta “conversione” che avrebbe avuto luogo verso i quarant’anni».
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Per approfondire Una data simbolica per una svolta paradigmatica
La scelta di una “letteratura dell’interiorità” Se di svolta si può parlare – almeno sul piano delle scelte letterarie – essa avviene in realtà negli anni tra il 1348 e il 1353, dopo il tragico evento della peste, nello stesso periodo in cui, secondo gli ultimi studi critici, Petrarca scrive il Secretum, dialogo tra Francesco (l’autore stesso) e sant’Agostino, motivato dalla ricerca da parte di Petrarca della propria strada di uomo, ma soprattutto di scrittore. Nella finzione letteraria è proprio Agostino a indicarla a Francesco: «Che ti giova cantare dolcemente per gli altri, se non odi te stesso?... […] Deponi i gravi pesi della storia: le gesta romane sono state illustrate a sufficienza [...]. Abbandona l’Africa e lasciala ai suoi possessori [...]. Lasciate dunque queste opere, restituisci finalmente te a te stesso». Alla luce di questa presa di coscienza, guidata dal pensiero di Agostino, Petrarca rinuncerà definitivamente a perseguire la gloria attraverso le grandi opere storiche
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e erudite; il suo interesse si orienterà invece definitivamente verso una produzione letteraria incentrata sull’esplorazione della propria interiorità e sui grandi temi morali ed esistenziali. «Raccogliere i frammenti dell’anima»: il progetto autobiografico Il mutamento non comporta solo un sostanziale spostamento di interesse (dalla storia e dall’eloquenza alla meditazione interiore), ma si traduce soprattutto nell’esigenza di conferire ordine e unitarietà a una produzione rimasta fino ad allora sparsa e slegata. Come Francesco stesso confessa ad Agostino nel Secretum, a un certo punto della sua vita Petrarca sente il bisogno di «raccogliere i frammenti dell’anima», mettendo contemporaneamente ordine nella sua produzione e nel suo spirito: si profila così un nuovo percorso etico ed esistenziale e insieme un nuovo impegno letterario. Intorno al 1350, dopo la morte di Laura (1348), evento chiave nella biografia umana e letteraria di Petrarca, le lettere precedentemente scritte e le composizioni poetiche sparse, già note al pubblico, diventano oggetto di un progetto compositivo unitario: Petrarca ricompone i suoi componimenti sparsi, frutto di momenti staccati e diversi della vita dell’io, in un libro che costituisca nel suo insieme un autoritratto da consegnare ai posteri, in cui sia registrata la sua storia personale.
2 Una multiforme produzione: il Petrarca latino Nella vasta produzione in latino di Petrarca si possono individuare due filoni (ai quali si aggiungono le opere di carattere polemico di cui già si è parlato): le opere di ispirazione storico-erudita che anticipano il gusto umanistico e la cui ideazione appartiene per lo più al periodo giovanile, e le opere di ispirazione moralereligiosa. Trattiamo a parte il Secretum e le Epistole, data l’importanza che queste opere rivestono per la ricostruzione della personalità umana e artistica di Petrarca.
Opere di ispirazione storico-erudita Africa Poema epico in 9 libri, composto in esametri e dedicato a Roberto d’Angiò, che proprio per quest’opera lo incoronò poeta in Campidoglio. Del resto, proprio dall’Africa Petrarca si aspettava la fama, ma il poema, iniziato tra il 1338 e il 1339, rimase incompiuto. L’argomento è costituito dalla seconda guerra punica, vista come la lotta tra l’humanitas romana e la barbarie cartaginese. Per il poema Petrarca utilizza come modello poetico Virgilio e come fonte storica Tito Livio, due tra gli autori più amati sia dal Medioevo sia dall’incipiente umanesimo. Interessante è la presenza nell’opera di temi cari a Petrarca lirico volgare, come l’amore infelice (episodio di Sofonisba e di Massinissa) e la caducità della vita umana e delle cose (lamento di Magone morente). De viris illustribus (Gli uomini illustri) Quest’opera in prosa fu composta in diverse fasi (avviata nel 1338-1343, fu ripresa tra il 1351 e il 1353) e ampliata notevolmente nel tempo. Contiene soprattutto le vite di illustri personaggi romani, con l’aggiunta di alcuni personaggi biblici e mitologici. Nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto abbracciare l’intera storia dell’umanità, ma il progetto non ebbe compimento. Il modello di riferimento è in questo caso il latino Svetonio, autore delle Vite. L’intento, comune a tutto il gruppo delle opere storico-erudite, è quello di esaltare la grandezza del mondo classico, i cui grandi uomini potranno servire da esempio ai contemporanei del poeta. Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico 2 493
Rerum memorandarum (I fatti memorabili) In 4 libri, composti tra il 1343 e il 1345, è un’opera incompiuta di intento storico-morale: si tratta di una raccolta di aneddoti ed esempi attinti dalla storia e dalle opere letterarie latine. Il modello è ancora una volta un autore classico: i Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo (I sec. d.C.). Bucolicum carmen (Carme bucolico) È un’opera più tarda rispetto alle precedenti. Costituito da 12 ecloghe composte tra il 1346 e il 1357, ha come modello il Virgilio delle Bucoliche, anche nelle frequenti allusioni a eventi contemporanei: come i pastori virgiliani, anche i pastori delle ecloghe petrarchesche alludono a personaggi reali, contemporanei del poeta.
Opere di ispirazione morale-religiosa Le opere di questa tipologia, sicuramente di maggior interesse per il lettore di oggi, traggono ispirazione dalla meditazione religiosa ed etica di Petrarca, condotta attraverso le letture dei filosofi classici e dei testi cristiani; sono in varia misura riconducibili alla tematica psicologico-esistenziale centrale nell’opera e nella figura intellettuale del poeta. De vita solitaria (La vita nella solitudine) In quest’opera, composta tra il 1346 e il 1356, lo scrittore delinea un ideale di vita solitaria intesa come evasione dagli affanni e dalle preoccupazioni della vita sociale e come otium letterario. Le suggestioni dei classici sono evidenti nella ricerca dello scenario opportuno alla meditazione solitaria, il locus amoenus, e nell’esaltazione dello studio, quale premessa indispensabile per la conoscenza di sé a cui Petrarca aspira: «La solitudine senza cultura è certo un esilio, un carcere, una tortura. Aggiungivi la cultura: diventa la patria, la libertà, il godimento». De otio religioso (La tranquilla esistenza dei religiosi o La quiete della vita religiosa) Scritto dopo una visita al fratello Gherardo da pochissimo divenuto monaco a Montreaux, costituisce come l’opera precedente un’esaltazione della vita contemplativa e solitaria, in questo caso legata alla vita monacale. De remediis utriusque fortunae (I rimedi alla buona e alla cattiva sorte) Serie di dialoghi tra figure allegoriche (come Ragione e Speranza), composti tra il 1354 e il 1360, in cui, dietro il modello di Cicerone, Seneca e Boezio, si individuano i rimedi contro gli eccessi sia della gioia sia del dolore. La figura del sapiens, il saggio stoico, che sa reagire con equilibrio alle mosse della fortuna, costituì un punto di riferimento per gli umanisti.
3 Il Secretum, il libro dei conflitti L’opera e la data di composizione Il dialogo in tre libri noto come Secretum, ma intitolato secondo il manoscritto più autorevole De secreto conflictu curarum mearum (Del segreto conflitto dei miei affanni), registra quella crisi interiore il cui esito furono le scelte letterarie di cui sopra si è parlato e costituisce per certi versi una sorta di autocommento al Canzoniere stesso. Petrarca afferma di avere scritto l’opera sedici anni dopo aver conosciuto Laura, ossia tra l’aprile del 1342 e l’aprile del 1343. In realtà da molti indizi e rimandi sappiamo oggi che il Secretum fu scritto parecchio tempo dopo, probabilmente a tappe, tra il 1347 e il 1353.
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La struttura e i modelli Nel Proemio dell’opera è introdotta una visione: a Francesco appare una donna di grande bellezza. Insieme a lei avanza un uomo di nobile e venerabile aspetto, sant’Agostino. La donna, che si rivela essere la Verità, prega il santo di intervenire per salvare Francesco, spiritualmente turbato e confuso (una situazione che richiama evidentemente la richiesta di aiuto rivolta da Beatrice a Virgilio nella Commedia). La Verità assisterà senza intervenire al loro colloquio: esso si svolge in tre giornate, a cui corrispondono i tre libri che costituiscono l’opera. L’opera è strutturata nella forma di un dialogo che oppone direttamente, in un certo modo “dal vivo”, le parole di due personaggi, Francesco, che rappresenta il poeta stesso, e Agostino appunto, il grande pensatore cristiano che Petrarca considerava uno dei suoi maestri spirituali. Petrarca sceglie la forma del dialogo non solo per suggestione dei modelli classici, ma anche, e soprattutto, perché la considerava adatta a “sceneggiare” il tema che gli stava a cuore, ovvero la sua irrisolta “duplicità”. La fonte principale è senz’altro Cicerone, che a sua volta si rifà a Platone ma, come sempre nelle opere petrarchesche, l’apporto classico coesiste e si armonizza con quello degli scrittori cristiani, in particolare coi Soliloquia di sant’Agostino e col De consolatione philosophiae di Severino Boezio. I contenuti Nel primo libro Agostino e Francesco discutono della «volontà inferma» del poeta che confonde il non volere con il non potere; nel secondo libro si attua un vero e proprio esame di coscienza di Francesco che, guidato da Agostino, passa in rassegna a uno a uno i peccati capitali esaminando il proprio comportamento al riguardo: egli appare quasi immune dalla gola, dall’invidia e dall’ira, mentre particolarmente pericolosi per lui sono la lussuria, la superbia e, ancor più, l’accidia, ovvero quell’indolenza e quella fragilità della volontà non priva di una sorta di autocompiacimento che impedisce a Francesco di intraprendere un retto cammino; nel terzo libro, infine, si analizzano le due grandi passioni del poeta, l’amore e l’attrazione per la gloria (➜ T5b OL). Attratto da queste due forze centrifughe, Francesco, secondo l’accusa di Agostino, non ha la forza di rivolgersi pacificato a Dio. Il serrato confronto tra i due interlocutori si chiude senza una vera e propria risoluzione: alla presa di coscienza delle sue manchevolezze non si accompagna infatti in Francesco una conseguente, ferma, volontà di cambiare la sua vita. Gli “attori” del dialogo: Francesco e Agostino Il protagonista, Francesco, rappresenta l’autore in un particolare momento della sua vita e del suo cammino. Quanto al sant’Agostino del Petrarca, pur avendo tutte le caratteristiche del pensiero del grande autore cristiano, è un personaggio della sua fantasia (del resto lo stesso poeta, in una lettera a Giacomo Colonna, parla di «simulatus ille Augustinus», “quell’Agostino fittizio”). Nel Secretum Agostino assume il ruolo di un maestro che veglia amorosamente sul peccatore Francesco per salvarlo (si intravede in questa ideazione la suggestione dantesca del rapporto Dante-Virgilio nella Commedia) e lo sottopone a una vera e propria “inquisizione”, secondo lo schema del sacramento della “confessione”. Un gioco di specchi: Agostino “doppio” di Francesco Francesco vede però in Agostino non solo il grande maestro di sapienza e di moralità, ma anche l’uomo che in passato ha conosciuto tentazioni, cedimenti e pentimenti, proprio come accade anche a lui. In questo senso Agostino è al contempo un doppio di Francesco e il modello ideale a cui guardare: se Agostino è stato un tempo ciò che tuttora è Francesco, quest’ultimo a sua volta può e deve diventare ciò che Agostino è diventato. Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico 2 495
Un libro “segreto”? Il Secretum riprende la struttura del sacramento della confessione, con il quale dovrebbe condividere anche la necessità della segretezza. In effetti Petrarca stesso si rivolge al suo libro definendolo «il mio segreto», un’opera che avrebbe dovuto evitare «i ritrovi degli uomini» e rimanere esclusivamente con il suo autore. Secondo tale dichiarazione, il libro non sarebbe stato scritto per essere diffuso, e in effetti non fu pubblicato durante la vita di Petrarca (anche se ne circolava notizia). D’altra parte è difficile pensare che il Secretum fosse davvero stato scritto solo per l’autore stesso; Petrarca pensava probabilmente a un pubblico di lettori futuri, come suggerisce il critico Marco Santagata; in caso contrario avremmo a che fare con una specie di autoanalisi, inconcepibile per un uomo del Trecento, perfino per un uomo così modernamente teso a scrutare se stesso come Petrarca.
Sant’Agostino legge le epistole dell’apostolo Paolo, in un particolare delle Storie di Sant’Agostino di Benozzo Gozzoli (1465, San Gimignano, chiesa di Sant’Agostino).
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Francesco Petrarca
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L’accidia, il male dell’uomo moderno Secretum II, 13 F. Petrarca, Secretum, trad. e a c. di U. Dotti, Archivio Guido Izzi, Roma 1993
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Nell’esame di coscienza di Francesco, guidato da Agostino secondo la ricognizione dei sette peccati capitali, il peccato forse più grave appare quello dell’accidia: già presente nella casistica dei peccati ritratta nella Commedia, nella riflessione del Secretum l’accidia diventa sinonimo del conflitto interiore paralizzante del poeta, e forse quasi sinonimo della malattia interiore dell’uomo moderno.
A. Ti possiede un morbo pestifero: i moderni lo chiamano «accidia»1, gli antichi2 «egritudo»3. F. Il suo solo nome mi fa inorridire. A. Naturalmente, ché ne sei stato afflitto a lungo e in modo assai grave. F. Lo ammetto, e bisogna aggiungere che mentre negli altri mali dei quali soffro c’è pure qualcosa di dolce, anche se falso, in questo tormento tutto è aspro, amaro e spaventoso4; la via della disperazione è sempre aperta e tutto non fa che spingere verso la morte le anime colpite da tale sventura. E non basta: delle altre passioni soffro attacchi frequenti, ma brevi e passeggeri; questa peste, invece, mi assale talora con tale forza che mi tiene avvinto ad essa e mi tormenta per giorni e notti; e la mia giornata, allora, non ha più né luce né vita e diviene del tutto simile a una notte infernale e a una morte crudelissima. E – cosa che può ben dirsi il colmo delle miserie – mi pasco5 talmente di lacrime e di dolore, e con una voluttà così funesta6, che me ne stacco poi a malincuore. A. Conosci perfettamente il tuo male; ora ne conoscerai la ragione. Avanti, dimmi: cos’è che ti contrista7 tanto? La fuga delle cose mondane? dolori fisici? oppure qualche ingiuria del destino troppo avverso? F. Una sola di queste ragioni non avrebbe forza sufficiente. Se dovessi combattere con questi mali ad uno ad uno, risulterei vittorioso. Il fatto è che son travolto da un intero esercito. A. Precisa con maggior esattezza ciò che ti opprime. F. Ogni volta che il destino m’infligge una ferita, resisto impavidamente8, ricordandomi come spesso, per quanto colpito gravemente, io sia riuscito a uscirne vincitore. Quando poi esso raddoppia i suoi colpi, comincio a vacillare un poco; e se al secondo ne succede un terzo od un altro, allora mi vedo costretto a ritirarmi nella rocca della ragione, non già però in fuga precipitosa, ma con ordine. Se però la fortuna mi viene addosso circondandomi con tutte le sue schiere, e per espugnarmi ammassa tutte le miserie della condizione umana, e cioè la memoria degli affanni passati con la paura di quelli che dovranno venire, allora finalmente9, assalito da ogni lato e atterrito da tanta congerie10 di sciagure, levo alti i lamenti. Il mio grave dolore nasce di qui. Mi trovo infatti nelle condizioni di colui che sia chiuso da ogni parte da un numero enorme di nemici, senza possibilità di scampo, senza speranza di misericordia, senza
1 «accidia»: stato d’animo caratterizzato da inerzia spirituale e perenne insoddisfazione. 2 gli antichi: gli scrittori latini. 3 «egritudo»: è il lat. aegritudo “infermità fisica”, ma anche, “malessere spirituale, sofferenza”.
4 aspro, amaro e spaventoso: gli aggettivi sono disposti in climax. 5 mi pasco: mi nutro. 6 una voluttà così funesta: un senso di piacere così angoscioso. 7 contrista: affligge, opprime.
8 impavidamente: con coraggio. 9 finalmente: alla fine. 10 congerie: massa.
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conforto. Tutto gli è ostile: le macchine da guerra sono già drizzate; sotto terra sono già stati scavati i cunicoli; già tremano le torri; già le scale sono state appoggiate ai bastioni; i ponti sono già stati agganciati alle mura e il fuoco avanza sugli assiti11. Dovunque le spade balenano, dovunque il volto dei nemici minaccia. Scorgendo tutto questo e vedendosi davanti agli occhi la morte ormai vicina, non si dovrà dunque avere paura? E non si dovrà piangere quando, anche senza tutti questi pericoli, la sola perdita della libertà rappresenta, per gli uomini forti, un grave dolore? A. Per quanto abbia esposto i tuoi affanni in modo abbastanza confuso, tuttavia riesco a comprendere che la ragione di tutti i tuoi mali è una impressione sbagliata, un’idea che ha già prostrato e prostrerà molte altre persone. Tu pensi di star male? F. Malissimo. A. Per quale ragione? F. Certamente non per una sola: sono infinite. A. Fai come coloro che, quando subiscono un’offesa anche lieve, subito si ricordano degli antichi affronti. F. Non c’è in me ferita così antica da poter essere stata cancellata dall’oblio: tutte quelle che mi tormentano sono recenti. E se pure il tempo ne avesse sanato qualcuna, la fortuna è tornata così spesso a colpirmi nello stesso punto che non c’è cicatrice che sia valsa a rimarginare la piaga aperta. Mettici12 l’odio e il disprezzo della condizione umana: son così tante le ragioni dalle quali mi sento oppresso che non posso che essere come sono: tristissimo. Chiama la mia malattia come vuoi, accidia, «egritudo» o come altro ti pare: non ha importanza. Sulla sostanza siamo d’accordo. A. Giacché vedo che il male ti si è abbarbicato addosso con radici profonde, non basterà reciderlo in superficie: rinascerebbe immediatamente. Bisogna strapparlo alle radici. Solo che sono incerto da dove cominciare, tante sono le cose che mi rendono perplesso. Facilitiamo allora l’esito del lavoro col suddividerlo per argomenti. Dimmi dunque: quale ti sembra la cosa più fastidiosa? F. Tutto quello che immediatamente vedo, che ascolto o che sento. A. Diamine! Non ti piace nulla di nulla? F. Nulla o quasi nulla. A. Mi auguro che ti piaccia almeno ciò che è salutare! Rispondimi allora: cosa ti dispiace più di tutto? F. Ti ho già risposto. A. Sono tratti caratteristici di ciò che ho definito accidia: nulla che tu abbia ti appaga.
11 sugli assiti: sulle palizzate.
12 Mettici: aggiungici.
Analisi del testo Una autoanalisi moderna nel nome dell’“accidia” Il passo proposto è certamente tra i più suggestivi e moderni del Secretum. Rivela infatti una notevole capacità di diagnosi e analisi delle dinamiche psicologiche in tempi in cui non esisteva ancora la psicoanalisi e non era certo diffusa come oggi la lettura del disagio interiore e dei comportamenti più in generale. L’efficacia dell’analisi è anche dovuta all’ideazione, che sta alla base del Secretum, dei due interlocutori, Francesco e Agostino, di fatto uno sdoppiamento dell’autore in due voci, l’una delle quali in genere accusatoria, l’altra autodifensiva. In questo caso però Agostino non assume tanto il ruolo di accusatore, ma piuttosto, con le sue incalzanti domande e continui inviti di chiarimenti e precisazioni, quello di “facilitatore” dell’autoanalisi di Francesco-Petrarca. Un’autoanalisi che, ben più che i riferimenti all’amore
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per Laura (➜ T5a ) o all’attaccamento alla fama e alla gloria (➜ T5b OL), mette a fuoco il vero nodo della personalità di Petrarca: appunto l’accidia, una condizione psicologica che è difficile superare, sia per la sua complessità, sia per la tendenza, a cui Francesco allude nel passo, a una sorta di identificazione in essa, a uno sterile compiacimento della propria condizione: «…mi pasco talmente di lacrime e di dolore, e con una voluttà così funesta, che me ne stacco poi a malincuore».
Dall’accidia medievale al malessere esistenziale Al tempo di Petrarca l’accidia era ancora uno dei peccati capitali. Nel VII canto dell’Inferno Dante colloca gli accidiosi nello stesso girone degli iracondi: sospirano, sommersi nel fango della palude Stigia. Più che all’ottica medievale, che implica un severo giudizio morale e considera l’accidia una colpa, Petrarca si ricollega però al mondo classico in cui era usato il termine aegritudo che già allude a una sorta di malattia interiore: un’accezione dell’accidia che Petrarca fa sua e approfondisce, facendo dell’accidia una manifestazione del male di vivere, del tedio esistenziale che paralizza la volontà. L’accidia è insieme il frutto di una somma insostenibile di mali, di esperienze dolorose, ma è anche, e forse soprattutto, la conseguenza di una visione amara, fortemente pessimistica, che dell’esistenza coglie soltanto la labilità e la miseria della condizione umana. Una visione che deriva, secondo Agostino, da “un’impressione sbagliata”, oggi diremmo da una percezione distorta del reale che finisce per amplificare eccessivamente gli aspetti negativi e crea una paralisi della volontà.
Lo stile Come gli altri testi del Secretum, il passo si articola su un dialogo serrato tra i due interlocutori. Si può notare che in questo caso lo spazio maggiore è occupato dalle riflessioni di Francesco, impegnato ad analizzare la sua condizione. Nelle sue parole spiccano per la loro frequenza e incisività le immagini metaforiche tratte dal campo semantico della guerra, con una grande densità di termini militari, anche molto specifici, che rimandano all’idea che domina nel passo, dell’aggressione da parte di forze ostili che forse provengono dall’io del poeta stesso.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Dividi il brano in sequenze dando a ognuna di esse un titolo; poi organizza i contenuti in una sintesi (max 10 righe). ANALISI 2. Individua nel testo le caratteristiche salienti dell’accidia quale risulta dall’analisi di Petrarca. natura dell’accidia: ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� origine dell’accidia: ������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������ effetti dell’accidia: �������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� LESSICO 3. Analizza il lessico e rintraccia nel testo i termini che appartengono al campo semantico della guerra. STILE 4. Nel testo si fa largo uso di immagini metaforiche: individua le principali, indica il campo metaforico a cui afferiscono e cerca di spiegarne la funzione in rapporto al contenuto del testo.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
TESTI A CONFRONTO 5. Nella Commedia gli accidiosi sono severamente giudicati da Dante, che assegna loro una pena squallida, che traduce il sostanziale disprezzo dello scrittore per questa categoria di peccatori. Leggi (o rileggi) il passo del canto VII dell’Inferno che riguarda gli accidiosi (vv. 115-126): commenta la definizione che ne dà Dante e metti a confronto la visione dantesca dell’accidia con quella petrarchesca. Quali differenze noti? Come le spieghi? 6. In questo passo Petrarca racconta ad Agostino il suo male interiore: l’accidia. Ti è mai capitato di trovarti nella condizione descritta da Petrarca? Come hai reagito? Ti sei fatto sopraffare o hai trovato il modo di uscire da una condizione che penalizza anche la volontà?
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I due ostacoli al perfezionamento morale di Francesco
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Nel III libro del Secretum, l’esame di coscienza a cui Agostino induce (e talvolta quasi costringe) Francesco si concentra su due grandi temi, centrali nella vita e nell’immaginario poetico di Petrarca: l’amore per Laura e l’amore per la gloria. I due passi che presentiamo si riferiscono rispettivamente al primo e al secondo tema e contengono spunti essenziali per comprendere le tematiche dello stesso Canzoniere.
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L’amore per Laura Secretum III, 5 F. Petrarca, Secretum, trad. e a c. di U. Dotti, Archivio Guido Izzi, Roma 1993
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Nelle pagine precedenti al passo, Petrarca-Francesco ha appena sostenuto che nel suo amore per Laura non vi fu nulla di turpe e di colpevole, perché egli fu attratto dallo spirito di Laura, dalle sue qualità interiori e non dal suo corpo, dalla sua bellezza fisica. Inesorabile è la contestazione di Agostino (che arriva a parlare di Laura come di una muliercula, una “donnetta”, trasformata in dea, in santa dall’esaltazione di Francesco) alle sempre più deboli argomentazioni di Francesco. Se quest’ultimo sostiene di essersi potuto elevare, di essersi distinto dal volgo grazie a Laura, Agostino ribatte che anzi avrebbe potuto diventare un grand’uomo se non fosse stato attratto da lei.
A. [... È] proprio costei che tu celebri e cui dici di dover tutto, colei che ti condusse alla rovina. F. Buon Dio, e come potrai persuadermene? A. Ella ha allontanato il tuo animo dall’amore delle cose celesti e dal Creatore l’ha rivolto al desiderio della creatura: e questa, e solo questa, è sempre stata la via più rapida alla morte1. F. Non dare un giudizio precipitoso, ti prego: l’amore per lei mi ha indubbiamente consentito di amare Iddio. A. Ma ha invertito l’ordine. F. Cioè? A. Mentre ogni creatura deve essere amata per amore del Creatore, tu invece, preso dal fascino della creatura, hai amato il Creatore non come si conviene, ma ammirandone soltanto il suo artefice2, quasi non avesse creato nulla di più bello. E sì che la bellezza corporea è l’ultima delle bellezze. F. Chiamo a testimonio questa che è qui presente3 – e con lei la mia coscienza – che, come ho già detto prima, non ho amato il suo corpo più della sua anima. E te ne potrai convincere da questo: via via che ella è andata avanti negli anni – irreparabile colpo per la sua bellezza fisica –, ancor più saldo io sono divenuto nel mio primo pensiero. Sebbene infatti col trascorrere del tempo il fiore della sua giovinezza declinasse visibilmente, cresceva con gli anni lo splendore dell’animo; e ciò mi diede appunto la forza per perseverare nel mio amore come mi aveva dato la prima spinta ad amare. Se mi fossi invece smarrito dietro il suo corpo, chissà da quanto tempo avrei dovuto mutare proposito.
1 morte: si intende la morte dell’anima, la caduta nell’abiezione morale.
2 ammirandone soltanto il suo artefice: ammirando in Dio solo l’artefice (il creatore) di Laura.
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3 questa… presente: si tratta della Verità, che assiste al colloquio tra Francesco e Agostino.
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A. Ti fai beffe di me? Se quell’animo avesse abitato in un corpo rugoso e avvizzito, ti sarebbe forse egualmente piaciuto? F. Non oso dirlo; l’animo infatti non può essere veduto, né l’aspetto esteriore me ne poteva promettere uno tanto bello; ma se lo si fosse potuto scorgere con lo sguardo, avrei sicuramente amato la sua bellezza anche se posta in una sede deforme. A. Cerchi di reggerti sulle parole; se non puoi amare se non ciò che si vede, non c’è dubbio che abbia amato un corpo. Non ch’io neghi con questo che anche il suo animo e i suoi costumi abbiano porto esca alle tue fiamme, dato che, come tra poco dovrò dirti, persino il suo nome ha non poco contribuito ai tuoi deliri. Come in tutte le passioni del resto, anche e soprattutto in questa accade che da pochissime scintille insorgano vasti incendi. F. Vedo a che mi costringi: a confessare con Ovidio che «ho amato l’animo insieme al corpo4». A. E bisognerà che confessi anche quest’altra colpa: che non li hai amati, entrambi, con la moderazione e la misura convenienti. F. Mi dovrai porre ai tormenti prima di costringermi ad ammetterlo. A. E non basta: che a causa di quest’amore sei caduto in gravi disgrazie. F. Mai, neppure se mi metti alla tortura.
4 ho amato l’animo insieme al corpo: citazione dagli Amores (X, 13) di Ovidio, celebre poeta latino d’età augustea.
Analisi del testo Due diverse interpretazioni dell’amore Nel breve passo lo sdoppiamento Agostino-Francesco che regge l’intera struttura del Secretum è funzionale a “sceneggiare” due diverse concezioni dell’amore, tra di loro inconciliabili: in Agostino, o meglio nell’Agostino petrarchesco, parla una concezione rigorosamente cristiana, che condanna di fatto l’attaccamento a ogni forma di amore terreno, ancor più quello che considera falsamente spiritualizzato e di cui impietosamente svela il carattere di alibi. Nell’autodifesa di Francesco, anche se debole e non priva di contraddizioni, si esprime invece la visione ereditata dallo stilnovismo, che tenta di fare della donna un tramite verso il divino («Tenne d’angel sembianza / [...] non me fu fallo, s’in lei posi amanza» scriveva Guinizzelli in Al cor gentil rempaira sempre amore, vv. 58 e 60). Se Dante aveva risolto il dilemma della conciliazione tra amore profano e dimensione religiosa fin dalla Vita nuova e ancor più nella Commedia, in Petrarca – alle soglie ormai di una nuova età – il conflitto si ripropone in toni drammatici. La parte accusatoria della coscienza (Agostino) mostra di prevalere, qui come in tanti altri punti del Secretum, sulla parte difensiva (Francesco); le argomentazioni della prima sono più stringenti e convincenti di quelle della seconda. Attraverso lo schema efficace dell’“autoprocesso”, Petrarca vuole dunque dirci di essere pienamente consapevole di non essere riuscito a fare di Laura la “sua” Beatrice, ma al contempo sa che proprio in questo sta la sua modernità rispetto allo schiacciante modello del suo illustre predecessore.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale significato riveste la scelta di Agostino come interlocutore nel dialogo? ANALISI 2. Completa una tabella come questa schematizzando le argomentazioni accusatorie di Agostino e quelle usate da Francesco per difendersi. accuse di Agostino
tentativi di difesa di Francesco
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Infine sintetizza le argomentazioni in un breve testo (max 15 righe) che risponda ai seguenti quesiti. a. Quali argomentazioni prevalgono? Perché? b. Quali rispettive concezioni dell’amore sono rappresentate e sostenute dai due protagonisti del dialogo? A quali tradizioni dell’amore si richiamano? c. Quali accorgimenti retorici utilizza Petrarca per esaltare la drammaticità del conflitto tra Agostino e Francesco?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 3. Spiega con opportuni riferimenti al testo perché Petrarca scelga di adottare nel Secretum la forma del dialogo per rappresentare il proprio dissidio interiore.
online T5b Francesco Petrarca L’ambizione e l’eccessiva attrazione per la gloria Secretum III, 14
4 L’epistolario: un ritratto di sé da consegnare ai posteri Rileggere la vita Fin dagli anni giovanili Petrarca cominciò a scrivere lettere e continuò a farlo per tutta la vita, in rapporto alla fitta rete di relazioni e di amicizie che sempre coltivò. L’epistolario di Petrarca è dunque vastissimo: è costituito infatti di circa 500 lettere, ma molte altre furono distrutte dallo scrittore, a quanto egli stesso asserisce. Dopo la scoperta dell’epistolario di Cicerone e la decisiva svolta del 1349-50, Petrarca decide però di raccogliere, ordinandole, le lettere scritte fino a quel momento e di scriverne altre, con l’obiettivo di costruire attraverso di esse un ritratto di sé da consegnare ai posteri: è il ritratto di un intellettuale nuovo, in cui il modello del saggio stoico e cristiano coesiste con le contraddizioni e le inquietudini spirituali proprie dell’uomo moderno. Il ritratto di un’epoca Accostarsi all’epistolario di Petrarca non significa solo avvicinarsi alla sua personalità di uomo e studioso, ma anche ritrovarsi nello scenario storico-culturale, nel costume e nella mentalità di un’intera epoca. Tra gli interlocutori di Petrarca figurano uomini politici come Cola di Rienzo, nobili di rango, e addirittura papi e imperatori. Per il suo ruolo di intellettuale pubblico e consigliere dei potenti, Petrarca è infatti partecipe di tutti gli avvenimenti politici del tempo, e la sue lettere ci consentono così di conoscere da vicino gli ambienti dell’alta politica, come la corte di Avignone (di cui egli svela impietosamente corruzione e intrighi) e di ripercorrere dal vivo i principali eventi storici del tempo, come le guerre sanguinose che opponevano i signori italiani; ma anche di conoscere i luoghi diversi dove i suoi molteplici viaggi lo portavano. Uno dei temi dominanti nelle epistole riguardanti l’ambito politico è costituito dall’amara constatazione della grande crisi dilagata ovunque, sicché non vi è più alcuna città che non mostri, rispetto al passato, segni gravi di decadenza e di impoverimento. I temi “privati” e la riflessione esistenziale Per noi moderni le pagine dell’epistolario più suggestive sono quelle di confessione autobiografica (come la celeberrima lettera, nota come L’ascesa al monte Ventoso ➜ T6 ), quelle che si riferiscono ai rapporti con gli amici, legati a Petrarca da comuni interessi culturali e da quel culto dei classici che preannunciava la cultura umanistica. Quando si parla, per le lettere, di dimensione autobiografica, non si deve però pensare a un resoconto veridico: i dati autobiografici, anche in quelle apparentemente
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più spontanee, sono sempre ripensati e spesso trasfigurati secondo il modello dei classici (Cicerone innanzitutto e in parte Seneca), oltre che armonizzati dalla raffinatezza dello stile: Petrarca compie una selezione comunque idealizzante, volta a costruire e trasmettere un ritratto esemplare di sé come intellettuale. Il corpus delle Epistole L’epistolario è costituito da varie raccolte. • Le Familiares, suddivise in 24 libri per un totale di 350 lettere inviate agli amici, al
fratello Gherardo, a persone variamente legate all’autore; l’ultimo libro contiene lettere, evidentemente fittizie, scritte ai grandi scrittori dell’antichità come Cicerone, Seneca, Quintiliano, Livio, Virgilio e altri. La raccolta si ferma all’anno 1361. • Le Seniles o Senilium rerum libri, 125 lettere suddivise in 17 libri, scritte a partire dal 1361, sempre rivolte per lo più ad amici; la raccolta si chiude con la celebre epistola Posteritati, che non fu però completata. • Le 19 lettere Sine nomine, prive cioè dell’indicazione del destinatario, per il contenuto aspramente polemico contro la curia papale avignonese. • Le Variae, che l’autore non intendeva pubblicare, ma che furono raccolte in seguito dai posteri. A queste vanno aggiunte le 66 Epistolae metricae, scritte in poesia prevalentemente negli anni giovanili. La caducità delle cose umane e il valore salvifico della memoria e della scrittura Nell’epistolario (soprattutto nelle Familiares e ancor più nelle Seniles), si possono ritrovare i grandi temi caratterizzanti l’opera di Petrarca, comuni al Secretum e al Canzoniere, e riconducibili a una nuova ottica letteraria che valorizza la centralità dell’io. Un tema che attraversa come un filo rosso tutto l’epistolario petrarchesco è la consapevolezza della vanità delle passioni umane e della caducità delle cose terrene, soggette allo scorrere inarrestabile del tempo. All’angosciosa percezione della transitorietà e vanità di tutto ciò che è mortale, si contrappone nella riflessione di Petrarca il valore della memoria e della scrittura, capaci di salvaguardare la dignità dell’uomo dando un senso alla sua labile esistenza.
PER APPROFONDIRE
Un codice delle Epistole di Petrarca (manoscritto del XIV secolo, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana). Nel primo foglio, il capolettera contiene il ritratto dello scrittore.
Il metodo di allestimento dell’epistolario Fra il 1349 e il 1350, suggestionato, come detto, dal modello dell’epistolario ciceroniano, Petrarca inizia a riordinare le numerose lettere che già aveva scritto (e di cui aveva conservato copia), costruendo il primo nucleo di quelle che sarebbero divenute le Familiares, e avviando il metodo che rimarrà poi costante nell’allestimento dell’epistolario. • Seleziona le lettere che intende tramandare facendole copiare da persone fidate. Scarta (e a volte addirittura distrugge) quelle che non intende tramandare. • Rimaneggia le lettere già scritte, eliminando riferimenti troppo personali o occasionali o eccessivamente circostanziati, e modifica talvolta la datazione a seconda della posizione della lettera scelta nel corpus. In genere viene rispettato l’ordine cronologico, ma nella costruzione dei vari libri che compongono in particolare le Familiares, la
critica ha notato la tendenza ad accostare, al di là della loro datazione, lettere omogenee per tema o per destinatario, oppure per contrasto. In alcuni casi fonde lettere diverse. • Nel frattempo va scrivendo molte nuove lettere, richieste dai contatti anche importanti di cui disponeva. Alcune lettere nuove sono fittizie, concepite e scritte appositamente per dare spessore a momenti della biografia interiore e intellettuale dello scrittore soprattutto in relazione al periodo della giovinezza (un aspetto che non può non sconcertare noi moderni). La presenza di lettere fittizie è particolarmente forte nei primi 4 libri delle Familiares: ne è esempio proprio la più celebre epistola, quella che narra l’ascesa sul monte Ventoso (➜ T6 ), che Petrarca dichiara di aver scritto nel 1336 di getto, mentre fu scritta all’inizio degli anni Cinquanta.
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Opere in latino
Africa
poema epico
De viris illustribus
biografie di grandi del passato
De vita solitaria
elogio della solitudine
De otio religioso
elogio della vita monacale
Secretum
dialogo in tre libri tra sant’Agostino e Francesco sulle debolezze che gli impediscono una vita virtuosa
De remediis utriusque fortunae
sul comportamento equilibrato da tenere nella buona e cattiva sorte
Erudite
Religioso-morali
Familiares
cinquecento lettere organizzate in varie raccolte:
Epistolario in latino
Seniles
Sine nomine
Variae ritratto idealizzato di sé
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INTERPRETAZIONI CRITICHE
Vinicio Pacca «Gestire la propria immagine in prima persona»: la funzione dell’Epistolario V. Pacca, Petrarca, Laterza, Bari 2005
Nel passo tratto dalla sua monografia su Petrarca, il critico Vinicio Pacca introduce alcune illuminanti osservazioni sulla reale natura dell’epistolario petrarchesco, che ne segnala la fondamentale letterarietà e l’obiettivo di una personale gestione della propria immagine da consegnare ai posteri.
[... Per] Petrarca le lettere sono più opere d’arte che strumenti di comunicazione pratica, servono più ad affermare la propria personalità che a far sapere qualcosa di sé agli altri (sempre esclusi i posteri); la presenza di destinatari inesistenti e fittizi, primi fra tutti gli scrittori classici, la dice lunga al proposito. Nelle Familia5 res si cercherebbero invano gli sfoghi, le confidenze, gli irriflessi moti dell’animo, insomma tutto ciò che ci si potrebbe attendere da un epistolario: non è questa la loro funzione. Appunto per gestire la propria immagine in prima persona, dando rilievo a certi aspetti e occultandone certi altri, Petrarca (diversamente da Dante e da Boccaccio) volle raccogliere le lettere che aveva scritto e che andava scrivendo: 10 il compito non poteva essere delegato ad altri, e il risultato fu molto più simile a un ritratto che a una fotografia. Ma anche chi si aspettasse di trovare le [lettere] disperse più spontanee e meno costruite rimarrebbe deluso: la differenza non è fra scritture immediate e scritture riflesse, ma fra testi isolati e testi riuniti in una compagine organica. Quasi mai le disperse danno l’impressione di essere state 15 scritte di getto (non sono, cioè, “brutte copie”): anch’esse presentano un carattere letterario, che non di rado prevale su quello documentario. La verità, insomma, è che quando scrive ad altri, o lodi o biasimi o consoli o ammonisca, Petrarca è sempre sorvegliato: il suo vero volto ci sfugge, nascosto dietro la maschera della letteratura. Documento fondamentale dell’umanesimo petrarchesco, le Familiares 20 agirono capillarmente sui contemporanei, i quali presero subito a modello la loro lingua chiara, corretta, pulita, che per la prima volta superava i modelli offerti dalle artes dictandi medievali. Esse imposero così un ideale stilistico alla ricchissima epistolografia quattro e cinquecentesca.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Che cos’è che un lettore cercherebbe invano nelle Familiares? 2. Rintraccia la tesi presente nel documento critico. 3. Sottolinea nel testo e trascrivi sul quaderno le argomentazioni attraverso le quali il critico sostiene la propria tesi. 4. Il critico Pacca afferma che Petrarca volle raccogliere le lettere che aveva scritto per gestire la propria immagine, dando importanza a certi aspetti e nascondendone altri. Oggi viviamo in una società che possiamo definire “dell’apparenza”, dove tutto è costruito per cercare di dare vita a un’immagine voluta. Basti pensare solo ai profili social, a foto pubblicate che molto spesso non rappresentano la realtà. Che cosa pensi in merito a quest’aspetto? Credi che sia giusto costruire la propria immagine oppure ritieni che le scelte debbano essere svincolate da questa finalità?
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Francesco Petrarca
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Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso Lettere familiari, IV, 1
F. Petrarca, Familiares, in Epistole, a c. di U. Dotti, Utet, Torino 1978
Questa è la lettera più celebre, proprio perché molto rappresentativa, dell’intero epistolario petrarchesco. Scritta in latino come tutte le lettere di Petrarca, narra l’ascesa al monte Ventoso (Mont Ventoux), non lontano da Valchiusa, che Petrarca avrebbe compiuto insieme al fratello Gherardo tra il 24 e il 26 aprile del 1336. A quanto asserisce Petrarca nell’ultima parte della lettera (qui non riprodotta), la stesura sarebbe avvenuta di getto immediatamente dopo l’avvenimento narrato. In realtà la critica più accreditata ritiene che sia stata scritta una ventina di anni dopo (1352-53 o addirittura 1355), quando Gherardo aveva già da tempo scelto la vita monacale (1342) e sia quindi il frutto di una rilettura a posteriori di quella lontana avventura. La lettera è indirizzata al teologo agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, conosciuto nel 1333 e che aveva donato al poeta una copia delle Confessioni di sant’Agostino, a cui si fa riferimento nella lettera. A DIONIGI DA BORGO SAN SEPOLCRO DELL’ORDINE DI SANT’AGOSTINO E PROFESSORE DELLA SACRA PAGINA. SUI PROPRI AFFANNI.
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Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia1 e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. [Nel passo omesso Petrarca dichiara di aver sempre desiderato di compiere quell’impresa e di essersi deciso dopo la lettura di un passo dello storico romano Tito Livio. La difficoltà fu però quella di trovare un compagno adatto tra i suoi conoscenti. Infine la scelta cadde sul fratello Gherardo, che fu ben felice di accogliere la proposta.]
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Partimmo da casa il giorno stabilito2 e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta3 che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi,
1 ho abitato... sino dall’infanzia: Petrarca si trasferì in Provenza all’età di otto anni insieme al fratello Gherardo quando il padre prese servizio alla curia avignonese.
2 il giorno stabilito: appunto il 24 aprile.
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3 il poeta: Virgilio. La citazione che segue è tratta dalle Georgiche (I, 145-46).
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inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: «Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo sono invisibili ed occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce4. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. [...] [Nella parte omessa continuano le riflessioni dello scrittore sulla necessità di «volere con ardore» se si vuole raggiungere lo scopo, di affrontare il cammino della virtù anche se appare arduo e difficoltoso da percorrere.]
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C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non so dirti; se non forse per antifrasi5, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio6, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno.
4 stretta... vi conduce: citazione dal Vangelo (Matteo 7, 14). 5 per antifrasi: per ironia, cioè affermando l’opposto di quel che si vuol significare: e infatti subito dopo si dice
che in realtà il monte è il più alto di quelli vicini. 6 padre mio: è il destinatario della lettera, quel Dionigi (ca. 1300-1342), a cui, seppur fosse quasi suo coetaneo, Francesco si ri-
volge qui con un appellativo affettuoso e riverente. Fu suo confessore durante il soggiorno francese e a lui il poeta rivolse un commosso epitaffio in morte.
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Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo7 nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto ed udito di essi. Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto8, mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel cielo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un desiderio bruciante di rivedere l’amico9 e la patria anche se, in quello stesso momento, provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da grandi testimonianze. Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. «Oggi – mi dicevo – si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna10: Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto11 da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino12: “Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio”. Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta13 “Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia”. Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me». Così andavo col pensiero a quel passato decennio. Rivolgendomi all’avvenire, mi domandavo: «Se ti accadesse di prolungare per altri due lustri questa vita che fugge e di avvicinarti alla virtù nella stessa proporzione in cui, in questo biennio, per l’insorgere della nuova volontà contro la vecchia, ti sei allontanato dalla primitiva protervia, non potresti forse allora, se non con certezza almeno con speranza, andare incontro alla morte sui quarant’anni e questi residui anni di una vita che già declina verso la vecchiezza, trascurarli senza rimpianti?». Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove
7 l’Athos e l’Olimpo: celebri monti della Grecia, il primo allora, come oggi, ospita vari monasteri, il secondo è considerato dalla mitologia la sede degli dei. 8 quel nemico... aceto: si tratta di Annibale; il fatto menzionato è riportato dallo storico latino Livio (XXI, 37, 2).
9 l’amico: è quasi sicuramente il destina-
11 in porto: il porto è metafora del di-
tario della lettera. 10 Oggi... Bologna: Petrarca lasciò Bologna nell’aprile del 1326. Da qui la datazione dell’ascensione (1336), almeno nella ricostruzione che ne traccia Petrarca in questa lettera.
stacco dalle passioni terrene e dell’appagamento spirituale nelle verità della fede. 12 le parole di Agostino: il passo che viene citato è tratto dalle Confessioni (II, 1, 1). 13 un famosissimo poeta: la citazione che segue è tratta da Ovidio, Amores, III, 11b, 3.
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sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allungava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte14 lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto15 libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato, io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi»16. Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande. Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri; [...].
14 Acque Morte: Aigues-Mortes, cittadina francese presso Montpellier.
15 dono del tuo affetto: Dionigi aveva donato a Petrarca un’edizione di piccola mole delle Confessioni di sant’Agostino, che era effettivamente molto cara al poeta.
16 «e vanno... se stessi»: cit. dalle Confessioni (X, 8, 15).
Analisi del testo Un titolo significativo La lettera è nota come L’ascesa al monte Ventoso. In realtà il titolo petrarchesco è De curis propriis (I propri affanni) e pone significativamente l’accento sul risvolto interiore dell’ascesa più che sul fatto in sé. Attraverso il titolo, Petrarca segnala già ai lettori (contemporanei e forse ancor più posteri), che narrerà non tanto un’esperienza di viaggio quanto una storia interiore, una drammatica battaglia combattuta nel suo intimo.
Un itinerario simbolico di carattere esemplare Inizialmente la lettera sembra una “pagina di viaggio”: lo stile della narrazione è vivace e ricco di particolari realistici, ma ben presto la pagina assume altro spessore e altra natura: la difficile salita del monte Ventoso acquista l’evidente carattere di un itinerario simbolico. In questo testo Petrarca utilizza in modo straordinariamente consapevole (potremmo quasi dire strumentale), il codice simbolico per veicolare un contenuto che gli sta particolarmente a cuore: la radiografia della propria inquieta sensibilità, il proprio identikit di moderno intellettuale, tormentato e complesso, diviso tra l’attrazione per tutto ciò che è terreno e la tensione alla dimensione spirituale e soprannaturale.
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L’esemplarità della vicenda è innanzitutto segnalata dal simbolismo numerico e temporale: l’ascesa del monte dura tre giornate, per tre volte Petrarca sbaglia il cammino (il simbolismo ternario era diffusissimo nella cultura medievale e rimandava alla Trinità), il giorno in cui sarebbe iniziato il viaggio (ovvero il 24 aprile 1336) era venerdì santo, il giorno che precede la Pasqua e la resurrezione. Inoltre anche la “rivelazione” indotta dalle parole del libro di Agostino aperto a caso, che ha un ruolo chiave nella vicenda, è iscrivibile in una dimensione allusiva e sacrale: la cosiddetta bibliomanzia, cioè la lettura apparentemente casuale (in realtà, appunto, rivelatrice) di un passo era infatti una situazione ricorrente, come osserva il critico Pacca, nelle narrazioni delle Vite dei Santi e aveva la funzione di orientare la vocazione del futuro santo.
Una rilettura a posteriori Proprio questa anche troppo esibita dimensione simbolica, oltre a molteplici indizi testuali (che rimandano in particolare al Secretum), ha indotto i critici a interpretare la lettera come una ricostruzione e una rilettura a posteriori di un’esperienza precedente, collocandone la stesura dopo la metà del Trecento. Se questa ipotesi è corretta, lo stesso destinatario è fittizio, essendo il teologo agostiniano Dionigi ormai morto da una decina d’anni. Anche quest’ultimo elemento contribuisce dunque a sottolineare il carattere “costruito” dell’epistola, finalizzata a tracciare una vicenda che risultasse fortemente esemplare all’interno del bilancio esistenziale e del progetto autobiografico che Petrarca avvia verso il 1350. Nel 1336 Petrarca aveva trentadue anni, proprio la stessa età di Agostino quando visse la sua conversione: anche la salita al Ventoso implica a suo modo una “conversione” e la retrodatazione può essere stata motivata proprio dal tentativo di costruire un parallelismo con il santo. La lettera risulta dunque particolarmente indicativa di uno dei caratteri principali dell’epistolario petrarchesco, ovvero il tentativo dello scrittore di costruire attraverso le lettere un autoritratto ideale, un profilo interessante di sé come intellettuale moderno.
Il codice spaziale Nella costruzione del significato esemplare della vicenda è rilevante l’uso del codice spaziale. Nella prima parte del testo domina soprattutto l’opposizione tra “alto” e “basso”. Se l’ascesa è evidentemente allusiva (come del resto Petrarca stesso spiega) all’elevazione spirituale, la retrocessione, la stasi nelle zone basse della montagna simboleggia l’attrazione per tutto ciò che è materiale e terreno: mentre il fratello Gherardo prende con sicurezza la via della salita, anche se erta e faticosa, Petrarca indugia e si smarrisce a lungo nel girovagare cercando la via più comoda. Nella seconda parte (da «C’è una cima più alta di tutte» [r. 50], fino allo sguardo sul Rodano), che rappresenta una seconda tappa dell’itinerario spirituale dello scrittore sceneggiato nella lettera, il simbolismo spaziale poggia essenzialmente sull’opposizione tra “dentro” e “fuori”, “esterno” e “interno”. Il percorso conoscitivo ed etico del poeta non è solo proiettato verso l’alto, verso la conquista della vetta ma è al contempo un cammino “dentro” la propria coscienza, alla ricerca della verità. Questo momento di intensa riflessione sugli ultimi dieci anni della sua esistenza porta il poeta a incontrare l’esperienza di Agostino, che lo guida a identificare se stesso come “doppio uomo”, uomo del costante e non superato dissidio. Mentre il giorno declina e il poeta si trova ancora una volta combattuto tra il basso e l’alto («ora pensavo a cose terrene e ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima»), si apre una sorta di momento “epifanico”, che coincide con l’apertura a caso del libro delle Confessioni: nel processo di iniziazione alla verità, le parole di Agostino hanno la funzione di sancire con la loro autorevolezza la verità che il poeta ha scoperto già per conto suo: ovvero la necessità di rivolgere lo sguardo dentro di sé. È dentro di sé che occorre viaggiare, questa è anche la sua missione di intellettuale: testimoniare il valore dell’interiorità. Monte della saggezza, miniatura tratta dal manoscritto 0412 intitolato Concorde des deux langages, foglio 20v (XVI secolo, Bibliotèque Municipale, Carpentras).
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto della lettera in 10 righe. ANALISI 2. L’ascesa al monte Ventoso assume un significato allegorico: quale? 3. Analizza la lettera da «Troppi sono ancora» (r. 74) a «sofferenza» (r.79). Quale ritratto del poeta se ne può dedurre? 4. Individua i passi in cui Petrarca offre una rappresentazione del paesaggio (reale e simbolica). STILE 5. Analizza il testo dal punto di vista sintattico: quale costrutto sintattico predomina? La paratassi o l’ipotassi? A che cosa è finalizzata questa scelta stilistica?
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
LETTERATURA E NOI 6. Commenta la frase: «sapevo […] che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri» (r. 120): come la interpreti alla luce del percorso tracciato nella lettera? Con queste parole Petrarca ci dà una particolare interpretazione del senso della scrittura e della lettura: ti è mai capitata un’esperienza di lettura che possa rispecchiarsi nelle parole di Petrarca? 7. Francesco e il fratello si accingono a salire il monte. Incontrano però un vecchio pastore che cerca inutilmente di dissuaderli dall’impresa e non riuscendovi indica loro un sentiero scosceso per iniziare la salita. Nel racconto di questo incontro Petrarca afferma: «Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto». È capitato anche a te di sentirti ancor più motivato a un’impresa nel momento in cui hai ricevuto un divieto? Davvero le persone giovani secondo te sono restie a ogni consiglio?
Petrarca a Fontaine-de-Vaucluse di Arnold Böcklin (1863-64, tempera su tela, Museo delle Belle Arti, Lipsia).
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5 Il tentativo di un poema allegorico: i Trionfi Un poema in volgare ispirato alla Commedia L’unica opera in volgare di Petrarca, oltre al Canzoniere, sono i Trionfi (il titolo originale è però in latino: Triumphi), un poema allegorico strutturato in “visioni” secondo il modello della Commedia, a cui rimanda anche la scelta metrica della terzina dantesca (ma non manca la suggestione dell’Amorosa visione di Boccaccio). Progettati forse già nel 1340, composti tra il 1350 e il 1360 e portati avanti fino alla morte dello scrittore, i Trionfi non furono mai conclusi. Il significato del titolo Il titolo scelto dal poeta prende spunto dalle cerimonie pubbliche in uso nel mondo romano, i “trionfi” appunto, in occasione dei quali i condottieri celebravano pubblicamente la loro vittoria. Anche la struttura dell’opera è organizzata intorno al tema della vittoria, secondo uno schema dialettico che prevede una sequenza progressiva ascendente: A è vinto da B, ma B è poi vinto da C e così via. La struttura: una narrazione allegorica Il poema è strutturato in sei “visioni”. Si apre con il Trionfo d’Amore (Triumphus Amoris), in cui al poeta appare la visione del dio Amore trionfante, seguito da una schiera di personaggi sottomessi al suo giogo. Anche il poeta è vittima dell’Amore per una fanciulla apparsa improvvisamente (Laura) ed è trasportato a Cipro insieme agli altri prigionieri del dio. Segue il Trionfo della Castità (Triumphus Pudicitiae): Laura sconfigge Amore e celebra, con altre donne famose per la loro virtù, la vittoria della castità nel tempio della Pudicizia a Roma. Ma la morte si fa incontro a Laura (Triumphus Mortis) e la fanciulla muore, per comparire poi in sogno al poeta rivelandogli la propria beatitudine. La morte però può essere a sua volta vinta dalla Fama (Triumphus Famae), che può eternare i valori e le persone: nella quarta visione appare la Fama vittoriosa, seguita da un corteo di uomini celebri. Anche la Fama però è fugace e può essere annullata dal trascorrere inesorabile del tempo (Triumphus Temporis). Solo l’eternità (Triumphus Eternitatis) può davvero sottrarre l’uomo alla precarietà e alla sconfitta. Nell’ultima visione appare al poeta un mondo fuori dal tempo in cui potrà rivedere Laura. Un’opera deludente L’opera, come si è detto si ispira certamente – come dimostra il metro adottato e la dominante dimensione allegorica – alla Commedia, ma l’illustre modello è adattato a una dimensione prettamente autobiografica, lontana dalla severa prospettiva trascendente e didascalica di Dante: Petrarca tenta di sceneggiare il suo incerto cammino verso la virtù, il superamento (mai del tutto avvenuto) delle passioni terrene. L’esito non è convincente: la struttura narrativa è macchinosa, l’impianto allegorico rimane schematico e astratto e la rassegna di personaggi, appesantita da continui riferimenti eruditi, risulta alla fine stancamente ripetitiva. Il Trionfo di Castità e Ragione in una miniatura francese del XV secolo, codice dei Trionfi di Petrarca (Parigi, Bibliothèque nationale de France). Sul carro trionfale, tirato da unicorni (simbolo di purezza e castità), la giovane donna che personifica la Castità, ha uno scudo e una colonna, simboli del suo impegno a difendere la virtù, rafforzato dall’influsso che viene della Ragione (raffigurata nella statua femminile dipinta in secondo piano, al centro).
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3 Il Canzoniere VIDEOLEZIONE
Il Canzoniere, uno dei libri più importanti della tradizione letteraria italiana, è una raccolta di 366 componimenti poetici, collegati per la maggior parte al tema fondamentale dell’amore per Laura, di cui a posteriori Petrarca ripercorre la storia e analizza il ruolo nel proprio itinerario esistenziale. La maggior parte delle liriche sono sonetti (317), ma sono presenti anche altre forme metriche della tradizione lirica: 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.
1 L’elaborazione dell’opera, i modelli, la struttura Dalle rime sparse all’unità del “libro” Fin dagli anni giovanili, Petrarca compone rime sul modello provenzale e stilnovistico; questi componimenti diventano famosi presso un vasto pubblico e successivamente l’autore decide di organizzarli in una raccolta unitaria basandosi dapprima su un criterio tematico, come testimonia una prima silloge di 14 rime risalente al 1342. Il vero e proprio Canzoniere nasce però solo quando, dopo il 1348 – anno della morte di Laura, perciò in un momento di profonda crisi – il poeta decide di riunire le rime “sparse” in un unico libro, nel quale tracciare la propria storia interiore: fonda così un genere nuovo, destinato a un’immensa fortuna nella letteratura europea. Petrarca colloca nel Canzoniere i testi precedentemente scritti e gli altri che veniva componendo secondo un preciso disegno compositivo, che non coincide con l’oronline Per approfondire dine cronologico della loro effettiva scrittura, ma è finalizzato alla costruzione di Work in progress: un’autobiografia ideale. Tale ordine viene più volte ridisegnato dall’autore, che, nel la composizione del Canzoniere corso di un lavoro più che ventennale, si dedica instancabilmente a perfezionarlo. Come hanno documentato gli studi prima di Ernest H. Wilkins (1880-1966) e poi di Marco Santagata (1947-2020) il Canzoniere assume almeno nove forme diverse prima dell’ultima e definitiva, portata a termine nel 1374, l’ultimo anno della vita di Petrarca, e affidata a un manoscritto in parte autografo denominato Vaticano Latino 3195. È stato possibile ricostruire il processo elaborativo del Canzoniere grazie al fatto che, mentre per Dante non disponiamo di alcun manoscritto autografo, di Petrarca possediamo non solo la versione definitiva del lavoro, ma anche il cosiddetto “codice degli abbozzi”, di mano dello stesso Petrarca (Vaticano Latino 3196); esso contiene sia componimenti poi inseriti nel Canzoniere sia testi poi esclusi, ma anche brani in stato di abbozzo o con indicate le varianti che l’autore aveva previsto. Negli spazi a margine dei fogli sono inserite osservazioni e ipotesi di correzione, indicazioni sulla collocazione dei testi. Come si può facilmente intuire, il “codice degli abbozzi” risulta molto prezioso per ricostruire la comL’offerta della corona d’alloro a Petrarca, miniatura plessa storia dell’opera. di scuola lombarda dagli Admiranda acta (sec. XV). Il Canzoniere 3 513
Rerum vulgarium fragmenta o Canzoniere? Due titoli antitetici La raccolta petrarchesca viene indicata con due titoli (uno voluto dall’autore, l’altro affermatosi nella tradizione) che evidenziano due diversi volti dell’opera. Il titolo latino scelto da Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose in volgare”) sembra a prima vista sminuire l’opera: lo scrittore utilizza infatti la parola res, che significa semplicemente “cose”, associandola all’aggettivo vulgaris, con riferimento alla lingua volgare impiegata, che egli considerava inferiore al latino (in cui scrive quasi tutte le sue opere). Termine chiave nel titolo latino è però fragmenta (“frammenti”), che allude al fatto che le rime sono state scritte in momenti e stati d’animo diversi: alla frammentarietà dell’opera corrisponde la frammentazione dell’esistenza stessa dell’autore, priva di un centro e preda costante di incertezze e conflitti. In realtà l’avere riunito le rime sparse in un libro indica già il tentativo di superare tale disposizione esistenziale dispersiva. Già dal Cinquecento, i lettori preferirono perciò chiamare l’opera petrarchesca Canzoniere, a indicare la sua natura di opera organica, in cui tutte le parti si richiamano secondo un ben preciso disegno compositivo; il titolo è perciò ancor oggi comunemente utilizzato per designare il capolavoro di Petrarca e adottato anche dai moderni editori. Dal testo al macrotesto In rapporto a quanto detto, nel Canzoniere coesistono due dimensioni (che implicano due diverse prospettive di lettura): una “microtestuale”, che interessa i singoli componimenti, volta a dare al lettore, anche attraverso precise indicazioni spaziali e cronologiche, l’impressione di un diario amoroso, colto (e godibile) nei suoi singoli momenti; l’altra “macrotestuale” ( PER APPROFONDIRE Cos'è un macrotesto?), che comporta la meditata collocazione dei testi in un disegno autobiografico, mirato a ricostruire un itinerario esistenziale esemplare.
PER APPROFONDIRE
La simbologia numerica: Petrarca medievale Nel Canzoniere persiste una componente prettamente medievale, ossia la presenza di corrispondenze numerologiche, di carattere simbolico, fondate in particolare sulla ricorrenza del numero 6: il 6 aprile (Venerdì Santo, giorno della Passione di Cristo) è il giorno in cui Petrarca dichiara di aver visto Laura per la prima volta, e il 6 aprile è anche il giorno della morte della donna amata. Il numero complessivo dei componimenti della redazione ultima del Canzoniere è 366: contiene due volte il numero 6 e una volta il numero 3 (il numero perfetto, nella visione medievale). Il numero 366 è uguale, inoltre, a quello dei giorni dell’anno se si esclude un sonetto, il proemiale, che funge da introduzione e ricapitola i temi
Cos’è un macrotesto? Secondo la definizione della filologa Maria Corti (19152002), un macrotesto è un testo (un “grande testo”, come suggerisce l’etimo greco) costituito da un insieme di più scritti che possono essere considerati come un’estesa entità unitaria. Non tutte le raccolte di poesie o prose di un medesimo autore si possono definire “macrotesto”, perché un gruppo di rime o di racconti può essere un semplice insieme di lavori riuniti per motivazioni diverse. Di “macrotesto” si può invece parlare quando si verifica almeno una delle seguenti condizioni: 1. ricorrono elementi tematici e/o formali che conferiscono unità alla raccolta; 2. ogni singolo testo
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poetico o prosastico (si veda per es. il Decameron) ha una precisa collocazione nella raccolta in rapporto al significato dell’insieme. Queste due condizioni sono entrambe presenti nel Canzoniere di Petrarca, che non è un semplice aggregato di rime ma il frutto di una coscienza progettuale che presiede alla collocazione delle liriche e istituisce corrispondenze e richiami tra di esse. Testo di riferimento: M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano 1976.
fondamentali del libro. La misura dell’anno rappresenta simbolicamente il corso della vita umana e ogni testo poetico corrisponde a momenti della vita interiore dell’autore, collegati dal filo rosso dell’amore per Laura. Dietro l’insistita simbologia numerica e il collegamento, denso di significato, istituito dal poeta tra l’innamoramento e il Venerdì Santo, si avverte l’influenza del modello autorevole della Vita nuova di Dante, in cui l’amore dell’autore della Commedia per Beatrice fin dall’inizio è inscritto in una dimensione sacrale.
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Per approfondire L’ombra di Dante, un modello “rimosso”
Il dialogo con la tradizione letteraria e il modello dantesco Il Canzoniere è un’opera profondamente innovativa ma che dialoga con la precedente tradizione letteraria, rivelando un orizzonte culturale vastissimo: dai classici latini alla produzione religiosa medio-latina, dalla poesia romanza a quella stilnovistica (in particolare Dante e Cavalcanti). Il precedente fondamentale per l’ideazione del Canzoniere è, però, la Vita nuova di Dante, che già aveva inserito le sue composizioni poetiche, legate all’amore per Beatrice, in un percorso di vita esistenziale e religioso. Anche se Petrarca tende a minimizzare l’influsso di Dante (➜ PER APPROFONDIRE L’ombra di Dante. Un modello “rimosso” OL), oggi sappiamo con certezza che il modello del fiorentino è stato ben presente nell’elaborazione del Canzoniere, come dimostra il continuo riaffiorare di situazioni e di stilemi danteschi. Anzi, come hanno sottolineato i più recenti studi, e in particolare quelli di Marco Santagata, l’opera di Petrarca deve essere letta nella prospettiva di un consapevole confronto con quella dell’illustre modello (la Vita nuova innanzitutto, ma anche la Commedia). Come Dante nella Vita nuova, Petrarca conferisce alle proprie rime un ordine narrativo; tuttavia non affianca alle liriche una narrazione in prosa (come aveva fatto Dante, secondo il modello del commento medievale), ma, più modernamente, fa emergere la vicenda narrativa e la tesi morale del Canzoniere da un’accorta e ben calcolata disposizione dei testi poetici. La suddivisione in due parti del Canzoniere Il Canzoniere è stato diviso dall’autore in due parti: il codice manoscritto Vat. Lat. 3195, che ne contiene l’ultima redazione, evidenzia tale struttura bipartita collocando alcuni fogli bianchi tra le due sezioni che lo compongono. La seconda delle due sezioni, che inizia con la canzone 264, è tradizionalmente denominata «in morte di Laura», perché la maggior parte delle rime in essa presenti vennero composte dopo la morte della donna, e ad essa alludono varie composizioni. La distinzione non è però rigida: nei primi testi della seconda parte Laura è ancora viva e la sua morte viene annunciata solo nel sonetto 267, Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo. Se inoltre si guarda all’effettiva data di composizione, anche molte rime della prima sezione (compreso, con ogni probabilità, il sonetto proemiale) furono in realtà composte dopo la morte di Laura. La suddivisione in due parti documenta soprattutto, nelle intenzioni dell’autore, una mutata disposizione interiore del protagonista: nella prima, nonostante la consapevolezza più volte espressa della fugacità di tutto quanto è terreno, tendono a imporsi le passioni mondane; nella seconda, aperta dalla canzone 264, in cui l’autore esprime una decisa volontà di cambiamento, assumono una decisa prevalenza i temi etico-religiosi, in rapporto alla morte di Laura che rende con dolorosa certezza la precarietà delle cose terrene. In realtà nel Canzoniere nessuna situazione etico-psicologica è mai definitivamente superata. Il Canzoniere 3 515
2 La modernità del Canzoniere: la scoperta di un io diviso L’“io” è il vero protagonista del Canzoniere La maggior parte delle liriche del Canzoniere sono ispirate all’amore per Laura. A differenza, però, della poesia amorosa precedente (dalla lirica provenzale a quella stilnovistica), la raccolta petrarchesca pone al centro delle composizioni non la lode della donna, ma l’io del poeta, vero protagonista dell’opera, analizzato in modo sorprendentemente moderno. Nel Canzoniere l’amore appare lo specchio di un conflitto di portata epocale tra codici etico-culturali, che si rifrangono all’interno della coscienza del protagonista, diviso tra il richiamo a una spiritualità cristiana ancora ascetica e medievale e l’attrazione per la dimensione terrena, secondo una concezione della vita già preumanistica. Un percorso ascendente o il ritratto dell’imperfezione umana? La collocazione di due testi chiave, il sonetto di pentimento che apre l’opera e la canzone Vergine bella che la chiude, sembrerebbero tracciare un percorso ascendente in senso cristiano, volto a evidenziare come, alla fine, il protagonista si liberi dalle catene della passione amorosa e si ravveda, rivolgendosi dunque a Dio e alla figura mediatrice della Vergine. In questo senso il Canzoniere potrebbe apparire una trasposizione poetica delle Confessioni di Sant’Agostino. In realtà Petrarca rimane ben lontano dalla radicalità della conversione agostiniana, così come dalla linearità del percorso dantesco, che dalla selva oscura del peccato giunge a Dio attraverso un progressivo e univoco cammino ascendente. La tensione al trascendente, pur sinceramente avvertita, è in lui costantemente combattuta dall’attrazione (mai definitivamente vinta) per le cose del mondo: il suo cammino verso la virtù è tortuoso, segnato da incertezze, conflitti, ricadute e successivi pentimenti. Il Canzoniere non traccia quindi un medievale itinerarium mentis in Deum, ma delinea piuttosto il moderno ritratto dell’umana imperfezione, mettendo a nudo per la prima volta la distanza tra ideale religioso e uomo reale (una distanza che ancora oggi è spesso vissuta da chi si professa cristiano e credente). La rappresentazione di un io diviso e contraddittorio è sicuramente il tratto più moderno dell’opera di Petrarca: pensiamo infatti a come la psicologia e la psicoanalisi contemporanee siano nate proprio da una visione dell’io come campo di tensioni che possono essere in contraddizione; e come la percezione di un’interiorità instabile e molteplice abbia caratterizzato la produzione letteraria più complessa e “filosofica” del Novecento: da Pirandello a Svevo, a Gadda e a Joyce. online
Interpretazioni critiche Karlheinz Stierle Il mondo gerarchico e verticale di Dante e il mondo orizzontale e molteplice di Petrarca
L’irriducibile contrasto tra amore e fede La contraddizione tra la fedeltà al Vangelo, che predica il distacco dalle cose terrene, e la naturale tendenza dell’uomo verso di esse è rappresentata nel Canzoniere principalmente dal desiderio amoroso. Mentre per Dante anche l’amore per una donna può essere ricondotto a Dio, attraverso il mito stilnovistico della donna-angelo, tramite per il divino, Petrarca, ormai lontano dalla visione universalistica della Scolastica, concepisce una netta separazione tra il piano trascendente e quello terreno: l’amore per la donna perciò non può essere, alla maniera stilnovistica, una via per accedere al divino ma anzi può soltanto distoglierne. Alla base del Canzoniere sta dunque la consapevolezza della natura peccaminosa dell’amore. Una consapevolezza posta in rilievo già nel sonetto 3 (➜ T8a ), in cui l’innamoramento, avvenuto, proprio il Venerdì Santo, nel giorno della morte di Cristo, distoglie Francesco dal «commune dolor» per la Passione di Cristo, estraniandolo dalla comunità cristiana.
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La visione ambivalente dell’esperienza amorosa Ma, come si è detto, Petrarca non ha una visione univoca e coerente del suo amore per Laura; possono così essere accostate, l’una dopo l’altra, composizioni ispirate a stati d’animo opposti, come i sonetti 61 e 62 (➜ T9a e ➜ T9b ), volutamente posizionati uno vicino all’altro: nel primo l’amore per Laura è visto come esperienza positiva e felice, nel secondo rappresenta una tentazione peccaminosa. L’impossibilità di giungere a un’univoca definizione dell’amore (piacere e insieme dolore, bene e insieme male) è espressa in modo paradigmatico nel sonetto 132 (➜ PAG. 598), in cui non è certo casuale l’insistente presenza della figura retorica dell’ossimoro («O viva morte, o dilectoso male»: così il poeta si rivolge a questo sentimento).
PER APPROFONDIRE
Laura e Petrarca, incunabolo V. 546 del Canzoniere e dei Trionfi di Petrarca (Venezia 1470, Biblioteca Marciana).
I volti di Laura Le molteplici immagini di Laura Poiché la poesia petrarchesca è incentrata sull’interiorità del protagonista, la visione (e la rappresentazione) della donna amata muta in rapporto alle diverse disposizioni del suo animo, alle forze in conflitto momentaneamente prevalenti (passione amorosa-ragione-fede) e alla sua evoluzione interiore. • Laura “nemica” Nella prima parte del Canzoniere, in cui è prevalente la dimensione sensuale dell’amore, Laura assume i tratti della donna crudele e indifferente, che sfugge e rifiuta l’amante, spingendolo alla disperazione e persino all’idea del suicidio. Tale immagine di Laura è evidenziata da termini come «nemica», «spietata», «aspra e superba», «aspra e cruda»: una scelta lessicale che rimanda alle rime “petrose” di Dante. Collegato a tale rappresentazione è anche l’uso di stilemi relativi alla “malattia d’amore” (➜ C4). La “crudeltà” di Laura – come il protagonista comprenderà successivamente – era in realtà dovuta alla sua virtù. • Laura in prospettiva stilnovistica In un secondo momento il protagonista tende a idealizzare il proprio sentimento amoroso. Di conseguenza (soprattutto a partire dalla canzone 70), sui tratti “petrosi” prevale l’immagine di Laura come figura angelica e beatificante, che induce il poeta al perfezionamento spirituale e addirittura lo avvia verso Dio. Ad es., nell’apertura della canzone 72, Laura è evocata in termini prettamente stilnovistici: «Gentil mia donna, i’ veggio / nel mover de’ vostr’occhi un dolce lume / che mi mostra la via ch’al ciel conduce».
Ma si tratta di un’illusione: per quanto spiritualizzato, l’amore è comunque fonte di peccato, perché rivolge a una creatura terrena l’amore che dovrebbe essere rivolto a Dio. • Laura dopo la morte La morte di Laura non distoglie il poeta dall’amore e dal pensiero costante della donna. Attraverso il filtro della memoria e dell’immaginazione poetica, Laura conosce, come personaggio del Canzoniere, una nuova vita (➜ T14c ): scomparsa dalla dimensione terrena, può finalmente diventare una creatura della fantasia poetica, dalla quale può essere plasmata secondo il desiderio dell’amato e apparire così pietosa e innamorata del poeta, quale mai era stata in vita. Si ripropongono, comunque, nella figurazione di Laura morta le oscillazioni psicologiche proprie di Petrarca: si alternano infatti rime in cui è espressa una disperazione inconsolabile per la sua perdita ad altre in cui, al contrario, la donna appare come una figura dolce e consolatrice, ma soprattutto portatrice di un messaggio salvifico rivolto all’amato: la vera vita, lo ammonisce, sta in cielo, in una dimensione lontana dall’imperfezione e dalla vanità delle cose terrene (➜ T14a ). Anche nelle “rime in morte” Laura continua comunque a essere, a differenza delle donne stilnoviste, una figura femminile reale, dotata di corporeità: costante è infatti il riferimento struggente al suo corpo, un tempo bellissimo, ora «poca polvere […] che nulla sente» (➜ T14b ), a riprova del fatto che la fascinazione terrena non è stata del tutto cancellata dalla morte.
Il Canzoniere 3 517
3 I temi del Canzoniere L’omogeneità tematica della raccolta Leggendo il Canzoniere si ha l’impressione di un’opera unitaria, la cui irripetibile identità è riconoscibile in ogni pagina sia grazie all’omogeneità stilistico-linguistica che caratterizza l’opera, sia mediante la continuità di alcuni filoni tematici che percorrono tutta la raccolta. Al centro del Canzoniere sta quello che potrebbe essere definito un “macrotema”: il conflitto interiore in rapporto, essenzialmente, all’amore: a esso abbiamo già dato spazio nel precedente paragrafo. Qui faremo riferimento agli altri principali temi dell’opera, che peraltro interagiscono in vario modo con quello portante.
Il paesaggio, riflesso dell’interiorità Una nuova visione della natura Con la poesia petrarchesca lo spazio naturale non è più concepito come specchio del divino, ma assume il nuovo volto di paesaggiostato d’animo, riflesso dell’interiorità, un volto destinato a larga fortuna nella letteratura, nell’arte e più in generale nella sensibilità occidentale. Nel Canzoniere le forme della natura recano sempre l’impronta della percezione soggettiva e dei sentimenti di chi le contempla: possono allora riflettere lo stato d’animo estatico dell’innamorato, per cui tutto quello che lo circonda appare radioso e splendido, o rispecchiare, attraverso il riferimento a luoghi solitari, aspri e selvaggi, la tormentata condizione interiore dell’io lirico, come nel celebre sonetto Solo et pensoso (➜ T11a ). Il motivo del colloquio con la natura Nel Canzoniere prende rilievo il motivo, che diventerà poi canonico nel genere lirico, del colloquio con la natura, confidente dell’io, come nel già citato sonetto Solo et pensoso, in cui «monti et piagge et fiumi et selve» sembrano conoscere e condividere lo stato d’animo del protagonista; o nella canzone Chiare, fresche et dolci acque, in cui il protagonista si rivolge ai luoghi che hanno visto la bellezza della donna amata, quasi confessandosi ad essi (➜ T12b ). La rivisitazione del locus amoenus Al tema dell’amore felice è legato, nella raccolta, lo scenario classico del locus amoenus, a cui si aggiungono le connotazioni proprie del plazer di origine provenzale, con gli elementi topici delle limpide acque, dei prati fioriti, dei boschi, del canto degli uccelli: oltre che dai modelli letterari, l’ispirazione viene anche da luoghi reali, soprattutto Valchiusa e la valle del Sorga, nei dintorni di Avignone, dove Petrarca amava soggiornare.
La memoria La centralità della dimensione temporale La novità fondamentale del Canzoniere rispetto alla precedente lirica d’amore è l’aver sostituito, all’oggettività dell’esperienza amorosa, collocata in un momento esatto del tempo (nella lirica precedente a Petrarca la donna in genere è descritta al presente, come se fosse vista in quel momento), la realtà psicologica, nella quale i tempi si sovrappongono e con il presente convivono il futuro dell’attesa e il passato del ricordo. Il ruolo centrale assunto dalla memoria e, più in generale, dal tema del tempo nel Canzoniere risente del pensiero di sant’Agostino: nelle sue Confessioni il filosofo evidenzia, infatti, il rapporto fra tempo e interiorità, mostrando come il passato e il futuro esistano soltanto nella coscienza.
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La «memoria innamorata» Nel Canzoniere, Laura stessa è soprattutto una creazione della memoria: con ogni probabilità Petrarca incontrò poche volte la donna, ma l’amore per lei, nutrito dal ricordo, domina per tutta la vita l’animo e la poesia del poeta, incessantemente intento a rievocare i momenti felici. Del ricordo di Laura sono pervasi i luoghi in cui il poeta l’ha vista nel fulgore della sua bellezza: gli basta tornarvi (in particolare a Valchiusa) perché la «memoria innamorata» (come egli stesso la definisce nel Canzoniere 71, v. 99), anche a distanza di molti anni, restituisca intatto l’incanto del ricordo della donna amata. Paradossalmente, le liriche in cui l’immagine di Laura appare più vivida e affascinante sono proprio quelle in cui la donna è assente ed è evocata soltanto nel ricordo nostalgico dell’amante, come nella canzone Chiare, fresche et dolci acque (➜ T12b ) o nel sonetto Erano i capei d’oro a l’auara sparsi (➜ T12a ).
La fuga del tempo e la caducità delle cose umane Un tema di ascendenza classica La consapevolezza del trascorrere rapido e inesorabile del tempo costituisce uno dei nuclei poetici più importanti e di maggiore suggestione del Canzoniere, un tema che emerge persino nelle poesie ispirate alla tematica politica: nella canzone Italia mia, ai prìncipi avidi di potere il poeta ricorda che «’l tempo vola» e che essi dovranno presentarsi a Dio con il carico delle proprie colpe. Si tratta di un tema che Petrarca già ritrovava negli amati classici (da Virgilio a Orazio, a Ovidio) e in filosofi come Seneca che, in particolare nelle Lettere a Lucilio e nel De brevitate vitae (La brevità della vita), riflette sul valore del tempo e sull’importanza di non dissiparlo in futili e dispersive occupazioni (➜ D2 , D3a-b ). La peccaminosa attrazione per ciò che è destinato a svanire La fugacità del tempo si associa nel Canzoniere all’angosciosa percezione della caducità di tutto ciò che è terreno, dalla fama all’amore («quanto piace al mondo», come recita il sonetto proemiale, è soltanto «breve sogno»). Da qui l’aspirazione del poeta a sottrarre all’oblio, grazie alla memoria e alla scrittura, eventi, sentimenti, la bellezza stessa di Laura, destinata a sfiorire: ne deriva la costituzione stessa dell’opera, concepita da Petrarca come sfida alla dissoluzione operata dal tempo. Ma, pure, proprio la consapevolezza della precarietà di ciò che è terreno intensifica in Petrarca la coscienza del carattere peccaminoso dell’attrazione per esso e il conseguente desiderio di staccarsene, sostituendo ai labili oggetti transeunti le realtà spirituali, degne e stabili. Una prospettiva che emerge soprattutto (anche se non senza contraddizioni) nella seconda parte dell’opera, in rapporto alla morte di Laura (1348): la scomparsa della donna amata diventa infatti per il poeta testimonianza evidente e lacerante della caducità delle cose terrene.
La visione politica
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Per approfondire “Italia”, “italiani”: un mito linguisticoletterario
I sonetti sulla corruzione della curia papale ad Avignone Sebbene non abbiano la stessa rilevanza che nel poema dantesco, nel Canzoniere sono presenti anche rime dedicate al tema politico, fra cui in particolare i sonetti “antibabilonesi” (136138). Si tratta di una serie di componimenti incentrati sulla corruzione della Chiesa e della curia papale, in quel tempo stabilitasi ad Avignone, che il poeta rappresenta come il luogo di ogni corruzione e vizio, non dissimile dalla biblica Babilonia («L’avara Babilonia à colmo il sacco d’ira di Dio, e di vitii empii et rei», «Fontana di dolore, albergo d’ira, scola d’errori et templo d’eresia»). Il Canzoniere 3 519
PER APPROFONDIRE
La canzone Italia mia Ma il tema politico è soprattutto collegato alla celeberrima canzone Italia mia (➜ T15a ), che ispirerà, due secoli dopo, la pagina conclusiva del Principe di Machiavelli, in cui lo scrittore esorta Lorenzo di Piero de’ Medici, dedicatario della propria opera, a liberare l’Italia dagli stranieri. Anche per il rilievo dato da Machiavelli a questo lavoro, Italia mia diventò un modello per la canzone politica dei secoli successivi, come dimostra l’esempio di Leopardi, autore in età giovanile di una canzone All’Italia, ispirata al modello petrarchesco, e di altri poeti di età risorgimentale e post-risorgimentale. In Italia mia Petrarca rivolge un solenne appello ai signori italiani perché pongano fine alla reciproca ostilità che produce danni irreparabili alla patria comune, dilaniata dalle guerre civili («Vostre voglie divise / guastan del mondo la più bella parte») e perché rinuncino a utilizzare le truppe mercenarie straniere (un tema che diventerà drammaticamente attuale al tempo di Machiavelli). L’identità di Petrarca è ormai quella di un intellettuale cosmopolita che, in nome della propria autorevolezza culturale, può rivolgersi alla pari ai potenti signori italiani, facendo appello alle comuni radici e alla memoria della grandezza di Roma.
Le parole chiave del Canzoniere Nel Canzoniere le relazioni intertestuali sono evidenziate dal ricorrere di parole chiave, che tracciano una serie di percorsi tematici all’interno dell’opera. Proponiamo alcuni termini collegati ai temi fondamentali della raccolta. Errore È un termine molto importante nel Canzoniere, come già annuncia il sonetto proemiale (v. 3 «in sul mio primo giovenile errore»). “Errore” rimanda sia all’ambito filosofico, in particolare alla filosofia stoica, ed è considerato il frutto di un insufficiente controllo della ragione sia, soprattutto, all’ambito morale-religioso, in cui assume il significato di dispersione, incostanza morale e vera e propria deviazione dalla retta via: una condizione più volte evidenziata nelle rime sparse (ad es. ➜ PAG. 598: la fragile barca, che simboleggia la vita del poeta, è carica «d’error» e si trova «in alto mar senza governo»). Vano Parola chiave del Canzoniere, legata al tema scritturale della Vanitas. Le attrattive terrene, spesso chiamate «dolci», nel momento in cui subentra nel poeta uno stato d’animo meditativo e cosciente della transitorietà della vita diventano «vane» perché inconsistenti, non destinate a durare. Nel sonetto proemiale compare anche il verbo vaneggiare, che ricorre nelle rime ispirate alla tematica del pentimento, come il sonetto 62: «dopo le notti vaneggiando spese» (➜ T9b ). Vergogna La parola ha un valore “segnaletico” particolarmente forte nel Canzoniere: la presenza del termine nel sonetto proemiale preannuncia che il tema amoroso sarà trattato nella raccolta in un’ottica penitenziale cristiana. La vergogna è lo sprone che induce il protagonista, consapevole di aver sprecato il tempo della propria vita vaneggiando, a ricercare il cambiamento che dovrebbe portarlo a incamminarsi sulla strada della virtù. Guerra La parola nel Canzoniere indica il conflitto interiore (spesso designato anche dall’immagine metaforica della tempesta), ma anche la tentazione, ciò che distoglie l’uomo dalla via del Bene. La ricorrenza del termine rispecchia una visione
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della vita come conflitto tra forze opposte, propria della concezione del filosofo greco Eraclito (VI-V sec.), che Petrarca dichiara di condividere. Speranza Nel Canzoniere sono contrapposte due accezioni di speranza: una, rivolta alle cose terrene, destinata a rimanere delusa e ad accompagnarsi alla sofferenza (le «vane speranze» e il «van dolore» del sonetto proemiale); l’altra, intesa come virtù teologale, rivolta a Dio e destinata ad essere appagata con certezza se si ha fede (la virtù teologale della speranza è quella del vecchio pellegrino che spera di vedere in cielo il Volto Santo ➜ T8b ). Nella canzone 264 (vv. 48-50), snodo chiave dell’opera, il protagonista comprende di dover rivolgere le sue speranze a beni più alti ed eterni («or ti solleva a più beata spene / mirando ’l ciel che ti si volve intorno, / immortal et addorno»). Il suo cambiamento è compiuto quando, nell’ultimo sonetto (365 ➜ T16a ), ideale conclusione del cammino interiore tracciato nell’opera, il protagonista affida le sue speranze soltanto a Dio («Tu sai ben che ’n altrui non ò speranza»): «la speranza ha trovato il suo oggetto vero» (Cherchi). Pace È la parola che chiude il Canzoniere. Diverse sono, nella raccolta petrarchesca, le forme di pace cui l’anima aspira: la pace legata alla serenità (in Chiare, fresche et dolci acque il luogo è così amato dal protagonista, da indurlo a confessare «ch’altrove non ò pace»); la pace in senso politico, nella canzone 128, che si conclude con una triplice invocazione: «I’ vo gridando: Pace, pace, pace». Nell’ultimo testo, la canzone Vergine bella, la pace indica il superamento del tormentoso conflitto interiore e l’approdo a Dio. Le tre cantiche del poema dantesco si chiudono tutte sulla parola stelle, a indicare il raggiungimento della sfera che nella visione simbolica medievale rappresenta il divino, e perciò stesso l’allontanamento dalla dimensione terrena; Petrarca chiude invece significativamente la sua opera con la parola pace, sigillo simbolico di un itinerario tormentato, tutto all’interno dell’anima.
Il tema religioso del pentimento e gli ultimi testi del Canzoniere Gli ultimi testi del Canzoniere (361-366) devono essere considerati a parte, data l’importanza che la loro collocazione implica per il significato complessivo della raccolta. In essi domina il tema religioso del pentimento, che, pur essendo già presente in alcune delle rime precedenti, sembra in queste ultime suggerire l’apertura a una dimensione spirituale diversa, rivolta finalmente alla fede e alla speranza ultraterrena, che concluderebbe la vicenda interiore dell’opera, riconducendola a un significato religioso. È importante precisare che il cammino finale del protagonista delineato dall’autore non va letto come immediata trasposizione di una reale situazione biografica di Petrarca stesso, ma risponde a esigenze strutturali e compositive, volte a chiudere la raccolta nel nome dell’approdo alla fede e del definitivo ripudio dell’“errore”, della vanità delle passioni terrene, realizzando intenzionalmente una «chiusura del cerchio» (P. Cherchi). Il ravvedimento finale trova note particolarmente intense nel penultimo testo (➜ T16a ), dominato dalla percezione dell’imminenza della morte e dall’amara consapevolezza di aver male impiegato le proprie doti («senza levarmi a volo, abbiend’io l’ale») e si configura in un’accorata preghiera a Dio. La canzone conclusiva, Vergine bella (➜ T16b ), ribadisce tale mutato atteggiamento psicologico e spirituale, trasferendo l’oggetto del desiderio dalla donna terrena (Laura) a quella celeste (la Vergine) e chiudendo così il cerchio aperto quando il protagonista, innamorandosi di Laura nel giorno della commemorazione della Passione, si era escluso dalla comunità dei fedeli, allontanandosi dalla devozione cristiana.
4 Le scelte stilistiche del Canzoniere e l’unilinguismo Alla ricerca del volgare perfetto Petrarca non ha lasciato scritti sulla lingua, ma, indirettamente, evidenzia il proprio ideale stilistico attraverso l’incessante lavoro di correzione delle rime, testimoniato dal cosiddetto “codice degli abbozzi”, il Vat. Lat. 3196, costellato di annotazioni scritte dal poeta come promemoria per correzioni che intendeva fare: attorno ai testi poetici, sui margini, negli spazi bianchi, vicino a interi versi o a singoli vocaboli, l’autore scrive frasi in latino (la lingua a lui familiare, tanto da servirsene, come qui, anche a scopi pratici): hic placet (“qui mi piace”), dic aliter hic (“qui esprimiti in modo diverso”), non videtur satis triste principium (“l’inizio non sembra abbastanza triste”) e simili autoesortazioni e ipotesi correttive, alla ricerca di quel volgare perfetto che costituisce l’obiettivo delle cure stilistiche. Tale lavoro intenso e sistematico è stato studiato in particolare dal filologo Gianfranco Contini che, attraverso l’esame del sistema delle varianti petrarchesche, ha delineato l’ideale stilistico perseguito da Petrarca. Dante e Petrarca: due scelte stilistiche opposte Contini istituisce un confronto tra Dante e Petrarca relativo alle scelte linguistiche operate dai due grandi poeti. Il critico conia le opposte categorie di “unilinguismo” (per Petrarca) e di “plurilinguismo” (per Dante), categorie in seguito applicate dai critici anche ad altri scrittori di varie epoche, fino ai giorni nostri. Il Canzoniere 3 521
Le opposte scelte stilistiche di Dante e Petrarca per Contini sono da mettere in rapporto con la loro visione radicalmente diversa del mondo: il plurilinguismo dantesco nella Divina Commedia corrisponde a una visione “totale” dell’universo. Per il “poema sacro” Dante utilizza una pluralità di registri, adatta a raffigurare la varietà del mondo, toccando tutti gli estremi dello stile, dal livello basso ed espressionistico a quello sublime dell’ineffabilità. Il lessico della Divina Commedia attinge agli ambiti più diversi, arrivando a ospitare persino arditi neologismi; inoltre, Dante, al contrario di Petrarca, non dissimula i contrasti tonali, ma anzi, li enfatizza (un solo esempio: Pd XVII, 129). All’opposto Petrarca, il cui orizzonte nel Canzoniere non è l’universo visto con gli occhi di Dio ma il cerchio ristretto dell’anima, persegue con coerenza scelte stilistiche del tutto diverse, improntate all’unità tonale: limitandosi a esplorare il territorio dell’interiorità, inesauribile oggetto della propria ricerca, Petrarca costruisce la lingua del Canzoniere come un sistema chiuso, dotato di una rigorosa coerenza interna. L’unilinguismo petrarchesco comporta la forte tendenza all’uniformità: di tono, di scelte lessicali, di registro linguistico. Petrarca adotta una lingua rarefatta e selettiva, più elevata del linguaggio quotidiano, evitando di contaminarla con un registro basso, ma rifuggendo anche dall’estremo opposto, l’ardua elevatezza del tono, e l’uso di termini carichi di valenze filosofiche. L’unilinguismo di Petrarca dà luogo a una lingua raffinata, organizzata in un sistema coerente e calcolato, e perciò relativamente facile da imitare; non sorprende perciò che essa sia stata adottata dai poeti lirici successivi e codificata da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua come base per la futura lingua poetica italiana. Le caratteristiche stilistiche del Canzoniere Le principali caratteristiche del linguaggio e dello stile del Canzoniere possono essere così sintetizzate: • lessico: il lessico del Canzoniere è estremamente selettivo. L’autore evita i termini troppo corposi e realistici, quelli eccessivamente specifici, quelli municipali e dialettali, insistendo su una serie di parole chiave, in particolare aggettivi: basti pensare, ad esempio, che, come è stato rilevato, nel Canzoniere l’aggettivo dolce ricorre ben 250 volte; egli privilegia termini vaghi e polisemici, che assumono sfumature differenti a seconda del contesto come vago, vano, chiaro. • figure retoriche: anche le figure retoriche del Canzoniere rispondono alla logica compositiva unitaria della raccolta. Come le parole chiave, alcune metafore ricorrenti stabiliscono collegamenti intratestuali: ad es., la metafora della vita come navicella nel mare tempestoso della vita, le immagini belliche applicate all’amore, il fuoco amoroso e così via. Tra le modalità retoriche fondanti del Canzoniere c’è la ricorrenza di termini antitetici accoppiati, come pace/guerra, terra/cielo, vita/morte, che rispecchiano le contrapposizioni (e contraddizioni) che caratterizzano l’universo tematico e simbolico del Canzoniere: amore terreno vs amore celeste, perdizione vs ricerca di salvezza, beni terreni vs beni eterni. All’antitesi si affianca spesso l’ossimoro, che supera le opposizioni logiche nell’unità dell’esperienza vissuta: dolce affanno, fera mansüeta. Altre figure frequenti nelle rime petrarchesche sono quelle “di disposizione”, finalizzate a conferire armonia e ordine al discorso, come il parallelismo, le coppie aggettivali in endiadi, il chiasmo. • sintassi: la sintassi del Canzoniere è logica e piana. Non mancano le subordinate, a evidenziare i rapporti logici tra le proposizioni, ma il discorso tende prevalentemente alla paratassi.
522 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
• metrica: nei sonetti le pause logiche e sintattiche tendono per lo più a coincidere
con quelle metriche, e il discorso raramente travalica i confini dei raggruppamenti metrici delle quartine e delle terzine. Pur presenti, gli enjambements non sono molto frequenti, determinando variazioni poco vistose nel ritmo dei versi che, di andamento piano e armonioso, generalmente coincidono con le unità metriche. Il ritmo delle canzoni petrarchesche (peraltro sempre più fluido di quello dei sonetti) varia a seconda che prevalgano i settenari, che conferiscono scorrevolezza e musicalità, o gli endecasillabi, preferiti per ottenere toni più gravi e sostenuti. • suoni: anche i suoni della poesia petrarchesca sono ispirati all’ideale di medietà e sfumature monotonali che caratterizza la raccolta. Prevalgono le parole piane, spesso bisillabe, e sono frequenti le allitterazioni; rari i suoni duri e cupi, e quelli troppo marcati sul piano fonico.
PER APPROFONDIRE
Il Canzoniere
TITOLO
Rerum vulgarium fragmenta (“Frammenti di cose volgari”); Canzoniere.
STRUTTURA
366 componimenti (di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali) suddivisi in due parti: “la vita di Laura” (1-263), dove prevalgono le passioni mondane; “la morte di Laura” (264-366), dove prevalgono temi etico-religiosi.
ARGOMENTO
l’amore per Laura
TEMI
l’io del poeta in conflitto, il contrasto amore-fede, la visione ambivalente dell’amore, la caducità delle cose umane, il pentimento, la corruzione della Chiesa
GENERE
raccolta poetica
STILE
unilinguismo (uniformità di tono, di scelte lessicali, di registro linguistico)
Come si legge la grafia di Petrarca Il codice manoscritto Vaticano Latino 3195 del Canzoniere – in parte autografo e in parte di mano di un copista fidato che trascriveva sotto il controllo dell’autore – è una preziosissima testimonianza della volontà testuale del Petrarca e la base su cui si sono allestite le edizioni dei Rerum vulgarium. Agli occhi di un lettore moderno, spiccano questi usi nella grafia: • La h etimologica, iniziale di parola, è un latinismo grafico e non va pronunciata (homo, honore).
• Alcuni gruppi consonantici non sono assimilati: ct per tt (Factore, affecto); ti per zi (gratia). • È conservata la x latina (extremo). • La congiunzione e, secondo l’uso del tempo, si scrive et alla latina, ma si legge come fosse e, cioè senza pronunciare il grafema -t (doglioso et grave); se però et è prevocalica (et io ’l provai) si pronuncia come ed (in genere, in italiano la lettera -d si interpone per evitare il contatto di due vocali).
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Francesco Petrarca
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono Canzoniere, 1 F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
AUDIOLETTURA
La miglior chiave di lettura dell’intero Canzoniere è il sonetto proemiale, quasi certamente scritto nel periodo in cui Petrarca, dopo la morte di Laura, concepì il progetto di riunire le rime sparse in un libro unitario, quindi probabilmente intorno agli anni 1349-1350. Posto come introduzione alla raccolta, il sonetto ne è anche, idealmente, la sintesi conclusiva: il componimento ne indica infatti i destinatari, la natura, i temi, le caratteristiche, ma traccia anche una sorta di bilancio esistenziale.
Voi ch’ascoltate1 in rime sparse2 il suono di quei sospiri3 ond’io nudriva ’l core4 in sul mio primo giovenile errore5 4 quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono6, del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e ’l van dolore7, ove sia chi per prova intenda amore8, 8 spero9 trovar pietà, nonché perdono. Ma ben veggio or sí come al popol tutto favola fui gran tempo10 onde sovente 11 di me medesmo meco mi vergogno11
La metrica Sonetto con schema di rime ABBA ABBA CDE CDE. 1 Voi ch’ascoltate: il sonetto si apre con un’invocazione ai destinatari dell’opera, ma il vocativo resterà sospeso e non seguito a distanza da alcun verbo; a partire dal v. 2, l’attenzione si rivolge invece al sogg. di prima persona, più volte richiamato nei versi seguenti da pronomi e aggettivi possessivi. Non a caso il poeta si rivolge ad ascoltatori (ascoltate) e non a lettori, perché egli chiede una partecipazione ai propri sentimenti, trasmessi con maggior immediatezza dalla voce che non dalle parole scritte. 2 rime sparse: l’espressione corrisponde al titolo latino della raccolta, Rerum vulgarium fragmenta, e sottolinea il carattere fondamentale del libro, pensato come una raccolta di poesie corrispondenti a momenti, stati d’animo, sentimenti diversi e spesso in contraddizione tra loro. 3 suono… sospiri: l’allitterazione della s, evidenziata dall’enjambement tra i vv. 1 e 2, sottolinea il legame tra la poesia (suono) e la sofferenza amorosa (sospiri). 4 ond’io… core: di cui alimentavo il mio animo.
5 giovenile errore: l’amore per Laura, visto come una peccaminosa deviazione dalla retta via della fede, dovuta alla passionalità giovanile. 6 quand’era… sono: quando ero, almeno in parte, un uomo differente da quel che sono adesso; nel verso viene sottolineato il confronto fra il giovane che ha scritto poesie amorose e l’uomo più saggio e maturo che le ha raccolte e ordinate. Il mutamento non è stato però completo: l’io nuovo differisce solo in parte dall’io del passato. 7 del vario stile… van dolore: dello stile mutevole attraverso il quale esprimo le mie sofferenze e le mie riflessioni, tra speranze e dolore, entrambi vani nella prospettiva dell’eterno. Le caratteristiche della raccolta petrarchesca, oscillante fra stati d’animo contraddittori, fra illusione e disillusione, si riflette in un diverso stile delle rime, ora liete, ora malinconiche; l’espressione vario stile è messa in rilievo dall’anticipazione. La parola chiave vane neutralizza l’opposizione tra speranze e dolore, accomunandoli nella vanità propria delle cose terrene. 8 ove sia… amore: qualora vi sia qualcuno che abbia provato per esperienza che
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cosa sia l’amore. Il “lettore ideale” a cui è destinata l’opera è colui che ha provato gli stessi sentimenti e le stesse passioni dell’autore, ed è perciò in grado di comprenderlo. 9 spero: con un anacoluto, dato che il soggetto voi del v. 1 non è seguito a distanza da alcun verbo, al v. 8 si passa alla prima persona, spero, che sposta l’attenzione dai destinatari all’io del protagonista. La costruzione irregolare mette in evidenza la centralità dell’io del poeta, vero soggetto della raccolta. 10 Ma ben veggio… gran tempo: ma ora mi accorgo chiaramente come per tutte le persone sono stato a lungo oggetto di derisione. Le terzine si aprono con un’antitesi che pone in contrasto il passato del giovenile errore e il presente della consapevolezza e della maturità, tracciando fra di esse una netta linea di separazione. 11 di me… vergogno: l’allitterazione del suono “me” concentra l’attenzione sul protagonista del Canzoniere, sottolineando il suo sentimento di vergogna.
et del mio vaneggiar12 vergogna è ’l frutto, e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente 14 che quanto piace al mondo13 è breve sogno14. 12 vaneggiar: inseguire beni vani. Vaneggiare è parola chiave del Canzoniere, legata al tema della vanitas. I beni terreni, transitori, sono contrapposti a quelli spirituali, eternamente durevoli, e il poeta si rammarica di aver posto al centro dell’esistenza beni caduchi, che non meritavano la passione ad essi rivolta.
13 al mondo: durante la vita terrena. 14 vergogna… sogno: conseguenze dell’aver inseguito cose vane sono la vergogna, il pentimento e la consapevolezza che i beni terreni sono illusioni fuggevoli come un sogno. Nelle terzine del sonetto proemiale viene delineato il percorso psicologico che sarà proprio del Canzoniere: con il tempo,
il poeta riconoscerà la vanità delle cose terrene e si pentirà di aver dedicato ad esse, fugaci come un sogno, tanta passione e dedizione. La parola sogno che chiude il sonetto (significativamente in rima con vergogno e in assonanza con suono) mette in evidenzia tuttavia anche il fascino dell’amore e delle cose mondane, da cui il poeta non riesce a staccarsi del tutto.
Analisi del testo Il sonetto proemiale come chiave di lettura dell’intera raccolta Nell’esordio del sonetto proemiale (per Santagata, un «sonetto-manifesto» ➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE L’errore del sonetto proemiale OL) Petrarca presenta il proprio lavoro come raccolta di
“rime sparse”: l’espressione rimanda al titolo latino, Rerum vulgarium fragmenta, e sottolinea le oscillazioni psicologiche che stanno alla base della composizione delle rime e che si riflettono nella struttura e nella forma dell’opera.
Un nuovo rapporto autore-lettore In secondo luogo, Petrarca evidenzia già nell’apertura della raccolta un rapporto innovativo dell’io lirico con i lettori: egli infatti non si propone loro come guida e modello ma, confessando i propri errori e debolezze, si pone sullo stesso piano del pubblico, con il quale cerca di creare una condizione di “simpatia” (nel senso etimologico) coinvolgendolo subito attraverso l’allocuzione che apre il Canzoniere (Voi ch’ascoltate...). La differenza con la Commedia non potrebbe essere maggiore: se Dante si offre come autorevole maestro capace di istruire un lettore-discepolo, indirizzando un messaggio salvifico a tutta l’umanità («Nel mezzo del cammin di nostra vita»), i destinatari del Canzoniere sono invece pensati come un pubblico selettivo, immaginato nella condizione intima e raccolta, propria della prima tradizione lirica, dell’ascolto (ascoltate… il suono); insomma, confidenti-amici accomunati all’io lirico dall’esperienza amorosa, spesso difficile e dolorosa («ove sia chi per prova intenda amore / spero trovar pietà»).
Un bilancio esistenziale L’elemento del tempo, fondamentale nel Canzoniere, assume grande rilevanza fin da questo primo testo. Il sonetto proemiale mostra infatti come la raccolta non si riferisca a un momento parziale dell’esperienza dell’autore, ma raccolga il senso di tutta la sua vita, ripercorsa nei suoi diversi momenti, dal giovenile errore del primo innamoramento alla disillusione sopravvenuta nel momento in cui si è compresa la vanità delle cose terrene («quanto piace al mondo è breve sogno»). Ma già si anticipa al lettore che l’esito della storia non sarà un completo mutamento del protagonista («era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono»): il Canzoniere si presenta dunque, come giustamente si è detto, come una sorta di “romanzo di formazione” incompiuto. Con lo sguardo del presente, frutto di una raggiunta consapevolezza e maturità di giudizio (si noti l’espressione fortemente assertiva: «ben veggio or sì»), il protagonista condanna il proprio passato ma, al contempo, riconosce di non essersene ancora del tutto liberato.
I modelli etici irraggiungibili di Petrarca Come hanno segnalato in particolare gli studi di Marco Santagata, due sono i modelli etici a cui Petrarca si ispira: uno classico, il saggio stoico; l’altro cristiano, il convertito sant’Agostino. Il saggio stoico è colui che, dopo un lungo apprendistato filosofico, ha imparato a tenere a freno le passioni, conformando la propria vita alla ragione; ma Petrarca nel Canzoniere si dichiara incapace di raggiungere tale ideale, mostrandosi costantemente insidiato dalle passioni e
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incapace di autocontrollo. Allo stesso modo è irraggiungibile per lui, almeno fino alle ultime rime, il modello esemplare di sant’Agostino, che vive nel peccato la prima parte della propria esistenza ma attua poi una profonda conversione, appagando la propria inquietudine esistenziale nell’approdo al divino: una svolta radicale di cui Francesco si rivela incapace.
I campi lessicali del sonetto Il lessico di questo primo sonetto afferisce a campi semantici che saranno distintivi dell’intera opera. In primo luogo assume già notevole spicco quello della vanità (vane speranze, van dolore, vaneggiar) delle cose terrene, che richiama sia un ideale religioso ascetico, di ispirazione biblica (si pensi all’Ecclesiaste 1, 2, «vanitas vanitatum et omnia vanitas», “vanità delle vanità e tutto è vanità”) sia l’idea della caducità dei beni terreni, che trova un sigillo nella chiusa sentenziosa. Il lessico evidenzia inoltre un altro tema portante della raccolta petrarchesca, quello della vergogna, parola chiave al v. 12, già preannunciata dalla voce verbale mi vergogno del v. 11, a conclusione della prima terzina: il termine così evidenziato sottolinea la consapevolezza del peccato e dell’errore, ma anche la difficoltà a superarlo.
Il livello fonico L’apparente scorrevolezza dei versi non deve ingannare. Petrarca costruisce una tessitura fonica ricercata e meditata: spicca in particolare l’uso insistito dell’allitterazione, a cominciare dai primi due versi, in cui domina la ripetizione della s, accentuata dall’enjambement (ascoltate / sparse / suono / sospiri), e del gruppo /ri/ (Rime / sospiRi, nudRiva, pRimo). Il v. 11 è particolarmente importante: suggella il blocco delle due quartine e presenta un’allitterazione che intensifica ulteriormente la ripetizione ossessiva del pronome in prima persona (di me medesmo meco mi vergogno), suggerendo non solo la centralità assoluta dell’io lirico nell’opera, ma anche la tortuosità che ne caratterizza il vissuto interiore. Il filo rosso allitterante che percorre l’intero sonetto prosegue collegando, attraverso la ripetizione insistita del fonema /v/, termini che rimandano al tema della vanità e della vergogna che ne consegue, centrale nel testo proemiale (e anche nell’intera opera): vane / van / vaneggiar / vergogna; ed è significativo che lo stesso fonema ricorra anche al v. 9, nel verbo veggio, che rinvia alla consapevolezza razionale della colpa. Il livello fonico esercita dunque un ruolo primario nella costruzione di un messaggio poetico che già si annuncia come nuovo e complesso.
Esercitare le competenze online Comprendere Documento critico e analizzare Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. Per quanto è detto nel sonetto proemiale, chi sono i destinatari del Canzoniere? ANALISI 3. Che cosa significa vario stile e come tale caratteristica delle rime è posta in rapporto con il piano etico? 4. Qual è il duplice significato della parola errore nel sonetto? 5. Rintraccia e trascrivi gli aggettivi del sonetto, evidenziando (max 10 righe) come attraverso di essi sia presentato il giudizio dell’autore sulla propria vita e sulla propria poesia. Ti sembra un giudizio positivo o negativo? Ti sembra legato a una concezione della vita religiosa o laica? STILE 6. Quale figura retorica è utilizzata nell’espressione io nudriva ’l core (v. 2)?
online
Interpretazioni critiche Marco Santagata L’errore del sonetto proemiale
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7. Osserva la struttura bipartita del sonetto e rifletti sull’uso: a. della punteggiatura; b. degli enjambements; c. del ma avversativo nelle terzine. La divisione in due parti del sonetto riflette in qualche modo i due momenti esistenziali della vita del poeta? Quali temi contraddistinguono ciascuna di esse?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 8. Dopo aver letto il passo critico di Santagata (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE L’errore del sonetto proemiale OL), spiega in che senso l’“io” descritto nel sonetto possa essere giudicato attraverso un confronto con l’ideale del sapiente stoico e del convertito secondo il modello agostiniano. SCRITTURA 9. Un altro tema portante di tutta la raccolta petrarchesca, anticipato in questo sonetto proemiale, è quello della vergogna (evidenziato soprattutto dalle parole chiave ai vv. 11-12); rifletti sulla consapevolezza del peccato e dell’errore ma anche sulla difficoltà a superarlo, secondo Petrarca.
Studiare con l'immagine SCRITTURA 10. Prova a interpretare la pagina miniata del sonetto proemiale aiutandoti con le seguenti domande: a. Perché Petrarca è inginocchiato di fronte a Laura? b. Quale gesto sta compiendo Laura nei confronti del poeta? c. Come è rappresentato Amore? d. Che cosa vedi sullo sfondo? Dopo aver completato il lavoro confronta le tue risposte con i contenuti dell’immagine interattiva. IMMAGINE INTERATTIVA
Petrarca colpito dalla freccia scoccata da Amore e incoronato da Laura. Pagine miniate del sonetto proemiale Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono (XV secolo, Firenze, Biblioteca medicea laurenziana).
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Il dissidio interiore I due sonetti che seguono focalizzano la distanza tra la concezione stilnovistica (in particolare dantesca) dell’amore come esperienza edificante e addirittura salvifica e la percezione petrarchesca dell’amore come colpevole passione terrena, in contrasto con la fede.
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Era il giorno ch’al sol si scoloraro Canzoniere, 3
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto costituisce una sorta di prologo narrativo del Canzoniere: vi si narra infatti il momento dell’innamoramento, avvenuto, secondo l’autore, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, durante la liturgia del Venerdì Santo. La coincidenza sembra in realtà creata ad arte dal poeta per sottolineare il carattere peccaminoso dell’innamoramento, perché il 6 aprile 1327, giorno in cui Francesco racconta di aver visto Laura per la prima volta, non era un venerdì, ma un lunedì (e quell’anno il Venerdì Santo cadde il 10 aprile).
Era il giorno ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo Factore i rai1, quando i’ fui preso, et non me ne guardai2, 4 ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro3. Tempo non mi parea da far riparo contra’ colpi d’Amor4: però5 m’andai secur, senza sospetto6; onde i miei guai7 8 nel commune dolor8 s’incominciaro.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE.
1 Era… rai: era l’anniversario del giorno in cui si oscurarono i raggi del sole per pietà del proprio Creatore. Alla morte di Cristo, come raccontano i Vangeli, il sole si oscurò e sulla terra discesero le tenebre. La partecipazione cosmica al dolore della Passione sottolinea la colpa di Francesco, che si estranea dal commune dolor degli altri fedeli. L’oscurarsi dei raggi del sole allude forse simbolicamente all’oscurarsi della coscienza del protagonista.
2 non me ne guardai: non opposi difesa. Il verbo introduce la metafora dell’amore come guerra, successivamente sviluppata nel sonetto. 3 mi legaro: mi legarono. Il legame amoroso segna la fine della libertà interiore dell’innamorato, distogliendolo dal vero Bene. 4 Tempo… Amor: nella triste ricorrenza religiosa, l’innamoramento coglie Francesco di sorpresa, impreparato a difendersi. 5 però: perciò. 6 senza sospetto: senza prevedere ciò che sarebbe accaduto. È una citazione
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dantesca dell’episodio di Paolo e Francesca: «soli eravamo e sanza alcun sospetto» (If V, 129): incapace di dominare i propri sentimenti con la ragione, Francesco cade nello stesso peccato dei celebri amanti della Divina Commedia. 7 guai: lamenti. Il termine dantesco, evidenziato dall’enjambement, sottolinea il contrasto fra il dolore dei devoti cristiani e le private sofferenze amorose di Francesco. 8 commune dolor: il dolore comune dei devoti cristiani.
Trovommi Amor del tutto disarmato, et aperta la via per gli occhi9 al core, 11 che di lagrime son fatti uscio et varco10: però, al mio parer, non li fu honore ferir me de saetta11 in quello stato, 14 a voi armata non mostrar pur l’arco12. 9 per gli occhi: attraverso gli occhi. L’amore nasce guardando la donna. 10 che di lagrime… varco: dagli occhi, da cui nasce l’innamoramento, usciranno poi molte lacrime. Essi divengono perciò uscio et varco (coppia sinonimica), ossia via d’uscita per le lacrime.
11 de saetta: con una freccia. L’Amore fornito di arco e frecce è un topos della poesia amorosa, a partire dai testi classici. 12 a voi… arco: mentre a voi Laura, armata di virtù, non mostrare neppure l’arco. Laura non è minimamente toc-
cata dalla passione. Nel sonetto, che costituisce una sorta di prologo narrativo del Canzoniere, la donna è descritta come fredda e indifferente nei confronti dell’amante, preda della passione. È l’immagine di Laura che predomina nella prima parte del Canzoniere.
Analisi del testo Il carattere narrativo del sonetto Organizzando le rime nel Canzoniere, Petrarca non affida la narrazione della vicenda amorosa a un commento in prosa, come Dante nella Vita nuova, ma lo fa emergere da una ben calcolata successione di testi. Perciò racconta i principali eventi della circostanza inserendo anche poesie composte a posteriori, come questo sonetto, il terzo della raccolta (con ogni probabilità composto dopo la morte di Laura, quindi più di vent’anni dopo l’evento descritto); il componimento rievoca, in una sorta di flash back, l’innamoramento del protagonista. Già l’incipit, Era il giorno, sottolinea il carattere narrativo del sonetto, contraddistinto dai tempi verbali al passato, mentre il tempo consueto della lirica è il presente atemporale.
Il codice mitologico-cortese Due sono i “racconti” che qui si intrecciano e si contrappongono: un racconto di stampo classicheggiante e cortese e uno di ispirazione cristiana. Il primo livello narrativo delinea il rapporto tra i due protagonisti della raccolta attraverso un topos della poesia, appunto, classica e cortese (Amore è armato di arco e frecce): Laura, fredda e indifferente, non è colpita dalle frecce amorose; perciò non ricambia la passione dell’amante, che invece è reso prigioniero dagli occhi della donna (i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro) e condannato alla sofferenza.
L’amore come peccato e inversione dei valori Ma più importante è il contesto cronologico in cui avviene (o, meglio, si vuole che sia avvenuto) l’innamoramento, che dà luogo a una narrazione dal significato cristiano: proprio nel giorno della Passione di Cristo, quando il cosmo intero, con l’oscurarsi dei raggi del sole, sembra partecipare al dolore universale, Francesco intraprende la via solitaria del peccato, rivolgendo verso una donna l’amore che, soprattutto in quel giorno, avrebbe dovuto essere dedicato soltanto a Dio. La contrapposizione con gli altri fedeli evidenzia la natura sensuale e peccaminosa di questo sentimento: mentre tutti i cristiani sono uniti nel dolore (commune dolor) per la Passione di Cristo, Francesco soffre per una ragione individuale e privata (i miei guai) e, rovesciando la scala dei valori, antepone l’amore profano a quello sacro. Attraverso il riferimento al Venerdì Santo come momento dell’innamoramento, Petrarca si pone in un confronto dialettico con Dante: anche il viaggio ultraterreno della Commedia, infatti, era iniziato lo stesso giorno. Alcuni termini ripresi dal V canto dell’Inferno dantesco (senza sospetto e guai), suggeriscono un’analogia tra Francesco, fuorviato dalla passione amorosa, e la schiera dantesca dei lussuriosi, che «la ragion sommettono al talento».
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Esercitare le competenze online Comprendere Documento critico e analizzare Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
SINTESI 1. Sintetizza in una frase il contenuto di ciascuna delle quartine e delle terzine; poi ricavane un breve testo. COMPRENSIONE 2. Quando, secondo il poeta, ebbe inizio il suo amore per Laura? Quale valore simbolico assumono le circostanze dell’innamoramento? ANALISI 3. Il sonetto ha un carattere narrativo: analizzane lo spazio, il tempo, il sistema dei personaggi, le azioni. LESSICO 4. Rintraccia nel testo i termini e le espressioni che evidenziano l’accostamento tra la dimensione sacra e quella profana e trascrivili in una tabella. Spiega poi in un breve testo (max 10 righe) come si configura nel sonetto il rapporto fra tema religioso e tema amoroso. amore sacro
amore terreno
STILE 5. Individua le metafore e le personificazioni presenti nel testo.
Interpretare
SCRITTURA 6. Il tema del primo incontro tra il poeta e la donna amata è centrale in questo passo del Canzoniere come nella Vita nuova di Dante. Confronta l’incontro fra Petrarca e Laura con quello fra Dante e Beatrice. Evidenzia analogie e differenze tra le due situazioni narrative ed esponi le tue riflessioni in un breve testo (max 15 righe).
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Movesi il vecchierel canuto et biancho Canzoniere, 16
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Anche questo sonetto, di incerta datazione, è incentrato sul giovanile errore del protagonista, dimentico della fede e ossessionato dall’amore tutto terreno per Laura. La condotta del poeta è posta a confronto con quella di un vecchio devoto, che affronta un lungo e difficile pellegrinaggio verso Roma per contemplare l’immagine del Salvatore nell’icona bizantina della Veronica, sperando di rivedere in cielo il Santo Volto. Diverso, e peccaminoso, è il desiderio dell’autore del Canzoniere: contemplare le fattezze di Laura, ricercando volti femminili che le somiglino.
Movesi1 il vecchierel canuto et biancho2 del dolce loco ov’à sua età fornita3 et da la famigliuola sbigottita 4 che vede il caro padre venir manco4;
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE. 1 Movesi: si muove. Il verbo di movimento, posto in rilievo all’inizio del verso, ed evidenziato dalla posizione sdrucciola dell’accento (sulla terzultima), sottolinea sia la pena del distacco dalla famiglia, sia la forza di volontà del vecchio pellegrino.
2 canuto et biancho: dai capelli bianchi e dal volto pallido. La coppia degli aggettivi, stilema tipico della poesia petrarchesca (dittologia), sottolinea l’avanzata età del pellegrino. Altri intendono i due aggettivi come coppia sinonimica che, in tal caso, significherebbe “dai capelli candidi”. 3 del dolce loco… fornita: dal luogo a lui caro, dove ha trascorso tutta la sua vita.
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fornita significa “compiuta”, perciò quasi terminata, alludendo alla prossima morte del vecchio. Gli aggettivi dolce e caro sottolineano la tenerezza degli affetti familiari. 4 venir manco: venir meno. Qui inteso nel senso di “allontanarsi”, suggerisce anche l’idea che il pellegrino non sia destinato a ritornare. Nella prima quartina si rappresenta la partenza del vecchio fedele, nella seconda il suo viaggio.
indi trahendo poi l’antiquo fianco per l’extreme5 giornate di sua vita, quanto piú pò6, col buon voler s’aita7, 8 rotto dagli anni, et dal camino stanco8; et viene a Roma, seguendo ’l desio9, per mirar la sembianza di Colui10 11 ch’ancor lassú nel ciel vedere spera11: cosí, lasso12, talor vo cerchand’io, donna, quanto è possibile, in altrui13 14 la disïata vostra forma vera14. 5 extreme: ultime. Riferito a giornate, non colloca il viaggio nello spazio, ma nel tempo della vita del vecchio, alludendo anche al suo prossimo viaggio verso la morte. 6 pò: può. 7 col buon… s’aita: si aiuta con la forza di volontà. 8 rotto… stanco: sfinito per la vecchiaia e stanco per il cammino. Gli aggettivi rotto e stanco, messi in rilievo dal chiasmo e dalla posizione agli estremi del verso, sot-
tolineano la fatica del vecchio pellegrino.
9 desio: desiderio. 10 la sembianza di Colui: la vera immagine del volto di Cristo. Si riteneva che nella Veronica, icona bizantina venerata in San Pietro a Roma, fossero riprodotte fedelmente le fattezze di Gesù. 11 ch’ancor… spera: che spera di poter vedere ancora, in Paradiso. 12 lasso: ahimè. L’interiezione esprime il giudizio morale negativo del poeta sulla propria condotta, opposta a quella
del vecchio, e il rammarico per una fede non abbastanza salda. 13 in altrui: in altre donne. 14 la disïata… forma vera: la vostra immagine desiderata. forma vera allude all’etimologia greca della Veronica, vera-icon (vera immagine), ritenuta la vera immagine di Cristo. Si evidenzia il contrasto fra il vecchio, rivolto verso una meta spirituale, e Francesco, che si disperde nell’attrazione per i beni terreni.
Analisi del testo Il pellegrino: una figura esemplare Anche in questo sonetto, come in Era il giorno ch’al sol si scoloraro, la colpa di Francesco è evidenziata da un paragone: là con tutti i fedeli cristiani, qui con uno di essi, ammirevole per la sua fede, un vecchio pellegrino diretto a Roma a contemplare il Sacro Volto nell’icona della Veronica. Il componimento pone in primo piano la figura esemplare dell’anziano, a cui sono dedicate le due quartine e la prima terzina che, rispettivamente, ne rappresentano il distacco dalla casa e dalla famiglia (prima quartina), il lungo e difficile cammino (seconda quartina) e il raggiungimento della meta del pellegrinaggio (prima terzina). Il vecchio pellegrino appare sostenuto da una straordinaria forza interiore e da una fede profonda, che contrastano con la sua fragilità fisica.
La contrapposizione tra il protagonista e il pellegrino Ciò che differenzia il pellegrino da Francesco è la forza di volontà, il buon voler (che costituisce il contrario dell’accidia, da cui Petrarca nel Secretum si confessa affetto), che si manifesta non soltanto nella costanza con cui il vegliardo trascina nel lungo viaggio il proprio corpo rotto dagli anni, et dal camino stanco, ma anche nella determinazione con cui sa staccarsi dai legami terreni, dalla sua amata famiglia, sbigottita e in pena per lui, per intraprendere un solitario pellegrinaggio (il diminutivo famigliuola e gli aggettivi dolce e caro suggeriscono la tenerezza e l’affetto tra l’uomo e i suoi familiari). Francesco e il vecchio sono accomunati dal desiderio di qualcosa: desio (v. 9) è parola chiave del sonetto, richiamata da disïata (v. 14). Ma si tratta di due desideri opposti: quello di Francesco rivolto verso la terra, quello del vecchio verso il cielo. Il pellegrinaggio di quest’ultimo assume infatti il carattere simbolico di un’ascensione, evidenziato, nel verso conclusivo della prima terzina, da termini che sembrano suggerire il protendersi della sua anima verso l’alto (lassú, nel ciel, spera).
Il pellegrino assomiglia al fratello Gherardo? Un percorso per certi versi simile a quello descritto da Petrarca nella lettera dedicata all’ascesa del monte Ventoso (➜ T6 ), simbolo dell’ascesi spirituale: anche nella celebre epistola
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emerge un contrasto, questa volta con il fratello minore Gherardo che, dopo una giovinezza spensierata e mondana, nel 1343, in seguito alla morte della donna amata, si era ritirato in un monastero certosino, suscitando una profonda crisi in Francesco, incapace di compiere una scelta così radicale. Sebbene l’incerta datazione del sonetto non consenta di formulare con sicurezza tale ipotesi, la figura del vecchio potrebbe richiamare quella del fratello del poeta, capace di abbracciare la vita religiosa con una determinazione ignota all’autore del Canzoniere.
L’asimmetria del confronto La struttura del sonetto e le scelte sintattiche e ritmiche contribuiscono a rafforzare il messaggio del testo: il diverso valore morale delle due figure è infatti evidenziato dall’asimmetria delle due parti, rispettivamente dedicate al pellegrino (le due quartine e la prima terzina) e a Francesco (la seconda terzina). La parte del testo dedicata al vecchio rappresenta la continuità del suo cammino teso verso la meta grazie all’ampia struttura sintattica del periodo, che si distende tra le due quartine e la prima terzina; il ritmo, uniforme e sostenuto, sottolinea la continuità del viaggio e del proposito del pellegrino. Di carattere opposto è la seconda parte, riferita a Francesco: breve e spezzata, ha un andamento faticoso e irregolare, specchio della condizione di irrequietezza del protagonista, intento a ricercare l’immagine disïata della donna, senza tendere ad alcuna meta, come sottolinea il ritmo non uniforme né continuo, ma interrotto da cesure. L’inciso lasso spezza ulteriormente il ritmo della terzina ed enfatizza il giudizio moralmente negativo che il poeta attribuisce alla propria condotta.
Esercitare le competenze online Comprendere Documento critico e analizzare Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
SINTESI 1. Sintetizza il sonetto assegnando a ogni singola strofa un titolo riassuntivo (max 15 righe). COMPRENSIONE 2. Quali motivi avrebbero potuto indurre il vecchio pellegrino a desistere dal suo viaggio? Perché egli decide di affrontarlo comunque? ANALISI 3. Il sonetto è costruito sul paragone che Petrarca intende istituire tra il vecchierel e sé stesso. Rintraccia nel testo i versi corrispondenti al primo e al secondo termine della similitudine.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Confronta questo sonetto con la lettera delle Familiares IV, 1 (➜ T6 ) evidenziando le analogie riscontrate.
Illustrazione del sonetto Movesi il vecchierel (particolare) di Antonio Grifo, dall’apparato decorativo del Petrarca miniato nell’incunabolo INC. G. V. 15, foglio 4v (1470, Biblioteca Civica Queriniana, Brescia).
532 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
T9
L’ambivalenza dell’amore Il conflitto interiore, essenzialmente in rapporto al tema amoroso, è al centro dell’universo poetico petrarchesco, come testimoniano i due testi qui proposti, nei quali a una visione beatificante dell’amore si contrappone l’angoscia della colpa. La collocazione contigua dei sonetti 61 e 62 non è certo casuale: Petrarca intende mettere in luce proprio le oscillazioni psicologiche e la continua fluttuazione di propositi e di sentimenti che caratterizzano, a proposito dell’amore, il proprio animo.
Francesco Petrarca
T9a
Benedetto sia ’l giorno, et ’l mese, et l’anno Canzoniere, 61
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il poeta benedica il momento in cui ha incontrato Laura.
Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, et l’anno1, et la stagione, e ’l tempo, et l’ora, e ’l punto2, e ’l bel paese3, e ’l loco4 ov’io fui giunto5 4 da’ duo begli occhi che legato m’ànno; et benedetto il primo dolce affanno6 ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto, et l’arco, et le saette ond’i’ fui punto7, 8 et le piaghe che ’nfin al cor mi vanno. Benedette le voci8 tante ch’io chiamando il nome de mia donna ò sparte9, 11 e i sospiri, et le lagrime, e ’l desio; et benedette sian tutte le carte ov’io fama l’acquisto10, e ’l pensier mio, 14 ch’è sol di lei11, sí ch’altra non v’à parte.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD 1 Benedetto… anno: il 6 aprile 1327. La quartina, come la seguente e come le due terzine, si apre con la “benedizione” di tutto ciò che è legato all’amore per Laura. L’anafora sottolinea il carattere gioioso e quasi trionfale della lirica, che suona come un’esaltazione della passione amorosa. Le scansioni temporali sono enumerate in ordine ascendente, dalla minore (il giorno) alla maggiore (l’anno); nel v. 2 l’ordine si inverte e dall’unità maggiore (la stagione) si passa alla minore, per convergere nel punto, il momento esatto dell’innamoramento, quasi esso fosse stato preparato dalle più favorevoli congiunzioni astrali.
2 ’l punto: il momento esatto. 3 ’l bel paese: Avignone. 4 ’l loco: la chiesa di Santa Chiara. 5 giunto: raggiunto, conquistato. 6 dolce affanno: dolce tormento amoroso. L’ossimoro dolce affanno sottolinea il carattere irrazionale e paradossale della passione amorosa: anche le sofferenze sono dolci se sono provocate dalla donna amata. Dopo le circostanze esteriori dell’innamoramento, presentate nella prima quartina, nella seconda vengono analizzati i sentimenti dell’amante; le terzine sono invece dedicate alle azioni dettate dalla passione e alle conseguenze che ne derivano. 7 le saette… punto: e le frecce da cui fui colpito. È rappresentata la tradizionale figura mitologica di Amore armato di arco e frecce, che causano l’innamoramento.
8 le voci: le parole. Dopo le quartine del sonetto, incentrate sul momento dell’innamoramento, le terzine sono dedicate alle reazioni del protagonista e all’influsso dell’amore su tutti gli aspetti della sua vita: dai sentimenti ai pensieri, e all’opera letteraria. 9 ò sparte: ho sparse. 10 le carte... acquisto: gli scritti, i versi con i quali le procuro fama. 11 è sol di lei: è [rivolto] solo a lei.
Il Canzoniere 3 533
Francesco Petrarca
T9b
Padre del ciel, dopo i perduti giorni Canzoniere, 62
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto è concepito come una preghiera a Dio, volta ad ottenere la grazia e l’aiuto divino per liberarsi da una passione vissuta con sofferenza e come una colpa.
Padre del ciel, dopo i perduti giorni1, dopo le notti vaneggiando spese2, con quel fero desio3 ch’al cor s’accese, 4 mirando gli atti per mio mal sí adorni4, piacciati omai col Tuo lume5 ch’io torni ad altra vita6 et a piú belle imprese7, sí ch’avendo le reti indarno tese, 8 il mio duro adversario se ne scorni8. Or volge9, Signor mio, l’undecimo anno ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo10 11 che sopra i piú soggetti11 è piú feroce. Miserere12 del mio non degno affanno13; redùci i pensier’ vaghi a miglior luogo; 14 ramenta lor come oggi fusti in croce14. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE. 1 dopo i perduti giorni: i giorni sono perduti perché non dedicati a Dio, ma alla passione amorosa. L’avverbio dopo, ripetuto al v. 2, sottolinea la volontà di prendere le distanze dal passato. 2 vaneggiando spese: trascorse inseguendo cose vane, senza valore. Si intende qui l’amore per una donna. 3 fero desio: feroce passione, implacabile desiderio. L’agg. fero indica che il sentimento non è dominabile dalla ragione né dalla volontà. 4 mirando… adorni: contemplando le sembianze e i modi (di Laura) per mia disgrazia così attraenti. Detto in altro modo: se Laura fosse stata meno bella, la tentazione sarebbe stata minore.
5 col Tuo lume: con la luce della Tua Grazia. 6 altra vita: una vita più religiosa. 7 piú belle imprese: opere più degne di un cristiano. 8 sì ch’avendo… scorni: cosicché, avendo teso invano le reti per catturare la mia anima (attraverso la tentazione dell’amore per Laura) il mio crudele nemico (il demonio) sia sconfitto (se ne scorni, lett. “si rompa le corna” con chiara allusione alla figura del demonio). La passione amorosa è vista in modo antitetico allo stilnovismo: la donna non è tramite fra l’uomo e Dio, ma strumento di tentazione del demonio. 9 volge: si sta compiendo. 10 sommesso… giogo: sottomesso al giogo spietato dell’amore. 11 i piú soggetti: quelli che si assoggettano al giogo della passione, ossia ne sono dominati, perché amano di più.
12 Miserere: abbi pietà. Il termine latino evidenzia la citazione biblica dei Salmi. 13 non degno affanno: la sofferenza è indegna perché provocata da una passione sensuale. 14 redùci… croce: riconduci i pensieri sviati (poiché dipendono dalla passione e non dalla fede) a un luogo migliore (il cielo); ricorda ad essi (ai pensieri «dissipati») (Contini) che Tu oggi (Venerdì Santo) fosti crocifisso. I tre verbi di invocazione (Miserere, redùci, ramenta), che aprono i tre ultimi versi del sonetto, esprimono il senso della preghiera: il poeta chiede a Dio di poter rivolgere a lui ogni pensiero, vedendo nel Venerdì Santo non più l’anniversario dell’innamoramento, ma quello religioso della Passione.
Analisi del testo Un accostamento “spiazzante” per il lettore medievale Sicuramente i primi lettori del Canzoniere, abituati a leggere opere in cui era delineato un percorso morale di ininterrotto perfezionamento, dovettero provare un senso di sorpresa, e forse anche di sgomento, nel leggere uno dopo l’altro due sonetti dal significato opposto: uno di celebrazione dell’esperienza amorosa, l’altro di radicale condanna. Con questa scelta l’autore intendeva mettere in luce la complessità e l’instabilità dell’animo umano – una sua profonda convinzione – come egli stesso evidenzia in una lettera al fratello Gherardo (Fam. X, 5): «chi di
534 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
noi vuole oggi ciò che ha voluto ieri, al tramonto ciò che ha voluto al mattino? Se anche dividi il giorno in ore e le ore in minuti, troverai che di questi minuti sono più numerose le volontà di un uomo solo» (trad. di U. Dotti). Nella coscienza della propria ambiguità sentimentale, della insondabilità del proprio io, sta certamente uno degli aspetti di modernità di Petrarca.
Un’antitesi psicologica e morale Nei due sonetti il momento dell’innamoramento è rievocato in modo contrastante: benefico e benedetto nel sonetto 61, pericoloso per la salvezza dell’anima nel 62. Già il diverso tono delle due composizioni ben esprime la mutevolezza interiore: Benedetto sia ’l giorno ha l’andamento di un’entusiastica lode, a cui l’anafora di Benedetto, che scandisce ogni strofa, conferisce un ritmo estatico e gioioso, intensificato dal polisindeto, che accomuna nella benedizione esultante tutti gli aspetti dell’amore, comprese le sofferenze (come evidenzia l’ossimoro dolce affanno). Padre del ciel ha invece il tono mesto e contrito di una preghiera: invocando Dio, il poeta riecheggia il Padre Nostro (Padre del ciel) e il Miserere (v. 12), e chiede il soccorso della Grazia divina per vincere la forza della passione, a cui da solo è incapace di sottrarsi. Padre del Ciel, sonetto d’anniversario, come altri nel Canzoniere, segna il ritorno ciclico del tempo, facendo avvertire come esso sia stato vanamente perduto; l’amore appare una passione colpevole e degradante, che induce a sprecare l’esistenza.
Parole chiave e aggettivazione antitetica
Secondo una tecnica compositiva tipica del Canzoniere, la relazione tra i due testi è evidenziata dalla ricorrenza di alcune parole chiave – quali desìo, giorno, affanno – unite ad aggettivi di segno opposto. Tale scelta stilistica ha l’intento di mostrare come a una stessa esperienza possano essere attribuiti, anche dalla stessa persona, giudizi di valore contrastanti, vista la natura incostante dell’animo umano. Tra i due sonetti si possono riscontrare diversi elementi di contrasto: Sonetto 61
Sonetto 62
il giorno dell’incontro con Laura è Benedetto sono perduti i giorni dedicati all’amore il desio (insieme alle lacrime e ai sospiri) è benedetto il desio è definito fero, cioè violento e incontrollabile la bellezza della donna è lodata: duo begli occhi che la bellezza della donna è vista come tentatrice e legato m’ànno pericolosa: gli atti per mio mal sì adorni l’affanno è definito, con un severo giudizio morale, non L’affanno è dolce degno i pensieri dedicati all’amore sono definiti vaghi, cioè privi il pensiero dedicato solo alla donna (ch’è sol di lei) è di una direzione salvifica, e devono perciò essere riconbenedetto dotti a miglior luogo, cioè alla meditazione sulla Passione
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto dei due sonetti (max 10 righe). ANALISI 2. Perché, secondo te, Petrarca ha accostato i due sonetti nel Canzoniere? 3. Individua gli elementi tipici della preghiera nel sonetto Padre del ciel. STILE 4. Completa la tabella, ricercando nei due testi le figure retoriche elencate e indicando che cosa queste sottolineino. 61
62
significato
ossimoro anafora polisindeto personificazione apostrofe
Interpretare
SCRITTURA 5. Sintetizza in un breve testo espositivo (max 15 righe) il conflitto tra i due sistemi di valori opposti che emerge nei due sonetti.
Il Canzoniere 3 535
T10
Lo spazio dell’io Molti sonetti di Petrarca sono dedicati all’analisi della sua condizione interiore, il vero protagonista del Canzoniere è il poeta stesso lacerato tra opposte spinte interiori.
Francesco Petrarca
T10a
Passa la nave mia colma d’oblio Canzoniere, 189
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
ANALISI INTERATTIVA
Attraverso la rappresentazione metaforica di una nave in balìa della tempesta, il poeta ritrae il proprio drammatico smarrimento ed esprime un severo giudizio sulla propria condizione. L’importanza attribuita dall’autore al sonetto (di datazione incerta) è sottolineata dalla sua posizione, nella redazione Chigiana del Canzoniere (anteriore a quella definitiva), a conclusione della prima parte: una collocazione che ne evidenzia il carattere di amaro bilancio esistenziale.
Passa1 la nave mia colma d’oblio2 per aspro3 mare, a mezza notte il verno4, enfra Scilla et Caribdi5; et al governo 4 siede ’l signore, anzi ’l nimico mio6. A ciascun remo7 un penser pronto et rio8 che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno9; la vela rompe un vento humido eterno 8 di sospir’, di speranze et di desio10. Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni bagna et rallenta le già stanche sarte11, 11 che son d’error con ignorantia attorto12. Celansi13 i duo mei dolci usati segni14; morta fra l’onde è la ragion et l’arte15, 14 tal ch’incomincio a desperar del porto16.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE. 1 Passa: il verbo, posto in rilievo all’inizio del primo verso, sottolinea come la navigazione non sia diretta verso una meta. 2 la nave... d’oblio: la nave (metafora che rappresenta la vita del poeta), «obliosa dei rischi e dei dolori passati» (Bezzola). La nave è carica soltanto della dimenticanza di sé e dei propri doveri morali. 3 aspro: tempestoso. Allude alle difficoltà della vita. 4 verno: inverno. Le condizioni della navigazione non potrebbero essere peggiori: in un mare burrascoso, d’inverno, nell’oscurità della notte. 5 enfra Scilla et Caribdi: Scilla è una rupe posta su un lato dello stretto di Messina, Cariddi un gorgo localizzato sul lato opposto; simbolo di navigazione pericolosa, furono rappresentati dagli antichi come mostri mitologici. 6 al governo… nimico mio: al timone della nave (l’io) c’è colui che mi domina (’l signore)
e che è mio nemico (cioè Amore). L’io non è dunque dominato dalla ragione, come sarebbe necessario, ma dalla passione amorosa; perciò non è padrone di sé. Nimico è riferito ad Amore, ma è anche attributo tradizionale del demonio. Le due figure di Amore e del demonio tentatore vengono così a sovrapporsi. 7 remo: i remi, rappresentano le attività del soggetto. 8 un penser pronto et rio: un pensiero impulsivo e malvagio. 9 che la tempesta… a scherno: che sembra incurante della tempesta e della meta finale; ’l fin si riferisce sia allo scopo della vita sia alla fine, cioè alla morte e alla salvezza ultraterrena. La navigazione, cioè la vita, appare senza uno scopo e senza una giusta direzione. 10 la vela... desio: lacera la vela (complemento oggetto, con inversione sintattica) un vento (soggetto) umido, che mai cessa (eterno), prodotto da sospiri, speranze, desiderio. La vela rappresenta l’anima sensitiva, dilaniata da opposte passioni. 11 sarte: sartie, le funi che reggono l’albero
536 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
della nave. Rappresentano le virtù della ragione, logorate e vanificate dalle passioni. 12 d’error con ignorantia attorto: le funi, cioè quelle che dovrebbero essere le virtù, sono un intreccio di errori e di ignoranza. 13 Celansi: sono nascoste. 14 segni: sono le stelle che permettono di orientarsi durante la notte. Nella metafora sono gli occhi di Laura, che illuminavano la vita del poeta: la freddezza o l’allontanamento della donna causano la disperazione e l’incapacità di vivere del poeta. 15 morta… arte: la capacità di navigare, fatta di cognizioni teoriche e pratiche, cioè la capacità di affrontare la vita, è perduta nella tempesta. 16 tal ch’incomincio a desperar del porto: cosicché comincio a disperare di raggiungere il porto, la salvezza finale. Nell’ultimo verso si passa dalla rappresentazione allegorica alla confessione in prima persona. Nell’ultima terzina si amplifica l’ambientazione notturna del sonetto (mezza notte al v. 2) che indica per metafora l’accecamento dello spirito e il senso di smarrimento.
Analisi del testo La rivisitazione in chiave moderna di un’immagine topica L’associazione metaforica vita-navigazione è un motivo topico della letteratura. Ciò che contraddistingue il sonetto è però la moderna capacità di introspezione e di analisi, e la sincerità con cui il poeta rappresenta la propria dolorosa condizione interiore: egli mette infatti allo scoperto la propria debolezza e, ben lungi dal proporsi come modello, si confessa vittima delle proprie passioni, arrivando a dichiararsi incapace di vivere.
Il confronto con Dante Come spesso accade nel Canzoniere, la situazione descritta si pone in confronto con il lavoro dantesco, di cui gli studi più recenti hanno riconosciuto l’importanza come modello – per lo più da rovesciare – del Canzoniere, che costituirebbe una sorta di “Anticommedia”. Il Purgatorio di Dante si apre infatti con l’immagine della navigazione (riferita alla poesia della Commedia): «Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele»; la distanza tra il viaggio dantesco verso la salvezza e l’itinerario esistenziale del Canzoniere appare subito evidente: l’uno è diretto verso un fine sicuro, l’altro è un vagare senza meta («Passa la nave mia»); la vittoria sul male e sul peccato, sicura per Dante, è incerta e difficoltosa per Petrarca («tal ch’incomincio a desperar del porto»); l’orgoglio dantesco per aver superato il difficile passaggio infernale si contrappone all’inefficacia dei tentativi di giungere alla salvezza, per le opposte spinte interiori, che distruggono l’unità dell’io.
Una drammatica autoanalisi Attraverso le immagini metaforiche della nave (l’io del poeta) e della navigazione (il percorso esistenziale), il sonetto presenta in modo analitico la situazione psicologica ed esistenziale dell’autore. Il pericolo è simboleggiato dall’assommarsi di condizioni negative in cui è rappresentato il viaggio per nave: d’inverno e di notte, durante una tempesta e nel tratto di mare tra Scilla e Cariddi, per tradizione fra i più rischiosi per i naviganti. A rendere insormontabili le difficoltà della navigazione è la scomparsa delle stelle (gli occhi della donna) che illuminavano il cupo sfondo notturno: Laura è forse lontana, o comunque si è estraniata dalla vita del protagonista, forse adirata con lui. Ma il più grande pericolo per la navigazione è insito nella stessa nave, sconnessa e fragile, che rappresenta l’io del poeta: la vela è squarciata dal soffio dei venti, simbolo delle passioni; le sartie, che raffigurano le virtù dell’anima, sono impregnate d’acqua, e alla guida della nave non si pone la ragione, ma la passione amorosa che la conduce alla deriva (Amore, al timone della nave, è chiamato nimico, attributo tradizionale del demonio, con il quale è identificato: egli infatti tenta il protagonista, distogliendolo dalla retta via).
Nel naufragio delle cose umane Petrarca è salvato dalle fronde del lauro, cioè dalla poesia. Miniatura in un manoscritto quattrocentesco dei Trionfi di Petrarca (Parigi, Bibliothèque nationale de France).
Il Canzoniere 3 537
La lontananza dall’ideale del saggio La descrizione petrarchesca di un “io diviso”, lacerato fra opposte spinte interiori, sembra anticipare la moderna psicoanalisi; ma, come sottolinea Marco Santagata (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Il nuovo spazio dell’io nella poesia petrarchesca, PAG. 541), la situazione esistenziale raccontata deve essere considerata nella prospettiva di Petrarca e del suo tempo, e perciò valutata su un piano etico più che psicologico. Ciò che permetterebbe di rinsaldare “la nave”, per renderla in grado di affrontare i pericoli della vita, sarebbe riuscire a seguire l’esempio dei due modelli etici che più contarono per lo scrittore: quello del saggio stoico, capace di esercitare con la ragione un controllo sulle passioni, e quello di sant’Agostino, il “convertito” illuminato dalla fede; le stelle che guiderebbero la rotta della nave sarebbero allora eterne e intramontabili (si vedano i vv. 66-70 della canzone finale Vergine bella ➜ T16b ). Ma ciò in questo momento non può avvenire, perché l’io del poeta è totalmente dominato dalle passioni, che la ragione, non essendo al governo della “nave”, è incapace di contrastare. Il ritmo del sonetto, lento e spezzato da cesure, sottolinea lo stato d’animo predominante nell’io lirico: stanco e angosciato, privo ormai di ogni speranza.
Esercitare le competenze online Comprendere Documento critico e analizzare Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto. ANALISI 2. Completa lo schema, affiancando a ogni elemento elencato il corrispettivo significato (l’es. è avviato). la nave
l’io del poeta
il carico il mare il nocchiero la tempesta la vela i venti la pioggia le sartie la navigazione le onde il porto 3. In quale verso compare la prima persona? Quale mutamento produce l’improvviso cambio di soggetto? LESSICO 4. Da quale campo semantico è tratta la maggior parte dei termini?
Interpretare
SCRITTURA 5. Come, attraverso l’allegoria della navigazione, Petrarca rappresenta la propria vita? Quale autoritratto morale traccia?
538 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Francesco Petrarca
T10b
O cameretta che già fosti un porto
LEGGERE LE EMOZIONI
Canzoniere, 234 F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Attraverso il riferimento alla propria cameretta, a cui l’io lirico si rivolge, Petrarca dà ancora una volta voce alle proprie contraddizioni in rapporto alle sue pene d’amore. La cameretta è intesa come spazio dell’intimità e del silenzio: se in passato lì il poeta trovava pace, ora essa è divenuta fonte di paura e sofferenza.
O cameretta che già1 fosti un porto2 a le gravi tempeste3 mie diürne, fonte se’ or di lagrime nocturne, 4 che ’l dí celate per vergogna porto.4 O letticciuol5 che requie6 eri et conforto in tanti affanni, di che dogliose urne7 ti bagna Amor, con quelle mani8 eburne,9 8 solo ver ’me crudeli10 a sí gran torto! Né pur11 il mio secreto e ’l mio riposo fuggo12, ma piú me stesso e ’l mio pensero, 11 che, seguendol, talor levommi a volo;13 e ’l vulgo a me nemico et odïoso (chi ’l pensò mai?)14 per mio refugio chero:15 14 tal paura ò di ritrovarmi solo. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE.
1 già: in passato. 2 porto: rifugio. 3 tempeste: tormenti, angosce. 4 fonte… porto: ora, durante la notte, sei fonte di lacrime, che durante il giorno cerco di nascondere per vergogna. 5 letticciuol: piccolo letto.
6 requie: quiete, riposo. 7 urne: contenitori delle lacrime (occhi
12 fuggo: evito. 13 che, seguendol, talor levommi a vo-
del poeta che contengono lacrime di dolore). 8 con quelle mani: tramite le mani di Laura. 9 eburne: eburnee, bianche come l’avorio. 10 ver ’me crudeli: verso di me crudeli. 11 pur: solo.
lo: benché il mio pensiero, in passato, mi diede ispirazione per compiere opere di valore (mi permise di innalzarmi). 14 (chi ’l pensò mai?): chi l’avrebbe mai creduto? 15 chero: cerco.
Testo e illustrazione del sonetto O cameretta che già fosti un porto di Antonio Grifo, dall’apparato decorativo del Petrarca miniato nell’incunabolo INC. G. V. 15, foglio 73r (1470, Biblioteca Civica Queriniana, Brescia).
Il Canzoniere 3 539
Analisi del testo Il contenuto e la struttura Il sonetto è articolato su una netta antitesi tra passato e presente in rapporto alla trasformazione che l’amore non corrisposto (si allude infatti a una ingiusta crudeltà della donna, qui rappresentata simbolicamente dalle sue mani bianche) ha prodotto nel poeta. Il medium di cui si serve qui Petrarca per sviluppare la sua riflessione esistenziale è la piccola camera e il piccolo letto in essa collocato a cui l’io lirico si rivolge direttamente nelle due quartine, con due vezzeggiativi che ne sottolineano la valenza affettiva. Mentre in passato il poeta era solito trovare in quello spazio privato, lontano dalla gente, rifugio e riparo dalle sofferenze, ora invece rifugge da esso; ma soprattutto arriva a cercare paradossalmente la compagnia del vulgo.... nemico et odÏoso, perché la solitudine e il confronto con sé stesso gli fanno paura. L’antitesi tra due diversi modi di essere e di vivere si traduce nelle due quartine in un netto contrasto temporale, espresso dall’alternanza di tempi verbali (fosti...se’or; eri...ti bagna). Torna nel testo un tema caro a Petrarca, la solitudine, che assume però qui una valenza conflittuale. Persino il volgo, cioè la gente comune, da cui il saggio tende per sua natura (e per aristocratica visione del mondo) a isolarsi, diventa un possibile interlocutore pur di non guardare in faccia il proprio dolore.
La crudeltà di Amore Quale sia la fonte della sofferenza è velatamente rivelata dal poeta ai versi 7-8: il responsabile della trasformazione dei due occhi del poeta in due vasi di dolore, urne, è Amore con mani bianchissime, crudeli solo verso il poeta. A lungo la critica si è interrogata sull’appartenenza di queste mani; recentemente il critico Santagata ha sottolineato il fatto che Amore e Laura nel sonetto si sovrappongono e alla fine si confondono l’uno con l’altra.
Laura e il poeta, affresco anonimo (XVI secolo, Casa di Francesco Petrarca, Arquà Petrarca [Padova]). Laura è ritratta mentre tiene in mano il cuore dello scrittore.
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SINTESI 1. Fai il riassunto del sonetto. ANALISI 2. Nel sonetto sono presenti numerose antitesi: individuale e spiegane il significato. LESSICO 3. Rintraccia i latinismi presenti nel sonetto e con l’aiuto del dizionario ricostruiscine l’etimologia. STILE 4. Il sonetto è intriso di metafore: rintracciale nel testo e spiegane il significato.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
TESTI A CONFRONTO 5. Nel sonetto ricompare il tema della vergogna del poeta di fronte alla sua sofferenza non celata. In quale altra poesia che hai letto compare con insistenza il tema della vergogna? Fai un confronto. 6. Nel sonetto, ai vv. 9-10 («Né pur il mio secreto e ’l mio riposo fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero») il poeta afferma di fuggire da sé stesso e dal suo pensiero. Molte volte, nella nostra vita, ci ritroviamo a provare un’inquietudine interiore dovuta a una sofferenza che ci porta a volerci allontanare da noi stessi e da ciò che sentiamo dentro, tanto da desiderare la compagnia altrui per non sentire dolore. In tutto questo risiede la modernità di Petrarca, che descrive una situazione che possiamo vivere anche noi oggi. Ti è mai capitato di trovarti in una situazione di questo tipo? Se sì, descrivila.
540 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Marco Santagata Il nuovo spazio dell’io nella poesia petrarchesca M. Santagata, Introduzione a Francesco Petrarca, Canzoniere, a c. di M. Santagata, Mondadori, Milano 1996
Il passo critico evidenzia la novità della poesia amorosa petrarchesca, che sostituisce alla rappresentazione della donna l’analisi dell’io del poeta: una novità che sarebbe stata alla base della lirica successiva, con un’influenza su tutta la letteratura europea. Per la prima volta la resa della passione amorosa è sottoposta a un severo giudizio morale: ne consegue un amalgama di poesia lirica e riflessione etica che costituisce la profonda originalità del Canzoniere. Nella seconda parte del passo, il critico indaga sui fondamenti etici dell’analisi petrarchesca, mettendo in luce l’importanza basilare della filosofia stoica e delle Confessioni di Agostino.
Petrarca opera dunque un vero e proprio rovesciamento della tradizione. Il soggetto che desidera viene con lui ad occupare quello spazio che era riservato alle rappresentazioni della donna, ai rituali del corteggiamento, all’analisi oggettivante di amore. Il palcoscenico sul quale si sceneggiava il rapporto triadico1 Amore, 5 amata e amante si trasforma nello spazio dell’“io”. Questo, che a prima vista può sembrare un impoverimento, nei secoli si rivelerà un territorio sconfinato. È anche grazie a questa scelta che Petrarca diventerà il caposcuola della poesia moderna. Egli ha sottratto il discorso amoroso ai condizionamenti storici, alle trasformazioni dei contesti sociali e culturali e ne ha fatto 10 una zona franca, capace di rigenerarsi con il trascorrere del tempo. La scelta, benché indipendente, è omogenea a quella linguistica. L’una e l’altra definiscono la moderna poesia erotica2 come spazio dell’“io” e delle sue contraddizioni. Niente impedisce di interpretare l’“io” petrarchesco in chiave psicologica e di analizzarne i dinamismi pulsionali3 con i moderni strumenti della critica psicoa15 nalitica. Per una esatta collocazione storica, tuttavia, è bene non dimenticare che agli occhi del poeta Petrarca l’“io” non è tanto un campo di tensioni psicologiche, quanto lo spazio della coscienza, spazio misurabile attraverso le categorie dell’etica e della morale. La negazione del desiderio scatta in lui da una controspinta ideologica: la consapevolezza, vissuta anche come contraddizione dolorosa, della 20 sua negatività etica. Il disvalore può investire la sfera della razionalità, quando l’amore è sentito come passione dell’anima, turbamento degli equilibri intellettuali, o quella etico-religiosa, quando l’amore è vissuto come peccato, turbamento dell’ordine provvidenziale del creato: in ogni caso, la sua negatività è misurabile, esprimibile e giudicabile. L’“io” non è dunque un imprendibile fascio di forze e 25 di contraddizioni, ma un punto di riferimento sicuro, esplorabile con gli strumenti della logica e della filosofia; […] i percorsi dell’analisi interiore conducono là dove mai era giunta la lirica romanza precedente, vale a dire, a fare di quell’istanza locutrice4 priva di autonomo spessore che era l’“io” un personaggio vero e proprio. I parametri culturali con i quali Petrarca misura l’esperienza amorosa consistono 30 in un amalgama di stoicismo e di agostinismo. L’uno e l’altro, separatamente o congiunti, non rientravano nell’orizzonte dei lirici romanzi. Ecco dunque che nel richiamo all’ordine di Petrarca ancora una volta individuiamo una componente culturale che ci allontana dalla poesia in volgare e ci riporta in quel territorio umanistico dal quale Petrarca guarda alla modernità. Il che non significa avallare 35 la vecchia tesi del dissidio fra antico e moderno e dell’uomo nuovo divaricato fra cielo e terra. Al contrario, bisogna insistere sulle valenze cristiane del suo uma-
Il Canzoniere 3 541
INTERPRETAZIONI CRITICHE
nesimo, sul fatto che egli abbia introdotto nel discorso amoroso la dimensione etica, abbia trasformato una tradizione sostanzialmente laica nella palestra di una continua esercitazione moralistica, abbia sostituito ai giudizi di valore commisurati 40 ai codici sociali la problematica del valore morale commisurato alle nozioni di grazia e di peccato. […] Il valore etico risiede nel fatto che l’“io” viene proposto come esemplare e rappresentativo del “noi” dei lettori. [...] La filosofia stoica, appresa sulle pagine di Cicerone, di Seneca e dello stesso Ago45 stino, forniva a Petrarca un modello laico di saggezza. Saggio è chi ha il completo controllo delle passioni e dei sentimenti, colui che è sempre presente a sé stesso in qualunque situazione si trovi. Non lo turbano sconvolgimenti interiori o eventi esterni. La ragione predomina sui sentimenti, l’autocontrollo sull’istintualità. Il saggio è “uno”: cioè padrone della sua intera personalità. Un modello siffatto 50 consentiva un’autobiografia in due tempi: ad un primo tempo caratterizzato dalla dissipazione e dalla dispersione dell’“io”, preda delle passioni e delle illusioni mondane, poteva correlarsi una seconda fase caratterizzata dalla raggiunta saggezza e dalla conquista di un quadro stabile di valori. Petrarca individua nel percorso stoicizzante verso l’apatia5 il punto saliente 55 dell’autobiografia da consegnare ai posteri. Tradotto in racconto, quel percorso richiede una conversione, il racconto di come dal vecchio nasca l’uomo nuovo. E qui si inserisce l’altro modello, quello di Agostino, con il suo esempio di grande intellettuale che ha una conversione al centro della sua vita e che, soprattutto, quella conversione racconta in un libro autobiografico: le Confessiones. 1 triadico: in triade, a tre. 2 erotica: amorosa. 3 dinamismi pulsionali: moti dovuti al
4 istanza locutrice: l’io lirico, colui che parla nella poesia (locutrice deriva dal verbo lat. loqui, “parlare”).
desiderio; pulsione è un termine che appartiene al linguaggio psicanalitico e che indica gli impulsi psichici.
5 apatia: è la suprema virtù dello stoico che, vivendo secondo ragione, non si lascia dominare dalle passioni, ma le sa tenere a freno.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Sintetizza la tesi proposta dal critico, indicando i passaggi fondamentali della sua argomentazione. 2. In che cosa consiste, a giudizio del critico, il rovesciamento della tradizione (r. 1) operato da Petrarca nel Canzoniere? 3. Che cosa significa affermare che Petrarca ha fatto del discorso amoroso una zona franca (r. 10)? 4. Come giustifica Santagata il giudizio secondo cui ricondurre l’analisi dell’“io” petrarchesco a un approccio di tipo psicoanalitico risulta inadeguato? 5. In che senso il critico corregge la vecchia tesi (r. 35) secondo cui in Petrarca si scontrano antico e moderno, il richiamo della terra e quello del cielo? 6. Santagata presenta, secondo un’ottica originale, la “modernità” di Petrarca e il suo decisivo contributo alla fondazione della poesia amorosa che si svilupperà nei secoli successivi. Ripercorrendo l’evolversi della lirica amorosa medievale illustra ed esemplifica tale giudizio, sulla base delle tue letture e delle tue conoscenze di studio. Elabora le tue opinioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
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T11
Il paesaggio della natura come proiezione dell’io e come confidente Uno degli elementi di novità introdotto da Petrarca è la rappresentazione del paesaggio naturale che si pone “al servizio” dell’interiorità del poeta, è in stretta relazione con essa e ne rispecchia la mutevolezza. Con il paesaggio, l’io lirico intrattiene per la prima volta un dialogo che sarà ripreso in particolare dal romanticismo. Il testo del Canzoniere che meglio rispecchia la presenza di quello che è stato giustamente definito un “paesaggio-stato d’animo” è il celebre sonetto Solo et pensoso. Ma altrettanto significativa è la canzone 129, Di pensier in pensier, di monte in monte, che in qualche modo amplifica e arricchisce, anche per l’evocazione della figura di Laura, il tema proposto nel sonetto.
Francesco Petrarca
T11a
Solo et pensoso Canzoniere, 35
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
AUDIOLETTURA ANALISI INTERATTIVA
Il tema principale di Solo et pensoso è la ricerca di solitudine per tentare di placare il tormento interiore suscitato dalle pene d’amore. Il paesaggio non è solo lo sfondo del sonetto e lo specchio dello stato d’animo malinconico del protagonista, ma appare come un vero e proprio personaggio, confidente delle pene amorose del poeta. Il sonetto, non posteriore al 1337, è uno dei primi composti da Petrarca.
Solo et pensoso1 i piú deserti campi vo mesurando2 a passi tardi et lenti3, et gli occhi porto per fuggire intenti4 4 ove vestigio human l’arena stampi5. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti6, perché negli atti d’alegrezza spenti 8 di fuor si legge com’io dentro avampi7: sí ch’io mi credo omai che monti et piagge
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE. 1 Solo et pensoso: i due aggettivi, come emergerà successivamente nel sonetto, sono fra loro strettamente collegati. I pensieri tristi e l’ossessione amorosa spingono infatti il protagonista ad allontanarsi da tutti. 2 vo mesurando: vado misurando, percorro in lungo e in largo, come se li misurassi. Il gerundio sottolinea la lentezza dell’incedere; misurare i propri passi sembra inoltre un tentativo di dare una misura anche agli affanni e all’inquietudine interiore.
3 tardi et lenti: rari e mossi molto lentamente. I due aggettivi costituiscono una coppia sinonimica, stilema tipico del Canzoniere. 4 gli occhi… intenti: volgo gli occhi, guardo attentamente [a terra] per fuggire; la costruzione irregolare (iperbato) pone l’accento sull’aggettivo intenti, in rima, a sottolineare il contrasto tra la flemma dei passi e l’agitazione interiore che si rivela nello sguardo, ansioso di sfuggire ogni presenza umana. 5 ove… stampi: dove tracce di uomini segnino il terreno, dove cioè ci siano indizi della presenza di altri esseri umani. Il senso è, insomma: “così che, in caso veda orme umane, possa fuggire restando nella mia solitudine”.
6 Altro schermo… genti: non trovo altro riparo «dalla palese consapevolezza del mio stato d’animo che la gente dimostra» (Bezzola); vale a dire, per sottrarmi all’attenzione della gente, che si accorge chiaramente del mio stato. Per non far trasparire la propria sofferenza il poeta non trova altra soluzione che l’isolamento. 7 perché… avampi: perché dai miei gesti, in cui è spenta ogni allegria, si comprende chiaramente come io bruci dentro (per amore); avampi rimanda alla metafora del fuoco, motivo topico della poesia amorosa.
Il Canzoniere 3 543
et fiumi et selve8 sappian di che tempre9 11 sia la mia vita, ch’è celata altrui10. Ma pur sí aspre vie né sí selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre 14 ragionando con meco, et io co∙llui11.
8 monti… selve: il polisindeto, evidenziato dall’enjambement, suggerisce l’impressione che il paesaggio si allarghi in una smisurata vastità, che mette in risalto la solitudine del poeta.
9 di che tempre: di quale tenore, di che
11 Ma… lui: l’antitesi (Ma pur: “eppure”)
genere. La natura stessa sarebbe ormai a conoscenza della tristezza del poeta. L’affermazione conferma la consonanza tra la natura e il protagonista. 10 altrui: alle altre persone.
che apre l’ultima terzina sottolinea come si possa sfuggire agli altri, ma non a sé stessi. La personificazione di Amore, che segue ovunque il poeta, indica che i pensieri amorosi lo dominano con una forza invincibile. Ragionando vale “discorrendo”; meco “con me”; co·llui, “con lui” (forma assimilata in fonosintassi).
Analisi del testo Il tema: la malinconia d’amore e la ricerca della solitudine nella natura In Solo et pensoso il tema del paesaggio (in questo caso “selvaggio” e deserto, ben lontano perciò dal locus amoenus) è strettamente collegato alla condizione interiore del protagonista, sofferente per amore e desideroso di isolarsi dagli altri uomini per nascondere il proprio tormento. Universalmente ammirato, questo sonetto è diventato un modello nella letteratura europea per la sua capacità di rappresentare il contatto degli amanti infelici con la natura, capace di lenire i loro affanni. Secoli dopo il Canzoniere, esso ha contribuito all’affermarsi della concezione romantica della natura, vista come specchio e confidente dei sentimenti umani.
Un modo nuovo di rappresentare il paesaggio In Solo et pensoso il paesaggio non è descritto oggettivamente, ma come riflesso dello stato d’animo del protagonista: Petrarca non introduce, infatti, elementi descrittivi di tipo realistico che identifichino i luoghi evocati, ma delinea un paesaggio incolore e stilizzato, dai tratti indeterminati (deserti campi... monti... piagge... fiumi... selve), funzionale a esprimere innanzitutto il desiderio del protagonista di fuggire il più lontano possibile dal contatto con la gente e il suo bisogno assoluto di solitudine: l’uso del polisindeto ai vv. 9-10, enfatizzato dall’enjambement (monti et piagge / et fiumi et selve) delinea uno scenario dilatato, potenzialmente illimitato, entro cui si muove il protagonista, solitario, senza una meta (a simboleggiare l’inquietudine, l’assenza di valori-guida). Altrettanto indeterminato è il tempo dell’azione, registrata da un presente atemporale. In altre connotazioni del paesaggio, memori della selva dantesca ritratta nel primo canto dell’Inferno («sì aspre vie... sì selvagge»), si proietta lo stato d’animo angosciato del protagonista, amante infelice, preda della passione, che diventa ossessione del pensiero.
Lo stile: una forma armonica per un vissuto angoscioso La suggestione esercitata dal sonetto si deve alla forma armoniosa ed equilibrata con cui presenta una condizione in sé penosa e angosciante. Come osservava nell’Ottocento il critico Francesco De Sanctis, è «difficile trovare un sonetto […] che con sì poca ostentazione di passione sia più appassionato». L’armonia dello stile, in questa come in tante altre composizioni del Canzoniere, ha una motivazione etica: analizzare il tormento interiore in modo pacato e riflessivo significa tentare di dominarlo razionalmente, mentre esprimerlo in modo passionale significherebbe cedervi, senza tentare di superarne i lati oscuri e negativi. Tutti gli elementi stilistici del sonetto concorrono a suggerire un’impressione di controllo e di equilibrio, in contrasto con l’evidente angoscia che ne ispira la tematica. Innanzitutto è da rilevare come ogni strofa sia in sé conclusa, col punto fermo o in un caso coi due punti, così da creare un ritmo regolare, lento e scandito, a cui contribuisce ulteriormente la ripartizione di
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ogni quartina in due distici (cioè in due coppie di due versi ciascuna). Il ritmo dei versi sembra quasi riprodurre quello lento e cadenzato dei passi, in particolare proprio nel secondo verso, grazie al gerundio ingressivo (vo mesurando), ma soprattutto all’iterazione di bisillabi accentati (passi... tardi... lenti). Il componimento è caratterizzato da una sapiente ricerca di simmetrie, di parallelismi, che creano un effetto armonico: spicca in particolare la frequenza di coppie di aggettivi e la loro studiata disposizione, rispettivamente all’inizio e alla fine di versi in successione (solo et pensoso, tardi et lenti) o all’interno dello stesso verso (sì aspre... sì selvagge; con meco... co∙llui). In rapporto antitetico stanno le coppie di verbi spenti/avampi (vv. 7-8) e sappian/celata (vv. 10-11), riferiti questi ultimi rispettivamente al paesaggio-confidente e agli uomini. Ma nel sonetto esiste, poi, tutta una rete di richiami fonici, creati dalle frequenti assonanze e allitterazioni (si veda anche solo i vv. 1-2 e 12) e dai nessi, in rima, di nasale + consonante occlusiva, presenti sia nelle quartine (campi, lenti) sia nelle terzine (tempre, sempre).
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SINTESI 1. Completa la tabella e poi organizza i dati raccolti in una sintesi (max 15 righe). strofa
titolo
tema centrale
parola chiave
I II III IV COMPRENSIONE 2. Perché l’autore del sonetto cerca di sfuggire la presenza di altri esseri umani? STILE 3. A che cosa contribuisce la scelta dell’iperbato al v. 3? 4. Spiega con parole tue le espressioni metaforiche spenti (v. 7) e avampi (v. 8). A quali campi semantici fanno riferimento? Quale rapporto si può instaurare tra i due significati? 5. Nel sonetto c’è una personificazione: quale? Che cosa tende a sottolineare?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 6. Il motivo della solitudine dell’innamorato e la ricerca dell’isolamento sono profondamente intrecciati con il paesaggio (evocato e suggerito, mai descritto). Rifletti su questo aspetto e confronta questo sonetto con il ➜ D1b (Fam., VI, 3) che presenta alcune significative analogie. Fai un confronto tra i due testi, sulla base di analogie di immagini e stilemi.
Petrarca in meditazione sotto le fronde di un lauro (particolare della pagina miniata di un manoscritto quattrocentesco dei Trionfi di Petrarca, Parigi, Bibliothèque Nationale).
Il Canzoniere 3 545
Francesco Petrarca
T11b
Di pensier in pensier, di monte in monte Canzoniere, 129
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Questa canzone, risalente al 1344 circa, collocata subito dopo un’altra canzone (Italia mia, di tema politico), presenta una situazione assai simile al sonetto Solo et pensoso: il poeta si isola dalla realtà mondana, dal cicaleccio e dal frastuono del mondo, e ricerca luoghi remoti e solitari in cui sfuggire il contatto con altre persone, per nascondere il tormento amoroso causato dalla lontananza di Laura. Il poeta si muove fra due sentimenti contrapposti: la sofferenza d’amore e una sorta di vergogna verso la gente, che potrebbe leggergli in volto la pena per il sentimento non corrisposto (da qui, appunto, la fuga), e il dialogo ideale con la natura, dove il poeta immagina di scorgere il volto di Laura. Si alternano, cioè, stati emotivi diversi: da un lato, il turbamento, la crisi e l’instabilità psicologica; dall’altro lato, il rasserenamento, la speranza e l’illusione di una corresponsione amorosa da parte di Laura.
Di pensier in pensier1, di monte in monte mi guida Amor, ch’2ogni segnato3 calle4 provo5 contrario a la tranquilla vita. Se ’n solitaria piaggia6, rivo7, o fonte8, 5 se ’nfra duo poggi9 siede10 ombrosa valle, ivi11 s’acqueta12 l’alma sbigottita13; e come Amor l’envita14, or ride, or piange, or teme, or s’assecura; e ’l volto che lei segue ov’ella il mena15 10 si turba et rasserena, et in un esser picciol tempo16 dura; onde17 a la vista18 huom di tal vita experto diria19: Questo arde, et di suo stato è incerto20. Per21 alti monti et per selve aspre22 trovo 15 qualche riposo: ogni habitato loco è nemico mortal degli occhi miei. A ciascun23 passo nasce un penser novo de la mia donna, che sovente in gioco24 gira25 ’l tormento ch’i’ porto per lei; 20 et a pena26 vorrei
La metrica Canzone formata da cinque stanze di tredici versi ciascuna (endecasillabi e settenari, questi ultimi in minoranza essendo due per stanza), con schema della rima ABCABCcDEeDFF e un congedo di sette versi il cui schema riprende la sirma (cDEeDFF). 1 Di pensiero in pensiero: da un pensiero all’altro.
2 ch’: dato che. 3 segnato: battuto.
4 calle: strada. 5 provo: so per esperienza. 6 piaggia: luogo solitario. 7 rivo: ruscello. 8 fonte: sorgente. 9 poggi: fra due colli. 10 siede: ha sede. 11 ivi: qui. 12 s’acqueta: si calma. 13 sbigottita: inquieta. 14 envita: invita. 15 il mena: lo porta.
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16 picciol tempo: dura poco. 17 onde: per cui. 18 a la vista: vedendomi. 19 diria: direbbe. 20 di suo stato è incerto: non sa se è riamato. 21 Per: in mezzo. 22 aspre: inospitali. 23 ciascun: ogni. 24 gioco: in gioia. 25 gira: stravolge, ribalta. 26 a pena: a stento.
cangiar27 questo mio viver dolce amaro, ch’i’ dico: Forse anchor ti serva28 Amore ad un tempo migliore; forse, a te stesso vile, altrui se’ caro. 25 Et in questa trapasso29 sospirando: Or porrebbe esser vero? or come? or quando? Ove porge30 ombra un pino alto od un colle talor m’arresto, e pur31 nel primo sasso disegno co la mente il suo bel viso. 30 Poi ch’32 a me torno, trovo il petto molle33 de la pietate; et alor dico: Ahi, lasso34, dove se’ giunto! ed onde se’ diviso! Ma mentre35 tener fiso36 posso al primo pensier la mente vaga, 35 et mirar37 lei, ed oblïar38 me stesso, sento Amor sí da presso, che del suo proprio error39 l’alma s’appaga: in tante parti et sí bella la veggio40, che se l’error durasse, altro non cheggio41. I’ l’ò piú volte (or chi fia42 che mi ’l creda?) ne l’acqua chiara et sopra l’erba verde veduto viva, et nel tronchon d’un faggio e ’n bianca nube, sí fatta che Leda avria ben detto che sua figlia perde43, 45 come stella che ’l sol copre44 col raggio; et quanto in piú selvaggio loco mi trovo e ’n piú deserto lido45, tanto piú bella il mio pensier l’adombra. Poi quando il vero sgombra46 50 quel dolce error, pur lí medesmo47 assido me48 freddo, pietra morta49 in pietra viva, in guisa50 d’uom che pensi et pianga et scriva. 40
Ove d’altra montagna ombra non tocchi51, verso ’l maggiore52 e ’l piú expedito53 giogo54
27 cangiar: cambiare. 28 serva: conserva. 29 trapasso: vado oltre. 30 porge: offre. 31 pur: già. 32 Poi ch’: dopo che. 33 molle: bagnato di lacrime. 34 lasso: sventurato. 35 mentre: finché. 36 fiso: concentrato. 37 mirar: guardare.
38 oblïar: dimenticare. 39 error: illusione. 40 veggio: vedo. 41 cheggio: chiedo. 42 fia: sarà. 43 perde: è superata. 44 copre: adombra, offusca. 45 lido: luogo. 46 sgombra: annulla. 47 pur lì medesmo: proprio in quello
48 assido me: mi siedo. 49 pietra morta: l’animo del poeta; l’antitesi fra pietra morta e pietra viva, cioè naturale, vuole sottolineare la crisi vitale del poeta, come a dire che è più morto della roccia. 50 in guisa: nell’atteggiamento. 51 non tocchi: non raggiunga. 52 maggiore: più alta. 53 expedito: più panoramica. 54 giogo: vetta.
stesso luogo.
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tirar mi suol un desiderio intenso; indi i miei danni a misurar con gli occhi comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo di dolorosa nebbia il cor condenso55, alor ch’i’ miro56 et penso, 60 quanta aria dal bel viso mi diparte57 che sempre m’è sí presso et sí lontano. Poscia fra me pian piano: Che sai tu, lasso58? forse in quella parte59 or di tua lontananza si sospira. 65 Et in questo penser l’alma60 respira. 55
Canzone, oltra quell’alpe là dove il ciel è piú sereno et lieto mi rivedrai sovr’un ruscel corrente61, ove l’aura62 si sente 70 d’un fresco et odorifero laureto. Ivi è ’l mio cor, et quella che ’l m’invola63; qui veder pôi l’imagine mia sola.
55 condenso: il cuore gonfio. 56 miro: contemplo. 57 diparte: separa. 58 lasso: misero.
59 parte: direzione. 60 alma: anima. 61 corrente: ruscello che scorre.
62 l’aura: l’aria di un laureto fresco e profumato (odorifero).
63 invola: ruba.
Analisi del testo Il dissidio petrarchesco Questa canzone rappresenta in modo emblematico il conflitto, tipico della poesia di Petrarca, fra lo stato di abbandono alla fantasia e lo struggimento amoroso, il trasporto delle speranze e delle illusioni e il dolore per la mancata corresponsione sentimentale, il dialogo rassicurante con gli elementi della natura e lo strazio per la lontananza di Laura. In pochi altri testi del Canzoniere, come in questo, compaiono in forma altrettanto intensa i temi della distanza da Laura, del desiderio di lei, del ricordo e della tensione emotiva. E, in contrapposizione, per consolarsi da questa lontananza (probabilmente Petrarca è distante dalla Provenza, forse in Italia, come suggeriscono i vv. 31-32, e soprattutto il congedo), il poeta passeggia in vari luoghi naturali, dialogando con loro, riflettendo i propri movimenti interiori negli aspetti esterni, e nel frattempo pensando a Laura, alternando ipotesi sulle intenzioni della donna amata nei suoi confronti. In tal senso, l’interiorità del poeta è caratterizzata da una vera e propria instabilità psicologica, da una coscienza turbata e oscillante fra rasserenamento e crisi di angoscia. Questo movimento pendolare fra diverse condizioni d’animo e slanci emotivi, fra momenti di speranza e conforto ad altri di amaro disincanto, è esplicitato al v. 13, in cui lo stato del poeta è definito incerto, e anche nelle interrogative «Or porrebbe esser vero? or come? or quando?» (v. 26), che il poeta rivolge a se stesso con estrema concitazione e trasporto, in un crescendo d’intensità, chiedendosi se mai sarà possibile che lui sarà caro (v. 24) alla donna che gli ha rubato il cuore, che ha provocato in lui un simile tormento (v. 19). Non a caso, nel congedo della canzone Petrarca si rivolge, secondo la tradizione, al componimento, promettendo di tornare al più presto in Provenza per rivedere Laura (indicata col gioco verbale laureto, v. 70, bosco di allori), e risolvere così le sue inquiete interrogazioni.
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Elementi simbolici Il tormento amoroso (v. 19) di Petrarca lo spinge a immaginare la figura di Laura in vari elementi del paesaggio, nonostante sappia che si tratta di pura illusione, necessaria per confortare il suo animo, caricando quindi la canzone di una fitta trama di elementi simbolici e visionari, riprendendo così un gioco retorico della tradizione della lirica amorosa del Duecento, specie della scuola siciliana, in cui il poeta affermava di conservare nel proprio cuore un’immagine della donna amata simile a una pittura (vedi Meravigliosamente di Giacomo da Lentini). Allo stesso modo, nella direzione contraria, ossia del dolore e della disperazione, il testo è intessuto di una serie di corrispondenze simboliche, di analogie fra gli elementi della natura e il cuore del poeta: il dolore per la lontananza da Laura ha l’effetto di svuotare l’autore della sua vitalità e di trasformarlo in una pietra morta (v. 51), giocando in modo antitetico sulla pietra viva (sasso naturale) su cui il poeta è seduto. Da notare anche, nel congedo, il riferimento a Laura attraverso il senhal l’aura e la parola laureto (v. 70, bosco di allori), che allude chiaramente al nome della donna. Lo scenario in cui si svolge la situazione lirica non è casuale e s’inquadra sempre in questa cornice simbolica: infatti, la passeggiata del poeta in luoghi remoti e solitari, quindi la predilezione di Petrarca per luoghi selvaggi e impervi, oltre a esser un dato biografico (come testimonia la lettera sulla scalata del Monte Ventoso insieme al fratello Gherardo), assume anche una dimensione metaforica: la faticosa salita e il cammino in luoghi solitari corrispondono a un tormentoso percorso d’introspezione interiore, a un processo di analisi intimistica, in cui la situazione finale della canzone ricorda quando Petrarca, giunto sulla cima di un alto monte, ammira il paesaggio circostante e fantastica sui possibili sentimenti di Laura per lui (expedito giogo del v. 54 come una visione panoramica dall’alto, simile all’Ascensione del Monte Ventoso). Allo stesso tempo, la ricerca di luoghi appartati rimanda, oltre che al riconoscimento della propria interiorità negli elementi della natura, anche a una ricerca di pace e protezione, e quindi al desiderio di un’armonia con la realtà circostante.
Stile La canzone è una delle prove più complesse ed elaborate della sperimentazione linguistica di Petrarca, tanto che alcuni studiosi la considerano la celebrazione perfetta del mito di Laura, del paesaggio pastorale, del sentimento d’amore sofferto e lacerato del poeta. Vi troviamo una complessiva solennità di forme stilistiche, in un equilibrio di elementi sintattici, ritmici e metrici fra le varie stanze, con ricorrenza di latinismi, come et (vv. 10, 11, 13, 14, 20, 25, 31, 35, 38, 41, 42, 46, 52, 59, 61, 65, 67, 70, 71), huom (v. 12), experto (v. 12), habitato (v. 15), anchor (v. 22), tronchon (v. 42), expedito (v. 54). Lo stesso effetto altisonante producono le anafore di or al v. 8 e di e(t) ai vv. 9-11, in corrispondenza della descrizione dei cambiamenti d’umore del poeta, e l’antitesi al v. 51 fra «pietra morta in pietra viva » risulta di grande efficacia visionaria e sta a significare che il poeta, sedendo su un sasso naturale, sembra privo di sensibilità e come morto. Alla luce di quest’articolata e solenne sonorità, in una prospettiva di maestosa gravità, la canzone si muove senza dubbio nel genere della canzone tragica, ben diversa dalla canzone elegiaca.
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SINTESI 1. Fai la sintesi del contenuto della canzone (max 20 righe). COMPRENSIONE 2. Quali visioni ha il poeta? STILE 3. Quale figura riconosci nell’espressione «viver dolce amaro» (v. 21)? Perché questa figura retorica si può ricondurre al tema della canzone?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Confronta la canzone appena letta con il sonetto Solo et pensoso (➜ T11a ). Quali somiglianze e/o differenze rintracci?
Il Canzoniere 3 549
T12
Il tema della «memoria innamorata» I due testi che seguono, tra i più celebri della poesia italiana, sono incentrati sull’evocazione della bellezza di Laura nel ricordo idealizzante del poeta. Nella canzone Chiare, fresche et dolci acque il ricordo della donna amata si lega strettamente all’evocazione di un idillico scenario naturale, di cui Laura stessa sembra far parte.
Francesco Petrarca
T12a
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi Canzoniere, 90
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
AUDIOLETTURA
Il sonetto, scritto anni dopo l’innamoramento, in una data non precisata, è incentrato sul tema del ricordo della donna amata: il poeta rievoca l’immagine di Laura come la vide per la prima volta, e come resta nella sua memoria, nel pieno del suo splendore, confrontandola con quella, ormai mutata, del presente. Ne scaturisce una «dichiarazione di dedizione oltre il tempo» (G. Contini).
Erano i capei d’oro a l’aura1 sparsi che ’n mille dolci nodi2 gli avolgea, e ’l vago lume oltra misura ardea3 4 di quei begli occhi, ch’or ne son sí scarsi4; e ’l viso di pietosi color’ farsi, non so se vero o falso, mi parea5: i’ che l’ésca amorosa al petto avea6, 8 qual meraviglia se di súbito arsi?7
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE. 1 a l’aura: al vento. Come spesso nel Canzoniere, Petrarca gioca sull’omofonia (uguaglianza di suono) con il nome di Laura. A distanza di tempo, il poeta rievoca l’immagine di Laura splendente di bellezza, coi capelli sciolti al vento, come la vide nel momento in cui se ne innamorò. L’atmosfera intorno alla donna, ancora presente nel ricordo, sembra partecipe della sua bellezza. 2 mille dolci nodi: l’immagine del vento che gioca tra i lunghi capelli biondi inanellati di Laura sottolinea l’armonia tra la bellezza della natura e quella della donna e ne fissa indelebilmente l’iconografia. A evidenziare l’incanto del ricordo ritorna l’aggettivo dolce, parola chiave del Canzoniere; mille è un’iperbole, e indica un valore indefinito; i nodi dei capelli suggeriscono i nodi d’amore, anche per il gioco allitterante DOlcI nODI.
3 ’l vago… ardea: l’affascinante luminosità degli occhi brillava oltre ogni umano splendore. 4 ch’or… scarsi: ora gli occhi di Laura sono meno luminosi di un tempo. Di questo verso vengono date differenti interpretazioni: secondo alcuni commentatori Laura è meno bella, non essendo più nel pieno della giovinezza; secondo altri, la più intensa luminosità dello sguardo nel passato sarebbe stata segno di un più affettuoso interesse per il poeta, a cui si allude anche nei versi successivi (vv. 5-6): nel momento in cui Petrarca scrive il sonetto, Laura appare invece più distaccata. In ogni caso, al ricordo ancora vivo del passato splendore si contrappone una diversa immagine di Laura nel presente, anche se l’amore permane immutato.
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5 ’l viso… parea: mi pareva, non so se fosse verità o illusione, che il suo viso esprimesse un’affettuosa compassione per me, forse con un leggero rossore, oppure, al contrario, impallidendo. 6 i’che l’ésca… avea: io che ero pronto a innamorarmi. L’esca è una materia facilmente infiammabile se vi si avvicina una scintilla; l’immagine si collega al topos dell’amore come fuoco, ripreso dal successivo verbo arsi. Nelle quartine sono indicate le cause dell’innamoramento: la bellezza di Laura, il suo atteggiamento non indifferente verso il poeta, l’inclinazione di quest’ultimo al sentimento amoroso. 7 di súbito arsi?: immediatamente mi innamorai. Il passaggio dall’imperfetto al passato remoto segnala che ciò che rimase incancellabile nella memoria avvenne in un istante. L’interrogativa, che occupa tutto il v. 8, sottolinea l’intensità di quel sentimento inaspettato.
Non era l’andar suo cosa mortale, ma d’angelica forma8; et le parole 11 sonavan altro, che pur voce humana9. Uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch’i’ vidi: et se non fosse or tale10, 14 piagha per allentar d’arco non sana11. 8 Non era… forma: il suo incedere non era di una persona mortale, ma di un angelo. Angelica forma suggerisce l’idea di una bellezza spirituale, quasi immateriale. Nel sonetto Laura ricorda l’immagine stilnovistica della donna, anche se il suo mutare nel tempo la differenzia profondamente dalla “donna angelo”.
9 le parole… humana: le sue parole avevano un timbro diverso dal quello di una semplice voce umana. 10 se non fosse or tale: se Laura ora fosse diversa (meno bella o più indifferente all’amore del poeta). 11 piagha… sana: una ferita non guarisce se l’arco che l’ha prodotta (mediante
una freccia) allenta la sua corda (e non può scagliare altre frecce). La conclusione di tipo proverbiale, al presente, indica che, come una ferita non guarisce per quanto la corda si allenti dopo il tiro, così l’amore resta immutato anche se la donna può cambiare.
Analisi del testo Gli echi stilnovistici e la nuova dimensione del tempo Nella raffigurazione del poeta l’immagine di Laura, che irrompe all’improvviso nella sua memoria, assume i tratti propri dell’apparizione stilnovistica della figura femminile: la folgorante bellezza, il riferimento alla luce degli occhi e al nobile incedere, ma soprattutto le espressioni (aggettivi e metafore) che alludono alla natura quasi soprannaturale della donna (Non era... cosa mortale, angelica forma, Uno spirto celeste) rimandano alla rappresentazione che si ritrova in celebri componimenti di Guinizzelli, Cavalcanti e Dante stesso. Il medesimo periodare del sonetto petrarchesco – sinuoso e fluido, ricco di enjambements – e il suo ritmo lento e armonioso ricordano da vicino il sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare. Ma rispetto alla tradizione stilnovista, il sonetto petrarchesco introduce una rilevante novità: la dimensione del tempo, che sottrae la figura di Laura alla atemporale perfezione e astrattezza delle donne dello stilnovo. Nonostante le espressioni iperboliche usate dal poeta, Laura non è un angelo, ma una donna terrena, e pertanto è sottoposta alla caducità e alla mutevolezza («et se non fosse or tale») di tutto ciò che è umano.
La divaricazione passato-presente e l’alternanza dei tempi verbali La centralità della memoria è rimarcata nel sonetto dalla preponderanza dell’imperfetto e del passato remoto. L’alternanza dei due tempi verbali rileva due dimensioni del ricordo: l’imperfetto, che domina nelle due quartine e nella prima terzina, a partire dall’incipit intensamente evocativo (Erano) e poi nella successione dei verbi in rima (avolgea, ardea, parea, avea), sottolinea la continuità del ricordo, che connette il passato con il presente e colloca la visione di Laura in una dimensione indeterminata, quasi mitica. Nel tessuto verbale all’imperfetto si stacca e assume rilievo il passato remoto (arsi, fu, vidi), che isola nel continuum della memoria il preciso momento dell’improvviso innamoramento (evidenziato anche dalla locuzione avverbiale di súbito, al v. 8), evidenziandone la folgorante intensità, tale da imprimere lo splendore di quell’apparizione in modo indelebile nella mente dell’innamorato. Ai tempi al passato fa da contrappunto il presente che, già nella prima e seconda quartina, infrange bruscamente l’elegia della memoria, sia attraverso il riferimento alla bellezza ormai sfiorita di Laura («or ne son sí scarsi», v. 4), sia introducendo una nota critico-dubitativa relativa al ricordo («non so se vero o falso»). Il presente dell’ultimo verso (non sana) assume invece un carattere sentenzioso, esprimendo la convinzione che la forza dell’amore (sostenuta dalla memoria) non cede di fronte al trascorrere inesorabile del tempo.
L’immagine di Laura: dai modelli classici alle icone della bellezza rinascimentale Il ritratto della bellezza di Laura, immersa nel ricordo in un’atmosfera mossa e vitale, con il vento che le muove i capelli, inanellandoli, e lo splendore dello sguardo, rivela un’ascendenza classica: rimanda infatti sia all’immagine di Dafne nelle Metamorfosi di Ovidio (I, 529), con i
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capelli sciolti al vento durante la sua fuga da Apollo, sia a quella di Venere nell’Eneide (I, 317), che appare al figlio nelle vesti di una cacciatrice, con la chioma sciolta al vento e una bellezza così fulgida da rivelarne l’origine divina (le parole di Enea «non hai volto mortale, né suona umana la tua voce» non possono non richiamare il sonetto petrarchesco). Contribuisce alla suggestione del ritratto di Laura nel ricordo l’andamento stesso del periodo, sinuoso e fluido, meno legato del consueto alle unità metriche e più ricco di enjambements, che sembra suggerire l’incedere armonioso e leggiadro della donna con i capelli mossi dal vento. Il fascino di Laura è poi sottolineato da una serie di metafore evocanti luminosità e splendore: dall’oro dei capelli al vago lume dello sguardo e alle altre immagini di luce che contrassegnano il sonetto, con un andamento a climax, culminante nell’immagine iperbolica del v. 12 (Uno spirto celeste, un vivo sole), messa in rilievo dall’enjambement. La descrizione fissa in modo indimenticabile l’iconografia di Laura, che diverrà poi un modello di bellezza femminile per i poeti e i pittori del Rinascimento (si pensi alla Primavera e alla Nascita di Venere di Botticelli).
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COMPRENSIONE 1. Qual è il tema principale del sonetto? ANALISI 2. Indica gli elementi stilnovistici presenti nella descrizione di Laura e quelli che invece si differenziano da tale concezione. LESSICO 3. Analizza il lessico ed evidenzia i termini legati al campo semantico della luminosità. STILE 4. Quale figura retorica è utilizzata al v. 7? Trasforma l’espressione l’ésca amorosa al petto avea in una similitudine. 5. Individua gli enjambements; osserva in quale parte del testo sono più frequenti, e indica quale effetto producono sul ritmo (e non solo sul ritmo).
PER APPROFONDIRE
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 6. Il motivo dell’apparizione della donna in tutta la sua bellezza e degli effetti straordinari che produce è un topos della letteratura e in particolare di alcuni testi che conosci: Io voglio del ver la mia donna laudare di Guinizzelli (➜C4 T12 ) e Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira di Cavalcanti (➜C4 T14 ). Svolgi un confronto tra i due testi citati e questo sonetto petrarchesco e indica le possibili analogie e differenze.
Un nome “segno”: Laura-l’aura-lauro Nel sonetto 90 Laura non viene nominata, ma la sua presenza è evocata dal termine l’aura, che si riferisce letteralmente al vento leggero che muove i suoi capelli, ma che ne riecheggia il nome (tanto più perché la grafia del tempo non prescriveva l’apostrofo per staccare l’articolo dal sostantivo in caso di elisione: nel manoscritto petrarchesco Vat. Lat. 3195 la scrittura continua laura sta per l’aura, aggiungendo così l’omografia delle due parole all’omofonia). L’aura è perciò un senhal, secondo una tradizione introdotta dai poeti provenzali, che evitavano di rendere noto il nome della donna amata per non farla riconoscere da tutti, preferendo evocarla attraverso allusioni. Nel Canzoniere il nome di Laura è anche associato al lauro, la pianta dell’alloro in cui nelle Metamorfosi ovidiane si trasforma la ninfa Dafne, simbolo fin dall’antichità della gloria poetica: l’aspirazione costante alla gloria (che quindi, attraverso il nome-segno, risulta associata all’attrazione per Laura)
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rappresenta nei versi della raccolta (ma anche nel Secretum) l’altro, fondamentale ostacolo al desiderio dell’autore di superare l’attrazione per i beni terreni.
Petrarca e Laura. Ritratto di scuola veneziana (1510 ca., The Ashmolean Museum of Art and Archaelogy, Oxford).
Francesco Petrarca
T12b
Chiare, fresche et dolci acque Canzoniere, 126
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
La canzone, di datazione incerta, è incentrata sul ricordo nostalgico della presenza di Laura nel sereno paesaggio della valle del fiume Sorga, presso Valchiusa, in Provenza, luogo caro a Petrarca. Ora il poeta è solo, rivede i luoghi dove aveva incontrato Laura e al ricordo struggente della felicità passata si sovrappongono malinconiche fantasticherie, nel presentimento della morte imminente.
Chiare, fresche et dolci acque1, ove le belle membra pose2 colei che sola a me par donna3; gentil4 ramo ove piacque 5 (con sospir’ mi rimembra5) a lei di fare al bel fiancho colonna6; herba et fior’ che la gonna leggiadra ricoverse co l’angelico seno7; 10 aere sacro, sereno8, ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse9: date udïenza insieme10 a le dolenti mie parole extreme11. S’egli è pur12 mio destino, 15 e ’l cielo in ciò s’adopra, ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda13,
La metrica Canzone di 5 stanze, in settenari ed endecasillabi, con schema abC abC (fronte) cdeeDfF (sirma). Il congedo riprende gli ultimi tre versi della sirma, DfF.
1 Chiare… acque: il poeta si rivolge alle acque del fiume (si pensa sia il Sorga, a Valchiusa, in Provenza) chiare e fresche, cristalline, perché presso la sorgente; dolci perché il luogo suscita soavi ricordi. È la prima di una serie di invocazioni a elementi della natura, testimoni della presenza della donna. I tre aggettivi bisillabi, con l’allitterazione in e e r dei primi due, introducono l’atmosfera lieve e idillica della canzone. Dolce è parola chiave del Canzoniere: è infatti l’aggettivo più frequentemente usato nella raccolta. 2 membra / pose: non si deve tanto pensare che Laura si sia bagnata nel fiume (sarebbe anacronistico e contrario alle usanze del tempo) quanto piuttosto che si sia rinfrescata il volto o semplicemente si sia seduta, appoggiata a un albero, vicino alle acque.
3 colei… donna: colei che sola per me è degna di essere chiamata donna (perché domina completamente il cuore del poeta). 4 gentil: l’attributo gentile, riferito al ramo dell’albero, mostra come il paesaggio sia rimasto, per l’amante, come impregnato delle qualità della donna che vi ha soggiornato. L’idealizzazione della scena è affidata all’aggettivazione. 5 con sospir… mi rimembra: me ne ricordo con un sospiro di rimpianto. L’inciso, sottolineato dalle allitterazioni in r, rallenta il ritmo, come se prolungasse la durata del ricordo, ed evidenzia lo stato d’animo di malinconico rimpianto del poeta. 6 fare… colonna: appoggiarsi. L’albero è probabilmente un grande pioppo che si trovava vicino alla sorgente del fiume Sorga. 7 seno: probabilmente si intende la piega (dal lat. sinus) della veste, essendo Laura seduta sull’erba; ma non si può escludere che il poeta si riferisca al seno di Laura,
appoggiata sull’erba; herba et fior’ sono compl. oggetto di ricoverse, il cui sogg. è gonna leggiadra. 8 aere… sereno: aria resa sacra dalla presenza della donna e serena perché primaverile. Le allitterazioni in r sottolineano l’ariosità dello sfondo naturale. 9 co’ begli occhi… aperse: attraverso i begli occhi di Laura Amore aprì il mio cuore. 10 date… insieme: ascoltate tutti le mie dolorose ultime parole. Il poeta si rivolge agli elementi della natura che sono stati testimoni dei momenti felici del passato. 11 extreme: ultime, perché il poeta prova tanto dolore e rimpianto da sentirsi vicino alla morte; l’aggettivo suggerisce anche l’intensità delle parole, quasi fossero un testamento. 12 S’egli è pur: se è veramente; egli è sogg. impersonale. 13 ch’Amor… chiuda: che io muoia per il dolore.
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qualche gratia il meschino corpo fra voi ricopra14, e torni l’alma al proprio albergo ignuda15. 20 La morte fia men cruda16 se questa spene17 porto a quel dubbioso passo18: ché lo spirito lasso19 non poria mai in piú riposato porto 25 né in piú tranquilla fossa fuggir la carne travagliata et l’ossa20. Tempo verrà anchor forse21 ch’a l’usato soggiorno22 torni la fera23 bella et mansüeta24, 30 et là ’v’ella mi scorse nel benedetto giorno25, volga la vista disïosa26 et lieta, cercandomi: et, o pieta! 27, già terra in fra le pietre 35 vedendo28 Amor l’inspiri in guisa che29 sospiri sí dolcemente che mercé m’impetre30, et faccia forza al cielo, asciugandosi gli occhi col bel velo31. 40
Da’ be’ rami scendea (dolce ne la memoria32) una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo; et ella si sedea
14 qualche gratia… ricopra: qualche grazia provveda a far seppellire il corpo infelice in mezzo a voi. 15 e torni… ignuda: e l’anima, privata del corpo, torni al Cielo, sua vera sede. 16 fia men cruda: sarà meno crudele. 17 spene: speranza (latinismo). Il poeta immagina di morire e spera di essere sepolto a Valchiusa. 18 dubbioso passo: il pauroso passaggio dalla vita alla morte. 19 lasso: sfinito. 20 non poria… l’ossa: non potrebbe lasciare il corpo travagliato e le ossa in un luogo più sereno e in un sepolcro più tranquillo di Valchiusa. Il luogo ha visto infatti la presenza di Laura e i momenti più felici per il poeta. 21 Tempo… forse: l’avverbio forse sottolinea l’indeterminatezza temporale del sogno a occhi aperti.
22 a l’usato soggiorno: nel luogo che era solita frequentare. Forse Laura trascorse qualche tempo in una località vicina alla casa del poeta a Valchiusa. 23 fera: crudele come una belva feroce. L’aggettivo allude alla durezza di Laura, che non corrisponde all’amore del poeta, e fa parte del lessico riferito all’immagine “petrosa” della donna. 24 mansüeta: divenuta dolce. 25 nel benedetto giorno: il giorno felice dell’incontro. 26 la vista disïosa: lo sguardo pieno di desiderio. Il poeta immagina che Laura, pur mostrandosi indifferente, in realtà non lo sia affatto e torni a Valchiusa per rivederlo, trovandovi però soltanto il suo sepolcro. 27 o pieta!: oh spettacolo pietoso!. L’inciso sottolinea l’angosciosa sorpresa di Laura. 28 già terra… vedendo: immaginandomi ormai ridotto in polvere tra le pietre tombali.
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29 in guisa che: in modo che. 30 mercé m’impetre: ottenga per me pietà [da Dio]. 31 et faccia forza… velo: e attenui il rigore della giustizia divina asciugandosi le lacrime con il suo velo (col suo pianto). 32 Da’ be’ rami... memoria: dai bei rami scendeva (è dolce ricordarlo). Dopo la fantasticheria sulla propria morte, la mente torna al passato che, evocato dalla memoria involontaria, sembra farsi più vivo e quasi presente. L’inciso dolce ne la memoria, con il suo effetto di rallentamento ritmico, evidenzia il mutamento dello stato d’animo del poeta, ormai ispirato soltanto alla dolcezza del ricordo non più commista all’amarezza del rimpianto. L’imperfetto evidenzia la sospensione temporale nella memoria.
humile33 in tanta gloria, 45 coverta già de l’amoroso nembo34 Qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch’oro forbito35 et perle36 eran quel dí a vederle; 50 qual si posava in terra, et qual su l’onde; qual con un vago errore37 girando parea dir: Qui regna Amore. Quante volte diss’io38 allor pien di spavento: 55 Costei per fermo39 nacque in paradiso. Cosí carco d’oblio40 il divin portamento e ’l volto e le parole e ’l dolce riso m’aveano, et sí diviso 60 da l’imagine vera41, ch’i’ dicea sospirando: Qui come venn’io, o quando?; credendo esser in ciel, non là dov’era42 Da indi in qua mi piace 65 questa herba43 sí, ch’altrove non ò pace. Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia, poresti arditamente uscir del boscho, et gir in fra la gente44.
33 humile: inconsapevole del suo splendore. L’aggettivo humile, posto in contrasto con la gloria dello splendore della donna, conferisce un’atmosfera stilnovistica alla scena, ricordando Beatrice nella Vita nuova (XXVI, 2): «Ella coronata e vestita d’umilitate s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia». 34 amoroso nembo: nuvola di fiori, ispiratrice d’amore. L’aggettivo amoroso, riferito alla nuvola di fiori, sembra suggerire una partecipazione della natura allo splendore della donna, come se gli elementi naturali rendessero amorosamente omaggio alla sua bellezza. 35 forbito: lucente. 36 perle: i fiori bianchi, posati sui biondi capelli di Laura, sembrano perle. 37 vago errore: leggiadro volteggio. I minuziosi particolari (ogni fiore è seguito nel suo volteggiare finché ricade sui capelli di Laura, sulle acque del fiume,
sull’erba) rallentano la scena, creando un effetto di sospensione temporale. Al contempo, lo splendore di Laura appare ancora più strettamente legato a quello della natura, come in un trionfo d’Amore. 38 diss’io: il passato remoto evidenzia un distacco dall’atmosfera idillica della strofa precedente, contrapponendosi all’imperfetto dell’indugio nella dolcezza del ricordo. In questa strofa è evidente e dichiarata la distanza dallo stilnovismo: la visione paradisiaca era soltanto un’illusione, effetto della bellezza della donna, e la beatitudine amorosa era tutta terrena, non celestiale. 39 per fermo: sicuramente. 40 carco d’oblio: reso dimentico di tutto. Letteralmente “colmato di dimenticanza”; dipende dal verbo m’aveano al v. 59, i cui soggetti sono ai vv. 57-58; l’espressione indica la perdita di contatto con la realtà a causa dell’estasi amorosa.
Incipit della canzone Chiare, fresche et dolci acque. Laura è raffigurata sotto una pioggia di fiori, presso la sorgente del Sorga; sullo sfondo, a destra del laureto, un libro che si identifica con il poeta stesso, è attaccato dal serpentello della lussuria. Incunabolo [antica edizione a stampa] del Canzoniere e Trionfi di Petrarca (1470, Brescia, Biblioteca Queriniana).
41 diviso… imagine vera: allontanato dalla vera realtà. 42 credendo… dov’era: convinto di trovarmi in Paradiso, non dov’ero veramente. C’è una climax nei sentimenti dell’amante, dall’ammirato stupore alla perdita di contatto con la realtà. 43 Da indi… herba: da quel giorno in poi mi piace questa campagna. Da allora il poeta ha amato ancora di più Valchiusa, perché legata al ricordo di Laura. 44 Se tu avessi … fra la gente: se tu (come d’uso, il congedo si rivolge alla canzone personificata) avessi pregi artistici quanti ne vorresti, potresti, senza timore, uscire da queste selve (il luogo bucolico, in cui sei stata scritta) e andare tra la gente (essere conosciuta da tutti). La poesia è stata immaginata e scritta nella solitudine di un luogo idillico: per la sua raffinata eleganza potrà tuttavia essere conosciuta da molti lettori.
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Analisi del testo Il tema della memoria La canzone Chiare, fresche et dolci acque esercita un fascino immediato sul lettore, e sembra perciò apparentemente di facile lettura; in realtà c’è una concezione poetica nuova e complessa, che il poeta riesce a tradurre in immagini di pronta capacità evocativa. Tema centrale della canzone è la memoria. Prima ancora che questo tema sia esplicitato negli incisi dei vv. 5 e 41 (con sospir’ mi rimembra e dolce ne la memoria), già l’incipit fa percepire al lettore che il paesaggio è legato a un ricordo gioioso: se il poeta si rivolge a una campagna rappresentata come un Paradiso in terra, è perché vi ha certamente vissuto momenti lieti.
Dal paesaggio all’evocazione della donna amata Già la successione dei tre aggettivi dell’incipit costruisce una progressiva interiorizzazione del paesaggio: se fresche si addice alle acque di un fiume presso la sua sorgente, chiare già associa all’immagine dell’acqua limpida quella dell’intero paesaggio, risplendente nella luce primaverile, mentre dolci (dolce è parola chiave del Canzoniere) aggiunge alla scena una connotazione psicologica che la interiorizza, evocando un ricordo felice. Solo a poco a poco la figura femminile emerge, rivelando l’intrinseco legame fra il ricordo della sua presenza e il luogo idillico, del quale alcuni elementi appaiono quasi una proiezione del corpo dell’amata: da qui l’attribuzione di connotazioni che in realtà appartengono a lei, come l’aggettivo gentil – proprio di una donna nobile, fine, cortese – attribuito al ramo su cui lei si è una volta appoggiata.
Il contrasto con Dante: la natura e la donna restituite alla dimensione terrena La critica ha rilevato la suggestione di alcuni versi del Purgatorio di Dante: in particolare, la scena di Laura avvolta da una nuvola di fiori ricalca l’apparizione di Beatrice nel canto XXX di questa cantica (vv. 28-32): «così dentro una nuvola di fiori / che da le mani angeliche saliva / e ricadeva in giù dentro e di fori / sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve» (➜C6 T27a2 ). Pur simili in apparenza, le due situazioni sono in realtà profondamente diverse: nella Commedia il paesaggio è splendido perché appartiene al Paradiso Terrestre, in cui la natura è per definizione perfetta, mentre nel Canzoniere appare tale perché legato a un ricordo felice. A sua volta, Laura non simboleggia la teologia come Beatrice nei versi danteschi ricordati, ma è invece una donna terrena, come mostrano i dettagli fisici concreti rievocati nella canzone: i biondi capelli, i begli occhi, le belle membra, la gonna, il velo. Se perciò il protagonista la vede come un angelo, e immagina di essere in Paradiso, ciò è dovuto alla sua visione ingannevole e soggettiva, come il poeta esplicitamente evidenzia, ricordando di essere stato «sí diviso / da l’imagine vera, / ch’i’ dicea sospirando: / Qui come venn’io, o quando?; / credendo esser in ciel, non là dov’era».
Il tempo dell’interiorità Dall’attenzione per la vita psichica soggettiva, secondo il modello delle Confessioni di Agostino, deriva la rappresentazione innovativa e moderna del tempo come durata; un tema che, filosofi e poeti del Novecento avrebbero ampiamente trattato, sottolineando come il tempo della coscienza sia profondamente diverso da quello esterno e oggettivo. Il tempo dell’interiorità è infatti un flusso continuamente ondeggiante tra presente, passato e futuro: dimensioni che continuamente si sovrappongono nella mente, come è messo in evidenza nel componimento petrarchesco, grazie al movimento incessante dell’“io” tra il presente, il passato del ricordo, il futuro del sogno e delle fantasticherie. L’intreccio dei tre tempi e il loro continuo e fluido trapassare uno nell’altro nella coscienza è così distribuito nelle diverse strofe della canzone: I strofa
presente: il poeta si rivolge ai luoghi che, in passato, hanno visto la bellezza di Laura; passato: ricorda la visione della donna nello sfondo naturale; II strofa futuro: fantasticheria di essere sepolto in quel luogo, presso le chiare, fresche et dolci acque, essendo morto per amore; III strofa futuro: fantasticheria di come Laura, tornando in quel luogo ansiosa di rivedere il poeta, trovi soltanto la sua tomba, e, piangendone la morte, esprima un coinvolgimento amoroso prima celato;
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IV strofa passato: con una struttura circolare, la canzone torna al momento iniziale, con il ricordo della donna che sembra farsi ancora vivo e quasi presente; il tempo imperfetto, dominante nella strofa, sottolinea la durata del ricordo, in cui il poeta indugia per la sua dolcezza; V strofa passato: all’imperfetto della strofa precedente si contrappone il passato remoto, che mette in primo piano l’istante, quando il poeta, al culmine della beatitudine amorosa, crede di essere in Paradiso; presente: alla fine della strofa si torna al presente, momento di composizione della canzone, con un andamento circolare, per evidenziare perché quel luogo sia da allora prediletto dal poeta.
La varietà del ritmo e l’armonia dei suoni Il libero fluire della coscienza tra passato, presente e futuro, con le corrispondenti dimensioni psicologiche, si traduce nelle variazioni ritmiche della canzone: ad esempio, nelle strofe dedicate al ricordo (la prima e la quarta) il ritmo appare decisamente più rallentato, ritardato, in particolare dagli incisi (vv. 5 e 41: con sospir’ mi rimembra e dolce ne la memoria), che creano una pausa suscitando un effetto di sospensione temporale, come a evidenziare la forte carica emozionale del ricordo, tra dolcezza e malinconico rimpianto. A rallentare il ritmo delle due strofe, contribuiscono anche le ripetizioni anaforiche: nella I strofa del nesso ove, che istituisce un rapporto fra il luogo e il ricordo della donna amata; nella IV l’anafora di qual, che “accompagna”, per così dire, la pioggia di fiori, seguiti uno per uno nel loro soave volteggiare. Anche a livello fonico le strofe I e IV, dedicate alla rievocazione, si differenziano dalle altre per la prevalenza di suoni lievi e aerei (vocali e consonanti liquide, come la r): spicca in particolare l’incipit, in cui sono presenti la l, la r, e – sapientemente variate – tutte le vocali (con prevalenza della a e della e), a eccezione della u (dal suono troppo cupo). Nella strofa IV la musicalità lieve, legata alla fragile dimensione della memoria, è espressa dagli imperfetti, che formano una catena di rime interne e a fine verso (scendea, sedea, cadea, parea, nella variante più letteraria con la caduta della v). Il lessico concorre all’atmosfera di incanto che regna nella canzone: prevalgono gli aggettivi che esprimono bellezza, armonia, dolcezza (bello, più volte ripetuto, e dolce).
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COMPRENSIONE 1. Completa la tabella e poi organizza i dati raccolti in un breve riassunto (max 15 righe). strofa
titolo
tema centrale
parola chiave
I II III IV V congedo ANALISI 2. Indica gli elementi naturali associati al ricordo di Laura. Quale rapporto il poeta vi instaura e perché? LESSICO 3. Analizza la canzone dal punto di vista lessicale: quali sono gli aggettivi del componimento che, a tuo parere, meglio sottolineano la bellezza di Laura e della natura? Quali i campi semantici prevalenti?
Interpretare
SCRITTURA 4. Descrivi il luogo dell’incontro con Laura in un breve testo (max 10 righe) seguendo la traccia delle risposte sugli aspetti indicati: a. Si tratta di un locus amoenus? b. Il paesaggio è evocativo di un particolare stato d’animo? Quale? c. Il paesaggio, da elemento puramente decorativo, diventa per Petrarca un vero e proprio personaggio, come fosse animato e intimamente legato allo stato d’animo del poeta: in quali occasioni? Rintracciale nel testo.
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T13
Il tema della fuga del tempo e della caducità della vita Il tema della vanitas, della fuga del tempo e della caducità della vita, percorre tutto il Canzoniere: per esemplificarlo proponiamo in particolare due sonetti, l’uno tratto dalla parte iniziale della raccolta (32), l’altro appartenente alla sezione “in morte di Laura” (272). Se nel primo la percezione dell’universale labilità della vita è oggetto di una pacata meditazione filosofica, nel secondo l’esperienza drammatica della perdita della donna amata induce un senso angoscioso di desolazione. Il tema dello scorrere inesorabile del tempo è trattato in modo più lieve e in una dimensione di diffusa malinconia nel sonetto Vago augelletto che cantando vai (353) (➜ T13c OL), che ha ispirato a Leopardi la celebre canzone Il passero solitario.
Francesco Petrarca
T13a
Quanto piú m’avicino al giorno extremo Canzoniere, 32
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto, collocato nella prima parte del Canzoniere, è d’incerta datazione: alcuni lo ritengono giovanile (composto intorno alla metà degli anni Trenta), altri scritto o profondamente rielaborato in anni posteriori. La sua collocazione nella parte iniziale del Canzoniere suggerisce comunque di vederlo, rispetto all’atteggiamento del protagonista della raccolta, come espressione di una consapevolezza ancora soltanto “filosofica”, insufficiente a distoglierlo dall’attrattiva delle cose del mondo: nella raccolta petrarchesca il sonetto è infatti seguito da poesie ispirate all’amore per Laura, come la celeberrima canzone Chiare, fresche et dolci acque.
Quanto piú m’avicino al giorno extremo che l’umana miseria suol far breve1, piú veggio2 il tempo andar veloce et leve3, 4 e ’l mio di lui sperar fallace et scemo4. I’ dico a’ miei pensier’5: Non molto andremo d’amor parlando omai, ché ’l duro et greve terreno incarco6 come frescha neve 8 si va struggendo7; onde noi pace avremo:
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE. 1 Quanto piú… far breve: quanto più mi avvicino alla morte (al giorno extremo) che pone fine alla misera esistenza degli uomini (suol far breve, “abbrevia”, l’umana miseria, compl. oggetto). La locuzione, propria del linguaggio religioso, sottolinea la vanità delle cose terrene, tema fondamentale del sonetto.
2 veggio: vedo. 3 leve: lieve. Con l’avanzare dell’età, il passare del tempo appare sempre più veloce e quasi inavvertibile. 4 ’l mio… scemo: (più vedo) la speranza riposta in lui (nel tempo) mostrarsi ingannevole e vana. Con il tempo si avverte la vanità delle speranze del passato; sperar acquista risalto per la rima interna con andar del verso precedente; un’ulteriore rima interna, volta a sotto-
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lineare il tema del sonetto, si riscontra con vaneggiar del v. 10. 5 I’ dico… pensier’: è introdotto in questo verso il colloquio del poeta con sé stesso. 6 duro… incarco: il duro e gravoso peso della vita terrena. Altri intendono “del corpo”. 7 come frescha… struggendo: si va sciogliendo come neve appena caduta. L’allitterazione in r accresce il senso di leggerezza dell’immagine.
perché co llui cadrà quella speranza8 che ne fe’ vaneggiar sí lungamente9, 11 e ’l riso e ’l pianto, et la paura et l’ira10; sí vedrem chiaro poi come sovente per le cose dubbiose altri s’avanza, 14 et come spesso indarno si sospira11. 8 speranza: nell’amore di Laura. 9 che ne fe’… lungamente: che ci ha fatto inseguire cose vane così a lungo; vaneggiare è parola chiave del Canzoniere. 10 riso… ira: con la pace eterna finiranno le passioni terrene, causa di perturbazione dell’anima.
11 come sovente… si sospira: come spesso per cose incerte gli uomini (altri) s’affaticano inutilmente e si sospira vanamente (per il desiderio di beni vani e perché le speranze sono spesso deluse). Nel momento della morte si comprenderà la vanità degli affanni, delle passioni,
delle speranze, legati alle realtà terrene; l’espressione per le cose dubbiose altri s’avanza è comunque di incerta interpretazione, e viene intesa anche in altri modi: “gli uomini si inoltrano nella vita tra cose incerte” oppure “traggono vantaggio da ciò che incute timore (cose dubbiose), come la morte (grazie alla meditazione)”.
Francesco Petrarca
T13b
La vita fugge et non s’arresta una hora Canzoniere, 272
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto è collocato nella seconda parte del Canzoniere e fu sicuramente scritto dopo il 1348, anno della morte di Laura. La percezione della fugacità della vita non è più legata a una meditazione filosofica, ma è il frutto di una dolorosa esperienza personale, ossia la morte della donna amata, che conduce il poeta a una disperazione inconsolabile. È ripresa la metafora della vita come navigazione, ricorrente nella raccolta, ma la barca è ormai travolta dalla tempesta e incapace di giungere in porto: le luci che guidavano il poeta (gli occhi di Laura) sono per sempre spente, lasciandolo nell’oscurità.
La vita fugge et non s’arresta una hora, et la morte vien dietro a gran giornate1, et le cose presenti et le passate 4 mi dànno guerra, et le future anchora2; e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora3, or quinci or quindi4; sí che ’n veritate, se non ch’i’ ò di me stesso pietate, 8 i’ sarei già di questi penser’ fora5.
La metrica Sonetto con schema di rime ABBA ABBA CDE CDE. 1 a gran giornate: a marce forzate, rapidamente. Corrisponde all’espressione latina magnis itineribus, che negli storici (e in particolare in Cesare) indica il cammino dell’esercito a tappe forzate. Il ritmo rapido dei versi, scandito dalla struttura paratattica della sintassi e dal polisindeto, rende efficacemente la fuga della vita, incalzata alle spalle dalla morte.
2 le cose… anchora: mi angosciano la situazione presente, il ricordo del passato e anche il pensiero del futuro. Passato, presente e futuro sono fonte d’angoscia: mi dànno guerra “mi fanno soffrire”. 3 e ’l rimembrare… m’accora: sia il ricordare sia l’attendere gli eventi futuri è per me doloroso.
4 or quinci or quindi: da una parte e dall’altra. Cioè secondo le oscillazioni del ricordo e dell’attesa: ogni dimensione temporale offre un’immagine di desolata tristezza. 5 se non ch’i’… fora: se non fosse che ho pietà di me stesso (temendo la dannazione eterna dell’anima), mi sarei già liberato da queste angosce (lett. “ne sarei già fuori”).
Il Canzoniere 3 559
Tornami avanti6, s’alcun dolce7 mai ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte 11 veggio al mio navigar turbati i vènti8; veggio fortuna in porto9, et stanco omai il mio nocchier10, et rotte arbore et sarte11, 14 e i lumi bei12, che mirar soglio, spenti13. 6 Tornami avanti: mi torna davanti agli occhi della mente. 7 dolce: dolcezza (agg. sostantivato). Poiché tutte le dolcezze sono legate al ricordo di Laura, la morte di lei suscita un’irrimediabile desolazione. 8 turbati i vènti: i venti turbinosi e contrari. Ci si riferisce, qui, alla metafora della vita come navigazione in un mare in tempesta, ricorrente nel Canzoniere. 9 veggio fortuna in porto: vedo tempesta (fortuna) nel porto (alla fine della vita). L’espressione, sottolineata dall’anafora di veggio (vv. 11 e 12), indica che sfiducia e
disperazione non riguardano soltanto la vita, ma anche la speranza nella salvezza ultraterrena. 10 nocchier: timoniere della nave. Metaforicamente: la ragione. 11 rotte arbore et sarte: rotto l’albero e le sartie. Le sartie sono le funi che reggono l’albero della nave; per metafora rappresentano le virtù. L’albero della nave, infranto, rappresenta il disgregarsi dell’“io”, la perdita di sé. 12 i lumi bei: i begli occhi (di Laura). Gli occhi di Laura erano come le stelle, che guidano i naviganti; i lumi possono anche
essere intesi come i fari di orientamento per i marinai. 13 che mirar soglio, spenti: che solevo guardare, spenti (perché Laura è morta). L’interposizione della relativa dopo l’aggettivo bei spezza il ritmo del verso, conferendo un forte rilievo alla parola chiave spenti che, preceduta da una pausa, resta staccata dal resto del sonetto. La morte di Laura ispira tutto il componimento ma viene ricordata soltanto alla fine, accentuando così la drammaticità dell’evento.
Analisi del testo Il sonetto 32: una meditazione filosofica sulla morte Il sonetto Quanto piú m’avicino si presenta con i caratteri di una meditazione filosofica sullo scorrere del tempo e sulla caducità dei beni terreni. Da questi il poeta non appare ancora distaccato, come prova il prevalere dei tempi futuri, che collocano in un momento successivo il superamento delle passioni e l’acquisizione di una saggezza definitiva (andremo d’amor parlando omai, pace avremo, cadrà quella speranza, vedrem chiaro). Anche la constatazione iniziale dell’approssimarsi alla morte potrebbe non alludere alla tarda età del poeta ma alla condizione umana in una prospettiva filosofica: secondo la riflessione di Seneca (che Petrarca riprende nella prima lettera del libro XXIV delle Familiares, diretta a Philippe de Cavaillon) noi «moriamo continuamente», perché ogni giorno, qualunque sia l’età, ci avvicina alla morte (➜ D2 ). La fuga del tempo è vista nel sonetto con pacata malinconia, come da una grande distanza. In un colloquio interiore staccato dall’immediatezza delle passioni, il poeta si volge con il pensiero dall’effimero all’eterno, anticipando con la meditazione filosofica la prospettiva della morte, per acquisire così consapevolezza della vanità dell’esistenza (l’umana miseria). È ciò che Agostino consiglia di fare a Francesco nel Secretum. A dare l’effetto del tempo che passa concorre anche il suggestivo paragone con la neve che si scioglie («come frescha neve / si va struggendo»), enfatizzato dai due enjambements dei vv. 6-8, che conferiscono un’estrema fluidità al ritmo. Il componimento presenta una struttura articolata in due parti: la prima coincide con la quartina iniziale ed è caratterizzata dal tempo presente; la seconda, comprendente la seconda quartina e le due terzine, contraddistinta dal tempo futuro.
Il sonetto 272: l’esperienza personale della caducità di ciò che è terreno Nessuna saggezza è però mai definitivamente acquisita nel Canzoniere, perché l’attrattiva della vita torna sempre a rinascere, almeno finché la morte della donna amata non la cancella: il sonetto 272, “in morte di Laura” ripropone lo stesso tema del 32, ma in una prospettiva e con un tono ben più drammatici, derivanti dall’esperienza personale della precarietà dei beni terreni: «la fugacità della vita e l’incalzare della morte gli si presentano ora con l’evidenza di una catastrofe che lo sbigottisce» (Fornasiero).
560 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Lo stato d’animo disperato che ispira il sonetto è evidenziato da due metafore che simboleggiano la vita: la prima, d’ambito militare, come fuga incalzante dall’incombere della morte; la seconda, ricorrente nel Canzoniere, come navigazione in un mare tempestoso («veggio al mio navigar turbati i vènti») che fa dubitare dell’approdo e fa presagire la possibilità di un naufragio. Ormai lasciata alle spalle ogni speranza di gioia terrena, il futuro appare non meno angosciante del passato («e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora»).
Il diverso stile dei due sonetti La diversa situazione psicologica che sta alla base dei due sonetti (a prescindere dal momento reale in cui sono stati composti) si riflette nello stile. Al ritmo fluido e armonico del primo si contrappone il ritmo quasi affannoso del secondo, a cominciare dall’isolamento per mezzo dei due punti a fine verso della frase lapidaria dell’incipit, che enuncia con forte evidenza il tema chiave. La prevalenza della paratassi, la dominante presenza del polisindeto in tutto il brano, creano, pur nel consueto dominio formale, il senso di un affollarsi di sensazioni ed emozioni negative che investono senza via di scampo e senza possibilità di controllo razionale il presente, il futuro e il passato stesso. Analoghe differenze tra i due sonetti si possono riscontrare nel lessico. In ➜ T13a predomina il campo semantico della vanitas (sperar… fallace, cose dubbiose, indarno, vaneggiar) con una prevalenza di suoni lievi e consonanti liquide (in particolare la r); nel componimento in morte di Laura (➜ T13b ) prevalgono invece i termini che indicano angoscia e distruzione (tristo, guerra, turbati, stanco, rotte, spenti) e suoni duri e laceranti (in particolare per il prevalere della dentale t). L’inciso che mirar soglio isola spenti, ultima parola del sonetto, e suscita il senso di un evento irreparabile.
Esercitare le competenze online Comprendere Documento critico e analizzare Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
SINTESI 1. Fai il riassunto del sonetto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Nel sonetto si parla delle passioni umane: quali sono elencate? in quale prospettiva sono considerate? ANALISI 3. In quale prospettiva è vista la fuga del tempo? LESSICO 4. Analizza il sonetto dal punto di vista lessicale: ricerca nel testo i termini appartenenti a questi campi semantici: militare, navigazione, luce/vista. STILE 5. Indica le metafore che nel sonetto si riferiscono al tema della vanità dell’esistenza. 6. Soprattutto nella prima quartina e nell’ultima terzina l’incalzare del tempo e la fugacità della vita sono resi da una particolare figura retorica: quale? Grazie a questa scelta stilistica, come risulta il ritmo?
Interpretare
SCRITTURA 7. Sulla base dell’analisi svolta, dei testi che conosci e dello stralcio da una lettera di Petrarca (Familiari XXI, 12) all’amico Francesco Nelli (Milano, 13 novembre 1359), sviluppa il tema dell’inesorabile trascorrere del tempo in un breve testo (max 20 righe). «Velocissimo è il tempo, e con nessun artificio si può fermare; tu dorma o vegli, corrono le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli; tutto ciò che è sotto il cielo, appena nato, si affretta e s’avvia con mirabile velocità verso la fine. […] Ad essa ci affrettiamo con impeto; ogni istante ci incalza e contro voglia ci spinge dal mare al porto, strani viaggiatori amanti del viaggio e timorosi dell’arrivo».
online T13c Francesco Petrarca Vago augelletto che cantando vai Canzoniere, 353
Il Canzoniere 3 561
Testi in dialogo
Il sentimento del tempo: un tema transepocale Il tema dell’inesorabile scorrere del tempo in rapporto al tramonto della giovinezza e della bellezza è sicuramente molto frequentato dalla letteratura di tutte le epoche, a cominciare dai classici (a questo tema si lega ad esempio il motivo oraziano del carpe diem). Presentiamo qui, come occasione di confronto con i testi di Petrarca e di riflessione personale, tre testi di epoche diverse epoche incentrati sul tema del tempo.
Una testimonianza antica Seneca
D2
Ogni giorno si muore Lettere a Lucilio III, 24, 19-20
Seneca, Lettere a Lucilio, introd., trad. e note di C. Barone, Garzanti, Milano 1989
La centralità del tema del tempo nella visione del mondo di Petrarca deriva anche dall’assidua frequentazione di autori antichi come Seneca. Il filosofo latino (4 a.C.-65 d.C.) dedicò alla meditazione sul tempo una delle sue opere filosofiche più significative, il De brevitate vitae, e anche molte riflessioni sparse contenute nelle Lettere a Lucilio. Da questa ultima opera è appunto tratto il breve passo che presentiamo, certamente ben noto a Petrarca.
Noi non precipitiamo all’improvviso nella morte, ma ci avviciniamo a poco a poco. Moriamo ogni giorno: ogni giorno ci viene tolta una parte della vita e anche quando ancora cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri è ormai perduto; anche questo giorno che stiamo vivendo lo dividiamo colla morte. Come la clessidra non la vuota l’ultima goccia d’acqua, ma tutta quella defluita prima, così l’ora estrema, che mette fine alla nostra vita, non provoca da sola la morte, ma da sola la compie; noi vi giungiamo in quel momento: da tempo, però, vi siamo diretti.
Due esempi novecenteschi D3a
Gabriele d’Annunzio
La sabbia del Tempo Alcyone G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, vol. 2, Mondadori, Milano 2010
Quella testimoniata da questa breve poesia, ispirata anch’essa al tema del tempo (fa parte della sezione Madrigali dell’estate della celebre raccolta Alcyone) è un’immagine di D’Annunzio (1863-1938) meno nota rispetto a quella più celebre del superuomo, proteso all’inebriante immersione panica nella natura (come in Meriggio, Stabat nuda Aestas, La pioggia nel pineto). Questo madrigale (due terzine e una quartina) invece è percorso da una sottile inquietudine (è forse eccessivo parlare per D’Annunzio di vera e propria angoscia), sollecitata dalla percezione – dapprima fisica e sensoriale (lo scorrere della sabbia nel cavo della mano), poi mentale – della fuga del tempo e della fine dell’estate. Un “sentimento del tempo” che D’Annunzio affida all’evidenza allusiva di immagini scopertamente simboliche, come quella della clessidra e della meridiana, già care all’immaginario barocco secentesco.
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Come1 scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio2, il cor sentì che il giorno era più breve.
5
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E un’ansia repentina il cor m’assalse3 per l’appressar dell’umido equinozio4 che offusca l’oro delle piagge salse5. Alla sabbia del Tempo urna la mano era, clessidra il cor mio palpitante6, l’ombra crescente7 d’ogni stelo vano8 quasi ombra d’ago in tacito quadrante9.
1 Come: mentre. 2 in ozio: è la mano del poeta, rappresentato in un momento di ozio.
3 m’assalse: mi assalì. 4 l’appressar… equinozio: l’avvicinarsi dell’equinozio di settembre (umido perché reca le piogge), cioè dell’autunno. 5 offusca… salse: smorza la luce dorata delle spiagge marine (salse, “salate”). 6 Alla sabbia… palpitante: costruisci: la mano era urna alla
D3b
sabbia del Tempo, il mio cor palpitante (era) clessidra. I due versi sono realizzati su due passaggi analogici molto concentrati: la mano, attraverso cui il poeta fa scorrere la sabbia, è come l’ampolla della clessidra attraverso cui scorre la sabbia che misura il tempo (quindi sabbia del Tempo); il suo cuore, che ne avverte il fluire come un battito (palpitante), diviene esso stesso clessidra del Tempo che passa.
7 l’ombra crescente: alla fine dell’estate, con l’inclinarsi del sole all’orizzonte, le ombre si allungano. 8 vano: esiguo, che si dissecca presto. 9 quasi… quadrante: come fosse l’ombra dell’ago che segna il tempo sul quadrante di un orologio solare, il quale è tacito, in quanto sulla meridiana il tempo è scandito dall’ombra che vi si proietta.
Eugenio Montale
Quartetto Altri versi E. Montale, Tutte le poesie, a c. di G. Zampa, Mondadori, Milano 2007
Quartetto (1979) appartiene all’ultima e meno nota produzione di Eugenio Montale (1896-1981): una produzione caratterizzata, già a partire dalla raccolta Satura (1971), da un ostentato rifiuto per la Poesia, “con la P maiuscola”, e dalla scelta di un registro linguistico prosastico, antilirico e scopertamente colloquiale, impiegato anche per ardue tematiche filosofiche, come appunto quella, cara a Montale, del senso del tempo, a cui fa riferimento il testo qui proposto. Ormai anziano, Montale ripesca nella memoria qualche frammento del passato, da tanto tempo trascorso: un passato rappresentato da una vecchia fotografia ingiallita di quarant’anni prima che ritrae un gruppetto di amici (il quartetto cui allude il titolo della lirica) a Siena per assistere al Palio (la piazza-conchiglia è appunto quella dove si svolge la manifestazione). Tra di loro, insieme a Camillo Sbarbaro (oltre che poeta anche briologo, studioso di botanica, esperto di muschi e licheni) e alla pittrice Elena De Bosis Vivante c’è Clizia, cioè Irma Brandeis, l’enigmatica musa della poesia di Montale (il tuo volto severo nella sua dolcezza). L’affiorare di immagini care del passato non è nostalgico, ma avvia una riflessione corrosiva, tipica di Montale, che investe non solo la nozione esecrabile del tempo, ma più in generale il senso stesso dell’esistenza, costantemente esposta all’insignificanza: Suppongo che a qualcuno, a qualcosa convenga / l’attributo di essente (chi esiste). In quel giorno eri tu. / Ma per quanto, ma come? Il Canzoniere 3 563
5
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In una istantanea ingiallita di quarant’anni fa ripescata dal fondo di un cassetto il tuo volto severo nella sua dolcezza, e il tuo servo d’accanto; e dietro Sbarbaro briologo e poeta – ed Elena Vivante signora di noi tutti: qui giunti per vedere quattro ronzini frustati a sangue in una piazza-conchiglia davanti a una folla inferocita. E il tempo? Quarant’anni ho detto e forse zero. Non credo al tempo, al big bang, a nulla che misuri gli eventi in un prima e in un dopo. Suppongo che a qualcuno, a qualcosa convenga l’attributo di essente. In quel giorno eri tu. Ma per quanto, ma come? Ed ecco che rispunta la nozione esecrabile del tempo.
Siena 1938; Montale (ultimo a destra) con Irma Brandeis (terza a sinistra) con gli amici della istantanea ingiallita.
Esercitare le competenze online Comprendere Documento critico e analizzare Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
COMPRENSIONE 1. Qual è il pensiero di Seneca in merito alla morte? 2. Nella poesia di d’Annunzio che cosa scatena un’ansia repentina al poeta? 3. Da che cosa prende le mosse la riflessione sul trascorrere del tempo nella poesia di Montale? STILE 4. Nel testo di Seneca compare una similitudine: dopo averla sottolineata nel testo, spiegane il significato.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Scrivi un testo argomentativo sullo scorrere del tempo, tenendo conto del pensiero in merito espresso da Seneca, d’Annunzio e Montale.
564 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
T14
Il tema della morte di Laura Nei sonetti qui raggruppati si possono confrontare le diverse modalità con cui Petrarca rappresenta Laura dopo la sua morte. Anche di fronte a questo tema chiave della poesia petrarchesca si ripropongono le oscillazioni proprie dell’attività dell’autore, frutto non solo del suo dissidio interiore ma anche del conflitto tra diversi codici culturali nel modo di vivere, e quindi di rappresentare, la morte dell’amata (➜ PER APPROFONDIRE, I volti di Laura, PAG. 517).
Francesco Petrarca
T14a
Se lamentar augelli, o verdi fronde Canzoniere, 279
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto appartiene, con ogni probabilità, al periodo che segue la morte di Laura, tra il 1351 e il 1352, in cui il poeta ritornò a Valchiusa, luogo legato ai più felici ricordi della donna amata. Sullo sfondo dell’idillico paesaggio viene evocata ancora una volta la sua immagine, che appare qui come consolatrice e messaggera di vita eterna.
Se lamentar augelli1, o verdi fronde mover soavemente a l’aura estiva, o roco mormorar di lucide onde 4 s’ode d’una fiorita et fresca riva2, là ’v’io seggia d’amor pensoso et scriva3, lei che ’l ciel ne mostrò, terra n’asconde4, veggio, et odo, et intendo ch’anchor viva 8 di sí lontano a’ sospir’ miei risponde5: «Deh, perché inanzi ’l tempo ti consume?6 – mi dice con pietate – a che pur versi7 11 degli occhi tristi un doloroso fiume? Di me non pianger tu, ché’ miei dí fersi morendo, eterni8, et ne l’interno lume, 14 quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi9».
La metrica Sonetto con schema ABAB
3 là ’v’io … scriva: là dove io sieda pen-
BABA CDC DCD.
sando all’amore (cioè a Laura) e scriva. 4 lei che… n’asconde: lei (Laura), che il cielo ci ha mostrato, la terra (dove è sepolta) ci nasconde. Il passato remoto mostrò sottolinea la brevità della vita di Laura; lei è ogg. di veggio, et odo. 5 di sí lontano... risponde: dal cielo risponde ai miei sospiri. I sospiri esprimono il rimpianto dell’amante, a cui Laura appare come consolatrice. Le prime due quartine costituiscono un lungo periodo, in cui i verbi della principale giungono alla fine: la sapiente costruzione sintattica pone in rilievo le impressioni uditive, che evocano la presenza della donna amata.
1 augelli: uccelli. Il termine poetico di origine provenzale sottolinea che lo scenario è Valchiusa. 2 verdi fronde… riva: il paesaggio ha le caratteristiche del locus amoenus, con alberi mossi dal vento e freschi ruscelletti di acque limpide (lucide); il luogo sembra essere lo stesso di Chiare, fresche et dolci acque. La frase è retta da s’ode (“se si odono”, cioè “se io sento”), da cui dipendono mover e mormorar, come lamentar del verso precedente. La posposizione del verbo mette in risalto le voci della natura.
6 perché inanzi... consume?: perché ti consumi (per il dolore) prima del momento stabilito per la tua morte? 7 a che pur versi: per quale ragione versi di continuo. 8 ché’ miei… eterni: perché le giornate (della mia vita) morendo si fecero (fersi = si fero, “si fecero”) eterne. L’enjambement sottolinea il contrasto fra vita terrena e vita eterna. 9 ne l’interno… apersi: quando in apparenza (li) chiusi, (in realtà) aprii gli occhi nella luce della vita eterna.
Il Canzoniere 3 565
Analisi del testo L’apparizione di Laura sullo sfondo di Valchiusa In contrasto con il sonetto ➜ T12b , in cui lo scenario ameno di Valchiusa rende ancora più de-
solato lo stato d’animo del poeta, qui gli stessi luoghi appaiono rasserenanti, perché talmente pervasi dal ricordo della donna da evocarla come se fosse ancora in vita. Il sonetto è diviso in due parti, corrispondenti alle quartine e alle terzine, strettamente tra loro collegate. Nelle quartine viene richiamato lo scenario di Valchiusa, lo stesso di Chiare, fresche et dolci acque (con cui è evidente il legame), in passato cornice della bellezza della donna e ora così legato al ricordo di lei da far immaginare all’autore che ella vi appaia come quando era ancora viva e che addirittura gli parli. I tre verbi del v. 7 producono un effetto di climax, che rende Laura sempre più presente e vicina al poeta: prima gli sembra di vederla (veggio), quindi di sentire la sua voce (odo) e infine di comprendere le parole che lei gli rivolge (intendo). Le due terzine sono occupate dalle parole che il poeta immagina che Laura gli rivolga, per consolarlo e per spiegargli il suo nuovo stato dopo la morte. La descrizione del paesaggio, che pure ha le caratteristiche del locus amoenus, non appare gioiosa, ma dolcemente malinconica, come se la natura fosse partecipe del dolore del protagonista (significativa l’espressione lamentar augelli, che sembra corrispondere ai sospiri dell’amante). Tra le impressioni sensoriali evocate dal paesaggio prevalgono quelle uditive (il lamento degli uccelli, il movimento delle fronde mosse dal vento, lo scorrere delle acque mormoranti del ruscello), messe in rilievo dalla posposizione del verbo (s’ode al v. 4), e dalle frequenti allitterazioni in f e r (verdi fronde, fiorita et fresca riva); l’aura (il vento), come di consueto nel Canzoniere, evoca il nome della donna amata. Grazie a questi particolari, il paesaggio sembra misteriosamente animarsi di una vita propria e al contempo accogliere la presenza di Laura, anche se morta.
Laura messaggera di vita eterna L’identità dello scenario e della situazione in ➜ T12b e in questo sonetto enfatizza il differente stato d’animo del poeta in relazione alla morte dell’amata. Anche per quanto riguarda le rime “in morte”, Petrarca tende a mettere in rilievo l’oscillazione fra stati d’animo contrastanti, che inducono a percepire la stessa realtà in modi opposti. Se in alcune poesie “in morte” domina la disperazione e il senso della perdita, in altre, come in questo sonetto, Laura appare come consolatrice e messaggera di beatitudine, tanto da poter apparire simile alla Beatrice dantesca. Anche in questi casi però, la figura femminile non è una presenza angelica, ma rimane una donna terrena: il v. 6, «lei che ’l ciel ne mostrò, terra n’asconde», enfatizzando il secondo membro dell’antitesi (terra... n’asconde) sottolinea la dura realtà della sua scomparsa fisica e la sua natura umana. Se Laura assume, come Beatrice, un ruolo di guida per Francesco, non per questo ella si fa portatrice di verità teologiche: sembra invece voler rafforzare la fede non abbastanza salda del suo amante, annunciandogli che, al di là dell’apparenza della morte corporea, esiste una realtà più profonda, quella della vita spirituale eterna dell’anima, il cui interno lume rappresenta l’immagine divina «che, agostinianamente, l’anima custodisce nel profondo di sé e che compiutamente conosce solo nel momento nel quale si separa dal corpo» (E. Fenzi).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo e individua il tema centrale. COMPRENSIONE 2. Perché il luogo evocato è importante nel sonetto? 3. Come viene rievocata la morte di Laura nel sonetto? ANALISI 4. Rintraccia nel testo l’uso del senhal per evocare il nome di Laura. Spiega il gioco di parole in riferimento al contesto. LESSICO 5. Analizza il sonetto dal punto di vista lessicale e individua a quale campo semantico appartengono la maggior parte dei termini. STILE 6. Analizza la struttura metrica e ritmica del componimento, poi completa la tabella evidenziando gli stilemi tipicamente petrarcheschi.
566 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
stilemi petrarcheschi
esempi
coppie antitesi parallelismi polisindeti Sintetizza i risultati dell’analisi in un breve testo espositivo (max 15 righe).
Interpretare
Collabora all’analisi
T14b
SCRITTURA 7. Quale atteggiamento assume Laura nell’immaginazione del poeta? Quali espressioni del testo lo evidenziano? A che cosa lo esorta e perché?
Francesco Petrarca
Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente Canzoniere, 292
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto è incentrato su una cupa disperazione, priva di consolazione religiosa, per la morte della donna amata, che induce il poeta al proposito di rinunciare alla poesia d’amore, potendo ormai solo piangere. In una redazione del Canzoniere anteriore a quella definitiva, Petrarca aveva posto questo sonetto alla fine della raccolta. In un primo tempo dunque aveva pensato di chiudere i Rerum vulgarium in modo angoscioso e in toni drammatici; solo in seguito preferirà l’accorata preghiera e il pentimento religioso della Canzone alla Vergine.
Gli occhi di ch’io parlai sí caldamente, et le braccia et le mani e i piedi e ’l viso1, che m’avean sí da me stesso diviso, 4 et fatto singular da l’altra gente2; le crespe chiome d’òr puro lucente e ’l lampeggiar de l’angelico riso, che solean fare in terra un paradiso, 8 poca polvere son, che nulla sente3. Et io pur vivo, onde mi doglio et sdegno4, rimaso5 senza ’l lume ch’amai tanto6, 11 in gran fortuna7 e ’n disarmato legno8. Or sia qui fine al mio amoroso canto: secca è la vena de l’usato ingegno9, 14 et la cetera mia rivolta in pianto10. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD. 1 et le braccia… viso: il polisindeto sottolinea il rimpianto per la bellezza della donna, ricordata nei dettagli. 2 che m’avean… gente: che mi avevano rapito a me stesso e allontanato dagli altri. 3 poca polvere… sente: la bellezza di Laura è ridotta a poca polvere, che non sente più nulla. È evidente la citazione
dell’ammonimento biblico della Genesi: «pulvis es, et in pulverem reverteris» (“polvere sei, e nella polvere tornerai”). 4 Et io pur vivo…sdegno: e io, nonostante ciò, vivo, cosa di cui (onde) mi addoloro e mi sdegno. 5 rimaso: rimasto. 6 senza... tanto: senza la luce che tanto amai. Ossia senza l’amata Laura. 7 fortuna: fortunale, tempesta. 8 disarmato legno: la barca (legno è metonimia per nave; allegoricamente, l’io
del poeta) è priva di ciò che serve per navigare (albero, vele, timone) e simboleggia perciò l’incapacità di vivere. 9 secca… ingegno: è inaridita la fonte della mia ispirazione poetica. 10 et la cetera… in pianto: la mia cetra (strumento simbolo della poesia) è rivolta al pianto. Petrarca cita qui un passo biblico del Libro di Giobbe, 30-31: «La mia cetra si è mutata in lutto e il mio flauto in voce di pianto».
Il Canzoniere 3 567
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Il sonetto, tra i più angosciosi del Canzoniere, è ispirato dalla morte di Laura ed è fondato sullo struggente contrasto fra il vivo ricordo della donna, la cui bellezza è evocata analiticamente nei particolari fisici, e la dura realtà della sua scomparsa. Smarrito e privato ormai della fonte stessa della sua ispirazione, il poeta è indotto a congedarsi dalla poesia amorosa. 1. Quali sono le conseguenze che la morte di Laura produce sulla poesia di Petrarca?
Il sonetto può essere diviso in quattro parti, coincidenti con le scansioni metriche: le due quartine sono incentrate sulla figura di Laura e sul confronto tra il suo passato splendore e la realtà della morte, quando la bellezza luminosa della donna è divenuta poca polvere. Le due terzine sono invece dedicate al protagonista: la prima ne delinea la drammatica situazione psicologica ed esistenziale dopo che è scomparsa dalla sua vita la luce che la guidava e illuminava. A definire la condizione interiore del poeta ricorrono le consuete immagini tratte dal campo semantico della navigazione (gran fortuna, disarmato legno). La seconda terzina, dominata dalla parola chiave pianto, che chiude il sonetto e ne è la parola chiave, fa riferimento, attraverso un’immagine metaforica, alla crisi dell’ispirazione poetica. Figura predominante nel componimento è l’antitesi. 2. Su quali antitesi è costruito il sonetto? Indicale e spiegane il senso. 3. Analizza la funzione del polisindeto (vv. 1-4). 4. La seconda quartina è ricca di allitterazioni. Individuale e spiega la funzione del tessuto fonico dei vv. 5-8. 5. Quali elementi della bellezza di Laura sono ricordati? 6. Individua e spiega le metafore presenti nel testo.
Secondo molti critici, Petrarca è il primo ad avvalersi, nel Canzoniere, di una varietà di fonti estranee alla tradizione della lirica amorosa, pur riuscendo ad armonizzarle nella compatta unità tonale dell’opera. 7. In questo sonetto possono essere evidenziati alcuni riferimenti biblici: individuali con l’aiuto delle note e valutane l’effetto in rapporto al contesto in cui sono introdotti.
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Come i più recenti studi critici hanno sottolineato, il Canzoniere si costruisce nel confronto con la tradizione stilnovista e con l’opera di Dante: un confronto che si risolve per lo più in un distanziamento dai modelli, come risulta anche da questo sonetto. 8. Individua aspetti e immagini che rimandano al “codice” stilnovistico. Metti in evidenza poi la distanza tra la rappresentazione stilnovistica della donna e quella che qui ritrovi. 9. Quali differenze emergono, rispetto alla Vita nuova, nel modo di trattare il tema della morte della donna amata?
Per comprendere il significato del Canzoniere è fondamentale individuare la fitta rete di rapporti intertestuali che, attraverso parole chiave e metafore ricorrenti, evidenziano le relazioni tematiche fra i diversi testi dei Rerum vulgarium fragmenta. 10. In quali rime del Canzoniere la figura di Laura presenta analogie con quella descritta in questo sonetto? 11. L’espressione del v. 4, fatto singular da l’altra gente, cioè “allontanato dagli altri”, a quali sonetti può riportare? Quali temi mette in evidenza? 12. Analizza la metafora della vita come navigazione, presente nel brano, ponendola in confronto con altri testi del Canzoniere in cui si può trovare la stessa immagine.
568 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Francesco Petrarca
T14c
Levommi il mio penser in parte ov’era Canzoniere, 302
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Nel sonetto, probabilmente composto a Valchiusa tra il 1351 e il 1352, Petrarca immagina di incontrare Laura in Paradiso, nel cielo di Venere, il cielo degli spiriti amanti, al quale il poeta stesso, dopo la sua morte, è destinato e dove Laura lo attende. Il sonetto è chiaramente memore del sonetto dantesco Oltre la spera che più larga gira, l’ultimo della Vita nuova, ma è evidente la distanza dal modello: alla visione mistica del poeta fiorentino, giunto a contemplare le verità celesti attraverso l’amore per la donna, si contrappone un’immaginazione consolatrice, che non ha altra realtà se non nel desiderio del protagonista.
Levommi il mio penser in parte ov’era quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra1: ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra, 4 la rividi piú bella et meno altera2. Per man mi prese, et disse: – In questa spera3 sarai anchor meco, se ’l desir non erra4: i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra, 8 et compie’ mia giornata inanzi sera5. Mio ben non cape in intelletto humano6: te solo aspetto, et quel che tanto amasti 11 e là giuso è rimaso, il mio bel velo7. – Deh perché tacque, et allargò la mano? Ch’al suon de’ detti sí pietosi et casti8 14 poco mancò ch’io non rimasi in cielo.
La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDE CDE.
1 Levommi… terra: (leggi: levòmmi) il mio pensiero mi sollevò (attraverso una visione) nel luogo celeste dov’era quella che sulla terra io cerco e non ritrovo. La posizione iniziale del verbo Levommi (con la posposizione del pronome personale mi) sottolinea l’ascesa al cielo. 2 ivi… altera: lì, fra gli spiriti che sono racchiusi nel terzo cerchio del Paradiso (il cielo di Venere, dove si trovano gli spiriti amanti) la rividi più bella e più dolce, meno distante (che in vita). In vita, secondo
quanto immagina Petrarca, Laura avrebbe assunto un atteggiamento distaccato per non compromettere la propria virtù; in morte appare perciò più dolce e affettuosa verso il poeta. Come Piccarda Donati nel Paradiso dantesco (III, 48), così nella gloria celeste Laura appare più bella. 3 spera: è la sfera celeste. 4 sarai… erra: sarai di nuovo con me, se il mio desiderio non m’inganna. 5 i’ so’ colei… sera: io sono colei che tanto ti ha fatto soffrire e che ha concluso la vita prima del tempo (essendo morta ancora giovane).
6 Mio ben… humano: la mia beatitudine non può essere compresa da un intelletto umano. 7 te solo… bel velo: attendo solo te e [attendo] quello che tu hai tanto amato, ed è rimasto laggiù sulla terra, il mio bel corpo (velo dell’anima). Il giorno del Giudizio Universale il corpo si ricongiungerà infatti con l’anima. 8 detti sí pietosi et casti: parole così compassionevoli e pure.
Il Canzoniere 3 569
Analisi del testo Il modello della Vita nuova L’ascesa al cielo del protagonista e la visione paradisiaca di Laura, come detto, rimandano all’ultimo sonetto della Vita nuova (e all’ultimo capitolo del libello, in cui Dante allude a una «mirabile visione»); ma in Petrarca la situazione evocata è profondamente (e consapevolmente) differente: è probabile che il poeta si ponga in un rapporto di emulazione rispetto all’illustre modello. Il sonetto dantesco fa riferimento a una vera e propria visione mistica: «’l sospiro» per il rimpianto di Beatrice solleva lo spirito di Dante «oltre la spera che più larga gira», traendolo verso l’alto e infondendogli un’«intelligenza nova», eccezionale, che gli consente l’intuizione dei misteri divini. La natura di rivelazione della visione dantesca è sottolineata dal fatto che, una volta svanita la visione, il poeta tenti di interpretarne il senso («sì ch’io lo ’ntendo ben»).
Laura in Paradiso: una fantasticheria con connotazioni terrene Nel sonetto petrarchesco, invece, il protagonista non vive un rapimento mistico, ma concepisce una sorta di fantasticheria in cui immagina di incontrare la donna amata nella dimensione ultraterrena: sostanzialmente un sogno che, come tutti i sogni, svanisce, anche se il poeta avrebbe voluto prolungarne la dolcezza («poco mancò ch’io non rimasi in cielo»). La raffigurazione di Laura beata non reca l’impronta di un’autentica tensione religiosa, ma è frutto del processo di trasfigurazione sublimante e compensatoria della figura femminile dopo la morte («la rividi piú bella e meno altera») che ricorre anche in altri sonetti “in morte”: appare perciò nell’atteggiamento di donna innamorata che rinnega ormai gli atteggiamenti sdegnosi che tanto affanno procurarono a Francesco («i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra») e desidera solo congiungersi a lui («te solo aspetto»). Non ha tratti “angelici” (a parte la dichiarazione d’ineffabilità di sapore dantesco «Mio ben non cape in intelletto humano»), ma terreni: non a caso fa riferimento al suo bel corpo («il mio bel velo»), tanto amato dal poeta e rimasto in terra («là giuso»); alla terra continua di fatto a guardare anche l’autore che, dopo la sua morte, continua a cercare Laura nella dimensione mondana («quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra»).
Sandro Botticelli, Ritratto di giovane donna, tempera su tavola, 1480-1485 (Städel Museum, Francoforte).
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Documento critico Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
Interpretare
SINTESI 1. Riassumi la visione narrata nel sonetto. ANALISI 2. Come Petrarca immagina la figura di Laura dopo la morte? Quale metamorfosi subisce il suo personaggio rispetto alla Laura terrena? LESSICO 3. Individua: a. gli aggettivi e le perifrasi che si riferiscono a Laura e spiegane l’utilizzo in riferimento all’esperienza della visione; b. i termini e le espressioni che sottolineano una ripresa di motivi cortesi e stilnovistici. TESTI A CONFRONTO 4. Confronta questo testo con il sonetto dantesco Oltre la spera che più larga gira, posto a conclusione della Vita nuova. Attraverso precisi riscontri testuali, evidenzia analogie e differenze tematiche e stilistiche fra i due testi.
570 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Francesco Petrarca
T14d
Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena Canzoniere, 310
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto, probabilmente scritto nella primavera del 1352, fu composto da Petrarca in occasione del ritorno a Valchiusa dopo la morte di Laura. Alla rinascita primaverile della natura, coi suoi ricchi e splendidi colori, si contrappone la desolazione del poeta, incapace di provare gioia dopo la morte della donna amata: per lui anche quei luoghi ameni sono ormai come un deserto.
Zephiro1 torna, e ’l bel tempo rimena2, e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia3, et garrir Progne et pianger Philomena4, 4 et primavera candida et vermiglia5. Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena6; Giove s’allegra di mirar sua figlia7; l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena; 8 ogni animal d’amar si riconsiglia8. Ma9 per me, lasso10, tornano i più gravi11 sospiri, che del cor profondo tragge12 11 quella ch’al ciel se ne portò le chiavi13; et cantar augelletti, et fiorir piagge14, e ’n belle donne honeste atti soavi15 14 sono16 un deserto, et fere aspre17 et selvagge.
La metrica Sonetto con schema metrico ABAB ABAB CDC DCD. 1 Zephiro: vento primaverile. Qui è simbolo della vitalità della natura, che si rinnova in primavera. 2 rimena: porta nuovamente (con sé). 3 sua dolce famiglia: che sempre lo accompagnano. 4 garrir… Philomena: (riporta) il garrire della rondine e il piangere dell’usignolo. Il soggetto è sempre il vento primaverile; il riferimento mitologico introduce una nota di tristezza nel luminoso quadro. Il mito a cui allude Petrarca, narrato nelle Metamorfosi di Ovidio (VI, 421-674), è infatti uno dei più violenti e tragici dell’opera latina: Tereo, marito di Progne, violenta la sorella di lei, Filomela (Philomena), la imprigiona e le taglia la lingua perché non possa raccontare l’accaduto; Filomela riesce ugualmente a informare Progne, che la libera; insieme uccidono Iti, figlio di Progne e Tereo, e ne imbandiscono le carni a Tereo. Quando questi apprende l’accaduto, insegue le due donne; ma gli dei, per sottrarle alla sua ira, le trasformano in
rondine (Progne) e in usignolo (Filomela). Di qui il verso lamentoso dei due uccelli. 5 primavera… vermiglia: i due aggettivi, con espressione felicemente sintetica, si riferiscono ai colori dei fiori primaverili. 6 Ridono… rasserena: il chiasmo pone in evidenza, agli estremi del verso, i due verbi (ridono e rasserena), entrambi riferiti alla serenità dell’atmosfera primaverile e legati dall’affinità del suono. 7 Giove… figlia: allude alla reciproca posizione dei pianeti Giove e Venere, più vicini nel cielo primaverile. Secondo una versione del mito, Venere sarebbe infatti figlia di Giove (e Dione). L’espressione potrebbe anche riferirsi, però, al ritorno sulla terra di Proserpina, simbolo della primavera, figlia di Giove e Demetra, rapita nell’Ade da Plutone. 8 ogni animal... si riconsiglia: ogni essere vivente si predispone ad amare. 9 Ma: l’avversativa, che apre le terzine, sottolinea il passaggio dalla contemplazione della gioiosa scena primaverile al sentimento di estraneità del poeta, che non può tornare alla felicità dopo la morte della donna amata.
10 lasso: infelice. L’interiezione sottolinea lo stato d’animo desolato e inconsolabile del poeta, per il quale le liete immagini primaverili rinnovano il dolore per la morte di Laura. 11 gravi: profondi. L’aggettivo, riferito ai sospiri con cui il poeta rimpiange Laura, è evidenziato dal forte enjambement, a sottolineare il contrasto tra il ritorno della gioiosa stagione primaverile e l’esclusione del poeta da tale atmosfera di festa. 12 tragge: trae. 13 quella… chiavi: quella (Laura) che si portò in cielo le chiavi del mio cuore (chiudendolo per sempre alla gioia e all’amore). L’espressione ricalca i versi danteschi dedicati a Pier delle Vigne (If XIII, 58-59): «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo». 14 piagge: campagne, pianure. 15 ’n belle... atti soavi: i dolci atteggiamenti di belle dame nobili d’animo. 16 sono: mi appaiono come. Sottinteso “per me”. 17 fere aspre: fiere crudeli.
Il Canzoniere 3 571
Analisi del testo La struttura e il contenuto Il sonetto è costruito su una struttura nettamente bipartita, fondata su una forte antitesi tra le due quartine e le due terzine e sottolineata dalla congiunzione avversativa “ma” che apre la prima terzina. Le due quartine evocano il gioioso risveglio della natura campestre in primavera attraverso riferimenti naturalistici ma anche dotti (seppur non pesanti), rimandi mitologici (come il mito di Progne e Filomela, trasformate in rondine e usignolo nelle Metamorfosi di Ovidio) ed echi classici, in particolare virgiliani. Al ritorno della gioia e dell’amore, che anima la natura primaverile e gli esseri viventi, si contrappone vistosamente la tristezza dell’io lirico, rappresentato mentre sospira al pensiero di Laura scomparsa, che ha portato con sé in cielo le chiavi del cuore del poeta. Egli non può ormai che essere estraneo alla bellezza e alla gioia. Alla ciclicità del tempo, che prevede dopo l’inverno il ritorno gioioso della primavera, si contrappone il tempo interiore che, dopo il trauma della morte dell’amata, non può prevedere nient’altro che la stasi di una perenne sofferenza.
Lo stile Mentre nelle quartine domina un ritmo musicale e prevalgono suoni dolci, in particolare nelle parole in rima, nelle terzine, e in particolare nella prima terzina, in cui emerge la sofferenza del poeta, il ritmo si modifica e prevalgono suoni più aspri. L’ultima strofa del testo torna, per la verità, a ospitare immagini positive, di bellezza e dolcezza, ma solo per smentirle duramente nell’ultimo verso, spezzato dalla cesura e caratterizzato da scelte lessicali e foniche che traducono con immediatezza il vuoto esistenziale che la morte di Laura ha creato nel protagonista.
Filomela e Progne di Elizabeth Jane Gardner (1890, olio su tela, collezione privata).
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Documento critico Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
ANALISI 1. Descrivi il quadro primaverile presentato nelle quartine e, in rapporto ad esso, i sentimenti del poeta. 2. Evidenzia gli elementi di contrasto tra la prima e la seconda parte del sonetto (corrispondenti alle quartine e alle terzine). Ti puoi riferire in particolare alla struttura sintattica, ai temi, ai campi semantici prevalenti, alle parole chiave, ai riferimenti mitologici, alle figure retoriche, a rime, a enjambements e a suoni. 3. Nelle due parti del sonetto l’io del poeta assume un rilievo diverso. È posto in primo piano nelle quartine o nelle terzine? Per quali ragioni? Quali elementi testuali evidenziano la differenza? LESSICO 4. Indica le espressioni con cui il poeta rappresenta il ritorno della primavera. Quali aspetti del paesaggio mettono in risalto? STILE 5. Tutto il sonetto è costruito su una figura retorica: quale?
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TESTI A CONFRONTO 6. Confronta il sonetto con altre rime “in morte” di Laura, indicando i temi comuni.
572 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
VERSO IL NOVECENTO
Due interpretazioni psicanalitiche del personaggio di Laura Se non sussistono dubbi sulla reale esistenza di Laura (➜ PER APPROFONDIRE Ma Laura è veramente esistita? OL), per i lettori della poesia petrarchesca risulta da sempre sconcertante l’assoluta e più che ventennale fedeltà del poeta verso una donna che non lo ricambia, è sposata con un altro, ha vari figli e che senz’altro Francesco ebbe la possibilità di incontrare raramente. Ancora più straordinario il fatto che, dopo la morte di lei, Petrarca non cessi mai di rimpiangerla e per lei componga poesie fino agli ultimi giorni della propria vita. Non sorprende che Dante dedichi tutta la sua opera a Beatrice, donna angelo che nella Divina Commedia diviene simbolo dell’aspirazione alla trascendenza e della teologia; Laura però è una donna reale, non un tramite per il divino, ma anzi una causa di sofferenza e di pentimento. Agli interrogativi suscitati da questa situazione paradossale hanno provato a dare una risposta due famosi scrittori del Novecento, Pier Paolo Pasolini e Umberto Saba, facendo ricorso a categorie psicanalitiche.
Pier Paolo Pasolini Laura non è una donna reale P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996
Secondo Pier Paolo Pasolini, la fedeltà verso la donna è espressione del narcisismo di Petrarca: Laura non esiste come donna reale, perché il poeta non ha alcun vero rapporto con lei; ma proprio questo è ciò che egli ricerca: uno specchio su cui proiettare la propria “ossessione narcisistica”.
Ebbene, leggendo il Petrarca, nessuno di noi può resistere alla tentazione di farne un «quadro clinico»: cosa che attualizza immediatamente il Petrarca. Psicanalizzandolo – naturalmente a braccio, molto a braccio – io lo rendo mio contemporaneo. Infatti non posso che appassionarmi come di un problema «attuale», per esempio, del «narcisismo» (in senso clinico) petrarchesco; del suo autolesionismo e della sua infinita capacità di rimuovere tutto ciò che può distrarlo dalla sua eterna autocommiserazione felice; della sua ossessione schizoide («l’immagin donna»: il pensiero dominante): e, infine e soprattutto, della sua inibizione verso l’altro sesso, per cui ogni scusa è buona per non avere dei «pensieri bassi». Laura non esiste, non è né angelicata né niente. È semplicemente irreale. È, per quel che Petrarca ne dice, una «prima della classe» che vanifica sé stessa e il proprio tedio per lasciare tutto il posto a lui, al narciso: protagonista, sia pur eternamente contrito, del falso rapporto a due.
Giorgione, Ritratto di donna (1506) chiamata per consuetudine Laura perché tiene fra le mani rami di alloro.
Il Canzoniere 3 573
VERSO IL NOVECENTO
Umberto Saba Laura è una percezione della figura materna U. Saba, Scorciatoie e raccontini, Il Melangolo, Genova 1993
Diversa l’interpretazione di Umberto Saba: la donna idealizzata e irraggiungibile non è che una proiezione della figura materna. Un elemento a favore di tale interpretazione (sebbene si debba tener conto che si tratta, appunto, soltanto di suggestioni) potrebbe essere la morte precoce della madre di Petrarca e il fatto che il poeta abbia scritto i suoi primi versi proprio in quella occasione, quando, ancora adolescente (nel 1318 o 1319, quindi tra i tredici e i quindici anni), compose un carme in versi latini: 38, come gli anni di lei al momento della morte. Di Laura come sostituto della figura materna Umberto Saba traccia questo suggestivo ritratto:
Quanto si è discusso per sapere se Laura è, o no, esistita. Ancora ai nostri giorni […] un letterato ha tenuta, qui a Roma, una conferenza intorno al piacevole enigma. Ma non è – almeno non è più – un enigma1. Laura è certamente esistita. È esistita; ed era, alla luce di tutti i giorni, una bionda signora; nelle profondità inaccesse (infantili) dell’anima del poeta, era sua madre; era la donna che non si può avere. E tutta la fascinosa, un po’ monotona, storia del CANZONIERE, di venti e più anni di corteggiamenti, per non arrivare, per voler non arrivare a nulla, è qui. […] La figura di Laura assorbì tutta la tenerezza del poeta. La sua sensualità egli la rivolse ad altro (ebbe – si racconta – non infecondi amori ancillari); a donne che, per la diversità delle origini, non potevano richiamare al suo inconscio, sempre vivo e vigile, la presenza – ben altrimenti diletta! – della madre. Ma l’amore, l’amore vero, l’amore intero, vuole una cosa e l’altra; vuole la fusione perfetta della sensualità e della tenerezza: anche per questo è raro. Così non c’è, in tutto il lungo CANZONIERE, un verso, uno solo, che possa propriamente dirsi d’amore. 1 Secondo Saba la questione non sarebbe più un enigma perché le teorie freudiane avrebbero permesso di intuire il significato di questa figura.
Simon Memmi che per incarico del Petrarca ritrae Madonna Laura di Pietro Saltini (1866, olio su tela, Galleria Palatina, Firenze).
574 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
T15
Il tema politico Petrarca non è solo il cantore dell’amore sofferto e conflittuale per Laura, quindi non solo un modello esemplare di poesia lirica sentimentale, ma nel Canzoniere esprime anche, in un’alternanza di toni accesi e compassionevoli, la sua idea politica nei confronti della situazione italiana. E anche in questo ambito, così come in quello amoroso, si riconosce un differente punto di vista rispetto a Dante: se quest’ultimo, infatti, legato alla società del Comune del Medioevo teorizzava, nel De Monarchia (➜ C6, PAG. 376), un ideale ormai irrealizzabile e utopistico, al contrario l’esperienza di Petrarca entra in contatto con il profilarsi sulla scena politica italiana delle Signorie e quindi col crollo delle istituzioni comunali. Nasce da qui la delusione e la deplorazione delle guerre tra gli stati italiani, in un’accesa critica all’uso delle truppe mercenarie; e allo stesso tempo, in una sorta di invito super partes ai signori d’Italia, l’esortazione a recuperare nella cultura classica, nella passata grandezza di Roma, quella superiorità della stirpe latina e quel sentimento nazionale che sembrano essere stati dimenticati e calpestati.
Analisi passo dopo passo
T15a
Francesco Petrarca
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1, 2
Canzoniere, 128 F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
La Canzone all’Italia forse fu composta (ma è un’ipotesi, non una certezza) in occasione della guerra tra Estensi, Gonzaga e Visconti (1344-1345), che si svolse presso Parma e che coinvolse personalmente Petrarca, costringendolo a fuggire da questa città, dove soggiornava. I temi principali della canzone sono: la deplorazione delle guerre tra gli stati italiani, il richiamo alla passata grandezza di Roma e alla tradizione di civiltà dell’Italia, la condanna dell’uso di milizie mercenarie straniere.
Italia mia1, benché ’l parlar sia indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sí spesse veggio2, piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali 5 spera ’l Tevero et l’Arno, e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio3.
La metrica Canzone di 7 stanze di 16 versi, endecasillabi e settenari, con schema AbC BaC cDEeDdfGfG; congedo a schema aBCcBbdEdE. 1 Italia mia: Petrarca si rivolge all’Italia personificata. Nella stessa strofa, dal v. 7, si rivolgerà a Dio. Con una terza apostrofe, dalla seconda strofa della canzone, molto elaborata dal punto di vista retorico, si rivolgerà ai signori italiani in guerra.
2 benché… veggio: benché il parlare sia vano a le ferite mortali (piaghe), che così numerose (spesse) vedo sul tuo bel corpo; l’agg. indarno evidenzia lo stato d’animo rassegnato del poeta, consapevole dell’inutilità delle proprie esortazioni nei confronti di un’Italia funestata dalle guerre, che è paragonata a una donna morente (l’immagine è già nel Purgatorio VII, 95: «sanar le piaghe c’hanno Italia morta»). Questa figura re-
La canzone si apre con un’apostrofe all’Italia personificata che ricorda quella dantesca del VI canto del Purgatorio (vv. 76-78). Ma, in contrasto con l’aspra invettiva delle terzine dantesche («Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiero in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!»), il tono della canzone petrarchesca appare fin dall’inizio affettuosamente compassionevole. La condizione dell’Italia martoriata suscita nel poeta, che si trova nella zona del conflitto tra i vari signori italiani, una dolente perplessità.
torica della prosopopea è spesso usata in componimenti poetici di tema politico. 3 piacemi... seggio: desidero (piacemi, “mi piace”) almeno che i miei sospiri siano quali si aspettano da me il Tevere, l’Arno e il Po, dove, addolorato (doglioso) e preoccupato (grave), ora mi trovo (nella Pianura Padana). Le regioni d’Italia (precisamente settentrionale e centrale) sono indicate per metonimia attraverso i nomi dei fiumi che vi scorrono.
Il Canzoniere 3 575
Rettor del cielo4, io cheggio5 che la pietà che Ti condusse in terra Ti volga al Tuo dilecto almo paese6. 10 Vedi, Segnor cortese, di che lievi cagion’ che crudel guerra7; e i cor’, che ’ndura et serra Marte superbo et fero, apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda8; 15 ivi fa’ che ’l Tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua s’oda9.
Attraverso la seconda apostrofe, rivolta a Dio perché illumini i signori italiani (vv. 7-16), è introdotto un primo accenno al tema religioso, che sarà poi sviluppato nella settima. L’ascendenza che il poeta invoca sulle anime dei principi è espressa dai tre verbi apri, ’ntenerisci e snoda, a cui si contrappongono i due verbi riferiti all’influsso di Marte (’ndura e serra): il Dio cristiano (evocato attraverso tre diversi appellativi in successione: Rettor del cielo al v. 7, Segnor cortese al v. 10, Padre al v. 14) è dunque contrapposto al dio mitologico della guerra (identificato dagli aggettivi superbo e fero). La prima strofa (vv. 1-16) contiene anche la presentazione del poeta: sconfortato per la situazione italiana (v. 6), negli ultimi versi di questa parte si propone nel ruolo autorevole di interprete e mediatore, mediante la sua poesia, della verità divina.
Voi cui Fortuna à posto in mano il freno de le belle contrade10, di che nulla pietà par che vi stringa, 20 che fan qui tante pellegrine spade11? perché ’l verde terreno12 del barbarico sangue si depinga? Vano error vi lusinga13: poco vedete, et parvi veder molto14, 25 ché ’n cor venale amor cercate o fede15. Qual piú gente possede, colui è piú da’ suoi nemici avolto16. O diluvio17 raccolto di che deserti strani18, 30 per inondar i nostri dolci campi! Se da le proprie mani questo n’avene, or chi fia che ne scampi19?
Nella seconda strofa (vv. 17-32) il poeta si rivolge con tono accusatorio ai signori italiani, incolpati di mettere a rischio le belle contrade del paese affidate al loro governo dalla Fortuna (è significativo che, diversamente da Dante, Petrarca attribuisca alla Fortuna, e non alla Provvidenza, lo storico volgere degli eventi umani). Il fulcro dell’accusa è la scelta di impiegare sempre più frequentemente le milizie mercenarie, dal comportamento pericoloso e infido. Nel Cinquecento l’argomento delle truppe al soldo sarà ripreso da Machiavelli, che nel Principe citerà, non a caso, proprio alcuni versi della canzone di Petrarca.
4 Rettor del cielo: il poeta si rivolge a Dio, e la canzone politica assume un tono di preghiera. 5 cheggio: chiedo. 6 dilecto almo paese: prediletto, nobile paese. L’aggettivo almo può essere inteso come “santo, nobile, venerando”, oppure, alla latina, «che dà vita (in quanto sede degli Apostoli)» (Santagata). L’Italia è considerata prediletta da Dio perché scelta come sede del vicario di Cristo. 7 di che lievi… guerra: per quali ragioni di scarsa importanza che guerra crudele (si è generata). Il contrasto tra gli agg. lievi e crudel sottolinea la sproporzione tra l’insignificanza delle cause e la durezza della guerra. 8 i cor’… snoda: apri, addolcisci e libera i cuori (dei signori che governano l’Italia) che Marte (dio della guerra nella mitologia), superbo e crudele, indurisce e chiude (alla pietà), e rendili compassionevoli e sensibili. 9 ivi… s’oda: là (negli animi), (Tu, o Dio) fai sì che la tua verità sia ascoltata attraverso le mie parole, qualunque sia il mio valore Intendi: “per quanto poco io valga”.
L’espressione Vano error è in genere riferita dall’autore alla passione amorosa. L’elemento che può collegare la visione negativa dell’amore, rappresentata in più testi del Canzoniere, al comportamento dei signori è il prevalere delle passioni e l’oscurarsi del raziocinio. Non è questo l’unico punto di contatto tra tema sentimentale e tema politico: in una strofa successiva (la VII) i prìncipi, come l’innamorato che si perde nel vaneggiare, saranno invitati a meditare sulla morte e sulla vanità delle cose terrene per mutare anch’essi la propria condotta di vita.
10 Voi… contrade: voi, signori d’Italia, a cui la Fortuna (e non il vostro merito, né la Provvidenza divina) ha (à) affidato il governo (freno) delle belle regioni italiane. Per indicare l’attività di governo Petrarca utilizza la metafora già dantesca (Pg VI, 91-99) del cavaliere che guida e tiene a freno un cavallo. 11 pellegrine spade: soldati stranieri. La metonimia (le spade in luogo dei soldati) evidenzia l’immagine minacciosa dei mercenari stranieri, potenziali nemici delle popolazioni italiane. 12 ’l verde terreno: il colore sottolinea la bellezza e la fertilità delle regioni italiane, in contrasto con il rosso del sangue di cui esse si tingerebbero a causa della guerra. 13 Vano… lusinga: un’illusione vi inganna. I signori si illudono nel credere che i mercenari stranieri siano disposti a versare il loro sangue per l’Italia. L’espressione vano error, in genere riferita dal poeta alla passione amorosa, evidenzia il legame fra il tema politico e quello morale nel Canzoniere.
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14 poco… molto: credete di essere lungimiranti, e invece siete miopi. 15 ché ’n cor… fede: perché nel cuore di chi si vende per denaro (i mercenari) cercate affetto e lealtà (impossibili da trovare). 16 Qual… avolto: chi ha al suo seguito più soldati, quello è più circondato da (potenziali) nemici. Dato che i mercenari servono chi li paga di più, potrebbero facilmente passare alla parte avversa; così, chi possedesse più soldati si troverebbe ad essere circondato da altrettanti nemici. 17 diluvio: pioggia di armi. La metafora indica l’enorme numero di soldati mercenari giunti in Italia. 18 raccolto… strani: reclutato da luoghi deserti ed estranei, selvatici (cioè ancor privi della cultura e della civiltà italiane). 19 Se da le proprie… scampi?: se questo ci accade (n’avene) per opera degli stessi italiani, chi sarà che potrà salvarcene? L’interrogativa retorica evidenzia l’accusa di irresponsabilità ai signori italiani nei confronti delle sorti dell’Italia, con il ricorso alle milizie straniere.
Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo 35 pose fra noi et la tedesca rabbia20; ma ’l desir cieco, e ’ncontra ’l suo ben fermo21, s’è poi tanto ingegnato, ch’al corpo sano à procurato scabbia22. Or dentro ad una gabbia 40 fiere selvagge et mansüete gregge s’annidan sí che sempre il miglior geme23; et è questo del seme, per piú dolor, del popol senza legge24: al qual, come si legge, 45 Mario aperse sí ’l fianco, che memoria de l’opra ancho non langue25, quando assetato et stanco non piú bevve del fiume acqua che sangue26. Cesare taccio27, che per ogni piaggia 50 fece l’erbe sanguigne di lor vene, ove ’l nostro ferro mise28. Or par, non so per che stelle maligne29, che ’l cielo in odio n’aggia30: vostra mercé, cui tanto si commise31. 55 Vostre voglie divise Guastan del mondo la piú bella parte32. Qual colpa, qual giudicio o qual destino33 fastidire il vicino povero34, et le fortune afflicte et sparte
20 Ben provide… rabbia: la colpa dei signori è ancora più grave perché stravolge l’ordine naturale che, con le Alpi, aveva posto una barriera per la nostra sicurezza (al nostro stato) fra noi e la ferocia dei popoli germanici (la tedesca rabbia). 21 ’l desir… fermo: la cupidigia, cieca e ostinata contro il proprio vantaggio. Anche il termine desir, con l’aggettivo cieco, crea un legame fra la tematica politica del Canzoniere e quella della passione amorosa. 22 s’è poi… scabbia: si è data da fare (ingegnato) a tal punto che ha devastato il corpo sano (l’Italia). Il male deturpante della metafora è la scabbia, grave malattia della pelle. 23 il miglior geme: i più nobili d’animo sono vittime e soffrono. Le miti popolazioni italiane sono sottoposte alla violenza dei mercenari tedeschi; la situazione è resa attraverso la metafora di una gabbia in cui siano rinchiusi insieme (s’annidan) animali feroci e pecore mansuete, cosicché i primi strazino le seconde (il miglior geme, “le greggi”, cioè gli italiani, “gemo-
Nella terza strofa (vv. 33-48) emerge il tema del confronto con Roma antica: gli italiani, pronti a invocare l’aiuto di milizie mercenarie tedesche, dovrebbero ricordarsi di discendere dagli antichi Romani, che più volte, in passato (è ricordato Mario e, nella strofa successiva, Cesare) hanno sanguinosamente sconfitto il popolo germanico, alla cui stirpe appartengono i mercenari. Al contrario, la stolida avidità (’l desir cieco) dei signori è riuscita a introdurre un morbo infestante (appunto la presenza delle truppe mercenarie) in un corpo sano (l’Italia). Per sottolineare le colpevoli responsabilità dei principi italiani Petrarca introduce alcune incisive metafore: la scabbia, tratta dal linguaggio medico, a cui segue la metafora spaziale della gabbia; le popolazioni italiane e i crudeli mercenari si trovano a convivere forzatamente nello stesso paese, in una condizione innaturale, così come in una stessa gabbia animali miti e fiere sanguinarie.
Nella quarta strofa (vv. 49-64) il poeta ricorda le pesantissime sconfitte inferte da Cesare alle popolazioni germaniche attraverso una preterizione, per sottolineare la notorietà degli eventi taciuti.
Attraverso un’espressione duramente accusatoria Petrarca incolpa della rovina dell’Italia le brame discordi dei signori (Vostre voglie divise), indegni dell’alto compito a loro affidato: mentre infieriscono su stati vicini più deboli, ricercano e accolgono armate straniere che vendono la propria stessa vita. Petrarca condanna il principio stesso che sostiene l’attività delle milizie mercenarie.
no, oppresse”). Anche il chiasmo sottolinea il contrasto fra le due popolazioni. 24 et è questo… legge: e questo ci viene, per (darci) maggior dolore, dalla discendenza di quello stesso popolo privo della civiltà. Si intendono qui i Germani che, ai tempi delle lotte con Roma, patria del diritto, non possedevano ancora leggi scritte. 25 Mario… langue: (popolo) che Mario sbaragliò (lett. “a tal segno sventrò”) al punto che il ricordo dell’impresa (opra) non è ancora (ancho) svanito. Nel 102 a.C. il console Caio Mario sconfisse ad Aquae Sextiae (Aix-enProvence) la popolazione germanica dei Teutoni, che si preparavano a invadere l’Italia. 26 quando… sangue: secondo lo storico latino Floro, nel fiume presso il luogo della battaglia alla fine scorreva più sangue che acqua. 27 Cesare taccio: tralascio di parlare di Cesare. È una preterizione: dicendo che non si tratterà di qualcosa, in realtà se ne parla, ma incidentalmente, il che sottoli-
nea la notorietà dei fatti (qui le imprese di Cesare in Gallia e Germania). 28 per ogni piaggia… mise: in tutti i territori dove portò le nostre armi (’l nostro ferro), le legioni romane, bagnò l’erba del loro sangue (vene). 29 per che stelle maligne: per qual destino avverso, per quali influenze astrali avverse. 30 in odio n’aggia: ci abbia in odio (noi, italiani). 31 vostra mercé… si commise: per vostra colpa (dei signori italiani), a cui fu affidato un compito così importante (tanto). vostra mercé è ironico (antifrastico). 32 Vostre voglie… parte: le vostre discordi aspirazioni rovinano il più bel paese del mondo. 33 Qual colpa… destino: a causa di quale vostra colpa, di quale decreto divino, di quale fatalità. 34 fastidire il vicino povero: (siete spinti a) tormentare i confinanti meno potenti.
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perseguire35, e ’n disparte cercar gente et gradire36, che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo37? Io parlo per ver dire38, non per odio d’altrui, né per disprezzo. 39
Né v’accorgete anchor per tante prove del bavarico inganno40 ch’alzando il dito colla morte scherza41? Peggio è lo strazio42, al mio parer, che ’l danno; ma ’l vostro sangue piove 70 piú largamente, ch’altr’ira vi sferza43. Da la matina a terza44 di voi45 pensate, et vederete come tien caro altrui che tien sé cosí vile46. Latin sangue gentile47, 75 sgombra da te queste dannose some48; non far idolo un nome vano senza soggetto49: ché ’l furor de lassú, gente ritrosa, vincerne d’intellecto, 80 peccato è nostro, et non natural cosa50. 65
Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido ove nudrito fui sí dolcemente51? Non è questa la patria in ch’io mi fido52,
35 le fortune… perseguire: a infierire sui loro beni già danneggiati (o intaccati) e dispersi (o dissipati). 36 ’n disparte… gradire: a cercare e apprezzare gente richiamata da luoghi lontani. 37 l’alma a prezzo: la loro vita per danaro. 38 per ver dire: per dire la verità. 39 anchor: ancora, cioè dopo tante prove. 40 bavarico inganno: inganno dei mercenari tedeschi. La Baviera è una regione della Germania da cui provenivano molti mercenari; l’aggettivo è usato per sineddoche. 41 alzando… scherza: alzare il dito era un gesto di resa per i gladiatori sconfitti. Qui si intende che i mercenari tedeschi si arrendono. 42 lo strazio: il disonore, lo scherno. 43 ’l vostro sangue… vi sferza: il sangue fratricida (vostro, cioè degli italiani) scorre più copiosamente, perché una ben
Anche questa strofa (la quinta, vv. 65-80) è incentrata sulle milizie mercenarie, di cui è evidenziato il modo vile di combattere, che non merita fiducia: guerreggiando per uno stipendio, e non per una causa in cui credano, ben difficilmente rischiano la vita e, trovandosi nel pericolo, si arrendono. Al contrario, a cadere sul campo sono più facilmente gli italiani, che combattono per ben diverse motivazioni («altr’ira vi sferza»). Gli italiani sono qui identificati dall’espressione «Latin sangue gentile», che allude alla loro gloriosa origine e ne sottolinea la superiorità rispetto ai Germani.
La sesta strofa della canzone (vv. 81-96) vede un cambiamento di registro rispetto alla precedente. Prevale qui una tonalità emotiva e commossa, anche in rapporto al personale coinvolgimento dell’autore: l’Italia è il luogo dove è nato, dove è stato allevato e dove sono sepolti i suoi genitori. Emerge nella strofa la visione dell’Italia come patria, luogo delle memorie e degli affetti. L’intensità della commozione del poeta è espressa attraverso tre interrogative retoriche, enfatizzate dall’anafora e dal climax.
diversa rabbia vi assale. Gli italiani trovano più facilmente ferite e morte perché mossi a combattere da un odio sincero verso il nemico. 44 Da la matina… terza: dall’alba alle nove del mattino (a terza, sott. ora, per la tradizionale scansione del tempo del giorno secondo le ore canoniche). Un tempo breve, ma propizio alla meditazione. 45 di voi: a voi. 46 vederete… vile: vedrete come può mostrare dedizione ad altri colui che tiene sé stesso in così poco conto (da vendersi per denaro, come fanno i mercenari). 47 Latin sangue gentile: o nobile stirpe latina. 48 sgombra… dannose some: liberati da questo peso inutile e pericoloso. Si allude sempre ai mercenari.
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49 non far idolo… senza soggetto: non sopravvalutare una fama vana (il valore dei combattenti tedeschi), senza corrispondenza con la realtà. 50 ché ’l furor… cosa: perché è colpa nostra, e non cosa naturale, che ci superi in intelligenza la selvaggia popolazione germanica, avversa alla civiltà (ritrosa). 51 Non è questo… dolcemente: non è questo il terreno che per primo toccai (dove nacqui)? Non è questa la mia casa (nido) dove fui allevato così dolcemente? Le interrogative retoriche, evidenziate dall’anafora, sottolineano l’amore per la patria italiana. Tali sentimenti però, dovrebbero essere comuni a tutti gli italiani e agli stessi prìncipi. 52 in ch’io mi fido: a cui mi affido.
madre benigna et pia, che copre l’un et l’altro mio parente53? Perdio54, questo la mente talor vi mova55, et con pietà guardate le lagrime del popol doloroso56, 90 che sol da voi57 riposo58 dopo Dio spera; et pur che voi mostriate segno alcun di pietate59, vertú contra furore prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: 95 ché l’antiquo valore ne l’italici cor’ non è anchor morto60. 85
Signor’, mirate61 come ’l tempo vola62, et sí come la vita fugge, et la morte n’è sovra le spalle63. 100 Voi siete or qui; pensate a la partita64: ché l’alma ignuda et sola conven ch’arrive a quel dubbioso calle65. Al passar questa valle piacciavi porre giú66 l’odio et lo sdegno, 105 vènti contrari a la vita serena67; et quel che ’n altrui pena tempo si spende, in qualche acto piú degno o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, 110 in qualche honesto studio si converta68: cosí qua giú si gode69, et la strada del ciel si trova aperta70. Canzone71, io t’ammonisco
53 madre… parente: madre benevola e pietosa, dove sono sepolti entrambi i miei genitori. L’amore per la patria nasce dai più dolci affetti e dai primi ricordi. 54 Perdio: in nome di Dio. 55 questo… mova: questi pensieri (del nido e della patria) vi commuovano (mova al sing.) qualche volta. 56 doloroso: addolorato. 57 da voi: dai signori, a cui il poeta si rivolge. 58 riposo: pace. 59 et pur… pietate: e se voi mostrerete qualche segno di amore per l’Italia. 60 vertú… morto: il valore (degli italiani) prenderà le armi contro la ferocia (dei mercenari tedeschi) e il combattimento sarà breve perché (ché) l’antico valore (dimostrato dagli antichi Romani) non è ancora spento nei cuori italiani. Emerge qui il tema umanistico della grandezza di Roma e della continuità tra i Romani e gli
Presupponendo che la devozione alla patria comune sia condivisa anche dai prìncipi, il poeta chiede che abbiano pietà delle popolazioni loro affidate; si dichiara infine persuaso che la virtù (nel senso latino) degli italici possa prevalere sulla bestiale ferocia dei mercenari tedeschi, dimostrando come il valore degli italiani sia rimasto quello degli antichi latini. Emerge nei versi conclusivi della strofa il tema preumanistico della continuità tra la virtù degli antichi Romani e gli italiani, che dovrebbero esserne degni eredi. Non a caso, i versi saranno posti da Machiavelli alla conclusione del Principe proprio come monito agli italiani del suo tempo.
Nella settima e ultima strofa (vv. 97-112) il poeta torna a rivolgersi direttamente ai prìncipi, invitandoli ad una riflessione sulla brevità della vita, sull’incombere della morte e del giudizio di Dio. Il tema filosofico e religioso della meditazione sulla morte per acquisire consapevolezza della vanità delle passioni terrene è centrale nel Canzoniere (basti pensare al sonetto CCLXXII: La vita fugge et non s’arresta una hora (➜ T13b ), che presenta evidenti affinità con questi versi della canzone). La presa di coscienza della transitorietà dell’esistenza e il pensiero della morte dovrebbe indurre i prìncipi ad abbandonare gli atteggiamenti di sopraffazione che inducono alla violenza e alla guerra, per dedicare il tempo a più nobili e meritevoli gesti e imprese. Osserva ai vv. 106-112 la netta contrapposizione, a livello lessicale, tra due modi opposti di impiegare il tempo della vita: da un lato le guerre fratricide e dall’altro le opere degne di lode, che dopo la morte saranno premiate.
italiani; questi versi saranno citati come monito per gli italiani da Machiavelli nel capitolo conclusivo del Principe. 61 mirate: guardate, considerate. 62 ’l tempo vola: anche nella canzone politica emerge il tema petrarchesco della fugacità del tempo e della vita. 63 n’è sovra le spalle: incombe su di noi. 64 a la partita: alla dipartita, alla morte. 65 ché l’alma… dubbioso calle: perché l’anima dei potenti, nella morte, priva di potere e di ricchezze (ignuda) e di seguito (sola) dovrà imboccare quel pauroso passaggio (quello della morte). I signori dovranno render conto a Dio del loro operato. 66 Al passar… porre giú: nell’attraversare questa vita vogliate deporre. La vita è, metaforicamente, una valle di lacrime, secondo la tradizione scritturale.
67 vènti… serena: allusione alla metafora della vita come navigazione, ricorrente nel Canzoniere, in cui i venti rappresentano le passioni, contrarie alla saggezza. 68 quel… si converta: quel tempo che si spende per (causare) mali agli altri venga dedicato a qualche attività più degna, o pratica (di mano) o intellettuale (d’ingegno), a qualche azione degna di lode, a qualche onorevole impresa. 69 qua giú… gode: in questa vita si prova gioia. 70 la strada… aperta: si merita il Paradiso. 71 Canzone: come tradizione, nella strofa finale del congedo, il poeta si rivolge alla propria canzone.
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che tua ragion cortesemente dica72, 115 perché fra gente altera ir ti convene73, et le voglie son piene già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica74. Proverai tua ventura 120 fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace75. Di’ lor: – Chi m’assicura76? I’ vo gridando: Pace, pace, pace. – 72 tua ragion… dica: tu esponga le tue ragioni in modo cortese. 73 fra gente… convene: tu devi andare fra gente superba (i prìncipi). Nel congedo è ribadita la posizione di aperta critica ai signori cui è rivolta la canzone.
Il congedo evidenzia l’intento fondamentale della canzone: l’appello alla pace. Come d’uso, in questa parte il poeta si rivolge alla canzone, sottolineando qui la necessità di indirizzare in modo cortese le sue giuste ragioni a prìncipi superbi e abituati a essere adulati, ritenendo che solo pochi magnanimi e amanti del bene la vorranno ascoltare. La triplice invocazione alla pace, parola conclusiva della canzone, evidenzia l’importanza di tale valore anche nel Canzoniere, di cui pace è, appunto, la parola conclusiva.
74 le voglie… nemica: le passioni dell’anima sono inclini all’abitudine pessima e inveterata (l’adulazione), da sempre nemica della verità. 75 Proverai… piace: avrai buona accoglienza fra i pochi nobili d’animo che amano il bene. A scopo persuasivo è
introdotta una distinzione tra i signori d’Italia rivolti al bene e quelli sensibili all’adulazione: soltanto i primi ascolteranno il messaggio di pace della canzone. 76 Chi m’assicura?: chi si offre di difendermi (in quanto messaggera di pace)?
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Documento critico Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
SINTESI 1. Sintetizza le critiche rivolte dal poeta ai signori italiani e indica quale sia, sempre secondo il poeta, la missione a cui essi dovrebbero tendere. COMPRENSIONE 2. Indica in un paragrafo le ragioni sostenute nella canzone contro le milizie mercenarie. 3. Quale immagine dell’antica Roma emerge nella canzone? ANALISI 4. Indica i versi della canzone in cui, intrecciato a quello politico, è presente il tema religioso. 5. Indica i versi in cui il poeta fa riferimento al proprio ruolo nei confronti dei potenti. STILE 6. Individua e analizza le metafore che rappresentano la situazione dell’Italia nella canzone. ESPOSIZONE ORALE
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1, 2
7. Nel congedo il poeta, rivolgendosi alla canzone, le chiede di andare dai potenti superbi e di invocare presso di loro la pace. Quanto questo tema stia a cuore a Petrarca si comprende dalla ripetizione della parola pace nell’ultimo verso per ben tre volte. Interessante anche notare che Petrarca crei un connubio tra coloro che amano la pace e gli animi magnanimi: così affermando, dunque, che solo coloro che sono nobili d’animo possono amare la pace. Quant’è attuale questo appello di Petrarca? Ci sono aspetti in questa canzone che si possono riferire anche all’attualità? LETTERATURA E NOI 8. Componi uno scritto accusatorio: quali aspetti negativi del nostro paese metteresti in luce?
Ritratto di Guidoriccio da Fogliano, affresco di Simone Martini, Palazzo Pubblico di Siena, ca 1328.
580 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
T15b
Fiamma dal ciel su le tue treccie piova Canzoniere, 186
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Il sonetto, scritto probabilmente sotto il papato di Clemente VI (1342-1352), ossia quando la corte papale aveva sede ad Avignone, fa parte di un gruppo di tre testi (questo sonetto e i due che seguono) dedicati alla critica della corruzione ecclesiastica. Precisamente, l’autore lancia un’aspra e violenta invettiva contro la Curia avignonese (in cui, peraltro, il Petrarca aveva lavorato), che viene personificata in una donna perfida e malvagia, dedita ai vizi, in particolare all’avidità di denaro, alla golosità e alla lussuria.
Fiamma dal ciel su le tue treccie piova1, malvagia, che dal fiume et da le ghiande2 per l’altrui impoverir3 se’ ricca et grande4, 4 poi che di mal oprar tanto ti giova5; nido di tradimenti, in cui si cova quanto mal per lo mondo oggi si spande6, de vin serva, di lecti et di vivande, 8 in cui Luxuria fa l’ultima prova7. Per le camere tue fanciulle et vecchi vanno trescando, et Belzebub in mezzo 11 co’ mantici et col foco et co li specchi8. Già non fostú9 nudrita10 in piume al rezzo11, ma nuda al vento, et scalza fra gli stecchi12: 14 or vivi sí ch’a Dio ne venga il lezzo13. La metrica Sonetto con schema della rima ABBA, ABBA, CDC, DCD
1 piova: possa cadere. 2 dal fiume et da le ghiande: dalle tue umili origini («umile e povero è chi si nutre di ghiande e si disseta di acqua di fonte», Piero Cudini). 3 per l’altrui impoverir: sfruttando l’impoverimento degli altri. 4 se’ ricca et grande: sei diventata ricca e potente.
5 poi che di mal oprar tanto ti giova: dato che trai vantaggio da diabolici maneggi. 6 quanto mal per lo mondo oggi si spande: tutto il male che si diffonde nel mondo. 7 fa l’ultima prova: «giunge all’estremo» (Piero Cudini). 8 Belzebub in mezzo co’ mantici et col foco et co li specchi: Belzebù sta al centro con i mantici, il fuoco e gli specchi; per Belzebù si intende la divinità filistea adorata in Accaron, «signore delle mo-
sche» ovvero «signore della casa (degli inferi)»). Nel Nuovo Testamento ricorre quale principe dei demoni. 9 fostú: fosti tu. 10 nudrita: nutrita, cresciuta. 11 in piume al rezzo: nelle comodità e nell’ozio. 12 stecchi: sterpi. 13 vivi sí ch’a Dio ne venga il lezzo: vivi in modo tale da far arrivare la tua puzza a Dio.
Francesco di Stefano, detto il Pesellino, Allegoria dell’Amore (a sin.) della Castità (al centro) e della Morte (a destra), 1450 ca.
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Analisi del testo Chiesa attuale e chiesa primitiva Nel sonetto Petrarca mette in opposizione la Chiesa corrotta del suo tempo (precipitata nei vizi della lussuria, della gola e dell’avidità, «de vin serva, di lecti et di vivande, / in cui Luxuria fa l’ultima prova» vv. 7-8, e in diabolici maneggi e operazioni infide, «Per le camere tue fanciulle et vecchi /vanno trescando, et Belzebub in mezzo» vv. 9-10) e la Chiesa primitiva, onesta e pura, caratterizzata dalla povertà evangelica («nuda al vento, et scalza fra gli stecchi» v. 13). Petrarca rappresenta dunque la Curia come una donna perfida, invocando su di essa la punizione divina. La stessa operazione verrà realizzata nel sonetto successivo (137), in cui Petrarca paragonerà Avignone a una «avara Babilonia», corrotta al punto tale da suscitare l’ira di Dio. Anche qui, la Curia avignonese è personificata in una donna diabolica e peccaminosa, allusivamente messa a confronto con la città di Babilonia, usata nella tradizione come immagine della corruzione terrena, contrapposta alla Gerusalemme celeste e alla Chiesa delle origini, in cui i primi cristiani vivevano poveramente bevendo l’acqua dei fiumi e cibandosi di ghiande. Al centro di questo luogo di corruzione regna il diavolo in persona, Belzebù, intento ad alimentare il fuoco del peccato coi mantici al v. 11 (strumenti per soffiare sulle fiamme), così da eccitare la vanità del mondo ecclesiastico con gli specchi (v. 11), simbolo di frivolo narcisismo.
Lessico Il contrasto fra la Chiesa corrotta del suo tempo e la Chiesa sana delle origini è reso anche da un sofisticato gioco stilistico di rime: il poeta, infatti, crea un abile contrasto fra le rime, ossia fra vivande al v. 7 (degrado della Chiesa attuale dedita al vizio della gola) e ghiande al v. 2 (austerità della Chiesa primitiva che ci cibava di ghiande); specchi al v. 11 (metafora della vanità della Chiesa attuale) e stecchi al v. 13 (sterpaglie, metafora della povertà della Chiesa delle origini). Il sonetto ci presenta un Petrarca inedito, che si muove nella tradizione della violenta invettiva, da Jacopone da Todi a un certo Dante, o anche nel solco della tenzone con finalità comico-parodiche, e utilizza forme aspre e dure, mordaci e “chiocce”, allontanandosi quindi dai modi soavi, sentimentali o struggenti della poesia lirica. Ciò non significa necessariamente, come avviene nella tradizione della tenzone o degli scambi irosi e polemici, che si ricorre a un lessico basso, perché il sonetto in realtà presenta un lessico sofisticato e addirittura diversi latinismi, come et (v. 2 e ss.), lecti (v. 7), Luxuria (v. 8), oppure al v. 12 fostù (fosti tu), forma sincopata raffinata, come vedestù (vedesti tu, usato già da Dante in Inf., VIII, 127). Questa scelta formale, sostenuta ed elegante, intende dare forza, solennità, seriosa e grave sontuosità all’invettiva dell’autore contro la Curia avignonese.
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Documento critico Marco Santagata L’«errore» del sonetto proemiale
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. A chi si rivolge Petrarca in questo sonetto? 3. Quale opinione esprime il poeta nei confronti dell’interlocutore? 4. Le considerazioni dell’autore si concentrano solo sul presente, o anche sul passato? ANALISI 5. Che cosa significano i due versi «de vin serva, di lecti et di vivande, / in cui Luxuria fa l’ultima prova?» A quali peccati si allude? 6. Quale ruolo assume Belzebù nella poesia? 7. Rintraccia e trascrivi gli attributi con cui viene apostrofata la Chiesa, evidenziando come attraverso di essi sia presentato il giudizio dell’autore su di essa. STILE 8. Quale caratteristica formale prevale nel testo? Sapresti produrre qualche esempio della tua risposta? 9. Qual è la funzione di certe rime e dei latinismi presenti nel testo?
Interpretare
SCRITTURA 10. Elabora un testo di massimo 10 righe in cui argomenti la posizione di Petrarca nei confronti della Chiesa, presente e passata, e quindi l’idea della sua fede cristiana che intende trasmettere al lettore.
582 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
T16
Verso la chiusura del cerchio? Come detto nel Profilo, gli ultimi testi del Canzoniere indicano la volontà programmatica dell’autore di chiudere l’opera nel segno del pentimento e dell’approdo alla dimensione religiosa, in modo da riscattare l’“errore” di cui si parla nel sonetto proemiale. Questo mutato atteggiamento spirituale è testimoniato in particolare dal penultimo testo (I’ vo piangendo i miei passati tempi), che proponiamo qui, e dalla Canzone alla Vergine, che chiude la raccolta.
Francesco Petrarca
T16a
I’ vo piangendo i miei passati tempi Canzoniere, 365
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
La posizione che Petrarca assegna a questo sonetto nel Canzoniere (l’ultimo testo dell’opera prima della conclusiva Canzone alla Vergine) implica che gli attribuisse un significato importante nell’itinerario esemplare tracciatovi. Ormai giunto alla fase estrema della vita («quel poco di viver che m’avanza», v. 12), il poeta rivolge un’accorata preghiera a Dio che prepara e anticipa quella che verrà rivolta alla Vergine nella canzone finale: quest’ultima appare così in stretto rapporto tematico con il sonetto qui presentato.
I’ vo piangendo i miei passati tempi i quai posi in amar cosa mortale1, senza levarmi a volo, abbiend’io l’ale2, 4 per dar forse di me non bassi exempi. Tu che vedi i miei mali indegni et empi, Re del cielo invisibile immortale, soccorri a l’alma disvïata et frale3, 8 e ’l suo defecto di Tua gratia adempi4: sí che, s’io vissi in guerra et in tempesta, mora5 in pace et in porto; et se la stanza6 11 fu vana, almen sia la partita7 honesta8. A quel poco di viver che m’avanza et al morir, degni esser Tua man presta9: 14 Tu sai ben che ’n altrui10 non ò speranza.
La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDC DCD.
1 i quai posi… mortale: che ho impiegato nell’amare una cosa mortale (Laura). 2 senza… l’ale: senza sollevarmi in volo, pur avendo le ali. Metaforicamente: senza innalzarmi a Dio, sebbene ne avessi la possibilità.
3 disvïata et frale: sviata dall’errore e fragile, debole. 4 ’l suo… adempi: compensa le sue mancanze con la Tua grazia. 5 mora: muoia. 6 stanza: permanenza in terra.
7 partita: il momento del distacco (la morte). 8 honesta: virtuosa. 9 degni… presta: la tua mano (simbolicamente: la Grazia divina) si degni di essere pronta (a soccorrermi). 10 altrui: altri.
Il Canzoniere 3 583
Analisi del testo Un testo di ispirazione religiosa Nella raccolta petrarchesca erano già presenti altri testi incentrati sul pentimento e sul riconoscimento dell’errore (a partire dallo stesso sonetto proemiale), come non mancano testi-preghiera (ad esempio Padre del ciel ➜ T9b ); ma in questo sonetto si evidenziano dei segni di cambiamento che vanno oltre la consueta oscillazione di stati d’animo propria del Canzoniere. L’abbandono fiducioso in Dio che impronta il testo conferisce al componimento un più marcato tratto religioso: anche se le passioni terrene non sono vinte, la fede sembra finalmente prevalere, così da consentire al poeta la speranza di concludere la vita in modo opposto a come l’ha vissuta.
Un amaro bilancio esistenziale Giunto alla fine dell’itinerario umano e poetico tracciato nel Canzoniere, nella prospettiva della morte, avvertita come ormai vicina, l’autore traccia un amaro bilancio esistenziale, in cui il passato è giudicato con severità: non c’è più posto per i ricordi nostalgici, capaci di illuminare con la loro luce consolatoria l’esistenza, ma solo per la dolorosa constatazione di aver speso male la vita nell’attaccamento alla dimensione mondana e a un amore fallace («mali indegni et empi») anziché elevarsi, come pure avrebbe potuto fare, alla dimensione del divino. Anche alla fine dell’opera Petrarca conferma di voler consegnare ai lettori presenti, ma soprattutto futuri, un’immagine di sé come modello non di perfezione ma di fragilità. Non resta ormai che rivolgere una accorata richiesta d’aiuto a Dio perché assicuri allo scrittore una morte cristiana, dopo tanti errori.
La struttura e lo stile La prima quartina vede in primo piano l’io lirico, impegnato in una dolorosa autoanalisi: significativo l’uso dell’indicativo presente + gerundio (vo piangendo) che conferisce all’azione carattere durativo. La seconda quartina mette in evidenza il Signore («Tu che vedi i miei mali...») aprendo la preghiera che occupa il resto del sonetto. Ma di certo l’io non scompare: in particolare nella prima terzina ritorna, addirittura accentuato, il consueto autoritratto di Petrarca come uomo del dissidio e dell’errore. Particolarmente presente in questo testo l’uso delle antitesi in rapporto alla contrapposizione vita/morte, che è al centro del sonetto; ma sono presenti anche i confronti di guerra vs pace, tempesta vs porto e vana vs honesta; ma l’antitesi era già presente nell’opposizione, all’interno della prima quartina, tra l’attaccamento al terreno e caduco e l’elevazione al divino. Significativo l’accostamento in rima tra mortale (v. 2) e l’ale (v. 3), poi ripreso nella quartina successiva dall’accostamento tra immortale riferito a Dio e frale, cioè “fragile”, riferito all’anima del poeta.
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SINTESI 1. Riassumi il contenuto di ciascuna delle quartine e delle terzine del sonetto. COMPRENSIONE 2. A cosa ritieni alluda il poeta quando, al v. 4, afferma che avrebbe potuto dare di sé non bassi exempi? 3. Quali contrapposizioni sono istituite tra il passato e il presente del protagonista? ANALISI 4. Indica in quale verso del sonetto si allude all’amore per Laura e quale valutazione ne viene proposta. 5. Il poeta dice, al v. 14, di non avere speranza ’n altrui: a chi pensi si riferisca? Che cosa intende sottolineare con tale affermazione? 6. Individua nel testo le espressioni antitetiche, riportando i termini che si riferiscono alla sfera lessicale della bassezza e fragilità umana, e quelli invece riferiti alla sfera trascendente della salvezza.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 7. Metti a confronto questo sonetto con quello proemiale, segnalando analogie e differenze.
584 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
Francesco Petrarca
T16b
Vergine bella Canzoniere, 366
F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
La canzone Vergine bella, che di sol vestita fu composta probabilmente tra il 1363 e il 1370 e posta a chiusura del Canzoniere, così come la celebre preghiera alla Vergine introduce l’ultimo canto della Commedia. Ha un’intonazione da vero e proprio cantico religioso, ma con originali aspetti intimistici. Infatti, in ognuna delle dieci stanze di cui è composta, sono presenti due elementi: le lodi alla Vergine, le cui qualità sono poste in contrasto con l’imperfezione umana (nelle varie strofe la Vergine è definita bella, saggia, pura, benedetta, santa, glorïosa, sacra e alma, nemica d’orgoglio); e le invocazioni del protagonista, che le chiede soccorso per essere finalmente liberato dalla miseria terrena e dalla tentazione del peccato. Proponiamo l’analisi dell’intera canzone.
Vergine bella, che di sol vestita, coronata di stelle, al sommo Sole1 piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose2, amor mi spinge a dir di te parole3: 5 ma non so ’ncominciar senza tu’ aita4, et di Colui5 ch’amando in te si pose6. Invoco lei che ben sempre rispose, chi la chiamò con fede7: Vergine, s’a mercede 10 miseria extrema de l’humane cose già mai ti volse8, al mio prego t’inchina9, soccorri a la mia guerra10, bench’i’ sia terra11, et tu del ciel regina. Vergine saggia, et del bel numero una de le beate vergini prudenti, anzi la prima12, et con piú chiara lampa; o saldo scudo de l’afflicte genti13 contra colpi di Morte et di Fortuna, sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa14; 20 o refrigerio al cieco ardor ch’avampa qui fra i mortali sciocchi: Vergine, que’ belli occhi che vider tristi la spietata stampa15 15
La metrica Canzone di dieci stanze di 13 versi di endecasillabi e settenari, con schema di rime delle strofe ABC BAC CddCEf (f) E; vi si aggiunge un congedo di 7 versi; nell’ultimo verso delle strofe e del congedo ricorre la rima al mezzo con il penultimo verso. Il primo verso di ogni stanza inizia con il vocativo Vergine, ripreso all’inizio del nono verso di ogni strofa; nell’ultimo verso ricorre la rima al mezzo. 1 sommo Sole: Dio.
2 che ’n… ascose: al punto che ha nascosto in te la sua luce. 3 amor... parole: l’amore mi spinge a parlare di te. 4 aita: aiuto. 5 Colui: Cristo. 6 si pose: s’incarnò. 7 lei... fede: colei (appunto, la Vergine a cui è dedicata la canzone) che ha sempre risposto benevolmente a tutti coloro che l’hanno invocata con fede. 8 s’a mercede... ti volse: se ti ha mosso a pietà l’estrema miseria delle cose umane.
9 t’inchina: ascolta. 10 guerra: tormenti. 11 terra: creatura mortale. 12 de le… la prima: la prima nel novero delle vergini beate. 13 saldo… genti: robusta protezione per le persone afflitte. 14 sotto... pur scampa: sotto il quale non solo si trova scampo ma si trionfa. 15 vider… stampa: che videro (inteso: i tuoi begli occhi) le terribili piaghe di Cristo.
Il Canzoniere 3 585
25
ne’ dolci membri del tuo caro figlio, volgi al mio dubbio stato16, che sconsigliato17 a te vèn per consiglio18.
Vergine pura, d’ogni parte intera, del tuo parto gentil figliola et madre19, ch’allumi questa vita, et l’altra20 adorni, 30 per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre, o fenestra del ciel lucente altera21, venne a salvarne in su li extremi giorni; et fra tutt’i terreni altri soggiorni sola tu fosti electa, 35 Vergine benedetta, che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni22. Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno, senza fine o beata, già coronata nel superno regno23. Vergine santa d’ogni gratia piena, che per vera et altissima humiltate salisti al ciel onde miei preghi ascolti24, tu partoristi il fonte di pietate25, et di giustitia il sol, che rasserena 45 il secol pien d’errori oscuri et folti; tre dolci et cari nomi ài in te raccolti, madre, figliuola et sposa26: Vergina glorïosa, donna del Re che nostri lacci à sciolti 50 et fatto ’l mondo libero et felice, ne le cui sante piaghe prego ch’appaghe il cor27, vera beatrice. 40
Vergine sola28 al mondo senza exempio, che ’l ciel di tue bellezze innamorasti29, 55 cui né prima fu simil né seconda30, santi penseri, atti pietosi et casti al vero Dio sacrato et vivo tempio fecero in tua verginità feconda31. 16 volgi… stato: rivolgi (inteso: i tuoi begli occhi) alla mia tormentata condizione. 17 sconsigliato: senza saper che fare. 18 a te… consiglio: mi rivolgo a te per avere un consiglio. 19 del tuo… madre: allo stesso tempo, figlia e madre del tuo nobile figlio (parto) (inteso: Cristo); si veda la preghiera di san Bernardo alla Vergine nel XXXIII canto del Paradiso (vv. 1-2): “Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura”. 20 l’altra: la vita eterna.
21 lucente altera: lucente e altissima (finestra del cielo). 22 che... torni: che trasformi in gioia il pianto di Eva. 23 già… regno: tu (Vergine) già incoronata nel regno del Paradiso. 24 onde… ascolti: da dove (dal cielo del Paradiso) ascolti le mie preghiere. 25 il… pietate: Cristo. 26 tre… sposa: in te hai riunito tre nomi dolci e cari: quello di madre, di figlia e di sposa (riprende il concetto del verso 28, già in Paradiso, XXXIII, 1).
586 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
27 prego… il cor: ti prego di soddisfare le mie richieste. 28 sola: unica. 29 che… innamorasti: che hai incantato il cielo con la tua sontuosità (bellezza). 30 cui… seconda: rispetto alla quale non vi fu nessun’altra donna simile, né superiore né prossima. 31 al… feconda: i tuoi atti pietosi e casti rappresentarono, nella tua feconda verginità, un sacro e vivo tempio a Dio.
Per te pò la mia vita esser ioconda, s’a’ tuoi preghi, o Maria, Vergine dolce et pia, ove ’l fallo abondò, la gratia abonda32. Con le ginocchia de la mente inchine33, prego che sia mia scorta34, 65 et la mia torta35 via drizzi a buon fine. 60
Vergine chiara36 et stabile37 in eterno, di questo tempestoso mare38 stella39, d’ogni fedel nocchier fidata guida40, pon’ mente in che terribile procella41 70 i’ mi ritrovo sol, senza governo42, et ò già da vicin l’ultime strida43. Ma pur in te l’anima mia si fida44, peccatrice45, i’ nol nego, Vergine; ma ti prego 75 che ’l tuo nemico del mio mal non rida46: ricorditi che fece il peccar nostro, prender Dio per scamparne, humana carne al tuo virginal chiostro47. Vergine, quante lagrime ò48 già sparte, 80 quante lusinghe et quanti preghi indarno49, pur per mia pena et per mio grave danno! Da poi50 ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno, cercando or questa et or quel’altra parte51, non è stata mia vita altro ch’affanno. 85 Mortal bellezza52, atti et parole m’ànno53 tutta ingombrata l’alma54.
32 ove… abonda: la tua grazia è abbondante, là dove il peccato è grande. 33 Con… inchine: inginocchiato davanti a te con la mente. Letteralmente: con le ginocchia della mia mente inchinato davanti a te. 34 prego… scorta: ti prego di essermi da guida. 35 torta: la mia strada deviata. 36 chiara: luminosa. Si riferisce a stella, del verso successivo. 37 stabile: come una stella che non tramonta mai e può essere di guida in ogni momento. La stabilità è ciò che manca alle cose terrene, immerse nella fuga del tempo e nella caducità della vita. 38 tempestoso mare: il mare della vita. 39 stella: la metafora sottolinea la luce, il ruolo illuminante e la possibilità di indicare un orientamento, cioè un senso, per la vita. Nella liturgia e negli inni sacri la Vergine è indicata come stella maris (“stella
del mare”). La stessa metafora, delle stelle come orientamento per la navigazione, è però più volte utilizzata nel Canzoniere a indicare gli occhi di Laura. 40 d’ogni… guida: guida sicura di ogni fedele navigante. I termini fedel e fidata sono entrambi derivati da fede. 41 procella: tempesta. 42 senza governo: senza timone. Indica la condizione del peccatore, incapace di indirizzare la propria vita nella giusta direzione. 43 già… strida: sono ormai vicino alle ultime grida. Si intende qui indicare le urla di invocazione, quelle di chi sta per naufragare; allegoricamente le invocazioni di chi, alla fine della vita, dispera della salvezza ultraterrena. 44 si fida: si affida. Anche questo termine è legato al campo semantico della fede, predominante nella strofa. 45 peccatrice: anche nell’ultimo testo del
Canzoniere è ribadita la condizione di peccatore del poeta. 46 che ’l tuo… rida: che il tuo nemico (il demonio) non si rallegri per la mia dannazione. 47 ricorditi… chiostro: da costruire come: ricordati che il nostro peccato fece assumere a Dio, per salvarci, un corpo umano nel Tuo grembo di vergine. Il poeta ricorda come Cristo si sia incarnato per salvare gli uomini. 48 ò: ho. 49 quanti preghi indarno: quante preghiere ho già fatto invano. 50 Da poi: da quando. 51 cercando… parte: viaggiando ora in questo ora in quel luogo. 52 Mortal bellezza: una bellezza umana (intesa: la bellezza di una creatura terrena, cioè Laura). 53 m’ànno: mi hanno. 54 tutta… l’alma: tormentato l’anima.
Il Canzoniere 3 587
Vergine sacra et alma, non tardar55, ch’i’ son forse a l’ultimo anno56. I dí miei piú correnti che saetta 90 fra miserie et peccati sonsen’ andati57, et sol Morte n’aspetta. Vergine, tale è terra58, et posto à in doglia lo mio cor59, che vivendo in pianto il tenne60 et de mille miei mali un non sapea61: 95 et per saperlo62, pur quel che n’avenne fôra avenuto63, ch’ogni altra sua voglia era a me morte64, et a lei fama rea65. Or tu donna del ciel, tu nostra dea (se dir lice66, e convensi67), 100 Vergine d’alti sensi68, tu vedi il tutto; e quel che non potea far altri, è nulla a la tua gran vertute, por fine al mio dolore; ch’a te honore, et a me fia salute69. Vergine, in cui ò70 tutta mia speranza che possi et vogli al gran bisogno aitarme, non mi lasciare in su l’extremo passo71. Non guardar me, ma Chi72 degnò crearme73; no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza, 110 ch’è in me74, ti mova a curar d’uom sí basso. Medusa75 et l’error mio m’àn fatto un sasso d’umor vano stillante76: Vergine, tu di sante lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso77, 115 ch’almen l’ultimo pianto sia devoto, senza terrestro limo78, come fu ’l primo non d’insania vòto79. 105
55 non tardar: non tardare (sottinteso: ad aiutarmi). 56 son… anno: che io sono forse all’ultimo anno di vita. 57 sonsen’ andati: se ne sono andati, sono volati via (inteso: i miei giorni, I dí miei). 58 tale è terra: (Laura) è diventata terra (è morta). 59 et… cor: e ha causato dolore al mio cuore. 60 che… tenne: la quale (Laura) quando era in vita aveva generato il mio pianto. 61 et... sapea: e non era consapevole di quanto dolore mi provocasse.
62 et per saperlo: e anche se l’avesse saputo. 63 pur... avenuto: sarebbe comunque successo quel che è avvenuto. 64 ch’ogni... morte: poiché ogni suo desiderio era per me la morte dell’anima. 65 fama rea: cattiva reputazione. 66 se dir lice: se è lecito dirlo. 67 convensi: se è opportuno dirlo. 68 d’alti sensi: di elevati sentimenti. 69 ch’a te... salute: ciò (liberarmi dal dolore) sarà per te un onore e per me una salvezza. 70 ò: ripongo. 71 non… passo: non mi abbandonare in punto di morte.
588 Duecento e Trecento 7 Francesco Petrarca
72 Chi: Colui, Dio. 73 degnò crearme: che si degnò di generarmi. 74 l’alta... ch’è in me: la Sua (di Dio) somiglianza che si riflette in me. 75 Medusa: Laura. 76 l’error… stillante: mi hanno tramutato in un sasso da cui sgorga un inutile (vano) umore (le lacrime). 77 lasso: stanco. 78 limo: fango. 79 come… vòto: così come il primo (pianto) fu invece pieno di follia per amore di Laura.
Vergine humana, et nemica d’orgoglio, del comune principio amor t’induca80: 120 miserere d’un cor contrito humile. Che se poca mortal terra caduca amar con sí mirabil fede soglio81, che devrò far di te, cosa gentile? Se dal mio stato assai misero et vile 125 per le tue man’ resurgo82, Vergine, i’ sacro et purgo al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile, la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri83. Scorgimi84 al miglior guado85, 130 et prendi in grado i cangiati desiri86. Il dí s’appressa87, et non pòte esser lunge, sí corre il tempo et vola, Vergine unica et sola, e ’l cor or coscïentia or morte punge88. 135 Raccomandami al tuo figliuol, verace homo et verace Dio, ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace89. 80 del comune… t’induca: ti spinga (ad
83 sacro… sospiri: io consacro (a Te, Vergi-
aiutarmi) l’amore per la nostra comune origine umana. 81 se… soglio: se continuo ad amare, con una fede così mirabile, un pezzo di terra caduca (destinata a scomparire). 82 per… resurgo: grazie alle tue mani risorgo (dal mio stato vile e miserabile).
ne) e depuro il mio pensiero, il mio ingegno e la mia penna, la lingua, il cuore, le lacrime e i sospiri. 84 Scorgimi: Guidami. 85 al miglior guado: al guado più sicuro. 86 prendi… desiri: accetta benevolmente (in grado) i miei mutati (cangiati) desideri.
87 Il dí s’appressa: Il giorno (della mia morte) s’avvicina. 88 e ’l cor… punge: il mio cuore è punto ora dalla coscienza, ora dalla morte. 89 ch’accolga… pace: affinché accolga in pace il mio ultimo respiro.
Analisi del testo Il confronto dialettico con il modello dantesco Questione fondamentale per interpretare la canzone Vergine bella è il suo rapporto con il resto del Canzoniere. Come accennato, ponendola a conclusione della raccolta, Petrarca si rifà al modello della Commedia dantesca, il cui ultimo canto si apre con la preghiera di san Bernardo alla Vergine, invocata a intercedere presso il Signore perché Dante possa essere reso partecipe dei misteri divini. Nella canzone Vergine bella, invece, il protagonista ancora una volta chiede soccorso per abbandonare la via del peccato. In tal senso, la Vergine viene qui invocata in nome della sua purezza e secondo il motivo, assai diffuso nell’innologia mariana del Medioevo, di Colei che soccorre i peccatori in virtù della grazia di cui è colma e dispensatrice. La canzone non si pone dunque al culmine di un percorso graduale di perfezionamento ma, al contrario, rivela un uomo ancora immerso nel peccato e nell’errore (benché ora sostenuto dalla fede), che si rivolge alla Vergine per trovare quella pace tante volte invocata nel Canzoniere e mai raggiunta. La condizione spirituale del protagonista, in questo testo conclusivo della raccolta, non è dunque radicalmente cambiata (nella struttura circolare dell’opera la canzone si connette al sonetto proemiale), come evidenziano le frequenti analogie con situazioni descritte nei precedenti testi: ricorre l’immagine del protagonista in balìa di una terribile tempesta (terribile procella). Non a caso, il dolore e il rammarico, quasi vergognoso, espressi dal poeta sono dovuti all’amore peccaminoso (l’error, v. 111) per Laura, un amore ancora cocente, che lo tormenta e che tratta con punte di disprezzo sdegnoso. Infatti Petrarca rammenta come abbia sparso vanamente lacrime e preghiere per una Mortal bellezza (v. 85), che lo ha distolto dal bene e dalla virtù, e
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addirittura apostrofa la donna che ama come una Medusa (v. 111), che lo ha trasformato in un sasso (v. 111), cioè lo ha reso insensibile e torpido, o con termini legati alla natura terrena e umana della donna: «poca mortal terra caduca» (v. 121), in evidente contrapposizione alla natura divina della Vergine. Il rammarico più cocente sembra essere quello di un amore ancora vivo, da cui il poeta non riesce a liberarsi. Infatti egli confessa di «amar con sí mirabil fede» (v. 122), per cui la sofferenza d’amore, anche dopo la morte di Laura, non è risolta.
L’amore per la Vergine sostituisce quello per Laura La condizione dell’io lirico, in estremo pericolo per la salvezza dell’anima («ò già da vicin l’ultime strida» v. 71), è rapportabile non tanto alla conclusione della Commedia, quanto al suo inizio, quando, nel secondo canto dell’Inferno, la Vergine intercede per la salvezza di Dante, immerso nel peccato. Se però nel poema dantesco la Vergine dà inizio a una catena di interventi salvifici di donne celesti, che culmina proprio nell’intervento di Beatrice, Laura non ha posto nel cammino salvifico del protagonista, ormai consapevole che all’amore per lei deva subentrare quello per la Donna celeste.
La metafora della stella sul mare in tempesta La sovrapposizione e al contempo la distanza tra la Donna celeste e quella terrestre è resa evidente da una metafora: la Vergine è paragonata a una stella che guida il navigante immerso nella tempesta. Tale immagine era stata più volte riferita a Laura nel Canzoniere, ma solo la Vergine è una stella che non tramonta («chiara et stabile in eterno,» v. 66) e può condurre in porto l’anima smarrita nella tempesta, mentre gli occhi di Laura, i «dolci usati segni» del sonetto 189 ( ➜ T10a ), visti metaforicamente come stelle che guidano il navigante, si celano, abbandonando l’amante alla deriva; e nel sonetto 272, in morte di Laura ( ➜ T13b ), i suoi occhi, lumi che guidavano il navigante nella tempesta, sono spenti. Ma la Vergine è anche madre di Dio e il poeta ricorda come nel suo virginal chiostro (v. 78) Dio si sia fatto uomo per redimere i nostri peccati: se nel giorno del Venerdì Santo il protagonista si era volto verso un amore profano mentre tutta la comunità cristiana commemorava la Passione ( ➜ T8a ), a conclusione dell’opera invece egli passa dall’amore profano a quello sacro, “chiudendo il cerchio” e, dopo il lungo smarrimento solitario, rientrando nella comunità dei fedeli.
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PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della strofa proposta e individua il tema principale e le parole chiave. ANALISI 2. Nella Canzone alla Vergine Petrarca si rappresenta come un peccatore che ha bisogno dell’aiuto della Vergine per salvarsi dal peccato. Indica i versi che testimoniano tale condizione e spiega qual è il suo peccato. LESSICO 3. Analizza il componimento dal punto di vista lessicale e indica il campo semantico prevalente. STILE 4. Quale figura retorica è presente nell’espressione fedel… fidata guida (v. 68)? a. Figura etimologica; b. Anafora; c. Poliptoto; È importante la scelta di questa figura?
Interpretare
d. Endiadi.
SCRITTURA 5. Nella sesta strofa è presente la metafora della vita come navigazione in un mare tempestoso. In quali altri testi l’hai riscontrata? Quali differenze emergono in quest’ultimo testo?
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5 Il Canzoniere nel tempo Una fortuna ininterrotta Mentre la Commedia alterna periodi di minore fortuna ad altri, come il Novecento, in cui è pienamente apprezzata e talvolta ripresa, il Canzoniere non conosce fama variabile e nel corso dei secoli rimane costante fonte di ispirazione per la lirica, non solo italiana ma europea: nessun autore della letteratura mondiale conta tante imitazioni quante Petrarca. Tuttavia ogni epoca conosce e imita un Petrarca diverso: il che testimonia di per sé la ricchezza di temi e di significati della sua poesia, sebbene la sua più celebre opera appaia a prima vista uniforme e monocorde. Il ruolo di Boccaccio nel consacrare Petrarca come “classico” e primo umanista La grande notorietà del Canzoniere comincia già durante la vita del poeta, quando il libro è ancora in fieri (prima di venire riunite alcune rime hanno già una diffusione autonoma); ma è in particolare Boccaccio, grande estimatore sia della Commedia sia del Canzoniere, a inaugurare una visione di Petrarca come “classico”, già mentre il poeta è ancora in vita. Ne pubblica infatti una biografia (De vita et moribus Domini Francisci Petracchi de Florentia), in cui traccia un ritratto fisico e morale del poeta ancor oggi di grande interesse ed esprime la propria ammirazione per le sue doti intellettuali e per la sua cultura: Boccaccio privilegia gli scritti in latino e lo studio dell’antichità di Petrarca, anticipando l’interpretazione oggi corrente che ne fa il primo umanista. Il Canzoniere, modello per la civiltà cortigiana Nella civiltà cortigiana l’imitazione di Petrarca non è solo un fenomeno letterario ma, più ampiamente, di costume. I gentiluomini delle corti costruiscono la propria identità sul Canzoniere, leggendolo come un breviario laico e cercando di assomigliare al raffinato poeta e perfetto amante che ne è protagonista, come evidenzia un significativo fenomeno artistico e culturale del Cinquecento, il “ritratto con il petrarchino”: gentiluomini e gentildonne si fanno ritrarre dai più famosi pittori dell’epoca mentre tengono tra le mani un “petrarchino”, ossia una copia dell’edizione in piccolo formato stampata nel 1501 dalla tipografia veneziana di Aldo Manuzio, oppure un manoscritto di dimensioni altrettanto ridotte. In alcuni quadri il “petrarchino” è aperto su rime intonate al carattere della persona raffigurata. Ritratto di giovinetta con libro in un dipinto di Agnolo di Cosimo, detto Il Bronzino (1545, Firenze, Galleria degli Uffizi).
La dilagante imitazione di Petrarca nell’età umanistico-rinascimentale Già nel Quattrocento si contano numerosi canzonieri composti a imitazione di quello petrarchesco: la raccolta più nota (e artisticamente significativa) è l’Amorum libri del ferrarese Matteo M. Boiardo (1441 circa?-1494), l’autore del poema cavalleresco Orlando innamorato (➜Vol 1b,C3). Nel Cinquecento si parla di vero e proprio petrarchismo per indicare la diffusa imitazione del Canzoniere. Alla straordinaria fortuna dell’opera contribuisce anche il diffuso platonismo filosofico della prima parte del secolo, che valorizza la ricerca di una dimensione spirituale dell’amore, largamente testimoniata nell’opera. La raccolta diviene inoltre modello linguistico indiscusso, secondo la teoria Il Canzoniere 3 591
esposta da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525) che identifica in Petrarca il modello supremo per la lingua poetica: fino all’Ottocento la lirica italiana parlerà dunque nella sua lingua. Alla poesia di ispirazione petrarchesca è stato dedicato un capitolo specifico, data l’importanza assunta nel periodo rinascimentale (➜Vol 1b,C2). La fortuna europea di Petrarca e il tema barocco del tempo Nella seconda metà del Cinquecento e nel Seicento l’imitazione di Petrarca si estende a tutto l’ambito europeo (dall’Italia alla Spagna, alla Francia, all’Inghilterra elisabettiana), come dimostra anche la diffusione continentale del sonetto, forma metrica nata in Italia e privilegiata nel Canzoniere. Nel nome di Petrarca si forma un codice lirico comune in tutta Europa, seppur poi elaborato a seconda delle tradizioni locali e delle singole personalità poetiche (che di sicuro furono di maggior spicco rispetto agli autori italiani dello stesso periodo). In quest’epoca in Petrarca non si vede tanto il raffinato poeta dell’amore platonico, come nel Rinascimento italiano, quanto piuttosto il poeta della fuga del tempo, della caducità e vanità della vita, del malinconico svanire della grazia e della bellezza. • In Francia, verso la metà del Cinquecento, si diffonde una raffinata lirica amorosa, che diventerà poi il modello del classicismo francese: espressione di un gruppo di sette poeti, guidato da Pierre de Ronsard (1524-1585), che si dà il nome di “Pléiade” (dall’omonima costellazione di sette stelle). Costituita a Parigi nel 1556, la Pléiade dà vita a un programma poetico che si richiama apertamente alla lezione sia dei classici greco-latini sia di Petrarca, letta però in modo critico e profondo e non pedestremente imitativo come invece accade per lo più in Italia. (➜ T17a OL) • In Spagna la lezione della poesia italiana fruttifica soprattutto nel filone mistico, particolarmente ricco e fecondo di risultati artistici elevati, da san Juán de la Cruz (1542-1591) a santa Teresa d’Ávila (1515-1582). • In Inghilterra l’influsso della linea Petrarca-Bembo si avverte più tardi che in altre aree dell’Europa, soprattutto nell’età elisabettiana: nei sonetti di William Shakespeare (1564-1616) e di John Donne (1572-1631) in un clima poetico già aperto al manierismo e che prelude al gusto barocco, la rilettura di Petrarca avviene in chiave critica e creativa: il modello è assimilato per essere di fatto contestato o addirittura infranto (➜ T17b OL). L’Arcadia scopre il tema petrarchesco del paesaggio-stato d’animo Con l’Arcadia, nel primo Settecento, la prospettiva da cui si guarda al Canzoniere muta ancora una volta: una società frivola e galante, incline all’evasione come quella del periodo rococò, desiderosa di godere dei piaceri e delle gioie della vita, non vuole più riflettere sulla fuga del tempo e la vanità dell’esistenza. Testimoniando ancora una volta la ricchezza del Canzoniere – sorgente inesauribile di spunti per la cultura italiana ed europea – l’Arcadia scopre un altro aspetto fondamentale della poesia di Petrarca: la visione della natura come partecipe e confidente dei sentimenti umani, un tema che avrebbe poi avuto un’immensa fortuna tra i poeti romantici. Ne è significativo esempio uno dei testi più conosciuti dell’Arcadia, l’ode Solitario bosco ombroso, di Paolo Rolli (➜ T18 OL), che fonde i temi di due famosi testi petrarcheschi in cui la natura è posta in primo piano: il sonetto Solo et pensoso e la canzone Chiare, fresche et dolci acque. L’ode ben evidenzia una caratteristica dell’imitazione settecentesca di Petrarca: l’accentuarsi della componente musicale (anche per
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online T17a Pierre de Ronsard
Quando sarai ben vecchia... Sonnets pour Hélène
T17b William Shakespeare Il Tempo divoratore Sonetti
l’influsso di modelli lirici come la poesia di Tasso). Le tessere lessicali e i topoi petrarcheschi, collocati nel contesto galante della poesia arcadica, leggera e disimpegnata, appaiono così quasi irriconoscibili a prima vista, perché, reinterpretati in una lingua più musicale e scorrevole e nella metrica settecentesca dell’ode, dai versi brevi, assumono un ritmo cadenzato e cantabile.
Petrarca cantato Va anche ricordato che già nel Seicento, con Claudio Monteverdi (1567-1643), e poi nel Settecento la poesia di Petrarca spesso viene cantata. Un esempio famoso è il madrigale di Monteverdi Zephiro torna e ’l bel tempo rimena (inserito dal musicista nel sesto libro dei suoi madrigali, pubblicato nel 1614), in cui il contrasto tra le quartine del sonetto petrarchesco, che descrivono il ritorno gioioso della primavera, e le terzine, in cui invece è espresso lo stato d’animo sconsolato del poeta per la morte di Laura, è sottolineato e amplificato online dal ritmo: prima festante e gioioso, con il canto spiegato a T18 Paolo Rolli Solitario bosco ombroso piena voce, poi rallentato e triste, del coro polifonico delle Ode d’argomenti amorevoli voci maschili e femminili. Petrarca come alter ego “romantico”: l’Ortis di Foscolo Alla fine del Settecento nella letteratura europea affiora una sensibilità che prelude al Romanticismo. Petrarca è allora sentito dai poeti come un alter ego. Nell’opera che maggiormente testimonia in Italia la sensibilità preromantica, Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, il protagonista, recatosi a visitare la casa di Arquà dove Petrarca era vissuto nei suoi ultimi anni, ne recita commosso i versi, sentendo il poeta come uno dei suoi “padri”. Nella lettera del 14 maggio (1798) a sua volta Teresa, la fanciulla da lui amata, la cui sensibilità è all’unisono con quella di Jacopo, gli chiede: «credi tu che il Petrarca non abbia anch’egli visitato sovente queste solitudini sospirando fra le ombre pacifiche della notte la sua perduta amica? Quando leggo i suoi versi io me lo dipingo qui – malinconico – errante – appoggiato al tronco di un albero, pascersi de’ suoi mesti pensieri, e volgersi al cielo cercando con gli occhi lagrimosi la beltà immortale di Laura. Io non so come quell’anima, che avea in sé tanta parte di spirito celeste, abbia potuto sopravvivere in tanto dolore». I due innamorati sentono dunque Petrarca come uno spirito affine, e l’amore del poeta per Laura come una prefigurazione del loro. Leopardi e Petrarca: due poeti all’unisono Anche l’altro grande poeta italiano dell’Ottocento romantico, Giacomo Leopardi (1798-1837), sente in Petrarca una sensibilità vicina alla propria, all’unisono con il suo cuore, come scrive nello Zibaldone (112-113). Leopardi dedica un commento al Canzoniere, e ne riprende spunti e motivi nei Canti: dalla canzone civile All’Italia, ispirata alla petrarchesca Italia mia, alla figurazione del passero solitario come immagine di solitudine malinconica, alla riproposta del viaggio faticoso del vecchio del sonetto petrarchesco Movesi il vecchierel canuto et biancho (➜ T8b ) nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Così Leopardi lo descrive: «Vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo, / con gravissimo fascio in su le spalle, / per montagna e per valle, / per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, / al vento, alla tempesta, e quando avvampa / l’ora, e quando poi gela, / corre via, corre, anela» (vv. 21-28). Se però il viaggio del vecchierel nel sonetto trecentesco era un pellegrinaggio religioso ispirato alla speranza nella vita ultraterrena, Leopardi ne fa il simbolo pessimistico dell’esistenza umana, volta verso il nulla: infatti al termine del suo cammino il vecchio cade in un «abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia» (vv. 35-36). Anche la lingua di Leopardi deve molto al Canzoniere: Il Canzoniere 3 593
la poetica leopardiana dell’indefinito e del vago, che privilegia termini lontani dalla concretezza sensibile per spingere il lettore a volgersi con l’immaginazione verso l’infinito, ha le sue radici nel lessico petrarchesco (si pensi a termini come vago, parola chiave del Canzoniere proprio per la sua polivalenza semantica). Il contrasto Petrarca-Dante Ma l’Ottocento è anche il periodo in cui, in concomitanza con una decisa rivalutazione di Dante, si levano voci critiche contro Petrarca e, più ancora, contro il petrarchismo, accusato di aver prodotto una poesia ripetitiva nei temi, costretta entro l’alveo di una lingua statica, ferma al Trecento. Petrarca è anche considerato dai critici romantici un “cattivo maestro” per aver dato l’esempio di una poesia dallo scarso impegno civile perché prevalentemente rivolta all’interiorità. Così, il critico Francesco De Sanctis (1817-1883), nella sua Storia della letteratura italiana (1870-1871), giudicando l’uomo Petrarca «minore dell’artista», lo considera inferiore a Dante: «Gli manca la forza che abbondò a Dante d’idealizzarsi nell’universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza». Con il Romanticismo si esaurisce anche la funzione di modello della lingua poetica del Canzoniere, dal momento che i romantici aspirano a un idioma vivo e moderno. Il Novecento: l’interesse per il “libro della vita” Ma tutto ciò non significa che il Canzoniere sia messo da parte. Piuttosto, l’interesse muta ancora di segno. Nel Novecento affascina il romanzo petrarchesco, l’idea di un libro che racchiuda il senso di un’esistenza, con tutte le sue sfumature e contraddizioni. I colloqui di Gozzano: un omaggio ironico Inaugura questa tendenza il poeta Guido Gozzano (1883-1916) che nella sua raccolta I colloqui, del 1911, riprende il modello petrarchesco di un libro che, attraverso una scelta di poesie, ricostruisca una storia interiore. In una lettera del 1910 scrive: «La raccolta adunerà il men peggio delle mie liriche edite e inedite e sarà come una sintesi della mia prima giovinezza, un riflesso pallido del mio dramma interiore. Le poesie – benché indipendenti – saranno unite da un sottile filo ciclico»; divide poi il libro in tre parti, intitolando la prima, in palese omaggio a Petrarca, Il giovenile errore; le altre due, Alle soglie e Il reduce, rappresentano il distacco dell’autore-protagonista dalle illusioni della giovinezza: non, come in Petrarca, per la morte dell’amata, quanto per l’annunciarsi della «Signora vestita di nulla», cioè la morte, al poeta stesso (Gozzano morirà effettivamente di tubercolosi a poco più di trent’anni). Gozzano evidenzia la sua affinità con Petrarca anche in una poesia autobiografica, Totò Merumeni, in cui, tracciando un proprio ironico autoritratto («Non ricco, giunta l’ora di “vender parolette” / il suo Petrarca!...»), cita la canzone in cui Petrarca racconta di aver rinunciato agli studi giuridici e all’avvocatura, scelta che accomuna i due poeti: «in sua prima età fu dato all’arte / di vender parolette» (CCCLX, vv. 80-81). L’inciso affettivo – il suo Petrarca! – esprime la sintonia con il poeta del Canzoniere. Il canzoniere psicoanalitico di Umberto Saba Un’altra importante testimonianza dell’influenza di Petrarca nel Novecento è il Canzoniere di Umberto Saba (1883-1957), come appare già dal titolo. Il poeta triestino costruisce la propria raccolta come quella del modello: inserendovi, di volta in volta, materiali poetici composti nel corso di tutta la propria attività letteraria e periodicamente riorganizzandola, costruendo così un canzoniere come “libro della vita”. Nonostante la ripresa di forme metriche tra-
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dizionali, come il sonetto, si tratta però di un canzoniere moderno, in cui l’analisi dell’interiorità ispirata al modello petrarchesco si avvale anche degli strumenti offerti dalla psicoanalisi di Freud. L’interesse del Novecento per la calibrata strutturazione del Canzoniere è evidenziato dal fatto che poeti apparentemente lontani da Petrarca riprendano l’idea di inserire i propri versi in un “libro della vita”, come avviene, ad esempio, per un poeta attivo nella seconda metà del secolo come Giovanni Giudici (1924-2011). Autore di una poesia prosastica lontana dal modello lirico della raccolta petrarchesca, Giudici ordina alcuni suoi testi in una raccolta organica con un taglio autobiografico, La vita in versi, del 1965, e osserva nello scritto Una palinodia che la vita aspira «a quell’ordine di cui il Petrarca è un esempio». Ungaretti e la linea petrarchesca del Novecento Diverso il caso di Giuseppe Ungaretti (1888-1970). Anch’egli costruisce la sua raccolta dei suoi versi – significativamente intitolata Vita di un uomo – come un’autobiografia dal valore ideale; ma soprattutto, in contrasto con ogni svalutazione ottocentesca, rivendica l’importanza di una linea petrarchesca europea della poesia, che, passando attraverso Góngora, Leopardi, Baudelaire e Mallarmé, giunge fino al Novecento. Una linea a cui egli stesso si riallaccia a partire dalla raccolta Sentimento del tempo (1933), il cui titolo richiama quella che (a detta dello stesso Ungaretti) è la più profonda eredità del Canzoniere: la percezione del tempo interiore e della memoria, la quale rappresenta appunto l’«elemento portante della linea Petrarca-Ungaretti» (G. Borri). Tale linea petrarchesca è quella di una “poesia pura”, alta, rarefatta, e perciò universale nel suo distacco dal quotidiano e dal contingente: una poetica poi ripresa dai lirici ermetici. Il petrarchismo all’interno del modello plurilinguistico del secondo Novecento: Zanzotto La seconda metà del Novecento è più incline a una poesia “plurilinguistica”, come quella dantesca, che alla rarefatta selettività della lirica petrarchesca; ma la lezione di Petrarca vive sempre. Il poeta italiano del secondo Novecento che, pur inscrivendosi in una linea poetica plurilinguistica, si è intenzionalmente accostato a quest’ultimo è Andrea Zanzotto (1921-2011), come appare nella raccolta Ipersonetto, costituita da 14 sonetti e inserita nel volume Galateo in bosco del 1978. Nel testo che apre la raccolta l’autore evidenzia espressamente il rinvio alle rime sparse, parlando di sparsi enunciati; in particolare, nel sonetto 11 Zanzotto riprende l’interrogazione incipitaria del sonetto petrarchesco CCLXXIII («Che fai? Che pensi? Che pur dietro guardi?») in cui il poeta pone a sé stesso domande sul senso del proprio pensare e agire. L’incipit del sonetto di Zanzotto «Che fai? Che pensi? Ed a chi mai chi parla?» nella prima parte del verso coincide esattamente con quello petrarchesco; nella seconda, ponendo la domanda su chi sia il soggetto di un enunciato linguistico (l’io cosciente o l’inconscio?), oltrepassa intenzionalmente gli interrogativi (e gli orizzonti conoscitivi) del poeta trecentesco, rendendo ben più radicale la petrarchesca ricerca di senso in nome di una visione dell’io che rimanda alla psicoanalisi, interesse preminente per Zanzotto (come già per Saba). Nel sonetto Notificazione di presenza sui Colli Euganei, inserito nella raccolta IX Egloghe, Zanzotto riprende, in una prospettiva moderna, il tema petrarchesco del rapporto tra io e paesaggio (➜ VERSO IL NOVECENTO, PAG. 597).
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Dante e Petrarca a confronto Dante
Petrarca
L’UOMO E IL POETA
• partecipa alla vita pubblica e politica di Firenze • la sua opera si confronta spesso con la realtà e la società del suo tempo
• è un intellettuale appartato e si pone al servizio dei grandi signori • nella sua opera soggettività e interiorità hanno un ruolo centrale
LATINO O VOLGARE?
• difende l’importanza del volgare come lingua letteraria (pur riconoscendo la nobiltà del latino)
• ritiene che il latino sia la lingua della cultura per eccellenza
LA LINGUA E LO STILE
• plurilinguismo e sperimentalismo formale • linguaggio in cui convivono vocaboli di varia origine (lessico popolare, tecnico, latinismi, provenzalismi, neologismi ecc.) • interesse per la riflessione sulla lingua • capacità di usare e, nel caso, mescolare diversi stili
• monolinguismo e “classicismo” • l inguaggio selezionato e circoscritto • s carso interesse per la riflessione sulla lingua • r icerca di uno stile “medio”, di una omogeneità senza dissonanze
LA CONCEZIONE DELL’AMORE
• il tema dell’amore è importante ma non è esclusivo • Beatrice è una creatura angelica, spirituale, che porta salvezza e beatitudine • l’amore per Beatrice è la via che porta all’amore per Dio
• il tema dell’amore è centrale • Laura è una creatura umana, di una bellezza sublime, ma “terrena” • l’amore per Laura non è conciliabile con l’amore per Dio
Fissare i concetti Francesco Petrarca Ritratto d’autore e opere minori 1. Perché la figura di Petrarca rappresenta una novità nel panorama letterario della sua epoca? 2. Quale influenza ebbe l’incontro con Laura nella vita e nell’opera di Petrarca? 3. Quali sono le peculiarità delle opere di ispirazione storico-erudita? Quali quelle delle opere di ispirazione morale-religiosa? 4. Per quale motivo il Secretum può essere definito il “libro dei conflitti”? 5. Quali sono i modelli letterari del Secretum? 6. Quale immagine consegna di sé stesso ai posteri Petrarca, attraverso il suo epistolario? 7. Qual è il significato del titolo dell’opera i Trionfi? Il Canzoniere 8. Come sono ordinati i singoli componimenti all’interno del Canzoniere? 9. Quali temi vengono affrontati nel Canzoniere? 10. In che cosa consiste la modernità del Canzoniere? 11. Quali scelte stilistiche adotta Petrarca nel Canzoniere? 12. Qual è stata la ricezione del Canzoniere nel tempo?
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VERSO IL NOVECENTO
Andrea Zanzotto Notificazione di presenza sui Colli Euganei
IX Ecloghe A. Zanzotto, IX Ecloghe, Mondadori, Milano 1962
Zanzotto ebbe a dichiarare che questo era il suo testo più vicino al sonetto proemiale del Canzoniere, ma il componimento riecheggia in realtà più liriche petrarchesche; in particolare l’incipit ipotetico riprende il sonetto CCXXIV: «S’una fede amorosa, un cor non finto»; il v. 8, con la forte antitesi «in opposti tormenti agghiaccio et ardo» ne ricorda il v. 12 («s’arder da lunge e agghiacciar da presso»). Al celebre sonetto Solo et pensoso rimanda il riferimento ai passi del v. 4, ma soprattutto il tema di un paesaggio specchio dell’io (v. 11). Ma in tutta la lirica aleggia un clima petrarchesco per il riferimento a un io tormentato, diviso da opposte spinte interiori, che ricerca faticosamente la pace («...il ciel mi dia ventura / et in armonie pur io possa compormi»). D’altra parte il titolo, Notificazione di presenza sui Colli Euganei, che utilizza ironicamente il registro burocratico, sottolinea la distanza tra lo stile poetico della tradizione letteraria e il linguaggio attuale, e allude insieme alla frattura ormai incolmabile tra l’uomo moderno alienato e la natura.
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Se la fede, la calma d’uno sguardo come un nimbo, se spazi di serene ore domando1, mentre qui m’attardo sul crinale che i passi miei sostiene2, se deprecando vado le catene e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo onde per entro le più occulte vene in opposti tormenti agghiaccio et ardo, i vostri intimi fuochi e l’acque folli di fervori e di geli avviso, o colli in sì gran parte specchi a me conformi3. Ah, domata qual voi l’agra natura, pari alla vostra il ciel mi dia ventura e in armonie pur io possa compormi4.
La metrica Sonetto, con schema ABAB BABA CCD EED. Lo schema a chiasmo delle quartine ha un precedente nel sonetto CCLXXIX del Canzoniere, mentre lo schema delle terzine non ha precedenti nella raccolta. 1 Se… domando: Se chiedo la fede, la calma di uno sguardo come una nuvola (nimbo), se (chiedo) lo spazio temporale di ore serene. Nimbo può essere equivalente di nembo (“nuvola gravida di pioggia”), ma può anche significare l’alone luminoso posto intorno al capo delle figure divine nell’iconografia cristiana.
2 mentre… sostiene: mentre mi attardo qui sul crinale (allineamento dei rilievi di una catena montuosa) che sostiene i miei passi. Come è detto nel titolo, si tratta dei Colli Euganei, dove si trovava Arquà, ultima dimora petrarchesca; il rimando è anche alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, il cui protagonista trova rifugio appunto sui Colli Euganei. 3 se deprecando… conformi: se vado biasimando le catene (amorose) e l’incantesimo che dura da anni e il filtro e le frecce d’amore, per cui nella parte più nascosta di me agghiaccio e ardo in opposti tormenti, o colli, in così ampia mi-
sura specchi fedeli del mio animo, (anche in voi) riconosco (avviso) i vostri interni fuochi e le acque folli di calori e di gelo. I Colli Euganei sono di origine vulcanica e custodiscono sorgenti di acque termali, alcune ad alta temperatura. In modo originale Zanzotto riprende il tema petrarchesco della natura come specchio della condizione interiore. 4 Ah, domata… compormi: Ah, domata come voi la mia natura aspra, il cielo mi dia una sorte simile alla vostra e possa anch’io ricompormi in armonia.
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Verso l’esame di Stato Prima prova
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Francesco Petrarca
S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? Canzoniere, 132 F. Petrarca, Canzoniere, testo critico di G. Contini, Einaudi, Torino 1964
Nella tradizione della poesia in volgare, a partire dalla scuola siciliana, sono frequenti i testi in cui, sul modello della quaestio filosofica medievale, si propone una riflessione sulla natura dell’amore. Questo sonetto riprende tale tradizione, ma al contempo se ne distingue.
S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento? Ma s’egli è amor, perdio, che cosa et quale1? Se bona, onde l’effecto aspro mortale2? 4 Se ria, onde sí dolce ogni tormento3? S’a mia voglia ardo, onde ’l pianto e lamento4? S’a mal mio grado, il lamentar che vale5? O viva morte, o dilectoso male, 8 come puoi tanto in me, s’io nol consento6? Et s’io ’l consento, a gran torto mi doglio7. Fra sí contrari vènti8 in frale9 barca 11 mi trovo in alto mar senza governo, sí lieve di saver, d’error sí carca ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio, 14 e tremo a mezza state, ardendo il verno.
1 che cosa et quale: qual è la sua essenza e la sua qualità. 2 Se bona… mortale: se è un bene, da dove (deriva) il suo effetto crudele, mortale per l’anima? 3 Se ria… tormento: se è un male, perché ogni tormento amoroso è così dolce? 4 S’a mia voglia… lamento: se posso scegliere liberamente di
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amare, da cosa derivano il pianto e il lamento (ingiusti se c’è stata libertà di scelta)? 5 s’a mal mio grado… vale: se subisco la passione amorosa contro la mia volontà (per necessità), a cosa serve lamentarmi (in quanto essa è comunque inevitabile)? 6 O viva morte… nol consento?: o amore, che dai vita e morte, o ma-
le che susciti tanto piacere, com’è che hai tanto potere su di me, se io non lo voglio? 7 s’io ’l consento… mi doglio: se ne sono responsabile, mi lamento del tutto a torto. 8 contrari vènti: sono i venti delle passioni. 9 frale: fragile.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.
Comprensione e analisi
1. Qual è la questione posta nella prima quartina? Quali opposte soluzioni sono prese in considerazione? 2. Quale il tema fondamentale della seconda quartina? Quali opposizioni riscontri? 3. Spiega il significato del verso finale. 4. Indica lo schema metrico del sonetto. 5. Come Petrarca “rivisita” la tradizione della quaestio sulla natura d’amore? 6. Nella prima quartina, quale figura retorica mette in rilievo il rapporto fra le diverse domande? 7. Attraverso quali elementi retorici e stilistici si sottolinea la natura irrazionale dell’amore? 8. Quale figura retorica riconosci al v. 7? Quali funzione esercita riguardo al tema fondamentale della composizione? 9. Attraverso quale metafora il poeta riporta il tema generale dal piano dottrinale alla propria situazione esistenziale? 10. Al v. 13 si riscontra un’allitterazione: individuala e spiega che cosa mette in risalto. 11. Il sonetto sviluppa la metafora della navigazione come allegoria della vita umana attraverso varie immagini: ricerca il significato di termini ed espressioni riferiti alla navigazione.
Interpretare
Nel sonetto è centrale il tema della sofferenza d’amore, dei suoi effetti devastanti e soprattutto del dissidio interiore che disorienta l’io del poeta. Scegli una composizione che conosci fra quelle della precedente tradizione lirica, centrata sul motivo dell’amore come passione distruttiva, e metti in evidenza differenze e analogie con questo sonetto, riflettendo in particolare sulla novità tematica introdotta da Petrarca.
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Francesco Petrarca
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio 1304. Il padre, il notaio fiorentino ser Petracco, era stato esiliato da Firenze due anni prima. Dopo un breve soggiorno in Toscana, il notaio si trasferisce con la famiglia nelle vicinanze di Avignone, dove aveva ottenuto un incarico presso la curia papale. A partire da qui l’intera esistenza di Petrarca sarà caratterizzata da diversi spostamenti. Petrarca viene avviato agli studi giuridici (Montpellier e Bologna) che però abbandona rientrando ad Avignone in seguito alla morte del padre. Ad Avignone avviene l’incontro con Laura, la misteriosa figura immortalata nel Canzoniere e intorno alla quale ruota la complessa vicenda umana ritratta nell’opera. A partire da questo incontro nasce una lunga passione amorosa, che segnerà tutta la vicenda esistenziale e letteraria del poeta. Per garantirsi una rendita fissa che gli consenta di dedicarsi senza preoccupazioni economiche agli amati studi letterari, decide di intraprendere la carriera ecclesiastica ed entra al servizio, dal 1330 al 1347 della potente famiglia dei Colonna. Il prestigio crescente legato alla fama di letterato lo porta poi a compiere diverse missioni diplomatiche per la famiglia dei Visconti o per il governo repubblicano di Venezia. Si muove tra i centri più importanti dell’Italia, tra cui Roma, Parma, Verona, Mantova, Ferrara, Firenze, e altre città ancora, ma spazia anche entro il territorio europeo: Parigi, Gand, Lione, Liegi (queste missioni diplomatiche sono l’occasione per ricercare nelle biblioteche di tutta Europa i testi degli autori classici andati perduti). Gli restano particolarmente cari i problemi dell’Italia di cui lamenta la perenne situazione di conflittualità. Lasciando definitivamente la Provenza, rivolge all’Italia un commosso saluto da cui si evince la sua idea tutta letteraria, e in qualche modo mitica, dell’Italia. Disgustato dalla corte avignonese, dal 1337 al 1353 Petrarca vive a periodi alterni a Valchiusa, che rappresenta per molti anni il suo “buon ritiro”: qui concepisce e compone (per lo meno in una prima stesura) le sue opere più importanti: il De vita solitaria (La vita solitaria) e il De otio religioso (La quiete della vita religiosa), il Bucolicum carmen, parte dell’Epistolario e il Secretum. Anche lo stesso Canzoniere ha la sua genesi e la prima elaborazione a Valchiusa. Nel 1341, dopo esser stato sottoposto, per sua richiesta, a Napoli a un esame dal re Roberto d’Angiò, cultore delle lettere, ottiene la “laurea” poetica a Roma con una solenne cerimonia in Campidoglio. Il riconoscimento ufficiale accresce ulteriormente la fama di Petrarca e ne fa un intellettuale corteggiato dai potenti per il suo indubbio prestigio. Nel 1361 Petrarca lascia Milano per sfuggire a un’epidemia di peste e si stabilisce ad Arquà, una cittadina collinare sui Colli Euganei presso Padova (che ora porta anche il suo nome): qui ritrova la
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pace assaporata a Valchiusa, anche se non disdegna di compiere ancora diverse missioni diplomatiche (a Pavia, a Venezia). Nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374 Petrarca muore, dopo aver lavorato fino all’ultimo all’ordinamento del suo Canzoniere. Un nuovo modello di intellettuale e una nuova visione culturale: verso l’Umanesimo Immerso in una realtà in forte cambiamento, Petrarca rifiuta le interpretazioni generali e totalizzanti del mondo proprie della cultura medievale. Egli prende le distanze dal sistema aristotelico e dalla Scolastica, filosofie che studiavano la realtà con scopi enciclopedici e classificatori, contrapponendovi una “cultura dell’interiorità”, già presente nei lavori di Seneca e soprattutto di sant’Agostino, il suo principale “maestro di pensiero”: per il poeta, dunque, l’unica filosofia veramente utile per l’uomo è quella morale. Lo scrittore ha grandissima considerazione della letteratura, che ritiene una disciplina autonoma da tutte le altre e necessaria per la crescita spirituale dei lettori. Tali concezioni derivano da un’assidua lettura dei pensatori classici: attraverso di essi egli ritrova insegnamenti da applicare nella vita quotidiana e modelli a cui conformare la propria condotta. Nel contempo, lo scrittore instaura con essi un dialogo ideale e un rapporto alla pari, quasi familiare; il tutto senza mai trascurare, però, la storicità dei loro lavori: in ciò egli mostra una sensibilità e uno spirito critico che anticipano quelli dell’Umanesimo e del Rinascimento. L’autore vive il proprio apprezzamento per gli intellettuali antichi in modo non conflittuale con la fede cristiana; al contrario, egli cerca di operare una sintesi tra le due culture, più tardi definita “Umanesimo cristiano”, riscontrando continuità tra il pensiero pagano e quello della prima era cristiana dovuto alla sostanziale uguaglianza dell’animo umano nel corso dei secoli. Petrarca è uno scrittore “bilingue”, perché in ambito quotidiano si serve con naturalezza sia del volgare sia del latino; il suo latino è quello classico, modellato su Cicerone e Virgilio, ed è utilizzato nella maggioranza delle opere, a testimonianza di una concezione elitaria della cultura.
2 Dalla mancanza di un “centro” al progetto autobiografico
L’itinerario di Petrarca alla ricerca della propria identità di scrittore Francesco Petrarca esordisce come autore di rime in volgare. Tuttavia, è attratto dal modello dell’autore classico che compone in latino, lingua della letteratura “alta”, opere su grandi temi e personaggi illustri. È da questi lavori che si aspetta fama e gloria; ma, sebbene la maggior parte dei suoi scritti sia in latino, il Canzoniere, il suo capolavoro e una delle opere più importanti della letteratura italiana, insieme ai Trionfi, un poema allegorico incompiuto, sono scritti in volgare. Nel Secretum, una sorta di “libro-confessione”, e in alcune lettere, Petrarca ricostruisce retrospettivamente una crisi spirituale che lo coglie a circa quarant’anni (1344), trasformandone modo di essere e scelte letterarie. La critica moderna ha ridimensionato questa svolta, che probabilmente avviene più tardi, negli anni tra il 1348 e il 1353, dopo l’evento tragico della peste, ed è ispirata dal pensiero agostiniano. Lo scrittore abbandona, dunque, i lavori storici ed eruditi e incentra la propria produzione su temi morali ed esistenziali, e in particolare sull’esplorazione dell’interiorità. Nasce così la necessità di mettere ordine sia nella vita sia nella produzione letteraria, raccogliendo i frammenti sparsi di quest’ultima in un’opera unitaria che ne descriva l’esistenza e ne faccia un autoritratto: nasce il Canzoniere. Nella produzione latina di Petrarca, oltre al Secretum e alle Epistole, si possono individuare due filoni principali. Le opere storico-erudite sono ispirate all’entusiasmo per i classici e sono avviate alla fine degli anni Trenta del XIV secolo: l’Africa è un poema epico in esametri
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ispirato a Livio (per il tema storico) e a Virgilio, rimasto incompiuto. È l’opera da cui Petrarca si aspettava la gloria, ed effettivamente l’incoronazione poetica (1340) gli venne proprio da questo lavoro. Il De viris illustribus, pure incompiuto, è un esempio di erudizione che espone le biografie di grandi uomini del passato. Il Rerum memorandarum è una raccolta incompiuta di aneddoti ed esempi dal mondo latino e ispirata da Valerio Massimo. Il Bucolicum carmen è un poema in 12 ecloghe sul modello virgiliano ricco di allusioni a eventi e personaggi coevi allo scrittore. Le opere religioso-morali sono opere di riflessione morale e religiosa, fondate sulla lezione di Seneca, Agostino e Boezio. Il De vita solitaria, iniziato tra il 1346 e il 1347 a Valchiusa, parla della vocazione petrarchesca alla solitudine, ma anche dell’ideale classico dell’otium (il ritiro in solitudine come occasione di studio e di attività letteraria). Il De otio religioso, iniziato nello stesso periodo, esalta la vita serena dei monaci. Il De remediis utriusque fortunae (1354-1360 ca.) è una specie di manuale su come deve comportarsi il saggio; ebbe grande successo. Il Secretum, il libro dei conflitti Il Secretum (1347-1353 ca.) esprime pienamente il nuovo concetto di una “letteratura dell’interiorità”, qui conseguenza di una crisi interiore dell’autore. Nell’opera, in tre libri, Francesco dialoga con sant’Agostino (il grande filosofo cristiano della tarda latinità), un modello ideale cui tendere ma anche un proprio “doppio”: qualcuno che, prima di essere guida morale e illustre sapiente, ha vissuto, come lui, nel peccato. Lo scambio si svolge secondo il modello inquisitorio tipico del sacramento della confessione e ha la funzione di un vero e proprio esame di coscienza. Dai rimproveri di Agostino emerge la debolezza di Francesco, l’accidia nel perseguire l’obiettivo di migliorarsi. L’epistolario: un ritratto di sé da consegnare ai posteri L’epistolario contiene in totale più di 500 lettere, tutte scritte in latino, indirizzate ad amici e personaggi importanti del tempo e organizzate in diverse raccolte: le Familiares, le Seniles, le Sine nomine (prive dei nomi dei destinatari per ragioni di prudenza, essendo fortemente polemiche) e le Variae (postume). Nell’epistolario Petrarca costruisce, selezionando le lettere già scritte e persino scrivendo lettere fittizie, un ritratto di sé, modellato sull’esempio classico, che vuole essere esemplare soprattutto per i posteri, ai quali consente anche, indirettamente, di conoscere meglio molti aspetti politici e culturali di un’intera epoca.
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Il tentativo di un poema allegorico: i Trionfi I Trionfi (1350-1360 ca.) rappresentano l’unica opera in volgare di Petrarca, insieme al Canzoniere. I Trionfi sono un poema allegorico in terzine dantesche, ispirato alla Commedia; il poeta vi ritrae, attraverso una sequenza progressiva di sei “trionfi”, cioè di celebrazioni di vittoria, il proprio tormentato itinerario interiore e rappresenta le tematiche che percorrono, in forma diversa, lo stesso Canzoniere: l’amore vittorioso è sconfitto dalla castità, ma sull’amore casto vince la Morte, a sua volta sconfitta dalla Fama, che è capace di eternare i valori dell’uomo; ma il Tempo distrugge e vince anche la Fama. Solo l’Eternità, il cui trionfo chiude l’opera, riesce a sconfiggere il rovinoso trascorrere del Tempo. Si tratta di un’opera irrisolta, legata a forme rappresentative ancora medievali.
3 Il Canzoniere
L’elaborazione dell’opera, i modelli, la struttura Il Canzoniere (o Rerum vulgarium fragmenta) è la prima organica raccolta di liriche della nostra letteratura, ed è anche la più celebre. Il libro ebbe una lunga elaborazione nel tempo fino alla stesura definitiva, consegnata a un manoscritto in parte autografo del 1374: non solo nel tempo il numero delle componenti crebbe fino a comprendere 366 testi (prevalentemente sonetti e canzoni), ma l’autore intervenne sui brani correggendoli e spostandone la collocazione all’interno di un vero e proprio progetto macrotestuale finalizzato alla costruzione di un’autobiografia ideale. Esso utilizza le liriche per rappresentare la conflittuale storia interiore di Petrarca, che ruota attorno alla figura di Laura, una donna dai tratti stilizzati, più simbolo che personaggio reale. Proprio il di lei destino consente di dividere l’opera in due parti: nella prima Laura è ancora viva, mentre nella seconda, che inizia con la canzone 264, sono raccolti componimenti scritti dopo la morte della donna. Questa suddivisione indica anche un mutato atteggiamento dell’autore: la prima parte vede prevalere tematiche legate alle passioni mondane; la seconda, invece, ai temi etico-religiosi. La modernità del Canzoniere: la scoperta di un io diviso Il vero protagonista è però l’io del poeta, diviso tra la dimensione sensuale e terrena e l’aspirazione all’ascesi spirituale: un io che, attraverso l’ambivalente concezione del sentimento amoroso, vive il conflitto tra spiritualità medievale e concezione della vita preumanistica. La collocazione di due testi chiave, il sonetto iniziale di pentimento e la canzone finale Vergine bella, sembrerebbero indicare un percorso ascendente cristiano di pentimento. Tuttavia, lo scrittore rimane lontano dagli esempi più radicali di tale cammino interiore, come la conversione agostiniana o l’iter dantesco. L’opera rappresenta l’imperfezione umana e la distanza tra l’ideale religioso e l’uomo reale, evidenziando un’interiorità scissa e contraddittoria: un aspetto moderno che ha influenzato la produzione letteraria anche nel Novecento. I temi del Canzoniere Con questo macrotema e con l’amore per Laura interagiscono altri argomenti. Centrale è quello della natura, intesa non più come specchio del divino ma come riflesso della coscienza del singolo, del quale essa diventa anche confidente. Essenziale è poi la memoria, attraverso cui si nutre in gran parte il sentimento petrarchesco verso l’oggetto del desiderio: l’amore non è più un’esperienza collocata nel presente ma, al contrario, è vissuto attraverso una pluralità di tempi diversi, come il futuro dell’attesa e, soprattutto, il passato del ricordo. A ciò si associa, quindi, la riflessione riguardo la caducità di tutto ciò che è umano e dell’inesorabile, distruttivo trascorrere del tempo, che solo la scrittura letteraria può arginare: alla dimensione mondana il poeta è legato, infatti, dall’attrazione
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per la donna prediletta ma pure da un colpevole desiderio di gloria. Nel Canzoniere sono anche presenti rime sul tema politico: Petrarca critica la corruzione della Chiesa e della curia papale ad Avignone e, come intellettuale cosmopolita, nella celebre canzone Italia mia rivolge un appello solenne ai signori italiani per porre fine alle ostilità che danneggiano la patria comune. Negli ultimi testi, infine, domina il tema religioso del pentimento che, sebbene non rifletta la biografia del poeta, apre a una dimensione spirituale rivolta alla fede e alla speranza ultraterrena in grado di chiudere la raccolta con coerenza. Il ravvedimento finale si manifesta in una preghiera intensa e nella canzone conclusiva, in cui l’oggetto del desiderio passa dalla donna terrena (Laura) a quella celeste (la Vergine), chiudendo il cerchio aperto dalla passione per Laura, capace di allontanare il protagonista dalla devozione cristiana. Le scelte stilistiche del Canzoniere e l’unilinguismo Lo stile del Canzoniere è stato oggetto di celebri analisi critiche, che ne hanno indicato come cifra distintiva l’unilinguismo, ossia la rinuncia a ogni eccesso espressivo, a favore di un’omogeneità armoniosa ed elegante nel registro, nel tono e nelle scelte lessicali e fonologiche: una scelta del tutto opposta a quelle di Dante, alle cui Vita nuova e Commedia Petrarca comunque si ispira in molti aspetti. Il Canzoniere nel tempo Al contrario di quanto accade con la Commedia, la fama del Canzoniere resta costante in tutta Europa per secoli, sebbene in ogni epoca si apprezzino aspetti diversi del lavoro. Grazie a Boccaccio, Petrarca è già un classico quando è ancora in vita, sia grazie alle opere letterarie sia per il suo studio dell’antichità. Nel Quattrocento e nel Cinquecento si contano molti canzonieri che imitano quello petrarchesco, ormai assurto al rango di fenomeno letterario; prediletto per la concezione dell’amore che lo permea, il suo stile raffinato diviene modello per la lingua poetica fino al XIX secolo. Fino alla fine del Seicento in Francia, Spagna e Inghilterra la raccolta ispira personalità del calibro di De Ronsard e Shakespeare, contribuendo a diffondere nel continente il sonetto e un codice lirico comune, declinato poi secondo la tradizione del luogo. I temi più considerati sono quelli della fuga del tempo e della caducità della vita. Nel primo Settecento, invece, la corrente letteraria dell’Arcadia è influenzata dall’elemento della partecipazione della natura ai sentimenti umani e rielabora i componimenti di Petrarca esaltandone l’aspetto musicale, come già fatto un secolo prima da Claudio Monteverdi.
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In epoca romantica il poeta è ammirato per la profonda sensibilità: autori quali Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi lo considerano un alter ego e il secondo vi si ispira largamente in termini di poetica e di uso della lingua. Solo nella seconda metà dell’Ottocento, con la rivalutazione di Dante, si alzano critiche contro il petrarchismo, colpevole di aver prodotto poesia ripetitiva e troppo concentrata sull’interiorità invece che sull’impegno civile; nello stesso periodo si eclissa anche l’influsso sulla lingua poetica, che si preferisce più viva e moderna. Ciò, tuttavia, non inficia l’importanza del Canzoniere. Il Novecento, infatti, è affascinato dal romanzo petrarchesco, cioè dall’idea di un libro che racchiuda una storia interiore e il senso di una vita con le sue contraddizioni. Il primo esempio è quello di Guido Gozzano, seguito, qualche anno più tardi, da Umberto Saba, capace di arricchire l’autoanalisi autoriale della propria raccolta con gli strumenti della psicoanalisi. Giuseppe Ungaretti rivendica l’importanza della poetica di Petrarca, intesa come poesia alta, staccata del quotidiano e capace di indagare i temi della memoria e dello spazio interiore del soggetto. La seconda metà del Novecento, pur apprezzando maggiormente il plurilinguismo dantesco, non dimentica il poeta di Arquà: negli anni Settanta Andrea Zanzotto ne riprende esplicitamente contenuti e forme.
Zona Competenze Competenza digitale
1. Prepara un PowerPoint da presentare alla classe per illustrare – con puntuali riferimenti ai testi del Canzoniere esaminati – l’interpretazione del critico H. Friedrich, che definisce quello di Petrarca un «paesaggio interiorizzato». Hai a disposizione 10-15 minuti.
Scrittura argomentativa
2. «L’adolescenza mi illuse, la gioventù mi traviò, ma la vecchiaia mi ha corretto, e con l’esperienza mi ha messo bene in testa che era vero quel che avevo letto tanto tempo prima: che i godimenti dell’adolescenza sono vanità […]». Così scrive lo stesso Francesco Petrarca (nella lettera Posteritati, “Alla posterità”). In un testo espositivo-argomentativo (max 4 colonne di foglio protocollo) interpreta questo passo dell’epistolario alla luce della conoscenza complessiva del poeta e della sua opera.
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Duecento e Trecento
8 Giovanni Boccaccio
CAPITOLO
LEZIONE IN POWERPOINT
L'uomo Boccaccio Boccaccio era soprannominato “Giovanni della tranquillità” per la sua tendenza a ricercare una dimensione di vita tranquilla, lontana da ogni forma di protagonismo. In un saggio del 1964 lo scrittore Alberto Moravia offre un incisivo ritratto della personalità di Giovanni Boccaccio, incentrato sul contrasto fra la vocazione a una vita placida e appartata e il culto dell’azione che traspare da moltissime novelle del Decameron.
Ho sempre pensato che il Boccaccio, quest’uomo che ci viene dipinto placido e amante dei propri comodi, questo “Giovanni della tranquillità”, fosse nel fondo dell’animo suo, per compenso e forse per sublimazione, un vagheggiatore dell’azione. Con ogni probabilità era uno di quegli uomini che non possono godere degli agi e dei comodi se non immaginandosi nei disagi e nei pericoli; che hanno bisogno di fingersi una vita fantasticamente attiva per continuare a menare senza scosse né squilibri la solita esistenza tranquilla. [...] Si veda con quanta segreta voluttà sono complicate, arricchite, articolate le peripezie; e come vivamente le rappresenta, quasi invidioso dei suoi personaggi. I luoghi così vari: marine, città, boschi, camere, grotte, deserti, i personaggi che abbracciano tutte le condizioni, tutte le nazionalità e tutti i tempi, dimostrano che per il Boccaccio, l’importante [... era] sentirsi vivere negli uomini, nelle circostanze, nei luoghi e nei tempi più diversi. [...] Alla sua sete d’azione non poteva bastare Firenze e il contado; ci voleva il Levante e la Francia, Napoli e Venezia, Roma e la Sicilia; l’antichità e il Medio Evo; insomma, oltre ai luoghi e ai tempi che gli erano familiari, anche quelli di cui aveva soltanto sentito parlare. [...] Il Boccaccio, per la sua sete di avventura, aveva bisogno [...] prima di tutto di non essere appesantito e intralciato da alcun grave e severo concetto morale; di non dovere continuamente stabilire rapporti di giudizio morale tra sé e i personaggi, tra sé e il mondo. [...] il Boccaccio aveva bisogno puramente e semplicemente di azione. Di una azione purchessia; visto che l’azione valeva in quanto era azione e non in quanto era buona o cattiva, triste o allegra, fantastica o reale. A. Moravia, Boccaccio, in L’uomo come fine, Bompiani, Milano 1964
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Il Decameron è uno dei capolavori della letteratura italiana, per secoli esempio autorevole di come si racconta: dalle tecniche narrative alla varietà di luoghi, ambienti, situazioni, ai personaggi creati dalla fantasia dell’autore. La rappresentazione di casi umani è così ampia e ricca da non temere il confronto con la Divina Commedia. Ma nel Decameron la prospettiva è totalmente laica e rispecchia non più esclusivamente una concezione trascendente della vita, ma più punti di vista. Un’ottica nuova, che deriva da una società in transizione, in cui appaiono nuovi valori, propri della classe borghese e mercantile emergente. La prosa di Boccaccio ha fatto scuola per l’eleganza e la varietà dei registri stilistici, adattati ai temi e ai diversi contesti sociali. Uno stile che sa rappresentare la tragedia e la comicità, le situazioni dolorose e quelle licenziose, senza mai scadere nella volgarità.
1 ritratto d'autore Il Decameron
2 Il Decameron nel 3 tempo 607 607
1 Ritratto d’autore 1 Un mercante mancato VIDEOLEZIONE
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
La formazione Giovanni Boccaccio nasce nel 1313 forse a Certaldo, un borgo della Val d’Elsa, oppure a Firenze, da una relazione del padre con una donna di cui nulla si sa: è dunque un figlio illegittimo, ma il padre lo riconosce, così che il bambino può trascorrere l’infanzia nella casa fiorentina di famiglia. Ritratto di Giovanni Boccaccio, Il padre era un agente di grado elevato dei Bardi, potente Habsburger Porträtgalerie casata fiorentina di mercanti e banchieri, e viaggiava nella del Castello di Ambras spesso per affari. Dalla professione del padre deriva l’e- (Innsbruck, Austria). sperienza fondamentale della vita di Boccaccio, che nel suo insieme è povera di avvenimenti rilevanti: appena quattordicenne Giovanni, che il padre vuole avviare alla mercatura, viene mandato a far pratica a Napoli presso una succursale della banca dei Bardi, situata in una zona non lontana da quella nella quale si svolgono le avventure di Andreuccio, protagonista di una celebre novella del Decameron (➜ T9b ). Come gli altri apprendisti, anche Giovanni impara sul campo l’arte del cambio, ha rapporti con i clienti, sbriga la corrispondenza e può così conoscere da vicino quel mondo mercantile che poi ritrarrà nel Decameron. Più che dalla mercatura è però attratto dalla vita mondana e culturale della corte angioina: grazie all’autorevole posizione del padre, Boccaccio può frequentare la nobiltà locale e conoscere un mondo raffinato e colto, anche per l’impulso diretto impresso
Cronologia interattiva
1313
1321
Fallisce la missione in Italia di Arrigo VII.
1300
Muore Dante.
1310
1320
1330
1313
Giovanni Boccaccio nasce a Certaldo (o forse a Firenze), figlio naturale di Boccaccino di Cellino, un ricco uomo d’affari.
1327
Si trasferisce a Napoli con il padre, agente finanziario della banca dei Bardi e inizia a fare pratica bancaria e mercantile.
1327-1340 Periodo napoletano. Partecipa alla vita mondana e culturale della corte di Roberto d’Angiò. Scrive il Filocolo, il Teseida e il Filostrato.
608 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
da Roberto d’Angiò, il sovrano che esaminò e “laureò” solennemente il poeta Francesco Petrarca. Constatata la scarsa inclinazione di Giovanni per la carriera mercantile e bancaria, il padre tenta di avviarlo agli studi giuridici, ma anche in questo caso senza successo. Boccaccio avverte infatti dentro di sé una prepotente vocazione letteraria. I felici anni napoletani: studi e amori Durante la sua permanenza a Napoli (1327-1340 circa) Boccaccio legge e studia, sostanzialmente da autodidatta, sia gli autori classici sia la letteratura romanza (la poesia amorosa provenzale e italiana, ma soprattutto i romanzi cortesi). Frequenta inoltre importanti intellettuali, che hanno grande peso nella sua formazione: fra questi lo stilnovista Cino da Pistoia, che per un paio d’anni insegnò diritto a Napoli, e il teologo agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro, che gli fa conoscere l’opera di Petrarca. Nel periodo napoletano Boccaccio vive anche delle esperienze amorose, trasfigurate letterariamente nell’Elegia di Madonna Fiammetta: nulla si sa della donna di cui Giovanni si innamora, ma è ormai considerata del tutto romanzesca la sua identificazione con Maria d’Aquino, figlia illegittima del re Roberto d’Angiò. Il ritorno a Firenze Attorno al 1340 la compagnia bancaria dei Bardi fallisce, travolgendo anche la famiglia di Boccaccio. Giovanni deve abbandonare la vita gaudente (e dispendiosa) di Napoli e tornare insieme al padre a Firenze, dove lo attendono anni di difficoltà e di ristrettezze economiche. Il dissidio fra il vecchio mercante e il figlio, ormai consacrato al culto delle lettere, si approfondisce, come testimoniano vari accenni delle lettere e passi scopertamente autobiografici delle opere minori (➜ T2 ). Il duro contatto con la realtà – la pragmatica società fiorentina, dominata da valori borghesi e da una disincantata visione della vita – contribuisce d’altra parte alla maturazione umana dello scrittore, amplia i suoi orizzonti mentali e letterari, come è testimoniato anche della varia produzione letteraria di quegli anni. Ma certo rimase sempre in lui il rimpianto per il mondo cortese e aristocratico che era stato costretto ad abbandonare, come è evidente in varie pagine dell’Elegia di Madonna Fiammetta del 1343-44, ma anche in molte novelle del Decameron ispirate ai valori cortesi. 1337
Scoppia la guerra dei Cent’anni tra Francia e Inghilterra.
1348
Dilaga la peste a Firenze.
1365 1360
Prende gli ordini minori e diviene chierico.
1340
1350
1360
1377
È inviato ad Avignone per appoggiare il ritorno del papa a Roma.
La sede papale ritorna a Roma.
1370
1380
1361 1350 1340
In seguito al fallimento della banca dei Bardi segue il padre a Firenze e va a vivere nella sua casa.
Conosce Petrarca: ne diventa amico e corrispondente epistolare. 1349-51
Compone il Decameron.
1341-1346 Intensa attività letteraria: compone l’Amorosa visione, l’Elegia di Madonna Fiammetta, la Commedia delle ninfe e il Ninfale fiesolano.
Si ritira a Certaldo.
1351-1354 Conduce varie missioni diplomatiche affidategli dal comune di Firenze grazie alla fama acquisita come letterato di spicco (presso Ludovico di Baviera, in Romagna, ad Avignone presso il papa).
1375
Il 21 dicembre muore a Certaldo. 1374
Muore Francesco Petrarca.
1373
Benché già molto malato, inizia nella chiesa di Santo Stefano di Badia le pubbliche letture della Commedia di Dante.
Ritratto d’autore 1 609
La composizione del Decameron, un libro di successo Nel 1348 sopraggiunge il flagello della peste, a causa della quale Boccaccio perde il padre e molti amici. Il drammatico contesto della pestilenza costituisce lo sfondo del capolavoro di Boccaccio, il Decameron, composto dal 1349 al 1351, approdo creativo del processo di maturazione cui si è accennato: alla dimensione lirico-sentimentale e al gusto romanzesco Boccaccio sostituisce nel suo capolavoro la disincantata osservazione della realtà, o meglio riserva al passato e al mondo delle corti la dimensione ideale, mentre il reale si incarna nel mondo presente e borghese. Boccaccio sceglie consapevolmente di farsi testimone del suo tempo, e in particolare di quella civiltà comunale che raggiungeva nei primi decenni del Trecento la sua acme e che già mostrava, al contempo, i segni della crisi che l’avrebbe travolta. Lo straordinario successo dell’opera, soprattutto presso i ceti mercantili, rende celebre il Boccaccio tra i suoi concittadini. Ne deriveranno incarichi pubblici prestigiosi, ambascerie per conto del comune di Firenze in Romagna, a Napoli, ad Avignone dal papa. L’amicizia con Petrarca La terza fase della vita e dell’attività intellettuale di Boccaccio è contraddistinta da un ripiegamento riflessivo che lo induce a interrogarsi sul significato e sul valore della letteratura, una riflessione stimolata dall’amicizia con Petrarca, l’altro grande scrittore del tardo Medioevo. Boccaccio incontra Petrarca nell’ottobre del 1350, in occasione del pellegrinaggio che il poeta del Canzoniere stava compiendo verso Roma per il Giubileo. Il 2 novembre in una delle Familiares (XI, 1) Petrarca ringrazia dell’accoglienza ricevuta con la prima delle numerose lettere che indirizzerà al Boccaccio nei ventiquattro anni successivi. È l’inizio di una lunga e intensa amicizia, interrotta solo dalla morte di Francesco Petrarca.
online
Per approfondire Boccaccio bibliofilo, filologo e copista
Gli interessi preumanistici Petrarca eserciterà su Boccaccio un’indubbia influenza (➜ PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda, PAG. 613), a cominciare dal culto per la cultura classica. In sintonia con gli interessi preumanistici che erano propri anche di Petrarca, infatti, in questo periodo Boccaccio si allontana dalla letteratura in volgare e si mostra sempre più interessato ai classici, nei quali ricerca un perenne insegnamento letterario e di vita. Boccaccio compone repertori eruditi in latino relativi al mondo classico, come il De genealogiis deorum gentilium (Le genealogie degli dei pagani) sui miti classici o il De claris mulieribus (Donne famose); e, come l’amico Petrarca, anche lui va personalmente alla ricerca di testi antichi nelle biblioteche dei monasteri e mette a segno importanti scoperte: nel 1353, nell’abbazia di Montecassino, ritrova codici che contengono opere di Varrone, di Cicerone, gli Annali di Tacito e le Metamorfosi di Apuleio. A partire dal 1360 la casa dello scrittore diventa il primo cenacolo preumanistico, nel quale si formano al culto della lingua e della letteratura latina figure di primo piano Conversazione tra Boccaccio e Petrarca, miniatura dell’umanesimo fiorentino come Coluccio quattrocentesca da un codice del De casibus Salutati. Boccaccio stesso compone in lati- (British Museum, Londra).
610 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
no tutte le sue opere tarde (ad eccezione del Corbaccio e della Vita di Dante) ed è tra i primi letterati a intraprendere lo studio della lingua greca, che allora era quasi del tutto sconosciuta, ospitando in casa sua il maestro Leonzio Pilato, grazie al quale vive l’emozionante esperienza di leggere in greco l’Iliade di Omero. Gli ultimi anni. Scrupoli morali L’ultimo periodo della vita di Boccaccio è segnato da una crisi interiore (ne parla Petrarca nelle Senili, 1, 5) che lo induce a isolarsi nella casa di famiglia a Certaldo, lontano da ogni impegno e da ogni contatto pubblico. Di certo la frequentazione con Petrarca non è estranea a questa crisi. Sopraggiungono in lui scrupoli morali sempre più assillanti, che investono anche il Decameron: in una lettera del 1373 (➜ D1 ) arriverà a sconsigliare apertamente a un amico di far leggere il “Centonovelle” alle donne di casa per i pericoli morali che la licenziosità dei contenuti avrebbe comportato. Già da parecchi anni, del resto, aveva composto un cupo libello antifemminista, il Corbaccio: proprio lui che aveva dedicato il Decameron alle donne e che aveva in molte novelle difeso il loro naturale diritto all’amore. Boccaccio trascorre l’ultimo decennio di vita tra difficoltà economiche e gravi problemi di salute. Nel 1373 il comune di Firenze gli affida il compito di leggere e commentare pubblicamente la Commedia nella Chiesa di Santo Stefano della Badia. Boccaccio accetta il compito e inizia la lettura e l’esposizione dell’opera che più di tutte ammirava. L’aggravarsi delle sue condizioni di salute, ma anche le molteplici critiche di quanti ritenevano sbagliato divulgare la Commedia attraverso pubbliche letture, gli impediscono però di portare avanti il compito: la lettura si interrompe al canto XVII dell’Inferno. Boccaccio muore a Certaldo nel 1375, a un anno solo di distanza dalla scomparsa di Petrarca.
La casa a Certaldo in cui, secondo la tradizione, sarebbe morto Boccaccio
Ritratto d’autore 1 611
Giovanni Boccaccio
Una ritrattazione del Decameron
D1
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Epistola XXI a Mainardo Cavalcanti Il passo che proponiamo è tratto da una lettera in latino che Boccaccio inviò nel 1372 a un caro amico, Mainardo Cavalcanti, da poco sposo. Lo scrittore, ormai anziano (morirà tre anni dopo), pronuncia un giudizio limitativo sul Decameron (che definisce domesticas nugas meas, “cosucce private”) e sconsiglia all’amico di farlo leggere alle donne di casa, per la preoccupazione che possa indurle a comportamenti contrari alla morale. Da quando Boccaccio ha scritto la dedica del Decameron alle donne (➜ T4a ) sono passati più di vent’anni e si sono verificati in lui, anche stimolati dalla frequentazione di Petrarca, grandi cambiamenti interiori.
G. Boccaccio, Le Epistole, a c. di G. Auzzas, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1992
Approvo quel che mi scrivi di voler fare l’inverno prossimo, se non ci sarà nulla di meglio. Invece non approvo per niente il fatto che tu abbia permesso alle illustri signore della tua famiglia di leggere le mie cosucce private1, e anzi ti chiedo di impegnarti a non farlo. Sai bene che lì vi sono molte cose poco decorose e contrarie all’onestà, 5 molte spine dell’amore infelice, molti stimoli a mal comportarsi anche se si possieda un animo fermo; e ciò, anche se non può spingere delle donne illustri a commettere azioni indecorose, soprattutto quando il sacro pudore sia saldamente posto sulle loro fronti, può tuttavia furtivamente esporre a tentazioni subdole e talvolta può corrompere ed eccitare un animo svergognato con la peste oscena della libidine; e bisogna impedire 10 a qualunque costo che ciò avvenga. Se poi verrà in mente qualcosa di poco decoroso, ciò non dovrebbe essere imputato né a te né a loro. Bada dunque di non farlo, ti ammonisco e te ne prego nuovamente. Lascia tutto ciò ai giovani che ricercano ardentemente le passioni: per loro è motivo di grande orgoglio essere pubblicamente additati come quelli che con la loro insolenza hanno corrotto il pudore di molte signore. E se 15 non vuoi avere riguardo del decoro delle tue donne, abbi almeno riguardo del mio buon nome, dal momento che mi vuoi bene al punto di piangere per le mie disgrazie2. Infatti, leggendomi, penseranno che io sia uno sporco ruffiano, un vecchio spregevole, un uomo corrotto, un osceno maldicente e un compiaciuto narratore dei misfatti altrui. E non ci sarà sempre chi si alzi a difendermi e dica: Ma scrisse quand’era giovane, e 20 costretto dalle pressioni di un potente. Sai bene quanto tutto ciò sia conveniente alla mia età, per non dire agli studi; e sebbene io sia poco onesto, e ancor meno lo sia stato in passato, tuttavia non accetterei volentieri che la mia fama e il mio nome vengano macchiati dal giudizio di quelle signore3. Ma perché parlare avanti? Non dubito che farai tutto quanto sia onesto e conveniente per loro, per te e per me. 1 le mie cosucce private: il Decameron qui è come declassato a una scrittura del tutto privata, un esercizio personale e di poco conto.
2 le mie disgrazie: lo scrittore era stato colpito da una grave malattia. 3 sebbene io sia... di quelle signore: il Boccaccio ammette di non essersi sempre comportato in modo irreprensibile (onesto vale “virtuoso”), anche
nel passato, ma teme che il giudizio di quelle signore (cioè le donne di casa Cavalcanti) sia troppo severo e che della sua opera non sia preso in debita considerazione l’aspetto letterario.
Concetti chiave Le richieste di Boccaccio
Boccaccio chiede all’amico Mainardo Cavalcanti di non far leggere il Decameron alle signore di famiglia, in quanto potrebbe indurre in tentazione anche donne virtuose. Lo prega anche di salvaguardare la propria immagine, che uscirebbe compromessa dalla lettura. Conclude dicendosi di essere certo che l’amico farà quanto richiesto, perché conveniente per tutti.
612 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSIone 1. Qual è secondo Boccaccio la caratteristica dei giovani? AnALISI 2. Individua ed elenca le espressioni con cui Boccaccio si riferisce al Decameron: quale immagine dell’opera se ne può ricavare?
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
PER APPROFONDIRE
competenza 3
ScrITTurA ArGoMenTATIVA
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
3. Dopo aver letto l’approfondimento “Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda” scrivi un testo argomentativo sull’influenza che Petrarca può aver avuto sul cambiamento che subisce Boccaccio in merito al giudizio sulle donne e sul suo capolavoro.
Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda Ammirazione e dissenso L’amicizia tra Boccaccio e Petrarca inizia nel 1350, quando entrambi gli scrittori sono già celebri, e durerà fino alla loro morte (tra l’altro, assai vicina nel tempo). Ne recano testimonianza le lettere che si scambiarono (ce ne restano 5 di Boccaccio e 30 di Petrarca): in esse il primo mostra una vera e propria venerazione per colui che considerava il suo magister. Questo atteggiamento non esclude momenti di dissenso, sia in campo letterario (all’indubbia freddezza di Petrarca verso Dante si contrappone il vero e proprio culto che Boccaccio aveva per il grande poeta della Commedia), sia in ambito etico-politico: Boccaccio si mostra indignato di fronte alla decisione dell’amico di andare a vivere alla corte dei Visconti a Milano, scelta che considerava un vero e proprio tradimento.
Petrarca e il Decameron: un rapporto imbarazzato e reticente Particolarmente problematico appare il rapporto tra Petrarca e il capolavoro di Boccaccio, nei confronti del quale il poeta del Canzoniere mostra imbarazzi e reticenze analoghe al rapporto difficile (e sostanzialmente ambiguo) che intrattenne con la Commedia di Dante. In una lettera del 1373 (Senili XVII, 3) che accompagnava la sua traduzione della novella di Griselda in latino, l’autore del Canzoniere sostiene che una copia del Decameron gli fu recapitata casualmente («non so da dove né in che modo» tiene a precisare con apparente nonchalance). Aggiunge di averlo solo scorso «come fa il viaggiatore frettoloso», data la mole del libro, per altro «destinato al volgo e in prosa». Il seguito della lettera è oltremodo significativo. Ne riproduciamo un passo centrale:
Influenze reciproche Nel tempo, l’amicizia con Petrarca segna una svolta nella vita di Boccaccio: l’autorevole amico non solo spinge Boccaccio a meditare sul ruolo della letteratura e stimola in lui gli interessi preumanistici, ma diventa anche un vero e proprio maestro di vita, inducendolo a una riflessione morale che finisce per modificarne i parametri ideologici. Su questa amicizia Lucia Battaglia Ricci, una delle maggiori studiose di Boccaccio, scrive: «In questa singolarissima amicizia crediti e debiti si mescolano in modo confuso, a comporre un rapporto culturale che si sta rivelando ben più complesso di quel che le dichiarazioni esplicite di Boccaccio e i silenzi di Petrarca potrebbero (o vorrebbero) far credere. Non solo il Petrarca dell’Epistola posteritati ha utilizzato il De vita et moribus domini Francisci Petracchi de Florentia (Vita e costumi del signor Francesco Petrarca fiorentino) di Boccaccio per costruire il ritratto ideale di se stesso, ma anche il Petrarca lirico ha contratto più di un debito con il Boccaccio volgare». Di fatto l’Amorosa visione ispira i Trionfi, l’esaltazione della poesia presente nella Genealogia ispira le Invectivae, entrambi sperimentano il genere epico, entrambi il poemetto allegorico, entrambi il genere della biografia di uomini illustri. Più in generale, scorrendo la produzione dei due amici, si può dire che emergano molte coincidenze e sovrapposizioni che andrebbero ulteriormente indagate per definire gli apporti dell’uno e dell’altro nelle rispettive produzioni.
«Mi sono divertito nello scorrerlo; e se mi sono imbattuto in qualche eccesso di licenziosità, ti scusavo per l’età che avevi allora, per lo stile, per la lingua, per l’inconsistenza dell’argomento e dei futuri lettori. Ha grande importanza il pubblico per il quale si scrive, e la diversità dello stile è giustificata dalla diversa mentalità di chi legge. Tra le molte novelle ridicole e leggere ne ho trovata qualcuna solenne e composta, sulle quali però non ho elementi di giudizio definitivo dal momento che non mi sono affatto applicato a un’attenta lettura.» Petrarca formula poi un giudizio positivo sullo stile “alto” che caratterizza l’introduzione del Decameron, e sull’ultima novella, la storia di Griselda, collocata secondo lui giustamente alla fine «dove le norme retoriche impongono di collocare le cose migliori». Nonostante impegni e pensieri, Petrarca “si degna” di tradurre in latino la novella di Griselda, così da consegnarla alla lettura dei dotti, che avrebbero rifiutato il volgare e i contenuti del Decameron. Ed effettivamente l’operazione ebbe un clamoroso successo tra gli intellettuali non solo italiani ma europei. Ma davvero Petrarca aveva letto solo allora il Decameron? È difficile pensare che Boccaccio non abbia offerto a Petrarca quel libro cui dedica cure amorevoli, anche come editore: proprio attorno al 1370 risale infatti la solenne edizione ultima del capolavoro; il filologo Vittore Branca nel 1962 identifica nel codice Hamilton 90 un preziosissimo autografo del Decameron, scritto di pugno dal Boccaccio.
Ritratto d’autore 1 613
2 La produzione minore: all’insegna dello sperimentalismo
Lessico intertestualità Indica la rete di relazioni che un testo intrattiene con altri testi dello stesso autore (intertestualità interna) o con modelli letterari di altri autori, coevi o storicamente precedenti (intertestualità esterna).
Lessico metatestuale Tutto ciò che riguarda il metatesto, ossia un testo formato da altri testi o che parla di altri testi.
La sperimentazione entro il sistema letterario del tempo Nel complesso della produzione di Boccaccio domina un accentuato sperimentalismo, ovvero il desiderio di percorrere tutti gli itinerari possibili nel sistema letterario del tempo, mettendo alla prova le sue capacità di scrittura in generi letterari diversi (dal poema al romanzo). Inoltre, è tipica di Boccaccio la tendenza a contaminare nelle sue opere le suggestioni più varie creando una complessa rete di rapporti intertestuali . È difficile tracciare in modo schematico, come è invece possibile per altri scrittori, le tappe e la storia intera della sua attività di scrittore: «L’impressione è che sul suo scrittoio, dove peraltro molte opere devono essere restate a lungo, ed essere fatte oggetto di continue […] correzioni e integrazioni, le carte si siano mescolate e abbiano liberamente interagito tra loro, assumendo corpo e individualità anche grazie a un ininterrotto dialogo tra opera e opera, pagina e pagina» (Battaglia Ricci). Il Filostrato dialoga con il Filocolo, il Teseida con il Filostrato, oltre che con l’epica classica e così via. La sperimentazione di Boccaccio è sostenuta da una grande consapevolezza teorica, testimoniata dai molteplici interventi metatestuali , innanzitutto nel Decameron, ma anche sparsi nelle altre opere. Di fatto Boccaccio fonda o rinnova dalle fondamenta numerosi generi letterari: • il Filocolo è il primo romanzo in prosa della nostra letteratura; • il Filostrato è il primo poemetto in ottave in Italia; • il Teseida è il primo testo epico in volgare; • la Commedia delle Ninfe introduce nella letteratura italiana il genere della favola
pastorale; • l’Elegia di Madonna Fiammetta è il primo romanzo psicologico; • il Decameron è il primo libro organico di novelle. Dimensione autobiografica e suggestioni letterarie Pur nella varietà dei temi e delle scelte stilistiche, queste opere sono accomunate dalla commistione di componenti autobiografiche e suggestioni letterarie: sia nelle opere appartenenti al periodo napoletano (Filostrato e Filocolo fra le altre) sia in quelle composte dopo il trasferimento a Firenze (Teseida, Commedia delle Ninfe, Amorosa visione, Elegia di Madonna Fiammetta) si possono riconoscere sia i gusti letterari del giovane Boccaccio, gli echi delle sue molteplici letture (rivolte agli autori latini e alla produzione narrativa francese), sia le tracce delle sue esperienze di vita. Ad esempio, la centralità del tema amoroso nella produzione di Boccaccio deriva sia dalla radice autobiografica sia dall’indubbia suggestione esercitata sul giovane scrittore dalla letteratura amorosa (dalla produzione lirica e romanzesca francese alla Vita nuova, fino a Petrarca).
Illustrazione dal Teseida: Emilia è nel giardino delle rose, mentre Arcita e Palemone, imprigionati da Teseo, la osservano dalla grata (miniatura francese, prima metà XV secolo).
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Le opere del periodo napoletano La cronologia delle opere giovanili di Boccaccio è estremamente incerta, anche per l’abitudine di Boccaccio di tornare sulle opere con interventi e riscritture successive. Probabilmente il Filocolo è anteriore al Filostrato ed entrambi hanno legami con il Teseida, evidenziati da riferimenti intertestuali che le collegano. Le tre opere sono databili intorno alla fine degli anni Trenta. Il Filocolo: un romanzo d’amore Con il Filocolo Boccaccio sperimenta per primo nella letteratura italiana il romanzo in prosa. Il titolo, grecizzante (ma si tratta di un’errata etimologia), nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto significare “fatica d’amore”. Il soggetto dell’opera, scritta per soddisfare un’esplicita richiesta dell’amata Fiammetta, riprende una celebre vicenda, quella di Florio e Biancifiore, diffusa nella tradizione orale e in una redazione omonima francese del XII secolo, oltre che in un cantare in volgare italiano. Tra Florio e Biancifiore, educati assieme fin da bambini a corte, nasce l’amore, stimolato dalla lettura di un libro “galeotto”, l’Ars amandi di Ovidio. I due amanti sono però costretti a separarsi, e solo dopo aver affrontato numerose avventure potranno coronare il loro sogno d’amore con il matrimonio. Nei sentimenti e nelle situazioni vissuti dai personaggi (ritratti con una spiccata capacità d’introspezione psicologica) l’autore proietta spesso la sua stessa situazione sentimentale. La trama del testo originario è variata e complicata da numerose digressioni, in cui Boccaccio rielabora vari materiali provenienti dalla sua vasta cultura, sia classica sia romanza. In generale si può dire che il romanzo, che ebbe notevole successo, riecheggia modelli comportamentali e culturali cortesi, dando spazio a luoghi topici dell’immaginario medievale quali tornei, castelli, giardini, in cui ben poteva rispecchiarsi la raffinata corte napoletana.
Napoli nel tardo Medioevo rappresentata nella Tavola Strozzi (particolare), dipinto anonimo (14721473, Museo Nazionale di San Martino, Napoli).
L’archetipo della lieta brigata All’interno del romanzo è particolarmente significativo un passo (IV, 31) che descrive una brigata di giovani, la cui regina è Fiammetta (la donna amata da Boccaccio), e che discute intorno a tredici questioni d’amore poste a turno da essi: una situazione che prelude all’ideazione della “cornice” del Decameron (tra l’altro due di tali questioni forniranno l’argomento per due novelle: la 13a per X, 4 e la 4a per X, 5). Un poemetto in ottave: il Filostrato Il Filostrato (“vinto d’amore”, secondo un’approssimativa etimologia) è un poemetto in 9 canti, scritto attorno al 1335. In esso Boccaccio introduce per la prima volta nella letteratura italiana l’ottava, il metro che sarà usato per la produzione epico-cavalleresca posteriore, da Ariosto a Tasso. La trama rimanda a un poema francese della seconda metà del sec. XIII, il Roman de Troie, e svolge l’infelice storia di Troiolo, figlio del re di Troia Priamo, che, abbandonato e tradito da Criseide, viene alla fine ucciso da Achille. Anche se lo sfondo della vicenda è la guerra di Troia che volge alla fine, l’ispirazione fondamentale del poema non è epica ma piuttosto lirico-elegiaca. All’autore non interessano infatti le vicende di guerra, ma esclusivamente quelle amorose, di cui analizza la varia fenomenologia. Ritratto d’autore 1 615
Il tentativo epico del Teseida Tra il 1339 e il 1341 Boccaccio scrive un poema epico, il Teseida (in 12 canti in ottave), composto proprio negli stessi anni in cui anche Petrarca si cimentava nel genere epico con il poema in latino Africa. Anche in questo caso lo sfondo dell’opera è guerresco (la guerra di Teseo contro Tebe) e si avverte la diretta influenza della Tebaide di Stazio (poeta epico latino del I secolo d.C. che Boccaccio aveva appena scoperto); ma ancora una volta la tematica dominante è quella amorosa, evidentemente più congeniale a Boccaccio. Più che il modello dell’epica classica, nell’opera si fa sentire il clima culturale tardo-gotico: gli eroi e le eroine si atteggiano infatti secondo i modelli della tradizione lirica e cortese e preparano «Le donne, i cavallier...» che saranno immortalati da Ariosto.
Le principali opere minori Le opere del periodo napoletano (1327-1340)
Filocolo
Filostrato
Genere
romanzo in prosa
Titolo
“fatica d’amore” ( errata etimologia)
Contenuto
avventure e amori di due giovani, Florio e Biancifiore
Genere
poema lirico-elegiaco
Titolo
“vinto d’amore”
Metro
ottava rima
Contenuto l’infelice storia di Troilo, figlio di Priamo, che tradito da Criseide, viene ucciso da Achille
Teseida
Struttura
9 canti
Genere
poema epico
Metro
ottava
Contenuto sfondo guerresco, guerra di Teseo contro Tebe, ma tematica dominante è l’amore Struttura
12 canti
Paolo di Visso, cassone dipinto con tre scene da Teseida di Boccaccio, 1440 (Galleria Sarti, Parigi).
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Le opere del periodo fiorentino La suggestione dell’allegorismo dantesco Ai modelli letterari fino a quel momento presenti – dalla narrativa francese ai cantari, da Ovidio a Stazio – nel periodo fiorentino si aggiunge il modello di Dante, come se «il ritorno nella città lo spingesse a “fare i conti” con colui che egli riteneva suo primo Maestro» (Battaglia Ricci). La diretta influenza di Dante è evidente nell’impianto dottrinale-allegorico comune a due opere: la Commedia delle Ninfe e l’Amorosa visione. Il Ninfale d’Ameto La Commedia (o anche Comedia o Comedìa) delle Ninfe fiorentine (più conosciuta col titolo di Ameto o Ninfale d’Ameto) fu scritta nel 1341-42, parte in prosa e parte in terzine dantesche (si tratta dunque di un prosimetro come la Vita nuova): il tema è la trasformazione prodotta sul rozzo animo del pastore Ameto dall’amore per una ninfa (Lia) e grazie ai racconti amorosi narrati a turno da un gruppo di ninfe di cui Lia sembra essere la guida. Ritorna anche in quest’opera lo stereotipo, centrale nell’immaginario di Boccaccio, della narrazione collettiva in un paesaggio idillico. Oltre che nella scelta metrica della terzina l’influenza di Dante è avvertibile nello schema allegorico dietro il quale si può leggere la concezione dantesca dell’amore come esperienza sublimante e tale da condurre l’individuo dal dominio delle passioni alla purificazione: l’opera si chiude infatti con l’immersione catartica di Ameto in una fonte, dalle cui acque esce purificato e consapevole del suo rinnovamento interiore. L’importanza della Commedia delle Ninfe fiorentine nella storia della nostra letteratura è indubbia: introduce infatti quel filone arcadico-pastorale che avrà grande successo tra Quattrocento e Cinquecento (e a cui si rifarà anche Sannazaro per la sua Arcadia ➜ VOL. 1B, C1).
Florio si prepara alla caccia, da una miniatura di Pietro Guindaleri dell’apparato decorativo del Filocolo nel manoscritto Canon Ital. 85, f. 67r (1463-64, Bodleian Library, Oxford).
Ritratto d’autore 1 617
L’Amorosa visione L’influenza della Commedia dantesca è ancor più evidente nella struttura dell’Amorosa visione, scritta nel 1342, un poema in terzine dantesche di 50 canti. Protagonista è il poeta stesso, che, dopo l’apparizione in sogno di una “donna gentile”, intraprende un viaggio dietro la sua guida alla ricerca della felicità. Il tentativo di riprendere lo schema allegorico della visione medievale e dantesca non produce risultati convincenti, ma è interessante il fatto che il modello dantesco sia ripensato in chiave prettamente laica e, secondo alcuni critici, addirittura parodica (è questa la tesi di Lucia Battaglia Ricci): il “viaggio” del protagonista è infatti volto alla conquista di una donna tutta terrena e sensuale e inizia con la consapevole scelta del protagonista della via che conduce ai beni mondani (la porta larga nella finzione narrativa). «Il maestro Dante è qui al contempo estesamente citato e sostanzialmente rifiutato» (Battaglia Ricci). L’Elegia di Madonna Fiammetta: un romanzo psicologico “al femminile” Per comune giudizio critico le due opere più riuscite della produzione giovanile di Boccaccio sono l’Elegia di Madonna Fiammetta e il Ninfale fiesolano. La prima (scritta probabilmente tra il 1344 e il 1345) è l’appassionata testimonianza – in forma di una lunga lettera in 9 capitoli – di una donna, Fiammetta, che narra la sua infelice storia d’amore per Panfilo. Fiammetta è figura chiave nell’immaginario artistico di Boccaccio e la sua presenza ricorre in più opere: è la regina della brigata nel Filocolo, le è dedicata l’Amorosa visione e ricompare quindi come narratrice nel Decameron. Rivolgendosi alle donne innamorate (➜ T3 ), che sole possono comprenderla, la protagonista-narratrice rievoca le alterne vicende del suo amore e confessa alle lettrici, in un rapporto di forte identificazione, i suoi contraddittori stati d’animo. L’impressione di chi legge è quella di una trascrizione immediata dei sentimenti della donna, una sorta di confessione. In realtà, come sempre accade in Boccaccio, si fanno sentire, contaminate tra di loro, molteplici suggestioni letterarie sia classiche (dalle Heroides di Ovidio alla Fedra e all’Hercules furens di Seneca) sia romanze (il richiamo a modelli autorevoli della prosa autobiografica, dalle Confessioni di Agostino alla Vita nuova). Al centro dell’Elegia vi è una dolorosa vicenda sentimentale (nella quale si rispecchia qualche esperienza amorosa dell’autore stesso), analizzata con lucido distacco. Nuovo è certamente nel romanzo il ruolo della donna, non più oggetto del canto dei poeti e di una rappresentazione filtrata da schematismi culturali, ma soggetto del primo romanzo psicologico della nostra letteratura. La scelta di affidare la narrazione a una donna, che cerca conforto nella scrittura, è una scelta “forte”, che anticipa il ruolo delle sette giovani narratrici del Decameron. Il Ninfale fiesolano Il Ninfale fiesolano è un poemetto mitologico in ottave, scritto nel 1345-46 circa, ispirato alle Metamorfosi di Ovidio: anche nel poemetto di Boccaccio, infatti, al centro della vicenda a sfondo pastorale c’è una metamorfosi. Un pastore (Africo) e una ninfa (Mensola) dopo un tormentato amore sono trasformati dagli dei in due torrenti che, nei pressi di Fiesole, si incontrano realizzando così in un’eterna unione il loro amore. Anche questo testo fonda un modello poetico che avrà larga fortuna nell’età umanistica, in particolare nella Firenze di Lorenzo de’ Medici. Sul piano stilistico Boccaccio sperimenta in questo caso un tono popolaresco e realistico, utilizzando prevalentemente un lessico piano e una sintassi colloquiale: una maniera attinta soprattutto dai cantari toscani.
618 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Le principali opere minori Le opere del periodo fiorentino (1341-1346) Genere Commedia delle Ninfe fiorentine
romanzo pastorale
Struttura prosimetro (alternanza di terzine dantesche e racconti in prosa) Contenuto la trasformazione del pastore Ameto grazie all’amore per la ninfa Lia e grazie ai racconti d’amore di un gruppo di ninfe
Amorosa visione
Elegia di Madonna Fiammetta
Ninfale fiesolano
Genere
poema allegorico-dottrinale
Metro
terzine dantesche
Contenuto il viaggio del poeta, guidato da una donna gentile, alla ricerca della vera felicità Struttura
50 canti
Genere
romanzo in prosa
Struttura
nove capitoli preceduti da un Prologo
Contenuto la protagonista, Fiammetta, narra l’infelice amore per il giovane Panfilo Genere
poemetto mitologico ispirato alle Metamorfosi di Ovidio
Metro
ottave
Contenuto
l’amore infelice tra il pastore Africo e la ninfa Mensola
Dopo il Decameron Nel ventennio che segue la composizione del Decameron Boccaccio scrive pochissimo: la Vita di Dante e probabilmente il Corbaccio. Il Corbaccio: un’opera misogina La datazione di quest’ultima opera – un’aspra satira contro «l’esecrando sesso femminile», antitetica al Decameron – non è sicura. La consonanza di alcuni passi con testi degli anni Sessanta ha indotto la critica a collocarne la fase principale di composizione verso il 1365. Secondo Giulio Natali sono inoltre dimostrabili connessioni con i testi di Petrarca di quegli anni, in particolare l’Epistola posteritati in cui dichiara di aver respinto, verso i quarant’anni, ogni seduzione della sessualità. Il che dimostrerebbe ancora una volta la stretta interdipendenza della produzione petrarchesca e boccacciana a partire dagli anni in questione. Viene oggi in genere respinta la possibilità che l’opera nasca da un’esperienza biografica reale, mentre si sottolinea la matrice tutta letteraria del testo, che rovescia parodicamente modelli autorevoli come la Vita nuova e più in generale i topoi della letteratura amorosa in una prospettiva che ricorda la poesia giocosa medievale e che attinge al filone della letteratura misogina. La vicenda mette in scena l’autore stesso, tormentato dall’amore non corrisposto per una vedova. Egli sogna di perdersi in una valle paurosa, ma viene soccorso dall’ombra del marito della donna, che gli rivela vizi e turpitudini delle donne, dimostrandogli che l’amore non si addice all’età matura né alla professione di letterato, che viene esaltata. Sul titolo dell’opera diverse sono state le interpretazioni, volte a Ritratto d’autore 1 619
intendere il titolo come allusivo: ora messo in relazione allo spagnolo corbacho (“scudiscio” dato che l’opera sferza i costumi delle donne), ora rapportato a corvo (riferito alla donna di cui si parla, simile al corvo nelle sue nere vesti di vedova o in relazione alle qualità negative attribuite al corvo nei bestiari medievali). Ma le interpretazioni sono numerosissime. Boccaccio dantista Per tutto il Trecento Boccaccio fu il maggior conoscitore delle opere dantesche. Il culto di Dante lo accompagnò sempre e si tradusse nel desiderio di farne conoscere l’opera e in un Trattatello in laude di Dante, composto probabilmente tra il 1351 e il 1355, che si può considerare la prima biografia completa del grande fiorentino. Nonostante il carattere celebrativo del testo, i critici tendono ad attribuirvi sempre più credito. Essa, come scrive Padoan, è il frutto di una «ricerca entusiastica e non episodica, che lo spinse ad avvicinare persone che avevano conosciuto […] il poeta e a recarsi talvolta persino nei luoghi stessi accennati nel divino poema, raccogliendo dicerie, voci, notizie, testi, documenti». Il trattatello fu rivisto e parzialmente riscritto (ne abbiamo altre due redazioni), anche in relazione alle discussioni con Petrarca (che non era certo un ammiratore di Dante), soprattutto per le sue scelte stilistico-linguistiche. È significativo che nel nome di Dante si chiuda l’esistenza di Boccaccio: le ultime cose che egli scrive riguardano la Commedia.
Le principali opere minori Dopo il Decameron
Corbaccio
Trattatello in laude di Dante
Genere prosa comico-realistica Contenuto invettiva contro le donne e l’amore
Genere
biografia
Contenuto ammirata celebrazione di Dante
Scena cortese nel Filocolo di Giovanni di Francesco Toscani (1425, tempera e oro su legno, Chazen Museum of Art, Università del Wisconsin, Madison, USA).
620 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Giovanni Boccaccio
T1
Un libro galeotto: l’innamoramento di Florio e Biancifiore Filocolo, II, 4
G. Boccaccio, Filocolo, a c. di A.E. Quaglio, in G. Boccaccio, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1967
Questo passo del Filocolo narra il momento in cui Florio e Biancifiore sentono di essere attratti l’uno verso l’altro.
Taciti e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardano l’un l’altro fiso1, Florio primieramente chiuse il libro2, e disse: «Deh, che nuova bellezza t’è egli cresciuta3, o Biancifiore, da poco in qua, che tu mi piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere4; ma ora gli occhi miei non possono saziarsi di riguardarti!». Biancifiore rispose: «Io non 5 so, se non che di te poss’io dire che in me sia avvenuto il simigliante5. Credo che la virtù de’ santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese le nostre menti di nuovo fuoco6, e adoperato in noi quello che già veggiamo che in altrui adoperarono7». «Veramente – disse Florio – io credo che come tu di’ sia, però che8 tu sola sopra tutte le cose del mondo mi piaci». «Certo tu non piaci meno a me, che io a te» rispose 10 Biancifiore. E così stando in questi ragionamenti co’ libri serrati avanti9, Racheio10, che per dare a’ cari scolari dottrina andava11, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo12, cominciò a dire: «Questa che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov’è fuggita la sollecitudine13 del vostro studio?». Florio e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della non usata riprensione, 15 apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi dell’effetto che della cagione14, torti15, si volgeano verso le disiate bellezze, e la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo andava errando16. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti, incontanente conobbe17 il nuovo fuoco acceso ne’ loro cuori, la qual cosa assai gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, 20 prima che alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto18. E manifestamente conoscea, come da loro partitosi19, incontanente20 chiusi i libri, abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti21. E già il venereo fuoco gli avea sì accesi, 25 che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuti rattiepidare22.
1 riguardano… fiso: si scambiano intensi sguardi l’un l’altro. 2 primieramente… il libro: per primo chiuse il libro (l’Ars amandi del poeta latino Ovidio). 3 che nuova… cresciuta: quale nuova bellezza ti si è aggiunta. 4 non mi solevi tanto piacere: di solito non mi piacevi così tanto. 5 se non che... il simigliante: se non che la stessa cosa è successa a me nei tuoi confronti. 6 Credo che… fuoco: credo che il potere dei sacri versi, che noi con devozione leggiamo, abbia acceso le nostre menti di un ardore straordinario. 7 adoperato… adoperarono: e (abbia) prodotto in noi quello che già vediamo (veggiamo) che produssero in altri. 8 però che: dato che.
9 così stando… avanti: così parlando, davanti ai loro libri chiusi. 10 Racheio: è il precettore di Florio e di Biancifiore. 11 per dare... andava: stava recandosi a insegnare ai cari scolari. 12 gravemente riprendendo: severamente rimproverando. Più sotto non usata riprensione sta per “rimprovero non usuale”. 13 la sollecitudine: la cura diligente. 14 più disiderosi... cagione: l’espressione sottolinea il ruolo del libro, la cagione (“la causa”) dell’attrazione, che ne è l’effetto. 15 torti: distolti (dalla lettura). 16 la loro lingua... errando: la loro lingua che in modo chiaro era solita spiegare i versi indicati balbettava ed esitava. 17 incontanente conobbe: immediatamente comprese, riconobbe.
18 più ferma... veduto: volle esser certo di aver capito ben bene la situazione, prima che qualcuno ne parlasse a qualcun altro, spesso nascondendosi in luoghi dai quali potesse vederli senza esser visto da essi. 19 manifestatamente... partitosi: chiaramente vedeva che, non appena si allontanava da loro. 20 incontanente: immediatamente. 21 però che... i nascosi diletti: dato che la giovane età in cui si trovavano non conosceva (ancora) le gioie d’amore nascoste. 22 già il venereo... rattiepidare: già il fuoco amoroso (venereo, di Venere, dea dell’amore) li (gli) aveva accesi a tal punto, che a stento la freddezza (la castità) di Diana (la dea cacciatrice che disdegna l’amore) li avrebbe potuti frenare (letteralmente “intiepidire”).
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Analisi del testo I modelli narrativi e la contrapposizione fra Amore e Caccia L’intera scena è intessuta di numerosi rimandi, citazioni, riferimenti alla letteratura classica, ma anche coeva a Boccaccio, il che testimonia la vastità delle letture dell’autore. Un primo evidente riferimento è all’episodio dantesco dell’amore di Paolo e Francesca nel V canto dell’Inferno: in entrambi i casi l’amore nasce durante la lettura di un libro. Ma se nel caso dantesco il libro è “galeotto”, nel senso che fa precipitare i due amanti nella perdizione peccaminosa della lussuria, qui siamo più vicino dell’Ars amandi di Ovidio, altro modello di Boccaccio, perché l’amore di Florio e Biancifiore, anche se suscita i rimproveri del precettore, è vissuto in una chiave di piacere libero e gioioso, senza nessuna condanna morale, tant’è che la vicenda amorosa avrà un lieto fine, col matrimonio dei due giovani e la conversione al cristianesimo da parte di Florio. Si possono riconoscere alcuni passaggi che riprendono, in modo molto preciso, le stesse dinamiche amorose: proprio come Paolo e Francesca, anche Florio e Biancifiore si guardano mentre leggono il libro, alzano gli occhi dal testo e incrociano i loro sguardi, scoprono di piacersi, quindi chiudono il libro e si dedicano a piaceri sensuali. In tal senso, è molto interessante l’accenno finale del passo alla dea Diana (vedi nota 22): il testo dichiara che la dea «ben difficilmente avrebbe potuto intiepidire il venereo fuoco acceso dalla freccia di Cupido». Si tratta, in altre parole, di una contrapposizione simile a quella di un’altra opera di Boccaccio, Caccia di Diana, fra le due dee (Diana, dea della caccia e soprattutto della castità, Venere dea della bellezza e dell’amore), riferimento che poi Boccaccio riprenderà anche nel Ninfale fiesolano, in cui la ninfa Mensola, devota al culto di Diana, si innamorerà del pastore Africo e sarà poi punita dalla dea. S’intende così celebrare il valore dell’amore e della liberazione dei sensi, piuttosto che le occupazioni materiali e mondane della caccia: uno dei temi centrali di tutta la produzione di Boccaccio. Infine, l’immagine del dio Cupido che si introduce di nascosto nel palazzo di Felice per fare innamorare i due giovani riprende vari passi della letteratura latina, a cominciare dal libro IV dell’Eneide in cui il dio trafigge con la freccia amorosa la regina Didone.
Il romanzo fra avventura e amore In questa prospettiva, ossia di un culto dell’amore libero e sensuale, il romanzo si inserisce a pieno titolo nella nuova cultura umanistica, svincolato dal rigore morale medievale e riconducibile ai miti della letteratura classica. La vicenda dei due protagonisti, Florio (figlio del re saraceno di Spagna Felice) e Biancifiore (figlia di una donna cristiana morta nel darla alla luce e che l’ha affidata alle cure del sovrano) è caratterizzata da un dinamico intreccio di amore e avventura: l’innamoramento dei due segna l’inizio delle peripezie dell’opera, poiché il re Felice tenta di contrastare la relazione (addirittura facendo “tentare” Florio da due donzelle, senza esito) e poi vende Biancifiore a dei pirati, spingendo il figlio a intraprendere un viaggio avventuroso per cercarla. La trama, ricca di digressioni, intermezzi narrativi secondari, riferimenti e citazioni della cultura classica latina, riprende lo schema del romanzo tardo-antico e si risolve nella tipica agnitio (agnizione, riconoscimento), ossia lo svelamento delle origini nobili di Biancifiore, che determina le nozze dei due protagonisti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Chi sono i due giovani protagonisti del passo? Si tratta di due adulti o di due ragazzi? Da che cosa lo deduci? 2. A un certo punto entra in scena un altro personaggio: qual è il suo rapporto con i due giovani? Qual è il suo ruolo nella vicenda? ANALISI 3. Nel passo si allude a una lettura: di quale testo si tratta? Sai spiegarne il ruolo nella vicenda?
Interpretare
SCRITTURA 4. Quali analogie e quali differenze noti rispetto alla celebre scena del V canto dell’Inferno dantesco? Indicale in uno schema e poi presenta le tue riflessioni in una breve trattazione (max 15 righe).
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Giovanni Boccaccio
T2
Una confessione autobiografica: la tristezza del ritorno a Firenze Commedia delle Ninfe fiorentine, XLIX, 64-84
G. Boccaccio, Decameron, Filocolo, Ameto, Fiammetta, a c. di E. Bianchi, C. Salinari, N. Sapegno, Ricciardi, MilanoNapoli 1952
Nel 1340 Boccaccio è costretto ad abbandonare Napoli in seguito al fallimento della Compagnia dei Bardi. Ai versi posti a conclusione della Commedia delle Ninfe (o Ninfale d’Ameto), un poemetto mitologico scritto all’inizio del periodo fiorentino, Boccaccio affida, in una sorta di “intrusione d’autore”, la confessione del suo disagio per aver dovuto lasciare la raffinata vita napoletana, rievocata nelle terzine con struggente malinconia e contrapposta nettamente alla triste realtà della vita nella casa paterna.
Ma pensi chi ben vede1, se penoso2 65 esser dovei3 e con amaro core, quel loco4 abandonando grazioso5. Quivi biltà6, gentilezza e valore, leggiadri motti7, exemplo di virtute, somma piacevolezza è con amore; 70 quivi disio movente omo a salute8, quivi tanto di bene e d’allegrezza quant’om ci pote aver, quivi compiute9 le delizie mondane, e lor dolcezza si vedeva e sentiva; e ov’io vado10 75 malinconia e etterna gramezza11. Lì non si ride mai, se non di rado: la casa oscura e muta e molto trista me ritiene e riceve, mal mio grado12; dove la cruda e orribile vista 80 d’un vecchio13 freddo, ruvido e avaro ognora con affanno più m’atrista, sì che l’aver veduto il giorno caro14 e ritornare a così fatto ostello15 rivolge ben quel dolce in tristo amaro16.
Ameto incontra le ninfe, dalla Commedia delle Ninfe fiorentine (anonimo toscano, 1410 ca, Metropolitan Museum di New York). 1 ben vede: sa giustamente giudicare. 2 penoso: pieno di pena. 3 dovei: dovevo. 4 quel loco: Napoli. 5 grazioso: il termine (riferito alla città di Napoli) è proprio del linguaggio cortese.
6 biltà: bellezza.
7 leggiadri motti: piacevoli conversazioni. 8 disio... salute: desiderio capace di stimolare a raggiungere la salvezza. Secondo la precettistica amorosa cortese e stilnovistica, l’amore induce al perfezionamento di chi ama. 9 compiute: perfette. 10 ov’io vado: a Firenze.
11 gramezza: tristezza. 12 mal mio grado: mio malgrado, contro la mia volontà.
13 un vecchio: è il padre. 14 il giorno caro: il periodo felice (vissuto a Napoli).
15 a così fatto ostello: a una dimora di questo genere.
16 rivolge… amaro: trasforma la dolcezza del ricordo in amarezza.
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Analisi del testo Napoli e Firenze In questi versi della Commedia delle Ninfe fiorentine fa capolino il pensiero dell’autore, che in una sorta di “intrusione” personale esprime il suo disagio esistenziale nel trasferimento da Napoli a Firenze. Quel passaggio infatti rappresentò per Boccaccio un evento di drammatica svolta, che ebbe un riverbero significativo nella sua produzione letteraria. Quando l’autore era ancor giovane, all’età di 14 anni, il padre, dopo avergli fatto fare un breve tirocinio a Firenze, decide nel 1327 di portarlo con sé a Napoli. Qui il quattordicenne Boccaccio, proveniente dalla vita e dalla sensibilità comunale fiorentina, trova un’atmosfera del tutto diversa, ossia la vivacità letteraria, spettacolare e cosmopolita della corte di Roberto d’Angiò. In questo ambiente, oltre a frequentare la cerchia accademica e nobile napoletana, e a entrare in contatto con la ricca biblioteca angioina composta di opere medievali, cavalleresche e classiche, ebbe anche modo di ascoltare nel banco commerciale, in cui prestava servizio, le avventure dei mercanti che più tardi rappresenteranno l’ispirazione fondamentale per il grande affresco narrativo del Decameron. Si trattava spesso di storie di forte carica evocativa, legate ai viaggi, alle peripezie, alle insolite e stravaganti esperienze di questi mercanti, che ebbero un forte impulso nella creatività e nell’immaginario del giovane scrittore. Ecco perché, quando nel 1340, il padre lo richiama a Firenze di fronte al fallimento della Compagnia dei Bardi, e quindi dell’attività commerciale paterna, fu assai «penoso abandonare quel grazioso loco (Napoli), dove si vedeva e sentiva leggiadri motti, exemplo di virtute, somma piacevolezza, tanto di bene e d’allegrezza, delizie mondane». Al contrario Boccaccio, insofferente verso la vita tetra e oscura di Firenze, la definisce, in questi versi della Commedia delle Ninfe fiorentine, come un luogo dove «non si ride mai, se non di rado, in una casa oscura e muta e molto trista», arrivando addirittura a indicare il padre come un «vecchio freddo, ruvido e avaro». Tuttavia, Boccaccio saprà far tesoro, anche nel disagio, della propria esperienza di vita, e proprio a Firenze, a contatto di lì a poco con la peste del 1348, comporrà il suo capolavoro, il Decameron.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il testo proposto. LESSICO 2. L’intero testo è strutturato sull’antitesi fra la vita a Napoli (quivi) e a Firenze (Lì). Rintraccia i termini e le espressioni che evidenziano questa contrapposizione, riporta gli esempi in una tabella come questa. Quivi (vita a Napoli)
Interpretare
Lì (vita a Firenze)
TESTI A CONFRONTO 3. Nell’ultima terzina Boccaccio afferma «sì che l’aver veduto il giorno caro e ritornare a così fatto ostello rivolge ben quel dolce in tristo amaro», parole che riecheggiano quelle pronunciate da Francesca nel V canto dell’Inferno vv. 121-123: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore». Metti a confronto le due terzine: secondo te Boccaccio in questa parte del testo ha avuto presente la terzina dantesca?
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Giovanni Boccaccio
T3
Una richiesta di solidarietà femminile Elegia di Madonna Fiammetta, Prologo
G. Boccaccio, Opere, a c. di C. Segre, Mursia, Milano 1975
L’Elegia di Madonna Fiammetta, una sorta di romanzo psicologico narrato in prima persona dalla protagonista, appartiene ai primi tempi del periodo fiorentino di Boccaccio. Fin dal Prologo dell’opera si accampa in primo piano la voce della protagonistanarratrice che, rivolgendosi alle “nobili donne”, ed escludendo deliberatamente un pubblico maschile, rivendica la novità della sua storia, una storia presentata come vera, che Fiammetta contrappone alle finzioni della materia mitologica ed epico-cavalleresca.
PROLOGO Suole a’ miseri crescere di dolersi vaghezza1, quando di sé discernono o sentono compassione in alcuno2. Adunque, acciò che in me, volonterosa più che altra a dolermi, di ciò per lunga usanza non menomi la cagione, ma s’avanzi3, mi piace, o nobili donne, ne’ cuori delle quali amore più che nel mio forse felicemente dimora, 5 narrando i casi miei, di farvi, s’io posso, pietose. Né m’è cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga4; anzi, in quanto io posso, del tutto il niego loro, però che5 sí miseramente in me l’acerbità6 d’alcuno si discuopre, che gli altri simili imaginando, piuttosto schernevole riso che pietose lagrime ne vedrei. Voi sole, le quali io per me medesima conosco pieghevoli e agl’infortunii pie7, priego che leggiate; 10 voi, leggendo, non troverete favole greche ornate di molte bugie, né troiane battaglie sozze per molto sangue, ma amorose8, stimolate da molti disiri, nelle quali davanti agli occhi vostri appariranno le misere lagrime, gl’impetuosi sospiri, le dolenti voci e li tempestosi pensieri, li quali, con istimolo continuo molestandomi, insieme il cibo, il sonno, i lieti tempi e l’amata bellezza9 hanno da me tolta via. Le quali cose, 15 se con quel cuore che sogliono essere10 le donne vederete, ciascuna per sé e tutte insieme adunate, sono certa che li dilicati visi con lagrime bagnerete, le quali a me, che altro non cerco, di dolore perpetuo fieno cagione. Priegovi che d’averle non rifiutiate, pensando che, sí come li miei, cosí poco sono stabili li vostri casi, li quali se a’ miei simili ritornassero, il che cessilo Iddio, care vi sarebbero rendendolevi11. E 20 acciò che il tempo più nel parlare che nel piagnere non trascorra, brievemente allo impromesso mi sforzerò di venire, da’ miei amori più felici che stabili cominciando, acciò che da quella felicità allo stato presente argomento prendendo, me più che altra conosciate infelice; e quindi a’ casi infelici, onde io con ragione piango, con lagrimevole stilo12 seguirò come io posso. Ma primieramente, se de’ miseri sono li 25 prieghi ascoltati, afflitta sí come io sono, bagnata delle mie lagrime, priego, se alcu1 di dolersi vaghezza: il desiderio di lamentarsi. 2 quando... in alcuno: quando si accorgono o percepiscono in qualcuno la compassione nei loro confronti. 3 di ciò... ma s’avanzi: non diminuisca ma anzi aumenti la mia ragione di piangere e lamentarmi. 4 Né m’è cura... non pervenga: non mi preoccupo che le mie riflessioni (il mio parlare) non raggiungano le orecchie degli uomini. 5 però che: dal latino per hoc: perciò che. 6 l’acerbità: la crudeltà di qualcuno (Panfilo).
7 io per me... infortunii pie: conoscendo
9 le misere lagrime... l’amata bellezza:
me, io so che voi siete compassionevoli: so che potete essere pietose e inclini alla comprensione delle disgrazie altrui. 8 amorose: riferito a favole o battaglie: la narratrice intende precisare che la sua storia non ha nulla a che fare con le tragedie (favole greche) di Eschilo, Sofocle ed Euripide, né con i poemi epici (troiane battaglie) di Omero.
corrispondenza fra cause (le misere lagrime, gl’impetuosi sospiri, le dolenti voci, li tempestosi pensieri) ed effetti (cibo, sonno, lieti tempi, amata bellezza). 10 Le quali cose... essere: Tutte cose per le quali, se le sapete guardare nel modo tipico delle donne. 11 se a’ miei... rendendovi: i quali, se diventassero simili ai miei, Dio non voglia mai, vi sarebbero care le lacrime se vi venissero restituite. 12 stilo: penna.
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13 così le faccia... le scriva: di modo che l’una (la memoria) sia in grado di esprimere la parola, e l’altra (la mano), più volenterosa che forte nello scrivere, sia in grado di scrivere i patimenti che ho provato e continuo a provare. 30
na deità è nel cielo la cui santa mente per me sia da pietà tocca, che la dolente memoria aiuti, e sostenga la tremante mano alla presente opera, e così le faccia possenti, che quali nella mente io ho sentite e sento l’angoscie, cotali l’una profferì le parole, l’altra, più a tale ofìcio volonterosa che forte, le scriva13.
Analisi del testo Un nuovo modo di narrare L’elegia è concepita come un lungo monologo che vede al centro la narrazione in prima persona di Fiammetta, la quale rivolge un appello alle donne innamorate affinché possa suscitare in loro pietà. Fiammetta non è più la donna oggetto d’amore della lirica stilnovista, ma figura attiva che narra le proprie sofferenze d’amore.
Una confessione spontanea? Il prologo dell’opera suscita in chi legge l’impressione di una confessione spontanea e veritiera, che scaturisce da una reale esperienza di vita: le «battaglie amorose» sono contrapposte alle «menzognere favole greche» e agli «epici scontri, degni di Troia». La narratrice, nel momento in cui si prepara a narrare l’infelice storia del suo amore per Panfilo, cerca di stimolare l’adesione sentimentale del pubblico, soprattutto femminile («Se con quei sentimenti […] considererete le mie vicende»), alla sua storia, di suscitare empatia in chi leggerà. In realtà l’Elegia di Madonna Fiammetta è tutt’altro che uno sfogo immediato: infatti, come le altre opere minori di Boccaccio, rimanda a un preciso modello letterario, pur alimentato e rivisitato attraverso il filtro di personali esperienze di vita dell’autore stesso. Il modello che qui ha in mente Boccaccio è l’Ovidio delle Heroides (Eroine), raccolta di 21 lettere in versi (distici elegiaci) che si fingono scritte da donne ai propri mariti o amanti lontani. Il critico Luigi Russo ritiene che Fiammetta sia una figura anticipatrice delle donne infelicemente innamorate del Decameron (come Ghismonda o Lisabetta), ma responsabili delle proprie scelte e quindi artefici del proprio destino.
L’originalità del punto di vista Fin da questo Prologo del romanzo emerge la rivoluzione operata dal Boccaccio nel “punto di vista” narrativo: la dolorosa storia d’amore, infatti, non è raccontata dal punto di vista dell’uomo, ma da quello di una donna, vera protagonista e non oggetto d’amore, con intense e drammatiche sfumature psicologiche, di grande profondità introspettiva. Boccaccio, dunque, come poi farà anche nel Proemio del Decameron (➜ T4a ), sovverte un’intera tradizione stilnovista e cortese, che poneva al centro la dinamica amorosa dell’uomo, mentre la donna era un oggetto passivo del sentimento maschile, e mette in primo piano Fiammetta, come persona dotata di volontà ed emotività proprie, che non a caso si rivolge a un pubblico femminile, per suscitare compassione, consolazione e solidarietà.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Chi è il narratore? COMPRENSIONE 2. Quale obiettivo si propone Fiammetta nel raccontare la propria dolorosa vicenda? ANALISI 3. A chi è rivolto il suo racconto-confessione e chi Fiammetta esclude categoricamente? Esponi le ragioni che la narratrice adduce nel selezionare il suo pubblico ideale. 4. A ogni proemio si addice un’invocazione. Rintracciala nel testo e sintetizzane il contenuto. COMPRENSIONE 5. Ricerca sul vocabolario il significato del termine “elegia” e quindi rispondi: riesci a comprendere dal Prologo perché l’opera si intitoli elegia?
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Quale rappresentazione viene data dell’amore? Ti sembra sia vera o convenzionale? Adduci le motivazioni della tua scelta.
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2 Il Decameron 1 La composizione del Decameron. I modelli di riferimento VIDEOLEZIONE
La fondazione della novella A Boccaccio si deve la fondazione della novella: la codificazione, in una sorta di “enciclopedia narrativa”, di modelli di riferimento per la narrazione in prosa che rimarranno operanti per secoli. Grazie all’eccellenza artistica del Decameron, il genere della narrativa breve in prosa assume per la prima volta piena dignità letteraria nell’ambito dei generi letterari del tempo. Il significato del titolo È la primavera del 1348. Il flagello della peste nera infuria in Firenze, sovvertendo le abitudini di vita, i costumi morali e travolgendo gli stessi rapporti familiari. Dieci giovani (sette donne e tre uomini), per sfuggire al contagio e allo sfacelo che dominano in città, si ritirano in una villa sulle colline vicine. Qui trascorrono le giornate tra onesti passatempi (canti e danze) e raccontano a turno delle novelle, in tutto cento, distribuite nell’arco di dieci giornate (da qui il titolo grecizzante Decameron: “il libro delle dieci giornate”, da deca “dieci” ed emerai “giorni”). È questa l’affascinante finzione narrativa da cui trae origine uno dei capolavori assoluti della letteratura europea. La datazione L’organizzazione del Decameron come libro organico di novelle avvenne quasi sicuramente tra il 1349 (l’anno successivo alla peste del 1348, da cui l’opera prende spunto) e il 1351. È assai probabile che gruppi di novelle siano nati in occasioni diverse e siano circolati autonomamente prima di essere inseriti nella raccolta e subordinati a un preciso disegno: un’ipotesi che sembra confermata dall’Introduzione alla IV giornata, in cui Boccaccio allude a reazioni negative di parte dei lettori nei confronti di alcune novelle (➜ T4b OL).
I modelli Le cento novelle del Decameron traggono molto spesso origine dal ricco materiale narrativo circolante all’epoca. L’operazione che Boccaccio compie nell’opera è quella di sottoporre le varie forme della narrativa breve testimoniate al suo tempo a una riscrittura critica che non esclude la parodia. Ciò vale soprattutto per gli exempla, con i quali il confronto è più diretto e polemico fino, appunto, alla parodizzazione vera e propria. Certamente la novella di Boccaccio si distingue per più di un aspetto dalla narrativa “esemplare”: mentre il fine dei testi esemplari era didattico-morale, il fine della novella boccacciana è edonistico, cioè di piacevole intrattenimento; la narrativa esemplare faceva dei personaggi delle astratte personificazioni di vizi e virtù, mentre la novella boccacciana mostra un’evidente intenzione realistica, conferendo ai personaggi uno spessore storico-sociale e una specifica psicologia; infine Il Proemio del Decameron in una pagina miniata l’intreccio non è subordinato alla dimostrazione (particolare inferiore del foglio) di Taddeo Crivelli di una tesi, ma è volto essenzialmente a illustrare la (1467 ca, Oxford, Bodleian Library). Il Decameron 2 627
varietà imprevedibile dei casi umani. La tradizione della narrativa esemplare e della letteratura edificante (come le Vite dei santi) è frequentemente parodizzata: ne è un esempio eloquente proprio la prima novella del Decameron, in cui ser Ciappelletto, un uomo cinico e immorale, viene alla fine addirittura “santificato”. Boccaccio utilizza anche il ricco materiale narrativo dei fabliaux, soprattutto per costruire situazioni comiche (per lo più in rapporto al tema della beffa) e per alimentare la componente licenziosa, assai presente nel libro. L’autore smorza però con mano ferma la popolaresca grossolanità propria dei fabliaux e conferisce così a una materia greve e “bassa” una superiore dignità artistica (➜ C3 PAG. 208). Non mancano, poi, nel Decameron spunti e soggetti tratti dalla letteratura cortese: l’inventiva di Boccaccio si manifesta anche in questo caso nel rovesciamento parodico o comunque in uno sviluppo inedito delle situazioni cortesi, che spiazza le attese del lettore. Per le sue trame e per i suoi personaggi Boccaccio si è infine certamente ispirato a racconti orientali e arabi e a fonti classiche, come il romanzo greco di età ellenistica (ne è un esempio la lunga novella che ha per protagonista la bella principessa Alatiel); elementi tipici dello schema narrativo romanzesco vengono però manipolati dall’autore o utilizzati in un diverso contesto, in modo tale da subire profonde metamorfosi. L’antecedente più diretto (e talvolta anche la fonte di qualche novella) è il Novellino, la prima testimonianza di un’antologia novellistica dell’area romanza, allestita verso la fine del Duecento, che già aveva assegnato al racconto prevalentemente un fine di piacevole intrattenimento e che aveva rivelato le potenzialità realistiche del genere.
2 La struttura e la poetica
PER APPROFONDIRE
La struttura Il Decameron si apre con un proemio che presenta l’opera, specificandone le finalità evasive e edonistiche e identificandone i destinatari nelle donne innamorate, bisognose di consolazione e di svago (➜ T4a ). Segue l’introduzione, che descrive ampiamente la situazione di Firenze colpita dalla peste, il degrado fisico e morale prodotto dall’infuriare dell’epidemia, quindi l’incontro nella chiesa di Santa Maria Novella di dieci giovani, cui segue la decisione, su proposta di una di loro (Pampinea), di abbandonare la città e di rifugiarsi in una villa in campagna. I giovani partono un mercoledì mattina, accompagnati dai servitori. Giunti a destinazione (successivamente si trasferiranno in un possedimento più lontano dalla
Il manoscritto autografo del Decameron: la volontà editoriale dell’autore Intorno al 1370, negli ultimi anni della sua vita, quando il Decameron circolava ormai da tempo, Boccaccio trascrive di suo pugno in un codice importante e prezioso la sua opera: volle che il suo Decameron fosse edito come libro “universitario”, proprio come la Commedia, dimostrando in questo modo la fiducia che la scrittura novellistica (un genere allora considerato ancora minore) potesse degnamente confrontarsi con modelli letterari alti. Con tale scelta, inoltre, Boccaccio intendeva probabilmente orientare in una specifica direzione la fruizione stessa del Decameron: il libro di novelle aveva sì incontrato largo suc-
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cesso, ma tra un pubblico quasi esclusivamente mercantile, mentre era stato di fatto “snobbato” dagli intellettuali, tra cui Petrarca stesso (➜ PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca un’amicizia con qualche punto di domanda, PAG. 613). Il manoscritto autografo (redatto cioè dall’autore in persona e perciò considerato l’originale, oltretutto arricchito di alcuni disegni a matita e acquerello dello stesso Boccaccio), è noto come codice berlinese Hamilton 90. Su di esso si è fondata l’edizione critica dell’opera (1976), curata da Vittore Branca.
città), essi tentano di ripristinare nel microcosmo della villa di campagna il decoro, l’armonia, i vincoli sociali, i valori morali, l’ordinata divisione della giornata che la peste aveva distrutto: al “trionfo della Morte” essi contrappongono il “trionfo della vita” come armonia e piacere. Ogni giorno viene eletto un “re” o una “regina” che decide il tema della giornata, al quale tutti si devono attenere, tranne uno dei giovani, Dioneo, a cui è consentita la scelta di qualsiasi argomento. Inoltre la prima e la nona giornata non sono vincolate a un tema fisso. Il soggiorno dura due settimane, ma le giornate di narrazione sono dieci (da qui il titolo che allude appunto a dieci giornate) perché i giovani decidono di sospendere la narrazione in due giorni, il venerdì e il sabato, dedicandoli a pratiche religiose e alla cura del corpo. Alla narrazione si alternano i commenti collettivi e singoli alle novelle e si aggiungono altre attività ludiche, come la danza, la musica e il canto. Terminato il soggiorno, i giovani rientrano in Firenze e la brigata si congeda proprio dove si era incontrata, nella chiesa di Santa Maria Novella. giornata
re o regina
tema
le parole del Boccaccio
prima (mercoledì)
Pampinea
tema libero
«si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno»
seconda (giovedì)
Filomena
storie sfortunate, ma a lieto fine con l’aiuto della fortuna
«si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine»
terza (domenica)
Neifile
storie di chi riesce a ottenere quanto desidera o a recuperare quanto ha perduto grazie al suo ingegno e alla sua abilità
«si ragiona […] di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse»
quarta (lunedì)
Filostrato
storie d’amore con un finale infausto
«si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine»
quinta (martedì)
Fiammetta
storie d’amore a lieto fine
«si ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse»
sesta (mercoledì)
Elissa
storie di chi riesce a risolvere una situazione difficile con una risposta pronta, arguta o con un motto di spirito
«si ragiona di chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno»
settima (giovedì)
Dioneo
storie di beffe ordite dalle mogli ai danni dei mariti
«si ragiona delle beffe, le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ lor mariti, senza essersene avveduti o sì»
ottava (domenica)
Lauretta
storie di beffe di vario tipo
«si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna a uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno»
nona (lunedì)
Emilia
tema libero
«si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada»
decima (martedì)
Panfilo
storie di chi in una determinata situazione si è comportato con cortesia e nobiltà d’animo
«si ragiona di chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa»
Il Decameron 2 629
Gli “interventi d’autore” Nel Proemio che apre l’opera prende la parola l’autore stesso, nelle vesti di narratore di primo grado. Alla sua “voce” appartengono anche alcune altre parti che potremmo definire metaletterarie, poiché contengono fondamentali dichiarazioni di poetica: l’Introduzione alla prima e alla quarta giornata (con la breve novella di Filippo Balducci, nota anche come “apologo delle papere”) e la Conclusione. Sono “interventi d’autore” che invitano i lettori a leggere l’opera nella giusta prospettiva e ne sottolineano la novità e l’importanza nel panorama letterario del tempo. online
Verso il Novecento Libri “galeotti”
MAPPA INTERATTIVA. LA PRESENZA FEMMINILE NEL DECAMERON
Il Proemio. Un’allusione enigmatica Nel Proemio l’autore presenta l’opera, definendone il fine e i destinatari: si rivolge alle donne e in particolare alle donne innamorate, dimostrando così di volersi ricollegare alla più alta tradizione letteraria. Il richiamo più immediato è alla canzone della Vita nuova in cui Dante aveva richiamato le medesime riceventi: Donne ch’avete intelletto d’amore. A Dante, e in particolare al quinto canto dell’Inferno (e al libro “galeotto”) allude anche il titolo-sommario preliminare: «Comincia il libro chiamato Decameron cognominato [soprannominato] prencipe Galeotto. Nel quale si contengono cento novelle...», un titolo che ha suscitato non pochi interrogativi. Il termine galeotto attribuito a un libro rimanda infatti al celebre episodio dantesco di Paolo e Francesca, indotti a cedere alla passione adultera dalla lettura di un romanzo del ciclo bretone. Il Decameron: strumento terapeutico contro la malinconia femminile? Forse Boccaccio vuol semplicemente dire che, come nel Lancelot du lac Galehaut (Galeotto) aiutò Lancillotto a conquistare l’amore di Ginevra, così il Decameron potrà aiutare le donne infelici per amore distraendole o suggerendo loro comportamenti utili. Facile preda della malinconia, infelici per amore, le donne non hanno, come invece gli uomini, occasioni sociali per distrarsi: le cento novelle si propongono, nell’intenzione del Boccaccio, quasi come uno strumento terapeutico che possa assicurare alle lettrici quel benessere psicologico che spesso è a loro precluso, oltre che dai casi della vita, dalle condizioni di costrizione e repressione cui sono soggette dalle regole sociali, uno strumento di liberazione – almeno nell’universo della letteratura – da una vita chiusa e apatica (➜ T4a ). Comunque lo si intenda, tuttavia, il sottotitolo del Decameron rimane ambiguo. I giovani riuniti ad ascoltare Pampinea all’inizio della prima giornata (disegno a inchiostro e acquerello, 1427, Parigi, Bibliothèque nationale).
630 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Le donne come simbolo di un nuovo pubblico Di fatto le donne innamorate rappresentano un pubblico ideale, disponibile ad accogliere senza pregiudizi le “novità” enunciate dalle novelle: un destinatario nuovo, che il Decameron si propone di iniziare al gusto di una letteratura divertente e al contempo “alta”, linguisticamente sostenuta, il cui scopo è il piacere della lettura e l’evasione, ma anche la conoscenza dei casi della vita, che comporta l’imparare a comportarsi nelle varie circostanze con saggezza e razionalità. Introduzione alla prima giornata L’autore si rivolge ancora alle donne, scusandosi per l’ambientazione della sua opera, la peste del Trecento a Firenze. Ma, una volta proclamata la necessità di ricordare la terribile pestilenza, le esorta a non allontanarsi dalla lettura perché a questo orrendo inizio faranno seguito racconti piacevoli. L’autore si difende dalle accuse Nell’Introduzione alla quarta giornata Boccaccio fa una vivace e risentita autodifesa dall’accusa di immoralità. Questa presa di posizione sembra dimostrare, come si è detto, la circolazione di singole novelle prima che il “libro” fosse organizzato nella forma definitiva (da qui il tentativo dello scrittore di modificare le reazioni sconcertate e polemiche dei primi lettori). L’autodifesa dell’autore si fonda sulla naturalità dell’istinto amoroso, a cui è inutile e persino dannoso opporsi: il concetto è ribadito dalla breve novella di Filippo Balducci che, attraverso una specie di apologo esemplare, dimostra l’impossibilità di reprimere l’attrazione sensuale appunto perché naturale (➜ T4b OL). Nella Conclusione (➜ T4c ), che è una sorta di postfazione, lo scrittore aggiunge nuove motivazioni alla sua autodifesa di fronte all’accusa di aver «troppa licenzia usata», esaltando l’importanza preminente della parola rispetto al contenuto: anche la materia più bassa, sostiene Boccaccio, e di per sé immorale può essere riscattata se espressa con «onesti vocaboli» e cioè con una lingua eletta e raffinata, quale appunto è quella del Decameron. Boccaccio sottolinea inoltre la circostanza eccezionale (la peste) in cui ha immaginato la narrazione delle cento novelle e la funzione prettamente evasiva di esse, nate per essere raccontate e ascoltate nell’incantato scenario di un locus amoenus.
Gli interventi di Boccaccio
Proemio e introduzione alla prima giornata
presenta l’opera, definisce il fine e i destinatari (le donne innamorate), si scusa con le donne per l’inizio dell’opera dedicato alla descrizione della peste
Introduzione alla IV giornata
si difende dall’accusa di immoralità: l’amore è un istinto naturale a cui è dannoso opporsi
Conclusione
esalta la lingua raffinata rispetto al contenuto e sottolinea il contesto (la peste) eccezionale in cui ha immaginato la narrazione delle novelle
Il Decameron 2 631
il gioco delle “voci narranti” 3 Lealacornice, dialettica delle interpretazioni
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Per approfondire La peste tra realtà e letteratura
I dieci giovani narratori del Decameron riuniti ad ascoltare una storia nella seconda giornata (miniatura del XIV secolo).
La cornice Oltre alle dichiarazioni di poetica, di cui abbiamo parlato, e alla voce narrante di primo grado, in cui si rispecchia l’autore stesso, si deve anche tenere conto della vera e propria “cornice” in cui si iscrivono le cento novelle: innanzitutto la descrizione dell’ epidemia di peste e delle sue conseguenze (➜ T5a ), che motiva la decisione dei dieci giovani di allontanarsi da Firenze; poi gli intermezzi tra una novella e l’altra, che descrivono le occupazioni raffinate della lieta brigata durante il soggiorno nella villa suburbana. La presenza di una cornice che ingloba i racconti non è un’invenzione originale del Boccaccio: era infatti già presente nella novellistica orientale e nella stessa tradizione romanza (ad esempio nel Libro dei sette savi), ma la complessità strutturale della cornice del Decameron non ha precedenti né termini reali di confronto. Soprattutto, mentre in altri esempi (come nelle celebri Mille e una notte) la cornice si limitava a collegare tra di loro i racconti, nell’opera in esame essa “dialoga” con i testi novellistici e costituisce quindi un livello testuale importante per ricostruire il significato complessivo dell’opera. Inoltre la cornice iscrive i racconti in un preciso contesto situazionale, istituendo con i lettori uno specifico “patto narrativo”: da un lato la narrazione delle novelle, anche delle più “trasgressive”, viene motivata dall’eccezionalità della situazione, dall’altro il clima raffinato e cortese in cui vengono narrate suggerisce ai fruitori una specifica modalità di ricezione delle novelle. Dunque la cornice non è, come un tempo si pensava, semplicemente un elemento “gotico”, un’elegante architettura che corrisponde al gusto medievale dell’ordine, ma è parte integrante della narrazione, cui conferisce un’organicità che fa del Decameron un macrotesto anziché una semplice antologia novellistica (➜ PER APPROFONDIRE Cos’è un macrotesto? C7, PAG. 514). I novellatori e la letteratura I dieci giovani novellatori non hanno un’identità realistica, a cominciare dai loro nomi, densi di allusioni letterarie, in parte autobiografiche: Pampinea compare in due opere di Boccaccio (Ameto e Bucolicum carmen); Elissa rimanda alla Didone virgiliana; Lauretta allude alla Laura cantata da Petrarca; Fiammetta e Panfilo erano i due amanti dell’Elegia di Madonna Fiammetta; Filostrato è protagonista di un’altra opera di Boccaccio; Dioneo (il cui nome allude alla passione amorosa, poiché Venere, la dea dell’amore, era figlia di Dione) era già stato citato in un’opera giovanile (Ameto) e in un’epistola di Boccaccio; Neifile (nome che può significare “la nuova innamorata” o “l’amante di amor nuovo”) potrebbe simboleggiare la poesia stilnovistica. Persino i servi hanno nomi tratti in prestito da Terenzio e Plauto. Quale significato si può attribuire a questa scelta autoriale? Lo scrittore intendeva forse segnalare ai lettori che i narratori non appartengono alla vita reale ma alla letteratura (e in particolare a una letteratura raffinata e cortese). Anche ciò che essi narrano, di conseguenza, è prima di tutto “letteratura” e non va quindi grossolanamente interpretato (come fecero poi tanti lettori del Decameron, scandalizzati o, al contrario, attratti dalla licenziosità di molte novelle).
632 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
La pluralità delle voci narranti e il carattere pluriprospettico del Decameron I dieci giovani costituiscono i narratori di secondo grado a cui l’autore-narratore di primo grado affida il compito di raccontare le cento novelle. Con la “delega” narrativa a più “voci” Boccaccio (consapevole della portata innovatrice e talvolta trasgressiva delle sue novelle) rinuncia ad assumere la diretta responsabilità di quanto viene narrato e a esprimere un giudizio univoco, dando così vita a una rappresentazione dinamica e problematica, in cui non esiste un unico punto di vista e un unico parametro di giudizio. Il gioco delle varie voci narranti – di primo, secondo e, se si considerano anche le voci dei personaggi, di terzo grado – crea una struttura narrativa “a scatole cinesi” come è stata felicemente definita: a questa scelta narratologica corrisponde una visione aperta e dinamica della realtà. Non è inoltre da trascurare il rapporto dialettico, che forse la critica non ha ancora del tutto indagato, tra le novelle e i preamboli e commenti che le precedono e seguono, ricollegandole alla situazione comunicativa creata dalla cornice: quest’ultima crea dunque con i testi un contrappunto costante, contribuendo in modo determinante al carattere pluriprospettico, non univoco, dell’opera. Come esempio si può citare il conflitto tra la storia dissacrante di ser Ciappelletto (I, 1), narrata da Panfilo e i commenti edificanti della brigata. O ancora si può confrontare il finale della novella di Nastagio (un rovesciamento ironico del modello morale degli exempla) con il commento di Fiammetta che, preparandosi a narrare la novella successiva, invita le donne a tenere una condotta morale e a non prendere a modello il comportamento delle ravennati. L’esemplarità della storia di Griselda (X, 10), che sembra volta a esaltarne la virtù, è dissacrata dal commento sarcastico di Dioneo (cosa che, tra l’altro, mette in dubbio la struttura ascensionale dell’opera ipotizzata da Branca).
PER APPROFONDIRE
I livelli di narrazione nel Decameron Narratore di 1° livello
l’autore stesso: Giovanni Boccaccio
Narratore di 2° livello
i giovani della lieta brigata
Narratore di 3° livello
i personaggi delle novelle che, a loro volta, raccontano una storia
Una comunicazione paritaria: il simbolo del “cerchio” La “lieta brigata” è caratterizzata da omogeneità sociale e culturale, da piena parità tra uomini e donne, accomunati dal piacere del narrare e dell’ascoltare. La situazione comunicativa in cui si iscrive la narrazione nel Decameron è simboleggiata dalla figura geometrica del cerchio: è in cerchio, seduti sul prato, che i novellatori si dispongono ogni volta per narrare a turno. Nelle intenzioni di Boccaccio questo gesto rituale vuole forse avere un valore indirettamente polemico nei confronti di altri modi di narrazione: in particolare delle prediche e delle narrazioni esemplari, che vedevano il predicatore arringare dall’alto del pulpito i fedeli, spesso sprovveduti e ingenui (come i certaldesi ingannati dallo scaltro frate Cipolla); ma anche delle recite giullaresche, in cui il giullare dal suo improvvisato palcoscenico intratteneva un pubblico eterogeneo. A forme di comunicazione narrativa «autoritarie o imbonitorie» (Picone), Boccaccio contrappone l’armonia
fra novellatori e ascoltatori, uniti nel cerchio perfetto di una comunicazione paritaria.
Un racconto dal Decameron in un dipinto di John William Waterhouse (1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool).
Il Decameron 2 633
4 L’ideologia di Boccaccio: fra innovazione e tradizione
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Per approfondire Un “disegno ascensionale” o piuttosto un mondo “orizzontale”?
Una visione del mondo problematica e aperta Tra la conclusione della Commedia (1321) e la stesura del Decameron (1349-1351) intercorrono soltanto trent’anni, ma la prospettiva che ispira il capolavoro di Boccaccio è radicalmente mutata rispetto al modello dantesco: mentre nella Commedia eventi e comportamenti umani sono soggetti a un rigoroso e univoco giudizio etico-religioso e si iscrivono in un disegno provvidenziale, nel Decameron la prospettiva del trascendente è di fatto assente. La realtà è rappresentata da Boccaccio in una dimensione esclusivamente terrena, in cui la libera iniziativa dell’uomo può essere favorita o ostacolata dai cambiamenti e rovesciamenti operati dal caso. Non esiste più nel Decameron un criterio assoluto di tipo religioso per valutare l’azione dell’uomo, ma sfaccettate, molteplici, “verità”: il bene può allora coincidere con l’utile o con il soddisfacimento dei propri desideri (anche quelli carnali). Ovviamente, la rinuncia a subordinare la sua opera ai dettami della morale cristiana non implica da parte di Boccaccio una professione di irreligiosità (inconcepibile, del resto, a quel tempo), sebbene egli condanni, per lo più attraverso il registro comico, la corruzione e l’ipocrisia della Chiesa. Un’ideologia sociale di transizione Anche per quanto riguarda l’ottica sociale che emerge dal complesso dell’opera è possibile riconoscere la presenza di una visione che non nega il “nuovo” emergente nella società (identificabile nel ceto borghesemercantile), ma al contempo non rigetta la visione e i modelli di comportamento dell’età appena trascorsa. Un’ottica, dunque, di transizione, sospesa tra innovazione e tradizione. Nel Decameron domina la nuova classe borghese mercantile, di cui Boccaccio apprezza la dinamicità e lo spregiudicato spirito d’iniziativa. Ma questo non implica affatto che lo scrittore si faccia portavoce delle idee e dell’ideologia di questa parte della società in modo incondizionato: non manca infatti di rappresentarne i limiti – quali l’avidità, la grettezza, il cinismo – espressioni di un’“economicità” che tende a sostituirsi ai valori morali e ai sentimenti, come nella prima novella o nel ritratto a tinte fosche dei fratelli della sventurata Lisabetta da Messina (➜ T7b ), che non esitano a sacrificare una vita umana alle “ragioni della mercatura”. Più che all’ottica mercantile, Boccaccio mostra piuttosto di aderire ai modelli culturali e di comportamento propri del mondo aristocratico e della civiltà cortese-cavalleresca (un mondo che aveva personalmente frequentato alla corte di Napoli): non a caso il Decameron si conclude, nella decima giornata, con una carrellata di personaggi e di situazioni che si legano proprio a quel passato, quasi a voler indicare ai contemporanei dei modelli ideali. Boccaccio pensa però che i modelli cortesi-aristocratici debbano conciliarsi con una visione più pragmatica, adattandosi così ai bisogni della nuova élite cittadina: della conciliazione tra ideale cortese e ottica borghese è testimonianza paradigmatica la celebre novella di Federigo degli Alberighi (➜ T9c ). Il popolo in genere è guardato con simpatia, ma anche con sorridente ironia da un punto di vista che è comunque ad esso superiore. In questo senso la visione di Boccaccio è prettamente conservatrice, perché le distanze sociali non solo non vengono criticate, ma sono accettate come un dato di fatto. Le barriere che dividono le classi si possono superare solo eccezionalmente e temporaneamente, grazie magari a un motto di spirito, frutto di un’intelligenza acuta che può esistere anche tra i membri più umili del popolo, come nel caso di Cisti fornaio (II, 6): la sola democrazia possibile per Boccaccio è dunque quella dell’ingegno.
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5 I temi L’amore… le donne Centralità del tema dell’amore e novità nella rappresentazione dei comportamenti amorosi Tra le forze terrene che dominano i comportamenti umani e che Boccaccio rappresenta nel Decameron c’è anzitutto l’amore, che ne costituisce l’area tematica principale: tre intere giornate sono espressamente dedicate all’argomento (la terza, la quarta, la quinta) e ne hanno a che fare ben 66 novelle su 100; inoltre è altissima nell’opera la frequenza di termini come donna, amore, femmina, nelle infinite varianti lessicali. L’amore era certamente una materia privilegiata dalla tradizione letteraria medievale, sia in ambito narrativo (nell’area francese) sia lirico (nell’area provenzale e stilnovisticopetrarchesca). In contrasto, però, con tale autorevole tradizione, nel Decameron la rappresentazione dell’amore non è soggetta a censure morali o a preclusioni ideologiche. Nella tradizione medievale, l’attrazione sensuale era stata condannata (come negli exempla dei predicatori) o tutt’al più sublimata (nella linea stilnovistico-dantesca), e ancora nel Petrarca provocava sensi di colpa. Boccaccio considera invece l’amore una naturale forza istintuale (come dimostra esemplarmente la “novelletta delle papere” in IV, 1 ➜ T4b OL), da accettare a prescindere da una sua ipotetica funzione salvifica, una forza «alle cui leggi voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano». La valorizzazione del corpo e il ribaltamento della tradizione misogina Boccaccio rifiuta una concezione sublimante dell’amore: per quanto alto e nobile possa essere, l’amore nelle novelle è sempre legato all’appagamento fisico. Di conseguenza nel Decameron trova posto la valorizzazione antiascetica del corpo, evidente in alcuni celebri nudi femminili (ad es. quello di Efigenia nella novella di Cimone [V, 1] e quelli delle novellatrici al bagno alla fine della sesta giornata). La difesa delle pulsioni erotiche contro ogni forma di repressione sociale, e soprattutto di censura letteraria, è strettamente associata nel libro alla valorizzazione delle donne, alle quali l’opera significativamente è dedicata. Boccaccio ribalta di fatto la tradizione misogina del Medioevo (➜ C9), legata al prevalere di una cultura dominata dalla Chiesa, ma mette anche in discussione modelli laici di comportamento femminile, come il Reggimento e costume di donna di Francesco da Barberino (1318-20): un trattato in cui si dava voce al punto di vista del ceto medio trecentesco municipale sull’educazione femminile. Oltre la donna angelicata La donna nel Decameron non è più evanescente apparizione angelica, come negli stilnovisti e in Dante, ma ha sempre reale consistenza di personaggio: le donne che entrano in scena nell’opera sono donne vere, storicamente identificate, di cui Boccaccio mette in rilievo i concreti condizionamenti psicologici, morali e religiosi. Non è certo un caso che Boccaccio scelga una donna per guidare il gruppo e per convincerlo a lasciare Firenze: le donne nel Decameron sono dunque capaci di iniziativa. Donne intente a filare e tessere, miniatura da una traduzione francese (1401-02) del De mulieribus claris o De casibus virorum et mulierum illustrium di Boccaccio. Bibliothèque nationale, Parigi.
Il Decameron 2 635
Una casistica varia L’amore è rappresentato attraverso un’ampia casistica e una grande varietà stilistica: può legarsi a toni tragici, come nella novella di Lisabetta (➜ T7b ) o di Tancredi e Ghismonda (➜ T7a ), oppure comici, come nella novella della badessa e delle brache (➜ T8a ); può essere istinto sessuale elementare, come nel caso di Peronella (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 706), oppure nobile e disinteressato, come nel caso di Federigo degli Alberighi (➜ T9c ) e identificarsi nell’amore cortese, soprattutto nella decima giornata (ad es. re Carlo e la Lisa: X, 6) che testimonia il complesso rapporto esistente nel Decameron fra tradizione e innovazione. Boccaccio supera le discriminazioni proprie della tradizione cortese, che consideravano l’esperienza d’amore sublime come esclusivo privilegio delle classi superiori. Il “grande amore” o l’amore “tragico” può essere vissuto anche dalle classi subalterne («quantunque Amor volentieri le case dei nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo ’mperio di quelle dei poveri»). Questa «democrazia del cuore umano», come è stata efficacemente definita, trova nella vicenda tragica di due umili filatori, Simona e Pasquino, un’esemplare realizzazione (➜ T7c OL).
L’intelligenza: l’industria Una qualità mondana Oltre che dall’amore, l’agire umano è guidato dall’intelligenza (l’industria dell’uomo, che sa trarre vantaggio dalle situazioni), la cui valorizzazione costituisce una delle novità più rilevanti dell’opera di Boccaccio: una qualità prettamente mondana, che testimonia una visione laica della vita e dell’agire umano. Nell’intelligenza si assommano diverse qualità: dalla capacità di scegliere il comportamento più adatto a una certa situazione, alla prontezza di spirito che permette di risolvere brillantemente una situazione difficile, alla battuta pronta e arguta. Una qualità borghese Si tratta certamente di abilità fondamentali per emergere nella società mercantile nella quale viveva Boccaccio, come nel mondo cortese lo erano stati la liberalità, il coraggio, il valore militare: a testimonianza della radice borghese di questo tema è significativo il fatto che, come sottolinea Mario Baratto, nel Decameron sia attestato molto più il termine ingegno (traduzione di qualità intellettuali nel concreto di una situazione) che non intelletto (qualità intellettuale colta in sé, in astratto). Una qualità fiorentina Nel Decameron la rappresentazione dell’ingegno è preferibilmente contestualizzata nell’ambiente fiorentino: è a Firenze infatti che si ritrovano le testimonianze più frequenti e significative di questa qualità (come se fossero quasi un “marchio” locale). Le novelle della VI giornata, dedicate ai «leggiadri motti», sono nella stragrande maggioranza ambientate nella città toscana, così come le novelle legate al tema della beffa, che occupa le giornate VII e VIII. Nuove categorie di giudizio Nella sua opera Boccaccio contrappone agli sciocchi i saggi e gli astuti, ai quali va la sua evidente simpatia. Al criterio di giudizio etico-religioso, che distingueva gli uomini in morali e immorali, buoni e malvagi, nel Decameron tende a sostituirsi un nuovo tipo di classificazione fondato sulla contrapposizione fra sciocchi e savi. Una classificazione che deriva chiaramente dall’emergere di una morale laica e dal prevalere di un’ottica borghese-mercantile. La tipologia umana degli ingenui creduloni, destinati a essere perennemente beffati e derisi, è incarnata nell’opera soprattutto dal personaggio di Calandrino (➜ T10a e ➜ T10d ), un pittore realmente esistito, protagonista di una sorta di “ciclo narrativo” (VIII, 3 e 6; IX, 3 e 5).
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La casistica dell’intelligenza Come per l’amore, anche la rappresentazione dell’intelligenza si concretizza in una vasta casistica, a seconda dei tipi umani e delle categorie sociali: si va dalla superiorità intellettuale di Cavalcanti (VI, 9) che si manifesta in una battuta “ermetica” che ben pochi possono capire, all’ideazione di beffe (talvolta crudeli) a danno degli sciocchi, alle prove di intelligenza nella sua accezione più elevata. Boccaccio valorizza spesso nella sua opera il binomio intelligenza-dialettica (nel senso di uso accorto della parola), come nel caso della celebre confessione di ser Ciappelletto che apre il Decameron (➜ T6a ), della brillante performance con cui riesce sorprendentemente a cavarsela l’indimenticabile frate Cipolla (➜ T6d ) e anche della furba Peronella (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 706), sorpresa dal marito mentre riceve in casa il suo amante.
La fortuna Una forza incontrollabile Anche gli uomini che sono dotati di un’intelligenza pronta devono però misurarsi con un’entità che sfugge al loro controllo: la fortuna. Boccaccio definisce Fortuna e Natura «le due ministre del mondo». Se riconoscere l’esistenza degli istinti naturali permette di poterli dominare, per Boccaccio è altrettanto inequivocabile il dominio della fortuna sulle sorti umane: si dovrebbe riflettere – afferma all’inizio della terza novella della seconda giornata – che «tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei, secondo il suo occulto giudicio, […] senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate». La Fortuna fa girare la ruota. Miniatura dal De casibus virorum et mulierum illustrium di Boccaccio (Parigi, 1467).
Un tema tradizionale rivisitato in chiave laica e preumanistica Il tema della fortuna rappresenta certamente un’eredità propria della cultura medievale: nella Commedia (If VII, 78) essa viene definita «general ministra e duce (cioè guida)» delle cose umane. Ma Boccaccio prospetta il tema in modo nuovo, anticipando le posizioni della cultura umanistico-rinascimentale: infatti nel Decameron la fortuna non è più strumento di un disegno provvidenziale e non si iscrive in una dimensione sovrannaturale, ma è una forza esclusivamente terrena e laica (per lo meno nelle novelle, poiché nei preamboli sopravvive qualche traccia di una visione tomistico-medievale dell’elemento: un’ennesima conferma, questa, del carattere “aperto” e problematico dell’opera). La fortuna nel Decameron può essere un insieme di coincidenze imprevedibili, oppure una forza della natura (la tempesta nella novella di Landolfo Rufolo ➜ T9a ) o ancora un avvenimento casuale, magari banale e di per sé insignificante, ma capace di mettere in moto una catena di conseguenze (ad es., l’asse sconnessa che fa precipitare Andreuccio da Perugia, dando inizio alle sue avventure notturne ➜ T9b ). La fusione dei temi Nel concreto realizzarsi delle novelle, i vari temi che abbiamo presentato si fondono l’uno con l’altro. Nella storia di Andreuccio, ad esempio o in quella di Landolfo Rufolo, il tema della fortuna si fonde alla fine con quello dell’intelligenza; nella strutturazione dell’intreccio di altre novelle è l’amore a fondersi con il tema della sorte (Simona e Pasquino); ancora, l’intelligenza può essere finalizzata all’amore (Nastagio degli Onesti sfrutta astutamente una strana circostanza per realizzare il suo desiderio amoroso ➜ T6c ) e così via. Il Decameron 2 637
I temi del Decameron Amore
Intelligenza
• tema naturale • dominante forza istintuale • spesso legato all’appagamento fisico • un’ampia casistica
• l’ingegno • la capacità di trarre vantaggio da una situazione • lo spirito d’iniziativa
Fortuna
• non è strumento della Provvidenza • è considerata da un’ottica laica e terrena
6 La fondazione del realismo: i personaggi, il modello spaziale Una delle etichette critiche tradizionalmente associate al capolavoro di Boccaccio è quella di “realismo”. Cercheremo di chiarire in che senso si possa parlare di “realismo” per il Decameron, ed entro quali limiti. La verosimiglianza psicologica dei personaggi Nella rappresentazione dei molteplici personaggi che popolano il Decameron, Boccaccio si allontana decisamente dalla narrativa degli exempla: mentre questa tendeva a minimizzare le caratterizzazioni individuali e sociali del soggetto per farne l’astratta personificazione di vizi e virtù, Boccaccio «restituisce la situazione umana all’esperienza sociale, storica, topografica, perfino familiare» (Battaglia), conferendo per la prima volta verosimiglianza psicologica ai suoi personaggi. online
Per approfondire Il concetto di realismo
Il Decameron come ritratto della società trecentesca Questa particolare natura del personaggio, fino ad allora inedita, fa sì che il Decameron possa essere letto anche come il “romanzo” della società trecentesca, e in particolare della realtà cittadina, ritratta nelle sue tipologie umane, nei suoi costumi, mentalità, valori, pregi e difetti. È infatti soprattutto dalla realtà cittadina, in particolare fiorentina, che Boccaccio attinge per creare la maggior parte dei suoi protagonisti: dalla classe dirigente aristocratico-borghese, ai mercanti, ai rappresentanti del mondo delle professioni (medici, uomini di legge), agli artigiani, agli intellettuali, al popolo. Non mancano esponenti del ceto ecclesiastico: dai grandi personaggi come l’abate di Clignì al povero clero di campagna. L’epopea dei mercanti La figura più tipica del mondo boccacciano è sicuramente quella del mercante, protagonista di molte novelle (ad es. I, 1; II, 4 e 5: Landolfo e Andreuccio; II, 2; IV, 5; VII, 8; VIII, 10) e figura emergente nella vita sociale del tempo, in particolare fiorentina: un mondo, quello mercantile, conosciuto da Boccaccio in prima persona durante il soggiorno napoletano e così presente nel Decameron da indurre Vittore Branca a definire l’opera come «epopea dei mercanti»; in particolare la seconda giornata, quella dedicata all’avventura e alla fortuna, porta, secondo il critico, un «suggello mercantile».
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Una nuova rappresentazione spazio-temporale Al realismo del Decameron contribuisce anche la rappresentazione spazio-temporale: Boccaccio precisa sempre queste due tipologie di coordinate di una vicenda, differenziandosi ancora una volta dalla narrativa esemplare e in genere dalle raffigurazioni medievali (ad es. nella Vita nuova gli spazi sono indeterminati e “incolori”, e la stessa scansione temporale ha carattere più allusivo-simbolico che reale). A proposito dell’inquadramento temporale, è stata sottolineata la “contemporaneizzazione” delle vicende rappresentate, cioè la tendenza dell’autore ad ambientare preferibilmente le novelle nel proprio tempo. Spazi realistici e non più simbolici Le raffigurazioni medievali dello spazio in genere non avevano la funzione di descrivere realisticamente un luogo, ma di alludere a una dimensione spirituale: ad esempio, nelle Vite dei santi i deserti e le foreste dove si svolge l’azione costituiscono delle proiezioni simboliche dell’isolamento dell’asceta. Favolose e non realistiche sono anche le selve in cui si addentrano gli eroi dei romanzi cavallereschi nei loro avventurosi percorsi esistenziali. A questa tipologia di raffigurazione dello spazio contribuiva anche una conoscenza geografica ancora vaga e sommaria; i pellegrinaggi religiosi (tra XI e XIV secolo) e soprattutto l’espansione commerciale offrirono un contributo determinante per una nuova visione del mondo, ben testimoniata dal Decameron: nell’opera del Boccaccio le azioni e le avventure sono quasi sempre calate in luoghi precisi, dislocati in un orizzonte reale, non immaginario né simbolico o indeterminato. Lo spazio dei mercanti Luoghi privilegiati dalla rappresentazione di Boccaccio sono quelli frequentati realmente dai mercanti: dalle città italiane come Napoli, Genova, Palermo a Parigi, Marsiglia, le cittadine della Borgogna e delle Fiandre. Ma teatro delle avventure mercantili è soprattutto il Mediterraneo (numerose sono le novelle “marine”, la più emblematica delle quali è quella di Landolfo Rufolo). Dominante nel Decameron è comunque l’ambiente cittadino, descritto con particolari realistici: in particolare la Firenze contemporanea, ritratta con precisione nelle sue vie, contrade e chiese.
7 Il Decameron come laboratorio narratologico Una nuova “modernità” per il Decameron Del Decameron la critica ha messo in luce ormai da tempo le novità ideologiche rispetto al panorama letterario coevo, la prospettiva eminentemente laica e terrena, così come la rappresentazione realistica delle più varie tipologie umane. Recentemente, però, l’indagine critica si è spostata piuttosto sulle sue modalità narrative. Ci si è resi conto che l’interesse forse principale di Boccaccio è l’esplorazione consapevole delle diverse potenzialità narrativo-espressive del racconto e il gusto di manipolare le più varie fonti in un raffinato gioco combinatorio. È soprattutto in questa prospettiva che oggi questo capolavoro appare “moderno” e in grado di competere, quanto a sofisticati procedimenti di riscrittura e parodia, con scrittori come Calvino, Gadda o Borges. Il Decameron 2 639
Illustrazione per la novella di Tedaldo degli Elisei e monna Ermellina (Decameron, III, 7), miniatura francese del XV secolo. Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi.
L’esplorazione delle potenzialità del raccontare Boccaccio fonda il genere della novella e ne consacra autorevolmente il ruolo nel sistema letterario italiano portandolo subito a livelli artistici che rimarranno ineguagliati nel tempo. All’interno della forma-novella, in realtà, sono presenti nel Decameron – come ha evidenziato Mario Baratto – diverse tipologie, che ne rendono l’universo narrativo estremamente vario. Ne ricordiamo qui alcune: • in certe novelle, che Baratto definisce novelle-racconto, Boccaccio pone in primo piano il ritmo narrativo in sé e per sé, il susseguirsi dei fatti secondo l’incidenza capricciosa di elementi casuali imprevedibili. L’esempio più radicale di tale tipologia è la novella che ha per protagonista la bella Alatiel (II, 7): in essa domina la Fortuna, intesa come imprevedibilità degli eventi, mentre la protagonista non ha alcuna reale fisionomia di personaggio, ma è “funzione” del racconto. La costante che accomuna questa tipologia di racconti è rappresentata dall’importanza che in tutte ha il caso, vero protagonista. A un certo punto della vicenda si inserisce sempre un elemento incontrollabile: in II, 5 (la celebre novella di Andreuccio da Perugia) la tavola su cui Andreuccio mette il piede cede e per il povero giovane inizia una notte a dir poco avventurosa (➜ T9b ). Spesso lo scenario (e insieme la fonte) di imprevedibili accadimenti è la notte, complice l’oscurità; • una diversa tipologia narrativa è quella che avvicina la novella, o sezioni di essa, al romanzo: di solito si tratta di un testo non breve, con intreccio complesso, che lascia spazio all’analisi psicologica del personaggio; in questa tipologia l’avventura non interessa di per sé ma in quanto «evento psicologico essenziale nella storia di un personaggio» (Baratto). Nella novella-romanzo il fulcro dell’interesse dell’autore è sempre il protagonista, l’evoluzione della sua storia interiore: a titolo di esempio si può citare la notissima vicenda di Federigo degli Alberighi (➜ T9c ) o la meno nota e tragica storia di Girolamo e Salvestra (IV, 8). In queste novelle quasi sempre l’amore ha un ruolo centrale, non come nella prima tipologia che abbiamo sopra nominato. A volte il racconto-romanzo interessa diversi anni, costruendo veri e propri capitoli della vita di un personaggio, come nel caso della complicata storia del conte d’Anguersa (II, 8); • la novella vera e propria coglie invece il personaggio in un momento particolare e specifico, in un momento rivelatore, costituendo un episodio degno di essere raccontato. Un esempio canonico può essere la celebre novella di Chichibìo e la gru, un racconto “leggero”, il cui senso è affidato alla sagace prontezza di spirito del protagonista, che risolve con una battuta pronta una incresciosa situazione. Il critico Mario Baratto (1920-1984) ha evidenziato inoltre nel Decameron la presenza di componenti “teatrali”, che ben possono spiegare la fortuna del modello boccacciano nel teatro rinascimentale (➜ VOL 1B C7), in particolare nella commedia, che ne riprenderà personaggi (come Calandrino), intrecci, situazioni. Emblematica in questo senso è la prima storia della raccolta, tutta centrata sulle possibilità della parola comica, sfruttata fino alle estreme conseguenze da ser Ciappelletto: la sua è la magistrale recita in punto di morte di un grande attore, alla presenza di un vero e proprio “pubblico” (i fratelli usurai che, pur non visti, assistono alla sua straordinaria performance ➜ T6a ). Un attore teatrale vero e proprio è anche frate Cipolla, capace di una straordinaria improvvisazione che travolge il pubblico dei fedeli di un piccolo borgo.
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La poetica del “gioco intellettuale” e la manipolazione ironica dei modelli Secondo un’interpretazione critica che condividiamo, il Decameron può essere letto come espressione di una poetica del “divertimento intellettuale” raffinato e colto, che si manifesta particolarmente nella manipolazione ironica dei modelli. Una poetica che, secondo le linee critiche più recenti e accreditate, si adatta a Boccaccio ben più di quella del dissacratore a tutti i costi, portavoce di un’ideologia trasgressiva, quale è stato per lo più definito. In questa prospettiva anche la parodia, assai comune nel Decameron, non implica necessariamente, come si pensava, una volontà ideologica dissacrante da parte dell’autore, ma si deve intendere innanzitutto come divertito rovesciamento di modelli letterari riconosciuti. Il lettore ideale del Decameron Un divertimento colto, quello che vuole raggiungere Boccaccio, a cui è invitato a partecipare anche il lettore che, nelle intenzioni dell’autore, deve essere in grado di decifrare l’operazione condotta. Di fatto il “lettore ideale” a cui pensa Boccaccio deve assumere esattamente lo stesso atteggiamento dei dieci novellatori: partecipare al gioco collettivo del raccontare senza frapporre pregiudizi e censure fra sé e la pagina, ma mantenere al contempo, anche di fronte ai racconti più scabrosi, un atteggiamento di signorile e razionale distacco che consente di distinguere tra vita e letteratura (e il Centonovelle, per Boccaccio, è letteratura). La parodia è in primo piano già nelle due novelle che aprono la prima e la seconda giornata, in cui Boccaccio ironizza sulla letteratura agiografica (le popolarissime Vite dei santi) ed esemplare: nella storia di Martellino che si finge miracolato (➜ T6b OL) si può vedere il rovesciamento “carnevalesco” dei miracoli, che sono un riferimento d’obbligo in ogni Vita di un santo. Nella celebre prima novella del Decameron si narra la «santa morte» del malvagio e blasfemo Ciappelletto (➜ T6a ) in seguito a una falsa confessione che persino nel linguaggio imita, parodizzandoli, i modelli di penitenza diffusi ai tempi. Anche nei confronti della letteratura romanzesca e cavalleresca Boccaccio attua procedimenti di riscrittura ironizzante: ad esempio nella novella, già sopra citata, che ha come protagonista la bellissima Alatiel, viene ironizzato un vero topos della letteratura esemplare, ma anche delle narrazioni cavalleresche e fiabesche: la vicenda straordinaria di «vergini […] passate intatte tra i pericoli più aspri e la più lasciva cupidigia degli uomini» (Branca). Anche Alatiel vaga per tutto il Mediterraneo, è concupita da ben nove uomini, ma è del tutto condiscendente, essendo un vero e proprio «animale erotico», come è stata efficacemente definita. Ironica suona, dunque, la finale asserzione della sua intatta “verginità”. Spesso Boccaccio riprende in chiave comica gli espedienti tipici della narrazione romanzesca: ad esempio l’imminenza di gravi pericoli, gli inganni e le circostanze avverse che mettono in grave difficoltà il protagonista sono ripresi nelle mirabolanti avventure che vedono coinvolto il giovane mercante Andreuccio da Perugia (➜ T9b ). Alla metamorfosi comica degli schemi romanzeschi contribuisce qui in modo rilevante la riduzione dello “spazio avventuroso”, di solito remoto e favoloso, entro un ambito municipale. Oltre la novella: il Decameron come macrotesto Il Decameron non è un semplice aggregato di novelle, ma un “libro”, di cui l’autore ha voluto sottolineare l’organicità sigillandolo, con una medesima etichetta per l’inizio («Comincia il libro chiamato Decameron») e la chiusura («Qui finisce la decima e ultima giornata del libro chiamato Decameron...»). Così come per il Canzoniere di Petrarca, anche per il capolavoro Il Decameron 2 641
di Boccaccio è legittimo usare la categoria critica di “macrotesto”, innanzitutto per la funzione della cornice, che collega tra di loro i racconti in una struttura architettonicamente unitaria e conchiusa. Non è un caso, quindi, che il Decameron ci sia giunto integro e compiuto, a differenza di altre raccolte novellistiche. La critica ha inoltre sottolineato le ricorrenze interne all’opera, le corrispondenze e i richiami tra le novelle, che fanno dell’opera non un’antologia slegata di testi, ma un organismo saldamente unitario. Già nell’organizzazione che presiede alle singole giornate si manifesta una coscienza progettuale e macrotestuale: otto su dieci, infatti, prevedono per il novellare un tema che funge da principio organizzativo e “ordinante”; e il “tema” della giornata è un programma narrativo di massima, esplicato poi in modo molto diverso dai novellatori, ma sempre con una salda visione d’insieme. Inoltre, l’ordine delle novelle all’interno della giornata e all’interno dell’opera probabilmente non è casuale, ma corrisponde, almeno in alcuni casi, alla volontà di Boccaccio di istituire determinati collegamenti e percorsi. Ad esempio, le novelle che aprono le prime tre giornate sono accomunate non solo dal tema (in tutti e tre i casi la religione o ambienti e usi legati al clero), ma anche dalla parodia della letteratura agiografica e edificante. La vicinanza tra novelle implica spesso precise analogie, come nel caso del dittico che, nella quinta giornata, ha come protagonisti Nastagio degli Onesti (➜ T6c ) e Federigo degli Alberighi (➜ T9c ): due amori devastanti non corrisposti approdano imprevedibilmente al lieto fine del matrimonio.
8 Lo stile e la lingua Parlare della prosa del Boccaccio è importante innanzitutto in prospettiva storica: il Decameron influenzò infatti per secoli le strutture della prosa e della lingua italiana, grazie alla “consacrazione” del suo autore come modello linguistico da imitare che si verificò nel Cinquecento ad opera di Pietro Bembo. Il Decameron come modello di stile “tragico” Lo stile di Boccaccio che fece scuola fu però esclusivamente quello “tragico”, alto, latineggiante nell’uso di un periodare ampio e sostenuto, ricco di incisi e subordinate, e nei costrutti sintattici (ricorre in particolare la collocazione del verbo in fondo): uno stile “difficile” per il lettore di oggi, ma che corrispondeva perfettamente al gusto classicheggiante e aristocratico del Rinascimento. Questo stile è testimoniato nell’Introduzione, nella cornice che collega le novelle (e in particolare nei preamboli che le introducono), oltre che negli “interventi d’autore” e cioè nelle pagine in cui Boccaccio presenta e difende opera e poetica. Viene inoltre utilizzato nelle novelle della decima giornata (che celebrano qualità e personaggi appartenenti al mondo cortese), ma anche in altre occasioni in cui il tema, il personaggio e/o la situazione richiedono uno stile elevato. Ciò rispecchiava l’ambizione di Boccaccio di scrivere un’opera che rispondesse ai precetti retorici delle artes dictandi e che, per eleganza e padronanza degli strumenti espressivi, si collocasse ai vertici della prosa d’arte medievale. La mimesi del parlato e il realismo rappresentativo Esiste però nell’opera anche un registro espressivo completamente diverso, modellato sulla mimesi del parlato nelle scelte lessicali e nella sintassi colloquiale; è impiegato in particolare nei discorsi diretti, nei quali il novellatore di turno dà la parola direttamente al personaggio. A questo proposito si parla spesso di “realismo” espressivo di Boccaccio: bisogna però
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precisare che il realismo linguistico-stilistico, si rifà al principio – classico e medievale – della coerenza tra stile e materia, enunciato anche nel De vulgari eloquentia di Dante. Il principio è ribadito da Boccaccio stesso nella Conclusione, dove asserisce che la «licenza» presente in alcune novelle è stata espressamente richiesta dalla natura delle novelle stesse. Su questa base Boccaccio riproduce le particolarità linguistiche di ambienti sociali diversi (mondo borghese, popolare, campagnolo), mimando persino le inflessioni dialettali locali (come il veneziano, il senese o il napoletano), e anche i linguaggi “settoriali”, come il gergo mercantesco o la lingua della legge o della Chiesa, o ancora le espressioni tipiche dei principali codici culturali del tempo (come la lirica cortese-stilnovistica). Boccaccio stesso riconosce il carattere composito della propria lingua, e nella Conclusione dell’opera lo mette in relazione con il carattere aperto della vita: «Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in mutamento, e così potrebbe della mia lingua essere intervenuto». È un’asserzione che autorizza la varietà e mescolanza degli stili, necessaria a rappresentare la varietà e mobilità della vita. online
Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio I confini del realismo decameroniano
La bifrontalità comico/tragico La rappresentazione della ricchezza della vita tende a polarizzarsi in una «potente bifrontalità» (Branca) comico-tragica, esemplarmente testimoniata dalle novelle in apertura (“comiche”) e in chiusura (”tragiche”), ma che talvolta è persino presente in uno stesso testo. Nel Decameron lo stile “comico” e “umile” ha in genere a che fare con la realtà contemporanea, con gli spazi della città o della campagna e le classi sociali più basse o borghesi; invece lo stile “tragico” e “sublime” si lega tendenzialmente all’evocazione di un mondo passato, ad ambienti raffinati e connota in genere un’umanità composta da nobili e intellettuali. Il realismo del Decameron: un’etichetta riduttiva L’etichetta di “realismo” risulta però riduttiva se si tiene conto del virtuosismo espressivo che percorre l’opera e, soprattutto, del fatto che solo in parte essa risponde a intenti “realistici”: Boccaccio vi mostra un vero e proprio compiacimento nell’uso di artifici e figure retoriche, nella ricerca di effetti ritmici e di parallelismi all’interno dei periodi. L’uso realistico del linguaggio e dello stile si alterna alla ricerca di particolari effetti espressivi, al gusto dell’allusione letteraria, della parodia linguistica e della contaminazione degli stili. Anche per la scelta plurilinguistica, dunque, e per la straordinaria ricchezza dei registri espressivi, oltre che per l’ampiezza della rappresentazione, il Decameron può competere con la Divina Commedia.
Il Decameron GENERE
raccolta di novelle
COMPOSIZIONE
l’opera viene scritta tra il 1349 e il 1351
STRUTTURA
100 novelle raccontate in 10 giorni da 10 novellatori unite da una cornice narrativa
DESTINATARI
le donne innamorate
TEMI
la fortuna, l’amore, l’industria umana
STILE
varietà dei registri stilistici e linguistici
Il Decameron 2 643
T4
Dichiarazioni di poetica Per comprendere un’opera complessa e innovativa come il Decameron non si può prescindere dalle dichiarazioni di poetica che accompagnano il capolavoro di Boccaccio, collocate in posizioni “strategiche” del testo: in particolare il Proemio dell’opera e la Conclusione. Importante è anche l’autodifesa contenuta nell’Introduzione alla IV giornata.
Giovanni Boccaccio
T4a
Il Proemio e la dedica alle donne Decameron, Proemio
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
Nel Proemio, Boccaccio spiega le motivazioni della propria opera, della quale mette in risalto la funzione dilettevole e consolatoria di fronte alle sofferenze della vita. Egli si rivolge in particolare alle donne, che gli appaiono più bisognose del conforto e della distrazione che può venire da un libro di novelle. Un libro nel quale, secondo la presentazione che ne fa l’autore, il tema dell’amore occuperà un posto decisivo. Riassumiamo la prima e l’ultima parte del testo e ne riproduciamo il nucleo centrale.
PROEMIO Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere1 e hannol2 trovato in alcuni3; fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli4. Per ciò che5, dalla mia 5 prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e nobile amore6, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse7, quantunque appo coloro che discreti erano8 e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire9, certo non per crudeltà della donna amata, ma 10 per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito10: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare11, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea12. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia mor15 to13. Ma sì come a Colui14 piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro
1 e come... mestiere: anche se aver compassione per gli afflitti è cosa doverosa per ogni uomo, lo è in particolare per coloro che hanno bisogno di consolazione. 2 hannol: lo hanno. 3 Umana cosa... alcuni: si tratta di un esordio, in forma di consiglio, molto simile a quello in Elegia di Madonna Fiammetta (➜ T3 ), in cui si invita ad avere compassione per gli afflitti e portare loro conforto. 4 io... quegli: io (inteso come l’autore) sono uno di questi. È interessante osservare un rovesciamento rispetto al punto di vista del sonetto iniziale (il proemio) del Canzoniere di Petrarca, in cui il poeta chiedeva aiuto e
conforto al lettore trovandosi in una condizione di difficoltà e di «errore», mentre in questo caso Boccaccio si pone come l’autore che con la sua opera può dare consolazione agli «afflitti» ossia le donne. 5 Per ciò che: Poiché. 6 essendo acceso... amore: avendo provato una forte passione amorosa per una donna di condizione sociale superiore alla mia. Boccaccio si riferisce alla nobildonna Maria d’Aquino. 7 alla mia bassa... richiedesse: forse assai più di quanto non sembrerebbe che convenisse (si richiedesse) alla mia umile condizione, essendo io stesso ad ammetterlo (narrandolo).
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8 quantunque... erano: sebbene fossi stimato da coloro che sono equilibrati nel giudicare. 9 sofferire: sopportare. 10 ma per... appetito: ma per un’intensa passione dovuta a un eccessivo desiderio. 11 il quale... stare: l’innamoramento non mi permetteva di contenermi entro nessun limite. 12 più di noia... facea: mi faceva patire più dolore di quanto ci fosse bisogno. 13 Nella qual... morto: non sono morto di dolore solo grazie all’aiuto di qualche sincero amico. 14 Colui: Dio.
fervente15 e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare16, per se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente 20 m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando17; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso18. Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benefici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi 25 le mie fatiche19; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che20 la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare21 e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto22 di volere, in quel poco che per me23 si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me aiutarono alli quali per avventura per 30 lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a quali fa luogo24, alcuno alleggiamento prestare25. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce26 maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia caro avuto27. 35 E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare?28 Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate29: e oltre a ciò, ristrette30 da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del 40 tempo nel piccolo circuito31 delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa32: senza che 45 elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere33; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare34 o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno35 , udire e veder molte
15 oltre... fervente: appassionato oltre misura. 16 e il quale... piegare: il mio amore non era piegato o controllato da nessun buon proponimento, da nessun consiglio, da nessun senso di vergogna. 17 per se medesimo... navigando: si affievolì col passare del tempo, così che mi è rimasta solo una specie di sensazione di piacere, come un marinaio che scampa a un mare tempestoso. 18 per che... rimaso: ora, superate le ansie, è rimasto un sentimento piacevole. 19 a’ quali... mie fatiche: i quali soffrivano vedendomi star male, per il bene che provavano per me. 20 E per ciò che: Poiché. 21 commendare: approvare.
22 ho meco stesso proposto: ho promesso a me stesso. 23 per me: per quanto mi riguarda. 24 fa luogo: bisogna (luogo), occorre. 25 alleggiamento prestare: offrire conforto. 26 apparisce: appare. 27 più vi fia caro avuto: sarà più gradito. 28 chi negherà… donare?: chi negherà che occorra dare questo aiuto, per quanto piccolo sia, molto più alle donne leggiadre che agli uomini? 29 le quali… provate: le quali (si riferisce alle fiamme amorose che le donne tendono per vergogna nascose “nascoste”) chi le ha provate sa per esperienza quanta maggior forza abbiano rispetto alle fiamme amorose manifestate apertamente (palesi).
30 ristrette: limitate, costrette. 31 piccolo circuito: spazio angusto. 32 se per quegli… rimossa: se a causa di quelli (i pensieri non sempre allegri) sopravviene nella loro mente qualche tristezza provocata dal desiderio amoroso, necessariamente permane in esse con grande dolore (grave noia), se non è allontanata da altri ragionamenti. 33 senza che… a sostenere: senza contare che le donne sono molto meno forti degli uomini nel sopportare. 34 alleggiare: alleviare. 35 andare a torno: andare in giro.
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cose, uccellare36, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare37: de’ quali modi 50 ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l’animo a sé e dal noioso38 pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia39 minore. Adunque, acciò che in parte per me40 s’amendi41 il peccato42 della fortuna43, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara 55 fu di sostegno44, in soccorso e rifugio di quelle che amano45, per ciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio46, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in dieci giorni da una onesta brigata47 di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta48, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali 60 novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi49; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare50, in quanto potranno cognoscere, quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare51: le quali cose senza passamento di noia 65 non credo che possano intervenire52. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri53.
Decamerone di Raffaello Sorbi (1876, olio su tela, collezione privata).
36 uccellare: andare a caccia di uccelli
45 di… amano: le donne che hanno «in-
con reti o richiami. 37 giucare o mercatare: giocare o commerciare. 38 noioso: doloroso. 39 la noia: lo scontento, il disagio. 40 per me: attraverso me, grazie a me. 41 s’amendi: si compensi, si ponga rimedio. 42 il peccato: il torto. 43 della fortuna: che la sorte ha fatto alle donne. 44 dove… di sostegno: dove la natura umana si dimostra più fragile e debole (cioè nelle dilicate donne) la sorte è più avara nell’elargire il suo sostegno.
telletto d’amore» secondo lo stilnovismo. 46 all’altre... arcolaio: le donne per le quali sono sufficienti i lavori domestici. 47 onesta brigata: gruppo di persone d’intelletto e ben educate. 48 fatta: appena terminata (marzo-luglio 1348). 49 casi… antichi: si racconteranno dolorose vicende amorose o altri eventi fortunati, avvenuti sia nei tempi moderni sia negli antichi. 50 parimente… pigliare: le donne potranno ricevere, dalle cose piacevoli che in queste novelle si raccontano, o un prezioso insegnamento o un diletto.
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51 seguitare: perseguire. 52 le quali... intervenire: non credo che queste cose (ossia trarre prezioso insegnamento o diletto, vedi nota 50) possano accadere, senza che si superino anche le loro pene. 53 m’ha… piaceri: mi ha concesso di potermi dedicare ai loro intrattenimenti.
Analisi del testo La legittimazione di una letteratura che arrechi piacere Il Proemio del Decameron contiene alcune importanti affermazioni che riguardano la fondazione di una nuova tipologia letteraria, la ricerca di un nuovo genere di lettore e di una nuova destinazione dell’opera narrativa. In contrapposizione alla prevalente finalità didattica della letteratura medievale, Boccaccio rivendica la possibilità e la dignità letteraria di un’opera che mira a consolare dalle sofferenze (in particolare dalle sofferenze amorose che l’autore stesso ha ben conosciuto) e a produrre diletto. Il diletto d’altra parte non esclude l’utilità (secondo il principio della poetica oraziana del miscere utile dulci, dell’“unire l’utile al dilettevole”): ma di certo non si tratta più dell’utilità propria della letteratura didattica religiosa. L’utile consiglio che le donne potranno trarre dalla lettura del Decameron e che le porterà a «cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare», come scrive Boccaccio nell’ultima parte del Proemio, non riguarda la morale religiosa, ma i comportamenti mondani, una saggezza di vita che può persino essere in contrasto con l’etica cristiana in nome della libertà e della gioia di vivere.
Il significato della dedica alle donne Assai significativa è la dedica dell’opera alle donne, molto simile all’originale posizione che aveva assunto l’autore nel Prologo all’Elegia di Madonna Fiammetta, dove ci si poneva in un’ottica di consolazione e «compassione» verso gli «afflitti», coloro che sono deboli e sofferenti, appunto le donne. La motivazione di questo particolare interesse dell’autore al sesso femminile è di tipo sociologico: le donne sofferenti per amore, chiuse in casa, prive di passatempi e di un’attività economica, sono facile preda della malinconia e vanno quindi consolate e distratte. È sorprendentemente moderno il ritratto che Boccaccio fa della donna dei suoi tempi (ma forse non solo dei suoi tempi) preda di diversi pensieri, oscillante tra contraddittorie pulsioni (oggi diremmo condannata alla depressione e alla nevrosi dall’inattività e dalla chiusura sociale). Boccaccio rivolge dunque la sua opera alle donne che amano come antidoto alla tristezza e al male di vivere. Non è però solo questo che Boccaccio vuol dire: dietro la destinazione del Decameron alle donne, e in particolare alle donne innamorate, si profila anche il pubblico ideale immaginato dall’autore: un pubblico non ristretto agli intellettuali, ma capace di farsi coinvolgere nel piacevole intrattenimento offerto dalle novelle e privo di pregiudizi estetici, letterari e soprattutto moralistici. In tal senso, si delinea una funzione del tutto nuova della letteratura, non indirizzata a valori pedagogici, educativi, didascalici, ma a un ruolo di intrattenimento, di evasione, di svago, e non per questo meno utile e fondamentale rispetto a una letteratura didattica, perché l’intento evasivo di Boccaccio produce l’effetto di consolare coloro che soffrono, di salvarli dalla condizione di patimento e dolore. Dunque, in questa prospettiva, il diletto della letteratura ha uno scopo altamente etico e morale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. A chi è destinata l’opera di Boccaccio? 2. Quale funzione assegna Boccaccio al Decameron? ANALISI 3. Quali sono le caratteristiche che Boccaccio attribuisce alle donne?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Confronta questo proemio con il sonetto proemiale del Canzoniere petrarchesco: evidenzia le possibili analogie e le differenze riguardo all’esperienza dell’autore e al pubblico scelto.
online T4b Giovanni Boccaccio Introduzione alla quarta giornata: la naturalità dell’istinto amoroso e l’apologo delle papere Decameron, IV, Introduzione
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Giovanni Boccaccio
T4c
La Conclusione: l’autodifesa dall’accusa di immoralità Decameron, Conclusione dell’autore
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
Nella Conclusione del Decameron, riprendendo specularmente il Proemio, Boccaccio si difende dalla più insidiosa (e certo per lui più tormentosa) accusa che gli era stata mossa, cioè quella di aver composto un’opera immorale. Data l’importanza dell’argomento, si comprende il tono polemico che anima le parole dello scrittore a difesa del proprio capolavoro. Riproduciamo la parte più significativa della Conclusione.
[...] Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenzia1 usata, sì come in fare alcuna volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né a ascoltare a oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicen2 5 dola, si disdica a alcuno : il che qui mi pare assai convenevolmente bene aver fatto. Ma presuppognamo che così sia, ché non intendo di piatir3 con voi, che mi vincereste. Dico a rispondere perché io abbia ciò fatto assai ragion4 vengon prontissime. Primieramente se alcuna cosa5 in alcuna n’è, la qualità delle novelle l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fian riguardate6, assai 10 aperto sarà conosciuto, se io quelle della lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar non poterlo7. E se forse pure alcuna particella è in quella, alcuna paroletta più liberale che forse a spigolistra8 donna non si conviene, le quali più le parole pesan che’ fatti e più d’apparer s’ingegnan che d’esser buone, dico che più non si dee a me esser disdetto d’averle scritte che generalmente si disdica agli uomini e 9 15 alle donne di dir tutto dì ‘foro’ e ‘caviglia’ e ‘mortaio’ e ‘pestello’ e ‘salsiccia’ e ‘mortadello’, e tutto pien di simiglianti cose. Sanza che10 alla mia penna non dee essere meno d’auttorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta11, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia e a san Giorgio il dragone dove gli 20 piace, ma egli fa Cristo maschio e Eva femina, e a Lui medesimo, che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella. Appresso12 assai ben si può cognoscere queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e con vocaboli onestissimi si convien dire, quantunque nelle sue istorie 13 25 d’altramenti fatte che le scritte da me si truovino assai ; né ancora nelle scuole de’
1 licenzia: libertà. 2 per ciò che… a alcuno: poiché non c’è nessuna cosa tanto disonesta che sia disdicevole ad alcuna persona se viene detta in modo dignitoso. 3 piatir: litigare. 4 assai ragion: alquante buone ragioni. 5 alcuna cosa: qualche riferimento licenzioso. 6 fian riguardate: saranno considerate.
7 assai aperto… non poterlo: si dovrà chiaramente riconoscere che, a meno che non avessi voluto snaturarle, non potevo raccontarle diversamente. 8 spigolistra: bigotta, di mentalità rigida. 9 dico che… di dir: dico che non devo essere rimproverato io di averle scritte più di quanto in genere si rimproverino uomini e donne quando dicono continuamente… (seguono dei termini correntemente usati
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come allusioni sessuali).
10 Sanza che: senza contare il fatto che. 11 senza alcuna... giusta: senza ricevere alcuna critica, o per lo meno alcuna critica giusta. 12 Appresso: oltre a ciò, inoltre. 13 quantunque… assai: sebbene nelle storie ecclesiastiche si trovino molte cose ben più scandalose di quelle da me raccontate.
filosofanti14 dove l’onestà non meno che in altra parte è richesta, dette sono; né tra cherici né tra filosofi in alcun luogo ma ne’ giardini, in luogo di sollazzo15, tra persone giovani benché mature e non pieghevoli per novelle16, in tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di sé era alli più onesti non disdicevole,17 dette sono. [...] 14 filosofanti: filosofi. 15 in luogo di sollazzo: in un luogo dove ci si diverte.
16 pieghevoli per novelle: influenzabili da racconti.
17 in tempo… non disdicevole: in un tempo (quello della peste) nel quale persino andare con le brache sulla testa per salvarsi non appariva vergognoso alle persone più decorose. Boccaccio contestualizza il pro-
prio raccontare in una precisa ed eccezionale circostanza.
Analisi del testo La Conclusione: una difesa dell’autonomia della letteratura dal giudizio morale Nella Conclusione del Decameron, di cui abbiamo riportato una parte significativa, Boccaccio difende l’intrinseca “moralità” della propria opera contro coloro che lo avevano attaccato come autore immorale. L’autore fonda la difesa sulla convinzione che la parola “onesta”, ovvero decorosa, adatta alla situazione, stilisticamente elegante, sia in grado di riscattare qualsiasi contenuto, anche il più licenzioso, dandogli una dignità artistica. La natura di alcune sue novelle ha reso necessario usare determinati termini, per una ragione di coerenza artistica e di realismo rappresentativo; l’autore rivendica a chi scrive la stessa libertà che hanno i pittori quando raffigurano senza remore la nudità persino in soggetti religiosi. Ma l’osservazione più importante della Conclusione è la precisazione che riguarda la natura edonistica delle novelle, scritte non per filosofi o uomini di Chiesa e, soprattutto, composte in un tempo tragico, nel quale la pestilenza ha ridotto l’umanità a una condizione di tragico abbruttimento: ciò giustifica il loro contenuto libero, anche licenzioso o trasgressivo. Proprio alla bruttura e alla morte intende opporsi l’ideazione del Decameron, nel quale il rito del narrare è immaginato in un luogo luminoso, idillico, dominato dall’armonia e dalla bellezza (➜ T5b OL).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza l’autodifesa che Boccaccio enuncia nella Conclusione del Decameron a proposito dell’accusa di immoralità rivolta all’opera. ANALISI 2. A che proposito Boccaccio fa riferimento alla pittura? 3. L’ultima argomentazione è particolarmente importante nell’autodifesa di Boccaccio dall’accusa di immoralità ed è costruita su una serie di antitesi: ricercale nel testo e poi spiega il significato delle contrapposizioni indicate.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. Argomenta perché Boccaccio ritiene di dover precisare che le persone a cui le sue novelle sono rivolte sono sì giovani ma mature e «non pieghevoli per novelle» e che le circostanze del narrare sono del tutto eccezionali.
online T4d Giovanni Boccaccio Una novella sull’arte di raccontare: Madonna Oretta Decameron, VI, 1
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La cornice In questo percorso vengono messi a confronto l’orrido cominciamento, ossia la descrizione della città di Firenze sconvolta dalla peste, dalla morte, dal venir meno dei vincoli di affetto, amicizia, parentela e l’immagine idillica del giardino, in cui regna la bellezza e l’armonia e che si contrappone in modo marcato allo spettacolo di dolore e degrado proprio dello spazio cittadino devastato dal morbo.
Giovanni Boccaccio
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Il divampare della peste in Firenze Decameron, I, Introduzione
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
Nella lunga Introduzione al Decameron, Boccaccio costruisce la cornice storica entro la quale iscrive il racconto delle cento novelle. La premessa è il dilagare, nella Firenze nel 1348, della peste, che provoca non solo il decesso di moltissime persone, ma anche la disgregazione dei rapporti sociali e la perdita di ogni freno morale. Proprio per fuggire alla pestilenza e al tragico spettacolo di morte, i dieci giovani, che saranno i narratori delle novelle del Decameron, abbandonano la città e si rifugiano in una villa di campagna.
Quantunque volte1, graziosissime donne, meco pensando2 riguardo quanto voi naturalmente tutte siete pietose3, tante conosco che la presente opera4 al vostro iudicio5 avrà grave e noioso principio6, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe 5 dannosa7, la quale essa porta nella fronte8. Ma non voglio per ciò che questo di più avanti leggere vi spaventi9, quasi10 sempre sospiri e tralle lagrime leggendo dobbiate trapassare11. Questo orrido cominciamento vi fia12 non altramenti che a’ camminanti una montagna aspra e erta13, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia reposto14, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è stata del salire e 10 dello smontare la gravezza15. E sì come la estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da sopravegnente letizia sono terminate16. A questa brieve noia17 (dico brieve in quanto poche lettere sì contiene18) seguita prestamente la dolcezza e il piacere quale io v’ho davanti promesso e che forse non sarebbe da così fatto inizio, se non si dicesse, aspettato. E nel vero19, se io potuto avessi onestamente per 15 altra parte menarvi20 a quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo21, io l’avrei volentier fatto22: ma ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso sì leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion23 dimostrare, quasi da necessità constretto24 a scriverle mi conduco25. 1 Quantunque volte: ogni volta che. 2 meco pensando: riflettendo fra me e me. 3 riguardo… pietose: su quanto voi siate per natura tutte disposte alla compassione. 4 la presente opera: quest’opera. 5 iudicio: parere, opinione, punto di vista. 6 grave… principio: sarà caratterizzata da un inizio drammatico e doloroso. 7 universalmente… dannosa: la quale (pestilenza) fu dannosa per tutti, sia per chi ne fece esperienza sia per chi in altro modo la conobbe (ne sentì parlare). 8 nella fronte: all’inizio. 9 spaventi: vi dissuada da continuare la lettura. 10 quasi: come se.
11 sospiri... trapassare: doveste trascorrere con la lettura momenti di pianto e di sospiri. 12 Questo... vi fia: questo inizio così drammatico sia per voi (prendetelo come). 13 non altramenti … erta: non troppo diversamente dal salire una montagna aspra e ripida. 14 presso… reposto: sopra la quale (montagna) sia posta una pianura amena e dilettevole. 15 il quale… gravezza: la quale (pianura) risulta tanto più piacevole quanto maggiore è stata la fatica del salire. 16 E sì... terminate: E allo stesso modo di come al momento culminante dell’allegria consegue un momento di dolore, anche le
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vicende tristi si concludono con un momento di gioia. 17 noia: dolore. 18 contiene: è raccontato. 19 E nel vero: E in verità. 20 se io... menarvi: se io avessi potuto accompagnarvi in modo opportuno. 21 a quello... questo: alla meta che io desidero, attraverso una strada diversa, piuttosto che attraverso un sentiero così aspro. 22 io... fatto: lo avrei fatto volentieri. 23 ramemorazion: ricordo, ricostruzione di un episodio. 24 quasi… constretto: mi vedo costretto necessariamente. 25 conduco: mi accingo.
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto26, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali27, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata,28 quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo 25 private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi29, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella30 non valendo alcuno senno né umano provedimento31, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati32 e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte 30 e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare33. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella 35 anguinaia o sotto le ditella34 certe enfiature35, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari36 nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire37: e da questo appresso38 s’incominciò la qualità della 40 predetta infermità a permutare39 in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui40 grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù41 di medicina alcuna 45 pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse42 o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse43, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi 50 tutti infra ’l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente44, morivano. [...] Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni45 in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano46 assai crudele, ciò era di schifare47 e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così 55 faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li 20
26 già erano… milletrecentoquarantotto: già erano passati 1348 anni dalla salvifica incarnazione di Cristo. 27 la quale… i mortali: la quale, o per influssi degli astri (corpi superiori) o per il nostro malvagio operare, mandata tra gli uomini dalla giusta ira di Dio per correggerci. 28 alquanti anni… incominciata: essendo scoppiata parecchi anni prima nelle regioni dell’Asia. 29 senza… continuandosi: senza sosta diffondendosi da un luogo all’altro. 30 in quella: contro di essa.
31 non valendo… provedimento: non avendo efficacia alcun razionale provvedimento. 32 per lo quale… ordinati: per il quale la città fu ripulita dalle molte immondizie da incaricati a questo compito. 33 cominciò… a dimostrare: cominciò a manifestare i suoi dolorosi effetti in modo straordinario. 34 anguinaia… ditella: inguine… ascelle. 35 enfiature: rigonfiamenti, bubboni. 36 i volgari: la gente del popolo. 37 venire: crescere.
38 da questo appresso: dopo questo primo sintomo.
39 permutare: trasformarsi. 40 a cui: a chi. 41 virtù: potere. 42 natura… nol patisse: la particolare natura della malattia non lo permettesse.
43 la ignoranza... non vi prendesse: l’ignoranza di quelli che curavano non conoscesse l’origine del male e di conseguenza non fosse in grado di indicare un rimedio adatto. 44 accidente: sintomo o complicazione.
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quali avvisavano48 che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere49: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria50 fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella51 sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimoravano. Altri, in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando52 e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse53 e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano il mettevano in opera a lor potere54, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere55. E ciò potevan far di leggiere56, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abandono57: di che58 le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che a esse s’avvenisse59, come l’avrebbe il propio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale60 sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda auttorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta61 tutta per li ministri e essecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famiglie rimasi stremi62, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare63. [...] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse64 e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. La peste bubbonica, in una miniatura dalla Bibbia di Toggenburg (1411 ca.).
45 imaginazioni: supposizioni errate. 46 quasi… tiravano: quasi tendevano a uno stesso fine. 47 schifare: evitare. 48 avvisavano: pensavano. 49 avesse molto… resistere: servisse molto a fronteggiare siffatto male. 50 lussuria: stravizio. 51 novella: notizia. 52 sollazzando: divertendosi.
53 il sodisfare… che si potesse: il soddisfare il desiderio di ogni cosa che si potesse. 54 a lor potere: secondo le loro possibilità. 55 solamente… in piacere: se solo sentivano che ivi c’erano cose che potessero loro piacere. 56 di leggiere: facilmente. 57 messe in abbandono: abbandonate. 58 di che: ragione per cui.
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59 pure... s’avvenisse: solo che vi capitasse. 60 con tutto… bestiale: e nonostante questo bestiale comportamento (ossia gli stravizi). 61 dissoluta: dissolta. È un latinismo. 62 di famiglie rimasti stremi: rimasti privi di servitù, di domestici (famiglie). 63 era a ciascun … adoperare: a ognuno era lecito quanto gli piaceva fare. 64 schifasse: evitasse (anche più sotto schifavano).
Analisi del testo La descrizione della peste e la sua funzione Le tragiche pagine che aprono il Decameron (e che sono in forte contrasto con lo spirito che pervade il capolavoro di Boccaccio) potrebbero sembrare troppo dettagliate. In realtà esse costituiscono la necessaria ouverture dell’opera, ne fondano la necessità insieme etica ed estetica: infatti proprio dallo sfacelo e dal degrado morale che imperversano in Firenze scaturisce la decisione dei dieci giovani di lasciare la città (ma soprattutto il progetto stesso che ispira l’opera). Non a caso, quindi, lo scrittore insiste nella rappresentazione analitica dell’infuriare del contagio: esso non solo provoca una morte orribile, ma è responsabile del degrado della vita collettiva. Nella Firenze sconvolta dalla peste dominano la sregolatezza e l’irrazionalità, come nello scenario narrato da Manzoni nei Promessi sposi. Poiché si ignorano la causa della pestilenza e i possibili rimedi ad essa, si moltiplicano i medici improvvisati, si ipotizzano le più assurde soluzioni, si scelgono condotte contraddittorie: c’è chi pratica una vita di totale isolamento da ogni contatto e chi, invece, cerca la fuga dal contagio e dalla morte nei piaceri sfrenati. Ma quel che è peggio è che il morbo disgrega la rete dei rapporti sociali: il terrore crea la diffidenza non solo verso il prossimo o gli amici, ma persino verso i propri congiunti. In questa triste situazione – di cui Boccaccio fu testimone diretto – nasce il progetto del Decameron: un lavoro volto innanzitutto a ripristinare armonici rapporti fra simili (i giovani eletti della lieta brigata), e quindi consuetudini civili di vita, ispirate al culto della bellezza e della gioia di vivere in un contesto (la villa in campagna, il giardino) che l’autore presenta come alternativo all’orrore della vita in città sconvolta dal flagello del male.
L’inizio luttuoso: Decameron e Commedia Nel dare largo spazio, all’inizio dell’opera, alla luttuosa situazione creata dalla peste, può anche aver agito la suggestione della Commedia, che prende le mosse dal buio angoscioso della «selva oscura» e dall’orrore dell’Inferno. Come Dante asserisce nell’Epistola a Cangrande della Scala, il poema si può definire comedìa perché «all’inizio è paurosa e fetida [...] ma ha una fine buona, desiderabile e gradita...». Anche il Decameron si apre con una sorta di “inferno”, che qui coincide con lo sconvolgimento creato dal morbo: anche il Decameron, come la Commedia, sceglie di rappresentare, pur con ovvie differenze, la plurale realtà del mondo, adottando di conseguenza molteplici registri stilistico-linguistici (e non solo quello strettamente comico).
Una prosa “alta” L’Introduzione alla prima giornata offre un esempio eloquente di uno stile “alto”, già presente nel Proemio: è proprio questo tipo di prosa che farà scuola nel tempo e che diventerà modello per tanti scrittori. Dominano decisamente l’ipotassi, con periodi spesso molto ampi, e l’uso di costruzioni latineggianti (cioè con il posizionamento del verbo alla fine della frase).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il brano proposto in max 10 righe. ANALISI 2. Nel tentativo di scampare al morbo, le persone mettono in atto comportamenti irrazionali, seppur molto diversi gli uni dagli altri: descrivili. STILE 3. La prosa che Boccaccio usa per descrivere la peste è alta e sostenuta, e costituisce un esempio di stile “tragico”: quali aspetti ti sembra lo documentino sul piano della costruzione sintattica e delle scelte lessicali? Esemplifica con qualche citazione dal testo.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 4. Individua le due possibili cause a cui, all’inizio dell’Introduzione, Boccaccio attribuisce la genesi della pestilenza. Quindi in un intervento orale di max 5 minuti spiega le ragioni per cui la posizione dell’autore appare ancora riconducibile alla mentalità medievale.
online T5b Giovanni Boccaccio Il giardino del piacere Decameron, III giornata, Introduzione
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Sguardo sull’arte In polemica con la cultura della penitenza In un suggestivo studio, Lucia Battaglia Ricci ipotizza un rapporto stretto fra il ciclo degli affreschi del Camposanto pisano che rappresenta il Trionfo della morte (vedi figura) e l’ideazione decameroniana della brigata cortese. Secondo la tesi della studiosa, l’idea si porrebbe in posizione decisamente critica e polemica nei confronti del messaggio proposto dal ciclo pittorico, ma anche più in generale nei confronti di quella “cultura della penitenza” che, proprio negli anni della peste, conosceva una significativa ripresa in Toscana, ad esempio nella veemente predicazione di Jacopo Passavanti nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Con tale cultura della penitenza il libro di Boccaccio si confronta polemicamente. Non è dunque un caso che la brigata, nel Decameron, si allontani da Santa Maria Novella: alla “cultura della morte” i dieci giovani oppongono una “cultura del piacere”.
Il trionfo della morte, in un affresco di Buonamico Buffalmacco (XIV secolo, Pisa, Camposanto).
Nel Trecento la peste colpì tutte le popolazioni europee, come si vede in questa miniatura belga in cui si illustra la sepoltura delle vittime nella città di Tournai; illustrazione di Pierart dou Tielt, dall’apparato decorativo del Tractatus quartus di Gilles de Muisit nel manoscritto 13076-13077, f. 24v (1352 ca., Bibliothèque Royale de Belgique, Bruxelles).
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La riscrittura ironizzante e parodica dei modelli Nelle novelle di seguito antologizzate vediamo come Boccaccio attui un divertito rovesciamento dei modelli letterari riconosciuti (vedasi il paragrafo La poetica del “gioco intellettuale” e la manipolazione ironica dei modelli, PAG. 641). L’autore, infatti, parodizza chiaramente la letteratura agiografica ed esemplare: la «santa morte» di Ciappelletto in seguito a una falsa confessione; il falso miracolo di Martellino; il sovvertimento della “morale della storia” per Nastagio, infine la parodia della predica di Frate Cipolla.
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La confessione di ser Ciappelletto Decameron I, 1
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
La celebre novella che apre il Decameron presenta molti degli elementi tipici della narrativa di Boccaccio: il pragmatismo tipico della classe mercantile, la capacità di escogitare soluzioni “intelligenti” nelle situazioni più difficili, la spregiudicatezza, qualità impersonate al massimo grado dal protagonista, l’indimenticabile ser Ciappelletto, un cinico notaio e uomo d’affari, che, in punto di morte, si conquista la fama di sant’uomo grazie a una menzognera confessione.
SER CEPPARELLO CON UNA FALSA CONFESSIONE INGANNA UN SANTO FRATE E MUORSI1; E, ESSENDO STATO UN PESSIMO UOMO IN VITA, È MORTO REPUTATO PER SANTO E CHIAMATO SAN CIAPPELLETTO. Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui, il quale di tutte fu facitore, le déa principio2. Per che, dovendo io al vostro novellare, sí come primo, dare cominciamento3, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra 5 speranza in Lui sì come in cosa impermutabile, si fermi, e sempre sia da noi il suo nome lodato. Manifesta cosa è4 che, sí come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, cosí in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica, e a infiniti pericoli sogiacere5; alle quali senza niuno fallo6 né potremmo noi, che viviamo mescolati in 10 esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci7, se spezial grazia di Dio forza ed avvedimento non ci prestasse. La quale a noi ed in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignitá mossa e da’ prieghi di coloro impetrata che, sí come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono
1 Ser Cepparello… muorsi: ser Cepparello (o Ciappelletto) fa una falsa confessione, inganna un frate in odore di santità e muore. Il protagonista è un personaggio realmente esistito: un Cepperello o Ciapperello Dietaiuti da Prato appare in alcuni documenti della fine del Duecento, dove lo si indica come ricevitore di decime e di taglie per conto di Filippo il Bello, re di Francia, e di Bonifacio VIII. Il suo libro dei conti, uno dei più antichi documenti in
lingua volgare, dà testimonianza dei suoi traffici proprio in Francia, con i “fratelli Franzesi” che nella storiografia fiorentina costituivano il prototipo del mercante disonesto. 2 Convenevole cosa è… principio: è opportuno, carissime donne, che tutto ciò che l’uomo fa abbia inizio dal mirabile e santo nome di Colui (Dio) che fu il creatore di tutte le cose.
3 Per che... cominciamento: A parlare è Panfilo, a cui è affidata la narrazione della prima novella della prima giornata. 4 Manifesta cosa è: è chiaro che. 5 sì come… sogiacere: così come le cose soggette al tempo sono transitorie e destinate a perire, così in sé e fuori di sé sono piene di dolore, angoscia e fatica e sono esposte a infiniti pericoli. 6 senza niuno fallo: senza alcun dubbio. 7 durare né ripararci: resistere né evitarle.
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in vita seguendo, ora con lui eterni son divenuti e beati8; alli quali noi medesimi, sí 15 come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilitá, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo oportune gli porgiamo9. E ancor piú in Lui, verso noi di pietosa liberalitá pieno, discerniamo10, che, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione11 ingannati, 20 tale dinanzi alla sua maestá facciamo procuratore che da quella con eterno essilio è iscacciato12: e nondimeno Esso, al quale niuna cosa è occulta, piú alla puritá del pregator riguardando che alla sua ignoranza o all’essilio del pregato13, cosí come se quegli fosse nel suo cospetto beato essaudisce coloro che ’l priegano. Il che manifestamente potrá apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, 25 dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando14. Ragionasi15 adunque che essendo Musciatto Franzesi16 di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra17, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso18, sentendo egli li fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, 30 molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare19, pensò quegli commettere20 a più persone e a tutti trovò modo21: fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni22 uomini riottosi e di mala condizione e misleali23; e a lui non andava per la memoria24 chi tanto 35 malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza25 avere, che opporre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato26, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato, il quale molto alla sua casa in Parigi si riparava27; il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo28, non sappiendo li franceschi che si volesse dir Cepparello, credendo che ‘cappello’, 40 cioè ‘ghirlanda’ secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano29: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno. 8 da’ prieghi… e beati: e ottenuta grazie alle preghiere di coloro (i santi), che furono mortali come siamo noi e, avendo seguito la volontà di Dio (i suoi piaceri) mentre erano in vita, ora sono divenuti eterni e beati insieme a Lui. 9 alli quali… porgiamo: ai quali noi stessi, come a intermediari che conoscono per esperienza la nostra fragilità umana, forse timorosi di rivolgere direttamente le nostre preghiere a un giudice così alto (ossia a Dio), porgiamo tali preghiere sulle cose che noi riteniamo necessarie (ai santi). 10 discerniamo: scorgiamo. 11 oppinione: falsa idea. 12 tale… iscacciato: scegliamo come mediatore della Grazia qualcuno che in realtà è stato per sempre scacciato dal cospetto di Dio. 13 all’essilio del pregato: al fatto che la persona invocata sia stata cacciata da Dio. 14 non… seguitando: seguendo non il giudizio di Dio ma quello degli uomini. 15 Ragionasi: si racconta. 16 Musciatto Franzesi: Musciatto (da “moscia”, forma francese di mosca) di
Messer Guido Franzesi, soprannome per Giampaolo Guidi, arricchitosi in Francia come mercante e tesoriere di Filippo il Bello. Se ne trovano notizie nella Cronica dello storico fiorentino Dino Compagni e in altri documenti della fine del Duecento. 17 Carlo Senzaterra: Carlo di Valois, chiamato in Italia dal papa Bonifacio VIII. Con il pretesto di fare da paciere tra le fazioni, consegnerà Firenze alla parte dei Neri. 18 addomandato… promosso: chiamato e sollecitato a venire. 19 sentendo… stralciare: avvertendo (si rifà al valore etimologico del verbo latino sentio) che i suoi affari, come per lo più sono quelli dei mercanti, erano molto ingarbugliati in vari luoghi, e che non si potevano sbrogliare facilmente (di leggiere) né rapidamente (subitamente). 20 quegli commettere: di affidarli (quegli è complemento oggetto). 21 e a tutti trovò modo: e riuscì (a farlo) per tutti. 22 fuor solamente… li borgognoni: rimase (fuor “fu”) solamente in dubbio su
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chi (cui) potesse lasciare in grado (sofficiente) di riscuotere dei crediti che aveva fatto ad alcuni abitanti della Borgogna (regione della Francia). 23 uomini riottosi… e misleali: uomini litigiosi, di indole malvagia e disonesti. 24 a lui non… memoria: non gli veniva in mente. 25 fidanza: fiducia. 26 sopra… stato: e dopo essere stato a lungo a riflettere su questa ricerca. 27 si riparava: era ospite, albergava. 28 molto assettatuzzo: elegante in maniera affettata. 29 non sappiendo… il chiamavano: non sapendo i francesi che cosa volesse dire Cepparello, credendo che nella loro lingua Cepparello significasse “cappello”, ossia “ghirlanda”, dato che, come abbiamo detto, era piccolo (in francese chapel aveva come diminutivo chapelet, termine che veniva appunto usato per indicare anche le ghirlande) non lo chiamavano Ciappello ma Ciappelletto.
Era questo Ciappelletto di questa vita30: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che 45 falso trovato31; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quegli più volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato32.Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti33 grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. 50 Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava34, in commettere35 tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava, e più volte a fedire36 e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmia55 tore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava37 giammai, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni38; del contrario più che alcuno altro tristo uomo 60 si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato39 con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe40. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne41. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte 65 e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva iniuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato42. Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere esser tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, 70 gli disse così: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui: e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te43. E perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte44 e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai 75 che convenevole sia».
30 Era… di questa vita: questo Ciappellet-
38 Delle femine… bastoni: amava le don-
42 La cui… fu riguardato: la potenza e
to seguiva questa condotta di vita. Segue il ritratto del protagonista. 31 quando uno… falso trovato: quando uno dei suoi atti notarili (strumenti), anche se (come che) ne faceva pochi, non fosse trovato falso. 32 salariato: compensato. Insomma, Ciappelletto preferiva redigere gratuitamente atti notarili disonesti, piuttosto che farne di onesti dietro alto compenso. 33 saramenti: giuramenti. 34 forte vi studiava: vi si impegnava con passione. 35 commettere: insinuare. 36 fedire: ferire. 37 non usava: non era solito andare.
ne come i cani amano i bastoni, ovvero le odiava: era dunque un omosessuale. Boccaccio usa un’espressione che può essere considerata proverbiale; formulazioni analoghe si trovano anche in Sacchetti e negli altri novellatori. 39 Imbolato… rubato: “imbolare” e “rubare” indicano due tipi di furti diversi: il primo significa sottrarre con l’astuzia, il secondo strappare via con la violenza. 40 che un santo uomo offerrebbe: con cui un santo avrebbe fatto un’elemosina. 41 mettitore… solenne: oltre che giocatore accanito, Ciappelletto era un grande baro; malvagi sta per “truccati”.
la condizione di prestigio di messer Musciatto per lungo tempo protesse la sua malvagità (la cui malizia è complemento oggetto), per cui molte volte fu protetto sia da privati, ai quali spesso aveva arrecato danni o fatto offese, sia dalla giustizia, a cui continuamente (tuttavia) ne faceva. 43 non so cui… convenevole di te: non so (nel senso di “non conosco”) a chi io mi possa affidare per riscuotere da loro il mio (che sia) più adatto di te. 44 perciò… corte: poiché al momento non stai facendo nulla, se sei disposto a occuparti di questo affare, io voglio farti avere l’autorizzazione della corte reale (cioè, a riscuotere le imposte per conto mio).
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Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo45 e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato46, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò47, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme48, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favo80 revoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea49: e quivi fuori di sua natura50 benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo51. E così facendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi a usura 85 prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò. Al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti52 che il servissero e ogni cosa oportuna alla sua santà53 racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che il buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio come colui che 90 aveva il male della morte54; di che li due fratelli si dolevan forte. E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimo cominciarono a ragionare. «Che farem noi» diceva l’uno all’altro «di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani55: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno ma95 nifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacer ci debbia, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo, che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sagramento della Chiesa; e, morendo senza 100 confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane56. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili, che il simigliante n’averrà57, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere: per che, non assoluto58, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro59, il quale loro pare ini105 quissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò si leverà a romore60 e griderà: ‘Questi lombardi61 cani,’ li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion più sostenere62’; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno ma forse ci torranno oltre a ciò le persone63: di che noi in ogni guisa stiam male64 se costui muore».
45 scioperato… mondo: senza occupazione e in cattive condizioni economiche. 46 lui ne… lungamente stato: vedeva andarsene colui che per lungo tempo era stato il suo appoggio e la sua protezione. 47 si diliberò: si decise. 48 convenutisi insieme: accordatisi. 49 dove quasi niuno il conoscea: dove quasi nessuno lo conosceva. La precisazione è fondamentale per il seguito della vicenda. 50 fuori di sua natura: contrariamente alla sua indole. 51 al da sezzo: per ultimo. Latinismo da setius, più tardi. 52 fanti: servitori.
53 santà: salute. 54 il male della morte: Ciappelletto ha una malattia mortale. 55 Noi abbiamo… alle mani: per colpa delle sue faccende, noi ci troviamo a pessimo partito. 56 sarà gittato… cane: sarà gettato in un fossato come un cane. Suicidi, scomunicati e anche usurai non potevano essere sepolti in terra consacrata ed erano gettati nei fossati che circondavano le mura delle città. 57 il simigliante n’averrà: ne conseguirà lo stesso risultato. 58 assoluto: assolto.
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59 lo mestier nostro: i fratelli che ospitavano ser Ciappelletto erano appunto usurai. 60 si leverà a romore: sorgerà a protestare. 61 lombardi: così erano detti, in Francia e non solo, tutti coloro che provenivano dall’Italia del Nord; “lombardo” era poi divenuto sinonimo di prestatore a usura. 62 non ci si voglion più sostenere: non dobbiamo sopportarli più. È una costruzione impersonale. 63 le persone: la vita. Ossia: ci uccideranno. 64 di che noi in ogni guisa stiamo male: per cui noi in ogni caso ci troviamo a mal partito.
110 Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragio-
navano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo aver gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare e disse loro: «Io non voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate65 né abbiate paura di ricevere per me66 alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così 115 n’averrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate67: ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà68; e per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più69 che aver potete, se alcun ce n’è; e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che 120 starà bene e che dovrete esser contenti». I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo70, nondimeno se n’andarono a una religione71 di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura72 e molto vene125 rabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono73. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la 130 mia usanza suole essere di confessarsi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più74; è il vero che poi che io infermai, che son passati da otto dì, io non mi confessai tanta è stata la noia75 che la infermità m’ha data». Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi76; e veggio che, poi77 sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o 135 di dimandare». Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non dite così: io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente78 di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì che io nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi; e 140 non mi riguardate79 perché io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro80, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue». Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente81: e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato82 questa sua usanza, 145 il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse83.
65 di me dubitiate: temiate per causa mia. 66 per me: a causa mia. 67 dove così… come avvisate: se la faccenda (la bisogna) andasse così come voi pensate. 68 né più né meno ne farà: non farà nessuna differenza. 69 il più: sottinteso, il più santo e valente. 70 come che… di questo: anche se non riponevano in questo molta speranza. 71 religione: convento. 72 un frate… in Iscrittura: un frate anziano (ma l’aggettivo antico implica un senso
di rispetto) dalla vita santa e buona e gran conoscitore delle Sacre Scritture. 73 lui menarono: lo condussero (da Ciappelletto). 74 senza che… più: senza contare le volte che sono frequenti le settimane in cui mi confesso più di una volta. 75 la noia: la sofferenza. 76 per innanzi: d’ora in poi. 77 poi: poiché. 78 confessare generalmente: è la cosiddetta “confessione generale”, cioè la confessione dei peccati dell’intera vita.
79 non mi riguardate: non abbiate riguardo.
80 faccendo agio loro: assecondando i loro piaceri.
81 parvongli… mente: gli sembrarono indizio di una mente ben disposta. 82 commendato: lodato. 83 il cominciò… peccato avesse: iniziò a chiedergli se avesse mai commesso peccato di lussuria con qualche donna. Ciò che seguirà si ispira al modello della confessione, seguendo l’ordine tradizionale dei peccati più gravi. Il primo è la lussuria.
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Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero temendo di non peccare84 in vanagloria». Al quale il santo frate disse: «Dì sicuramente85, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giammai». 150 Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e86 io il vi dirò: io son così vergine come io usci’ dal corpo della mamma mia». «Oh, benedetto sie tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’albitrio di fare il contrario che non abbiam noi87 e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola88 son constretti». 155 E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sì e molte volte; per ciò che, con ciò fosse cosa che89 egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezial160 mente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che90 fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa, e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli91. 165 Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la coscienza tua che bisogni. A ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare92 e dopo la fatica il bere». «Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi: ben 170 sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine93 d’animo: e chiunque altramenti fa, pecca». Il frate contentissimo disse: «E94 io son contento che così ti cappia nell’animo95 e piacemi forte la tua pura e buona conscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato disiderando più che il convenevole o tenendo quello che tu tener non dovesti?» 175 Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi guardasti96 perché io sia in casa di questi usurieri97: io non ci ho a far nulla, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse così visitato98. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior 180 parte per Dio99; e poi, per sostentar la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie100 e in quelle ho disiderato di guadagnare. E sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo101, la mia metà 84 temendo di non peccare: i verbi che esprimono timore sono costruiti alla latina, e reggono quindi frasi negative. Il senso diventa “temendo di peccare”. 85 sicuramente: senza timore. 86 e: allora. 87 più d’albitrio… abbiam noi: avevi più libertà di fare il contrario (cioè di indulgere alla lussuria) di quella che abbiamo noi (frati). 88 alcuna regola: il frate si riferisce al voto di castità delle regole monastiche.
89 con ciò fosse cosa che: sebbene. 90 che: è correlato a «con quello diletto e
97 usurieri: francesismo per “usurai”. 98 se Idio… visitato: se Dio non m’avesse
con quello appetito».
sottoposto a questa prova della malattia. Visitare è termine tipico del linguaggio devoto per indicare le tribolazioni venute dal cielo. 99 per Dio: ossia, in beneficenza ed elemosine. 100 mercatantie: affari. 101 ho partito per mezzo: ho diviso a metà.
91 alcuna volta… come digiunava egli: talvolta il cibo gli era parso migliore di quanto egli riteneva dovesse parere a chi digiuna per devozione, come era il suo caso. 92 manicare: mangiare. 93 ruggine: macchia. 94 E: enfatico, analogo all’etiam latino. 95 che… nell’animo: che tu la pensi così. 96 guardasti: guardiate con sospetto.
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convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei». 185 «Bene hai fatto:» disse il frate «ma come ti se’ tu spesso adirato102?» «Oh!» disse ser Ciappelletto «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto; e chi se ne potrebbe tenere103, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii? Egli104 sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani 190 andar dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio». Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenza imporre; ma per alcun caso avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria?» 195 A cui ser Ciappelletto rispose: «Oimè, messere, o105 voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? o106 s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose107 che voi dite, credete voi che io creda che Idio m’avesse108 tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani109 e i rei uomini, de’ quali qualunque ora110 io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: ‘Va, che Idio ti converta’». 200 Allora disse il frate: «Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sie tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contra alcuno111 o detto male d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono?» «Mai messer sì112,» rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro 205 che batter la moglie, sì che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella113, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica114». Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?» 210 «Gnaffé115,» disse ser Ciappelletto «messer sì, ma io non so chi egli si fu: se non che, uno avendomi recati denari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto e io messigli in una mia cassa senza annoverare116, ivi bene a un mese117 trovai ch’egli erano quatro piccioli118 più che esser non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele119, io gli diedi per 215 l’amor di Dio120». Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne facesti». E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo; e volendo egli già procedere alla absoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto». 102 come… adirato: quante volte ti sei adirato. 103 tenere: astenere. 104 Egli: soggetto pleonastico, tipico dell’uso toscano. 105 o: eppure. 106 o: forma toscana per introdurre la proposizione dubitativa. 107 qualunque s’è l’una delle cose: una qualsiasi delle cose. 108 m’avesse: m’avrebbe. 109 scherani: delinquenti.
110 qualunque ora: ogni volta che. 111 hai tu… contra alcuno: hai tu pronunciato mai falsa testimonianza contro qualcuno? 112 Mai messer sì: senza dubbio, signore. 113 cattivella: poverina. 114 come Dio vel dica: come solo Dio potrebbe dirvi. 115 Gnaffé: in fede mia (interiezione tipica del parlato fiorentino). 116 senza annoverare: senza contarli.
117 ivi bene a un mese: dopo un mese buono. 118 piccioli: nel sistema monetario in vigore in Francia nel XIV secolo, il picciolo era l’unità di valore più bassa; dodici piccioli formavano un soldo, venti soldi una lira. 119 rendergliele: renderglieli; gliele è forma indeclinabile. 120 per l’amor di Dio: in elemosina.
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Il frate il domandò quale; e egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante121 mio, un sabato dopo nona122, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea». «Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier cosa». «Non123,» disse ser Ciappelletto «non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da 225 onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore». Disse allora il frate: «O, altro hai tu fatto?» «Messer sì,» rispose ser Ciappelletto «ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio». Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: 230 noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo». Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio». E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti; e ultimamente cominciò a sospirare e appreso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. 235 Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?» Rispose ser Ciappelletto: «Oimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta che io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi esser molto certo che Idio mai non avrà misericordia di me per questo peccato». 240 Allora il santo frate disse: «Va via124, figliuolo, che è ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che125 il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, e egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, sì è tanta la benignità e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli126, gliele perdonerebbe liberamente127: e per ciò dillo sicuramente». 245 Disse allora ser Ciappelletto sempre piagnendo forte: «Oimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato». A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Idio per te». Ser Ciappelletto pur piagnea128 e nol dicea, e il frate pure il confortava a dire; ma 250 poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, e egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che129 voi mi promettete di pregare Idio per me, e io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai130 una volta la mamma mia». E così detto rincominciò a piagner forte. Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo così gran peccato? o gli uomini be255 stemmiano tutto il giorno Idio, e sì131 perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che Egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione che io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli». Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, padre mio, che dite voi? la mamma mia dolce, 260 che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Idio per me, egli non mi serà perdonato». 220
121 fante: domestico. 122 dopo nona: dopo le tre del pomeriggio; secondo il salterio, è l’ora che precede il vespro, dopo il quale si considera iniziato il riposo domenicale.
123 Non: no. Uso toscano. 124 Va via: suvvia, andiamo. 125 mentre che: finché. 126 confessandogli egli: se egli li confessasse.
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127 liberamente: di buon grado. 128 pur piagnea: continuava a piangere. 129 poscia che: poiché. 130 bestemmiai: ingiuriai, maledissi. 131 e sì: eppure.
Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’absoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per132 santissimo uomo, sì come colui 265 che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso133 di morte dir così? E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Idio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacevi egli134 che ’l vostro corpo sia seppellito al nostro luogo135?» 270 Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì, anzi non vorrei io esser altrove, poscia che voi m’avete promesso di pregare Idio per me: senza che136 io ho avuta sempre spezial divozione al vostro Ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo il quale voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che, come che137 io degno non ne sia, io 275 intendo con la vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione138, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano». Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli diceva bene, e farebbe che di presente139 gli sarebbe apportato; e così fu. Li due fratelli, li quali dubitavan forte non140 ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’erano 280 posti appresso a un tavolato141, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, e ascoltando leggiermente142 udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano: e fra sé talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual 285 si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al guidicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far che egli così non voglia morire come egli è vivuto?» Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso143 si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò: e peggiorando senza modo ebbe l’ul290 tima unzione e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo144 come egli fosse onorevolemente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia145 secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò oportuna dispuosero. 300 Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme146 col priore del luogo; e fatto sonare a capitolo147, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea148; e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. 305 Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’acordarono: e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne 132 avendolo per: ritenendolo, considerandolo (latinismo). 133 in caso: in punto. 134 piacevi egli: vi farebbe piacere (egli è pleonastico). 135 luogo: convento. 136 senza che: oltre al fatto che. 137 come che: sebbene. 138 la santa e ultima unzione: l’estrema unzione impartita agli infermi.
139 di presente: subito. 140 dubitavan forte non: dubitavano
146 fu insieme: ebbe un colloquio. 147 a capitolo: per riunire il capitolo, os-
fortemente che (costrutto latineggiante).
sia l’assemblea dei frati.
141 tavolato: pannello. 142 leggiermente: senza difficoltà. 143 del rimaso: del resto. 144 ordinato… medesimo: utilizzando i
148 secondo… conceputo avea: sulla base di quanto aveva dedotto dalla sua confessione.
suoi stessi soldi. 145 vigilia: veglia funebre.
Il Decameron 2 663
vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camisci e co’ pieviali149, con li libri in mano e con le croci innanzi cantando andaron per questo corpo150 e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, 310 uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate, che confessato l’avea, salito in sul pergamo151 di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piangendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che Idio 315 gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maladetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Idio e la Madre e tutta la corte di Paradiso». E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità: e in brieve con le sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il 320 mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito152 fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato153 a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere154: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto155, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca di 325 marmo sepellito fu onorevolemente in una cappella: e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti a andare e a accender lumi e a adorarlo, e per conseguente a botarsi156 e a appicarvi le immagini della cera157, secondo la promession fatta. E in tanto158 crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversità fosse, che a altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo 330 e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Idio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno159 a chi divotamente si raccomanda a lui. Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in su 335 lo stremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Idio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto160, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fé 340 riguardando, così faccendo noi nostro mezzano161 un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità162 e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, Lui in reverenza avendo, ne’ nostri bisogni gli ci 345 raccomanderemo sicurissimi d’essere uditi. – E qui si tacque. 149 pieviali: il pieviale (forma arcaica, oggi piviale) è un paramento sacro usato per cerimonie di particolare solennità. 150 andaron per questo corpo: si recarono a prendere questo corpo. 151 pergamo: piccolo pulpito a lato dell’altare maggiore. 152 fornito: terminato. 153 da tutti fu andato: tutti andarono. 154 tenendosi beato… avere: ritenendosi
felice chi anche una piccola parte di quegli abiti potesse avere. 155 convenne… tenuto: si ritenne opportuno che rimanesse esposto così tutto il giorno. 156 botarsi: fare voti per ottenere delle grazie. 157 appicarvi… cera: attaccarvi immagini in cera, cioè degli ex-voto. 158 E in tanto: e tanto.
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159 tutto giorno: in continuazione. 160 per ciò che questo n’è occulto: dato che ci rimane ignoto questo (ovvero un pentimento in extremis). 161 mezzano: intermediario. 162 nelle presenti avversità: cioè, durante la peste.
Analisi del testo Sapienza di Dio e non-sapienza degli uomini: il preambolo e la conclusione La narrazione si presenta racchiusa tra due momenti meditativi (il preambolo e la conclusione del narratore), nei quali viene messa in luce la differenza tra il piano divino e quello umano: l’infinito discernimento di Dio è in grado di leggere la sincerità delle buone intenzioni, mentre l’uomo (persino l’esperto e sapiente confessore) rimane ingannato dalle apparenze e magari elegge a intermediario presso Dio una persona indegna, come ser Ciappelletto. Ma Dio, nella sua infinita bontà, esaudisce ugualmente quelli che lo pregano, anche attraverso chi santo non è. Le due parti commentative dovrebbero gettare, nelle intenzioni dell’autore, una luce diversa sul contenuto della novella, invitando il lettore a una valutazione non superficiale. Di fatto però la novella sta abbastanza “scomoda” tra i due momenti edificanti: la sua natura irriverente non risulta scalfita dalle riflessioni del narratore, che sembrano quasi volerne prudentemente attenuare la trasgressività, visto che proprio con essa si apre l’intera opera. Rimane comunque al lettore, per lo meno al lettore di oggi, l’impressione che il preambolo e la conclusione della novella siano una sorta di tributo doveroso all’etica religiosa e alla tradizione degli exempla. Nel caso della novella di Boccaccio però, la finalità morale dell’exemplum risulta quanto meno ambigua, così come del resto la posizione dell’autore nei confronti di quello che è il suo primo, indimenticabile, personaggio.
La struttura Lo sviluppo narrativo si articola in cinque momenti fondamentali. a. Presentazione degli antefatti: Musciatto Franzesi, dovendo abbandonare la Francia dove ha degli affari in sospeso, cerca qualcuno in grado di riscuotere i suoi crediti. Gli viene in mente ser Ciappelletto da Prato. L’apertura della novella apre uno squarcio sul mondo della mercatura: del mercante viene qui sottolineata l’avidità (Musciatto Franzesi che vuole a ogni costo riscuotere i propri crediti) e più avanti l’ipocrisia, nelle figure dei due usurai fiorentini, preoccupati solo di salvare le apparenze. b. Ritratto di ser Ciappelletto: è inusuale per Boccaccio soffermarsi così a lungo sulla descrizione di un singolo personaggio. Ma la malvagità innata di ser Ciappelletto non è un semplice elemento descrittivo, ma costituisce l’elemento fondante dell’intera novella. Solo conoscendola in dettaglio il lettore potrà capire appieno il significato del gesto che l’uomo sta per compiere. c. Infermità di ser Ciappelletto e preoccupazione dei due usurai che lo ospitano. d. La confessione: è il cuore dell’intera novella. e. Morte e santificazione di ser Ciappelletto: il finale vede il completo trionfo dell’inganno di ser Ciappelletto. Non solo è stato raggiunto l’obiettivo di farlo seppellire in chiesa con i dovuti riti e sacramenti, ma addirittura la sua confessione esemplare viene riportata dal frate come segno evidente di santità. Dopo di lui, anche la folla di fedeli cade nel tranello. Sul finale Boccaccio non manca di fare riferimento ai «molti miracoli» ottenuti per intercessione di «san Ciappelletto». È una critica implicita alla superstizione religiosa, anche se l’autore si premura di precisare che la misericordia e l’amore di Dio non badano alla pochezza dei santi, o presunti tali, che gli stolti uomini scelgono come intermediari.
Le forme della novella Il testo appare, quanto alle modalità narrative, molto articolato: è aperto e chiuso da due parti commentative; al preambolo segue un antefatto di carattere narrativo e quindi il vivace inserto descrittivo relativo alla figura di Ciappelletto. La narrazione riprende quindi fino a costruire le premesse della confessione. Quest’ultima occupa la parte principale del testo ed è fondata sul serrato dialogo tra Ciappelletto e il frate. Si tratta di una parte che presenta tratti di spiccata scenicità, che la avvicinano a un copione teatrale. Presupporrebbe la presenza di un pubblico, rappresentato qui dai due usurai: essi non vedono la magistrale recita di Ciappelletto, ma la ascoltano tutta e, degno pubblico del perfido notaio, si divertono alla sua performance.
Il rovesciamento della confessione-biografia di Ciappelletto La parte centrale della novella è occupata dalla confessione, assai dettagliata, resa da Ciappelletto al santo frate: in essa Boccaccio opera un vero e proprio rovesciamento di una forma codificata, ben nota al pubblico dell’epoca. Il rito penitenziale nella novella segue infatti il
Il Decameron 2 665
modello dei manuali di devozione: non solo è riprodotta la sequenza prevista dalla confessione nelle puntuali domande del frate relative ai peccati (capitali e “secondari”), ma del rito penitenziale spesso è ripreso fedelmente anche il linguaggio: ad esempio, nell’espressione «visitato da Dio» per indicare la malattia, oppure nel sintagma «pura e buona conscienza», di origine paolina, come fa notare il critico e filologo Gianfranco Contini. Attraverso le scaltre risposte di Ciappelletto, Boccaccio rovescia, parodizzandolo, il modello della confessione e opera una inversione dei ruoli in gioco: il confessato, il peccatore, diventa gradualmente modello di virtù, mentre il confessore si mostra sempre più turbato dalle sue parole (che lo inducono a un’autocritica) e arriva a riconoscersi, insieme ai suoi confratelli, peccatore («noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo»), meritandosi il duro rimprovero del confessato. L’inversione dei ruoli è segnalata dal passaggio dal “tu”, con cui il frate si rivolge a lungo a Ciappelletto, al “voi”, dopo l’assoluzione («con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano»): Ciappelletto non è più un peccatore, ma un modello di moralità. Man mano che la confessione si svolge, si attua anche in parallelo il completo rovesciamento della biografia di Ciappelletto: Ciappelletto “smonta” il ritratto che di lui è stato dato in precedenza e lo ricompone invertendone i termini; se all’inizio è presentato come il peggiore degli uomini, la confessione trasforma, in modo iperbolico, i vizi di Ciappelletto in virtù. Solo i due usurai, nascosti dietro la porta – insieme al lettore, complice della beffa – possiedono le conoscenze indispensabili per accorgersi del castello di menzogne costruito dal moribondo e riescono a cogliere il carattere antifrastico delle sue affermazioni.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta sinteticamente la novella (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quali sono i personaggi principali? Descrivili ognuno con “un’etichetta”. 3. Quali circostanze motivano la confessione di ser Ciappelletto? Il risultato che si ripropone di ottenere attraverso di essa riguarda lui stesso o altri? Quali effetti, certo inimmaginabili dal protagonista, produce la sua confessione dopo la sua morte? ANALISI 4. Individua il tema centrale della novella. 5. Boccaccio presenta il ritratto fisico e comportamentale di Ciappelletto in modo particolarmente analitico. Rintraccia nel testo i termini e le espressioni che descrivono il protagonista e spiega per quale ragione lo scrittore insiste su questi particolari. LESSICO 6. Individua nel testo esempi del lessico religioso.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 7. Ser Ciappelletto presenta una profonda ambiguità: da un lato è innegabilmente un uomo malvagio e corrotto, dall’altro la sua abilità nell’imbrogliare il frate non può non suscitare ammirazione. Un’ambiguità che forse caratterizza anche il rapporto tra l’autore e questo personaggio, e che ha dato vita a interpretazioni discordanti sulle finalità stesse che Boccaccio si proponeva: in particolare Vittore Branca, all’interno della sua interpretazione “ascensionale” dell’opera (da un inizio negativo fino all’esempio virtuoso dell’ultima novella), propende per leggere la prima come un exemplum di irreligiosità e perversione che l’uomo deve fuggire. Al contrario, Carlo Muscetta sottolinea il carattere comico di questa novella, concepita per far divertire il lettore e la ritiene una sorta di «exemplum alla rovescia». Rileggi quanto asserito nel profilo a proposito dei procedimenti di ironizzazione e riscrittura parodica in primo piano nel “gioco intellettuale” del Decameron e argomenta con un breve testo a favore di una delle due posizioni critiche.
online T6b Giovanni Boccaccio
La “miracolosa” guarigione di Martellino Decameron II, 1
666 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Giovanni Boccaccio
T6c
La strana storia di Nastagio degli Onesti Decameron V, 8
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Einaudi, Torino 1984
Nella celebre novella di Nastagio degli Onesti Boccaccio mostra di conoscere molto bene la letteratura esemplare di carattere penitenziale e ascetico e alcuni motivi topici di essa, come quello della “caccia infernale”. In particolare la novella boccacciana mostra un’evidente parentela con il racconto esemplare di Jacopo Passavanti, anche se quest’ultimo non costituì la fonte diretta del racconto di Boccaccio, essendo lo Specchio di vera penitenza del Passavanti posteriore al Decameron. La fonte di Boccaccio per la “caccia infernale” fu probabilmente lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais (XII-XIII sec.). Il confronto tra i due testi, proprio per l’analogia di alcune situazioni, si mostra particolarmente utile per evidenziare le novità della narrativa di Boccaccio rispetto agli exempla medievali: in particolare la rinuncia al fine edificante e addirittura l’ironico sovvertimento della “morale della storia”.
AUDIOLETTURA
NASTAGIO DEGLI ONESTI, AMANDO UNA DE’ TRAVERSARI1, SPENDE LE SUE RICCHEZZE SENZA ESSERE AMATO; VASSENE PREGATO DA’ SUOI A CHIASSI2; QUIVI VEDE CACCIARE A UN CAVALIERE UNA GIOVANE E UCCIDERLA E DIVORARLA DA DUE CANI; INVITA I PARENTI SUOI E QUELLA DONNA AMATA DA LUI A UN DESINARE, LA QUALE3 VEDE QUESTA MEDESIMA GIOVANE SBRANARE E TEMENDO DI SIMILE AVVENIMENTO4 PRENDE PER MARITO NASTAGIO. […] In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già5 assai nobili e gentili uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti6, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimase ricchissimo7. Il quale, sí come de’ giovani avviene, essendo senza moglie s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo 5 Traversaro8, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre a amar lui. Le quali9, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica10 gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sí altiera e disdegnosa divenuta, che né 10 egli né cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare11, che per dolore più volte dopo essersi doluto gli venne in disidero d’uccidersi; poi, pur tenendosene12, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o se potesse d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, 15 tanto più multiplicasse il suo amore.
1 Onesti…Traversari: famiglie aristocratiche di Ravenna. 2 Chiassi: Classe, località a sud di Ravenna, dove si trovava la pineta. 3 la quale: Bianca Traversari, la donna amata da Nastagio. 4 temendo…avvenimento: temendo che accada anche a lei la stessa cosa. 5 furon già: vissero un tempo.
6 Nastagio degli Onesti: la famiglia degli Onesti esistette davvero e fu nobile e ricca come il Boccaccio ci dice. 7 senza stima rimase ricchissimo: restò incredibilmente ricco. 8 Paolo Traversaro: della famiglia dei Traversaro Dante ricorda il padre di Paolo, Pietro (Pg XIV, 98), come esempio di virtù cortesi, in un canto in cui esprime
accorata nostalgia dei valori antichi ormai estinti nella gretta e corrotta società del suo tempo. 9 Le quali: si riferisce a opere. 10 salvatica: scontrosa, scostante. 11 gravosa a comportare: pesante da sopportare. 12 pur tenendosene: pur astenendosi (da un gesto estremo come il suicidio).
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Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per consumare13; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare, 20 per ciò che, cosí faccendo, scemerebbe l’amore e le spese14. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollecitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo15; e fatto fare un grande apparecchiamento16, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da’ suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscí e andossen a un luogo fuor 25 di Ravenna forse tre miglia, che si chiama Chiassi17; e quivi fatti venir padiglioni e trabacche18, disse a color che accompagnato l’aveano che starsi19 volea e che essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio cominciò a fare la più bella vita e la piú magnifica che mai si facesse, or questi e or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato s’era. 30 Ora avvenne che, venendo quasi all’entrata di maggio, essendo un bellissimo tempo e egli entrato in pensiero della sua crudel donna, comandato a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero per più poter pensare a suo piacere, piede innanzi piè se medesimo trasportò pensando infino nella pigneta20. E essendo già passata presso che la quinta ora del giorno21 e esso bene un mezzo miglio per la pigneta 35 entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi22 da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse e maravigliossi nella pigneta veggendosi. E oltre a ciò, davanti guardandosi, vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane 40 ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e da’ pruni, piagnendo e gridando forte mercé23; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole spesse volte crudelmente dove la giugnevano24 la mordevano; e dietro a lei vide venire sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco25 in mano, lei di morte con parole spaventevoli e 45 villane minacciando. Questa cosa a un’ora26 maraviglia e spavento gli mise nell’animo e ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sí fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d’albero in luogo di bastone27 e cominciò a farsi incontro a’ cani e contro al cavaliere. 50 Ma il cavaliere che questo vide gli gridò di lontano: «Nastagio, non t’impacciare, lascia fare a’ cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato». E cosí dicendo, i cani, presa forte la giovane ne’ fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopragiunto smontò da cavallo; al quale Nastagio avvicinatosi disse: «Io non so chi
13 parve… consumare: sembrò a certi amici e parenti che stesse per consumare se stesso e al contempo il suo patrimonio. 14 per ciò… spese: poiché, facendo in questo modo, sarebbero calati l’amore e anche le spese. 15 disse di farlo: disse che lo avrebbe fatto. 16 apparecchiamento: preparativi. 17 Chiassi: Classe, vicino a Ravenna, dove ancora oggi si trova un’ampia pineta.
18 padiglioni e trabacche: tipi di tende, le prime più ampie e le seconde più piccole. 19 starsi: fermarsi. 20 piede innanzi… pigneta: preso nelle sue malinconie d’amore, Nastagio giunge senza accorgersene alla pineta. 21 la quinta ora del giorno: le undici di mattina. 22 guai altissimi messi: lamenti altissimi emessi.
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23 gridando forte mercé: invocando pietà a voce alta. 24 dove la giugnevano: nel punto del corpo che raggiungevano. 25 stocco: spada. 26 a un’ora: al contempo. 27 in luogo di bastone: per servirsene come di un bastone.
tu ti se’ che me cosí cognosci, ma tanto28 ti dico che gran viltà è d’un cavaliere 55 armato volere uccidere una femina ignuda e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica: io per certo la difenderò quant’io potrò». Il cavaliere allora disse: «Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, e eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi29, era troppo più innamorato di costei che tu ora non se’ di quella de’ Traversari; e per 60 la sua fierezza e crudeltà andò sí la mia sciagura, che io un dí con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene eternali dannato. Né stette poi guari tempo30 che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morí, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma 65 meritato, similmente fu e è dannata alle pene del Ninferno31. Nel quale come ella discese, cosí ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nemica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà 70 poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sí come tu vedrai incontanente, le caccio di corpo e dolle32 mangiare a questi cani. Né sta poi grande spazio33 che ella, sí come la giustizia e la potenzia di Dio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla. E avviene che ogni venerdí in su questa ora io la giungo qui e qui ne fo lo strazio che vederai; 75 e gli altri dí non credere che noi riposiamo, ma giungola34 in altri luoghi ne’ quali ella crudelmente contro a me pensò e operò; e essendole d’amante divenuto nemico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitar quanti mesi ella fu contro a me crudele. Adunque lasciami la divina giustizia mandare a essecuzione35, né ti volere opporre a quello a che tu non potresti contrastare». [Dopo aver visto l’orrida scena, Nastagio rimane a lungo pensieroso, ma poi riflette sull’utilità che potrebbe derivargli da questo spettacolo ultraterreno che, come gli ha detto il cavaliere, si ripete ogni venerdì. Decide di invitare per un pranzo all’aperto, proprio nel punto dove si è verificata l’apparizione, la famiglia dei Traversari e i loro parenti e amici. Il pranzo sta per terminare quando…] Essendo adunque già venuta l’ultima vivanda, e36 il romor disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato a udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse e niuno sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e ’l cavaliere e’ cani; né guari stette che essi tutti furon quivi tra loro. Il romore fu fatto grande e a’ cani e al cavaliere37, 85 e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare ma tutti gli spaventò 80
28 tanto: soltanto. 29 Guido degli Anastagi: anche la famiglia degli Anastagi è ricordata nel passo dantesco del Purgatorio sopra citato (nota 8). 30 Né stette poi guari tempo: e non passò molto tempo.
31 Ninferno: inferno. 32 dolle: le do. 33 Né sta poi grande spazio: e non passa poi molto tempo. 34 giungola: la raggiungo.
35 Adunque… essecuzione: dunque lasciami eseguire la volontà divina. 36 e: ecco che. 37 Il romore… al cavaliere: dai presenti si levano grida rivolte ai cani e al cavaliere.
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e riempié di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v’aveva (ché ve ne aveva assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere e che si ricordavano dell’amore e della morte di lui) tutte cosí miseramente 90 piagnevano come se a se medesime quello avesser veduto fare. La qual cosa al suo termine fornita38, e andata via la donna e ’l cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e varii ragionamenti. Ma tra gli altri che più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta avea e udita e conosciuto che a sé più che a altra persona che vi fosse queste cose 95 toccavano39, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggire dinanzi da lui adirato e avere i mastini a’ fianchi. E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide, il quale quella medesima sera prestato le fu, che ella, avendo l’odio in amor tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la 100 quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacere, d’andare a lei, per ciò che ella era presta40 di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove le piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie. La giovane, la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse41, gli fece risponder 105 che le piacea42. Per che43, essendo ella medesima la messaggera, al padre e alla madre disse che era contenta d’essere sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto. E la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sí tutte le ravignane44 donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arren110 devoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano. 38 al suo termine fornita: giunta al termine. 39 toccavano: si rivolgevano, si riferivano. La giovane ha colto la lezione personale che la terribile scena le indirizzava.
40 presta: pronta, disposta. 41 la qual… non fosse: la quale sapeva che non era dipeso da altri che da lei il non sposare Nastagio.
42 le piacea: acconsentiva. 43 Per che: per cui. 44 ravignane: ravennati.
Analisi del testo Nastagio come prototipo della nobiltà “cortese” La figura del protagonista della vicenda, Nastagio degli Onesti, non è certo lasciata indefinita e generica: come sempre, Boccaccio connota il personaggio attraverso precisi dettagli e un’accurata caratterizzazione anche sociale. Nastagio è il rappresentante (non troppo diverso da un altro celebre personaggio, ovvero Federigo degli Alberighi ➜ T9c ), di una nobiltà pericolosamente incline a consumare i propri beni in nome degli ideali cortesi della liberalità e della raffinatezza di vita. Proprio come Federigo, anche Nastagio spende smisuratamente per conquistare l’amore di una donna. Una volta convinto a lasciare Ravenna, si trasferisce a Classe con lo sfarzo di un sovrano accompagnato dalla sua corte («fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da’ suoi molti amici accompagnato, di Ravenna uscì») e conduce, una volta alloggiato nella località scelta, una vita splendida e signorile.
Il mito cortese dell’amore-malattia… Nastagio è esponente oltremodo rappresentativo di una civiltà, quella cortese, che ha fatto dell’amore assoluto il proprio centro ideale e il cardine dei modelli di comportamento. Il giovane ama di un amore senza speranza una donna dura e inaccessibile: nella situazione che mette in moto la macchina narrativa è facile riconoscere il mito cortese dell’amore infelice, non corrisposto e inappagato, per una figura femminile superiore e irraggiungibile.
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Nastagio è preda di un distruttivo incantesimo, è evidente vittima della “malattia d’amore” (➜C4, PER APPROFONDIRE La concezione medievale dell’amore come malattia): immerso nella sua fantasticheria amorosa, perde persino la cognizione del tempo e dello spazio e si ritrova nel cuore della pineta, dove avverrà la scena della “caccia infernale”. Di fronte a essa, Nastagio si comporta da perfetto emblema del cavaliere cortese: il codice cavalleresco lo obbliga ad accorrere prontamente in aiuto dei deboli e delle donne indifese e lo induce ad apostrofare il persecutore della donna accusandolo di viltà.
… e il suo rovesciamento pragmatico Nella seconda parte della novella l’astrattezza del codice amoroso cortese è rovesciata in nome di una visione prettamente pragmatica e addirittura utilitaristica: messe da parte le esibizioni di liberalità e grandezza, dimostratesi inutili, Nastagio comprende l’utilità che la terribile scena può avere per lui quando si ripresenterà e decide, con una punta di cinismo calcolatore, di sfruttare la situazione per il suo personale vantaggio, ovvero la conquista della donna disperatamente amata.
La rilettura ironica dell’exemplum La vicenda rappresentata nella novella costituisce una lettura critica del mito dell’amore cortese, ma il vero obiettivo del racconto è il rovesciamento, se non addirittura la parodizzazione, degli exempla medievali e più in generale della narrativa finalizzata all’edificazione dei lettori. Spesso tale forma narrativa, frequentemente utilizzata dai predicatori durante le omelie ai fedeli, utilizzava l’ingrediente della paura, con lo scopo dichiarato di spaventare i fedeli, inducendoli così a rispettare le leggi di Dio e a condurre una vita ispirata ai valori cristiani. Di una vera e propria “pedagogia del terrore” si può parlare in particolare a proposito di Jacopo Passavanti a cui si deve l’exemplum del conte di Niversa che abbiamo riportato per l’evidente analogia (ma anche le significative differenze) con la novella boccacciana. Boccaccio assume consapevolmente un materiale quasi topico e riconoscibilissimo dai lettori del tempo, ovvero il tema della “caccia infernale” e lo schema della visione soprannaturale per rovesciare il significato esemplare di essi in nome di una morale aperta e spregiudicata, propria dell’autore e fatta propria anche da Nastagio, una volta che la visione gli ha “aperto gli occhi”.
Un contro-exemplum Della scena soprannaturale Nastagio coglie, come già si è detto, la possibile strumentalizzazione per i suoi fini (terrorizzare la donna amata e renderla più arrendevole). Effettivamente Nastagio non sbaglia: vedendo la scena, la superba fanciulla si immedesima a tal punto nella situazione che viene a più miti consigli, immaginando di fare la stessa fine della donna straziata dal cavaliere e dai cani. Addirittura il contro-exemplum estende la sua valenza dimostrativa alle altre donne ravennati: tutte quante da quel momento, grazie alla paura (non a caso citata da Boccaccio alla fine della novella) diventano più compiacenti verso i desideri maschili. La morale della storia ribalta maliziosamente l’invito alla purezza rivolto dal pulpito e dalle pagine dai predicatori.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dividi la novella in sequenze dando a ognuna di esse un titolo. 2. Il personaggio di Nastagio ti sembra statico o dinamico? Motiva la tua risposta. SINTESI 3. Riassumi la vicenda narrata (max 10 righe). COMPRENSIONE 4. Quali tratti in comune hanno Nastagio e il cavaliere condannato? ANALISI 5. In quali punti del testo compare la figura della donna amata da Nastagio?
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Interpretare
TESTI A CONFRONTO 6. Dopo aver letto il testo completa la tabella confrontando la novella di Boccaccio con l’exemplum di Passavanti, tratto da Lo specchio di vera penitenza: qui il narratore-predicatore si propone, attraverso il racconto esemplare del conte di Niversa, un preciso obiettivo: invitare i fedeli, attraverso una storia terrificante, a cercare di evitare con la buona condotta in vita le terribili pene che l’espiazione dei peccati prevede nel purgatorio. Lo leggiamo in una versione in italiano corrente. Infine evidenzia analogie e differenze in un breve testo (max 20 righe) che sviluppi i dati raccolti.
Si legge in Elinando1, che nel contado di Niversa c’era un pover’uomo, buono e timorato di Dio, che faceva il mestiere di carbonaio, e di quello viveva. Una volta, avendo accesa la fossa nella quale si arde la legna per produrre il carbone, e passando la notte in una capanna a guardia della fossa, verso mezzanotte sentì grandi strida. Uscì fuori per vedere che cosa fosse, e vide venire di corsa verso la fossa, gridando, una donna nuda e scapigliata, inseguita da un cavaliere su un cavallo nero al galoppo, con uno coltello sguainato in mano; dalla bocca, dagli occhi, dal naso del cavaliere e del cavallo uscivano fiamme di fuoco. Giunta alla fossa, la donna non proseguì oltre, e senza osare gettarsi dentro, prese a correre intorno alla fossa, finché fu raggiunta dal cavaliere, che la prese per i capelli svolazzanti e crudelmente la ferì in mezzo al petto con il coltello che brandiva. La donna cadde a terra, in un lago di sangue, il cavaliere la riacciuffò per i capelli insanguinati, e la gettò nella fossa de’ carboni ardenti; dopo averla lasciata per un po’ di tempo, la riprese tutta bruciacchiata, se la caricò davanti, sul collo del cavallo, e di corsa se ne andò per dove era venuto. La seconda e la terza notte il carbonaio ebbe la stessa visione. Allora, avendo familiarità con il conte di Niversa sia per il mestiere che faceva sia per il suo buon carattere che il nobile, uomo sensibile, apprezzava; andò dal conte e gli riferì la visione che aveva avuto per tre notti. Il conte si recò col carbonaio sul luogo della fossa e vegliando insieme nella capanna, nell’ora consueta arrivò la donna urlando, e il cavaliere dietro, e fecero tutto ciò che il carbonaio aveva visto. Sebbene fosse molto spaventato per l’orribile fatto a cui aveva assistito, il conte si fece coraggio. E al cavaliere spietato che si stava allontanando con la donna arsa sul cavallo nero, gridò scongiurandolo, che si fermasse e desse una spiegazione. Voltato il cavallo, il cavaliere in lagrime, gli disse: “Poiché, conte, tu vuoi sapere della mia sciagura, che Dio t’ha voluto mostrare, sappi ch’io fui Giuffredi, un tuo cavaliere, nutrito alla tua corte. Questa donna, verso cui sono tanto crudele e feroce, è dama Beatrice, moglie del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Presi dal piacere della nostra illecita passione, noi cedemmo a tal punto al peccato, che per poter più liberamente peccare lei uccise suo marito. Perseverammo nel peccato fin quasi a morirne, ma prima lei, poi io riuscimmo a pentirci; e confessando la nostra colpa, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena eterna in una pena temporanea in purgatorio. Onde sappi che noi non siamo dannati, ma ci comportiamo come hai veduto per scontare in tal modo la nostra pena purgatoriale, e quando sarà avranno fine i nostri tormenti”. 1 Elinando: erudito francese (XII-XIII secolo), autore di opere morali e religiose, e di una cronaca universale (di cui ci restano solo gli ultimi libri).
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Allora il conte gli chiese di spiegare più specificamente le loro pene; al che rispose fra lagrime e sospiri: “Poiché per amor mio questa donna uccise suo marito, le è stata data questa pena: ogni notte, secondo quanto ha stabilito la giustizia divina, patisce dalle mie mani lo strazio della morte con il coltello. E dato che ella provò nei miei confronti un ardente amore ispirato dal desiderio carnale, ogni notte, dalle mie mani è gettata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come un tempo ci siamo guardati con concupiscenza per darci piacere reciproco, così ora ci guardiamo con odio e ci perseguitiamo con grande sdegno. E come l’uno accese nell’altro un amore disonesto, così l’uno dà all’altro un crudele tormento; e ogni pena che io infliggo a lei, anch’io la sopporto, perché il coltello con cui la ferisco è tutto un fuoco, che non si spegne mai; e gettandola nel fuoco, e di lì traendola e trasportandola, ardo tutto anch’io. Il cavallo è un demonio, al quale siamo affidati, che ci tormenta. E molte altre ancora sono le nostre pene. Pregate Iddio per noi: fate le elemosine e fate celebrare le messe, perché si alleggeriscano i nostri martiri”. E questo detto, sparì veloce come un fulmine. Non ci dispiaccia dunque, miei dilettissimi2, soffrire in vita per poter scampare dalle orribili pene e dai dolorosi tormenti dell’altra vita, a cui, volenti o nolenti, dobbiamo pur andare. 2 Non ci… dilettissimi: il Passavanti riprende il discorso rivolto al suo pubblico. J. Passavanti, in Scrittori di religione del Trecento, a c. di G. De Luca, Ricciardi, Milano-Napoli 1954
Nastagio degli Onesti
Il carbonaio di Niversa
chi assiste alla visione
i protagonisti della scena soprannaturale
la posizione ideologica dell’autore
motivo della pena
la finalità della narrazione
la tipologia dei lettori
descrizione dell’ambiente e dei personaggi
descrizione dei particolari della “visione infernale”
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Sguardo sull’arte La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Sandro Botticelli Nel 1483 il pittore Sandro Botticelli decide di illustrare la novella di Boccaccio con quattro opere. Il lavoro gli fu commissionato da Lorenzo il Magnifico in occasione di un matrimonio come dono di nozze. Nel primo pannello qui riprodotto si raffigura Nastagio mentre entra nella pineta e vede la donna rincorsa dai mastini del cavaliere. Anche la scena del terzo episodio qui riprodotta è ambientata nella pineta in cui Nastagio ha organizzato un banchetto per mostrare ai convenuti la punizione ciclica delle due anime. In questi dipinti riusciamo a vedere i tratti peculiari della pittura di Botticelli: il minuzioso realismo descrittivo e la vivacità narrativa. Le figure presentano colori brillanti e nitidi.
Sandro Botticelli, Nastagio degli Onesti, primo e terzo episodio, 1483 (Museo del Prado, Madrid).
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IMMAGINE INTERATTIVA
Giovanni Boccaccio
La predica magistrale di frate Cipolla
T6d
Decameron VI, 10 La novella, narrata da Dioneo, è l’ultima della sesta giornata, dedicata a chi riesce a cavarsi d’impaccio con la prontezza della parola. È quanto fa frate Cipolla, uno dei personaggi più noti del Decameron: con la sua predica farsesca riesce a superare un’imbarazzante situazione e ad abbindolare una folla di ingenui contadini. Ambientata in un piccolo borgo toscano, la novella mette in scena uno dei momenti tipici della dimensione religiosa medievale: la predica ai fedeli, strumento principale di orientamento dei comportamenti soprattutto delle masse illetterate e, insieme, di aggregazione sociale. In questa novella assistiamo alla parodizzazione del genere testuale della predica che Boccaccio si diverte a realizzare.
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
FRATE CIPOLLA PROMETTE A CERTI CONTADINI DI MOSTRAR LORO LA PENNA DELL’AGNOLO1 GABRIELLO; IN LUOGO DELLA QUALE TROVANDO CARBONI, QUEGLI DICE ESSER DI QUEGLI CHE ARROSTIRONO SAN LORENZO. […] Certaldo2, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Valdelsa posto nel nostro contado3, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d’agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura4 vi trovava, usò un lungo tempo d’andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi5 un de’ frati 5 di santo Antonio6, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che7 quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana. Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante8 del mondo: e oltre a questo, niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, 10 non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano9: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benvogliente10. Il quale, secondo la sua usanza, del mese d’agosto tra l’altre v’andò una volta; e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine11 delle ville da torno12 15 venuti alla messa nella calonica13, quando tempo gli parve, fattosi innanzi disse: «Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno a’ poveri
1 agnolo: angelo. 2 Certaldo: il paese d’origine di Boccaccio, tra Firenze e Siena.
3 un castel… contado: un borgo in Val d’Elsa (provincia di Siena), nel nostro territorio. 4 buona pastura: letteralmente “buona erba da pascolo”. La metafora allude alle laute offerte dei certaldesi. 5 ricoglier… dagli sciocchi: raccogliere l’elemosina fatta dagli sciocchi, i certaldesi. Il narratore esprime un aperto giudizio sulla loro ingenuità.
6 un de’ frati di santo Antonio: uno dei frati dell’ordine fondato da sant’Antonio. Documenti del tempo alludono effettivamente all’abitudine dei frati antoniani di chiedere denaro al popolino sfruttandone l’ignoranza e la credulità. 7 con ciò sia cosa che: dato che. 8 brigante: compagnone, membro di una brigata. 9 Tulio… Quintiliano: Boccaccio intende Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) e Quintiliano (ca. 35-95 d.C.) che rappresentavano i modelli per eccellenza di arte oratoria.
10 compare… benvogliente: compare è tuttora nel Sud d’Italia chi è particolarmente legato a una famiglia, perché è stato testimone di nozze o padrino di cresima o battesimo; benvogliente significa “benevolente, ben disposto”. I tre aggettivi (compare, amico, benvogliente) sono disposti in ordine decrescente. 11 femine: donne. 12 delle ville da torno: delle case coloniche dei dintorni. 13 calonica: canonica, ossia chiesa parrocchiale.
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del baron14 messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò che il beato santo Antonio vi sia guardia de’ buoi e degli asini e de’ porci e delle pecore vostre15; e oltre a ciò 20 solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia16 scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l’abate, stato mandato17; e per ciò con la benedizion di Dio, dopo nona18, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bascerete la croce; e oltre 25 a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia19 vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d’oltremare: e questa è una delle penne dell’agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne a annunziare in Nazarette20». E questo detto si tacque e ritornossi21 alla messa. 30 Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l’uno Giovanni del Bragoniera e l’altro Biagio Pizzini22, li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che23 molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa24. E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel ca35 stello25 con un suo amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada, e all’albergo dove il frate era smontato se n’andarono con questo proponimento, che Biagio dovesse tenere a parole il fante26 di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse27, e torgliele28, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire. 40 Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco29; il quale era tanto cattivo30, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto31. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata32 e di dire: «Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l’una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o 45 in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove!»; e essendo alcuna volta domandato quali fossero queste nove cose e egli, avendole in rima messe, rispondeva: «Dirolvi33: egli è tardo, su-
14 baron: titolo onorifico che veniva premesso nel Medioevo anche ai nomi dei santi. 15 santo Antonio… pecore vostre: sant’Antonio abate è il protettore di tutte le bestie d’allevamento e da cortile. 16 compagnia: confraternita. 17 Alle quali… mandato: a riscuotere le quali (offerte) io sono stato mandato dal mio superiore, cioè messer l’abate. 18 nona: circa le tre del pomeriggio. 19 di spezial grazia: come grazia speciale. 20 Nazarette: Nazareth. 21 si tacque e ritornossi: tacque e tornò. 22 Giovanni del Bragoniera… Biagio
Pizzini: sono famiglie realmente esistite a Certaldo ai tempi di Boccaccio, che probabilmente ebbero rapporti con suo padre. 23 ancora che: sebbene. 24 seco… beffa: si riproposero di fargli una beffa con questa penna. 25 nel castello: nella parte più alta del paese. 26 tenere… il fante: trattenere con delle chiacchiere il servitore. 27 chente che ella si fosse: quale mai essa fosse. 28 torgliele: sottrargliela. 29 Guccio… Porco: Boccaccio si ispira a un personaggio probabilmente esisti-
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to davvero e qui identificato con dei soprannomi che alludono, il primo (Balena) alla pesantezza, il secondo (Imbratta) alla sporcizia, il terzo (Porco) alla grossolana sensualità. 30 cattivo: sciocco, inetto. 31 che egli… alcun cotanto: che superava Lippo Topo (personaggio proverbiale, ricordato per le stranezze e lo spirito scherzoso). 32 Di cui… con la sua brigata: sul quale frate Cipolla era solito scherzare con la sua compagnia. 33 Dirolvi: ve lo dirò.
gliardo34 e bugiardo; negligente, disubidiente e maldicente; trascutato35, smemorato 50 e scostumato; senza che egli ha alcune altre teccherelle36 con queste, che si taccion per lo migliore37. E quel che sommamente è da rider de’ fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione38; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s’avisa39 che quante femine il veggano tutte di lui s’innamorino, e essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro per55 dendo la coreggia40. È il vero che egli m’è d’un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d’alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga». A costui, lasciandolo all’albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse 60 che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre. Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago41 di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna42, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso 65 che parea de’ Baronci43, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò; e ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore44 e che egli aveva de’ fiorini più di millantanove45, 70 senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche46. E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio47, e a un suo farsetto rotto e ripezzato48 e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume49, con più macchie e di più colori che mai drappi 75 fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Ciastiglione50, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese51 e trarla di quella cattività di star con altrui52 e senza gran possession d’avere53 ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai: le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite54, come le più delle sue 80 imprese facevano, tornarono in niente.
34 tardo, sugliardo: pigro, sporco. 35 trascutato: senza testa, negligente. 36 teccherelle: difettucci. 37 che si taccion per lo migliore: che è meglio tacere.
38 tor casa a pigione: prendere casa in affitto.
39 s’avisa: pensa. 40 e essendo lasciato… coreggia: e se lo si lasciasse fare, correrebbe dietro a tutte anche se stesse perdendo la cintura dei pantaloni. 41 vago: desideroso. 42 massimamente… niuna: soprattutto se si accorgeva della presenza di qualche serva. 43 Baronci: famiglia fiorentina nota per la sua bruttezza.
44 egli era… procuratore: egli era un gentiluomo per procura, per interposta persona (ossia non lo era per nulla). 45 millantanove: indica una quantità indefinitamente spropositata, con una sfumatura ironica; infatti ricorda per assonanza il sostantivo millanteria. Guccio Imbratta sembra aver fatto proprie le etimologie farsesche che il suo padrone fra poco utilizzerà così bene. A suo modo anche lui si serve della parola per sedurre la serva. 46 che… unquanche: che mai saprebbe fare e dire neppure il suo padrone. 47 il calderon d’Altopascio: i monaci d’Altopascio, vicino Lucca, cucinavano in enormi calderoni i pasti per i poveri.
48 farsetto… ripezzato: una sopravveste sdrucita e rattoppata. 49 sotto le ditella… sucidume: lucido per la sporcizia sotto le ascelle. 50 il siri di Ciastiglione: il signore di Châtillon. L’espressione rinvia genericamente a toponimi francesi: qui sta per “grande feudatario”. 51 in arnese: in sesto. 52 trarla… con altrui: sottrarla a quella schiavitù (cattività) che la costringeva a stare al servizio degli altri. 53 senza… d’avere: senza grandi ricchezze. 54 in vento convertite: trasformate in aria (cioè in vuote parole).
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Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata55, non contradicendolo alcuno56 nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale aperta, 85 trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata57 una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d’un pappagallo, la quale avvisarono58 dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a’ certaldesi. E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente59 far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d’Egitto60, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come 90 poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate61: e dove che elle poco conosciute fossero62, in quella contrada quasi in niente erano dagli abitanti sapute63; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avea ricordare64. Contenti adunque i giovani d’aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare 95 la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia65 come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire. Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano 100 la penna dell’agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo66, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano67, con disidero aspettando di veder questa penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande 105 esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che là sù con le campanelle68 venisse e recasse le sue bisacce. Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto69, con le cose addimandate con fatica lassù n’andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell’acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta della 110 chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare. Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato70, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica e in acconcio de’ fatti suoi71 disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell’agnol Gabriello, fatta prima con gran solennità la confessione72, fece accender due torchi73
55 cessata: evitata. 56 non contradicendolo alcuno: senza che nessuno lo impedisse. 57 gran viluppo… fasciata: avvolta in un grande drappo di seta. 58 avvisarono: pensarono. 59 leggiermente: facilmente. 60 le morbidezze d’Egitto: le eleganze dell’Egitto. Il paese rappresenta in generale tutto l’Oriente, a cui l’immaginario medievale associava l’idea di favolose ricchezze e di lusso sfarzoso. 61 come poi… trapassate: come poi in abbondanza (copia è latinismo) si sono diffuse in tutta Italia, con effetti di corruzione.
62 e dove… fossero: e se altrove erano poco conosciute (sempre le morbidezze). 63 in niente.. sapute: non erano note (sapute) per niente. 64 non che… avea ricordare: non solo non avevano mai visto dei pappagalli, ma la maggior parte non li aveva mai sentiti nominare. È proprio su questa base che frate Cipolla può spacciare la penna di pappagallo per una delle penne dell’angelo Gabriele. 65 racconcia: rimessa a posto. 66 come… ogni uomo: dopo che tutti ebbero pranzato.
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67 tanti… vi capeano: accorsero così tanti uomini e tante donne nella parte alta del paese, che appena vi entravano. 68 campanelle: all’atto del mostrare le reliquie, venivano suonate delle campanelle. 69 si fu divelto: si allontanò, si staccò. 70 ragunato: radunato. 71 in acconcio de’ fatti suoi: per perseguire il proprio scopo. 72 fatta… la confessione: recitato il Confiteor, preghiera rituale di confessione collettiva dei peccati. 73 torchi: grossi ceri.
e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a commendazione74 dell’agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non sospicò75 che ciò Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto76, né il maladisse del male aver guardato che altri 120 ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa77, conoscendol, come faceva, negligente, disubidiente, trascutato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: «O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia!». Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse: «Signori e donne, voi dovete sapere 125 che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole78, e fummi commesso con espresso comandamento79 che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana80, li quali, ancora che a bollar81 niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi. Per la qual cosa messom’io in cammino, di Vinegia82 partendomi e andandomene per lo Borgo de’ 130 Greci e di quindi83 per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi84 da me divisando85? Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia86, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni87 trovai 135 assai, li quali tutti il disagio andavan per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi dove la loro utilità vedessero seguitare88, nulla altra moneta spendendo che senza conio89 per quei paesi: e quindi passai in terra d’Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe’ monti90, rivestendo i porci delle lor busecchie91 medesime; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e 140 ’l vin nelle sacca92: da’ quali alle montagne de’ bachi93 pervenni, dove tutte l’acque corrono alla ’ngiù. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino in 115
74 a laude e a commendazione: in lode e in onore. 75 sospicò: sospettò. 76 da tanto: capace di tanto. 77 bestemmiò… aveva commessa: maledisse in silenzio sé stesso, che aveva affidata a lui la tutela delle sue cose. 78 in quelle… il sole: cioè ovunque; ma l’equivoco sta nell’intendere apparisce come “sorge”, il che starebbe a significare l’Oriente. Inizia con queste parole la lunga orazione di frate Cipolla, costituita da una serie di frasi e locuzioni prive di senso, commiste a modi di dire locali, citazioni di luoghi esotici o immaginari. Lo scopo è stordire e sbalordire gli ignari e ignoranti popolani fino a giungere al clamoroso effetto finale. 79 fummi commesso… comandamento: mi fu affidato l’incarico con un ordine esplicito. 80 i privilegi del Porcellana: i documenti che comproverebbero i privilegi del Porcellana, ossia l’ospedale di San Filippo a
Firenze di cui Guccio era custode; ma il nome richiama anche quello del servo del frate. 81 bollar: apporvi una bolla (approvazione ufficiale). 82 Vinegia: si tratta di un’antica contrada fiorentina ma, per equivoco, suggerisce Venezia. Allo stesso modo, tutti i luoghi citati appresso nella predica di Frate Cipolla si riferiscono a vie di Firenze realmente esistenti, posti lungo una direttrice che attraversa la città da est a ovest. Ma lo scaltro oratore vuole che il suo uditorio pensi a un viaggio in terre esotiche e lontane. 83 di quindi: da qui. 84 cerchi: cercati, visitati. 85 divisando: descrivendo. 86 Truffia… Buffia: comincia la serie di toponomastici immaginari con senso satirico. Questi, tanto ricchi di popolazione, sono evidentemente i paesi della truffa e della beffa. Inoltre, il Braccio di San Giorgio è anche il Bosforo.
87 religioni: ordini religiosi. 88 li quali… seguitare: tutti evitavano ogni disagio per amore di Dio, curandosi poco delle fatiche altrui quando vedessero che ne derivasse un utile. Fra i luoghi immaginari evocati dalla ricca fantasia del frate si insinua una realistica allusione alla negativa condotta degli uomini di chiesa. 89 che senza conio: se non quella priva di valore, o inesistente (non essendo mai stata coniata). 90 vanno… pe’ monti: questa operazione, come le successive, è ovvia e non certo tipica di terre esotiche. Non è escluso che, oltre al significato letterale, nelle varie espressioni ci siano allusioni di carattere sessuale. 91 busecchie: budella; perciò, confezionando salsicce e salami. 92 il pan… nelle sacca: le ciambelle infilate nel bastone e il vino negli otri. 93 bachi: forse deformazione di “baschi”.
Il Decameron 2 679
India Pastinaca94, là dove io vi giuro per l’abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati95, cosa incredibile a chi non gli96 avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio97, il quale gran mercatante io trovai là, che schiacciava 145 noci e vendeva gusci a ritaglio98. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, per ciò che da indi in là si va per acqua99, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il pan freddo quatro denari e il caldo v’è per niente100. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace101, degnissimo patriarca di Ierusalem. Il quale, per reverenzia dell’abito che io ho 150 sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate102, ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san 155 Francesco, e una dell’unghie de’ gherubini, e una delle coste del Verbum-caro-fattialle-finestre103 e de’ vestimenti della santa Fé catolica104, e alquanti de’ raggi della stella che apparve a’ tre Magi in Oriente, e una ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole105, e la mascella della Morte di san Lazzero106 e altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare 160 e d’alquanti capitoli del Caprezio107, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli partefice108 delle sue sante reliquie: e donommi uno de’ denti della santa Croce e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell’agnol Gabriello, della quale già detto v’ho, e l’un de’ zoccoli di san Gherardo da Villamagna109 (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo 165 di Bonsi110, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi de’ carboni co’ quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito111; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte112. È il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto113 che io l’abbia mostrate infino a tanto che certificato non s’è se desse sono114 o no; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal
94 mei… Pastinaca: nientemeno che fino
102 sconsolate: deluse. Il femminile veniva
107 per ciò che… Caprezio: poiché libe-
in India. Pastinaca è il nome di una radice dolce; qui probabilmente il termine è utilizzato per il suono misterioso e per alludere alle spezie orientali, ma pur sempre con una sfumatura ironica. 95 pennati: equivoco tra pennati, specie di roncole per la potatura delle fronde degli alberi, e pennuti, ossia gli uccelli. 96 gli: li. 97 Maso del Saggio: figura proverbiale di burlone, che compare anche in altre novelle (Decameron. VIII, 3). 98 a ritaglio: al dettaglio. 99 per acqua: per mare. L’India, secondo la concezione del tempo, era l’ultima terra, dopo la quale si apriva l’Oceano. 100 di state… per niente: d’estate il pane raffermo costa quattro denari e la calura la si ha per nulla. 101 Nonmiblasmete Sevoipiace: è un nome ricavato da una deformazione del francese antico, Ne me blasmez se vos plait, “non mi biasimate per favore”.
spesso usato come forma di cortesia, quando ci si rivolgeva a un uditorio sia maschile sia femminile. Da questo punto il discorso dell’astuto frate Cipolla imbocca la strada del riferimento alle reliquie, in cui dà prova di un’inventività virtuosistica, senza preoccuparsi di utilizzare riferimenti addirittura blasfemi pur di colpire il suo uditorio. 103 una delle… finestre: una delle costole del “Verbo che si fece carne”; storpiatura della frase Verbum caro factum est, tratta dal Vangelo di Giovanni e ripetuta anche nella preghiera dell’Angelus, con l’aggiunta alle finestre per confondere gli ascoltatori. 104 vestimenti… catolica: la fede cattolica qui personificata come se potesse indossare degli abiti. 105 diavole: diavolo. 106 mascella… Lazzero: la morte che colpì san Lazzaro, secondo l’uso medievale viene immaginata come uno scheletro, di cui frate Cipolla avrebbe visto la mascella.
ramente gli procurai la trascrizione delle pendici del Monte Morello in volgare e di molti capitoli del Caprezio. La frase è senza senso (se non la solita allusione in chiave sessuale). 108 partefice: partecipe. 109 Gherardo da Villamagna: uno dei primi seguaci di san Francesco. 110 Gherardo di Bonsi: personaggio fiorentino realmente vissuto nella prima metà del Trecento, membro autorevole dell’Arte della lana. 111 diedemi… arrostito: e mi diede alcuni carboni con i quali fu arso vivo (sulla graticola) san Lorenzo. 112 le quali… tutte: le quali reliquie tutte le portai di qua dal mare, con me, con spirito di devozione, e le ho (holle) tutte. 113 sofferto: permesso. 114 se desse sono: se sono proprio autentiche.
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Patriarca fatto n’è certo, m’ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui115, sempre le porto meco. Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa l’una per l’altra, e al presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi 175 io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de’ carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom’io pur testé116 che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì. E per ciò, volendo Idio che io, col mostrarvi i carboni co’ quali esso fu arrostito, 180 raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall’omor117 di quel santissimo corpo mi fé pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v’appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco118, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco 185 nol cocerà che non si senta119». E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s’appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano120, che con essi gli dovesse toccare il pre190 gava ciascuno. Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano121, affermando che tanto quanto essi scemavano122 a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato. E in cotal guisa, non senza sua grandis195 sima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire123. Li quali stati alla sua predica e avendo udito 200 il nuovo riparo124 preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse125 e con che parole, avevan tanto riso, che eran creduti smascellare. E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del 205 mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono126 e appresso gli renderono la sua penna; la quale l’anno seguente gli valIllustrazione di artisti fiamminghi per la novella di Frate Cipolla, miniatura del Decameron nel 127 se non meno che quel giorno gli fosser manoscritto 5070, f. 236r (1440 ca., Bibliothèque valuti i carboni. de l’Arsenal, Parigi). 170
115 fidarle altrui: affidarle ad altri. 116 pur testé: solo ora. 117 omor: umore, grasso. 118 tocco: toccato. 119 che non si senta: senza che se ne accorga. Si conclude la predica con l’ennesimo equivoco burlesco. 120 che usati non erano: di quanto non fossero soliti.
121 che vi capevano: che potevano starci (latinismo). 122 scemavano: si consumavano, diminuivano. 123 in cotal guisa… creduto schernire: in questo modo, non senza averne ricavato un grande beneficio, avendo segnati con la croce tutti i certaldesi, grazie a un pronto stratagemma, raggirò coloro che,
togliendogli la penna, avrebbero voluto raggirare lui. 124 riparo: rimedio. 125 quanto… fosse: quanto l’avesse presa alla lontana. 126 discoprirono: svelarono. 127 gli valse: gli rese (valse; e così gli fosser valuti “gli avessero reso”).
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Analisi del testo Uno scenario e un personaggio realistici Questa novella si svolge proprio nel paese d’origine della famiglia di Boccaccio, Certaldo, un borgo rurale. Puntuale e precisa è la connotazione sociale fornita dall’autore: il paese è piccolo, ma non manca «di nobili uomini e d’agiati». Il popolino è costituito da contadini, la cui ingenuità li rende una «buona pastura» per l’astuto frate che ogni anno vi andava «a ricoglier le limosine fatte […] dagli sciocchi». I certaldesi appaiono nel complesso portatori di valori e consuetudini propri di un arcaico mondo contadino. Realistica è anche la figura del predicatore itinerante rappresentata da frate Cipolla e l’importanza che il momento della predica aveva nella vita semplice delle comunità del contado. Alla figura del predicatore la Chiesa riconosceva un ruolo determinante nella diffusione dei precetti cristiani. Nello Specchio di vera penitenza (➜ C3), il domenicano Jacopo Passavanti ne aveva definito i compiti e le caratteristiche principali, ritraendo il predicatore come persona colta, in grado di addentrarsi nei misteri delle Scritture e di farne partecipe il popolo illetterato. Non sempre però la realtà corrispondeva a questo modello ideale. Spesso poi i predicatori utilizzavano effettivamente espedienti giullareschi, esasperando la gestualità, pur di conquistare l’uditorio. In particolare, proprio i frati di sant’Antonio usavano spesso ricorrere spregiudicatamente a ostensioni di reliquie. La figura di frate Cipolla e la situazione evocata nella novella, pur esasperata, non è dunque semplicemente il frutto dell’immaginazione di Boccaccio, bensì rispecchia una situazione storica reale.
La parodizzazione della predica Frate Cipolla si rivolge alla folla con un discorso intessuto di ambiguità, paradossi, volute contraddizioni, vere e proprie assurdità, legittimate dall’autorevolezza attribuita allora alla predica: la predica è parola sacra, e come tale è recepita passivamente da «i buoni uomini e le femine» certaldesi. Boccaccio si sofferma sulla loro ingenua credulità, che li fa accorrere alla promessa di vedere la penna dell’angelo Gabriele: «dettolo l’un vicino all’altro e l’una comare all’altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con disidero aspettando di veder questa penna». È resa con grande vivacità l’atmosfera di trepida aspettativa creata dalle parole del frate, il frenetico passaparola tra vicini e comari, e sembra quasi di percepire la fretta con cui gli impazienti paesani consumano il loro pranzo, per poter poi correre ad affollare il castello di Certaldo, dove si svolgerà la magistrale rappresentazione di frate Cipolla. Crea un comico contrasto con la febbrile aspettativa dei fedeli la placida flemma con cui quest’ultimo si prepara alla propria entrata in scena, «avendo ben desinato e poi alquanto dormito». Il frate appare pienamente padrone della situazione, domina la platea in ogni momento e non si fa mai cogliere alla sprovvista, neppure quando, aperta la cassetta, vi trova i carboni posti lì dai due giovani burloni: egli capisce subito lo scherzo di cui è vittima e la sua reazione è immediata, analoga a quella di un consumato attore di teatro, abituato a fronteggiare qualsiasi imprevisto di palcoscenico: «senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: “O Idio, lodata sia sempre la tua potenzia”». La predica è un discorso molto lungo e complesso, con una lunga parte introduttiva di cui non si capisce subito la ragione: sembra quasi che frate Cipolla stia prendendo tempo per meglio architettare la menzogna finale. Vediamo di sintetizzarne le principali strategie utilizzate dall’abilissimo oratore. • Fin dalle prime battute emerge la profonda differenza tra due livelli di consapevolezza sulla quale è costruita tutta la novella: il frate fa ricorso a una serie di doppi sensi geografici, derivati dall’ambigua denominazione di strade e quartieri di Firenze e dintorni. Solo un ascoltatore cittadino, come «i due giovani astuti molto», sarebbe in grado di capire il contenuto comico di questi giochi di parole; non certo i poveri certaldesi, esperti solo delle viuzze del loro piccolo borgo. Il viaggio esotico descritto da frate Cipolla altro non è che un percorso cittadino attraverso alcuni quartieri di Firenze ben noti sia ai due giovani sia ai lettori del tempo, ma per «gli uomini e le femine semplici» che ascoltano a bocca aperta le storie del frate, essi sono tanto sconosciuti quanto le più lontane regioni d’Oriente. • La predica poi prosegue con uno dei metodi più comuni per impressionare le platee devote durante il Medioevo: l’interminabile enumerazione di incredibili reliquie.
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• La predica si chiude con il ricorso alla misericordia divina, che ha voluto porre nelle mani del frate la scatola con i carboni invece di quella con la penna, e con l’ultimo equivoco-beffa: «voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta». Il trucco è quello di dire una cosa del tutto ovvia, in modo tale da farla apparire miracolosa. La chiusa della novella sancisce ulteriormente lo scarto tra il livello dei fedeli di Certaldo, che si accalcano per essere segnati con i carboni e si fanno spillare pingui elemosine, e il livello di frate Cipolla e dei suoi beffatori, uniti nella risata finale, che è anche quella dei lettori.
Due livelli di consapevolezza All’interno della novella vengono a delinearsi chiaramente, come già accennato, due piani distinti: quello di frate Cipolla, scaltro e abile manipolatore, e quello del popolo, «gli uomini e le femine semplici», ingenui e sprovveduti, incapaci di riconoscere gli inganni. Tutto il meccanismo narrativo è fondato sullo scarto tra questi due diversi livelli di consapevolezza, tra il sapere del frate e il non sapere della folla, tra l’arguzia spregiudicata del primo e la candida credulità degli altri: da notare che l’azione si svolge tutta al primo livello, dove vengono prese tutte le iniziative, mentre il popolo funge solo da pubblico passivo e inerte. Sullo stesso piano di frate Cipolla si trovano anche i «due giovani astuti molto» che volevano gabbarlo sostituendo la reliquia, e che diventano virtualmente suoi complici: sono infatti gli unici tra i certaldesi presenti in grado di capire i doppi sensi e la toponomastica burlesca nella predica imbastita in fretta e furia dal frate. Essi costituiscono quindi una sorta di “secondo pubblico”, smaliziato e accorto, analogo ai lettori reali della novella che, al pari loro, recepiscono gli inganni dello scaltro predicatore e si divertono di fronte alla sua mirabolante inventività. E sono forse depositari di un ulteriore livello di lettura, cioè la capacità di gustare la parodizzazione del genere testuale della predica che Boccaccio si diverte a realizzare.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dividi in sequenze la novella dando a ognuna di esse un titolo, poi organizza i contenuti in una breve sintesi (max 10 righe). 2..Individua i narratori della novella: narratore di 1o grado: ..........................; narratore di 2o grado: .......................... ANALISI 3. Descrivi il personaggio di Guccio Imbratta, rilevando anche le particolari scelte lessicali di Boccaccio nella rappresentazione che vede in scena Guccio e la Nuta. Sai spiegare perché è stato definito un “doppio” di frate Cipolla? STILE 4. Individua gli stratagemmi retorici utilizzati da frate Cipolla nella sua predica: assonanze, fraseologie volutamente equivoche, frasi involute e confuse che esprimono concetti contraddittori, uso di termini altisonanti e così via.
Interpretare
SCRITTURA 5. In più punti Boccaccio si sofferma sugli aspetti di teatralità che caratterizzano la devozione popolare medievale; prova a ripercorrere la novella soffermandoti in particolare sulla gestualità di frate Cipolla, sul suo rapporto con il pubblico e su tutti gli atteggiamenti che rendono la sua figura simile a quella di un attore. Esponi le riflessioni raccolte in una breve trattazione (max 15 righe). TESTI A CONFRONTO 6. Nel Decameron è già apparsa un’altra predica: nella novella di ser Ciappelletto (➜ T6a ), quando il sant’uomo, che aveva confessato lo scellerato protagonista, ne celebra il funerale e sancisce la sua santificazione. Rileggi il passo e delinea un confronto con la folla che assiste allo “spettacolo” di frate Cipolla. Qual è l’atteggiamento cui Boccaccio dà maggior risalto? Riesci a intuire il giudizio implicito dell’autore?
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T7
Amore e morte Nelle novelle di seguito antologizzate vediamo un motivo ricorrente della narrativa cortese da Tristano e Isotta a Paolo e Francesca, ossia il binomio “amore-morte”: gli innamorati separati in vita possono ricongiungersi solo nella morte.
Giovanni Boccaccio
T7a
Tancredi e Ghismonda: una tragedia feudale
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Decameron IV, 1 G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
La potenza invincibile dell’amore, la nobiltà d’animo contrapposta al lignaggio: alcune delle principali tematiche di Boccaccio si incontrano in questa celebre novella, di cui non si conosce alcun preciso antecedente (forse un motivo di ispirazione può riconoscersi nello storico Paolo Diacono, che narra della macabra vicenda della regina longobarda Rosmunda costretta a bere dal cranio di suo padre). Ghismonda (o Ghismunda), diletta figlia di Tancredi, principe di Salerno, ama Guiscardo, un umile valletto nella corte di suo padre e da lui è riamata. Scoperta, la donna rivendica il proprio diritto a vivere appieno le pulsioni amorose che la natura ha posto nel suo giovane cuore e, di fronte ai rimproveri di Tancredi, afferma con decisione che la virtù di un uomo non ha nulla a che vedere con la sua condizione sociale.
TANCREDI, PRENZE DI SALERNO1, UCCIDE L’AMANTE DELLA FIGLIUOLA E MANDALE IL CUORE IN UNA COPPA D’ORO; LA QUALE, MESSA SOPR’ESSO ACQUA AVVELENATA, QUELLA SI BEE E COSÌ MUORE. […] Tancredi, prencipe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno2, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate3; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice 5 sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire4, non la maritava: poi alla fine a un figliuolo del duca di Capova5 datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi. 10 Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda6 e savia più che a donna per avventura non si richiedea7. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna8, in molte dilicatezze9, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più10 maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo11, si pensò di volere avere, se esser potesse, 12 15 occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri13, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e’ 1 Tancredi… Salerno: Tancredi, principe di Salerno. Nota Branca che «tutti i nomi e i riferimenti storici di questa novella sono immaginari». 2 ingegno: indole. 3 se egli… bruttate: se egli in tarda età non si fosse sporcato le mani con il sangue di due amanti. 4 non… partire: non sopportando di separarsi da lei.
5 Capova: Capua. 6 gagliarda: ardita, coraggiosa, piena di spirito. 7 savia… richiedea: più saggia di quanto non si richiedesse normalmente a una donna. L’osservazione rispecchia la mentalità medievale, e antica in genere, secondo cui a una donna non si richiedono particolari doti intellettuali, che anzi possono addirittura risultare dannose, poiché rischiano di renderla meno docile.
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8 sì come gran donna: come si conviene a una donna di altissimo lignaggio quale era Ghismonda. 9 dilicatezze: agi, lussi. 10 di più: ancora, una seconda volta. 11 né a lei… il richiedernelo: né le sembrava conveniente richiederglielo. 12 occultamente: di nascosto (da tutti). 13 veggendo… altri: frequentando alla corte del padre uomini nobili e non nobili.
costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile14 ma per vertù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente15 s’accese, ognora più lodando i modi suoi16. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto17, 20 essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa18. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né vogliendosi di questo amore in alcuna persona fidare19, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova 25 malizia20. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente per esser con lei gli mostrò21; e poi quella messa in un bucciuolo di canna22, sollazzando23 la diede a Guiscardo e dicendo: «Fara’ne questa sera un soffione alla tua servente24, col quale ella raccenda il fuoco». Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato25 30 e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa: e guardando la canna e quella vedendo fessa26, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse già mai e diedesi a dare opera di dovere a lei andare27 secondo il modo da lei dimostratogli. Era allato al palagio28 del prenze una grotta cavata29 nel monte, di lunghissimi tempi 35 davanti30 fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte31, il quale, per ciò che32 abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato33; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio la quale la donna teneva34, si poteva andare, come che35 da uno fortissimo uscio serrata fosse. E era sì fuori delle menti 40 di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava36: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata37 alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse38 d’aprir quello uscio: il quale aperto e 45 sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per39 quello aveva a Guiscardo man-
14 di nazione assai umile: umile per na-
21 ciò che a fare… gli mostrò: gli spiegò
31 dava… monte: dava un po’ di luce una
scita. 15 fieramente: di un desiderio molto intenso. 16 ognora… i modi suoi: ogni giorno sempre più lodando i suoi atteggiamenti. 17 ancora non era poco avveduto: inoltre, non era uno sprovveduto. 18 aveva… rimossa: si era a tal punto innamorato di lei, che aveva distolto la mente da quasi tutto tranne che da questo amore. 19 né… fidare: né volendo confidare a nessuno questo amore. 20 a dovergli… malizia: pensò a un originale stratagemma (nuova malizia) per comunicargli il modo in cui avrebbero potuto stare insieme.
che cosa doveva fare il giorno seguente per stare con lei. 22 in un bucciuolo di canna: nel tratto di canna tra un nodo e l’altro. 23 sollazzando: scherzando, ridendo. 24 Fara’ne… servente: ne farai un soffione (spiega Branca: «canna forata con cui si soffia nel fuoco per ravvivarlo») per la tua serva. 25 avvisando… donato: capendo che costei non senza motivo doveva averglielo dato. 26 fessa: cava. 27 diedesi… andare: cominciò a predisporre ogni cosa per potersi incontrare con lei. 28 allato al palagio: a fianco del palazzo. 29 cavata: scavata. 30 di lunghissimi tempi davanti: molto tempo prima.
piccola apertura creata artificialmente nella montagna. 32 per ciò che: poiché. 33 riturato: tappato (si riferisce allo spiraglio). 34 la quale… teneva: la quale (una delle camere terrene) era abitata dalla donna. 35 come che: sebbene. 36 era… si ricordava: questa scala era così lontana dal pensiero di tutti, dato che da tantissimo tempo non veniva usata, che quasi nessuno si ricordava che esistesse. 37 tornata: richiamata. 38 molti dì… potesse: per molti giorni (con degli arnesi che si era procurata) aveva armeggiato prima che le riuscisse. 39 per: passando attraverso quello.
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dato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata40 l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire41 Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire a alcuno, 50 la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato42 bene l’uno de’ capi della fune a un forte bronco43 che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò44 nella grotta e attese la donna. La quale il seguente dì, faccendo sembianti45 di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio nella grotta discese, dove, 55 trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono46; e dato discreto ordine47 alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo, e ella, serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente48, sù per la sua fune sagliendo49, per lo spiraglio donde era entrato 60 se n’uscì fuori e tornossi50 a casa; e avendo questo cammino appreso più volte poi in processo di tempo51 vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de’ due amanti rivolse52 in tristo pianto. Era usato53 Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola 65 e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare54 là giù venutone, essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella senza essere stato da alcuno veduto o sentito entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto55, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute56, a piè di quello in un 70 canto sopra un carello57 si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente58 si fosse nascoso, quivi s’adormentò. E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate la sue damigelle nel giardino, pianamente59 se ne entrò nella camera: e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’u75 scio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su il letto, sì come usati60 erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano. E dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso61, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo 80 di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta e ella s’uscì della camera. Della quale62 Tancredi, ancora che63
40 disegnata: indicata. 41 Alla qual cosa fornire: per realizzare questo piano. 42 accomandato: assicurato. 43 bronco: sterpo, arbusto (dantismo: If XIII, 26). 44 collò: calò. 45 faccendo sembianti: fingendo. 46 si dimorarono: si trattennero. 47 dato discreto ordine: imposta una regola giudiziosa, di discrezione.
48 vegnente: seguente. 49 sagliendo: salendo. 50 tornossi: se ne tornò. 51 in processo di tempo: nel corso del tempo.
52 rivolse: trasformò. 53 Era usato: aveva l’abitudine (Tancredi è soggetto). 54 dietro mangiare: dopo mangiato. 55 non volendo… suo diletto: non volendo sottrarla ai suoi svaghi.
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56 le cortine… abbattute: le tende del baldacchino del letto abbassate.
57 carello: sgabello con cuscino e ruote. 58 studiosamente: a bella posta. 59 pianamente: tranquillamente. 60 usati: abituati. 61 prese partito… nascoso: prese la decisione di tacere e star nascosto.
62 Della quale: si riferisce alla camera. 63 ancora che: sebbene.
vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò. 85 E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in sul primo sonno64 Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato65, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato66; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: «Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai67, sì come io oggi vidi con gli occhi miei». 90 Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: «Amor può troppo più che né voi né io possiamo68». Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse69; e così fu fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco 95 Tancredi varie e diverse novità pensate70, appresso mangiare secondo la sua usanza nella camera n’andò della figliuola: dove fattalasi chiamare71 e serratosi dentro con lei, piangendo le cominciò a dire: «Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno 100 uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato72; di che io, in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba, sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. E or volesse Idio che, poi che a tanta disonestà conducer ti dovevi73, avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole74 fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti75 Guiscardo, giovane di vilissi105 ma76 condizione, nella nostra corte quasi come per Dio77 da piccol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare78. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo79 in prigione, ho io già meco preso partito che farne80; ma di te sallo81 Idio che io non so che farmi. Dall’una parte mi 110 trae82 l’amore il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi83 vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca84: ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire85». E questo detto bassò86 il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto87.
64 in sul primo sonno: nelle prime ore
71 fattalasi chiamare: fattala chiamare
78 non sappiendo… mi pigliare: non sa-
della notte. 65 così come… impacciato: dato che era impacciato nei movimenti dalla veste di cuoio. 66 menato: condotto. 67 la mia benignità… fatta m’hai: la mia benevolenza verso di te non avrebbe meritato l’offesa e la vergogna che mi sono state arrecate nei riguardi dei miei affetti più cari (nelle mie cose). 68 Amor… possiamo: l’Amore ha un potere superiore sia al vostro sia al mio. 69 chetamente… fosse: in segreto fosse rinchiuso e custodito in una camera. 70 avendo seco… pensate: avendo meditato cose insolite e strane tra sé (si allude ai progetti di vendetta del principe nei confronti dei due amanti).
alla sua presenza. 72 mai non mi… pur pensato: mai avrei potuto immaginare (cader nell’animo) se non l’avessi visto coi miei occhi, quand’anche mi fosse stato riferito, che tu avessi non dico fatto ma anche solo pensato di avere rapporti sessuali con alcun uomo che non fosse stato tuo marito. 73 poi che… ti dovevi: poiché dovevi giungere a un comportamento così disonesto. 74 decevole: degno, conveniente. 75 tra tanti… eleggesti: tra tanti che frequentano la mia corte hai scelto. 76 vilissima: molto umile. 77 quasi come per Dio: quasi per carità, come orfano.
pendo io che decisione prendere nei tuoi riguardi, come comportarmi con te. 79 hollo: lo tengo (hollo sta per ”l’ho”). 80 ho io… che farne: io ho dentro di me già deciso che cosa fare di lui. 81 sallo: lo sa. 82 mi trae: mi trattiene. 83 quegli… questi: il primo riferito all’amore come padre; il secondo, contrapposto, allo sdegno come principe. 84 contro a mia natura in te incrudelisca: contro la mia stessa inclinazione, ti punisca con durezza. 85 prima… dire: prima di decidere, desidero ascoltare quello che tu in proposito devi dire. 86 bassò: abbassò. 87 ben battuto: picchiato ben bene.
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Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto ma ancora preso Guiscardo88, dolore inestimabile sentì e a mostrarlo con romore e con lagrime89, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltà vincendo il suo animo altiero90, il viso suo con maravigliosa forza fermò91, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare 120 in vita dispose92, avvisando già esser morto il suo Guiscardo93. Per che94, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa95, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato così al padre disse: «Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia96; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola 125 la tua mansuetudine e ’l tuo amore: ma, il vero confessando, prima con vere ragioni difender la fama97 mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio98. Egli è il vero99 che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò100 d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine 130 del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dové, Tancredi, manifesto101, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con che forza vengano102 le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi essercitato ti sii103, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozii e le dilicatezze 135 possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero104, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento105. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi 140 tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi106. E certo in questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare107. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva108: e questo, chi che ti se 115
88 conoscendo… Guiscardo: considerando che non solo il suo amore era stato scoperto, ma anche (che) Guiscardo era stato catturato. 89 con romore e con lagrime: con urla e pianti. 90 altiero: altero, orgoglioso e forte. 91 fermò: compose. 92 avanti che… dispose: prima di supplicare per la propria salvezza, decise di rinunciare alla vita, di uccidersi. 93 avvisando… Guiscardo: avendo capito che ormai il suo Guiscardo doveva già essere morto. 94 Per che: per cui. 95 non come dolente… valorosa: non come farebbe una donna prostrata dal dolore e umiliata per essere stata colta in fallo, ma sprezzante e piena di coraggio. 96 per ciò che… vaglia: poiché né l’una cosa (il negare) mi servirebbe, né l’altra (il pregare) voglio che mi serva.
97 fama: onore. 98 con fatti… dell’animo mio: agire coerentemente con la mia nobiltà d’animo. 99 Egli è il vero: è vero (egli è pleonastico). 100 non mi rimarrò: non smetterò. 101 Esser… manifesto: ti dovrebbe essere chiaro, evidente. 102 ricordar… vengano: ti dovevi e devi ricordare, malgrado tu ora sia (sie) vecchio, di che natura siano e con quale energia si manifestino. 103 come… ti sii: sebbene tu, poiché sei uomo, abbia speso parte dei tuoi migliori anni nell’esercizio delle armi. 104 e per l’una… disidero: sia perché sono fatta di carne, sia perché sono giovane (sì poco vivuta), ardo di desideri carnali. 105 al quale… dar compimento: al quale (disidero “desiderio”) ha dato forza straordinaria l’aver io conosciuto, essendo stata già sposata, quale piacere si provi nell’appagarlo.
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106 a seguir… innamora’mi: mi disposi a seguire quello (l’istinto) verso cui esse (le forze dell’amore) mi spingevano (tiravano) e mi innamorai. 107 in questo… vergogna fare: in questo misi ogni sforzo affinché, per quanto mi era possibile, il peccato naturale cui ero attirata non recasse vergogna né a te né a me. 108 Alla qual cosa… perveniva: per conseguire questo scopo, sia una sensibile disposizione amorosa (pietoso Amore) sia circostanze fortunate avevano trovato e indicato a me una maniera segreta per la quale, senza che nessuno se ne avvedesse, giungevo a soddisfare i miei desideri.
l’abbia mostrato o come che tu il sappi109, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro110 e con avveduto pensiero a me lo ’ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio111. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare opinione che la verità seguitando, con più ama150 ritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato esser non ti dovessi se io nobile uomo avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi son posta112: in che non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni a alto leva, abbasso lasciando i degnissimi113. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii delle cose114: tu vedrai noi d’una massa 155 di carne tutti la carne avere e da uno medesimo Creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze115, con iguali vertù create. La vertù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse116; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano117 nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza118 poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta 160 via né guasta dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera119, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama commette difetto120. Raguarda121 tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità122 giudicare, tu dirai lui 165 nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto quanto tu commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato123? E certo non a torto: ché, se’ miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, 170 e più mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi124: e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, ché così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato125; ma la povertà 145
109 e questo… il sappi: e questo, chiunque sia che te l’abbia mostrato o in qualunque modo tu ne sia venuto a conoscenza, non lo nego. 110 non per accidente… a ogni altro: non per caso (contrapposto a diliberato consiglio) presi (come amante), come fanno molte, ma scelsi (elessi, latinismo) ponderatamente. Ghismonda rivendica con fierezza la piena responsabilità della sua scelta. 111 goduta… disio: ho appagato il mio desiderio. 112 Di che egli… posta: di questo (egli è il solito soggetto pleonastico), oltre al fatto di aver commesso il peccato carnale, sembra che tu mi rimproveri con più amarezza – seguendo (seguitando) di più l’opinione corrente (volgare) che la verità – dicendo che mi sono messa con un uomo di umile condizione, quasi che tu non ti saresti turbato se avessi scelto un nobile per (a) questo fine (cioè per un rapporto erotico). 113 in che non t’accorgi… i degnissimi: in
ciò non ti rendi conto che rimproveri non il mio peccato, ma quello della sorte, che assai spesso pone in alto le persone non degne e lascia in basso quelle degnissime. 114 riguarda… principii delle cose: il discorso di Ghismonda, implacabile argomentatrice, invita ora il padre a considerare i princìpi concettuali basilari della questione. 115 potenze: potenzialità. 116 La vertù… ne distinse: ai privilegi del sangue Ghismonda oppone le qualità individuali. 117 adoperavano: mettevano in pratica. 118 contraria usanza: opposta consuetudine. 119 adopera: si comporta. 120 e chi altramenti… commette difetto: con implacabile logica argomentativa, Ghismonda sostiene che quando un uomo si comporta virtuosamente (come il suo Guiscardo) mostra di essere nobile, e commette errore (difetto) chi non lo chiama gentile.
121 Raguarda: considera. 122 senza animosità: senza farti influenzare dalla rabbia del momento. 123 Chi il commendò… commendato: chi lo lodò mai tanto quanto tu lo lodavi in tutte quelle azioni degne di stima per le quali (che) un uomo virtuoso debba essere lodato? 124 niuna laude… non vedessi: nessuna lode gli fu da te concessa che io non gli vedessi messa in atto, e in modo più ammirevole che le tue parole potessero esprimere. 125 per avventura… stato: per caso, se tu dicessi che mi sono messa con una persona povera, si potrebbe concedere con tua vergogna, perché hai portato un tuo valido servitore in una posizione elevata. L’affermazione suona ironica, visto che Tancredi non ha saputo promuovere un uomo che pure diceva di stimare.
Il Decameron 2 689
non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere126. Molti re, molti gran prencipi furon già poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne127. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi128, caccial del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir, se’ disposto129, usa in me la tua crudeltà, la quale a alcun 180 priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato130, se peccato è; per ciò che io t’acerto131 che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le lagrime, e incrudelendo, con un medesimo colpo, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi». 185 Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva132; per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire133, pensò con gli altrui danni134 raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano135 che senza alcun romore lui 190 la seguente notte strangolassono; e trattogli il cuore a lui il recassero. Li quali, così come loro era stato comandato, così operarono136. Laonde137, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare138 il mandò alla figliuola e imposegli che quando gliele desse dicesse: «Il tuo padre ti 195 manda questo per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava». Ghismunda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua redusse139, per presta averla140 se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e 200 col presento141 e con le parole del prenze, con forte viso142 la coppa prese; e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: «Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente143 questo è: discretamente144 in ciò ha il mio padre adoperato». 205 E così detto, appressatoselo alla bocca, il basciò, e poi disse: «In ogni cosa sempre e infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che già mai145; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo già mai, di così gran presento, da mia parte gli renderai». 175
126 ma la povertà… sì avere: la povertà non toglie nobiltà a nessuno, bensì gliela toglie la ricchezza. 127 sonne: sono. 128 che di me far ti dovessi: che cosa dovessi fare di me. 129 se tu… disposto: se tu negli ultimi anni della tua vecchiaia sei disposto a fare ciò che da giovane non usasti fare, cioè comportarti in modo crudele. 130 usa in me… di questo peccato: esercita la tua crudeltà contro di (in) me, che non sono disposta a supplicarti di alcunché, dal momento che proprio tu sei la
prima causa del mio peccato. 131 t’acerto: ti assicuro. 132 non credette… diceva: non credette che la sua grandezza d’animo fosse tale da portarla a compiere davvero quello che le sue parole significavano, (così) come le diceva. 133 da sé rimosso… incrudelire: allontanato del tutto il pensiero di voler infierire in alcun modo su di lei. 134 con gli altrui danni: cioè, a danno di un altro, di Guiscardo. 135 guardavano: custodivano.
690 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
136 così operarono: così fecero (così è ripetuto pleonasticamente).
137 Laonde: quindi. 138 per… famigliare: per mezzo di un suo servitore estremamente riservato. 139 stillò… redusse: distillò e diluì in acqua. 140 per presta averla: per averla (la pozione velenosa) pronta. 141 presento: dono. 142 forte viso: aspetto fermo, impassibile. 143 chente: quale. 144 discretamente: saggiamente. 145 già mai: (ora più che) mai.
Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: «Ahi! dolcissimo albergo146 di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere147! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora148. Tu hai il tuo corso fornito149, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato150: venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre: lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche e dal tuo nemico medesimo 215 quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava a aver compiute essequie151, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi152, pose Idio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi153; e dateleti154, senza alcun indugio farò 220 che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già tanto cara guardasti155. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti156 che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro157 e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei e, come colei che ancora son certa che m’ama158, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata». 225 E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore159, sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson160 dir le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte 230 piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano161 di confortarla. La qual poi che quanto le parve162 ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito163, né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia164». 235 E questo detto, si fé dare l’orcioletto165 nel quale era l’acqua che il dì davanti aveva fatta, la quale mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato; e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve e bevutala con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente166 seppe compose il corpo suo sopra quello e al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza 240 dire alcuna cosa aspettava la morte. 210
146 albergo: dimora. È il cuore, topica sede d’Amore. 147 colui che… vedere: colui che mi permette di vederti con gli occhi del corpo (quelli reali, posti sotto la fronte), cioè mio padre che mi ha dato la vita; contrapposti a quegli della mente, gli occhi dell’immaginazione. 148 Assai… a ciascuna ora: a me era sufficiente poterti vedere in ogni momento con gli occhi della mente. 149 hai… fornito: hai concluso il corso della tua vita. 150 di tale… spacciato: ti sei liberato di quella vita (di tale) che la fortuna ti concesse.
151 compiute essequie: degne onoranze funebri. 152 acciò che tu l’avessi: affinché tu le potessi avere. 153 come che… avessi: sebbene avessi deciso di morire con gli occhi asciutti e il viso non spaventato da nulla. 154 dateleti: dopo avertele date (le lacrime). 155 farò che… guardasti: farò in modo che la mia anima, con il tuo aiuto (adoperandol tu), si ricongiunga a quell’anima che tu (si rivolge al cuore) custodisti tanto caramente. Si ricordi che, per la scienza medievale, l’anima aveva sede nel sangue, cioè nel cuore. 156 luoghi non conosciuti: l’aldilà.
157 quincentro: qui, nelle vicinanze. 158 come… m’ama: poiché sono certa che essa (colei è l’anima di Guiscardo) ancora mi ama. 159 feminil romore: singhiozzi e gemiti come sono solite fare le donne. 160 volesson: volessero. 161 s’ingegnavano: si sforzavano. 162 quanto le parve: sottinteso "opportuno”. 163 ogni mio uficio… fornito: ogni mio dovere (verso di te) è compiuto. 164 a fare… compagnia: con la mia anima a far compagnia alla tua. 165 l’orcioletto: la fiaschetta. 166 onestamente: dignitosamente.
Il Decameron 2 691
Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che167 esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire; il qual, temendo di quello che sopravenne168, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si 245 pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo ne’ termini ne’ quali era169, cominciò dolorosamente a piagnere. Al quale la donna disse: «Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa170, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente171 di quello amore che 172 che, poi a grado non 250 già mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi 173 ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ’l mio corpo col suo, dove che174 tu te l’abbi fatto gittare, morto palese stea175». L’angoscia del pianto176 non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: «Rimanete 177 255 con Dio , ché io mi parto». E velati gli occhi e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì. Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete: li quali Tancredi dopo molto pianto e tardi pentuto178 della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente ammenduni179 in un medesimo sepolcro 260 gli180 fé sepellire.
167 come che: sebbene. 168 temendo… sopravenne: temendo che accadesse quello che poi accadde. 169 veggendo… era: vedendo le condizioni in cui si trovava. 170 serbati… che questa: riserva le tue lacrime per una sorte che sia meno da te desiderata di questa. È chiaro che Ghismonda accusa il padre di essere responsabile della tragedia. 171 niente: alcunché, almeno una piccola parte. 172 per ultimo.. concedi: concedimi come ultimo dono. 173 poi a grado non ti fu: poiché non ti fu gradito. 174 dove che: dovunque. 175 morto palese stea: il mio cadavere sia deposto pubblicamente, davanti a tutti (insieme al suo). 176 L’angoscia del pianto: il pianto angoscioso, cioè i singhiozzi di pianto (è in Dante: VN, XXIII, 19). 177 Rimanete con Dio: formula di saluto estremo. 178 pentuto: pentito. 179 ammenduni: entrambi. 180 gli: li.
Ghismonda con il cuore di Guiscardo, dipinto di Bernardino Mei (1650 ca, Siena, Pinacoteca nazionale).
692 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Analisi del testo Uno straordinario personaggio femminile Tre sono i personaggi di questa novella: Tancredi, la figlia Ghismonda e l’amante di lei, Guiscardo. Su tutti spicca, per forza e carattere, la donna, dalla cui volontà scaturiscono le iniziative su cui si fonda la vicenda. In più punti Boccaccio sottolinea la personalità d’eccezione della giovane: alle doti canoniche di bellezza, leggiadria e gentilezza, Ghismonda unisce infatti qualità che solitamente non figurano nel normale “corredo” richiesto a una donna, specie se di alto rango. Ghismonda è descritta fin dall’inizio come «gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea», è coraggiosa, decisa, per nulla intimorita di fronte all’autorità paterna e dotata di eccellenti capacità oratorie, come si può vedere nel suo ampio discorso di autodifesa, appassionato ma nello stesso tempo controllatissimo. Allo stesso modo, nelle scelte che compie, Ghismonda associa passione e una spiccata razionalità, che le consente in ogni momento il controllo della situazione: il piano progettato per incontrarsi con l’amante (e descritto nei minimi particolari dal narratore) si rivela un vero capolavoro strategico, ma persino il suicidio appare come una scelta deliberata e consapevole, studiato da Ghismonda in ogni particolare, così da controllare persino la propria postura sul letto, assicurandosi che sia adeguatamente dignitosa: «quanto più onestamente seppe compose in corpo suo». Pur innamorata di Guiscardo, Ghismonda non si lascia trasportare dalla passione tanto da perdere il senso della realtà: sa di essere una persona in vista, è cosciente del proprio ruolo pubblico, si rende conto che una tresca con un uomo di umile condizione quale Guiscardo, se scoperta, nuocerebbe al buon nome del casato e al regno di suo padre. Agisce quindi in modo da salvare le apparenze, pur senza macchiarsi mai di ipocrisia: infatti, una volta scoperta, rifiuta di nascondersi dietro a scuse, bugie o suppliche, si assume anzi serenamente la responsabilità di ogni gesto compiuto e difende le proprie scelte respingendo con valide argomentazioni le accuse del padre.
Guiscardo, un personaggio di secondo piano Il personaggio di Guiscardo esiste solo in quanto amante di Ghismonda, da lei scelto; non prende alcuna iniziativa, limitandosi ad adeguarsi a quanto la donna si aspetta da lui. Anche nella gestione pratica dei loro incontri amorosi, è sempre Ghismonda a risolvere ogni problema: si dà da fare per aprire la porta del passaggio segreto che conduce alla grotta («molti dì con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir quello uscio») ed è così precisa da indicare a Guiscardo l’altezza della grotta, in modo tale che l’uomo possa trovare il mezzo più adatto per calarvisi senza rischio di ferirsi. L’unica battuta concessa a Guiscardo («Amor può troppo più che né voi né io possiamo») ha più il valore di una formula astratta che di una reale espressione di volontà.
Un importante capitolo della “dottrina amorosa” di Boccaccio All’eroina tragica di questa novella è affidato il compito di enunciare uno dei capisaldi nell’ideologia del Decameron: l’irrefrenabilità del desiderio erotico, naturale bisogno della giovinezza che sarebbe stolto e assurdo ignorare. La giovane lo fa con placida sicurezza nel discorso che, con una logica stringente, smonta uno dopo l’altro i rimproveri a lei rivolti dal padre. Se ha deciso di concedersi a Guiscardo, afferma Ghismonda, non è per feminile fragilità, bensì per la scarsa sollecitudine del principe nel trovarle un marito e per le eccezionali virtù dell’uomo. Tancredi, uomo di carne, doveva ben sapere di aver generato una figlia anch’essa di carne, così come avrebbe dovuto ricordare quale sia la forza degli impulsi amorosi in un cuore giovane («le leggi della giovanezza»); è dunque per la sua miope noncuranza se Ghismonda si è trovata costretta a procurarsi con la propria intelligenza quello che le spettava. La giovane non è una ribelle, non rigetta le consuetudini del proprio rango e la morale che ne informa i comportamenti; al contrario, è pronta ad accettare il fatto che debba essere il padre a sceglierle un marito e, come lei stessa si premura di sottolineare, è ben attenta a tenere nascosti i propri incontri amorosi per non causare scandalo (rr. 10-14); inoltre sceglie il proprio amante «con diliberato consiglio» e «con avveduto pensiero», valutandone saggiamente il valore. Ma c’è una forza che travalica ogni imposizione, ogni norma sociale, ogni morale: è la forza del desiderio erotico, che Ghismonda qui afferma con spregiudicata franchezza. Ed è grande colpa di Tancredi quella di non averne tenuto conto, come gli rimprovera schiettamente sua figlia.
Il Decameron 2 693
Le ambiguità di Tancredi Antagonista di Ghismonda è il padre Tancredi, che per la sua posizione di principe dovrebbe rappresentare l’integrità dell’etica cortese; in realtà, con il proprio comportamento ne disattende alcuni tra i più importanti valori e sarà proprio la figlia a rimproverargli questo tradimento. Il principe infatti si lascia trasportare dalle passioni e da «signore assai umano e di benigno ingegno» si trasforma in uomo crudele e vendicativo; negli anni della vecchiezza egli cade in un peccato tremendo, macchiandosi le mani «nell’amoroso sangue». Oltre a ciò, contrariamente a Ghismonda, Tancredi si abbandona più volte al pianto, e per giunta davanti agli occhi della sua stessa figlia: una debolezza inaccettabile in un uomo della sua posizione. Se Ghismonda sfoggia sempre un regale autocontrollo, che neppure la morte dell’amato riesce a scalfire, l’atteggiamento del principe invece è paragonato addirittura a quello di «un fanciul ben battuto»: una similitudine davvero umiliante per un uomo di sangue nobile. All’origine di queste debolezze e di questa caduta morale troviamo il morboso attaccamento di Tancredi nei confronti della figlia, verso la quale nutre un amore senza limiti che, come Boccaccio ci lascia intuire, non è del genere che un padre dovrebbe provare verso la prole. Ghismonda «fu dal padre tanto teneramente amata quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai»: l’affermazione, che sembrerebbe un’iperbole scontata, allude a un sentimento pieno di ambiguità, ai limiti di una passione incestuosa, anche se Boccaccio mantiene al proposito una rigorosa reticenza e si limita a vaghissime allusioni. È questo amore “particolare” che impedisce a lungo a Tancredi di maritare la figlia, non «sappiendola da sé partire» e che, una volta vedova, gli impedisce di trovarle un nuovo sposo. Appare alquanto stravagante l’abitudine di Tancredi, «di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto»: nei castelli infatti altri erano i luoghi deputati alle conversazioni, e non è un caso se Boccaccio si sofferma a sottolineare questa singolare intimità; anche l’atteggiamento del principe che si trova a essere spettatore involontario degli amori tra Ghismonda e Guiscardo non sembra quello di un padre, ma ricorda più quello di un innamorato accecato dalla gelosia. L’uomo, «dolente a morte», decide subito che Guiscardo dovrà morire, senza appello, come farebbe un marito tradito che vuole solo eliminare il rivale: «prese partito di tacersi e di starsi nascoso, s’egli potesse, per potere più cautamente fare e con minor sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare».
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
SInTeSI 1. Presenta in sintesi (max 10 righe) il contenuto della novella e individua il tema centrale. coMPrenSIone 2. Quale stratagemma escogita Ghismonda per potersi incontrare con Guiscardo? A che cosa sono dovute tutte le sue precauzioni? AnALISI 3. Chi sono i personaggi principali e quali figure sociali rappresentano? 4. Il discorso di Ghismonda è una risposta lucida, ordinata e razionale alle accuse di Tancredi, riprese e demolite punto per punto. Individua nel testo i nodi attraverso cui si sviluppa questa autodifesa. LeSSIco 5. La figura di Tancredi è segnata costantemente dal pianto, mentre Ghismonda spicca per la dignità e il supremo controllo delle proprie reazioni. La differenza tra i due antagonisti traspare anche dal lessico utilizzato per descriverne i gesti e gli stati d’animo. Fornisci qualche esempio di questa differenza. ScrITTurA ArGoMenTATIVA 6. Ghismonda è considerata, oltre che una delle figure femminili più riuscite del Decameron, anche una delle più moderne. Condividi questo giudizio? Argomenta in un breve testo (10-15 righe). TeSTI A conFronTo 7. Sviluppa un confronto tra l’autodifesa di Ghismonda e le teorie sull’amore e sulla nobiltà (pensa in particolare allo Stilnovo) che erano diffuse nella cultura del tempo. ScrITTurA creATIVA 8. Prova a usare il copione narrativo della novella per scrivere un racconto in cui la tragica vicenda dei tre personaggi sia trasposta ai tempi d’oggi (ad es. i due innamorati potrebbero appartenere a diverse culture e/o diverse religioni).
694 DuecenTo e TrecenTo 8 Giovanni Boccaccio
Giovanni Boccaccio
T7b
Lisabetta da Messina: una tragedia borghese
EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
Decameron IV, 5 G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
AUDIOLETTURA
Sempre nella quarta giornata Boccaccio rappresenta un nuovo caso di amore infelice che ha per protagonista una giovane donna: rispetto alla novella di Ghismonda, ci troviamo però qui nell’ambito borghese-mercantile. La protagonista, Lisabetta, sorella di tre ricchi mercanti messinesi (ma di origine toscana), ama il garzone Lorenzo e ne è appassionatamente riamata. I due non si curano di nascondere, come vorrebbero le convenienze, i loro incontri amorosi; i fratelli della ragazza scoprono la tresca e, preoccupati per lo scandalo che ne verrebbe al buon nome della famiglia, decidono di ricorrere a un rimedio drastico: eliminare l’ignaro Lorenzo. Ma la passione di Lisabetta non saprà spegnersi neanche di fronte alla morte dell’amato. Boccaccio mette in scena un vero e proprio dramma familiare, che ai toni del pathos amoroso affianca momenti di alta tensione e particolari macabri, degni di un racconto horror.
I FRATELLI D’ELLISABETTA UCCIDON L’AMANTE DI LEI: EGLI L’APPARISCE IN SOGNO E MOSTRALE DOVE SIA SOTTERATO; ELLA OCCULTAMENTE DISOTTERRA LA TESTA E METTELA IN UN TESTO DI BASSILICO1, E QUIVI SÙ PIAGNENDO OGNI DÌ PER UNA GRANDE ORA2, I FRATELLI GLIELE3 TOLGONO, E ELLA SE NE MUORE DI DOLOR POCO APPRESSO. […] Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il quale fu da San Gimignano4; e avevano una loro sorella chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata5, la quale, che che se ne fosse cagione6, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre 5 fratelli in un lor fondaco7 un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti8 guidava e faceva; il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte Lisabetta guatato9, avvenne che egli le incominciò stranamente10 a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori11, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna12 10 che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi13, fecero di quello che più disiderava ciascuno14. E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare15, che una notte, andando Lisabetta là dove Lorenzo dormiva, che16 il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse.
1 testo di bassilico: vaso di terracotta, con una piantina di basilico. 2 per una grande ora: molto a lungo. 3 gliele: glielo. 4 San Gimignano: cittadina in provincia di Siena. 5 costumata: di nobile portamento e belle maniere. 6 che… cagione: qualunque ne fosse la motivazione.
7 fondaco: magazzino, con annessa bottega per la vendita al dettaglio. 8 fatti: affari. 9 guatato: guardato. 10 stranamente: in modo eccezionale. 11 lasciati… di fuori: messe da parte le sue altre storie d’amore. 12 bisogna: faccenda. 13 assicuratisi: sentendosi sicuri, tanto da abbandonare ogni precauzione.
14 fecero… ciascuno: perifrasi per alludere al soddisfacimento del desiderio che entrambi provavano. 15 segretamente fare: tenere nascosti i loro incontri amorosi. 16 che… che: la ripetizione del che dopo un inciso è una caratteristica dello stile di Boccaccio.
Il Decameron 2 695
Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere17, pur mosso da più onesto consiglio18, senza far motto19 o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò20. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto aveva la passata notte d’Elisabetta e di Lorenzo raccontò; e con loro insieme, dopo lungo consiglio21, dili20 berò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa22 infino a tanto che tempo venisse nel quale essi, senza danno o sconcio23 di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso24. E in tal disposizion dimorando25, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati 25 erano26, avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della città a diletto27 tutti e tre, seco menaron28 Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro29, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva30, uccisono e sotterrarono in guisa che31 niuna persona se n’accorse. E in Messina tornatisi dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo32; il che leggiermente33 30 creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati34. Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollecitamente35 i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava36, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente37, che l’uno de’ fratelli disse: «Che vuol dir questo? che hai tu a far di Lorenzo38, che tu ne domandi così spesso? Se tu ne 35 domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene39». Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse; e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e senza punto rallegrarsi sempre aspettando si stava. 40 Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava e essendosi alla fine piagnendo adormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato40 e co’ panni tutti stracciati e fracidi: e parvele che egli dicesse: «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’atristi e me con le tue lagrime fieramente41 accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci42, per ciò 45 che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono». E disegnatole43 il luogo dove sotterato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve. 15
17 quantunque… ciò sapere: anche se scoprire la relazione della sorella gli aveva causato molta rabbia (il significato trecentesco di noioso era molto più ampio di quello odierno). 18 onesto consiglio: pensiero più cauto, adatto a difendere l’onore della famiglia. 19 far motto: pronunciare parola. 20 varie cose… trapassò: riflettendo sui vari aspetti di questo fatto, lasciò passare la notte. 21 consiglio: discussione. 22 diliberò… veduta o saputa: decise riguardo a questa faccenda, affinché (acciò che) non ne derivasse alcun disonore né a loro né alla sorella (sirocchia) di lasciar cadere la faccenda e di fingere di non aver veduto o saputo alcunché riguardo ad essa.
23 sconcio: scandalo. 24 questa… dal viso: prima che (avanti
33 leggiermente: senza alcuna difficoltà. 34 per ciò… usati: dato che spesso erano
che) potesse progredire, si potessero togliere (torre) dal viso (cioè non veder più) questa vergogna. 25 in tal disposizion dimorando: fermi in tale proposito. 26 come usati erano: come erano soliti fare. 27 sembianti faccendo… a diletto: facendo finta di andare fuori città a spasso. 28 seco menaron: condussero con sé. 29 veggendosi il destro: presentatasi l’opportunità. 30 di ciò… prendeva: non aveva preso alcuna precauzione (non aspettandosi di potersi trovare in pericolo). 31 in guisa che: in modo che. 32 dieder voce… luogo: misero in giro la voce di averlo mandato per affari in un certo luogo.
abituati a mandarlo in giro. 35 sollecitamente: con premura, manifestando preoccupazione. 36 la dimora lunga gravava: pesava il lungo ritardo. 37 instantemente: con insistenza. 38 che hai… di Lorenzo?: che hai tu a che fare con Lorenzo? (cioè: che te ne importa di Lorenzo?). 39 Se tu ne domanderai… conviene: se tu chiederai ancora di lui, ti daremo la risposta che ti meriti. 40 rabbuffato: scarmigliato. 41 fieramente: duramente. 42 ritornarci: ritornare qui. 43 disegnatole: indicatole.
696 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
La giovane, destatasi e dando fede44 alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata45, non avendo ardire di dire alcuna cosa a’ fratelli, propose46 di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto47. E avuta 50 la licenzia d’andare alquanto fuor della terra a diporto48, in compagnia d’una che altra volta con loro era stata49 e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto50 poté là se n’andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò51; né ebbe guari52 cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto53: per che manifestamente conobbe essere stata 55 vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa54, conoscendo che quivi non era da piagnere55, se avesse potuto volentier tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che poté gli spiccò dallo ’mbusto56 la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata, e la terra sopra l’altro corpo57 gittata, messala in grembo alla fante58, senza 60 essere stata da alcun veduta, quindi59 si dipartì e tornossene a casa sua. Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille basci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi ne’ quali si pianta la persa60 o il basilico, e dentro la vi61 mise fasciata in un bel drappo; e poi messavi sù la terra, sù 65 vi piantò parecchi piedi62 di bellissimo bassilico salernetano, e quegli da niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci63 o delle sue lagrime non innaffiava giammai. E per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina e quello con tutto il suo disidero vagheggiare64, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso65: e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene cominciava a piagnere, e 70 per lungo spazio66, tanto che tutto il basilico bagnava, piagnea. Il basilico, sì per lo lungo e continuo studio67, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto; e servando la giovane questa maniera del continuo68, più volte da’ suoi vicin fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le 75 parevano della testa fuggiti69, il disser loro: «Noi ci siamo accorti che ella ogni dì tiene la cotal maniera70». Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando71, nascosamente da lei fecero portar via questo testo; il quale non ritrovando ella con grandissima instanzia72 molte volte richiese, e non essendole renduto73, non cessando il pianto e le lagrime, infermò74, né altro che il testo suo 80 nella infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo adimandare,
44 dando fede: credendo. 45 levata: alzatasi (è riferito a Lisabetta). 46 propose: decise. 47 paruto: apparso. 48 avuta la licenzia… a diporto: avuto il permesso di andare per un tratto fuori città, per svago, per fare una passeggiata. 49 d’una che… era stata: di una che era già stata al loro servizio. 50 quanto più tosto: quanto più in fretta. 51 cavò: scavò. 52 guari: a lungo. 53 guasto né corrotto: intaccato né decomposto. 54 Di che… dolorosa: della qual cosa addolorata più di ogni altra donna.
55 conoscendo… da piagnere: rendendosi conto che non era né il luogo né il momento per dilungarsi in pianti. 56 spiccò dallo ’mbusto: staccò dal busto. 57 l’altro corpo: il resto del corpo. 58 messala… fante: datala fra le braccia della sua cameriera. 59 quindi: da quel luogo. 60 persa: maggiorana. 61 la vi: ve la. 62 parecchi piedi: parecchie piantine. 63 o rosata… d’aranci: (acqua) di rose o aromatizzata con fiori d’arancio. 64 vagheggiare: trattare con affetto. 65 nascoso: nascosto. 66 spazio: tempo.
67 studio: cura. 68 servando… del continuo: sempre mantenendo la giovane questo comportamento. 69 maravigliandosi… fuggiti: poiché i fratelli si stupivano che Lisabetta fosse tanto sciupata e dimagrita (della sua guasta bellezza) e che per questo gli occhi incavati pareva le uscissero dalle orbite. 70 tiene la cotal maniera: si comporta così. 71 avendonela… non giovando: avendola rimproverata alcune volte senza risultato. 72 instanzia: insistenza. 73 renduto: restituito. 74 infermò: si ammalò.
Il Decameron 2 697
e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancora sì consumata, che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei essere quella di Lorenzo75. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non76 questa cosa si risapesse: e sotterrata quella77, senza altro dire, cautamente di 85 Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono78, se n’andarono a Napoli. La giovane non restando79 di piagnere e pure il suo testo adimandando80, piagnendo si morì, e così il suo disaventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo81 divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcun che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè: 90 Qual esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta, et cetera82.
75 alla capellatura… di Lorenzo: dalla ca-
78 ordinato… ritraessono: disposto ogni
pigliatura non riconoscessero che la testa (lei) era quella di Lorenzo. 76 temettero non: temettero che (solito costrutto latineggiante). 77 quella: la testa.
loro affare come chi sta per andarsene dalla città. 79 non restando: non smettendo. 80 pure… adimandando: chiedendo in continuazione il suo vaso. 81 a certo tempo: dopo un certo tempo.
82 Qual esso… et cetera: chi fu l’uomo cattivo / che mi rubò il vaso (grasta), e così via (latino et cetera: è il seguito non riportato dei versi). Questo citato da Boccaccio è l’inizio di un antico canto siciliano, diffuso anche in altre zone dell’Italia del Sud.
Analisi del testo Uno scenario borghese per una tragica vicenda d’amore Dopo la quarta novella, che si svolgeva alla corte del re di Sicilia, la narrazione, all’interno della quarta giornata, si sposta verso un’ambientazione più bassa. Filomena, la narratrice, precisa però che non per questo la novella sarà men pietosa agli occhi dei lettori: nella visione di Boccaccio la capacità del sentire non è una conseguenza diretta del livello sociale, ed è possibile che a un animo nobile corrisponda una condizione sociale non elevata e addirittura umile. A questo proposito vale la pena notare che l’altalenare di scenari appartenenti a diversi livelli sociali è caratteristico della quarta giornata: delle nove novelle dedicate agli amori infelici (la decima è raccontata da Dioneo, che si avvale della solita deroga al tema del giorno), la prima, la quarta e la nona si svolgono in ambienti nobili; la settima appartiene al mondo del popolo basso mentre tutte le altre hanno uno scenario di tipo borghese o mercantile. Una scelta non casuale nella giornata dedicata agli amori infelici, tutta dipinta nei toni cupi della tragedia: Boccaccio intende far agire davanti agli occhi dei lettori la forza dirompente del sentimento amoroso e dimostrare che la sua potenza travalica qualsiasi confine sociale.
Il tema del desiderio erotico e dei diritti del corpo Il rapporto tra i due giovani ritratto nella novella è tutto improntato alla fisicità, senza alcun accenno a una più alta comunione di spiriti. Tra Lisabetta e Lorenzo la passione è esclusivamente fisica, vissuta con immediatezza e semplicità. Del resto, come si è già potuto vedere analizzando la novella di Tancredi e Ghismonda, nella visione innovativa del Decameron il corpo, in ogni sua espressione e con tutti i bisogni a esso connaturati, rappresenta un valore pieno e autonomo, da cui l’uomo non può prescindere se vuole raggiungere una piena felicità. La soddisfazione del desiderio erotico si inserisce come naturale conseguenza in questo nuovo sistema di valori.
Lisabetta: un’eroina romantica Lisabetta, che muore consumandosi in lacrime per l’amato perduto, precorre in qualche modo le eroine dell’età romantica: il suo personaggio è tutto improntato alla realtà del sentimento, la donna esiste solo perché ama ed è riamata. Non a caso, Lisabetta non pronuncia una sola parola nel corso dell’intera novella: conosciamo il suo carattere solo attraverso i gesti e le azioni, che sono quelli di una donna prima innamorata, poi dubbiosa e infine disperata. A rendere più marcato l’alone di romanticismo che circonda questo personaggio è anche il motivo del vaso di basilico, un elemento quasi favolistico che stempera con una pennellata patetica il tono cupo e macabro della novella.
698 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
La fiduciosa vitalità della passione amorosa Nella novella si delineano due campi d’azione ben distinti, legati a due diversi sistemi di valori: il primo è quello di Lisabetta e di Lorenzo, dominato dalla passione, il secondo appartiene invece ai fratelli della ragazza, che conformano il proprio agire al calcolo delle convenienze. I giovani amanti vivono il proprio amore con spontaneità e gioioso trasporto; anche la sintassi del passo in cui si descrive l’innamoramento dei due, costruito attraverso una significativa giustapposizione di proposizioni causali e consecutive, rispecchia la stringente ineluttabilità che porta l’una nelle braccia dell’altro: Lisabetta nota la singolare bellezza di Lorenzo, poi se ne invaghisce; Lorenzo se ne accorge, quindi mette da parte tutti gli altri suoi amori e decide di dedicarsi unicamente a Lisabetta, e infine i ragazzi «fecero di quello che più disiderava ciascuno», splendida perifrasi per il nascere della relazione amorosa. Lisabetta e Lorenzo agiscono senza sotterfugi, in piena fiducia: basta quel semplice e velocissimo participio passato, assicuratisi, a indicare la loro sicurezza carica di ottimismo, che poi sarà crudelmente smentita dai fatti. Quando Lorenzo parte con i fratelli di Lisabetta, il suo assassinio può consumarsi con facilità proprio perché lui «di ciò niuna guardia prendeva».
L’etica disumana dell’interesse e delle convenzioni sociali Al contrario, il comportamento dei fratelli è tutto all’insegna del calcolo e della dissimulazione. Il maggiore, quando si accorge della tresca, ragiona con freddezza decidendo alla fine di non intervenire subito e di tenere nascosto quanto ha scoperto; questa risoluzione viene presentata con un periodo lungo e composito, quasi faticoso nel suo procedere, che rende bene lo stato d’animo agitato e dubbioso del fratello, assai diverso dalla spontaneità di Lisabetta: «per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò»; anche il conciliabolo tenuto con i fratelli per decidere il da farsi appare altrettanto complicato, tutto volto a far sì che «questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso». Allo stesso modo, quando essi scoprono il macabro segreto nascosto nel vaso di basilico, la loro prima preoccupazione non è dettata dall’affetto e dalla compassione per la sorella malata d’amore; essi «temettero non questa cosa si risapesse» e quindi fuggirono a Napoli, non senza aver prima provveduto a trasferirvi tutti i loro affari. Anche nel momento della tragedia, il loro atteggiamento appare dunque misurato e avveduto, proteso a tutelare gli interessi della famiglia e salvare le apparenze. È il lato più freddo e disumano di quell’etica mercantile che altrove Boccaccio sottoscrive, ma di cui non vuole nascondere limiti e difetti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dividi in sequenze la novella e dai a ognuna di esse un titolo. COMPRENSIONE 2. Che cosa decidono di fare i fratelli di Lisabetta quando scoprono l’amore tra i due giovani? Perché? 3. In che modo Lisabetta viene a sapere della morte di Lorenzo? ANALISI 4. Perché, quando scoprono ciò che è nascosto nel vaso di basilico, i fratelli di Lisabetta decidono di fuggire? LESSICO 5. Analizza la novella dal punto di vista lessicale e individua i vocaboli e le espressioni appartenenti al campo semantico della sofferenza e del pianto. Spiega le motivazioni di questa scelta lessicale. Quale concezione dell’amore puoi rilevare dalla novella?
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 6. Svolgi una ricerca in internet riguardo alla celebre coppia di Abelardo ed Eloisa (max 3 righe).
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TeSTI A conFronTo 7. Si possono riscontrare numerose analogie tra il personaggio di Lisabetta e quello di Ghismonda: entrambe scelgono liberamente di dare libero corso al proprio amore per un uomo, entrambe sono violentemente contrastate dalla famiglia, entrambe vedono concludersi tragicamente la propria relazione. Eppure, sono anche molto diverse tra loro: prova a costruire un profilo comparativo delle due donne. Poi sintetizza i dati raccolti in una doppia presentazione dei due personaggi femminili (max 20 righe). ScrITTurA creATIVA 8. Riscrivi la novella provando a raccontarla dal punto di vista di Lisabetta. ScrITTurA ArGoMenTATIVA EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Costituzione
competenza 3
9. Lisabetta nel corso della novella non prende mai la parola: questo espediente fa comprendere lo stato di soggezione di Lisabetta nei confronti dei fratelli. Emerge con forza però che, nonostante sia sottoposta al volere dei suoi fratelli, è dotata di grande forza d’animo e lo dimostra con i suoi gesti. Esamina nel testo i passaggi che dimostrano la ribellione di Lisabetta allo stato delle cose, una ribellione condotta in silenzio ma che fa sì che alla fine della novella i fratelli risultino i perdenti.
Studiare con l'immagine 10. L’immagine riprodotta sintetizza i momenti più significativi della novella di Lisabetta da Messina. Rispondi alle domande e poi fai una sintesi della vicenda (max 10 righe), sulla base anche della miniatura. a. Individua le scene raffigurate: quante sono? Scrivi una breve didascalia all’immagine. b. Esamina i personaggi raffigurati, gli oggetti, le azioni che svolgono: di chi si tratta? c. Quali luoghi è possibile distinguere? Sono realistici?
Miniatura sec. XV, Parigi, Bibliothèque nationale de France.
online T7c Giovanni Boccaccio Simona e Pasquino: una tragedia popolana Decameron IV, 7
700 DuecenTo e TrecenTo 8 Giovanni Boccaccio
T8
Eros e comicità Tra i temi presenti nel Decameron c’è sicuramente l’amore, rappresentato senza censure morali. L’autore considera questo sentimento come una forza naturale, peraltro sempre legata all’appagamento fisico. Nelle due novelle che seguono, esso è abbinato anche ad aspetti comici. Molto spesso Boccaccio, più che essere interessato alla materia erotica in sé e per sé, è attratto piuttosto dal tema della beffa e dalla possibilità di sperimentare con lucida razionalità complessi meccanismi narrativi, che rendono piacevole la lettura dell’opera.
Giovanni Boccaccio
T8a
La badessa e le brache Decameron IX, 2
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
La breve novella, narrata da Elissa, appartiene alla nona giornata, in cui i narratori possono scegliere un tema libero. Grazie a una risposta arguta e con l’aiuto della buona sorte, una giovane e bellissima monaca riesce a volgere in suo favore una situazione per lei molto difficile. Alla badessa, sorpresa nel medesimo peccato in cui era caduta la giovane suora, non rimane che fare buon viso a cattivo gioco, affermando la potenza invincibile dei richiami della carne ed esortando le converse a goderne tutti i piaceri, come del resto «infino a quel dì fatto s’era». La novella mette alla berlina l’ipocrisia delle regole monastiche, rispettate solo nelle apparenze.
LEVASI UNA BADESSA IN FRETTA E AL BUIO PER TROVARE UNA SUA MONACA, A LEI ACCUSATA1, COL SUO AMANTE NEL LETTO; E ESSENDO CON LEI UN PRETE, CREDENDOSI2 IL SALTERO DE’ VELI3 AVER POSTO IN CAPO, LE BRACHE DEL PRETE VI SI POSE; LE QUALI VEDENDO L’ACCUSATA E FATTALANE ACCORGERE4, FU DILIBERATA5, E EBBE AGIO DI STARSI COL SUO AMANTE. [...] Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione6, nel quale, tra l’altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì a un suo parente alla grata venuta7, d’un bel giovane che con 5 lui era s’innamorò; e esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto8, similmente di lei s’accese: e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto9 sostennero. Ultimamente10, essendone ciascuno sollecito11, venne al giovane veduta una via12 da potere alla sua monaca occultissimamente13 andare; di che ella contentandosi14, 10 non una volta ma molte con gran piacer di ciascuno la visitò.
1 a lei accusata: a lei denunciata. 2 credendosi: credendo. Il soggetto è la badessa.
3 saltero de’ veli: veli delle suore disposti in modo da formare un triangolo, simile per forma al salterio, un antico strumento musicale. 4 fattalane accorgere: fatta accorgere la badessa della cosa. 5 fu diliberata: fu sciolta dall’accusa.
6 di santità e di religione: (pieno) di santità e di devozione religiosa. Premessa dichiaratamente ironica, tenuto conto della vicenda alquanto scabrosa narrata nella novella. 7 essendo... venuta: essendo venuta un giorno alla grata per salutare un suo parente giunto a visitarla. La grata è l’inferriata che nei monasteri separa le stanze della clausura dallo spazio esterno.
8 concetto: concepito. 9 senza frutto: senza poterlo consumare. 10 Ultimamente: infine. 11 sollecito: desideroso. 12 venne al giovane veduta una via: al giovane capitò di vedere una via. 13 occultissimamente: in gran segreto. 14 contentandosi: essendo contenta.
Il Decameron 2 701
Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là15 entro fu veduto, senza avvedersene e egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre comunicò16; e prima ebber consiglio17 d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna se15 condo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo18, di volerla far cogliere col giovane alla badessa; e così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono19 per incoglier20 costei. Or, non guardandosi l’Isabetta da questo21 né alcuna cosa sappiendone, avvenne che 20 ella una notte vel fece venire22, il che tantosto23 sepper quelle che a ciò badavano; le quali, quando a lor parve tempo, essendo già buona pezza di notte24, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia dell’uscio della cella dell’Isabetta e un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l’uscio, a lei che già rispondeva dissero: «Sù, madonna25, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che 25 l’Isabetta ha un giovane nella cella». Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose tanto l’uscio sospignessero, che egli s’aprisse26, spacciatamente27 si levò suso e come il meglio seppe si vestì al buio; e credendosi 30 torre certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamangli il saltero, le venner tolte28 le brache del prete; e tanta fu la fretta, che senza avvedersene in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori e prestamente l’uscio si riserrò dietro dicendo: «Dove è questa maladetta da Dio?» E con l’altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non 35 s’avvedieno29, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra30: e entrate dentro nel letto trovarono i due amanti abbracciati. Li quali, da così subito sopraprendimento31 storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La giovane fu incontanente dall’altre monache presa e per comandamento della badessa menata in capitolo32. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi aspettava di veder che fine la cosa 40 avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco33. La badessa, postasi a sedere in capitolo in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania34 che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l’onestà, la buona 45 fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere35, se di fuor si sapesse, contaminate avea: e dietro alla villania aggiugnea gravissime minacce. 15 una delle donne di là: una delle mo-
22 vel fece venire: ve (cioè nel mona-
nache. 16 Il che... comunicò: il che riferì ad alquante altre monache. 17 ebber consiglio: presero la decisione. 18 acciò... luogo: perché non fosse possibile a Isabetta negare le accuse. 19 tra sé le vigilie... partirono: si suddivisero i turni di veglia e di guardia. 20 incoglier: cogliere sul fatto. 21 non guardandosi l’Isabetta da questo: poiché Isabetta non prestava alcuna attenzione a questo pericolo, non aspettandoselo.
stero) lo (ossia il suo amante) fece venire. 23 tantosto: subito. 24 essendo... notte: essendo già notte avanzata. 25 madonna: formula deferente. 26 temendo... s’aprisse: temendo forse che la porta, picchiata con troppa foga dalle volonterose monache, finisse per aprirsi. temendo non è un costrutto latineggiante. 27 spacciatamente: in fretta e furia. 28 le venner tolte: le vennero alla mano, le capitò di prendere.
702 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
29 non s’avvedieno: non si accorsero. 30 pinse in terra: abbatté. 31 sopraprendimento: sorpresa. 32 menata in capitolo: condotta nella sala consiliare. Questo era il luogo dove si riuniva solitamente la comunità di religiose. 33 con intenzione... con seco: deciso a difendere in ogni modo la sua amata, nel caso che le venisse fatto del male, ed eventualmente a portarla via con sé. 34 villania: offesa. 35 opere: azioni.
La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole non sapeva che si rispondere, ma tacendo di sé metteva compassion nell’altre: e, multiplicando pur la badessa in novelle36, venne alla giovane alzato il viso37 e veduto ciò che la badessa aveva in 50 capo e gli usulieri38 che di qua e di là pendevano: di che ella, avvisando39 ciò che era, tutta rassicurata40 disse: «Madonna, se Dio v’aiuti, annodatevi la cuffia e poscia41 mi dite ciò che voi volete». La badessa, che non la ’ntendeva, disse: «Che cuffia, rea femina? ora hai tu viso42 da motteggiare43? parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo44?» 55 Allora la giovane un’altra volta disse: «Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia; poi dite a me ciò che vi piace»; laonde45 molte delle monache levarono il viso al capo della badessa e, ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva. Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto 60 era né aveva ricoperta46, mutò sermone47 e in tutta altra guisa che fatto non aveva cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere48; e per ciò chetamente49, come infino a quel dì fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo50 65 quando potesse; e liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante. Il quale poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire; l’altre che senza Un frame del film Meraviglioso Boccaccio (2015) dei 70 amante erano, come seppero il meglio51, registi Paolo e Vittorio Taviani, ispirato a cinque novelle segretamente procacciaron lor ventura52. del Decameron, fra cui la seconda della nona giornata. 36 multiplicando... in novelle: mentre la badessa si diffondeva sempre più in chiacchiere. 37 venne alla giovane alzato il viso: la giovane per caso alzò lo sguardo. 38 usulieri: legacci. 39 avvisando: capendo. 40 tutta rassicurata: riacquistata la fiducia in sé stessa. 41 poscia: poi.
42 viso: coraggio, faccia tosta. 43 motteggiare: scherzare, fare battute. 44 parti... ci abbian luogo?: ti pare di aver fatto una cosa tale che siano opportuni gli scherzi? 45 laonde: quindi. 46 ricoperta: modo di nascondere la cosa. 47 mutò sermone: cambiò il suo discorso. 48 e conchiudendo... difendere: e venne concludendo che era impossibile potersi difendere dagli stimoli della carne.
49 chetamente: con discrezione, senza dare scandalo. 50 si desse buon tempo: si divertisse. 51 come seppero il meglio: quando appresero una vita migliore (di quella che facevano). 52 segretamente... ventura: segretamente procurarono il loro piacere.
Analisi del testo Un’irriverente parabola La breve novella, raccontata da Elissa, si presenta come una versione laica – e alquanto irriverente – della parabola evangelica della pagliuzza e della trave nell’occhio (Luca 6, 41-42 e 45). Proprio questo, infatti, afferma Elissa, la narratrice, nell’introduzione al racconto (qui non riportata): alcuni, pur essendo stoltissimi, pretendono di insegnare al prossimo, e di farsene addirittura gastigatori. Ma nell’etica immanente e tutta materiale di Boccaccio la fortuna interviene a rimettere le cose a posto, colpendo con la vergogna l’ipocrisia di costoro, rappresentati dalla figura della badessa. La novella ha l’immediatezza e la brevità folgorante di una parabola: si svolge tutta nel medesimo luogo, un «famosissimo monistero di santità e religione» situato in Lombardia, del quale veniamo a conoscere tre ambienti: il parlatorio (dove è la grata attraverso cui Isabetta scorge il bel giovane e se ne innamora), le celle delle monache e il capitolo, cioè la sala di riunioni della comunità. Anche il sistema dei personaggi è abbastanza semplice: Isabetta e la badessa occupano quasi tutta la scena, sullo sfondo si muovono le altre suore, mentre l’amante di Isabetta, e soprattutto il prete che si trovava in compagnia della badessa la notte dello svelamento, sono semplici comparse.
Il Decameron 2 703
Un sistema di valori inedito Isabetta e la badessa si macchiano del medesimo peccato di lussuria, ma nulla viene detto per condannare la loro condotta: nella visione di Boccaccio il desiderio carnale è un istinto insopprimibile della natura umana, e sarebbe follia il cercare di soffocarlo. Avvertiamo invece una sottile velatura ironica nella presentazione della badessa Usimbalda, descritta come «buona e santa donna secondo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea»; il lettore scoprirà ben presto che l’effettiva condotta della religiosa non corrisponde all’opinione comune. Per altro, alla fine, la badessa appare come un personaggio positivo, per l’intelligenza dimostrata nel reagire con fulminea versatilità a una situazione difficile e imbarazzante: «avvedutasi del suo medesimo fallo [e qui il narratore non si riferisce al peccato della carne, ma alla distrazione che le ha fatto prendere le brache al posto del velo] e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone e in tutta altra guisa che fatto non aveva cominciò a parlare». La capacità di adattare parole e atteggiamenti alle varie situazioni, e di farlo senza indugi o tentennamenti, è apprezzata da Boccaccio come segno evidente dell’ingegno, che occupa un posto prioritario nel suo sistema di valori. In parte questo vale anche per la coraggiosa autodifesa della giovane Isabetta. Quella che invece viene condannata senza possibilità di appello è l’invidia che anima le altre monache nelle loro laboriose indagini ai danni di Isabetta. In nessun punto della novella si insinua il dubbio che le donne possano aver agito mosse da una preoccupazione sincera per la reputazione del convento; in realtà nulla viene detto apertamente sulla reale natura delle loro intenzioni, se non nelle ultime righe («in dispetto di quelle che di lei avevano invidia»); acquista però un sapore comico, quasi da farsa, il loro affannarsi frenetico per “incastrare” Isabetta, organizzando turni e veglie con piglio quasi militaresco. E alla luce di quanto viene detto alla fine della novella, non è da escludere un certo gusto voyeuristico in questo volere a tutti i costi cogliere la consorella in flagrante con l’amante.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi la novella in meno di cinquanta parole. COMPRENSIONE 2. Indica il tema principale della novella. 3. In quale modo è scoperta Isabetta? TECNICA NARRATIVA 4. Chi sono i personaggi principali? Chi è il protagonista? E l’antagonista? 5. In quali luoghi si svolge la vicenda? LESSICO 6. Trova, per ciascuno dei seguenti termini, almeno due sinonimi che riprendano il significato con cui essi sono utilizzati nella novella: noia – leggiadramente – sollecito – incogliere – focose – sermone.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 7. Dopo aver letto con attenzione l’approfondimento Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco” scrivi se condividi o meno il giudizio espresso da Moravia nel passo che segue e perché.
«È errato, a parere nostro, definire il Boccaccio uno scrittore erotico. Invero l’amore non interessa gran che il Boccaccio, sebbene la maggioranza delle novelle del Decameron passi per novelle d’amore. L’amore vi figura soltanto, qual è in realtà, come una delle molle più importanti dell’azione umana; ma, scattata la molla, l’attenzione del Boccaccio si volge esclusivamente all’azione. Insomma l’amore non è visto che come una sottospecie dell’azione, vagheggiabile non più di tante altre. A riprova si veda come il Boccaccio non conosca l’amore normale, sentimentale, psicologico; l’amore per lui non ha sapore se non è avventuroso, difficile, pieno di peripezie e di equivoci». A. Moravia, L’uomo come fine, Bompiani, Milano 1964
online T8b Giovanni Boccaccio La notte degli equivoci Decameron IX, 6
704 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
PER APPROFONDIRE
Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco” La presenza di un cospicuo numero di novelle apertamente licenziose (circa un quarto sul totale) contribuì senza dubbio all’immediata fortuna del Decameron presso il ceto mercantile, ma nel tempo non giovò sicuramente a un corretto giudizio sull’opera del grande scrittore, che finì per essere riduttivamente considerato “lo scrittore erotico” per antonomasia: l’aggettivo “boccaccesco” è tuttora usato come sinonimo di storia erotica o addirittura espressamente oscena. Nel periodo della Controriforma (➜Il Decameron nel tempo, PAG. 748) fu proprio la componente licenziosa dell’opera (oltre naturalmente ai molteplici spunti anticlericali in essa presenti) a indurre i censori prima a inserire il Decameron nell’Indice dei libri proibiti e poi a procedere a edizioni “purgate” dell’opera, che ne snaturavano completamente il senso. Del resto fu lo stesso Boccaccio, colto da scrupoli morali e religiosi, a divenire “censore” di sé stesso, rinnegando di fatto il suo capolavoro e ritrattando in un’opera arcigna e misogina, il Corbaccio, la libera espressione dell’eros presente nel Decameron. Certamente l’autore non dimostra alcun imbarazzo di fronte alla materia erotica e la rappresenta con piena naturalezza; ma è bene precisare che il suo atteggiamento è sempre di elegante distacco, di sorridente superiorità, per cui non risulta mai veramente coinvolto nella materia rappresentata, né tanto meno indulge a un atteggiamento di volgare compiacimento.
Inoltre lo scrittore attenua le punte estreme dello stile comico e rifiuta la “comicità” grassa che era stata propria dei fabliaux: se, infatti, in queste opere organi e atti sessuali erano nominati senza perifrasi, Boccaccio usa nelle scene di sesso (ma anche negli argomenti “basso-corporei”, ovvero scatologici) forme di «parlar coperto» (Bruni): utilizza cioè una ricca produzione di metafore maliziose, di doppi sensi che gli consentono di evitare in genere il termine triviale anche quando il soggetto lo richiederebbe. L’eleganza dello stile riscatta dunque a una superiore dignità artistica anche gli argomenti più bassi. Al proposito è stato giustamente osservato che Boccaccio «oltre che un codice di rappresentazione mimetico, onnicomprensivo della realtà» fonda anche «il codice etico del comico, la sua moralità letteraria» (Borsellino). Non bisogna inoltre dimenticare che molto spesso il novelliere si serve della materia erotica solo strumentalmente: più che all’eros in sé e per sé, egli è interessato piuttosto ai temi della beffa e del rovesciamento dei ruoli sociali o, ancor più, a sperimentare con lucida razionalità complessi meccanismi narrativi, che procurano al lettore colto un piacere di tipo prettamente intellettuale. È il caso di una novella che solo arbitrariamente può essere considerata erotica: quella della bella Alatiel (II, 7), la principessa che conosce una serie incredibile di avventure amorose per giungere infine “vergine” al matrimonio con il re del Garbo.
Maestro dei caassoni Jarves, storie di Alatiel, tempere su tavola, XV secolo (Museo Correr, Venezia).
Illustrazioni di miniatore fiorentino, nell’apparato decorativo del Decameron, manoscritto italien 63, fogli 249 e 267 (XV secolo, Bibliothèque Nationale, Parigi).
Il Decameron 2 705
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Giovanni Boccaccio
Peronella Decameron VII, 2 G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1984
La novella di Peronella fa parte della VII giornata, dedicata a una sottospecie della beffa: ovvero quella fatta dalle donne «o per amore o per salvamento di loro» ai propri mariti. Dato il programma della giornata, è chiaro che in questa sezione del Decameron si concentrino molte novelle licenziose (e non a caso il “re” della giornata è proprio il trasgressivo Dioneo).
PERONELLA METTE UN SUO AMANTE IN UN DOGLIO1 TORNANDO IL MARITO A CASA; IL QUALE AVENDO IL MARITO VENDUTO, ELLA DICE CHE VENDUTO L’HA AD UNO CHE DENTRO V’È A VEDERE SE SALDO GLI PARE: IL QUALE, SALTATONE FUORI, IL FA RADERE2 AL MARITO, E POI PORTARSENELO A CASA SUA. [...] Egli non è ancora guari3 che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, e esso con l’arte sua, che era muratore, e ella filando, guadagnando assai sottilmente4, la lor vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che un giovane de’ leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei: e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei si dimesticò5. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine6: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori7; e essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n’entrasse: e così molte volte fecero. Ma pur trall’altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove8 in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò; e trovato l’uscio serrato dentro, picchiò e dopo ’l picchiare cominciò seco a dire: «O Iddio, lodato sia tu sempre, ché, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona e d’onesta giovane di moglie! Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci usci’, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse». Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse: «Oimè! Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio9, che ci tornò: e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta10: forse che ti vide egli quando tu c’entrasti! Ma per l’amore di Dio, come che
1 un doglio: una botte. 2 radere: raschiare. 3 Egli... guari: non è passato ancora molto tempo. 4 sottilmente: poco.
706 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
5 essolei si dimesticò: entrò in confidenza con lei. 6 a potere... questo ordine: per poter stare insieme decisero che. 7 il giovane... lo vedesse fuori: il giovane si trovasse in un punto in cui poteva vederlo uscire di casa.
8 dove: mentre. 9 che tristo il faccia Iddio: che Iddio lo maledica. 10 otta: ora.
il fatto sia11, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò a aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa». Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all’uscio aprì al marito e con un mal viso disse: «Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co’ ferri tuoi12 in mano: e se tu fai così, di che viverem noi? onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli13, che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio, che n’arda la nostra lucerna? Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me, di tanta fatica quanta è quella che io duro14: e tu mi torni a casa colle mani spenzolate quando tu dovresti essere a lavorare». E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo: «Oimè, lassa me, dolente me, in che mal’ora nacqui, in che mal punto ci venni!15 ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s’ha menata a casa16! L’altre si danno buon tempo cogli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non abbia chi due o chi tre, e godono e mostrano a’ mariti la luna per lo sole; e io, misera me! perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura: io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre! Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo dimolti denari, o voglio io robe17 o gioie, né mai mel sofferse il cuore18, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò19: e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare!» Disse il marito: «Deh! donna, non ti dar malinconia, per Dio! egli è il vero che io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi20, come io medesimo nol sapeva. Egli è oggi la festa di santo Galeone21 e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d’un mese, ché io ho venduto a costui, che tu vedi qui con meco, il doglio, il qual tu sai che già è cotanto ha tenuta la casa impacciata22; e dammene cinque gigliati23». Disse allora Peronella: «E tutto questo è del dolor mio24: tu, che se’ uomo e vai attorno e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’ mai appena fuor dell’uscio, veggendo lo ’mpaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette a un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo fosse». 11 come che il fatto sia: comunque stiano le cose. 12 co’ ferri tuoi: con gli attrezzi del mestiere. 13 che io... miei pannicelli: che io possa sopportare che tu mi dia in pegno la gonnelluccia e gli altri miei vestiti? 14 duro: sopporto. 15 in che mal punto ci venni!: sotto quale cattiva stella sono venuta al mondo!
16 cui... a casa: a quale donna si
21 santo Galeone: sant’Eucalio-
è portato in casa. 17 robe: vestiti. 18 né mai mel sofferse il cuore: ma io non ho mai voluto. 19 per ciò... da ciò: perché io non sono nata figliola di una donna che fa queste cose. 20 egli è il vero... che tu nol sappi: è vero che sono uscito per andare a lavorare, ma è evidente che tu non sai una cosa.
ne (o san Gallione), il cui culto esisteva effettivamente a Napoli, dove è ambientata la vicenda. 22 ha tenuta la casa impacciata: ha ingombrato la casa. Si trattava di un oggetto molto voluminoso. 23 cinque gigliati: cinque monete. Il gigliato era una moneta d’argento, in circolazione a Napoli. 24 è del dolor mio: è causa per me di dolore.
Il Decameron 2 707
Quando il marito udì questo, fu più che contento e disse a colui che venuto era per esso: «Buono uomo, vatti con Dio, ché tu odi che mia mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque». Il buono uom disse: «In buona ora sia25!» e andossene. E Peronella disse al marito: «Vien sù tu, poscia che tu ci se’26, e vedi con lui insieme i fatti nostri27». Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se d’alcuna cosa gli bisognasse temere o provedersi28, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio; e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire: «Dove se’, buona donna?» Al quale il marito, che già veniva, disse: «Eccomi, che domandi tu?» Disse Giannello: «Qual se’ tu29? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio». Disse il buono uomo: «Fate sicuramente meco30, ché io son suo marito». Disse allora Giannello: «Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia31, ché egli è tutto impastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l’unghie, e però io nol torrei se io nol vedessi prima netto». Disse allora Peronella: «No, per quello non rimarrà il mercato32; mio marito il netterà tutto». E il marito disse: «Sì bene», e posti giù i ferri suoi e ispogliatosi in camiscione33, si fece accendere un lume e dare una radimadia34 e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l’un de’ bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: «Radi quivi e quivi e anche colà» e «Vedine qui rimaso un micolino35». E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito36 quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di fornirlo come potesse37; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono38, a effetto recò il giovinil desiderio; il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio39, e egli scostatosi e la Peronella tratto il capo del doglio e il marito uscitone fuori. Per che Peronella disse a Giannello: «Te’ questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo». Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che egli era contento; e datigli sette gigliati a casa sel fece portare. – 25 In buona ora sia: sta bene. 26 poscia che tu ci se’: dato che
31 feccia: scorie. 32 per quello... mercato: non
sei lì dentro. 27 vedi con lui... nostri: concludi con lui l’affare. 28 provedersi: prendere qualche provvedimento. 29 Qual se’ tu: chi sei tu. 30 Fate sicuramente meco: trattate pure con me.
andrà a monte l’affare per questo motivo. 33 camiscione: camicia. 34 una radimadia: un raschiatoio. 35 un micolino: una briciolina. 36 il quale... fornito: il quale quella mattina non aveva ancora soddisfatto il suo desiderio (sessuale).
708 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
37 s’argomentò... come potesse: si ingegnò per soddisfarlo nel modo in cui era possibile. 38 in quella guisa... assaliscono: nel modo in cui i cavalli in calore si accoppiano con le cavalle di Partia. 39 il quale... il doglio: il quale (riferito a giovinil desiderio) ebbe compimento quasi in coincidenza con la pulitura del doglio.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.
Comprensione e analisi
Interpretazione
1. 2. 3. 4.
Presenta il contenuto della novella in 10 righe. Individua il tema centrale della novella. Presenta in due righe i personaggi principali utilizzando le informazioni ricavate dal testo. Suddividi la novella nelle sue fasi di sviluppo: – situazione iniziale o antefatto
rr. .....................................................................
– esordio o mutazione dello stato di fatto
rr. .....................................................................
– sviluppo dell’azione o peripezie
rr. .....................................................................
– Spannung o momento di massima tensione
rr. .....................................................................
– epilogo o scioglimento
rr. .....................................................................
5. Quale ruolo svolge nelle varie sequenze della novella il doglio? 6. Riassumi l’abile discorso di Peronella. 7. Per quanto riguarda il luogo in cui si svolge la vicenda, osserva le opposizioni interno/esterno, alto/basso: quali riflessioni puoi fare? Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 15 righe). 8. Analizza il punto di vista della voce narrante: quale giudizio traspare sul comportamento della protagonista? Nella parte finale della novella Boccaccio inserisce un paragone piuttosto scabroso a proposito dell’accoppiamento tra Peronella e il suo amante, mentre il marito si trova nella botte. Secondo te questo paragone “basso” ha a che fare con il contesto sociale qui evocato? Boccaccio l’avrebbe introdotto nella novella di Lisabetta da Messina o in quella di Tancredi e Ghismonda, dove pure si fa riferimento al sesso? Motiva adeguatamente la tua risposta. Utilizzando le informazioni che ricavi dal testo, descrivi il personaggio di Peronella. Infine istituisci un confronto con altre figure femminili del Decameron che conosci, evidenziando le possibili analogie e differenze.
La novella di Peronella in una miniatura da un manoscritto francese della prima metà del XV secolo.
Il Decameron 2 709
T9
Mondo borghese-mercantile e mondo cavalleresco Nel Decameron di Boccaccio sono rappresentanti sia il mondo borghese-mercantile, che lui aveva conosciuto bene grazie all’esperienza napoletana con il padre, sia il mondo cavalleresco, con cui era venuto in contatto presso la corte di Roberto d’Angiò a Napoli. Del mondo mercantile l’autore apprezza l’industria e l’operosità, ma riesce a vedere anche i limiti della “ragion di mercatura”, come raccontato nella novella Lisabetta da Messina (➜ T7b ); del mondo cavalleresco ama, invece, la cortesia; ma ciò a cui Boccaccio realmente aspira è una fusione fra le due culture.
Giovanni Boccaccio
T9a
Il ritmo della fortuna/il ritmo del mare: Landolfo Rufolo Decameron II, 4
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
Landolfo Rufolo, uomo già ricchissimo, vive solo per incrementare i propri averi: ogni scelta, ogni decisione è dettata dal desiderio di guadagnare sempre di più. Spinto da questa insaziabile sete di ricchezza, non esita a divenire pirata: e sarà soprattutto la fortuna, che in questa novella assume le vesti di un caso imprevedibile e capriccioso, a determinare l’esito delle sue imprese.
LANDOLFO RUFOLO, IMPOVERITO, DIVIEN CORSALE1 E DA’ GENOVESI PRESO ROMPE2 IN MARE E SOPRA UNA CASSETTA DI GIOIE3 CARISSIME PIENA SCAMPA4; E IN GURFO5 RICEVUTO DA UNA FEMINA, RICCO SI TORNA A CASA SUA. [...] Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia6 sì come alcuni altri7. 5 Tralle quali cittadette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che8 oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già9 uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di radoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella se stesso10. Costui adunque, sì come usanza suole esser de’ mercatanti, fatti suoi avvisi11, comperò 10 un grandissimo legno12 e quello tutto, di suoi denari13, caricò di varie mercatantie e andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantie che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti14; per la qual cagione non solamente gli convenne15 far gran mercato16 di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via17: laonde18 egli fu vicino al disertarsi19. E portando 1 corsale: corsaro. 2 rompe: fa naufragio. 3 gioie: gioielli. 4 scampa: si salva. 5 Gurfo: Corfù. 6 procaccianti... mercatantia: intraprendenti e molto abili nel commercio. 7 sì come alcuni altri: come pochi altri.
8 come che: sebbene. 9 già: un tempo. 10 venne presso... se stesso: per poco insieme alla ricchezza non perse anche la vita. 11 avvisi: calcoli, piani. 12 legno: nave. 13 di suoi denari: a proprie spese.
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14 Quivi... venuti: qui trovò che erano arrivate parecchie altre navi con gli stessi generi di merci che egli aveva portato. 15 gli convenne: fu obbligato. 16 far gran mercato: vendere a poco prezzo, svendere. 17 gittar via: regalare, dare via per niente. 18 laonde: per cui. 19 disertarsi: rovinarsi.
egli di questa cosa seco gravissima noia20, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi21, acciò che là onde ricco partito s’era povero non tornasse. E trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti avea comperò un legnetto sottile da corseggiare22 e quello d’ogni 20 cosa oportuna a tal servigio armò e guernì23 ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo24 e massimamente sopra i turchi. Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era25. Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto ma di 25 gran lunga quello aver raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato26 dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai, per non incappar nel secondo27 a se medesimo dimostrò28 quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare: e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia29, non s’impacciò d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale gua30 dagnati gli avea, dato de’ remi in acqua, si mise al ritornare. E già nell’Arcipelago30 venuto, levandosi la sera uno scilocco31, il quale non solamente era contrario al suo cammino ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo picciolo legno non avrebbe bene potuto comportare32, in uno seno di mare, il quale una piccola isoletta faceva da quello vento coperto, si raccolse, quivi proponendo d’aspettarlo migliore33. 35 Nel quale seno poco stante34 due gran cocche35 di genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggir quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero; le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci a doverlo aver si disposero36. E messa in terra parte della 40 lor gente con balestra37 e bene armata, in parte la fecero andare che de’ legnetto neuna persona, se saettato esser non volea, poteva discendere38; e essi, fattisi tirare a’ paliscalmi39 e aiutati dal mare, s’accostarono al picciol legno di Landolfo e quello con piccola fatica in picciolo spazio, con tutta la ciurma senza perderne uomo, ebbero a man salva40: e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo e ogni 45 cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono41 lui in un povero farsettino ritenendo42. Il dì seguente, mutatosi il vento, le cocche ver Ponente vegnendo fer vela e tutto quel dì prosperamente vennero al lor viaggio; ma nel fare della sera si mise43 un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi divise le due cocche l’una dall’altra. 15
20 portando... gravissima noia: addolorandosi moltissimo per questo motivo. 21 ristorare i danni suoi: risarcire le sue perdite. 22 da corseggiare: adatta a fare scorrerie corsare, cioè veloce e maneggevole. 23 guernì: attrezzò. 24 diessi... d’ogni uomo: cominciò (diessi, “si diede”) a impadronirsi dei beni di tutti. 25 Al qual servigio... stata non era: in questa attività (la pirateria) la fortuna gli fu molto più favorevole di quanto non fosse stata nel commercio. 26 gastigato: ammonito, reso più avveduto e scaltro.
27 conoscendo... nel secondo: resosi
36 sì come uomini... si disposero: es-
conto che ne aveva abbastanza per non incappare in un secondo tracollo. 28 a se medesimo dimostrò: si persuase. 29 pauroso della mercatantia: insicuro del commercio. 30 Arcipelago: il mar Egeo. 31 scilocco: scirocco. 32 comportare: affrontare, sostenere. 33 in uno seno di mare... migliore: si rifugiò in un piccolo golfo, che una isoletta riparava dal vento, proponendosi di attendere lì un vento più propizio. 34 poco stante: a poca distanza. Può essere sia di tempo che di luogo. 35 cocche: navi da trasporto di forma tondeggiante, con vele quadrate.
sendo uomini per natura desiderosi di denaro e rapaci si prepararono a impadronirsene. 37 balestra: arma da lancio. 38 in parte... poteva discendere: la disposero in postazioni tali che nessuno della nave di Landolfo poteva sbarcare, se non voleva essere colpito da frecce. 39 fattisi tirare a’ paliscalmi: fattisi trainare dalle scialuppe. 40 a man salva: facilmente, senza lotta. 41 sfondolarono: affondarono. 42 lui... ritenendo: trattenendo prigioniero lui vestito solo di un misero farsetto. 43 si mise: si levò.
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E per forza di questo vento addivenne44 che quella sopra la quale era il misero e 50 povero Landolfo con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia45 percosse in una secca, e non altramenti che un vetro percosso a un muro tutta s’aperse e si stritolò: di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano e di casse e di tavole, come in così fatti casi suole avvenire, quantunque obscurissima notte fosse e il mare grossissimo e gonfiato, 55 notando quegli che notar sapevano, s’incominciarono a appiccare46 a quelle cose che per ventura lor si paravan davanti. Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea47, vedendola presta48 n’ebbe paura: e, come gli altri, venutagli alle mani una 60 tavola, a quella s’apiccò, se forse Idio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo49; e a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora in là, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale veduto, guardandosi egli da torno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea e una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di 65 lui gli s’appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse50; e sempre che presso gli venia, quando potea con mano, come che51 poca forza n’avesse, la lontanava. Ma come che il fatto s’andasse, adivenne che solutosi52 subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare sì grande53 in questa cassa diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata54, per 70 forza Landolfo lasciatala andò sotto l’onde e ritornò suso notando, più da paura che da forza aiutato, e vide da sé molto dilungata55 la tavola: per che, temendo non potere a essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, con le braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui 75 che non aveva che56, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente. Il dì seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che ’l facesse, costui divenuto quasi una spugna, tenendo forte con ammendune le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono quando prendono 80 alcuna cosa, pervenne al lito dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli57 con la rena e con l’acqua salsa58 lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma59, dubitando60 e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare61 e poco vedea, e per ciò niente le disse; ma pur, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma 85 della cassa, e più sottilmente62 guardando e vedendo conobbe primieramente63 le 44 addivenne: capitò. 45 di sopra all’isola di Cifalonia: presso l’isola di Cefalonia.
46 appiccare: aggrappare. 47 ancora che... si vedea: sebbene molte volte il giorno precedente avesse invocato la morte, scegliendo fra sé di voler morire piuttosto che tornare a casa sua povero come si vedeva. 48 presta: vicina.
49 se forse Idio... allo scampo suo: nella speranza che Dio, se Landolfo riusciva a non affogare subito, gli mandasse qualche aiuto per salvarsi. 50 temendo non... gli noiasse: temendo che quella cassa lo colpisse così da ferirlo. 51 come che: sebbene. 52 solutosi: sviluppatosi. 53 sì grande: con una forza tale. 54 riversata: rovesciata (la tavola). 55 dilungata: allontanata.
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56 non aveva che: non aveva nulla da mangiare. 57 stovigli: stoviglie. 58 salsa: salata, del mare. 59 non conoscendo... alcuna forma: non riconoscendo in lui alcuna sembianza umana. 60 dubitando: temendo. 61 favellare: parlare. 62 più sottilmente: con maggiore attenzione. 63 primieramente: per prima cosa.
braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravisò la faccia e quello esser che era s’immaginò64. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare, che già era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il tirò in terra e quivi, con fatica le mani dalla cassa sviluppategli65 e quella posta in capo a una sua figlioletta 90 che con lei era, lui come un piccol fanciullo ne portò nella terra66: e in una stufa67 messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavò, che in lui ritornò lo smarrito calore e alquante delle perdute forze. E quando tempo le parve trattonelo68, con alquanto di buon vino e di confetto69 il riconfortò, e alcun giorno come poté il meglio il tenne, tanto che70 esso, le forze recuperate, conobbe là dove era. Per che alla 95 buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la qual salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura71; e così fece. Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere, che alcun dì non gli facesse le spese72; e trovandola molto leggiera assai mancò della sua speranza73. Nondimeno, 100 non essendo la buona femina in casa, la sconficcò74 per vedere che dentro vi fosse: e trovò in quella molte preziose pietre e legate e sciolte75, delle quali egli alquanto s’intendea: le quali veggendo e di gran valor conoscendole, lodando Idio che ancora abbandonare non l’aveva voluto, tutto si riconfortò. Ma sì come colui che in piccol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza76, 105 pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua: per che in alcuni stracci, come meglio poté, ravoltele, disse alla buona femina che più di cassa non aveva bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella77. La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva 110 maggiori del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì; e montato sopra una barca passò a Brandizio78, e di quindi, marina marina79, si con-
La novella di Landolfo Rufolo in una miniatura fiamminga per un’edizione francese del Decameron (1440 ca.).
64 quello esser... s’immaginò: immaginò
71 procacciasse sua ventura: andasse per
che fosse quello che era (cioè un naufrago). 65 sviluppategli: staccategli. 66 nella terra: al villaggio. 67 stufa: bagno caldo. 68 trattonelo: dopo averlo tolto fuori. 69 confetto: dolci. 70 tanto che: fino a che.
la sua strada. 72 avvisando... le spese: pensando che non potesse avere così poco valore che non gli fornisse di che mantenersi per qualche giorno. 73 assai mancò della sua speranza: perse gran parte delle speranze. 74 sconficcò: schiodò.
75 legate e sciolte: unite a formare monili o sciolte.
76 dubitando della terza: temendo che vi fosse una terza volta. 77 e avessesi quella: e si tenesse quella. 78 Brandizio: Brindisi. 79 marina marina: seguendo il litorale, senza allontanarsi dalla costa.
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dusse infino a Trani, dove trovati de’ suoi cittadini80, li quali eran drappieri81, quasi per l’amor di Dio82 fu da lor rivestito, avendo esso già loro tutti li suoi accidenti narrati fuori che della cassa; e oltre a questo prestatogli cavallo e datagli compagnia, 115 infino a Ravello, dove del tutto83 diceva di voler tornare, il mandarono. Quivi parendogli esser sicuro, ringraziando Idio che condotto ve lo avea, sciolse il suo sacchetto: e con più diligenzia cercata84 ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre, che, a convenevole pregio vendendole e ancor meno85, egli era il doppio più ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spac120 ciar le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito86 del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, e il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; e il rimanente, senza più voler mercatare, si ritenne, e onorevolemente visse infino alla fine. – 80 cittadini: concittadini. 81 drappieri: fabbricanti o commercianti di stoffe.
82 per l’amor di Dio: per pietà. 83 del tutto: assolutamente. 84 cercata: esaminata, valutata.
85 a convenevole... meno: vendendole a prezzo (pregio) adeguato o anche a meno. 86 per merito: in ricompensa.
Analisi del testo La struttura La vicenda narrata è particolarmente avventurosa e ricca di colpi di scena. Vediamo le tappe attraverso cui si sviluppa: 1. Landolfo Rufolo, uomo ricchissimo, desiderando raddoppiare la propria ricchezza, decide di dedicarsi alla mercatantia e parte per Cipro. 2. Gli affari vanno male e Landolfo, «veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto», pensa di diventare pirata, deciso a «o morire o rubando ristorare i danni suoi», acciò che «là onde ricco partito s’era povero non tornasse»; questa è, infatti, la sua unica preoccupazione. 3. La fortuna si mostra più benivola alle sue azioni da corsaro che a quelle di mercante: Landolfo raddoppia la propria ricchezza. 4. Reso più accorto dal suo primo rovescio economico, «conoscendo che egli aveva assai, per non incappar nel secondo a sé medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare»: sembrerebbe una decisione presa a malincuore. Il desiderio di arricchirsi non si è spento, è solo la prudenza che induce Landolfo a desistere, lasciando la pirateria e senza neppure provare a investire i suoi nuovi averi nella mercatura. 5. In mare, il legnetto di Landolfo viene sorpreso dalla tempesta ed è costretto a rifugiarsi in un piccolo golfo; qui il caso sospinge anche una flotta di cocche genovesi, che saccheggiano la nave di Landolfo e lo prendono prigioniero. 6. Il giorno dopo, una seconda tempesta sorprende i Genovesi e ne causa il naufragio: Landolfo si salva aggrappandosi a una tavola. 7. Un groppo di vento più forte gli spinge addosso una grande cassa, che ribalta la tavola: Landolfo è costretto ad aggrapparsi alla cassa e su questa viene sospinto fino a Corfù. 8. Qui, una donna che si era casualmente recata sulla spiaggia per lavare delle stoviglie lo vede e lo trae in salvo. Rimasto incosciente più giorni, Landolfo infine si riprende, e scopre che la cassa è piena di pietre preziosissime. 9. Senza dire nulla a nessuno, Landolfo infila le pietre in sacco e si rimette in viaggio per Ravello. A Trani viene aiutato da un gruppo di drappieri suoi concittadini, che lo rifocillano e gli danno dei vestiti. 10. Giunto in patria, Landolfo esamina le pietre e constata che con il loro valore egli ha effettivamente raddoppiato il suo patrimonio. Manda quindi del denaro alla donna di Corfù e ai drappieri di Trani.
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Le forze in azione nella vicenda: la fortuna La maggior parte delle sequenze sopra individuate sono determinate da un intervento della fortuna, che svolge un ruolo determinante nella vicenda. Occorre precisare che la fortuna con cui Landolfo si deve confrontare nella propria avventura non ha nulla di trascendente: nella concezione laica di Boccaccio essa coincide con il caso, un insieme di eventi e circostanze del tutto imprevedibile, che irrompe nella vita dell’uomo mutandone radicalmente il corso. Simbolo di questa forza misteriosa diventa, nella novella, il mare: con il suo imprevedibile susseguirsi di tempeste e di bonacce, il mare è il vero protagonista del nucleo centrale della novella. È significativo, a conferma di ciò, il fatto che, in corrispondenza della descrizione del naufragio, il tempo narrativo si dilati: a questo episodio relativamente breve viene dedicato maggior spazio che a eventi assai più estesi nel tempo reale, come ad esempio il fallimento dei commerci di Landolfo a Cipro. Si noti anche che alla fine, una volta riconquistata la ricchezza grazie alla cassa di pietre preziose, Landolfo compie il tratto finale della navigazione marina marina, senza mai cioè staccarsi dalla costa, come se per lui il mare aperto fosse diventato sinonimo immediato di avventure rischiose e di imprevedibili mutamenti della sorte.
L’avidità del mercante L’avidità di ricchezze è la vera molla di tutte le iniziative di Landolfo. Boccaccio non esprime alcun giudizio su quello che l’etica medievale del tempo di Dante avrebbe considerato un peccato. Il desiderio di guadagno è visto semplicemente come l’atteggiamento logico e naturale di ogni mercante: «sì come usanza suole esser de’ mercatanti», precisa l’autore, Landolfo si imbarca in una rischiosa avventura commerciale, che lo porta a sfiorare la rovina per ben due volte. Mai però, per propria colpa: a differenza di Andreuccio da Perugia, protagonista della novella successiva (➜ T9b ), Landolfo non pecca d’ingenuità né di imprudenza. Al contrario, egli dimostra sempre di saper trarre il massimo vantaggio dalle dure lezioni impartitegli dalla sorte, reagendo con coraggio e intraprendenza a tutti i colpi del caso. La sua avidità non è quindi una passione sfrenata e accecante, ma un’attitudine sempre diretta e controllata dalla razionalità. Da vizio capitale, in questa novella l’avidità viene trasformata nella caratteristica tipica e imprescindibile del perfetto mercante.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dividi in sequenze la novella, dando a ognuna di esse un titolo. COMPRENSIONE 2. Perché Landolfo Rufolo intraprende il viaggio verso Cipro? 3. Quali sono le scelte che gli si presentano una volta persi i propri averi? A quale delle due si rivolge? ANALISI 4. Chi sono i personaggi principali? Descrivili utilizzando le informazioni che trovi nel testo. 5. In quali condizioni Landolfo approda sull’isola di Corfù? 6. In che momenti e in che modi si manifesta l’intervento della fortuna? Individua nel testo i passi più significativi. LESSICO 7. Analizza la novella dal punto di vista lessicale e individua i termini e le espressioni appartenenti al campo semantico della mercatura. Spiega le motivazioni di questa scelta lessicale facendo riferimento al tema trattato dalla novella e al punto di vista di Boccaccio.
Interpretare
SCRITTURA 8. Ti sembra che nella vicenda di Landolfo venga dato spazio alla facoltà dell’uomo di contrastare l’imprevedibilità della fortuna? E in quali punti emergono l’ingegno e l’accortezza di Landolfo? Sono elementi determinanti o servono solo ad adattarsi il meglio possibile alle situazioni decise dal caso? (max 15 righe).
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TESTI A CONFRONTO 9. Il concetto di fortuna era presente anche nella Divina Commedia, ma con un significato assai diverso: per Dante essa non era una forza casuale ma l’espressione del progetto misterioso di Dio, incomprensibile per gli uomini: in questo senso la fortuna finisce per identificarsi con la Provvidenza divina stessa. In alcune terzine dell’Inferno (If VII, 73-93) Virgilio spiega a Dante questo concetto:
Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce 75 sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende, distribuendo igualmente la luce. Similemente a li splendor mondani 78 ordinò general ministra e duce che permutasse a tempo li ben vani di gente in gente e d’uno in altro sangue, 81 oltre la difension d’i senni umani; per ch’una gente impera e l’altra langue, seguendo lo giudicio di costei, 84 che è occulto come in erba l’angue. Vostro saver non ha contasto a lei: questa provede, giudica, e persegue 87 suo regno come il loro li altri dèi. Le sue permutazion non hanno triegue: necessità la fa esser veloce; 90 sì spesso vien chi vicenda consegue. Quest’è colei ch’è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, 93 dandole biasmo a torto e mala voce; Nella visione di Dante la fortuna è dunque un riflesso della volontà di Dio, una «general ministra e duce» (v. 78) il cui operato è misterioso e occulto non per la mancanza di un senso intrinseco, ma perché le ragioni di esso risiedono nell’infinito pensiero di «Colui lo cui saver tutto trascende», irraggiungibile per gli uomini. In un testo di 10-15 righe confronta l’immagine dantesca della fortuna con la sua rappresentazione laica nelle novelle di Boccaccio, cercando di spiegare le ragioni storico-culturali di tale significativa trasformazione.
Miniatore fiorentino, miniatura per la novella di Landolfo Rufolo dall’apparato decorativo del Decameron nel manoscritto Italien 63, f. 44r (XV secolo, Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Esaltazione o visione critica del mondo mercantile? Proponiamo il confronto tra due testi critici riguardanti il rapporto tra Boccaccio e il mondo mercantile. Il primo è dovuto al maggior studioso di Boccaccio, Vittore Branca, che ha coniato per il Decameron la fortunata formula di «epopea dei mercatanti»; il secondo si deve a Giorgio Padoan, che sottolinea invece la presenza nel Decameron di una visione critica della mercatura, frutto di un momento storico in cui cominciava a declinare un certo modello sociale ed economico.
V. Branca, Boccaccio medievale [1956], Rizzoli, Milano 2010
Vittore Branca L’epopea dei mercanti La rievocazione della civiltà italiana nell’autunno del Medioevo, che si è rivelata nel Decameron grandiosa e suggestiva, trova uno dei suoi centri più vivi e più affascinanti nella serie di avventurosi e mossi affreschi in cui si riflette la ricchissima vita mercantile fra il Duecento e il Trecento. Per la prima volta nella letteratura europea riceve alta consacrazione questo movimento decisivo per la nostra storia, promosso e diretto da quei veri eroi dell’intraprendenza e della tenacia umana, da quel pugno d’uomini lanciati alla conquista dell’Europa e dell’Oriente, che […] siamo venuti sempre meglio scoprendo nella loro statura di uomini d’eccezione. Isolata ancora nell’opera di Dante in un cerchio di aristocratico disprezzo per «la gente nova e i subiti guadagni», ignorata come inferiore o estranea dalla raffinata esperienza del Petrarca, restata ai margini persino nelle opere storiche di un Compagni o nello stilizzato narrare del Novellino, questa società irrompe nella «commedia umana» del Decameron e la domina con la sua esuberante vitalità. Non ci riferiamo solo alla folla di temi, di ambienti, di personaggi, di usi, di riferimenti vari che colora più della metà delle novelle con le tinte vivaci e sanguigne proprie a questo mondo. È la centralità nello stesso disegno ideale dell’opera, nel suo significato esemplare in senso umano e artistico, a configurare la presenza di questo ceto nella fantasia narrativa del Boccaccio come caratteristica, e si vorrebbe dire insostituibile, allo svolgersi del Decameron. Perché il grandioso tema di questa «commedia umana del Medioevo», cioè la rappresentazione della misura che l’uomo dà delle sue doti e delle sue capacità al confronto delle grandi forze che sembrano dominare l’umanità (Fortuna, Amore, Ingegno), non poteva trovare in quella età esempi di più potente e prepotente eloquenza rappresentativa. Dopo le dorate sequenze dei cavalieri della spada, accarezzate ormai solo dalla memoria e da una sottile nostalgia, è proprio il mondo dei nostri mercanti che, fra il Duecento Mercanti nel Medioevo, dal particolare di una e il Trecento, offre i campioni più vivi miniatura francese dall’apparato decorativo del du régime des princes di Gilles de Romme nel e aggressivi nell’agone con quelle forze Livre manoscritto FranÇais 126, f. 7r (primo quarto del XV secolo, Bibliothèque Nationale de France, Parigi). sovrumane.
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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
G. Padoan, Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di Giovanni Boccaccio, in Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Olschki, Firenze 1976
Giorgio Padoan Una visione critica del mondo mercantile Nella glorificazione dell’intelligenza umana il Boccaccio mostra [...] aperta adesione alla nuova visione del mondo e della società maturata nell’ambiente borghese e mercantile; non solo, ma frequenti riflessioni di personaggi decameroniani sono chiaramente rapportabili alla «mentalità economica», al concetto economico dell’utile [...]. Questa adesione del Boccaccio è però limitata in parte dalle sue vive simpatie per il mondo aristocratico e cortese e, ancor più, dal fatto che, quando egli scrive, assistiamo al tramonto della grande età dei mercanti fiorentini: alla ricerca appassionata di nuovi mercati da aggiungere al grande impero economico già conquistato subentrava ormai la pigra cautela, il momento della conservazione e quindi dell’ineluttabile declino, economico, politico, ideologico. [...] Da questa precisa situazione e dalla sua particolare sensibilità morale deriva al Boccaccio il ripensamento sulle tragiche conseguenze della ferrea obbedienza alla «ragion di mercatura», cui tutto, moralità ed affetti, doveva essere, nel caso, sacrificato: da ser Ciappelletto ai fratelli della Lisabetta l’autore disegna freddamente questa vittoria del disumano. Il Boccaccio, che sente in pieno – anche se non con chiara consapevolezza critica – e in gran parte accoglie la nuova elaborazione ideologica che la struttura della società comunale ha imposto e il soffio di potente modernità che si sprigiona da quella nuova classe dirigente fiorentina, non si lascia però andare ad adesioni incondizionate [...]: egli assume come personaggi questi mercanti che viaggiano da un punto all’altro della terra, ne descrive avventure, mentalità, e mostra anche come la «ragion di mercatura» spinta alle estreme conseguenze finisca con il riconoscere tra uomo e uomo un solo rapporto, quello del nudo interesse, dal momento che il calcolo egoistico spegne i timori della religiosità, soffoca l’entusiasmo cavalleresco, la liberalità e persino i sacri vincoli degli affetti familiari.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e Analisi
Produzione
1. Individua e sintetizza la tesi avanzata rispettivamente da ciascuno dei due critici. 2. Individua e presenta gli argomenti prodotti da Padoan a sostegno della propria tesi. 3. I due brani critici riportati propongono qualche affinità nell’interpretazione della rappresentazione del mondo mercantile nelle novelle di Boccaccio? Con quali eventuali differenze? 4. Quale dei due giudizi, a tuo parere, è argomentato in modo più efficace? Perché? 5. La società mercantile, con i suoi costumi, i suoi valori, le sue qualità – positive o negative – è senza dubbio tra i protagonisti di maggior spicco del Decameron, che le riconosce una centralità nuova nel panorama della letteratura medievale. Discuti sulle caratteristiche e sul significato della presenza di tale ceto sociale nelle opere artistiche – letterarie ma anche figurative – del Medioevo. Sviluppa le tue considerazioni al riguardo in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
718 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Analisi passo dopo passo
T9b
Giovanni Boccaccio
La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia
LEGGERE LE EMOZIONI
Decameron II, 5 G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
Andreuccio, giovane inesperto e provinciale, si reca a Napoli per comprare dei cavalli: ma nella grande città sarà vittima di svariate disavventure. La fortuna lo sottopone infatti a molte prove, attraverso le quali si compirà la sua maturazione. Così, da uomo «rozzo e poco cauto» che era, Andreuccio potrà tornare a Perugia come mercante avveduto e scaltro, avendo realizzato i propri interessi, anche se non nella maniera prevista.
ANDREUCCIO DA PERUGIA, VENUTO A NAPOLI A COMPERAR CAVALLI, IN UNA NOTTE DA TRE GRAVI ACCIDENTI SOPRAPRESO1, DA TUTTI SCAMPATO CON UN RUBINO SI TORNA A CASA SUA. – Le pietre da Landolfo trovate2 – cominciò la Fiammetta, alla quale del novellare la volta toccava – m’hanno alla memoria tornata una novella non guari meno3 di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da 5 essa, in quanto quegli forse in più anni e questi nello spazio d’una sola notte addivennero, come udirete. Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone4 di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in 10 borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più5 fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall’oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato6, e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne7, né di niuno poten15 dosi accordare8, per mostrare che per comperar fosse9, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva. E in questi trattati10 stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana11 bellissima, ma disposta 20 per piccol pregio12 a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: «Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» e passò oltre. Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre 1 soprapreso: sorpreso. 2 Le pietre da Landolfo trovate: il riferimento è alla novella precedente, che ha per protagonista lo scaltro Landolfo Rufolo il quale, divenuto corsaro per recuperare le ricchezze perdute, fa naufragio e si salva aggrappandosi a una cassa che si scoprirà essere colma di pietre preziose. 3 non guari meno: niente affatto meno.
4 cozzone: sensale. 5 mai più: mai. Il più è pleonastico. 6 Mercato: Boccaccio si riferisce alla piazza che porta questo nome, dove nel 1268 ebbe luogo l’esecuzione di Corradino di Svevia. 7 e di più... tenne: e su molti cavalli intavolò delle trattative. 8 né di niuno potendosi accordare: non riuscendo a trovare un accordo su nessuno di loro.
1. Il protagonista è tratteggiato in modo molto sintetico, esclusivamente funzionale alla vicenda narrata: se ne individua solo la giovane età, la provenienza (Perugia) e il mestiere (sensale di cavalli). Molto importanti, ai fini dello svolgimento dell’avventura, sono l’inesperienza («non essendo mai più fuori casa stato») e l’ingenuità («rozzo, poco cauto»), che inducono il giovane a esibire sconsideratamente la borsa di fiorini. È da questa colpevole mossa che prenderà le mosse l’intreccio avventuroso della novella.
2. Ad Andreuccio si contrappone la ciciliana: giovane, bellissima e di malaffare, che individua con prontezza in Andreuccio una possibile vittima. La sorte favorisce i suoi desideri: la vecchia che è con lei, per caso (prima occorrenza del tema della fortuna, centrale nel testo) conosce Andreuccio e le fornisce tutte le informazioni necessarie per architettare un piano geniale. Ingegno e spirito di iniziativa fanno della ciciliana un tipico personaggio “positivo” boccacciano: portatore di una visione etica laica, Boccaccio infatti subordina il giudizio morale alla valorizzazione delle qualità individuali.
9 mostrare... fosse: manifestare che era intenzionato a comprare. 10 trattati: trattative. 11 ciciliana: siciliana. Forma assai diffusa nel Trecento. 12 pregio: prezzo.
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la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala13, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone14, si 30 partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina. La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza15 della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o 35 donde16 e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente17 de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco18 detto egli stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse19 e perché venuto fosse. 40 La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione20; e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda21 per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa 45 assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso22, essa, tiratolo da parte, disse: «Messere, una 50 gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria23 volentieri». Il quale vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante24 della persona, s’avvisò25 questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era 55 apparecchiato26 e domandolla dove e quando questa donna parlar gli volesse. A cui la fanticella rispose: «Messere, quando di venir vi piaccia, ella v’attende in casa sua». Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse: 60 «Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso». Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio27, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente 25
13 conosciutala: riconosciutala. 14 senza... sermone: senza soffermarsi troppo a parlare in quel luogo. 15 contezza: familiarità. 16 donde: da dove venisse. 17 particularmente: dettagliatamente. 18 per poco: quasi, pressappoco. 19 dove tornasse: dove albergasse. 20 al suo appetito... intenzione: basandosi su queste informazioni costruì con
sottile astuzia un piano per raggiungere i propri scopi. 21 mise la vecchia in faccenda: tenne occupata la vecchia. 22 desso: proprio lui. 23 vi parleria: vi incontrerebbe. 24 tutto... fante: guardatosi da capo a piedi e sembrandogli di essere un bel giovanotto.
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3. I due commenti ironici della narratrice, dietro cui si intravede l’autore stesso «quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli» «la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra» creano con il lettore una sorta di complicità. La visione critica condivisa da autore-narratore-lettore si contrappone nettamente all’ingenua valutazione di Andreuccio.
25 s’avisò: pensò. 26 apparecchiato: pronto. 27 Malpertugio: era un quartiere di Napoli che, mediante un viottolo attraverso le mura, conduceva direttamente al mare. Era conosciuto per i loschi traffici e per la malavita che, come rileva anche Boccaccio, riecheggiano nel suo stesso nome.
di ciò sappiendo né suspicando28, credendosi in uno onestissi65 mo luogo andare e a una cara29 donna, liberamente30, andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già la sua donna31 chiamata e detto «Ecco Andreuccio», la vide in capo della scala farsi a aspettarlo. Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissi70 mo viso, vestita e ornata assai orrevolemente32; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese33 con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia34 tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò35 la fronte e con voce alquanto 75 rotta36 disse: «O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!» Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: «Madonna, voi siate la ben trovata!» Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò37 e di quella, senza alcuna altra cosa parlare, con lui nella sua 80 camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori d’aranci e d’altri odori tutta oliva38, là dove egli un bellissimo letto incortinato39 e molte robe su per le stanghe40, secondo il costume di là, e altri assai belli e ricchi arnesi41 vide; per le quali cose, sì come nuovo42, fermamente credette lei dovere essere non men che 85 gran donna. E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui43 che non mi conosci e per 90 avventura mai ricordar non m’udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è44 che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m’ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte45 ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come che46 io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella 95 ora che io consolata non muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza47, vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma tra gli altri che 100 molto l’amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l’amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de’ fratelli e il suo onore48, in tal guisa con lui si 28 suspicando: sospettando. Dal latino suspicere. 29 cara: per bene. 30 liberamente: spontaneamente. 31 donna: padrona. 32 orrevolemente: con decoro. 33 incontrogli... discese: gli scese incontro da tre gradini. 34 soperchia: troppo forte. 35 basciò: baciò.
36 rotta: commossa. 37 il menò: lo condusse. 38 oliva: profumava. 39 incortinato: chiuso da tendaggi, da cortine.
40 stanghe: pertiche di legno sulle quali, in assenza di armadi, si appendevano gli abiti. 41 arnesi: suppellettili. 42 sì come nuovo: ingenuo, inesperto com’era.
4. Il racconto della siciliana, oltre che un capolavoro di astuzia, è una sorta di mini-romanzo: contiene infatti, condensati in poche righe, gli espedienti canonici e gli schemi narrativi avventurosi tipici del “romanzesco”, come la storia d’amore, l’abbandono, l’intreccio tra macrostoria (i riferimenti alla storia politica del tempo) e microstoria, in una sapiente commistione di pathos e avventura.
43 sì come colui: dato che. 44 sì come è: cioè. 45 anzi la mia morte: prima di morire. 46 come che: sebbene. 47 piacevolezza: amabilità. 48 posta giù... e il suo onore: messo da parte il timore del padre e dei fratelli e il suo onore.
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dimesticò49, che io ne nacqui e sonne50 qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione51 a Pietro di partirsi di Palermo e tornare 105 in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei52 avendo riguardo53 alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua fi110 gliuola non nata d’una fante54 né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose a sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani. Ma che è?55 Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare56: la cosa 115 andò pur così. Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti57, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare in Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo58, cominciò 120 a avere alcuno trattato59 col nostro re Carlo60. Il quale61, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa62 che mai in quella isola fosse: donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto alle63 125 molte le quali avavamo), lasciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici64 in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni65 e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione66, sì come 130 tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua, fratel mio dolce, ti veggio». E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte. Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così 135 compostamente67 detta da costei, alla quale in niuno atto68 moriva la parola tra’ denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo69 de’ giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari 49 in tal guisa... si dimesticò: prese a tal punto confidenza con lui. 50 sonne: ne sono. 51 cagione: motivo. 52 forte il riprenderei: fortemente lo rimprovererei. 53 avendo riguardo: considerando. 54 fante: serva. 55 che è?: a che serve (lamentarsi)? 56 Le cose... emendare: è più facile biasimare che correggere le cose mal condotte e lontane nel tempo.
La novella di Andreuccio da Perugia (xilografia da un’edizione a stampa del Decameron, Venezia 1504).
57 Gergenti: l’attuale Agrigento. 58 come colui... guelfo: essendo un guel-
66 provisione: sussidio. 67 compostamente: coerentemente, ma
fo convintissimo.
anche scaltramente. La storia imbastita dalla bella siciliana aveva una sua verosimiglianza: non erano infrequenti le discendenze illegittime nella classe mercantile. Si ricordi che lo stesso Boccaccio era figlio illegittimo di un mercante. 68 in niuno atto: in nessuna maniera, né nelle parole né nei gesti. 69 per se medesimo: per esperienza personale.
59 trattato: trattativa. 60 re Carlo: Carlo II d’Angiò, che combatté contro gli aragonesi e fu infine costretto a cedere il governo della Sicilia. 61 Il quale: si riferisce a trattato. 62 cavalleressa: gran dama. 63 per rispetto alle: rispetto alle. 64 ristoratici: dopo averci risarcito. 65 possessioni: possedimenti terrieri.
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e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero70: e poscia che ella tacque, le rispose: «Madonna, egli non vi dee parer gran cosa71 se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia 145 notizia venuto non sia, io per me niuna conscienza aveva di voi se non come se non foste72; e emmi73 tanto più caro l’avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci74 sono più solo e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare75 al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo 150 mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?» Al quale ella rispose: «Questa mattina mel fé sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene76, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e 155 in Perugia stette; e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua77 che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei78». Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente79, alla quale di tutti 160 Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava80. Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti81 e fé dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in 165 niuna guisa il sostenne82, ma sembiante fatto di forte turbarsi83 abbracciandol disse: «Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii84 con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato85 esser dovresti, e vogli di quella uscire per 170 andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con esso meco86: e perché87 mio marito non ci sia, di che forte mi grava88, io ti saprò bene secondo donna89 fare un poco d’onore». Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: «Io v’ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non 140
70 ebbe... per vero: considerò ciò che ella diceva più che vero. 71 egli... gran cosa: non vi dovete stupire. egli è pleonastico. 72 per ciò che... non foste: perché in verità, o perché mio padre, per qualsiasi ragione lo facesse, non parlava mai di vostra madre o di voi, o perché, se egli ne parlò, io non sia venuto a saperlo, da parte mia (per me) non sapevo nulla di voi (niuna conscienza aveva), come se non esisteste. 73 emmi: mi è. 74 ci: qui (a Napoli).
75 di sì alto affare: di così elevata condizione sociale. 76 la qual... si ritiene: che trascorre molto tempo con me. 77 in casa tua: tua in quanto appartiene alla “sorella” di Andreuccio, e quindi è proprietà di famiglia. 78 egli ha... sarei: sarei venuta da te da molto tempo. 79 nominatamente: chiamandoli per nome. 80 ancora più credendo... bisognava: convincendosi ancora di più di quello che avrebbe fatto meglio a non credere.
5. Il comportamento di Andreuccio, nella prima parte della novella, è contraddistinto dalla ripetizione del verbo «credere» o forme similari, che alludono insistentemente alla sua credulità e ingenuità: «credendosi in uno onestissimo luogo andare» «fermamente credette lei dover essere». E, ancora, dopo il sapiente discorso della siciliana, «ebbe ciò che ella diceva più che per vero». E più avanti, quando la donna lo convincerà a rimanere a dormire da lei con motivazioni apparentemente razionali: «Egli, questo credendo...» «da falsa credenza ingannato….»
81 greco e confetti: vino bianco e dolciumi. 82 il sostenne: glielo permise. 83 sembiante... turbarsi: facendo finta di turbarsi molto. 84 Che... sii: come si può pensare che tu sia. 85 smontato: alloggiato. 86 con esso meco: proprio con me. 87 perché: sebbene. 88 mi grava: mi dispiace. 89 secondo donna: per quanto una donna è capace di fare.
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ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania90». E ella allora disse: «Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui91 mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a’ tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te 180 ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata92». Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l’era, di lui facesse il piacer suo93. Ella allora fé vista94 di mandare a dire all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi 185 a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga95 infino alla notte obscura; e essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe96, per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro97 di notte, e massimamente un forestiere; 190 e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante98. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d’esser con costei, stette99. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione100 tenuti; e essendo della notte 195 una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla101, con le sue femine102 in un’altra camera se n’andò. Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto103 e trassesi i 200 panni di gamba104 e al capo del letto gli si pose105; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre106, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo107, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò uno uscio e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente108 passato, gli venne 205 per ventura109 posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era110, per la qual cosa capolevando111 questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso112: e di tanto l’amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma 175
90 farò villania: mi comporterò in modo scortese. 91 Lodato... per cui: grazie a Dio, io ho in casa qualcuno attraverso il quale. 92 di brigata: in compagnia. 93 poi che pure... il piacer suo: poiché le faceva piacere, disponesse di lui come voleva. 94 fé vista: fece finta. 95 menò per lunga: tirò la cena per le lunghe. 96 in niuna guisa sofferrebbe: non l’avrebbe permesso in alcun modo. 97 da andarvi per entro: da girarvi.
6.L’avventura è inquadrata realisticamente in uno spazio (Napoli, di cui vengono citati con precisione strade e quartieri) e in un tempo (l’azione si svolge dalla sera di domenica all’alba di lunedì) precisi. La novella nasce probabilmente dalle memorie napoletane dell’autore, che in essa rievoca luoghi, personaggi, aneddoti conosciuti al tempo del suo felice soggiorno nella città partenopea. 7. Irrompe nella novella il caso, la “fortuna”, che si presenta all’inizio come accadimento del tutto banale: Andreuccio mette il piede per ventura su un’asse sconnessa e precipita nel chiassetto. Si tratta della prima “caduta” (ne seguiranno altre) a cui corrispondono altrettante “risalite”. Alcuni critici hanno letto nella ricorrente dinamica alto/basso e basso/alto che caratterizza la storia di Andreuccio un riflesso degli antichi riti iniziatici, che comportano la iniziale degradazione dell’individuo e una serie di prove perché possa poi giungere alla rigenerazione finale (uno schema riconoscibile nella stessa Commedia dantesca). Questo modello è però in Boccaccio rivisitato e ironizzato: il giovane ignaro protagonista cade innanzitutto nel chiassetto colmo di sterco, una “discesa” grave e umiliante, che allude alla condizione di stoltezza in cui si trovava non appena giunto a Napoli e da cui si dovrà riscattare.
98 il somigliante: la stessa cosa. 99 dilettandogli... stette: avendo piacere
105 gli si pose: se li pose. 106 richiedendo... ventre: poiché il bi-
di restare con lei, ingannato da un’impressione sbagliata, si fermò (a casa sua). 100 non senza cagione: non senza un secondo fine da parte della donna. 101 che... nulla: che si mettesse a sua disposizione per qualsiasi suo bisogno. 102 femine: domestiche. 103 farsetto: corpetto che andava indossato sopra la camicia. 104 panni di gamba: brache, mutande e calze.
sogno naturale richiedeva di svuotare il peso del ventre. 107 domandò quel fanciullo: chiese a quel ragazzo. 108 sicuramente: senza sospettare nulla. 109 per ventura: per caso. 110 la quale... era: che dalla parte opposta era schiodata dalla trave su cui poggiava. 111 capolevando: capovolgendosi. 112 giuso: giù, verso il basso.
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tutto della bruttura113, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che114 meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto115 stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l’una casa e l’altra posti, alcune tavole eran 215 confitte116 e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l’una. Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso117, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La 220 quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente118 sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo119, più di lui non curandosi prestamente 225 andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde. Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente120. Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere, salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via 230 disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò121 e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disaventura, cominciò a dire: «Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!» 235 E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio e a gridare; e tanto fece così, che molti de’ circunstanti vicini, desti, non potendo la noia122 sofferire, si levarono; e una delle servigiali123 della donna, in vista124 tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente125 disse: «Chi picchia là giù?» 240 «Oh!» disse Andreuccio «o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso». Al quale ella rispose: «Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi126 e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance127 son quelle che tu di’; va in buona ora128 e lasciaci 245 dormir, se ti piace». 210
113 bruttura: sporcizia, escrementi. 114 acciò che: affinché. 115 chiassetto: vicoletto. 116 confitte: inchiodate. 117 del caso: per quanto gli era accaduto. 118 mattamente: stupidamente.
119 avendo... lacciuolo: avendo ottenuto ciò (il denaro) per cui lei, di Palermo, diventando sorella (sirocchia) di un perugino, aveva teso la trappola (il lacciuolo). 120 niente: inutile. 121 il dimenò: lo scosse. 122 la noia: il fastidio arrecato da quel baccano.
8. Cambia il ritmo narrativo e la stessa sintassi: agli ampi periodi, ricchi di incisi, del racconto della siciliana succedono frasi coordinate, verbi di azione in rapida successione («così corse», «corsa alla sua camera»,«prestamente cercò») con cui il narratore mima la fretta dei malviventi per impadronirsi del denaro.
9. L’inizio della formazione di Andreuccio è segnalato alla fine della prima sequenza da espressioni che designano prima il dubbio, quindi la comprensione e la chiarezza: «già sospettando» «cominciandosi a accorgere» e più esplicitamente «come colui che chiara vedea la sua disaventura»; questi si sostituiscono ai verbi legati all’area semantica del “credere”, dominanti nella prima parte della novella; a ciò segue la sintetica e amara riflessione sulla perdita simultanea di una sorella e dei cinquecento fiorini.
123 servigiali: domestiche. 124 in vista: all’apparenza. 125 proverbiosamente: rimproverandolo aspramente. 126 va dormi: va’ a dormire. 127 ciance: chiacchiere, frottole. 128 in buona ora: di grazia, per favore.
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«Come» disse Andreuccio «non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine129 si dimentichino, rendimi almeno i panni miei, li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentier con Dio». 250 Al quale ella quasi ridendo disse: «Buono uomo, è mi par che tu sogni», e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia130 fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira131, e 255 per ingiuria132 propose di rivolere quello che per parole133 riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominciò a percuoter la porta. La qual cosa134 molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole135 il quale queste parole 260 fingesse per noiare quella buona femina136, recatosi a noia137 il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire: «Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le138 buone femine e dire queste ciance; 265 deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei139, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine140 stanotte». Dalle quali parole forse assicurato141 uno che dentro dalla casa era, ruffiano142 della buona femina, il quale egli né veduto né 270 sentito avea, si fece alle finestre e con una boce143 grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiù?» Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender poté, mostrava di dovere essere un gran bacalare144, con una barba nera e folta al volto, e come 275 se del letto o da alto145 sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose: «Io sono un fratello della donna di là entro». Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido146 assai che prima disse: «Io non so a che io mi te280 gno147 che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere148, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere,
129 in sì piccol termine: in così poco tempo. 130 per doglia: per il dolore. 131 fu presso... ira: fu vicino a trasformare la collera in furore. 132 per ingiuria: con la violenza. 133 per parole: attraverso le parole. 134 La qual cosa: per questo motivo. 135 spiacevole: importuno. 136 buona femina: è ironico.
137 recatosi a noia: seccatosi. 138 a casa le: presso le (con soppressione della preposizione di: “a casa delle”). Espressione corrispondente al chez francese. 139 e se tu... con lei: e se tu hai qualcosa da risolvere con lei. 140 seccaggine: seccatura, fastidio. 141 Dalle quali... assicurato: sentendosi forse più sicuro di sé per via delle parole del vicinato. 142 ruffiano: protettore.
726 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
143 boce: voce. Termine dialettale che qui acquista una sfumatura caricaturale. 144 bacalare: baccelliere, cioè colui che nelle università medievali aveva raggiunto il primo grado di studi, prima della laurea. Qui designa una persona molto autorevole, ma è fortemente ironico. 145 alto: profondo. 146 rigido: severo, aspro. 147 a che... tegno: perché mi trattengo. 148 quante... muovere: finché ti vedo muovere.
che questa notte non ci lascerai dormire persona»; e tornatosi dentro serrò la finestra. Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion149 di 285 colui, umilmente150 parlando a Andreuccio dissero: «Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì: vattene per lo tuo migliore151». Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da’ conforti di coloro li quali gli pareva che da 290 carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato152, verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza saper dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per 295 lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana153 si mise. E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno, li quali temendo non fosser della famiglia della corte154 o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in 300 un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò155. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati certi ferramenti156 che in collo avea, con l’altro insieme gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. 310 E mentre parlavano, disse l’uno: «Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire»; e questo detto, alzata alquanto la lanterna, ebber veduto il cattivel157 d’Andreuccio, e stupefatti domandar: «Chi è là?» Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il doman315 darono che quivi così brutto158 facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sé: «Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo159». E a lui rivolti, disse l’uno: «Buono uomo, come che160 tu abbi 320 perduti i tuoi denari, tu hai molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare161: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima162 adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co’ denari avresti la persona163 perduta. Ma che giova oggimai164 di piagnere? Tu 149 la condizion: cioè chi fosse e che ruolo avesse in quella casa (era appunto il protettore di Fiordaliso). 150 umilmente: «a bassa voce» (Branca); «con bontà» (Segre);«in tono di consiglio o di pietà» (Sapegno). 151 per lo tuo migliore: per il tuo bene. 152 de’... disperato: avendo perse tutte le speranze di recuperare i suoi denari. 153 Ruga Catalana: strada che dal porto conduce nella parte alta della città.
154 della famiglia della corte: delle guardie, della polizia. 155 pianamente ricoverò: silenziosamente si rifugiò. 156 ferramenti: attrezzi di ferro. 157 cattivel: misero, sfortunato, poveretto. 158 brutto: sporco. 159 in casa... fia stato questo: sarà successo ciò in casa del delinquente Buttafuoco. Il termine scarabone è dialettale e indicava i capi
10. Ha inizio la seconda avventura di Andreuccio; in essa, ancora più che nella prima, si fa sentire l’intervento del caso: Andreuccio sbaglia strada, non conoscendo la città, e si imbatte per ventura in due malavitosi, i quali entrano proprio nel casolare dove si nasconde impaurito Andreuccio. Altrettanto fortuito sarà l’arrivo al pozzo, al fondo del quale è stato calato il protagonista perché si potesse lavare, dei due gendarmi e il successivo incontro, mentre Andreuccio andava senza saper dove nella città ostile e labirintica con i due malviventi.
di bande di malviventi. Il personaggio di Buttafuoco è ispirato dalla figura di un malavitoso siciliano realmente esistito, di nome appunto Buttafuoco, che viveva a Napoli nel periodo in cui è ambientata la novella. 160 come che: sebbene. 161 quel caso... rientrare: ti capitò la sorte di cadere e non poter più rientrare in casa. 162 come prima: non appena. 163 la persona: la vita. 164 oggimai: ormai.
Il Decameron 2 727
ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo165: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui166 sente che tu mai ne facci parola». E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: «Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere 330 a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai167». Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch’era presto168. Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato 335 messer Filippo Minutolo169, e era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino in dito il quale valeva oltre a cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto170. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato171, con loro si 340 mise in via; e andando verso la chiesa maggiore172, e Andreuccio putendo173 forte, disse l’uno: «Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente174?» Disse l’altro: «Sì, noi siam qui presso a un pozzo al quale suole 345 sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente175». Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma il secchione n’era stato levato: per che insieme deliberarono di legarlo alla fune e di collarlo176 nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, 350 come lavato fosse, crollasse177 la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero. Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria178, li quali179 e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: 355 li quali come quegli due videro, incontanente180 cominciarono a fuggire, li famigliari181 che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle182, cominciarono la fune a tirare credendo a 360 quella il secchion pien d’acqua essere appicato. Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino, così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual cosa costor vedendo, 325
165 Tu... del cielo: hai le stesse possibilità di recuperare anche solo una piccolissima parte dei tuoi soldi, quante di ottenere le stelle del cielo. 166 colui: cioè Buttafuoco. 167 ti toccherà... non hai: ti toccherà una parte molto più preziosa di quanto hai perduto. 168 presto: pronto. 169 Filippo Minutolo: arcivescovo di Napoli dal 1288 al 1301.
170 fecer veduto: comunicarono. 171 più cupido che consigliato: più avido che prudente.
172 la chiesa maggiore: il Duomo di Napoli. 173 putendo: puzzando. Dal latino pūtĕo, putēre. 174 fieramente: fortemente. 175 laverenlo spacciatamente: lo laveremo in fretta.
728 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
176 collarlo: calarlo. 177 crollasse: scuotesse. 178 famiglia della signoria: guardie. 179 li quali: è complemento oggetto di videro; il sogg. è quegli.
180 incontanente: subito. 181 li famigliari: le guardie. 182 gonnelle: sopraveste da uomo con cappuccio e cintura.
da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio 365 si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto183, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s’incominciò a maravigliare. 370 Ma dubitando e non sappiendo che184, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove. Così andando si venne scontrato185 in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del 375 pozzo l’avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che sù l’avean tirato. E senza più parole fare, essendo 380 già mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente186 entrarono e furono all’arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo187, sollevaron tanto quanto un uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo. 385 E fatto questo, cominciò l’uno a dire: «Chi entrerà dentro?» A cui l’altro rispose: «Non io». «Né io» disse colui «ma entrivi Andreuccio». «Questo non farò io» disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero: «Come non 390 v’enterrai? In fé di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto». Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò 395 loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna». E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua188; e ricordatosi del caro189 anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sé; e poi dato il 400 pasturale e la mitra e’ guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v’avea. Costoro, affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso, rispondendo che nol trovava e sembiante faccendo di cercarne, alquanto gli tenne in aspettare. 410 Costoro che d’altra parte eran sì come lui maliziosi, dicendo 183 attenuto: tenuto. 184 Ma... che: ma avendo paura e senza sapere di che cosa.
185 si venne scontrato: gli capitò di incontrare. 186 leggiermente: facilmente. 187 gravissimo: pesantissimo.
11. Nella terza e ultima avventura c’è la maturazione psicologica di Andreuccio, che coincide di fatto con la formazione di una coscienza pragmatica, idonea alla sua attività mercantile: l’uomo capisce al volo ormai cosa accadrà e, ragionando in termini strettamente economici, pensa:«io rimarrò senza cosa alcuna». Decide allora rapidamente di ingannare i due malviventi per poter trarre a sua volta un guadagno dalla rischiosa impresa («E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua»). Da passiva vittima della fortuna Andreuccio diventa soggetto attivo nel provvedere a sé stesso e acquisisce la capacità di sfruttare le circostanze a proprio vantaggio. L’evoluzione del personaggio, che ne fa un elemento “dinamico”, non riguarda il piano spirituale-morale, ma esclusivamente la capacità di operare in modo vantaggioso per la propria condizione. Il caso farà il resto, restituendo ad Andreuccio quanto aveva perso.
188 per ciò... la parte sua: pensò innanzitutto di ritagliarsi via la propria parte. 189 caro: prezioso.
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pur190 che ben cercasse, preso tempo191, tiraron via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso. La qual cosa sentendo Andreuccio, quale egli allor divenisse ciascun sel può pensare. 415 Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente192 avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ri420 tornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini dover pervenire193: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirlo194 morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato195. 425 E così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali, sì come egli avvisava, quello andavano a fare che esso co’ suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero196 chi vi 430 dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione197 un prete disse: «Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi198? Li morti non mangian gli uomini: io v’entrerò dentro io». E così detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi 435 giuso calare. Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fé sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggir 440 cominciarono che se da centomilia199 diavoli fosser perseguitati. La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì della chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all’avventura, pervenne alla marina e quindi al suo 445 albergo si abbatté200; dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de’ fatti suoi201. A’ quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo202 inve450 stito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato203. – 190 dicendo pur: continuando a dire. 191 preso tempo: colto il momento op-
12. La chiusa della novella ne sottolinea in modo marcato la struttura circolare: il valore dell’anello compensa la perdita dei fiorini, e anche sul piano spaziale Andreuccio si ritrova di nuovo all’albergo da cui ha preso le mosse la sua avventura. Nulla di cambiato dunque? L’avventura non ha portato nessun progresso? Non a livello economico (l’anello ha più o meno il valore della borsa), ma certamente a livello sapienziale: attraverso pericoli e peripezie che lo hanno messo a dura prova, Andreuccio ha acquisito la saggezza e la prudenza che gli saranno molto utili nella sua professione di mercante.
195 appiccato: impiccato. 196 in quistion caddero: si misero a di-
200 si abbatté: si imbatté. 201 in sollecitudine de’ fatti suoi: preoc-
portuno.
scutere.
192 malagevolmente: difficilmente. 193 veggendosi... pervenire: vedendo
197 tencione: discussione. 198 manuchi: mangi. 199 centomilia: centomila. Forma alla
cupati per quanto poteva essergli successo. 202 il suo: il suo avere. 203 dove... andato: mentre era partito per comperare dei cavalli.
che sicuramente sarebbe giunto a uno di due esiti finali. 194 convenirlo: essere costretto a.
latina.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Suddividi la novella in sequenze e sintetizza il contenuto di ciascuna sequenza. COMPRENSIONE 2. Per quale motivo Andreuccio lascia la sua città per avventurarsi negli infidi vicoli di Napoli? 3. Che cos’è che attira l’attenzione di madonna Fiordaliso, quando adocchia l’ingenuo Andreuccio al mercato? 4. Perché, una volta conclusasi felicemente la disavventura, Andreuccio ritiene opportuno allontanarsi da Napoli in tutta fretta? ANALISI 5. Il primo episodio della novella mette a confronto l’astuzia di madonna Fiordaliso con l’ingenuità di Andreuccio: rintraccia nel testo gli indizi e gli elementi del lessico che concorrono a rappresentare questi due opposti atteggiamenti verso il mondo. 6. Come viene rappresentata la fortuna in questa novella? Ti sembra una forza amica o nemica del protagonista? Oppure il suo valore è, per così dire, neutro e dipende dalle reazioni del protagonista stesso? Motiva la tua risposta con riferimenti al testo. LESSICO 7. Trova, per ciascuno dei seguenti termini, almeno due sinonimi che riprendano il significato con cui essi sono utilizzati nella novella: pregio – contezza – fanticella – ventura – apparecchiato – riprendere – chiassetto – noia.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 8. Abbiamo dato alla novella il sottotitolo “La formazione di un mercante”. Individua le tappe salienti del percorso di formazione di Andreuccio e analizza azioni e comportamenti attraverso cui esso si svolge. 9. Molto spesso le novelle di Boccaccio celebrano, come in questo caso, l’iniziativa umana. Gli esempi, come quello di Andreuccio, possono stimolarci a credere nelle nostre forze e ad affrontare periodi di crisi. Ti è mai capitato, come Andreuccio, di trovarti di fronte ad avversità e ostacoli? Come hai reagito? Ti sei abbattuto o hai cercato di risolverli con intelligenza ed energia? COMPETENZA DIGITALE 10. La novella di Andreuccio è considerata uno dei migliori esempi del realismo boccacciano, data la ricchezza di dettagli e la ricostruzione storico-ambientale particolarmente accurata. Attraverso ricerche in Internet e alcune fonti e documenti ricostruisci e dimostra come Boccaccio abbia fatto rivivere nelle sue pagine quello che veramente doveva essere il quartiere napoletano del Malpertugio agli inizi del XIV secolo.
Miniatore fiorentino, Andreuccio da Perugia esce dal pozzo, miniatura dall’apparato decorativo del Decameron nel manoscritto Italien 63, f. 46v (XV secolo, Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
Il Decameron 2 731
Collabora all’analisi
T9c
Giovanni Boccaccio
Come il nobile Federigo degli Alberighi divenne miglior massaio Decameron V, 9
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
ANALISI INTERATTIVA
Come la celebre novella di Nastagio degli Onesti (➜ T6c ) che immediatamente la precede (V, 8), la novella di Federigo degli Alberighi appartiene alla quinta giornata, dedicata agli amori felici, ossia con lieto fine. Federigo degli Alberighi, un giovane nobiluomo fiorentino, rappresenta quell’ideale di cortesia nobile e disinteressata che nel mondo di Boccaccio ancora convive con la nuova, pragmatica etica borghese. Innamorato di una «delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero», Federigo spende per lei tutti i suoi averi, riducendosi quasi alla povertà. Attraverso la sua storia Boccaccio rappresenta la crisi della nobiltà feudale, i cui ideali devono cedere il passo ai nuovi valori della borghesia.
FEDERIGO DEGLI ALBERIGHI1 AMA E NON È AMATO, E IN CORTESIA SPENDENDO SI CONSUMA E RIMANGLI UN SOL FALCONE, IL QUALE, NON AVENDO ALTRO, DÀ A MANGIARE ALLA SUA DONNA VENUTAGLI A CASA; LA QUAL, CIÒ SAPPIENDO, MUTATA D’ANIMO, IL PRENDE PER MARITO E FALLO RICCO. Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi2, il quale fu nella nostra città, e forse ancora è3, uomo di grande e di reverenda auttorità ne’ dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo4 e degno d’eterna fama, essendo già d’anni pieno5, spesse volte delle cose passate co’ suoi 5 vicini e con altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior memoria e ornato parlare6 che altro uom seppe fare. Era usato di dire, tra l’altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d’arme7 e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel8 di Toscana. Il quale, sì come il più de’ gentili uomini avviene9, d’una gentil 10 donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, ne’ suoi tempi tenuta10 delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava11, faceva feste e donava12, e il suo13 senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva.
1 Alberighi: la nobile famiglia fiorentina degli Alberighi è ricordata anche da Dante nel Paradiso; Cacciaguida parla della sua decadenza mentre il Villani nella sua cronaca la dà per estinta. 2 Coppo di Borghese Domenichi: è un personaggio realmente esistito, protagonista di una novella del Sacchetti. Ricoprì importanti cariche nel comune fiorentino e morì intorno al 1353.
3 e forse ancora è: è un velato riferimento al dramma della peste, sempre presente sullo sfondo, che forse ha ucciso tra gli altri anche Coppo di Borghese Domenichi. 4 chiarissimo: illustrissimo. 5 d’anni pieno: di età avanzata. 6 con più ordine... parlare: vengono sintetizzate le qualità proprie di chi sa ben parlare. 7 in opera d’arme: negli esercizi cavallereschi.
732 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
8 donzel: giovane nobile (dal provenzale donsel). 9 sì come… avviene: così come accade di solito (il più) fra gentiluomini. 10 tenuta: considerata. 11 giostrava, armeggiava: partecipava a tornei e maneggiava le armi. 12 donava: nell’etica feudale la liberalità, la generosità nel donare era considerata una delle qualità del cavaliere. 13 il suo: i suoi averi.
Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando14, sì come di leggiere adiviene15, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente16 vivea, e oltre a questo un suo falcone17 de’ miglior del mondo. Per che, amando più che mai né parendogli più potere essere cittadino come disi20 derava18, a Campi19, là dove il suo poderetto era, se n’andò a stare. Quivi, quando poteva uccellando20 e senza alcuna persona richiedere21, pazientemente la sua povertà comportava22. Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo23, che24 il marito di monna Giovanna infermò25, e veggendosi alla morte venire fece testamento; e 25 essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo26, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì27, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l’anno di state28 con questo suo figliuolo se n’andava in contado29 a una sua posses30 sione assai vicina a quella di Federigo. Per che30 avvenne che questo garzoncello31 s’incominciò a dimesticare32 con Federigo e a dilettarsi d’uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente33 piacendogli, forte34 disiderava d’averlo ma pure non s’attentava35 di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro. E così stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò; di che la 35 madre dolorosa36 molto, come colei che più no’ n’avea37 e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava38 di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, ché per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l’avesse39. Il giovanetto, udite molte volte queste proferte40, disse: «Madre mia, se voi fate che 40 io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente41 guerire». La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette42 e cominciò a pensar quello che far dovesse. Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei una sola guatatura43 aveva avuta, per che ella diceva: «Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone, che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse 45 e oltre a ciò il mantien nel mondo44? E come sarò io sì sconoscente45, che a un 15
14 e niente acquistando: senza ricavarne alcun vantaggio (poiché la donna continuava a ignorarlo). Ma la frase può acquistare anche un senso più letterale e pragmatico: spendendo più di quanto non guadagnasse. 15 di leggiere adiviene: facilmente avviene. 16 strettissimamente: molto poveramente. 17 falcone: uccello predatore che, ammaestrato, era usato per la caccia. È qui quasi il simbolo della condizione nobiliare di Federigo. 18 né parendogli... come disiderava: e non sembrandogli più possibile vivere in città in modo conforme ai suoi desideri, cioè con decoro e signorilità. 19 Campi: Campi Bisenzio è un paese tra Prato e Peretola, non lontano da Firenze. 20 uccellando: cacciando con il falcone. 21 senza... richiedere: senza chiedere aiuto o prestiti a nessuno.
22 comportava: sopportava. 23 divenuto allo stremo: ridotto in povertà estrema.
24 che: ripetizione del che dichiarativo dopo un’incidentale, procedimento sintattico tipico della prosa boccacciana. 25 infermò: si ammalò. 26 appresso questo: dopo di lui. 27 lei... substituì: stabilì monna Giovanna come sua erede nel caso che il figlio morisse senza legittimi eredi. Boccaccio utilizza qui i termini tecnici del linguaggio legale. 28 l’anno di state: ogni anno in estate. 29 in contado: in campagna. 30 Per che: per cui. 31 garzoncello: ragazzino. 32 dimesticare: frequentare, stabilire un rapporto di amicizia. 33 stranamente: straordinariamente.
34 forte: moltissimo. 35 non s’attentava: non osava. 36 dolorosa: addolorata. 37 come colei... n’avea: poiché non aveva altri figli. 38 non restava: non smetteva mai. 39 procaccerebbe come l’avesse: avrebbe trovato il modo di procurargliela. 40 proferte: richieste. 41 prestamente: velocemente. 42 sopra sé stette: rimase soprappensiero. 43 guatatura: sguardo. 44 il mantien nel mondo: lo mantiene in vita, ossia è la sua unica ragione di vita, e anche un importante mezzo di sostentamento, essendo impiegato da Federigo per la caccia. 45 sconoscente: insensibile, priva di convenienza e discrezione.
Il Decameron 2 733
gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre46?» E in così fatto pensiero impacciata, come che47 ella fosse certissima d’averlo se ’l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava48. Ultimamente49 tanto la vinse l’amor del figliuolo, che ella seco dispose, per conten50 tarlo, che che esser ne dovesse50, di non mandare ma d’andare ella medesima per esso e di recargliele51, e risposegli: «Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza52, ché io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò». Di che il fanciullo lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento. La donna la mattina seguente, presa un’altra donna in compagnia, per modo di di55 porto53 se n’andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare54. Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d’uccellare, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare55; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse. La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza56 levataglisi incontro, 60 avendola già Federigo reverentemente salutata, disse: «Bene stea Federigo!» e seguitò: «Io son venuta a ristorarti57 de’ danni li quali tu hai già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale, che io intendo con questa mia compagna insieme desinar teco dimesticamente58 stamane». Alla qual Federigo umilmente rispose: «Madonna, niun danno mi ricorda mai avere 65 ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l’amore che portato v’ho adivenne59. E per certo questa vostra liberale venuta60 m’è troppo più cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste61 siate venuta»; e così detto, vergognosamente62 dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino la 70 condusse, e quivi non avendo a cui farle tener compagnia a altrui63, disse: «Madonna, poi che altri non c’è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far metter la tavola». Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue richezze64; ma 75 questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere65. E oltre modo angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna66, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or là trascorrendo67, né denari né pegno68 trovandosi, essendo l’ora tarda e il disidero grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna e non volendo, non che 80 altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere69, gli corse agli occhi il suo buon falco46 torre: togliere. 47 come che: sebbene. 48 si stava: rimaneva nell’indecisione. 49 Ultimamente: alla fine. 50 che... dovesse: qualunque cosa ne dovesse derivare.
51 di non mandare...recargliele: di non mandare un servitore, ma di andare lei stessa a chiedere il falcone e di portarglielo. 52 di forza: con tutte le tue forze. 53 per modo di diporto: come per una passeggiata di piacere. 54 fecelo adimandare: mandò a chiedere di lui. 55 faceva... acconciare: faceva eseguire certi suoi lavoretti.
56 con una donnesca piacevolezza: con grazia femminile. 57 ristorarti: risarcirti. 58 dimesticamente: con familiarità, alla buona. 59 niun danno... adivenne: non ricordo di aver mai ricevuto alcun danno da voi ma, se io ho mai avuto dei meriti, è stato (adivenne) per le vostre qualità e l’amore che vi ho portato. La risposta di Federigo è strutturata secondo il modello cortese, per cui l’amore esalta e nobilita chi ama. 60 liberale venuta: generosa visita. 61 oste: ospite. 62 vergognosamente: timidamente.
734 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
63 non avendo... altrui: non avendo altri a cui affidarla per tenerle compagnia. 64 non s’era... le sue ricchezze: non si era ancora reso bene conto di quanti problemi gli creava l’aver speso sconsideratamente tutti i propri averi. 65 il fé ravedere: lo rese consapevole. 66 fortuna: sorte. 67 trascorrendo: vagando qua e là in preda all’agitazione. 68 pegno: oggetto da impegnare. 69 non volendo... richiedere: non volendo chiedere aiuto a nessuno e tanto meno al suo lavoratore.
ne, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga; per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella70 il fé prestamente, pelato e acconcio71, mettere in uno schedone72 e arrostir diligentemente; e messa 85 la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea73, disse essere apparecchiato. Laonde la donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede74 le serviva, mangiarono il buon falcone. 90 E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate75, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare: «Federigo, ricordandoti tu della tua preterita76 vita e della mia onestà, la quale per avventura77 tu hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione78 sentendo quello per 95 che principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m’avresti per iscusata79. Ma come che tu no’ n’abbia80, io che n’ho uno, non posso però le leggi comuni dell’altre madri fuggire; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre81 al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e 100 dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t’è caro: e è ragione82, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto83, niuna consolazione lasciata t’ha la tua strema fortuna84; e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliele porto, io temo che egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda. E per ciò ti 105 priego, non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente se’ tenuto85, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d’avere ritenuto86 in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato87». Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo che servir non ne la 110 potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse. Il qual pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé dipartire il buon falcon divenisse88 più che da altro, e quasi fu per dire che nol volesse89; ma pur sostenutasi90, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così disse: «Madonna, poscia che a Dio piacque che 115 io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m’ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto91; ma tutte sono state leggieri a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui
70 fanticella: servetta. 71 pelato e acconcio: spennato e oppor-
79 m’avresti per iscusata: mi avresti scusata. 80 come che tu no’ n’abbia: dato che non
tunamente preparato con spezie e aromi.
ne hai.
72 schedone: spiedo. 73 che... potea: che lui si poteva permet-
81 oltre: contro. 82 ragione: giusto. 83 diporto: svago. 84 la tua strema fortuna: la tua fortuna
tere.
74 fede: riverenza, devozione. 75 dimorate: dopo aver trascorso. 76 preterita: passata. 77 per avventura: forse. 78 presunzione: audacia.
ridotta allo stremo.
85 al quale... tenuto: rispetto al quale non hai alcun dovere. 86 ritenuto: trattenuto.
87 e per quello... obligato: e perché (mio figlio) grazie a esso ti sia sempre riconoscente. 88 divenisse: provenisse. 89 che nol volesse: che non lo voleva più. Secondo Contini l’uso del congiuntivo vuole esprimere un’azione solo immaginata. Corrisponde al congiuntivo dell’eventualità latino. 90 pur sostenutasi: tuttavia trattenutasi. 91 sonmi di lei doluto: mi sono lamentato di essa (la fortuna).
Il Decameron 2 735
alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e 120 perché questo esser non possa vi dirò brievemente. Come io udi’ che voi, la vostra mercé92, meco desinar volavate93, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara94 vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l’altre persone s’usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontà, 125 degno cibo da voi il reputai, e questa mattina arrostito l’avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea95; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m’è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare». E questo detto, le penne e’ piedi e ’l becco le fé in testimonianza di ciò gittare 130 avanti. La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d’aver per dar mangiare a una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell’animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare96, molto seco medesima commendò97. Poi, rimasa fuori della speranza d’avere il falcone e per quello della salute del figliuolo entrata in forse98, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al figliuolo. Il 135 quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la ’nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto99, non trapassar molti giorni che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò100. La quale, poi che piena di lagrime e d’amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima e ancora giovane, più volte fu da’ fratelli costretta101 a rimaritarsi. La 140 quale, come che voluto non avesse102, pur veggendosi infestare103, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenzia104 ultima, cioè d’avere ucciso un così fatto falcone per onorarla, disse a’ fratelli: «Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei105; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi». 145 Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero: «Sciocca, che è ciò che tu di’? come vuoi tu lui che non ha cosa del mondo?» A’ quali ella rispose: «Fratelli miei, io so bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti106 uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo». 150 Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto107, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così fatta donna e cui108 egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio109 fatto, terminò gli anni suoi. –
92 la vostra mercé: per vostra bontà. 93 volavate: volevate. Forma allora corrente per analogia con i verbi della prima coniugazione. 94 cara: preziosa. 95 il quale... avea: il quale io ritenevo di avere utilizzato nel modo migliore, servendovelo imbandito. 96 rintuzzare: diminuire.
97 commendò: lodò. 98 della salute... in forse: divenuta incerta riguardo alla salute del figlio.
99 che pure... condotto: che l’avrebbe in ogni modo condotto a questo punto. 100 di questa vita passò: morì. 101 costretta: sollecitata, spinta. 102 come che... non avesse: sebbene non avesse voluto (risposarsi).
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103 infestare: tormentare. 104 magnificenzia: generosità. 105 mi starei: me ne asterrei. 106 avanti: piuttosto. 107 da molto: come uomo di grande valore, anche se povero. 108 cui: che. 109 massaio: amministratore.
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
Attraverso le notazioni presenti innanzitutto nella prima parte della novella e poi nel corso della vicenda narrata, come è solito fare, Boccaccio inquadra la storia di Federigo degli Alberighi in un contesto spaziale e temporale. 1. Dove si svolge la vicenda? L’andamento narrativo della novella non è particolarmente complesso: la vicenda si sviluppa attraverso passaggi ben scanditi che consentono agevolmente di individuare le sezioni costitutive del testo, che qui di seguito indichiamo. Esse hanno diversa ampiezza e svolgono funzioni diverse nell’economia complessiva della novella: I sezione: da in Firenze fu fino a comportava. (rr. 7-22) II sezione: da Ora avvenne un dì a alcun miglioramento. (rr. 23-53) III sezione: da La donna la mattina a di questa vita passò. (rr. 54-137) IV sezione: da La quale a terminò gli anni suoi. (rr. 138-153) 2. Dai a ogni sezione un titolo e per ognuna individua e trascrivi sinteticamente le informazioni fondamentali per la comprensione della vicenda narrata. I personaggi della novella non sono molti. I tratti socio-psicologici che li connotano, così come le relazioni che li legano tra di loro, appaiono delineati dall’autore con chiarezza. È interessante notare che al centro della vicenda sta il nobile falcone di Federigo: esso non solo svolge un ruolo chiave nella dinamica narrativa, ma, come meglio si vedrà in seguito, è assai importante anche per la ricostruzione del significato complessivo della vicenda. 3. Indica le principali caratteristiche dei protagonisti, i legami che intrattengono con gli altri personaggi, il ruolo che hanno nella vicenda: Federigo monna Giovanna il figlio di monna Giovanna il falcone i fratelli di monna Giovanna La vicenda di Federigo, disperatamente innamorato ma non corrisposto da monna Giovanna, ha un lieto fine: in modo per lui del tutto inaspettato, proprio quando non può non aver perso ogni speranza, riesce addirittura a sposare la donna amata. 4. Per quale motivo monna Giovanna decide di sposare Federigo? ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� ���������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������� Un personaggio simbolo della civiltà cortese Non è casuale che questa novella giunga all’allegra brigata per bocca di Fiammetta, che l’ha sentita raccontare da Coppo di Borghese Domenichi, personaggio illustre del comune di Firenze. Un certo tono di autorevolezza si addice infatti a una narrazione incentrata su un personaggio emblema dei valori e delle raffinate consuetudini di vita della antica nobiltà. Con Federigo, «in opera d’arme e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana», Boccaccio ci dà il ritratto paradigmatico di quella gioventù cavalleresca e cortese che al suo tempo era ormai tramontata, rimpiazzata dalla borghesia intraprendente e produttiva rappresentata dai fratelli di monna Giovanna. Il contrasto tra questi due mondi è ben reso dal brutale pragmatismo con cui i due ricchi giovani si riferiscono a Federigo («non ha cosa del mondo») quando Giovanna dichiara di volerlo per sposo.
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Secondo l’ideale di “gentilezza” e nobiltà codificato dalla letteratura cortese-stilnovista, in un uomo delle qualità di Federigo non può mancare un amore sublime: «come il più de’ gentili uomini avviene», egli si innamora infatti di una bellissima donna e per conquistarne l’amore dilapida i suoi beni, già modesti. Federigo è una figura in sé positiva, a cui l’autore guarda con simpatia: non esprime alcun giudizio esplicito sulla sua eccessiva prodigalità, ma si limita a enunciarne le conseguenze: la povertà estrema, a cui rimane soltanto, e non solo per eletto divertimento, ma per sostentamento, la caccia col falcone, simbolo ultimo della condizione nobiliare. 5. Quali aspetti del modello cortese di comportamento ritrovi nella descrizione di Federigo e del suo innamoramento per monna Giovanna? 6. Trascrivi i termini che si iscrivono nel codice cortese cavalleresco. Anche il linguaggio di questa novella si adegua alla rappresentazione di un mondo regolato dai codici della cavalleria, dell’onore e dell’amor cortese. In particolare il dialogo con monna Giovanna, momento cruciale della novella, è intriso di formule e locuzioni che appartengono alla trattatistica amorosa medievale, incentrata sul “servizio d’amore”. 7. Dopo averne fatto la parafrasi, analizza le due risposte di Federigo a Giovanna: osserva la costruzione del periodo e l’uso del lessico cortese (da «Madonna, niun danno» a «siate venuta»; da «Madonna, poscia che» a «ne credo dare»). La sconfitta dell’ideale feudale Boccaccio non rifiuta certo l’eredità morale e culturale della civiltà cortese, ma intende dimostrare come il mondo che in essa si rispecchia, quello feudale, sia ormai giunto al tramonto e che i princìpi di vita di quell’universo ormai non siano più compatibili con la realtà moderna, ben più pragmatica e legata a valori concreti e pratici, come l’ingegno, l’“industria”, la capacità di ben amministrare un patrimonio. La rovina si verifica molto facilmente (di leggiere) quando uno spende «oltre a ogni suo potere [...] niente acquistando»; quest’ultima è una formula tipica del linguaggio stilnovista, che si incontra anche in Guinizzelli. Di per sé si riferisce all’amore non corrisposto che il cavaliere prova per la dama; ma in questo caso, nella situazione di Federigo, che sta sconsideratamente dilapidando tutti i suoi averi, la frase acquista un altro senso, strettamente legato alla materiale realtà economica: non si può spendere più di quanto non si acquisti o, in altre parole, le uscite non devono mai superare le entrate. Senza pronunciare un’aperta condanna del mondo cortese, Boccaccio utilizza il suo stesso linguaggio, caricandolo di un significato nuovo, per decretarne l’inesorabile sconfitta. In questo senso anche il sacrificio del falcone assume un valore simbolico: da fiero emblema della nobiltà feudale l’animale si vede improvvisamente trasformato in pietanza succulenta, e le scelte lessicali del narratore sottolineano opportunamente (e anche, si potrebbe dire, con una certa spietata ironia...) questa metamorfosi radicale. 8. Evidenzia la trasformazione rapida che avviene, nello sguardo stesso di Federigo rivolto al falcone, uccello «de’ miglior del mondo», nobile e fidato compagno, quando questi si trova nella necessità di imbandire un pranzo adeguato a monna Giovanna; e il modo in cui l’autore, attraverso le scelte espressive esprime la “degradazione” dell’animale a cibo. Una doppia “morale della storia” D’altra parte la capacità di amare in modo disinteressato e la generosità d’animo dimostrata da Federigo sono per Boccaccio valori che possono e devono sopravvivere al declino del mondo feudale e nella novella vengono alla fine premiati, a patto però che l’uomo capisca i propri errori e si dimostri in grado di adattarsi alle mutate condizioni storiche e sociali. Una volta ottenuto, se non l’amore, almeno il matrimonio con la dama desiderata, Federigo dovrà imparare a gestire meglio la riconquistata ricchezza, e da donzel che era, si trasformerà in miglior massaio. Al tempo stesso la ricca monna Giovanna sceglie il nobile d’animo ma povero Federigo e controbatte alla critica dei fratelli con la frase: «Io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo».
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9. Come puoi notare anche dal passo critico proposto, Boccaccio sembra auspicare un felice compromesso tra i valori della nobiltà feudale e la moderna etica borghese: quale ti sembra il suo atteggiamento rispetto a queste diverse visioni del mondo? Che cosa giudica positivo del viver cortese, e che cosa invece andrebbe scartato, o per lo meno cambiato? E nella realtà borghese? 10. Per quali ragioni Federigo si può considerare un personaggio “dinamico”? A chiusa della novella si trova un termine chiave che si riverbera sull’intera novella, in un certo senso sintetizzando il significato di parabola della vicenda di Federigo: massaio, termine che certamente si contrappone al lessico cortese (donzel ecc.) che lo connota all’inizio. 11. Rifletti, utilizzando il dizionario, sui termini masserizia, massaia, massaio.
Interpretare
Nastagio degli Onesti (➜ T6c ) e Federigo degli Alberighi: entrambi i giovani sono di nobile condizione, entrambi sono segnati da un amore non corrisposto, entrambi mettono a repentaglio il proprio patrimonio per tentare di conquistare la dama desiderata. 12. Quali sono le analogie e quali le differenze tra questi due personaggi? E in che cosa differiscono le due donne oggetto del loro amore?
online
Interpretazioni critiche Luigi Surdich La novella di Federigo come documento sociologico
La novella di Federigo degli Alberighi in una miniatura tratta dal Decameron (codice del XV secolo, Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi).
Federigo degli Alberighi con il suo falcone e nell’atto di ucciderlo per monna Giovanna, miniatura francese dal manoscritto 12421, f. 245v (XV secolo, Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
Il Decameron 2 739
T10
La beffa e la dimensione comica Nel Decameron la beffa e la dimensione comica sono incarnate da Calandrino, personaggio realmente esistito, protagonista di un “ciclo narrativo” (VIII, 3-6; IX, 3 e 5) e famoso per l’ingenuità e la presunzione, caratteristiche con le quali lo descrivono anche Sacchetti e Giorgio Vasari.
Giovanni Boccaccio
T10a
Calandrino e l’elitropia Decameron VIII, 3
G. Boccaccio, Decameron, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
Protagonista di questa novella è Calandrino, soprannome del pittore Giannozzo di Perino. Boccaccio rese celebre Calandrino facendolo comparire in varie novelle del Decameron sempre nelle vesti di vittima dei suoi presunti amici, Bruno e Buffalmacco, che si divertono alle sue spalle. Qui essi, con la complicità di Maso del Saggio, lo convincono dell’esistenza di una pietra magica, l’elitropia, in grado di donare l’invisibilità a chi ne entri in possesso.
AUDIOLETTURA
CALANDRINO, BRUNO E BUFFALMACCO GIÙ PER LO MUGNONE1 VANNO CERCANDO DI TROVAR L’ELITROPIA2, E CALANDRINO SE LA CREDE AVER TROVATA; TORNASI A CASA CARICO DI PIETRE; LA MOGLIE IL PROVERBIA3, E EGLI TURBATO4 LA BATTE, E A’ SUOI COMPAGNI RACCONTA CIÒ CHE ESSI SANNO MEGLIO DI LUI. [...] Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole5, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi6. Il quale il più del tempo con due altri dipintori usava7, chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco8, uomini sollazzevoli molto ma per altro 5 avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano9. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza in ciascuna cosa che far voleva, astuto e avvenevole10, chiamato Maso del Saggio11; il quale, udendo alcune cose della semplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi12 col fargli alcuna beffa 10 o fargli credere alcuna nuova cosa13. E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni14 e vedendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl’intagli15 del tabernaculo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e
1 Mugnone: torrentello che si butta nell’Arno, a valle di Firenze. 2 elitropia: minerale cui nel Medioevo si attribuivano virtù magiche. 3 il proverbia: lo rimprovera. 4 turbato: alterato. 5 la qual... abondevole: che è sempre stata ricca di usanze diverse e gente strana. 6 nuovi costumi: comportamenti strani. 7 usava: trascorreva. 8 l’un Bruno e l’altro Buffalmacco: come Calandrino, sono entrambi pittori
realmente esistiti. Il primo è Bruno di Giovanni; il vero nome del secondo è Buonamico e gli si attribuiscono gli affreschi del Duomo di Arezzo e il Trionfo della morte nel camposanto di Pisa. 9 li quali... prendevano: i quali frequentavano Calandrino perché spesso traevano gran motivo di divertimento dai suoi modi e dalla sua ingenuità. 10 avvenevole: abile, a cui tutto riusciva bene.
740 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
11 Maso del Saggio: anch’egli è personaggio reale. Noto per la sua abilità nelle burle (compare anche nelle novelle del Sacchetti), svolgeva l’attività di sensale. 12 prender... suoi: divertirsi alle sue spalle. 13 nuova cosa: cosa strana, sciocchezza. 14 San Giovanni: il Battistero di Firenze. 15 gl’intagli: i bassorilievi. Poiché risulta dalle cronache cittadine che l’opera era stata commissionata nel 1313 a Lippo di Benivieni, è possibile datare la novella con relativa precisione.
tempo alla sua intenzione. E informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo insieme incominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario16. A’ quali ragionamenti Calandrino posta orecchie17, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro, il che forte piacque a Maso18; 20 il quale, seguendo le sue parole19, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose20 si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone21, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi22, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta23; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti 25 che niuna altra cosa facevano che far maccheroni24 e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi25 giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia26, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. «Oh» disse Calandrino «cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che 30 cuocon coloro27?» Rispose Maso: «Mangiansegli i baschi tutti». Disse allora Calandrino: «Fostivi tu mai?». A cui Maso rispose: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi sono stato così una volta come mille28». 35 Disse allora Calandrino: «E quante miglia ci ha?». Maso rispose: «Haccene più di millanta, che tutta notte canta29». Disse Calandrino: «Dunque dee egli essere più là che Abruzzi30». «Sì bene,» rispose Maso «sì è cavelle31». Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo32 e senza 40 ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità è più manifesta, e così l’aveva per vere; e disse: «Troppo ci è di lungi a’ fatti miei33: ma se più presso ci fosse34, ben ti dico che io vi verrei una volta con esso teco pur per veder fare il tomo35 a quei maccheroni e tormene una satolla36. Ma dimmi, che lieto sie tu37, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre così virtuose?». 45 A cui Maso rispose: «Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù. 15
16 un solenne... lapidario: un grande esperto di pietre preziose. 17 A’ quali… orecchie: ai quali ragionamenti prestando Calandrino. posta: uso del participio in forma invariata, non concordato con il sostantivo femminile plurale che segue. 18 sentendo… Maso: sentendo che non era una conversazione segreta, si unì a loro, cosa che piacque molto (forte) a Maso. 19 seguendo le sue parole: proseguendo con il suo discorso. 20 virtuose: piene di straordinarie virtù. 21 Berlinzone: comincia la geografia burlesca di Maso, che utilizza nomi favolosi e assurdi simili a quelli della predica di frate Cipolla. 22 Bengodi: toponimo inventato, dal significato trasparente, indica un paese favoloso dove si mangia e si beve a piacimento.
23 avevavisi... giunta: per un solo denaro vi si poteva acquistare un’oca e un papero, per giunta. 24 maccheroni: gnocchi. 25 quindi: di qui. 26 vernaccia: vino bianco secco. 27 capponi che cuocon coloro: si noti l’effetto di consonanza e allitterazione prodotto dall’accostamento di questi tre termini, che enfatizza burlescamente l’ingordigia insita nella domanda di Calandrino. 28 così una volta come mille: frase ambigua, tipica del linguaggio burlesco, in cui si nega fingendo di affermare. 29 Haccene... canta: frase senza senso reale, così come il numerale millanta, che serve semplicemente a colpire l’immaginazione dell’ingenuo Calandrino, utilizzando anche l’effetto della rima contenuto nella filastrocca.
30 più là che Abruzzi: gli Abruzzi erano spesso citati come proverbiale terra remota; compaiono anche nella predica di frate Cipolla, a cui può essere avvicinato il fantasioso discorso di Maso. 31 cavelle: un nonnulla. Si tratta di un’altra contraddizione burlesca. 32 fermo: impassibile. 33 Troppo... miei: è troppo lontano per le mie possibilità. 34 ma se... fosse: ma se fosse più vicino. 35 tomo: ruzzolone, capitombolo. 36 tormene una satolla: farmene una scorpacciata. 37 che lieto sie tu: che tu possa essere felice, per le informazioni che mi dai.
Il Decameron 2 741
L’una sono i macigni da Settignano e da Montisci38, per vertù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina39, e per ciò si dice egli in que’ paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da Montisci le macine; ma ècci40 di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata41, come appo loro gli smeraldi, de’ quali 50 v’ha maggior montagne che Monte Morello42, che rilucon di mezzanotte vatti con Dio43; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero44 e portassele al soldano45, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidarii appelliamo46 elitropia, pietra di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna 55 altra persona veduto dove non è47». Allora Calandrin disse: «Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?» A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan trovare. Disse Calandrino: «Di che grossezza è questa pietra? o che colore è il suo?» Rispose Maso: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è più e alcuna meno, ma 60 tutte son di colore quasi come nero». Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa48 di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente49 amava. Diessi50 adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che 65 alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli. Ultimamente51, essendo già l’ora della nona passata52, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza53, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro e chiamatigli così disse loro: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo 70 divenire i più ricchi uomini di Firenze: per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra54 non è veduto da niuna altra persona; per che a me parrebbe55 che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercar. Noi la troverem per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se 75 non mettercela nella scarsella56 e andare alle tavole de’ cambiatori57, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi58 e di fiorini, e torcene59 quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare60 le mura a modo che fa la lumaca». 38 Settignano... Montisci: località presso Firenze, con importanti cave di pietra. 39 per vertù... farina: le macine sono grosse mole di pietra che, sovrapposte, sono utilizzate per polverizzare i cereali. In realtà non c’è nulla di miracoloso in quanto sta dicendo Maso, ma le frasi equivoche vogliono proprio indurre quest’impressione nell’animo di Calandrino. 40 ècci: c’è. 41 appo… prezzata: presso di noi è poco apprezzata. 42 Monte Morello: anche questa è una località nei paraggi di Firenze. 43 vatti con Dio: «non mi far dire altro» (Branca). Proverbiale forma di commiato.
44 chi facesse... forassero: chi volesse inanellare le macine infilandole senza prima scavarci il foro al centro. È un’assurdità. 45 soldano: sultano d’Egitto. Ai riferimenti municipali si alternano località esotiche, con l’intento di frastornare il povero Calandrino. 46 appelliamo: chiamiamo. 47 non è... dove non è: non viene visto da nessuno dove non è. Calandrino interpreta la frase, in sé del tutto ovvia, attribuendo alla pietra il potere di rendere invisibili. 48 senza saputa: senza aver avvertito. 49 spezialissimamente: in maniera molto speciale, moltissimo. 50 Diessi: iniziò, si diede. 51 Ultimamente: alla fine.
742 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
52 essendo... passata: erano dunque da poco passate le tre pomeridiane. 53 monistero delle donne di Faenza: convento femminile posto fuori porta Faenza, all’incirca dove poi sorse la Fortezza da Basso. Il pittore Buffalmacco, secondo il Vasari, vi lavorò veramente. 54 sopra: addosso. 55 a me parrebbe: mi sembrerebbe bene, conveniente. 56 scarsella: borsetta di cuoio che si portava appesa alla cintura. 57 cambiatori: cambiavalute. 58 grossi: monete d’argento. 59 torcene: prendercene. 60 schiccherare: imbrattare. Calandrino allude in modo svalutativo al loro lavoro di pittori.
Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra se medesimi cominciarono a ridere, e guatando l’un verso l’altro fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio61 di Calandrino; ma domandò Buffalmacco come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta62, era già il nome uscito di mente; per che egli rispose: «Che abbiam noi a far del nome poi che noi sappiamo la vertù63? A me parrebbe che noi andassomo64 a cercare senza star più». 85 «Or ben» disse Bruno «come è ella fatta?» Calandrin disse: «Egli ne son d’ogni fatta65 ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo a essa66; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo». 80
[Bruno suggerisce di recarsi al Mugnone domenica mattina per andare alla ricerca della pietra magica. Di buon mattino i tre amici giungono nella zona designata. Calandrino, pieno di zelo, raccoglie ogni pietra nera che trova, finché si ritrova ogni punto delle vesti che sia possibile caricare pieno di pietre. È il momento atteso dai due per inscenare la beffa ai suoi danni.] [...] veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avicinava, secondo l’ordine da sé posto67 disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?» Buffalmacco, che ivi presso sel vedea, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose: «Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi». Disse Bruno: «Ben che fa poco!68 a me par egli esser certo che egli è ora a casa a 95 desinare e noi ha lasciati nel farnetico69 d’andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone». «Deh come egli ha ben fatto» disse allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che70 noi fummo sì sciocchi, che noi gli credemmo. Sappi!71 chi sarebbe stato sì stolto, che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa 100 pietra, altri che noi?». Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d’essa coloro, ancor che loro fosse presente72, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura73, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro se ne cominciò a venire. 105 Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: «Noi che faremo? ché non ce ne andiam noi?» A cui Bruno rispose: «Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto74 nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa»; e il dir le parole e l’aprirsi75 e ’l dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu 110 tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare ma pur si tacque e andò oltre. 90
61 consiglio: progetto. 62 di grossa pasta: sempliciotto. 63 la vertù: la proprietà. 64 andassomo: andassimo. Si tratta di una forma dialettale.
65 d’ogni fatta: di ogni forma. 66 tanto che... a essa: fino a che non ci imbattiamo in essa.
67 secondo... posto: secondo il piano architettato in precedenza tra loro. 68 Ben che fa poco!: altro che poco! 69 nel farnetico: nella follia. 70 poscia che: dal momento che. 71 Sappi!: guarda, vedi un po’! 72 ancor che loro fosse presente: sebbene fosse davanti a loro.
73 ventura: fortuna. 74 gli darei... ciotto: lo colpirei con questo ciottolo con tale violenza.
75 l’aprirsi: l’aprire le braccia per scagliare il ciottolo.
Il Decameron 2 743
Buffalmacco, recatosi in mano uno de’ codoli76 che raccolti avea, disse a Bruno: «Deh vedi bel codolo: così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino!» e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa; e in brieve in cotal guisa, or 115 con una parola e or con una altra, su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri77 si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla 120 Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole78 alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse79 per ciò che quasi80 a desinare era ciascuno. Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua. Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente81 donna, in capo della scala: 125 e alquanto turbata della sua lunga dimora82, veggendol venire cominciò proverbiando83 a dire: «Mai, frate, il diavol ti ci reca84! Ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare». Il che udendo Calandrino e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: «Oimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m’hai diserto85, ma in 130 fé di Dio io te ne pagherò!» e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso86 corse verso la moglie e presala per le trecce la si gittò a’ piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e’ piedi, tanto le diè per tutta la persona: pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso adosso che macero87 non fosse le diede, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce88. 135 Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell’uscio89 di lui sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure90 allora il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso, e affannato si fece alla finestra e pregogli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi 140 alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre e nell’un de’ canti91 la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso, dolorosamente piagnere; e d’altra parte Calandrino, scinto e ansando a guisa d’uom lasso92, sedersi. Dove, come alquanto ebbero riguardato, dissero: «Che è questo, Calandrino? vuoi tu murare93, ché noi veggiamo qui tante pietre?» e oltre a questo sogiunsero: «E monna 145 Tessa che ha? E’ par che tu l’abbi battuta: che novelle94 son queste?» Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta e del dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccoglier lo spirito95a formare intera la parola alla risposta; per che soprastando96, Buffalmacco ricominciò:
76 codoli: ciottoli. 77 guardie de’ gabellieri: guardie che riscuotevano il dazio alle porte della città. 78 piacevole: propizia. 79 come che... ne scontrasse: avendone peraltro incontrati pochi. 80 quasi: è da riferire a ciascuno. 81 valente: saggia. 82 lunga dimora: assenza, ritardo. 83 proverbiando: rimproverandolo.
84 Mai... reca: finalmente, fratello, il dia-
89 a piè dell’uscio: sotto l’uscio. Quest’ul-
volo ti porta a casa. 85 diserto: rovinato. 86 niquitoso: furibondo. 87 macero: pesto. Ma in una novella successiva (IX, 5) i ruoli si invertiranno, e sarà monna Tessa a suonarle al marito. 88 niuna cosa... in croce: non servendole a nulla chiedere pietà con le mani in croce (in gesto di supplica).
timo era solitamente sollevato di qualche gradino rispetto alla strada. 90 pure: solamente. 91 canti: angoli. 92 lasso: distrutto. 93 murare: fabbricare un muro. 94 novelle: novità. 95 raccogliere lo spirito: tirare il fiato. 96 per che soprastando: poiché indugiava.
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«Calandrino, se tu aveva altra ira97, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; 150 ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo98, a guisa di due becconi99 nel Mugnon ci lasciasti e venistitene100, il che noi abbiamo forte per male101; ma per certo questa fia la sezzaia102 che tu ci farai mai». A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: «Compagni, non vi turbate, l’opera103 sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato!, aveva quella pietra trovata; 155 e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro104, io v’era presso a men di diece braccia105 e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v’entrai innanzi106, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto». E cominciandosi dall’un de’ capi infin la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’a160 vessero; e poi seguitò: «E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani107 a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto108 e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sì come quegli che 165 non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi e ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la vertù a ogni cosa109: di che io, che mi poteva dire il più avventurato110 uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto menar le mani e non so a quello che io mi tengo che io non le 170 sego le veni111, che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quando ella mai venne in questa casa!» E raccesosi nell’ira si voleva levare per tornare a batterla da capo. Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano112 quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere, che quasi scoppiavano; ma vedendolo furioso levare113 per battere un’altra volta la 175 moglie, levatiglisi alla ’ncontro il ritennero114, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna ma egli, che sapeva che le femine facevano perdere la vertù alle cose e non l’aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento115 Idio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua o perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avedeva 180 averla trovata, il dovea palesare116. E dopo molte parole, non senza gran fatica la dolente donna riconciliata con essolui e lasciandol malinconoso con la casa piena di pietre, si partirono.
97 altra ira: un altro motivo di rabbia. 98 poi... a diavolo: dopo che ci hai indotti con l’inganno (sodotti) a cercare con te la pietra preziosa, senza salutarci. 99 becconi: bestioni stupidi. 100 venistitene: te ne sei tornato a casa. 101 il che... per male: del che noi ci siamo molto risentiti. 102 sezzaia: ultima. 103 l’opera: la faccenda. 104 Quando voi... l’un l’altro: quando cominciaste a chiedervi l’un l’altro dove fossi.
105 diece braccia: cinque metri circa. Un braccio corrisponde a più di mezzo metro. 106 v’entrai innanzi: vi passai davanti. 107 que’ guardiani: le guardie del dazio nominate prima. 108 far motto: rivolgermi la parola. 109 le femine... a ogni cosa: antico pregiudizio popolare, secondo cui le donne hanno il nefasto potere di annullare le virtù magiche presenti in una certa sostanza, o in un oggetto.
110 avventurato: fortunato. 111 non so... le veni: non so che cosa mi trattenga dal tagliarle le vene.
112 affermavano: confermavano. 113 levare: alzarsi. 114 levatiglisi... il ritennero: mossi contro di lui, lo trattennero. 115 avvedimento: precauzione. 116 a’ quali... palesare: ai quali, come si fosse accorto di averla trovata (la pietra magica) doveva rivelarlo.
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Analisi del testo I luoghi La novella ha una struttura molto articolata, con vari cambi di scena e movimenti di personaggi. Dopo una breve parte introduttiva comincia l’azione, che si svolge in tre ambienti diversi: • la chiesa di San Giovanni, dove Maso del Saggio prepara il terreno per la beffa, raccontando a Calandrino del paese di Bengodi e della fantomatica elitropia che dona l’invisibilità; • il greto del Mugnone, dove Calandrino si reca insieme a Bruno e Buffalmacco alla ricerca della pietra magica e, credendo di averla trovata, subisce in silenzio le sassate e le percosse dei due burloni; • la casa di Calandrino, dove ovviamente la moglie lo vede, provocando la sua furibonda reazione.
Beffati e beffatori Calandrino rappresenta il tipo dell’ingenuo ottuso (uom semplice) e anche un po’ stravagante (di nuovi costumi), pronto a credere alle più assurde fandonie e incapace di comprendere la verità anche quando se la ritrova sotto gli occhi. Occorre sottolineare come la sua stoltezza sia una caratteristica del tutto personale, che non deriva dall’appartenenza a un particolare ambiente o ceto; così come, al contrario, il seme dell’ingegno, secondo la concezione di Boccaccio, può germogliare ovunque, indipendentemente dall’estrazione sociale: tant’è vero che, fin dalle prime battute, il personaggio di Calandrino è posto in netta contrapposizione con quelli di Bruno, Buffalmacco e Maso del Saggio, che come lui provengono dall’ambiente della piccola borghesia e svolgono addirittura lo stesso mestiere. Si definiscono quindi due livelli d’azione, quello dei “beffatori” e quello del beffato, che rimangono invariati nel corso della narrazione. Neppure alla fine quest’ultimo capisce di essere stato vittima di uno scherzo; anzi, Bruno e Buffalmacco possono persino argomentare che solo sua è la colpa di quanto è successo, dal momento che intendeva ingannare i suoi compari. La sciocchezza, colpa imperdonabile nell’etica borghese di Boccaccio, in Calandrino è aggravata dall’avidità, che lo spinge a fantasticare sui possibili usi disonesti dell’elitropia, e dalla tendenza alla millanteria che emerge più volte nei suoi discorsi. Il ristretto orizzonte mentale del personaggio si rivela già nella sua prima reazione ai racconti di Maso sul paese di Bengodi: «“Oh!” disse Calandrino “cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro?”»; lo stimolo principale dell’interesse di Calandrino per i favolosi luoghi di cui sente narrare non è la curiosità, che forse potrebbe in qualche modo riscattare il suo peccato di ingenuità, bensì l’ingordigia, caratteristica più bestiale che umana, che il virtuosismo linguistico di Boccaccio sottolinea attraverso l’allitterazione della consonante c: l’accavallarsi di suoni dà quasi il senso dell’acquolina in bocca con cui l’uomo doveva pensare a quei favolosi capponi.
Il gusto della beffa fine a sé stessa Per Bruno, Buffalmacco e Maso, che condividono lo stesso livello di conoscenza e di consapevolezza dell’autore e dei lettori, Calandrino è l’oggetto ideale per le loro beffe: beffe che, è importante notare, sono perpetrate non per ottenere qualcosa, bensì per puro divertimento, per il piacere di vedere la propria astuzia vincere sulla dabbenaggine altrui. Boccaccio non lascia alcun dubbio a questo proposito, quando espone le intenzioni di Maso del Saggio: «udendo alcune cose della semplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa». Infatti, nella concezione boccacciana l’ingegno è di per sé un valore, indipendentemente dalla finalità per la quale viene utilizzato, fosse anche la truffa o il furto. Tra la stupidità di Calandrino e il proposito di prendersi gioco di lui s’instaura un rapporto quasi causale: è destino degli ingenui di essere vittima degli astuti e diritto di questi ultimi avvalersi della propria superiorità intellettuale. Calandrino subirà entrambi i propositi burleschi di Maso (fare alcuna beffa e far credere alcuna nuova cosa): prima infatti gli verrà propinata da Maso la fola del paese di Bengodi, quindi Bruno e Buffalmacco gli tenderanno lo scherzo dell’elitropia.
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La tradizione burlesca medievale Nella novella troviamo molti elementi tipici della tradizione burlesca medievale, qui rivisitati e utilizzati con una consapevolezza del tutto nuova, nonché spogliati della loro originale ingenuità per trasformarsi in armi feroci con cui Maso del Saggio, Bruno e Buffalmacco, veri campioni di scaltrezza, possono ordire la loro beffa ai danni del misero Calandrino. Vediamoli in breve: • il mito popolare del paese di Bengodi, dove non occorre lavorare perché ogni ben di Dio è a libera disposizione di chiunque: questo è un vero e proprio topos della cultura medievale, diffuso a tutti i livelli, il che rende la credulità dello stolto Calandrino ancora più marchiana; • l’uso di filastrocche e giochi di parole («Haccene più di millanta, che tutta notte canta»); • il ricorso a circonlocuzioni e modi di dire atti a confondere le idee dell’interlocutore ingenuo, per esprimere il contrario di ciò che sembra o far passare come eccezionali cose del tutto comuni («i macigni da Settignano e da Montisci, per vertù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina»; « pietra di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è»).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi la novella in 10 righe. COMPRENSIONE 2. Quali aspetti dell’ideologia di Boccaccio sono rispecchiati nella novella? ANALISI 3. La novella appartiene al gruppo di testi comici del Decameron: su che cosa si fonda la comicità di questa novella? Quali momenti di essa ti sembrano più divertenti? 4. Commenta l’atteggiamento del narratore nei confronti del protagonista.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Le parole di Maso del Saggio presentano molte analogie con la predica di frate Cipolla. Anche se quello era un contesto collettivo, che metteva in scena il rapporto predica-pubblico, la situazione è per molti versi simile. Metti a confronto i due brani e analizza le strategie utilizzate dal frate e da Maso per ingannare la folla di fedeli il primo, e Calandrino il secondo. SCRITTURA CREATIVA 6. Costruisci un racconto fondato su una beffa che abbia come protagonista e comprimari personaggi analoghi a quelli presenti nel racconto di Boccaccio.
online
Testi in dialogo Le due versioni di una scena: Calandrino lapidato T10b Piero Chiara Il Decameron raccontato in 10 novelle T10c Aldo Busi Decamerone da un italiano all’altro
online T10d Giovanni Boccaccio Calandrino aspetta un figlio Decameron IX, 3
Miniatore fiorentino, Bruno e Buffalmacco tirano pietre a Calandrino che si crede invisibile, miniatura dall’apparato decorativo del Decameron nel manoscritto Italien 63, f. 234r (XV secolo, Bibliothèque Nationale de France, Parigi).
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3 Il Decameron nel tempo 1 La ricezione del Decameron La volontà di Boccaccio nell’orientare la lettura del Decameron Consapevole dell’alto valore letterario della propria opera, Boccaccio, ormai vecchio, trascrive amorevolmente il suo libro, lo corregge e gli dà una veste editoriale che ritiene consona alla sua dignità artistica: nel manoscritto autografo del Decameron conservato nel codice Hamilton, il testo del “Centonovelle” è disposto su due colonne, come le pagine dei testi universitari; viene anche usata la pergamena, un materiale di pregio. Con la scelta di conferire al lavoro una veste editoriale “importante”, Boccaccio pensa a una destinazione che non riguardi solo il pubblico della borghesia, ma anche le categorie sociali più elevate e colte. Un libro amato dal ceto mercantile Le cose vanno in modo diverso: il Decameron suscita infatti quasi esclusivamente l’entusiasmo di quei ceti mercantili che per la prima volta compaiono come soggetto privilegiato in un’opera letteraria; un successo che, data la vivacità degli scambi commerciali, è determinante anche per la fortuna europea dell’opera. I manoscritti che tramandano il testo del Decameron nel cinquantennio che va dalla fine del Trecento alla prima metà del Quattrocento appartengono per la maggior parte a famiglie della ricca borghesia mercantile. Non solo: il Decameron diviene un testo così di moda negli ambienti borghesi che, pur di assicurarsi una copia del celebre libro per sé o per i propri amici, molti mercanti si improvvisano copisti, come ha dimostrato Vittore Branca, appassionato studioso di Boccaccio. Molte novelle circolano anche oralmente e costituiscono un diffuso repertorio figurativo con cui si possono decorare anche mobili: circa una cinquantina di cassoni nuziali, secondo la stima di Branca, presentano pannelli dipinti o intarsiati con scene tratte dal Decameron. La fredda accoglienza degli ambienti intellettuali All’entusiasmo degli ambienti borghesi si contrappone la sostanziale freddezza degli ambienti culturali elevati: proprio quelli che Boccaccio avrebbe voluto conquistare. Nonostante lo sforzo di Boccaccio per conferirle dignità artistica, la novella non viene ancora ritenuta dalla classe intellettuale vera e propria letteratura, ma rimane un genere minore, con una superstite connotazione di oralità, destinato ben presto a essere svalutato dal nascente gusto umanistico. Le riserve di Petrarca Nell’ultima lettera della raccolta delle Senili (datata 4 giugno 1373), Petrarca giudica con parole elogiative il libro dell’amico, ma ne apprezza soprattutto il registro “grave”, quello della cornice e delle novelle della decima giornata, dedicata alle virtù cortesi: Petrarca traduce in latino la novella di Griselda, ultima della giornata, e in questo modo la immette nel circuito intellettuale europeo dei dotti, dove conosce una grandissima fortuna. Peraltro in una lettera delle Familiari (XXII, 2, 13), come si è detto (➜ PER APPROFONDIRE Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda PAG. 613) Petrarca dichiara di aver letto il Decameron saltando da un punto all’altro, e perciò in un modo poco meditato, cosa non certo abituale per il grande letterato e che sembra in-
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dicare una sostanziale riserva mentale verso il libro di novelle. Nel secondo Quattrocento l’interesse per il Decameron crolla poiché l’opera non risponde all’aristocratico gusto culturale e al clima politico-sociale della Firenze medicea. Per contro, emerge nettamente l’interesse per il “Boccaccio minore”, apprezzato da un pubblico raffinato, avido di letteratura dotta o d’evasione. Le edizioni a stampa: Boccaccio diventa un classico L’avvento della stampa crea le basi per una nuova fortuna dell’opera tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento. Però questa volta, al contrario della prima, è soprattutto il pubblico colto di intellettuali a interessarsi del “Centonovelle”: non più però per i contenuti, apprezzati dal passato pubblico mercantile, ma esclusivamente per lo stile e la lingua. Lo stile “tragico” della cornice e delle novelle cortesi nelle Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo viene elevato a modello della prosa italiana, ed è così che Boccaccio diventa un “classico”: un’egemonia che inciderà in modo determinante sulla storia della lingua e della letteratura italiane. Boccaccio modello di comicità licenziosa Nello stesso periodo la novella come genere conosce una nuova vitalità e i novellieri guardano a Boccaccio come a un modello narrativo, riprendendone situazioni, motivi, personaggi e, spesso, l’ideazione della cornice, un esempio soprattutto per una comicità licenziosa. In questa direzione, che getta le basi della futura categoria del “boccaccesco”, si comprende anche la forte influenza esercitata dallo scrittore sulla commedia rinascimentale: ricordiamo solo la Calandria del Bibbiena e la Mandragola di Machiavelli, la cui fabula è strutturata sulla tipica beffa erotica boccacciana. La fortuna del Decameron nella cultura europea Per quanto riguarda le culture straniere, la conoscenza, per lo meno indiretta, di Boccaccio è testimoniata in Inghilterra già verso la fine del Trecento: rimandano al modello decameroniano i Canterbury Tales (1387 ca.) di Geoffrey Chaucer (➜ SGUARDO SULLA LETTERATURA, PAG. 751), una raccolta di novelle in versi che costituisce un vivace ritratto della società inglese del periodo. In seguito è soprattutto il teatro shakespeariano a testimoniare l’assimilazione della lezione, più che altro però attraverso la mediazione dei novellieri post-boccacciani come Matteo Bandello: le commedie che mostrano debiti più diretti con il Decameron sono Cimbelino e Tutto è bene quel che finisce bene. Anche nella cultura spagnola l’autore, tradotto già a partire dalla metà del Quattrocento, trasmette argomenti e situazioni alla narrativa (echi boccacciani si ritrovano nelle Novelle esemplari, ma anche nel Don Chisciotte di Cervantes) e soprattutto al teatro del Seicento. In Francia la fortuna di Boccaccio inizia con l’Eptameron di Margherita di Navarra, che rimanda, fin dal titolo, al Decameron, per proseguire con Rabelais e arrivare fino al Molière de La scuola dei mariti (1661).
Miniatura per la novella di Guiglielmo Rossiglione (Decameron, IV, 9): «Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da un’alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita».
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Geoffrey Chaucer
D2
Il ritratto del venditore di indulgenze I racconti di Canterbury
G. Chaucer, I racconti di Canterbury, a c. di E. Barisone, Mondadori, Milano 2003
Per dare almeno un’idea del vivace realismo rappresentativo di Chaucer, leggiamo, tratto dal prologo, il ritratto di uno dei pellegrini-narratori, l’Indulgenziere (ovvero colui che, per incarico della Curia romana, cercava di vendere le indulgenze). L’ironico riferimento alle false reliquie ricorda da vicino la celebre novella boccacciana di frate Cipolla (➜ T6d ).
Cavalcava con lui1 un mite Indulgenziere di Roncisvalle2, suo degno amico e compare, ch’era appena tornato dalla corte di Roma. Costui cantava a squarciagola: «Vieni, vieni, amor, da me!». E il Cursore gli faceva da accompagnamento, con una voce due volte più bassa e forte del suono d’un trombone. Quest’Indulgenziere aveva i capelli gialli come la cera, che ricadevano giù molli come una matassa di lino; i riccioli che aveva, a once3, gli si allungavano fin sulle spalle e penzolavano radi, uno per uno, come straccetti. Eppure per civetteria non portava il cappuccio, tenendolo ben chiuso nella bisaccia. Credeva d’andare all’ultima moda, coi capelli sciolti e la testa coperta solo da un berrettino. Aveva gli occhi sporgenti come quelli d’una lepre. Sul berretto s’era cucita una veronica4. E teneva davanti in grembo una bisaccia piena zeppa d’indulgenze, giunte calde calde da Roma. La sua voce era belante come quella d’una capra. Ma barba non ne aveva e non ne avrebbe mai avuta, perché era pulito e liscio come uno appena raso. Credo che fosse un castrone o una cavalla5. Ma quanto al suo lavoro, non c’era mercante d’indulgenze pari a lui, neanche a cercarlo da Berwick fino a Ware6. Teneva nella sua sacca una federa7 e sosteneva ch’era il manto della Madonna; diceva anche di avere un brandello della vela di san Pietro quando ancora andava per mare8, prima che lo prendesse con sé Gesù Cristo. Aveva una croce d’ottone ornata di sassetti e, dentro un vetro, alcune ossa di porco. Con queste reliquie, appena trovava qualche povero parroco di campagna, faceva in un giorno più soldi lui che il parroco in due mesi. E così, con false lusinghe e trucchi, gabbava parroco e fedeli. Però bisogna dire la verità: in chiesa alla fin fine era un egregio ministro del culto. Al mattutino9 sapeva leggere magnificamente l’epistola o la leggenda d’un santo, ma meglio d’ogni altra cosa cantava l’offertorio, perché sapeva che dopo quel canto c’era la predica, e bisognava sciogliere bene la lingua per poi spillar quattrini, cosa in cui riusciva perfettamente. Ecco perché cantava allegramente con quanto fiato aveva in gola. [...]
1 con lui: si riferisce al personaggio del Cursore, nominato più sotto. È un altro dei narratori, un messo del tribunale ecclesiastico. 2 Indulgenziere di Roncisvalle: un venditore di indulgenze, proveniente dall’istituto di Santa Maria di Roncisvalle a Londra. Il personaggio in questione è un imbroglione che cerca, ricorrendo a espedienti come l’esibizione di false reliquie, di conquistare i fedeli, a cui poi vendere le indulgenze, ovvero la possi-
bilità di comprare l’assoluzione dei peccati. Uno scandalo diffuso, contro cui si scaglierà Martin Lutero. 3 a once: in quantità minima. 4 una veronica: una raffigurazione di Cristo. Il termine veronica propriamente si riferisce al panno di lino con cui una donna (che poi prese il nome di Veronica) deterse il volto di Cristo durante la salita al Calvario, e sul quale sarebbe rimasto impresso il volto di Gesù.
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5 un castrone o una cavalla: allusione all’aspetto femmineo dell’Indulgenziere. 6 da Berwick fino a Ware: località dell’Inghilterra. 7 una federa: fodera con cui si coprono cuscini e guanciali. 8 quando... per mare: Pietro era pescatore. 9 mattutino: la prima delle ore canoniche previste dalla liturgia.
Concetti chiave Il ritratto dell’ Indulgenziere
Nel brano è presente il ritratto di un personaggio incaricato dalla Curia romana di vendere indulgenze. Dapprima il narratore si sofferma sulle caratteristiche fisiche: l’aspetto femmineo, i riccioli radi, la voce belante; poi sul suo compito, ovvero quello di commerciare assoluzioni «giunte calde calde da Roma», un ruolo simboleggiato dalla bisaccia tenuta davanti al grembo zeppa di indulgenze. Infine si fa riferimento alle reliquie possedute dall’Indulgenziere: una federa ritenuta il manto della Madonna, un brandello di una vela di san Pietro pescatore, una croce d’ottone; implicito e quasi scontato per un lettore colto diviene il confronto con Frate Cipolla, celebre protagonista di una novella del Decameron di Boccaccio.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Perché l’Indulgenziere non portava il cappuccio? STILE 2. Nel brano ritorna più di una volta una medesima figura retorica: quale?
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 3. Fai una ricerca in Internet sull’utilizzo delle reliquie nel periodo medievale; realizza poi un prodotto multimediale attraverso il quale rendicontare ai tuoi compagni di classe e all’insegnante i risultati del tuo lavoro. TESTI A CONFRONTO 4. Confronta la figura dell’Indulgenziere presente nel testo di Chaucer con Frate Cipolla, il protagonista di una novella di Boccaccio (➜ T6d ).
online D3 Geoffrey Chaucer Il racconto delle comari di Bath I racconti di Canterbury
Sguardo sulla letteratura inglese Uno sguardo all’Europa: Chaucer e i Canterbury Tales Una raccolta incompiuta Verso la fine del Trecento (probabilmente nel 1387) in Inghilterra viene composta una raccolta di racconti in versi che presenta evidenti analogie con il Decameron: si tratta dei celebri The Canterbury Tales (I racconti di Canterbury) di cui è autore Geoffrey Chaucer (ca. 1340-1400), uomo d’affari, diplomatico e scrittore di vasta e multiforme cultura. La raccolta è incompiuta: ci rimangono 24 racconti, di cui alcuni frammentari. Non è possibile accertare con sicurezza la diretta influenza del capolavoro di Boccaccio su Chaucer, ma è molto probabile che lo scrittore inglese abbia letto il Decameron o per lo meno ne abbia sentito parlare, tenuto conto tra l’altro del fatto che compì due viaggi diplomatici in Italia nel 1372 e 1378 e che anche altre sue opere si ispirano alla produzione di Boccaccio.
La cornice e i narratori Anche Chaucer inserisce i racconti all’interno di una sorta di cornice: nel prologo, da cui abbiamo tratto un passo (➜ D2 ), egli immagina che un gruppo di ventinove pellegrini si diriga da un sobborgo di Londra all’abbazia di Canterbury e che durante una sosta presso la “Taverna del tabarro” (Tabard Inn) raccontino a turno delle storie. Rispetto alla “brigata” dei giovani narratori del Decameron, i narratori dei Racconti di Canterbury appaiono tra loro assai diversificati socialmente e psicologicamente; sono veri e propri personaggi, tratteggiati con grande realismo e corrispondenti a precise tipologie sociali dell’Inghilterra del tempo: il mugnaio, il mercante, la madre priora, il cavaliere, il monaco, lo studente di Oxford e così via. Le novelle narrate riflettono da vicino la personalità di chi le narra e offrono nel loro complesso uno spaccato estremamente realistico della società inglese del tempo, ritratta con grande varietà di registri stilistici ed espressivi, che vanno dal tragico al comico, dal patetico al grottesco, dall’edificante al licenzioso. Con la propria opera Chaucer immette la letteratura inglese nel grande circuito europeo fino a quel tempo dominato dalla letteratura provenzale, francese e italiana.
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“sfortuna” del Decameron: 2 La da libro censurato a libro incompreso
PER APPROFONDIRE
La censura controriformistica Un capitolo importante e tormentato nella ricezione del Decameron viene scritto nell’età controriformistica (ultimi decenni del Cinquecento): sono gli anni in cui ha inizio, con il pontificato di Paolo IV Carafa (1545) e poi con il primo Indice dei libri proibiti (1557), la «ripulitura di biblioteche, tipografie, cervelli...» (Bologna), frutto dell’offensiva culturale della Controriforma cattolica contro le eresie e le deviazioni ideologiche. Il Decameron è inserito nella lista dei “libri proibiti” fin dal 1559. Nell’Indice più importante, uscito l’anno dopo la chiusura del Concilio di Trento, cioè nel 1564, che fissa i principi che ispirano l’azione di censura proibendo espressamente tutti i libri che trattino «lascivie e oscenità» (regola VII), la posizione dell’Inquisizione romana nei confronti del Decameron appare più elastica, ammettendo implicitamente la possibilità di una circolazione del libro, purché vengano eliminati gli “errori” in esso contenuti. I censori erano certo consapevoli dell’inopportunità di togliere del tutto di mezzo un libro amato dai lettori e ormai anche dai filologi e dai potenti (si mosse a difenderlo anche Cosimo I de’ Medici), ma d’altra parte non potevano non segnalarne la pericolosità morale. È questa la base ideologica che ha motivato le tre edizioni «rassettate» del Decameron, cioè rivedute e corrette dalla censura (➜ PER APPROFONDIRE Le tre edizioni del Decameron “rassettate” dai censori controriformistici).
Le tre edizioni del Decameron «rassettate» dai censori controriformistici La prima edizione «rassettata» La prima edizione «rassettata» è la cosiddetta “edizione dei deputati” del 1573, rielaborata sotto la guida del linguista Vincenzo Borghini. Vi si ritrovano già alcuni interventi significativi di un orientamento perdurante anche in seguito: l’eliminazione dei riferimenti più licenziosi e la censura di ogni riferimento alla corruzione degli ecclesiastici, che vengono trasformati in laici, con esiti spesso grotteschi e del tutto incongrui con lo spirito delle novelle. In totale si interviene su 41 novelle (➜ T11a OL). La seconda Più marcato (poiché interessa ben 52 novelle) l’intervento censorio nella seconda edizione del 1582, a opera del grammatico purista Leonardo Salviati (➜ T11b OL), che un intellettuale del tempo arrivò a definire con tono indignato «pubblico e notorio assassino del Boccaccio». Anche Salviati trasforma gli ecclesiastici e le monache protagonisti di situazioni scabrose in laici: ad esempio, se nella prima edizione l’irriverente e spregiudicato frate Cipolla era un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, ora diventa un finto frate che inganna i Certaldesi e alla fine viene imprigionato. Molto spesso il Salviati interviene sul testo allontanando la vicenda nello spazio (Masetto che “coltiva l’orto delle monache” diventa Masset e la vicenda, anziché in un monastero di suore, si svolge in un serraglio di donne in Alessandria); oppure nel tempo, trasferendola in civiltà precristiane, come nel caso della vicenda di Tancredi e Ghismonda, spostata ai tempi di Roma. L’obiettivo di queste trasformazioni è evidente: consentire la rappresentazione di comportamenti sessuali proibiti espressamente dalla morale cattolica. Salviati non esita inoltre a censurare intere parti di testo, distruggendone
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completamente il senso: è il caso della confessione-capolavoro di ser Ciappelletto, completamente eliminata con danno irreparabile del significato globale della celebre novella. La caratteristica più rilevante e interessante dell’intervento del Salviati fu l’inserimento di premesse e note esplicative al testo che avrebbero dovuto “guidare” moralmente i lettori, ad esempio sottolineando la giusta punizione dei corrotti e dei malvagi. La terza La terza e più devastante «rassettatura» è quella del poeta e tragediografo Luigi Groto, detto il Cieco d’Adria, pubblicata postuma nel 1588. Ponendo mano al Decameron per incarico dell’Inquisizione di Venezia, il Groto ha la paradossale presunzione di ridare vita al Boccaccio, come si legge in una sua lettera: «io darò e vita e luce al Boccaccio et egli ne darà a me [...], io trarrò lui dalle tenebre e dal sepolcro et egli ne trarrà me». Se la prima edizione «rassettata», per rispetto del testo, aveva lasciato lacunosi i luoghi tagliati dalla censura e segnalava espressamente gli interventi attraverso l’impiego di un diverso carattere tipografico (il “tondo”), e il Salviati indicava l’imponente censura del testo con asterischi, il Groto si inserisce prepotentemente nella narrazione cercando di ridarle senso attraverso massicci interventi di riscrittura. Il testo del Decameron viene così violentato due volte: attraverso i tagli censori e, ancor di più, attraverso arbitrarie integrazioni e riscritture ex novo di ampie parti, per ricostruire in qualche modo la trama devastata dalla censura. Le novelle rielaborate sono 46, undici delle quali sono completamente stravolte da interventi quasi totali di rielaborazione, così da risultare irriconoscibili: tra queste, non a caso, spiccano le prime tre, legate alla satira religiosa.
Un libro scandaloso? L’identificazione del Decameron come libro proibito non si esaurisce nell’epoca controriformistica, ma continua a serpeggiare nel tempo: ad esempio in Germania la ricezione dell’opera si lega a lungo all’associazione Decameron-comicità volgare. Non è dunque un caso che Goethe consigli alla giovane sorella Cornelia di non leggere il Decameron a meno di farsi consigliare qualche novella dal padre; non sorprende che a sua volta Gotthold Lessing definisca con tono divertito il Decameron «storielle di cornuti», ignorandone in modo sorprendente il valore artistico, sebbene il suo dramma Nathan il saggio (1779), civile professione ideologica di tolleranza religiosa, sia integralmente debitore della novella di Melchisedec, con la leggenda dei tre anelli di Boccaccio. E solo molto tardi nella cultura tedesca viene apprezzata la finezza linguistica del Decameron: uno dei primi ad accorgersene è Hermann Hesse, l’autore del celeberrimo Siddharta; scrivendo nel 1904 una monografia proprio su Boccaccio afferma: «Leggere il Decameron [...] è come una passeggiata sotto alberi in fiore e come un bagno in acque pure. Le parole suonano così fresche come se fossero state appena create e mai da alcuno pronunciate». Il Decameron come “bibbia dell’erotismo” Anche in Italia si è nel tempo alimentata un’idea del Decameron che estrapola dal testo unicamente la componente erotica o addirittura oscena: da qui la diffusa presenza nel senso comune e nel vocabolario corrente del termine “boccaccesco” come sinonimo di erotismo di bassa lega. Si tratta di un’interpretazione del tutto travisante di questo capolavoro: non c’è mai volgarità in Boccaccio, nemmeno nelle scene più licenziose, e nemmeno compiacimento morboso, ma sorridente distacco, anche grazie alla raffinata stilizzazione letteraria. È toccata all’opera una sorte davvero ingrata: il libro è stato letto proprio nel modo apertamente sconfessato dai giovani novellatori della lieta brigata. Infatti essi si divertono per le novelle licenziose, ma non si fanno mai coinvolgere da esse, mantenendo per tutta la durata della loro “avventura” un contegno casto e irreprensibile che testimonia una netta separazione tra vita e letteratura. Dell’interpretazione distorta è stata responsabile soprattutto certa deteriore cinematografia, fiorita sulla scia del celebre film di Pasolini del 1971, a sua volta frainteso nelle sue motivazioni etiche ed estetiche e rozzamente imitato. A proposito del filone boccaccesco degli anni Settanta il critico cinematografico Giovanni Grazzini ha osservato che il dato che accomuna i vari film liberamente ispirati al Decameron, seguiti al film di Pasolini, è «una scurrilità di situazioni e una sguaiataggine di vocabolario da cui esula il festoso vitalismo, la sana sensualità del Decameron. Non c’è ombra di tragico né tocco di malinconia nei rozzi imitatori di Pasolini». La fortuna del filone erotico “boccaccesco”, secondo il critico, testimonia come il principio del profitto possa negativamente condizionare la comunicazione di massa: registi di basso profilo, ingaggiati da produttori interessati al solo successo commerciale, hanno sfornato uno dietro l’altro film come Decamerone proibito, Decamerone proibitissimo e Decameroticus (tutti del 1972). La valorizzazione del capolavoro di Boccaccio anche a uso dei lettori di media cultura, che era stata avviata efficacemente dalla critica, fu certamente frenata dalla diffusione e dal successo di massa di questa degradante online Esempi di censura sul Decameron produzione, che ha avuto un ruolo fondamentale nell’elaboranell’età della Controriforma zione dell’immagine fuorviante del Decameron e del suo autore T11a Monache, preti e monasteri che per anni si è radicata nell’opinione pubblica, non solo a T11b La rivisitazione della conclusione livello popolare. Il Decameron nel tempo 3 753
Sguardo sul cinema Boccaccio e il cinema. Il Decameron di Pasolini Nel 1971 lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini (1922-1975) gira il primo di tre film ispirati a capolavori della narrativa occidentale: il Decameron, cui seguiranno a breve I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), che nel loro insieme compongono la Trilogia della vita. Un anno dopo l’uscita dell’ultimo film della trilogia, nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, Pasolini viene assassinato. «I presupposti poetici e politici su cui si fonda la Trilogia – scrive il critico cinematografico Gianni Canova nella sua prefazione all’edizione delle sceneggiature – sono ormai universalmente noti. Pasolini intende contrapporre alla dilagante omologazione del presente consumistico l’utopia di una alterità – arcaica ma autentica – che trovi nella gioia dei corpi e del sesso la sua prima e unica ragione di vita. Nelle numerose interviste che accompagnano la lavorazione e l’uscita dei tre film, Pasolini ribadisce a più riprese la sua volontà di realizzare finalmente un cinema gaio e vitalistico, allegro e solare, capace di “esprimere l’esistenza senza decifrarla”. Rispetto allo scenario mass-mediale dominato dall’omologazione più ferrea, i film della Trilogia rappresentano il tentativo [...] di proiettare in un altrove spazio temporale (il Trecento di Chaucer e Boccaccio, il tempo mitico di Le mille e una notte) il “rigoglio di un’esistenza” che appartiene interamente al passato e che Pasolini spera di poter far rivivere ancora una volta – forse per l’ultima volta – nella dimensione “neo-popolare” dello spettacolo filmico». Ma il significato polemico e poetico della proposta pasoliniana – «esorcizzare l’universo orrendo del presente attraverso la ricreazione visiva di un passato utopico e innocente» (Canova) – non fu assolutamente compreso. Da un lato i tre film incorsero più volte nella censura, dall’altro riempirono i cinematografi di pubblico, fecero “cassetta”, finendo per originare poi, certo contro le intenzioni del regista, il filone “boccaccesco” della cinematografia; in questa direzione furono soggetti alle stroncature dei giornali benpensanti, che li considerarono paradossalmente una resa del regista al filone commerciale. online
Approfondimento Pasolini e il Decameron
Fissare i concetti Giovanni Boccaccio Ritratto d’autore 1. Quali sono le due esperienze più importanti che Boccaccio visse a Napoli e che influenzarono le sue opere? 2. Perché l’amicizia con Petrarca fu determinante nel pensiero e nell’ultima produzione di Boccaccio? 3. Quali sono i generi letterari sperimentati nella produzione napoletana? 4. Quale concezione dell’amore emerge nella Commedia delle ninfe e nell’Amorosa visione? 5. Quali novità si rintracciano nell’Elegia di Madonna Fiammetta? Il Decameron 6. Com’è strutturato il Decameron? 7. Qual è la novità che Boccaccio introduce nell’opera? 8. A chi è dedicato il Decameron e perché? 9. Quali sono i temi dell’opera? 10. Come è concepita la fortuna da Boccaccio? Opera un confronto con la concezione della fortuna di Dante. 11. Quanti tipi di narratori ci sono nel Decameron? 12. Quali caratteristiche presenta lo stile dell’autore? 13. Quante volte e dove interviene l’autore all’interno della propria opera? Il Decameron nel tempo 14. Quale fu la ricezione dell’opera? 15. Quale fu la fortuna del Decameron nella cultura europea?
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Duecento e Trecento Giovanni Boccaccio
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Un mercante mancato Giovanni Boccaccio nasce nel 1313 a Certaldo o a Firenze, figlio illegittimo ma riconosciuto di un agente finanziario della Banca dei Bardi. Nella speranza che intraprenda la stessa carriera del padre, nel 1327 viene mandato a Napoli come apprendista; ma il suo interesse è rivolto alla vita culturale di corte e alla letteratura: fino al 1340 studia la letteratura latina e romanza e frequenta numerosi intellettuali. Nel 1340 la banca fallisce e lo scrittore deve tornare a Firenze: sono anni di difficoltà che fanno rimpiangere l’ambiente partenopeo, ma nella città toscana Boccaccio, sempre più in rotta con la figura paterna, può ampliare i propri orizzonti personali e letterari. Il 1348 vede l’arrivo della peste, che si porta via il genitore e molti amici ma gli consente la maturazione necessaria a scrivere il suo capolavoro: il Decameron, opera il cui grande successo apre all’autore le porte di numerosi incarichi per il comune. La fase successiva della sua vita si distingue per un ripiegamento interiore in senso riflessivo e per l’amicizia con Francesco Petrarca: grazie a questa influenza, Boccaccio sviluppa interessi eruditi e preumanistici, che si traducono nell’uso del latino per una serie di opere compilative, nella ricerca in prima persona di testi antichi, ma anche nella pionieristica creazione di un cenacolo culturale e nello studio del greco antico. Durante la vecchiaia, Boccaccio è colpito da numerosi acciacchi fisici e assillato da problemi economici, cui si aggiunge una profonda crisi interiore che lo spinge all’autocritica verso le proprie creazioni – specialmente verso il Decameron – e all’isolamento; egli si concede solo per alcune letture pubbliche dell’ammirata Commedia, che però non conclude per l’aggravarsi delle condizioni di salute. Muore a Certaldo nel 1375.
Giovanni Boccaccio Duecento e Trecento
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La produzione minore: all’insegna dello sperimentalismo Nella produzione minore dell’autore si manifesta un’incessante volontà sperimentale che non manca di influenzare il Decameron stesso. Vista nel suo insieme, la produzione minore testimonia: – l’interesse preminente del Boccaccio per l’esplorazione del tema amoroso; – la volontà e la capacità di mettersi alla prova in generi diversi; – i molteplici interessi letterari, che spaziano dalla letteratura classica (da Ovidio a Stazio) alla narrativa cortese, ai cantari, ai grandi modelli di Dante e Petrarca; – la commistione di motivi letterari e istanze autobiografiche. Tre sono le opere principali composte verso la fine degli anni Trenta durante il soggiorno a Napoli e stimolate dalla frequentazione della raffinata corte angioina. Il Filocolo (“Fatica d’amore”) è il primo romanzo in prosa della letteratura italiana. Narra le avventurose vicende di una coppia di innamorati, Fiorio e Biancifiore, che alla fine riescono a sposarsi. La vicenda era già diffusa nella tradizione orale e Boccaccio la arricchisce con digressioni ed elementi autobiografici. Il Filostrato (“Vinto d’amore”) è un poema lirico-elegiaco in ottave (il futuro metro del poema epico-cavalleresco), incentrato sull’infelice amore di Troiolo, figlio di Priamo, per Criseida. Il Teseida, poema epico in ottave; intreccia in una cornice guerresca (la guerra dell’eroe mitico Teseo contro Tebe) una vicenda amorosa. Tra il 1341 e il 1346 vengono composti, dopo il trasferimento a Firenze, anche altri lavori. La Commedia delle Ninfe fiorentine (o Ninfale d’Ameto) è un prosimetro d’impianto allegorico, che inaugura nella nostra letteratura il fortunato genere pastorale. In questa e nell’opera seguente è evidente l’influsso del modello di Dante, nello schema allegorico ma anche per la scelta metrica della terzina. L’Amorosa visione è un poema allegorico incentrato sul tema dantesco del viaggio edificante ripensato in chiave laica. L’Elegia di Madonna Fiammetta è un romanzo psicologico (il primo della letteratura italiana) nel quale, tra molteplici influssi letterari, la protagonista Fiammetta confessa alle lettrici le proprie pene d’amore in una sorta di lunga lettera. Il Ninfale fiesolano è un poemetto mitologico in ottave ispirato alle Metamorfosi di Ovidio e caratterizzato da uno stile popolaresco e realistico. Negli ultimi anni di vita, Boccaccio scrive in latino opere compilative. Oltre a queste, tuttavia, spicca il Corbaccio (del 1365, ma la datazione è controversa), un’opera aspramente misogina, ma soprattutto critica verso la letteratura cortese. Tiene anche alcune letture pubbliche della Commedia (Esposizioni sopra la Comedìa) e rivede la biografia di Dante (Trattatello in laude di Dante), composta appena dopo la stesura del Decameron.
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2 Il Decameron
La composizione del Decameron. I modelli di riferimento Tra il 1348 (anno dell’epidemia di peste) e il 1351 o 1353 Boccaccio si dedica al Decameron, una raccolta di cento novelle (come i canti della Commedia) che probabilmente ebbero circolazione autonoma prima di questi anni. Esse non sono narrate direttamente dall’autore ma, nella finzione narrativa, sono raccontate a turno da dieci giovani narratori (sette donne e tre uomini) che si sono ritirati in una villa di campagna per sfuggire alla peste che imperversa a Firenze. Il ritiro dura quattordici giorni, dieci sono quelli in cui si sceglie di raccontare e dieci sono le novelle narrate ogni giorno (da qui il titolo grecizzante Decameron, che allude appunto a “dieci giornate”). Ogni giornata (tranne la I e la IX) ha un tema che orienta la narrazione. Le fonti di ispirazione sono varie: i fabliaux, la letteratura cortese, i racconti orientali ma anche quelli classici. La struttura e la poetica L’opera è aperta da un Proemio, che ne spiega le finalità (l’evasione e la conoscenza dei fatti della vita) e i destinatari (le donne che soffrono per amore); segue un’Introduzione, che presenta lo scenario della peste e la scelta dei giovani di abbandonare la città, costruendo così una specifica cornice in cui Boccaccio iscrive il “Centonovelle”. Questa non si esaurisce però con l’Introduzione: le novelle sono infatti collegate tra di loro dalla narrazione, sempre ad opera del narratore-autore, della vita onesta e dedita agli svaghi piacevoli e raffinati dei giovani nel loro ritiro. La voce dello scrittore ritorna anche nella Conclusione, in cui egli si difende dalle accuse di licenziosità esaltando l’importanza del contesto, delle parole e dello stile per una valutazione complessiva del proprio lavoro; una dichiarazione similare è presente anche in precedenza, nell’Introduzione alla IV giornata, allo scopo di controbattere alle accuse di immoralità rimarcando la naturalità dell’istinto amoroso. La cornice, il gioco delle “voci narranti” e la dialettica delle interpretazioni Boccaccio, come detto, rappresenta la voce narrante di primo grado. Egli elabora, poi, una complessa “cornice” che ingloba le cento novelle, le inserisce in un preciso contesto e “dialoga” con loro, permettendo al fruitore di ricostruire il significato dell’opera e trasformando quest’ultima in un macrotesto: tale strumento è costituito dalla narrazione dell’epidemia e degli intermezzi tra i racconti. I racconti sono narrati da dieci novellatori; questi giovani non hanno un’identità realistica, ma costruita su allusioni letterarie: forse un mezzo per chiarire che i contenuti riportati appartengono solo alla letteratura e devono quindi essere interpretati dai lettori non grossolanamente e con spirito leggero. Essi rappresentano il secondo, polifonico, grado di narrazione che, insieme al terzo (quello dei personaggi delle novelle), instaura con il primo un elaborato e costante rapporto dialettico. L’ideologia di Boccaccio: fra innovazione e tradizione La prospettiva che ispira Boccaccio è radicalmente diversa da quella della Commedia: il trascendente è assente e il caso domina il mondo. Esistono più “verità”, non il bene assoluto: questo può allora coincidere con l’utile o con il soddisfacimento dei propri desideri, poiché la morale cristiana non subordina più tutto. Forte è anche la condanna, per lo più attraverso il registro comico, della corruzione e dell’ipocrisia della Chiesa. L’autore riconosce il potere della nuova classe borghese mercantile, di cui apprezza dinamismo e spirito d’iniziativa, e guarda con simpatia i ceti popolari; ma al contempo non manca di rappresentarne i limiti (avidità e cinismo) e non rigetta i modelli cortesicavallereschi che ritiene, tuttavia, bisognosi di maggiore pragmatismo. Un’ottica, dunque, di transizione e di natura conservatrice, perché le distanze sociali vengono accettate come un dato di fatto insuperabile.
Sintesi
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I temi I temi trattati sono molteplici, ma centrali sono: l’amore, rappresentato in tutte le sue varianti, fino alla più schietta sensualità, senza censure morali e in stretta connessione con la valorizzazione del corpo umano in senso fisico e della figura femminile; la fortuna, che Boccaccio rappresenta in forma totalmente laica e terrena, come imprevedibilità capricciosa del caso o insieme di coincidenze imprevedibili; l’industria, ovvero la libera iniziativa, fondatrice di una morale laica, che altro non è che la capacità di sfruttare le circostanze a proprio favore (una qualità che caratterizza soprattutto il mondo dei mercanti, ma senza escludere le altre classi sociali) e di utilizzare il potere della parola arguta e intelligente. La fondazione del realismo: i personaggi, il modello spaziale Prerogativa dell’opera è il realismo rappresentativo: Boccaccio inserisce vicende e personaggi psicologicamente determinati in contesti storico-sociali precisi, non immaginari o simbolici, svincolandoli dall’astrattezza indeterminata degli exempla. Il mondo dell’autore è soprattutto quello cittadino coevo: le figure che lo abitano appartengono a tutte le classi sociali e il mercante è quella più tipica e meglio delineata; ma non manca la nostalgica rievocazione (e idealizzazione) delle qualità e dei modelli di comportamento propri della società cortesecavalleresca, ormai tramontati ma considerati dallo scrittore un prezioso lascito per i tempi nuovi. Il Decameron come laboratorio narratologico Il Decameron è un lavoro innovativo anche sotto il profilo delle modalità narrative. Boccaccio fonda e conferisce valore letterario al genere della novella; ne utilizza, poi, diversi sottogeneri (la novella-racconto, la novellaromanzo e la novella vera e propria), ognuno focalizzato su un preciso aspetto narratologico; la arricchisce, inoltre, di componenti teatrali. Ma oltre a tutto ciò, egli esplora anche consapevolmente – in modalità quasi novecentesche – le potenzialità narrativo-espressive del racconto e della manipolazione delle fonti: non in senso banalmente dissacrante, quanto al fine di creare un raffinato gioco ironico e combinatorio inserito in un’opera unitaria, organica e ricca di richiami interni, ossia un macrotesto. Lo stile e la lingua Nel tempo hanno esercitato grande influenza soprattutto le pagine stilisticamente “tragiche” del Decameron, dunque lo stile elevato proprio della cornice, degli interventi d’autore e di alcune novelle, come quella di Griselda, che chiude l’opera e che fu apprezzata particolarmente da Petrarca. La ricercatezza formale è stata attentamente ricercata dallo scrittore e poi consacrata come modello linguistico nel Cinquecento. Boccaccio, però, utilizza anche un registro espressivo completamente diverso, modellato sulla mimesi del parlato sia nel lessico sia nella sintassi e impiegato soprattutto nei discorsi diretti: anche a questo proposito si parla spesso di “realismo” espressivo di Boccaccio. Esso contribuisce a rappresentare la molteplicità dei personaggi e degli ambienti raffigurati, e dunque la varietà e mobilità della vita. Questo plurilinguismo e la varietà dello stile avvicinano la forza espressiva del Decameron a quella della Commedia. I critici moderni hanno evidenziato, inoltre, una costante opposizione comico-tragica, che si ritrova in generale e anche in alcune singole novelle e che è associata all’opposizione mondo contemporaneo-mondo del passato.
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3 Il Decameron nel tempo
La ricezione del Decameron Boccaccio trascrive personalmente su pergamena il testo dell’opera, mirando a una sua diffusione anche in ambito colto. La ricezione degli ambienti più elevati è però fredda, con numerose riserve sulla letterarietà del genere novella; anche l’amico Petrarca gradisce solo le parti di registro più grave e dichiara di aver letto solo superficialmente il resto. L’entusiasmo per il Decameron è quasi esclusivo del ceto mercantile e della borghesia, all’interno dei quali circola sia in copie manoscritte sia oralmente. Nel secondo Quattrocento l’interesse per il libro crolla a causa del nuovo gusto culturale, ma torna a crescere all’inizio del XVI secolo, quando se ne apprezzano stile e lingua, elevati da Bembo a modello della prosa italiana; in questi anni esso diventa anche fonte di ispirazione per novellieri che producono comicità licenziosa e commedie. In Europa il Decameron è conosciuto già dalla fine del Trecento in Inghilterra (vi si ispirano Chaucer e Shakespeare), dalla metà del Quattrocento in Spagna (echi si leggono in Cervantes) e in Francia dai tempi di Margherita di Navarra, per proseguire con Rabelais e Molière. La “sfortuna” del Decameron: da libro censurato a libro incompreso Durante l’età controriformistica il Decameron viene inserito nell’Indice dei libri proibiti a causa dei contenuti, giudicati pericolosi per la morale: il testo circola comunque, anche se in tre diverse edizioni variamente censurate. Solo all’inizio del XX secolo se ne apprezza e studia il valore letterario, nascosto per lungo tempo dietro i contenuti che più richiamano l’erotismo: questi, infatti, sono stati completamente travisati dal senso comune e per lungo tempo non si è riusciti a cogliere il distacco e la raffinatezza del lavoro boccacciano; al contrario, si è scelto proprio questo aggettivo per definire le rappresentazioni della sessualità di basso livello, interpretando l’opera esattamente nel senso sconfessato da protagonisti e autore. Non ha aiutato, nella seconda metà del Novecento, un’abbondante cinematografia scurrile e sguaiata, nata fraintendendo a propria volta l’interpretazione di un celebre film di Pasolini.
Sintesi
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Zona Competenze Scrittura creativa
1. Immagina di dover rappresentare una novella di Boccaccio a teatro: sceglila e stendine il copione. 2. Prova a usare il copione narrativo di una novella del Decameron a tua scelta per scrivere un racconto in cui la vicenda dei personaggi sia trasposta ai tempi d’oggi. 3. Costruisci un racconto fondato su una beffa che abbia come protagonista e comprimari personaggi analoghi a quelli presenti in una novella boccacciana a tua scelta.
Riscrittura
4. Prendendo come modello due riscritture in lingua moderna del Decameron, quella di Piero Chiara (Il Decameron raccontato in 10 novelle, Mondadori, Milano 1984) e quella di Aldo Busi (Decamerone da un italiano all’altro, Rizzoli, Milano 1993), prova a riscrivere in italiano corrente una novella a tua scelta, cercando ovviamente di rispettare lo spirito e il tono del testo di Boccaccio.
Recensione
5. Scrivi la recensione di una novella di Boccaccio a tua scelta: immagina che chi scrive, avendo una disposizione critica nei confronti dello scrittore e di alcuni dei suoi temi prediletti, voglia sconsigliarne al pubblico la lettura.
Discussione guidata
6. Dopo aver analizzato a piccoli gruppi un’intera giornata del Decameron, ogni gruppo relazioni sulle novelle esaminate mettendo in rilievo: a. le tematiche; b. i procedimenti narrativi (tempo, spazio, tipologia dei personaggi ecc.); c. le scelte stilistiche e linguistiche; d. altri aspetti significativi. Sintetizzate le osservazioni emerse nel corso della discussione in una relazione conclusiva di taglio saggistico che proponga delle piste interpretative della giornata prescelta.
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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giovanni Boccaccio, Madonna Filippa, Decameron VI, 7, a c. di V. Branca, Mondadori, Milano 1985
MADONNA FILIPPA DAL MARITO CON UN SUO AMANTE TROVATA, CHIAMATA IN GIUDICIO, CON UNA PRONTA E PIACEVOL RISPOSTA SÉ LIBERA E FA LO STATUTO1 MODIFICARE. [...] Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale senza niuna distinzion far comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcun suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse. E durante questo statuto2 avvenne che una gentil donna e bella e oltre a ogni altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de’ Pugliesi3 suo marito nelle braccia di Lazzarino de’ Guazzagliotri4, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto se medesima amava. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e d’uccidergli si ritenne5: e, se non fosse che di se medesimo dubitava6, seguitando l’impeto della sua ira, l’avrebbe fatto. Rattemperatosi7 adunque da questo, non si poté temperare da voler quello dello statuto pratese che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna. E per ciò, avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza8, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece richiedere9. La donna, che di gran cuore era10, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire11 e di voler più tosto, la verità confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. E assai bene accompagnata di donne e d’uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta, domandò con fermo viso12 e con salda voce quello che egli a lei domandasse. Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei a aver compassione, dubitando non13 ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse14, volendo il suo onor servare, farla morire.
1 statuto: la disposizione di legge. 2 durante questo statuto: nel
5 si ritenne: si trattenne. 6 e se non fosse… dubitava: e se
10 di gran cuore era: era assai co-
periodo in cui fu vigente questa disposizione. 3 Rinaldo de’ Pugliesi: i Pugliesi erano una famiglia nota nella cittadina di Prato. 4 Guazzagliotri: della potenza della famiglia Guazzagliotri è testimonianza il sontuoso palazzo in Prato.
non avesse temuto di nuocere a se stesso (probabilmente per le conseguenze giudiziarie). 7 Rattemperatosi: trattenutosi. 8 E per ciò… testimonianza: e perciò, avendo adeguate testimonianze per provare la colpa della moglie. 9 richiedere: citare in tribunale.
11 comparire: presentarsi in giu-
raggiosa. dizio.
12 fermo viso: sguardo impassibile. 13 dubitando non: temendo che (costrutto latineggiante).
14 cosa... convenisse: cosa a causa della quale il giudice fosse obbligato a (il giudice teme un’aperta confessione di adulterio).
Il Decameron nel tempo 3 761
Ma pur, non potendo cessare di domandarla di quello che opposto l’era15, le disse: «Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito e duolsi16 di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che ci è17 vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non posso se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v’accusa». La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: «Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata, né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano18. Le quali cose di questa19 non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata20: per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare. E se voi volete, in pregiudicio21 del mio corpo e della vostra anima, esser di quella essecutore, a voi sta; ma, avanti che a alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia22 o no». A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna a ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto. «Adunque» seguì prestamente la donna «domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? debbolo io gittare a’ cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m’ama, che lasciarlo perdere o guastare23?» Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna quasi tutti i pratesi concorsi24, li quali, udendo così piacevol domanda, subitamente, dopo molte risa, quasi a una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene: e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli25 il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s’intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a’ lor mariti facesser fallo. Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò gloriosa. 15 Ma pur… l’era: ma tuttavia, non potendo evitare di interrogarla su ciò che le era imputato. 16 duolsi: si lamenta. 17 ci è: è qui vigente. 18 le leggi... toccano: le leggi devono essere uguali per tutti e fatte con il consenso (consentimento) di coloro cui esse si rivolgono.
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19 di questa: a proposito di questa (legge). 20 niuna... chiamata: nessuna fu mai invitata (ad approvarla). 21 in pregiudicio: con danno. 22 gli concedeva intera copia: gli concedevo interamente (copia significa letteralmente “abbondanza” ed è un latinismo).
23 guastare: rovinare (a causa del passare del tempo).
24 Eran… concorsi: erano accorsi in tribunale per assistere all’interrogatorio (essaminazione) di una donna così importante e famosa quasi tutti gli abitanti di Prato. 25 a ciò confortandogli: essendo d’accordo con loro su ciò.
Comprensione e analisi
Interpretazione
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza la trama della novella. 2. A quale ambiente sociale appartengono la protagonista, il marito e l’amante? 3. Qual è l’antefatto della vicenda? 4. Delinea l’atteggiamento del giudice nei confronti di Madonna Filippa. 5. Quali personaggi rivestono i seguenti ruoli: protagonista/antagonista/aiutante? 6. Descrivi la struttura narrativa della breve novella: quale sequenza occupa più spazio e riveste anche maggiore importanza? 7. Individua i punti salienti su cui poggia l’autodifesa di Filippa. 8. Sviluppa un’analisi dello stile di questa novella, con attenzione alle scelte sintattiche e lessicali, all’uso di figure retoriche. C’è un rapporto tra lo status sociale dei personaggi e le scelte espressive? La novella è inserita nella sesta giornata, incentrata sulla capacità di usare la parola per cavarsi d’impaccio. Il tema più generale è quindi quello dell’intelligenza, qui associato a quello dell’amore. Quali aspetti della visione boccacciana dell’una e dell’altro ti sembra traspaiano dalla novella? Filippa può essere associata ad altre figure femminili del Decameron: da un lato per la prontezza di spirito e per la capacità di cavarsela, dall’altro per la difesa del diritto delle donne all’eros. Fai opportuni confronti con altri testi presenti in questa antologia o da te conosciuti.
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da Armando Sapori, Lezioni di storia economica, La Goliardica, Milano 1960
Che il mercante italiano sia stato un modello di virtù non sostengo di certo. Sia un astigiano, o un piacentino, o un senese alle fiere di Sciampagna; sia un Riccardi lucchese, o un Frescobaldi, o un Bardi o un Peruzzi alla corte del re d’Inghilterra o del re di Francia, tutti ebbero talmente di mira il guadagno da sacrificare non poco i valori morali al conseguimento della ricchezza; da commettere non pochi peccati di fronte e Dio e non poche frodi di fronte alla legge terrestre. Ma quegli uomini, bene o male operando, operarono sempre con grandezza. E sempre furono agitati da passioni che alla loro vita dettero il carattere continuo del dramma. Bramosi di ricchezza, sì, ma anche tormentati dall’idea del peccato, che li spingeva ad opere di pietà fino alla costruzione, durante la loro vita, di templi che sono rimasti specchio perenne di bellezza. In lotta fra di loro sì, ma appassionati della cosa pubblica, che dirigevano contemporaneamente alle aziende, alternando il lavoro nel fondaco e le sedute nei palazzi comunali. Pronti a decidere una guerra per lo sbocco delle loro mercanzie, sì, ma anche decisi a vuotare i forzieri per quella guerra, e cadere con la fronte al nemico. Avveduti nel trattare i minuti affari; ma audaci fino a sovvenzionare un Edoardo III nelle prime campagne della guerra dei Cento Anni. Ripeto: è questo cozzare, ed è questo alternarsi di sentimenti ognuno dei quali li impegnava senza riserva, che dà il senso eroico della loro vita. La quale si forgiava e si consumava in un gran fuoco di odio e amore, di cupidigia e di generosità, di azzardo e di temerarietà. Quelle figure, d’altronde, si stagliano appropriatamente sullo sfondo del tempo loro: delle Crociate che furono slancio di fede e imprese commerciali; della Chiesa che condannava l’interesse del denaro e riceveva e pagava interessi usurari, dando il via, attraverso le compagnie italiane alle quali affidava la gestione delle decime pontificie, al vero e proprio capitalismo; dei Comuni, che si avviavano alla fase culminante della loro fortuna per scendere la china che avreb-
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be portato generalmente alle Signorie; dei grandi Stati europei, nei quali, mentre si consolidavano le organizzazioni finanziarie e militari, si rafforzava la posizione dei sovrani, premessa a una politica sempre più consapevole e decisa nel senso nazionale. Alla fine del Trecento tante di queste cose erano modificate, e tante altre stavano venendo a maturazione. Il periodo epico, se così vogliamo dire, era superato. I protagonisti del tempo nuovo non potevano avere il volto e l’anima di quelli dell’antico. [...] La follia per la ricchezza è divenuta avarizia nel senso gretto della parola. Il calcolo avveduto è diventato piccola ricerca dell’opportunità. L’ambizione dell’intimità con i potenti del mondo non porta più ad essere ricevuti nel palazzo reale da un re che stende la mano a «carissimi amici», o a ricevere in casa propria un sovrano con cui si conclude un trattato politico e militare. Tutt’al più si accoglie un principe di passaggio, che domanda un po’ di soldi per proseguire il cammino e lascia un vano diploma di benservito. La partecipazione alla cosa pubblica non è più intesa alla direzione delle città per assumere responsabilità, ma consiste nell’avvicinare gli uomini di governo per ottenere riduzioni di prestanze. La fede non è più un dramma. È una commediola che si recita tutti i giorni, scrivendo di pentimenti agli amici senza provare mai interna rivolta al proprio peccato. E potrei continuare.
Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è la tesi dello storico? Con quali argomenti la sostiene? 2. Come viene delineato il ritratto dei mercanti italiani nella fase della loro ascesa? 3. Qual è il significato dei riferimenti alla Crociate, ai comportamenti della Chiesa nei confronti del denaro, ai Comuni eccetera? 4. La trasformazione dei mercanti alla fine del Trecento è costruita sul piano formale ed espressa attraverso un procedimento simmetrico. Illustralo.
Produzione
Testimonianze artistiche, testi letterari, studi storici concorrono a documentare il ruolo centrale che il ceto mercantile ebbe nell’edificazione della civiltà medievale, sul piano non solo economico, ma anche sociale, politico, culturale, proponendo nuovi modelli – non privi di contraddizioni – ma dinamici e innovativi. Discuti la questione in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso. Puoi confrontarti con le tesi espresse nel testo sulla base delle tue conoscenze e delle tue letture.
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Nel corso della storia, l’umanità è sempre stata minacciata da epidemie che hanno segnato profondamente certe epoche storiche con effetti sconvolgenti non solo sulla vita materiale della società del tempo, ma anche sulla psicologia delle persone che furono testimoni di quelle catastrofi. Lo stesso Boccaccio, nell’Introduzione al Decameron, racconta sia dei terribili effetti della malattia sui corpi, sia di come la sciagura colpisca e muti in peggio l’animo umano e la mente degli uomini. Secondo te, è ancora possibile che le epidemie sconvolgano la nostra società? Rifletti articolando in modo motivato le tue considerazioni e convinzioni al riguardo, tenendo conto anche della recente pandemia che ha colpito il mondo.
764 Duecento e Trecento 8 Giovanni Boccaccio
Duecento e trecento CAPITOLO
9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale
Nella società medievale la cultura e l’educazione sono gestite esclusivamente dagli uomini, per lungo tempo chierici, ma poi anche laici, che mirano a modellare secondo rigidi parametri eticocomportamentali gli stili di vita delle donne. Nella cultura delle origini la voce delle donne si esprime raramente, alcune testimonianze sono legate all’ambito religioso: spiccano per la loro originalità, anche stilistico-linguistica, gli scritti delle mistiche, come Angela da Foligno e Caterina da Siena (1347-1380). In compenso sia la cultura dei chierici sia la letteratura laica fanno costantemente riferimento alla figura femminile. Mentre la prima collega la figura della donna alla sfera del peccaminoso, se non addirittura del demoniaco, la letteratura laica, invece, dà spazio a un’esaltazione e idealizzazione delle donne, ma in sostanza eludendo un reale confronto con il “femminile”. Fa eccezione Boccaccio, precursore anche in questo caso di una visione aperta e moderna dei comportamenti e dell’etica.
sulle donne/parole 1 Parole alle donne
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Parole sulle donne/parole alle donne 1 «Tu sei la porta del demonio»
Lessico misogino Il termine deriva dalla lingua greca, è composto da miso (dal verbo “odiare”) e da guné (“donna”): indica dunque chi prova repulsione, avversione e disprezzo nei confronti delle donne.
La visione misogina dei chierici La civiltà medievale per secoli fu caratterizzata da uno spirito fortemente misogino , indubbiamente collegato al ruolo centrale svolto dalla Chiesa e alla preminenza dei chierici nella cultura e nella società. Le posizioni misogine dei chierici attingono direttamente ai testi dei primi secoli della cultura cristiana, ai “padri della Chiesa” (Ambrogio, Gerolamo, Agostino): in questi autori il racconto biblico della Genesi è utilizzato per costruire una visione pesantemente negativa della donna, condensata nella figura di Eva, cui viene attribuita la principale responsabilità della caduta morale e della cacciata dall’Eden. Già lo scrittore cristiano Tertulliano (ca. 150-220), ad esempio, riferendosi alla donna scrive: «Tu sei la porta del Demonio, tu sei stata acquiescente al suo albero, tu prima hai violato la legge divina». Il disprezzo della donna può essere spiegato innanzitutto con la lontananza “fisica” tra gli uomini della Chiesa e le donne; prima del XIII secolo monaci e chierici vivevano infatti molto lontani dal mondo femminile, ritirati dentro un universo esclusivamente maschile: le abbazie, gli scriptoria, le scuole religiose. Inoltre, in seguito alla riforma voluta da papa Gregorio VII (1073-1085), la Chiesa estende a tutti gli uomini che fanno parte della Chiesa l’obbligo del celibato a imitazione della vita monastica: da qui i ricorrenti attacchi alla debolezza e corruzione del sesso femminile.
La persistenza di posizioni misogine nella società comunale Il tramonto dell’egemonia culturale della Chiesa, l’affermarsi della società comunale e della cultura laica porteranno inevitabilmente nel XIII secolo a un attenuarsi delle più violente posizioni misogine, ma certamente esse non scompariranno del tutto, soprattutto all’interno della cultura clericale (➜ D1 OL). D’altra parte persino nell’opera di Dante, che pure compie lo sforzo più grande per nobilitare, sublimandola, la figura femminile, ne rimane più di una traccia: nella Vita nuova (cap. XIX) Dante distingue ad esempio le «donne gentili» dalle «pure femmine». Nel Purgatorio (c. VIII) il nobile Currado Malaspina, lamentando le nuove nozze della moglie, rimasta vedova di lui, amaramente constata che l’esempio di sua moglie dimostra «quanto in femmina foco d’amor dura, / se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende» (vv. 77-78). Che la tradizione misogina persistesse ben oltre il tramonto della cultura clericale lo dimostra la ritrattazione compiuta da Boccaccio nella tarda opera Corbaccio delle liberali prese di posizione verso le donne espresse in precedenza nel Decameron; dopo di lui, la tradizione novellistica attribuisce alle donne insaziabili online appetiti sessuali, per arrivare a Machiavelli che, pur nel clima D1 Stefano di Borbone ormai disincantato del Rinascimento, nella novella Belfagor Contro gli ornamenti sontuosi delle donne: un esempio misogino arcidiavolo (1518) riprende con rinnovato sarcasmo la satira Tractatus de diversis materiis praedicabilibus contro le donne.
766 Duecento e Trecento 9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale
2 Le prediche alle donne e la pedagogia “al femminile” L’interesse della Chiesa per le donne In rapporto alle trasformazioni sociali che si verificano tra l’XI e il XIII secolo, la Chiesa affianca al modello monastico la figura di un religioso che vive tra la gente e diffonde la parola di Cristo nelle università e nelle piazze. Nella nuova visione del ruolo della Chiesa che viene affidata agli ordini mendicanti, le donne diventano un interlocutore importante: non più disprezzate e condannate, a esse si rivolgono anzi con particolare attenzione i predicatori francescani e domenicani, consapevoli di quanto fosse importante una “pedagogia al femminile” che fosse controllata dalla Chiesa. Uno dei predicatori più importanti è il domenicano Umberto da Romans (1200 ca-1277). Il testo da cui è tratto il brano che presentiamo (➜ D2a ) è un manuale per i predicatori, scritto verso la metà del secolo XIII; esso si riferisce alla predicazione ad status, cioè non generica, ma espressamente indirizzata a particolari tipi di uditorio, ciascuno appartenente a un ben preciso ambito sociale e contraddistinto da peculiari caratteristiche psicologiche (una specifica audience, oggi diremmo). Alle giovani nobili e ricche viene offerto un modello di comportamento molto preciso e adatto al loro ruolo sociale, che comprende anche la possibilità di accostarsi allo studio, un uso che nel Basso Medioevo si era ormai gradualmente diffuso tra i ceti sociali più elevati. Al confronto appare ben più rigida e conservatrice la posizione di un rappresentante della tarda società comunale appartenente al ceto mercantile, Paolo da Certaldo, come si può notare nel passo tratto dal Libro di buoni costumi (➜ D2b ).
La crescente diffusione dell’istruzione femminile si rispecchia anche nelle rappresentazioni iconografiche del tardo Medioevo, in cui è abbastanza frequente la raffigurazione delle sante con un libro, a sottolinearne la cultura. Nella stessa epoca si impone anche la rappresentazione della Madonna come “Vergine che legge”, talvolta sorpresa dall’Angelo dell’Annunciazione proprio durante la lettura. A fianco: Robert Campin, Santa Barbara che legge, part. del Trittico Werl, 1438, olio su tavola (Museo del Prado, Madrid).
Parole sulle donne/parole alle donne 1 767
Testi In dialogo
Sull’educazione delle ragazze Umberto da Romans
D2a
Un modello di predica per le adolescenti De eruditione predicatorum Umberto da Romans propone ai predicatori una traccia utile per costruire le prediche rivolte alle fanciulle, in particolare a quelle di elevata condizione sociale. Il testo indica indirettamente la finalità dell’istruzione femminile nella visione della Chiesa.
Prediche alle donne del secolo XIII, a cura di C. Casagrande, Bompiani, Milano 1978
Si noti dunque che queste fanciulle, soprattutto quando sono figlie di genitori ricchi, devono apprendere volentieri perché a questo studio sono destinate dai genitori; infatti grazie ad esso sono in grado di recitare al momento giusto il Salterio, le Ore1 sulla Vergine Maria, la funzione in onore dei morti o le altre orazioni che si devo5 no dire a Dio; dopo questo studio sono più adatte alla vita religiosa se un giorno volessero entrarvi o comprendono meglio le Sacre Scritture, come accadde a Paola e a Eustochio2 e ad altre che trascorrevano il tempo in compagnia di vergini, e che, grazie alle cognizioni letterarie che vi imparavano, migliorarono tanto da penetrare profondamente le Sacre Scritture. Di questo tipo di educazione ci offre un esempio 10 la Beata Agnese che frequentava le scuole, le Beate Caterina, Cecilia, Lucia e Agata che furono tutte donne istruite, come leggiamo nelle loro leggende3. Le fanciulle non devono perciò occuparsi della bellezza del loro abbigliamento, sull’esempio di Ester che, pur dovendosi presentare al re nella speranza di diventare regina, non si preoccupò di queste cose da donne, come le altre fanciulle4. Queste furono tutte 15 respinte e lei fu innalzata al trono. [...] E perciò quelle che si curano eccessivamente dei loro abbigliamenti devono temere di essere respinte dal regno dei cieli. Le fanciulle devono guardarsi dalle frivolezze che ci sono nei canti e nelle danze e in cose simili, sull’esempio di Sara [...]. Davanti a ogni genere d’uomo devono ritrarsi spaventate. Che non si presentino mai da sole davanti a un uomo, perché non 20 accada loro quello che accadde a Thamar, corrotta da suo fratello Amon quando, allontanati gli altri, rimase sola con lui. Devono avere come padre5 qualche buon religioso al cui consiglio e alla cui dottrina affidarsi in ogni occasione, come faceva Ester quando era fanciulla che si affidava al consiglio di Mardocheo. 25 Non devono andare in giro ma stare con i genitori o con altre donne più anziane, come facevano le ancelle di Giuditta che se ne stavano rinchiuse insieme a lei. Devono volgere i loro cuori all’ardente amore di un solo uomo, Gesù Cristo, sull’esempio di quelle di cui sta scritto al capitolo primo del Cantico dei Cantici: Le fanciulle ti amarono. 1 il Salterio, le Ore: il Salterio è la raccolta dei Salmi; le Ore indicano orazioni recitate in precisi momenti della giornata. 2 Paola... Eustochio: madre e figlia, furono destinatarie di alcune lettere di san Gerolamo. 3 le Beate… leggende: l’esempio delle sante citate è scelto abilmente da Umberto da Romans, perché le fanciulle destinatarie della pre-
dicazione, ossia giovani «figlie di genitori ricchi», destinate all’istruzione, vi si potessero identificare. Le sante nominate erano infatti di condizione sociale elevata e furono martirizzate in giovane età. Con il termine leggende Umberto da Romans allude alle vite dei santi. 4 sull’esempio... fanciulle: il riferimento allude a un episodio biblico (Ester 2): Ester, come altre
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giovani, si presentò al re persiano Assuero, che voleva scegliere una nuova sposa. Pur avendo potuto ottenere, come le altre fanciulle, tutto quello che riteneva necessario per rendersi più bella, Ester si limitò nelle sue richieste. Secondo il predicatore simboleggia colei che coltiva la propria interiorità, più che il fascino esteriore. 5 padre: è il padre spirituale.
Paolo da certaldo
D2b
EDUCAZIONE CIVICA
Come si devono educare le ragazze
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
Libro di buoni costumi Il Libro di buoni costumi, scritto nella seconda metà del XIV secolo dal mercante Paolo da Certaldo, è un manuale di suggerimenti pratici riguardanti la condotta familiare e il commercio, rivolto ai membri della classe sociale cui lo stesso Paolo apparteneva. Si tratta di consigli ispirati all’etica mercantile e al pragmatismo. Colpisce nel testo la netta differenza che viene suggerita dall’autore nell’educazione dei ragazzi maschi e delle fanciulle, secondo un’ottica ben più conservatrice di quella del predicatore Umberto da Romans. Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi, a c. di A. Schiaffini, Le Monnier, Firenze 1945
Lo fanciullo si vuole tenere bene netto1 e caldo, e spesso cercarlo e provederlo tutto a membro a membro2; [...]. E poi, ne’ sei o ne’ sette anni, porlo a leggere; e poi, o fallo studiare o pollo a quella arte che più gli diletta3: e verranne buono maestro4. E s’ell’è fanciulla femina, polla a cuscire5, e none6 a leggere, che non istà troppo 5 bene a una femina sapere leggere se già no la volessi fare monaca7. Se la vuoli fare monaca, mettila nel munistero8 anzi ch’abbia la malizia di conoscere le vanità del mondo e là entro imparerà a leggere. Il fanciullo maschio pasci9 bene, e vesti come puoi, intendi a giusto modo e onesto, sì fia forte e atante10; e se ’l vestirai bene, userà co’ buoni11. La fanciulla femina vesti bene, e come la pasci no le cale, pur ch’abbia 10 sua vita12: no la tenere troppo grassa. E ’nsegnale fare tutti i fatti de la masserizia di casa13, cioè il pane, lavare il cappone, abburattare14 e cuocere e far bucato, e fare il letto, e filare, e tessere borse francesche15 o recamare seta con ago, e tagliare panni lini e lani16, e rimpedulare17 le calze, e tutte simili cose, sì che quando la mariti non paia una decima18 e non sia detto che venga del bosco. E non sarai bestemmiata19 15 tu che l’avrai allevata. 1 netto: pulito. 2 cercarlo… a membro: ispezionarlo attentamente in tutto il corpo. 3 pollo... gli diletta: indirizzalo perché si applichi con un apprendistato nell’occupazione che più gli piace. 4 verranne buono maestro: ne verrà fuori un buon “maestro”, ovvero in questo contesto chi insegnava il mestiere agli apprendisti nelle botteghe.
5 polla a cuscire: mettila a imparare il cucito. 6 none: non. 7 se già… monaca: a meno che tu voglia fare di lei una monaca. 8 munistero: monastero. 9 pasci: nutri. 10 intendi… atante: in modo giusto e decoroso, cosicché sia forte e robusto. 11 userà co’ buoni: frequenterà persone di grado sociale elevato.
12 come la pasci… sua vita: non importa come la nutri, purché abbia di che vivere. 13 i fatti... di casa: le varie faccende di casa. 14 abburattare: setacciare la farina. 15 borse francesche: borse tessute come si usa in Francia. 16 lini e lani: di lino e di lana. 17 rimpedulare: rammendare. 18 una decima: una ragazza ottusa (toscanismo). 19 bestemmiata: maledetta.
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSIone 1. Analizza, creando una tabella, le differenze nel modo di educare i ragazzi e le ragazze proposte da Paolo da Certaldo. Poi presenta i dati raccolti in un breve testo (max 10 righe). 2. Qual è l’obiettivo dell’istruzione femminile per Umberto da Romans?
Interpretare
AnALISI 3. Quali funzioni rivestono i molteplici riferimenti alle sante presenti nel testo? teStI A conFronto
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
4. Confronta il passo di Paolo da Certaldo (➜ D2b ) con quello di Umberto da Romans (➜ D2a ) per quanto riguarda il rapporto delle ragazze con la lettura e poi fai una tua riflessione critica.
Parole sulle donne/parole alle donne 1 769
3 La letteratura laica delle origini e le donne L’uso “metaforico” della figura femminile per dire “altro” A parte casi del tutto eccezionali (vedi PAG. 772ss., Parole delle donne) la donna è assente dalla produzione culturale del Medioevo e ha per lo più un ruolo marginale nella società. Del resto l’istruzione impartita alle donne era molto limitata e in ogni caso riguardava i ceti più elevati. Per contro, i testi letterari prodotti dalla cultura laica, avendo come centro tematico l’esperienza amorosa, parlano moltissimo di donne e, al contrario dei chierici, non solo esaltano la figura femminile ma ne fanno addirittura il centro dell’ispirazione. Come spiegare questo fenomeno? Come è stato osservato, la cultura laica maschile si è servita della figura femminile – in particolare nella produzione lirica – come figurazione-chiave per definire i propri valori. L’immagine della donna è stata utilizzata in termini metaforici e quindi tendenzialmente astratti, che eludono un rapporto reale con la donna: non è la donna reale infatti quella che domina i testi dei poeti siciliani e degli stilnovisti, ma la rappresentazione concettuale di essa elaborata dalla cultura maschile secondo i propri schemi mentali e culturali. Del resto già nella letteratura provenzale, che ha elaborato il modello cortese poi trasmesso alle altre culture occidentali, l’amore non è certo personale esperienza sentimentale, ma piuttosto riproduzione dei modelli etico-comportamentali della corte feudale, e la donna è immagine mitizzata e stilizzata. Negli stilnovisti l’esperienza amorosa diventa strumento di un processo di elevazione intellettuale e insieme morale, finalizzato a distinguere un gruppo intellettuale elitario (quello appunto degli stilnovisti) dai valori prosaici della società borghese e mercantile dei comuni. Inoltre, l’elaborazione del mito poetico della donna-angelo consente all’intellettuale di operare una conciliazione altrimenti impossibile tra il tema amoroso e la dimensione religiosa.
Allegoria del giardino d’Amore in una miniatura francese (metà secolo. XIV) del Roman de la Rose.
770 Duecento e Trecento 9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale
L’esempio più celebre di utilizzazione per certi aspetti “strumentale” della figura femminile è la Beatrice dantesca: come scrive efficacemente Marina Zancan, «Beatrice [...] accompagna Dante nel suo percorso intellettuale da questa prima opera [la Vita nuova] fino alla Commedia, mutando nel tragitto veste e funzioni, senza tuttavia perdere mai il significato profondo di grande metafora di uno straordinario processo intellettuale». Dante “attraverso” Beatrice delinea il proprio percorso insieme esistenziale-spirituale e poetico. Allo stesso modo Petrarca dispone i componimenti poetici del suo Canzoniere attorno all’amore contrastato e sofferto per Laura, una figura femminile sulla cui reale esistenza non a caso i contemporanei del poeta avanzarono qualche dubbio. Un diverso sguardo sul “femminile” nel Decameron di Boccaccio Nel capolavoro di Boccaccio la figura femminile acquista una diversa rilevanza: innanzitutto proprio alle donne lo scrittore indirizza elettivamente la sua opera, immaginandole significativamente desiderose di ascoltare le sue novelle come antidoto alla noia di una vita reclusa e costretta all’ozio. Inoltre, nella finzione narrativa della “cornice” che motiva le cento novelle, è una donna, Pampinea, ad avere l’idea di allontanarsi da Firenze in preda alla peste e a guidare il gruppo dei giovani. Ma soprattutto alle donne è attribuito nell’opera di Boccaccio il ruolo importante di narratrici, equiparate agli uomini nell’uso della parola narrativa e persino nel giudizio critico sui comportamenti evocati dalle varie novelle, che precede e segue i racconti. Sicuramente innovativa poi è la difesa del diritto delle donne all’eros che l’opera di Boccaccio testimonia nel suo complesso. Addirittura l’autore arriva a mettere in bocca ad alcune sue eroine tale difesa: tra di esse spicca Ghismonda, la figlia del principe Tancredi (Dec. IV, 1). In questo caso non solo Boccaccio riconosce anche nella donna la naturalezza dell’istinto erotico ma, attraverso il lungo discorso diretto messo in bocca a Ghismonda, concede alla donna il più importante dei diritti: quello della parola, per di più una parola impiegata proprio per difendere l’equivalenza uomo-donna in campo erotico. Un copione che è ripetuto in una situazione più “leggera” e in una novella a lieto fine, quella che ha per protagonista Madonna Filippa. IMMAGINE INTERATTIVA
Vanità, particolare dell’Allegoria del Mal Governo nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339, Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena).
Parole sulle donne/parole alle donne 1 771
2
Parole delle donne 1 Le voci delle mistiche
L’uomo universale, da Liber Divinorum Operum, folio 9, codice del XIII secolo, Biblioteca statale, Lucca.
Le donne e l’esperienza mistica Nei primi secoli della letteratura italiana, tranne alcune eccezioni (come quella della rimatrice Nina Siciliana o della poetessa Compiuta Donzella, che ci ha lasciato tre sonetti, o delle poetesse di Fabriano), la presenza femminile è rarissima. Al generale silenzio delle donne, alla loro sostanziale assenza nella scrittura laica delle origini, si contrappone una forte presenza femminile nella scrittura religiosa (almeno fino al XVI secolo). È significativo che tra le voci femminili di un qualche spessore della nostra letteratura ci sia quella di una mistica, Caterina da Siena (1347-1380). Sono infatti quasi esclusivamente le voci delle mistiche a farsi sentire con forza nel Medioevo, anche se per lo più attraverso il “filtro” maschile dei loro confessori o dei seguaci che trascrivono le loro parole. Il particolare coinvolgimento delle donne nell’esperienza mistica (testimoniato anche dal gran numero di donne canonizzate negli ultimi tre secoli del Medioevo), non riguarda solo l’Italia ma anche altre zone d’Europa (ricordiamo, tra i vari nomi citabili, la tedesca Ildegarda di Bingen (1098-1179) e l’ungherese Elisabetta di Turingia (1207-1231). Come si spiega la fioritura di una letteratura mistica “al femminile”? Le donne non potevano allora diventare teologhe, insegnare nelle università o predicare, tranne rarissime eccezioni. Per esprimere la propria visione del mondo e del rapporto con Dio, alle donne non restava altra possibilità che il “discorso mistico”, quello meno subordinato alle forme culturali codificate: grazie al carisma della loro condizione di mistiche, alcune di queste donne trovano il coraggio di dialogare alla pari con potenti e con ecclesiastici, usando la parola con eloquenza profetica, come Ildegarda di Bingen. Ildegarda di Bingen, una figura carismatica Nata nel 1098 in una nobile famiglia tedesca, Ildegarda di Bingen viene educata fin da bambina in un monastero presso Magonza, di cui diventa poi badessa. In seguito fonda il monastero benedettino di Bingen che guiderà con autorevolezza, in sostanziale autonomia dalle autorità ecclesiastiche, fino alla morte (1179). Ma dal monastero uscirà in più occasioni per predicare in varie località, come Magonza, Colonia, Metz. Che una donna predicasse e che una monaca di clausura varcasse le soglie del convento per incontrare filosofi, vescovi, principi non era certo usuale nel XII secolo, ma la fama di Ildegarda
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come mistica e donna di grande sapienza e di straordinario carisma era così diffusa che il papa stesso le aveva concesso un permesso speciale. Fin da bambina Ildegarda ha delle visioni, ma le tiene a lungo segrete e inizia a parlarne solo verso i quarant’anni. Nel trattato Sci vias (lett. “conosci le vie”) enuncia visioni del cosmo e profetiche che contengono duri attacchi ai potenti del tempo. Ildegarda era donna di eclettici interessi, che spaziavano dalla cosmologia alla teologia alla musica (compone straordinari testi musicali che anticipano di anni l’evoluzione delle forme musicali), alla linguistica (idea addirittura una lingua artificiale). Scrive anche trattati di scienze naturali e di medicina (Physica e Causae et curae) secondo l’ottica enciclopedica del tempo. Ildegarda anticipa una visione olistica della salute, oggi molto diffusa soprattutto nella medicina naturale, ritenendo anima, mente e corpo strettamente connessi per quanto riguarda sia lo stato di benessere sia la malattia. È anche considerata una precorritrice della naturopatia. Ma Ildegarda attribuisce ogni sua conoscenza a Dio che le fornisce la conoscenza attraverso visioni rivelatrici. In una immagine molto significativa da lei stessa realizzata in un suo manoscritto, si rappresenta come una figurina minuscola che quasi sparisce in fondo alla pagina, mentre scrive, o meglio trascrive quello che Dio le rivela, come fosse solo una umile copista: il resto della pagina è totalmente occupato dall’immagine dell’uomo inserito armonicamente nel cosmo, vivificato dall’amore di Dio (rappresentato simbolicamente dalle fiamme). Come le altre mistiche anche Ildegarda usa un linguaggio visivo, simbolico, ricco di immagini. Beatificata già nel 1324, nel 2012 è stata proclamata santa e nominata dottore della Chiesa da papa Benedetto XVI. Nel 2009 la regista tedesca Margarethe von Trotta ha ricostruito la figura di Ildegarda nel film Vision. In Italia la santa tedesca ha ispirato musicisti raffinati e “alternativi” come Angelo Branduardi e Franco Battiato. Una lingua “altra”: la parola delle mistiche Proprio mentre riescono ad appropriarsi della parola, le mistiche ne constatano però l’insufficienza, la debolezza. Forse proprio perché esse rinunciano alla mediazione razionale, l’evento spirituale dell’estasi mistica passa spesso nelle scrittrici mistiche attraverso il linguaggio dei sensi e del corpo: da qui la frequenza nei testi delle mistiche di riferimenti fisiologici, di richiami al tatto, al gusto, all’udito (oltre che alla vista). La studiosa Danielle Régnier-Bohler ha parlato di «lingua totale», di una sintassi nuova in cui si verifica una piena fusione tra corpo (affinato attraverso l’ascesi) e anima: l’anima usa il linguaggio del corpo, ma è un corpo che non appartiene alla dimensione terrena, diventa esso stesso strumento di percezione e accoglimento del divino. Il digiuno ascetico e la negazione del corpo In una cultura che demonizzava, in nome degli ideali ascetici, il corpo femminile ed esaltava come modello la verginità di Maria (➜ SCENARI, PAG. 45), l’unica scelta possibile per le donne per poter accedere al confronto con gli uomini di cultura era quella della mortificazione della propria corporeità. Figure di “intellettuali scomode”, come Caterina da Siena, praticano un’ascesi severa. Proprio le dure penitenze cui si sottopongono le rendono degne del rispetto e addirittura dell’ammirazione degli intellettuali della Chiesa: ad esempio, il teologo “dissidente” Ubertino da Casale incontra Angela da Foligno e dichiara di essere stato fortemente segnato dall’incontro con lei; il papa accetta Caterina da Siena come interlocutrice sui problemi della Chiesa. Parole delle donne 2 773
2 «Una donna in lotta con la sua voce»: Caterina da Siena
Lessico terziario Il termine indica un fedele cattolico che, non facendo parte di un ordine religioso, maschile (primo) oppure femminile (secondo), segue, associato con altri, una regola terza ispirata al primo ordine di riferimento (vi sono quindi terziari domenicani, terziari francescani, terziari carmelitani ecc.).
Una straordinaria figura di donna «Una donna in lotta solo con la sua voce»: così un grande scrittore del primo Novecento, Federigo Tozzi, in una sua antologia delle lettere di Caterina da Siena, definisce Caterina Benincasa (1347-1380), sua concittadina. Di umili origini, Caterina avverte fin da bambina una forte vocazione religiosa. Nel 1363 diventa terziaria domenicana e inizia una vita di dura penitenza e di servizio ai malati, agli ultimi. Straordinaria oratrice, usava la parola con forza persuasiva e per questo nella sua vita, all’esperienza mistica privata si accompagnò un’attività pubblica e politica a favore della pace e del rinnovamento morale della Chiesa e della società intera. Le missioni etico politiche di Caterina A questa donna (per di più semianalfabeta) il comune di Firenze affidò importanti missioni: si recò a Pisa, a Siena insieme al suo confessore, Raimondo da Capua. Si arrivò ad affidarle il ruolo di ambasciatrice del comune di Firenze presso il papa ad Avignone (dove si era trasferita da circa settant’anni la sede del papato). Con la sua eloquenza irruente e provocatoria Caterina riuscì a ottenere il ritorno del papa Gregorio XI a Roma nel 1377 (o per lo meno l’opinione pubblica ne attribuì a lei il merito). Come per altre mistiche, il rapporto paritario che Caterina istituisce con politici ed eminenti uomini di Chiesa, è giustificato dal contatto privilegiato che riteneva di avere con Dio, di cui si fa testimone e portavoce tra gli uomini. Tra i suoi seguaci (i “caterinati”), forse il più fervente fu Raimondo da Capua, proprio il direttore spirituale che l’ordine domenicano le aveva assegnato come guida, dopo averla convocata a Firenze perché sospetta di eresia. Gli scritti di Caterina: una voce ispirata e polemica Ai suoi seguaci Caterina, oltre al Dialogo della Divina Provvidenza, dettato pare in stato di estasi mistica, detta le sue lettere (in tutto 381, particolarmente importanti quelle rivolte a Raimondo da Capua), che apostrofano i potenti, persino il papa, senza alcun timore reverenziale. Caterina usa spesso verbi assertivi o addirittura impositivi come vi impongo, esigo (e questo con nobili o addirittura regnanti); in una sola lettera arriva a usare 13 volte il verbo voglio, a testimonianza di un temperamento combattivo, di una concezione eroica, militante della fede. Ricorrente, addirittura ossessivo, è il riferimento al sangue (➜ T1b ), che rimanda alla centralità del mistero della passione di Cristo nell’immaginario mistico di Caterina. Nei suoi scritti, seppur filtrati dalla mediazione culturale degli adepti, si riconosce comunque l’impronta di una fortissima personalità: il tono è sempre passionale, enfatico, il registro stilistico uguale per ogni ceto sociale (perché Caterina si sentiva la portavoce di Dio), il linguaggio, denso di riferimenti biblici, vicino all’oralità nelle frequenti interiezioni e nel lessico a volte domestico-familiare. Canonizzata nel 1461, Caterina è proclamata dottore della Chiesa nel 1970 da papa Paolo VI.
Santa Caterina da Siena riceve le stimmate in un dipinto di Giovanni di Paolo di Grazia (1447-1465 ca, Metropolitan Museum of Art, New York).
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Le parole del discorso mistico femminile
T1 online T1a Angela da Foligno
I testi proposti documentano la forza persuasiva delle parole delle mistiche, affidata più alla dimensione emozionale che alla logica razionale.
La mia anima fu rapita in estasi Memoriale di frate Arnaldo, cap. VII
Caterina da Siena
T1b
«Annegatevi nel sangue di Cristo» Epistolario
Caterina da Siena, Epistolario, a c. di U. Meattini, Edizioni Paoline, Roma 1979
La lettera (di cui presentiamo la parte conclusiva) fa parte di un ampio corpus di 381 missive indirizzate da Caterina da Siena a cardinali, papi e, come in questo caso, al suo padre spirituale e confessore, il teologo Raimondo da Capua.
Or gittiamo i denti lattaioli1, e studiamci di mettere i denti gravati dell’odio e dell’amore2. Mettiamci la panciera della carità con lo scudo3 della santissima fede; e, come uomini cresciuti4 corriamo al campo della battaglia, e stiamo fermi, con una croce di dietro e una dinanzi, acciocché non potiamo5 fuggire; che andandovi 5 grandi e armati, non saremo più cacciati dal campo. Acciocché Dio in voi e in me e negli altri infonda questa grazia; oggi cominceremo ad offerire lagrime con ansietato6 desiderio dolce, per lo ringraziamento de’ benefizii nuovamente ricevuti da lui, e amaro, per la mia e vostra imperfezione, che ci ha privati di tanto bene. Annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso; bagnatevi nel sangue: saziatevi 10 di sangue; inebriatevi di sangue; vestitevi di sangue; doletevi di voi nel sangue; rallegratevi nel sangue: crescete e fortificatevi nel sangue; perdete la debilezza e cechità7 nel sangue dello immacolato Agnello; e col lume correte come virile cavaliere, a cercare l’onore di Dio, il bene della santa Chiesa e la salute dell’anime nel sangue. Altro non vi dico. Permanete nella santa e dolce dilezione di Dio. 15 Gesù dolce, Gesù amore.
Lorenzo Salimbeni, Matrimonio mistico di Santa Caterina, 1400, tempere su tavola (Pinacoteca civica Tacchi-Venturi, San Severino Marche). 1 i denti lattaioli: i denti da latte. Immagine evidentemente metaforica, con cui Caterina intende alludere a un atteggiamento poco combattivo, rinunciatario, che rimprovera a Raimondo da Capua. Nella prima parte del testo Caterina definisce il suo padre spirituale «fanciullo di latte», non ancora «degno di stare in sul campo di battaglia».
2 studiamci... amore: cerchiamo di mettere la dentatura definitiva, da adulto. 3 la panciera… lo scudo: metafore tratte dal campo militare, usate sempre per alludere all’assunzione di un abito mentale nuovo (cfr. nota 1); panciera è la parte dell’armatura che serviva a coprire e proteggere il ventre.
4 come uomini cresciuti: in contrapposizione all’immagine del bambino evocata dai «denti lattaioli». 5 acciocché non potiamo: così che non possiamo. 6 ansietato: tormentosamente ansioso. 7 debilezza e cechità: debolezza e cecità (in senso spirituale).
Parole delle donne 2 775
Analisi del testo Il bisogno di combattere In questa lettera Caterina da Siena rimprovera al suo padre spirituale, Raimondo da Capua, un atteggiamento troppo remissivo e accondiscendente, identificato nell’immagine dei denti da latte, e lo invita ad assumere un atteggiamento adulto. Già dalle prime righe si può chiaramente comprendere il carattere combattivo di Caterina, la sua fede militante, che non contempla un atteggiamento che accetti supinamente lo stato delle cose.
La metafora della guerra Caterina ricorre all’uso di un linguaggio tipicamente militare (corriamo al campo, battaglia, armati) per spingere il suo padre spirituale ad assumere un atteggiamento completamente diverso.
Uno stile legato all’emozione Nella lettera Caterina mostra un’enorme partecipazione emotiva, evidenziata dallo stile caratterizzato da paratassi e da riprese di parole (sangue).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il testo proposto in max 10 righe. ANALISI 2. Quale immagine della visione religiosa e della singolare personalità di Caterina si può ricavare da questa ricorrenza? STILE 3. Identifica nel testo le immagini metaforiche ricorrenti, spiegale e indica il campo semantico cui appartengono. 4. Dopo aver individuato la parola chiave che spicca nella seconda parte del testo, prova a spiegare perché Caterina insiste ossessivamente su di essa.
Interpretare
SCRITTURA 5. Il brano è caratterizzato da un linguaggio fortemente figurato e denso di immagini. Qual è lo scopo di tale stile di scrittura? Motiva la tua risposta in un paragrafo di max 5 righe.
3 La voce di Eloisa Una drammatica storia d’amore Tra le poche testimonianze della parola femminile spicca, per la sua particolare suggestione, l’appassionata testimonianza di Eloisa (1101-1164), allieva e poi sposa del filosofo Pietro Abelardo (1079-1142), affidata alle lettere in latino che i due si scambiarono dopo la loro forzata separazione. Apre l’epistolario di Abelardo la celebre Historia calamitatum mearum (Storia delle mie disgrazie), nella quale il filosofo racconta a un amico la sua formazione e la sua tormentata storia di intellettuale, nella quale la relazione amorosa con Eloisa occupa un posto fondamentale. È appunto attraverso questa autobiografia che ne siamo a conoscenza, oltre che attraverso le lettere del carteggio tra Abelardo ed Eloisa che seguono (lettere dalla II alla XIII). Eloisa – di cui Abelardo scrive che «superava tutte per la sua profonda cultura» – gli era stata affidata come allieva (aveva appena 16-17 anni) da Fulberto, canonico di Notre-Dame a Parigi, di cui era la nipote, quando il brillante filosofo, già in età matura, era al culmine del suo successo.
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Tra maestro e allieva nasce una grande passione. I due hanno anche un figlio e si sposano in segreto. Ma Fulberto per punire Abelardo arriva a farlo evirare. Da quel momento i due amanti vivranno separati all’interno di due diverse istituzioni religiose. Eloisa rimarrà al monastero di Argenteuil fino al 1129; poi si trasferirà al Paracleto, il piccolo monastero fondato da Abelardo e meta dei suoi discepoli, di cui diverrà la badessa. Morto Abelardo lontano da lei, Eloisa ne richiederà il corpo per farlo seppellire in quel convento. Morirà ventidue anni dopo, e per sua espressa volontà sarà sepolta nella stessa cripta al fianco dell’amato Abelardo. Una coppia leggendaria Nel tempo la coppia Eloisa e Abelardo ha assunto tratti quasi leggendari, diventando il simbolo di una passione capace di vincere le convenzioni della società e le prove più dolorose. In questa prospettiva la vicenda dei due amanti ha ispirato più di una rappresentazione artistica: pittorica, musicale e letteraria. In particolare Jean-Jacques Rousseau ha voluto intitolare Julie ou la Nouvelle Héloïse (La nuova Eloisa), un romanzo epistolare (1761) nel quale viene rappresentata la vicenda di due amanti lacerati tra un’attrazione travolgente e il richiamo al dovere e alle regole sociali. In epoca romantica la tomba al cimitero parigino di Père-Lachaise, che dal 1814, l’anno della sua apertura, accoglie le spoglie dei due amanti e ne riproduce le fattezze, era meta di pellegrinaggio per giovani innamorati. L’epistolario di Abelardo ed Eloisa Il carteggio tra Eloisa e Abelardo inizia quando a Eloisa, che reggeva ormai la comunità religiosa del Paracleto, capita in mano per caso la lunga lettera a un amico, quasi una autobiografia, in cui Abelardo narra la sua dolorosa vicenda. Le principali lettere di Eloisa in risposta a quelle di Abelardo, sono la II, la IV, la VI. Minor rilevanza ai fini della ricostruzione del rapporto tra Eloisa e Abelardo hanno le lettere successive del loro carteggio (dalla VII alla XIII). Sull’autenticità dell’epistolario, di cui non esistono testimonianze manoscritte prima del XIII secolo, gli studiosi hanno a lungo dibattuto, senza pervenire a una conclusione univoca. Oggi la maggior parte degli studiosi tende a considerarlo autentico.
La presenza delle donne nella cultura medievale Prima del XIII secolo
separatezza anche fisica fra uomini di Chiesa e donne, viste quasi sempre in una luce negativa
Nel XIII secolo
nobilitazione della figura femminile che riproduce modelli comportamentali oppure è una proiezione di un processo intellettuale
Voci di donne nel Medioevo
mistiche
Ildegarda di Bingen
religiose
Caterina da Siena
laiche
Eloisa
Parole delle donne 2 777
Pietro Abelardo
D3
Eloisa scrive ad Abelardo
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Storia delle mie disgrazie P. Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettere d’amore di Abelardo e di Eloisa, a c. di F. Roncoroni, Garzanti, Milano 1980
Riportiamo un passo centrale della quarta lettera dell’epistolario, in cui Eloisa, che indirizza la sua missiva «a colui che è tutto per lei dopo Cristo», confessa senza reticenze, senza pudori, il persistere della passione sensuale per lo sposo anche nella vita claustrale.
Per me, in verità, i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né odiarli né dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi e il desiderio che suscitano non mi lascia mai. Anche quando dormo le loro fallaci immagini mi perseguitano. Persino durante la santa Messa, 5 quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima e io non posso far altro che abbandonarmi ad essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quel che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo 10 amati, i vari momenti in cui siamo stati insieme, e mi sembra di essere lì con te a fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi. Talvolta, da un movimento del mio corpo o da una parola che non sono riuscita a trattenere tutti capiscono quello a cui sto pensando. Allora mi sento un’infelice e posso ben esclamare anch’io con quella povera 15 anima in pena: «Oh, me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?», e potessi anch’io aggiungere davvero: «La grazia di Dio per nostro Signore Gesù Cristo!». Su di te, mio caro, questa grazia è già scesa, senza che tu la chiedessi: la ferita che hai ricevuto nel corpo, liberandoti da tutti questi stimoli, ti ha guarito anche dalle piaghe dell’anima: e proprio là dove sembrava che ti avesse 20 maggiormente danneggiato, Dio si è rivelato invece molto propizio, proprio come un buon medico che non esita a far soffrire il suo paziente quando vuol assicurargli la guarigione. Io invece sono giovane, facile preda alle lusinghe del piacere, e il ricordo stesso dei piaceri già gustati raddoppia il desiderio che mi brucia: in me gli stimoli della carne sono tanto più pericolosi quanto più debole 25 è la natura con cui hanno a che fare. La gente loda la mia castità, ma non sa che in realtà io sono un’ipocrita. Mi considerano virtuosa perché conservo pura la carne, ma la virtù è una cosa che riguarda l’anima, non il corpo. E se, nonostante tutto, gli uomini possono lodarmi, presso Dio non ho alcun merito, perché egli sonda il cuore e le reni, e vede 30 anche ciò che gli altri non possono vedere. Lodano la mia religiosità, ma oggi la religiosità in gran parte non è altro che ipocrisia, e per essere lodati basta non andare contro il senso comune.
Il cantore Konrad von Altstetten con la sua amante raffigurato in una miniatura del Codex Manesse, composto a Zurigo intorno al 1300 per raccogliere opere poetiche in lingua medio-alto tedesca, conservato nella biblioteca dell’università di Heidelberg.
778 Duecento e Trecento 9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale
Concetti chiave Il ricordo persistente dell’amore In questa lettera Eloisa afferma di ricordare con grande lucidità i momenti d’amore vissuti con Abelardo e non solo di ricordarli ma di averli ancora davanti ai suoi occhi anche nel sonno. Durante le funzioni religiose quelle immagini, le sensazioni provate si impadroniscono della sua anima a tal punto da dover abbandonare la preghiera. Lo stupore di Eloisa però risiede nel fatto che invece di provare vergogna per quanto accaduto sente dentro di sé un forte rimpianto. C’è però una differenza tra lei e il suo amato: Abelardo, dopo il torto subito, ha ricevuto la grazia di Dio guarendo dalla sofferenza d’amore e raggiungendo una pace che Eloisa non ha. Si accusa di essere un’ipocrita perché dagli altri viene vista come virtuosa e invece lei sa quanto il desiderio carnale divori la sua anima e quanto lei non possa porre freno a tutto ciò.
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
SInteSI 1. Sintetizza il contenuto della lettera in 10 righe e individua il tema principale. ScrItturA
EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo
Costituzione
competenza 3
Interpretare
#PROGETTOPARITÀ
2. Le parole di Eloisa sono di una sorprendente modernità, soprattutto se si tiene conto del fatto che appartengono a una donna del XII secolo, per di più ormai votata alla vita monacale: evidenzia i punti del testo che ti sembrano maggiormente significativi in questa prospettiva e commentali in un breve testo (max 30 righe). coMPetenZA DIGItALe 3. Svolgi una ricerca su Internet riguardo alla celebre coppia Abelardo ed Eloisa e poi completa la breve didascalia all’immagine sotto (max 3 righe).
Abelardo ed Eloisa, in una miniatura del Roman de la Rose (sec. XIV, Musée Condé di Chantilly).
Fissare i concetti La presenza femminile nell’universo culturale medievale 1. Da che cosa si fa derivare la visione misogina dei chierici? 2. Quando inizia a manifestarsi l’interesse della Chiesa per le donne? 3. Quale uso è stato fatto dell’immagine della donna nella letteratura delle origini? 4. In che cosa consiste il nuovo modo di Boccaccio di ritrarre le donne? 5. Chi è Ildegarda di Bingen? 6. Quale lingua è utilizzata dalle mistiche? 7. Quali sono gli scritti di Caterina da Siena? 8. Qual è la storia di Eloisa, allieva del filosofo Pietro Abelardo?
Parole delle donne 2 779
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo [1919], trad. di Bernardo Jasinsk, Sansoni, Firenze 1966
L’aspirazione a una vita più bella ha in ogni tempo visto dinanzi a sé tre vie verso la lontana mèta. La prima conduceva fuori del mondo: il sentiero della rinunzia. La vita più bella vi appare raggiungibile soltanto nell’al di là; può essere soltanto una redenzione da ogni cosa terrena; ogni partecipazione al 5 mondo è dissipazione e ritarda la salute promessa. In ogni civiltà superiore questa strada è stata battuta; il Cristianesimo aveva inculcato questa tendenza [...]. La seconda era la via che conduceva al miglioramento e al perfezionamento del mondo stesso. Il Medioevo l’ha conosciuta appena. [...] Il terzo sentiero verso un mondo più bello conduce nel regno dei sogni. È la via più 10 comoda, ma sulla quale la mèta si mantiene sempre ugualmente lontana. Se la realtà terrena è così penosa e senza speranze, e la rinunzia al mondo così difficile, coloriamo la vita di belle apparenze, viviamo in un paese di sogni e di luminose fantasie, mitighiamo la realtà colle estasi dell’ideale. Basta un semplice tema, un unico accordo perché risuoni la fuga rasserenante: basta 15 uno sguardo gettato sulla felicità fiabesca in un passato più bello, sul suo eroismo e sulla sua virtù, oppure anche basta il giocondo raggio di sole della vita in mezzo alla natura, il piacere della natura. Su questi pochi temi, il tema eroico, quello della saggezza e quello bucolico, si è formata tutta la cultura letteraria dall’antichità in poi. Medioevo, Rinascimento, secolo decimottavo 20 e decimonono, tutti insieme trovano poco più che nuove variazioni della vecchia canzone. Quel terzo sentiero verso una vita più bella, la evasione dalla dura realtà verso una bella illusione, è però soltanto un motivo letterario? Certamente è qualcosa di più. Esso influisce sulla forma e sul contenuto della vita sociale 25 non meno delle altre due tendenze, e tanto più dove la civiltà è più primitiva.
Così si esprimeva il grande storico novecentesco Huizinga a proposito del «sostrato di acuta malinconia», che sembrava caratterizzare il secolo del tramonto del Medioevo, e del tentativo dell’uomo di sfuggire a tale atmosfera rifugiandosi in un mondo fittizio, frutto dell’immaginazione e della fantasia, creato in particolare dalla letteratura. Ritieni che le considerazioni dello storico possano essere estese ad altri momenti della civiltà e in particolare al presente? Le tre vie per guadagnare una «vita più bella» hanno a tuo avviso ancora oggi una vitalità? E a costruire quella del sogno concorre ancora in primo luogo la letteratura, oppure altre forme di suggestione? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali, di letture e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
780 Duecento e Trecento 9 La presenza femminile nell’universo culturale medievale
Duecento e Trecento La presenza femminile nell’universo culturale medievale
Sintesi con audiolettura
1 Parole sulle donne/parole alle donne
Le donne e la poesia delle origini Mentre le donne sono costrette per lo più a non far sentire la propria voce, la cultura maschile innalza la figura femminile a centro tematico: i chierici, con argomentazioni misogine che perdureranno nei secoli, fanno della donna il simbolo del peccato, della lussuria, mentre gli scrittori laici la idealizzano, ne fanno un mito poetico fondamentale nella storia letteraria (dallo stilnovo a Dante a Petrarca), anche se la donna e l’amore sono mezzi, pretesti per esplorare la propria interiorità, per parlare di sé. Solo Boccaccio nel Decameron fa delle donne delle reali interlocutrici, dedicando a esse la sua raccolta ed equiparandole agli uomini, non solo nel rito della narrazione, ma anche nel diritto a gestire la propria vita, anche sessuale.
2 Parole delle donne
La voce delle mistiche Nella cultura medievale la presenza femminile, per ragioni socioculturali, è estremamente limitata: fanno eccezione al generale silenzio delle donne le voci delle mistiche come Ildegarda di Bingen o Elisabetta di Turingia, di notevole interesse anche per la peculiarità linguistico-stilistica che ne caratterizza le testimonianze. Le mistiche scrivono per dare voce al contatto sconvolgente con il divino e lo fanno con le modalità espressive proprie in generale del misticismo, ma al contempo con tratti originali. In una cultura che demonizzava la femminilità per il suo potere seduttivo, esse scelgono di mortificare il corpo attraverso rigidissime pratiche ascetiche. Importante è in particolare la figura della senese Caterina da Siena (1347-1380), capace di sfidare con la sua voce le autorità religiose e politiche in nome della pace e dei valori cristiani. Le lettere di Eloisa Tra gli scarsi documenti della parola femminile spiccano le lettere di Eloisa (1101-1164), ormai chiusa in un monastero, al suo sposo, il filosofo Abelardo dopo che la coppia, divenuta al tempo celeberrima, venne separata da drammatiche vicende.
Zona Competenze Esposizione orale
1. Presenta in un intervento orale di 5 minuti l’immagine prevalente della donna nella letteratura fino al XIII secolo e spiega a quali fattori è dovuta.
Sintesi
2. Riassumi in un elenco le innovazioni introdotte da Boccaccio nel modo di considerare la figura femminile e di rappresentarla.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Costituzione
competenza 3
Scrittura argomentativa
3. Spiega in un paragrafo espositivo-argomentativo di max 8 righe perché le donne fanno sentire la loro voce quasi esclusivamente nella letteratura mistica.
Immagini del femminile nella cultura delle origini
Duecento e Trecento 781
Indice dei nomi A Abelardo Pietro, 776, 777, 778 Abramo, 71 Adalberone, 38 Agostino (sant’), 58, 69, 487, 495, 496 Alberighi (Federico degli), 636, 732 Alberto Magno, 44, 314, 361 Aldobrandeschi Guglielmo, 398 Alfani Gianni, 261, 313 Alfieri Vittorio, 458 Alfonso di Spagna, 183 Alighieri Dante, 38, 39, 41, 43, 53, 59, 65, 66, 67, 71, 72, 74, 79, 80, 81, 82, 107, 110, 112, 128, 150, 161, 180, 187, 209, 211, 221, 223, 227, 229, 230, 231, 251, 260, 261, 262, 266, 269, 270, 296, 308-473, 476, 486, 487, 495, 512, 513, 515, 516, 521, 522, 575, 594, 611, 617, 618, 620, 630, 635, 766, 771 Alighiero II, 312 Angela da Foligno, 765, 773 Angiolieri Cecco, 67, 74, 220, 294, 295, 296, 302, 304, 350 Apuleio, 610 Ariosto Ludovico, 457, 613, 615, 616 Aristotele, 44, 59, 62, 63, 65, 271, 314, 361, 394, 490 Arnaut Daniel, 128, 351, 394 Arrigo VII, 36, 317, 376, 382 Artù, 73, 107, 108, 109, 112 Auerbach Erich, 69, 124, 397, 399, 460 Augusto Gaio Giulio Cesare Ottaviano, 376, 399 Averroé, 270, 271 Azalais de Porcairagues, 140, 141
B Bachtin Michail, 46, 289, 636 Bandello Matteo, 749 Baratto Mario, 636, 640 Bardi, 602, 609, 623 Bembo Pietro, 79, 457, 522, 592, 642, 749 Benedetto XI, 162 Benigni Roberto, 457 Bernardo di Chiaravalle (san), 326, 389, 404
782
Bernardone Pietro, 153 Bernart de Ventadorn, 127, 128 Béroul, 109 Bertran de Born, 127 Bertrando del Poggetto, 378 Bibbiena (Bernardo Dovizi da), 749 Bloom Harold, 461 Boccaccio Giovanni, 38, 46, 65, 81, 220, 314, 456, 606-764, 766, 771 Boezio di Dacia, 271 Boezio Severino, 314, 324, 360, 361, 495 Boiardo Matteo Maria, 591 Bonagiunta Orbicciani da Lucca, 260, 262, 313 Bonaventura (san), 326, 394 Bonifacio VIII, 37, 154, 162, 376, 427 Bonvesin de la Riva, 182 Borges Jorge Luis, 459 Botticelli Sandro, 674 Branca Vittore, 326, 638, 717, 748 Brandano (san), 44, 182 Brunetto Latini, 53, 66, 192, 211, 223, 312, 318, 360 Bruno Giordano, 80
C Cacciaguida, 311, 312, 319, 320, 389, 393, 403, 430 Calvino Italo, 122, 203, 204 Campanella Tommaso, 80, 457 Cangrande della Scala, 317, 382, 385 Cappellano Andrea, 109, 129, 131, 233, 260 Cardini Franco, 125, 196 Carducci Giosuè, 459 Carlo di Valois, 315 Carlo il Calvo, 76 Carlo Magno, 35, 72, 76, 85, 97, 98, 99, 100, 104 Carlo Martello, 394 Caterina da Siena, 765, 772, 773, 774, 775 Catone l’Uticense, 399, 404 Cavalca Domenico, 179 Cavalcanti Guido, 67, 74, 161, 221, 227, 261, 262, 269, 271, 272, 273, 276, 279, 284, 302, 313, 314, 315,
322, 324, 326, 350, 370 Celestino V, 154 Cervantes (Miguel de Cervantes Saavedra), 749 Chatwin Bruce, 205 Chaucer Geoffrey, 216, 749, 750, 751 Chrétien de Troyes, 107, 108, 109, 112, 114 Cicerone Marco Tullio, 59, 61, 66, 68, 192, 314, 360, 395, 478, 480, 487, 489, 490, 495, 502, 503, 610 Cielo d’Alcamo, 229, 247 Cino da Pistoia, 74, 261, 370, 477, 609 Clemente (san), 77 Clemente V, 473 Clemente VI, 490, 581 Cola di Rienzo, 479, 502 Colocci Angelo, 229 Colonna (famiglia dei), 162, 478, 479, 480 Colonna Giacomo, 495 Colonna Giovanni, 483 Compagni Dino, 73, 221 Compiuta Donzella, 252, 272 Contessa di Dia, 140 Contini Gianfranco, 343, 449, 521 Copernico Niccolò, 80 Corti Maria, 271, 275, 359 Cosimo I de’ Medici, 750 Costantino I il Grande, 377
D D’Annunzio Gabriele, 208, 562 Davanzati Chiaro, 251, 259, 260 De Sanctis Francesco, 230, 458, 488, 594 Della Casa Giovanni, 211 Dionigi da Borgo San Sepolcro, 506 Dolce Ludovico, 385 Domenico (san), 37 Donati Gemma, 312, 316 Donne John, 592 Dotti Ugo, 485
E Eco Umberto, 151, 290 Eginardo, 104 Eliot Thomas, 459
Elisabetta di Turingia, 772 Eloisa, 776, 777, 778 Enzo di Svevia, 228, 229
F Federico II, 49, 74, 75, 227, 228, 229, 245, 360, 369 Filippi Rustico, 294, 295, 298 Filippo di Giunta, 229 Forese Donati, 67, 314, 350, 354, 398 Foscolo Ugo, 458, 593 Francesca da Rimini, 398 Francesco d’Assisi (san), 37, 56, 73, 75, 150, 153, 155, 156 Francesco da Barberino, 635 Freud Sigmund, 272, 595 Fubini Mario, 406 Fulberto di Notre Dame, 776, 777
G Galilei Galileo, 80, 457 Gesù Cristo, 43, 172 Gherardo Petrarca, 477, 492, 494, 503, 506 Giacomino da Verona, 182, 184 Giacomo (Jacopo) da Lentini, 229, 232 Giacomo (san), 193, 452 Giacomo Colonna, 495 Giamboni Bono, 192 Gianni Lapo, 261, 313 Gioacchino da Fiore, 150, 395 Giotto, 401 Girolamo (san), 57 Giudici Giovanni, 139, 595 Giustiniano, 43, 377, 394 Goethe Johann Wolfgang von, 130, 753 Goffredo di Monmouth, 107 Gozzano Guido, 594 Grazzini Giovanni, 753 Gregorio Magno, 45, 187 Gregorio VII, 766 Guglielmo d’Aquitania, 127, 133 Guido delle Colonne, 228, 229, 230, 238 Guido Novello da Polenta, 317 Guinizzelli Guido, 67, 74, 227, 260, 261, 262, 263, 266, 267, 269, 270, 312, 313, 322, 324, 326, 350, 360, 394 Guittone d’Arezzo, 251, 253, 257, 350
H Hesse Hermann, 753
I Ildegarda di Bingen, 772 Innocenzo III, 37, 45, 48, 130, 153, 471 Ippocrate, 63 Isacco, 71
J
Margherita di Navarra, 749 Maria di Champagne, 107, 129 Marti Mario, 269 Mazzini Giuseppe, 459 Messina Laura Imai, 205 Mineo Nicolò, 401 Molière, 749 Montale Eugenio, 345, 401, 459, 460, 563 Monte Andrea, 251 Monteverdi Claudio, 593 Mosè, 71, 383 Mostacci Jacopo, 229, 232
N
Jacopo Passavanti, 179, 180, 667 Jacopone da Todi, 46, 67, 73, 149, 150, 161, 165, 169, 172 Jorge Luis Borges, 459 Joyce James, 459, 516
Natali Giulio, 619 Niccolò III, 427 Nina Siciliana, 229, 230, 241, 252, 772
K
O
Kant Immanuel, 80 Kerouac Jack, 205
Omero, 98, 394, 395, 432, 611 Onesti (Nastagio degli), 637, 642, 667, 674 Onofri Arturo, 279 Onorio III, 154 Orazio Quinto Flacco, 59, 61, 65, 66, 395, 432, 519 Orlando, 49, 72, 98, 99, 100, 104, 143 Ovidio Publio Nasone, 59, 61, 395, 402, 432, 519, 615, 617, 618
L Leibniz Gottfried Wilhelm von, 80 Lentini Jacopo da, 228, 229, 231, 232, 234 Leopardi Giacomo, 401, 593 Lessing Gotthold, 753 Lorenzo de’ Medici, 618 Lorenzo di Piero de’ Medici, 520 Lucano, 59, 395, 432 Lucifero, 187 Ludovico il Germanico, 76 Lullo Raimondo, 52
M Machiavelli Niccolò, 520, 749, 766 Madame de Staël, 458 Magris Claudio, 205 Malaspina Currado, 766 Malatesta Gianciotto, 438 Malatesta Paolo, 438 Mallarmé Stéphane, 595 Manfredi di Sicilia, 228, 369, 394 Manuzio Aldo, 591 Maometto, 40, 183 Marcabru, 127
P Pacca Vinicio, 492, 505 Padoan Giorgio, 718 Paolo da Certaldo, 54, 767, 769 Paolo Diacono, 684 Pasolini Pier Paolo, 460, 573, 753, 754 Peruzzi, 221, 316 Pessoa Fernando, 205 Petrarca Francesco, 38, 53, 60, 74, 79, 81, 130, 193, 231, 456, 457, 458, 474-605, 610, 611, 612, 613, 614, 616, 619, 620, 632, 635, 641, 748, 771 Petrocchi Giorgio, 314 Petrucciani Mario, 460 Pier della Vigna, 228, 229, 398 Pierre de Ronsard, 592 Pietro (san), 403, 427, 449, 452 Pirandello Luigi, 208, 516
indice dei nomi
783
Platone, 487, 495 Plauto Tito Maccio, 632 Polo Marco, 73, 191, 192, 194, 197, 198, 199, 201 Portinari Beatrice (Bice), 313 Portinari, 316 Pound Ezra, 138, 278, 459 Pozzi Giovanni, 155
Q Quintiliano Marco Fabio, 68, 503
R Rabelais François, 749 Raimondo da Capua, 774, 775 Rebora Clemente, 163 Riccardo di San Vittore, 326 Ricci Lucia Battaglia, 618 Rinaldo d’Aquino, 229, 243 Roberto d’Angiò, 480, 609, 710 Rodolfo il Glabro, 195 Rolli Paolo, 592 Rosmunda, 684 Rousseau Jean-Jacques, 777 Rudel Jaufre, 127, 135, 233 Rustichello da Pisa, 197
S Saba Umberto, 237, 574, 595 Sacchetti Franco, 216, 217, 738 Salutati Coluccio, 610 Benedetto (san), 46
784
Giacomo (san), 193 Pietro (san), 403, 427, 449, 452 Tommaso d’Aquino (san), 229, 394, 486 Santagata Marco, 496, 513, 515, 541 Sapegno Natalino, 457 Satana,187 Scaligeri, 317 Schiaffini Alfredo, 326 Seneca, 59, 61, 486, 487, 490, 491, 503, 519, 562, 618 Sepúlveda Luis, 205 Sermonti Vittorio, 457 Shakespeare William, 461, 592 Shelley Percy Bysshe, 458 Sigieri di Brabante, 271, 395 Singleton Charles, 325, 459 Spinoza Baruch, 80 Stazio, 395, 616, 617 Stefano Protonotaro, 229, 230 Svetonio Gaio Tranquillo, 494
T Tacito Publio Cornelio, 610 Tasso Torquato, 593, 615 Tempier Stefano, 271 Teresa d’Avila (santa), 592 Tertulliano Quinto Settimo, 766 Terzani Tiziano, 205 Tito Livio, 487, 503, 506 Tolomeo Claudio, 44, 63 Tolkien John R.R., 121 Turoldo David Maria, 163 Turoldo, 98
U Ubertino da Casale, 150, 773 Ugo di San Vittore, 40, 42 Ugolino della Gherardesca, 368, 396, 397, 404 Umberto da Romans, 767, 768 Ungaretti Giuseppe, 595
V Valerio Massimo, 494 Valla Lorenzo, 377 Varrone Marco Terenzio, 610 Vasari Giorgio, 740 Verga Giovanni, 208 Vico Giambattista, 458 Villani Giovanni, 53, 73, 221, 222, 223, 317 Vincenzo di Beauvais, 667 Virgilio Publio Marone, 59, 61, 312, 386, 394, 395, 397, 399, 400, 402, 407, 415, 418, 432, 434, 443, 445, 449, 478, 486, 487, 494, 495, 496, 503, 519 Visconti (famiglia dei), 478, 479, 480, 481 Voltaire, 458
Z Zancan Marina, 771 Zanzotto Andrea, 595, 597
Glossario A Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine. Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”) La formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri). Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”. Agnizione Riconoscimento (specialmente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio. Alessandrino Verso della tradizione poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese). Allegoria Figura retorica tramite la quale il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina
commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo. Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive. Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII). Allocuzione ➜ Apostrofe Anacoluto Costrutto in cui la seconda parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI). Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi). Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, all’inizio di un verso o di una sua parte, eccedente la normale misura metrica. Anadiplòsi Figura retorica che consiste nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66). Anàfora Ripetizione di una o più parole all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3). Analessi (anche ➜ flashback) In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi. Analogia Procedimento stilistico che istituisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee se-
manticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti). Anàstrofe (o inversione) Figura retorica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate, / venite a noi parlar» (If V 80-81); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11). Anfibologìa Espressione che può prestarsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semantico o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola). Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia intendere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra). Antonimìa Figura retorica che consiste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134). Antonomàsia Sostituzione del nome proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indica-
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re Dante, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne. Antropomorfismo Tendenza ad assegnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie. Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”. Apografo Manoscritto che è copia diretta di un testo originale. Apologo Racconto allegorico di gusto favolistico e con fini didattico-morali. Apostrofe Consiste nel rivolgersi direttamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76). Asindeto Forma di coordinazione realizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso). Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt). Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco. Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica)
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Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime. Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.
B Ballata Forma metrica, destinata in origine al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedute da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari. Bestiario Trattato medievale in cui venivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici. Bildungsroman ➜ Romanzo di formazione Bisticcio ➜ Paronomasia Bozzetto Racconto breve che rappresenta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana. Bucolica ➜ Egloga
C Campo semantico Insieme delle parole i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base. Canone L’insieme degli autori e delle opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Pertanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il
classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via. Cantare Poema composto per lo più in ➜ ottave, di materia epicocavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV. Canzone Forma metrica caratterizzata dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa. Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in ➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di Petrarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comico-satirici. Catarsi Secondo Aristotele, la liberazione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni. Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso.
Chiasmo Figura retorica che consiste nel contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134). Chiave (o concatenatio) In una ➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico. Chiosa ➜ Glossa Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di un periodo. Climax Enumerazione di termini dal significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera). Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva. Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente.
Collazione Confronto sistematico dei ➜ testimoni di un testo, allo scopo di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione. Commiato ➜ Canzone Concordanze Repertori alfabetici di tutte le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono. Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato secondario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo. Consonanza Sorta di rima in cui si ripetono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa. Contaminazione Nella critica testuale l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria. Contrasto Componimento poetico che rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva. Coppia sinonimica (o dittologia sinonimica) Coppia di parole dal
significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo. Corpus L’insieme delle opere di un singolo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema. Correlativo oggettivo Concetto poetico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza necessitare di alcun commento da parte del poeta. Cronòtopo Il termine, introdotto nella critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spaziotemporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto. Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).
D Dedicatoria Lettera o epigrafe anteposta a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata. Deittico Elemento linguistico che indica la collocazione spaziotemporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i
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pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani). Denotazione Indica il significato primario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione. Deverbale Sostantivo ricavato da un verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”. Diacronia Indica la valutazione dei fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia). Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74). Diegesi Modalità di racconto narrativo indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi). Dieresi In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13). Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi. Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica
E Edizione critica (lat. editio) Edizione che si propone di presentare un
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testo nella forma più possibile conforme alla volontà ultima dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa. Egloga Nella letteratura classica componimento poetico di argomento bucolico-pastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale. Elegia Nella letteratura classica componimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico. Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”. Elzeviro Articolo di fondo della pagina culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo). Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla ➜ cesura. Enclisi Fenomeno linguistico per cui una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami. Endecasillabo È il verso di undici sillabe, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non vengono raggruppati in strofe e non sono rimati.
Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77). Enjambement (o inarcatura) Procedimento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito). Entrelacement È la tecnica di costruzione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes. Enumerazione Figura retorica che consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141). Epanadiplòsi Figura retorica che consiste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria). Epanalèssi (o geminatio) Figura retorica che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di
un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10). Epifonema Sentenza o esclamazione che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale» (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143). Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75). Epigramma Breve componimento in versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale. Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58). Epiteto Sostantivo, aggettivo o locuzione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce. Epìtome Riassunto, compendio di un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico. Esegesi Interpretazione critica di un testo. Etimologia Disciplina che studia l’origine e la storia delle parole. Eufemismo Figura retorica che consiste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo re-
ligioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”. Excursus (o digressione) Divagazione dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale. Exemplum Breve racconto a scopo didattico-religioso.
F Fabula La successione logico-temporale degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio. Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento. Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio). Filologia (dal greco “amore della parola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale. Flashback ➜ Analessi Flusso di coscienza Tecnica narrativa caratteristica del romanzo del Novecento, dall’inglese stream of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore. Fonema La più piccola unità di suono che, da sola o con altre, ha la
capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”. Fonetica Indica sia la branca della linguistica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua. Fonosimbolismo Espediente stilistico-retorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea. Fonte Ogni tipo di documento o testo dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera. Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.
G Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi Glossa Annotazione esplicativa o interpretativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe. Gradazione ➜ Climax Grado zero In senso generale, indica il livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.
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H Hàpax legòmenon (dal greco “detto una sola volta”) Indica una parola che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore. Hýsteron pròteron Figura retorica per cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).
I Iato Fenomeno per cui due vocali contigue non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: pa-ese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe. Ictus ➜ Accento ritmico Idillio Presso i greci, breve componimento, di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri. Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua. Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro. Inquadramento ➜ Epanadiplosi Intreccio La successione degli eventi così come sono presentati dall’autore e non necessaria-
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mente seguendo l’ordine logicotemporale (come la ➜ fabula). Inversione ➜ Anastrofe Ipàllage Figura retorica che consiste nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diverso da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”. Ipèrbato Figura retorica che consiste nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iperbato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro). Iperbole Figura retorica che consiste nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”. Ipèrmetro Verso con un numero eccessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro. Ipòmetro ➜ Ipermetro Ipostasi ➜ Personificazione Ipotassi Costruzione del periodo fondata sulla subordinazione di una o più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi. Ipotipòsi Figura retorica che consiste nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella
non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66). Iterazione Ripetizione di una o più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.
K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.
L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo. Lassa Strofa caratteristica degli antichi poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi. Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera. Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia. Lessema Il minimo elemento linguistico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni. Lezione (lat. lectio) La forma in cui una parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile. Litote Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è
già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”. Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.
M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista. Martelliano ➜ Alessandrino Memorialistica Genere letterario di carattere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume. Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”. Metanarrativo Aggettivo riferito ai procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa rifletta su se stessa.
scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo. Metateatro Testo in cui la finzione drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”. Metàtesi Spostamento di fonemi all’interno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”. Metonìmia Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”.
Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa.
Mimesi Secondo la concezione estetica classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica, volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi.
Metaromanzo Romanzo che riflette sull’operazione stessa dello
Monologo interiore Rappresentazione dei pensieri di un perso-
naggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.
N Neologismo Parola introdotta di recente nella lingua, oppure nuova accezione di un vocabolo già esistente. Nominale (stile nominale) Particolare organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.
O Omofonia Indica l’identità di suono tra parole differenti. Onomatopea Figura d’imitazione volta a imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera). Ossimoro Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio). Ottava Strofa di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.
P Palinodia Componimento poetico che ritratta opinioni espresse in precedenza.
Glossario
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Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi. Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron). Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintattico-grammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc. Paratassi Costruzione del periodo fondata sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi. Parodia Imitazione di un autore, di un testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico. Paronomàsia (o bisticcio o annominazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata). Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia. Perifrasi Figura retorica che consiste nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte.
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Personificazione (o prosopopea) Figura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare animali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata). Piede Nella metrica classica la più piccola unità ritmica di un verso, formata di due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone. Pleonasmo Elemento linguistico superfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi). Plurilinguismo L’uso in un testo letterario di diversi registri linguistici ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda. Pluristilismo La compresenza in un testo letterario di diversi livelli di stile. Poliptòto Figura retorica che consiste nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25). Polisemia La compresenza di due o più significati all’interno di
una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.). Polisindeto: forma di coordinazione realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso). Prolessi Anticipazione di un elemento del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze). Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in cui l’autore espone l’argomento dell’opera.
Q Quartina È la strofa composta di quattro versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.
R Rapportatio Tecnica compositiva artificiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali. Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere, il livello espressivo proprio di una particolare situazione
comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere. Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste nel troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi). Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore. Ripresa ➜ Ballata Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio). Ritornello o refrain Verso o gruppo di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa. Romanzo di formazione Romanzo nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità. Rubrica Nei codici medievali il breve riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.
S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fittizio con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla
donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca. Sestina Componimento lirico con sei strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca. Settenario È il verso composto da sette sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata. Significante / Significato Il significante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno. Sillogismo Tipo di ragionamento, codificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione). Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia.
Similitudine Figura retorica che consiste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando avverbi e vari connettivi (“come”, “tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie). Sinalèfe In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Movesi il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca). Sincope Caduta di una vocale all’interno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”. Sincronia Indica lo stato di una lingua in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia). Sinèddoche Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”. Sinèresi In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti
Glossario
793
alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46). Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera). Sintagma Unità sintattica di varia complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc. Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didatticomorale o di ispirazione celebrativa. Sonetto Forma poetica (forse “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni. Spannung (ted. “tensione”) termine che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione. Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico. Straniamento Procedimento con cui lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della per-
794
cezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa. Strofa (o strofe o stanza) All’interno di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine. Summa Termine con cui nel medioevo si indicavano le trattazioni sistematiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).
infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio). Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica. Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ovvero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricorrente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature). Traslato Espressione o parola il cui significato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc. Tropo ➜ Traslato
T Tenzone Termine derivante dal provenzale che indica un dibattito tra poeti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso. Terza rima ➜ Terzina a rime incatenate. Terzina a rime incatenate È il metro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”. Testimone In filologia ogni libro antico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale. Tmesi Divisione di una parola composta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere
V Variante In filologia, ciascuna delle ➜ lezioni che differiscono dal testo originale ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc. Variatio (o variazione) Artificio retorico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi. Variazione ➜ Variatio
Z Zèugma Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.
PER APPROFONDIRE
PAROLA CHIAVE
LESSICO
Indice delle rubriche
allocuzione 396 aristotelismo tomistico 394 bestseller 197 canto gregoriano 128 cavalieri erranti 106 concezione provvidenzialistica 57 encicliche 80 eterodosso 394 intertestualità 614 inurbamento 36 istituzioni universalistiche 39 lezione 456 metatestuale 614 miniature 82
misogino 45, 766 mondanizzazione 37 ordini mendicanti 150 ordini minori 478 oscurantismo 38 parodia 296 pluristilismo e plurilinguismo 67 potere temporale e potere spirituale 162 priori 315 Scolastica 44 tenzone 229 terziario 774 trovatori 127
allegoria 70 arte 65 ascetismo 46 canone 61 cortesia 51 espressionismo 163 gentilezza / gentile 262
intellettuale 44 misticismo e ascetismo 151 simbolo/simbolismo 40 stile 67 poetica 65
online La “buona morte” nel Medioevo online Lo scriptorium
La fede nei miracoli e il culto delle reliquie
46
online I maestri fondatori del sapere medievale online Il vocabolario dell’università
I protagonisti della vita universitaria: il magister e gli studenti La retorica e l’arte di comunicare ieri e oggi L’apporto linguistico dei conquistatori al volgare italiano online “Italia”, “italiani”: un mito linguistico-letterario Il ruolo dei tre grandi trecentisti nella storia della lingua italiana Il genere epico online Il romanzo cavalleresco medievale e il “romanzesco” online Un’interpretazione sociologica dell’ideologia cortese
64 68 76 81 98
Indice delle rubriche
795
La leggenda di re Artù e la sua fortuna
108
online L’enigma della fin’amor
La ballata
161
online Immagini dell’al di là nel mondo antico
La raffigurazione del mondo ultraterreno
183
La figurazione del diavolo nella cultura medievale
187
La letteratura di viaggio oggi, fra Kerouac, Chatwin, Terzani, Pessoa e Laura Imai Messina
205
Il titolo Novellino 211 “Le mille e una burla”: la Toscana e la tradizione comica, da Boccaccio... a Benigni
220
Il sonetto
236
La canzone e la canzonetta
246
L’averroismo
271
La concezione medievale dell’amore come malattia
272
La malattia d’amore come topos letterario
272
Comico e “carnevalesco”
289
Un guazzabuglio di definizioni: poeti “comico-realisti”, “burleschi”, “giocosi”
295
Un padre rifiutato, dei padri ideali
312
Dante e Guido Cavalcanti: un’amicizia interrotta
314
online Sogni e visioni nella cultura medievale
La questione della lingua
370
online Ricostruire il testo originale della Commedia: un problema filologico ancora aperto
La configurazione dell’aldilà dantesco
388
Perché si parla di Dante come “padre” della lingua italiana?
405
online Una poesia metamorfica online Le lecturae Dantis
Le letture dantesche di Sermonti e Benigni, eventi di massa
457
online Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis online Ma Laura è veramente esistita? online I libri come amici?
La crisi della Scolastica
486
online Una data simbolica per una svolta paradigmatica
Il metodo di allestimento dell’epistolario
503
online Work in progress: la composizione del Canzoniere
Cos’è un macrotesto?
514
online L’ombra di Dante, un modello “rimosso”
I volti di Laura
517
Le parole chiave del Canzoniere 520 Come si legge la grafia di Petrarca
523
Un nome “segno”: Laura-l’aura-lauro
552
online Boccaccio bibliofilo, filologo e copista
Boccaccio e Petrarca: un’amicizia con qualche punto di domanda
613
Il manoscritto autografo del Decameron: la volontà editoriale dell’autore
628
online La peste tra realtà e letteratura
Una comunicazione paritaria: il simbolo del “cerchio”
633
online Un “disegno ascensionale” o piuttosto un mondo “orizzontale”? online Il concetto di realismo
796
Boccaccio, la materia erotica e il “boccaccesco”
705
Le tre edizioni del Decameron «rassettate» dai censori controriformistici
752
VERSO IL NOVECENTO
Bestiari novecenteschi La fortuna del mito di Tristano e Isotta
41 111
La rivisitazione novecentesca della materia epico-cavalleresca
121 121 122
John R.R. Tolkien, La riproposta dell’epica medievale per una società prosaica Italo Calvino, Sotto l’armatura niente
Echi trobadorici nella poesia novecentesca
138 138 139
Ezra Pound, Alba Giovani Giudici, Raggio che da fessura
Umberto Eco, Il nome della rosa Frate Guglielmo incontra il mistico dissidente Ubertino da Casale
151
online Oltranza mistica ed espressionismo linguistico online Il dramma di Maria alla croce nell’interpretazione di Dario Fo
Il Marco Polo di Calvino: dal progetto cinematografico alle Città invisibili Italo Calvino, Le città invisibili
Il sonetto viaggia nel tempo…
203 204 237 237
Umberto Saba, Autobiografia – Ed amai nuovamente
Epifanie femminili novecentesche: due esempi
278 278 279
Ezra Pound, Apparuit Arturo Onofri, Dea in forma di donna
Il pericolo del riso e Il nome della rosa Lo stilnovismo montaliano e la figura femminile dell’«angelo visitante» Eugenio Montale, Ti libero la fronte dai ghiaccioli
290 345 345
online Testimonianze dall’aldilà: l’Antologia di Spoon River online Primo Levi Il canto di Ulisse, antidoto alla barbarie
Due interpretazioni psicanalitiche del personaggio di Laura
573 573 574
Pier Paolo Pasolini, Laura non è una donna reale Umberto Saba, Laura è una percezione della figura materna
Andrea Zanzotto, Notificazione di presenza sui Colli Euganei
597
EDUCAZIONE CIVICA
online Libri “galeotti”
secondo le NUOVE Linee guida
nucleo concettuale Costituzione L’emarginazione dei “diversi” nel Medioevo
56
Sant’Agostino
D10 I cristiani devono appropriarsi del sapere ingiustamente posseduto dai pagani
58
De doctrina christiana
T1
Chanson de Roland «Orlando è prode ed Oliviero è saggio» lasse LXXX-LXXXVIII
100
T1
Marco Polo Il pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo
199
T7
Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima
T8
Guittone d’Arezzo Ahi lasso, or è stagione de doler tanto
PARITÀ DI GENERE equilibri
247
#PROGETTOPARITÀ
253
Compiuta Donzella
T10 A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
PARITÀ DI GENERE equilibri
258
#PROGETTOPARITÀ
Indice delle rubriche
797
Donne sommerse: le rimatrici trecentesche Dante Alighieri T13 Perché è giusto impiegare il volgare Convivio I, IX, 2-5 Francesco Petrarca T15a Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno Canzoniere, 128 Giovanni Boccaccio D1 Una ritrattazione del Decameron Epistola XXI a Mainardo Cavalcanti Giovanni Boccaccio T7a Tancredi e Ghismonda: una tragedia feudale Decameron, IV, 1 Giovanni Boccaccio T7b Lisabetta da Messina: una tragedia borghese Decameron, IV, 5 Paolo da Certaldo D2b Come si devono educare le ragazze Libro di buoni costumi Pietro Abelardo D3 Eloisa scrive ad Abelardo Storia delle mie disgrazie
PARITÀ DI GENERE equilibri
282
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
366
#PROGETTOPARITÀ
575
PARITÀ DI GENERE equilibri
612
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
684
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
695
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
769
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
778
#PROGETTOPARITÀ
nucleo concettuale Sviluppo economico e sostenibilità D3 T3
Ugo di San Vittore Il mondo naturale è manifestazione della sapienza divina 42 Francesco d'Assisi Cantico di frate Sole 156
nucleo concettuale Cittadinanza digitale Dante Alighieri
T12 L’obiettivo e i destinatari dell’opera
362
LEGGERE LE EMOZIONI
Convivio I, I
798
Lotario da Segni
D6a Miseria della condizione umana Jaufre Rudel T10 Allor che i giorni sono lunghi in maggio
T5
48 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
135
Jacopone da Todi Quando t’aliegre, omo d’altura
165
T9
Jacopo Passavanti Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima Lo specchio di vera penitenza
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
180
T1
Marco Polo Il pubblico e il metodo della narrazione Il Milione, Prologo
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
199
Zona competenze
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
226
Guido Cavalcanti T13 Voi che per li occhi mi passaste ’l core
273
T3
Cecco Angiolieri Tre cose solamente m’ènno in grado
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
300
T4
Cecco Angiolieri La mia malinconia è tanta e tale
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
302
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
352
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
483
T9
Dante Alighieri Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io Rime, 9, LII Francesco Petrarca
D1b La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa Lettere familiari, VI, 3
T4
Francesco Petrarca L’accidia, il male dell’uomo moderno Secretum, II, 13
497
T6
Francesco Petrarca Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso Lettere familiari, IV, 1
506
Francesco Petrarca
T10b O cameretta che già fosti un porto
539
Canzoniere, 234 Giovanni Boccaccio
T9b La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia
719
SGUARD0
Decameron, III, 5
sulla letteratura Uno sguardo all’Europa: Chaucer e i Canterbury Tales 751
sulla storia La Firenze di Dante
316
sull’arte In polemica con la cultura della penitenza La novella di Nastagio degli Onesti illustrata da Sandro Botticelli
654 674
sul cinema I cavalieri erranti: dall’epica hollywoodiana all’Armata Brancaleone 126 I volti di Francesco 160 Dante e il cinema 462 Boccaccio e il cinema. Il Decameron di Pasolini 754
sulla musica Fabrizio De André S’i’ fosse foco 305
Indice delle rubriche
799
ORIENTARE E ORIENTARSI
D6
Carmina Burana, Elogio del corpo femminile
49
Zona competenze, discussione orale
94
T1 «Orlando è prode ed Oliviero è saggio» Chanson de Roland 100 T10 Jaufre Rudel, Allor che i giorni sono lunghi in maggio 137 T12 Azalais de Porcairagues, Or siam giunti al tempo freddo 142 T5 Jacopone da Todi, Quando t’aliegre, omo d’altura 168 T9 Jacopo Passavanti, Angeli e demoni si contendono il possesso di un’anima 182 T1 Marco Polo, Il pubblico e il metodo della narrazione 200 T6 Anonimo, Novellino, Raccontare per un nuovo pubblico 213 Zona competenze, esposizione orale
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T10 Compiuta Donzella, A la stagion che ’l mondo foglia e fiora 258 T13 Guido Cavalcanti, Voi che per li occhi mi passaste ’l core 273 T3 Cecco Angiolieri, Tre cose solamente m’ènno in grado 300 T4 Cecco Angiolieri, La mia malinconia è tanta e tale 302 T6 Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo 304 T9 Dante Alighieri, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io 352 T18 Dante Alighieri, Lo stile tragico 374 T22d Dante Alighieri, Il viaggio proibito: Ulisse “doppio” di Dante? 418 D1b Francesco Petrarca, La solitudine nel locus amoenus di Valchiusa 483 Ugo Dotti, Il significato della solitudine per Petrarca 485
T1b Francesco Petrarca, I classici come interlocutori viventi 489 T4 Francesco Petrarca, L’accidia, il male dell’uomo moderno 497 Vinicio Pacca, «Gestire la propria immagine in prima persona»: la funzione dell’Epistolario
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T6 Francesco Petrarca, Un itinerario simbolico: l’ascesa al monte Ventoso 506 T10b Francesco Petrarca, O cameretta che già fosti un porto 539 D3b Eugenio Montale, Quartetto 563 T7b Giovanni Boccaccio, Lisabetta da Messina: una tragedia borghese 695 T9a Giovanni Boccaccio, Il ritmo della fortuna/il ritmo del mare: Landolfo Rufolo 710 T9b Giovanni Boccaccio, La formazione di un mercante: Andreuccio da Perugia 719
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