N. Gazich
b
Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di
Filippo La Porta
1
Edizione azzurra
L’amorosa b inchiesta Quattrocento e Cinquecento
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida equilibri
PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ
ORIENTAMENTO
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
Novella Gazich Manuela Lori
L’amorosa inchiesta 1b con la collaborazione di
Filippo La Porta
Edizione azzurra
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
Quattrocento e Cinquecento
Indice Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali Umanesimo e Rinascimento
23
Sguardo sulla storia 24
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 28 1 Umanesimo/Rinascimento 28 2 L’Umanesimo: la centralità dell’uomo e la rivalutazione della dimensione terrena 29 Giannozzo Manetti D1 Il piacere, non il dolore, caratterizza la vita umana 32 Poggio Bracciolini online D2 Il desiderio di arricchirsi non è una colpa perché è naturale Leon Battista Alberti online D3 Lode dell’operosità
3 Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici 34 PER APPROFONDIRE La nascita del collezionismo 34 Marsilio Ficino D4 Una nuova età aurea 35 Poggio Bracciolini online D5 Ho trovato Quintiliano ancor salvo e incolume
4 La fondazione del metodo filologico 36 PER APPROFONDIRE Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari 37
5 La concezione del tempo e dello spazio 38 Il tempo degli umanisti
38
Leon Battista Alberti LEGGERE D6 Il valore del tempo LE EMOZIONI 38 Lo spazio 40 Cristoforo Colombo online D7 La scoperta del nuovo mondo PER APPROFONDIRE Le città ideali 41
6 I valori e i modelli di comportamento 43 Cristoforo Landino
online D8 Un incontro tra spiriti affini
7 Luoghi, centri e figure della produzione culturale 45 La corte: luogo-simbolo della cultura umanistico-rinascimentale 45 I LUOGHI DELLA CULTURA La corte 48 Il cenacolo e l’accademia 49 La biblioteca 50 Nuovi spazi per una “cultura del dialogo” 49 Gli intellettuali: nuovi ruoli, nuove identità 51
INDICE
3
TESTI IN DIALOGO • Il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico nel ritratto dei contemporanei: due testimonianze
Angelo Poliziano
online D9a «Uomo nato a cose grandi»
Niccolò Machiavelli
online D9b Amava meravigliosamente qualunque era in una arte eccellente
Giorgio Vasari
online D10 Leon Battista Alberti, prototipo dell’artista-intellettuale
TESTI A CONFRONTO • Vivere a corte: tra mitizzazione e critica
Baldesar Castiglione D11a La corte felice di Urbino: un mito nostalgico 53 Erasmo da Rotterdam D11b La vita vuota dei cortigiani 54
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 55 1 Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica 55 TESTI IN DIALOGO • La pedagogia umanistica: alcune testimonianze
Pier Paolo Vergerio
online D12a Centralità degli studia humanitatis
Leon Battista Alberti
online D12b Anche l’esercizio fisico è importante
2 Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura 56 Leonardo Bruni D13 Il valore educativo della discussione e del confrontomaggio
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
58
3 Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino 59 L’opera di Marsilio Ficino, prototipo del “nuovo filosofo” 59 Pico della Mirandola D14 Il posto dell’uomo nell’universo 60
4 Un modo diverso di guardare alla natura 63 PER APPROFONDIRE Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna 64 Leonardo da Vinci D15 Le scienze che non si riferiscono all’esperienza sono vane ed erronee 64
3 Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 66 1 La letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 66
4 L’evoluzione della lingua 69 1 Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare 69 PER APPROFONDIRE Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare 69
2 La “questione della lingua” nel Cinquecento 70 Le diverse posizioni sul problema della lingua 70 PER APPROFONDIRE Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore 71
4
INDICE
Lorenzo Valla
online D16 Il latino è la lingua della civiltà
Pietro Bembo D17 Chi scrive deve imitare i grandi modelli 73 LIBRI, LETTORI, LETTURA
La rivoluzione della stampa 76 Dove e come leggono gli umanisti 78 Tommaso Garzoni
online D18 La stampa produce conoscenza per tutti
TESTI IN DIALOGO • Leggere nell’età umanistico-rinascimentale
Niccolò Machiavelli
online D19a La “doppia lettura” di Machiavelli
Guarino Veronese
online D19b Leggere prendendo appunti: i suggerimenti di un grande educatore
Michel de Montaigne
online D19c Montaigne e i libri ARTE NEL TEMPO
Il Quattrocento La concezione di uno spazio matematico e l’artista di corte 80 1. Trinità di Masaccio 80 2. L’artista di corte: la Pala di Brera di Piero della Francesca 81 3. L’artista di corte: la Camera Picta di Andrea Mantegna 82 Il primo Cinquecento Corpi, movimento e spazio 84 4. Il naturalismo di Leonardo 84 5. La pittura scenografica di Tiziano 85
online
Sintesi con audiolettura 86 Zona Competenze 90 Lezione in Power Point Verso il Novecento Achille Campanile Un rovesciamento umoristico dell’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa” Per approfondire La filologia dell’opera Danzar, festeggiar, cantar e giocare… Il ruolo della festa nella società signorile
1 Classicismo e anticlassicismo
L’Accademia platonica di Careggi Le scuole umanistiche di Guarino e di Vittorino da Feltre Segrete corrispondenze: l’interesse rinascimentale per la magia Gallery Il genio multiforme di Leonardo
91
1 La visione classicistica della letteratura 92 1 I principi chiave del classicismo 92 PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi 93
2 Lorenzo de’ Medici 94 Lorenzo de’ Medici T1 Canzona di Bacco 95
3 Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza 98 Le Stanze per la giostra
98
SGUARDO SULL'ARTE Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte 100
INDICE
5
La Fabula di Orfeo e la nascita di un teatro umanistico per la corte
102
PER APPROFONDIRE Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano
102
Angelo Poliziano T2 Il regno di Venere e dell’Amore T3 I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
103 107
4 Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia
109
Jacopo Sannazaro T4 L’evocazione di un mondo idillico fuori dal tempo online T5 La morte dell’Arcadia: l’epilogo funereo dell’opera
110
5 La civiltà del trattato
113
Il trattato Gli Asolani e la divulgazione dell’amor platonico Pietro Bembo T6 L’amore spiritualizzato Il Cortegiano di Baldesar Castiglione: l’identikit del perfetto gentiluomo di corte
113
PER APPROFONDIRE Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei Giovanni Della Casa e il Galateo: la “civiltà delle buone maniere”
115 116 118 119
EDUCAZIONE CIVICA secondo le
NUOVE Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
121
#PROGETTOPARITÀ
T7 Le qualità del “perfetto cortigiano” Baldesar Castiglione T7a Grazia e sprezzatura T7b Il ruolo del cortigiano T8 Suggerimenti su come comportarsi in società Giovanni Della Casa T8a Cattive maniere a tavola T8b Argomenti di conversazione. Come parlare in società
2 La produzione anticlassicista 1 Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo 2 La Vita di Benvenuto Cellini
122 122 123 126 126 127 130 130 131
Benvenuto Cellini
online T9 Un omicidio
SGUARDO SULL'ARTE La fusione del Perseo
3 Un “irregolare”: Pietro Aretino Pietro Aretino T10 Una spregiudicata lezione di erotismo
4 Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo PER APPROFONDIRE Il mito del paese di Cuccagna
133 134 135 137
Teofilo Folengo T11 Le Muse maccheroniche online T12 Un contadino… poco bucolico
138
5 Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais
142
François Rabelais T13 L’appello ai lettori: la difesa del riso
6
132
INDICE
145
online T14 La poetica dell’eccesso
online
T15 L’aldilà come luogo del “rovesciamento carnevalesco” Sintesi con audiolettura Zona Competenze
Per approfondire Dal “giardino paradiso” dell’età umanisticorinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi Miguel de Cervantes Don Chisciotte e Sancio Panza in Arcadia
146 150 152
Interpretazioni critiche Maria Corti Il codice bucolico e l’Arcadia di Sannazaro Primo Levi Rabelais uomo delle contraddizioni Video e Audio Giacomo Battiato (Film, 1989) Una vita scellerata
2 Il petrarchismo e la poesia femminile
153
1 La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 154 1 Il petrarchismo
154
I petrarchisti
155
2 La contestazione del modello: gli antipetrarchisti
156
T1 Il modello e la contestazione parodica Pietro Bembo T1a Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura Francesco Berni T1b Chiome d’argento fino, irte e attorte Pietro Bembo online T2 Piansi e cantai Michelangelo Buonarroti T3 Giunto è già ’l corso della vita mia Michelangelo Buonarroti online T4 O notte, o dolce tempo, benché nero Giovanni Della casa T5 Questa vita mortal, che ’n una o ’n due
158 158 159
161
163
2 Le poetesse
165
PER APPROFONDIRE Cosa significava essere una “cortigiana”? Vittoria Colonna secondo le NUOVE T6 Qui fece il mio bel sole a noi ritorno EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Gaspara Stampa T7 Voi, ch’ascoltate in queste meste rime Veronica Gambara online T8 Ombroso colle Isabella di Morra online T9 D’un alto monte onde si scorge il mare
165
PARITÀ DI GENERE equilibri
167
#PROGETTOPARITÀ
168
VERSO ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
Sintesi con audiolettura Zona Competenze
170 171 172
INDICE
7
3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
173
1 Il Quattrocento 174 VERSO IL NOVECENTO Dalla facezia umanistica alla barzelletta 175 Achille Campanile Trattato delle barzellette 175 Poggio Bracciolini T1 Il prete che invece di paramenti portò al vescovo dei capponi 176 Masuccio Salernitano online T2 Una novella ispirata al gusto per l’orrido
2 Il Cinquecento 178 Matteo Bandello T3 Bandello e i “casi strani”: Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide 181 SGUARDO SUL TEATRO E CINEMA La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema 185 TESTI IN DIALOGO • La storia di Romeo e Giulietta
Matteo Bandello D1a La scena del balcone in Bandello 186 William Shakespeare D1b La scena del balcone in Shakespeare 188
online
Sintesi con audiolettura 193 Zona Competenze 194
Per approfondire Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio
Interpretazioni critiche Salvatore Battaglia L’imprevedibilità come legge del comportamento umano
4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
195
1 Dai cantari al poema cavalleresco 196 1 Un genere destinato al successo 196 2 I cantari 197 PER APPROFONDIRE La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare 197 online T1 L’infrazione dell’aura mitica: Orlando, affamato, cerca lavoro
3 Il poema cavalleresco 198 4 Il Morgante di Pulci. La deformazione comica e grottesca della materia cavalleresca 199
8
Luigi Pulci, un “irregolare” alla corte dei Medici
199
Il Morgante
200
INDICE
5 L’Orlando innamorato di Boiardo e la nostalgica riproposizione del mondo cavalleresco
201
Matteo Maria Boiardo alla corte estense
201
L’Orlando innamorato
202
PER APPROFONDIRE La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato
205
TESTI IN DIALOGO • I proemi del Morgante e dell’Orlando innamorato
206
Luigi Pulci T2a Il proemio del Morgante Matteo Maria Boiardo T2b Il proemio dell’Orlando innamorato Matteo Maria Boiardo online T3 …E torna il mondo di virtù fiorito Luigi Pulci T4 Il credo blasfemo di Margutte Luigi Pulici online T5 E Runcisvalle pareva un tegame Matteo Maria Boiardo T6 La bella Angelica propone una sfida cavalleresca ANALISI PASSO DOPO PASSO VERSO IL NOVECENTO Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato Gianni Celati L’Orlando innamorato raccontato in prosa Matteo Maria Boiardo secondo le EDUCAZIONE NUOVE T7 Orlando difende i valori della cultura e dell’amore CIVICA Linee guida
206 208
210
214 218 218 220
6 L’evoluzione del tema cavalleresco nel Cinquecento. Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata
224
Sintesi con audiolettura Zona Competenze
225 227
5 Ludovico Ariosto
228
1 Ritratto d’autore
230
1 Una vita nella corte
230
SGUARDO SULLA STORIA Ferrara al tempo di Ariosto
231
2 Le opere
234
1 Lo sperimentalismo dei generi 2 Le Rime 3 Ariosto commediografo
235
PER APPROFONDIRE Ariosto pensava a un “canzoniere”?
4 L’epistolario Ludovico Ariosto T1 Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore
234 235 235 237 238
INDICE
9
5 Le Satire
239
PER APPROFONDIRE Gli argomenti delle Satire
240
Ludovico Ariosto secondo le NUOVE T2 Ariosto e la condizione cortigiana EDUCAZIONE CIVICA Linee guida T3 Ariosto e la condizione del cortigiano
242 246
VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo
250
3 L’Orlando furioso
252
1 La genesi, le vicende editoriali, la trama
252
Il poema di una vita. Le tre edizioni La trama dell’Orlando furioso
253 254
PER APPROFONDIRE L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore
254
2 Temi e motivi
256
Le donne… gli amori
256
SGUARDO SULL’ARTE La maga Melissa secondo Dossi
256
I cavallier… l’armi: il tema della guerra La dimensione del “meraviglioso” Luoghi-simbolo: la selva, il palazzo di Atlante, il valloncello della Luna
258 259 260
3 Le modalità narrative
261
L’“inchiesta” e la visione ariostesca della vita umana
261
“Strani viaggi”: il modello spaziale del poema I personaggi e il narratore
263 264
4 Le scelte stilistico-linguistiche e metriche
265
PER APPROFONDIRE Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore
265
VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo
267
Ludovico Ariosto T4 Un poema nuovo nasce dalla tradizione cavalleresca T5 Il primo canto, compendio dell’universo poetico del Furioso
270 273
VERSO IL NOVECENTO Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato Italo Calvino Il lamento di Sacripante e la rosa Ludovico Ariosto online T6a Un anello, un mago, un cavallo alato... online T6b Un duello a colpi di magia: Bradamante sfida il mago Atlante secondo le PARITÀ NUOVE T7 Rinaldo difensore dei “diritti delle donne” EDUCAZIONE CIVICA DI GENERE Linee guida online T8 Ruggiero all’isola di Alcina online T9 Una terribile invenzione di guerra: l’archibugio T10 Il palazzo dei desideri COLLABORA ALL’ANALISI
287 287
equilibri
288
#PROGETTOPARITÀ
SGUARDO SULLA LETTERATURA E IL TEATRO L’Orlando furioso di Ronconi
292 297
Ludovico Ariosto
online T11 La preghiera di Carlo Magno e il viaggio dell’angelo Michele:
la dimensione religiosa entra nel poema?
SGUARDO SULL’ARTE La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano
10
INDICE
300
Ludovico Ariosto T12 Una storia di amicizia e morte sullo sfondo della guerra: Cloridano e Medoro ANALISI PASSO DOPO PASSO LEGGERE 302 LE EMOZIONI T13 Ricompare Angelica… ma è una nuova Angelica 313 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
T14 E cominciò la gran follia sì orrenda
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
317
online T15 Un’avventura fuori dal mondo: Astolfo nel Paradiso Terrestre online T16 Il rovesciamento della prodezza cavalleresca nella pazzia
SGUARDO SULL’ARTE La follia di Orlando 328 Ludovico Ariosto T17 Il vallone lunare delle cose perdute: Astolfo recupera il senno di Orlando 329 online T18 L’Orlando furioso giunge in porto
VERSO IL NOVECENTO L’Orlando furioso come fonte e modello 334 Italo Calvino Storia di Astolfo sulla Luna 335 VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 336
5 L’Orlando furioso nel tempo 338 online T19 Due opposti giudizi sul confronto Orlando furioso-Gerusalemme liberata
Camillo Pellegrino
online T19a Il palazzo illusionistico dell’Ariosto e la “fabrica” solida del Tasso
Galileo Galilei
online T19b Una galleria regia… lo studietto di qualche ometto curioso
Miguel de Cervantes
online T20 Un’avventura “cavalleresca” di don Chisciotte
Giacomo Leopardi
online T21 Il poema della felice immaginazione
online
Sintesi con audiolettura 341 Zona Competenze 344 Flipped classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Orlando furioso Mappa interattiva I luoghi del Furioso
Per approfondire Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo” Interpretazioni critiche Cesare Segre La ricerca di armonia nel Furioso Gallery Ferrara e gli Estensi Video L’Orlando furioso di Ronconi
6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
345
1 La follia: esperienza umana e tema letterario 346 1 Folli e follia dal Medioevo al Rinascimento 346 SGUARDO SULL’ARTE La nave dei folli
347
2 La follia come tema letterario 349 Impazzire per amore: dal romanzo cavalleresco medievale all’Orlando furioso
349
INDICE
11
Chrétien de Troyes T1 Il «cerimoniale della follia»
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
350
3 I diversi significati della follia nella cultura umanistico-rinascimentale 352 Il doppio sguardo di Leon Battista Alberti 352 Leon Battista Alberti T2 La libertà del vagabondo 353 Erasmo da Rotterdam: la follia come saggezza 357 Erasmo da Rotterdam T3 Il rovesciamento del rapporto follia-saggezza 359 online T4 Il privilegio dei “folli del re” VERSO IL NOVECENTO Da Erasmo a Pirandello: il folle “ragionatore” 361
4 La ripresa del tema della follia nell’età barocca 362 Miguel De Cervantes
online T5 Il testamento di Don Chisciotte VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
363
online
SIntesi con audiolettura 364 Zona Competenze 364
Per approfondire L’iconografia della follia
7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
365
1 Le forme teatrali del Medioevo 366 1 Il teatro medievale: dai drammi liturgici alle “sacre rappresentazioni”
366
PER APPROFONDIRE Effetti speciali 367
2 Il teatro umanistico-rinascimentale 368 1 Il teatro di corte 368 2 La commedia, genere chiave della cultura rinascimentale 370 3 La produzione comica del Cinquecento 372 PER APPROFONDIRE “Comico del significato” e “comico del significante” 373 La scenografia prospettica 374 Bernardo Dovizi da Bibbiena
online T1 Prologo a difesa della modernità
T2 Un esempio canonico di comicità 375 T3 La dimensione erotica nella commedia e la visione platonico-petrarchista dell’amore 379
12
INDICE
Baldesar Castiglione T3a L’errato giudizio dei sensi Anonimo T3b L’incontro amoroso tra Angela e Iulio
379 380 382
La cortigiana di Pietro Aretino
383
Il teatro controcorrente di Ruzante Ruzante T4 Il monologo di Ruzante e l’incontro con la moglie Gnua
384 386
Sintesi con audiolettura Zona Competenze
393 395
online
4 La commedia anticlassicistica di Aretino e Ruzante
Per approfondire La specificità della comunicazione teatrale Tragedia e commedia nel mondo classico I luoghi del teatro
Video e Audio Festa del Paradiso di Leonardo in Vita di Leonardo Renato Castellani (Sceneggiato Rai, 1971)
8 Niccolò Machiavelli
396
1 Ritratto d’autore
398
1 Una vita segnata dalla passione politica
398
PER APPROFONDIRE I rapporti di un acuto osservatore politico
400
SGUARDO SULLA STORIA La vita politica a Firenze negli anni del segretariato di Machiavelli
401
2 Le lettere di Machiavelli: l’acuto osservatore politico e l’uomo Niccolò Machiavelli T1 Lode della varietà di comportamento (e di stile) T2 L’ozio forzato all’Albergaccio e la nascita del Principe
LEGGERE LE EMOZIONI
402 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
403 404
2 Il Principe
410
1 Un “opuscolo” destinato a rivoluzionare i parametri della politica
410
2 I fondamenti metodologici del Principe 3 I temi chiave
413 414
Etica e politica
414
PER APPROFONDIRE La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo”
414
Il rapporto virtù-fortuna
416
4 Ottenere il consenso: strategie espositive ed espressive nel Principe
417
Niccolò Machiavelli secondo le EDUCAZIONE NUOVE T3 La Dedica e la presentazione del Principe CIVICA Linee guida T4 I diversi tipi di principati e le diverse condizioni della loro genesi
420 422
INDICE
13
T5 I principati nuovi acquistati grazie alla «virtù» e per mezzo di milizie proprie T5a I principati nuovi COLLABORA ALL’ANALISI T5b I principati nuovi (in italiano contemporaneo) online T6 Un principe esemplare: il duca Valentino
424 424 428
PER APPROFONDIRE Il duca Valentino: un modello per Il Principe Niccolò Machiavelli secondo le NUOVE T7 Le qualità del principe machiavelliano EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
431
PARITÀ DI GENERE equilibri
432
#PROGETTOPARITÀ
TESTI IN DIALOGO • L’immagine del principe ideale nella trattatistica umanistica
Giovanni Pontano D1a Immagini del principe tra Umanesimo e Controriforma
435
Erasmo da Rotterdam
online D1b Il «Principe cristiano»
Giovanni Botero
online D1c «La religione è fondamento di ogni prencipato»
Niccolò Machiavelli T8 Il ribaltamento del “catalogo delle virtù”: il principe golpe e lione
436
Niccolò Machiavelli
online T9 Perché i principi d’Italia persero il regno INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Eugenio Garin Il principe machiavelliano come espressione estrema della cultura italiana del Rinascimento Antonio Gnoli e Gennaro Sasso “Bene” e “male” per Machiavelli
442
Niccolò Machiavelli T10 Il ruolo della fortuna ANALISI PASSO DOPO PASSO
443
PER APPROFONDIRE La Fortuna tra letteratura e arte In letteratura… … nell’arte
448 448 449
441
VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
451
Niccolò Machiavelli T11 Esortazione a liberare l’Italia dai “barbari”
452
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Giulio Ferroni Contestualizzare il pensiero di Machiavelli
457
EDUCAZIONE CIVICA
Riflessioni sulla guerra
14
459
5 Come fu letto Il Principe: una pagina fondamentale nella coscienza politica europea
462
3 Machiavelli politologo, storico e letterato
466
1 I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: la lezione dell’Umanesimo
466
I temi principali Niccolò Machiavelli T12 Bisogna imitare gli antichi anche in campo politico online T13 Il ruolo positivo della religione a Roma. Le gravi responsabilità della Chiesa cattolica
467
INDICE
470
2 Dell’arte della guerra 473 3 Machiavelli storico: le Istorie fiorentine 474 4 L’“altro” Machiavelli: il letterato e il commediografo 475 5 La Mandragola 476 Le circostanze di composizione, il prologo, l’intreccio 476 Tra tradizione e innovazione 477 La contiguità tra la Mandragola e Il Principe 479 Niccolò Machiavelli T14 Callimaco, finto medico, propone a Nicia il rimedio della mandragola 481 online T15 Un capolavoro di cinismo e abilità retorica: l’“orazion picciola” di frate Timoteo T16 La metamorfosi di madonna Lucrezia e un ambiguo “lieto fine” 485 INTERPRETAZIONI CRITICHE
Gennaro Sasso Il ritratto linguistico di Nicia
490
SGUARDO SUL CINEMA Il cinema sul Rinascimento 491 Sintesi con audiolettura 492 Zona Competenze 495 VERSO L’ESAME DI STATO
online
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Niccolò Machiavelli «Della crudeltà e pietà» 496 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 499 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 501
Flipped classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Il Principe La Mandragola
Interpretazioni critiche Mario Martelli Lorenzo come il Valentino: la concretezza storica dell’esortazione a liberare l’Italia dai barbari Per approfondire I politici e Machiavelli
9 Francesco Guicciardini
502
1 Ritratto d’autore 504 1 Una vita sotto il segno dell’ambizione 504 Francesco Guicciardini
online D1 La vita splendida di messer Francesco in Romagna online D2 Amarezza per la perdita dell’onore
2 La centralità dell’interesse politico e la visione della realtà 506
2 Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 507 1 Dagli scritti sul governo di Firenze alla Storia d’Italia
507
Le opere dedicate al governo di Firenze 507 Il distacco dall’ottica “fiorentina” e la rinuncia alla progettualità politica 507 INDICE
15
2 La Storia d’Italia
508
Francesco Guicciardini
online D3 Il compito dello storico e i limiti della storiografia antica
PER APPROFONDIRE La storiografia: da genere letterario a moderna scienza 511 Francesco Guicciardini T1 Proemio 512 online T2 Il sacco di Roma
3 I Ricordi: il “libro segreto” 516 1 La coscienza della crisi e la fondazione di un nuovo genere di scrittura 516 PER APPROFONDIRE I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi
2 Le aree tematiche dei Ricordi
517 518
Francesco Guicciardini T3 La critica delle regole e della fiducia nell’esemplarità della storia 521 LEGGERE T4 Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane LE EMOZIONI 523 T5 Meditazioni sulla natura degli uomini, sull’esistenza e sui limiti della conoscenza umana 525 LEGGERE LE EMOZIONI T6 La Chiesa, il popolo, la politica 527 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
4 Guicciardini nel tempo 530 1 La ricezione dell’opera di Guicciardini 530 INTERPRETAZIONI CRITICHE
Francesco De Sanctis L’uomo del Guicciardini, simbolo della crisi italiana
532
Sintesi con audiolettura 534 Zona Competenze 535 VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Francesco Guicciardini «La fede fa ostinazione» 536 Ricordi 1
online
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 537 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 538
16
INDICE
Carta interattiva dei luoghi Per approfondire La complessa elaborazione dei Ricordi
Interpretazioni critiche Matteo Palumbo La morfologia dei Ricordi
Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali Manierismo e Controriforma
541
Sguardo sulla storia
542
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
544
1 L’eclissi della libertà di pensiero
544
Franco Cardini
online T1 La confessione di una strega: Gostanza di Libbiano
VERSO IL NOVECENTO La chimera di Sebastiano Vassalli
545
EDUCAZIONE CIVICA secondo le
NUOVE La caccia alle streghe: una pagina oscura della storia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
546
#PROGETTOPARITÀ
SGUARDO SUL CINEMA Streghe, inquisitori, eretici
2 La crisi dei valori rinascimentali Michel de Montaigne D1 L’uomo, la più miserabile delle creature
3 La concezione dello spazio geografico 4 I valori e i modelli di comportamento Giovanni Botero D2 Il principe assoluto deve umiliarsi davanti a Dio
546 547 549 550 551 552
5 La decadenza delle corti e la trasformazione del ruolo e dell’identità dell’intellettuale
553
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche
554
1 Copernico e la teoria eliocentrica
554
PER APPROFONDIRE La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie
554
2 La pedagogia dei gesuiti
555
3 Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento
556
1 Oltre il classicismo rinascimentale: il Manierismo
556
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Ezio Raimondi Per la nozione di manierismo letterario
558
2 Il dibattito letterario
559
I generi principali
560
4 L’evoluzione della lingua
561
LIBRI, LETTORI, LETTURA
Leggere durante la Controriforma: l’Indice dei libri proibiti
562
INDICE
17
TESTI IN DIALOGO • Pro e contro l’Indice dei libri proibiti
Roberto Bellarmino
online D3a I libri sono più pericolosi degli eretici
John Milton
online D3b I libri vivono: distruggerli è come uccidere un uomo
Paolo Sarpi
online D3c I libri sono una difesa contro un potere tirannico VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 563 ARTE NEL TEMPO
Il manierismo e la Controriforma Dall’eccentricità al rispetto del dogma 565 1. Il Trasporto di Cristo di Jacopo Pontormo 565 2. Il Giudizio Universale di Michelangelo 566 3. La Deposizione di Simone Peterzano 567
online
Sintesi con audiolettura 568 Zona Competenze 569 Lezione in Power Point
Per approfondire Il disorientamento conoscitivo e la perdita delle certezze
10 Torquato Tasso
570
1 Ritratto d’autore 572 2 La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo
577
1 Le Rime: verso il superamento del modello petrarchesco 577 T1 Un nuovo modello lirico 578 Torquato Tasso T1a Tacciono i boschi e i fiumi 578 T1b Qual rugiada o qual pianto 579 online T1c Ecco mormorar l’onde
2 Un teatro “lirico” 581 3 L’Aminta 581 PER APPROFONDIRE Una dissimulata letterarietà: le fonti 582 I temi 583
4 Il Re Torrismondo 584 Torquato Tasso
online T2 Il mondo bucolico di Aminta e l’amore per Silvia
Torquato Tasso T3 «O bella età de l’oro»: il contrasto tra natura e civiltà 585 PER APPROFONDIRE Il “disagio della civiltà” da Tasso all’epoca moderna 588
18
INDICE
3 La Gerusalemme liberata
589
1 Storia della Gerusalemme liberata
589
PER APPROFONDIRE Leggere la Liberata o la Conquistata? Un caso unico nella filologia italiana
591
2 La riflessione teorica sul poema: i Discorsi dell’arte poetica
592
PER APPROFONDIRE Le fonti storiche del poema e la rielaborazione fantastica
593
Torquato Tasso D1 La poetica di Tasso: il «maraviglioso cristiano»
594
3 La trama 4 I temi e le caratteristiche generali 5 Le modalità narrative
597
Il sistema dei personaggi Il narratore e il punto di vista La simbologia spaziale I “chiaroscuri” del poema
600 602 603 604
6 Le scelte stilistiche e metriche
604
Torquato Tasso T4 Il proemio del poema online T5 Un poema d’amore o di guerra? I Crociati alle porte di Gerusalemme
608
595 600
VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
611
Torquato Tasso T6 Il concilio infernale e il piano di guerra di Satana COLLABORA ALL’ANALISI
612
SGUARDO SULLA LETTERATURA STRANIERA Echi di Tasso in John Milton
617
Torquato Tasso
online T7 La fuga di Erminia innamorata di Tancredi EDUCAZIONE NUOVE T8 La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori CIVICA Linee guida T9 La storia di Clorinda Torquato Tasso online T9a Clorinda, coraggiosa donna guerriera T9b Il duello di Tancredi e Clorinda online T10 La magia demoniaca della selva incantata T11 Il giardino di Armida: traviamento e riscatto di Rinaldo secondo le
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
618 624
624 631
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Lanfranco Caretti Il “bifrontismo” di Tasso Sergio Zatti I musulmani e i valori del Rinascimento
638 638
4 Epistolario e Dialoghi
640
1 L’epistolario
640
Torquato Tasso T12 Le persecuzioni del folletto
2 I Dialoghi
640 643
INDICE
19
Torquato Tasso secondo le NUOVE T13 Il perfetto cortigiano e padre di famiglia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
644
#PROGETTOPARITÀ
5 La Gerusalemme liberata nel tempo
648
1 Il successo e le interpretazioni artistiche della Gerusalemme liberata
648
2 I romantici e Tasso: un rapporto privilegiato
648
Johann Wolfgang Goethe
online T14 Tasso eroe romantico, pazzo per amore
Charles Baudelaire
online T15 Tasso in prigione, o l’«Anima... che il Reale soffoca fra i suoi muri» VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi del testo e interpretazione di un testo letterario italiano Torquato Tasso Erminia sotto lo «stellato velo» della notte
online
Sintesi con audiolettura Zona Competenze
20
INDICE
Flipped classroom Lezione in Power Point Carta interattiva dei luoghi Videolezioni La vita Gerusalemme liberata
652 654 659
Sguardo sulla letteratura Come Goethe scopre la propria vocazione teatrale grazie alla storia di Clorinda Video e Audio Claudio Monteverdi Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1624)
Quattrocento e Cinquecento
22
Quattrocento e Cinquecento
Scenari socio-culturali Umanesimo e Rinascimento
LEZIONE IN POWERPOINT
La civiltà umanistico-rinascimentale, nata nell’ambiente della corte, è laica, antropocentrica, edonistica. Privilegia infatti l’attenzione alla realtà terrena rispetto alla dimensione trascendente, valorizza la capacità dell’uomo di realizzare il proprio destino e di essere protagonista della storia. Un uomo fatto di anima e di corpo che, in contrapposizione al rigorismo ascetico del Medioevo, ha diritto al piacere e alla contemplazione della bellezza della natura. A essa l’Umanesimo-Rinascimento guarda con un occhio nuovo, abbandonando la prospettiva allegorico-trascendente e creando così le premesse per la rivoluzione scientifica. Centrale nel modello culturale umanistico è il legame con il mondo antico, di cui gli umanisti si considerano eredi. I testi classici sono riscoperti e studiati con il metodo filologico e gli studia humanitatis (letteratura, storia, filosofia morale) diventano la base della formazione. La filosofia abbandona l’ossequio al principio di autorità e il culto di Aristotele propri della Scolastica medievale, mentre si afferma, nella Firenze dei Medici, il neoplatonismo: Marsilio Ficino è il prototipo di un nuovo filosofo, fautore di un modo antidogmatico di filosofare. Nel 1525 Pietro Bembo pubblica il trattato Prose della volgar lingua nel quale sostiene la necessità di utilizzare come modello linguistico per la poesia Petrarca e per la prosa Boccaccio. L’invenzione della stampa rivoluziona la produzione dei libri e i modi stessi di leggere rispetto a quanto accadeva al tempo del libro manoscritto.
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche e forme della letteratura nel Quattrocento 3 Caratteri e nel primo Cinquecento 4 L’evoluzione della lingua 23
Quattrocento e Cinquecento Sguardo sulla storia Le monarchie europee e il policentrismo italiano Affermazione degli stati nazionali in Europa vs parcellizzazione politica dell’Italia Nel Quattrocento in Europa si costituiscono dei potenti e moderni stati nazionali (Francia, Inghilterra, Spagna, Austria sono i principali). La penisola italiana è caratterizzata, al contrario, da una forte parcellizzazione che condizionerà negativamente la storia del nostro paese nei secoli a venire e che sopravviverà fino all’Unità (1861). I potentati italiani In Italia si afferma un modello politico-istituzionale che non ha confronti in Europa: le signorie, che iniziano a costituirsi alla fine del Trecento dalla dissoluzione delle strutture comunali, già nel corso del Quattrocento e poi nel primo Cinquecento, diventano vere e proprie monarchie locali, in alcuni casi a dimensione regionale, rette da potenti famiglie: da Ferrara con gli Estensi, a Mantova con i Gonzaga, a Firenze, divenuta signoria con i Medici dal 1435, a Milano, in mano prima ai Visconti e poi agli Sforza. Anche lo Stato della Chiesa è uno stato signorile a tutti gli effetti, se pure con elementi distintivi, dato il ruolo insieme religioso e politico del papato a livello internazionale. Mantiene invece una struttura repubblicana, su basi però strettamente oligarchiche, Venezia. Nella geografia politica italiana ha infine un ruolo importante il regno di Napoli, che ingloba la parte meridionale del paese.
Cronologia interattiva 1434-1464
Signoria di Cosimo I de’ Medici 1454
Pace di Lodi
1400 1453
I Turchi conquistano Costantinopoli. Fine dell’Impero romano d’Oriente
24 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali
1469
Lorenzo de’ Medici diventa signore di Firenze
Splendori e debolezze delle corti rinascimentali La realtà italiana è segnata da una drammatica contraddizione: da un lato le corti danno vita, tra Quattrocento e Cinquecento, a una civiltà raffinata e a una splendida produzione culturale, favorita dalla competizione fra i diversi potentati, che si contendono la presenza dei maggiori artisti e letterati. Dall’altro lato, sul piano politico, nessuno degli stati signorili è abbastanza forte da imporsi sugli altri e da guidare un processo di unificazione dell’Italia. Le continue lotte tra i diversi centri politici costituiscono un grave elemento di debolezza che rende l’Italia soggetta alle ingerenze straniere, aprendo ben presto la strada alle vere e proprie invasioni che determineranno la perdita della sua indipendenza politica. Un ulteriore elemento di debolezza è costituito dal forte distacco tra classi dirigenti (principi, nobiltà, alta borghesia) e classi popolari, che restringe pericolosamente la base del consenso politico dei principi.
Dall’equilibrio alla crisi La politica dell’equilibrio e la sua rottura Nel 1454 con la pace di Lodi si stabilisce un accordo tra i principali potentati italiani che assicurerà al paese per circa quarant’anni una situazione di relativa tranquillità e prosperità, garantita soprattutto dall’abilità politico-diplomatica di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, signore di Firenze. Alla sua morte (1492) segue ben presto la fine di quella precaria condizione di pace. Approfittando del riaprirsi della conflittualità in Italia, nel 1494 le armate di Carlo VIII, re di Francia, dirette al regno di Napoli, entrano in Italia e la attraversano senza incontrare alcuna resistenza. Le invasioni straniere e la decadenza politica dell’Italia Si apre da quel momento un lungo periodo di guerre sanguinose fra le potenze europee (in particolare Francia e Spagna) per il primato in Europa, delle quali principale teatro fu l’Italia, destinata a una progressiva emarginazione politica nello scacchiere europeo. L’e-
1494-1498 1492
Muore Lorenzo de’ Medici Cristoforo Colombo scopre il continente americano
A Firenze, repubblica popolare guidata da Savonarola
1500 1494
Il re di Francia Carlo VIII scende in Italia.
1512
A Firenze rientrano i Medici
Sguardo sulla storia 25
vento forse più drammatico, destinato a imprimersi nell’immaginario dell’epoca, fu il “sacco di Roma” (1527), cioè il selvaggio saccheggio della Città Eterna da parte delle truppe dei lanzichenecchi, soldati tedeschi al soldo di Carlo V. Dopo la sconfitta della Francia da parte della Spagna, la pace di Cateau-Cambrésis (1559) sancisce la fine della libertà italiana: la Spagna afferma il suo predominio su Napoli, la Sicilia e il Milanese, ma la maggior parte degli stati italiani è ormai privata di una reale autonomia.
i nuovi mondi. il trauma della Riforma
Philippe de Mazerolles, L’assedio di Costantinopoli dalla Chronique de Charles VII, 1470 ca.
Le scoperte geografiche Alla marginalizzazione politica dell’Italia si unisce la crisi economica derivante dalla perdita di centralità del Mediterraneo nei traffici commerciali, che erano controllati eminentemente dall’Italia. Già la conquista di Costantinopoli (1453) da parte dei Turchi e l’estensione della loro egemonia sulla Dalmazia e vari porti dell’Egeo avevano messo in difficoltà Venezia, la principale potenza marittima in Italia, e il suo ruolo di mediatrice delle rotte commerciali verso l’Oriente. La “scoperta dell’America” a opera di Cristoforo Colombo (1492) e le successive imprese di Vasco de Gama, Ferdinando Magellano e altri aprono poi nuove vie ai commerci marittimi. Le nuove rotte commerciali sono mono-
Cronologia interattiva 1527
I lanzichenecchi saccheggiano Roma 1517
Lutero affigge le 95 tesi. Inizio della riforma protestante
1500 1525
Battaglia di Pavia: Francesco I è sconfitto da Carlo V; a Milano tornano gli Sforza
26 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali
1530
Carlo V è incoronato imperatore
polizzate da grandi potenze come Portogallo, Spagna, Olanda e Inghilterra, più competitive rispetto all’Italia, che conosce quindi anche in ambito commerciale, una lenta decadenza. Lessico mondanizzazione/secolarizzazione In questo contesto i due termini possono considerarsi sinonimi e significano il progressivo allontanarsi della Chiesa dai principi del Vangelo e la conseguente sua perdita di sacralità, resi manifesti con l’adesione a stili e concezioni di vita laici ed esclusivamente materiali.
Sebastiano Ricci, Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento, olio su tela, 1687-1688 (Musei Civici, Piacenza).
1559
Pace di Cateau-Cambrésis
La riforma protestante e il concilio di Trento Nel corso del Quattrocento erano continuate all’interno della cristianità le critiche alla corruzione e mondanizzazione della Chiesa in nome della fedeltà alla parola evangelica, ma l’istituzione non aveva saputo (o voluto) accoglierle. Nel 1517 il monaco agostiniano tedesco Martin Lutero affigge sulla porta della chiesa di Wittemberg 95 tesi, che prendevano spunto dalla prassi scandalosa della vendita delle indulgenze per la critica alla secolarizzazione della Chiesa e per la contestazione di alcuni fondamentali presupposti dottrinali e teologici. La diffusione delle idee di Lutero, anche grazie alle potenzialità della stampa (ideata a metà del Quattrocento), determinò una frattura interna al mondo cristiano di proporzioni enormi, che si tradusse nella formazione di Chiese riformate in vari paesi europei. Nel 1545 ha inizio il concilio di Trento (1545-1563) con cui la Chiesa cattolica cerca di contrastare l’avanzare del protestantesimo attraverso una ridefinizione rigida dell’apparato dogmatico del cattolicesimo e una riorganizzazione dell’istituzione ecclesiastica. Si apre l’età della Controriforma.
1563
Si chiude il concilio di Trento
1600 1564
Muore a Ginevra Calvino
Sguardo sulla storia 27
1
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 Umanesimo/Rinascimento Due categorie culturali Per designare l’epoca che va all’incirca dall’inizio del Quattrocento alla metà del Cinquecento si fa ancora oggi riferimento ai termini “Umanesimo” e “Rinascimento”, entrati in uso a metà dell’Ottocento. Si tratta di categorie culturali, non storiche, impiegate in passato anche in senso cronologico: l’Umanesimo coinciderebbe all’incirca con il Quattrocento, mentre il Rinascimento caratterizzerebbe propriamente la prima metà del Cinquecento. Con il termine Umanesimo ci si riferisce a una tendenza che emerge già con Petrarca nel tardo Trecento e a un modello culturale fondato sulla riscoperta del mondo antico, sulla rinnovata centralità delle humanae litterae, un insieme di discipline (la poesia, la retorica, la storia, la filosofia) che secondo gli umanisti valorizzano l’uomo nella sua completezza, come già avveniva nella cultura latina. Il termine Rinascimento mette invece l’accento sul rinnovamento radicale, la “rinascita” appunto, che caratterizza i primi decenni del Cinquecento, concretizzandosi in una splendida stagione artistica e letteraria di cui l’Italia è indiscussa protagonista, ponendosi all’avanguardia rispetto agli altri paesi europei. Esso implica di per sé l’idea che il periodo precedente – e cioè l’età medievale – sia stato un periodo oscuro, dominato dall’irrazionalità e dal dogmatismo. Un’idea oggi nettamente superata, anche se si continua a utilizzare, per la sua indubbia suggestione, l’espressione “Rinascimento”.
IMMAGINE INTERATTIVA
Celeberrimo è il disegno, noto come L’uomo vitruviano, in cui Leonardo da Vinci rappresenta le perfette proporzioni della figura umana, che consentono di iscriverla sia in un quadrato sia in un cerchio: il corpo umano è concepito dagli umanisti come microcosmo perfetto che rispecchia la perfezione del macrocosmo, 1492 ca. (Venezia, Gallerie dell’Accademia).
28 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
La civiltà umanistico-rinascimentale Da decenni ormai si preferisce impiegare le due denominazioni in associazione, definendo umanistico-rinascimentale, senza ulteriori distinzioni, l’età che prende le mosse dalla fine del Trecento e si protrae oltre la metà del Cinquecento. L’inizio del concilio di Trento (1545), convocato per fronteggiare la riforma di Lutero, si può però considerare, a livello anche simbolico, un vero e proprio spartiacque: apre infatti il periodo controriformistico, antitetico – sia nei presupposti ideologici sia nell’ottica culturale – rispetto allo spirito rinascimentale.
la centralità dell’uomo e la rivalutazione 2 L’Umanesimo: della dimensione terrena Una visione antropocentrica Con l’Umanesimo si afferma una visione del mondo antropocentrica (dal greco ánthropos, “uomo”) in contrapposizione al teocentrismo della cultura medievale (dal greco theós “divinità”): la civiltà dell’UmanesimoRinascimento è fondata sulla valorizzazione delle qualità dell’uomo. Le radici di questa concezione vanno ricercate nella cultura classica, che gli umanisti riscoprono: già nei testi più antichi sono infatti presenti la fiducia nella razionalità dell’uomo, la celebrazione dell’agire umano nella società e nella storia per lasciare di sé qualcosa che rimanga per sempre. Valori che gli umanisti riprendono e che influenzano marcatamente il loro pensiero, la loro produzione letteraria, le manifestazioni artistiche: la stessa rivoluzione della prospettiva si può considerare come esito dell’adozione del “punto di vista umano” come centrale.
Lessico sublimazione
Parola chiave
La trasformazione spesso inconscia di pulsioni e/o istinti, soprattutto sessuali, in pensieri o atti ritenuti più elevati e socialmente accettabili.
Il riscatto del corpo e la legittimazione del piacere Gli umanisti esaltano la dignità e nobiltà dell’uomo, che essi considerano superiore a tutte le creature e che concepiscono, sulla scia del pensiero antico, come armonica completezza di anima e corpo. Contrapponendosi nettamente alle posizioni più rigoristiche e ascetiche del pensiero medievale, gli umanisti non disprezzano più la dimensione fisica, ma anzi esaltano la bellezza del corpo, che può essere rappresentato anche nudo senza più alcuna censura moralistica. Dopo secoli di repressione e/o di sublimazione viene nuovamente legittimato il piacere dei sensi, anche se l’imperante tendenza filosofica del neoplatonismo, di cui si parlerà più avanti (➜ PAG. 59) tende a riproporre il modello di un amore esclusivamente spirituale. Più in generale viene esaltata una visione edonistica della vita (➜ D1 ). Nell’Orlando furioso, il poema-simbolo del Rinascimento, Ariosto esplora con naturalezza l’intera fenomenologia dell’amore e fa della bella Angelica il simbolo della seduzione sensuale. (➜ C5). Il piacere dei sensi è spesso celebrato in relazione dialettica con il motivo di derivazione classica (già in Catullo, Orazio e altri) della fugacità della bellezza e della giovinezza, spesso simboleggiata dalla rosa che presto sfiorisce. In campo filosofico l’espressione più significativa di questo nuovo atteggiamento si ritrova nel dialogo De voluptate (Il piacere, 1431) del grande umanista Lorenzo Valla: egli realizza un’ardita sintesi della visione cristiana e di spunti tratti dalla filosofia di Epicuro, emarginata dai pensatori cristiani del primo Medioevo a favore del pensiero stoico, che meglio poteva accordarsi con la propria visione della vita.
edonismo L’edonismo (dal greco hedoné, “piacere”) è una concezione della vita che valorizza il diritto al piacere e in senso più lato invita a godere della bellezza, anche della natura. Una visione che trova ampio spazio nella cultura umanisticorinascimentale, in rapporto alla più generale rivalutazione della dimensione terrena e alla tendenza a riscoprire temi e motivi già presenti nella cultura e letteratura classiche.
Alimenta l’edonismo rinascimentale l’interesse per il pensiero del filosofo greco Epicuro, in cui è centrale proprio la ricerca del piacere: un percorso non finalizzato a raggiungere in modo concreto e immediato il godimento fisico, ma a realizzare l’armonia, l’assenza di turbamento (atarassia) e a godere della bellezza della vita, aspetti che caratterizzano l’esistenza del saggio.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 29
La polemica contro l’ascetismo medievale Nella cultura umanistico-rinascimentale la vita terrena non è più concepita come preparazione alla vita eterna, ma ha un suo autonomo, positivo, valore: ne è celebrata, soprattutto nei primi trattati, la dimensione mondana, mentre è criticato come improduttivo l’isolamento dell’asceta e del monaco. Nel suo De dignitate et excellentia hominis (La dignità e l’eccellenza dell’uomo) l’umanista Giannozzo Manetti loda l’operosità umana e l’eccellenza dei suoi risultati, dalla mitica impresa degli Argonauti alle straordinarie costruzioni moderne di Filippo Brunelleschi. Nella loro polemica contro l’ascetismo medievale, gli umanisti arrivano a riabilitare il desiderio dei beni materiali: mentre la cultura medievale aveva demonizzato l’avidità (rappresentata da Dante nella figura allegorica della lupa, una delle tre fiere), l’umanista Poggio Bracciolini nel De avaritia (L’avidità) difende come naturale l’inclinazione dell’uomo a ricercare la ricchezza (➜ D2 OL). Gli umanisti: sono una categoria umana eterogenea, che è unita dagli stessi ideali culturali Non è facile dare una precisa identità sociale agli umanisti, intellettuali che, nei primi decenni del Quattrocento promuovono l’affermazione del modello culturale noto come Umanesimo. Essi appartengono infatti ad ambienti e realtà sociali diversi: sono umanisti un poeta-filologo come Poliziano, l’architetto-scrittore Leon Battista Alberti, l’educatore Vittorino da Feltre, un editore di successo come Aldo Manuzio, un brillante funzionario della repubblica fiorentina come Poggio Bracciolini e così via. Di fatto gli umanisti sono persone accomunate esclusivamente dall’entusiasmo per il mondo antico, dalla passione per i libri, dalla padronanza della cultura classica. Umanista è innanzitutto chi eccelle negli studia humanitatis, cioè la storia, la poesia, la filosofia morale secondo la lezione degli antichi. Un nuovo paganesimo? Se è indubbio che i pensatori umanisti esaltano i valori umani e terreni, non intendono affatto rifiutare la visione religiosa, fondando addirittura un nuovo paganesimo, come talvolta si è detto. Certamente l’interesse metafisico non è centrale nella loro riflessione, ma non per questo l’UmanesimoRinascimento è un modello culturale irreligioso: l’uomo è infatti visto dagli umanisti come sintesi di un universo creato da Dio e animato dalla sua amorosa presenza.
Sandro Botticelli, Adorazione dei Magi, 1475 (Galleria degli Uffizi, Firenze). Nei personaggi che popolano la scena, l’artista ritrae numerosi esponenti della corte medicea: i tre re sapienti sono tre membri della famiglia dei Medici (Cosimo ai piedi della Vergine; Piero
30 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
in ginocchio e con il manto rosso; Giovanni alla sua destra), Lorenzo è in piedi sulla destra con il manto nero, Pico della Mirandola e Poliziano sulla sinistra in primo piano. Botticelli stesso si è ritratto nell’uomo sulla destra avvolto in un mantello giallo.
Grazie all’Umanesimo, però, umano e divino, sacro e profano non sono più contrapposti e distanti: da un lato il divino viene umanizzato, dall’altro l’umano viene sacralizzato. Non sono poche le opere pittoriche che lo testimoniano: certamente nella cultura medievale non sarebbe stato immaginabile un dipinto come l’Adorazione dei magi di Botticelli, in cui il grande pittore ritrae in una scena di carattere religioso personaggi della corte medicea. La laicizzazione della storia Sulla base della visione antropocentrica, con gli umanisti vengono gettate le basi della moderna storiografia: nel Medioevo la storia è considerata come realizzazione di un progetto scritto ab aeterno, “dall’eternità”, nella mente di Dio, di cui gli uomini sono semplici pedine, mentre per i nuovi intellettuali l’uomo è faber fortunae suae, “artefice della propria sorte”. Di conseguenza anche la lettura della storia si laicizza, assumendo una prospettiva propriamente umana ed escludendo programmaticamente l’intervento del soprannaturale. Inoltre la storiografia umanistica si fonda su un maggiore spirito critico e sulla ricerca, nella successione degli eventi storici, delle costanti dell’agire politico, nell’intento di ricavare dalla storia modelli esemplari da seguire. Una visione, questa, presente in particolare in Machiavelli (➜ C8). Dalla centralità dell’uomo nella società alla centralità dell’uomo nel cosmo La celebrazione dell’uomo, vera costante del pensiero umanistico, è testimoniata soprattutto nella cultura fiorentina. Nel periodo del cosiddetto “Umanesimo civile” (prima metà del Quattrocento) tale esaltazione si associa a un attivo impegno politico da parte dei primi umanisti ed è calata nella concretezza della vita sociale e nella dimensione civile. Alcuni di loro esercitano il ruolo di cancellieri della Repubblica fiorentina: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini. Quello di cancelliere è un ruolo prestigioso, che richiede solida preparazione culturale e capacità oratorie, qualità che gli umanisti possiedono: i cancellieri devono infatti gestire i rapporti con i governi stranieri, redigere documenti ufficiali, scrivere lettere diplomatiche. A partire dalla seconda metà del Quattrocento, anche in rapporto alla progressiva affermazione della signoria dei Medici e al tramonto delle istituzioni repubblicane in Firenze, la celebrazione dell’uomo è proiettata in una direzione esclusivamente filosofica e si collega all’emergente tendenza neoplatonica; Marsilio Ficino, ispiratore del movimento, celebra la posizione privilegiata dell’uomo nel cosmo, la sua assoluta superiorità su tutte le altre creature (➜ D4 ).
Medioevo vs Umanesimo Il centro del pensiero
La visione del mondo
La concezione della storia
cultura medievale
teocentrismo (centralità di Dio)
• distacco dal mondo • disprezzo del corpo e repressione del piacere
realizzazione di un progetto divino “dall’eternità”
civiltà umanistica
antropocentrismo (centralità dell’uomo)
uomo al centro del mondo ed esaltazione della corporeità
risultato dell’agire umano (l’uomo è “artefice della propria sorte”)
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 31
Giannozzo Manetti
D1
Il piacere, non il dolore, caratterizza la vita umana De dignitate et excellentia hominis, IV
G. Manetti, De dignitate et excellentia hominis, in Prosatori latini del Quattrocento, a c. di E. Garin, Ricciardi, Milano-Roma 1952
Nel passo che segue (in latino nell’originale) l’umanista Giannozzo Manetti contesta la visione ascetica propria di alcuni settori rigoristici del pensiero medievale, il lugubre pessimismo riguardo alla condizione umana espresso in trattati come il De contemptu mundi di Innocenzo III (➜ VOL 1A PAG. 48) e riscopre e rivaluta, al contrario, la presenza del piacere nell’esistenza dell’uomo.
Se non fossimo troppo queruli1 e troppo ingrati e ostinati e delicati, dovremmo riconoscere e dichiarare che in questa nostra vita quotidiana possediamo molti più piaceri che non molestie. Non c’è infatti atto umano, ed è mirabile cosa, sol che ne consideriamo con cura e attenzione la natura, dal quale l’uomo non tragga almeno 5 un piacere non trascurabile: così attraverso i vari sensi esterni, come il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, l’uomo gode sempre piaceri così grandi e forti, che taluni paiono a volte superflui ed eccessivi e soverchi2. Sarebbe infatti difficile a dirsi, o meglio impossibile, quali godimenti l’uomo ottenga dalla visione chiara ed aperta dei bei corpi, dall’audizione di suoni e sinfonie e armonie varie, dal profumo 10 dei fiori e di simili cose odorate, dal gustare cibi dolci e soavi, e infine dal toccare cose estremamente molli. […] Perciò se gli uomini nella vita gustassero quei piaceri e quei diletti, piuttosto che tormentarsi per le molestie e gli affanni, dovrebbero rallegrarsi e consolarsi invece di piangere e di lamentarsi, soprattutto poi avendo la natura fornito con larghezza 15 copiosa3 numerosi rimedi del freddo, del caldo, della fatica, dei dolori, delle malattie; rimedi che sono come sicuri antidoti di quei malanni, e non aspri, o molesti, o amari, come spesso suole accadere con i farmaci, ma piuttosto molli, grati4, dolci, piacevoli. A quel modo infatti che quando mangiamo e beviamo, mirabilmente godiamo nel soddisfare la fame e la sete, così ugualmente ci allietiamo nel riscaldarci, 20 nel rinfrescarci, nel riposarci. Ancorché le percezioni del gusto appaiano in certo qual modo molto più dilettose di tutte le altre percezioni tattili, fatta eccezione per quelle del sesso; e ciò la natura, che è guida sommamente solerte5 ed abile e senza dubbio unica6, non ha fatto a caso, ma – come dicono i filosofi – per ragioni chiare e cause evidenti, onde7 si traesse un godimento di gran lunga maggiore nel coito 25 che non nel mangiare e nel bere, intendendo essa innanzitutto conservare la specie piuttosto che gl’individui; e la specie si conserva con l’unione del maschio e della femmina, l’individuo invece con l’assorbimento del cibo che, per dir così, recupera ciò che si perde. In tal modo tutte le opinioni e le sentenze sulla fragilità, il freddo, il caldo, la fatica, la fame, la sete, i cattivi odori, i cattivi sapori, visioni, contatti, 30 mancanze, veglie, sogni, cibi, bevande, e simili malanni umani8; tutte, insomma, tali argomentazioni appariranno frivole, vane, inconsistenti a quanti considereranno con un po’ più di diligenza e di accuratezza la natura delle cose. 1 queruli: lamentosi. 2 soverchi: sovrabbondanti. 3 con larghezza copiosa: con generosa
5 solerte: attiva, sollecita. 6 unica: la natura è guida insostituibile
abbondanza. 4 grati: gradevoli.
7 onde: affinché. 8 le sentenze... umani: l’autore riassume,
nell’indicare la giusta via da seguire.
32 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
contestandole, le argomentazioni del De contemptu mundi di Innocenzo III, rivolte a dimostrare la miseria della condizione umana.
Concetti chiave La rivalutazione del piacere
Il passo di Giannozzo Manetti testimonia in modo emblematico la nuova prospettiva dell’Umanesimo sull’uomo e sulla natura. Polemizzando con il rigorismo ascetico medievale, l’umanista rivaluta il piacere che deriva dai sensi, e in particolare quello sessuale, voluto dalla natura perché si possa perpetuare la specie. La visione edonistica degli umanisti deriva dall’influenza della filosofia di Epicuro (➜ PAROLA CHIAVE Edonismo, PAG. 29), trasmessa alla cultura latina soprattutto attraverso il poema De rerum natura di Lucrezio, riscoperto nel Quattrocento. Per gli epicurei il piacere è il fine della vita, e la natura è la guida per raggiungerlo: essi rifiutano perciò i piaceri che non muovono dall’istinto (ad esempio quelli legati a un lusso smodato). Tuttavia Manetti – come Lorenzo Valla nel De voluptate (Il piacere) – tende a conciliare la ricerca edonistica (cioè del piacere) di matrice epicurea con la fede cristiana, arrivando a queste conclusioni: essendo stata creata da Dio, la natura è necessariamente buona; perciò, se la natura ci indirizza al piacere, anch’esso deve essere un bene. La polemica di Giannozzo Manetti e di altri umanisti di certo è rivolta non contro la fede cristiana, ma contro l’interpretazione medievale della religione, che contrapponeva anima e corpo, mondo terreno e divino, e metteva in ombra i lati piacevoli della vita umana che invece, secondo gli umanisti, è da rivalutare in tutta la sua positività.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in max 10 righe il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. Nel testo si manifesta una decisa rivalutazione del corpo: quali elementi legati alla natura fisica dell’uomo sono maggiormente sottolineati? ANALISI 3. Sottolinea nel testo la tesi e le argomentazioni a favore della tesi.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Metti a confronto l’argomentazione di Manetti con il passo tratto da De contemptu mundi di Lotario da Segni (➜ VOL 1A PAG. 48) e sintetizza le tue osservazioni in un testo di 10 righe.
online D2 Poggio Bracciolini Il desiderio di arricchirsi non è una colpa perché è naturale De avaritia D3 Leon Battista Alberti Lode dell’operosità Libri della famiglia
Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538 ca. (Galleria degli Uffizi, Firenze).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 33
3 Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici Una nuova “età dell’oro”? La civiltà umanistica ha il suo fondamento nel mito della “rinascita”, che caratterizza in particolare i primi decenni del Quattrocento: per gli intellettuali del tempo, dopo secoli di decadenza, si è aperta una nuova “età dell’oro” a cui sono orgogliosi di appartenere (➜ D4 ). Nella visione degli umanisti una vera e propria “frontiera” separa il presente dal passato medievale, condannato senza appello (il mito negativo del Medioevo come “età buia” nasce proprio nell’Umanesimo). Al contrario, gli umanisti stabiliscono un rapporto di stretta continuità tra l’età classica e l’età umanistica e ne ripropongono i valori spirituali e culturali, oltre che la lingua stessa: nella prima metà del Quattrocento infatti, come vedremo più avanti, la lingua della cultura è il latino, che ogni letterato si sente in dovere di padroneggiare, perché considerata espressione della più alta civiltà.
PER APPROFONDIRE
La ricerca e riscoperta dei testi antichi Il mito della rinascita è alimentato dalla riscoperta dei testi antichi che erano andati ormai perduti. I protagonisti dell’Umanesimo, come già Petrarca, vanno appassionatamente a “caccia”, nelle biblioteche dei monasteri, dei manoscritti antichi; i più fortunati di loro riescono a riportare alla luce importantissime opere dell’età classica: basti solo pensare al ritrovamento, da parte di Poggio Bracciolini, avvenuto nel 1416 nell’abbazia di San Gallo, dell’Institutio oratoria di Quintiliano (➜ D5 OL) e, l’anno successivo, del De rerum natura di Lucrezio, uno dei grandi capolavori della cultura latina. La ricerca e riscoperta dei classici non riguarda solo le opere letterarie e filosofiche, ma anche i testi scientifici e artistici. Particolarmente importante ad esempio fu il ritrovamento, sempre ad opera di Poggio Bracciolini, del De architectura di Vitruvio (I secolo a.C.) nell’abbazia di Montecassino, un testo destinato a influenzare profondamente gli architetti rinascimentali. Da parte degli artisti si diffonde l’abitudine del viaggio a Roma per studiare dal vero i monumenti dell’antichità. Il fascino dell’antico condiziona fortemente l’immaginario artistico, ancora più che l’ambito letterario: personaggi mitologici, elementi figurativi e architettonici tratti dal mondo classico entrano massicciamente nella pittura rinascimentale e ne costituiscono l’elemento distintivo.
La nascita del collezionismo Risalgono al XV-XVI secolo le prime collezioni, iniziativa di privati cittadini, nobili e ricchi borghesi, con preziosi reperti dell’antichità classica, considerati segno tangibile di prestigio sociale ed economico. Alcuni palazzi aristocratici, come il Medici Riccardi a Firenze, diventano veri e propri musei, visitati e ammirati. Principi, ecclesiastici, nobili, ricchi borghesi fanno a gara nel collezionare nelle loro dimore statue, medaglie, monete, oggetti antichi.
Lorenzo Lotto, Ritratto di Andrea Odoni, 1527 (Royal Collection, Castello di Windsor).
34 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Marsilio Ficino
D4
Una nuova età aurea Epistole, IX
M. Ficino, Epistole, trad. di E. Garin, in Id., Il Rinascimento italiano, Capelli, Bologna 1980
Gli umanisti considerano l’età medievale un periodo di decadenza e barbarie, simboleggiato dalla rovina dei grandiosi monumenti della Roma antica e si ritengono con orgoglio i fondatori di una nuova civiltà, che proprio dall’antichità classica trae i suoi modelli e che ad essa si richiama per restaurare il culto delle lettere e delle arti.
Lodi del nostro secolo, che è d’oro per i suoi aurei ingegni. Marsilio Ficino a Paolo di Middelburg1, fisico ed astronomo insigne. Quello che i poeti cantarono un giorno delle quattro età, di piombo, di ferro, d’argento e d’oro, il nostro Platone nella Repubblica2 riferisce a quattro nature d’uomini, 5 dicendo che nell’indole degli uni è congenito il piombo, il ferro in quella di altri, in altri l’argento, in altri l’oro. Se dunque c’è un’età che dobbiamo chiamar d’oro, essa è senza dubbio quella che produce dovunque ingegni d’oro. E che tale sia questo nostro secolo non metterà in dubbio chi vorrà prendere in considerazione i mirabili suoi ritrovati3. Questo secolo, infatti, come aureo, ha riportato alla luce le 10 arti liberali già quasi scomparse4, la grammatica, la poesia, l’oratoria, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, e l’antico suono della lira Orfica5. E ciò a Firenze. E, cosa che presso gli antichi era celebrata, ma era ormai quasi scomparsa, ha congiunto la sapienza con l’eloquenza, la prudenza con l’arte della guerra. E questo ha mostrato, quasi in Pallade, in Federigo Duca d’Urbino6, della cui virtù fece eredi 15 il figlio e il fratello. In te, o mio Paolo, sembra aver portato a perfezione l’astronomia; in Firenze ha richiamato alla luce la sapienza platonica7; in Germania, al tempo nostro, sono stati trovati gli strumenti per stampare i libri8. 1 Paolo di Middelburg: fisico e astronomo olandese (1446-1534).
2 Repubblica: una delle opere più famose del filosofo greco Platone, dedicata al tema politico. 3 i mirabili suoi ritrovati: le sue meravigliose invenzioni. 4 già quasi scomparse: Ficino sottolinea la decadenza culturale medievale. 5 suono... Orfica: la lira del mitico cantore Orfeo simboleggia la poesia. 6 Federigo... Urbino: Federigo II da Montefeltro (1422-1482), duca di Urbino. 7 in Firenze... platonica: su invito di Cosimo de’ Medici, Marsilio Ficino aveva tradotto i testi di Platone e dei neoplatonici, fondando un’Accademia platonica nella sua villa di Careggi. 8 in Germania… i libri: nel 1455, a Magonza, la pubblicazione della prima edizione in grande formato della Bibbia per opera di Gutenberg avviò la grande avventura della stampa.
Marsilio Ficino in un capolettera miniato.
online D5 Poggio Bracciolini Ho trovato Quintiliano ancor salvo e incolume Epistole
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 35
Concetti chiave Alle radici dell’idea di Rinascimento, nuova età dell’oro
Nel testo di Marsilio Ficino è sottesa l’idea di un rinnovamento profondo che caratterizza, secondo gli umanisti, il loro tempo, riportandolo allo splendore delle età passate, ricche di cultura e di arte, dopo un periodo (quello medievale) di decadenza e di barbarie. La nuova età dell’oro è dunque secondo Ficino il Quattrocento umanistico, in particolare nella Firenze medicea, che sembrava far rivivere lo splendore dell’antichità. Il ritorno dell’antico teorizzato da Ficino però si configura non come passiva ripetizione, ma come vitale emulazione: ogni manifestazione culturale rinascimentale ha il suo doppio nell’antichità, ma perfeziona l’eredità classica arricchendola e rendendola attuale. Significativo è infine il riferimento mitologico a Pallade, la romana Minerva, come dea che congiunge sapienza e virtù attive, e simboleggia perciò il tema umanistico del rinnovato rapporto fra cultura e vita attiva, nel Medioevo tendenzialmente separate, e invece armonizzate nell’ideale di “uomo completo” della civiltà umanistico-rinascimentale: un ideale di cui sono espressione le figure di coltissimi uomini politici del Quattrocento, come il duca di Urbino (ricordato nel testo), e Lorenzo il Magnifico.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. In che senso Marsilio Ficino considera aurea la propria età? ANALISI 2. Cosa racconta il mito dell’“età dell’oro”? Come Marsilio Ficino lo adatta all’epoca rinascimentale?
Interpretare
SCRITTURA 3. Lo schema di periodizzazione adottato dagli umanisti considera il Medioevo come un’età di decadenza posta tra lo splendore dell’antichità e quello rinascimentale. Sulla base delle conoscenze di cui disponi ritieni che tale concezione sia veritiera o che rifletta un’idea degli umanisti non del tutto condivisibile? (max 15 righe)
4 La fondazione del metodo filologico online
Per approfondire La filologia all’opera Lorenzo Valla demolisce la veridicità storica della Donazione di Costantino
Una importante eredità dell’Umanesimo Una delle più importanti eredità che gli umanisti hanno lasciato alla civiltà moderna è senza dubbio la filologia (dal greco philologhía: phílo da philêin, “amare” e lógos, “parola”, “discorso”). L’iniziatore del metodo filologico si può considerare Lorenzo Valla (1407-1457), che per primo sostiene la necessità di opporre a ogni forma di dogmatismo il vaglio critico e sottolinea l’importanza dei dati linguistici di un testo come inoppugnabile documento dell’epoca di appartenenza. In aperta contrapposizione con l’ottica medievale, che sovrapponeva ai testi una quantità di interpretazioni volte a dimostrare verità estrinseche al testo stesso, Valla sostiene la necessità che ogni problema (non solo letterario, ma anche filosofico, giuridico, teologico o storico) sia discusso tenendo conto prima di tutto dei dati linguistici. Proprio su questa base Valla riesce a confutare la veridicità storica della cosiddetta Donazione di Costantino, il documento su cui tradizionalmente si fondava il dominio temporale del papato sull’Occidente cristiano. Il documento riportava un editto del 315 d.C. con cui l’imperatore Costantino avrebbe concesso al papa Silvestro I la sovranità su Roma, l’Italia e l’Impero romano d’Occidente. Nel saggio De falso credita
36 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
et ementita donatione Constantini (Sulla donazione di Costantino contraffatta e falsamente ritenuta vera), Valla evidenzia incongruenze storiche e geografiche del testo, ma soprattutto dimostra che il linguaggio utilizzato nel documento appartiene a un periodo molto più tardo e che quindi il documento è sicuramente un falso. Un nuovo modo di leggere i classici Proprio grazie alla filologia, gli umanisti iscrivono i classici latini nel loro tempo e ne riscoprono gli autentici valori ideologici, morali e artistici, contrapponendosi anche in questo alla cultura precedente. Come dimostra la stessa Commedia, il Medioevo aveva spesso filtrato le opere classiche attraverso un’interpretazione allegorica, finalizzata a ricondurre i testi pagani alla dimensione morale e religiosa del cristianesimo, alterando così i significati originari dei testi antichi. Lettura filologica e metodo critico Ma la filologia è qualcosa di ancor più importante. Alla base della ricerca filologica sta un’idea della conoscenza concepita non come sistema definito e indiscutibile, ma come ricerca antidogmatica, soggetta a modificazioni continue in quanto sottoposta al vaglio della ragione: gli umanisti raccoglievano dati, li confrontavano, formulavano ipotesi, quindi cercavano nuovi dati per sostenerle. L’adozione del metodo filologico implica perciò di per sé l’opposizione al principio di autorità (➜ V1A PAG. 39; 59), e dunque ha contribuito all’affermarsi, in ogni campo del sapere, di un metodo scientifico, seppur inteso in senso lato.
Il legame con il mondo classico Riscoperta dei testi antichi
Cognizione del distacco tra passato e presente
Abbandono dell’interpretazione allegorica
PER APPROFONDIRE
Metodo filologico
Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari Soprattutto nell’età precedente alla stampa, quando la trascrizione (e la trasmissione) dei testi era opera degli amanuensi, la fisionomia originaria del testo poteva essere alterata da errori di trascrizione, rimaneggiamenti, interpolazioni più o meno volontarie. I filologi umanisti cercano di eliminare ogni errore (emendatio), confrontando criticamente (in un’operazione definita collazione) le diverse versioni del testo che ci sono pervenute (dette testimoni) alla ricerca della migliore lezione, ovvero la versione del
testo che appare verosimilmente la più vicina all’originale. La filologia utilizza l’apporto di discipline collaterali (come l’archeologia, l’epigrafia, la linguistica ecc.). Per procedere alla ricostituzione del testo originario, infatti, il filologo deve conoscere le particolarità della lingua usata in una determinata epoca, le modalità stilistiche proprie di un determinato autore, le occasioni e il fine per i quali il testo fu scritto, la biografia dell’autore, i valori e i modelli conoscitivi del suo tempo.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 37
5 La concezione del tempo e dello spazio Il tempo degli umanisti La laicizzazione e l’individualizzazione del tempo Nella civiltà umanistica il tempo è considerato un bene prezioso, ma l’uso riguarda unicamente l’uomo, non Dio: il tempo si laicizza, non è più un’entità metafisica nelle mani di Dio, né il simbolo angoscioso della precarietà e brevità della vita di fronte all’eterno (come in tanti scritti di Petrarca). Il tempo va utilizzato saggiamente non per pregare ma per fare, per realizzare su questa terra, in questa vita le proprie potenzialità. Nel terzo libro della Famiglia dell’umanista Leon Battista Alberti, da cui è tratto il passo proposto, emerge come modello un uomo che ormai programma ogni ora e che riflette sull’opportunità e l’inopportunità dei compiti prefissati (➜ D6 ). Questa cura quasi maniacale del tempo potrebbe richiamare il “tempo dei mercanti” di cui si è parlato a proposito della civiltà comunale: mentre i mercanti, però, dedicano il tempo essenzialmente agli affari, per gli umanisti l’unico suo uso davvero nobile – e vantaggioso – è quello dedicato allo studio. L’otium: il tempo della vocazione Gli umanisti associano la dedizione agli studia humanitatis all’otium, concetto e ideale di vita derivato dall’amata cultura classica, in particolare da Cicerone. L’otium (che i latini contrapponevano al negotium, cioè il tempo degli affari, delle occupazioni) è assimilabile in parte a ciò che noi moderni chiamiamo “tempo libero”: non significa quindi “inattività” (come nella comune accezione del termine “ozio”) ma è piuttosto il tempo non soggetto a doveri prefissati e destinato alla cura di sé, in cui si riesce a coltivare i propri interessi, a esprimere le proprie qualità interiori.
Leon Battista Alberti
D6
Il valore del tempo
LEGGERE LE EMOZIONI
Libri della famiglia, III L.B. Alberti, Libri della famiglia, a c. di R. Romano e A. Tenenti, Einaudi, Torino 1969
Nel terzo libro dell’opera di Leon Battista Alberti, Libri della famiglia, l’argomento centrale trattato è la gestione economica della famiglia, la necessità di acquisire la dote della “masserizia”, ossia la capacità di amministrare saggiamente i beni e il patrimonio familiare. In questo contesto si iscrive la significativa riflessione di Alberti sull’uso oculato del tempo, attribuita al personaggio di Giannozzo.
GIANNOZZO […] Adunque io quanto al tempo cerco adoperarlo bene, e studio di perderne mai nulla1. Adopero tempo quanto più posso in essercizii lodati; non l’adopero in cose vili, non spendo piú tempo alle cose che ivi si richiegga a farle bene2. E per non perdere di cosa sì preziosa punto, io pongo in me questa regola: mai mi 5 lascio stare in ozio, fuggo il sonno, né giacio3 se non vinto dalla stracchezza, ché 1 studio… nulla: cerco di non perderne mai nulla. 2 Adopero tempo... farle bene: Uso il
tempo il più possibile in attività degne di lode, non lo impiego per cose di scarsa utilità, non utilizzo per le attività più
38 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
tempo di quanto se ne richieda per farle bene. 3 giacio: mi sdraio a riposare.
sozza cosa mi pare senza repugnare4 cadere e giacere vinto, o, come molti, prima aversi vinti che certatori5. Così adunque fo6: fuggio il sonno e l’ozio, sempre faccendo qualche cosa. E perché una faccenda non mi confonda l’altra, e a quello modo poi mi truovi averne cominciate parecchie e fornitone niuna7, o forse pur in quello 10 modo m’abatta avere solo fatte le piggiori e lasciate adrieto le migliori8, sapete voi, figliuoli miei, quello che io fo? La mattina, prima, quando io mi levo, così fra me stesso io penso; oggi in che arò io da fare9? Tante cose: annòverole10, pensovi, e a ciascuna assegno il tempo suo: questo stamane, quello oggi, quell’altra stasera. E a quello modo mi viene fatto con ordine ogni faccenda quasi con niuna fatica. Soleva 15 dire messer Niccolaio Alberto, uomo destissimo e faccentissimo11, che mai vide uomo diligente andare se non adagio. Forse pare il contrario, ma certo, quanto io pruovo in me, e’ dice il vero. All’uomo negligente fugge il tempo. Segue che il bisogno o pur la volontà il sollecita12. Allora quasi perduta la stagione gli sta necessità fare in furia e con fatica quello che in sua stagione, prima, era facile a fare.13 E abbiate a mente, 20 figliuoli miei, che di cosa alcuna mai sarà tanta copia14, né tanta abilità ad averla che a noi non sia difficilissimo quella medesima fuori di stagione trovarla. Le semente, le piante, e’ nesti15, fiori, frutti e ogni cosa alla stagione sua pronto si ti porge: fuori di stagione non senza grandissima fatica si ritruovano. Per questo, figliuoli miei, si vuole osservare il tempo16, e secondo il tempo distribuire le cose, darsi alle faccende, mai 25 perdere una ora di tempo. Potrei dirvi quanto sia preziosa cosa il tempo, ma altrove sia da dirne con piú elimata17 eloquenza, con più forza d’ingegno, con più copia di dottrina che la mia. Solo vi ricordo a non perdere tempo. Così facciate come fo io. La mattina ordino me a tutto il dì18, il giorno seguo quanto mi si richiede, e poi la sera inanzi che io mi riposi ricolgo in me quanto feci il dì19. Ivi, se fui in cosa alcu30 na negligente, alla quale testé possa rimediarvi, subito vi supplisco20: e prima voglio perdere il sonno che il tempo, cioè la stagione delle faccende21. 4 senza repugnare: senza cercare di resistere. 5 aversi... certatori: darsi vinti prima che combattenti (prima di combattere). 6 fo: faccio. 7 e fornitone niuna: senza averne conclusa nessuna. 8 o forse... le migliori: o forse soltanto (agendo) in quel modo mi capiti di aver realizzato soltanto le cose meno rilevanti e lasciate indietro le più importanti. 9 quando... da fare?: quando mi alzo, così penso fra di me: oggi, che cosa dovrò (arò… da) fare? 10 annòverole: le enumero, faccio un elenco. 11 destissimo e faccentissimo: molto vivace e superattivo. 12 Segue... sollecita: Ne consegue che la necessità o la volontà gli impongono di fare in fretta. 13 Allora... fare: Allora, avendo quasi perso il momento opportuno (la stagione), lo incalza la necessità di fare in fretta e con fatica ciò che, al momento giusto, prima, era facile da fare. 14 copia: abbondanza. 15 e’ nesti: gli innesti.
16 si vuole osservare il tempo: si deve calcolare il tempo.
17 elimata: accurata, perfetta. 18 ordino... dì: mi organizzo tutta la giornata.
19 il giorno... dì: durante il giorno eseguo quello che devo fare e poi la sera prima di dormire ricapitolo mentalmente tutto quello che ho fatto durante la giornata. 20 Ivi... supplisco: In quel momento, se sono stato negligente in qualcosa, vi pongo rimedio. 21 la stagione... faccende: il momento giusto di fare le cose.
Non a caso compaiono in questo periodo i primi orologi portatili, che consentono un impiego “individuale” del tempo, sottraendolo così definitivamente alla gestione e al controllo della Chiesa. Ad esempio, in questo Ritratto del mercante Georg Gisze (1532) il pittore tedesco Hans Holbein il giovane rappresenta fra i numerosi oggetti sparsi sul tavolo – penne, un calamaio, un sigillo, un contenitore per monete – un orologio portatile, alla destra del vaso.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 39
Concetti chiave I beni posseduti dall’uomo
Nelle parole che precedono il passo proposto, Giannozzo ha appena dichiarato che l’uomo possiede tre cose propriamente sue: la prima è l’anima, la seconda il corpo e la terza, non meno importante, è il tempo. È evidente, nel passo, il distacco dalla visione medievale del tempo: per l’Alberti (e per gli umanisti in genere) esso non è più un’entità metafisica nelle mani di Dio, ma è un bene prezioso a disposizione dell’uomo, che non va mai sprecato in attività insignificanti o disperso per disattenzione. La gestione accorta del tempo richiede all’uomo saggio una programmazione attenta di ogni momento della giornata.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Interpretando la nuova concezione umanistica, come Leon Battista Alberti considera il tempo? 2. Nel passo, Giannozzo – uomo saggio e capace – espone una serie di regole che si è dato per utilizzare al meglio il tempo. Quali sono? ANALISI 3. Come si comporta invece l’uomo a cui «fugge il tempo»? Con quale similitudine l’autore intende far riflettere sull’errore di tale comportamento?
Interpretare
LETTERATURA E NOI 4. Quali suggerimenti del testo ti sembrano utili ancora oggi per un’organizzazione ottimale del tempo? Ti sembra che gli adulti nel mondo di oggi corrano troppo?
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 5. In un testo argomentativo di max 15 righe valuta la validità dei suggerimenti dell’autore per un’organizzazione ottimale del tempo nella tua vita.
Lo spazio L’invenzione della prospettiva Nel Quattrocento si afferma la visione prospettica dello spazio, che rivoluzionerà non solo le arti figurative, ma anche l’architettura e l’urbanistica, oltre che la scenografia teatrale. L’invenzione è attribuita al grande artista Filippo Brunelleschi (1377-1446) che la applica per la prima volta in due tavole lignee raffiguranti il Battistero di San Giovanni e Piazza della Signoria. Le intuizioni di Brunelleschi vengono sviluppate e rigorosamente codificate da Alberti che nel suo De pictura (1436) espone le regole fondamentali della figurazione prospettica, contribuendo in modo determinante alla loro divulgazione: già alla metà del secolo il metodo della figurazione prospettica è divenuto patrimonio comune in Italia e si diffonde in gran parte d’Europa. La prospettiva (dal latino tardo perspectivus, “che permette la vista”) è fondata su precise regole geometrico-matematiche e sullo studio scientifico dei punti di fuga: dunque il dipinto diventa una porzione di spazio nel quale tutti gli elementi trovano posto in una relazione spaziale coerente che rispecchia il punto di vista, assunto come dominante, di un osservatore che guarda la scena rappresentata. In un suo celebre saggio, lo storico dell’arte Erwin Panofsky (1892-1968) ha parlato della prospettiva non come “tecnica”, ma come nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà: la prospettiva nasce dalla concezione umanistica che privilegia la centralità dell’uomo e della sua visione. La “filosofia dello spazio” nella città del Rinascimento La riflessione sullo spazio e l’adozione della prospettiva incidono in modo rilevante anche nell’architettura e nella progettazione urbanistica.
40 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Nascono progetti volti a modificare l’assetto delle città (e a progettarne di nuove) secondo i criteri estetici del tempo, razionalistici e classicistici: l’adozione delle leggi della prospettiva, l’ordine, la misura, l’equilibrio delle forme ispirano la realizzazione di piazze (che assumono forme regolari, in genere quadrangolari), chiese, palazzi. Questi ultimi, arricchiti da colonne e lesene classicheggianti che ornano la facciata, divengono per la loro eleganza un evidente status symbol per le famiglie più ricche e importanti. In seguito alla ristrutturazione rinascimentale, l’intera città diventa come un “teatro” in cui la società signorile esibisce la propria magnificenza e il proprio potere. Lo spazio del mondo: un universo dai contorni ancora incerti Alla fine del Quattrocento gli studiosi ormai hanno raggiunto la certezza che la terra sia sferica, anche se non sono ancora in grado di dimostrarlo. Agli inizi del Cinquecento, nonostante sia iniziata l’era delle esplorazioni geografiche, la quasi totalità delle persone non ha una percezione chiara dello spazio geografico e non ha mai visto una carta geografica (persino i sovrani ignorano la reale conformazione geografica e l’estensione dei loro possedimenti). Peraltro, anche parecchio tempo dopo la “scoperta” dell’America, nonostante la diffusione della celebre lettera in cui Cristoforo Colombo riferisce del suo primo viaggio (➜ D7 OL), i testi geografici per lo più non recano traccia della scoperta dei nuovi mondi. online
PER APPROFONDIRE
D7 Cristoforo Colombo La scoperta del nuovo mondo Lettera a Luís de Santángel e a Gabriel Sánchez
Le città ideali Celebre esempio dell’ideale umanistico è la tavola denominata comunemente Città ideale. La regolarità assoluta del progetto si basa sul reticolo in prospettiva delle strutture urbane. Vi aleggia un’atmosfera quasi metafisica: domina la scena una costruzione classicheggiante a pianta circolare, la cui cupola richiama il Pantheon. Ai lati una fuga di edifici classicheggianti con porticati e logge suggerisce una dimensione di ordine e armonia. Le facciate delle case hanno un
carattere di rappresentanza, cosicché il progetto può essere considerato come una riproduzione schematica delle strutture socio-politiche. Una città ideale fu nella realtà parzialmente realizzata: l’architetto Rossellino, sulla base di un borgo rurale sulle colline a sud di Siena (l’antica Corsignano) realizza in onore del papa Pio II (l’umanista Enea Silvio Piccolomini, che vi era nato) la cittadina di Pienza, che da lui prende il nome.
Il dipinto Città ideale di autore ignoto (nel 2006 attribuita, seppur non concordemente, a Leon Battista Alberti, dopo attribuzioni a vari artisti, fra cui il Laurana e Piero della Francesca) è rappresentativo dell’interesse quattrocentesco sia per l’urbanistica sia per gli studi prospettici (Galleria nazionale delle Marche, Urbino).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 41
Solo dopo la metà del secolo si inizierà a prendere coscienza della nuova geografia: anche grazie alle relazioni dettagliate sulle nuove terre dei missionari, inviati per evangelizzarle, si accetta che esistano altri mondi oltre i territori conosciuti fino ad allora.
online
Verso il Novecento Achille Campanile Un rovesciamento umoristico dell’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa”
La scoperta della “diversità” e la visione eurocentrica L’importanza storica ed economica delle scoperte geografiche è grandissima e non è questa la sede per parlarne. Ci interessa piuttosto sottolineare come, di conseguenza, inizi molto presto a delinearsi una nuova visione “geo-antropologica” che sottolinea la diversità costituzionale delle nuove realtà sia riguardo al paesaggio naturale sia (soprattutto) in relazione ai suoi abitatori. Se la “diversità” del paesaggio suscita la stupita ammirazione degli esploratori per una natura vergine e lussureggiante senza uguali in Europa, degli indigeni si dà rilievo quasi sempre all’“inferiorità” (soprattutto in rapporto alla nudità e alle abitudini sessuali totalmente libere). L’inferiorità degli autoctoni si misura nel rapporto obbligato con la civilizzata Europa, secondo una prospettiva che oggi definiremmo eurocentrica e che era storicamente spiegabile a quei tempi: un’ottica che giustificherà in modo implicito, da un lato, lo sfruttamento e a volte l’annientamento di intere popolazioni praticato dalle potenze europee nelle nuove terre (vengono distrutte antichissime civiltà come quella azteca e quella degli Incas) e dall’altro il sistematico assoggettamento ideologico e religioso degli abitanti, considerato dagli europei come un compito doveroso, una specie di missione. L’accettazione del “diverso” Appare di sorprendente modernità la posizione del grande scrittore francese Michel de Montaigne (1533-1592) che, nel capitolo XXI del primo libro dei suoi Essais (Saggi) fa riferimento ai nuovi popoli che le esplorazioni geografiche avevano scoperto. Alla generale preclusione di fronte a popoli considerati costituzionalmente inferiori, Montaigne contrappone una posizione relativistica e la saggia accettazione di chi appare “diverso” agli occhi di una civiltà che si è molto allontanata dalla felice condizione naturale. Scrive Montaigne: «[…] Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto». Lo spazio del cosmo: Copernico e la teoria eliocentrica Nuovi orizzonti si aprono anche in campo astronomico e nell’immagine del cosmo grazie alle intuizioni di Niccolò Copernico (1473-1543). Nel suo De revolutionibus orbium coelestium (Le rivoluzioni dei mondi celesti, 1543) lo scienziato polacco formula l’ipotesi, a quel tempo incredibilmente audace, dell’eliocentrismo, contestando il geocentrismo tolemaico, secondo cui la terra si trovava immobile al centro dell’universo. Alla tesi di Copernico seguiranno ben presto le intuizioni di Tycho Brahe, Keplero e soprattutto di Galileo, destinate a sconvolgere gli orizzonti conoscitivi nella seconda metà del Cinquecento e all’inizio del Seicento.
42 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
6 I valori e i modelli di comportamento La centralità della cultura e il culto dell’amicizia In un suo scritto Lorenzo Valla enuncia alcune condizioni che considera imprescindibili nella vita dell’umanista: la frequentazione di persone istruite, l’abbondanza di libri, la necessità di un luogo adatto, il tempo libero e, infine, la serenità d’animo che predispone alla conquista della saggezza. Forse l’aspetto più significativo di questo elenco è il primo. L’amicizia era un valore molto importante per gli umanisti, certo anche per suggestione della cultura classica: Epicuro, il circolo degli Scipioni e Cicerone (autore di un trattato Sull’amicizia) erano in questa prospettiva dei modelli autorevoli. Per gli umanisti il rapporto di amicizia coincideva con il sodalizio intellettuale, la comunanza di interessi: non si poteva infatti essere amici se non si condivideva l’amore per le lettere e il culto della cultura classica (➜ D8 OL) che questi intellettuali identificavano con la cultura in assoluto. Uno strumento di coesione dell’identità umanistica: le lettere Uno strumento fondamentale per rinsaldare l’identità comune degli umanisti è sicuramente la lettera. Le lettere degli umanisti non servivano per comunicarsi notizie, informazioni, ma per fare riflessioni generali e per esercizi di eloquenza secondo il modello ciceroniano. Spesso la lettera era inviata, oltre che al destinatario, anche agli amici; questi, facendone a loro volta delle copie, ne moltiplicavano considerevolmente la diffusione all’interno della respublica litteratorum, la “società dei letterati”. Per noi moderni, abituati a una comunicazione asciutta, referenziale e funzionale allo scopo, le lettere degli umanisti possono apparire fastidiosamente libresche (si fa spesso sfoggio di erudizione) e ostentatamente retoriche (nel senso negativo che si associa comunemente al termine). Occorre però ricordare che gli umanisti – seguendo il modello dei latini (e quello di Petrarca che scriveva le sue lettere pensando alla loro pubblicazione) – non avevano il mito moderno della sincerità e della spontaneità, ma inseguivano la perfezione stilistica: la lettera era appunto un banco di prova della loro capacità di scrittura.
Parola chiave
Il disprezzo del “volgo” L’ideale dell’humanitas , che accomuna gli umanisti, è imprescindibile dal possesso di una ricca cultura e in particolare di quegli studia humanitatis che soli possono formare un uomo completo. Nella visione elitaria dell’Umanesimo, solo le persone di cultura sono propriamente degne di essere chiamate “uomini”; di conseguenza sono esclusi dal consesso
humanitas “Umanesimo” e “umanista” sono termini che rimandano al termine latino humanitas, che allude a un insieme di valori e di qualità che rendono nobile un uomo. L’ideale dell’humanitas fu elaborato a Roma, nella seconda metà del II secolo a.C., all’interno del cosiddetto circolo degli Scipioni, di cui facevano parte anche importanti figure della cultura greca, come lo storico Polibio e il filosofo stoico Panezio.
Sarà soprattutto Cicerone (106-43 a.C.) ad approfondire l’ideale dell’humanitas – da lui intesa come saggezza, equilibrio – e ad assegnare all’interno di essa un posto fondamentale alla cultura. Ma in Cicerone il termine diventa anche sinonimo di mitezza, comprensione per la debolezza altrui, amore per gli uomini. In questa accezione è nell’humanitas antica (fatta propria dagli umanisti) che vanno ritrovate le radici dei termini “umanitario”, “umanitarismo” e del relativo concetto.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 43
dei “veri uomini” tutti coloro che non sono dotti, definiti in latino vulgus. Il termine non identifica una specifica classe sociale: il volgo non è solo il popolo, ma tutti coloro che non conoscono e non apprezzano gli studia humanitatis e che hanno a che fare con le incombenze del quotidiano. Il modello umano nei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti Tra la metà del XIII e la metà del XIV secolo il sistema familiare patriarcale progressivamente si incrina, mentre si avvia la transizione al nucleo familiare coniugale. La famiglia come nucleo essenziale della società, e al contempo rifugio e difesa dagli imprevisti della fortuna, è al centro della riflessione di Leon Battista Alberti nei quattro Libri della famiglia (1434-1441), un trattato scritto in lingua volgare (una scelta inconsueta nel primo Umanesimo). Si tratta di un’opera dialogica, in cui gli interlocutori (tre membri della famiglia Alberti più un personaggio immaginario, Battista, in cui l’autore ritrae se stesso da giovane) si scambiano opinioni sugli indirizzi da dare all’educazione (I libro), sul ruolo della donna e sul matrimonio (II libro), sul modo di gestire e valorizzare il patrimonio familiare, sul tempo (➜ D6 ), sul ruolo della fortuna, sulle qualità umane (III libro) e, infine, sull’amicizia e, in genere, sulle relazioni umane (IV libro). L’ideale umano che emerge dal complesso dell’opera è ispirato alla moderazione e alla prudenza: valori prettamente borghesi, che Alberti lega a una dimensione, quella della villa in campagna, contrapposta, nella sua rassicurante solidità, ai pericoli e alle incertezze della vita in città. La famiglia è presentata nell’opera come fonte di equilibrio e di sicurezze, al riparo dalle tensioni associate alla politica. L’ottica con cui Alberti guarda alla famiglia e ai comportamenti umani è comunque sempre pragmatica, prettamente laica; l’autore esclude deliberatamente ogni riferimento alla dimensione trascendente. Protagonista delle sue riflessioni e della sua visione del mondo è sempre la virtù dell’uomo, intesa come capacità di costruirsi il proprio destino fronteggiando la «fortuna iniqua e strana», i casi avversi della vita. Sul tema della fortuna si veda il passo di Alberti nel percorso dedicato alla Fortuna (➜ PER APPROFONDIRE, La Fortuna tra letteratura e arte, PAG. 448). Il nuovo significato della virtù Nel nuovo sistema valoriale che si viene a formare muta profondamente il concetto stesso di virtù: richiamandosi alla latinità, gli umanisti utilizzano il termine virtù non più per indicare una qualità morale-religiosa, ma essenzialmente come sinonimo di “valore”. La virtù non coincide più con una condotta morale esemplare, ma indica la capacità di agire in modo ponderato, così da fronteggiare i vari casi della fortuna: una qualità che si consegue in una vita attiva, vissuta insieme agli altri esseri umani (➜ D3 OL). “Virtù” è una parola chiave nel Principe, il trattato politico di Machiavelli: nell’opera dello scrittore fiorentino la virtù ha soprattutto a che fare con l’intuito politico del signore, con la sua capacità di affrontare gli imprevisti e di raggiungere il successo politico, sfruttando – anche con comportamenti spregiudicati – le occasioni favorevoli. Dalla relazione uomo-Dio alla relazione uomo-uomo Già nel Medioevo esistevano trattati che regolavano il comportamento, ma l’attenzione era rivolta quasi esclusivamente alla condotta morale. Con l’Umanesimo non esiste più solo la condotta morale, condizionata da una schematica contrapposizione tra bene e male, ma il comportamento tende a modellarsi secondo esigenze soprattutto sociali. Sulla relazione uomo-Dio, che improntava l’atteggiamento dell’uomo medievale, ora tendono a prevalere le relazioni umane che l’individuo vive all’interno della società, e in particolare all’interno della corte.
44 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Il tramonto del modello umano del mercante e la riproposizione dell’ideale cavalleresco Nel generale processo di “rifeudalizzazione” che caratterizza la società italiana già dal primo Cinquecento, tramonta nell’immaginario collettivo e letterario la figura del mercante, mentre incontra nuova fortuna l’ideale cavalleresco, soprattutto in corti come quella ferrarese. Le qualità del gentiluomo – versione rinnovata del cavaliere medievale – non si misurano più però nell’avventura cavalleresca, ma online nella capacità di sapersi inserire nei rituali raffinati della vita di D8 Cristoforo Landino Un incontro tra spiriti affini corte, come evidenzia il più celebre trattato sul comportamenDisputationes camaldulenses to: il Cortegiano di Baldesar Castiglione (➜C1).
7 Luoghi, centri e figure della produzione culturale La corte: luogo-simbolo della cultura umanistico-rinascimentale Le corti italiane: una realtà policentrica Tra XV e XVI secolo in Italia le sedi in cui circola e si produce la cultura coincidono con le principali corti. I centri più importanti sono nel Nord Italia: Milano, Mantova, Ferrara (un caso a parte è Venezia), quindi Firenze e infine Roma e Napoli. Mentre in altri paesi europei la presenza di una capitale, sede di un governo centrale, favorisce l’accentramento della produzione culturale, l’Italia, a causa della divisione politica, è caratterizzata da un marcato policentrismo culturale. Nella variegata realtà italiana ogni centro ha una propria fisionomia e presenta specifiche tendenze culturali: ad esempio Firenze è la sede dell’Umanesimo civile nella prima metà del Quattrocento e in seguito del platonismo, a Ferrara fiorisce il poema cavalleresco (Boiardo, Ariosto, Tasso), mentre dalla Venezia del Bembo, centro dell’editoria, si diffonde la lirica petrarchista e così via. Un microcosmo elitario, chiuso al mondo esterno In ambito più propriamente culturale, la corte è il centro dove convergono le personalità di spicco dell’epoca, il Danzar, luogo dove vengono principalmente elaborati, nell’età umanistico-rinascimentale, festeggiar, cantar e giocare… Il ruolo i modelli di comportamento e i modelli culturali. Non a caso la corte fa spesso della festa nella società signorile da sfondo alle invenzioni letterarie del periodo umanistico e rinascimentale, come negli Asolani di Pietro Bembo o nel Cortegiano di Castiglione, nel quale l’ambiente che l’autore evoca con nostalgia è la corte d’Urbino (➜ D11a ). Si tratta di un mondo elitario, che esclude le altre classi sociali: tra «palazzo» e «piazza» c’è una «nebbia folta» – come scrive con una celebre metafora Francesco Guicciardini in uno dei suoi Ricordi (➜ C9 T6 ) – cioè una grande distanza, che impedisce al popolo non solo di partecipare a quanto avviene nel palazzo Il Palazzo ducale di Urbino: scorcio del cortile d’onore (architetti Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, 1468-76). ma persino di venirne a conoscenza. online
Per approfondire
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 45
Personalità dell’età umanistico-rinascimentale Centri culturali
Corte
Milano
Visconti, in seguito Sforza
• Francesco Filelfo (1398-1481; scrittore) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Donato Bramante (1444-1514; pittore e architetto) • Leonardo da Vinci (1452-1519; artista e scienziato)
Gonzaga
• Vittorino da Feltre (1373/78-1446; intellettuale e educatore) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) • Andrea Mantegna (1431-1506; pittore) • Poliziano (1454-1494, scrittore e intellettuale) • Baldesar Castiglione (1478-1529; scrittore e intellettuale) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) • Giulio Romano (1492/99-1546; pittore e architetto)
Serenissima Repubblica
• Vittorino da Feltre (1373/78-1446; intellettuale e educatore) • Guarino Veronese (1374-1460; poeta e educatore) • Giovanni Bellini (1427/30-1516; pittore) • Aldo Manuzio (1450-1515; editore e intellettuale) • Pietro Bembo (1470-1547; poeta, scrittore e intellettuale) • Giorgione (1478-1510; pittore) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) • Pietro Aretino (1492-1556; poeta e scrittore) • Ruzante (1496-1542; scrittore)
Este
• Guarino Veronese (1374-1460; poeta e educatore) • Cosmè Tura (1433-1495; pittore) • Matteo Maria Boiardo (1441-1494; poeta e scrittore) • Ludovico Ariosto (1474-1533; poeta, scrittore e funzionario) • Tiziano (1488/90-1576; pittore) • Torquato Tasso (1544-1595; poeta, scrittore e filosofo)
Mantova
Venezia
Ferrara
Personalità principali
46 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Firenze
Roma
Napoli
Repubblica fiorentina / Medici
• Coluccio Salutati (1331-1406; scrittore e filosofo) • Niccolò Niccoli (1364-1437; scrittore) • Leonardo Bruni (1370-1444; scrittore) • Guarino Veronese (1374-1460; poeta e educatore) • Filippo Brunelleschi (1377-1446; ingegnere e architetto) • Poggio Bracciolini (1380-1459; scrittore e storico) • Donatello (1386-1466; pittore, scultore e architetto) • Francesco Filelfo (1398-1481; scrittore) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Masaccio (1401-1428; pittore) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) • Cristoforo Landino (1424-1498; poeta, filosofo e intellettuale) • Luigi Pulci (1432-1484; poeta) • Marsilio Ficino (1433-1499, filosofo e intellettuale) • Sandro Botticelli (1445-1510; pittore) • Leonardo da Vinci (1452-1519; artista e scienziato) • Poliziano (1454-1494, scrittore e intellettuale) • Pico della Mirandola (1463-1494, filosofo e intellettuale) • Niccolò Machiavelli (1469-1527; scrittore, storico, filosofo e intellettuale) • Michelangelo Buonarroti (1475-1564; scultore, pittore, architetto e poeta) • Raffaello Sanzio (1483-1520; pittore e architetto) • Francesco Guicciardini (1483-1540; scrittore e storico) • Benvenuto Cellini (1500-1571; scultore e scrittore) • Giorgio Vasari (1511-1574; architetto, pittore e storico)
Papato
• Poggio Bracciolini (1380-1459; scrittore) • Flavio Biondo (1392-1463; storico) • Filarete (1400-1469; scultore e architetto) • Leon Battista Alberti (1404-1472; architetto, scrittore, filosofo e intellettuale) • Enea Silvio Piccolomini (1405-1464; intellettuale e papa) • Lorenzo Valla (1407-1457; scrittore, filosofo e intellettuale) • Giulio Pomponio Leto (1428-1498; scrittore e intellettuale) • Donato Bramante (1444-1514; pittore e architetto) • Pietro Bembo (1470-1547; poeta, scrittore e intellettuale) • Michelangelo Buonarroti (1475-1564; scultore, pittore, architetto e poeta) • Raffaello Sanzio (1483-1520; pittore e architetto) • Baldesar Castiglione (1478-1529; scrittore e intellettuale) • Giulio Romano (1492/99-1546; pittore e architetto) • Pietro Aretino (1492-1556; poeta e scrittore) • Benvenuto Cellini (1500-1571; scultore e scrittore) • Giorgio Vasari (1511-1574; architetto, pittore e storico)
Aragonesi
• Panormita (1394-1471; scrittore e poeta) • Lorenzo Valla (1407-1457; scrittore, filosofo e intellettuale) • Giovanni Pontano (1429-1503; poeta e scrittore) • Iacopo Sannazaro (1457-1530; poeta e scrittore)
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 47
I LUOGHI DELLA CULTURA
La corte Quando si parla di “corte”, in questo periodo si allude sia a uno spazio (il palazzo signorile) sia all’insieme di persone che gravitavano attorno a un principe o a un personaggio particolarmente potente o influente (ad esempio: a Roma, attorno a famiglie come gli Orsini e i Colonna, esistevano vere e proprie corti). Anche i membri più elevati della gerarchia ecclesiastica, ovvero i cardinali, conducevano una vita fastosa e si comportavano come prìncipi (per altro provenivano per lo più da famiglie principesche) e non comparivano mai in occasioni pubbliche se non con un numeroso seguito di cortigiani e servitori. Una corte poteva ospitare un numero di persone indeterminato, che poteva essere anche molto elevato: ai tempi del Castiglione, la corte di Urbino constava di 350 persone; ai primi del Quattrocento, la corte di Milano era composta da circa 600 persone e nel terzo decennio del Cinquecento quella di Mantova annoverava quasi 800 persone (stando ai dati dello storico inglese Peter Burke). La corte comprendeva innanzitutto i gentiluomini e le dame; quindi i segretari, i letterati (che spesso fungevano anche da consiglieri del principe e educavano i suoi figli), gli artisti, la servitù di tutti i gradi e, infine, tutti coloro che erano impiegati nell’allestimento dei divertimenti e degli spettacoli che animavano la vita della corte: dai musicisti ai buffoni di corte e così via.
Particolare del grande ciclo di affreschi del Salone dei mesi (in Aprile, 1468-1470) di Francesco del Cossa di Palazzo Schifanoia a Ferrara. Mostra una scena di vita di corte in cui il duca, circondato da dignitari e paggi, dona una moneta a quello che è stato identificato come un giullare al suo servizio.
Lorenzo Costa, Allegoria della corte di Isabella d’Este, tempera su tavola, 1504-1506 (Museo del Louvre, Parigi).
La corte del Colleoni. Particolare del ciclo di affreschi del castello di Malpaga, 1458-1475 (Cavernago, Bergamo).
48 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Nuovi spazi per una “cultura del dialogo”
online
Per approfondire
I LUOGHI DELLA CULTURA
L’Accademia platonica di Careggi
I cenacoli e le accademie Gli umanisti sentono l’esigenza di confrontarsi tra di loro e di stabilire solidi legami umani e intellettuali: si incontrano perciò molto spesso, per conversare e per dibattere qualche importante tema culturale. Gli spazi scelti per questi incontri periodici sono diversi dalle sedi tradizionali e istituzionali di cultura (cioè le università e le scuole annesse alle chiese): i giardini di qualche palazzo o le sale interne alla corte o una casa privata o anche una bottega di libri (dopo l’invenzione della stampa la bottega tipografica di Aldo Manuzio a Venezia diventa sede di vivaci scambi culturali). Il mutamento del luogo in cui si produce cultura rispetto all’età medievale non è casuale, ma testimonia una vera e propria rivoluzione conoscitiva: mentre la cultura filosofica medievale è concepita come “lettura” e “commento” da parte del magister di un testo d’indiscutibile autorità, in uno spazio istituzionale severo e solenne (l’università), nella visione umanistica il sapere è concepito come ricerca razionale e discussione. La frequenza di questi incontri costituisce un fatto nuovo e tipico dell’Umanesimo, che fa dei cenacoli umanistici o accademie – come talvolta vennero denominate, secondo il modello platonico – un’istituzione chiave del tempo. Testimonia in modo esemplare lo spirito delle associazioni umanistiche l’Accade-
Il cenacolo e l’accademia Nel significato originario il termine “cenacolo” identificava la sala nella quale, nell’antica Roma, si cenava. Il cenacolo per antonomasia è la stanza in cui avvenne l’ultima cena di Gesù con gli apostoli (una scena immortalata dal celeberrimo affresco di Leonardo nella chiesa di S. Maria delle Grazie, a Milano, noto appunto come Cenacolo). Da luogo in cui si ritrova una comunità di persone, il termine è poi passato a designare un gruppo di intellettuali e artisti che seguono un medesimo indirizzo. Dall’iniziale designazione del luogo presso Atene dove Platone iniziò il suo insegnamento, il termine “accademia” passò presto a indicare la scuola filosofica stessa di Platone. Nell’età umanistico-rinascimentale, dopo l’esempio dell’Accademia fondata da Marsilio Ficino a imitazione appunto di quella platonica, il termine designa varie associazioni intellettuali ispirate a diversi indirizzi e a interessi differenti, non solo filosofici. Nel tempo, accademico diventa sinonimo di “professore universitario” e, come aggettivo, accademico è tutto ciò che riguarda la vita universitaria.
Domenico Ghirlandaio, Annuncio dell’Angelo a Zaccaria, affresco, 1486-90 (Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, Firenze). In basso a sinistra sono raffigurati gli accademici Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano e Demetrio Calcondila.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 49
mia platonica, fondata da Marsilio Ficino a Firenze verso il 1463 circa e protetta dai Medici. Altre importanti accademie nacquero a Napoli (l’Accademia alfonsina e poi pontaniana); a Roma (l’Accademia di Pomponio Leto, attiva a partire dal 1460) e a Venezia (l’Accademia aldina, che si sviluppa sul finire del secolo attorno al grande stampatore-umanista Aldo Manuzio). L’istituzionalizzazione e specializzazione delle accademie Nel corso del Cinquecento le accademie si moltiplicano, e si trasformano: da incontri informali tra intellettuali, esse tendono a trasformarsi in istituzioni stabili; iniziano così a regolamentare i requisiti che consentono di accedervi e a specializzarsi (le accademie scientifiche da una parte e quelle linguistico-letterarie dall’altra).
I LUOGHI DELLA CULTURA
Le biblioteche pubbliche, luoghi di circolazione della cultura Nel Medioevo il libro era gelosamente conservato nelle biblioteche dei castelli o nelle biblioteche dei monasteri, e non era contemplata la possibilità che dall’esterno si potesse accedere al patrimonio librario. L’Umanesimo trasforma in realtà questo progetto: le biblioteche diventano gradualmente anche luoghi in cui si legge insieme e si discute.
La biblioteca Il primo esempio di destinazione pubblica di un patrimonio librario privato è il lascito testamentario (1437) dell’umanista Niccolò Niccoli, bibliotecario di Cosimo de’ Medici, che destina i suoi libri «a tutti i cittadini amanti degli studi». Nel convento di San Marco, Cosimo fa allora allestire la prima biblioteca pubblica, nella quale sono collocati i preziosi codici (circa 800) posseduti dal Niccoli, a disposizione di chi li voglia consultare e persino prendere a prestito. La più ricca biblioteca dell’epoca (non solo in Italia, ma in tutta Europa) è quella Vaticana (1484), anch’essa aperta al pubblico, voluta da papa Niccolò V (Tommaso Petruccelli), umanista e appassionato bibliofilo. L’accrescimento del patrimonio librario nel Rinascimento, anche grazie alla stampa, renderà necessario adottare precise direttive culturali che regolino l’acquisto di nuovi libri per evitare un accumulo caotico e un accrescimento puramente quantitativo. Da qui l’importanza di una nuova figura, il bibliotecario, responsabile della scelta dei libri da acquisire: nel caso della Laurenziana (la splendida biblioteca voluta da Lorenzo de Medici ed edificata da Michelangelo), furono due prestigiosi umanisti della “cerchia medicea” a occuparsi dell’acquisizione di un patrimonio librario vasto e prezioso: Pico della Mirandola e Poliziano.
Cultori delle humanae litterae impegnati nello studio all’interno della Biblioteca Vaticana a Roma (Arcispedale di Santo Spirito in Saxia, Roma). Dall’affresco si può notare come avveniva la consultazione dei volumi nelle biblioteche del tempo: i codici venivano conservati orizzontalmente nei ripiani inferiori dei banchi ed erano consultabili liberamente (anche se assicurati ai banchi tramite catene).
50 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Gli intellettuali: nuovi ruoli, nuove identità Dall’intellettuale comunale al cortigiano Già nel corso del Trecento, in seguito alla crisi della società comunale, tramonta il modello di intellettuale attivamente partecipe della vita politica della sua città e che si dedica alla letteratura nei momenti che l’esercizio della sua professione (per lo più di uomo di legge o docente universitario) lascia liberi. Nel corso del Quattrocento, a questa figura tende a sostituirsi il modello dell’intellettuale cortigiano, anticipato per più aspetti da Petrarca. L’attività letteraria diventa una vera e propria professione al servizio delle istituzioni principali del tempo: la corte e la Chiesa, nell’ambito della politica culturale del mecenatismo. Il mecenatismo Nell’età umanistico-rinascimentale principi e papi adottano verso artisti e intellettuali la particolare politica culturale che viene definita mecenatismo. Il termine deriva dal nome di Mecenate, che nella Roma antica fu il principale artefice della politica culturale dell’imperatore Augusto, volta a proteggere e cooptare letterati e artisti, legandoli al principato. I principi-mecenati, a cominciare da Lorenzo il Magnifico, che governò Firenze dal 1469 al 1492, cercano di attirare i più importanti esponenti della cultura, a cui garantiscono un adeguato tenore di vita, chiedendo in cambio la produzione di opere (architettoniche, figurative e letterarie) che diano prestigio alla corte (➜ D9a-b OL). La presenza di artisti e famosi scrittori, le opere d’arte a tutti visibili, costituivano per i signori un formidabile strumento per creare diffuso consenso. Quanto al popolo, veniva abbagliato dagli spettacoli organizzati in occasione di particolari eventi a cui presiedevano spesso gli stessi intellettuali. La condizione cortigiana: luci e ombre Se la corte offre agli intellettuali indipendenza economica, occasioni di promozione sociale e soprattutto la possibilità di vivere in un ambiente raffinato e culturalmente stimolante, per contro la dipendenza da un signore mecenate può condizionare l’attività e le scelte ideologiche degli artisti, suscitando la loro insofferenza (il tema della negatività della vita di corte è diffuso). A ben vedere però, più che con motivi ideologico-politici, l’insoddisfazione degli artisti ha a che fare con il fatto che il letterato umanista è obbligato, come cortigiano, a svolgere compiti estranei alla sua vocazione letteraria: dalle missioni politico-diplomatiche, a volte anche pericolose (come accade ad Ariosto), all’educazione dei figli del principe, o ancora alla composizione di testi celebrativi, di lettere e discorsi ufficiali, per arrivare a ruoli quasi umilianti (almeno a quanto scrive l’Ariosto nelle Satire). Inoltre, almeno se ci si attiene alle testimonianze degli umanisti, la vita nella corte era viziata dalla competizione, dall’ipocrisia e dall’adulazione. La carriera dentro la Chiesa Per i letterati e gli artisti un’alternativa al mecenatismo dei principi è rappresentata dalla carriera ecclesiastica nella condizione di chierici. Per lo più gli intellettuali fanno questa scelta (che ai gradi minori implicava pochissimi obblighi, come il celibato, peraltro spesso del tutto formali) non tanto online per vocazione, quanto perché attirati dai benefici connessi alla gestione di abbazie Testi in dialogo e parrocchie e dal prestigio sociale che allora comportava Il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico nel il raggiungimento dei gradi più elevati nella gerarchia ritratto dei contemporanei: due testimonianze della Chiesa, quelli di vescovo e cardinale. D9a Angelo Poliziano «Uomo nato a cose grandi» I maggiori intellettuali dell’epoca sono inseriti nelle strutEpistola a Jacopo Antiquario ture ecclesiastiche (Bembo è cardinale, Castiglione arriva a D9b Niccolò Machiavelli diventare nunzio apostolico, Enea Silvio Piccolomini addiAmava meravigliosamente qualunque era in una arte eccellente rittura papa) o aspirano a entrarvi (come Poliziano, Ariosto e Istorie fiorentine VIII, 36 persino un intellettuale spregiudicato come Aretino). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 51
Una figura emergente: l’artista-intellettuale Tra gli intellettuali di corte ha spesso un ruolo di spicco l’artista: proprio agli artisti era affidata la celebrazione, in immagini-simbolo, del potere e della magnificenza dei signori e della famiglia principesca. Nella pittura si diffonde l’uso del ritratto dei signori (celeberrimo è ad esempio quello di Federico di Montefeltro, opera di Piero della Francesca) e la raffigurazione negli affreschi dei palazzi signorili della vita raffinata della corte. Gli intellettuali-artisti sono ritratti a volte insieme alla famiglia principesca per la quale operano e alla cui corte vivono, a sottolineare lo stretto rapporto con essa: nella celebre Camera degli sposi (1465-1474) è lo stesso Andrea Mantegna ad autoritrarsi nel medaglione di un fregio tra i membri della famiglia Gonzaga. Che gli artisti siano considerati degli intellettuali costituisce una rilevante novità: fino al Trecento, infatti, pittori, scultori e architetti erano considerati sostanzialmente degli artigiani (non tanto diversi da falegnami o muratori) proprio perché la loro arte implicava l’attività manuale e quindi venivano ritenuti appartenere a un piano più basso rispetto agli scrittori; sostanzialmente, dunque, non erano visti come intellettuali. Nel nuovo clima culturale dell’Umanesimo gli artisti si trovano invece per la prima volta accomunati ai letterati dagli stessi ideali estetici: in particolare l’ammirazione per l’antichità classica. Le Vite di Vasari e la consacrazione dell’importanza dell’artista Nel 1550 esce la prima edizione delle Vite de’ più eccellenti architettori, pittori e scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, opera del toscano Giorgio Vasari (1511-1574) dedicata a Cosimo I, di cui era al servizio come architetto-pittore. La seconda edizione, ampliata e modificata sotto il profilo stilistico, è del 1567 e comprende molti contemporanei. Le Vite raccolgono più di duecento biografie di artisti: una mole di documenti enorme, frutto di un appassionato lavoro personale di documentazione, anche aneddotica, sui vari autori e le loro opere e di contatti con eruditi e personalità artistiche e letterarie del tempo. Le Vite sono il primo consuntivo critico sull’arte italiana, ancora oggi considerato fondamentale dagli studiosi; appaiono l’esemplare testimonianza del ruolo sempre più rilevante che gli artisti (pittori, scultori, architetti) erano andati assumendo nella società rinascimentale e della valorizzazione dell’artista come individuo eccezionale, dotato di superiore ingegno e non più solo di competenze tecnico-artigianali come nel Medioevo. La storia dell’arte italiana dal Duecento al Cinquecento è interpretata come continuo online progresso, soprattutto per quanto riguarda il disegno, sempre D10 Giorgio Vasari più perfezionato e in grado di imitare la natura, fino a ragLeon Battista Alberti, prototipo giungere il culmine con Michelangelo, dopo il quale iniziano dell’artista-intellettuale Vite a delinearsi nuove prospettive, per le quali Vasari per primo usa il concetto di “manierismo”.
Fissare i concetti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1. Che cosa si intende con il termine Umanesimo e che cosa con il termine Rinascimento? 2. Che cosa si intende con antropocentrismo? 3. Che cosa si intende per visione edonistica della vita? 4. Qual è la visione della storia che si diffonde in questo periodo? 5. In che cosa consiste il metodo filologico? Chi fu il suo iniziatore? 6. Quale concezione del tempo e dello spazio domina in questo periodo? 7. Quali sono i luoghi della produzione culturale? 8. Quali caratteristiche presenta la corte? 9. Che cosa si intende per mecenatismo? 10. Quali sono gli aspetti positivi e negativi dell’intellettuale-cortigiano?
52 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Testi a confronto
Vivere a corte: tra mitizzazione e critica Baldesar Castiglione
D11a
La corte felice di Urbino: un mito nostalgico Il libro del Cortegiano I, iv
B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a c. di B. Maier, Utet, Torino 1981
Nel passo proposto, Baldesar Castiglione ritrae in modo idealizzato la corte di Urbino, dove egli stesso esercitò il ruolo di cortigiano tra il 1504 e il 1513. La mitizzazione del mondo della corte è anche il frutto della nostalgia di un mondo passato e della stessa giovinezza dello scrittore: quando Castiglione scrive sono ormai trascorsi vent’anni dal tempo evocato.
Erano adunque tutte l’ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi1 così del corpo come dell’animo; ma perché il signor Duca continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se n’andava a dormire2, ognuno per ordinario3 dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga4 a quell’ora si riduceva5; dove ancor sem5 pre si ritrovava la signora Emilia Pia6, la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l’oneste facezie7 s’udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria; né mai credo che in altro 10 loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quella che già di sopra ho detto8, a tutti nascea nell’animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti9, 15 talmente che mai non fu concordia di volontà o amore cordiale tra fratelli maggiore di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commerzio10; ché a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea; ma tanta era la reverenzia11 che si portava al voler della signora Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno12; né 20 era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle13. Per la qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti14 ed erano i giochi e i risi al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d’una graziosa e grave maestà15. […] 1 esercizi: occupazioni. 2 perché… dormire: poiché il signor duca per la malattia di cui soffriva (la gotta) spesso andava a letto molto presto. 3 per ordinario: di solito. 4 Elisabetta Gonzaga: la moglie del duca. 5 si riduceva: si recava. Più sotto (rr. 13-23) ci riducevamo sta per “ci recavamo”. 6 Emilia Pia: la vedova di un fratello del duca. 7 l’oneste facezie: le battute di spirito raffinate e non volgari. 8 lassando… detto: tralasciando di ricordare quanto onorevole fosse per ciascuno di noi servire
un signore così grande, dolcezza che ho già ricordato prima. 9 catena… uniti: la metafora sottolinea efficacemente il ruolo della duchessa nel mantenere unita la corte. 10 si aveva liberissimo… commerzio: si mantenevano rapporti molto liberi, ma del tutto onesti. 11 reverenzia: rispetto. 12 la medesima libertà… freno: la stessa libertà induceva a un maggior autocontrollo, per non dispiacere alla duchessa con comportamenti inappropriati. 13 né era alcuno… dispiacerle: e non c’era nessuno che non considerasse come il massimo pia-
cere del mondo il comportarsi in modo da essere approvati da lei, e il massimo dispiacere essere da lei disapprovati. 14 onestissimi costumi… congiunti: il modo di comportarsi più onesto era unito a una grandissima libertà. 15 i risi… maestà: alla sua presenza gli scherzi e le battute (i risi) erano accompagnati, oltre che dall’arguzia e dallo spirito (argutissimi sali), da una raffinata misura e nobiltà. Sali è una metonimia, derivata dall’uso latino, e vale “battute di spirito”.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 53
Erasmo da Rotterdam
D11b
La vita vuota dei cortigiani Elogio della follia
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, a c. di C. Carena, Einaudi, Torino 1997
Uno dei temi affrontati dall’umanista Erasmo da Rotterdam nel celebre Elogio della follia del 1509 (➜ C5) è la rappresentazione satirica e molto critica della vita nella corte. Domina il senso di vuoto, l’inerzia spirituale dei nobili delle corti.
Si dorme sino a mezzogiorno, quando un pretino prezzolato1, appare in paramenti ai piedi del letto e recita in fretta e furia la messa a lor signori quasi ancora coricati2. Poi a colazione, e non appena finita la colazione interviene già quasi il pranzo. A questo punto i dadi, gli scacchi, i tarocchi, i buffoni, i matti, le cortigiane, il gioco, 5 le trivialità3. Intercalate, una o due merende4, poi di nuovo a cena, e dopo cena le bevute, non una sola5, per Giove! In tal modo, senza un attimo di noia per la vita, scorrono ore, giorni, mesi, anni, secoli. Io stessa a volte vengo via più che nauseata6 dalla vista della loro boria7, tra ninfette8 che si credono ciascuna tanto più vicina agli dèi quanto più lungo è lo strascico che porta, e questi personaggi che 10 si spingono l’un l’altro a gomitate per figurare più vicino a Giove9, e tanto più si piacciono quanto più pesante è la catena che portano al collo, per manifestare non solo opulenza ma anche forza10. 1 prezzolato: pagato. 2 ai piedi… coricati: i cortigiani non fanno neppure la fatica di alzarsi per sentire la messa, che si svolge in gran fretta. Tutti i particolari evidenziano la superficialità delle pratiche religiose svolte nella corte. 3 le trivialità: le volgarità. Ossia le battute e gli scherzi grossolani. 4 Intercalate… merende: tra
una e l’altra delle attività elencate ci sono degli spuntini. L’autore sottolinea come gran parte del tempo della vita cortigiana sia dedicato a mangiare. 5 non una sola: non si beve un solo bicchiere. 6 Io stessa… nauseata: è la Follia in persona che parla, ma a volte la pazzia delle corti è eccessiva anche per lei.
7 boria: superbia. 8 ninfette: giovani ragazze. 9 Giove: il signore, con un’iperbole ironica, è indicato come il re degli dei. 10 la catena… forza: la catena d’oro che portano in collo per mostrare ricchezza e potenza, in realtà è simbolo della loro schiavitù.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Individua gli aspetti che Castiglione elenca come esempi di civiltà e raffinatezza e le corrispondenti immagini che in Erasmo diventano denunce della futilità e della corruzione della corte; poi inseriscili in una tabella come questa: Castiglione
Erasmo
«Erano adunque tutte l’ore… piacevoli esercizi»
«Si dorme sino a mezzogiorno… quasi il pranzo»
LESSICO 2. Scheda gli aggettivi attraverso cui Castiglione esalta la vita di corte e individua i valori culturali e/o etici cui rimandano (ad es. oneste facezie = arguzia, prontezza di spirito). 3. Il testo di Erasmo ha spesso un carattere sarcastico: individua termini ed espressioni che comprovino questa affermazione.
Interpretare
SCRITTURA 4. Dai due passi si colgono aspetti dell’ambiente di corte considerati positivi e aspetti negativi. Riassumili in un testo di non più di 20 righe.
54 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
2
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica Un nuovo modello culturale e educativo, fondato sugli studia humanitatis Il concetto basilare che ispira la linea educativa dell’Umanesimo è la necessità di formare un uomo completo (in cui si armonizzino corpo e anima, sensi e intelletto) e libero (capace di dominare le passioni attraverso il controllo razionale). Per raggiungere questo obiettivo non serve più una cultura enciclopedica, ma occorre privilegiare, nell’insegnamento, gli studia humanitatis (così chiamati «perché perfezionano e adornano l’uomo», come afferma in una lettera l’umanista Leonardo Bruni), considerati per eccellenza formativi: la storia (da cui trarre modelli di vita), la filosofia morale (da cui ricavare princìpi etici) e soprattutto la poesia e la retorica (“l’arte del dire”, cioè), ambiti disciplinari da apprendere leggendo secondo il metodo filologico i classici greci e latini (➜ D12a OL).
online
Per approfondire Le scuole umanistiche di Guarino e di Vittorino da Feltre
online
La “comunità educante” La visione pedagogica dell’Umanesimo si traduce in reale pratica educativa grazie a Guarino Veronese (Guarino de’ Guarini, 1374-1460) e a Vittorino da Feltre (1378-1446). Alla base della concezione pedagogica che ispira le loro scuole c’è una nuova immagine del discente: l’alunno diventa il soggetto del processo educativo e la figura a cui il docente deve rispetto, che deve convincere e non costringere, mettendo in atto ogni strategia che possa favorirne l’apprendimento e stimolarne gli interessi autonomi. Tra docente e allievi nelle scuole umanistiche si creava un rapporto di collaborazione, addirittura un legame di affetto. Viene valorizzata, inoltre, l’amicizia tra gli allievi in quella che oggi potrebbe essere definita una “comunità educante”. Come si può notare anche da queste scarne informazioni, si tratta di una concezione pedagogica molto attuale e lontanissima dall’ottica medievale. L’eredità della scuola umanistica: luci e ombre Con la pedagogia umanistica si afferma un modello culturale con importanti riflessi sociali: per secoli l’uomo colto sarà identificato essenzialmente in una persona che conosce bene il latino, ha familiarità con le opere dei classici così da saper inserire con disinvoltura una citazione dotta in un argomento di conversazione, è in grado di scrivere con eleganza di stile. Il rischio è quello di privilegiare eccessivamente il potere formativo delle lettere, a scapito di altri importanti saperi (come quello scientifico) e, soprattutto, di anteporre la forma ai contenuti, i compiacimenti retorici alla sostanza. Un rischio avvertito dagli umanisti più critici come Erasmo e poi Montaigne, che non risparmiano critiche feroci a grammatici e retori (➜ D12b OL).
Testi in dialogo La pedagogia umanistica: alcune testimonianze
D12a Pier Paolo Vergerio Centralità degli studia humanitatis Dei nobili costumi e degli studi liberali dei giovani D12b Leon Battista Alberti Anche l’esercizio fisico è importante Libri della famiglia, I
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 55
2 Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura Un modello conoscitivo antidogmatico Con l’Umanesimo viene meno la secolare identificazione della cultura con il sapere scolastico e universitario (esso nasce fuori dagli ambienti universitari) e si afferma una visione antidogmatica della conoscenza. Il sapere non è più statico possesso di informazioni fissate, ma si fonda sulla libera discussione, attraverso cui si fanno partecipi gli altri del proprio sapere e si promuove una circolazione delle idee che arricchisce tutti (➜ D13 ). Non è quindi casuale il fatto che nella cultura umanistica si leggano e scrivano moltissimi dialoghi: al trattato medievale finalizzato a trasmettere un sapere codificato una volta per tutte, gli umanisti – secondo il modello di Platone e Cicerone – preferiscono il confronto dialogico, nel quale sono messe a confronto tesi diverse. L’abbattimento dei confini tra le discipline e il riassetto delle gerarchie culturali L’atteggiamento conoscitivo aperto e curioso proprio dell’Umanesimo porta all’abbattimento delle rigide barriere tra i vari campi della conoscenza, a cominciare dalla tradizionale separazione tra arti liberali e arti meccaniche. Di conseguenza i nuovi “miti” umani, i modelli esaltati dall’Umanesimo, sono personaggi come Leon Battista Alberti, che si mette alla prova nei più diversi campi e in tutti riesce a eccellere (➜ D3 OL, D10 OL), o “nuovi filosofi”, come Marsilio Ficino. Al centro del sapere, nella visione dell’Umanesimo, sta la retorica, considerata necessaria non solo per scrivere lettere e discorsi pubblici (assai diffusi in quel periodo), ma per ogni ambito culturale, compreso quello scientifico. La retorica finisce per assorbire anche la dialettica, che però subisce una trasformazione nell’uso: non più considerata strumento di dispute sterilmente cavillose (come spesso nel mondo universitario medievale), per gli umanisti diventa l’arte dell’argomentare in modo giusto e armonico. Nel sistema conoscitivo della nuova età assume nuova importanza la matematica, impiegata non più solo per esigenze pratiche (come ad esempio nella contabilità commerciale), ma anche come strumento concettuale: come si è detto, la matematica contribuisce alla definizione della prospettiva e alla “matematizzazione” dello spazio e incide radicalmente sul sapere astronomico, consentendo di quantificare i moti dei corpi celesti.
IMMAGINE INTERATTIVA
Il mutamento dell’immagine del filosofo è rappresentato in modo emblematico dal dipinto di Giorgione I tre filosofi (150910, Kunsthistorisches Museum, Vienna). Nel quadro appaiono tre figure: un giovane studioso curioso della natura (con emblemi del sapere: compasso e squadra), un vecchio venerando e un orientale con turbante. I tre personaggi in piena luce, in un atteggiamento riflessivo, incarnano l’armonia della conoscenza rinascimentale. Secondo alcuni alludono alla filosofia antica, a quella araba e
56 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
a quella rinascimentale; secondo altri, simboleggiano le tre età della vita, oppure impersonano un matematico, un astrologo e un astronomo; o, infine per altri ancora sarebbero i tre magi prima della partenza per la Palestina. Qualunque sia il significato simbolico da attribuire alle tre figure, su cui ancora la critica dibatte, è comunque chiaro che il dipinto rimanda a una diversa concezione del filosofare e a una figura di pensatore ormai abissalmente lontana da quella del maestro medievale, intento a commentare dalla sua cattedra il testo di Aristotele.
Nuovi interessi filosofici. Un modo diverso di filosofare L’Umanesimo modifica profondamente l’insegnamento filosofico, soprattutto in rapporto alla lettura filologica dei testi filosofici antichi, in modo tale da mettere in discussione il cosiddetto “principio di autorità” e sviluppare il metodo critico, sottoponendo al vaglio razionale persino i testi religiosi. La nuova impostazione data alla riflessione filosofica e lo spirito laico che caratterizzano l’Umanesimo comportano l’inevitabile declino dell’interesse nella metafisica, mentre emergono in primo piano la riflessione politica (in particolare nel primo Umanesimo) e soprattutto l’etica: cioè saperi fondamentalmente antropocentrici. Inoltre, soprattutto nel XV secolo, la magia, l’astrologia, l’alchimia, i saperi esoterici interagiscono con la filosofia, trasformandone inevitabilmente l’identità. Il nuovo filosofo Il nuovo filosofo è lontanissimo dal magister medievale, rigido custode di un sapere autorevole: versatile “uomo universale”, aperto ai più diversi stimoli culturali, aspira a diventare maestro di vita oltre che di pensiero, secondo il modello di Socrate. Non si rivolge più solo agli addetti ai lavori, ma a un nuovo pubblico di uomini politici, di uomini d’affari e anche di donne colte: proprio per questo le nuove idee sono diffuse in modo spesso informale tramite lettere, su brevi opuscoli, in conferenze o addirittura in conversazioni estemporanee, come era solito fare Marsilio Ficino, il prototipo del nuovo filosofo.
Dal filosofo medievale al filosofo umanistico-rinascimentale Il filosofo medievale
Il filosofo umanista
Si basa su
il principio di autorità
la lettura filologica dei testi
Studia
la metafisica
l’etica (e anche i saperi esoterici)
Incarna
il magister, rigido custode del sapere
il maestro di pensiero e di vita
Si rivolge a
un pubblico ristretto di sapienti
un nuovo pubblico di persone attive nella politica e negli affari (anche donne colte)
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 57
Leonardo Bruni
Il valore educativo della discussione e del confronto
D13
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Dialogo a Pier Paolo Vergerio Riprendendo l’esempio di Socrate e di Platone, l’umanista Leonardo Bruni (13701444) sottolinea l’importanza della discussione come pratica pedagogica e modello conoscitivo ed esorta i giovani a esercitarsi sempre nel dialogo con gli altri. I cenacoli umanistici si fonderanno proprio sulla consuetudine del dialogo informale tra gli intellettuali che, pur non assumendo mai i caratteri di uno scontro ideologico, concorrerà a fondare un nuovo modello di sapere rispetto a quello dogmatico dell’università medievale. L’elogio scritto da Bruni è posto in bocca a un altro celebre umanista, Coluccio Salutati.
AA. VV., Prosatori latini del Quattrocento, a c. di E. Garin, Ricciardi, Milano-Roma 1952
Non posso dire, miei giovani amici, quanto piacere mi faccia incontrarmi e stare con voi, che per le abitudini, per gli studi comuni, per la vostra devozione per me, prediligo di particolare affetto. In un solo punto, ma importantissimo, io tuttavia meno vi approvo: infatti, mentre in tutte le altre cose che riguardano i vostri studi 5 io noto che voi ponete tutta quella cura e quell’attenzione, che si convengono a quanti vogliono esser detti accurati e diligenti, vedo che una cosa invece trascurate senza preoccuparvene abbastanza per il vostro profitto; e questa è l’abitudine e la consuetudine della discussione, di cui non so se vi possa esser qualcosa di più proficuo per i vostri studi. Che cosa può esservi infatti, in nome degli dèi immortali, di 10 più giovevole, per afferrare a pieno sottili verità, della discussione, quando sembra che più occhi osservino da ogni parte l’argomento posto in mezzo, in modo che nulla ne resti che possa sfuggire, o rimaner nascosto, o ingannare lo sguardo di tutti? Che cosa c’è, quando la mente è stanca e abbattuta, e quasi disgustata dalla lunga e assidua occupazione, che meglio la rinfreschi e rinnovi, dei discorsi scambiati in 15 comune, mentre la gloria, se si superano gli altri, o la vergogna, se si è superati, spingono con maggior vigore a studiare e a imparare? Che cosa può esservi di più adatto ad aguzzar l’ingegno, a renderlo abile e sottile, della discussione, quando è necessario in un istante applicarsi alla questione, riflettere, esaminare i termini1, raccogliere2, concludere? Onde3 facilmente si comprende come lo spirito, eccitato da 20 tale esercizio, sia reso più rapido a discernere ogni altro argomento. 1 esaminare i termini: per verificare se sono utilizzati con lo stesso significato da tutti i partecipanti alla discussione.
2 raccogliere: fare una sintesi. 3 Onde: Da ciò.
Concetti chiave Contro il sapere dogmatico
Nel testo viene sottolineato il valore attribuito dagli umanisti alla discussione, in quanto essa si pone in contrasto con un sapere dogmatico, fondato sul principio di autorità, e, al contrario, valorizza la libertà del pensiero. Alla verità, come spiega il passo riportato, si giunge infatti attraverso il confronto tra diverse opinioni. Della discussione viene inoltre evidenziato il valore educativo, in quanto essa aiuta a giungere alla verità attraverso il contributo di diversi punti di vista; rompe la monotonia di uno studio solitario; spinge a studiare e imparare per non essere superati dagli altri; costituisce un esercizio intellettuale completo, in quanto obbliga alla precisione, alla sintesi, e alla consequenzialità del ragionamento e infine sviluppa la capacità di parlare bene.
58 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Secondo l’autore (rr. 13-16), quale fattore è favorito dalla libera discussione? STILE 2. Per sottolineare il valore della discussione di un argomento, l’autore utilizza una metafora riferita alla vista. Quale?
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 3. Personalmente quali ritieni siano i maggiori vantaggi della discussione? In che cosa concordi con l’autore del brano?
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
3 Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino Dall’Umanesimo “civile” al neoplatonismo Se il culto di Aristotele domina nella cultura medievale, la tendenza filosofica dominante, in particolare nel primo Rinascimento, è sicuramente il platonismo, che ha enorme diffusione nella seconda metà del Quattrocento in Europa a partire da Firenze. Il “ritorno a Platone” è favorito dalla venuta in Italia dei filosofi bizantini, che soggiornano una prima volta a Firenze, in occasione del Concilio del 1439, per poi ritornare stabilmente in Italia dopo la caduta di Costantinopoli per mano dei Turchi (1453). A Firenze l’università non aveva mai avuto un ruolo di punta. Forse per questa ragione la vita culturale è caratterizzata da maggiore apertura e varietà d’impostazioni: nei primi decenni del movimento umanistico, l’iniziativa culturale ha il suo centro nella Cancelleria della Repubblica e i temi del dibattito culturale riguardano l’etica, la vita civile e politica (si parla al proposito di “Umanesimo civile”). In seguito l’iniziativa passa a intellettuali vicini ai Medici e il modello culturale dominante diventa appunto il neoplatonismo, il cui maggiore rappresentante è Marsilio Ficino.
L’opera di Marsilio Ficino, prototipo del “nuovo filosofo” Marsilio Ficino La figura che meglio rappresenta il nuovo volto della filosofia è Marsilio Ficino (1433-1499), che opera fuori dell’università, nel suo circolo di pochi adepti alla villa di Careggi, donatagli da Lorenzo de’ Medici: un gruppo così esclusivo e coeso al suo interno da apparire quasi una setta (del gruppo facevano parte, oltre allo stesso Lorenzo, anche Pico della Mirandola (➜ D14 ), Cristoforo Landino, Poliziano, Botticelli e altri). L’interesse principale di Ficino è la filosofia platonica, che contribuisce a divulgare; ma i suoi interessi spaziano dalla medicina alla teologia, dall’astrologia alla magia (egli stesso è dedito a pratiche magiche). È anche musicista (suonava la lira) e s’interessa di teoria musicale e di poesia. Gli interessi magici di Ficino e della Firenze di Lorenzo Profondo conoscitore della lingua greca, Ficino riceve da Lorenzo de’ Medici l’incarico di tradurre in latino le opere di Platone. Oltre a Platone e ai testi dei continuatori di Platone (i neoplatonici di età ellenistica) traduce e commenta il Corpus hermeticum: si tratta di scritti esoterici, impregnati di elementi magici, attribuiti nell’Umanesimo al leggendario sapiente egiziano Ermete Trismegisto, che allora si pensavano profetici delle idee platoniche e delle stesse verità cristiane (in realtà gli scritti ermetici risalgono solo o prevalentemente al II-III secolo d.C.). Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 59
online
Per approfondire Segrete corrispondenze: l’interesse rinascimentale per la magia
Il platonismo e l’interesse esoterico a esso connesso divengono una vera e propria moda influenzando profondamente gli ambienti intellettuali: la magia, l’astrologia, l’esoterismo in genere sono alla base della cultura rinascimentale, in particolare di quella fiorentina, il che spiega il grande successo, nel repertorio iconografico del tempo, della figura dei re Magi e la diffusa presenza di simbolismi e di immagini ermetiche e astrologiche. Ficino si propone di conciliare questo sapere con la religione cristiana: sia la filosofia platonica sia il Verbo cristiano, infatti, per Ficino fanno parte di un progetto divino di salvezza. Da qui il titolo della sua opera principale, a quei tempi alquanto ardito: Theologia platonica (1482), in cui l’intellettuale cerca appunto di dimostrare l’armonizzazione fra cristianesimo e sistema platonico. Il tema dell’amore platonico Centrale nella meditazione di Ficino è l’amore. La riflessione del filosofo su questo tema è esposta nel suo commento a uno dei più famosi dialoghi di Platone, il Simposio, nel quale è già contenuta un’idea del sentimento amoroso come superamento della sensualità, come ricerca che, partendo dalla contemplazione della bellezza delle forme fisiche, accede, attraverso vari gradi di perfezionamento, all’essenza divina. Per Ficino la bellezza terrena, che suscita la pulsione amorosa, è solo un’imperfetta manifestazione rispetto alla Bellezza come Idea, che è possibile contemplare soltanto in Dio. La visione platonizzante dell’amore ispira moltissimi trattati sull’amore (➜ C1, PAG. 113), diventando una vera e propria moda culturale (è stata paragonata alla massiccia divulgazione della psicoanalisi nella pubblicistica di oggi). Parlar d’amore in termini neoplatonici diventa quasi un obbligo per letterati e intellettuali.
Pico della Mirandola
D14
Il posto dell’uomo nell’universo De hominis dignitate
P. della Mirandola, De hominis dignitate, a c. di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942
Questo è un passo famosissimo dell’orazione Sulla dignità dell’uomo, che funge da introduzione alle Conclusiones philosophicae, le novecento tesi che, secondo Pico, giovane e brillante filosofo, rappresentavano una sintesi di tutto il proprio sapere e che egli avrebbe voluto discutere in un convegno di dotti a Roma nel 1486 ispirato proprio alla conciliazione filosofica. Vi si enuncia una visione dell’uomo e della sua missione che di per sé può costituire un “manifesto” del pensiero rinascimentale. Il progetto di Pico fu giudicato eretico dalle autorità ecclesiastiche e alcune delle tesi che avrebbero dovuto essere discusse furono ufficialmente condannate da papa Innocenzo VIII.
Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana1 sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità2. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania3, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi4, aveva popolato di una turba di animali d’ogni specie 5 le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera 1 arcana: segreta e misteriosa, accessibile
3 zona iperurania: nella filosofia platoni-
a pochi. 2 tempio... divinità: tempio nobilissimo della divinità.
ca è il luogo delle idee, superiore al cielo. 4 aveva... globi: (Dio) aveva animato (avvivato) con le menti angeliche le sfere ce-
60 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
lesti degli astri. Secondo la concezione propria del neoplatonismo e della magia rinascimentale il mondo è suddiviso in tre regioni: terrena, celeste, sovraceleste.
sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo5, pensò da ultimo a produrre l’uomo. Ma degli archetipi6 non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno 10 ve n’era da largire in retaggio7 al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medî, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell’ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di 15 consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in sé stesso8. Stabilì finalmente l’ottimo artefice9 che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita10 e postolo nel cuore del mondo11 così gli parlò: «non ti ho dato, o 20 Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio12 ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà13 ti consegnai. Ti posi nel mezzo 25 del mondo14 perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto15. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti16; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». 30 O suprema liberalità di Dio padre! o suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole. I bruti nel nascere seco recano dal seno materno tutto quello che avranno, come dice Lucilio17. Gli spiriti superni o dall’inizio o poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli18. Nell’uomo nascente il Padre ripose semi19 d’ogni specie e germi d’ogni vita. E se35 condo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta20; se sensibili, sarà bruto21; se razionali, diventerà 5 Mosè e Timeo: Timeo, filosofo pitagorico e protagonista del dialogo platonico omonimo di argomento cosmologico, è posto sullo stesso piano di Mosè, ritenuto l’autore della Genesi, il testo biblico sulla creazione. 6 archetipi: secondo la filosofia platonica, modelli ideali di cui le realtà esistenti sarebbero copia. 7 largire... retaggio: offrire in eredità. 8 non sarebbe… stesso: sarebbe stato indegno del potere divino (paterna potestà) non elargire doni (alla lettera, “fallire, dimostrarsi inadeguato”) all’ultima creazione (fattura), l’uomo, come se Dio ne fosse incapace; (indegno) della sua sapienza, rimanere incerto in un’opera necessaria per mancanza di un progetto; non sarebbe stato degno del suo amore benefico che l’uomo, destinato ad ammirare la generosità (liberalità) di Dio verso le altre creature, fosse costretto a lamentarne la mancanza nei suoi riguardi. Potenza,
sapienza e amore sono gli attributi tradizionali della divinità. 9 Stabilì... artefice: Alla fine l’ottimo crea tore stabilì. 10 di natura indefinita: l’uomo è di natura indefinita perché egli stesso può autodeterminarsi, cioè scegliere a che livello di esistenza vivere, se essere dedito alle realtà materiali o a quelle intellettuali e spirituali: l’uomo, infatti, può essere, secondo Pico, simile a una pianta, a un animale, a un essere ragionante, a un angelo e persino a Dio. 11 postolo... mondo: dopo averlo posto nel centro del mondo. 12 il tuo voto... consiglio: il tuo desiderio e il tuo progetto: l’uomo è affidato al suo libero arbitrio. 13 potestà: potere. 14 nel mezzo del mondo: perché l’uomo ha un’intelligenza che gli permette di afferrare il divino, ma è immerso nella realtà sensibile con il suo corpo.
15 libero... prescelto: nella concezione di Pico l’uomo diviene libero creatore del proprio essere. 16 i bruti: gli esseri privi di razionalità, ossia gli animali irragionevoli, dominati dall’istinto. 17 Lucilio: autore latino di Satire del II sec. a.C. Il senso del passo è che gli animali si comportano secondo istinti già presenti alla nascita. 18 Gli spiriti... secoli: Gli spiriti superiori (gli angeli), dalla creazione o poco dopo (in seguito alla ribellione di Lucifero) furono quello che saranno per l’eternità. 19 semi: potenzialità che potranno o no essere sviluppate. 20 se saranno... pianta: se l’uomo sarà insensibile e incosciente sarà simile a una pianta. 21 se sensibili, sarà bruto: se l’uomo svilupperà soltanto i sensi e gli istinti sarà come un animale irragionevole.
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 61
animale celeste22; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio23. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità24, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine25 del Padre colui che fu posto sopra tutte 40 le cose starà sopra tutte le cose. 22 animale celeste: essere dotato di anima (legato quindi al mondo sensibile) ma nello stesso tempo capace di comprendere l’intelligenza della creazione. 23 sarà... di Dio: capace di elevarsi alla sfera intellettuale delle idee eterne.
24 si raccoglierà... unità: si concentrerà in sé, nel suo essere “un uno”, una unità, rendendosi simile a Dio, che secondo la teologia neoplatonica è Uno. 25 caligine: oscurità. Nella teologia neoplatonica l’essenza dell’essere divino è im-
mersa nell’oscurità: di Dio si può dire solo ciò che non è (teologia negativa), perché le qualità positive limiterebbero l’infinita onnipotenza divina.
Concetti chiave La “dignità dell’uomo” e la sua eccellenza
L’Oratio de hominis dignitate (1486), premessa alle novecento tesi che Pico si proponeva di discutere, a ragione può essere considerata il “manifesto” del tardo Umanesimo, in quanto ne esprime perfettamente la visione cosmologica e antropologica. Secondo Pico della Mirandola, l’uomo è un essere unico ed eccezionale, perché posto al centro dell’universo e dotato di una libertà senza limiti: il suo libero arbitrio non si manifesta infatti soltanto nella scelta tra il bene e il male (come era proprio della concezione medievale), ma anche e soprattutto nella possibilità di autodeterminarsi. Al contrario delle altre creature viventi, condizionate dalla loro essenza immodificabile (come, per esempio, l’istinto negli animali), l’uomo può infatti scegliere liberamente ciò che vuole divenire, bestia o essere razionale, perché ha in sé tutte le possibilità: può avvilirsi a livello animale, se agisce secondo l’istinto, e persino di un vegetale, se è insensibile e privo di coscienza o, al contrario, può sviluppare tutte le sue potenzialità, che sono illimitate, elevandosi fino a una vita razionale e spirituale o addirittura, come si asserisce alla fine del passo, fondersi in un’unione mistica con Dio. È significativo nel passo l’accento, riguardo all’eccellenza dell’uomo, posto sulla contemplazione: la grandezza dell’uomo, voluta dal Creatore, consiste nell’«afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità».
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
Interpretare
COMPRENSIONE 1. Quali caratteristiche indicate da Pico della Mirandola renderebbero l’uomo superiore a tutti gli altri esseri? SINTESI 2. Secondo il modello platonico, la concezione di Pico della Mirandola è esposta attraverso un racconto mitico: riassumilo brevemente e spiegane il significato.
Studiare con l’immagine SCRITTURA 3. Un’illustrazione cinquecentesca (1512) della Logica del medievale Raimondo Lullo presenta le varie possibilità dell’essere offerte all’uomo attraverso il simbolo della scala, utilizzato anche da Pico nell’Oratio: l’essere umano, grazie al proprio intelletto, può ascendere, elevandosi dal sasso (lapis) alla pianta, a un animale bruto a un angelo e un dio. Indica i punti in comune con lo scritto di Pico della Mirandola.
62 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
4 Un modo diverso di guardare alla natura L’interesse per la natura Uno dei caratteri principali della nuova cultura è l’interesse per la natura, considerata degna di autonoma osservazione e non più, come nel Medioevo, realtà imperfetta in cui ricercare e interpretare esclusivamente i “segni” del divino. Un nuovo “sguardo”, dunque, che ha dirette conseguenze anche sulla rappresentazione artistica: l’arte quattrocentesca raffigura il corpo umano in modo sempre più plastico e non lo colloca più su uno sfondo schematico e astrattamente simbolico, ma lo inserisce armonicamente entro paesaggi ricchi di dettagli naturalistici. Verso la nascita della scienza moderna Nell’età umanistico-rinascimentale sono gettate le basi su cui si svilupperà la scienza moderna. Innanzitutto il desiderio di dominare la natura – stimolato dalla fiducia umanistica nelle potenzialità dell’uomo – spezza la tradizionale separazione fra teoria e pratica, propria del pensiero medievale: è una svolta decisiva perché possa nascere la scienza moderna. Importantissima per lo sviluppo della scienza inoltre è la valorizzazione della matematica, che consegue alla traduzione e allo studio filologico delle opere di Archimede: in alcuni casi si ricercano nei numeri nascoste qualità misticomagiche, secondo i principi del neoplatonismo e gli interessi esoterici che furono propri del tempo; ma per lo più la matematica è considerata uno strumento necessario per poter descrivere in modo preciso i fenomeni, il codice che consente di leggere adeguatamente nel grande “libro della natura”. Leonardo, fautore dell’esperienza e “uomo universale” Nell’età dell’Umanesimo la figura più rilevante nel campo delle ricerche naturali è sicuramente Leonardo da Vinci (1452-1519), ritenuto il precursore del metodo sperimentale che sta alla base della scienza moderna. Nei suoi Pensieri, infatti, sono anticipati princìpi che Galileo avrebbe formulato solo un secolo dopo: già Leonardo infatti polemizza contro «le scienze che principiano e finiscono nella mente», cioè i sistemi astratti di pensiero che avevano caratterizzato la filosofia medievale, e rifiuta sia le superstiziose credenze di alchimisti e maghi, così seguite al suo tempo, sia le astruse elucubrazioni dei teologi. Secondo Leonardo una vera conoscenza dei fenomeni naturali non può prescindere dal riferimento all’esperienza (➜ D15 ) e deve utilizzare la matematica, strumento necessario a formulare con esattezza le leggi che regolano la natura. L’incredibile varietà degli interessi e dei settori nei quali si è espresso il genio di Leonardo (dalla pittura all’architettura, dall’ingegneria idraulica all’anatomia) fanno di lui l’esempio più alto e più celebre di quel modello di uomo “universale” che era esaltato dalla cultura umanistico-rinascimentale. Nell’ambito della meccanica, Leonardo intuisce l’esistenza del principio di inerzia, del principio della composizione delle forze e di quello del piano inclinato, che assume come base per la spiegazione del volo degli uccelli. In un altro campo della fisica scopre il principio dei vasi comunicanti, nel campo dell’idraulica applicata dimostra una competenza straordinaria ai suoi tempi, che mette a disposizione di un grande principe-mecenate: Lodovico il Moro. Come ingegnere Leonardo progetta strutture difensive, come tecnico idea armi, macchine tessili e così via. Tipico del suo genio è il fatto che ogni sua Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 63
online
Gallery
PER APPROFONDIRE
Il genio multiforme di Leonardo
intuizione non è mai lasciata allo stato puramente teorico, ma viene sempre tradotta in progetti tecnici, illustrati attraverso disegni estremamente precisi e dettagliati. Ma il genio di Leonardo si applica con straordinari risultati anche all’astronomia e soprattutto all’anatomia: riesce a descrivere con esattezza la circolazione del sangue, la fisiologia dell’occhio e altri processi. Occorre precisare che gli studi anatomici di Leonardo sono soprattutto finalizzati al miglioramento delle sue capacità nel rappresentare, in qualità di artista, il corpo umano: in Leonardo è dunque impossibile separare non solo il tecnico dallo scienziato, ma anche lo scienziato dall’artista.
Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna Dalla fine del Quattrocento fino a tutto il Cinquecento si verifica un grande rinnovamento degli studi medici. Vengono letti in modo critico, attraverso i sussidi filologici, i testi fondamentali della medicina antica. Anche in questo ambito, come in altri campi del sapere, il progresso delle conoscenze è favorito dalla stampa: nel 1526 viene stampata a Venezia l’opera completa di Ippocrate, la cui conoscenza diretta si diffonde tra i dotti del tempo. Progressivamente, però, ci si allontana dall’autorità dei greci Ippocrate e Galeno e si inizia a osservare direttamente il corpo umano, utilizzando la dissezione anatomica come fondamentale strumento conoscitivo. Fino alla fine del Quattrocento circa, antiche norme vieta-
vano di usare i cadaveri per studiare il corpo umano. Nei primi decenni del XVI secolo è Andrea Vesalio (Andreas van Wesel, 1514-1564), fiammingo, professore di chirurgia a Padova e autore del trattato De corporis humani fabrica (La fabbrica del corpo umano, 1543), a inaugurare la moderna medicina sperimentale: attraverso la pratica della dissezione dei cadaveri, egli dimostra che l’anatomia di Galeno è in molti punti errata. Sovvertendo i metodi tradizionali dell’insegnamento universitario, Vesalio pratica personalmente la dissezione e ne trae osservazioni dirette, eliminando la figura del tecnico incaricato di operare la dissezione, che fungeva da intermediario tra maestro e allievi.
Leonardo da Vinci
D15
Le scienze che non si riferiscono all’esperienza sono vane ed erronee Trattato della pittura
L. da Vinci, Scritti letterari, UTET, Torino 1973
In questo breve passo, il grande scienziato fa asserzioni che anticipano il metodo moderno della ricerca scientifica. In particolare, contro una visione astratta e puramente teorica della scienza, egli sostiene la necessità di un costante riferimento all’esperienza.
Dicono quella cognizione esser meccanica la quale è partorita dall’esperienza1, e quella esser scientifica che nasce e finisce nella mente2, e quella essere semimeccanica che nasce dalla scienza e finisce nella operazione manuale3. Ma a me pare che quelle scienze siano vane e piene di errori le quali non sono nate dall’esperienza,
1 Dicono... dall’esperienza: Si dice che è
2 e quella... mente: e che è scientifica
3 e quella... manuale: e che è semimec-
tecnica (meccanica) quella conoscenza (cognizione) derivata (partorita) dall’esperienza.
quella (conoscenza) che è puramente teo rica, astratta, mentale.
canica quella (conoscenza) che, nata dal pensiero scientifico, viene applicata in un’operazione tecnica.
64 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
madre d’ogni certezza, e che non terminino in nota esperienza, cioè che la loro origine o mezzo o fine non passa per nessuno de’ cinque sensi. E se noi dubitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per i sensi, quanto maggiormente dobbiamo dubitare delle cose ribelli ad essi sensi4, come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili5, per le quali sempre si disputa e contende. E veramente accade che sempre 10 ove manca la ragione suppliscono le grida6, la qual cosa non accade nelle cose certe. Per questo diremo che ove si grida7 non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto8, e s’esso litigio resurge, ella è bugiarda e confusa scienza e non certezza rinata. 5
4 ribelli ad essi sensi: non percepibili dai sensi. 5 dell’essenza... simili: Leonardo indica alcune questioni metafisiche, sottratte all’esperienza dei sensi. Il suo scopo è soprattutto distinguere la scienza dalla metafisica, anche se l’affermazione rivela
un certo distacco dai problemi teologici. 6 ove manca... grida: dove manca una dimostrazione certa (quella dell’esperienza dei sensi), provvedono le grida (cioè si cerca di prevalere gridando più forte per affermare le proprie idee).
7 ove si grida: dove si discute animatamente (per far prevalere la propria tesi).
8 la verità... distrutto: la verità (scientifica) ha un solo risultato certo che, quando è reso noto, vanifica per sempre ogni motivo di contesa.
Concetti chiave Leonardo, moderno “filosofo della scienza”
Il tema del brano è lo studio del mondo naturale, che nell’interpretazione di Leonardo assume già i caratteri della scienza moderna. Nel breve passo proposto, Leonardo non soltanto anticipa il metodo di Galileo, teorizzando la necessità di uno stretto collegamento tra la scienza, l’esperienza sensibile e la tecnica, ma con le sue riflessioni metodologiche precorre uno dei temi fondamentali della filosofia novecentesca, la distinzione tra problemi scientifici (che possono essere risolti grazie alla verifica dell’esperienza) e problemi non scientifici, da assegnare al campo della metafisica, perché non esiste un criterio per decidere sulla verità delle affermazioni proposte. Il pensiero del Novecento – da Wittgenstein a Popper – procederà nel solco della distinzione tracciata da Leonardo, che si rivela anche in questo caso geniale innovatore e pensatore originale: le filosofie rinascimentali tendevano invece a unificare la realtà sensibile e la realtà spirituale (si pensi, ad esempio, alla filosofia ficiniana e anche all’arte della magia, non a caso avversata da Leonardo). Il ricorso all’esperienza, secondo il geniale intellettuale, è la condizione necessaria perché un sapere possa essere definito “scienza”. Proprio perché non possono fondarsi sull’evidenza sensibile, invece, le questioni metafisiche non potranno mai trovare una risposta univoca. Sono osservazioni tutt’altro che scontate in quel tempo. Un’altra affermazione importante e molto attuale è il fatto che dove c’è una verità certa non c’è bisogno di discutere animatamente per far prevalere il proprio punto di vista.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale principio cardine del proprio pensiero scientifico afferma qui Leonardo? Il primato di cosa si sottolinea? 2. Contro quale idea della scienza polemizza Leonardo? Che cosa, secondo lui, può essere veramente considerato “scientifico”?
Interpretare
LETTERATURA E NOI 3. Quali considerazioni presenti nel testo ritieni possano considerarsi ancora attuali? TESTI A CONFRONTO 4. Alla luce del brano proposto, prova a commentare la seguente celebre frase pronunciata dal grande scienziato Galilei più di un secolo dopo: «Mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie».
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 65
3
Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 1 La letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento Il trattato Nell’età umanistico-rinascimentale emerge nel panorama dei generi il trattato, che gli umanisti utilizzano per definire e diffondere la nuova visione della vita e i temi fondamentali del dibattito ideologico. Nel periodo umanistico i temi principali sono: • la dignità dell’uomo e il suo posto privilegiato nell’universo in rapporto alla visione antropocentrica; • il ruolo e i caratteri dell’educazione secondo i princìpi umanistici; • il tema politico ovvero il rapporto fra tirannide e libertà in un primo tempo e in seguito la figura e la funzione del principe. Un tema poi ripreso in una prospettiva radicalmente innovativa nel Principe di Machiavelli. Il primo Cinquecento vede invece affermarsi nuove tematiche; • i modelli di comportamento cui deve ispirarsi il cortigiano nelle varie occasioni della vita di corte (Il Cortegiano di Castiglione e il Galateo di Della Casa); • il tema dell’amore secondo la prevalente visione filosofica del neoplatonismo (Gli Asolani di Bembo); • la questione di quale lingua usare in ambito letterario (Le prose della volgar lingua di Bembo). Al tempo i trattati prevedono il dialogo tra più personaggi, non immaginari ma reali protagonisti della cultura del momento, ognuno dei quali assume una determinata posizione riguardo al tema, senza che ne prevalga una in particolare. Una scelta derivante sia dall’imitazione dei classici (da Platone a Cicerone), sia da una visione culturale eclettica e antidogmatica, che valorizza lo scambio di idee come strumento di civiltà. Il teatro Tra Quattro e Cinquecento il teatro si fa espressione della dominante visione laica e della civiltà della corte: gli spettacoli si svolgono dentro questo ambiente e si rivolgono al pubblico ristretto dei cortigiani. Due sono le direzioni. • Il teatro classicistico, nel quale gli umanisti riscoprono i grandi autori del teatro comico latino (Plauto e Terenzio) e si sviluppa una ricca produzione teatrale, soprattutto comica, incentrata sull’imitazione dei modelli antichi per quanto riguarda le situazioni, i personaggi, i meccanismi stessi della comicità. I testi di maggiore interesse e successo al tempo sono la Calandria del Bibbiena, basata sugli scambi di persona e sugli equivoci, espedienti cari al teatro classico latino; poi l’anonima Veniexiana, che ritrae con spregiudicato realismo le passioni amorose di due donne; infine La mandragola di Machiavelli, capolavoro del teatro rinascimentale. • Il teatro anticlassicistico, risultato del rifiuto, da parte di alcuni autori, dei modelli imperanti del classicismo, anche sul piano linguistico. Ne sono esempio La
66 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Cortigiana di Pietro Aretino, ferocemente polemica verso la società di corte e le commedie in dialetto pavano (padovano) di Ruzante, che rappresentano in modo realistico un mondo contadino subalterno. Il genere idillico-pastorale Nell’età umanistico-rinascimentale ha grande successo una tipologia letteraria ancora una volta riconducibile all’imitazione dei classici (modello principale sono le Egloghe del poeta latino Virgilio). Fa da sfondo alle varie opere un mondo campestre stilizzato, o spazi comunque alternativi al mondo rea le, in cui regna una dimensione “idillica” fuori dal tempo. Comune è l’impiego di raffinati riferimenti alla mitologia classica, graditi al gusto erudito degli umanisti. La letteratura idillico-pastorale è articolata in una variegata produzione: • poemetti idillico-mitologici come le Stanze di Poliziano, uno dei più importanti umanisti; • romanzi come l’Arcadia di Sannazaro; • drammi a sfondo pastorale, il cui primo esempio è la Favola di Orfeo di Poliziano. Il poema cavalleresco Tra Quattrocento e Cinquecento, nell’ambiente di corte, si sviluppa un genere che avrà grande fortuna e che produrrà alcune delle più grandi opere della letteratura italiana. Il poema cavalleresco riprende una materia antica, trasmessa a lungo in forma orale dai canterini e fonde i materiali dell’antica epica carolingia (da cui la figura di Orlando) con quelli della “materia bretone” (dominata dall’avventura, dalla magia, dagli amori). Questi materiali eterogenei sono rielaborati ed elevati a dignità artistica nel poema cavalleresco, per rispondere al gusto raffinato della corte, specie di quella estense a Ferrara, dove sono prodotti dei capolavori del genere: • L’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (seconda metà del Quattrocento) aderisce nostalgicamente ai miti cavallereschi riproponendone il valore al pubblico del tempo. • L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (prima metà del Cinquecento) utilizza in modo scaltrito e consapevole la materia cavalleresca come “codice” noto al pubblico ferrarese entro cui dare spazio a una moderna, ironica visione del mondo.
Thomas Cole, Stato Arcadico o Pastorale, olio su tela, 1834.
Caratteri e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 3 67
La lirica petrarchista Anche nella lirica dominano un’ottica classicistica e il principio di imitazione: in questo caso di Petrarca. Pietro Bembo, uno dei più importanti intellettuali del tempo, nelle Prose della volgar lingua (1525) lo consacra come modello linguistico per la poesia italiana e cura nel 1530 l’edizione a stampa delle Rime. Da questa data in poi Petrarca diventa il modello indiscusso della lirica, da tutti emulato (il “petrarchismo” coinvolge anche numerose poetesse). La sua imitazione diventa una vera e propria “moda”, creando un codice comune tra i poeti. La novella cinquecentesca Nel Rinascimento il gusto edonistico della corte riporta in auge il tipico genere narrativo di intrattenimento, la novella. Nelle raccolte del Cinquecento si ripropone il rapporto con l’illustre modello del Decameron, che ogni scrittore risolve in modo personale, a cominciare dalla presenza o no della “cornice”. La maggior raccolta è quella di Bandello (I quattro libri delle novelle) che ha grande fortuna anche in Europa: lo stesso Shakespeare ne ricava alcuni soggetti per le sue opere teatrali. Bandello premette a ogni novella una lettera dedicatoria ai signori del tempo, che è un interessante documento di costume. Biografie e autobiografie di artisti La valorizzazione della “virtù” dell’individuo propria della cultura umanistico-rinascimentale spiega l’emergere nel panorama del genere delle biografie, in particolare di quelle relative agli artisti:
Giorgio Vasari, San Luca dipinge la Vergine, affresco, ca. 1565 (Basilica della Santissima Annunziata, Firenze).
• le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani di Giorgio Vasari (1550; 1567) offrono memorabili ritratti, in più di 200 biografie, dei grandi artisti italiani dal Duecento al Rinascimento, considerato il culmine di un processo evolutivo verso l’eccellenza, rappresentata, secondo Vasari, da Michelangelo; • per quanto riguarda l’autobiografia, il riferimento d’obbligo è alla Vita di Cellini, ammirata specie in età romantica. Geniale e versatile artista, interpreta l’autobiografia come orgogliosa celebrazione del proprio talento e del forte temperamento.
Modelli del sapere e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo Fissare i concetti Cinquecento 1. Che cosa si intende con l’espressione studia humanitatis? 2. Quale metodo educativo si adotta nelle scuole umanistiche? 3. Quali sono gli aspetti positivi e negativi della pedagogia umanistica? 4. Quale è il modello conoscitivo in uso nell’Umanesimo? 5. Come mai il genere letterario del dialogo è molto praticato dagli umanisti? 6. In che modo viene modificato l’insegnamento filosofico? 7. Quali sono gli interessi del filosofo Marsilio Ficino? 8. Come è visto l’amore nella riflessione di Ficino? 9. In che modo viene studiata la natura in questo periodo? 10. Perché Leonardo da Vinci è ritenuto il precursore del metodo sperimentale?
68 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
4
L’evoluzione della lingua 1 Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare La ripresa umanistica del latino La storia della lingua letteraria in Italia tra Quattrocento e Cinquecento si può dividere in due fasi: nella prima (dall’inizio del secolo al 1480 circa) domina l’uso del latino; nella seconda (dal 1480 alla metà del Cinquecento) si assiste a un nuovo affermarsi del volgare. A conclusione di questo processo, il volgare toscano s’imporrà come lingua nazionale della cultura. Perché gli umanisti ritornano a usare il latino? Per quasi tutto il Quattrocento il latino riconquista una posizione preminente di lingua della cultura, dato che gli umanisti lo utilizzano per quasi tutti i generi letterari (compresa la poesia) e le varie occasioni di comunicazione formale: anche le lettere che si scambiano sono scritte quasi sempre in latino. Come si spiega questo fenomeno? Gli umanisti considerano la lingua latina un modello perfetto, da riprendere e imitare se si vuole riportare in vita (come essi si propongono appunto di fare) i valori civili, morali, intellettuali della cultura classica. Nella prefazione ai suoi Elegantiarum Linguae Latinae libri sex (Sei libri delle eleganze della lingua latina) il grande umanista Lorenzo Valla celebra entusiasticamente la funzione civilizzatrice che fu esercitata dal latino, che va perciò riscoperto e riutilizzato (➜ D16 OL). Bisogna però precisare che il latino umanistico è lontano da quello medievale, contaminato con il volgare. Richiamandosi alla lezione di Petrarca, che già aveva rifiutato nelle sue opere il latino medievale, gli umanisti si sforzano di riportare in vita, attraverso gli strumenti della filologia, la lingua aurea usata dai grandi scrittori del mondo classico.
PER APPROFONDIRE
La ripresa del volgare e il declino del latino Nello stesso tempo, però, già nel corso del Quattrocento, il volgare si va riproponendo come lingua della cultura. È un recupero inevitabile: infatti, il latino umanistico, modellato rigidamente sul latino classico, di per sé era destinato a essere una lingua morta, tagliata fuori dai reali processi comunicativi. Verso il 1480, con le opere di Poliziano, Boiardo, Sannazaro, il volgare arriva a imporsi nuovamente in quasi tutti i generi letterari. Il latino non scompare, tuttavia, ma il suo declino come lingua della letteratura è ormai segnato e sarà irreversibile.
Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare Dante aveva difeso con grande convinzione la dignità del volgare nel De vulgari eloquentia e aveva usato la lingua volgare, compiendo una scelta decisamente innovativa, addirittura per un trattato filosofico enciclopedico (il Convivio), un tipo di testo per cui era rigorosamente prescritto l’uso del latino. In volgare Dante compone inoltre la Vita nuova e soprattutto la Commedia, riservando l’uso del latino soltanto per la comunicazione fra “dotti” (De vulgari eloquentia e Monarchia). Nella Commedia, inoltre, Dante aveva compiuto una scelta linguistica e stilistica ispirata al pluristilismo (dal comico al tragico) e al plurilinguismo, con punte di marcata iperespressività.
Al contrario, con Petrarca il latino ritorna a essere la lingua principale e più nobile: Petrarca sceglie di utilizzare il latino in ogni suo testo in prosa, limitando l’uso del volgare al Canzoniere e ai Trionfi. D’altra parte il volgare impiegato da Petrarca, in particolare nel Canzoniere, è espressione di un rigoroso monostilismo, è una lingua selettiva che rifiuta (in netta antitesi con la Commedia) ogni espressività e ogni contaminazione con lo stile basso. Saranno le scelte di Petrarca, sicuramente più consone che non quelle di Dante alla visione estetica dell’Umanesimo, a influenzare la cultura umanistico-rinascimentale.
L’evoluzione della lingua 4 69
2 La “questione della lingua” nel Cinquecento Un dibattito di grande importanza storico-sociale Nella prima metà del Cinquecento, una volta che il volgare s’impone definitivamente come strumento letterario, si apre un importante dibattito, noto come “questione della lingua”, che si interroga su quale idioma comune debba essere usato come lingua della comunicazione scritta. Tutti gli uomini di cultura, a prescindere dalla specifica posizione che assumono nel dibattito, avvertono la stessa esigenza: normalizzare la lingua scritta e predisporre un codice comune tra i letterati del paese cui poter affidare la trasmissione dei contenuti culturali. La diffusione della stampa rendeva infatti sempre più urgente l’istituzione di un modello linguistico unitario, perché le diversità fonetiche dei dialetti determinavano quelle diversità nell’uso grafico tra le diverse regioni e aree, accettabili nella circolazione della tradizione manoscritta ma non certo nelle edizioni a stampa.
Le diverse posizioni sul problema della lingua
Tiziano Vecellio, Ritratto di Pietro Bembo, olio su tela 1539 (National Gallery of Art, Washington).
Sono queste le tre tesi linguistiche che si fronteggiano. • La tesi cortigiana: la lingua italiana deve essere quella che si parla nelle corti Un primo gruppo di intellettuali, tra i quali figura anche Baldesar Castiglione, l’autore del Cortegiano, uno dei più importanti trattati del tempo, sostiene la tesi della lingua cortigiana: il modello di una lingua comune a tutti gli intellettuali poteva essere ritrovato nella lingua parlata nelle corti e in particolare nella corte romana, alla quale afferivano persone colte e politici provenienti da tutti gli stati italiani. La lingua comune immaginata dai sostenitori della tesi cortigiana avrebbe dovuto dunque derivare dalla fusione dei diversi volgari regionali nelle loro forme più elevate (e cioè parlate dagli intellettuali e dal ceto superiore). • La tesi del fiorentino vivo: la lingua italiana deve essere quella che si parla a Firenze Alla tesi di una lingua italiana strettamente legata agli ambienti di corte si oppongono con vivacità polemica alcuni scrittori fiorentini o toscani (il più celebre è Machiavelli), che rivendicano a Firenze o comunque alla Toscana la superiorità in campo linguistico. La lingua nazionale deve essere il fiorentino (o più in generale il toscano), che si è imposto soprattutto grazie ai grandi scrittori trecenteschi e che è ormai considerato modello dagli autori di tutta Italia. Non si deve però passivamente adeguare al modello linguistico dei grandi scrittori toscani: parlanti e scriventi devono attenersi al modello del fiorentino in uso nella realtà contemporanea. • La tesi di Bembo: la lingua italiana deve essere quella degli autori trecenteschi Pietro Bembo (1470-1547), uno degli intellettuali più importanti della cultura rinascimentale, interviene autorevolmente nel dibattito, assumendo una prospettiva completamente diversa rispetto agli altri contendenti: infatti egli non si pone il problema di una lingua di comunicazione, bensì considera esclusivamente la dimensione letteraria. La lingua per scrivere deve
70 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
essere sottratta alle variazioni che l’uso comporta inevitabilmente, deve essere una lingua d’arte, in un certo senso una lingua “artificiale”. Essa dovrà ispirarsi agli autorevoli modelli della tradizione più illustre, ovvero ai grandi trecentisti (Petrarca e Boccaccio in particolare, rispettivamente per la poesia e per la prosa). Perché prevale la proposta del Bembo La proposta del Bembo, consacrata dalle Prose della volgar lingua (1525), avrà grande successo e risulterà vincente. Le ragioni sono molteplici, e innanzitutto di tipo storico: • la crisi delle corti e del sistema politico di equilibrio tra stati regionali, dovuta all’occupazione di territori italiani da parte di potenze straniere, rendeva di difficile attuazione la tesi cortigiana, che avrebbe comportato intensi scambi tra le corti; • il fiorentino parlato sarebbe prevalso se Firenze fosse riuscita a costituire un forte stato nell’Italia centrale, capace di aggregarne altri e di fare da baluardo contro le invasioni straniere, come auspicava Machiavelli: ma il corso storico non andò in questa direzione. La proposta bembiana appare dunque l’opzione più razionale per assicurare alla cultura italiana una lingua comune. Uniformarsi a un modello già fissato, come quello dei testi autorevoli di Petrarca e Boccaccio, rappresenta la soluzione più rapida ed efficace del problema, anche in rapporto alle nuove esigenze di uniformità create dalla stampa (non è un caso che Bembo, veneziano, collabori fattivamente con Aldo Manuzio, il più famoso editore di Venezia, che è a sua volta il maggior centro della stampa italiana in questi anni). Anche in ambito più strettamente grammaticale, vedono la luce in questo periodo le prime grammatiche normative e i primi repertori lessicali, cioè i futuri vocabolari. Inoltre la tesi di Bembo è pienamente rispondente al gusto classicistico del tempo e al principio di imitazione seguito dagli scrittori del Cinquecento.
PER APPROFONDIRE
La toscanizzazione della lingua scritta Già nella prima metà del Cinquecento il fiorentino modellato sulla lingua dei trecentisti tende ad affermarsi come lingua nazionale della cultura, imponendosi sugli altri dialetti regionali. Questi ultimi in ambito letterario saranno progressivamente marginalizzati o comunque associati a forme letterarie considerate di fatto “minori” nel sistema dei generi. È significativa la vicenda editoriale di un’opera importante come l’Orlando innamorato del Boiardo, nella seconda metà del Quattrocento (➜ C4): scritto in una lingua con forti
Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore La motivazione principale che fa di Aldo Manuzio (1449-1515) il più importante stampatore italiano è la passione di educatore e di umanista: Manuzio aveva insegnato latino e greco a personaggi come Pico della Mirandola e avverte il pressante bisogno di edizioni curate e insieme maneggevoli di classici greci e latini, un bisogno che la stampa può soddisfare. Nel 1494 avvia a Venezia il suo ambizioso progetto editoriale, decidendo di mettere a frutto l’invenzione di Gutenberg: produce così pregevoli edizioni di classici greci (Sofocle, Platone, Aristotele) e latini (Virgilio, Orazio, Ovidio). In casa di Manuzio o nella sua stamperia cominciano ad affluire dotti e umanisti da tutta Europa, fra cui anche Erasmo da Rotterdam, che discutono sui libri da stampare e dei manoscritti più affidabili da utilizzare perché l’edizione sia il più possibile corretta. Dopo il successo delle prime edizioni Manuzio ha la geniale
intuizione di pubblicare una collana di libri “tascabili” (di 20-28 cm di altezza) per offrire ai lettori supporti maneggevoli. Inoltre, proprio per risparmiare spazio, Manuzio impiega il corsivo, un nuovo carattere molto gradevole e leggibile, creato dall’incisore bolognese Francesco Griffo. Le edizioni aldine non sono lussuosamente decorate, ma in compenso si segnalano per eleganza e pulizia grafica, per il testo chiaro, per la cura da un punto di vista filologico. Il libro non è più uno status symbol, ma un bene intellettuale individuale, da consultarsi con tutto agio date le sue dimensioni relativamente ridotte. L’iniziativa di Manuzio ha enorme successo e viene imitata in tutta Europa. Tra le edizioni aldine, la più celebre è quella del Canzoniere di Petrarca del 1501, curata da Pietro Bembo, che segna l’inizio della fortuna non solo italiana ma europea della lirica petrarchesca.
L’evoluzione della lingua 4 71
influssi locali (il dialetto ferrarese), il poema venne presto dimenticato, perché non corrispondeva ai canoni linguistici dominanti nel primo Cinquecento. Al contrario Ariosto, dopo l’affermarsi della tesi bembiana con le Prose della volgar lingua (1525), sottopone a una revisione linguistica l’Orlando furioso, conferendo al poema, nell’edizione definitiva (1532), una veste linguistica toscana: una scelta che risulterà determinante per il successo del suo capolavoro in una Italia letteraria sempre più “toscanizzata”. Pietro Bembo e Prose della volgar lingua Pietro Bembo nasce nel 1470 a Venezia in una nobile e importante famiglia: il padre è uno dei senatori più autorevoli della Repubblica veneziana e, ancora ragazzo, Bembo lo segue in varie missioni diplomatiche presso varie corti italiane (tra cui Firenze). Già in possesso di una vasta cultura umanistica, a poco più di vent’anni si reca a Messina per apprendere il greco dal filologo bizantino Costantino Lascaris. Rientrato a Venezia, nel 1501 pubblica per le edizioni di Aldo Manuzio un’edizione filologica del Canzoniere e nel 1505 gli Asolani. Lasciata Venezia, prende gli ordini minori (allora significava, per gli intellettuali, intraprendere una carriera, che nel caso del Bembo, sarà prestigiosa). Nel 1513 diventa segretario personale di Leone X. Nel 1525, dopo una lunga elaborazione, pubblica le Prose della volgar lingua, un trattato in tre libri che riscuote grande successo in tutta Italia. Del 1530 è la prima edizione delle Rime. Nel 1539 diventa cardinale. Muore a Roma nel 1547. Prose della volgar lingua Le Prose della volgar lingua (1525) sono un trattato dialogico in tre libri composto tra il 1512 e il 1524. L’autore immagina che il dialogo sia avvenuto a Venezia nella casa dei Bembo stesso nel 1502, quindi molti anni prima dell’effettiva stesura del trattato. Gli interlocutori sono Carlo Bembo, fratello dell’autore, che assume nel dialogo il ruolo di suo portavoce; Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico; Federico Fregoso, uno dei personaggi del Cortegiano e l’umanista ferrarese Ercole Strozzi. Nel primo libro è affrontato il problema se si debba scrivere in latino o in volgare. Essendo la maggioranza degli interlocutori concordi nella scelta del volgare, la discussione si sposta su quale volgare debba essere utilizzato. Portavoce dell’autore è Carlo Bembo, che sostiene la necessità che la lingua letteraria si discosti da quella parlata, non segua l’uso e si ispiri invece ai grandi modelli del passato, alla lingua di Petrarca e Boccaccio (➜ D17 ). Sulla lingua di Dante invece sono espresse notevoli riserve per il suo carattere composito e perché accoglie elementi “bassi” e forme della lingua popolare. Nel secondo libro sono definite le prerogative che la lingua letteraria dovrebbe avere, quali ad esempio la piacevolezza e la gravità. Nel terzo libro è analiticamente definita, sotto il profilo delle strutture morfologiche, sintattiche e del lessico la lingua-modello, secondo esempi tratti appunto da Petrarca (per la poesia) e da Boccaccio (per la prosa). Questo libro si può quindi considerare una sorta di “grammatica” della lingua italiana. Una specificità tutta italiana: la frattura tra lingua scritta e lingua parlata L’affermarsi della tesi linguistica del Bembo provoca conseguenze che incideranno per secoli sulla storia della cultura e della lingua italiane. Il volgare che si afferma, esemplato su Petrarca e Boccaccio, corrisponde a un modello linguistico selettivo ed elitario. Si tratta della lingua della letteratura e delle occasioni formali, distinta dagli usi del parlato delle stesse élites intellettuali e ovviamente ancor più degli strati sociali medi e popolari. Nella lingua parlata, infatti, a
72 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
causa della frammentazione politica, non si attiva alcun processo di unificazione. Mentre in altri paesi europei la situazione politica favorisce il consolidarsi di una lingua comune anche per gli usi colti, la situazione italiana rimarrà caratterizzata fino al secondo Ottocento dall’esistenza di diversi dialetti, nei quali la gente comune continua a parlare e che gli stessi intellettuali usano nelle occasioni della vita quotidiana. Per scrivere, invece, nel Cinquecento si utilizza come si è detto una lingua scelta e in un certo senso “artificiale”, che lentamente va uniformandosi. Contro una online lingua forzatamente “fiorentina” e insieme lontana dalla realtà D16 Lorenzo Valla si scaglia uno dei polemisti del tempo, Pietro Aretino, la cui Il latino è la lingua della civiltà Elegantiae linguae latinae produzione si iscrive nell’ambito dell’anticlassicismo.
La questione della lingua nel Cinquecento Tesi cortigiana
Baldesar Castiglione
la lingua italiana deve essere quella parlata nelle corti e deve nascere dalla fusione di diversi volgari (nelle forme più elevate)
Tesi del fiorentino vivo
Niccolò Machiavelli
la lingua italiana deve essere il fiorentino, non quello del passato ma quello realmente parlato
Tesi del fiorentino letterario
Pietro Bembo
la lingua italiana deve essere quella dei modelli autorevoli: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa
Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. 2. 3. 4.
Quali sono le due fasi in cui si può dividere la storia della lingua in Italia tra ’400 e ’500? Perché gli umanisti scelgono di usare il latino per le loro opere? Quali sono e da chi sono sostenute le tre tesi linguistiche? Per quali ragioni la proposta di Bembo ha il sopravvento sulle altre?
Pietro Bembo
D17
Chi scrive deve imitare i grandi modelli Prose della volgar lingua I, 18 passim
P. Bembo, Prose della volgar lingua, a c. di C. Dionisotti, Utet, Torino 1960
Nel passo proposto Carlo Bembo, fratello e portavoce delle tesi dell’autore nel dialogo, teorizza apertamente la frattura tra la lingua del popolo e la lingua degli intellettuali, che deve distinguersi per eleganza e bellezza. Peraltro, secondo Bembo, lo scrittore deve rivolgersi più ai posteri che alla contemporaneità, perché dai posteri deriva la fama che un autore si acquista. E i posteri non guardano certo al labile giudizio della moltitudine ma ai grandi uomini, capaci di segnare un’epoca con la loro autorevole presenza. L’evoluzione della lingua 4 73
La lingua delle scritture, Giuliano1, non dee2 a quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non perde gravità, non perde grandezza; che altramente ella discostare se ne dee e dilungare, quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato3. Il che aviene per ciò, che appunto non debbono gli scrittori por cura4 di 5 piacere alle genti solamente, che sono in vita quando essi scrivono5, come voi dite, ma a quelle ancora, e per aventura molto più, che sono a vivere dopo loro6: con ciò sia cosa che7 ciascuno la eternità alle sue fatiche più ama, che un brieve tempo8. E perciò che non si può per noi9 compiutamente sapere quale abbia ad essere l’usanza delle favelle di quegli uomini, che nel secolo nasceranno che appresso il nostro 10 verrà, e molto meno di quegli altri, i quali appresso noi alquanti secoli nasceranno, è da vedere che alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia, che elle piacer possano in ciascuna età, e ad ogni secolo, ad ogni stagione esser care; sì come diedero nella latina lingua a’ loro componimenti Virgilio, Cicerone e degli altri, e nella greca Omero, Demostene e di molt’altri ai loro; i quali tutti, non mica secondo il 15 parlare, che era in uso e in bocca del volgo della loro età, scriveano, ma secondo che parea loro che bene lor mettesse a poter piacere più lungamente10. Credete voi che se il Petrarca avesse le sue canzoni con la favella composte de’ suoi popolani, che elle così vaghe11, così belle fossero come sono, così care, così gentili? Male credete, se ciò credete. Né il Boccaccio altresì con la bocca del popolo ragionò; quantunque 20 alle prose ella molto meno si disconvenga, che al verso12. [...] Non è la moltitudine, Giuliano, quella che alle composizioni d’alcun secolo dona grido13 e auttorità, ma sono pochissimi uomini di ciascun secolo, al giudicio de’ quali, perciò che sono essi più dotti degli altri riputati, dànno poi le genti e la moltitudine fede, che per sé sola giudicare non sa dirittamente, e a quella parte si piega con le sue voci, a 25 cui ella que’ pochi uomini, che io dico, sente piegare14. E i dotti non giudicano che alcuno bene scriva, perché egli alla moltitudine e al popolo possa piacere del secolo nel quale esso scrive; ma giudica a’ dotti di qualunque secolo tanto ciascuno dover piacere, quanto egli scrive bene15; ché del popolo non fanno caso. È adunque da scriver bene più che si può, perciò che le buone scritture, prima a’ dotti e poi al 30 popolo del loro secolo piacendo, piacciono altresì e a’ dotti e al popolo degli altri secoli parimente16. Ora mi potreste dire: cotesto tuo scriver bene onde si ritra’ egli, e da cui si cerca?17 Hass’egli sempre ad imprendere18 dagli scrittori antichi e passati? Non piaccia a Dio sempre, Giuliano, ma sì bene19 ogni volta che migliore e più lodato è il parlare20 nelle 35 scritture de’ passati uomini, che quello che è o in bocca o nelle scritture de’ vivi. 1 Giuliano: è Giuliano de’ Medici. 2 dee: deve. 3 che… stato: perché in caso contrario essa se ne deve discostare e allontanare quanto è necessario per mantenere una forma armoniosa ed elegante. 4 por cura: preoccuparsi. 5 alle genti… scrivono: ai contemporanei. 6 ma… loro: ma anche a quelli, molto più numerosi, destinati a vivere dopo di loro. 7 con ciò sia cosa che: poiché. 8 la eternità… tempo: preferisce per le sue opere l’eternità a un tempo breve. 9 perciò… per noi: poiché da parte nostra.
10 secondo… lungamente: come sembrava che tornasse utile loro per essere apprezzati più a lungo. 11 vaghe: attraenti. 12 quantunque… verso: sebbene il linguaggio popolare sia molto meno sconveniente nella prosa che nella poesia. 13 grido: fama. 14 per sé… piegare: (la moltitudine) da sola non sa giudicare correttamente e con le sue lodi si indirizza nella direzione in cui vede rivolgersi quei pochi uomini raffinati di cui parlo. 15 giudica… bene: giudica che ciascuno
74 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
debba piacere ai dotti di tutti i secoli futuri nella misura in cui scrive bene. 16 È… parimente: Si deve dunque scrivere il meglio possibile, perché gli scritti perfetti, mentre all’inizio piacciono dapprima ai dotti e poi al popolo del loro tempo, vengono poi ugualmente apprezzati dai dotti e dal popolo degli altri secoli. 17 onde… si cerca?: da dove lo si può trarre (ritra’), da chi lo si può imparare (da cui si cerca)? 18 Hass’egli… imprendere: Deve essere sempre imparato (lo scriver). 19 sì bene: in realtà. 20 il parlare: lo stile della scrittura.
Non dovea Cicerone o Virgilio, lasciando21 il parlare della loro età, ragionare22 con quello d’Ennio23 o di quegli altri, che furono più antichi ancora di lui, perciò che essi avrebbono oro purissimo, che delle preziose vene del loro fertile e fiorito secolo si traeva, col piombo della rozza età di coloro cangiato24; sì come diceste che non 40 doveano il Petrarca e il Boccaccio col parlare di Dante, e molto meno con quello di Guido Guinicelli25 e di Farinata26 e dei nati a quegli anni ragionare. Ma quante volte aviene che la maniera27 della lingua delle passate stagioni è migliore che quella della presente non è, tante volte si dee per noi con lo stile delle passate stagioni scrivere, Giuliano, e non con quello del nostro tempo. Perché molto meglio e più lodevolmente 45 avrebbono e prosato e verseggiato28, e Seneca e Tranquillo e Lucano e Claudiano e tutti quegli scrittori, che dopo ’l secolo di Giulio Cesare e d’Augusto e dopo quella monda e felice età stati sono infino a noi, se essi nella guisa di que’ loro antichi, di Virgilio dico e di Cicerone, scritto avessero, che non hanno fatto scrivendo nella loro29; e molto meglio faremo noi altresì, se con lo stile del Boccaccio e del Petrarca 50 ragioneremo nelle nostre carte, che non faremo a ragionare col nostro30, perciò che senza fallo alcuno31 molto meglio ragionarono essi che non ragioniamo noi. 21 lasciando: ignorando. 22 ragionare: scrivere, esprimersi. 23 Ennio: Quinto Ennio (239 a.C.-169 a.C.), poeta e scrittore, riconosciuto già dall’età repubblicana romana come il padre della poesia latina. 24 perciò che essi… cangiato: poiché essi avrebbero sostituito l’oro puro, che proveniva dalle ricche miniere della loro epoca ispirata e creativa, con il piombo utilizzato in un periodo più primitivo. L’autore paragona il latino dell’avanzata età classica
con quello più primitivo e basico degli anni più remoti. 25 Guido Guinicelli: Guido Guinizzelli (1235-1276), celebre poeta bolognese crea tore dello Stilnovo. 26 Farinata: Manente degli Uberti, detto Farinata (1212-1264), nobile fiorentino e capo ghibellino, ricordato anche da Dante Alighieri nel canto X dell’Inferno. 27 maniera: la situazione. 28 prosato e verseggiato: scritto prose e poesie.
29 e Seneca… loro: Seneca, Svetonio, Lucano e Claudiano e tutti gli scrittori vissuti dopo gli anni di Cesare e Augusto e dopo quel periodo così bello e felice e fino alla nostra era se avessero scritto come (nella guisa di) i loro lontani predecessori, parlo cioè di Virgilio e Cicerone, invece che con il proprio stile. Augusto muore nel 14 d.C. 30 e molto meglio… nostro: e faremo molto meglio anche noi a esprimerci, nei nostri lavori, con lo stile di Boccaccio e di Petrarca invece che con il nostro. 31 senza fallo alcuno: senza alcun dubbio.
Concetti chiave La tesi linguistica di Bembo e i modelli
Le tesi esposte nel brano coprono diversi argomenti. In primis, lo scrittore deve discostarsi dall’uso corrente per mirare a una lingua classica, che possa essere apprezzata anche dai posteri. Egli non deve considerare come destinatario delle opere letterarie il popolo, incapace di apprezzarne il valore, ma deve mirare prima di tutto all’apprezzamento dei dotti; il popolo si uniformerà alle valutazioni di tale ristretta cerchia di intenditori. Esistono scrittori che hanno saputo realizzare l’ideale di una lingua classica destinata a essere apprezzata nel tempo: per la poesia Omero, Virgilio e Petrarca; per la prosa, Demostene, Cicerone e Boccaccio. Quindi, di fronte alla domanda se lo scrivere bene implichi il riferimento a dei modelli, la risposta data è che l’imitazione di autori passati non va seguita come criterio assoluto, ma soltanto se essi hanno raggiunto la perfezione linguistica: è il caso di Petrarca e Boccaccio, esempi a cui uno scrittore deve guardare.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali sono i destinatari delle opere letterarie, secondo Bembo? 2. Quali sono le caratteristiche della lingua da lui auspicata? LESSICO 3. Riporta le espressioni che meglio evidenziano l’idea elitaria della letteratura di Bembo.
Interpretare
SCRITTURA 4. Quali furono le cause e le conseguenze dell’affermazione del modello bembiano?
L’evoluzione della lingua 4 75
Libri, lettori, lettura
La rivoluzione della stampa Un’invenzione che cambia la storia della cultura Verso la metà del Quattrocento viene inventata la stampa a caratteri mobili: un evento di capitale importanza non solo nella storia del libro ma nella più generale storia della cultura. Fondamentale alla sua realizzazione è lo sviluppo delle tecniche di fusione e incisione dei metalli; non a caso Johann Gutenberg, l’orefice di Magonza a cui è attribuita la scoperta, essendo figlio del capo della Zecca, conosce benissimo le tecniche di lavorazione dei metalli che servono per realizzare le monete. Nella diffusione su vasta scala della stampa fu poi determinante la diffusione della carta, il cui uso era stato introdotto dalla Cina in Europa attraverso gli Arabi già nel XII secolo: la carta è meno resistente della pergamena, ma è disponibile in quantità maggiori e a costi inferiori. Dalla Bibbia di Gutenberg al trionfo della stampa Il primo testo a stampa realizzato da Gutenberg è una Bibbia (nota come “Bibbia delle 42 linee”). La tecnica si diffonde rapidamente dalla Germania in tutta Europa. Dopo le prime resistenze, il libro manoscritto cede il passo al libro stampato prodotto da nuovi stampatori-tipografi. Questi ultimi anticipano la figura del moderno editore: infatti non si limitano a curare l’esecuzione tecnica del testo, ma scelgono i manoscritti da pubblicare, stabiliscono il numero di copie da stampare e curano il prodotto dall’inizio alla fine: infatti i libri spesso sono venduti nella bottega stessa dello stampatore, oltre che nei mercati e nelle fiere (tra cui spicca in Germania quella di Francoforte, tuttora sede di un’importante Fiera annuale del libro). L’irrompere della stampa sullo scenario della produzione libraria ha caratteri quasi epici: secondo gli studiosi già alla fine del XV secolo circolano in Europa qualcosa come 150-200 milioni di incunaboli . In Italia a lungo il centro principale dell’editoria è Venezia, dove opera Aldo Manuzio, una geniale figura di umanista-stampatore.
Parola chiave
MAPPA INTERATTIVA. LA DIFFUSIONE DELLA STAMPA
incunaboli Con incunaboli s’intendono i primi prodotti della stampa, i primi testi stampati (dall’invenzione del procedimento, a metà del Quattrocento, all’anno 1500 incluso), che hanno quindi il valore di preziose testimonianze dei primi passi di una nuova era. La parola deriva dal latino incunabula, che letteralmente significa “fasce dei neonati” (da cuna, “culla”): è implicita l’allusione alla nascita, alle origini.
Doppia pagina della Bibbia di Gutenberg, conosciuta anche come “Bibbia delle 42 linee” (1453).
76 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali
Effetti della stampa a breve e lungo termine La nuova invenzione produce clamorosi effetti non solo nel campo della produzione libraria ma più in generale nel costume culturale e nella stessa mentalità. Nell’immediato la diffusione della stampa contribuisce in modo determinante all’affermazione della filologia umanistica: una volta stabilito quale sia il testo più corretto di un’opera sotto il profilo filologico, gli studiosi di tutta Europa possono infatti far riferimento – grazie, appunto, alla stampa – a un testo fissato, diffuso in migliaia di copie uguali. Ma ancora più importanti, veramente rivoluzionari, sono gli effetti della straordinaria invenzione nel tempo (➜ D18 OL).
Effetti nel tempo dell’invenzione della stampa Incremento dell’alfabetizzazione Acculturazione
• aumento del numero di coloro che possono acquistare libri di lettura e/o di studio (un tempo i codici manoscritti erano una merce rara e preziosa, destinata a pochissimi)
Le fasi della stampa in una xilografia del Cinquecento: si notano gli addetti al torchio in primo piano e sullo sfondo i compositori impostano le pagine con i caratteri mobili.
Evoluzione dei metodi di insegnamento
Influenza sui processi cognitivi
• possesso dei testi da parte degli studenti • possibilità di leggerli direttamente
• diffusione dell’abitudine alla lettura individuale e silenziosa
gli studenti sono svicolati dall’indiscussa autorità del maestro
Bernardino Loschi, Aldo Manuzio in un affresco al Castello dei Pio, Modena.
miglioramento dei processi logici di astrazione
Una pagina degli Analitici secondi di Aristotele stampati da Aldo Manuzio, 1495-1498 (Libreria Antiquaria Pregliasco, Torino).
Libri, lettori, lettura 4 77
Libri, lettori, lettura
Un uso spregiudicato della stampa: Pietro Aretino Solo pochissimi autori riescono veramente a intuire e sfruttare le potenzialità economiche offerte dall’industria editoriale: soprattutto a Venezia, al mondo della nascente editoria si legano figure di intellettuali poligrafi estrosi e spregiudicati che, per sopravvivere e magari per arricchirsi, si prestano a produrre antologie, opere divulgative, testi audacemente erotici o a adattare repertori di lettere al mercato editoriale. Sono letterati antiaccademici. Tra questi spicca Pietro Aretino (Arezzo 1492 – Venezia 1556), scrittore di talento e dotato, oggi si direbbe, di “fiuto commerciale”, che in un certo momento della sua vita si trova a operare appunto in quella Venezia che era il centro principale dell’editoria in Italia. A partire dagli anni Trenta del XVI secolo, Aretino sfrutta in modo spregiudicato, da vero «avventuriero della penna», come sarà soprannominato, le possibilità offerte dalla nuova diffusione del libro, offrendo al mercato – con indifferente opportunismo – testi scandalosi e testi religiosi, cimentandosi in vari generi letterari, dalla commedia alla tragedia, alle rime (spesso licenziose, come i Sonetti lussuriosi), ai dialoghi. Le lettere di Aretino: un documento di spregiudicata strategia editoriale Ma l’ambito che più gli frutta e che gli vale l’appellativo, ricordato anche da Ariosto nel Furioso, di «flagello dei principi» sono le lettere (il primo dei suoi libri di Lettere, destinati a notevole fortuna editoriale, appare nel 1538).
Dove e come leggono gli umanisti Lo studiolo dell’umanista Lo spazio elettivo della lettura per l’intellettuale nel Quattrocento è lo studiolo, isolato dal resto della casa, nel quale l’umanista si dedica a una lettura individuale e silenziosa degli amati classici. Tra i libri che sono presenti nei dipinti di Antonello da Messina o del Carpaccio o nelle xilografie del Quattro-Cinquecento figurano solo libri latini importanti, che corrispondono a una concezione elevata della letteratura. online Leggere per studiare e per scrivere L’umanista concepisce la lettura come mezzo di studio e di elevazione, non di svago. La lettura e lo studio sono spesso prolungati nelle ore notturne. Il bisogno di leggere il maggior numero possibile di libri contemporaneamente porta alla creazione di leggii a forma circolare. Molto spesso gli umanisti scrivono nei margini del testo, riempiendoli di informazioni e note personali, anche di tipo filologico (➜ D19b OL).
D18 Tommaso Garzoni La stampa produce conoscenza per tutti La piazza universale di tutte le professioni del mondo
Letture piacevoli, libri tascabili Tuttavia non manca anche la lettura per piacere ed evasione, consentita dalla pluralità delle forme assunte dal libro soprattutto nell’età della stampa (e in particolare dal libro tascabile, ideato da Manuzio) (➜ D19c OL). Ce lo testimonia indirettamente anche un passo dalla celeberrima lettera di Machiavelli (costretto all’“esilio” di San Casciano) al Vettori, che può essere considerata una testimonianza eloquente delle diverse occasioni e modalità di lettura proprie degli uomini colti nell’età umanistico-rinascimentale (➜ D19a OL).
78 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Donne che leggono Dopo l’avvento della stampa il mondo produttivo dei tipografi individua nel pubblico femminile un settore dai potenziali sviluppi. Mentre nell’età medievale la lettura è per le donne soprattutto uno dei momenti collettivi che scandivano i ritmi e i rituali della vita familiare – lettura “con gli altri e per gli altri” (le figlie, la famiglia) – la stampa favorirà invece la pratica della lettura silenziosa e personale, svolta in luoghi appartati. Questa modalità di lettura è ovviamente propria delle donne di buona cultura, che condividono con gli umanisti il culto della cultura classica. Ai vertici di questa tipologia ci sono le principesse e le aristocratiche che, all’interno delle corti, esercitano un ruolo spesso di primo piano, come Isabella d’Este, prototipo della nuova gentildonna colonline ta, che ama ritirarsi a leggere e scrivere nel suo Testi in dialogo studiolo personale. Leggere nell’età umanistico-rinascimentale Interessanti per documentare l’evoluzione D19a Niccolò Machiavelli del rapporto tra le donne e il libro sono le La “doppia lettura” di Machiavelli Lettera a Francesco Vettori rappresentazioni di donne che leggono, parD19b Guarino Veronese ticolarmente diffuse nell’età rinascimentale. Leggere prendendo appunti: i suggerimenti Nel Cinquecento le figure femminili sono ridi un grande educatore Epistolario tratte non con libri di scienza e di studio, ma D19c Michel de Montaigne esclusivamente con libri che rimandano a una Montaigne e i libri lettura intima, per sé: libri religiosi ma anche il Saggi, II, x Canzoniere di Petrarca in piccolo formato.
Vittore Carpaccio, Madonna che legge un libro, 1505 (National Gallery of Art, Washington).
Piero di Cosimo, Ritratto di donna in veste di Maddalena, 1490-1495 (Galleria Nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini, Roma).
Libri, lettori, lettura 4 79
Arte nel tempo
A Firenze, nei primi anni del Quattrocento, Brunelleschi in architettura, DonaIl Quattrocento tello in scultura e Masaccio in pittura elaborano un linguaggio artistico distante
La concezione di uno spazio matematico e l’artista di corte
dal decorativismo tardo gotico diffuso in quegli anni nelle corti di tutta Europa. L’essenzialità, le composizioni razionali, la ricerca di una resa espressiva e realistica della figura umana, lo studio dei canoni del mondo romano accomunano le loro opere. Questo recupero dell’antico era già stato avviato nel Medioevo, come dimostrano l’interesse verso la pittura naturalistica di Giotto e la ripresa costante degli elementi dell’architettura greco-romana. La prospettiva centrale a punto di fuga unico, “scoperta”, secondo la tradizione, da Brunelleschi e teorizzata nel De Pictura (1435) di Leon Battista Alberti,
1 Trinità di Masaccio Masaccio (1401-1428) realizza tra il 1427 e il 1428 per la chiesa fiorentina di Santa Maria Novella un affresco in cui appare una struttura architettonica rappresentata con una tale esattezza prospettica da far sembrare lo spazio dipinto prolungamento dello spazio reale. Trinità, ultima opera dell'artista, alta quasi 7 metri, è una delle fondamentali prime applicazioni della prospettiva centrale. L’opera rappresenta la Trinità cristiana secondo l’impostazione iconografica che voleva Dio Padre reggere Cristo in croce e lo Spirito Santo sotto forma di colomba. Masaccio però inserisce i dolenti Maria e san Giovanni, reinterpretando l’iconografia trinitaria come una crocifissione, e colloca i personaggi sacri all’interno di uno spazio architettonico di memoria classica, un’assoluta novità. Questa monumentale struttura architettonica è costituita da una volta a botte cassettonata introdotta da un arco a tutto sesto che poggia su due colonne ioniche, il tutto incorniciato da una trabeazione sostenuta da paraste corinzie. Ai lati, due personaggi inginocchiati, i committenti, non condividono lo stesso spazio della crocifissione e si collocano al di fuori di esso, nella dimensione finita e mortale dell’uomo, simboleggiata dal sarcofago alla base della composizione: «Io fu’ già quel che voi sete e quel ch’i’ son voi anco sarete» recita infatti il memento mori al di sopra dello scheletro sdraiato. In questo affresco l’architettura traccia i confini dello spazio in cui avviene l’apparizione sacra, uno spazio reso verosimile grazie alla costruzione prospettica. Vasari scriverà: «vi è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni che diminuiscono e scortano così bene che pare che sia bucato quel muro».
Masaccio, Trinità, affresco, 1425-1428 (Firenze, Basilica di Santa Maria Novella).
80 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
diventa uno degli strumenti fondamentali per la rappresentazione verosimile dello spazio su basi matematiche e razionali. La prospettiva centrale permette infatti di creare tridimensionalità su un piano bidimensionale; diventa il codice di rappresentazione che forma simbolicamente, per dirla con Erwin Panofsky, la visione dell’Umanesimo dando assoluta centralità al punto di vista umano. Lo stile che si codifica a Firenze si diffonde poi in tutta Italia anche grazie alle committenze che i diversi signori delle corti italiane affidano agli artisti, i quali, viaggiando e spostandosi da una città all’altra, hanno modo di vedere le opere di altri e di sperimentare linguaggi e tecniche.
In questo spazio i corpi sono in proporzione tra di loro, collocati con coerenza. Mentre in molte delle opere medievali l’oro faceva da sfondo a scene in cui il personaggio più importante era più grande degli altri, qui la necessità di rappresentare personaggi razionalmente credibili porta Masaccio a raffigurare il divino in proporzioni umane (Dio è solo leggermente sovradimensionato). La gerarchia è definita dal livello che occupano all’interno della composizione piramidale, che vede Dio al vertice. Ma lo spazio è umano e misurabile, concepito dall’uomo per una divinità che dell’uomo assume la sembianza.
A
B
A Impianto della prospettiva centrale. B Nella sezione si distinguono: in
primo piano un sepolcro, quindi la coppia dei committenti, la Vergine e san Giovanni, il Crocifisso e Dio Padre.
2 L’artista di corte:
la Pala di Brera di Piero della Francesca
Una concezione dello spazio simile a quella espressa da Masaccio caratterizza la pala d’altare che Piero della Francesca (1412-1492) termina nel 1474 per la chiesa di San Bernardino a Urbino e oggi conservata alla Pinacoteca di Brera. Nel dipinto un’ampia abside chiusa da un catino a conchiglia evoca la struttura di una chiesa in cui la Madonna in trono è circondata da santi. Dalla conchiglia pende un uovo di struzzo a far percepire la spazialità prospettica e l’esattezza matematica della composizione, accentuate dal netto taglio di luce e dagli statici volumi dei corpi. Come nella Trinità, i personaggi sacri sono presenze realistiche che occupano uno spazio architettonico concreto. L’uomo in armatura inginocchiato è Federico da Montefeltro, duca di Urbino e committente dell’opera: presso di lui Piero della Francesca risiedette come artista ufficiale di corte. Piero della Francesca, Pala di Brera (Pala di Montefeltro), tempera e olio su tavola, 1472-1474 (Pinacoteca di Brera, Milano).
Arte nel tempo
81
Arte nel tempo
di corte: 3 L’artista la Camera Picta di Andrea Mantegna Pittore di corte fu anche Andrea Mantegna (14311506) a Mantova, alla corte di Ludovico II Gonzaga, per il quale tra il 1465 e il 1474 realizzò il ciclo di affreschi che decorano la camera di rappresentanza nel castello di San Giorgio, detta Camera picta.
Gli affreschi occupano le quattro pareti e il soffitto della stanza con scene di vita di corte tese a celebrare il committente. Queste scene vengono collocate nello spazio da Mantegna come se la stanza fosse un loggiato aperto: il pittore dipinge sulle pareti un finto tendaggio che si apre illusionisticamente sul paesaggio e immagina sulla volta l’apertura sul cielo di un oculo,
82 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
realizzato in perfetta prospettiva centrale, dal quale si affacciano una serie di personaggi che interagiscono con chi li osserva dal basso. Questa soluzione dilata illusionisticamente lo spazio e crea unità spaziale e coerenza tra i diversi episodi che occupano le pareti, raccordate dalla presenza del tendaggio, che come un sipario incornicia le scene.
Mentre sulle pareti est e sud troviamo una più semplice decorazione a tendaggio chiuso, sulle pareti nord e ovest troviamo la rappresentazione della corte dei Gonzaga e l’incontro, ambientato in un paesaggio collinare denso di riferimenti alla classicità e all’architettura antica, tra Ludovico e il figlio Francesco appena eletto cardinale. In entrambe le scene i personaggi si muovono su una zoccolatura in finto marmo, elemento architettonico che insieme al tendaggio unifica lo spazio scenografico della pittura. I volti sono ritratti in modo fedele, con un segno netto che rende monumentali e distanti le figure. Nel ciclo Ludovico II Gonzaga appare due volte: una prima volta seduto di tre quarti e leggermente più grande degli altri personaggi per sottolinearne l’importanza; una seconda, invece, di profilo, secondo i codici del ritratto di corte tardo gotico che deriva dalla numismatica antica. Il paesaggio che fa da sfondo alla scena dell’incontro è un paesaggio storico denso di riferimenti alla classicità e mostra come la cultura rinascimentale si percepisca erede diretta dell’antichità classica. La solennità della vita di corte viene smorzata da alcune scelte: l’informalità della rappresentazione della famiglia, alcuni gesti dei dignitari che spuntano dal tendaggio, i numerosi animali che abitano gli episodi, alcuni dettagli aneddotici, come lo sguardo enigmatico e dritto verso lo spettatore della donna conosciuta come “la nana”, i putti che reggono il medaglione dedicatorio. E, soprattutto, le divertite espressioni dei personaggi che si affacciano dall’alto, i puttini che si arrampicano sulla finta struttura a cassettoni dell’oculo, il cesto di arance che in bilico sulla finta asta di ferro sembra essere lì a suggerire con spietata ironia la precarietà delle cose e la facilità della vista a essere ingannata.
Arte nel tempo
83
Arte nel tempo
Il primo Cinquecento
Corpi, movimento e spazio
Se la pittura del Quattrocento è interessata a definire il rapporto tra figura e spazio, quella del primo Cinquecento si concentra sulla resa anatomica del corpo, sul movimento, sulla resa espressiva. L’applicazione rigida della prospettiva centrale lascia spazio a una diversificazione delle tecniche attraverso le quali ricreare la profondità spaziale: lo spazio del Cinquecento è lo spazio dove trionfa l’azione e l’interazione naturalistica delle figure.
4 Il naturalismo di Leonardo
Sant’Anna, la Vergine, il Bambino e l’Agnello è un dipinto di Leonardo da Vinci (1452-1519) oggi conservato su una delle pareti della Grande Galerie del Louvre di Parigi. In questo olio su tavola sono presenti le principali caratteristiche della pittura di Leonardo, la cui opera si allontana dai canoni pittorici quattrocenteschi. All’interno di un paesaggio naturale arso e montagnoso che sembra sgretolarsi sotto i piedi delle sante, Maria siede sulle gambe della madre sant’Anna, evocando il tradizionale trono gotico delle Maestà, e tende le braccia verso Cristo bambino che sta giocando con un agnello. In questa Sacra Famiglia tre generazioni si saldano l’una all’altra in un intreccio di gesti, sguardi ed espressioni. La naturalezza con cui le figure interagiscono nasconde lo studio e l’estrema progettazione necessari per creare una scena di tale armonia. La composizione piramidale dona unità ai personaggi mentre la costruzione dei movimenti lungo direzioni opposte conferisce una equilibrata e bilanciata variazione alle pose. La naturalezza dei gesti e delle espressioni sono poi in armonia col paesaggio: attraverso la tecnica dello sfumato infatti Leonardo non separa nettamente le forme con contorni netti, ma ne sfuma i confini, alludendo alla continuità tra le cose della natura. Leonardo parte dall’osservazione e dallo studio della realtà, considerando la pittura come processo conoscitivo che metta in relazione la vitalità umana e quella della terra. Questo approccio scientifico emerge
Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Vergine, il Bambino e Agnello, olio su tavola, 1510-1513 ca. (Museo del Louvre, Parigi). dalla volontà di imitare il modo in cui l’occhio vede attraverso la prospettiva aerea. Invece di applicare la stessa definizione geometrica a tutti i dettagli del dipinto come nella prospettiva centrale, Leonardo sfoca i contorni delle
84 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
cose a mano a mano che si allontanano dall’occhio e vira il colore verso le tonalità fredde per restituire la presenza dell’aria (che incide sulla nitidezza della visione). Lo stesso approccio guida Leonardo nella rappresentazione
dell’umano, i cui moti d’animo sono oggetto di indagine da parte del pittore-scienziato interessato alla resa psicologica dei personaggi e delle loro emozioni, rese
con estrema naturalezza grazie allo sfumato che priva lineamenti ed espressioni di qualsiasi rigidità. Come altri artisti rinascimentali Leonardo insegue quell’ideale di
armonia tra uomo e natura di cui la pittura deve essere traduzione, non partendo dai testi antichi ma dal manifestarsi delle cose del mondo.
5 La pittura scenografica di Tiziano
Ritroviamo la centralità del corpo anche nell’opera del veneto Tiziano Vecellio (1490-1576), il quale si discosta dalle gestualità equilibrate di Leonardo per andare verso una rappresentazione teatrale e coinvolgente. Nella pala d’altare che Tiziano termina nel 1518 per la Basilica dei Frari, il racconto dell’Assunzione in cielo della Vergine diventa il pretesto per rappresentare una scena spettacolare e dinamica. Il miracolo si svolge davanti agli sguardi degli apostoli che osservano dal basso la Madonna rafforzando le espressioni colme di meraviglia con gesti contrapposti e concitati; la Madonna, sospesa su una nuvola in un tripudio di luce e di angeli, tende verso Dio con un dinamismo accentuato dal tessuto che ne amplifica i movimenti; Dio appare sospeso, spalanca le braccia mentre osserva Maria venirgli incontro. La composizione è strutturata su tre registri che muovono dalla dimensione terrena e gerarchicamente salgono verso quella divina, ma senza alcuna rigidità didascalica poiché i personaggi entrano in relazione, occupano lo stesso spazio e lo stesso tempo. La luce irradia da Dio e illumina il cielo alle spalle della Madonna. Il moto circolare disegnato dagli angeli e dalle nuvole interseca l’angolo della composizione piramidale il cui vertice è la Madonna e che prende forma grazie all’uso del colore rosso delle vesti sue e di due apostoli, dimostrando come il colore in Tiziano non solo dà corpo al dipinto ma acquisisce una funzione strutturale e compositiva. Con l’Assunta di Tiziano assistiamo al
Tiziano Vecellio, Assunta, olio su tavola, 1516-1518 (Venezia, Basilica dei Frari). superamento della visione geometrica del Quattrocento: l’opera non è più uno spazio matematico, ma un caotico accadere che
suscita emozione attraverso la corporeità dei gesti, il dinamismo dei movimenti, la teatralità della rappresentazione.
Arte nel tempo
85
Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali. Umanesimo e Rinascimento
Sintesi con audiolettura
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
Umanesimo/Rinascimento Il periodo che va dalla fine del Trecento fino al Concilio di Trento è designato con l’espressione “età umanistico-rinascimentale”, formata dall’unione dei nomi di due importanti categorie culturali. “Umanesimo” indica una tendenza che emerge con Petrarca ed è fondata sulla riscoperta del mondo antico e sulla rinnovata centralità delle humanae litterae; “Rinascimento” denota il rinnovamento radicale dei primi decenni del XVI secolo, concretizzatosi in una splendida stagione artistica e letteraria, profondamente innovativa a confronto con l’età medievale. L’Umanesimo: la centralità dell’uomo e la rivalutazione della dimensione terrena La cultura umanistico-rinascimentale non è più teocentrica, ma antropocentrica: non irreligiosa ma focalizzata sull’uomo e non più su Dio, in un’esaltazione della dimensione terrena. Si valorizzano le qualità morali e intellettuali dell’uomo, ma si celebra anche, in polemica con l’ascetismo medievale, la bellezza della natura e del corpo. Per influsso epicureo si esalta il piacere, prerogativa a godere delle cose belle della vita, compresa la sessualità (anche se il neoplatonismo tende a riaffermare una visione spirituale dell’amore). Persino l’arricchimento non è più condannato, perché frutto di intraprendenza: essa è considerata foriera di vantaggi per la famiglia e la società, nobilitata attraverso le grandi opere dell’ingegno. La storia è vista non più come prodotto di un disegno divino, ma come opera della virtù dell’uomo: il termine “virtù” allude non a una qualità morale, ma alla capacità di fronteggiare gli eventi e di piegarli a proprio favore. Fino alla metà del Quattrocento e soprattutto a Firenze, gli umanisti cercano di trasmettere i nuovi valori anche al resto della società impegnandosi in ruoli istituzionali. Il mito della rinascita. La riscoperta dei classici La civiltà umanistica ha il suo fondamento nel mito della “rinascita”, che ne teorizza l’appartenenza a una nuova “età dell’oro” dopo secoli di decadenza, in continuità valoriale e culturale non con il Medioevo ma con l’età classica.
86 QUattRoCento e CinQUeCento Scenari socio-culturali
Il mito è alimentato dalla riscoperta di numerosi testi antichi che si credevano perduti. Nelle biblioteche dei monasteri, gli umanisti rinvengono manoscritti con opere classiche di argomento letterario, filosofico, scientifico e artistico, destinate a influire grandemente sulla nuova produzione culturale. La fondazione del metodo filologico Un’importante eredità dell’Umanesimo è la filologia, disciplina finalizzata a ricostruire e a interpretare documenti letterari antichi attraverso l’analisi critica dei dati linguistici; il metodo che ne deriva, profondamente antidogmatico, può essere applicato anche alla risoluzione di problemi inerenti a testi di altro tipo (giuridico, teologico o storico). L’adozione del metodo filologico implica l’opposizione al principio di autorità e contribuisce all’affermarsi, in ogni campo del sapere, di un metodo scientifico, seppur in senso lato. La concezione del tempo e dello spazio In questo periodo cambia la concezione del tempo che, laicizzandosi, non viene più pensato come simbolo di umana precarietà nelle mani divine, ma strumento a disposizione dell’uomo per esprimere appieno le proprie potenzialità: obiettivo, questo, a cui tendere sia svolgendo i propri doveri sia dedicando il tempo libero agli studi. Anche l’immaginario relativo allo spazio subisce rivolgimenti: viene “inventata” la prospettiva, che fonda l’osservazione dello spazio su regole geometriche e matematiche, adottando il punto di vista umano. Cambia il volto degli spazi urbani, rivoluzionati da trasformazioni ispirate a leggi razionali e rispondenti agli ideali del tempo: misura, equilibrio, eleganza. Le scoperte geografiche dilatano i confini del mondo conosciuto e portano gli europei a incontrare genti “diverse”, che mettono in crisi secolari certezze. Ma anche lo spazio del cosmo si trasforma: Copernico formula la teoria eliocentrica che, duramente contestata dalle autorità ecclesiastiche, avrebbe presto scardinato l’universo tolemaico geocentrico. I valori e i modelli di comportamento Su suggestione classica, l’Umanesimo fa propri valori (quali l’amore per la cultura e i libri, la frequentazione di persone istruite e la ricerca della saggezza) che definiscono l’ideale dell’humanitas. Chi li condivide crea un sodalizio intellettuale che non può che sfociare nell’amicizia. Per rinsaldare questo rapporto, gli intellettuali scrivono lettere – spesso diffuse da destinatario e amici – nelle quali si producono in riflessioni sotto forma di forbiti esercizi di eloquenza, secondo il modello ciceroniano. Chi non risponde a tale modello, assai elitario, è parte del volgo, cioè della massa di individui non dotti. Oltre ai rapporti amicali, anche quelli famigliari, considerati come nucleo essenziale della società, vengono celebrati. Dedica loro un trattato Leon Battista Alberti (Libri della famiglia, 1434-1441) che, attraverso lo strumento del dialogo, illustra in modo laico e pragmatico gli aspetti che l’uomo virtuoso e capace deve curare per il bene dei propri cari, contro l’azione iniqua della sorte. Nel Cinquecento, poi, abbondano anche i trattati di buon comportamento, inteso non in senso morale ma prettamente sociale. Si riafferma infatti l’ideale cavalleresco, impersonato dal gentiluomo, ma declinato nella corte invece che all’avventura: è in questo ambiente che l’individuo altolocato può
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
87
affermare le proprie qualità come descritto, ad esempio, nel celeberrimo Cortegiano di Baldesar Castiglione. Luoghi, centri e figure della produzione culturale Tra XV e XVI secolo la produzione culturale è policentrica ed elitaria poiché localizzata nelle corti, dove convergono le personalità di spicco. Gli umanisti vi si incontrano per dibattere, come fanno peraltro anche in case private o botteghe di libri: qui il sapere è concepito come ricerca razionale e discussione. Queste riunioni, denominate cenacoli o accademie, divengono un fenomeno chiave del tempo e nel corso del Cinquecento si moltiplicano, specializzano e istituzionalizzano. Parallelamente e con le medesime finalità si diffondono le biblioteche. Già dal Quattrocento, però, l’intellettuale non è più politico: si trasforma in cortigiano, colto professionista al servizio dei mecenati, siano essi i signori o la Chiesa. In cambio di sostegno economico, il potente chiede – e spesso influenza – la produzione di opere che gli garantiscano lustro e consenso, ma anche lo svolgimento di difficili compiti amministrativi o diplomatici. Un’alternativa gettonata è rappresentata appunto dalla carriera ecclesiastica come chierico: una condizione che impone pochi obblighi, spesso solo formali, e garantisce prestigio sociale, benefici economici e possibilità di promozioni gerarchiche. Contemporaneamente guadagna importanza la figura dell’artista, non più semplice artigiano ma vero intellettuale; gli esponenti più rilevanti della categoria dal Duecento al Cinquecento sono raccontati nella famosa opera di Giorgio Vasari, le Vite, primo e fondamentale consuntivo critico sull’arte italiana.
2 Modelli del sapere
Insegnare il “mestiere di uomo”: la pedagogia umanistica Nell’Umanesimo viene data molta importanza all’educazione: si scrivono trattati e si fondano scuole rette da pedagogisti guidati da una visione in anticipo sui tempi (come Guarino Veronese), con l’obiettivo di formare individui completi, dotati di equilibrio e razionalità. La cultura enciclopedica del Medioevo cede il passo, poi, agli studia humanitatis (la retorica, la poesia, la storia, la filosofia morale); questo modello, tuttavia, trascura eccessivamente il sapere scientifico e rischia di formare personalità che privilegino la forma ai contenuti. Un nuovo modello conoscitivo e un nuovo concetto di cultura Nell’età umanisticorinascimentale si afferma un’idea antidogmatica della conoscenza: il sapere si fonda sulla discussione e sul dialogo, in contrapposizione all’ossequio del principio di autorità imposto nelle università medievali. Si esaltano, dunque, la retorica e la dialettica. La curiosità intellettuale, inoltre, abbatte il confine tra arti liberali e arti meccaniche, esaltando gli eruditi eclettici. Nel sapere filosofico la decadenza dell’interesse verso la metafisica comporta un riassetto delle gerarchie: alla teologia e alla logica subentrano etica e politica, saperi prettamente antropocentrici. Il prototipo del “nuovo” filosofo è Marsilio Ficino: intellettuale versatile, aperto all’interesse per la magia, che si circonda come Socrate di pochi, devoti discepoli, con i quali dialoga costantemente. Il “ritorno a Platone” e il movimento neoplatonico fiorentino Tendenza dominante nel primo Rinascimento, in particolare a Firenze, è il ritorno a Platone, dopo secoli di egemonia
88 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
del pensiero di Aristotele. Il neoplatonismo, che cerca di conciliare la filosofia platonica con il cristianesimo, influenza l’arte, la letteratura, il dibattito intellettuale: particolarmente importante è la spiritualizzazione dell’amore. Proprio Ficino ne è il principale promotore: dal suo circolo intellettuale, ricco di personalità eccellenti, divulga gli insegnamenti del filosofo greco, tradotto personalmente in latino, ma anche gli scritti esoterici che gli si credevano collegati, trasformandoli in una moda negli ambienti altolocati. Un modo diverso di guardare alla natura Anche il modo di guardare alla natura cambia rispetto al Medioevo, che in essa cercava esclusivamente le tracce del divino: emerge, infatti, il desiderio di comprenderla in sé e dominarla. Ciò, in connessione con la valorizzazione della matematica, che consegue alla traduzione e allo studio filologico delle opere di Archimede, pone le basi per la nascita della scienza moderna. La figura più rilevante in questo campo è Leonardo da Vinci (1452-1519), ritenuto il precursore del metodo sperimentale: genio in campo artistico, scientifico e tecnico, egli polemizza contro i sistemi astratti di pensiero e rifiuta le credenze di alchimisti e maghi, ritenendo invece imprescindibile il riferimento all’esperienza e la matematica per la comprensione delle leggi naturali.
e forme della letteratura nel Quattrocento e nel primo 3 Caratteri Cinquecento Forme e generi della letteratura nel Quattrocento e nel primo Cinquecento Nell’età umanistico-rinascimentale la produzione letteraria viene declinata nei modi più vari. Emerge il trattato, utilizzato per diffondere i temi del dibattito ideologico in forma dialogica; si afferma il teatro, la cui rappresentazione ha luogo nella corte e i cui autori si dividono tra imitatori del modello antico e anticlassicisti; si diffondono le opere di genere idillicopastorale, vicende dal gusto classico ambientate in un mondo campestre fuori dal tempo; si sviluppa il genere cavalleresco, che fonde epica carolingia e bretone per creare veri e propri capolavori; nella poesia domina il principio di imitazione, che vede come protagonista assoluto Petrarca; ritorna in auge la novella; infine si producono anche biografie, conseguenze tangibili dell’esaltazione culturale della virtù individuale.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
89
4 L’evoluzione della lingua
Dalla ripresa umanistica dell’uso del latino al trionfo del volgare La storia della lingua letteraria in quest’epoca si divide in due fasi: nella prima (fino al 1480 circa) domina l’uso del latino; nella seconda (dal 1480 alla metà del Cinquecento) si afferma il volgare. Inizialmente, gli umanisti ritengono il latino classico, ricostruito filologicamente, un mezzo per ricreare una società ispirata ai valori antichi. Ma si tratta di una lingua morta: già nello stesso Quattrocento, infatti, come lingua della cultura si ripropone il volgare, che conquista la scena entro la fine del secolo. La “questione della lingua” nel Cinquecento Nella prima metà del Cinquecento, anche per influsso dell’invenzione della stampa, si apre un dibattito, noto come “questione della lingua”, che si interroga su quale idioma comune e normalizzato usare per la comunicazione scritta. Si fronteggiano tre tesi, che propugnano rispettivamente il volgare parlato nelle corti, quello parlato a Firenze o in Toscana oppure quello degli autori trecenteschi. Prevale la terza, più pratica, conveniente e rispondente ai gusti del tempo; il suo principale sostenitore è il veneziano Pietro Bembo, autore del trattato Prose della volgar lingua (1525), nel quale esamina dialogicamente la problematica e traccia una sorta di grammatica della lingua-modello. La scelta provoca conseguenze di lunga durata sulla storia culturale e linguistica: anche se si impone lentamente nello scritto, il volgare scelto è formale, elitario e “artificiale”, quindi estremamente lontano dal parlato, ambito che infatti non conosce unificazione neanche tra i più colti e rimane dominato dai dialetti locali.
Zona Competenze Competenza digitale
1. Illustra sinteticamente, attraverso un PowerPoint, il nuovo modello culturale e educativo promosso dall’Umanesimo, sottolineandone le differenze rispetto a quello medievale (max 3 min).
Scrittura argomentativa
2. Alla luce del nuovo contesto storico-culturale, in un testo argomentativo di circa tre colonne di foglio protocollo, delinea il cambiamento della figura e del ruolo dell’intellettuale nell’età umanistica e nel Rinascimento rispetto al Medioevo.
Esposizione orale
3. Presenta in un intervento orale (max 5 minuti) il nuovo interesse e il nuovo approccio di intellettuali, artisti e poeti verso la natura, portando alcuni esempi particolarmente significativi tra quelli conosciuti.
Competenza digitale
4. L’invenzione della stampa: una rivoluzione nella cultura e nel costume. Realizza uno schema attraverso il computer in cui inserire le principali novità generate dall’introduzione e dalla diffusione del libro a stampa nell’attività e nel consumo culturale.
Sintesi
5. In una tabella metti a confronto le diverse posizioni emerse nel dibattito cinquecentesco sulla lingua, evidenziando protagonisti, tesi, ragioni del successo o dell’insuccesso.
90 Quattrocento e Cinquecento Scenari socio-culturali
Quattrocento e cinquecento CAPITOLO
1 Classicismo e anticlassicismo
Nel Rinascimento la letteratura si fonda sull’imitazione dei classici. Ne deriva: la ricerca dell’armonia e della perfezione dello stile, una rappresentazione spesso idealizzante della realtà come nelle Stanze per la giostra dell’umanista Angelo Poliziano, la ripresa di temi e motivi classici come il mito idillico dell’Arcadia riproposto da Jacopo Sannazaro, il ripristino di generi antichi come la commedia e soprattutto il trattato dialogico. I trattati rinascimentali ospitano i principali temi del dibattito culturale: dall’amore platonico (Gli Asolani di Pietro Bembo) ai modelli di comportamento del cortigiano (il Cortegiano di Baldesar Castiglione e il Galateo di Giovanni Della Casa). Ma nella letteratura rinascimentale c’è anche una linea anticlassicistica, alternativa al modello, anche linguistico, dominante: dalla Vita di Cellini alle varie opere dissacranti di Aretino, che contesta la dittatura del fiorentino illustre, alla poesia di Berni, al poema eroicomico Baldus di Folengo.
classicistica 1 Ladellavisione letteratura produzione 2 Laanticlassicista
9191
1
La visione classicistica della letteratura 1 I principi chiave del classicismo
Lessico topoi Termine greco (singolare: topos) che indica un tema ricorrente all’interno delle opere di uno o più autori o di un’intera epoca.
Il classicismo del primo Cinquecento Gli umanisti non elaborano una propria concezione della letteratura, perché considerano perfetti i modelli dell’antichità classica e dunque derivano da essi i princìpi estetici fondamentali e la visione della letteratura. Princìpi che nel loro insieme delineano una concezione classicistica della letteratura che perdura per tutto il Rinascimento. Vediamoli. • L’imitazione dei modelli eccellenti del passato Gli umanisti, proprio come gli antichi, danno per scontato che per realizzare opere d’arte degne di questo nome occorra imitare autori considerati eccellenti, cioè i classici, modello indiscutibile di perfezione. Questa prospettiva fondamentale comporta: – la ripresa di generi classici (come ad esempio la commedia, il trattato, il genere idillico-pastorale); – l’immissione massiccia nella letteratura e nell’arte di miti, temi e topoi del mondo antico, che creano un repertorio capace di perdurare, in alcuni casi, fino al Novecento (➜ PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi, PAG. 93). Il classicismo non consiste però in una sterile e passiva ripresa dei modelli del passato: gli scrittori e gli artisti più grandi si propongono di gareggiare con il modello antico che riprendono e perciò l’imitazione diventa emulazione, in una sfida stimolante per superare i grandi modelli. • La letteratura come eccellenza “tecnica” Dalla cultura classica gli umanisti derivano l’idea che il valore di un’opera non dipenda tanto dall’originale creatività dell’autore, ma sia soprattutto il risultato della sua competenza tecnica, della sua perizia retorica nel rendere sempre più perfetto il prodotto letterario (grazie a quello che i latini chiamavano, con una celebre metafora, limae labor “il lavoro di lima”). • La selezione idealizzante dei contenuti artistici e l’ideale estetico dell’armonia Una concezione classicistica della letteratura comporta anche una selezione prevalentemente idealizzante dei contenuti: della realtà e dei comportamenti umani sono privilegiati gli aspetti più nobili, in genere rappresentati attraverso uno stile elegante e armonico. Il Rinascimento riprende dal mondo antico l’ideale estetico dell’armonia e dell’eleganza. • La prevalenza del fine edonistico Mentre durante il Medioevo prevale, nella composizione delle opere letterarie, il fine didattico-morale, nell’età umanisticorinascimentale si privilegia invece una visione edonistica dell’arte che si traduce anche nella predilezione, in particolare in alcuni generi, per forme e temi letterari in grado di ospitare un’evasione dalla realtà verso mondi di bellezza lontani nello spazio e nel tempo (➜ T1-2 ). L’irrigidimento del classicismo nel secondo Cinquecento Nel corso del Cinquecento si sviluppa anche una riflessione teorica sulla letteratura che si concretizza nel tempo in una rigida classificazione delle forme letterarie all’interno di precisi
92 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
generi e in regole prescrittive di scrittura, tali da condizionare per secoli gli scrittori. Il ruolo della Poetica di Aristotele Un ruolo fondamentale, in questo processo, è esercitato dalla diffusione della Poetica di Aristotele (secolo IV a.C.). Poco conosciuto nel Quattrocento, il testo del grande filosofo greco, una volta tradotto in volgare e commentato (nel quarto decennio del Cinquecento), ispira una ricca produzione di scritti di poetica, che definiscono rigidamente la tipologia dei vari generi letterari e la loro gerarchia nel “sistema dei generi”. Particolarmente importante è la fissazione delle norme compositive della tragedia (le cosiddette tre “unità”). Un sistema normativo che entrerà in crisi solo nell’età romantica, quando irromperanno nuovi valori e una nuova sensibilità estetica. La tragedia e le tre unità Per quanto riguarda la tragedia, cui è dedicato il primo libro dell’opera di Aristotele – il secondo, riguardante la commedia, è andato perduto – i trattatisti del Cinquecento fissano le tre unità che devono essere rispettate nella rappresentazione tragica, trasformando in norma prescrittiva quella che in Aristotele era puramente una descrizione dei caratteri del grande teatro tragico greco (ed è per questo che sarebbe più corretto parlare di unità “pseudoaristoteliche”). La codificazione delle tre unità prevede: • l’unità di azione: l’argomento del dramma deve essere unitario e non disperdersi in episodi secondari; • l’unità di luogo: l’azione deve svolgersi in un unico luogo; • l’unità di tempo: l’azione deve svilupparsi nell’arco di una giornata.
PER APPROFONDIRE
Un “codice” elitario La presenza di un vasto repertorio di immagini, situazioni e anche di un lessico aulico tratti dal mondo antico crea a lungo andare un vero e proprio “codice” di riferimento con cui gli scrittori inevitabilmente devono confrontarsi. Questa patina classicheggiante fa della nostra una delle letterature più alte e raffinate.
Il repertorio classicistico: alcuni esempi Il mito dell’età dell’oro Tra le figurazioni più note appartenenti al mondo classico e che hanno avuto maggiore fortuna nel tempo c’è il mito dell’età dell’oro. Nella letteratura latina si può ricordare, tra i molti esempi possibili, la quarta Ecloga di Virgilio o anche le Metamorfosi di Ovidio. L’“età dell’oro” è un’epoca mitica in cui gli uomini vivevano liberi e felici, non conoscevano né pericolo né guerre né fatiche per procurarsi, mediante il lavoro, il necessario per vivere, che invece era offerto spontaneamente alla specie umana da una natura rigogliosa che produceva ogni tipo di frutto; gli animali, sia i feroci sia i mansueti, convivevano in pace e dappertutto regnava l’armonia. Si tratta di un mito sentito ed evocato in periodi storici di forti conflittualità, che spingono a cercare altrove, in dimensioni “altre”, ciò che la realtà storica non può offrire. Il locus amoenus Talvolta connesso al mito dell’età dell’oro è il topos, il motivo, del luogo idilliaco (locus amoenus): come il termine latino fa già capire, Si tratta di un particolare modello spaziale (locus), caratterizzato dalla bellezza serena di una natura amica e armoniosa, in cui ricorrono elementi
costanti come la limpidezza delle acque, la brezza leggera, i fiori, il canto degli uccelli. Nei testi, e non solo in quelli della civiltà umanistico-rinascimentale, ne ritroviamo innumerevoli esempi. La fugacità della bellezza Un altro motivo di grande fortuna è quello della fugacità della giovinezza, spesso associato alla metafora della rosa che presto sfiorisce, da cui deriva la necessità di godere dei piaceri dell’amore finché ci è consentito farlo e la vecchiaia e la morte sono ancora lontane. Il motivo ha il suo archetipo in un carme di Orazio (I, xi, 8), in cui il poeta latino invita una giovane donna (evocata con il nome grecizzante di Leuconoe) a “cogliere il giorno” (è questo il significato letterale del celebre motto carpe diem), ossia a vivere gioiosamente il presente. Si tratta di un motivo talmente ricorrente nella poesia umanistica da divenire quasi convenzionale (un topos, appunto); tra i moltissimi esempi ricordiamo almeno il testo composto da Lorenzo il Magnifico per una festa di carnevale: Canzona di Bacco (➜ T1 ) e la celebre lirica di Poliziano I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino (➜ T3 ).
La visione classicistica della letteratura 1 93
Modello dominante Classicismo
repertorio mitologico
generi classici
stile armonico
2 Lorenzo de’ Medici La biografia Lorenzo de’ Medici nasce a Firenze nel 1449 da Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni. Si forma attraverso lo studio dei classici latini e volgari e frequenta il circolo filosofico di Marsilio Ficino. Nel 1469 diviene signore di Firenze. Pratica a corte il mecenatismo circondandosi di artisti, letterati e filosofi. Nel 1478 muore suo fratello Giuliano nella congiura organizzata a Firenze dai fratelli Pazzi, nella quale avrebbe dovuto perdere la vita anche lui. Si fa promotore in Italia della politica dell’equilibrio attraverso la quale riuscì a mantenere in pace gli stati italiani fino al 1492, anno della sua morte. Le opere In Lorenzo de’ Medici convivono due anime: lo scaltro uomo politico e il poeta e cultore d’arte. Questa dualità si riflette nelle sue opere che presentano una varietà di tendenze e toni. Alcune sue opere come le Selve d’amore sono influenzate dalla frequentazione dell’Accademia platonica di Marsilio Ficino. Le Rime nascono dal suo interesse per la lirica italiana del Due-Trecento. Altre invece si rifanno alla tradizione comico-burlesca come il poemetto la Nencia di Barberino. È autore anche di Canti carnascialeschi, di cui fa parte il Trionfo di Bacco e Arianna conosciuto anche come Canzona di Bacco, ossia canti composti in occasione del Carnevale in cui si esprime la concezione edonistica tipica dell’Umanesimo. Da ultimo, compone anche testi di carattere religioso. Questa produzione così ricca e diversa va interpretata come l’espressione del letterato colto che vuole sperimentare tutte le forme.
Opere di Lorenzo de’ Medici
Selve d’amore
Rime / Canti carnascialeschi
vicende mitologiche con influssi neoplatonici
componimenti ispirati alla lirica del XII e del XIV secolo, esprimono una concezione edonistica della vita
94 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
Lorenzo de’ Medici
T1
Canzona di Bacco Canti carnascialeschi I, vii
L. de’ Medici, Canti carnascialeschi, in Scritti scelti, a c. di E. Bigi, UTET, Torino 1965
AUDIOLETTURA
Questo celeberrimo componimento è diventato quasi il simbolo dell’edonismo della cultura umanistico-rinascimentale. È bene precisare, tuttavia, che esso si iscrive in uno specifico genere, quello dei canti carnascialeschi, che venivano cantati con accompagnamento musicale durante le feste del Carnevale dai partecipanti al corteo in maschera che percorreva le vie di Firenze. Il testo, composto probabilmente per il carnevale fiorentino del 1490, descrive proprio il corteo mascherato, con diversi personaggi appartenenti alla mitologia classica che via via sfilano: primo fra tutti Bacco, dio del vino e dell’allegria. La Canzona di Bacco, come questo testo è titolato in alcuni manoscritti, è incentrata sull’invito a godere i piaceri della vita, proprio perché essa è breve e precaria («di doman non c’è certezza»): un motivo, questo, di derivazione classica, in particolare oraziana (il celebre carpe diem, ovvero “cogli il giorno, il momento che stai vivendo”), anche se nel canto non manca una sottesa malinconia causata proprio dal trascorrere veloce del tempo.
Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia1! Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza2. 5 Quest’è Bacco e Arianna, belli, e l’un dell’altro ardenti: perché ’l tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti3. Queste ninfe ed altre genti 10 sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questi lieti satiretti4, delle ninfe innamorati, 15 per caverne e per boschetti han lor posto cento agguati; or da Bacco5 riscaldati, ballon, salton tuttavia6. Chi vuol esser lieto, sia: 20 di doman non c’è certezza. Queste ninfe anche hanno caro da lor esser ingannate7:
1 si fugge tuttavia: passa sempre, trascorre continuamente. 2 Chi... certezza: invito al carpe diem, perché non si sa se ci sarà un domani; e, se ci sarà, che cosa porterà. 3 Quest’è... contenti: il corteo trionfale è aperto da Bacco e Arianna; i dimostrativi questo e queste evidenziano le sequenze descrittive dei vari carri trionfali carnevaleschi che via via avanzano. Tutti i per-
sonaggi, collegati al mito di Bacco, sono utilizzati per esprimere un invito a godere dei piaceri del presente. Arianna aveva aiutato Teseo a uccidere il Minotauro messo a guardia del Labirinto, ma poi era stata abbandonata dall’amante infedele sull’isola di Nasso, dove Bacco l’aveva vista e, invaghitosi della sua bellezza, l’aveva presa con sé. 4 satiretti: nel mito i satiri accompagnano
Bacco; sono creature dei boschi, con i piedi caprini, piccole corna e la coda; il resto del corpo è umano. Il diminutivo sottolinea la loro giovinezza e spensieratezza. 5 Bacco: metonimia per indicare il vino. 6 ballon, salton tuttavia: ballano, saltano sempre. 7 Queste... ingannate: Queste ninfe sono contente di cadere negli agguati amorosi dei satiri.
La visione classicistica della letteratura 1 95
non può fare a Amor riparo se non gente rozze e ingrate8 25 ora insieme mescolate suonon, canton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Questa soma9, che vien drieto 30 sopra l’asino, è Sileno: così vecchio è ebbro e lieto, già di carne e d’anni pieno; se non può star ritto, almeno ride e gode tuttavia10. 35 Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Mida vien drieto a costoro: ciò che tocca, oro diventa. E che giova aver tesoro, 40 s’altri poi non si contenta? Che dolcezza vuoi che senta Chi ha sete tuttavia11? Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. 45 Ciascun apra ben gli orecchi, di doman nessun si paschi12; oggi sian giovani e vecchi, lieti ognun, femmine e maschi; ogni tristo pensier caschi: 50 facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! 55 Ciascun suoni, balli e canti! Arda di dolcezza il core! Non fatica, non dolore! Ciò c’ha a esser, convien sia13. Chi vuol esser lieto, sia: 60 di doman non c’è certezza. 8 non può... ingrate: si sottraggono ad
11 Mida... tuttavia: il re Mida, altro per-
Amore le persone rozze e insensibili. Riferimento all’idea stilnovistica che gli animi gentili provino sempre amore e al dantesco If V, 103. 9 soma: corpo pesante. 10 sopra... tuttavia: dietro viene Sileno, precettore di Bacco. È vecchio e grasso, ma raccoglie l’invito al piacere e al godimento; reso allegro dal vino, fa fatica a reggersi sull’asino per l’ubriachezza.
sonaggio mitologico legato a Bacco, rappresenta l’esempio negativo di chi non sa godere dell’oggi e pensa troppo al domani, allontanandosi così dai piaceri naturali, gli unici da ricercare secondo la filosofia epicurea. Secondo il mito, Bacco avrebbe concesso a Mida di realizzare un desiderio; essendo molto avido, questi aveva chiesto di trasformare in oro tutto ciò che toccasse, ma, poiché anche il cibo e l’ac-
96 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
qua diventavano oro, prossimo a morire, aveva dovuto rinunciare al suo desiderio. 12 nessun si paschi: nessuno si nutra del pensiero del domani; cioè: si illuda sul domani. Il verbo allude ancora alla vicenda di Mida e invita a non rimandare al domani il godimento dei piaceri. 13 Ciò... sia: ciò che deve essere, è giusto che accada. Il senso è: “accettiamo la vita così com’è oggi, senza pensare al domani”.
Analisi del testo Il corteo dei personaggi mitologici La ballata rispecchia la cultura umanistica dell’autore: i personaggi via via evocati sono figure mitologiche, legate in particolare al mito di Bacco: lo stesso Bacco, Arianna, le ninfe, i satiri, tutti gioiscono per il piacere amoroso e si abbandonano all’ebbrezza del vino (che rallegra anche il vecchio Sileno). Mida rappresenta un esempio negativo perché non si appaga dei piaceri naturali, ma ricerca la ricchezza e rimanda al domani le gioie che dovrebbero essere invece godute istante per istante.
Il tema del piacere e della fugacità della vita La ballata esprime una visione della vita paganeggiante, vicina a quella del poeta latino Orazio, seguace della filosofia epicurea. Oraziana è l’associazione tra invito al piacere e consapevolezza della fugacità della giovinezza e della vita stessa (il celebre motivo del carpe diem): un’associazione che nella ballata di Lorenzo è affidata al notissimo ritornello «Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza». L’invito a cogliere il piacere della vita è posto in risalto dal ritmo rapido e incalzante della ballata, che diventa alla fine sfrenato e quasi vorticoso a sottolineare il dinamismo, ma anche la fulmineità del tempo dei piaceri nella vita.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il testo in non più di 10 righe. COMPRENSIONE 2. A chi è indirizzata la ballata? ANALISI 3. A parte, in una tabella simile a questa, elenca i personaggi del trionfo, descrivi brevemente le scene che li riguardano e indica il significato che la ballata attribuisce al personaggio. personaggi
scene
significato
4. Rintraccia nel testo le espressioni che indicano i destinatari. STILE 5. Individua nel testo i termini legati al campo semantico: a. del piacere b. del tempo
Interpretare
Studiare con l'immagine 6. Osserva il dipinto. a. Esamina il paesaggio, i personaggi raffigurati e le azioni che svolgono. Dall’immagine è possibile rintracciare elementi in comune con la ballata di Lorenzo? Argomenta (max 10 righe). b. Scrivi una dettagliata didascalia dell’immagine proposta. Puoi fare ricerche per informarti sui dati non in tuo possesso.
Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna, 1520-1523 (National Gallery, Londra).
La visione classicistica della letteratura 1 97
3 Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza
Lessico Studio fiorentino Università e centro di cultura fondato nel 1321 dalla Repubblica fiorentina e situato nel capoluogo toscano.
Un umanista all’ombra dei Medici Angelo Poliziano (1454-1494) è uno dei maggiori umanisti e poeti del Quattrocento. Nato a Montepulciano (dal luogo d’origine deriva il nome latino che si scelse come pseudonimo: Politianus), Angelo Ambrogini si trasferisce a Firenze, dove riesce ben presto a ottenere la stima di Lorenzo de’ Medici, che lo accoglie alla propria corte nel 1473 e nel 1475 lo nomina suo segretario personale e precettore del figlio Piero. Come molti altri umanisti può così dedicarsi in tranquillità ai suoi studi e alla sua attività di filologo e letterato. Nel 1479, nel clima politicamente difficile che segue la congiura dei Pazzi, in cui muore Giuliano de’ Medici, lascia Firenze per trasferirsi a Mantova presso il cardinale Francesco Gonzaga al quale dedica la favola pastorale Orfeo. Nel 1480, dietro sua insistente richiesta, Lorenzo gli concede di tornare a Firenze, gli riaffida l’educazione del figlio e lo fa nominare alla cattedra di eloquenza greca e latina allo Studio fiorentino . Poliziano si lega in rapporti di amicizia con altri illustri intellettuali che gravitano intorno alla corte medicea: Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e lo stesso giovane Bembo. Poliziano filologo La più congeniale attività di Poliziano fu quella filologica, impiegata nello sforzo appassionato di ricostruire il testo originale delle opere antiche appartenenti ai più vari campi del sapere (dalla letteratura alla filosofia alle discipline giuridiche e scientifiche). Ne sono testimonianza soprattutto i Miscellanea (le Miscellanee), dotte dissertazioni su molteplici argomenti in cui il letterato manifesta non solo una straordinaria cultura e competenza filologica, ma anche il gusto di esplorare gli aspetti, i miti, i temi e i termini stessi più rari con curiosità da erudito. Un poeta dotto La vasta conoscenza della cultura classica sia greca sia latina costituisce il fondamento dell’attività di Poliziano anche come poeta. Egli segue infatti il principio dell’imitazione a cui sopra si è fatto riferimento, ma utilizza sempre molteplici fonti, preferibilmente rare, anche dissonanti tra di loro (antiche e moderne, colte ma anche popolaresche), che vengono composte a mosaico per la creazione di testi nuovi. I lavori di Poliziano sono sempre densi di echi letterari. Poliziano scrive sia in greco (epigrammi), sia in latino (epigrammi, odi, elegie e altro) sia in volgare. A quest’ultima produzione appartengono varie composizioni, tra cui spiccano le canzoni a ballo Ben venga maggio e I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino (➜ T3 ) che appaiono vicine per sensibilità e tematiche alle più celebri Stanze per la giostra.
Le Stanze per la giostra
Angelo Poliziano e Piero de’ Medici da bambino in un particolare dall’affresco di Domenico Ghirlandaio per la Cappella Sassetti nella chiesa di Santa Trinita a Firenze (1482-1485).
L’opera Le Stanze (cioè “strofe”, in questo caso ottave) per la giostra (giostra = “torneo”), l’opera principale di Poliziano e una delle più significative testimonianze della letteratura umanistica in lingua volgare e del classicismo, sono composte a Firenze tra il 1475 e il 1478. Nate nel mondo della corte di Lorenzo de’ Medici, le Stanze sono un’opera dichiaratamente encomiastica, celebrativa: nel 1475 il Magnifico aveva organizzato un grande torneo (è la giostra del titolo) per celebra-
98 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
re un suo successo diplomatico: l’accordo di pace, da lui orchestrato, fra alcune potenze del tempo (Milano, Venezia, Firenze), cui aderirà anche il papa. La vittoria nel torneo arride a Giuliano de’ Medici, fratello minore del Magnifico. Poliziano si propone di celebrare l’evento e inizia a scrivere il poemetto, ma due avvenimenti luttuosi ne interrompono la stesura: prima (1476) la morte di Simonetta Vespucci, la dama per cui Giuliano aveva combattuto nel torneo e che ispira l’ideazione della figura femminile di cui Iulio (a sua volta figura di Giuliano de’ Medici) si innamora nel poemetto; poi (1478) la tragica morte dello stesso Giuliano nella congiura dei Pazzi. Così il poemetto rimane incompiuto. Il contenuto Nel primo libro il giovane Iulio vive dedicandosi alla caccia e alla poesia e disprezza l’amore. Una mattina di primavera, mentre insieme ad alcuni amici sta appunto cacciando, vede una bianca cerva. L’apparizione è “orchestrata” da Cupido, dio dell’amore, che vuole vendicarsi della indifferenza di Iulio verso l’amore. Raggiuntala in una radura, la cerva svanisce come per incanto e Iulio si trova di fronte una bellissima ninfa, Simonetta, che appare al giovane vestita di bianco. Iulio è soggiogato dall’amore e Cupido, lieto del successo ottenuto, vola a Cipro, nel regno della madre Venere. Nel secondo libro Iulio, per volere di Venere, per accendere l’amore di Simonetta dovrà darsi a una nobile impresa, appunto il torneo (la giostra a cui fa riferimento il titolo). Venere perciò fa mandare al giovane un sogno che lo spinga all’impresa; ma, mentre dorme, egli ha la premonizione della morte di Simonetta. Svegliatosi, «d’amore e d’un disio di gloria ardendo», invoca Minerva, dea della sapienza e delle virtù militari, per poter conseguire la gloria. Il poemetto si interrompe a questo punto. Un disegno allegorico neoplatonico? Alcuni critici hanno interpretato la vicenda del poemetto riconducendola a un disegno allegorico, ispirato dalla suggestione della filosofia neoplatonica. Quello di Iulio sarebbe un cammino di progressiva metamorfosi che dalla contemplazione della bellezza terrena di Simonetta (che simboleggerebbe la Venere terrena) dovrebbe portare il giovane alla contemplazione della bellezza celeste (la Venere celeste) attraverso il potenziamento dei suoi sentimenti e delle sue qualità. Se anche esiste, il disegno allegorico non è individuabile con sicurezza, anche perché il poemetto non è stato ultimato. Una raffinata esibizione di classicismo Nelle Stanze si manifestano gli ideali propri del classicismo umanistico: l’esaltazione della virtù, l’ideale della bellezza, la centralità dell’amore come esperienza chiave della vita umana; ma questa celebrazione «è sempre accompagnata dal sentimento della fragilità e della fugacità di questi ideali, della loro natura di “sogni” vagamente e oscuramente insidiati dalle forze inesorabili del Fato, della Fortuna, della Morte» (E. Bigi). Nella costruzione delle vicende e dei personaggi delle Stanze, Poliziano utilizza, sovrapponendoli, modelli diversi: ad esempio il personaggio di Iulio richiama modelli greco-latini (la tragedia Ippolito di Euripide e la Fedra di Seneca) e insieme boccacciani (il Ninfale d’Ameto), Simonetta rimanda alla figura mitologica della ninfa, ma anche al modello femminile stilnovistico-petrarchesco, nella celebre raffigurazione del “giardino di Venere” (➜ T2 ). Poliziano attinge a Virgilio, Ovidio, Dante e Petrarca. Lo scrittore toscano crea così un raffinato intarsio di fonti, il cui riconoscimento costituisce per il pubblico elitario della corte la componente essenziale del piacere della lettura. Lo stesso orientamento agisce anche nella lingua dell’opera, che risulta estremamente variegata, ospitando, magari in una stessa ottava, apporti diversi: latinismi, dantismi, ma anche espressioni realistiche e popolaresche. La visione classicistica della letteratura 1 99
Sguardo sull'arte Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte Nel contesto culturale del neoplatonismo fiorentino letteratura e arte sono fra di loro collegate come espressione del mondo delle idee, dominato dalla bellezza. Lo stretto legame fra poesia, filosofia e arte nell’ambiente fiorentino fa sì che, come hanno mostrato gli storici dell’arte Aby Warburg (1866-1929) e Edgar Wind (19001971), un grande pittore come Sandro Botticelli abbia tratto dalle Stanze lo spunto per i suoi quadri più famosi e ammirati: la Nascita di Venere (1484-86) e la Primavera (1478-82).
La Nascita di Venere riproduce il soggetto di uno dei bassorilievi immaginati da Poliziano a ornamento del palazzo della dea (➜ T2 ott. 99-102). Molte sono le analogie: Venere giunge su una conchiglia (da cui, secondo il mito, sarebbe nata) sospinta dai venti, ritratti da Botticelli come personificazioni allegoriche (in particolare, Zefiro, personificazione del vento primaverile, è rappresentato come figura alata), ed è accolta e vestita dalle mitologiche Ore (tre nel poema, una, quella primaverile, nel quadro). La scena è animata dagli effetti del vento, che gonfia la veste offerta dall’Ora e solleva
Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 1484-1485 (Galleria degli Uffizi, Firenze).
100 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
IMMAGINE INTERATTIVA
i biondi capelli delle due divinità mitologiche: anche questo particolare è già suggerito dalla descrizione polizianesca («l’aura incresparle e crin’ distesi e lenti», ott. 100, v. 6). Il mito della nascita di Venere rappresenta l’origine divina della bellezza: riprendendo uno spunto del Simposio platonico, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola distinguono la Venere celeste, cioè la bellezza ideale e divina e la Venere terrestre, che, unendosi alla materia, rende feconda la natura e le conferisce una bellezza divina. Sia i versi di Poliziano sia il dipinto di Botticelli sono espressione della volontà di «rinascita dell’antico» dell’ambiente mediceo. La Primavera Evidenti corrispondenze fra le Stanze e la pittura di Botticelli si riscontrano anche nella Primavera. Il quadro è stato variamente interpretato, ma alcuni studiosi lo hanno ricondotto figurativamente alle Stanze, come mostrerebbero numerosi particolari: Venere al centro del suo regno di bellezza; l’eterna primavera, simboleggiata dal gesto di Mercurio (che con il caduceo scaccia le nuvole), e dallo Zefiro, che con il suo soffio feconda la ninfa Clori. Quest’ultima sparge fiori dalla bocca e si trasforma in Flora, la dea dalla veste fiorita; fiori di vario genere,
come descritto nelle Stanze, sono sparsi sul prato. Il quadro rappresenterebbe l’unione neoplatonica tra mondo sovraceleste e mondo terreno: la bellezza discende dal cielo alla terra (Zefiro con Flora) e l’ascesa dell’anima (Mercurio, le tre Grazie). Le Grazie sono solo apparentemente identiche: la Grazia posta al centro, più disadorna delle altre, coi capelli raccolti e senza gioielli, rappresenterebbe la Castità, vinta all’Amore (a lei Cupido indirizza la freccia) dalle altre due Grazie, che rappresentano la Bellezza (a destra), adorna ma composta e raccolta, e la Voluttà, a sinistra, la più energica e sensuale delle tre. La Castità del quadro botticelliano è di schiena, poiché volge le spalle al mondo per elevarsi al divino, e il suo percorso di elevazione, con il passaggio dalla castità all’amore, potrebbe essere paragonato a quello di Iulio, il protagonista delle Stanze. Appare perciò evidente che lo splendore dei quadri di Botticelli va al di là della semplice realizzazione di un programma artistico, e risponde alla nuova concezione del mondo diffusa nell’ambiente letterario e filosofico fiorentino, evidenziando un indissolubile intreccio tra Poliziano, Ficino, Botticelli.
Testi di riferimento: A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966; E. Wind, Misteri pagani nel Rinascimento, Adelphi, Milano 1985.
Sandro Botticelli, Primavera, 1482 (Galleria degli Uffizi, Firenze).
La visione classicistica della letteratura 1 101
La Fabula di Orfeo e la nascita di un teatro umanistico per la corte
Lessico dramma satiresco
PER APPROFONDIRE
Dramma incentrato su tematiche derivate dalla mitologia o dalle vicende degli eroi, nel quale tuttavia il coro era formato da satiri, che vi aggiungevano un elemento burlesco (“satirico”, appunto).
Un’opera non tradizionale Al classicismo umanistico va ricollegata anche la Fabula di Orfeo, un testo teatrale (in latino fabula significa “opera teatrale”) composto da Poliziano in brevissimo tempo (addirittura in due giorni) su commissione del cardinale Francesco Gonzaga per una festa di corte. La Fabula di Orfeo è uno dei primissimi esempi in Italia di teatro non religioso, ispirato ai classici (➜ C7): il soggetto è il mito di Orfeo, tramandato dalle Georgiche di Virgilio e dalle Metamorfosi di Ovidio. L’ambientazione della prima parte del testo è il mondo pastorale, a cui appartengono i personaggi di Mopso e Aristeo. Su questo sfondo si innesta poi la parte principale della favola, cioè il dramma del mitico poeta Orfeo. Nel testo di Poliziano si alternano in una serie di scene momenti idillici, pastorali, drammatici, ma anche grotteschi (Poliziano avrebbe cercato secondo alcuni interpreti di riprodurre lo spirito dell’antico dramma satiresco , a cui rimanda anche l’ambientazione pastorale). L’ottica pessimista Il messaggio globale che si può intravedere nella Fabula non corrisponde a una visione positiva, ma sembra anzi ispirato a una sostanziale sfiducia negli stessi ideali umanistici, di cui l’opera rivela la sconfitta: la poesia, mito principale dell’Umanesimo nella sua funzione civilizzatrice (Orfeo è il poeta capace di ammansire le belve col suo canto), non è in grado di vincere il destino e la morte.
Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano Euridice, sposa del mitico cantore tracio Orfeo, muore morsa da un serpente mentre tenta di sfuggire alle insidie del pastore Aristeo. Orfeo scende nell’Ade, il regno dei morti, per riscattare la sposa: ottiene da Plutone, il dio dei morti, che essa possa ritornare in vita purché, mentre la riporta sulla terra, non si volti a guardarla. Ma Orfeo non resiste alla ten-
tazione e perde così per sempre la sposa. Disperato, decide di rifiutare per sempre l’amore per le donne, alle quali indirizza parole sprezzanti. Irate, le Baccanti lo uccidono facendone a pezzi il corpo. Così è presentata la vicenda dal dio Mercurio, cui Poliziano affida nel prologo della Fabula di Orfeo la funzione di introdurre per il pubblico la storia.
Silenzio. Udite. E’ fu già1 un pastore figliuol d’Apollo, chiamato Aristeo. Costui amò con sì sfrenato ardore Euridice, che moglie fu d’Orfeo, 5 che sequendola un giorno per amore fu cagion del suo caso acerbo e reo2: perché, fuggendo lei3 vicina all’acque, una biscia la punse; e morta giacque. Orfeo cantando4 all’Inferno la tolse, 10 ma non poté servar la legge data5, che ’l poverel tra via6 drieto si volse7 sì che di nuovo ella gli fu rubata: però ma’ più amar donna non volse8, e dalle donne9 gli fu morte data. A. Poliziano, Stanze. Fabula di Orfeo, a c. di S. Carrai, Mursia, Milano 1988
102 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
1 E’ fu già: ci fu un tempo. 2 fu cagion… reo: fu la causa del suo destino crudele e malvagio. 3 fuggendo lei: mentre lei fuggiva. 4 cantando: con la forza del suo canto. 5 non... data: non riuscì a osservare la regola imposta (da Plutone). 6 tra via: lungo la strada del ritorno. 7 drieto si volse: indietro si voltò. 8 però… volse: perciò non volle mai più amare una donna. 9 dalle donne: dalle Baccanti, dedite ai riti dionisiaci.
Opere di Angelo Poliziano
Stanze per la giostra
Fabula di Orfeo
poemetto ricco di rimandi classici ed elementi neoplatonici
favola teatrale di soggetto mitologico
Angelo Poliziano
T2
Il regno di Venere e dell’Amore Stanze per la giostra, ott. 68-72; 99-102
A. Poliziano, Poesie italiane, a c. di S. Orlando, Rizzoli, Milano 1988
Amore torna nel regno di Venere ad annunciare alla madre di aver fatto innamorare Iulio (personaggio dietro cui si cela Giuliano de’ Medici), prima refrattario alla passione amorosa. Il regno di Venere ha i caratteri di un mondo idillico, di pura bellezza, ispirato alla visione neoplatonica ficiniana. Nel passo emerge la visione positiva della natura, caratteristica del Rinascimento.
68 Ma fatta Amor la sua bella vendetta1, mossesi lieto pel negro aere a volo2, e ginne3 al regno di sua madre4 in fretta, ov’è de’ picciol suoi fratei lo stuolo5: al regno ov’ogni Grazia6 si diletta, ove Biltà7 di fiori al crin fa brolo8, ove tutto lascivo, drieto9 a Flora, Zefiro vola e la verde erba infiora10. 69 Or canta meco un po’ del dolce regno, Erato bella11, che ’l nome hai d’amore12;
La metrica Ottave di endecasillabi con
6 Grazia: le tre Grazie sono divinità di-
schema di rime ABABABCC 1 Amor… vendetta: Amore si vendica di Iulio, avverso alla passione amorosa, e lo fa innamorare della bella Simonetta. 2 pel negro… a volo: soddisfatto, si mosse in volo attraverso l’aria scura. 3 ginne: andò. 4 sua madre: Venere. 5 ov’è … lo stuolo: dove c’è lo stuolo dei suoi piccoli fratelli, gli Amorini.
spensatrici di bellezza e gioia che accompagnano Venere. 7 Biltà: Beltà, Bellezza. 8 al crin… brolo: fa una ghirlanda ai capelli. 9 drieto: dietro. 10 ove… infiora: secondo il mito, narrato da Ovidio nei Fasti (V, 183-228), Zefiro, vento primaverile, si innamora della ninfa terrestre Clori, dalla bellezza disadorna e la trasforma nella bellissima Flora («tutto
lascivo, drieto a Flora»), adornata di fiori (infiora, “fa fiorire”). Il mito è raffigurato nella Primavera di Botticelli. 11 Erato bella: è la musa della poesia amorosa. L’invocazione alla musa sottolinea come la descrizione del regno di Venere costituisca quasi un poemetto a sé, inserito nelle Stanze. 12 che… amore: il nome “Erato” deriva dal sostantivo greco che indica “Amore”, cioè Eros.
La visione classicistica della letteratura 1 103
tu sola, benché casta13, puoi nel regno secura entrar di Venere e d’Amore; tu de’ versi amorosi hai sola il regno, teco sovente a cantar viensi Amore14; e, posta giù dagli omer la faretra15, tenta16 le corde di tua bella cetra. 70 Vagheggia Cipri un dilettoso monte, che del gran Nilo e sette corni vede e ’l primo rosseggiar dell’orizonte, ove poggiar non lice al mortal piede17. Nel giogo18 un verde colle alza la fronte19, sotto esso aprico20 un lieto pratel siede, u’21 scherzando tra’ fior lascive aurette22 fan dolcemente tremolar l’erbette. 71 Corona un muro d’or l’estreme sponde23 con valle ombrosa di schietti24 arbuscelli, ove in su’ rami fra novelle fronde25 cantano i loro amor soavi augelli26. Sentesi un grato27 mormorio dell’onde, che fan duo freschi e lucidi28 ruscelli, versando dolce con amar liquore, ove arma l’oro de’ suoi strali Amore29. 72 Né mai le chiome del giardino eterno tenera brina o fresca neve imbianca; ivi non osa entrar ghiacciato verno30, non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca; ivi non volgon gli anni il lor quaderno31, ma lieta Primavera mai non manca, ch’e suoi crin biondi e crespi all’aura spiega32, e mille fiori in ghirlandetta lega. 13 casta: pura, come tutte le muse. 14 teco… Amore: con te spesso Amore viene a cantare. 15 posta… faretra: deposta dalle spalle la faretra (l’astuccio contenente le frecce). 16 tenta: tocca, per ottenerne il suono. 17 Vagheggia… mortal piede: Un ameno (dilettoso, “che dà diletto”) monte, su cui non è lecito ai mortali salire, guarda l’isola di Cipro, da cui si vedono i sette rami del delta del grande fiume Nilo e il primo rosseggiare dell’orizzonte (l’aurora). Secondo il mito e la letteratura, Cipro è un’isola sacra a Venere, dove la dea sarebbe nata. 18 Nel giogo: Sulla cima del monte. 19 alza la fronte: si innalza.
20 aprico: soleggiato. 21 u’: dove (derivato dal latino ubi). 22 lascive aurette: dolci venticelli; lascivo
27 grato: gradito, piacevole. 28 lucidi: limpidi e brillanti per il sole. 29 versando… Amore: in cui scorrono ac-
significa “sensuale per amore”: nel regno di Venere, anche i venti, personificati, sono domati dall’amore. 23 Corona… sponde: Un muro d’oro cinge i margini del prato. 24 schietti: lisci, senza nodi. L’aggettivo evidenzia il nitido disegno degli alberi. 25 novelle fronde: fronde appena nate, primaverili. 26 soavi augelli: uccelli dalla voce armoniosa. Gli aggettivi utilizzati in queste ottave sottolineano l’atmosfera di incanto e soavità della scena.
que dolci e amare (come gli effetti dell’amore), nelle quali Amore tempra l’oro delle sue frecce (per renderle più efficaci). 30 ghiacciato verno: l’inverno con i suoi ghiacci. 31 ivi… quaderno: lì non si succedono le quattro stagioni; letteralmente: “gli anni non girano le pagine del loro quaderno”. 32 all’aura spiega: dispiega, sciolti, al vento. La Primavera è personificata nell’immagine di una bella fanciulla dai lunghi capelli, biondi e mossi.
104 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
[Nel giardino sono presenti diverse figure allegoriche – come la Speranza, il Desiderio, la Voluttà, l’Errore, il Sospetto e così via – che compongono il corteo di Venere e simboleggiano gioie e tormenti d’amore; poi Zefiro, tiepido e fertile vento primaverile, personificato, ovunque spiri, costella i prati di fiori d’ogni specie e colore. Inizia la descrizione vera e propria delle piante e degli animali del regno di Venere. Sulla cima del colle si trova un meraviglioso palazzo, opera artistica realizzata nell’officina di Vulcano. Sulle mura del palazzo sono raffigurate varie figure e scene mitologiche: l’evirazione di Urano da parte del figlio Saturno, la nascita delle Furie e dei Giganti dal suo sangue e infine la nascita di Venere dalla schiuma del mare.] 99 [...] e drento nata33 in atti vaghi e lieti una donzella non con uman volto34, da zefiri lascivi spinta a proda, gir sovra un nicchio, e par che ’l cel ne goda35. 100 Vera la schiuma e vero il mar diresti, e vero il nicchio e ver soffiar di venti36; la dea negli occhi folgorar vedresti, e ’l cel riderli a torno e gli elementi; l’Ore premer l’arena in bianche vesti, l’aura incresparle e crin distesi e lenti; non una, non diversa esser lor faccia, come par ch’a sorelle ben confaccia37. 101 Giurar potresti che dell’onde uscissi38 la dea premendo colla destra il crino39, coll’altra il dolce pome40 ricoprissi; e, stampata dal piè sacro e divino, d’erbe e di fior l’arena si vestissi41; poi, con sembiante lieto e peregrino42, dalle tre ninfe in grembo fussi accolta, e di stellato vestimento involta43. 33 drento nata: nata dalla schiuma (del mare). 34 una donzella … volto: una fanciulla (è Venere) con volto divino. 35 da zefiri… goda: spinta verso la riva da venti di Zefiro innamorati e capricciosi (lascivi) (si vede) andare sopra una conchiglia (nicchio) e sembra che il cielo stesso ne gioisca (perché con Venere è nata la Bellezza). 36 Vera… venti: è sottolineato il perfetto illusionismo dell’opera artistica, anche grazie all’anafora. 37 l’Ore… confaccia: vedresti le Ore cam-
minare sulla sabbia (per accogliere Venere dal mare) con vesti bianche e il vento increspare i loro capelli sciolti e ondulati (lenti); (vedresti) che il loro volto non è identico, ma neppure diverso, come si addice tra sorelle. Le Ore, del corteggio di Venere, sono le dee dell’ordine regolare della natura e dell’avvicendarsi ciclico delle stagioni; il loro numero può variare, a seconda di come viene suddiviso il tempo; spesso sono tre, corrispondenti a una divisione dell’anno in tre stagioni, primavera, estate e inverno. Nel quadro di Botticelli dedicato alla Nascita di Vene-
re, ispirato dai versi di Poliziano, soltanto l’Ora della Primavera accoglie Venere. 38 uscissi: come i seguenti ricoprissi, si vestissi, fussi accolta è retto da Giurar potresti che… 39 il crino: i capelli. 40 dolce pome: il seno. 41 stampata… vestissi: premuta dal piede sacro e divino, la sabbia (potresti giurare) si rivestisse d’erbe e di fiori. 42 peregrino: nobile e prezioso. 43 di stellato… involta: avvolta da una veste ornata di stelle.
La visione classicistica della letteratura 1 105
102 Questa con ambe man le tien sospesa sopra l’umide trezze una ghirlanda d’oro e di gemme orientali accesa44, questa una perla alli orecchi accomanda45; l’altra al bel petto e’ bianchi omeri intesa, par che ricchi monili intorno spanda, de’ quai solien cerchiar lor proprie gole, quando nel ciel guidavon le carole46. 44 Questa… accesa: La prima delle tre Ore tiene sospesa sulle trecce umide una ghirlanda d’oro e gemme orientali. 45 questa… accomanda: quella le appende ai lobi orecchini di perla.
46 l’altra… carole: l’altra, intenta (ad abbellire) il bel petto e le bianche braccia, sembra circondarli di ricchi monili (cioè collane e bracciali), dei quali le Ore erano solite cingere il loro collo quando in cielo guidavano le danze.
Analisi del testo La descrizione di un mondo ideale Il regno di Venere è il regno ideale della natura, permeata dalla bellezza. La descrizione si ispira alla concezione neoplatonica ficiniana, secondo cui Dio si manifesta nel mondo attraverso la bellezza, che ispira l’amore; ma poiché la fonte prima della bellezza è Dio, l’uomo non si appaga dell’amore terreno e si eleva alla neoplatonica sfera delle idee e alla divinità. Il regno di Venere descritto da Poliziano corrisponde al mondo platonico delle idee: è collocato fuori dal mondo materiale, sull’isola di Cipro, racchiuso da un muro dorato che impedisce l’accesso ai mortali; è fuori dal tempo, senza alternanza di stagioni, immerso in un’eterna primavera.
La visione positiva della natura In tale luogo idillico Poliziano pone gli archetipi di fiori, piante e animali che, come nel mito dell’età dell’oro, convivono pacificamente, senza che i più deboli debbano temere i più feroci. La descrizione, condotta secondo la scala ascendente delle realtà naturali, mette in evidenza la bellezza di ciascuna; i riferimenti mitici ad amori fra uomini e dei (Narciso, Giacinto, Clizia, Adone) sottolineano che, come riteneva Ficino, la bellezza e l’amore uniscono il mondo umano e quello divino. Nella visione rinascimentale di Poliziano la natura, che riceve l’impronta della bellezza divina, appare come una forza totalmente positiva.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto di ogni ottava, poi organizza le sintesi in un breve testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Quali particolari caratterizzano il regno di Venere? E quali ne evidenziano la bellezza? ANALISI 3. Che cosa si può dire del tempo nel regno di Venere? A cosa è finalizzata tale rappresentazione?
Interpretare
SCRITTURA 4. Confronta le immagini presenti nelle ottave di Poliziano con la Nascita di Venere e la Primavera di Botticelli (➜ SGUARDO SULL’ARTE, PAG. 100) evidenziando analogie e differenze (max 15 righe).
106 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
Angelo Poliziano
T3
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino Rime, CII
A. Poliziano, Poesie italiane, a c. di S. Orlando, Rizzoli, Milano 1988
AUDIOLETTURA
Questa ballata (nota anche come “ballata delle rose”), che fa parte delle Rime di Poliziano, è una delle liriche più celebri dell’intera età umanistica. Vi si ritrova l’invito, caro ai classici, a cogliere le gioie dell’amore finché si è giovani. Il motivo è associato all’immagine tradizionale della rosa che presto sfiorisce e che va dunque colta quando è nel suo massimo splendore. L’io lirico, a cui appartiene la voce che descrive la scena, è identificato in una fanciulla che si rivolge alle sue compagne.
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio1 in un verde giardino. Eran d’intorno vïolette e gigli fra l’erba verde, e vaghi fior novelli2 5 azzurri gialli candidi e vermigli: ond’io porsi la mano a côr3 di quelli per adornar e mie’ biondi capelli e cinger di grillanda el vago crino4. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino. Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo5, vidi le rose, e non pur d’un colore6: io colsi allor per empir tutto el grembo, perch’era sì soave il loro odore che tutto mi senti’ destar el core 15 di dolce voglia7 e d’un piacer divino. 10
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino.
online
Per approfondire Dal “giardino paradiso” dell’età umanisticorinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi
I’ posi mente8: quelle rose allora mai non vi potre’ dir quant’eran belle: quale scoppiava della boccia9 ancora; 20 qual’eron un po’ passe e qual novelle10. Amor mi disse allor: «Va’, co’11 di quelle che più vedi fiorire in sullo spino». I’ mi trovai fanciulle, un bel mattino.
La metrica Ballata di endecasillabi secondo lo schema AB AB BX X; ripresa con rime XX
1 di mezzo maggio: alla metà di maggio. 2 vaghi fior novelli: bei fiori appena sbocciati.
3 côr: cogliere. 4 cinger... crino: inghirlandare i (miei) bei
8 I’ posi mente: Io fissai la mia attenzione. 9 scoppiava della boccia: era in piena
capelli; grillanda sta per “ghirlanda”.
fioritura. 10 qual’… novelle: alcune erano un po’ appassite e altre ancora in bocciolo. 11 Va’, co’: Vai, cogli.
5 un lembo: della veste. 6 non pur... colore: non di un solo colore. 7 voglia: desiderio amoroso.
La visione classicistica della letteratura 1 107
12 foglia: petalo. 13 mentre: fintantoché.
14 cogliàn: cogliamo (esortativo).
Quando la rosa ogni suo’ foglia12 spande, 25 quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a mettere in ghirlande, prima che sua bellezza sia fuggita: sicché, fanciulle, mentre13 è più fiorita, cogliàn14 la bella rosa del giardino. I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino. 30
Analisi del testo Una struttura narrativa L’io lirico a cui è affidata l’enunciazione della ballata (che è una fanciulla) rievoca una particolare situazione di cui è stata protagonista, colta in una sequenza temporale che conferisce al testo un andamento narrativo. Si succedono i seguenti avvenimenti: – Un mattino di primavera la fanciulla si è ritrovata in un giardino pieno di fiori, che ella coglie per intessere una ghirlanda con cui adornarsi i capelli. – La sua attenzione è quindi attratta in particolare dalle rose di vari colori, che ella coglie e il cui profumo suscita in lei una disposizione al piacere amoroso. – Alla constatazione della multiforme bellezza delle rose (alcune ancora in boccio, altre in piena fioritura, altre ancora già quasi sfiorite) segue l’invito di Amore, personificato come era consueto nella tradizione della poesia amorosa, a cogliere le rose che stanno fiorendo. – Chiude la lirica la riflessione della fanciulla sulla fugacità della bellezza (della rosa, ma anche, implicitamente, della giovinezza), alla quale consegue l’esortazione rivolta alle fanciulle a cogliere la rosa quando è più in fiore (e cioè a godere delle gioie amorose fino a che sono giovani).
Il topos del locus amoenus e la dimensione simbolica La strutturazione del messaggio in sequenze temporali sembrerebbe implicare un carattere realistico: in realtà già l’uso del passato remoto e la particolarità del verbo scelto per l’incipit («I’ mi trovai») rimandano a una dimensione favolosa, indeterminata. Il paesaggio naturale evocato, pur denso di particolari coloristici, risponde in realtà al topos letterario, di derivazione classica, del locus amoenus, consueto nella letteratura umanistico-rinascimentale (➜ PER APPROFONDIRE Il repertorio classicistico: alcuni esempi, PAG. 93). In questo contesto idilliaco si inserisce, poi, a incrinare sottilmente l’edonismo (➜ SCENARI, PAG. 29) che pervade la scena, il tema, sempre di derivazione classica, della caducità della giovinezza mediato dall’immagine della rosa che sfiorisce rapidamente.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Individua le parti di cui si compone il testo e sintetizza il contenuto di ognuna di esse. COMPRENSIONE 2. Quale funzione simbolica ha il riferimento alla rosa? LESSICO 3. Rintraccia, nella ballata, gli aggettivi che il poeta utilizza per descrivere il giardino. Poi indica e spiega, in un breve testo, per quali ragioni questa descrizione rimanda al topos del locus amoenus (max 15 righe).
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Svolgi un confronto fra questa ballata e la Canzona di Bacco di Lorenzo il Magnifico (➜ T1 ) sotto l’aspetto tematico e formale: quali analogie e quali differenze rilevi?
108 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
4 Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia La corte aragonese e l’Accademia Pontaniana Con Jacopo Sannazaro, autore di un’opera di risonanza europea, l’Arcadia, ci troviamo in un altro ambiente culturale dell’Italia quattrocentesca, ovvero la corte di Napoli, a cui imprime grande impulso la personalità di Alfonso d’Aragona. Alla sua corte affluiscono grandi personalità dell’umanesimo, come Lorenzo Valla e Giovanni Pontano. All’attività di quest’ultimo si lega l’Accademia Pontaniana, una delle più vivaci del tempo, della quale entra a far parte anche il Sannazaro. online
Per approfondire Miguel de Cervantes Don Chisciotte e Sancio Panza in Arcadia Parte II, cap. lxvii
online
Interpretazioni critiche Maria Corti Il codice bucolico e l’Arcadia di Sannazaro
Lessico ecloghe Componimenti realizzati in forma di dialogo, tipici della poesia di genere bucolico e con contenuti di carattere allegorico.
La vita Nato a Napoli nel 1457, Sannazaro vive l’infanzia e l’adolescenza nel feudo materno presso Salerno. Il contatto con una realtà lontana dalla civiltà cittadina e una natura primitiva e selvaggia non mancherà di influenzare il ragazzo, che al patrimonio di immagini e sensazioni assorbite in quegli anni attingerà nell’ideazione della sua Arcadia. Tornato a Napoli, si dedica allo studio del latino e del greco ed è accolto nell’Accademia del Pontano (assume, com’era in uso, un nome fittizio: Actius Syncerus). Quando il re di Francia Luigi XIII conquista il regno di Napoli (1501), Sannazaro segue Federico d’Aragona nell’esilio in Francia. Alla morte del re, rientra a Napoli dove muore (1530). L’Arcadia e il genere bucolico Pubblicata nella forma definitiva nel 1504 a Napoli, dopo una stesura durata oltre vent’anni, l’Arcadia ha subito grande successo (si avranno più di 60 edizioni nel solo Cinquecento), diventando il modello per la letteratura europea d’argomento pastorale. Alla fine del Seicento la più celebre delle Accademie assumerà proprio il nome di Arcadia. L’Arcadia è un “romanzo pastorale”, che si iscrive nel genere bucolico di grande fortuna nel secondo Quattrocento e che, in varie forme e con varie funzioni, percorre la letteratura italiana almeno fino al Settecento. Il genere bucolico, come si deduce dall’etimologia del termine, fa riferimento alla vita dei pastori (bucolico deriva dal latino bucolicus, a sua volta dal greco boukolikós “pastorale”), rappresentata però in modo non realistico, bensì fortemente stilizzato e idealizzato. Il primo modello di tale rappresentazione si ritrova in Teocrito, poeta siracusano di età ellenistica, autore di trenta idilli; ma fondamentali nella codificazione del “codice bucolico” sono soprattutto le Bucoliche, dieci ecloghe del poeta latino Virgilio (70-19 a.C.). La struttura e l’argomento L’Arcadia di Sannazaro è un prosimetrum (ovvero un’opera in parte in prosa, in parte in poesia): nella versione definitiva, pubblicata nel 1504, il lavoro è costituito da 12 parti narrative e 12 ecloghe. La trama mescola liberamente realtà e finzione su uno sfondo autobiografico, che viene in primo piano a partire dalla settima prosa, quando cioè l’autore esplicita la sua identificazione con Sincero, il pastore che rappresenta la voce narrante in prima persona. Mentre le prime sei prose descrivono il mondo dell’Arcadia (➜ T4 ), per evocare un clima, un’atmosfera, nella settima Sincero-Jacopo narra la propria vicenda personale: se n’è andato in Arcadia per sfuggire alle pene d’amore e lì vive con altri pastori e pastorelle, che guidano gli armenti e si dedicano a gare poetiche. Si intersecano nella principale vicenda, quella di Sincero, racconti minori dove si allude anche a fatti e persone della vita politica e culturale aragonese. Un sogno premonitore sulla morte dell’amata porta Sincero ad abbandonare l’Arcadia per tornare a Napoli attraverso un misterioso viaggio sotterraneo accompagnato da una ninfa. Giunto a destinazione, udirà il canto di due pastori per la La visione classicistica della letteratura 1 109
morte della donna amata. Conclude l’opera l’annuncio dell’abbandono della poesia pastorale da parte del poeta (➜ T5 OL). Perché la cultura umanistica recupera il mito arcadico? Nella realtà l’Arcadia era una regione del Peloponneso, montuosa e inospitale, ma nella rappresentazione letteraria viene trasformata in un luogo idillico, quasi fuori dal tempo e dallo spazio, nel quale è possibile vivere felici in modo semplice e naturale all’interno di una dimensione alternativa alla durezza della vita, alla sofferenza, alla guerra. La ripresa in età umanistica di questo mito di evasione può essere spiegata con il progressivo distacco dalla realtà degli intellettuali, isolati nel microcosmo della corte: la frattura tra una cultura elitaria, sempre più raffinata e aristocratica, e il gusto della gente comune che caratterizza l’età umanistico-rinascimentale, il progressivo disinteresse per i temi politici, l’abdicazione a una funzione civile della letteratura possono ben spiegare scelte tematiche come quelle della letteratura pastorale. Essa è, evidentemente, destinata per sua natura a un pubblico ristretto, capace di cogliere le sottili allusioni alla vita stessa della corte celate al di sotto del codice bucolico. Un codice in cui il mondo della campagna, come si è detto, è raffigurato in modo idilliaco (al contrario di quanto avviene, ad esempio, nei testi teatrali di Ruzante, che ritraggono la vita dei contadini nella durezza della vita quotidiana (➜ C7).
Jacopo Sannazaro
T4
L’evocazione di un mondo idillico fuori dal tempo Arcadia
J. Sannazaro, Arcadia, in Opere volgari, a c. di A. Mauro, Laterza, Bari 1961
La prima prosa dell’Arcadia, posta dopo un prologo iniziale, è dedicata alla descrizione del luogo in cui Sannazaro ambienta il suo romanzo pastorale. Nell’immaginario letterario, a partire dalle Bucoliche virgiliane, l’Arcadia diviene un luogo idillico e incontaminato, al riparo dai guasti della civiltà, in cui gli uomini vivono come nella mitica età dell’oro.
Giace nella sommità di Partenio, non umile1 monte de la pastorale Arcadia, un dilettevole piano, di ampiezza non molto spazioso però che2 il sito del luogo nol consente, ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive3 pecorelle con gli avidi morsi non vi pascesseno4, vi si potrebbe di ogni tempo ritrovare ver5 dura5. Ove, se io non mi inganno, son forse dodici o quindici alberi, di tanto strana et eccessiva6 bellezza, che chiunque li vedesse, giudicarebbe che la maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli7. Li quali alquanto distanti, et in ordine non artificioso8 disposti, con la loro rarità la naturale bellezza del luogo oltra misura annobiliscono9. Quivi senza nodo veruno10 si vede il drittissimo abete, nato 10 a sustinere i pericoli del mare11; e con più aperti rami la robusta quercia e l’alto 1 non umile: alto. È una litote. 2 però che: dato che. 3 lascive: sfrenate per l’irrequietezza. 4 pascesseno: pascolassero. 5 verdura: vegetazione. 6 strana et eccessiva: insolita ed eccezionale.
7 giudicarebbe… formarli: riterrebbe che la natura avesse operato con intenzione
artistica per dare loro forma, in modo piacevolissimo. 8 non artificioso: naturale. È una litote. 9 annobiliscono: rendono nobile. Il verbo, posto alla fine del periodo con una costruzione sintattica latineggiante, sottolinea come il luogo sia naturale, ma nobilitato da una bellezza raffinata e quasi artistica.
110 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
10 senza nodo veruno: senza nodosità. 11 nato… mare: naturalmente adatto per affrontare (sustinere) i pericoli della navigazione. Cioè adatto per costruire navi; la descrizione dell’abete, come quella degli altri alberi, ricorda da vicino il Regno di Venere e di Amore di Poliziano, I 82,1-2: «Cresce l’abeto schietto e sanza nocchi / da spander l’ale a Borea in mezzo l’onde».
frassino e lo amenissimo platano vi si distendono, con le loro ombre non picciola parte del bello e copioso12 prato occupando. Et èvi13 con più breve fronda l’albero, di che Ercule coronar si solea, nel cui pedale le misere figliuole di Climene furono transformate14. Et in un de’ lati si scerne15 il noderoso castagno, il fronzuto bosso e 15 con puntate16 foglie lo eccelso17 pino carico di durissimi frutti; ne l’altro lo ombroso faggio, la incorruttibile tiglia18 e ’l fragile tamarisco19, insieme con la orientale palma, dolce et onorato premio de’ vincitori. Ma fra tutti nel mezzo presso un chiaro fonte sorge verso il cielo un dritto cipresso, veracissimo imitatore de le alte mete20, nel quale non che Ciparisso, ma, se dir conviensi, esso Apollo non si sdegnarebbe 20 essere transfigurato21. Né sono le dette piante sì discortesi22, che del tutto con le lor ombre vieteno i raggi del sole entrare23 nel dilettoso boschetto; anzi per diverse parti sì graziosamente gli riceveno24, che rara è quella erbetta che da quelli non prenda grandissima recreazione25. E come che di ogni tempo piacevole stanza vi sia26, ne la fiorita primavera più che in tutto il restante anno piacevolissima vi si ritruova. 25 In questo così fatto luogo sogliono sovente i pastori con li loro greggi dagli vicini monti convenire27, e quivi in diverse e non leggiere pruove28 esercitarse29; sì come in lanciare il grave palo30, in trare con gli archi al versaglio31, et in addestrarse nei lievi salti e ne le forti lotte, piene di rusticane insidie32; e ’l più de le volte in cantare et in sonare le sampogne a pruova l’un de l’altro, non senza pregio e lode del vincitore33. 12 copioso: ricco d’erba. 13 Et èvi: E vi è. 14 l’albero… transformate: l’albero (il pioppo) di cui Ercole soleva incoronarsi e nel cui tronco (pedale) furono trasformate le infelici figlie di Climene. Le fanciulle furono trasformate dopo aver pianto in modo inconsolabile il fratello Fetonte che, incapace di guidare il carro del Sole, era morto precipitando nel Po (il mito è narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, II, vv. 340-366). 15 si scerne: si distingue. 16 puntate: appuntite, aghiformi. 17 eccelso: altissimo. 18 tiglia: tiglio. È femminile, a imitazione del latino, in cui i nomi delle piante sono femminili; incorruttibile per la durezza del suo legno. 19 tamarisco: altro nome della tamerice. 20 imitatore… mete: simile a cuspidi, guglie, obelischi. 21 nel quale… transfigurato: nel quale non soltanto Ciparisso ma, se è lecito dirlo, lo stesso (esso) Apollo non disprezzerebbe di essere trasformato. Secondo il mito narrato da Ovidio nelle Metamorfosi (X, vv. 106-142), Ciparisso era un giovane amato da Apollo; avendo per errore ucciso un cervo sacro, se ne disperò fino a morire; Apollo, allora, lo trasformò nella pianta mortuaria, vicina a chi soffre. 22 discortesi: scortesi. 23 vieteno… entrare: impediscano ai raggi del sole di entrare. 24 gli riceveno: li ricevono. 25 da quelli… recreazione: da quelli (i raggi del sole) non riceva grandissimo sollievo (riprendendo vigore per l’ombrosa frescura).
26 come che… sia: sebbene il soggiorno
32 rusticane insidie: attacchi rustici,
in quel luogo sia piacevole in ogni tempo. 27 convenire: radunarsi. 28 non leggiere pruove: gare impegnative. È una litote. 29 esercitarse: esercitarsi. 30 il grave palo: il pesante giavellotto. 31 in trare… versaglio: nel tirare al bersaglio (versaglio: consonantismo meridionale) con gli archi.
contadineschi (non perfezionati dalla tecnica). 33 ’l più… vincitore: più spesso (si esercitavano) nel cantare e nel suonare a gara (a pruova, con allusione al canto amebeo delle egloghe, cioè al canto alternato di due pastori) le zampogne, approvando e lodando il vincitore.
Sandro Botticelli, Venere e le tre Grazie offrono doni a una giovane, affresco, 1486 ca. (Museo del Louvre, Parigi).
La visione classicistica della letteratura 1 111
Analisi del testo Il mondo idillico dell’Arcadia Il testo, posto all’inizio dell’Arcadia, è prevalentemente descrittivo: presenta le caratteristiche del luogo arcadico e le occupazioni dei pastori che vi soggiornano. Il luogo, chiuso e isolato, è caratterizzato da un’incantata e idillica serenità; è fresco e ombroso, ameno e piacevole. Il catalogo delle piante che vi si trovano, con le loro connotazioni di bellezza e armonia, e con l’evocazione dei miti ad esse legate, ricorda il Regno di Venere e dell’Amore di Poliziano, con una differenza: mentre al regno di Venere i mortali non possono accedere, qui i pastori arcadi si radunano, dedicandosi a varie attività. Come si nota già nella prosa iniziale, nessuna di queste occupazioni è però lavorativa, ma tutte sono intese al piacere e allo svago. L’Arcadia di Sannazaro, che per la prima volta raccoglie in un romanzo gli spunti offerti da una lunga tradizione di poesia bucolica, appare così come un mondo alternativo a quello reale, simile a quello mitico dell’età dell’oro. In Arcadia gli uomini sono semplici e buoni, e vivono senza preoccupazioni pratiche, in armonia con la natura; non vi sono conflitti, né ambizioni e rivalità, né guerre e violenze, ma amicizia, lealtà e gentilezza reciproche. L’Arcadia rappresenta perciò un’“isola” di convivenza armoniosa e pacifica in cui si rifugia chi, come gli innamorati infelici e i poeti, è troppo sensibile per affrontare il mondo reale.
La lingua e lo stile Caratteristica stilistica fondamentale dell’Arcadia è la musicalità, evidente nel ritmo lento, estatico e incantato nel brano, in cui, a rallentare la cadenza, predominano gli aggettivi (per lo più anteposti ai nomi e spesso al grado superlativo, con un effetto musicale di rima: verdissima, drittissimo, amenissimo), gli incisi («se io non mi inganno»), le litoti. Le connotazioni idilliche del paesaggio sono sottolineate dai numerosi termini appartenenti ai campi semantici della bellezza e del piacere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del brano (max 10 righe). ANALISI 2. Rintraccia, nel brano, i frequenti richiami alla mitologia classica. Quale funzione assolvono nel testo? 3. Con quali caratteristiche è descritto il locus amoenus? Individua nel testo gli schemi convenzionali che fanno del paesaggio un topos letterario.
Interpretare
LETTERATURA E NOI 4. Alla fortuna del mito dell’Arcadia corrisponde il bisogno di evasione da una difficile realtà storica verso una dimensione idillica. Pensi che esistano dei corrispettivi moderni del mito arcadico? E a quali bisogni sociali ti sembrano corrispondere? Dopo aver riflettuto sul tema, svolgi le tue considerazioni in un testo argomentativo.
online T5 Jacopo Sannazaro La morte dell’Arcadia: l’epilogo funereo dell’opera Arcadia
112 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
5 La civiltà del trattato Il trattato Nell’età umanistico-rinascimentale il genere letterario dominante è il trattato, anch’esso di derivazione classica. Nel periodo umanistico si utilizza il latino e i temi ricorrenti si ricollegano alla visione antropocentrica: la dignità dell’uomo e la sua centralità nell’universo; la formazione culturale e l’educazione; il tema politico. In volgare sono scritti I libri della famiglia di Leon Battista Alberti, composti tra gli anni Trenta e Quaranta del Quattrocento. Argomenti e struttura Nel primo Cinquecento emerge la discussione sui modelli di comportamento riconducibili al posto centrale che nella società e nell’immaginario assume la figura del cortigiano. Si diffondono inoltre trattati sul tema dell’amore o sulla questione della lingua che gli scrittori debbano usare. I trattati prodotti nell’età umanistico-rinascimentale sono in genere strutturati sul dialogo tra più personaggi, reali figure della scena culturale, ognuno dei quali si fa portavoce di una determinata posizione ideologica.
Il trattato Gli Asolani e la divulgazione dell’amor platonico La rappresentazione dell’amore Nella letteratura dell’epoca ha un posto rilevante, anche grazie al fenomeno del petrarchismo (➜ C2), una rappresentazione idealizzante dell’amore, influenzata dalla filosofia neoplatonica. Nel sancire la preminenza di questo modello ha un ruolo di primo piano Pietro Bembo, vero protagonista del dibattito letterario del primo Rinascimento: con il trattato Gli Asolani, l’intellettuale propone una visione spiritualizzata e cristiana dell’amore; con le Rime avvia il fenomeno del petrarchismo nella lirica; con le Prose della volgar lingua, infine, come si è visto, impone per la lingua letteraria il modello del fiorentino (➜ SCENARI, PAG. 70). Gli Asolani Pubblicato nel 1505 da Aldo Manuzio (una seconda edizione, riveduta, si avrà nel 1530) Gli Asolani costituiscono il trattato sull’amore più importante e più noto.
Tiziano Vecellio, Amor sacro e Amor profano, olio su tela, 1515-1516 (Galleria Borghese, Roma).
La visione classicistica della letteratura 1 113
Il dialogo, in tre libri, si immagina avvenuto ad Asolo (da qui il titolo) alla corte di Caterina Cornaro, regina di Cipro esule nel territorio veneziano. Vengono messe a confronto diverse tesi riguardo all’amore, affidate a differenti portavoce, senza che l’autore prenda espressamente posizione per una di esse, come è frequente nel trattato umanistico-rinascimentale. Nel primo libro Perottino enuncia la tesi della negatività dell’amore, che provoca sofferenza; nel secondo Gismondo contesta la tesi che l’amore provochi infelicità ed esalta la gioia amorosa; nel terzo Lavinello confuta le tesi precedenti, cercando di distinguere l’amore malvagio (quello sensuale, destinato a provocare sofferenza) dall’amore buono. Riguardo a quest’ultimo, Lavinello si fa portavoce della concezione neoplatonica del sentimento: esso è contemplazione intellettuale della bellezza ideale di cui in vario modo sono partecipi i corpi e le anime delle creature terrene. Nella seconda parte del terzo libro, Lavinello riporta infine la posizione di un eremita, che considera l’amore come desiderio di bellezza, sebbene non di quella terrena, bensì della bellezza divina e trascendente, la sola che può veramente appagare l’anima immortale dell’uomo (➜ T6 ). Anche se l’autore non prende una netta posizione, è indicativa di per sé la particolare collocazione delle diverse tesi nel trattato, che implica la progressione verso una spiritualizzazione sempre più accentuata del sentimento amoroso. Al lettore resta impressa più delle altre l’ultima posizione, cioè la severa visione dell’amore enunciata dall’eremita e il suo ammonimento a Lavinello (ma indirettamente ai lettori) a rivolgersi all’immensità di Dio anziché alle illusorie bellezze terrene.
Pietro Bembo Gli Asolani
pubblicato nel 1505; seconda edizione nel 1530
verso una concezione spiritualizzata dell’amore
opera in 3 libri
3 personaggi, 3 tesi sull’amore
114 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
poemetto ricco di rimandi classici ed elementi neoplatonici
Pietro Bembo
T6
L’amore spiritualizzato Gli Asolani III, xvii passim
P. Bembo, Gli Asolani, Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Utet, Torino 1960
Lavinello, uno degli interlocutori, ha appena esposto la teoria platonica dell’amore come desiderio di bellezza ideale. Un eremita, di cui Lavinello riporta le parole, si fa sostenitore di una concezione dell’amore che ne accentua ulteriormente la dimensione spirituale, proiettando l’amore terreno verso l’amore divino. Ecco una parte del discorso dell’eremita.
E per venire, Lavinello, eziandio a’ tuoi amori1, io di certo gli loderei e passerei nella tua opinione in parte, se essi a disiderio di più giovevole obbietto t’invitassero, che quello non è, che essi ti mettono innanzi, e non tanto per sé soli ti piacessero, quanto perciò che essi ci possono a miglior segno fare e meno fallibile intesi2. Perciò 5 che non è il buono amore disio solamente di bellezza, come tu stimi, ma è della vera bellezza disio3; e la vera bellezza non è umana e mortale, che mancar possa4, ma è divina e immortale, alla qual per avventura ci possono queste bellezze inalzare, che tu lodi, dove elle sieno in quella maniera, che essere debbono, riguardate5. [...] Essi, perciò che sono immortali, di cosa che mortal sia non si possono contentare6. 10 Ma perciò che sì come dal sole prendono tutte le stelle luce, così quanto è di bello oltra lei dalla divina eterna bellezza prende qualità e stato7, quando di queste alcuna ne vien loro innanzi8, bene piacciono esse loro e volentieri le mirano, in quanto di quella sono immagini e lumicini9, ma non se ne contentano né se ne sodisfano tuttavia10, pure della eterna e divina, di cui esse sovengono loro e che a cercar di 15 se medesima sempre con occulto pungimento gli stimola, desiderosi e vaghi11. Perché sì come quando qualcuno, in voglia di mangiare preso dal sonno e di mangiar sognandosi, non si satolla […] così noi, mentre la vera bellezza e il vero piacere cerchiamo, che qui non sono, le loro ombre che in queste bellezze corporali terrene e in questi piaceri ci si dimostrano aggogniando, non pasciamo l’animo ma 20 lo inganniamo12.
1 per venire... a’ tuoi amori: per parlare adesso anche della visione dell’amore da te enunciata. 2 se essi... intesi: se essi (gli amori) t’invitassero a desiderare un oggetto che ti recasse più giovamento (giovevole obbietto) di quello che invece ti prospettano (ti mettono innanzi) e ti piacessero non tanto per sé stessi, quanto perché ci possono far tendere (fare... intesi) a un fine (segno) migliore e meno ingannevole. 3 Perciò che... disio: Poiché l’amore elevato (il buono amore) non è soltanto desiderio di bellezza, come tu credi, ma è desiderio della vera bellezza. La precisazione è fondamentale per definire la posizione dell’eremita riguardo al tema. 4 che mancar possa: tale che possa venir meno.
5 dove elle… riguardate: qualora esse (cioè le bellezze terrene) siano contemplate nella maniera dovuta. 6 Essi, perciò che… contentare: Poiché essi (cioè i nostri animi) sono immortali, non possono essere appagati da una cosa mortale. 7 Ma perciò… qualità e stato: ma poiché, come tutte le stelle prendono luce dal sole, così quanto esiste di bello al di là di essa (della divina eterna bellezza), da essa prende qualità e stato. 8 quando… innanzi: quando qualcuna di queste bellezze terrene si presenta agli animi. 9 di quella… lumicini: sono immagini e barlumi della bellezza divina. 10 ma non se ne… tuttavia: ma non possono né accontentarsi né appagarsi.
11 pure… vaghi: desiderosi e bramosi solo della bellezza eterna e divina, di cui esse (le bellezze terrene) risvegliano il ricordo e che con un invisibile pungolo induce sempre gli animi a ricercarla. 12 Perché sì come... lo inganniamo: Perché, come quando qualcuno, sorpreso dal sonno mentre ha desiderio (in voglia di) di mangiare e sognando di farlo, non si sazia; così, mentre cerchiamo la vera bellezza e il vero piacere, che non si trovano sulla terra, non saziamo l’animo ma lo inganniamo desiderando ardentemente (aggogniando) le parvenze della bellezza vera e del vero piacere (le loro ombre) che in queste bellezze fisiche terrene e in questi piaceri ci si presentano.
La visione classicistica della letteratura 1 115
Analisi del testo Tra platonismo e ascetismo medievale Nelle parole dell’eremita non manca l’influenza della concezione platonica, ma ad essa si associa la riproposizione della tradizione ascetica medievale. Alla visione dell’amore come desiderio di bellezza ideale, esposta da Lavinello, l’eremita contrappone la precisazione che l’amore è desiderio di vera bellezza, che non appartiene alla dimensione terrena, dove tutto è caduco e instabile, per quanto armoniosa possa essere la bellezza contemplata. Le bellezze terrene sono solo barlumi (immagini e lumicini) dell’eterna bellezza e non possono appagare l’uomo, che deve guardare oltre di esse. L’eremita propone dunque un passaggio ulteriore rispetto al neoplatonismo di Lavinello, riconducendo l’amore alla dimensione cristiano-trascendente.
Uno stile classicheggiante Lo stile è ispirato a un ideale estetico di raffinata armonia: la sintassi, latineggiante, segnata da inversioni che conferiscono un andamento ritmico alla frase, è modellata su quella del Boccaccio, che il Bembo nelle Prose della volgar lingua considererà l’esempio più alto per la prosa volgare; il lessico è scelto e ricercato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Come può essere sintetizzata la tesi dell’eremita sulla concezione dell’amore? LESSICO 2. Trasponi in italiano attuale il passo da «Essi, perciò che» a «desiderosi e vaghi» (rr. 9-15). Quali accorgimenti hai dovuto operare? Come hai proceduto nel tuo lavoro? STILE 3. Individua i paragoni con cui l’eremita, nelle rr. 10-20, sostiene la propria argomentazione. Che cosa vogliono dimostrare?
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. L’eremita in parte condivide e in parte critica le posizioni di Lavinello. Quale componente ascetico-medievale persiste nel discorso dell’eremita? Argomenta la tua risposta facendo riferimenti al testo.
Il Cortegiano di Baldesar Castiglione: l’identikit del perfetto gentiluomo di corte La biografia Appartenente a una famiglia della nobiltà feudale padana (come già Boiardo e l’umanista Pico della Mirandola), Baldesar Castiglione (1478-1529) si dedica in modo approfondito agli studi umanistici. Frequenta la corte di Ludovico il Moro a Milano, nello stesso periodo in cui vi opera anche Leonardo come regista di celebrate scenografie per le feste di corte. Entra poi al servizio della corte di Mantova e in seguito di quella di Urbino, che costituisce lo sfondo del trattato del Cortegiano; soprattutto al servizio dei Della Rovere, signori di Urbino, riveste ruoli diplomatici importanti. Nel 1516 torna presso i Gonzaga e lo attendono nuovi difficili incarichi in uno scenario politico sempre più fosco. Decide allora di mettersi al riparo dall’incertezza della situazione politica: intraprende la carriera ecclesiastica e si pone al servizio della diplomazia papale, ricoprendo incarichi prestigiosi e di grande responsabilità. Nel 1524 è nunzio pontificio presso Carlo V. Quando Castiglione muore a Toledo nel 1529, due anni dopo il sacco di Roma (che fu accusato di non aver saputo prevedere), l’imperatore in persona piange la morte di «uno dei migliori cavalieri del mondo».
116 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
Il perfetto cortigiano Il libro del Cortegiano è un trattato che si propone di descrivere la figura del perfetto cortigiano: il modello umano presentato dal Castiglione sintetizza le qualità ritenute importanti in quel tempo e risulta sicuramente idealizzato, ma questo non vuol dire che non abbia effettivi riscontri oggettivi, che l’autore ben conosceva per aver prestato servizio in varie corti italiane e straniere. La scelta dialogica e la figura simbolica del cerchio Il Cortegiano è un trattato dialogico, una tipologia testuale molto praticata nell’età umanistico-rinascimentale e non certo a caso: la cultura di corte amava infatti autorappresentarsi nella consuetudine ad essa più congeniale, ovvero nella “civile conversazione”, garbato scambio di idee tra persone simili per cultura e stile di vita. Quasi a rimarcare la comune identità degli interlocutori (tutti appartenenti alla medesima realtà) e l’armonica coesione del gruppo, Castiglione (e lo stesso fa il Bembo negli Asolani) fa sedere i protagonisti in cerchio, proprio come i giovani della brigata del Decameron :«ognuno si ponea a sedere a piacer suo, o come la sorte portava, in cerchio».
Raffaello, Baldesar Castiglione, olio su tela, 1514-1515, (Louvre-Lens, Lens).
Il tempo, il luogo, l’occasione, gli interlocutori Il dialogo è ambientato alla corte di Urbino, in cui l’autore aveva vissuto anni felici, in un tempo (1507) ormai lontano da quello in cui scrive: da qui l’affiorare di un tono qua e là malinconico, da qui anche l’immagine idealizzata di quel mondo come luogo perfetto e armonioso che apre l’opera (➜ SCENARI, D11a ). Il dialogo è iscritto in un contesto situazionale preciso: una sera, alla corte di Urbino, ci si chiede come passare piacevolmente la serata e si decide di accettare la proposta di uno dei cortigiani, Federico Fregoso, di definire la figura del perfetto cortigiano. La conversazione, alleggerita da varie digressioni e motti piacevoli, si svolge sempre di sera (in tutto quattro serate), in una sorta di tempo sospeso, lontano dagli impegni della vita pratica, legandosi strettamente alla dimensione della festa, che segue sempre i dialoghi. Le conversazioni riprodotte nel trattato si svolgono nelle stanze private della duchessa Elisabetta: una scelta che testimonia il ruolo di primo piano che la gentildonna, la donna di palazzo, esercitava all’interno della corte rinascimentale (➜ PER APPROFONDIRE Il libro del cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei, PAG. 118). Tra gli interlocutori figurano personaggi illustri del tempo come Giuliano de’ Medici, il Bembo e il Bibbiena (non figura invece l’autore, che si trova in Inghilterra nel periodo in cui si immagina avvenuto il dialogo). Le qualità del perfetto cortigiano L’obiettivo ambizioso nel trattato è quello di offrire un modello umano in grado di costituire un punto di riferimento comportamentale per l’aristocrazia. Il cortigiano perfetto (tratteggiato nei primi due libri) unisce le tradizionali competenze del cavaliere (la perizia nelle armi) alle nuove competenze che venivano esaltate dalla pedagogia umanistica: infatti deve possedere una cultura in ambito letterario, artistico e filosofico, ma deve anche saper suonare e danzare (la musica e la danza avevano un ruolo assai rilevante nelle feste della corte). Le prerogative più importanti sono il costante autocontrollo, il senso della misura, l’equilibrio; i difetti peggiori l’esibizionismo e l’affettazione, cui viene
La visione classicistica della letteratura 1 117
contrapposta la virtù positiva della sprezzatura (neologismo dell’autore), una disinvoltura che fa sembrare naturale e spontaneo ciò che invece può essere frutto di studio e impegno: una qualità sofisticata, che può forse essere resa dal francese nonchalance (➜ T7a ). Secondo il critico Giorgio Patrizi, il Cortegiano può essere letto come immagine metaforica di un’epoca in cui sono i valori estetici a fondare quelli etici, in cui anche il comportamento diventa “arte”, l’apparire è fondamentale rispetto all’essere e un gesto, un atteggiamento sono valutati sulla base dell’effetto che producono. Il ruolo politico del cortigiano-consigliere del principe Nel quarto libro si parla dei rapporti tra il principe e il cortigiano, che si qualifica in questa parte del trattato come consigliere fidato del principe, con il difficile compito di indirizzare le sue scelte politiche verso il bene, la giustizia, la pace (➜ T7b ). Anche questa parte del trattato rispecchia la realtà del tempo: l’intellettuale di corte era infatti spesso anche un diplomatico (come lo stesso Castiglione). Ai governanti erano richieste particolari abilità nelle relazioni politiche, il che li induceva a ricorrere a persone colte e avvedute, competenti nello scrivere e nel parlare: nella difficile situazione italiana, la diplomazia si qualificava infatti sempre di più come strumento fondamentale per mantenere l’equilibrio tra le diverse potenze. Due importanti digressioni Lo stretto legame che l’opera del Castiglione stabilisce con la cultura rinascimentale si evidenzia attraverso la presenza nell’opera (rispettivamente nel I e IV libro) di due digressioni che riguardano altrettanti nodi fondamentali del dibattito culturale coevo: la questione della lingua e il tema dell’amore platonico. Per quanto riguarda la questione della lingua (➜ SCENARI, PAG. 70), la posizione del Castiglione differisce notevolmente dalla tesi sostenuta dal Bembo (che è a favore di una lingua arcaizzante modellata sui grandi trecentisti toscani): per l’autore del Cortegiano, occorre privilegiare – sia nell’uso letterario sia in quello quotidiano – la lingua che deriva dall’apporto linguistico di tutte le corti d’Italia (è la tesi della cosiddetta lingua “cortigiana”). Per quanto riguarda il tema dell’amore platonico, certamente centrale anche nelle reali conversazioni di corte, proprio a Pietro Bembo (autore dell’opera Gli Asolani) è messa in bocca la difesa dell’amore platonico, mezzo di elevazione per l’uomo che, contemplando la bellezza, può innalzarsi alla conoscenza del sommo Bene.
PER APPROFONDIRE
I trattati sul comportamento delle donne Nel generale processo di raffinamento dei costumi che caratterizza le corti italiane tra Quattrocento e Cinquecento, svolgono un ruolo di primo piano le donne della corte, a cominciare dalle principesse e duchesse, consorti dei signori. La “civiltà delle buone maniere”, che trasforma il
Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei Nel 1528 il tipografo Aldo Manuzio stampa a Venezia, in un’elegante edizione, Il libro del Cortegiano di Baldesar Castiglione, portato a compimento dopo una lunga e laboriosa elaborazione (1513-1524). La diffusione dell’opera in Italia fu vasta e rapida, ma davvero incredibile fu il successo del trattato all’estero: 60 edizioni tra il 1528 e il 1619 nelle principali lingue del continente, un best seller europeo! Molti peraltro lessero il trattato in italiano: nel Cinquecento il mito della cultura italiana rendeva quasi obbligatorio conoscere la
nostra lingua se si voleva essere considerati persone colte. Lo lesse entusiasta Carlo V, lo lessero Montaigne, Thomas Cromwell, Cervantes e centinaia di diplomatici e umanisti circolanti nelle varie corti europee. Il trattato di Castiglione contribuì così in modo determinante a formare il prototipo del gentiluomo di mondo, fornendo alle aristocrazie europee un codice di comportamento elegante e raffinato e contribuendo a diffondere l’immagine del Rinascimento italiano come modello insuperabile di civiltà.
118 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
cavaliere in garbato cortigiano, dall’Italia si diffonde in tutta Europa anche grazie alle principesse andate spose a sovrani europei: ad esempio Beatrice d’Aragona, sposa del re d’Ungheria. Della “donna di palazzo” parla espressamente il terzo libro del Cortegiano e, del resto, dalla fine del Quattrocento in avanti sono molto diffusi i trattati che teorizzano le modalità del comportamento femminile, sempre attraverso un processo di marcata idealizzazione. Molto vicino cronologicamente al Cortegiano è il trattato di Galeazzo Flavio Capella, Della eccellenza et dignità delle donne, stampato a Venezia nel 1526, il De la Nobiltà e preccellentia del femminile sesso (forse 1530) di Heinrich Cornelius Agrippa, il Dialogo della bella creanza delle donne (1539) di Alessandro Piccolomini, La nobiltà delle donne (1549) di Ludovico Domenichi e altri ancora. Influenti donne di palazzo La donna di palazzo che più è capace di contrassegnare, con la sua personalità, la vita della corte è la colta Isabella d’Este (➜ EDUCAZIONE CIVICA Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este, PAG. 121); altre influenti figure femminili sono: Beatrice d’Este, sorella di Isabella e sposa di Ludovico il Moro a Milano; Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino (➜ SCENARI, D11a ) celebrata nel Cortegiano; la celeberrima Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara; Veronica Gambara, una poetessa che, dopo la morte del marito, anima la piccola corte di Correggio. Nell’isolotto di Asolo la veneziana Caterina Cornaro tiene una corte frequentata da letterati prestigiosi come Pietro Bembo, il quale ambienta il suo trattato dialogico sul tema dell’amore, gli Asolani, proprio qui. L’educazione di queste gentildonne non ha nulla da invidiare a quella degli umanisti, ma occorre ricordare che le donne erudite costituiscono pur sempre un’eccezione. Pontormo, Ritratto di monsignor Della Casa, olio su tavola, 1540-1543 ca. (National Gallery of Art, Washington).
Giovanni Della Casa e il Galateo: la “civiltà delle buone maniere” La biografia Giovanni Della Casa (1503-1556) di nobile famiglia fiorentina, dopo gli studi giuridici e letterari, nel 1529 si trasferisce a Roma, dove inizia la carriera ecclesiastica; diventa vescovo, poi nunzio apostolico a Venezia e infine segretario di stato a Roma su nomina di Paolo IV. In ambito ecclesiale svolge importanti ruoli, combattendo aspramente le prime tendenze riformistiche. Muore nel 1556. È autore di rime petrarchesche, ma la sua fama è legata soprattutto al Galateo, pubblicato postumo nel 1558. Un trattato sul comportamento corretto Il Galateo di Giovanni Della Casa è un trattato sul modo corretto di comportarsi in società. Deve il suo nome al personaggio cui l’opera è dedicata: il vescovo Galeazzo (in latino Galatheus) Florimonte. Il Galateo ebbe così ampia fortuna nel tempo che ancora oggi usiamo il termine galateo come sinonimo di “buone maniere”. Nella finzione letteraria l’autore immagina che un vecchio illetterato (cioè poco istruito) insegni a un ragazzo come comportarsi adeguatamente nelle diverse occasioni della vita quotidiana. La visione classicistica della letteratura 1 119
Il tono e gli scopi dell’opera Il tono del discorso è volutamente colloquiale, in rapporto all’obiettivo dell’opera, meno ambizioso rispetto al Cortegiano: il Galateo si rivolge infatti non solo al gentiluomo di corte, ma a un campione sociale più ampio e vario (che non esclude la borghesia). Esso, inoltre, ha una finalità soprattutto pratica: presentare, cioè, un insieme di norme e usanze cui l’individuo deve adeguarsi se vuole essere considerato una persona bene educata ed essere ben accolto in società (➜ T8a-b ). Nella civiltà rinascimentale è molto importante l’approvazione del consesso civile: da qui l’esplicito invito del Della Casa al conformismo, necessario per poter raggiungere il successo. Una minuziosa precettistica I dettagliati precetti enunciati nel breve trattato riguardano le più comuni occasioni, come il comportamento a tavola, i modi di conversare, le forme del vestire, le norme igieniche più elementari ma evidentemente non così usuali a quel tempo, se è vero, come osserva lo storico britannico Peter Burke, che furono le corti italiane a diffondere l’uso della forchetta, dello spazzolino da denti e del dentifricio: tutte cose necessarie se si vuole essere accettati e apprezzati in società.
I trattati sul comportamento Baldesar Castiglione (1478-1529)
Giovanni Della Casa (1503-1556)
Il Cortegiano
Galateo
pubblicato nel 1528
pubblicato nel 1558
opera di riferimento per l’aristocrazia
opera di riferimento per aristocrazia e borghesia
trattato sulla figura del perfetto cortigiano, valente cavaliere ma anche uomo elegante e colto
trattato per insegnare le buone maniere
Fissare i concetti La visione classicistica della letteratura 1. Quali sono i principi chiave del classicismo? 2. Quale ruolo ebbe la Poetica di Aristotele? 3. Quali sono e in che cosa consistono le tre unità aristoteliche? 4. Che cosa sono i Canti carnascialeschi? Chi ha scritto il Trionfo di Bacco e Arianna? 5. Quali sono i due avvenimenti che portano Poliziano d interrompere la stesura delle Stanze? 6. A quale genere appartiene la Fabula di Orfeo? 7. Qual è la struttura e l’argomento dell’Arcadia di Sannazaro? 8. Come sono strutturati i trattati? 9. Quale visione dell’amore propone Bembo nel trattato Gli Asolani? 10. Qual è lo scopo che si prefigge Castiglione nel redigere il Cortegiano? 11. Quali qualità deve possedere il perfetto cortigiano? 12. Qual è il contenuto del Galateo di Giovanni Della Casa?
120 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este Nel trattato di Castiglione i pregiudizi misogini che erano radicati nella cultura medievale sono ormai considerati anacronistici e viene valorizzata la “donna di palazzo”, a cui è dedicato il libro III. Mentre nella tradizione medievale clericale l’immagine della donna è prevalentemente collegata al “disordine”, al “turbamento”, nel Cortegiano la figura femminile diventa invece specchio dell’immagine armonica e perfetta della corte; il suo ruolo è quello di rinsaldare e armonizzare, con il carisma, il gruppo. Nel ritratto della gentildonna, l’autore focalizza soprattutto la sua attenzione sulle qualità sociali, relazionali, che ne consacrano il ruolo pubblico entro la corte: la piacevolezza, l’arguzia e l’eleganza nel parlare, il saper «gentilmente intertenere [intrattenere] ogni sorte d’uomo». Vera e propria parola chiave, continuamente ricorrente, è appunto intertenere, ossia intrattenere ad alto livello, con decoro ed eleganza: è questo il compito fondamentale della dama di corte. Isabella d’Este (1479-1539), figlia di Ercole d’Este, andata sposa giovanissima a Francesco Gonzaga, ebbe un ruolo determinante nell’affermazione della corte di Mantova nel panorama delle corti italiane. Educata da Battista Guarini (figlio del grande
NUClEO Costituzione COMPETENZA 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
pedagogo Guarino Veronese), Isabella conosceva benissimo il latino e il greco, sapeva suonare il liuto, danzare e conversare brillantemente, amava viaggiare per le corti d’Italia e di Provenza. Guidava le feste di corte, proteggeva gli artisti e li attirava alla sua corte, intratteneva rapporti diretti con filosofi, scienziati e poeti (in particolare Ludovico Ariosto). Isabella era una fanatica collezionista di opere d’arte e di oggettistica antica: cercava ovunque pezzi rari e preziosi, e per i suoi dispendiosi acquisti si faceva consigliare da artisti, come Mantegna (che viveva alla corte di Mantova), Leonardo, Niccolò e Giovanni Bellini. La sua passione per il collezionismo trovava frequentemente la possibilità di essere soddisfatta dalle incerte vicende della storia del tempo, che dall’oggi al domani potevano ribaltare le sorti di un ducato, di una signoria. Ad esempio, quando il duca Valentino, Cesare Borgia (il personaggio cui si ispira Il principe di Machiavelli), conquista il ducato di Urbino, Isabella accoglie alla sua corte Guidobaldo di Urbino e sua moglie Elisabetta (cognata di Isabella); ma la pietosa Isabella pensa anche ai tesori della corte di Urbino, che potrebbe far suoi, approfittando, in modo anche un po’ cinico, della situazione. Così una biografia di Isabella descrive quella circostanza:
Accolto Guidubaldo fuggiasco, udita da lui la storia dolorosa della perdita del Ducato, del palazzo saccheggiato, Isabella […] allarga le braccia ai miseri, li conforta; ma Isabella, collezionista, pensa subito ad approfittare dell’occasione. E qui scriviamo la storia com’è. La Marchesa si ricorda di avere ammirato, nell’ammiratissimo palazzo d’Urbino, un bel torso di Venere e un magnifico Amore addormentato, non antico, ma opera pregevolissima di un giovane scultore fiorentino, Michelangelo Buonarroti: due pezzi di museo che essa ha lungamente invidiato e che certo starebbero bene nella sua Grotta. Che cosa fa Isabella? Senza perder tempo, tre giorni dopo l’arrivo di Guidubaldo, scrive a suo fratello Cardinale Ippolito, pregandolo di ottenere dal Borgia i due pezzi desiderati. Cesare Borgia, galante, si affretta ad accontentare la Marchesa, della quale vuol guadagnare il favore, e un bel giorno il ciambellano del duca di Romagna [Cesare Borgia] arriva a Mantova con una mula carica di due marmi, di modo che il duca d’Urbino vede entrare, nel Palazzo offertogli come asilo, quale proprietà di sua cognata, i due marmi che prima erano suoi. Da G. Bongiovanni, Isabella d’Este marchesa di Mantova, Edizioni moderne Canesi, Roma 1960 Isabella aveva un gusto artistico raffinato e tendeva a imporre agli artisti in modo abbastanza autoritario il repertorio iconografico da lei scelto (al pittore Perugino, che sembrava non comprendere bene, o non accettare pienamente le sue intenzioni, scrisse ben 53 lettere per spiegargli minuziosamente il soggetto allegorico del quadro commissionatogli!). Prediligeva temi e immagini letterarie, a volte anche complesse allegorie: esperta di astrologia, disegnò personalmente gli schemi allegorici che avrebbero dovuto ornare il celebre studiolo dove si ritirava a leggere e studiare e dove amava ricevere artisti, intellettuali e potenti. Bibliofila appassionata, si fece mandare dall’editore Manuzio per la sua biblioteca personale edizioni a stampa di Virgilio, Orazio, Marziale, Catullo, Properzio, oltre a Petrarca.
Ma Isabella non era solo un’intellettuale umanista: non mancava di interessarsi, come dimostrano le moltissime lettere, all’intricata vita politica e diplomatica del tempo, rivelando sempre grande acutezza di giudizio, non esente da una certa spregiudicatezza, che costituisce un tratto comune del costume del tempo. Durante le frequenti assenze del marito da Mantova, in qualità di reggente Isabella seppe amministrare gli affari pubblici con saggezza e lungimiranza. Alla figura di Isabella è ispirato il romanzo Rinascimento privato (1985) di Maria Bellonci (1902-1986), una ricostruzione non solo del personaggio affascinante della marchesa di Mantova, ma anche del mondo delle corti rinascimentali.
La visione classicistica della letteratura 1 121
T7
Le qualità del “perfetto cortigiano” Nei due testi che proponiamo si analizzano le caratteristiche che deve possedere il cortigiano (➜ T7a ) e il ruolo politico che egli può rivestire all’interno della corte (➜ T7b ).
Baldesar Castiglione
T7a
Grazia e sprezzatura Il libro del Cortegiano, I, xxvi
B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a c. di G. Preti, Einaudi, Torino 1960
Il capitolo XXVI del primo libro del Cortegiano tratteggia un profilo del gentiluomo che vive nella corte ispirato agli ideali etici ed estetici propri della cultura rinascimentale: il gentiluomo deve possedere la grazia, evitando ogni forma di affettazione e di ostentazione. Il suo atteggiamento deve sembrare naturale, mentre è frutto di disciplina ed esercizio: in ciò consiste la sprezzatura.
Ma avendo io già piú volte pensato meco onde nasca questa grazia1, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno2, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piú che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto piú si po3, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazio5 ne4; e, per dir forse una nova parola5, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi6. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde7 in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia 10 e fa estimar poco ogni cosa8, per grande ch’ella si sia. Però9 si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio10, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato11. E ricordomi io già aver letto esser stati12 alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie13 sforzavansi14 di far credere ad ognuno sé non aver notizia 15 alcuna di lettere15; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piú tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte16; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del
1 pensato meco... grazia: pensato dentro di me da dove derivi questo comportamento aggraziato, gradevole. 2 lasciando... l’hanno: tralasciando quelli che lo possiedono per influsso astrale (per un dono naturale). 3 si po: si può. 4 affettazione: comportamento artificioso, privo di naturalezza. 5 per... parola: utilizzando una parola forse mai usata in questo senso. 6 che nasconda... pensarvi: che non riveli l’impegno e faccia apparire ciò che si fa e si dice come realizzato senza fatica e quasi senza pensarci. Castiglione definisce con queste parole la sprezzatura, parola
e concetto chiave del brano, che consiste nell’avere, in ogni attività che si svolge, una tecnica perfetta, acquisita con studio e impegno, ma poi dissimulata, in modo che l’abilità appresa sembri naturale. 7 onde: per cui. 8 per lo contrario... ogni cosa: al contrario, mostrare lo sforzo e, come si dice, “tirar per i capelli” (far vedere che una cosa non è naturale, ma eseguita con sforzo) è molto sgradevole e sminuisce ogni cosa. 9 Però: Perciò. 10 si ha da poner studio: si deve mettere impegno. 11 leva... estimato: toglie tutta l’ammirazione e produce scarsa stima.
122 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
12 esser stati: che vi erano stati. L’autore usa una costruzione simile all’infinitiva latina. 13 industrie: accorgimenti. 14 sforzavansi: si sforzavano. 15 notizia… lettere: nessuna conoscenza letteraria e retorica. 16 tra le altre... arte: tra le altre loro tecniche si sforzavano di far credere a tutti che loro non avevano nessuna conoscenza della retorica; dissimulando la loro cultura, facevano sembrare che le loro orazioni fossero state costruite molto facilmente e più seguendo l’ispirazione naturale e la verità del discorso che la tecnica retorica.
populo di non dover esser da quella ingannati17. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida 20 quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi18? Qual occhio è cosí cieco, che non vegga in questo la disgrazia19 della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti20, di quella sprezzata desinvoltura21 (ché nei 25 movimenti del corpo molti cosí la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi22, mostrando non estimar e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello23, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare24?
17 la qual... ingannati: se questa (la padronanza dell’arte retorica) fosse stata conosciuta avrebbe suscitato (aría dato) nell’animo del popolo il dubbio di esser stato ingannato. Il dubbio in realtà non sembrerebbe del tutto infondato. L’affermazione rivela la concezione dell’autore, incline a valorizzare l’artificio e la tecnica più della spontaneità naturale. 18 Qual di voi... passi: dall’arte del discorso, fondamentale in ogni ambito del vivere sociale, Castiglione passa all’esempio
più frivolo della danza, legata alla vita di corte e a un ballerino, tal Pierpaulo, che danza senza scioltezza e appare legnoso nei movimenti. 19 disgrazia: la mala grazia (etimologicamente “dis-grazia”, opposto di grazia). 20 qui presenti: richiamo alla situazione comunicativa immaginata nell’opera del Castiglione, cioè a una discussione tenuta nell’ambiente di corte. 21 sprezzata desinvoltura: disinvoltura apparentemente spontanea.
22 adattarsi: atteggiarsi (come richiede la danza e corrispondere ai gesti degli altri ballerini). 23 mostrando... quello: dando l’impressione di non dare importanza a ciò che si sta facendo (danzare) e di pensare più a ogni altra cosa che a quello (che si sta facendo). 24 di non saper... errare: di non considerare possibile un errore.
Baldesar Castiglione
T7b
Il ruolo del cortigiano Il libro del Cortegiano, IV, v
B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a c. di G. Preti, Einaudi, Torino 1960
Nel quarto e ultimo libro del suo trattato, Castiglione focalizza le sue considerazioni sulla cortegianìa (qui affidate a Ottaviano Fregoso) interrogandosi sul senso che può avere l’acquisizione delle qualità mondane e culturali di cui si è discusso nelle giornate precedenti. È qui delineato il rapporto fra il signore e il cortigiano, e il ruolo, anche politico, che quest’ultimo può rivestire all’interno della complessa realtà delle corti.
Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori1 talmente la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso2 convenga sapere, senza timor o 5 periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli3, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa4 ed indurlo
1 condicioni… signori: condizioni di vita nella corte. 2 ad esso: cioè al principe.
3 conoscendo... contradirgli: se comprende che quello ha intenzione di compiere un’azione sbagliata, osi porsi in
contrasto con lui. 4 rimoverlo... viciosa: distoglierlo da ogni intenzione malvagia.
La visione classicistica della letteratura 1 123
al camin della virtú; e cosí avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori, accompagnata con la prontezza d’ingegno e piacevolezza e 10 con la prudenzia e notizia di lettere5 e di tante altre cose, saprà in ogni proposito6 destramente7 far vedere al suo principe quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità8, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e dall’altre virtú che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda dai vicii9 oppositi a queste. Però io estimo che come la musica, le feste, 15 i giochi e l’altre condicioni piacevoli son quasi il fiore, cosí lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal male10, sia il vero frutto della cortegiania. E perché la laude del ben far consiste precipuamente11 in due cose, delle quai l’una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono12, l’altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato13, 20 certo è che l’animo di colui, che pensa di far che ’l suo principe non sia d’alcuno ingannato14, né ascolti gli adulatori, né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e ’l male ed all’uno porti amore, all’altro odio, tende ad ottimo fine.
5 la prudenzia... lettere: la saggezza e la cultura. 6 proposito: occasione. 7 destramente: con abilità. 8 liberalità: generosità. 9 vicii: vizi.
10 lo indurre… dal male: spingere o aiutare il suo principe a fare il bene e distoglierlo dal male. 11 precipuamente: soprattutto. 12 delle quai... bono: una delle quali è scegliere un fine, che sia davvero buono,
a cui tendano i nostri sforzi. 13 atti... desegnato: adatti a pervenire a questo buon fine prescelto. 14 non sia... ingannato: non sia ingannato da nessuno.
Analisi del testo L’essere e l’apparire del cortigiano I due passi proposti sono fra loro molto differenti. Nel primo viene analizzata l’apparenza esteriore del cortigiano e il suo comportamento negli intrattenimenti della corte; nel secondo sono discussi gli ideali e i valori che egli dovrebbe perseguire. Nel primo passo dunque è in gioco l’apparire, nel secondo l’essere, o forse meglio, il “dover essere”; nel primo si descrive un ideale estetico, nel secondo etico; nel primo il cortigiano appare sottoposto al giudizio degli altri e deve mostrare di esserne all’altezza, nel secondo assume invece un ruolo attivo, propositivo.
L’ideale estetico del cortigiano: la sprezzatura Parola chiave di (➜ T7a ) è sprezzatura: con questo termine si intende l’abilità che per Ca-
stiglione è la suprema sintesi di tutto il lungo e impegnativo apprendistato del cortigiano. La sprezzatura è un comportamento apparentemente naturale, in realtà acquisito a prezzo di un lungo studio ed esercizio, che consente di compiere le cose più difficili come se fossero facilissime e quasi spontanee. Tale abilità si esplica in vari campi: lo stesso Castiglione presenta due esempi differenti, riferendosi da una parte a un’attività frivola come la danza, dall’altra alla capacità oratoria. La sprezzatura può essere vista come la capacità, propria di chi ha ricevuto una perfetta educazione, di adattarsi in modo perfetto, ma con apparente spontaneità, a ogni situazione e a ogni ambiente, senza ostentare la propria superiorità e senza mai mettere a disagio gli altri. Secondo tale modello di comportamento, che avrebbe in seguito ispirato la “civiltà delle buone maniere” europea, di cui può essere esempio l’ideale del gentleman inglese, nulla è lasciato al caso: il comportamento non è determinato dalla natura, ma dalla cultura. Un comportamento esteriormente impeccabile richiede dunque una grande disciplina interiore, un lavoro su di sé, per giungere a un perfetto autocontrollo.
124 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
L’ideale etico del buon consigliere In (➜ T7b ) (tratto dal IV libro del Cortegiano, dedicato alla politica e ai rapporti con il prin-
cipe), Castiglione ipotizza che, grazie alle sue eccezionali qualità, il cortigiano possa essere considerato come un saggio consigliere e indirizzare il signore sulla via del bene. Il cortigiano ideale immaginato da Castiglione rivela allora di possedere alte doti morali: appare infatti come un uomo buono, sincero (al principe dice sempre la verità), dignitoso (osa contraddire il signore, se è il caso). Ma davvero il principe lo ascolterebbe? Molti lettori dell’opera hanno considerato tale ipotesi utopistica e irreale, e in realtà molto dipende dal signore e dall’ambiente in cui il cortigiano si trova a operare. Castiglione crede che il cortigiano possa persuadere il principe grazie alle sue eccezionali doti, tra le quali ci sono la cultura, la saggezza, la bontà, un’intelligenza ben esercitata e un comportamento piacevole e capace di attirarsi la simpatia e la fiducia degli altri; inoltre il cortigiano è coltissimo e padroneggia perfettamente l’arte oratoria, e può perciò persuadere più facilmente il signore a seguire la via del bene, mostrandogli i vantaggi e l’onore che può ottenerne. Un compito impossibile? Forse non sempre: ciò che Castiglione teo rizza, in fondo, non è che l’ideale umanistico, con la sua fiducia nella cultura e nella parola: forse un’utopia, che però coincide con la ragione e la civiltà contro le ragioni della sola forza.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Cos’è la sprezzatura? 2. Qual è il fine principale che dovrebbe proporsi il cortigiano, secondo Baldesar Castiglione? ANALISI 3. Di quali doti si dovrebbe avvalere il cortigiano per convincere il principe a compiere il bene? LESSICO 4. Fai una schedatura dei termini grazia, sprezzatura e affettazione, indicando per ciascuno: occorrenze, significato specifico, eventuali sinonimi. STILE 5. A quali similitudini e metafore Baldesar Castiglione ricorre per definire la natura e il comportamento del cortigiano perfetto? Quale campo semantico prevale?
Interpretare
SCRITTURA 6. Parlando di sprezzatura, quali esempi se ne potrebbero addurre (anche attualizzando il concetto) oltre a quelli proposti da Castiglione?
Raffaello, Ritratto di Guidobaldo da Montefeltro, olio su tavola, 1503-1504, (Galleria degli Uffizi, Firenze).
La visione classicistica della letteratura 1 125
T8
Suggerimenti su come comportarsi in società Nei due brani presentati tratti dal Galateo di Della Casa l’autore elenca quali azioni non è bene compiere a tavola (➜ T8a ) e quali sono gli argomenti più adatti alla conversazione (➜ T8b ).
Giovanni Della Casa
T8a
Cattive maniere a tavola Galateo, cap. XIX
G. Della Casa, Galateo, a c. di S. Prandi, Einaudi, Torino 1994
Dal celebre trattato di monsignor Della Casa abbiamo scelto innanzitutto un passo molto noto, tratto dalla prima parte del cap. XIX. Vi appare un concetto di “galateo” inteso semplicemente, secondo l’accezione usuale e ormai tradizionale del termine, come codice di buone maniere alle quali qualunque persona ben educata (diremmo oggi) non può sottrarsi.
Non istà bene grattarsi sedendo a tavola, e vuolsi in quel tempo guardar l’uomo più che e’ può di sputare e, se pure si fa, facciasi per acconcio modo1. Io ho più volte udito che si sono trovate delle nationi così sobrie che non isputavano già mai: ben possiamo noi tenercene per brieve spatio2! Debbiamo etiandio3 guardarci di prendere 5 il cibo sì ingordamente che perciò si generi singhiozzo o altro spiacevole atto, come fa chi s’affretta sì, che convenga che egli ansi e soffi con noia di tutta la brigata4. Non istà medesimamente bene a fregarsi i denti con la tovagliuola e meno col dito, che sono atti difformi5; né risciacquarsi la bocca e sputare il vino sta bene in palese6; né in levandosi da tavola portar lo stecco a guisa d’uccello che faccia suo nido, o 10 sopra l’orecchia come barbieri, è gentil costume7.
1 facciasi... modo: lo si faccia con discre-
4 sì, che convenga... brigata: così che
zione, in modo conveniente. 2 tenercene... spatio: astenerci dal farlo per un breve tempo. 3 etiandio: anche.
succede che egli sbuffi e soffi, con fastidio di tutta la compagnia. 5 atti difformi: atteggiamenti maleducati. 6 in palese: davanti a tutti.
Miniature tratte dal manoscritto Le chevalier errant, 1394-1396 (Bibliotèque nationale de France, Parigi).
126 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
7 né... costume: né è un’azione educata, quando ci si alza da tavola, portarsi lo stuzzicadenti, come un uccello prende uno stecco per fare il nido, o metterlo sull’orecchio come un barbiere.
Giovanni Della Casa
T8b
Argomenti di conversazione. Come parlare in società Galateo, capp. XI e XXIV
G. Della Casa, Galateo, a c. di S. Prandi, Einaudi, Torino 1994
Tratto dai cap. XI e XXIV, il brano documenta l’importanza della “civile conversazione” nel costume sociale del tempo: nel Cinquecento, parlare in modo adeguato, elegante, cortese, scelto, era una componente fondamentale del “saper vivere”.
Nel favellare si pecca1 in molti e varii modi, e primieramente2 nella materia che si propone, la quale non vuole essere frivola né vile, perciò che gli uditori non vi badano e perciò non ne hanno diletto, anzi scherniscono i ragionamenti et il ragionatore insieme. Non si dèe anco pigliar tema molto sottile né troppo isquisito, perciò 5 che con fatica s’intende dai più3. Vuolsi diligentemente guardare di far la proposta tale che niuno della brigata ne arrossisca o ne riceva onta4. Né di alcuna bruttura si dèe favellare, come che5 piacevole cosa paresse ad udire, perciò che alle oneste persone non istà bene studiar di piacere altrui, se non nelle oneste cose. Né contra Dio né contr’a’ Santi, né dadovero né motteggiando6 si dèe mai dire alcuna cosa, 10 quantunque per altro fosse leggiadra o piacevole: il qual peccato assai sovente commise la nobile brigata del nostro messer Giovan Boccaccio ne’ suoi ragionamenti, sì che ella merita bene di esserne agramente ripresa da ogni intendente persona7. […] Né a festa né a tavola si raccontino istorie maninconose8, né di piaghe né di malattie né di morti o di pestilentie, né di altra dolorosa materia si faccia mentione 15 o ricordo: anzi, se altri in sì fatte rammemorationi fosse caduto9, si dèe per acconcio modo10 e dolce scambiargli quella materia e mettergli per le mani più lieto e più convenevole soggetto11. […] Sono ancora molti che non sanno restar di dire12, e, come nave spinta dalla prima fuga13 per calar vela14 non s’arresta, così costoro trapportati da un certo impeto 20 scorrono15 e, mancata la materia del loro ragionamento, non finiscono per ciò, anzi, o ridicono le cose già dette, o favellano a vòto16. Et alcuni altri tanta ingordigia hanno di favellare che non lasciano dire altrui; e come noi veggiamo talvolta su per l’aie de’ contadini l’uno pollo tòrre la spica di becco all’altro17, così cavano costoro i ragionamenti di bocca a colui che gli cominciò e dicono essi; e sicuramente che 25 eglino fanno venir voglia altrui di azzuffarsi con esso loro, perciò che, se tu guardi
1 Nel favellare... pecca: Nel parlare si sbaglia. 2 primieramente: in primo luogo. 3 Non si dèe… dai più: Non si deve però neppure scegliere un tema molto difficile né troppo ricercato, perché viene compreso con difficoltà dalla maggior parte delle persone. 4 onta: offesa. 5 come che: per quanto.
6 né dadovero... motteggiando: né sul serio né scherzando. 7 agramente... persona: duramente criticata da ogni persona che se ne intende. 8 maninconose: malinconiche, tristi. 9 se altri... caduto: se qualcuno fosse caduto in rievocazioni (rammemorationi) di questo genere. 10 per... modo: in modo gentile. 11 più convenevole soggetto: argomento più adatto.
12 Sono... dire: Ci sono poi molti che non sanno fermarsi nel parlare.
13 dalla prima fuga: dal primo impeto. 14 per calar vela: anche se la vela viene calata. 15 trapportati… scorrono: trasportati dalla forza d’inerzia procedono oltre. 16 favellano a vòto: parlano a vuoto. 17 su per… all’altro: nelle aie dei contadini un pollo togliere la spiga dal becco dell’altro.
La visione classicistica della letteratura 1 127
bene, niuna cosa muove l’uomo più tosto ad ira, che quando improviso gli è guasto18 la sua voglia et il suo piacere, etiandio19 minimo: sì come quando tu arai20 aperto la bocca per isbadigliare et alcuno te la tura21 con mano, o quando tu hai alzato il braccio per trarre la pietra et egli t’è subitamente tenuto da colui che t’è dietro. 30 Così adunque come questi modi (e molti altri a questi somiglianti) che tendono ad impedir la voglia e l’appetito altrui22 ancora23 per via di scherzo e per ciancia24 sono spiacevoli e debbonsi fuggire, così nel favellare si dèe più tosto agevolare il desiderio altrui che impedirlo. Per la qual cosa, se alcuno sarà tutto in assetto di25 raccontare un fatto, non istà bene di guastargliele26, né di dire che tu lo sai, o, se 35 egli anderà per entro la sua istoria spargendo alcuna bugiuzza27, non si vuole28 rimproverargliele né con le parole né con gli atti, crollando il capo o torcendo gli occhi, sì come molti soglion fare, affermando sé non potere29 in modo alcuno sostener l’amaritudine della bugia; ma egli non è questa la cagione di ciò, anzi è l’agrume e lo aloe della loro rustica natura et aspera30, che sì gli rende venenosi et amari nel 40 consortio degli uomini che ciascuno gli rifiuta. Similmente il rompere altrui le parole in bocca è noioso31 costume e spiace, non altrimenti che quando l’uomo è mosso a correre et altri lo ritiene32. 18 guasto: impedito. 19 etiandio: anche. 20 arai: avrai. 21 tura: chiude. 22 appetito altrui: desiderio di altri. 23 ancora: sebbene. 24 per ciancia: per gioco.
25 in assetto di: pronto a. 26 guastargliele: rovinarlo. 27 bugiuzza: piccola bugia. 28 non si vuole: non si deve. 29 sé non potere: che loro non possono. Il costrutto è quello dell’infinitiva latina.
30 ma egli... aspera: ma non è questa la
causa di un tale comportamento, al contrario (la causa) è l’asprezza della loro natura rozza e incivile. L’aloe è una pianta medicinale, dalle cui foglie si ricava un succo amaro. 31 noioso: spiacevole. 32 altri lo ritiene: qualcuno lo trattiene.
Analisi del testo Un modello di comportamento per il vivere sociale Il modello di comportamento del gentiluomo educato che si afferma nel Cinquecento prende origine nell’ambiente della corte, che crea molteplici occasioni di scambi sociali. Il Galateo del Della Casa diffonde tale modello di socialità cortigiana a strati più ampi della popolazione, incontrando un’immensa fortuna.
Un modello attuale? La società odierna tende ad assumere una posizione a volte critica di fronte al modello comportamentale espresso nel Galateo, messo in discussione con il successivo affermarsi dell’opposto modello di comportamento romantico, improntato a una totale spontaneità. L’ideale delle “buone maniere” non viene però mai totalmente abbandonato, come dimostra la tradizione ininterrotta di testi di “galateo”, ispirati al fortunato prototipo dellacasiano. In realtà l’opera del Della Casa conserva un valore perché non si ispira soltanto a un ideale conformistico, ma è ispirato da un attento studio della psicologia e dei comportamenti sociali.
Il piacere, proprio e altrui, come guida per il comportamento in società Lo studio psicologico è connesso con l’ideale edonistico del Rinascimento, quando si diffonde l’idea che la vita debba essere anche piacevole. Un comportamento corretto e educato rende più godibile la vita in società sia a sé stessi, perché si risulta più graditi e simpatici in compagnia, sia agli altri, perché, avendo a che fare con persone attente al proprio comportamento essi si sentono più compresi e rispettati. Un esempio della finezza psicologica del Della Casa è il suo articolato “galateo del discorso”.
128 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
L’efficacia dello stile Il contrasto fra le tendenze istintive e naturali e il perfezionamento raggiunto grazie alla razionalità e alla buona educazione è evidenziato dallo stile del Galateo. Grazie alla finzione che a parlare sia un personaggio illetterato che istruisce un ragazzo, il discorso può spaziare da un registro basso e colloquiale a uno più alto e raffinato. Il livello stilistico basso, realistico e concreto, viene adottato soprattutto per la descrizione dei comportamenti dettati dall’istinto naturale e, con l’efficacia di una caricatura, mette in luce gli aspetti sgradevoli e ridicoli di un comportamento diretto, “naturale”, senza attenzione alla socialità. Ciò si evidenzia in particolar modo nei paragoni, spesso ripresi dal mondo animale: come quello tra gli interlocutori smaniosi di prendere la parola, interrompendo gli altri, e le galline che si strappano l’una all’altra il cibo dalla bocca; una similitudine che mostra efficacemente la volgarità di un comportamento, appunto, “naturale”, ma tale da suscitare negli altri una rabbiosa irritazione.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali comportamenti sono da evitare a tavola? SINTESI 2. Secondo Della Casa, per essere considerati conversatori piacevoli bisogna osservare alcuni accorgimenti, riguardanti gli argomenti di conversazione e il modo di comportarsi: riassumili e commentali brevemente.
Interpretare
LETTERATURA E NOI 3. Prova a tratteggiare un sintetico catalogo dei “corretti comportamenti” che sia adeguato alla vita di oggi. Puoi anche restringere il tuo discorso a un ambito specifico: ad esempio la scuola, l’ufficio, i mezzi di trasporto, l’uso dei social...
Dosso Dossi (att.), La conversazione, olio su tavola, 1520-1522 ca. (Galleria Estense, Modena).
La visione classicistica della letteratura 1 129
2
La produzione anticlassicista 1 Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo
Particolare da Domenico Beccafumi, La caduta degli Angeli ribelli, 1540 ca. (Pinacoteca Nazionale, Siena). L’artista rappresenta figure dalla gestualità esasperata e dalle forme allungate, effetto accentuato dall’uso della luce.
Un Rinascimento diverso La cultura letteraria e artistica del Rinascimento s’ispira, nella maggior parte dei casi, a un ideale di armonia ed equilibrio modellato sui classici – dalla pittura di Raffaello alla lirica petrarchista, dai trattati di Bembo e Castiglione ad alcuni aspetti dell’Orlando furioso – e attinge al repertorio figurativo del mondo antico. Sarebbe però riduttivo (e in sostanza inesatto) identificare l’arte e la letteratura del periodo esclusivamente nelle opere ispirate a canoni di armonia e classicismo, ignorando le numerose manifestazioni “eccentriche” (nel senso etimologico del termine: “fuori dal centro”) e “centrifughe” rispetto al modello estetico dominante, che contribuiscono a delineare la fisionomia della cultura artistica rinascimentale. Antirinascimento o anticlassicismo? Per definire le manifestazioni che in vario modo non corrispondono alla tendenza dominante del gusto, lo storico dell’arte Eugenio Battisti ha parlato, nel suo fondamentale saggio L’Antirinascimento (la prima edizione è del 1962), riferendosi soprattutto alle arti figurative, di “antirinascimento”: un universo artistico alternativo alla cultura ufficiale, in cui si esprime un immaginario inquietante, magico, materialistico, irrazionalistico. Altri, come il critico letterario Nino Borsellino, facendo riferimento in particolare all’ambito letterario, hanno parlato, forse più correttamente, di “anticlassicismo”, per definire alcune manifestazioni, estranee ai princìpi del classicismo rinascimentale, ma che esercitano una funzione dialettica rispetto al modello dominante. Per Borsellino si tratta di manifestazioni in cui si esprime l’insofferenza per le regole, l’esaltazione della creatività dell’artista al di fuori di ogni disciplina, la dissacrazione del sublime (con la conseguente scelta di una materia “bassa”, in contrapposizione a una materia alta e nobile): manifestazioni a cui si accompagnano atteggiamenti spesso provocatori, come nel caso dell’Aretino. Sempre Borsellino osserva che gli anticlassicisti sono scrittori «più del ventre che della mente» e che alcuni di essi, perciò, rientrano a ragione nell’ambito del “carnevalesco” (➜ PAG. 143). Conseguente è la scelta stilistico-linguistica di questi scrittori – anch’essa polemica verso gli orientamenti ufficiali (➜ T11 ) – orientata verso il plurilinguismo e l’impiego di registri iperespressivi. L’anticlassicismo per Borsellino è comunque un fenomeno che si iscrive dentro il Rinascimento (e perciò non è tanto corretto parlare di “antirinascimento”), del quale fanno parte a pieno titolo figure un tempo emarginate dalle sistemazioni storiche. Accogliendo questi scrittori nell’ambito del Rinascimento, si ricava di questa stagione importantissima della nostra cultura un’immagine più mobile e varia, e in definitiva più vicina alla realtà.
130 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
Autori e opere polemiche verso i canoni egemoni Alcuni scrittori, per i temi proposti e il linguaggio che impiegano, rovesciano esplicitamente attraverso l’ironia e la critica i modelli culturali ufficiali. Berni ad esempio, ricollegandosi alla tradizione della poesia giocosa, parodizza i poeti petrarchisti (➜ C2 T1b ) e contrappone una poesia puramente ludica, giocata sul nonsense, ai contenuti “seri” della lirica cinquecentesca. Aretino contesta la lingua imbalsamata proposta dal Bembo (➜ SCENARI PAG. 70 e ➜ C2) come pure la mitizzazione della corte fatta dal Castiglione (➜ PAG. 117) e contrappone ai nobili argomenti e all’esaltazione dell’amore spirituale, propri della trattatistica rinascimentale, un trattato, volutamente provocatorio, sull’«arte puttanesca» (➜ T10 ); Folengo nel Baldus dissacra la tradizione del poema cavalleresco contaminando nella lingua maccheronica latino e volgari settentrionali (➜ T11 ). Ma altri autori ancora potrebbero essere citati. Come Ruzante, che rifiuta gli schemi classicisti della commedia per ritrarre realisticamente il mondo contadino (➜ C7).
2 La Vita di Benvenuto Cellini online
Video e Audio Giacomo Battiato (Film, 1989) Una vita scellerata
Ritratto di Benvenuto Cellini (metà sec. XVI).
La biografia Alcuni scrittori trovano modi originali di scrivere, diversi dalla prospettiva classicistica e dai suoi vincoli anche tematico-stilistici, magari perché il genere scelto non ha modelli consacrati dalla letteratura antica: è il caso di un’opera schietta, impetuosa, lontana dagli schemi del classicismo, come la Vita, cioè l’autobiografia di Benvenuto Cellini (➜ T9 OL), composta peraltro ormai ai confini del Rinascimento (1558-1566). Benvenuto Cellini (1500-1571), fiorentino, uomo dal temperamento estroso e collerico, ben lontano dall’ideale rinascimentale della “misura”, ha una vita avventurosa, segnata da duelli e casi giudiziari. È un artista poliedrico: orafo, scultore di grande talento, trova protezione a Roma presso il papa Clemente VII e quindi il suo successore Paolo III. Accusato di furto, conosce l’esperienza del carcere a Castel Sant’Angelo, da cui cerca di evadere. Opera poi in varie corti e anche a Parigi. Tornato in Italia, realizza a Firenze il celeberrimo bronzo che raffigura Perseo, esposto nel 1554 alla loggia dei Lanzi. Quattro anni dopo, deluso perché il duca Cosimo I gli preferisce nuovi artisti e lo trascura, inizia a scrivere la sua autobiografia. Muore povero e dimenticato nel 1571. La Vita Nella Vita, Cellini fa di se stesso un mito umano: l’autobiografia è infatti concepita dall’autore come un’autocelebrazione, fondata sulla convinzione della propria eccezionalità umana e artistica (notissima è la descrizione, con toni quasi epici, della creazione della statua del Perseo ➜ SGUARDO SULL’ARTE, PAG. 132). Cellini si autorappresenta come un individuo dotato di straordinaria virtù, nel senso laico che questo termine acquista nel Rinascimento. Una virtù che si scontra ora con le avversità dei tempi, ora con la sorte, ora con singoli uomini che la contrastano: ostacoli che sono enfatizzati per far meglio risaltare la statura “eroica” del protagonista. La produzione anticlassicista 2 131
Oltre che il ritratto umano dell’autore, la Vita del Cellini fornisce un quadro affascinante della vita del tempo e di alcuni suoi personaggi, spregiudicato sul piano morale e comunque ben lontano dalle idealizzanti rappresentazioni diffuse nel tempo. Anche la prosa usata nella Vita è lontana dalla prospettiva classichegonline giante: ha caratteri di immediatezza, a volte quasi giornalistica e utilizza t9 Benvenuto cellini una sintassi mossa, che alterna discorso diretto e indiretto con modi Un omicidio vicini al parlato, nella volontà di aderire alla vivacità quasi cronachistica Vita della narrazione.
Sguardo sull'arte La fusione del Perseo
Benvenuto Cellini, Perseo, 1545-1554 (Loggia dei Lanzi, Firenze).
Con la creazione del Perseo, Benvenuto Cellini tentò la fusione di una grande statua in un solo getto, un’operazione molto complessa che mise a dura prova l’artista e i suoi assistenti. Nella Vita,, egli racconta di uno sforzo quasi eroico, epico, in cui non mancarono gli imprevisti: la “febbre effimera” che lo coglie per il grande sforzo, il fuoco della fornace che si abbassa a causa di un temporale, l’insufficienza di stagno che lo spinge a fondere tutte le stoviglie di casa ecc. Collocato in piazza della Signoria, il Perseo rappresentò un monito per i nemici dei Medici che nel 1555 conquistarono Siena, riunificando la Toscana sotto la loro egemonia.
Benvenuto Cellini, Vita GENERE
biografia
CONTENUTO
rappresentazione di sé come un uomo dotato di straordinaria virtù; la vita del tempo
SCOPO
autocelebrazione
STILE
immediato, con carattere giornalistico
SINTASSI
utilizzo di discorso diretto ed indiretto
LINGUA
vicina al parlato
132 Quattrocento e cinQuecento 1 Classicismo e anticlassicismo
3 Un “irregolare”: Pietro Aretino La biografia Di origini popolari, Pietro Aretino (1492-1556) prende come cognome la sua provenienza (era infatti di Arezzo). Dopo aver esercitato la carriera di cortigiano a Roma e aver soggiornato in varie corti d’Italia, si sposta a Venezia e qui si dedica a un’intensa attività letteraria, caratterizzata sempre da uno spirito trasgressivo rispetto ai modelli vigenti, che lo rende ricco e famoso. La spregiudicatezza con cui, grazie alla diffusione delle sue opere resa possibile dalla stampa, esercita il suo mestiere di letterato gli vale soprannomi come «avventuriero della penna» e «flagello dei principi». Una condotta che comunque gli procura onori e riconoscimenti persino da sovrani, come il re di Francia Francesco I e l’imperatore Carlo V. Destando spesso scandalo per i contenuti provocatori delle sue opere, Aretino si cimenta in vari generi letterari: dalle rime (spesso licenziose, come i Sonetti lussuriosi), alla commedia (la sua commedia più famosa è la Cortigiana, che rappresenta la corruzione dell’ambiente romano), alla tragedia (Orazia) ai dialoghi dei Ragionamenti (o Sei giornate) in cui, rovesciando l’idealismo tipico di tale genere letterario, dedica la trattazione alle professioni della prostituta e della ruffiana. Per il loro valore di testimonianza storica sono importanti le Lettere, spesso dirette a personaggi famosi dell’epoca. Sei giornate Sotto il titolo Sei giornate sono raggruppati due dialoghi di Pietro Aretino. Nel primo (Ragionamento della Nanna, et della Antonia, fatto in Roma…, pubblicato nel 1534), la Nanna, una prostituta, illustra senza reticenze la vita delle monache, delle maritate e delle prostitute, incerta a quale di queste condizioni avviare la figlia sedicenne. Nel secondo (Dialogo di M. Pietro Aretino, nel quale la Nanna il primo giorno insegna a la Pippa sua figliuola…, del 1536), la Nanna insegna alla figlia l’«arte puttanesca», trasmettendo alla ragazza il proprio “sapere”. I discorsi e i dialoghi delle due opere occupano sei giornate (da qui il titolo vulgato). Lo schema è quello del dialogo morale e pedagogico, assunto con evidente intento parodico dell’autore nei confronti della trattatistica alta sul comportamento (Bembo e Castiglione). Alla marcata idealizzazione, anche linguistica, dei due trattati, Aretino contrappone uno spregiudicato realismo e una lingua antiaccademica, vicina al parlato.
Pietro Aretino, Sei giornate GENERE
dialogo pedagogico
STRUTTURA
due dialoghi che occupano sei giornate
CONTENUTO
nel primo la madre (Nanna) illustra alla figlia le varie condizioni delle donne; nel secondo istruisce la figlia sull’«arte puttanesca»
SCOPO
intento parodico nei confronti dei trattati che presentano una visione idealizzante dell’amore
LINGUA
antiaccademica, ispirata ad un crudo realismo
La produzione anticlassicista 2 133
Pietro Aretino
Una spregiudicata lezione di erotismo
T10
Sei giornate P. Aretino, Sei giornate, a c. di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1975
Il breve passo che segue, tratto dalle Sei giornate, può dare almeno un’idea del dialogo di Pietro Aretino in cui egli immagina che una scaltrita prostituta, la Nanna, erudisca nell’“arte” in cui è maestra la giovanissima figlia Pippa, che si appresta a seguire l’esempio materno. In particolare, qui la Nanna risponde a una domanda della figlia sul comportamento erotico dei veneziani.
Nanna Ti dirò: i Viniziani hanno il gusto fatto a lor modo; e vogliono culo e tette e robbe sode, morbide, e di quindici o sedeci anni e fino in venti, e non de le petrarchescarie1. E perciò, figliuola mia, pon da canto le cortigianie2 e contentagli del proprio3, se vuoi ti gittino dirieto oro di fuoco e non ciance di nebbia4. E io 5 per me, sendo uomo5, vorrei colcarmi6 con una che avesse la lingua melata, e non addottorata7; e piú mi saria caro di tenere in braccio una robba sfoggiata che messer Dante8; e credo che sia altra melodia quella di una mano avventurata che fa le ricercate del liuto pel seno9 [...]; e il suono de la mano che dà de le sculacciatine nel consacrato de le meluzze10 mi par d’altra soavità che la musica che fanno i 10 piferi di Castello quando i cardinali vanno a Palazzo11 in quei cappucci che gli fan parere civette in una buca12. 1 petrarchescarie: è un neologismo introdotto da Aretino, con il quale egli vuole intendere le qualità spirituali (da lui presentate come insignificanti rispetto alle ben più appetibili qualità fisiche). L’autore ironizza sulla concezione d’amore diffusa dalla moda della lirica petrarchista. 2 pon da canto le cortigianie: accantona le finezze d’amore. Allusione alle teorizzazioni sul comportamento raffinato diffuse nella trattatistica contemporanea. 3 contentagli del proprio: accontentali, dando loro quel che cercano.
4 se vuoi... di nebbia: se vuoi che ti diano (letteralmente “ti gettino dietro”) oro (cioè denaro) fiammante e non chiacchiere evanescenti. 5 per me, sendo uomo: per quanto mi riguarda, se fossi un uomo. 6 colcarmi: coricarmi, andare a letto. 7 melata, e non addottorata: di miele, dolce, e non fosse colta. 8 più mi sarìa... messer Dante: preferirei tenere tra le braccia una donna bellissima piuttosto che messer Dante. 9 credo... seno: credo che sia ben altra
musica quella prodotta da una mano fortunata (avventurata) che accarezza, come si fa con le corde del liuto, il seno. Aretino ricorre a un linguaggio metaforico tratto dal campo musicale. 10 meluzze: glutei. 11 Palazzo: si intende il Vaticano. 12 civette in una buca: le civette (a cui sono assimilati i cardinali incappucciati in processione) depongono le uova in buche all’interno di alberi.
Analisi del testo Il rovesciamento parodico della trattatistica “alta” Nei Ragionamenti, come si nota anche solo dal breve passo proposto, Aretino rovescia con piena consapevolezza letteraria temi, modi e stile della trattatistica elevata, di cui fornisce eloquente esempio il passo tratto dagli Asolani del Bembo. Mentre i protagonisti del dialogo rinascimentale appartengono all’ambiente raffinato della corte e sono spesso noti intellettuali del tempo, nel dialogo di Aretino dialogano figure femminili, che appartengono a una realtà “bassa”, popolare e addirittura al mondo della prostituzione. Il trattato rinascimentale propone modelli di comportamento ispirati all’eleganza, al decoro, mentre Nanna insegna alla giovanissima figlia l’“arte” della prostituzione, distinguendo analiticamente le diverse esigenze dei clienti a seconda delle aree geografiche di provenienza (in questo caso i veneziani).
Il tema dell’amore L’amore di cui si parla negli Asolani e nello stesso Cortegiano (in una delle due importanti digressioni) è un amore nobile e spiritualizzato, ispirato alla filosofia neoplatonica; mentre nell’opera di Aretino l’amore è puramente istinto sessuale.
134 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
La lingua Anche il linguaggio è strutturato su una consapevole polemica verso le tesi del Bembo, l’astrazione arcaizzante del fiorentino illustre che Aretino attacca anche in altre sedi, ad esempio nel prologo della Cortigiana. Aretino utilizza un lessico crudamente realistico o addirittura osceno.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
STILE 1. Quale figura retorica riconosci nell’espressione ciance di nebbia (r. 4)? LESSICO 2. Nel breve passo tratto dalle Sei giornate si manifesta un chiaro intento parodico, da parte dell’Aretino, nei confronti della trattatistica rinascimentale sul tema amoroso: rintraccia nel testo le modalità espressive con cui l’autore manifesta questa sua volontà polemica.
Interpretare
SCRITTURA 3. In un testo di max. 15 righe delinea un ritratto della Nanna.
4 Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo
Ritratto di Teofilo Folengo, opera attribuita al Romanino, metà XVI secolo (Galleria degli Uffizi, Firenze).
La biografia di Teofilo Folengo Girolamo Folengo nasce da nobile famiglia a Mantova nel 1491. Nel 1509 entra nella comunità monastica benedettina di Sant’Eufemia, presso Brescia, assumendo il nome di Teofilo; si sposta quindi in altri conventi nel mantovano e a Padova. Nel 1517 esce la prima edizione delle Maccheronee, di cui fa parte il Baldus, e probabilmente nello stesso anno riceve l’ordinazione sacerdotale. Per ragioni ancora non chiare (forse per le pagine satiriche contro la corruzione dei religiosi presenti nelle sue opere) è attaccato dalle gerarchie ecclesiastiche e lascia l’ordine nel 1525. Si trasferisce a Venezia, dove collabora con vari stampatori e fa il precettore. Nel 1534 è riammesso nell’ordine e ritorna in monastero. Muore presso Bassano nel 1544. Il Baldus Il poema è diviso in due parti: la prima (I-XI), sicuramente la più riuscita, è ambientata a Cipada, un piccolo borgo del Mantovano. Nella casa del contadino Berto, la principessa Baldovina, figlia del re di Francia e moglie del paladino Guidone, dà alla luce Baldus, che viene allevato dal rozzo e violento contadino. Cipada e i dintorni sono il teatro delle beffe furfantesche che contraddistinguono la fanciullezza e la giovinezza di Baldus, assistito nelle sue imprese dall’astuto Cingar, dal gigante Fracasso (personaggi ispirati a Margutte e Morgante del Pulci) e da Falchetto, mezzo cane e mezzo uomo. Dal libro XII l’azione si sposta in luoghi lontani, la trama si complica e le avventure assumono un tono marcatamente antirealistico e fantastico: sulla scena del poema irrompono incantesimi e figure La produzione anticlassicista 2 135
come diavoli e streghe, una discesa nell’inferno e, alla fine, l’ingresso nella «casa della fantasia», una sorta di mondo surreale, in cui ogni logica è negata e la stessa immaginazione letteraria è forma inconsistente. Un poema eroicomico Il Baldus è una delle opere più significative della tendenza anticlassicistica a cui sopra si è fatto riferimento: è un poema in esametri latini in 25 canti, caratterizzato dalla commistione della dimensione eroica e di quella grottesco-paradossale. Viene pubblicato per la prima volta nel 1517 (seguiranno altre edizioni fino all’ultima, postuma, del 1552) all’interno di una silloge, un insieme di testi che, oltre al Baldus, comprende la Zanitonella (componimenti in versi di argomento pastorale, ma di tono realistico-giocoso) e la Moscheide. Il nome complessivo della silloge è Maccheronee perché tutte le composizioni che ne fanno parte sono in lingua “maccheronica”.
Particolare da Pieter Bruegel il Vecchio, Danza di contadini, 1568 ca. (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
La lingua maccheronica A prima vista il Baldus sembra scritto in latino, ma anche chi ha poca dimestichezza con questo si accorge subito che la lingua del poema di Folengo è diversa dal latino e d’altra parte non corrisponde a nessun volgare. Come spiega lo stesso autore, il termine maccheronico deriva da maccherone, termine che all’epoca indicava un impasto di vari ingredienti. Il termine allude, quindi, metaforicamente a una particolare lingua composita: nel Baldus sono infatti mescolati il latino ed elementi lessicali e sintattici di vari dialetti del Nord Italia (soprattutto mantovano, ma anche bresciano e veneto). Il procedimento usato da Folengo consiste in genere nell’adattare, entro strutture morfologiche e sintattiche latine, il lessico toscano, dialettale, gergale o d’invenzione. Da questa contaminazione linguistica derivano neo-formazioni linguistiche a volte di irresistibile comicità, anche perché stridono col ritmo epico, solenne, dell’esametro. Lo si può notare già in uno dei primi versi del poema: di fronte alla fama altisonante dell’eroe che l’autore si appresta a cantare si legge: «terra tremat, barathrumque metu sibi cagat adossum», “la terra trema e anche il baratro infernale per la paura se la fa sotto”. La scelta anticlassicistica di un umanista Il latino maccheronico di Folengo, frutto di una raffinata competenza letteraria, si richiama all’irriverente poesia goliardica padovana, ma non è certo un innocuo divertimento letterario: dietro l’operazione linguistica sta infatti una precisa volontà polemica nei confronti dei modelli classicisti dominanti. Il latino maccheronico è lo strumento espressivo funzionale a una rappresentazione della vita antitetica alle forme idealizzanti diffuse nella cultura umanistico-rinascimentale: nell’universo poetico di Folengo, in particolare nella parte del poema ambientata a Cipada, è infatti dato particolare spazio alla dimensione basso-corporea (il cibo, le funzioni fisiologiche) in contrapposizione alle raffinate astrazioni dei modelli culturali ufficiali. Un’invocazione alle Muse anticonvenzionale Tale scelta di realismo corposo è indicata espressamente nell’esordio del poema, che ospita la tradizionale invocazione alle Muse, comicamente abbassata: il Folengo rifiuta l’aiuto delle Muse della poesia tradizionale e tutte quante «le chiacchiere del Parnaso», e respinge anche Febo-Apollo, rappresentato ironicamente mentre «gratta la sua chitarrina». Rivendica come poeta la propria cor-
136 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
poreità, i propri appetiti carnali («se considero le budelle della mia pancia») per i quali sono più idonee le Muse grasse e pancifiche che hanno nomi antiletterari tratti dai dialetti lombardi (come Togna, Gosa, Comina) e che egli invita a «imboccarlo di gnocchi» e di polenta. Esse vivono su un monte lontano dove trionfa l’abbondanza iperbolica del cibo: una sorta di paese di Cuccagna(➜ PER APPROFONDIRE Il mito del paese di Cuccagna), nel quale il poeta dichiara di aver «pescato» l’arte maccheronica. La rappresentazione del mondo contadino Per il Baldus la critica ha parlato di «realismo grottesco» (Ferroni): la tendenza alla deformazione caricaturale e grottesca si associa infatti alla descrizione concreta, assai rara nella nostra letteratura (e di per sé anticlassicistica), di oggetti, occupazioni, ambienti che appartengono alla realtà “bassa” del mondo contadino. Per rappresentarlo, Folengo attinge al patrimonio folklorico e alla sua stessa conoscenza diretta, ma sarebbe fuorviante ipotizzare la presenza, nell’autore, di un atteggiamento di partecipazione e di simpatia per il mondo contadino: al contrario Folengo rimane un intellettuale umanista, che si rivolge a un pubblico elitario e guarda al mondo contadino con distacco ironico, a volte con disprezzo, e un’attitudine fondamentalmente satirica, analoga per certi aspetti alla “satira del villano”, sottogenere diffuso nel Medioevo.
PER APPROFONDIRE
Teofilo Folengo, Baldus GENERE
poema epico in esametri latini
STRUTTURA
25 canti
CARATTERISTICHE
elementi dell’epica classica ed eroi della tradizione cavalleresca in chiave parodica
LINGUA
latino maccheronico
Il mito del paese di Cuccagna Un topos letterario assai diffuso è il mito del paese di Bengodi o di Cuccagna. La sua principale caratteristica è l’abbondanza iperbolica di cibo e la sua varietà, con la conseguente possibilità per chiunque di saziarsi. L’immagine ha origine nella cultura popolare ed è evidentemente motivata dalla fame cronica dei contadini. Una descrizione si ritrova già in Boccaccio (Decameron VIII, 3: «una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan
genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua»). Il topos del paese di Cuccagna interessa anche l’ambito delle arti figurative (ad esempio in Pieter Bruegel il Vecchio, 1525 ca.-1569). La descrizione del mitico paese serve al Folengo per alludere al carattere antidealistico della sua poesia, già tratteggiato nei primi versi del poema, dedicati alle Muse.
La produzione anticlassicista 2 137
Teofilo Folengo
T11
Le Muse maccheroniche Baldus I, vv. 1-38, 52-63
T. Folengo, Baldus, a c. di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1989
L’autore compie una deformazione parodica del proemio dei poemi epici cavallereschi sia nel linguaggio sia nei contenuti.
Phantasia mihi plus quam phantastica venit historiam Baldi grassis cantare Camoenis. Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum. 5 Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat, o macaroneam Musae quae funditis artem. An poterit passare maris mea gundola scoios, quam recomandatam non vester aiuttus habebit? Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia, 10 non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent; panzae namque meae quando ventralia penso, non facit ad nostram Parnassi chiacchiara pivam. Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae, Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
VERSIONE IN ITALIANO moderno
Mi ha preso la fantasia, più fantastica che mai, di cantare la storia di Baldo con le mie grasse Camene1. Così altisonante è la sua fama e tanto gagliardo il suo nome che la terra tremando lo ammira e il baratro d’inferno si caga addosso dalla paura. Ma prima conviene che io invochi il vostro soccorso, o Muse che largite2 l’arte maccheronica: come farà la mia gondola3 a passare in mezzo agli scogli del mare se il vostro patrocinio non l’avrà raccomandata? Non detti dunque Melpomene il mio canto, né tanto meno la minchiona Talìa4, e neanche Febo, che sta a grattare la sua chitarrina5, poiché, se considero le budelle della mia pancia, le chiacchiere di Parnaso non si confanno alla mia piva6. Soltanto le Muse pancifiche7, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala8, vengano a imboccare di
1 grasse Camene: le Camene sono pro-
4 Melpomene… Talìa: rispettivamente la
priamente le ninfe delle sorgenti, ma qui identifica le Muse. Definendole grasse (“ben panciute, ma anche grossolane”) Folengo allude al carattere della sua poesia, che rifiuta programmaticamente la stilizzazione e l’idealizzazione. 2 largite: elargite, donate. 3 gondola: qui vale “piccola barca”. Attraverso una metafora consueta nella tradizione letteraria, il poeta si riferisce alla sua poesia.
Musa della tragedia e la Musa della commedia, sbeffeggiata dall’aggettivo minchiona. 5 grattare... chitarrina: anche FeboApollo, il dio della poesia, è rappresentato nell’atto di suonare la cetra attraverso un’immagine dissacrante. 6 le chiacchiere… mia piva: le espressioni vane e frivole (chiacchiere) della poesia alta (il Parnaso è il monte della Grecia che nella mitologia classica è sede di Apollo
138 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
e delle Muse) non sono adatte alla mia poesia. Folengo allude metaforicamente alla propria arte, contrapponendo la rustica zampogna (piva), simbolo della poesia pastorale, all’aulica lira. 7 pancifiche: panciute, grasse. 8 Gosa... Pedrala: i nomi delle Muse maccheroniche risalgono all’area popolare del dialetto e dell’onomastica del bresciano, che Folengo conobbe in giovinezza. In particolare Gosa è “la Gozzuta” e Striazza “la strega”.
15 imboccare suum veniant macarone poëtam, dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos. Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes, albergum quarum, regio, propiusque terenus clauditur in quodam mundi cantone remosso, 20 quem spagnolorum nondum garavella catavit. Grandis ibi ad scarpas lunae montagna levatur, quam smisurato si quis paragonat Olympo collinam potius quam montem dicat Olympum. Non ibi caucaseae cornae, non schena Marocchi, 25 non solpharinos spudans mons Aetna brusores, Bergama non petras cavat hinc montagna rodondas, quas pirlare vides blavam masinante molino: at nos de tenero, de duro, deque mezano formaio factas illinc passavimus Alpes. 30 Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam possem, per quantos abscondit terra tesoros: illic ad bassum currunt cava flumina brodae, quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti.
gnocchi9 il loro poeta e gli portino cinque e magari otto catini di polenta10. Sono queste le grasse mie dive, le mie Ninfe imbrodolate: la loro dimora, il loro paese e territorio si trovano in un remoto cantone del mondo che la caravella di Spagna non ha ancora scovato11. Una enorme montagna s’innalza laggiù fino alle scarpe12 della Luna: se qualcuno volesse paragonarla all’Olimpo, che è fuori d’ogni misura, direbbe che l’Olimpo è una collina, non un monte. Là non ci sono le corna del Caucaso13 né la schiena del Marocco14 né il monte Etna che sputa bruciori di zolfo, e neanche le montagne della Bergamasca15, dove si cavano quelle pietre rotonde che vedi pirlare16 al mulino quando si macina la biada17: là abbiamo scavalcato giogaie che erano fatte di formaggio, in parte tenero, in parte duro, in parte di mezza stagionatura. Credetemi, ve lo giuro, non saprei dire una sola bugia per tutti i tesori che stanno nascosti sotto la terra: laggiù corrono a valle profondi fiumi di broda che formano un lago di zuppa, un pelago di guazzetto18.
9 gnocchi: ai tempi del Folengo macarone era un impasto di farina, burro e formaggio (solo nel Settecento indica un formato di pasta). 10 catini di polenta: taglieri (di legno) o paioli di polenta (allora era fatta non con farina di mais, ancora ignota, ma con miglio e grano saraceno).
11 caravella... scovato: Folengo allude alla scoperta dell’America, avvenuta, quando compone il poema, da non molti anni. 12 alle scarpe: ai piedi. 13 le corna del Caucaso: le vette aguzze della catena del Caucaso. 14 schiena del Marocco: la catena montuosa dell’Atlante.
15 le montagne della Bergamasca: le Prealpi bergamasche, sul versante di Sarnico, da cui si estraeva un marmo adatto a far macine da mulino. 16 pirlare: girare. 17 la biada: cereali in genere. 18 un pelago di guazzetto: un mare di zuppa alla salsa di pomodoro.
La produzione anticlassicista 2 139
Hic de materia tortarum mille videntur 35 ire redire rates, barchae, grippique ladini, in quibus exercent lazzos et retia Musae, retia salsizzis, vitulique cusita busecchis, piscantes gnoccos, fritolas, gialdasque tomaclas. […] O quantum largas opus est slargare ganassas, quando velis tanto ventronem pascere gnocco! Squarzantes aliae pastam, cinquanta lavezzos 55 pampardis videas, grassisque implere lasagnis. Atque altrae, nimio dum brontolat igne padella, stizzones dabanda tirant, sofiantque dedentrum, namque fogo multo saltat brodus extra pignattam. Tandem quaeque suam tendunt compire menestram, 60 unde videre datur fumantes mille caminos, milleque barbottant caldaria picca cadenis. Hic macaronescam pescavi primior artem, hic me pancificum fecit Mafelina poëtam.
Si vedono andare e venire zattere fatte con pasta di torte, barchette e rapidi brigantini19; sopra ci stanno le Muse e usando reti e laccioli – reti cucite con salsicce e busecche20 di vitello – pescano gnocchi, frittole21 e dorate tomacelle22. […] Quanto giova slargare le ganasce, se di tal gnocco vuoi saziare il tuo ventre! Altre tagliano la pasta e riempiono cinquanta laveggi23 di pappardelle e di grasse lasagne. Altre ancora, se la pentola comincia a brontolare per via del gran fuoco, tirano da parte i tizzoni e vi soffiano dentro, perché il brodo, quando il fuoco è troppo, salta fuori dalla pignatta. Insomma, ciascuna bada a cuocere la propria minestra, per cui vedi mille camini che fumano e mille caldaie che borbottano attaccate alle catene. Qui io, per primo, ho pescato l’arte maccheronica, qui Mafelina24 m’incoronò pancifico poeta25.
19 brigantini: agili imbarcazioni a vela. 20 busecche: trippe. È un termine lombardo. 21 frittole: frittelle. È una voce lombarda e in parte emiliana.
22 tomacelle: polpette speziate di fegato di maiale, uova e spezie (specie zafferano, perciò dorate). 23 laveggi: pentoloni.
140 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
24 Mafelina: una delle Muse pancifiche nominate in precedenza. 25 pancifico poeta: poeta maccheronico (oltre che “ben pasciuto”).
Analisi del testo La rivisitazione maccheronica della protasi del poema epico-cavalleresco Il Baldus si ispira al genere del poema epico-cavalleresco e si apre quindi con la tradizionale protasi dell’argomento, a cui segue l’invocazione alle Muse: ma la solennità propria dell’epica qui è rovesciata e dissacrata in modo beffardo. Nella presentazione dell’eroe epico Baldus, Folengo offre subito un esempio eloquente dei caratteri della poesia maccheronica: la fama altisonante dell’eroe e il suo nome gagliardo incutono terrore persino al baratro infernale. Il v. 4 è un esempio mirabile della contaminazione, della mescolanza tra latino e volgare che caratterizza la lingua del poema: lo stile letterario dell’autore fa stridere il ritmo dell’esametro virgiliano, enfatizzato dalle allitterazioni, con il sintagma triviale «sibi cagat adossum».
L’invocazione Nel proemio, Folengo non mette in primo piano, come di consueto, la figura e le gesta dell’eroe che si appresta a cantare, ma sé stesso e le sue Muse: gli preme, infatti, connotare agli occhi del lettore la propria poesia come antitetica all’idealizzazione classicistica del primo Cinquecento, i cui modi lirici sono identificati polemicamente come «le chiacchiere di Parnaso». Le Muse della tradizione sono minchione e persino Febo (Apollo) è profanato, essendo rappresentato nell’atto non di suonare in modo sublime la sua lira, ma di strimpellare una chitarrina. Il poeta della poesia maccheronica chiede alle proprie Muse un altro tipo di ispirazione, concretizzata nell’immagine di sé stesso imboccato di maccheroni (da cui la sua poesia deriva il nome). Le Muse maccheroniche sono pancifiche, così come quella di Folengo vuole essere una “poesia di pancia” (lui stesso si autodefinisce «pancificus poëta», v. 63), che non solo non nega, ma anzi esalta la corporeità e i suoi diritti. Anche i nomi popolari attribuiti alle Muse maccheroniche hanno un significato polemico: attingono infatti alla tradizione popolare e ad aree geografiche culturalmente marginali, estranee al processo di fiorentinizzazione della lingua letteraria.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il proemio del Baldus (max 8 righe). COMPRENSIONE 2. Che cosa fanno le Muse di Folengo perché il poeta intoni il proprio canto maccheronico? Che cosa avrebbero fatto, invece, le Muse della tradizione? ANALISI 3. Descrivi con parole tue il luogo dove vivono le pancifiche Muse: che cosa lo caratterizza? STILE 4. Spiega il significato di queste metafore in rapporto al contesto: grasse Camene, le chiacchiere di Parnaso, la mia gondola, maccheronica (arte).
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Quale immagine della propria poesia il poeta vuole dare attraverso la particolare protasi e l’invocazione alle Muse che aprono il poema? Quale obiettivo si propone il colto umanista Folengo? Quale motivazione lo spinge? Argomenta (max 8-10 righe).
online T12 Teofilo Folengo Un contadino… poco bucolico Baldus IV, vv. 180-197
La produzione anticlassicista 2 141
5 Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais La biografia François Rabelais nasce, probabilmente nel 1494, a Chinon, nella regione della Turenna. Verso il 1520 diventa monaco francescano e vive in conventi presso Angers e Poitou (in seguito passerà all’ordine benedettino). Dotto umanista, conosce perfettamente il greco e il latino e per le sue qualità di letterato è ammirato e protetto da importanti ecclesiastici. Intorno al 1526 intraprende gli studi di medicina a Parigi e si interessa alla medicina greca antica; esercita come medico in varie città di Francia e soggiorna a più riprese in Italia. Nel 1532 con uno pseudonimo pubblica Pantagruele, prima parte del romanzo Gargantua e Pantagruele in cinque libri (l’ultimo dei quali pubblicato postumo); il quarto libro appare nel 1552 a nome dell’autore. Attaccato dalla censura, l’anno dopo il romanzo è condannato per empietà ed eresia dalla facoltà di teologia della Sorbona, ma lo scrittore non ha conseguenze personali perché gode della protezione di alte autorità ecclesiastiche e civili. Rabelais muore a Parigi nel 1553. Un romanzo di successo Il Gargantua e Pantagruele di Rabelais (considerato il maggior esponente del Rinascimento francese) si iscrive nell’area dell’anticlassicismo, pur essendo nutrito profondamente dei valori dell’Umanesimo. Lo spunto fondamentale viene dalla lettura di un romanzo popolaresco, stampato anonimo a Lione, in cui si narravano le gesta del gigante Gargantua. Rabelais decide di continuare la storia e scrive le gesta del figlio di Gargantua, Pantagruele, pubblicandole nel 1532. Lo straordinario successo dell’opera lo induce poi a riscrivere anche la storia di Gargantua preponendola, nella struttura definitiva del romanzo, a quella di Pantagruele. Ne risulta un’opera di massicce proporzioni in cinque libri.
Anonimo, Ritratto di François Rabelais, XVI secolo (Musée national du château, Versailles).
La trama Il primo libro è dedicato alla figura del gigante Gargantua. La sua educazione, prima tradizionale, è poi invece basata sui princìpi educativi propri dell’Umanesimo (e condivisi dall’autore, che ne approfitta per polemizzare contro l’oscurantismo miope della pedagogia e della cultura medievale). Minacciato dal malvagio re Picrocole, Gargantua riesce a respingerne l’aggressione grazie a fra’ Giovanni, in onore del quale fa costruire l’abbazia di Thelème: in essa vigono la pace e l’ordine, grazie alla possibilità per ciascuno di seguire liberamente le proprie inclinazioni naturali. Nel secondo libro entra in scena Pantagruele, anch’egli un gigante, figlio di Gargantua e di Badebec, che muore dandolo alla luce. È inviato da Gargantua a Parigi per essere educato secondo i princìpi della nuova pedagogia umanistica (esposti dal padre in una lettera che costituisce uno dei passi più noti del romanzo). A Parigi Pantagruele incontra Panurge, allegro e astuto truffatore (che ricorda i personaggi di Margutte del Pulci e di Cingar del Baldus di Folengo), il quale lo accompagna nelle sue avventure. Nel terzo libro Panurge, preso dal desiderio di sposarsi, cerca di capire se sia il caso o no di prender moglie. Per scoprirlo consulta la Sibilla, un mago, un medico, un filosofo, ma le risposte rimangono enigmatiche e insufficienti. Decide allora di partire con Pantagruele per consultare l’oracolo della Divina Bottiglia. Nel quarto libro i due compagni viaggiando per mare
142 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
arrivano nei più strani paesi: la descrizione dei loro abitanti in realtà è occasione per Rabelais per introdurre una satira verso le istituzioni e gli ordinamenti religiosi del tempo, dalla critica alla giustizia alla Chiesa romana, alla Riforma e, più in generale, alla stupidità umana (nell’episodio dei montoni di Panurge). L’unico celebrato è Messer Gaster (il Ventre). Nel quinto libro le peregrinazioni dei due continuano fino a raggiungere la meta: la risposta della Divina Bottiglia al loro quesito, per bocca della sacerdotessa Bacbuc, è semplicemente: «Trink!» (“Bevi!”, in tedesco): un invito ad abbondonarsi all’ebbrezza del vino, rinunciando a complicate elucubrazioni. «Rider soprattutto è cosa umana» Nel breve appello al lettore che apre l’opera (➜ T13 ), Rabelais invita i lettori a liberarsi dalle passioni e ad accogliere il suo romanzo per quello che è, senza scandalizzarsi: un’opera scritta per far ridere, poiché proprio la capacità di ridere è distintiva della specie umana. Nel prologo al IV libro, Rabelais, che era medico oltre che umanista e scrittore, parla delle virtù terapeutiche del riso (oggi pienamente confermate dagli studi scientifici) e si dichiara sano grazie al “pantagruelismo”, una filosofia di vita che associa la lietezza di spirito al disprezzo delle vicende della sorte. Al di là di queste dichiarazioni di principio, Rabelais fa del riso lo strumento per un confronto consapevole e polemico con la cultura e la società del suo tempo. La sua posizione è critica verso ogni dogmatismo e pedanteria in campo culturale, verso ogni posizione ideologica retriva e immobilistica: in particolare, la sua visione del mondo è ispirata al rifiuto dell’ascetismo e dell’idealismo in nome dei diritti della natura. Una visione che ha le sue radici nell’Umanesimo; coonline Interpretazioni critiche me Erasmo, anche Rabelais è però ben consapevole del pericoPrimo Levi lo che la cultura umanistica possa cadere nel culto formalistico Rabelais uomo delle contraddizioni della retorica, nell’erudizione fine a sé stessa e non manca nel suo romanzo anche la satira di un certo umanesimo saccente e pedante. La dimensione “carnevalesca” Rabelais valorizza la dimensione corporea e, più in generale, materiale (Primo Levi ha usato, per definire il romanzo, l’espressione «epica della carne soddisfatta»). L’universo dell’opera è dominato dai bisogni naturali (mangiare, bere, fare sesso, senza escludere le funzioni fisiologiche cor-
Gustave Doré, illustrazione per il Gargantua et Pantagruel, 1854.
La produzione anticlassicista 2 143
porali) e il codice metaforico privilegiato dall’autore, anche quando parla d’altro (ad esempio quando si riferisce a battaglie) è quello gastronomico (➜ T14 OL). La preminenza del “basso corporeo” nel lavoro di Rabelais è stata messa in luce dal critico russo Michail Bachtin (1895-1975): in un celebre saggio del 1965 (L’opera di Rabelais e la cultura popolare) il critico ricollega il primato della corporeità evidente nel capolavoro francese, come anche il rovesciamento di ogni gerarchia (➜ T15 ) e la parodia irriverente di temi e linguaggi alti, alla dimensione “carnevalesca” presente nella cultura popolare (e che si esprime soprattutto, ma non solo, nel «carnevale, quando tutto è lecito, e regnano la stravaganza e la trasgressione dei canoni e ruoli sociali»). In Rabelais gli aspetti “carnevaleschi”, la ricorrente parodia di temi e personaggi, assumono un significato polemico nei confronti dei modelli della cultura ufficiale. Il plurilinguismo L’inventività dello scrittore si esprime pienamente nel linguaggio: la lingua del libro è forse l’esempio più emblematico di “plurilinguismo”. Vi si leggono (e spesso si intersecano) la lingua colta degli umanisti, il linguaggio popolare, le lingue classiche accanto ai volgari europei (come lo spagnolo o l’italiano), ma non manca l’apporto delle lingue settoriali afferenti ai campi più diversi (dalla medicina all’architettura, alle scienze naturali); senza escludere, poi, i non pochi neologismi, impiegati soprattutto in funzione comica. Una vera e propria “babele linguistica” che corrisponde a un’inventività, come si è detto, irrefrenabile e a una visione del mondo (e della letteratura) contrapposta alla stilizzazione e ricomposizione armonica delle contraddizioni che erano proprie del classicismo rinascimentale.
Gargantua e Pantagruele GENERE
romanzo
STRUTTURA
cinque libri
CONTENUTO
la storia e le gesta di Pantagruele, figlio del gigante Gargantua
SCOPO
far ridere e divertire
LINGUA
plurilinguismo
Fissare i concetti La produzione anticlassicista 1. 2. 3. 4. 5.
Che cosa si intende con anticlassicismo? Come è concepita la Vita di Cellini? Di che cosa parlano i due dialoghi che compongono le Sei giornate di Pietro Aretino? Quale lingua utilizza Folengo nel Baldus? Quale scopo si prefigge Rabelais nel redigere Gargantua e Pantagruele?
144 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
François Rabelais
T13
L’appello ai lettori: la difesa del riso Gargantua e Pantagruele
F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, trad. di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 2004
Gargantua e Pantagruele si apre con un appello ai “lettori amici”, in cui l’autore invita il pubblico a entrare nell’opera con lo spirito giusto.
AI LETTORI Lettori amici, voi che m’accostate, liberatevi d’ogni passïone, e, leggendo, non vi scandalizzate: qui non si trova male né infezione. 5 È pur vero che poca perfezione apprenderete, se non sia per ridere: altra cosa non può il mio cuore esprimere vedendo il lutto che da voi promana: meglio è di risa che di pianti scrivere, 10 ché rider soprattutto è cosa umana.
Analisi del testo Una dichiarazione di poetica La breve allocuzione ai lettori preposta al Gargantua e Pantagruele costituisce un’evidente dichiarazione di poetica: rivolgendosi ai lettori, dei quali, con l’appellativo di amici, cerca il consenso, Rabelais li invita ad accogliere la sua opera con animo libero e leggero («liberatevi d’ogni passïone»), a non scandalizzarsi per quanto leggeranno (cosa che non sempre accade) e a non temerne, si può immaginare, la carica trasgressiva («qui non si trova male né infezione»). Certo, il romanzo, come asserisce lo scrittore, non si propone alcun obiettivo pedagogico ideale («poca perfezione apprenderete»). Così come avveniva a suo tempo per il Decameron, l’obiettivo dell’opera è edonistico e insieme consolatorio: vincere il dolore, la tristezza; celebrare, attraverso il riso, la gioia di vivere, perché il riso è prerogativa per eccellenza dell’uomo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Fai la sintesi del testo proposto. LESSICO 2. Come spieghereste l’espressione «Voi che m’accostate»?
Interpretare
SCRITTURA 3. Che cosa intende l’autore quando scrive «ché rider soprattutto è cosa umana»?
online T14 François Rabelais La poetica dell’eccesso Gargantua e Pantagruele II, XXVIII
La produzione anticlassicista 2 145
François Rabelais
T15
L’aldilà come luogo del “rovesciamento carnevalesco” Gargantua e Pantagruele, II, xxx
F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, trad. di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 2004
In seguito a una cruenta battaglia, uno dei compagni di Pantagruele, Epistemone, muore. Tutti lo piangono, ma Panurge, un astuto truffatore compagno di avventure di Pantagruele, promette di resuscitarlo ed effettivamente Epistemone torna in vita. Il suo resoconto di quanto ha visto nel regno dei morti offre a Rabelais l’occasione per una serie iperbolica di beffardi “rovesciamenti” attraverso l’evocazione della condizione di personaggi importanti appartenenti a diverse epoche storiche (compresi alcuni personaggi letterari), mescolati dalla mordace fantasia dello scrittore.
Di colpo Epistemone cominciò a respirare, poi ad aprir gli occhi, poi a sbadigliare, poi a sternutire, poi fece un bel peto grosso da famiglia. E Panurge disse: – Ormai è certamente guarito. E gli diè da bere un bicchierone d’uno scellerato vin bianco, con un crostino zuc5 cherato. In tal modo Epistemone fu abilmente guarito, salvo che rimase giù di voce più di tre settimane, ed ebbe una tosse secca, di cui non riuscì a guarire se non a forza di bere. E subito cominciò a parlare, dicendo che aveva visto i diavoli, e parlato con Lucifero a tu per tu, e fatto allegria in inferno, e laggiù pei Campi Elisi1. E assicurava 10 davanti a tutti che i diavoli erano allegri compagni. In quanto ai dannati, disse che gli spiaceva assai che Panurge lo avesse richiamato in vita così svelto: – Perché mi divertivo molto, – aggiunse, – a vederli. – Ma come? – domandò Pantagruele. – Sì, – disse Epistemone. – Non li trattano poi così male come potreste credere. 15 Solo che la loro condizione appare curiosamente mutata. Vidi infatti2 Alessandro il Grande3 obbligato a rammendare un mucchio di vecchie calzette, che si guadagnava così la sua misera vita. E similmente: Serse4 andava in giro a vender la mostarda; Romolo faceva il salaiolo; 20 Numa il ferravecchi; Tarquinio, taccagno5; Pisone6, contadino; Silla7, remaiolo; Ciro era vaccaro; 25 Temistocle8, vetraio;
1 Campi Elisi: nella mitologia classica, la dimora degli uomini buoni dopo la morte. 2 Vidi infatti: inizia qui un lungo, disordinato, elenco di personaggi illustri che nell’aldilà sono condannati a ruoli insignificanti o umilissimi. 3 Alessandro il Grande: s’inizia con uno dei più grandi condottieri della storia, il re macedone Alessandro Magno (356-323 a.C.), ridotto a rammendare calzette.
4 Serse: Serse, come Ciro, Artaserse e Dario nominati in seguito, sono grandi re persiani (sec. VI-V a.C.). Nell’aldilà il primo vende mostarda, Ciro custodisce il bestiame (vaccaro), Artaserse fabbrica corde, Dario addirittura vuota le latrine (il vuotacessi). 5 Romolo... taccagno: nell’elenco seguono tre leggendari re di Roma: il fondatore di Roma vende sale, Numa commercia
146 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
in rottami di ferro, mentre Tarquinio si segnala per la spilorceria. 6 Pisone: Gaio Calpurnio Pisone (I sec. d.C.), nobile romano che capeggiò la fallita rivolta contro Nerone. 7 Silla: Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.) noto uomo politico e generale romano. 8 Temistocle: generale ateniese (528 ca.462 ca. a.C.).
Epaminonda9, faceva specchi; Bruto e Cassio10, erano agrimensori; Demostene, vignaiolo; Cicerone, fuochista11; 30 Fabio12 infilava i grani del rosario; Artaserse faceva il cordaio; Enea, il mugnaio; Achille, il tignoso; Agamennone, il leccapiatti; 35 Ulisse, il falciatore; Nestore, lo sterratore13; Dario, il vuotacessi; [...] Lancialotto del Lago14 scorticava i cavalli morti; e tutti i cavalieri della Tavola Rotonda erano poveracci ridotti a vivere a giornata, penando al remo su e giù per le 40 riviere di Cocito, Flegetonte, Stige, Acheronte e Lete15, al servizio dei signori diavoli quando volevano passarsela sull’acqua, come le battelliere di Lione o i gondolieri di Venezia; ma per ogni traghetto hanno per tutto compenso una sberla e, verso sera, qualche pezzo di pan muffito. [...] «Così, tutti quelli che erano stati gran signori quassù in questo mondo, si guadagna45 vano una vita da poveri vagabondi in quell’altro. Mentre al contrario, i filosofi, e tutti quelli che avevan dovuto lottare con la miseria quassù, toccava a loro stavolta fare i gran signori. «Ho visto Diogene16 pavoneggiarsi in gran magnificenza, con un gran manto di porpora, e uno scettro in mano; e strapazzava Alessandro il Grande quando non gli 50 aveva rammendato bene le calze, e lo pagava a bastonate. «Ho visto Epitteto17 vestito elegantemente alla francese, sotto una bella pergola, con un bel numero di damigelle intorno, che scherzava, danzava, insomma faceva allegria, e aveva vicino un bel monte di scudi. E a quella pergola stava attaccato un cartello, con su scritta la sua divisa18: 55 Saltare, ballare, e giocare, E bere vin bianco e vermiglio; E non aver altro da fare, Che ridere e scudi contare.
9 Epaminonda: uomo politico e generale tebano (418 ca.-362 ca. a.C.). 10 Bruto e Cassio: i capi della congiura contro Giulio Cesare, qui ridotti al ruolo di misuratori di terreni (agrimensori). 11 Demostene... fuochista: sono nominati, uno di seguito all’altro, i due maggiori oratori dell’antichità classica: il greco Demostene (384-322 a.C.) e il romano Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.). 12 Fabio: non è possibile nessuna ipotesi certa. Potrebbe essere Quinto Fabio Mas-
simo (morto nel 203 a.C.), console cinque volte, detto il Temporeggiatore per aver adottato una tattica di logoramento per contrastare Annibale. 13 Enea… lo sterratore: il protagonista dell’Eneide e vari personaggi dei poemi omerici; il tignoso “malato di rogna”; sterratore “chi scava e spiana la terra” per costruzioni, specie stradali. 14 Lancialotto del Lago: Lancillotto del Lago, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda e del ciclo arturiano.
15 Cocito... Lete: i fiumi infernali su cui i paladini erranti sono costretti a traghettare i diavoli. 16 Diogene: filosofo greco (413-323 ca. a.C.), fondatore della scuola di pensiero cinica. 17 Epitteto: filosofo greco (ca. 50-138 d.C.) seguace della scuola stoica. La sua austera visione viene qui “rovesciata” in una dichiarata adesione ai piaceri della vita. 18 divisa: motto, breve frase.
La produzione anticlassicista 2 147
«Non appena mi vide, mi invitò a bere con lui cortesemente, cosa che io accettai volentieri; e ci mettemmo a sciroppare19 come teologi. Intanto venne Ciro a chiedergli in carità un ventino, per l’amor di Mercurio, per comprarsi un po’ di cipolla da far cena. Ma Epitteto gli disse: “Niente, niente, io non dò mai spiccioli: prendi, straccione, eccoti uno scudo, e cerca di mantenerti onesto”. Ciro era tutto contento d’aver fatto un cosi bel colpo; ma quegli altri furfanti di re, che sono laggiù, come 65 Alessandro, Dario, ecc., lo svaligiarono poi di notte. 60
19 sciroppare: il verbo (che alla lettera vale “fare o bere bevande zuccherose”, e anche “conservare frutta in uno sciroppo zuccherato”) qui allude alla conversazione amabile che si svolge tra i due.
Analisi del testo Un inferno dominato dal riso “carnevalesco” L’episodio della resurrezione di Epistemone e del suo ritorno dall’aldilà costituisce un esempio particolarmente significativo delle più generali caratteristiche dell’opera di Rabelais. Colpisce innanzitutto lo spirito dissacrante e parodico che informa l’episodio, tenuto conto che il modello più immediato è l’episodio evangelico della resurrezione di Lazzaro. Un tale spirito è evidente già nelle prime reazioni del resuscitato, che sono esclusivamente fisiologiche, e anzi basso corporee: dal primo respiro con cui riprende a vivere al gigantesco peto che, a detta di Panurge, ne testimonia inequivocabilmente la ritrovata salute. Tornato dall’aldilà, Epistemone non ha edificanti principi da comunicare, né alcuna informazione da trasmettere ai vivi che abbia a che fare con la dimensione religiosa: l’aldilà, o meglio l’inferno che ha visitato, è un mondo concreto, del tutto laico, in cui domina la dimensione del riso, vero principio organizzatore dell’universo poetico di Rabelais.
L’inferno come “mondo capovolto” L’aspetto dominante nell’inferno rabelaisiano è il rovesciamento della condizione terrena: in una prospettiva dichiaratamente umoristica, i grandi della storia sono costretti a umili occupazioni (l’esempio forse più memorabile è quello del grande re persiano Dario divenuto «vuotacessi»). Lo scrittore enfatizza il principio del “rovesciamento” attraverso la figura retorica, portata all’eccesso, dell’enumerazione: in un lungo elenco compaiono senza alcun ordine, ma anzi in un disordine voluto, figure delle più varie epoche, grandi re e uomini politici, ma non mancano figure leggendarie e personaggi letterari, appartenenti all’epica classica, come Enea e Ulisse, o al romanzo cavalleresco medievale, come Lancillotto e i cavalieri della Tavola Rotonda. Questi ultimi sono costretti a traghettare i diavoli attraverso i fiumi infernali, ricevendone in cambio solo sberle. Se i grandi e gli eroi sono ridotti a una miserrima condizione, i filosofi, al contrario, che hanno sempre dovuto soffrire la miseria e sono stati spesso bistrattati per le loro idee, si trovano nell’inferno in una posizione privilegiata e sono serviti e omaggiati dai grandi: grottesca è l’immagine che vede Alessandro Magno rammendare i calzini all’ex povero filosofo Diogene, o del re persiano Ciro che chiede l’elemosina al filosofo Epitteto, ne riceve uno scudo per essere poi derubato da «quegli altri furfanti di re».
L’inferno come caotico “guazzabuglio” Dalla lettura complessiva del testo proposto si ricava un’immagine dell’inferno come antiordine: all’opposto, quindi, dell’inferno dantesco; se quest’ultimo è strutturato su rigide distinzioni e precise gerarchie in rapporto al nesso colpa-pena (e alla rigorosa visione teologica del poeta), al contrario l’inferno di Rabelais è un caotico guazzabuglio, in cui non esiste alcun principio organizzatore e nessuna divisione e distinzione fra i dannati. Scrive Bachtin a proposito del carnevale nelle culture popolari: «nel carnevale tutti erano considerati uguali, e nella piazza carnevalesca regnava la forma particolare del contatto familiare e libero fra le persone, separate nella vita normale [...] dalle barriere insormontabili della loro condizione, dei loro beni, del loro lavoro, della loro età e della loro situazione familiare. Sullo sfondo dell’eccezionale gerarchizzazione del regime feudale medievale [...] questo
148 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
contatto libero e familiare era sentito molto acutamente e costituiva una parte essenziale della percezione carnevalesca del mondo. Era come se l’individuo fosse dotato di una seconda vita che gli permetteva di avere rapporti nuovi, puramente umani, con i suoi simili [...] Questa eliminazione temporanea, ideale e reale, dei rapporti gerarchici fra le persone, creava nella piazza carnevalesca un tipo speciale di comunicazione, impensabile in tempi normali. Si assisteva all’elaborazione di forme specifiche di linguaggio e di gesti della pubblica piazza, aperte e schiette, che abolivano ogni distanza fra gli individui in comunicazione, libere dalle regole correnti (non carnevalesche) dell’etichetta e della decenza». Ed è quanto accade nell’inferno di Rabelais, sorta di “piazza carnevalesca”.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1 Riassumi il contenuto del racconto di Epistemone precisandone il contesto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. In quale modo si attua il principio del “rovesciamento” per i filosofi? E in particolare per Epitteto, filosofo della scuola stoica? TECNICA NARRATIVA 3. Di chi è la voce che descrive l’inferno? ANALISI 4. Spiega in che modo Rabelais, attraverso la propria opera, critichi i saperi tradizionali e contestualmente anche la società del tempo. STILE 5. Quali espedienti retorici utilizza l’autore per ottenere l’effetto della parodia: enumerazione, climax, ossimoro o anafora?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 6. Nel brano proposto, come in tutta la propria opera, Rabelais persegue primariamente uno scopo ludico, ma non esclude l’implicita denuncia dei mali del proprio tempo. Individua e presenta oralmente (max 3 min) gli aspetti della cultura tradizionale e della società presi di mira nell’episodio analizzato. SCRITTURA 7. Leggi attentamente il breve passo di Bachtin riportato nell’analisi del testo e cerca di spiegare perché il mondo infernale costruito da Rabelais risponda alla categoria del “carnevalesco” (max 15 righe).
Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra carnevale e quaresima, olio su tavola, 1559 (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
La produzione anticlassicista 2 149
Quattrocento e Cinquecento Classicismo e anticlassicismo
Sintesi con audiolettura
1 La visione classicistica della letteratura
I principi chiave del classicismo Per tutto il Rinascimento vige il principio dell’imitazione dei classici, considerati modelli assoluti di umanità e perfezione stilistica. Il riconoscimento di questa eccellenza, però, non esclude, anzi stimola, il desiderio nei più grandi scrittori del Quattro-Cinquecento di emulare gli autori del passato. Il classicismo comporta innanzitutto la ricorrente presenza del repertorio mitologico e di temi e motivi della letteratura classica (il carpe diem, la fugacità della giovinezza...). Inoltre sono riprese le forme del teatro classico (tragedia e commedia) e il genere idillico-pastorale, particolarmente congeniale al gusto raffinato delle corti e all’edonismo rinascimentale. Si tende poi, in genere, a una rappresentazione idealizzante e nobilitante della realtà e a ricercare attraverso il labor limae uno stile armonico e perfetto. L’influsso della Poetica di Aristotele, infine, spinge a una riflessione teorica sulla letteratura e in particolare sulla tragedia, che conduce all’elaborazione di norme prescrittive associate a uno stile elitario. Lorenzo de’ Medici Lorenzo de’ Medici (1449-1492) è celeberrimo uomo politico ma anche poeta e cultore d’arte influenzato dal platonismo. Le sue opere, tra le quali si ricordano i Canti carnascialeschi e le Selve d’amore, popolano una produzione assai ricca e diversa, prodotto di un amante della sperimentazione. Angelo Poliziano e l’ideale neoplatonico della bellezza Umanista, filologo, poeta dotto e raffinato, Angelo Poliziano (1454-1494) opera a Firenze, alla corte dei Medici. All’ambiente della corte medicea è rivolto il poemetto encomiastico Stanze per la giostra, ovvero strofe (ottave in questo caso) per il torneo: sotto le vesti del protagonista Iulo, Poliziano celebra Giuliano de’ Medici, vincitore di un torneo indetto da Lorenzo il Magnifico nel 1475. Il poemetto, rimasto incompiuto per l’assassinio di Giuliano, è denso di rimandi classicistici e classico è l’ideale della bellezza (femminile e della natura) che anima il testo, ma rivisto alla luce del neoplatonismo dominante nella cultura fiorentina del tempo e attraverso una lingua assai ricca. Con la Fabula di Orfeo, scritta per la corte dei Gonzaga, Poliziano sperimenta anche un teatro laico a soggetto mitologico. Jacopo Sannazaro e il mito dell’Arcadia Con il romanzo pastorale Arcadia (1504) Jacopo Sannazaro (1457-1530), attivo nella Napoli aragonese, scrive un’opera di genere bucolico di risonanza europea, immettendo nella letteratura in volgare il mito classico dell’Arcadia, che avrà grandissima fortuna. L’opera ha in parte carattere autobiografico e mescola realtà e finzione. Il paesaggio dell’Arcadia, un’arida regione della Grecia che già nel mondo antico (nelle Egloghe di Virgilio) era stata trasfigurata in luogo mitico, idillico, in cui l’uomo vive in pace e in armonia con la natura, viene riportato in auge da questo prosimetrum e attraversa la letteratura italiana fino al Settecento, dimostrando un sempre maggiore isolamento degli intellettuali dalla società nella corte.
150 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
La civiltà del trattato L’età umanistico-rinascimentale è il periodo di massimo successo del trattato, che nel Quattrocento è dedicato alle tematiche legate alla visione antropocentrica mentre nel Cinquecento discute di modelli di comportamento. Nello stesso periodo, centrale è anche la rappresentazione idealizzante dell’amore. L’intellettuale più autorevole dell’epoca sull’argomento è il veneziano Pietro Bembo (14701547), autore delle Rime alla maniera di Petrarca, di cui aveva curato per Manuzio un’edizione filologica del Canzoniere. Particolare influenza esercita il suo trattato Gli Asolani, un dialogo in tre libri in cui si mettono a confronto diverse concezioni dell’amore, propendendo alla fine per una sua versione spiritualizzata. Nel Rinascimento abbondano i trattati di buon comportamento, inteso non in senso morale ma in senso sociale, in rapporto ai bisogni relazionali e al ruolo ricoperto dagli individui all’interno della corte. Ha risonanza europea Il libro del Cortegiano (1528) di Baldesar Castiglione (1478-1529), manuale di comportamento che diffonde in Europa l’immagine della corte italiana come modello di civiltà. Ambientato alla corte di Urbino, Il Cortegiano è un trattato dialogico in 4 libri che si propone di delineare la figura del cortigiano perfetto (il III libro è dedicato alla “donna di palazzo”); alle competenze militari tradizionali si aggiungono le qualità suggerite dalla pedagogia umanistica: buona cultura, autocontrollo, senso della misura, eleganza non affettata, sprezzatura. Il IV libro fa riferimento al ruolo politico del cortigiano, in quanto consigliere del principe e spesso suo diplomatico. Il libro tratta anche temi del dibattito culturale coevo, quali la questione della lingua (con una tesi differente da quella di Bembo), il comportamento delle donne e l’amore platonico. Ancor più celebre è il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa (1503-1556), che si rivolge a un pubblico più ampio e ha obiettivi più precisi e limitati: insegnare le “buone maniere” (quello che nel tempo è appunto stato considerato “il galateo”): come si sta a tavola, come si conversa, come ci si veste.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
151
2 La produzione anticlassicista
Il classicismo: un modello dominante, ma non esclusivo Non mancano, nel Rinascimento, autori che non si riconoscono nel modello estetico dominante, ispirato all’idealizzazione e al classicismo: tali manifestazioni oggi vengono riunite sotto l’etichetta di “Antirinascimento” o “Anticlassicismo” e sono caratterizzate dal plurilinguismo e da registri iperespressivi. La Vita di Benvenuto Cellini Il fiorentino Benvenuto Cellini (1500-1571), celebre orafo e scultore, nella sua Vita, opera autobiografica e autocelebrativa, sceglie una prosa mossa e vivace con inserti di parlato per creare ritratti e rappresentazioni antidealizzanti della realtà che lo circonda. Un “irregolare”: Pietro Aretino Pietro Aretino (1492-1556), spirito trasgressivo e spregiudicato, sperimenta diversi generi letterari e in uno dei suoi lavori più celebri (Sei giornate) immagina che una prostituta istruisca la figlia sull’“arte puttanesca”, in evidente polemica con i trattati idealizzanti sull’amor platonico. Un poema anticlassicistico: il Baldus di Teofilo Folengo Teofilo Folengo (1491-1544) scrive l’opera più significativa della linea anticlassicistica: il Baldus, un poema eroicomico e grottesco in esametri e in lingua maccheronica, che mescola latino ed elementi lessicali e sintattici di dialetti del Nord Italia con effetti spesso esilaranti. In particolare nella prima parte Folengo, che rimane comunque un raffinato umanista, dà spazio a una rappresentazione del mondo contadino antitetica all’idealizzazione bucolica. Un grande modello europeo: Gargantua e Pantagruele di Rabelais François Rabelais (1494?-1553), medico e umanista, scrive il capolavoro dell’anticlassicismo in ambito europeo con il suo monumentale Gargantua e Pantagruele. Il romanzo, mediante un plurilinguismo parodico dei linguaggi alti, attacca e irride la pedanteria, il dogmatismo della cultura ufficiale, l’ascetismo e l’idealismo, rivendicando i diritti del riso e del corpo.
Zona Competenze Competenza digitale
1. Sintetizza in una presentazione digitale i significati che assume il classicismo umanistico-rinascimentale sul piano della visione del mondo e delle scelte artistico-culturali.
Esposizione orale
2. Illustra oralmente (max 2 minuti) le ragioni della fortuna, nell’età umanistico-rinascimentale, del mito dell’età dell’oro.
Scrittura argomentativa
3. Rifletti sulla ricorrente presenza nel Baldus delle tematiche legate al cibo e alla fisicità e, se ne conosci, in altre opere coeve; poi elabora un testo espositivo-argomentativo sulle modalità espressive che le caratterizzano e sulle relazioni con il contesto socio-culturale.
Scrittura creativa
4. Seguendo il modello di Rabelais, prova tu a costruire un inferno con figure dell’attualità o della storia recente che rispecchi i principi del “rovesciamento” e della “carnevalizzazione” propri dell’universo rabelaisiano.
152 Quattrocento e Cinquecento 1 Classicismo e anticlassicismo
Quattrocento e cinquecento CAPITOLO
2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Nel corso del Cinquecento si afferma saldamente in Italia un modello poetico ispirato all’imitazione del Canzoniere petrarchesco, che creò un codice lirico comune tra i poeti, destinato a essere esportato anche nella cultura europea. La responsabilità principale nell’imposizione del petrarchismo come indiscutibile modello egemonico nella poesia italiana si deve a Pietro Bembo, nella veste sia di teorico della lingua (con le Prose della volgar lingua, 1525), sia di trattatista dell’amore platonico (con gli Asolani), sia di poeta lirico (con le sue Rime). Nella massa di poeti che poetarono “alla maniera di Petrarca” si distaccano, per qualche apporto originale, alcune singole voci poetiche: la più interessante è quella di Giovanni Della Casa. Desta non pochi motivi di interesse la presenza, all’interno del petrarchismo, di numerose poetesse che testimonia il ruolo attivo delle scrittrici.
consacrazione del 1 LaCanzoniere a modello della poesia lirica
2 Le poetesse 153 153
1
La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 Il petrarchismo Già fra Trecento e Quattrocento Petrarca rappresenta un modello per i poeti (come Sannazaro e Boiardo); ma è nel Cinquecento che l’imitazione del Canzoniere diventa un vero e proprio fatto di costume, dando vita al fenomeno del petrarchismo. Non solo in tutta Italia (da Venezia alla Toscana, da Roma a Napoli), ma anche in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo si riprendono in poesia temi e situazioni ricorrenti nel Canzoniere, che entrano così a far parte stabilmente dell’immaginario europeo, costituendo un repertorio poetico comune. Lo stile armonico ed elegante del Canzoniere si accordava al gusto estetico del Rinascimento, ma anche sul piano tematico l’opera di Petrarca rispondeva alle esigenze del tempo: l’inquieta ricerca da parte di Petrarca di superare una dimensione sensuale dell’amore si accordava con la valorizzazione dell’amore spirituale propria del movimento neoplatonico. La fortuna del Canzoniere innesca un’esplosione della lirica, che diventa il genere più di moda nel sistema letterario del Cinquecento: quasi tutti gli intellettuali compongono poesie nelle più diverse occasioni e la lirica diventa una sorta di rito laico che conferisce prestigio e occasioni di promozione sociale a coloro che vi partecipano. Il ruolo chiave di Pietro Bembo Nell’affermazione del culto di Petrarca ha un ruolo primario Pietro Bembo (1470-1547), uno degli intellettuali più importanti della cultura rinascimentale. Dopo aver scoperto il Codice Vaticano 3195 (che contiene l’ultima redazione del Canzoniere), Bembo cura nel 1501 una fondamentale edizione del Canzoniere presso il più importante editore del tempo, il veneziano Aldo Manuzio. Inoltre, con le Prose della volgar lingua (1525), con cui interviene sulla discussa questione della lingua (➜SCENARI, PAG. 72), la lingua del Canzoniere è elevata a modello assoluto per la poesia: una scelta che, data la fama indiscussa del ruolo del Bembo tra i letterati italiani, condizionerà per secoli la poesia italiana, vincolandola all’imitazione più o meno diretta di Petrarca. Infine, con le sue Rime (pubblicate nel 1530) Pietro Bembo offe un esempio concreto, praticabile da tutti i letterati, dell’imitazione di Petrarca (➜ T1a ), gettando così le basi del petrarchismo. Una fortunata scelta editoriale: il Canzoniere in formato tascabile L’editore umanista Manuzio ebbe l’idea di pubblicare l’opera di Petrarca in un volumetto di formato maneggevole (un tascabile diremmo oggi), una scelta editoriale che incrementò il numero dei lettori e influì sulle modalità stesse di lettura del Canzoniere: infatti, mentre i precedenti formati erano adatti ai leggii delle biblioteche e vincolavano rigidamente la lettura a determinati luoghi, tempi e specifiche condizioni, i “petrarchini”, come furono chiamati, permettevano una lettura privata e personalizzata a seconda delle proprie esigenze. Di fatto i petrarchini consentirono
154 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
a molti più lettori di accostarsi al Canzoniere, che ben presto divenne una lettura obbligata fra le persone colte. Leggere Petrarca diventa una vera e propria moda, rispecchiata anche dalla pittura del tempo: dame e gentiluomini si fanno ritrarre con il loro inseparabile petrarchino, simbolo tangibile di una condizione al contempo sociale e intellettuale. Luci e ombre del petrarchismo italiano Indubbiamente il petrarchismo contribuì a creare nella poesia italiana un codice lirico comune. D’altra parte, proprio la tendenza, derivata dall’imitazione di Petrarca, a una raffinata astrazione, e l’estromissione dalla poesia “alta” di ogni dato della realtà e di argomenti e stilemi ritenuti “indegni” del codice lirico, allontana inevitabilmente la poesia dalla vita vera, immobilizzandola in forme stereotipate, che tendono a replicarsi nel tempo.
I petrarchisti Nello scenario affollato del petrarchismo italiano non sono molte le personalità poetiche capaci di una loro originalità e autonomia rispetto al modello. Tra le più significative possono essere ricordati Galezzo di Tàrsia, Michelangelo Buonarroti, e soprattutto Giovanni Della Casa. Pietro Bembo Le Rime di Pietro Bembo (pubblicate nel 1530) rappresentano il versante “normativo” della lirica che si ispira a Petrarca. Volutamente Bembo non
IMMAGINE INTERATTIVA
Andrea del Sarto, Dama col petrarchino (1528). La donna, elegantemente vestita e ornata di preziosi gioielli, appoggia il braccio su una poltrona di legno intarsiato: ogni dettaglio esprime la raffinatezza di un’alta dama di corte, e il Canzoniere ne è il necessario complemento. Sullo sfondo scuro, reso brillante dai riflessi dell’ampio panneggio dell’abito blu, spiccano in piena luce il volto, gli avambracci e le mani, che fanno convergere l’attenzione sul libro aperto, in cui si leggono i due sonetti 153 e 154 di Petrarca. Di recente si è ricostruito che si tratta dell’edizione a stampa del Canzoniere edita a Firenze nel 1522.
Agnolo Bronzino, Ritratto di Laura Battiferri (1558). La gentildonna è vestita in modo assai sobrio e austero, e dipinta in modo da esaltarne il profilo aquilino, indice di una personalità volitiva e di un’attitudine intellettuale (era infatti una donna colta, una poetessa). Laura non guarda verso l’osservatore, ma indica i sonetti del Canzoniere (64 e 240), da cui è possibile ricavare la chiave della sua personalità severa e sdegnosa. Il petrarchino qui raffigurato in realtà è un testo manoscritto (in quanto i due sonetti non sono contigui in nessuna edizione a stampa del Canzoniere).
La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 155
ricerca l’originalità, ma propone un modello rigoroso di imitazione del grande poeta trecentesco (➜ T1a ) rivolto agli altri poeti: un’imitazione che non riguarda solo l’armonia dello stile, o la riproduzione di singoli stilemi ricorrenti in Petrarca, ma che comporta anche l’adesione all’itinerario spirituale tracciato nel Canzoniere.
Pietro Bembo ritratto come priore dei Cavalieri Ospitalieri, 1537 ca. (Museo del Prado, Madrid).
Giovanni Della Casa Particolarmente importanti, anche per la suggestione che eserciteranno nel tempo, sono le rime di Giovanni Della Casa (1503-1556), l’autore del celebre trattato Galateo (➜ C1). Le sue composizioni più personali sono caratterizzate da toni malinconici, dalla consapevolezza dell’avanzare della vecchiaia e della morte (➜ T5 ). La caratteristica tecnica che distingue i sonetti dellacasiani – e che maggiormente ha fatto scuola, almeno fino a Leopardi – è il frequente e meditato uso dell’enjambement. Un uso già presente nella poesia italiana fin dalle origini, ma che Della Casa utilizza in modo marcato e ricorrente, ottenendo particolari effetti ritmici, per i quali il suo stile poetico fu particolarmente apprezzato. Michelangelo Buonarroti Buonarroti (1475-1564), uno dei più grandi artisti del Rinascimento, ha lasciato circa 300 componimenti poetici, pubblicati postumi nel 1623. Le sue prime composizioni risentono di diversi influssi, legati alla cultura fiorentina (da Dante al Berni); dal 1532 il modello unico diventa Petrarca, mentre, a livello propriamente tematico, domina la concezione neoplatonica dell’amore. Il petrarchismo di Michelangelo però è del tutto particolare, per la ricerca di un lessico non convenzionale e un’attitudine riflessiva che si traduce in forme concettose e spesso oscure. Galeazzo di Tàrsia Nelle liriche del suo canzoniere, Galeazzo di Tàrsia (1520 ca1553) un nobile calabrese dalla vita breve e avventurosa, in particolare quelle ispirategli dalla prematura morte della moglie, dà voce all’espressione diretta dei sentimenti e a una dimensione drammatica che infrange le convenzioni petrarchiste.
2 La contestazione del modello: gli antipetrarchisti Già nel Quattrocento non erano mancate esperienze poetiche alternative al filone petrarcheggiante: si può ricordare almeno il Burchiello, nome fittizio del fiorentino Domenico di Giovanni (1404-1449), così detto per la tendenza a poetare “alla burchia”, cioè ad ammassare nei suoi testi poetici parole e immagini tratte dalla realtà quotidiana in modo, almeno apparentemente, caotico (la burchia è una barca dal fondo piatto in cui erano ammassate alla rinfusa le merci). Nel primo Cinquecento la figura di maggior spicco nell’ambito della contestazione del modello petrarchista imperante è Francesco Berni (1497-1535). Non è un caso che anche Berni sia toscano: in Toscana infatti era ancora viva la tradizione burlesca e comico-realistica, da cui egli prende le mosse. Tuttavia la sua stessa vita di poeta cortigiano, in particolare alla corte pontificia, impedisce a Berni atteggiamenti troppo apertamente dissacranti e davvero anticonformistici. Berni rifiuta certamente il gusto idealizzante, in campo sia linguistico sia poetico, ma non arriva all’aperta rivolta, limitandosi a una sorridente parodia dei modi petrarchisti, come nel celebre sonetto che proponiamo (➜ T1b ) e a rappresentare nelle sue rime il mondo prosaico della quotidianità: una scelta comunque di per sé significativa.
156 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Petrarchismo e antipetrarchismo PETRARCHISTI imitazione stilistica Pietro Bembo
costituisce il versante normativo della lirica petrarchista
adesione all’itinerario spirituale del Canzoniere
riflessione malinconica sulla vanità dell’amore Giovanni Della Casa
stile musicale e solenne vanità delle illusioni e inquietudine dell’esistere frequente utilizzo dell’enjambement
concezione neoplatonica dell’amore Michelangelo Buonarroti
toni cupi e oscurità riflessione religiosa lessico non convenzionale espressione diretta dei sentimenti
Galeazzo di Tarsia dimensione drammatica
ANTIPETRARCHISTI parole e immagini tratte dalla realtà quotidiana Burchiello apparente ammasso caotico
tradizione burlesca toscana Francesco Berni parodia non troppo dissacrante dei modi petrarchisti
La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 157
T1
Il modello e la contestazione parodica Proponiamo uno dei sonetti di Bembo più celebri, proprio per il suo carattere di esemplare testimonianza della fedeltà al modello di Petrarca. A questo canonico documento del petrarchismo associamo il celeberrimo sonetto di Berni che rovescia, in una dissacrante rilettura parodica, il modello bembiano.
Pietro Bembo
T1a
Crin d’oro crespo e d’ambra tersa e pura Rime (V)
P. Bembo, Prose e rime, a c. di C. Dionisotti, Tea, Milano 1989
La donna di cui si esalta la bellezza è probabilmente Lucrezia Borgia, cui Bembo dedica altre sue rime e Gli Asolani, un trattato sull’amore.
Crin d’oro crespo e d’ambra1 tersa e pura, ch’a l’aura su la neve ondeggi e vole2, occhi soavi e più chiari che ’l sole, 4 da far giorno seren la notte oscura3, riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura, rubini e perle4, ond’escono parole sì dolci, ch’altro ben l’alma non vòle5, 8 man d’avorio, che i cor distringe e fura6, cantar, che sembra d’armonia divina, senno maturo a la più verde etade7, 11 leggiadria non veduta unqua8 fra noi, giunta a somma beltà somma onestade9, fur l’esca del mio foco10, e sono in voi 14 grazie, ch’a poche il ciel largo destina11. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DEC 1 Crin... d’ambra: inizia un’enumerazione delle qualità (fisiche e intellettuali) della donna che si lega al verbo fur (“furono”) del v. 13. L’ambra è una resina fossile di colore dorato e, come il precedente riferimento all’oro, è una metafora per alludere al biondo dei capelli dell’amata. 2 ch’a l’aura... vole: che ondeggi e voli all’aria sulla neve (l’immagine metaforica
allude al candore del volto della donna). Il senhal petrarchesco l’aura (Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, XC) è un dichiarato omaggio a Petrarca. 3 da far… oscura: capaci di trasformare in un giorno sereno una notte scura (iperbole). 4 rubini e perle: metafore per alludere alle labbra rosse e al candore dei denti. 5 parole... vòle: parole così dolci, che ad altro bene l’anima non ambisce (vòle, “vuole”). 6 i cor... fura: tiene avvinti e ruba (fura, latinismo) i cuori.
7 senno... etade: matura saggezza nella prima giovinezza.
8 unqua: giammai, mai (latinismo, da unquam). 9 giunta... onestade: virtù somma aggiunta a somma bellezza. 10 fur... foco: furono l’esca che accese in me il fuoco (d’amore). 11 sono in voi… destina: racchiudete doni (grazie) che il cielo riserva (destina) a poche con questa generosità (largo).
Analisi del testo Struttura Il sonetto, costituito da un unico periodo sintattico, è strutturato in due parti, corrispondenti, rispettivamente, la prima ai vv. 1-12, la seconda agli ultimi due versi del sonetto. Nella prima parte Bembo enumera le straordinarie qualità della donna: i biondi e mossi capelli, gli occhi chiari, il sorriso, le labbra rosse e i bianchi denti, la mano bianca come l’avorio, il canto armonioso, la saggezza inusitata in una donna così giovane e infine l’associazione tra bellezza e nobiltà d’animo. Nella brevissima seconda parte si trova la conseguenza di tante qualità e cioè il conseguente innamoramento del poeta (fur l’esca del mio foco).
158 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Un collage di immagini e termini petrarcheschi La fonte più diretta del sonetto di Bembo è il sonetto CCXIII di Petrarca (Grazie ch’a pochi il ciel largo destina), strutturato a sua volta come una sorta di “catalogo” delle virtù della donna: l’incipit è ripreso letteralmente nella conclusione del sonetto di Bembo. Ma, come ha dimostrato Dionisotti, al di là della fonte principale, il sonetto di Bembo è un vero e proprio collage di immagini, termini, metafore petrarcheschi. Evidentemente non è neppure pensabile che Bembo volesse minimizzare o addirittura nascondere l’imitazione di Petrarca che sta alla base del componimento; al contrario, il sonetto bembiano deve essere considerato un esplicito omaggio al maestro, ma soprattutto un esempio di efficace imitazione che servisse come modello per gli altri poeti.
Francesco Berni
T1b
Chiome d’argento fino, irte e attorte Sonetto alla sua donna (XXIII)
Poesia italiana. Il Cinquecento, a c. di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978
Francesco Berni (1497-1535), toscano, fu poeta cortigiano, prevalentemente al servizio della curia romana. Fu autore di capitoli (componimenti satirico-burleschi in terzine), di un adattamento in toscano letterario dell’Orlando innamorato del Boiardo (pubblicato postumo nel 1542) e di sonetti in stile comico, come quello qui proposto, evidente parodia del petrarchismo bembesco.
Chiome d’argento fino, irte e attorte1 senz’arte intorno ad un bel viso d’oro2; fronte crespa3, u’ mirando4 io mi scoloro5, 4 dove spunta i suoi strali Amor e Morte; occhi di perle vaghi6, luci torte da ogni obietto diseguale a loro7; ciglie di neve, e quelle, ond’io m’accoro, 8 dita e man dolcemente grosse e corte; labra di latte8, bocca ampia celeste9; denti d’ebeno rari e pellegrini10; 11 inaudita ineffabile armonia11; costumi alteri e gravi12: a voi, divini servi d’Amor13, palese fo14 che queste 14 son le bellezze della donna mia. La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE DCE 1 d’argento… attorte: canute, ispide e attorcigliate. 2 viso d’oro: viso dal colorito giallastro. 3 crespa: rugosa. 4 u’ mirando: dove (u’ è apocope del termine lat. ubi) guardando. 5 io mi scoloro: impallidisco. 6 occhi di perle vaghi: occhi lacrimosi ed erranti: l’aggettivo petrarchesco per eccellenza (vago) è parodicamente im-
piegato per alludere allo strabismo della donna, a cui si fa più esplicito riferimento subito dopo. 7 luci... a loro: occhi (luci) completamente strabici (lo sguardo è distolto da ogni oggetto che non siano gli occhi stessi). 8 labra di latte: labbra pallide (si noti l’allitterazione). 9 ampia celeste: larga e scura (come la volta del cielo). 10 denti d’ebeno rari e pellegrini: denti neri, scarsi e non ben saldi (pellegrini).
11 inaudita ineffabile armonia: la bellezza della donna (detto ironicamente) è espressione di un’armonia straordinaria (inaudita ineffabile). 12 costumi alteri e gravi: modi superbi e grevi, pesanti (da sopportarsi). 13 divini servi d’Amor: Berni si rivolge ai cultori e cantori dell’amore perfetto (primo tra tutti il Bembo il cui sonetto sopra citato viene parodizzato). 14 palese fo: dichiaro.
La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 159
Analisi del testo Una parodia del petrarchismo Il sonetto di Berni rappresenta una donna vecchia e brutta di cui tesse le lodi con i termini e le espressioni che abitualmente nella tradizione lirica e in Petrarca erano usati per lodare la bellezza della donna amata. La fonte diretta a cui Berni attinge è il sonetto di Bembo Crin d’oro crespo di cui fa un’evidente parodia utilizzando in modo ricorrente un procedimento antifrastico, cioè ironico: ad esempio il riferimento metaforico alle “perle”, impiegato dal Bembo per alludere al candore dei denti della donna, è utilizzato dal Berni per alludere invece agli occhi lacrimosi, cisposi, della donna. L’esercizio letterario della parodia si fonda sul pieno possesso, da parte dell’autore, del testo o dei testi che intende rovesciare: la parodia è dunque per sua natura un’operazione colta. La conoscenza del modello peraltro è richiesta anche al lettore, che a sua volta non potrebbe apprezzare altrimenti l’operazione parodica stessa. Un’operazione in questo caso originata da un intento polemico nei confronti dell’imperante moda petrarchista.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è l’intento di Bembo nel comporre il suo sonetto? Quale quello di Berni? ANALISI 2. Completa la tabella, evidenziando nei due testi le differenze tra la poesia petrarchista di Bembo e quella antipetrarchista di Berni. Pietro Bembo, Crin d’oro crespo...
Interpretare
v. 1
Crin d’oro crespo…
v. 3
occhi soavi e più chiari che ’l sole,
v. 5
riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura,
v. 6
rubini e perle…
v. 8
man d’avorio…
v. 9
cantar, che sembra…
v. 11
leggiadria non veduta…
Francesco Berni, Chiome d’argento
Rovesciamento del significato La donna è ritratta da anziana: ha i capelli grigi («d’argento»)
SCRITTURA CREATIVA 3. Seguendo il modello di Berni, prendi a modello un sonetto di Petrarca a tua scelta tra quelli studiati e prova tu a costruire un sonetto che rispecchi i princìpi del rovesciamento berniano.
online T2 Pietro Bembo Piansi e cantai Rime (I)
160 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Michelangelo Buonarroti
T3
Giunto è già ’l corso della vita mia Rime (CXLVII)
Poesia italiana. Il Cinquecento, a c. di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978
AUDIOLETTURA
Il grande Michelangelo Buonarroti si dedicò anche alla poesia, oltre che all’arte, scrivendo molte composizioni in versi, nate dalla sua amicizia intellettuale con Vittoria Colonna, in cui dimostra di aver assimilato la lezione del neoplatonismo. Negli ultimi anni di vita la sua poesia si orienta su una meditazione di contenuto essenzialmente religioso, come nel caso della lirica che presentiamo.
Giunto è già ’l corso della vita mia, con tempestoso mar, per1 fragil barca, al comun porto, ov’a render si varca 4 conto e ragion d’ogni opra trista e pia2. Onde l’affettüosa fantasia che l’arte mi fece idol e monarca conosco or ben com’era d’error carca3 8 e quel ch’a mal suo grado ogn’uom desia4. Gli amorosi pensier, già vani e lieti, che fien5 or, s’a duo morte6 m’avvicino? 11 D’una so ’l certo7, e l’altra mi minaccia. Né pinger né scolpir fie più che quieti8 l’anima, volta a quell’amor divino9 14 ch’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE 1 per: su una. 2 ov’a render... pia: dove si passa a rendere conto e ragione di ogni azione colpevole e virtuosa. 3 Onde l’affettüosa... carca: Per cui ora riconosco come fosse carica di errori (d’error carca), cioè erronea, l’appassionata ispirazione artistica (l’affettüosa fantasia) che mi indusse a considerare (mi fece,
“trasformò per me”) l’arte come idolo e sovrano. 4 e quel... desia: e (conosco bene) quello che ognuno desidera (desia) contro il suo stesso bene, a suo danno, cioè i beni caduchi. 5 che fien: che cosa diventeranno. 6 duo morte: due morti. 7 D’una so ’l certo: Di una (di queste due morti) so che è certa (’l certo, sott. “il [suo] sicuro [compiersi]”).
8 Né pinger... quieti: Né dipingere (pinger) né scolpire potrà (fie, “sarà”) più consolare. In effetti, al tempo della stesura del sonetto (fra il 1532 e il 1554) Michelangelo decide di abbandonare la pittura e la scultura in parte per concentrarsi sull’architettura come impegno più progettuale che esecutivo. 9 quell’amor divino: quel Dio d’amore (per metonimia).
Analisi del testo Un amaro bilancio esistenziale Il sonetto è certamente uno dei più suggestivi della produzione lirica che si iscrive nel petrarchismo. Composto negli ultimi anni di vita di Michelangelo, è incentrato sul tema della vanità di tutto ciò che è terreno nella prospettiva della morte, percepita come ormai vicina. Il tema è in sé quasi convenzionale, data la sua diffusione nella lirica in genere, e in particolare nella poesia di Petrarca, da cui Michelangelo riprende qui, come più sotto si osserva, immagini metaforiche, stilemi e singole espressioni. Ma, d’altra parte, il sonetto presenta una indubbia originalità rispetto al codice lirico del tempo, dovuta alla presenza di riferimenti autobiografici e di una sincera ispirazione religiosa.
La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 161
Michelangelo, ormai molto vecchio, riflette sul senso della sua esistenza e l’esito di questa riflessione è negativo: l’arte, a cui ha dedicato la sua vita al punto di farne il motivo ispiratore, il centro assoluto («idol e monarca», v. 6) appare all’io lirico «d’error carca» (v. 7), forse perché fondata sull’illusione che l’arte potesse vincere, con la sua eccellenza, la naturale caducità delle cose terrene. Ma soprattutto, come viene asserito nell’ultima terzina, la creazione artistica non si è rivelata in grado di appagare del tutto le inquietudini interiori del grande artista: la sua anima dunque si è ormai rivolta verso la dimensione del trascendente, l’«amor divino» che ha indotto Cristo a sacrificarsi sulla croce. Un ruolo tutto sommato marginale svolge, all’interno del tema chiave della poesia, il riferimento alle passioni amorose («Gli amorosi pensier», v. 9), che il poeta condanna di fronte al pericolo della dannazione eterna che potrebbero comportare dopo la morte fisica (le «duo morte», v. 10).
La rivisitazione del codice petrarchesco Risulta evidente, anche a una prima lettura del sonetto, l’imitazione di Petrarca, a cominciare dalla contrapposizione tra gli “errori” del passato («fece», v. 6) e l’amara consapevolezza del presente («conoIn un particolare del Giudizio universale sco or ben», v. 7). I riferimenti a Petrarca sono numerosi e “scoperti”, della cappella Sistina (1536-1541), san voluti evidentemente: dall’immagine metaforica che domina la prima Bartolomeo è dipinto con la pelle su cui quartina della vita come viaggio travagliato, che approda al porto è impresso l’autoritratto anamorfico di Michelangelo scorticato. della morte, che rimanda in particolare al sonetto CLXXXIX «Passa la nave mia colma d’oblio/per aspro mare», a singole espressioni, come «d’error carca», «Gli amorosi pensier», «conosco or ben» (che riecheggia da vicino l’espressione «ben veggio or sì» del sonetto proemiale del Canzoniere), all’uso della coppia di aggettivi («vani e lieti», v. 9). Ma, come accennato, il vissuto autobiografico e l’autentica contrizione che ispirano il sonetto di Michelangelo si traducono in un tono ben diverso dall’armonia petrarchesca, in particolare nella prima quartina, in cui il ritmo franto, dovuto all’iterazione della punteggiatura, rimanda a una drammatica presa di coscienza.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto e individuane il tema fondamentale. ANALISI 2. Al v. 10 il poeta parla di due morti a cui sente di avvicinarsi. Sai spiegare a cosa si riferisce? STILE 3. Il testo è tramato di immagini metaforiche: individuale e poi spiegale nel contesto. Quali di esse ti sembrano maggiormente legate al codice petrarchista? LESSICO 4. Individua nel testo termini e stilemi che appartengono al codice petrarchista.
Interpretare
SCRITTURA 5. Dopo aver indicato i versi in cui il poeta allude all’arte e all’amore, rispondi: quale giudizio esprime Michelangelo in questa sua tarda riflessione sull’arte (in cui eccelse come pochi altri) e sull’amore? L’arte, in particolare, ha ancora per l’artista una funzione consolatoria? Scrivi un breve testo (max 10-15 righe) in merito.
online T4 Michelangelo Buonarroti
O notte, o dolce tempo, benché nero Rime (CII)
162 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Giovanni Della casa
T5
Questa vita mortal, che ’n una o ’n due Rime (LXII)
Poesia italiana. Cinquecento, a c. di G. Ferroni, Garzanti, Milano 1978
Di Giovanni Della Casa (1503-1556) autore del celebre Galateo (➜ C1 PAG. 119) presentiamo un sonetto, tratto dalle Rime (un corpus di sole 64 liriche edite postume nel 1558). Le liriche del Della Casa più felici poeticamente sono quelle in cui lo scrittore abbandona l’imitazione rigida del modello bembiano e il tema dell’amore petrarchesco per esprimere un mondo interiore caratterizzato dalla malinconia e, potremmo quasi dire, dal disagio esistenziale. Sono sonetti, come quello qui presentato, di tono meditativo, aperti alla dimensione religiosa, ancora oggi suggestivi.
Questa vita mortal, che ’n una o ’n due brevi e notturne1 ore trapassa, oscura e fredda, involto avea fin qui la pura 4 parte di me2 ne l’atre3 nubi sue. Or a mirar le grazie tante tue prendo4, ché5 frutti e fior, gielo e arsura6, e sì dolce del ciel legge e misura, 8 Eterno Dio, tuo magisterio7 fue. Anzi ’l dolce aer puro e questa luce chiara, che ’l mondo a gli occhi nostri scopre, 11 traesti tu d’abissi oscuri e misti8: e tutto quel che ’n terra o ’n ciel riluce, di tenebre era chiuso, e tu l’apristi; 14 e ’l giorno e ’l sol de la tua man son opre.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CED 1 notturne: oscurate dal peccato. 2 la pura parte di me: ovvero l’anima. 3 atre: oscure (latinismo). 4 Or a mirar... prendo: Ora inizio a vol-
gere lo sguardo alle tue molte grazie (è riferito a Dio, al v. 8 Eterno Dio). 5 ché: perché, regge fue (“fu”, con epitesi per ragioni metriche). 6 frutti... arsura: l’enumerazione allude alle quattro stagioni.
7 magisterio: opera. 8 traesti... misti: traesti da abissi scuri e in preda al caos (la suggestiva immagine riecheggia la narrazione biblica: «Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso», Genesi 1, 2).
Analisi del testo Il tema e la struttura Il sonetto, tramato di immagini bibliche, prende spunto da una sofferta riflessione esistenziale: il poeta, consapevole della brevità e caducità della vita, innalza finalmente lo sguardo a Dio, abbandonando l’attaccamento alla dimensione terrena che fino a quel momento l’aveva attratto e coinvolto. Già nella seconda quartina l’accento si sposta dall’io lirico, protagonista della prima quartina, a Dio, invocato al v. 8 (Eterno Dio). Il sonetto assume quindi, in particolare nelle due terzine, la fisionomia di un inno di lode rivolto al Creatore (è presente la suggestione del salmo 103, Laus Dei creatoris, “Lode di Dio creatore”): nella sua grandezza e bontà Dio ha creato l’universo, traendolo dall’oscurità del caos originario.
La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica 1 163
Le scelte stilistiche Il sonetto è caratterizzato dal contrasto tra l’oscurità e la luce, che domina in particolare nella potente immagine cosmica delle due terzine, ma che è impostato in realtà fin dall’inizio, a proposito dell’anima del poeta, immersa fino a quel momento nell’oscurità di una vita non ispirata ai valori del trascendente. Della Casa istituisce un sottile parallelismo tra l’io e il cosmo, sottolineato tra l’altro dalla ripresa al v. 9 dell’aggettivo che aI Vv. 3-4 definisce l’anima: «la pura / parte di me» e «’l dolce aer puro»: sia nell’anima del poeta sia nel cosmo irrompe la luce che vince il buio informe. Come si è detto, la lirica di Della Casa è caratterizzata dal ricorso frequente e ardito dell’enjambement, che in alcuni casi valica anche le scansioni strofiche. Anche in questo sonetto ricorrono alcuni enjambements, che “dilatano” i versi creando il ritmo lento e grave che contraddistingue la lirica dellacasiana.
Giovanni Bellini, Nudo che si pettina, 1515 (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto. LESSICO 2. Il sonetto è dominato dall’antitesi luce/ombra. Fai una schedatura dei termini che appartengono all’una e all’altra area semantica e commenta brevemente la scelta del poeta. STILE 3. Le opposizioni di immagini luce/ombra riprendono il consueto procedimento binario petrarchesco (dittologie, procedere per coppie di aggettivi e sostantivi). Ricerca nel testo alcuni significativi esempi e commentali brevemente. 4. Rintraccia gli enjambements del sonetto e di’ se la loro presenza rallenta o velocizza il ritmo e se la sintassi risulta armonica o spezzata.
Interpretare
SCRITTURA 5. Il sonetto dellacasiano appare innovativo nel suo genere: allontanandosi dal rigido modello bembiano e dal tema dell’amore petrarchesco, il poeta innalza un inno di lode a Dio e manifesta un mondo interiore caratterizzato dalla malinconia e dal disagio esistenziale. Esponi le tue riflessioni in una breve trattazione (max 15-20 righe).
164 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
2
Le poetesse Le donne non sono più solo l’oggetto della poesia Un aspetto interessante, anche a livello di costume, è costituito dalla presenza nella prima metà del Cinquecento di un numeroso gruppo di poetesse: un fenomeno nuovo, che però si esaurisce già verso la fine del secolo. Tra le più importanti ricordiamo Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gambara (leggi Gàmbara), Veronica Franco, Isabella di Morra. Il primo canzoniere di una donna è quello di Vittoria Colonna (Rime, 1538), destinato a largo successo (l’edizione ufficiale delle sue Rime del 1547 avrà 15 ristampe). Nel 1559 viene pubblicata un’antologia poetica “al femminile” (Rime diverse d’alcune nobilissime e virtuosissime donne) che accoglie testi poetici di ben 53 autrici, a testimonianza di un crescente coinvolgimento delle donne nella scrittura lirica e di un consolidato interesse del pubblico per la poesia femminile. D’altra parte non si può dire che le poetesse abbiano ottenuto un effettivo riconoscimento letterario, tranne forse nel caso di personaggi di alto rango sociale come Vittoria Colonna. La numerosa presenza delle donne nella poesia come autrici e non più solo come oggetto della poesia maschile è certo favorita dall’evoluzione dei costumi all’interno della corte rinascimentale, che assegnava alle donne un ruolo determinante nei rituali delle feste e delle conversazioni. Alcune di loro, come Veronica Franco e Gaspara Stampa, possono essere qualificate come “cortigiane oneste”, cioè donne intellettuali dalla vita indipendente e dai costumi liberi.
PER APPROFONDIRE
Le poetesse rinascimentali: una difficile identità Nel complesso non si può dire che le poetesse del Rinascimento siano riuscite a esprimere in poesia la loro identità, soprattutto perché non avevano altra scelta che utilizzare il codice letterario dominante del tempo, ovvero il petrarchismo: un codice prettamente maschile, in cui la figura femminile e il tema stesso dell’amore sono usati dagli autori (a cominciare naturalmente da Petrarca) come strumento privilegiato per parlare di sé. Nel momento in cui si affacciano alla scrittura lirica, le donne si trovano dunque di fronte al problema di tradurre al femminile gli schemi descrittivi di tipo psicologico e il linguaggio stesso propri del modello dominante.
Cosa significava essere una “cortigiana”? Il termine “cortigiano”, legato a una dominante tipologia sociale ed esaltato dal celebre trattato di Castiglione, non ha nulla a che fare con il corrispettivo femminile “cortigiana”, una figura di donna-intellettuale, dai liberi costumi, che appare testimoniata soprattutto nella società veneziana. Su questa figura la studiosa Marina Zancan osserva: «Gaspara Stampa è in senso pieno una cortigiana, se con questo si allude a quella complessa figura di donna che la società veneziana esprime nel corso del secolo; la cortigiana infatti non è né sposa […] né meretrice, e non è naturalmente monaca. È una figura femminile che sfugge a una definizione
netta perché, negandosi alla gerarchia sessuale, costruisce la propria immagine in funzione di un proprio progetto di vita: la cortigiana è una donna intellettuale che pratica in modo dichiarato una sessualità non normata [anticonvenzionale] e che, dall’essere donna e intellettuale, ricava la possibilità di vivere una vita socialmente non subordinata e intellettualmente organizzata al fine di proiettare, a partire da sé, il proprio sogno di realizzazione». Testo di riferimento: M. Zancan, La donna, in LIE, diretta da A. Asor Rosa, vol. V, Le Questioni, Einaudi, Torino 1986 .
Le poetesse 2 165
Osserva in proposito il critico Giulio Ferroni (i corsivi sono nostri): «Se, per la sua stessa costituzione, il linguaggio petrarchistico è in definitiva il più lontano dall’amore e dalla donna, è fin troppo evidente che le poetesse cinquecentesche parlano soltanto attraverso un linguaggio altrui, accettando necessariamente il punto di vista maschile […]. Il dramma della poesia femminile è in questo suo essere la voce dell’altro, di ciò che la donna non è, della violenza storica e materiale che la donna subisce». Alcune poetesse riuscirono a sviluppare una loro originalità, immettendo nel codice la loro soggettività, ma la maggior parte rimase passiva di fronte all’autorità del modello. Per tutte comunque «la lirica d’amore rappresentò il luogo in cui esprimere, più o meno camuffati, altri desideri: di libertà intellettuale, di affermazione sociale, di autonomia spirituale» (F. Erspamer) in una società che guardava comunque con sospetto, con ironia (e, a volte, con vero e proprio disprezzo) la presenza di donne letterate e in genere l’emancipazione intellettuale delle donne. Vittoria Colonna Nata presso Roma da nobile famiglia, Vittoria Colonna (14901547) fu sposa del marchese di Pescara, Ferdinando Francesco d’Avalos, uomo d’armi, abile e valoroso, capo delle armate di Carlo V. Morto in battaglia il marito nel 1525, Vittoria divenne un punto di riferimento per la sua figura di nobildonna austera, la sua ampia cultura, la non comune competenza poetica e le frequentazioni con i maggiori intellettuali e artisti del tempo: Castiglione e Michelangelo. Le sue Rime, “in vita e in morte” dell’amato, secondo lo schema petrarchesco, sono in ampia parte dedicate alla figura del marito, ma nell’ultima parte della sua vita il suo severo itinerario spirituale si rispecchia in componimenti di argomento religioso e più in generale spirituale.
Sebastiano del Piombo, Ritratto di donna (presumibilmente Vittoria Colonna), 1520 ca. (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya).
Gaspara Stampa Nata a Padova da famiglia milanese, Gaspara Stampa (1523-1554) visse la sua breve vita a Venezia e fu, forse nel ruolo di “cortigiana onesta”, molto conosciuta e ricercata nei circoli intellettuali della città. Le sue rime sono per la maggior parte dedicate alle vicende del suo amore tormentato per il conte Collatino di Collalto. Ma il suo ampio canzoniere fa riferimento anche ad altri amanti: la Stampa visse infatti una vita anticonvenzionale, dai costumi estremamente liberi.
Fissare i concetti Il petrarchismo e la poesia femminile 1. 2. 3. 4.
Che cosa si intende per petrarchismo? Chi sono i petrarchisti? Che cos’è l’antipetrarchismo e chi è il maggiore rappresentante? Chi sono le poetesse rinascimentali?
166 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Vittoria Colonna
T6
Qui fece il mio bel sole a noi ritorno
EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Rime (VI) Rime del Cinquecento, a c. di L. Baldacci, Longanesi, Milano 1984
Il sonetto, come altri delle Rime di Vittoria Colonna, è dedicato al ricordo del marito, valoroso uomo d’armi, morto in battaglia nel 1525.
Qui fece il mio bel sole a noi ritorno1 di regie spoglie carco e ricche prede2: ahi con quanto dolor l’occhio rivede 4 quei lochi ov’ei mi fea già chiaro il giorno3! Di palme e lauro cinto era d’intorno, d’onor, di gloria, sua sola mercede4: ben potean far del grido sparso fede 8 l’ardito volto, il parlar saggio adorno5. Vinto da’ prieghi6 miei poi ne mostrava le sue belle ferite, e ’l tempo e ’l modo 11 delle vittorie sue tante e sì chiare. Quanta pena or mi dà, gioia mi dava7. E in questo e in quel pensier piangendo godo 14 tra poche dolci e assai lagrime amare. La metrica Sonetto con schema ABBA
2 di regie… prede: carico di un ricco bot-
ABBA CDE CDE 1 Qui... ritorno: la poetessa si ritrova nei luoghi in cui era solita accogliere il marito («il mio bel sole») di ritorno dalle sue imprese.
tino di guerra. 3 mi fea… il giorno: mi rendeva un tempo (già) chiaro il giorno (cioè illuminava la mia vita con la sua presenza). 4 mercede: ricompensa, premio. 5 ben potean… adorno: il suo volto fiero
e il suo modo di parlare saggio e pacato davano credibilità (fede) alla fama che circolava delle sue imprese (grido sparso). 6 prieghi: preghiere. 7 Quanta pena… mi dava: allora mi dava tanta gioia quanta oggi mi dà pena (con la sua scomparsa).
Analisi del testo Il tema dominante Il sonetto si iscrive all’interno della tendenza di Vittoria Colonna a costruire un’immagine altamente celebrativa del marito scomparso. Si tratta di un aspetto centrale nelle sue rime agli occhi dei contemporanei. Alla figura idealizzata dello sposo corrisponde l’auto-rappresentazione di donna fedele e casta, subordinata e insieme complementare all’uomo amato con cui la poetessa volle presentarsi alla società colta del suo tempo. In questo sonetto il marito della poetessa viene evocato nelle sue prerogative di condottiero valoroso e vittorioso, immaginato al suo ritorno da qualche epica impresa militare, mentre narra alla sposa le sue gesta. La seconda parte del sonetto si apre (prima terzina) con una rievocazione di tono più intimo (le ferite di guerra che l’“eroe” mostra alla sua sposa) per poi focalizzare l’acuta pena della poetessa per l’assenza dello sposo, associata alla dolcezza del ricordo.
L’imitazione di Petrarca In particolare nell’ultima terzina, che costituisce il consuntivo, in un certo senso, della rievocazione dello sposo amato da parte di Vittoria Colonna, la poetessa fa evidente ricorso a stilemi petrarcheschi, in particolare l’antitesi, anche in rapporto alla divaricazione temporale tra passato e presente: “pena/gioia; dà/dava; piangendo/godo; poche/assai, “dolci/amare”.
Le poetesse 2 167
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
ParaFraSi 1. Svolgi la parafrasi del testo. SinteSi 2. Riesci ad attribuire alle due quartine e alle due terzine un titolo che funga da sintesi? StiLe 3. Analizza nel sonetto: l’aggettivazione, i campi semantici prevalenti, l’uso dell’antitesi.
interpretare EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Scrittura 4. Con Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa e Isabella Morra si assiste a una nuova tendenza, legata al fenomeno del petrarchismo: la presenza delle donne nel mondo della letteratura come autrici e non più soltanto come soggetti privilegiati della poesia maschile. Dopo aver letto ➜ t8 oL e ➜ t9 oL per conoscere anche le altre voci di questa lirica “al femminile”, argomenta le tue riflessioni in un breve testo di 1520 righe.
Gaspara Stampa
t7
Voi, ch’ascoltate in queste meste rime Rime (I)
G. Stampa, Rime, a c. di G.R. Ceriello, Rizzoli, Milano 1994
ANALISI INTERATTIVA
Il sonetto che presentiamo apre il canzoniere di Gaspara Stampa, sul modello evidente del Canzoniere di Petrarca. Ma, al di là del voluto riferimento al modello, la Stampa introduce significative variazioni.
Voi, ch’ascoltate in queste meste rime1, in questi mesti, in questi oscuri accenti2 il suon degli amorosi miei lamenti 4 e de le pene mie tra l’altre prime3, ove fia chi valor apprezzi e stime4, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar fra le ben nate genti, 8 poi che la lor cagione è sì sublime5. E spero ancor che debba dir qualcuna6: – Felicissima lei, da che sostenne 11 per sì chiara cagion danno sì chiaro7! Deh, perché tant’amor, tanta fortuna per sì nobil signor8 a me non venne, 14 ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro9?
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDE CDE 1 in queste meste rime: in questi dolenti versi. 2 accenti: parole. 3 tra l’altre prime: più tormentose di tutte le altre. 4 ove fia chi… stime: se ci sarà qualcuno
che apprezzi e stimi il valore.
5 gloria… è sì sublime: spero di trovare tra le persone di valore (ben nate) gloria e perdono per i miei lamenti, dato che la causa di essi fu così elevata. 6 qualcuna: qualche donna. 7 Felicissima lei… chiaro: felicissima lei, dal momento che sopportò (sostenne) un
168 Quattrocento e cinQuecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
dolore così memorabile (danno sì chiaro) per una causa così importante (sì chiara cagion). 8 per sì nobil signor: da parte di un signore così nobile. 9 ch’anch’io… a paro: che (consecutiva retta da tanta fortuna) sarei anch’io paragonata a una donna così nobile.
Analisi del testo Un modello illustre significativamente rivisitato Questo è il sonetto posto in apertura delle Rime di Gaspara Stampa, con evidente riferimento al modello del sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca (Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono) a cui la poetessa si richiama esplicitamente. Tuttavia sono assai significativi gli scarti rispetto al modello autorevole. Ecco i più rilevanti. Anche la Stampa apre il sonetto con un’allocuzione ai lettori: nel sonetto petrarchesco questi sono identificati in coloro che hanno conosciuto l’esperienza d’amore (v. 7: «ove sia chi per prova intenda amore»); invece i lettori della poetessa sono idealmente selezionati sulla base della capacità di apprezzare il valore. Inoltre la Stampa conferisce a questo tipo di pubblico anche una connotazione sociale, assente nel modello del Petrarca: i suoi lettori fanno parte delle ben nate genti (v. 7), con allusione al pubblico colto e raffinato delle corti. Ai lettori la poetessa anziché la “pietà” come nel sonetto proemiale del Canzoniere, chiede la “gloria”, con una variazione estremamente significativa. Nelle terzine, Gaspara si allontana dal modello e si rivolge espressamente a un pubblico femminile che possa identificarsi in lei, augurandosi la stessa sofferenza d’amore vissuta da una donna così grande. È evidente l’orgoglio della poetessa per l’eccezionalità della sua esperienza d’amore, ma soprattutto per il suo talento poetico.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Fai la sintesi del sonetto. ANALISI 2. In questo sonetto proemiale la poetessa rivendica con orgoglio il suo amore. Ci sono nel testo delle “spie” linguistiche da cui emerga l’orgoglio della poetessa? Rintracciale.
Interpretare
SCRITTURA 3. Scheda da una parte le espressioni evidentemente debitrici verso Petrarca, dall’altra gli elementi originali della Stampa. Commenta poi in un breve scritto gli esiti dell’analisi (max 10 righe).
Lorenzo Lotto, Ritratto di donna nelle vesti di Lucrezia, 1533 ca. (National Gallery, Londra). Si tratta di un’allegoria (la donna mostra un disegno che ritrae Lucrezia, eroina romana morta per non cedere alla violenza di Tarquinio).
online T8 Veronica Gambara Ombroso colle Rime (XXVII)
online T9 Isabella di Morra
D’un alto monte onde si scorge il mare Rime (III)
Le poetesse 2 169
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Francesco Erspamer, in F. Brioschi e C. Di Girolamo, Manuale di letteratura italiana, Storia per generi e problemi, II, Bollati Boringhieri, Torino 1994
Nel campo della lirica la presenza femminile fu particolarmente ampia e costante, estesa ai vari ambiti sociali e ai vari Stati d’Italia e d’Europa. Si trattò di un fenomeno importante e complesso; ma se da una parte è vero che solo, o soprattutto allora, il contributo letterario delle donne fu determinante, e che solo o soprattutto allora esse fecero gruppo, dall’altro [...] forte rimase l’ostilità alla loro attività, e furono derise, ignorate, accusate di plagio, di presunzione, di immoralità, persino di anormalità sessuale. Ancora più diffuso fu nei loro confronti l’atteggiamento paternalistico: che accettandole a pieno titolo nel sistema ne annullava le istanze di emancipazione e di protesta. Varie furono, ovviamente, le ragioni per cui alcune donne divennero scrittrici: per Veronica Gámbara, abile e stimata signora di una piccola ma vivace corte padana, quella di Correggio, la lirica fu soprattutto un elegante strumento di intrattenimento mondano; per Isabella di Morra, reclusa dai fratelli in un remoto castello calabro, fu un disperato bisogno, se non di reagire all’isolamento, almeno di proclamare l’ingiustizia subita. In generale [...] la lirica d’amore rappresentò per esse il luogo in cui esprimere, più o meno camuffati, altri desideri: di libertà intellettuale, di affermazione sociale, di autonomia spirituale. Nel corso dei secoli la possibilità per le donne di esercitare attività intellettuali e artistiche è sempre stata ostacolata da resistenze di varia natura, e il riconoscimento del loro valore, anche nei casi in cui erano riuscite a praticarle, ha comportato un processo faticoso e spesso contrastato. Molte vicende testimoniano le barriere che la presenza femminile ha incontrato nei diversi ambiti della cultura e della creatività artistica. Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali, di letture e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
170 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Quattrocento e Cinquecento Il petrarchismo e la poesia femminile
Sintesi con audiolettura
1 La consacrazione del Canzoniere a modello della poesia lirica
Il petrarchismo Con l’etichetta di “petrarchismo” si fa riferimento a un fenomeno letterario che caratterizza la prima metà del Cinquecento e che consiste nella diffusa imitazione del Canzoniere di Petrarca da parte di un gran numero di poeti e poetesse. Il petrarchismo si iscrive in un periodo di particolare fortuna dell’opera lirica di Petrarca, iniziato con l’importante edizione del Canzoniere curata nel 1501 da Pietro Bembo, e pubblicata da Aldo Manuzio, il più importante editore italiano. La scelta di Manuzio di pubblicare il Canzoniere in un formato maneggevole (i “petrarchini”) per una lettura personale e privata incise non poco sulla sua fortuna. Fu sempre Pietro Bembo, più avanti nel corso del Cinquecento, a consacrare Petrarca come “classico” della lingua italiana nelle sue Prose della volgar lingua (1525) e a proporre con le sue Rime un modello esemplare di imitazione dei Rerum vulgarium fragmenta. Un’imitazione perseguita da numerosi poeti che crea ben presto un codice lirico comune “nel nome di Petrarca”, non solo in Italia ma anche in Europa. I poeti più originali del petrarchismo e gli esponenti dell’antipetrarchismo Giovanni Della Casa (1503-1556) conferisce un taglio più personale al codice petrarchesco perché al tema amoroso preferisce la riflessione sulla vanità delle ambizioni e delle illusioni e il tema del peccato, ma soprattutto per lo stile grave e solenne e l’uso marcato dell’enjambement. Il grandissimo artista Michelangelo Buonarroti (1475-1564) nelle sue Rime indulge da un lato a un lessico concreto e reale, dall’altro a un concettismo che rende spesso enigmatico, se non addirittura oscuro, il senso dei testi. Nelle rime più tarde Michelangelo dà voce a un’ispirazione religiosa tormentata.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
171
Il Burchiello (Domenico di Giovanni, 1404-1449) e Francesco Berni sono i maggiori esponenti del movimento che contesta il petrarchismo, cioè l’antipetrarchismo, che consiste spesso solo in una parodia sorridente dei modi poetici dominanti.
2 Le poetesse
Un aspetto interessante del petrarchismo è il coinvolgimento delle donne nella scrittura lirica. Sono assai numerose nella prima metà del Cinquecento le poetesse, molti i canzonieri al “femminile”, certo anche in relazione all’importanza assunta dalle donne nei cerimoniali della vita di corte. Le poetesse si appropriano per lo più del modello petrarchesco sia riproducendone le situazioni ormai convenzionali, sia mimandone le forme stilistiche, che cercano di adattare, con risultati più o meno felici, all’universo psicologico e sentimentale femminile. Esso rimane però sostanzialmente estraneo al modello. La poetessa più significativa, oltre a Vittoria Colonna (1490-1547), è Gaspara Stampa (1523-1554). Di famiglia milanese, la Stampa visse a Venezia una vita di liberi costumi che ha fatto parlare di lei come di una “cortigiana onesta”.
Zona Competenze Competenza 1. Realizza un PowerPoint nel quale ripercorri la diffusione del petrarchismo in Italia. digitale
172 Quattrocento e Cinquecento 2 Il petrarchismo e la poesia femminile
Quattrocento e cinquecento CAPITOLO
3 La novella nell’età umanisticorinascimentale
La fortuna del genere novellistico, che nel Trecento aveva prodotto il capolavoro del Boccaccio, pur con alterne vicende legate al variare delle coordinate culturali e letterarie, durerà fino alla fine del Cinquecento, quando comincia a emergere una nuova tipologia narrativa, il romanzo, destinato a soppiantare la novella nell’apprezzamento del pubblico. Fino alla metà del Quattrocento circa la Toscana è il centro indiscusso della produzione novellistica; in seguito l’area geografica di diffusione della novella si amplia notevolmente: dalla Napoli aragonese, dove Masuccio Salernitano scrive nella seconda metà del Quattrocento il suo Novellino, all’area padana da cui proviene Matteo Bandello, il maggior novelliere del Cinquecento.
1 il Quattrocento 2 il cinquecento 173 173
1
Il Quattrocento Dal macrotesto alle singole novelle Nel primo Quattrocento, la novella vive un momento di crisi: l’aristocratica ottica culturale propria dell’Umanesimo tende a relegare il genere novellistico alla periferia del sistema letterario, guardando con diffidenza e distacco persino al capolavoro di Boccaccio. In questo periodo i novellieri abbandonano non solo l’espediente boccacciano della cornice, ma anche l’impegno nel costruire un macrotesto (cioè una raccolta organica di testi) e preferiscono scrivere singole novelle (le cosiddette “spicciolate”). Una delle più celebri e apprezzate dalla critica è la Novella del grasso legnaiolo. Vi si racconta una beffa crudele ideata nell’ambiente «ricco di umori corrosivi e d’intelligenza degli artisti fiorentini dotati di spirito bizzarro e un po’ bohémien, fecondi nell’inventar burle sollazzevoli e implacabili nel condurle ad effetto» (Asor Rosa): l’ideatore della beffa è infatti il celebre artista Filippo Brunelleschi, mentre la vittima è Manetto il Grasso, un artigiano del legno, che ha bottega in Firenze. Lo stesso Niccolò Machiavelli (1469-1527), autore del Principe, si cimenterà in una “spicciolata”: Belfagor arcidiavolo (1518), una novella nutrita di uno spirito misogino sorprendentemente ancora superstite in piena civiltà rinascimentale (➜ C8). Tra le spicciolate, particolarmente rilevante è la tragica novella Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti, del vicentino Luigi da Porto (1485-1529): rielaborata dal Bandello, la vicenda dei due sfortunati amanti sarà immortalata nel dramma di Shakespeare Romeo e Giulietta (1594-95). All’iter di questo celebre soggetto facciamo riferimento più avanti. Gli antenati della barzelletta: facezie e motti arguti Parzialmente autonomo rispetto al complesso modello boccacciano e molto diffuso nella civiltà umanisticorinascimentale fu anche il filone della facezia (il termine identifica un racconto, in genere breve o brevissimo, che si chiude con una battuta spiritosa), che trae origine dal clima sereno e conviviale delle riunioni tra amici: la facezia infatti (oggi la chiameremmo barzelletta) è un sottogenere narrativo che si propone espressamente di suscitare una risata, senza tante complicazioni concettuali ed estetiche. Valorizzata nel Quattrocento da autori importanti come Leonardo da Vinci (Facezie e Favole) e Angelo Poliziano (Detti piacevoli), la facezia continua poi ad avere notevole fortuna nel Cinquecento e la cosa non stupisce: la civiltà di corte, infatti, esaltava particolarmente la finezza di spirito e l’elegante umorismo. Non a caso, dunque, Baldesar Castiglione, uno degli intellettuali di spicco del primo Cinquecento, utilizza un’ampia sezione del secondo libro del celebre trattato Il Cortegiano (1528) per discutere dei motti e delle facezie: la capacità di rasserenare gli animi è valorizzata come un’importante qualità; quindi le battute di spirito sono considerate un indispensabile bagaglio del gentiluomo, da sfruttare nelle diverse occasioni mondane proprie della vita di corte. Le facezie in latino A un pubblico di intellettuali e umanisti si rivolgevano le facezie in latino, la cui testimonianza più nota è il Liber facetiarum (Facezie) (1438-1452) del grande umanista Poggio Bracciolini (1380-1459); l’occasione da cui scaturirono era comunque la stessa da cui si originavano le facezie in volgare, e cioè le chiacchierate disimpegnate tra amici, che non escludevano, ma anzi prevedevano storielle e battute sconce, addirittura triviali.
174 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
online
Per approfondire
VERSO IL NOVECENTO
Sigmund Freud Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio
Un estimatore novecentesco della facezia – ormai definita “barzelletta” – è l’umorista Achille Campanile (1899-1977), raccoglitore di barzellette (Trattato delle barzellette), attentamente divise per argomenti e tipologia. Quello della prontezza di spirito nell’ideare battute spiritose è un gusto tipicamente toscano, testimoniato fin dal Novellino, e non a caso il Boccaccio aveva dedicato un’intera giornata del Decameron (la VI) al motto arguto, cioè all’intelligente battuta di spirito, una variante della facezia. Nei racconti iscrivibili in questa tipologia gli elementi narrativi sono ridotti al minimo, proprio per valorizzare la battuta spiritosa, costruita secondo meccanismi già codificati dalla retorica classica: vi trovano posto espressioni paradossali, doppi sensi, allusioni argute. I meccanismi psicologici implicati nella battuta di spirito sono stati acutamente analizzati dal padre della psicanalisi, Sigmund Freud, in un suo celebre saggio. Se le forme della narrazione breve a cui abbiamo fatto riferimento appartengono tutte all’ambiente toscano, fa eccezione la raccolta novellistica di Masuccio Salernitano (Tommaso Guardati, nato forse a Sorrento nel 1410 e morto a Salerno nel 1475). Nel suo Novellino, una raccolta di cinquanta novelle composta tra il 1450 e il 1470, Masuccio abbandona la cornice, premettendo a ogni novella una lettera dedicatoria in cui si riflette la consuetudine del dialogo e dello scambio epistolare propri della corte (in questo caso si tratta della raffinata corte aragonese); lo stesso farà anni dopo Matteo Bandello (➜ C3.2). Con il Novellino di Masuccio Salernitano, si delinea una tendenza volta a valorizzare, in rapporto con il tema amoroso (ma non solo), anche la dimensione tragica (che troverà poi piena espressione artistica nel teatro inglese e spagnolo): la passione amorosa in Masuccio è spesso associata alla violenza e all’ingiustizia (➜ T2 OL).
Dalla facezia umanistica alla barzelletta
Achille Campanile Trattato delle barzellette A. Campanile, Trattato delle barzellette, in Romanzi e scritti stravaganti, 1932-1974, a c. di O. del Buono, Bompiani, Milano 1994
Achille Campanile (1899-1977) è autore di un vasto corpus di opere teatrali e narrative, ancora non del tutto esplorato dalla critica. La nota dominante della sua produzione è senz’altro l’umorismo, in genere legato, proprio come l’antica facezia, al gioco di parole, alla freddura, spesso al nonsense. Nel passo che proponiamo, il fine umorismo di Campanile – che ha lasciato anche un Manuale di conversazione (1973) – si esplica in un “galateo” della barzelletta (sia da parte di chi la racconta, sia da parte di chi la ascolta) degno di monsignor Della Casa.
Come raccontare una barzelletta Non credete a quelli che vi diranno che, per far ridere, bisogna esser seri. Questo andrà bene per un discorso alla Camera dei deputati. Ma, per quel che concerne le barzellette, il modo migliore per raccontarle è che il raccontatore cominci subito lui stesso a ridere fin dal momento in cui dice: «E la sapete quella, eccetera eccetera?». Questo incoraggerà gli ascoltatori a ridere. E, nella peggiore delle ipotesi, farà sì che ci sia almeno uno che ride: il narratore stesso. Senza dire che:
Il Quattrocento 1 175
VERSO IL NOVECENTO
* se questi si mantenesse per tutta la narrazione rigorosamente serio, potrebbe dar luogo al caso, purtroppo verificatosi con una certa frequenza, della barzelletta scambiata dagli ascoltatori per un fatto doloroso, realmente accaduto, e perciò accolta con un rispettoso silenzio. * Se, malgrado le proprie risate, il narratore s’accorgesse, nel corso della narrazione, che la barzelletta non fa ridere affatto gli altri, caso anche questo purtroppo non infrequente, non deve scoraggiarsi né abbandonarsi ad atti inconsulti. Ma dovrà dire, per esempio: «E c’è ancora chi ride per simili scempiaggini!». Vediamo ora Come ascoltare una barzelletta La buona educazione vuole che si rida. Ma non bisogna ridere a vanvera. Occorre anzitutto atteggiare le labbra al sorriso fin dall’inizio della narrazione. Se questa si prolunga troppo, ne consegue un certo dolore ai muscoli facciali, che dovrete sopportare senza lamenti, insistendo nel sorriso per tutta la durata della narrazione stessa. Esplodere in risate alla fine. * Va considerata una jattura credere che la barzelletta sia finita, quando non lo è, e ridere a sproposito. Per questa ragione occorre accertarsi bene che la barzelletta sia finita. In caso di dubbio, informarsi dai vicini e, ove anche questi non siano in grado di ragguagliarvi convenientemente, rivolgersi allo stesso narratore: “È finita?” “Sì.” Allora, ridere. * Se la barzelletta è lunga ed elaborata, può capitare di distrarsi durante la narrazione e pertanto non seguirne il filo. In questo caso, regolarsi sul come fanno gli altri, se ce ne sono. Se siete solo col narratore, appena capirete che non capite più, accentuare le smorfie del sorriso fino ad accrescere il dolore dei muscoli facciali. * In tal frangente, sempre che siate solo col narratore e certo di non esser visto, ove il dolore dei muscoli facciali risulti insopportabile, potrete colpire il narratore con un colpo secco sulla testa, in modo da addormentarlo. Ma questo non è bello e va riservato ai casi disperati.
Poggio Bracciolini
T1
Il prete che invece di paramenti portò al vescovo dei capponi Facezie, XXII
P. Bracciolini, Facezie, a c. di M. Ciccuto, Rizzoli, Milano 1983
All’interno della celebre raccolta di facezie scritte in latino nella prima metà del Quattrocento dal grande umanista Poggio Bracciolini, occupa un posto privilegiato il gioco verbale, che si può tradurre in fraintendimento o in battuta pronta e arguta con cui ci si cava d’impaccio in situazioni difficili, si apostrofa qualcuno o si mettono alla berlina gli sciocchi. La facezia che presentiamo è appunto incentrata sul gioco linguistico.
176 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
Un vescovo d’Arezzo di nome Angelo1, che io ho conosciuto, convocò un giorno al Sinodo i sacerdoti della sua diocesi, facendo sapere che coloro i quali avevano una qualche carica si dovessero presentare a detto Sinodo in cappa e cotta (che sono, appunto, paramenti sacerdotali). Uno di questi preti, sprovvisto degli indumenti ri5 chiesti, se ne stava triste in casa, non sapendo dove poterseli procurare. La perpetua che viveva con lui, vedendolo pensoso e assai immalinconito, gli domandò la ragione di tale tristezza; e il prete rispose che, giusta2 l’ordine del vescovo, egli doveva presentarsi al Sinodo in cappa e cotta. «Ma, mio buon amico, voi non avete inteso la sentenza3 del precetto» replicò la serva. «Non cappa e cotta richiede il vescovo e 10 voi dovete portare, bensì capponi cotti.» Il prete apprezzò l’avvedutezza della donna e, con i capponi al seguito, fu molto ben accolto dal vescovo, il quale per celia4 diceva che solo quel suo prete aveva interpretato correttamente il senso dell’avviso. 1 Angelo: il personaggio è realmente esistito: si tratta di Angelo de’ Fiebindacci e Ricasoli, che fu
vescovo di Arezzo sotto il pontificato di papa Bonifacio IX. 2 giusta: secondo.
3 sentenza: il vero senso. 4 celia: scherzo.
Analisi del testo La brevità programmatica e il gioco linguistico La facezia è per sua natura un genere narrativo che accentua, esasperandola, la concentrazione narrativa tendenzialmente costitutiva del genere “novella”. Non viene dato spazio a un’azione narrativa articolata, ma ci si limita a delineare, con pochi tratti, un contesto, una situazione e magari una tipologia sociale o antropologica: in questo caso la facezia si fonda sulla difficoltà di un povero prete di reperire l’abbigliamento ecclesiastico (la cotta e la cappa) richiesto espressamente dal vescovo per la solenne occasione del Sinodo. Sullo sfondo si intuisce perciò un’esistenza grama, una situazione con penuria di mezzi. La difficoltà è risolta dall’arguzia e dalla “conoscenza di come va il mondo” della perpetua del prete, una figura tratteggiata con poche parole, ma efficacemente ritratta nel suo pragmatismo, che richiama la popolaresca saggezza della Perpetua manzoniana. La facezia vera e propria coincide con il gioco di parole che trasforma «cappa e cotta», per analogia fonica, in «capponi cotti». Un qui pro quo che il vescovo non manca di apprezzare: la sorridente ironia che investe la figura del potente ecclesiastico e chiude il raccontino introduce in modo garbato una nota critica sul comportamento, non proprio spirituale, delle alte gerarchie ecclesiastiche.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
ANALISI 1. Identifica, anche sul piano dello status sociale, i tre personaggi che sono implicati nella facezia. LESSICO 2. Ricerca e trascrivi il significato dei termini facezia, freddura, barzelletta e metti in luce le differenze fondamentali tra queste forme di comunicazione comica.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 3. Fai un confronto tra questa facezia e le novelle del Decameron di Boccaccio: rilevi analogie? Se sì, con quali novelle?
online T2 Masuccio Salernitano
Una novella ispirata al gusto per l’orrido Novellino, XXXI
Il Quattrocento 1 177
2
Il Cinquecento Il confronto con Boccaccio: cornice sì o no? Nel corso del Cinquecento continua la produzione novellistica, nella quale è comunque sempre inevitabile il confronto con il grande modello del Decameron, fondamentale punto di riferimento, a cominciare dalla scelta o meno di utilizzare la “cornice”. Quandanche viene utilizzata dai novellieri cinquecenteschi, essa rimane però un elemento poco fuso con le novelle, ben lontano dalla esemplare coerenza strutturale del capolavoro di Boccaccio. Nella raccolta Ragionamenti (1523-1525) di Agnolo Firenzuola (1493-1543), ad esempio, lo spazio della cornice viene dilatato, assumendo quasi le proporzioni di un trattato e accogliendo le questioni più dibattute nel tempo, come l’amore o la lingua. Ma l’equilibrio complessivo ne risulta compromesso e la raccolta si interrompe all’inizio della seconda giornata. Una riedizione del contesto drammatico che caratterizza la cornice del Decameron si ha negli Ecatommiti (termine grecizzante che significa “cento racconti”) di Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573); pubblicati nel secondo Cinquecento (1565), la cornice storica dei racconti è costituita dall’evento del sacco di Roma del 1527, che induce un gruppo di persone a fuggire per mare dalla città per rifugiarsi a Marsiglia, dove si dedica a occupazioni piacevoli e in particolare alla narrazione. I temi Nelle raccolte successive al Decameron, oltre a temi tradizionali come la beffa o (almeno per un certo periodo) la satira anticlericale, mantiene un posto di primo piano l’amore. Per circa un secolo gli scrittori di novelle, soprattutto nell’area toscana, preferiscono trattare il tema attraverso il registro della comicità, declinata in modo molto diretto o addirittura scurrile. Matteo Bandello, invece, all’interno di quello che è il più vasto repertorio narrativo della storia novellistica, mostra particolare propensione a rappresentare l’amore con il registro tragico. «Nei personaggi bandelliani l’amore distrugge e cancella ogni altro sentimento: diviene fissazione, mania, stravolgimento del pensiero» (Battaglia). Non a caso, i drammi d’amore delle sue novelle sfociano spesso nella morte, come nella novella qui antologizzata (➜ T3 ). Il gusto del macabro e dell’orrido Alludiamo qui a una dimensione che, attraverso la mediazione di Masuccio, emerge vistosamente nella novella del Cinquecento prima con Bandello e poi con Giraldi Cinzio. Caratteristica della novella di Masuccio era già la frequente presenza di una dimensione crudele e grottesca, di un compiacimento dell’orrido (come nella sconcertante novella di cui presentiamo uno stralcio ➜ T2 OL). Il maestro della novellistica cinquecentesca, Matteo Bandello (1485-1561), ripropone a sua volta in alcune novelle lunghe un certo gusto per l’orrido, per soggetti addirittura raccapriccianti, che sarà ampiamente utilizzato da Shakespeare e anche, secoli dopo, dal Romanticismo europeo. Verso la fine del Cinquecento i temi si incupiranno sempre più: al macabro, al tragico verrà dato sempre più spazio, in rapporto evidentemente alla crisi della civiltà rinascimentale e, successivamente, al clima cupo della Controriforma. Dalla novella al teatro rinascimentale Fra novella e teatro ci sono legami stretti e antichi. Nella novella infatti sono presenti situazioni e temi chiave che erano stati
178 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
propri del teatro classico: ne è un esempio il tema dello sdoppiamento di persona e dello scambio, molto diffuso nella produzione novellistica e che risale al commediografo latino Plauto (254 ca-184 a.C.). Quando poi, tra Quattro e Cinquecento, nasce il teatro umanistico-rinascimentale (➜ C7), sarà questo a rivolgersi alla novella come ricco serbatoio di temi e situazioni cui attingere: i racconti più facilmente “sceneggiabili” saranno utilizzati come fonti preziose per trame teatrali. Fra i temi novellistici che più si prestavano alla trasposizione teatrale e che più furono utilizzati dal teatro comico rinascimentale si annovera certamente quello della beffa, e in particolare della beffa erotica, un tema ampiamente testimoniato anche nel Decameron: la situazione più ricorrente prevede che un marito sciocco, e in genere di elevata condizione sociale, sia raggirato o ridicolizzato da un giovane prestante che diventa amante della moglie, a volte anche per raggiungere una migliore posizione sociale. La situazione della beffa erotica è al centro della più celebre commedia rinascimentale: la Mandragola (1518) di Niccolò Machiavelli (➜ C8). Il declino del «narrare novellando»: verso il romanzo Già nel tardo Cinquecento serpeggiano nella produzione novellistica elementi di crisi che emergeranno nel Seicento portando alla decadenza della novella: sarà un nuovo genere, il romanzo, a rispondere meglio alle esigenze proprie dell’età controriformistica e barocca. Le ragioni di questa decadenza si ritrovano innanzitutto nel mutato clima spirituale creato dalla Controriforma (nel 1563 si chiude il concilio di Trento); il rinnovato rigorismo morale proposto dalla Chiesa non poteva che scontrarsi con i contenuti tradizionali della novella: l’oscenità e la satira anticlericale, tematiche entrambe espressamente condannate in questo periodo. Ma al declino della novella concorrono anche ragioni storico-sociali che interessano il nesso tra il «narrare novellando» e la civiltà comunale, in particolare
Liberale da Verona, I giocatori di scacchi, tempera su legno, 1475 (Metropolitan Museum of Art, New York).
Il Cinquecento 2 179
toscana e fiorentina: il modo novellistico era infatti il più adatto a raccontare una società in cui l’ambiente delimitato favoriva certe forme di circolazione delle esperienze umane. Man mano che la società comunale-signorile entra in crisi, è logico che quel modello narrativo, nato in rapporto a un preciso costume sociale, decada, lasciando aperto il campo alla sperimentazione di forme più articolate e complesse di narrazione, che confluiranno appunto nel romanzo, genere emergente nel Seicento. Matteo Bandello Matteo Bandello, nato a Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria, nel 1485 da nobile famiglia, fu chierico, uomo di corte e diplomatico, al servizio di vari signori, come gli Sforza a Milano e i Gonzaga a Mantova. Dal 1528 visse a Verona, nel ruolo di segretario del condottiero genovese Cesare Fregoso, luogotenente di Francesco I, re di Francia. Dopo la morte violenta di Fregoso, Bandello si trasferì in Francia. Morì ad Agen, dove era stato ordinato vescovo, nel 1561. Le novelle La fama di Bandello è legata all’ampia raccolta di novelle (Quattro libri delle novelle) per un totale di 214 testi. Bandello rifiuta di utilizzare la cornice: seguendo l’esempio di Masuccio Salernitano, premette a ogni novella una lettera dedicatoria indirizzata a eminenti politici, letterati di spicco, gentiluomini e gentildonne in cui si rispecchia il pubblico di corte, una finzione letteraria finalizzata a creare un effetto di verosimiglianza. Nonostante non si possa assegnare valore storico alle lettere, forniscono comunque un vivo ritratto della società del tempo. Le novelle non sono in alcun modo organizzate, presentano trame intricate, argomenti molto vari: si va dal comico-osceno al tragico, all’avventuroso-fiabesco, con una disposizione a indagare temi inusuali nella tradizione. Il gusto di Bandello per l’orroroso, il suo interesse per i “casi strani”, per un mondo online Interpretazioni critiche di individui dalla psiche malata, che fanno gesti inesplicabili e incoerenti, testimoSalvatore Battaglia nia l’incipiente crisi dell’equilibrio rinascimentale, degli ideali di armonia e misuL’imprevedibilità ra tipici della civiltà del tempo. L’opera di Bandello ebbe grande successo anche in come legge del comportamento umano Europa: tradotte in inglese e in francese, le novelle ispirarono vari autori stranieri, tra cui Shakespeare.
La novella quattro-cinquecentesca Ragionamenti di Agnolo Firenzuola: dilatazione dello spazio della cornice Tra imitazione e variazione di Boccaccio Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio: utilizzo del contesto drammatico (sacco di Roma)
Belfagor arcidiavolo di Machiavelli: novella singola Opere estranee a Boccaccio Novelle di Bandello: novelle prive di cornice
180 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
Matteo Bandello
T3
Bandello e i “casi strani”: Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide Novelle, XX
M. Bandello, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1943
Dalla raccolta di Bandello presentiamo una novella che ha per protagonista un giovane gentiluomo, preda di una passione amorosa struggente e ossessiva che ha tutti i tratti della “malattia d’amore” (➜ V1A PAG. 272). Da qui lo sconcertante epilogo, proprio quando la storia sembra prendere una piega favorevole e far presagire un canonico “lieto fine”.
NOVELLA XX Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia e lei e sé stesso uccide. Fu al tempo del sapientissimo prencipe, quantunque sfortunato, signor Lodovico Sforza1, in una città del ducato un mercadante molto ricco di possessioni e ne la mercanzia di gran credito2. Egli prese per moglie una gentildonna giovane, costumata e d’animo generoso, da la quale ebbe un figliuolo senza piú3. Non era ancora 5 il figliuolo di dieci anni che il padre morí, lasciandolo del tutto erede, sotto cura de la madre. La donna, bramosa che il figliuolo a l’antica nobiltà degli avoli suoi si traesse4, non volle che a cose mercantili mettesse mano, ma con somma diligenza gentilescamente il fece nodrire e a le lettere attendere5 e ad altri essercizii di gentiluomo. Ella poi attese a ritirar piú che puoté le ragioni che il marito ne le cose 10 mercantesche aveva6 per Italia, Fiandra, Francia, Spagna ed anco in Soria7, attendendo a comprar possessioni al figliuolo, che Galeazzo aveva nome. Crebbe egli e divenne molto gentile e magnanimo, e oltra le lettere, si dilettava de la musica, di cavalcare, di giuocar d’arme, di lottare e d’altre simili vertú8. Il che a la madre era di grandissima contentezza, e di panni, di cavalli e di danari provedeva al figliuolo 15 largamente, non gli lasciando mancar cosa che a lui piacesse. Ella in pochi anni sodisfece a tutti i debiti del marito ed anco ricuperò quanto egli da altri mercadanti deveva avere. Restava una ragion sola9 con un gentiluomo veneziano che trafficava in Soria, il quale deveva ritornar a Venezia, essendo già Galeazzo di sedeci in dicesette anni. Onde egli, desideroso, come sono i giovinetti, di veder del paese e 20 massimamente la famosa ed onorata città di Venezia, pregò la madre che lo lasciasse andare. Non dispiacque questo giovenil disio a la donna, anzi l’essortò ad andarvi e volle che egli fosse quello che desse fine ai conti col gentiluomo veneziano, e mandò seco un fattore molto pratico, indirizzandolo anco ad un mercadante in Venezia, che era grande amico de la casa. Andò Galeazzo molto in ordine di vestimenti e di 25 servidori, e giunto a Venezia e fatto capo a l’amico paterno, fu lietamente visto, ed 1 Lodovico Sforza: detto il Moro (14521508), fu duca di Milano dal 1494 fino al 1500, quando venne deposto e imprigionato dai Francesi. Ospitò alla propria corte i migliori artisti dell’epoca (da Leonardo da Vinci a Bramante). 2 un mercadante... credito: un mercante, possessore di molte terre e molto stimato nell’arte del commercio.
3 senza piú: soltanto. 4 a l’antica nobiltà... si traesse: si conformasse all’antica nobiltà dei suoi antenati (avoli). 5 gentilescamente... attendere: lo fece allevare secondo i dettami cavallereschi e dedicarsi agli studi letterari. 6 attese... aveva: si diede da fare per chiu-
dere gli affari mercantili che il marito aveva in sospeso. 7 Soria: Siria. 8 Crebbe egli... simili vertù: il ritratto della formazione del giovane Galeazzo corrisponde perfettamente al modello del gentiluomo cortese. 9 Restava una ragion sola: Rimaneva un’ultima questione da risolvere.
Il Cinquecento 2 181
andarono di brigata10 a ritrovar il gentiluomo veneziano, al quale si diede Galeazzo a conoscere11 e gli disse la cagione del suo venire. [Il gentiluomo veneziano si dichiara dispostissimo a saldare il suo debito, ma prima dovrà recarsi a Padova dalla sua famiglia. Galeazzo lo accompagna ed è ospitato 30 nella casa del gentiluomo.] Aveva esso veneziano una bella figliuola di quindeci anni, la quale da Galeazzo tutto il dí vista fu cagione che il giovine di lei ardentissimamente s’accese12, non avendo per innanzi13 mai provato che cosa fosse amore. Ella de l’amor di lui avvedutasi14, piacendole il giovine, non ischivò punto il colpo amoroso15; anzi di lui senza fine 35 s’innamorò, e tanto andò la bisogna che, una e due volte avuta la commodità di parlarsi, diedero ordine a quanto intenderete16. Deveva il padre di lei fra tre dí17 dar tutti i danari a Galeazzo e seco a Venezia tornarsene, ove gli conveniva18 star qualche tempo. Ella dopo la partita loro, fra dui dí19, doveva fuggir di casa sotto la cura d’un fidato servidore di Galeazzo, il quale egli aveva finto mandar a la madre, e il 40 veneziano medesimo per lui le aveva scritto. Ma il buon servidore stette nascosto in Padova fin al tempo debito. Avuti Galeazzo i danari, insieme col gentiluomo andò a Venezia, e col suo conseglio fece rimetter tutti i danari ricevuti in Milano con lettere di cambio20, e niente faceva né comprava senza lui. Ed ecco venir la nuova21 al veneziano, come Lucrezia sua figliuola era la notte innanzi fuggita e di lei non 45 si trovava vestigio22 alcuno. Il padre, dolente oltra modo, deliberò, lasciata ogn’altra cosa, tornar a Padova23. Galeazzo, mostrandosi di questo caso dolente, s’offerí andar seco, ed in ogni luogo ove egli volesse. Ringraziato Galeazzo, partí il veneziano e nulla mai puoté de la figliuola intendere24. Onde, tornato a Venezia, trovò che Galeazzo ancora v’era, il quale, dopoi in Lombardia a casa tornato, non ardí de la 50 rapita fanciulla far motto a la madre25. Aveva il servidore condotta una convenevol casa e del tutto fornita, secondo l’ordine da Galeazzo dato, e pose a la guardia di lei la nutrice di esso Galeazzo col suo marito26. Il giovine, con meraviglioso piacer de le parti27, colse il fiore e il frutto de la virginità de la sua Lucrezia, che piú che la propria vita amava, dormendo quasi ogni notte seco e largamente a torno a lei 55 spendendo. La madre, ancor che28 sapesse che egli fuor di casa spesso dormisse e cenasse, non diceva altro. Stette circa tre anni Galeazzo con la sua Lucrezia, dandosi il meglior tempo del mondo29. Avvenne dapoi che la madre deliberò dar moglie a
10 fu… di brigata: fu con piacere accolto, e andarono in gruppo. 11 al quale... a conoscere: al quale Galeazzo disse chi era. 12 la quale... s’accese: accadde che il giovane Galeazzo, che (l’aveva) guardata continuamente, se ne innamorò con grande ardore. 13 per innanzi: fino a quel momento. 14 avvedutasi: accortasi. 15 non ischivò... amoroso: metafora per dire che la giovane non respinse l’amore. 16 tanto andò... intenderete: le cose procedettero al punto che, avuta una o due volte l’opportunità di parlarsi, decisero quanto sentirete.
17 fra tre dí: tre giorni dopo. 18 gli conveniva: doveva. 19 dopo... dí: due giorni dopo la loro partenza.
20 fece... di cambio: diede ordine di mandare a Milano tutto il denaro ricevuto tramite lettere di cambio (specie di titoli di credito al portatore). 21 la nuova: la notizia. 22 vestigio: traccia. 23 Il padre... Padova: Il padre, molto addolorato, accantonato ogni impegno, decise di tornare a Padova. 24 nulla... intendere: non poté mai sapere nulla della figlia. 25 non ardí... la madre: non osò parlare
182 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
alla madre del rapimento della fanciulla. 26 Aveva il servidore... suo marito: Il servitore, seguendo gli ordini di Galeazzo, aveva disposto una casa adatta e dotata di ogni comodità, e aveva incaricato la nutrice di Galeazzo e il marito di far compagnia alla fanciulla. 27 con meraviglioso... parti: con straordinario piacere di entrambi. 28 ancor che: sebbene. 29 dandosi... mondo: divertendosi e godendosi la vita.
Galeazzo, ma egli mai non volse30 consentire di prenderla. Ella dubitando che il figliuolo non fosse innamorato o forse avesse a modo suo presa moglie, tante spie 60 a torno gli pose, che intese il tutto che a Padova fatto aveva. Del che molto mal contenta ritrovandosi, ebbe modo, una sera che Galeazzo in casa d’un suo cugino cenava, di far da tre uomini mascherati rubar31 Lucrezia e porla in un monastero quella sera stessa. Galeazzo, dopo cena volendo andarsi a dormir con Lucrezia, trovò la nutrice ed il balio32 che amaramente piangevano, dai quali intese come tre 65 mascherati avevano Lucrezia sbadagliata e menata via33. Egli fu per morir di doglia34 e tutta la notte pianse, ed il matino a buon’ora andò a casa e in camera si serrò e stette tutto il dí senza cibarsi. La madre quel dí non ricercò altrimenti ciò che il figliuolo facesse. Veggendo poi il seguente giorno che non voleva desinare, andò a trovarlo in camera. Ma egli sospirando e piangendo pregò la madre che cosí il 70 lasciasse stare. Ella cercava pur d’intender da lui di questo suo dolore la cagione, ma egli altro che con lagrime e sospiri non le rispondeva. Il che ella veggendo e mossa a pietà, al figliuolo cosí disse: – Figliuol mio caro, io m’averei creduto che in cosa del mondo mai da me guardato non ti fossi e che tutti gli affanni tuoi m’avessi scoperto35; ma io mi truovo molto ingannata. Tuttavia, mercé de la mia diligenza36, 75 io ho ritrovato la cagion del tuo male. So che tu ami Lucrezia, che al nostro amico a Padova rubasti. Il che quanto sia stato bell’atto, tu il puoi molto ben pensare. Ma ora è tempo d’aiuto e non di correzione. Or vivi allegramente e confortati e attendi a ristorarti37, ché la tua Lucrezia riaverai, la quale io ho fatta mettere in un monastero, parendomi che, non la ritrovando, tu devessi compiacermi e prender moglie, 80 come saria il debito tuo di fare38. – Galeazzo questo sentendo, parve che da morte a vita risuscitasse, e vergognosamente le confessò come egli amava piú Lucrezia che la propria vita, pregandola affettuosamente che alora gliela facesse venire. Ella lo astrinse39 ad avere per quel giorno pazienza, e che voleva che si cibasse e si confortasse, promettendogli il seguente giorno andarla a pigliare e menarla in casa. Che 85 diremo noi? Galeazzo or ora voleva morire, avendone perduto il sonno e il cibo, e a questa semplice promessa tutto si confortò. Egli desinò e cenò la sera, e la notte, con speranza di riaver la sua Lucrezia, dormí assai bene. Venuto il seguente giorno, egli di letto levato sollecitò la madre che per Lucrezia mandasse40. La quale, per compiacere al figliuolo, montò in carretta e al monastero giunta si fece dar la giovane e 90 a casa la condusse. Come i dui amanti si videro, di dolcezza piangendo si corsero a gettarsi le braccia al collo, e strettissimamente abbracciandosi beveva l’uno de l’altro le calde e salse41 lagrime. Galeazzo, poi che ebbe mille volte la sua Lucrezia amorosamente basciata e ribasciata, tuttavia piagnendo cosí le disse: – Anima mia dolce, come sei stata senza me? Che vita è stata la tua? Non t’è egli42 fieramente 95 rincresciuto non mi aver in questo tempo veduto? Certamente io mi sono pensato di morire, né so bene come io mi viva. Oimè, vita mia, chi m’assicura che altri, in questo tempo che da me sei stata lontana, non abbia godute queste tue bellezze? io
30 volse: volle. 31 rubar: rapire. 32 il balio: il marito della nutrice. 33 sbadagliata e menata via: imbavagliata e condotta via. 34 di doglia: di dolore. 35 m’averei... scoperto: ero convinta che
non ti saresti guardato da me, mai, in nessuna cosa, e che mi avresti messo a parte di tutte le tue preoccupazioni. 36 mercé de la mia diligenza: grazie al mio scrupolo. 37 attendi a ristorarti: cerca di rimetterti in salute.
38 come saria... di fare: come sarebbe tuo dovere fare. 39 astrinse: obbligò. 40 che per Lucrezia mandasse: che mandasse a prendere Lucrezia. 41 salse: salate. 42 egli: pleonastico.
Il Cinquecento 2 183
mi sento di gelosia morire e il core in corpo mi si schianta. Il perché43, cor del corpo mio, per non morir se non una volta sola ed uscir di questo gravissimo affanno, sará assai meglio che moriamo insieme e in un punto diamo fine a questi nostri sospetti. 100 – E dicendo queste parole, prese un pugnale che a lato aveva e percosse la giovane nel petto per iscontro al core, la quale subito cadde boccone in terra morta; poi a sé stesso rivoltato il sanguinolente ferro, se lo cacciò in mezzo il petto e sovra la morta Lucrezia s’abbandonò. Il romore ne la casa si levò grandissimo con uno acerbissimo pianto. La sfortunata madre, come disperata, mandava le strida fin al cielo. Campò 105 Galeazzo tutto quel giorno e nel tramontar del sole morí. La povera madre, senza ascoltar consolazione né conforto da persona44, per lungo spazio il morto figliuolo pianse: caso veramente degno di pietà e compassione, e da far lagrimar le pietre, non che voi tenere e dilicate donne, che già le belle lagrime sugli occhi avete. E a ciò che la cosa non si divolgasse com’era, i fratelli de la madre fecero segretamente 110 i dui amanti seppellire, dando voce che di peste erano morti. La cosa fu facil da credere, perciò che alora in quella città era sospetto di morbo45. [...]. 43 Il perché: perciò. 44 da persona: da nessuno.
45 era sospetto di morbo: c’era il sospetto della presenza del morbo.
Angelo Emilio Lapi, ritratto di Matteo Bandello, in un’edizione delle Novelle del 1791.
Analisi del testo La struttura Antefatto remoto La novella si apre con un ampio antefatto, che ricostruisce l’ambiente sociale da cui proviene il giovane protagonista e la sua formazione raffinata, voluta dalla madre, intenzionata a fare di Galeazzo a tutti gli effetti un vero gentiluomo. Antefatto prossimo L’azione vera e propria è preceduta dal viaggio di Galeazzo dal ducato di Milano prima a Venezia e quindi a Padova, dove il giovane, nella casa dell’amico paterno, dal quale doveva riscuotere un credito, incontra la donna del suo destino: una bellissima fanciulla di nome Lucrezia, che corrisponde immediatamente il suo amore. L’azione principale Tornato a Milano, Galeazzo organizza la fuga dell’amata dalla casa paterna grazie alla complicità di un fedele servitore. Per tre anni il giovane frequenta quasi ogni notte la sua amata Lucrezia con grande piacere di entrambi. L’ostacolo La madre di Galeazzo, vedendo il figlio restìo ad ammogliarsi, compie delle indagini, scopre la ragione delle sue misteriose assenze, fa rapire Lucrezia e la fa condurre in un monastero con la speranza che, non vedendola più, il figlio acconsenta a prendere la moglie che la madre, secondo il costume del tempo, ha deciso per lui. La disperazione di Galeazzo e il colloquio rivelatore tra madre e figlio Disperato, Galeazzo rifiuta di mangiare e sta quasi per morire dal dolore. La madre allora gli svela quanto aveva fatto e l’amore materno la induce a perdonare il figlio e a promettergli che avrebbe riavuto la sua Lucrezia. L’inaspettato epilogo Riavuta la donna tra le sue braccia, Galeazzo non può tollerare il sospetto che qualcun altro abbia potuto godere della sua bellezza. Uccide prima la giovane con un colpo di pugnale e poi sé stesso, lasciando la madre in preda a un cordoglio inconsolabile.
184 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Perché, secondo te, Galeazzo fa rapire la fanciulla amata? Ti sembra logico questo comportamento? TECNICA NARRATIVA 2. Individua le sequenze in cui si articola la novella e assegna a ognuna di esse un titolo. ANALISI 3. In quali luoghi e ambienti sociali si svolge la novella? 4. Tratteggia un ritratto del protagonista sulla base degli elementi espliciti e degli indizi che il racconto ti fornisce, focalizzando la tua attenzione sul “lato oscuro” di Galeazzo che emerge nel tragico finale, ma forse serpeggia qua e là anche nel corso del racconto.
Interpretare
SCRITTURA 5. L’amore provato da Galeazzo per Lucrezia si può certamente ricollegare non solo al tema dell’amore-passione proprio della letteratura cortese, ma forse ancor più a quello della vera e propria “malattia d’amore” che sconfina nella psicopatologia (➜ V1A PAG. 272). Sviluppa il tema con riferimento al testo letto, ricostruendo le varie fasi dell’innamoramento di Galeazzo. SCRITTURA CREATIVA 6. Quale sarebbe stato il diverso finale che forse noi tutti lettori ci aspettavamo? Prova a scriverlo tu a partire dal ritrovamento dei due innamorati.
Sguardo sul teatro e cinema La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema Più di una commedia di William Shakespeare (1564-1616) attinge al repertorio novellistico (in particolare quello italiano), spesso contaminando fonti diverse. Celeberrimo è il dramma Romeo e Giulietta, trasposizione teatrale di una vicenda che, prima di essere immortalata dal genio di Shakespeare, conobbe diverse rielaborazioni. La prima fonte letteraria sicura della vicenda è una novella (la XXIII) contenuta nel Novellino di Masuccio Salernitano. Nel costruire la tragica vicenda di due amanti senesi, Giannozza e Mariotto, Masuccio attingeva per altro a un tema diffusissimo, quello dell’amore di due giovani contrastato dalle famiglie. Intorno al 1524 vi pose mano in una novella “spicciolata” il veronese Luigi da Porto: nella Istoria novellamente ritrovata di due nobili amanti ambientò la vicenda a Verona ai tempi di Bartolomeo della Scala e ribattezzò i due giovani Romeo Montecchi e Giulietta Cappelletti, le cui famiglie erano divise da un’antica rivalità. La vicenda fu infine ripresa da Matteo Bandello con il nuovo titolo: La sfortunata morte di due infelicissimi amanti che l’uno di veleno e l’altro di dolore morirono, con vari accidenti. Insieme ad altri testi del narratore italiano, la novella fu tradotta in francese, rimaneggiata dallo scrittore Pierre Boaistuau e inserita tra le Histoires tragiques extraites des oeuvres italiennes de Bandel (Storie tragiche tratte dalle opere italiane di Bandello) (1559); è da quest’ultima fonte che attinse Shakespeare, nella traduzione però in versi inglesi di Arthur Brooke (The tragical history of Romeus and Juliet, 1562). Un itinerario complicato, dunque, quello che porta la tragica vicenda dei due giovanissimi innamorati sul tavolo
di Shakespeare, che ne trasse uno dei suoi più celebri drammi, Romeo and Juliet, pubblicato nel 1599. Shakespeare concentra la vicenda in soli cinque giorni: una scelta felice, perché conferisce un ritmo incalzante agli eventi fatali che conducono i due giovani all’innamoramento e poi alla morte. La suggestione esercitata dall’interpretazione shakespeariana della tragica storia dei due infelici amanti fu nel tempo grandissima e non è certo ancora venuta meno. Anche il cinema ha più volte ripreso la vicenda di Giulietta e Romeo: la versione cinematografica più remota del dramma risale al 1936, con la regia di George Cukor e l’interpretazione, nel ruolo dei due protagonisti, di Norma Shearer e Leslie Howard; in Italia due sono state le versioni del dramma: nell’ormai lontano 1954, con la regia di Renato Castellani, e nel 1968 con la celebre regia di Franco Zeffirelli. Più recentemente si possono citare il film di Baz Luhrmann (William Shakespeare’s Romeo + Juliet, 1996), con Leonardo di Caprio nel ruolo di Romeo, che tenta una rilettura “attuale” del dramma, sullo sfondo di una Los Angeles inquinata dal razzismo, dove le due famiglie rivali sono l’una bianca e aristocratica e l’altra latino-americana (la situazione riprende l’idea del musical di grande successo West Side Story del 1957) o il fortunato Shakespeare in love (1998), con la regia di John Madden, protagonisti Gwyneth Paltrow e Joseph Fiennes. Nel film si immagina che uno Shakespeare giovane e quasi sconosciuto drammaturgo trovi nell’amore per un’aristocratica, che si diletta di recitazione, l’ispirazione per terminare proprio il dramma Romeo and Juliet.
Il Cinquecento 2 185
Testi In dialogo
La storia di Romeo e Giulietta Matteo Bandello
D1a
La scena del balcone in Bandello Novelle II, ix
M. Bandello, Novelle, a c. di G. G. Ferrero, Utet, Torino 1974
Nella novella si riporta il dialogo tra Romeo e Giulietta.
Aveva la camera di Giulietta le finestre suso1 una vietta assai stretta cui dirimpetto era un casale; e passando Romeo per la strada grande, quando arrivava al capo de la vietta, vedeva assai sovente la giovane a la finestra, e quantunque volte2 la vedeva, ella gli faceva buon viso3 e mostrava vederlo più che volentieri. Andava spesso di notte Romeo ed in quella vietta si fermava, sì perché quel camino4 non era frequentato ed altresì perché stando per iscontro5 a la finestra sentiva pur talora la sua innamorata parlare. Avvenne che essendo egli una notte in quel luogo, o che Giulietta il sentisse o qual se ne fosse la cagione6, ella aprì la finestra. Romeo si ritirò dentro il casale, ma non sì tosto ch’ella nol conoscesse7, perciò che la luna col suo splendore chiara la vietta rendeva. Ella che sola in camera si trovava, soavemente l’appellò8 e disse: – Romeo, che fate voi qui a quest’ore così solo? Se voi ci foste còlto9, misero voi, che sarebbe de la vita vostra? Non sapete voi la crudel nemistà10 che regna tra i vostri e i nostri e quanti già morti ne sono?11 Certamente voi sareste crudelmente ucciso, del che a voi danno e a me poco onore ne seguirebbe. – Signora mia, – rispose Romeo, – l’amor ch’io vi porto è cagione ch’io a quest’ora qui venga; e non dubito punto che se dai vostri fossi trovato, ch’essi non cercassero d’ammazzarmi, ma io mi sforzarei per quanto le mie deboli forze vagliano12, di far il debito mio13, e quando pure da soverchie forze mi vedessi avanzare, m’ingegnerei non morir solo14. E devendo io ad ogni modo morire in questa amorosa impresa, qual più fortunata morte mi può avvenire che a voi vicino restar morto?15 Che io mai debbia16 esser cagione di macchiar in minimissima parte l’onor vostro, questo non credo che avverrà già mai, perché io per conservarlo chiaro e famoso com’è mi ci affaticherei col sangue proprio17. Ma se in voi tanto potesse l’amor di me come in me di voi può il vostro, e tanto vi calesse de la vita mia quanto a me de la vostra cale, voi levareste via tutte queste occasioni18 e fareste di modo che io viverei il più contento uomo che oggidì sia. 1 suso: sopra. 2 quantunque volte: tutte le volte che.
3 gli faceva buon viso: si mostrava ben disposta verso di lui.
4 quel camino: quella zona. 5 per iscontro: di fronte. 6 o che Giulietta... cagione: o perché Giulietta avvertì la sua presenza o per qualsiasi altra ragione. 7 ma non sì tosto... conoscesse: ma non così rapidamente che ella non lo riconoscesse. 8 soavemente l’appellò: lo chiamò dolcemente.
9 Se voi... còlto: Se foste sorpreso (da qualcuno dei miei, familiari o domestici). 10 nemistà: inimicizia. 11 quanti già morti ne sono?: quanti sono già morti a causa di questa? 12 per quanto... vagliano: per quanto possono le mie deboli forze. 13 far il debito mio: difendermi adeguatamente. 14 e quando... solo: e se anche mi vedessi sopraffatto da forze superiori, cercherei di non morire solo (ovvero cercherei
186 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
di uccidere quanti più avversari possibile). 15 qual più... restar morto?: quale morte migliore mi può capitare (avvenire) che restare ucciso vicino a voi? 16 debbia: debba. 17 proprio: mio. 18 se in voi... occasioni: se l’amore verso di me avesse in voi tanto potere come ha in me quello nei vostri confronti e vi importasse (calesse) della mia vita quanto a me importa (cale) della vostra, voi togliereste di mezzo tutti questi inciampi (occasioni).
– E che vorreste voi che io facessi? – disse Giulietta. – Vorrei, – rispose Romeo, – che voi amassi19 me com’io amo voi e che mi lasciaste venir ne la camera vostra, a ciò che più agiatamente e con minor pericolo io potessi manifestarvi la grandezza de l’amor mio e le pene acerbissime che di continovo20 per voi soffro. – A questo Giulietta alquanto d’ira accesa e turbata gli disse: – Romeo, voi sapete l’amor vostro ed io so il mio, e so che v’amo quanto si possa amare, e forse più di quello che a l’onor mio si conviene. Ma ben vi dico che se voi pensate di me godere oltra il convenevole nodo del matrimonio21, voi vivete in grandissimo errore e meco punto non sarete d’accordo. E perché conosco che praticando voi troppo sovente per questa vicinanza potreste di leggero incappare negli spiriti maligni22 ed io non sarei più lieta già mai, ma conchiudo che23 se voi desiderate esser così mio come io eternamente bramo esser vostra, che debbiate per moglie vostra legitima sposarmi. Se mi sposarete, io sempre sarò presta a venir in ogni parte ove più a grado vi fia24. Avendo altra fantasia in capo25, attendete a far i fatti vostri e me lasciate nel grado mio26 vivere in pace. – Romeo che altro non bramava, udendo queste parole, lietamente le rispose che questo era tutto il suo disio e che ogni volta che le piacesse la sposeria in quel modo che ella ordinasse. – Ora sta bene, – soggiunse Giulietta. – Ma perché le cose nostre ordinatamente si facciano, io vorrei che il nostro sponsalizio a la presenza del reverendo frate Lorenzo da Reggio, mio padre spirituale, si facesse. – A questo s’accordarono, e si conchiuse che Romeo con lui il seguente giorno del fatto parlasse, essendo egli molto di quello domestico27. 19 amassi: amaste. 20 di continovo: di continuo. 21 oltra... matrimonio: al di là, al di fuori del giusto legame del matrimonio. 22 perché... negli spiriti maligni: dato che so che aggirandovi voi troppo spesso da queste parti, a
causa di questa frequentazione potreste facilmente (di leggero) incappare in qualche persona malvagia. 23 conchiudo che: concludo che. 24 io sempre... vi fia: io sarò sempre pronta (presta) ad andare dove più vi piacerà.
25 Avendo... in capo: Se avete altre fantasie in testa (ovvero quella di avere Giulietta senza sposarla). 26 nel grado mio: come mi piace (letteralmente “nel mio gradimento”). 27 molto di quello domestico: in rapporti molto familiari con lui.
Frank Dicksee, Romeo e Giulietta, olio su tela, 1884 (Art Gallery, Southampton).
Il Cinquecento 2 187
William Shakespeare
D1b
La scena del balcone in Shakespeare Romeo e Giulietta, atto II, scena II
W. Shakespeare, Le tragedie, a c. di G. Melchiori, trad. di S. Quasimodo, Mondadori, Milano 1976
Si propone la stessa scena raccontata da Bandello ma trasformata da Shakespeare in opera teatrale.
ROMEO
Ecco, parla. Oh, parla ancora, angelo splendente! Tu in questa notte appari a me, dall’alto, di forte luce come un alato messaggero agli occhi meravigliati dei mortali, quando varca lente nuvole e veleggia nell’aria1 immensa.
GIULIETTA O Romeo!2 Romeo! Perché tu sei Romeo? Rinnega dunque tuo padre e rifiuta quel nome, o se non vuoi, legati al mio amore e più non sarò una Capuleti3. ROMEO
Devo rispondere o ascoltare ancora?4
GIULIETTA Solo il tuo nome è mio nemico: tu, sei tu, anche se non fossi uno dei Montecchi, Che cosa vuol dire Montecchi? Né mano, non piede, né braccio, né viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome! Che c’è nel nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con altro nome avrebbe il suo profumo. Anche Romeo senza più il suo nome sarebbe caro, com’è, e così perfetto. Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per il nome5, che non è parte di te, prendi me stessa. ROMEO
Ti prendo sulla parola, chiamami solo amore, e avrò nuovo battesimo; ecco, non mi chiamo più Romeo.
GIULIETTA Chi sei tu che difeso dall’ombra della notte entri nel mio chiuso pensiero?
1. Tu in questa notte... veleggia nell’aria: il tono con cui Romeo si rivolge a Giulietta appena apparsa al balcone è altamente lirico, denso di immagini poetiche (come il paragone tra Giulietta e un messaggero celeste). 2 O Romeo!: Giulietta invoca il
nome dell’amato credendosi sola.
3 Rinnega dunque... Capuleti: le parole appassionate di Giulietta focalizzano il nodo della tragedia, l’odio che oppone le due casate dei Montecchi e dei Capuleti, che può essere estinto solo rinunciando al proprio nome, annul-
188 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
lando la propria appartenenza alle famiglie rivali. 4 Devo... ancora?: Romeo sta parlando a sé stesso. 5 per il nome: in cambio del nome.
ROMEO
Con un nome non so dirti chi sono; odio il mio nome che ti è nemico, straccerei il foglio dove fosse scritto.
GIULIETTA Il mio orecchio non ha bevuto cento parole di quella voce, e già ne riconosco il suono. Non sei Romeo, uno dei Montecchi? ROMEO
Né l’uno, mia bella fanciulla, né l’altro, se non ti è caro né l’uno né l’altro.
GIULIETTA Come, perché, sei giunto fino a qui? Alti sono i muri del giardino e aspri da scalare; e se qualcuno ora ti scopre, se penso chi sei, questo è luogo di morte. ROMEO
Con le ali leggere d’amore volai su questi muri: per amore non c’è ostacolo di pietra, e ciò che amore può fare, amore tenta: non possono fermarmi i tuoi parenti.
GIULIETTA Se ti vedono qui, ti uccideranno. ROMEO
Ahimè! Il pericolo è più nei tuoi occhi che non in venti delle loro spade: se mi guardi con dolcezza, sarò forte contro il loro odio.
GIULIETTA Non vorrei che ti vedessero qui, per tutto il mondo. ROMEO
Il manto della notte mi nasconde; ma se non mi ami lascia che mi trovino. Meglio che il loro odio tolga la mia vita, e non che la morte tardi senza il tuo amore.
GIULIETTA Chi ti ha guidato in questo luogo? ROMEO
Con i miei occhi, amore m’aiutò a cercarlo, e con il suo consiglio. Io non sono pilota ma se tu fossi lontana, quanto la più deserta spiaggia del più lontano mare, io mi spingerei là, sopra una nave, per una merce tanto preziosa.
GIULIETTA La maschera della notte mi nasconde il viso: vedresti il rosso, allora, che copre le mie guance, per le parole dette Il Cinquecento 2 189
questa notte! Oh, come vorrei volentieri, volentieri, smentire le parole; ma ormai, addio finzioni! Mi ami tu? So che dirai di sì, ed io ti crederò; ma se giuri, tu puoi ingannarmi. Dicono che Giove rida dei falsi giuramenti degli amanti. O gentile Romeo, se mi ami, dimmelo veramente; ma se credi che mi sia presto abbandonata, sarò crudele (e lo diranno le mie ciglia), dirò di no, e allora sarai tu a pregarmi; se non lo pensi, non saprei dirti di no per tutto il mondo. O bel Montecchi, è vero, il mio amore è troppo forte, e, con ragione, potresti dirmi leggera, mio gentile signore, ma vedrai che sono più sincera delle donne che più di me conoscono l’astuzia di apparire timide. E più timida, certo sarei stata, se tu, a mia insaputa, non mi avessi sentito parlare del mio amore. Perdonami dunque, e non attribuire a leggerezza questo mio abbandono, che l’ombra della notte ti ha rivelato. ROMEO
Per la felice luna che imbianca le cime di questi alberi, io giuro...
GIULIETTA Oh, non giurare per la luna, per l’incostante luna che ogni mese muta il cerchio della sua orbita: non vorrei che il tuo amore fosse come il moto della luna. ROMEO
E per che cosa devo allora giurare?
GIULIETTA Non giurare; o giura per te, gentile, che sei il dio che il mio cuore ama, e sarai creduto. ROMEO
Se il caro amore del mio cuore...
GIULIETTA No, non giurare. Ogni mia gioia è in te, ma non ho gioia dal nostro patto d’amore di questa notte; improvviso, inaspettato, rapido, troppo simile al lampo che finisce prima che si dica “lampeggia”. Buona notte, mio amore! Questo germoglio d’amore che si apre al mite vento dell’estate, sarà uno splendido fiore quando ci rivedremo ancora. Buona notte, buona notte! Un sonno dolce e felice scenda nel tuo cuore come nel mio!
190 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
ROMEO
Oh, tu mi lasci con tanto desiderio!
GIULIETTA E che desiderio puoi avere questa notte? ROMEO
Scambiare il tuo amore con il mio.
GIULIETTA Prima che lo chiedessi, io t’ho dato il mio, e vorrei non averlo ancora dato. ROMEO
Vorresti, forse, riprenderlo? E per quale ragione, amore mio?
GIULIETTA Per offrirlo ancora una volta. Io desidero quello che possiedo; il mio cuore, come il mare, non ha limiti e il mio amore è profondo quanto il mare: più a te ne concedo più ne possiedo, perché l’uno e l’altro sono infiniti. Sento qualche rumore nella casa; caro amore, addio! La NUTRICE chiama dall’interno “Subito, mia buona nutrice.” E tu, amato Montecchi sii fedele: aspetta un momento il mio ritorno. Esce ROMEO
O felice, felice notte! Io temo, poi ch’è notte, che sia un sogno il mio, dolce di lusinghe e non realtà.
GIULIETTA torna al balcone GIULIETTA Due parole, mio caro, e poi davvero, buona notte. Se questo tuo amore è onesto e mi vuoi come sposa, domani mandami a dire da chi verrà da te, dove e in che giorno compiremo il rito, avrai allora ai tuoi piedi la mia sorte, e verrò con te, mio signore, in tutto il mondo. NUTRICE
(Dall’interno) Signora!
GIULIETTA “Vengo subito!” Ma se il tuo amore non è onesto, ti supplico... NUTRICE
(Dall’interno) Signora! Il Cinquecento 2 191
GIULIETTA “Vengo, vengo!” Non parlarmi più e lasciami al mio dolore; domani manderò qualcuno... ROMEO
Per la salvezza dell’anima mia...
GIULIETTA Mille volte buona notte! Esce ROMEO
Mille volte cattiva notte, ora che mi manca la tua luce. Amore va verso amore come i ragazzi fuggono dai libri; ma amore lascia amore con la malinconia dei ragazzi quando vanno a scuola.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza la novella di Bandello. COMPRENSIONE 2. Ci sono differenze di contenuto tra la novella e la trasposizione teatrale? Se sì, quali?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 3. Stabilisci un confronto tra i due testi, fondati sullo stesso soggetto, che evidenzi: a. le differenze connesse alle prerogative dei due diversi generi cui appartengono (narrativo in un caso, teatrale nell’altro); b. le differenze sul piano dell’interpretazione poetica del tema e delle soluzioni letterarie adottate dai due scrittori (lessico, uso di metafore, ecc.).
Fissare i concetti La novella nell’età umanistico-rinascimentale 1. 2. 3. 4.
Che cosa succede al genere della novella nel primo Quattrocento? E nel Cinquecento? Quali sono gli antenati della barzelletta? Quali caratteristiche presentano? Quali temi sono presenti nelle novelle? Per quale motivo nel tardo Cinquecento si verifica il declino della novella?
192 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
Quattrocento e Cinquecento La novella nell’età umanistico-rinascimentale
Sintesi con audiolettura
1 Il Quattrocento
Nel primo Quattrocento, la novella entra in crisi: l’Umanesimo tende a relegare il genere novellistico (Boccaccio compreso) ai margini della cultura. Vi scompare l’espediente della cornice e il carattere di unitarietà delle opere, a favore della composizione di singole novelle (le “spicciolate”): la più celebre è Belfagor arcidiavolo (1518), di Niccolò Machiavelli. Parzialmente autonomo è il filone della facezia, racconto breve senza velleità filosofiche o estetiche chiuso da una battuta spiritosa. Nel Quattrocento coinvolge autori di alto livello quali Leonardo da Vinci e Poliziano (Detti piacevoli), mentre nel Cinquecento è valorizzata dalla civiltà di corte, amante dell’eleganza ma anche di umorismo e intelligenza. Le facezie possono essere anche in latino: sono particolarmente diffuse, in questo caso, nei circoli culturali umanistici. In genere, comunque, gli elementi narrativi sono ridotti al minimo proprio per evidenziare l’umorismo, costruito mediante paradossi, doppi sensi, allusioni argute. Celebre in tal senso è Masuccio Salernitano con il suo Novellino, una raccolta di testi senza cornice ma con dedica, che racconta l’amore e anche la sua dimensione tragica, violenta.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
193
2 Il Cinquecento
Nel Cinquecento continua la produzione novellistica senza mai, però, riuscire a raggiungere la coerenza del grande modello del genere, il Decameron. L’esempio che più vi si richiama è quello degli Ecatommiti (1565): una raccolta ambientata ai tempi del sacco di Roma. Il tema principale di tutte le raccolte è l’amore, declinato secondo il registro comico. Un’eccezione è rappresentata da Matteo Bandello che, nella sua opera Quattro libri delle novelle, affronta il sentimento servendosi del registro tragico, a cui si accompagna un certo gusto per l’elemento crudele, grottesco e orrido: un sintomo del generale incupimento dei temi legato alla crisi del mondo rinascimentale, che porterà all’affermazione del genere del romanzo. Le ragioni di questa decadenza si ritrovano innanzitutto nel mutato clima spirituale creato dalla Controriforma; ma anche in ragioni storico-sociali, quali la crisi della società comunale-signorile. La novella funge anche da ricco serbatoio di temi e situazioni per il teatro rinascimentale.
Zona Competenze Competenza digitale
1. Realizza un documento Word o un PowerPoint in cui delinei l’evoluzione del genere della novella dagli inizi nel Quattrocento al tardo Cinquecento.
Comprensione 2. La novella si lega alla comicità, ma attinge anche alla sfera del patetico e del tragico. Crea una scheda dei testi proposti nel capitolo, indicando di ciascuno il genere letterario prevalente.
194 Quattrocento e Cinquecento 3 La novella nell’età umanistico-rinascimentale
Quattrocento e cinquecento CAPITOLO
4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
Il poema cavalleresco, uno dei generi più prestigiosi e affascinanti della letteratura italiana, nasce nel Quattrocento per intrattenere il pubblico della corte. Alle spalle ha la tradizione medievale dei cicli carolingio e bretone, trasmessi nelle piazze dalla voce dei cantastorie e poi rielaborati in forma ancora rozza dai cantari trecenteschi. Tra Quattrocento e Cinquecento questa ricca materia narrativa assume forma artistica grazie a grandi scrittori che compongono per un pubblico colto e raffinato. Due sono le principali direttive: quella burlesca e parodica, rappresentata dal Morgante di Pulci e quella “seria”. In quest’ultima si inscrivono, in modi diversi, l’Orlando innamorato di Boiardo, nostalgica riproposizione dei valori cavallereschi, e l’Orlando furioso di Ariosto, in cui le avventure e gli amori dei paladini sono reinterpretati con ironia, frutto della disincantata visione rinascimentale; e infine, ormai al tramonto del Rinascimento, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, che ricrea la dimensione epico-religiosa in rapporto al mutato clima ideologico della Controriforma.
cantari al poema 1 Dai cavalleresco 195 195
1
Dai cantari al poema cavalleresco 1 Un genere destinato al successo L’emergere del genere epico-cavalleresco nella società cortigiana La materia epico-cavalleresca conosce una straordinaria fortuna nel Quattrocento, in rapporto all’affermarsi della società cortigiana: le storie degli antichi cavalieri sono particolarmente apprezzate dal raffinato pubblico della corte (in particolare la corte estense a Ferrara) che in esse si identifica e si rispecchia. Non è quindi casuale l’emergere in primo piano, in questo periodo, di un genere, il poema cavalleresco, che nel corso del Cinquecento, con l’Orlando furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata del Tasso, diventerà una delle espressioni universalmente considerate più suggestive e distintive della letteratura italiana. Dalla Francia all’Italia Il materiale narrativo a cui i poemi dell’Umanesimo-Rinascimento attingono ha una storia secolare: nato in Francia in epoca medievale, si trasmette in molte culture europee, tra cui l’Italia, in varie forme e modi. Già nel tardo Medioevo, dalla letteratura epico-cavalleresca francese erano trapassati nella cultura italiana temi, personaggi e immagini; un affascinante patrimonio narrativo, questo, che influenza nel tempo diverse forme letterarie e grandi autori: ad esempio non poche novelle del Decameron rimandano alla materia cavalleresca, che Boccaccio rivisita alla luce di una nuova mentalità. Verso la fine del Duecento, nella zona nord-orientale d’Italia, fiorisce una produzione di poemi: la cosiddetta letteratura franco-veneta; essa rielabora la tradizione cavalleresca francese utilizzando la lingua d’oil. L’opera più significativa di questa produzione è la trecentesca Entrée d’Espagne (Entrata in Spagna) che racconta le vicende di Rolando (Orlando) e di altri paladini nel paese iberico. Nel poema si può constatare la fusione tra la materia carolingia e le componenti avventurose proprie della tradizione narrativa bretone, che sarà mantenuta anche in seguito. Tra la fine del Duecento e primi decenni del Trecento si diffondono inoltre i romanzi in prosa, destinati alla lettura, che attingono sostanzialmente alla materia bretone: i più noti sono la Storia di Merlino, il Tristano Riccardiano e La Tavola Rotonda, che contamina fra loro diverse fonti della leggenda arturiana.
Scena di duello, miniatura veneta di un manoscritto de L’entrée d’Espagne, sec. XIV (Bibl. Marciana, Venezia).
196 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
2 I cantari
PER APPROFONDIRE
Una produzione divulgativa destinata all’ascolto Tra il XIV e il XV secolo, in particolare in area toscana, si diffondono i cantari: si tratta di componimenti in ottave di argomento epico-cavalleresco, recitati nelle piazze, a volte con accompagnamento musicale, di fronte a un pubblico mutevole ed eterogeneo. I canterini, cioè gli autori (e spesso anche esecutori) dei cantari, sono persone di modesta o scarsa cultura, che rielaborano in chiave divulgativa i temi epicocavallereschi per un pubblico di ascoltatori, non di lettori. Ne derivano scelte specifiche a livello sia contenutistico sia narrativo e stilistico: i canterini semplificano i temi e i personaggi, privilegiano gli aspetti narrativi di maggiore attrazione (come il magico, l’avventuroso e i colpi di scena), ricorrono costantemente all’iperbole, ma frequentemente “abbassano” (indulgendo, a volte, anche alla comicità vera e propria) una materia un tempo epica e solenne, i cui risvolti etici e religiosi erano ormai andati perdendosi. Nei cantari la materia carolingia e quella bretone sono ormai costantemente fuse: imprese epiche si alternano infatti ad amori e avventure in terre esotiche. Dalla destinazione orale deriva poi la presenza nei cantari delle frequenti allocuzioni al pubblico, di cui si richiama l’attenzione anche attraverso ridondanze,
La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare La conoscenza delle favolose vicende di Carlo Magno e dei suoi paladini, come pure le avventure dei cavalieri di re Artù, si diffonde in Italia (e nel resto d’Europa) anche tra il popolo, grazie alla trasmissione orale ad opera di giullari e cantastorie. La popolarità dei più celebri personaggi della materia bretone e carolingia tra la gente è documentata anche dalla loro raffigurazione in alcune chiese italiane su zone particolarmente visibili ai fedeli come i portali: già nel 1139 Orlando e il suo fido compagno Olivieri sono ritratti nel portale del Duomo di Verona. Un filo rosso collega queste antichissime testimonianze al teatro dei “pupi” che si diffonde nella seconda metà dell’Ottocento in Sicilia (in particolare a Catania e Palermo) sulla base di un repertorio essenzialmente ispirato al ciclo carolingio, ben noto al pubblico grazie ai cantastorie. I perso-
naggi appartengono al mondo dei paladini di Carlo Magno e sono impersonati sulla scena dai “pupi”, sorta di grandi marionette (potevano originariamente arrivare a più di un metro di altezza), manovrate dall’alto o di lato, tramite grosse bacchette di ferro e corde, dai “pupari”: la testa è scolpita, il corpo è solo sbozzato perché poi è ricoperto (nel caso dei personaggi maschili) da una splendente armatura. Lo spettacolo si articola in varie serate, ognuna delle quali viene sapientemente interrotta al momento opportuno per creare maggiore attesa negli spettatori; quasi sempre il regista coincide con il cosiddetto “parlatore”, ovvero colui che presta la voce ai personaggi. Uno straordinario personaggio, Mimmo Cuticchio, ha riproposto di recente, in spettacoli di grande suggestione, la tradizione dei pupi.
Mimmo Cuticchio tra i suoi pupi.
Dai cantari al poema cavalleresco 1 197
ripetizioni, e di cui si sollecita la curiosità con anticipazioni del seguito della storia narrata. A livello linguistico prevalgono la paratassi e un lessico non elevato; la metrica è poco curata. I cicli di cantari recitati “a puntate” Fra Tre e Quattrocento i cantari si organizzano in cicli narrativi, recitati a puntate in giornate successive così da creare attesa nel pubblico (non diversamente dai serial televisivi di oggi). I più importanti sono La Spagna in rima, in 40 canti, che rielabora la tradizionale materia carolingia (➜ T1 OL) e il Rinaldo di Montalbano (o i Cantari di Rinaldo), che pone in primo piano la figura di Rinaldo. Da ricordare infine il Cantare d’Orlando, in cui vengono narrate le avventure online in terra d’Oriente di Orlando e del gigante Morgante (personaggio che T1 L’infrazione dell’aura mitica: Orlando, affamato, cerca lavoro ritroveremo nell’omonima opera di Pulci), attorniati da altri paladini, La Spagna in rima XV, 24-27 fra i quali spicca il già ricordato Rinaldo.
3 Il poema cavalleresco Un genere colto, di alta qualità letteraria Gli autori dei poemi cavallereschi prendono le mosse dai cantari: li utilizza Boiardo, ad esempio, oltre a varie fonti francesi, lavorando al suo Orlando innamorato; per i primi 23 canti del suo Morgante, Pulci segue abbastanza fedelmente il Cantare d’Orlando sopra citato. Dalla produzione canterina il poema cavalleresco eredita l’uso dell’ottava e moltissimi spunti tematici e narrativi. Rispetto alla tradizione popolaresca dei cantari, i poemi cavallereschi presentano però rilevanti differenze. Con riguardo alle più importanti, si può iniziare col dire che gli autori dei poemi cavallereschi sono colti, si formano in un ambiente socialmente elevato e si rivolgono essenzialmente al pubblico raffinato della corte signorile. Al contrario, i canterini hanno per lo più una cultura limitata e di conseguenza la qualità letteraria dei loro prodotti è piuttosto modesta. Questi ultimi si rivolgono, inoltre, a un pubblico eterogeneo e mutevole, per lo più di estrazione popolare.
J. Bertoja e G. Mirola, Orlando, Ruggiero, Fiordelisa, Brandimante nella foresta incantata, affresco ispirato all’Orlando innamorato, (particolare della volta nella Sala del Bacio, Palazzo Giardino, Parma).
198 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
I poemi cavallereschi, poi, sono stesi subito in forma scritta e non sono destinati alla circolazione orale, bensì alla lettura personale (o alla lettura pubblica in ambienti, però, socialmente ristretti o esclusivi): proprio per questo presentano un maggior controllo formale; inoltre, proprio perché non devono essere recitati, i singoli canti sono più lunghi e non sempre trattano un argomento in sé compiuto; hanno una metrica molto più accurata; sono disseminati di riferimenti alla tradizione letteraria che solo un pubblico colto può identificare e apprezzare. Due modelli antitetici: il Morgante di Pulci e l’Orlando innamorato di Boiardo I due maggiori poemi cavallereschi del Quattrocento sono il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, testimonianze diverse di un medesimo processo di derivazione dai cantari: l’Orlando innamorato rappresenta l’esito “serio”, che immette l’epica medievale e la tradizione canterina nella cultura alta, mentre il Morgante ne rappresenta l’esito “giocoso”. La diversissima ispirazione e natura dei due poemi, come già evidenziano i due proemi (➜ T2a , T2b ), ha a che fare non solo con le diverse personalità artistiche dei due scrittori, ma anche con i diversi ambienti socio-culturali in cui essi operano: Boiardo scrive alla corte degli Estensi a Ferrara, centro di raffinata cultura umanistica dove la tradizione cortese era profondamente radicata; Pulci, invece, vive e opera a Firenze, dove esisteva una spiccata tradizione realistico-giocosa e dove le tendenze idealizzanti proprie di alcuni ambiti intellettuali della corte dei Medici (il neoplatonismo ficiniano) non erano riuscite a soffocare lo spirito beffardo, dissacrante, parodico che in certo qual modo connotava (e forse ancora connota) la “fiorentinità”.
4 Il Morgante di Pulci.
La deformazione comica e grottesca della materia cavalleresca
Luigi Pulci, un “irregolare” alla corte dei Medici La vita Discendente da una nobile famiglia decaduta, Luigi Pulci nasce nel 1432 a Firenze. Nel 1461 entra a far parte della cerchia di Cosimo de’ Medici, quando già si gettano le basi della signoria della potente famiglia. Luigi Pulci è in affettuosi rapporti di amicizia con Lorenzo de’ Medici (che in qualche lettera chiama compagnuzzo e al quale è indirizzata ampia parte del suo epistolario). Quando Lorenzo però assume il potere, Pulci non riesce a inserirsi nel clima culturale raffinato della sua corte: la sua cultura non è di tipo umanistico, ma fondata sulla tradizione volgare, in particolare quella “giocosa”, da Cecco Angiolieri al Burchiello. La sua visione libera e trasgressiva è costituzionalmente contrapposta all’Umanesimo erudito di Poliziano e alla tendenza neoplatonica che ha il proprio principale portavoce in Marsilio Ficino, con il quale Pulci polemizza aspramente. Di fatto rimane emarginato e i suoi rapporti con Lorenzo si raffreddano. Contribuiscono certamente al progressivo distacco tra costui e Luigi Pulci anche i suoi atteggiamenti irriverenti (espressi anche in sonetti dissacranti e parodici) verso la religione. Abbandonata Firenze (anche se vi si recava solo saltuariamente), si lega al capitano di ventura Roberto Sanseverino, per cui compie numerose missioni diplomatiche. Muore a Padova nel 1484 e, per la sua fama di eretico, viene sepolto in terra sconsacrata. Dai cantari al poema cavalleresco 1 199
Il Morgante La riscrittura comico-caricaturale del Cantare d’Orlando Pulci è stimolato a comporre il Morgante dalla madre di Lorenzo de’ Medici, Lucrezia Tornabuoni, che gli chiede un poema sulle imprese di Carlo Magno per assecondare gli interessi culturali e politici dei Medici, che in quel periodo cercano buoni rapporti con la Francia. Lo scrittore si mette all’opera assumendo come fonte principale il Cantare d’Orlando, che segue fedelmente quanto all’intreccio basilare, ma che riscrive secondo una prospettiva in sostanza caricaturale: nel Morgante, i materiali cavallereschi sono filtrati da un occhio divertito che li trasforma in spunti comici, capaci di dilettare il pubblico colto e smaliziato della corte medicea, davanti al quale, tra l’altro, il Pulci in persona recita in un’occasione i primi ventitré canti. Una scelta opposta a quella di Boiardo: il rovesciamento parodico dell’eroismo cavalleresco L’influenza della tradizione comica toscana, ma anche i caratteri borghesi e mercantili della pragmatica società fiorentina, inducono Pulci a comporre il poema in una direzione opposta alla nostalgica ricreazione del mondo cavalleresco di Boiardo, a cominciare dalla totale assenza del tema amoroso, che è invece centrale nell’Orlando innamorato. Il Morgante, però, rispecchia soprattutto lo spirito trasgressivo del suo autore, portato a rappresentare – contro ogni mistificante idealizzazione, e forse anche con intento polemico verso orientamenti culturali della corte medicea che non condivide – gli aspetti materiali, la fisicità dell’esistenza, il vitalismo dei gesti e delle azioni. È grazie a questo suo gusto, in cui si fa sentire la tradizione popolare, folklorica, “carnevalesca” (➜ C1, PAG 143), che Pulci innova il poema cavalleresco, mentre le parti della sua opera in cui si mantiene più fedele alla tradizione epica sono meno originali e interessanti. I personaggi: tra invenzione e tradizione I personaggi del Morgante sono in parte ereditati dalla tradizione: tra di essi spicca Rinaldo, molto amato dal pubblico italiano e a cui l’autore dedica molto spazio; è un personaggio dinamico che, a seconda delle situazioni, può essere nobile e dedicarsi alla causa della fede convertendo i pagani, oppure violento, fino addirittura a trasformarsi in un volgare predone. Non manca nell’opera la figura tradizionale del paladino Orlando, che assume tratti diversi nel corso del poema: nella prima parte è preda di pulsioni istintive, negli ultimi cinque canti invece assume il tradizionale ruolo dell’eroe-martire. Ma nel Morgante emergono e restano maggiormente impressi nel lettore soprattutto i due personaggi di Morgante e di Margutte: il primo totalmente rinnovato da Pulci, il secondo da lui stesso creato. Morgante è caratterizzato dalla forza smisurata e dall’insaziabile appetito; non ha sentimenti, né intelligenza, ma è forza bruta, pura energia vitale. Margutte, furbo e spregiudicato, è portatore di una visione materialistica che gli fa pronunciare il famoso e dissacrante “credo” (➜ T4 ), dove i peccati sono trasformati in virtù. Egli rappresenta a tutti gli effetti il rovesciamento parodico dell’eroe e dell’etica cavalleresca. Un altro personaggio ideato da Pulci è il diavolo Astarotte, a cui lo scrittore affida, paradossalmente, la difesa di ideali di Il gigante Morgante e il nano Margutte, in tolleranza religiosa che corrispondono alla sua stessa visione un’incisione (tratta da un’edizione a stampa anticonformistica. del poema di Pulci del primo Cinquecento).
200 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
La valorizzazione dell’invenzione linguistica Il vero elemento unificante del poema è il ruolo preminente svolto dall’invenzione linguistica, funzionale alla dimensione parodica e al gusto grottesco che lo caratterizzano. Il Morgante valorizza il carattere edonistico, creativo della lingua, al di là delle sue funzioni logiche: «l’onomatopea, l’accumulazione spesso ordinata in serie anaforiche, l’effetto di nonsense affidato tanto all’invenzione verbale quanto alla tecnica della giustapposizione di elementi incongrui, il ricorso ora a tratti fortemente idiomatici ora a vocaboli rari ed esotici o a rime difficili» (Meneghetti) rendono unica la lingua dell’opera. Un impasto linguistico eterogeneo e iper-espressivo La lingua del Morgante ha come base il parlato fiorentino, ma nel suo complesso è caratterizzata da un marcato ibridismo; nell’originale e iper-espressivo impasto linguistico del lavoro entrano, infatti, termini delle più varie provenienze: dialetti, latino, francese, ma anche elementi gergali (come il lessico dei malviventi, che Pulci aveva personalmente studiato con interesse filologico). L’orientamento linguistico del poema, che contribuisce in modo determinante alla sua originalità, è il frutto di una scelta consapevole: nel gusto per la parola corposa, vivacemente espressiva, Pulci si riallaccia alla tradizione toscana popolareggiante, contrapponendosi polemicamente agli ambienti umanistici che ricercavano uno stile eletto e raffinato. La vicenda La trama dell’opera è intricatissima, quasi caotica e non è possibile fare una distinzione tra episodi principali e secondari, sostanzialmente autonomi e indipendenti l’uno dall’altro come sono. Tra i tanti fili della vicenda centrale uno è rappresentato dall’abbandono, da parte di Orlando, del campo cristiano, dopo essere stato calunniato da Gano di Maganza. Lasciata la Francia in cerca di avventure, Orlando cattura e converte al cristianesimo il gigante Morgante, che lo accompagna poi in Oriente come scudiero, assistendolo nelle sue imprese. L’episodio più celebre dell’opera (che ebbe anche una circolazione indipendente dal resto del poema) è l’incontro tra Morgante e Margutte (un gigante la cui crescita si è arrestata a metà): Margutte, personaggio ideato da Pulci, è un furfante scaltro e amorale, che dà vita, insieme a Morgante, a una serie di avventure tra l’epico e il carnevalesco. Orlando in seguito farà ritorno in Francia per difendere l’esercito cristiano dall’attacco sferrato dal re saraceno Marsilio, istigato da Gano. Negli ultimi cinque cantari la narrazione si allinea al complesso delle Chansons, trattando la disfatta di Roncisvalle, la morte di Orlando e, alla fine, la terribile punizione di Gano.
5 L’Orlando innamorato di Boiardo
e la nostalgica riproposizione del mondo cavalleresco
Matteo Maria Boiardo alla corte estense La vita L’esistenza di Boiardo, nobile feudatario di Scandiano (presso Reggio Emilia), dove nasce attorno al 1441, è tutta legata alla corte degli Estensi. Matteo Maria partecipa alle feste, alle cacce e ai tornei che scandiscono la vita dell’ambiente cortigiano, svolge importanti incarichi per conto degli Este, ma al contempo si dedica anche agli studi umanistici, traducendo testi classici latini e studiando soprattutto la poesia amorosa (Orazio e Properzio). Dai cantari al poema cavalleresco 1 201
Nel 1476 si stabilisce definitivamente a Ferrara e conclude gli Amorum libri (Libri degli amori), ispirati dall’amore per Antonia Caprara, una raccolta poetica che guarda al modello del Petrarca, pur con un titolo che richiama gli Amores del poeta latino Ovidio: si tratta di 180 liriche, in prevalenza sonetti, organizzate in tre libri secondo un preciso disegno. Probabilmente nel 1476, stimolato dalla signoria estense, il Boiardo inizia la stesura dell’Orlando innamorato, un poema cavalleresco in ottave, di cui pubblicherà nel 1483 i primi due libri. Assorbito da impegni di grande responsabilità (dal 1487 è governatore di Reggio), Boiardo interrompe però la stesura del lavoro, che rimarrà incompiuto al nono canto del III libro. Gli ultimi versi, scritti dal Boiardo poco prima di morire (nel dicembre 1494), ci consegnano l’immagine angosciata di un’Italia «tutta a fiama e a foco» per la discesa delle truppe francesi di Carlo VIII. La violenza della storia infrangeva bruscamente i sogni cavallereschi, che si rivelavano incompatibili con il corso drammatico degli eventi.
L’Orlando innamorato Un’ottica nostalgica Boiardo utilizza il codice cavalleresco per esprimere la nostalgia per il mondo delle belle favole e degli antichi cavalieri, che gli sembravano ormai tramontati. Nel proemio al libro II scrive: «Così nel tempo che virtù fioria / ne li antiqui segnori e cavallieri, / con noi stava allegrezza e cortesia, / e poi fuggirno per strani sentieri» (➜ T3 OL). D’altra parte il raffinato ambiente della corte estense di Ferrara, a cui espressamente l’Orlando innamorato si rivolge, amava particolarmente le leggende cavalleresche e ancora si riconosceva nei valori etici e culturali di quel mondo cortese ed eroico che il Boiardo cerca di rivitalizzare. Il ruolo centrale della tematica amorosa Nella riproposta del materiale epicocavalleresco, Boiardo opera alcune fondamentali innovazioni: mentre la materia carolingia era tradizionalmente dominata dalle armi, Boiardo riserva invece il ruolo principale alla tematica dell’amore, ispirandosi sia alla tradizionale materia bretone sia alla visione petrarchesca del sentimento che ricorre nella lirica del secondo Quattrocento. Del resto lo stesso Boiardo aveva composto, come si è detto, un canzoniere amoroso, gli Amorum libri, che è considerato il più significativo della poesia amorosa quattrocentesca. La sostanziale continuità tra il poeta lirico e il cantore degli amori cavallereschi è evidente nel poema, a cominciare dall’elogio dell’amore pronunciato all’inizio del canto IV del secondo libro: «Amor primo trovò le rime e’ versi / i suoni, i canti et ogni melodia; / e genti istrane e populi dispersi / congionse Amore in dolce compagnia. […]». La maggior parte delle avventure del poema è legata a questo tema, che costituisce il principale motore dell’azione narrativa: è per amore, in particolare nei confronti della bella Angelica, affascinante personaggio femminile creato da Boiardo e poi ripreso da Ariosto, che gli eroi (da Ranaldo a Sacripante a Orlando stesso) si scontrano tra loro in duelli e si avventurano lontano dal campo di battaglia, affrontando pericolose imprese. Una novità: anche Orlando si innamora Nel poema boiardesco lo stesso Orlando, eroico paladino per tradizione votato alle armi, conosce con struggente intensità l’esperienza amorosa (➜ T6 ): da qui il titolo, che già prospetta inequivocabilmente la novità dell’opera rispetto alla tradizione epico-cavalleresca, una novità poi apertamente sottolineata nelle prime ottave del poema. Nelle prime tre ottave del canto
202 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
XVIII del secondo libro (in cui sono enunciate le scelte tematiche del poema) Boiardo rovescia la gerarchia tradizionale tra materia di Francia e di Bretagna, secondo la quale la storicità della prima e i suoi valori ideologici e morali la rendevano indiscutibilmente superiore alle strane avventure dei cavalieri erranti. Al contrario, Boiardo sostiene apertamente l’inferiorità della “corte di Francia” rispetto a quella “di Bretagna” proprio per la sua insensibilità alla tematica amorosa: essa «non fo [fu] di quel valore e quella estima / qual fo quell’altra» (ovvero la Bretagna) «perché tenne ad Amor chiuse le porte / e sol se dette alle battaglie sante» (II, XVIII, 2). La “bretonizzazione” della materia carolingia e l’“abbassamento” della dimensione epica Ciò che caratterizza l’Orlando innamorato, perciò, non è tanto (come a volte si dice) la fusione dei cicli bretone e carolingio, operazione che, come si è detto, già da tempo era stata realizzata nei cantari, quanto piuttosto il sostanziale sbilanciamento dell’intreccio verso le avventure del ciclo bretone e soprattutto verso il tema amoroso, vero centro unificante del poema. Oltre a quella che il critico Bruscagli ha definito «bretonizzazione della materia carolingia», la novità del poema è più in generale l’“abbassamento” della materia carolingia, per cui non si può più parlare ormai di poema epico-cavalleresco, ma quasi di un nuovo genere: Orlando stesso, ad esempio, viene mostrato a volte comicamente inadeguato alle situazioni amorose in cui si viene a trovare. Altrettanto importante è la consapevole rivitalizzazione della tradizione cavalleresca alla luce dei nuovi valori dell’Umanesimo: ne è palese esempio il dialogo tra Orlando e Agricane in un celebre episodio del poema, in cui Orlando si mostra paladino della importanza della cultura, facendosi portavoce della visione tipica di tale periodo (➜ t7 ). Gli interventi del narratore Specialmente ad apertura dei singoli canti, il narratore interviene per commentare gli avvenimenti e nel corso della narrazione si rivolge spesso ai propri ipotetici uditori, che immagina accomunati a lui dalla passione per le belle storie e per i valori cavallereschi. Rispetto alla tradizione dei cantari, nell’Orlando innamorato è potenziata la figura del narratore, che ricerca deliberatamente l’adesione del pubblico di corte a cui si rivolge: «Segnori e caval-
Pisanello, San Giorgio e la principessa, affresco, 1436-38 ca. (Basilica di Sant'Anastasia, Verona).
Dai cantari al poema cavalleresco 1 203
lieri inamorati, / cortese damiselle e grazïose, / venitene davanti et ascoltati / l’alte venture e le guerre amorose...», come vengono ritratti i cortigiani all’inizio del canto XIX del primo libro. Caratteristiche strutturali e stilistico-linguistiche Come si può dedurre anche dal riassunto sintetico sotto riportato (che rende solo in parte l’idea dell’intricato svolgersi delle avventure), l’intreccio del poema è assai complesso. Boiardo sa però gestirlo con polso fermo: anche se ancora non raggiunge la straordinaria capacità registica di Ariosto, egli dimostra una grande abilità nel riannodare i fili degli episodi, mentre nei cantari si assisteva a una semplice giustapposizione dei vari momenti; inoltre usa in modo accorto l’entrelacement (ovvero la tecnica dell’intrecciare varie vicende interrompendole e riprendendole in occasioni diverse, così da farle ora convergere ora divergere). Il linguaggio utilizzato, che ha come base il ferrarese colto, è piuttosto disomogeneo, ben lontano da quella che sarà la straordinaria armonia ariostesca: ai toni popolareggianti, tipici dei cantari, si contrappongono toni aulici e preziosi in alcune descrizioni e soprattutto nella rappresentazione degli effetti dell’amore, che risente direttamente del gusto petrarcheggiante diffuso nella lirica del tempo. La trama La bellissima Angelica, figlia del re del Catai, nel lontano Oriente, giunge a Parigi col fratello Argalìa mentre si sta svolgendo un grande torneo alla corte di Carlo Magno. La principessa propone a tutti i cavalieri, cristiani e saraceni, una sfida: si promette in premio a chi riuscirà a sconfiggere Argalìa, mentre i cavalieri sconfitti saranno suoi prigionieri. Argalìa, potendo contare su una lancia fatata, pensa di eliminare i migliori campioni presenti, affinché suo padre Galafrone possa più facilmente invadere l’Occidente. Il progetto però fallisce: Argalìa, a cui è sottratta la lancia magica, è ucciso dal saraceno Ferraguto. Angelica allora fugge dal campo cristiano, inseguita da numerosi cavalieri cristiani, tra cui Orlando e Ranaldo, ammaliati dalla sua bellezza. Nella foresta delle Ardenne, però, Ranaldo beve a una fonte che, per un incantesimo di Merlino, lo fa disamorare e fa si che cominci a odiare Angelica; la donna a propria volta beve a una fonte che produce l’effetto opposto e insegue, innamorata, Ranaldo. Dopo varie avventure, la scena si sposta ad Albraca, nel Catai, dove Sacripante e Agricane combattono per il possesso di Angelica; Agricane sarà ucciso in duello da Orlando. In questa fase del poema abbondano i duelli, ma irrompe anche la dimensione del fantastico: i personaggi incontrano maghi e fate, affrontano draghi e giganti, entrano in giardini e palazzi incantati. Frattanto, il re pagano Agramante scatena una guerra in Francia, potendo contare su fortissimi guerrieri come Ferraguto, Rodomonte e anche Rugiero, che il potente signore ha sottratto al mago Atlante, il quale lo teneva nascosto. I pagani sbarcano in Francia, mettendo a dura prova l’esercito di Carlo Magno, ma Ranaldo e Orlando, ritornati in Occidente con Angelica, sono pronti a difenderlo. Il rapporto fra Angelica e Ranaldo è nel frattempo nuovamente cambiato perché Ranaldo ha bevuto questa volta alla fonte dell’amore, mentre Angelica ha preso a odiarlo avendo bevuto a quella opposta. Per amore di Angelica, Ranaldo e Orlando si azzuffano; Carlo Magno decide allora di affidarla al duca di Namo, promettendola a colui che combatterà più valorosamente. Alla fine dell’opera si accenna anche al nascente amore tra Rugiero e Bradamante (una fanciulla guerriera, sorella di Ranaldo) destinati a divenire i capostipiti della dinastia estense. Per la prima volta la materia cavalleresca viene utilizzata per fini encomiastici, cioè per elogiare una casata, in questo caso quella degli Este.
204 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
PER APPROFONDIRE
Morgante e Orlando innamorato Morgante
Orlando innamorato
ARGOMENTO
avventure cavalleresche
vicende amorose, duelli e avventure cavalleresche
PRINCIPALI PERSONAGGI
Rinaldo, Orlando, Morgante, Margutte
Orlando, Angelica, Argalìa, Ranaldo, Rugiero, Bradamante
MODALITÀ COMUNICATIVE (TRASMISSIONE E RICEZIONE DEL TESTO)
• stesura interrotta e poi ripresa • prima edizione incompleta nel 1478 • nuova edizione con i nuovi cantari nel 1483 (Morgante maggiore)
• poema incompiuto • prima edizione integrale nel 1506 • dimenticato per secoli, è riscoperto nell’Ottocento-Novecento
SCOPO
• fini parodistici • polemizzare contro la corte medicea
• fini encomiastici • dilettare il pubblico colto delle corti
STILE
• lingua basata sul parlato fiorentino • elementi iper-espressivi, ibridi e gergali • linguaggio edonistico e creativo
• ferrarese colto • toni aulici e preziosi • stilemi petrarchisti
PUBBLICO
colto
METRICA
ottave di endecasillabi
La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato Dopo la sua pubblicazione, nel 1506, il poema del Boiardo conosce nei primi decenni del Cinquecento un grande successo, testimoniato da circa venti edizioni. Si tratta, però, di un successo effimero: in breve tempo il poema appare superato. Le ragioni sono essenzialmente linguistiche: la forte patina ferrarese, anche se generalmente si tratta di un “emiliano illustre”, non corrisponde alle tendenze linguistiche dominanti all’epoca, ispirate alle tesi del Bembo. L’Orlando innamorato
esce letteralmente di scena, surclassato dalla schiacciante concorrenza dell’Orlando furioso, oltretutto presentato come “gionta” – e cioè continuazione – del poema di Boiardo. Dimenticato per secoli, l’Orlando innamorato è riscoperto e rivalutato tra Ottocento e Novecento. Oggi viene letto in una versione vicina all’originale, ma ripulita dei colori più marcatamente dialettali, contenuta in un manoscritto del primo Cinquecento.
Dai cantari al poema cavalleresco 1 205
Testi In dialogo
I proemi del Morgante e dell’Orlando innamorato L’autore di un poema affida al proemio l’enunciazione della propria poetica e talvolta indica anche qualche componente della propria visione del mondo. Proprio in questa prospettiva presentiamo i due proemi che aprono rispettivamente il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo: già di per sé essi testimoniano la vistosa differenza ideologica (e poetica) che caratterizza le due opere. Dell’Orlando innamorato forniamo online anche un’ulteriore testimonianza di carattere programmatico: il celebre proemio al libro II, che può costituire un utile complemento al proemio del libro I, poiché rappresenta un vero e proprio “manifesto” dell’ideologia che ispira l’opera di Boiardo (➜ T3 OL).
Luigi Pulci
T2a
Il proemio del Morgante Morgante, Proemio
L. Pulci, Morgante, intr. e note di G. Dego, Rizzoli, Milano 1992
AUDIOLETTURA
Le quattro ottave che costituiscono il proemio del Morgante sono strutturate secondo il cliché classico dell’invocazione alle Muse e della presentazione dell’argomento che aprono i poemi epici: Pulci si rivolge a Dio (prima ottava) e alla Vergine (seconda ottava) per chiedere sostegno e ispirazione al proprio lavoro. La terza strofa ha la funzione di creare un’“aura epica” attorno all’opera. La quarta chiama in causa, la committente del poema (Lucrezia, madre di Lorenzo il Magnifico) ed enuncia l’argomento e l’obiettivo del poema.
CANTARE PRIMO 1 In principio era il Verbo appresso a Dio, ed era Iddio il Verbo e ’l Verbo Lui: questo era nel principio, al parer mio, e nulla si può far sanza Costui1. Però2, giusto Signor benigno e pio, mandami solo un degli angel tui, che m’accompagni e rechimi a memoria3 una famosa, antica e degna storia. 2 E tu, Vergine, figlia e madre e sposa di quel Signor che ti dette la chiave del Cielo e dell’abisso e d’ogni cosa quel dì che Gabriel tuo ti disse Ave4, perché tu se’ de’ tuoi servi pietosa5, con dolce rime e stil grato e soave aiuta i versi miei benignamente e ‘nsino al fine allumina la mente. La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 In principio... sanza Costui: parafrasi libera dell’inizio del Vangelo di san Giovanni, in cui si insinua una nota irriverente
(al parer mio) e un abbassamento della materia di fede (Dio è definito Costui). 2 Però: perciò. 3 rechimi a memoria: mi faccia ricordare (per poterla trasmettere).
4 quel dì... Ave: allusione al giorno dell’Annunciazione. 5 perché... pietosa: poiché tu hai pietà degli uomini.
206 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
3 Era nel tempo quando Filomena con la sorella si lamenta e plora, ché si ricorda di sua antica pena, e pe’ boschetti le ninfe innamora, e Febo il carro temperato mena, ché ’l suo Fetonte l’ammaestra ancora, ed appariva appunto all’orizonte tal che Titon si graffiava la fronte6, 4 quand’io varai la mia barchetta prima per obedir chi sempre obedir debbe la mente, e faticarsi in prosa e in rima, e del mio Carlo imperador m’increbbe; ché so quanti la penna ha posti in cima, che tutti la sua gloria prevarrebbe: è stata questa istoria, a quel ch’io veggio, di Carlo, male intesa e scritta peggio7. 6 Era nel tempo... fronte: viene definito dall’ampia perifrasi mitologica il tempo del passato mitico, in cui si svolgono gli avvenimenti evocati; Filomena e la sorella Progne furono trasformate rispettivamente in usignolo e rondine, e di ciò si lamentano e piangono (plora “piange”); Febo è il sole, che conduce (mena) il suo carro con prudenza (temperato “moderatamente”), memore della tragica vicenda accaduta al figlio Fetonte (’l
suo Fetonte) il quale, avuto dal padre il permesso di guidare il carro solare, precipitò nel Po. Titone è il vecchio sposo dell’Aurora, qui raffigurato nell’atto eroicomico e prosaico di grattarsi la fronte perché lasciato solo dalla sposa. 7 quand’io... peggio: la quarta ottava è dedicata all’illustrazione dell’occasione e della materia del poema. Ricorre innanzitutto la consueta metafora della barca (qui degradata scherzosamente a
barchetta) per designare l’attività poetica e quindi viene, anche se non esplicitamente, ricordata colei che ispirò la composizione del poema, Lucrezia Tornabuoni (la persona a cui il poeta dice di aver ubbidito). La motivazione a scrivere sembra essere stata il desiderio di conferire a Carlo Magno la gloria dovuta (m’increbbe “mi importò”), ricostruendo la vera storia delle sue imprese e di quelle dei suoi paladini.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. COMPRENSIONE 2. Che cosa chiede il poeta a Dio e alla Vergine? ANALISI 3. Quale argomento si propone di trattare nel proprio poema? STILE 4. Secondo la formula stilistica che sarà tipica del poema “eroicomico”, il testo alterna un registro serio ed espressioni auliche e solenni ad altre di carattere colloquiale e nelle quali si può individuare un abbassamento comico-realistico: completa una tabella come questa con qualche esempio. registro aulico
Interpretare
registro comico
SCRITTURA 5. Rintraccia i riferimenti al rovesciamento parodico dell’eroismo cavalleresco e, sulla base delle tue conoscenze, sintetizza le tue considerazioni in un breve testo (max 15 righe).
Dai cantari al poema cavalleresco 1 207
Matteo Maria Boiardo
T2b
Il proemio dell’Orlando innamorato Orlando innamorato I, i, 1-3
M. M. Boiardo, Orlando innamorato, a c. di G. Anceschi, Garzanti, Milano 1978
AUDIOLETTURA
Mentre Pulci, seguendo la tradizione dei cantari, all’inizio del proprio poema si rivolge a Dio e alla Vergine Maria, Boiardo preferisce evocare subito il pubblico ristretto e aristocratico cui intende indirizzare la propria opera (signori e cavallier della corte estense di cui egli stesso fa parte), costruendo uno specifico “orizzonte d’attesa”, ossia un’aspettativa nel pubblico adeguata agli intenti che ispirano il poema. Ne prospetta subito la novità rispetto alla tradizione epico-cavalleresca: nell’Orlando innamorato l’eroe combattente è trasformato in personaggio vittima dell’amore, una condizione che accomuna il prode Orlando agli altri esseri umani e che costituisce già di per sé una “desublimazione” della materia epica.
1 Signori e cavallier che ve adunati1 per odir cose dilettose e nove2, stati attenti e quïeti, et ascoltati la bella istoria che ’l mio canto muove3; e vedereti i gesti smisurati4, l’alta fatica e le mirabil prove che fece il franco Orlando per amore nel tempo del re Carlo imperatore. 2 Non vi par già, signor, meraviglioso5 odir cantar de Orlando inamorato, ché qualunche nel mondo è più orgoglioso6, è da Amor vinto, al tutto subiugato7; né forte braccio, né ardire animoso, né scudo o maglia, né brando8 affilato, né altra possanza9 può mai far diffesa, che al fin non sia da Amor battuta e presa.
La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 ve adunati: vi adunate. La desinenza -i per la seconda persona plurale è usuale nella lingua di Boiardo (così più sotto ascoltati, vedereti). 2 cose dilettose e nove: il piacere che Boiardo narratore propone al pubblico della corte estense è strettamente connesso alla novità
dell’opera enunciata poco sotto, ossia al racconto delle imprese fatte da Orlando non per la patria e la fede, ma per amore. 3 muove: ispira. 4 i gesti smisurati: le imprese straordinarie. 5 Non vi par... meraviglioso: non vi sembri strano, o signori. Boiardo previene la perplessità del proprio uditorio di fronte alla tra-
sformazione dell’eroe epico in un cavaliere preda dell’amore. 6 qualunche... più orgoglioso: tutti, anche le persone più superbe. 7 al tutto subiugato: completamente soggiogato. 8 brando: spada. 9 possanza: potente risorsa.
208 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
3 Questa novella10 è nota a poca gente, perché Turpino11 istesso la nascose, credendo forse a quel conte valente esser le sue scritture dispettose12, poi che contra ad Amor pur fu perdente colui che vinse tutte l’altre cose: dico di Orlando, il cavalliero adatto13. Non più parole ormai, veniamo al fatto. 10 novella: racconto. 11 Turpino: il vescovo di Reims che sarebbe stato testimone e cantore delle gesta carolingie.
12 credendo... dispettose: l’autore immagina che Turpino abbia omesso di sua iniziativa il racconto delle gesta di Orlando per amo-
re perché ciò non sarebbe stato gradito dall’eroe (conte valente). 13 adatto: perfetto.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto delle ottave in 10 righe. COMPRENSIONE 2. Com’è giustificata la novità dell’opera che potrebbe sconcertare i lettori? ANALISI 3. Con quali espressioni Boiardo allude alla sua opera? Quali aspetti di essa sono messi in primo piano?
Interpretare
SCRITTURA 4. Metti a confronto i due proemi, individua per ognuno gli elementi caratterizzanti e completa uno schema come quello proposto. caratteristiche
affinità
elementi di diversità
proemio del Morgante proemio dell’Innamorato
online T3 Matteo Maria Boiardo
…E torna il mondo di virtù fiorito Orlando innamorato II, i, 1-3
Il Boiardo legge il suo poema (lunetta affrescata da Niccolò dell’Abate nel 1540, già nel castello Boiardo a Scandiano, ora alla Galleria estense di Modena).
Dai cantari al poema cavalleresco 1 209
Luigi Pulci
T4
Il credo blasfemo di Margutte Morgante, XVIII, 112-120
L. Pulci, Morgante, intr. e note di G. Dego, Rizzoli, Milano 1992
Il gigante Morgante è in viaggio per ricongiungersi a Orlando quando s’imbatte in uno strano essere, Margutte, un mezzo gigante che ha interrotto a metà la sua crescita. A Morgante, che gli chiede di dichiarare se è cristiano o pagano, Margutte risponde con una originalissima “professione di fede”... Margutte diventerà compagno di Morgante in mirabolanti imprese che costituiscono le pagine più godibili del poema e che, stampate a sé, avranno un’autonoma diffusione.
112 Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio1, uscito d’una valle in un gran bosco, vide venir di lungi, per ispicchio2, un uom che in volto parea tutto fosco3. Détte del capo del battaglio un picchio in terra4, e disse: «Costui non conosco»; e posesi a sedere in su ’n un sasso, tanto che questo capitò e al passo5. 113 Morgante guata6 le sue membra tutte più e più volte dal capo alle piante, che7 gli pareano strane, orride e brutte: – Dimmi il tuo nome – dicea – vïandante. Colui rispose: – Il mio nome è Margutte8; ed ebbi voglia anco io d’esser gigante9, poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto: vedi che sette braccia10 sono appunto. – 114 Disse Morgante: – Tu sia il ben venuto: ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato11, che da due giorni in qua non ho beuto; e se con meco sarai accompagnato12, io ti farò a camin quel che è dovuto13.
La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 crocicchio: crocevia. 2 vide… per ispicchio: vide con la coda dell’occhio (cioè intravedendolo solo in parte) venire da lontano. 3 fosco: cupo, torvo. 4 Détte... in terra: Batté per terra un’estremità del battaglio. Il batacchio di una campana era l’arma personale di Morgante. 5 tanto che... al passo: fino a quando l’in-
dividuo misterioso non fosse arrivato al punto in cui lui si trovava. 6 guata: fissa, osserva intensamente. 7 che: con il significato di “le quali”, riferito a membra. 8 Margutte: il nome del personaggio deriva dal termine con cui era designato il saracino o la quintana, cioè il fantoccio che rappresentava il guerriero e che nei tornei era il bersaglio per i cavalieri armati di lancia. 9 ebbi... gigante: anch’io avevo desiderio di diventare un gigante (come Morgante).
10 sette braccia: un braccio equivaleva a poco più di mezzo metro; perciò il “mezzo gigante” era alto quasi quattro metri. 11 ecco... allato: ecco che avrò un fiaschetto a lato. Morgante allude alla statura bassa di Margutte rispetto alla sua, che lo fa sembrare un fiasco piccolo. 12 se con meco… accompagnato: se ti accompagnerai a me. 13 io... dovuto: io ti tratterò lungo la strada come si deve.
210 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
Dimmi più oltre14: io non t’ho domandato se se’ cristiano o se se’ saracino, o se tu credi in Cristo o in Apollino15. – 115 Rispose allor Margutte: – A dirtel tosto16, io non credo più al nero ch’a l’azzurro17, ma nel cappone18, o lesso o vuogli19 arrosto; e credo alcuna volta anco nel burro, nella cervogia20, e quando io n’ho, nel mosto, e molto più nell’aspro che il mangurro21; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede; 116 e credo nella torta e nel tortello: l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo; e ’l vero paternostro è il fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello22. E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo23, se Macometto il mosto vieta e biasima. credo che sia il sogno o la fantasima; 117 ed Apollin debbe essere il farnetico, e Trivigante forse la tregenda24. La fede è fatta come fa il solletico25: per discrezion26 mi credo che tu intenda. Or tu potresti dir ch’io fussi27 eretico: acciò che invan parola non ci spenda28, vedrai che la mia schiatta non traligna e ch’io non son terren da porvi vigna29.
14 Dimmi più oltre: Ma ancora dimmi. 15 Apollino: presunta divinità dei musulmani (il nome è derivato dal dio greco Apollo) che costituiva, con Maometto (Macone) e Trivigante, una sorta di antiTrinità opposta a quella cristiana. 16 A dirtel tosto: Per dirti subito come la penso. 17 io non credo... azzurro: è una dichiarazione di scetticismo, se non addirittura di nichilismo. 18 ma nel cappone: inizia qui la sacrilega e dissacrante parodia del Credo. 19 o vuogli: o se vuoi. 20 cervogia: un tipo di birra. 21 aspro... mangurro: il termine aspro significa sia “vino aspro” che “moneta tur-
ca d’argento”; il mangurro è una moneta turca di rame di poco valore. Il significato della frase, fondato su un gioco di parole, è ambiguo. 22 diriva... almen quello: per lo meno è assodato che il fegatello deriva dal fegato. Il che rappresenta, nell’opinione del personaggio, una realtà lampante e indiscutibile, a differenza dei dogmi teologici sulla Trinità. 23 ghiacciuolo: botticella di legno usata per conservare il ghiaccio. 24 se Macometto... la tregenda: se Maometto vieta e condanna il vino (il mosto) credo sia un sogno o un incubo (la fantasima), quindi non intendo obbedirgli; e Apollino deve essere un delirio, e
Trivigante forse la tregenda (è “il sabba, l’adunata di spiriti infernali”). 25 La fede... solletico: Come c’è chi soffre il solletico e chi no, così vi è chi ha la fede e chi non l’ha. 26 per discrezion: per il tuo discernimento. 27 ch’io fussi: che io sia. 28 acciò... ci spenda: affinché tu non ti affatichi inutilmente per cercare di convincermi. 29 vedrai... vigna: vedrai che la gente come me (la mia schiatta) non si travia dal proprio cammino (detto ironicamente) e che io non sono terreno fertile per far fruttare insegnamenti religiosi (a cui allude la metafora evangelica della vigna).
Dai cantari al poema cavalleresco 1 211
118 Questa fede è come l’uom se l’arreca30. Vuoi tu veder che fede sia la mia?, che nato son d’una monaca greca e d’un papasso31 in Bursia32, là in Turchia. E nel principio sonar la ribeca33 mi dilettai, perch’avea fantasia cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille, non una volta già34, ma mille e mille. 119 Poi che m’increbbe il sonar la chitarra, io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso35. Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra36, e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso37, mi posi allato questa scimitarra e cominciai pel mondo andare a spasso; e per compagni ne menai con meco tutti i peccati o di turco o di greco38; 120 anzi quanti ne son giù nello inferno: io n’ho settanta e sette de’ mortali, che non mi lascian mai la state o ’l verno39; pensa quanti io n’ho poi de’ venïali! Non credo, se durassi il mondo etterno, si potessi commetter tanti mali quanti ho commessi io solo alla mia vita; ed ho per alfabeto ogni partita40. 30 se l’arreca: se la porta con sé dalla nascita. 31 papasso: sacerdote musulmano. 32 Bursia: antica città dell’Anatolia. 33 ribeca: strumento simile alla viola. Poi è nominato come chitarra. 34 già: solo. 35 turcasso: custodia delle frecce.
36 sciarra: rissa. 37 il mio vecchio papasso: qui allude al proprio padre. 38 tutti i peccati... di greco: tutti i peccati derivati a me da parte di padre (un turco) e di madre (una greca). 39 io n’ho… o ’l verno: io, di peccati capitali, ne ho settantasette, che non mi ab-
bandonano mai (rafforzato da la state o ’l verno). 40 Non credo... partita: Non penso che, se il mondo durasse in eterno, si potessero commettere tanti peccati quanti ne ho commessi solo io nella mia vita, e posso enumerarli tutti in ordine alfabetico.
Analisi del testo La struttura Il passo si divide in due parti: la prima parte (ott. 112-114) vede l’incontro tra i due personaggi, destinati, dopo le reciproche presentazioni, a diventare inseparabili compagni d’avventura. La seconda parte (ott. 115-120) è la risposta di Margutte alla domanda che Morgante gli rivolge, se sia cristiano o saraceno.
La parodia del Credo cristiano Il discorso di Margutte si articola in due momenti: nel primo egli enuncia la sua blasfema “professione di fede”, nel secondo (da noi non riportato) si autoritrae, tracciando un profilo di sé che costituisce una sorta di catalogo di tutti i vizi.
212 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
La grottesca professione di fede prende le mosse da un’aperta dichiarazione di indifferenza ai valori religiosi (io non credo più al nero ch’a l’azzurro), che svuota totalmente di significato la tradizionale contrapposizione, su cui si fondava l’epica medievale e che motiva la domanda di Morgante, tra cristiani e saraceni (se se’ cristiano o se se’ saracino, / o se tu credi in Cristo o in Apollino). Margutte si dichiara refrattario a ogni fede, impossibile da convertire (non son terren da porvi vigna). Al Credo cristiano egli sostituisce un “credo” materialista e edonista, fondato soprattutto sul culto popolaresco del cibo e del vino, le sole cose in cui il personaggio confida. Il punto più irriverente del discorso è certamente la blasfema parodia della Trinità presente nell’ottava 116, in cui le tre persone della Santissima Trinità (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) diventano la torta, il tortello e il fegatello.
Il “maledettismo” di Pulci e la tradizione La celebre “professione di fede”, a cui segue un altrettanto irriverente autoritratto (nelle ottave successive, qui non riportate) non deve essere considerata una presa di posizione ideologica dell’autore, ma va interpretata piuttosto come una precisa scelta letteraria. I doppi sensi blasfemi, e più in generale gli spunti irreligiosi di cui è disseminato il testo hanno alle spalle, come è stato evidenziato, una precisa tradizione letteraria, che si può far risalire alla poesia goliardica e comico-realistica (Cecco Angiolieri). Un’altra fonte può essere la celebre novella di ser Ciappelletto nel Decameron, in cui Boccaccio parodizza il modello delle Vite dei santi, assai popolare nella cultura medievale, per costruire il ritratto del malvagio personaggio. Anche Margutte, come ser Ciappelletto, è solito giurare il falso, suscitare scandali, bestemmiare e così via.
La parodia dell’eroe cavalleresco L’obiettivo di Pulci è il rovesciamento (che ha tutti i tratti del “carnevalesco”) del codice cavalleresco, nella costruzione deliberata di un “antieroe”: Margutte è caratterizzato, anziché dai valori celebrati dall’epica carolingia (la nobiltà d’animo, la disposizione al sacrificio, la devozione a una causa, la fede religiosa) da una bestiale voracità e da una spiccata materialità. L’operazione del Pulci mira comunque, non bisogna dimenticarlo, al divertimento del pubblico di corte, in grado di cogliere e apprezzare la parodia realizzata dall’autore.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in una sintesi la professione di fede di Margutte e spiega in cosa consiste il rovesciamento di valori attuato dal gigante. COMPRENSIONE 2. A che proposito Margutte enuncia l’irriverente professione di fede? ANALISI 3. Evidenzia nelle parole di Margutte ciò che realizza la parodia dell’eroe e dell’etica cavallereschi. LESSICO 4. Analizza il testo dal punto di vista lessicale, con particolare attenzione a termini popolari, parole esotiche, espressioni proverbiali, termini d’ambito gastronomico. Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 15 righe). STILE 5. Rintraccia le metafore e fanne una schedatura, dando per ognuna una spiegazione.
Interpretare
SCRITTURA 6. Spiega perché la visione della fede enunciata da Margutte, per quanto espressione della deformazione comico-parodica che ispira molte pagine del poema, è comunque frutto di uno spirito ormai moderno e laico (20 righe).
online T5 Luigi Pulci
E Runcisvalle pareva un tegame Morgante XXVII, 50-57
Dai cantari al poema cavalleresco 1 213
Analisi passo dopo passo
T6
Matteo Maria Boiardo
La bella Angelica propone una sfida cavalleresca Orlando innamorato I, i, 19-25 e 29-32
M. M. Boiardo, Orlando innamorato, a c. di G. Anceschi, Garzanti, Milano 1978
Boiardo ha appena descritto la corte di Carlo Magno in occasione di un grandioso torneo organizzato per cavalieri sia cristiani sia saraceni, quando nella sala compare all’improvviso una fanciulla bellissima, Angelica, accompagnata da quattro giganti e seguita da un cavaliere. Con la sua avvenenza e il suo fascino la donna getta lo scompiglio tra i cavalieri e persino Orlando ne è come stregato...
19 Mentre che stanno in tal parlar costoro, sonarno li instrumenti da ogni banda1; et ecco piatti grandissimi d’oro, coperti de finissima vivanda; coppe di smalto, con sotil lavoro, lo imperatore a ciascun baron manda. Chi de una cosa e chi d’altra onorava, mostrando che di lor si racordava2. 20 Quivi si stava con molta allegrezza, con parlar basso e bei ragionamenti3: Re Carlo, che si vidde in tanta altezza4, tanti re, duci e cavallier valenti, tutta la gente pagana disprezza, come arena del mar denanti a i venti5; ma nova cosa che ebbe ad apparire, fe’ lui con gli altri insieme sbigotire6. 21 Però che in capo della sala bella quattro giganti grandissimi e fieri intrarno7, e lor nel mezo una donzella, che era seguìta da un sol cavallieri. Essa sembrava matutina stella e giglio d’orto e rosa de verzieri8: in somma, a dir di lei la veritate, non fu veduta mai tanta beltate.
La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 sonarno… banda: suonarono gli strumenti da ogni parte. 2 si racordava: si ricordava. 3 Quivi si stava... bei ragionamenti: Alla corte di Carlo Magno (quivi) si stava con grande gioia (allegrezza), si usavano parole pacate (parlar basso) e si facevano
amabili conversazioni (bei ragionamenti). L’insieme delle notazioni relative alla corte di Carlo delinea un comportamento collettivo elegante e signorile. 4 si vidde in tanta altezza: vide in tanta pompa. 5 come… venti: come granelli di sabbia al vento (denanti “di fronte, davanti”). Il paragone è utilizzato per rappresentare la
19-20 Le ottave 19-20 dipingono lo scenario entro il quale si collocherà l’apparizione di Angelica. Boiardo mette in risalto la magnificenza e i comportamenti cortesi che regnano nella corte di Carlo Magno, in un’immagine idealizzata che sembra rispecchiare più la corte estense stessa che non una realtà feudale. Di Carlo Magno viene sottolineato il compiacimento per i tanti nobili cavalieri presenti alla sua corte e il disprezzo verso i pagani.
21 Nella sala fa il suo ingresso scenografico Angelica, seguita da un cavaliere (il fratello) e circondata da quattro giganti. L’obiettivo del narratore si focalizza subito sulla sola Angelica, della quale esalta l’incomparabile bellezza che crea scompiglio tra i cavalieri cristiani e saraceni. Nella descrizione di Angelica lo scrittore impiega alcune immagini preziose, d’ascendenza letteraria. superiorità sprezzante di Carlo nei confronti degli ospiti pagani. 6 ma nova cosa... sbigotire: ma uno spettacolo inatteso e straordinario che apparve fece stupire lui con gli altri. 7 intrarno: entrarono. 8 orto… verzieri: ambedue i termini significano “giardino”.
214 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
22 Era qui nella sala Galerana, ed eravi Alda, la moglie de Orlando, Clarice ed Ermelina tanto umana, et altre assai, che nel mio dir non spando, bella ciascuna e di virtù fontana. Dico, bella parea ciascuna, quando non era giunto in sala ancor quel fiore, che a l’altre di beltà tolse l’onore9. 23 Ogni barone e principe cristiano in quella parte ha rivoltato il viso10, né rimase a giacere11 alcun pagano; ma ciascun d’essi, de stupor conquiso12, si fece a la donzella prossimano13; la qual, con vista allegra e con un riso14 da far inamorare un cor di sasso, incominciò così, parlando basso: 24 – Magnanimo segnor, le tue virtute e le prodezze de’ toi paladini, che sono in terra tanto cognosciute, quanto distende il mare e soi confini15, mi dan speranza che non sian perdute le gran fatiche de duo peregrini16, che son venuti dalla fin del mondo17 per onorare il tuo stato giocondo18. 25 Et acciò ch’io ti faccia manifesta, con breve ragionar, quella cagione che ce ha condotti alla tua real festa19, dico che questo è Uberto dal Leone,
9 Era qui... l’onore: l’apparizione della bellissima fanciulla fa impallidire la bellezza (di beltà tolse l’onore) delle donne presenti nella sala: Alda (moglie di Orlando), Galarana (la sposa di Carlo Magno), Clarice ed Ermelina (mogli rispettivamente di Ranaldo e Uggieri) e di altre su cui non si sofferma (che nel mio dir non spando), ognuna delle quali era bella e virtuosissima (di virtù fontana); tanto umana (v. 3) vale “soltanto umana”, cioè non divina com’era Angelica (denominata al v. 7 quel fiore).
10 in quella… il viso: ha rivolto lo sguardo verso quella parte (dove era comparsa Angelica). 11 rimase a giacere: rimase seduto. 12 de stupor conquiso: conquistato dall’ammirazione. 13 si fece... prossimano: si avvicinò alla donzella. 14 riso: sorriso. 15 e soi confini: e i suoi confini. 16 mi dan speranza... duo peregrini: mi fanno sperare che non siano inutili le
24-29 Il discorso di Angelica a Carlo Magno (che si conclude all’inizio dell’ottava 29 con l’atto di inginocchiarsi davanti al sovrano) si apre con una captatio benevolentiae che fa parte dell’astuta strategia di Angelica, ribalda incantatrice (come verrà definita nell’ottava 34) attenta a offrire un’immagine di sé insieme seducente e riservata per ottenere il proprio scopo: parla sorridendo ma in tono basso (ottava 23, v. 8 ) e alla fine si inginocchia umilmente davanti alla maestà di Carlo, che infatti ne viene totalmente conquistato.
grandi fatiche di due pellegrini (Angelica si riferisce a sé stessa e al fratello che è con lei). 17 dalla fin del mondo: dagli estremi confini del mondo. La patria di Angelica è il Catai, all’incirca l’odierna Cina. 18 il tuo stato giocondo: la tua lieta corte. 19 Et acciò... festa: E per chiarirti in poche parole la ragione che ci ha condotti alla tua regale festa.
Dai cantari al poema cavalleresco 1 215
di gentil stirpe nato e d’alta gesta, cacciato del suo regno oltra ragione20: io, che con lui insieme fui cacciata, son sua sorella, Angelica nomata. [...] [Angelica continua il suo discorso proponendo ai cavalieri, a nome del fratello Uberto, una tenzone: Uberto sfiderà tutti i cavalieri presenti al torneo; se vincerà, quelli saranno suoi prigionieri, se perderà, Angelica sarà il premio del vincitore. In realtà le reali intenzioni di Angelica e del fratello, il cui vero nome è Argalìa, sono quelle di danneggiare Carlo Magno catturando i suoi migliori paladini: Argalìa dispone infatti di armi fatate.] 29 Al fin delle parole ingenocchiata davanti a Carlo attendia risposta. Ogni om per meraviglia l’ha mirata21, ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta col cor tremante e con vista cangiata22, benché la voluntà tenìa nascosta23; e talor gli occhi alla terra bassava, ché di se stesso assai si vergognava. 30 «Ahi paccio24 Orlando!» nel suo cor dicia25 «Come te lasci a voglia trasportare26! Non vedi tu lo error che te desvia, e tanto contra a Dio te fa fallare27? Dove mi mena la fortuna mia28? Vedome preso e non mi posso aitare29; io, che stimavo tutto il mondo nulla, senza arme vinto son da una fanciulla. 31 Io non mi posso dal cor dipartire la dolce vista del viso sereno, perch’io mi sento senza lei morire, e il spirto a poco a poco venir meno.
20 oltra ragione: ingiustamente. 21 Ogni om… l’ha mirata: ognuno l’ha guardata stupefatto (per meraviglia).
22 vista cangiata: aspetto trasformato. 23 benché... tenìa nascosta: anche se te-
neva nascosto il proprio desiderio. 24 paccio: pazzo. 25 nel suo cor dicia: diceva fra sé e sé. 26 te lasci… trasportare: ti fai trasportare dal desiderio.
30-31 Sconvolto dalla bellezza di Angelica e già preda dell’amore, il paladino Orlando rivolge a sé stesso amare considerazioni, incentrate su un’autoanalisi che risente in più punti della lezione petrarchesca. Già l’ultimo verso dell’ottava 29 (di se stesso assai si vergognava) riprende il v. 11 del sonetto proemiale del Canzoniere («di me medesmo meco mi vergogno»). Petrarca è citato quasi alla lettera anche nell’ultimo verso dell’ottava 31, che chiude l’analisi introspettiva di Orlando: ch’io vedo il meglio et al peggior m’appiglio (Canzoniere, CCLIIV, v. 136: «et veggio ’l meglio, et al peggior m’appiglio»). Prettamente petrarchesco, anche se semplificato e adattato alla situazione del paladino, è il tema del conflitto.
27 fallare: sbagliare. 28 mi mena... mia: mi conduce la mia sorte. 29 Vedome… aitare: Mi vedo conquistato e non mi posso salvare.
216 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
Or non mi val la forza, né lo ardire contra d’Amor, che m’ha già posto il freno30; né mi giova saper, né altrui consiglio, ch’io vedo il meglio et al peggior m’appiglio31.» 32 Così tacitamente il baron franco si lamentava del novello amore. Ma il duca Naimo32, ch’è canuto e bianco, non avea già de lui men pena al core, anci tremava sbigotito e stanco, avendo perso in volto ogni colore. Ma a che dir più parole? Ogni barone di lei si accese, et anco il re Carlone33.
30 non mi val... il freno: non mi servono né la forza, né il coraggio contro Amore (personificato come nella tradizione della letteratura amorosa), che mi ha ridotto in suo potere (m’ha già posto il freno). 31 ch’io... m’appiglio: vedo ciò che è me-
glio per me ma scelgo il peggio. Per rappresentare il fulmineo innamoramento di Orlando, Boiardo sceglie il verso finale della canzone petrarchesca I’ vo pensando, et nel penser m’assale (CCLXIV). Del resto egli era raffinato conoscitore del
codice amoroso di Petrarca, come dimostrano le sue liriche degli Amorum libri. 32 il duca Naimo: il duca Namo, anziano consigliere di Carlo Magno. 33 Carlone: Carlo. È forma popolare derivata dal francese.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dividi il testo in sequenze e dai a ognuna un titolo; poi riassumi la vicenda narrata. PARAFRASI 2. Fai la parafrasi delle ottave 29-32. COMPRENSIONE 3. Quali effetti provoca l’apparizione di Angelica? Boiardo la descrive sottolineandone ironicamente gli effetti. Spiega le ragioni di questa scelta stilistica. ANALISI 4. In quale ambiente si svolge la scena? LESSICO 5. Analizza il brano dal punto di vista lessicale: sono presenti termini che appartengono a quale tipo di linguaggio? Fai alcuni esempi.
Interpretare
SCRITTURA 6. Fai un breve ritratto del personaggio di Angelica, ideato da Boiardo, sulla base di riferimenti al testo.
Dai cantari al poema cavalleresco 1 217
VERSO IL NOVECENTO
Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato Nel 1994 lo scrittore Gianni Celati (1937-2022) ha pubblicato una straordinaria versione in prosa dell’Orlando innamorato. L’idea nasce da una proposta di vent’anni prima di Calvino, che suggeriva di raccontare in lingua moderna e in prosa i poemi cavallereschi (lui stesso ci ha lasciato una suggestiva versione dell’Orlando furioso). Il tentativo di Celati (come del resto quello di Calvino) non consiste assolutamente in una semplice trasposizione, ma rappresenta una sostanziale riscrittura, una vera e propria ri-creazione, in cui lo spirito dell’antico poema cavalleresco è filtrato dall’occhio moderno e ironico dell’autore. Ne risulta un’opera divertente e godibilissima anche per i lettori d’oggi, che cerca di ricostituire il rapporto d’intesa e di complicità che Boiardo aveva con i propri lettori, di creare una comunicazione fondata sull’oralità pur davanti a un testo scritto: come Boiardo sicuramente leggeva la propria opera alle dame e ai cavalieri della corte estense (e il poema porta l’eco di questa situazione comunicativa), così, secondo quanto dichiara Celati, il “suo” Orlando innamorato «è stato scritto e pensato più come una recita che come un romanzo da leggere in silenzio» ed è espressamente dedicato «a quelli che amano leggere i libri ad alta voce». Vuol essere, come la definisce lo scrittore, una recita in 43 puntate, che deve essere fatta possibilmente ad alta voce «per una compagnia di gente simpatica e non pedante». Una lettura volutamente «ingenua», senza pretese e «superbie intellettuali», così suggerisce l’autore, per ritrovare «emozione, sorpresa, meraviglia», che consentano di appassionarsi alle scatenate avventure del poema e vivere così qualche giorno in compagnia di un narratore «allegro e fantasioso». Riproduciamo la prima parte della “quarta puntata”, dove si racconta il celebre episodio delle fontane “dell’amore e del disamore”, alle cui acque si trovano a bere Ranaldo e la bella Angelica.
Gianni Celati L’Orlando innamorato raccontato in prosa G. Celati, L’Orlando innamorato raccontato in prosa, Einaudi, Torino 1994
IV. Nella selva delle Ardenne Cammina e cammina, il paladino Ranaldo sul suo cavallo Baiardo in cerca dell’Angelica è arrivato in un bosco dove era una bella fontana d’alabastro tutto lavorato. Faceva caldo, il paladino aveva sete, e scende dal cavallo per dissetarsi. Lui non sa che quella fontana l’ha costruita il mago Merlino, per fare in modo che il famoso infelice Tristano smettesse di smaniare d’amore per la bellissima Isotta. Era quella la fontana del disamore, con un’acqua che a chi la beve fa venire immediatamente odio e disprezzo per la persona amata. Ma sfortunatamente il famoso amante Tristano non era mai passato da quelle parti in vita sua, dunque non aveva potuto disamorarsi della regina Isotta. Va detto che di fontane o fonti d’ogni specie se ne incontrano spesso nel terreno d’avventure dei nostri cavalieri. E tutte hanno una bella riva erbosa, con ogni fiore di primavera ivi dipinto, come dice il nostro poema, e tutte hanno fresche ombre per riposarsi in un ben riparato boschetto. Presso queste fonti si fanno spesso duelli, oppure incontri avventurosi; ma a volte questi posti sono trappole di fate per catturare i cavalieri; oppure stanno in quei giardini incantati che le fate creano con le forze dell’illusione. Comunque sono posti dove succede sempre qualcosa di speciale o di meraviglioso, come è successo al paladino Ranaldo giunto alla fontana del disamore. Infatti, dopo aver bevuto l’acqua per dissetarsi, il paladino diventò subito pensoso. L’Angelica non
218 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
gli piaceva più, anzi la disprezzava; e camminando così assorto nei suoi pensieri, arrivò a un fiume dalla riva fiorita. Era quella la riva dell’amore, con un’acqua che non è meno strana di quell’altra, ma al contrario dell’altra fa subito innamorare chi la beve. Nella continuazione del nostro poema, Ludovico Ariosto dice che anche questa era opera del mago Merlino: il quale s’era pentito di aver costruito la fontana del disamore senza nessun risultato benefico, e allora aveva voluto rimediare così, con una sorgente d’acqua che accende il fuoco amoroso nel petto. Ma Ranaldo non beve di quest’acqua, essendosi dissetato all’altra fontana. Adesso è stanco, si stende all’ombra dei freschi alberi, e si addormenta sul prato pieno di fiori in riva al fiume dell’amore. E mentre lui dorme profondamente, arriva in quel posto qualcun altro che aveva sete e voleva riposarsi. Sulla riva fiorita del fiume arrivava la bella Angelica, che dopo la fuga da Ferraguto e dopo molto vagare nella selva delle Ardenne, adesso veniva a dissetarsi con l’acqua che fa innamorare. Lei non sapeva niente di quell’acqua incantata, e l’incantesimo fece subito i suoi strani effetti, come ora vedremo nel seguito di questa storia. Quando Angelica ebbe bevuto l’acqua incantata sulla riva dell’amore, lei così bella e così altera che rifiutava sempre tutti gli uomini, subito sentì insorgere in sé forti voglie per il primo uomo che le capitasse sott’occhio. E quell’uomo fu il paladino Ranaldo, che in quel momento se ne stava pacifico e addormentato lì vicino, disteso sul prato fiorito. Cosa fa allora l’Angelica? Raccoglie fiori dal bel prato, e va a spargerli addosso al paladino, coprendolo tutto di petali per modo di festeggiarlo. Il paladino si sveglia, e la guarda stranito; e lei lo saluta con gesti di rendergli omaggio. Ma se prima la inseguiva con una passione ardente nel cuore, adesso Ranaldo vedendo la bella Angelica è come se avesse un incubo, perché non la sopportava più, avendo bevuto l’acqua del disamore. Allora è saltato in piedi, è balzato sul suo cavallo Baiardo, e via che fuggiva a spron battuto tra gli alberi della selva per non vederla. La ragazza però non si rassegna, e montata sul suo bianco palafreno si diede a rincorrerlo. Correva alla disperata tra gli alberi, gridandogli dietro queste parole: «Ahi, cavaliere, perché mi fuggi con tanto sdegno? Non sono Gano di Maganza, il traditore! Io sono una che ti ama più di sé stessa. Deh, voltati almeno, e guarda chi stai fuggendo. Merito forse, alla mia età, di essere così respinta?» Ma vano è l’inseguimento. Appena fuori dalla selva il cavallo Baiardo spiccò un volo rapidissimo nella pianura, come se fosse un uccello, e in breve scomparve alla vista. Sentendosi tutta bruciare d’amore, tornò dunque Angelica alla riva del fiume dove Ranaldo s’era disteso; e anche lei si distese sul prato fiorito, baciando l’erbe e i fiori che il paladino aveva toccato. E diceva con voce pietosa: «Fiori beati, erbe beate, che toccaste il suo viso, quanto vi invidio! Oh, come la vostra sorte è più avventurosa della mia! Ben volentieri accetterei di morire, se lui dovesse venirmi sopra come è venuto a voi». Con questo bel pensiero in mente, sembrandole di soffrire meno dell’amorosa piaga se restava in quel luogo, dove aveva incontrato il crudele cavaliere, poco dopo l’Angelica si addormentò placidamente sul prato pieno di fiori. Lasciamola là a dormire e andiamo a vedere cosa è successo a suo fratello Argalia, che era fuggito sul cavallo Rabicano veloce come il vento. Di questo cavallo parleremo più avanti, perché c’è molto da dire, e adesso badiamo al suo padrone.
Dai cantari al poema cavalleresco 1 219
Matteo Maria Boiardo
T7
Orlando difende i valori della cultura e dell’amore
EDUCAZIONE CIVICA
Orlando innamorato I, xviii, 40-48 M. M. Boiardo, Orlando innamorato, a c. di G. Anceschi, Garzanti, Milano 1978
Tra gli episodi più significativi dell’Orlando innamorato di Boiardo c’è il celebre duello tra Orlando e il pagano Agricane e soprattutto l’intimo colloquio notturno tra i due mentre la sfida è momentaneamente sospesa.
[I personaggi principali del poema si trovano momentaneamente nel lontano Oriente, all’assedio di Albracca, dove Angelica si è rifugiata. Il re tartaro Agricane cerca di espugnare la rocca, mentre Orlando è in prima linea nella sua difesa. Per allontanare Orlando dal campo, il pagano finge di fuggire ed è inseguito dal paladino cristiano, che infine lo raggiunge. I due si affrontano in duello ma, al sopraggiungere della notte, decidono di interrompere la tenzone. Come non fossero acerrimi nemici, i due si riposano fianco a fianco e conducono una civile conversazione.] 40 Così de acordo il partito se prese1. Lega il destrier ciascun come li2 piace, poi sopra a l’erba verde se distese; Come fosse tra loro antica pace, l’uno a l’altro vicino era e palese3. Orlando presso al fonte isteso4 giace, et Agricane al bosco più vicino stassi colcato5, a l’ombra de un gran pino. 41 E ragionando insieme tuttavia di cose degne e condecente a loro6, guardava il conte il celo e poi dicia: – Questo che or vediamo, è un bel lavoro, che fece la divina monarchia7; e la luna de argento, e stelle d’oro, e la luce del giorno, e il sol lucente, Dio tutto ha fatto per la umana gente. –
La metrica Ottave di endecasillabi con schema ABABABCC 1 de acordo... se prese: la decisione (il partito) si prese di comune accordo. 2 li: gli. 3 Come fosse... palese: Orlando e Agrica-
ne stanno vicini e scoperti (palese, “non nascosto”, perciò “senza difesa”) come fossero da sempre amici; mentre, al contrario, sono nemici. 4 isteso: disteso. 5 stassi colcato: se ne sta coricato.
6 cose degne e condecente a loro: argomenti elevati e adeguati alla loro dignità di cavalieri. 7 la divina monarchia: Dio, re del creato.
220 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
42 Disse Agricane: – Io comprendo per certo che tu vôi de la fede ragionare; io de nulla scïenzia sono esperto, né mai, sendo fanciul8, volsi9 imparare, e roppi il capo al mastro mio per merto10; poi non si puotè un altro ritrovare che mi mostrasse libro né scrittura, tanto ciascun avea di me paura. 43 E così spesi la mia fanciulezza in caccie, in giochi de arme e in cavalcare; né mi par che convenga a gentilezza11 star tutto il giorno ne’ libri a pensare; ma la forza del corpo e la destrezza conviense12 al cavalliero esercitare. Dottrina al prete et al dottor sta bene: io tanto saccio quanto mi conviene13. – 44 Rispose Orlando: – Io tiro teco a un segno14, che l’arme son de l’omo il primo onore; ma non già che il saper faccia men degno, anci lo adorna come un prato il fiore; et è simile a un bove, a un sasso, a un legno, chi non pensa allo eterno Creatore; né ben se può pensar senza dottrina la summa maiestate alta e divina15. – 45 Disse Agricane: – Egli è gran scortesia a voler contrastar con avantaggio16. io te ho scoperto17 la natura mia, e te cognosco che sei dotto e saggio.
8 sendo fanciul: quando ero ragazzo. 9 volsi: volli. 10 roppi... per merto: ruppi la testa al mio maestro come ricompensa. 11 né mi par... gentilezza: e non mi sembra che sia adeguato a una persona nobile, a un cavaliere. 12 conviense: si conviene, è giusto. 13 Dottrina... mi conviene: la cultura (Dottrina) è adatta al prete e a chi insegna (dottor). Io so quel tanto che conviene alla mia condizione di cavaliere.
14 tiro teco a un segno: concordo con te. Letteralmente “miro allo stesso bersaglio”, con metafora militare. 15 ma non già... divina: ma non è vero che (ma non già che) il sapere renda meno degno l’uomo, anzi lo adorna come fa con un prato il fiore, ed è simile a un bue, a un sasso, a un legno chi non rivolge il pensiero a Dio, e non si può senza cultura pensare la somma maestà alta e divina. Alla convinzione di Agricane, che rispecchia la primitiva cavalleria feudale,
Orlando contrappone una difesa umanistica della cultura, significativamente associata, nelle sue parole, alla difesa della religiosità. 16 Egli… avantaggio: È un gesto poco cortese voler dibattere stando in una posizione di vantaggio. Agricane ha infatti appena dichiarato di essere ignorante; Egli è pleonastico. 17 te ho scoperto: ti ho svelato.
Dai cantari al poema cavalleresco 1 221
Se più parlassi, io non risponderia; piacendoti dormir, dòrmite ad aggio18, e se meco parlare hai pur diletto, de arme, o de amore a ragionar t’aspetto19. 46 Ora te prego che a quel ch’io dimando rispondi il vero, a fè de omo pregiato20: se tu sei veramente quello Orlando che vien tanto nel mondo nominato; e perché qua sei gionto, e come, e quando, e se mai fosti ancora inamorato; perché ogni cavallier che è senza amore, se in vista è vivo, vivo è senza core21. – 47 Rispose il conte: – Quello Orlando sono che occise Almonte e il suo fratel Troiano22; amor m’ha posto tutto in abandono, e venir fammi in questo loco strano23. E perché teco più largo ragiono, voglio che sappi che ’l mio core è in mano de la figliola del re Galafrone24 che ad Albraca dimora nel girone25. 48 Tu fai col patre26 guerra a gran furore per prender suo paese e sua castella, et io qua son condotto per amore e per piacere a quella damisella. Molte fiate son stato per onore e per la fede mia sopra alla sella; or sol per acquistar la bella dama faccio battaglia, et altro non ho brama27. –
18 Se più… aggio: Se tu parlassi di più, io non ti risponderei; se hai voglia di dormire, con comodo (ad aggio) dormi (in dòrmite, il pronome -te è pleonastico). 19 se meco... t’aspetto: se hai ancora piacere di parlare con me, aspetto che tu parli di armi o di amore. 20 a fè de omo pregiato: in nome della lealtà di un uomo nobile. 21 se tu sei... senza core: Agricane chiede a Orlando se è davvero il personaggio famoso nel mondo e perché, come, quando sia arrivato lì e se sia mai stato innamorato. Poi aggiunge un’esaltazione
dell’amore, senza il quale un uomo non è veramente tale perché vive in apparenza, (in vista), ma senza il cuore è solo una parvenza di sé. La conclusione dell’ottava costituisce un’autocitazione di Boiardo (v. 14 del sonetto proemiale degli Amorum libri). 22 Almonte...Troiano: guerrieri saraceni, la cui uccisione aveva dato fama a Orlando. 23 amor… strano: l’amore mi ha abbandonato completamente a me stesso e mi ha fatto venire in questo paese straniero. 24 la figliola del re Galafrone: Angelica, amata anche da Agricane.
25 dimora nel girone: nella cerchia (delle mura).
26 col patre: appunto Galafrone. 27 Molte fiate... ho brama: si sintetizza in questa dichiarazione la differenza tra l’Orlando della tradizione epica più antica, combattente molte volte (fiate) per onore e per la fede cristiana, e l’Orlando boiardesco che combatte per amore e ad altro non aspira. L’affermazione di Orlando riaccenderà violentissima la rivalità fra i due, fino all’uccisione di Agricane.
222 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
Analisi del testo Gli ideali di civiltà, lealtà, tolleranza Quello presentato è un episodio che appare ispirato agli ideali di civiltà, di lealtà e di tolleranza propri del codice di comportamento cortese in vigore nella corte ferrarese ai tempi della composizione dell’Orlando innamorato: in nome di questi valori, i due contendenti mettono a tacere, almeno per un certo tempo, le ragioni che li hanno spinti al combattimento.
Umanesimo cortese Nel dialogo emerge la distanza dell’Orlando boiardesco dalla tradizione e la sua nuova caratteristica di portavoce dell’Umanesimo cortese: al duro esercizio delle armi, esaltato come unica vera forma di educazione dal guerriero Agricane, Orlando qui contrappone la lezione della cultura che, a suo parere, pone gli individui su un piano più elevato; una visione che rispecchia gli ideali di civiltà della raffinata corte estense in contrapposizione alla più primitiva cavalleria feudale. Nell’ultima parte, però, la forza irrazionale dell’amore (provato da entrambi i protagonisti per Angelica) travolge i due cavalieri e li spinge a riprendere furiosamente il duello nel quale Agricane perderà la vita.
Francesco del Cossa, Un cavaliere (part.), Allegoria del mese di Marzo, Salone del ciclo dei mesi, 1470 (Palazzo Schifanoia, Ferrara).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Descrivi in una breve sintesi: a. i due protagonisti del dialogo e i valori che rappresentano; b. i valori e i comportamenti che accomunano l’infedele Agricane al paladino della fede Orlando; c. il contesto nel quale avviene il colloquio. COMPRENSIONE 2. A che cosa allude Agricane nell’ottava 45, quando giudica scortese discutere da una posizione di vantaggio? ANALISI 3. Il disaccordo tra i due sulla formazione del cavaliere è frutto di un diverso punto di vista o di differenti modelli culturali? Motiva la tua risposta. STILE 4. Lo stile del passo proposto è molto lontano dalla solennità epica della Chanson de Roland: con quale aggettivo si potrebbe definire? Rispondi e riporta qualche esempio che lo giustifichi.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
SCRITTURA 5. Nell’ottava 44, Orlando fa un elogio della cultura, che insieme al valore guerriero «adorna [l’uom]o come un prato un fiore»; gli si contrappone Agricane, celebratore solo della forza del corpo e della destrezza. Quella di Orlando è una bellissima difesa della cultura e del sapere, in quanto descrive studio e conoscenza come il necessario completamento dell’uomo, mezzi per imparare a pensare nel modo corretto. Si può ancora oggi affermare quanto sostenuto da Orlando in questo passo (max 20 righe)?
Dai cantari al poema cavalleresco 1 223
6 L’evoluzione del tema cavalleresco nel Cinquecento. Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata
L’Orlando furioso Nel Cinquecento, sempre a Ferrara, Ludovico Ariosto (14741533) crea, con l’Orlando furioso, il capolavoro assoluto del genere e insieme il poema simbolo del Rinascimento. Egli prende le mosse dal punto in cui si era interrotto il poema di Boiardo e presenta il proprio lavoro come semplice continuazione di questo. L’autore trasforma ulteriormente, però, la secolare figura del paladino Orlando, facendolo impazzire per amore di Angelica (da qui il titolo). La materia cavalleresca è ormai per Ariosto solo una specie di copione narrativo che usa, con frequenti commenti e smorzature ironiche, per esprimere non più gli antichi valori e ideali cavallereschi, ma una visione laica e moderna della vita. Rispetto all’Orlando innamorato il Furioso evidenzia maggiori capacità registiche nel gestire la complessa materia narrativa e nell’utilizzare l’entrelacement e un uso straordinariamente duttile dell’ottava. Il suo straordinario successo eclissa la fortuna del poema di Boiardo, ancora permeato, sotto il profilo linguistico, di componenti “locali”, mentre la lingua usata nel poema ariostesco, nel passaggio dalla prima all’ultima edizione (1532) si “toscanizza” secondo le prescrizioni del Bembo, superando così i confini ristretti della corte ferrarese (➜ C5). La Gerusalemme liberata Negli ultimi decenni del Cinquecento, sempre a Ferrara, viene prodotto l’ultimo capolavoro del genere, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1544-1595), in un clima storico e culturale ormai diverso. Il dibattito teorico del tempo richiedeva un adeguamento del poema al modello dell’epica classica e d’altra parte lo spirito della Controriforma imponeva che la letteratura tornasse a proporre valori morali e religiosi. La Gerusalemme liberata risponde pienamente a questi bisogni con un poema epico che ha per sfondo la prima crociata e che riprende figure (come Rinaldo) e ingredienti (come la magia) del poema cavalleresco, ma finalizzandoli alla dimostrazione esemplare di Un episodio della Gerusaleme liberata, Olindo e Sofronia al rogo, in un affresco tematiche morali (➜ C10). di Friedrich Overbeck, 1818-20 (Casino di villa Massimo, Roma).
Fissare i concetti Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Che cosa sono i cantari e quali sono le loro caratteristiche? Come si chiamano gli autori dei cantari e quali particolarità presentano? Quali sono le differenze tra i poemi cavallereschi del Quattrocento e i cantari? Perché Pulci e Boiardo sono considerati due modelli antitetici? Quale lingua caratterizza il Morgante? Quali novità introduce Boiardo con l’Orlando innamorato? Come si trasforma il poema cavalleresco nel Cinquecento?
224 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
Quattrocento e Cinquecento Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
Sintesi con audiolettura
1 Dai cantari al poema cavalleresco
Un genere destinato al successo Nel Quattrocento, con l’affermarsi della società cortigiana, le storie degli antichi cavalieri sono molto apprezzate dal raffinato pubblico della corte (in particolare quella di Ferrara) che in esse si identifica e si rispecchia. Non è quindi casuale l’emergere in primo piano, in questo periodo, di un genere, il poema cavalleresco, che, nel successivo corso del Cinquecento, diventerà una delle espressioni distintive della letteratura italiana. I temi e le leggende, i personaggi e le immagini costitutivi del tessuto narrativo del poema cavalleresco provengono, già da epoca tardomedievale, dalla letteratura epico-cavalleresca francese. Verso la fine del Duecento fiorisce in Italia la cosiddetta letteratura franco-veneta, rielaborazione della tradizione cavalleresca francese in lingua d’oil (Entrata in Spagna). Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento si diffondono i romanzi in prosa: i più noti sono la Storia di Merlino, il Tristano Riccardiano e La Tavola Rotonda. I cantari Importanti per la diffusione a livello popolare (ma non solo) del repertorio cavalleresco sono i cantari, componimenti in ottave (il metro poi consueto nella poesia cavalleresca) composti e recitati da autori poco colti (i canterini) nelle piazze e caratterizzati da scarsa qualità artistica e da espedienti volti a catturare l’attenzione di un pubblico variabile ed eterogeneo (l’organizzazione in cicli narrativi, recitati a puntate in giornate successive). I poemi cavallereschi Gli autori dei poemi cavallereschi si ispirano ai cantari: ne utilizzano l’ottava e traggono molti spunti tematici e narrativi. Ma vi si differenziano anche in modo decisivo: essi sono colti e si rivolgono al pubblico raffinato delle corti, il quale può apprezzare i riferimenti alla tradizione letteraria nei loro lavori, che sono scritti e più curati dal punto di vista metrico e formale, con canti più lunghi e che non sempre trattano un
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
225
argomento completo. I due maggiori poemi cavallereschi del Quattrocento sono il Morgante di Luigi Pulci e l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo: uno derivazione “giocosa” dai cantari, l’altro “seria”, essi rappresentano i prodotti assai differenti di due ambienti e personalità molto diversi. Il Morgante A Firenze, a opera di Luigi Pulci (1432-1484) è prodotta una sorta di parodia del poema cavalleresco: è il Morgante, sempre in ottave, caratterizzato dal rovesciamento “carnevalesco” degli ideali cavallereschi e della tipologia dell’eroe epico. L’obiettivo è quello di divertire la corte medicea (presso cui Pulci si era trovato a operare), in questo caso attraverso avventure iperboliche e grottesche: soprattutto quelle dei due personaggi di Morgante e Margutte, un gigante e un mezzo-gigante; avventure che ebbero anche una diffusione autonoma rispetto al resto del poema. Componente fondamentale del grottesco universo poetico di Pulci è il linguaggio, in cui l’autore mostra grande virtuosismo nell’associare lingue diverse e termini popolari, sempre con un gusto marcato per l’iperespressività. L’Orlando innamorato A Ferrara, alla corte degli Estensi, grazie a Matteo Maria Boiardo (1441-1494), umanista e poeta lirico (è autore della raccolta poetica Amorum libri) nasce il poema cavalleresco. Si tratta di un genere di grande fortuna nel tempo, che attinge dai cantari sia i materiali narrativi sia alcuni espedienti tecnici, come l’entrelacement, ma che è caratterizzato da un’elevata qualità letteraria e utilizza la materia cavalleresca per il divertimento di un pubblico competente e raffinato. Boiardo incentra il suo Orlando innamorato, che rimase interrotto, sulla forza invincibile dell’amore, tema tipico della tradizione bretone. L’amore (per Angelica, personaggio ideato dall’autore) colpisce anche Orlando (da qui il titolo), eroe “carolingio”, che lo scrittore reinterpreta alla luce dei valori umanistici e cortesi. D’altra parte quest’ultimo sente ancora il fascino degli antichi valori feudali, che però ripropone in un nuovo contesto. La trama del poema è intricata, con molti episodi secondari, ma Boiardo riesce nel complesso a reggerne le fila. La lingua dell’Orlando innamorato ha come fase il ferrarese colto.
226 Quattrocento e Cinquecento 4 Il poema cavalleresco: metamorfosi di un genere fortunato
Il tema cavalleresco nel Cinquecento: Ariosto e Tasso A Ferrara, nel Cinquecento, Ludovico Ariosto scrive l’Orlando furioso, il capolavoro del genere e poema simbolo del Rinascimento. Egli presenta il proprio lavoro come continuazione del lavoro del Boiardo: in realtà trasforma ulteriormente la figura di Orlando, gestisce meglio la complessità della struttura e della materia, usa l’ottava in maniera più duttile e si serve del tema cavalleresco come copione per esprimere non gli ideali di quel mondo, ma una visione laica della vita. Negli ultimi decenni del secolo, nella stessa città ma in un ambiente culturale molto cambiato, Torquato Tasso crea la Gerusalemme liberata, ultima grande opera del genere. Il poema riprende gli stilemi dell’epica classica e propone, sullo sfondo della prima crociata e secondo lo spirito della Controriforma, valori morali e religiosi.
Zona Competenze Competenza 1. Dividetevi in gruppo e, dopo aver scelto lo strumento di presentazione, realizzate un digitale lavoro che mostri la nascita e l’evoluzione del poema cavalleresco. Esposizione orale
2. Ciascuno di voi dovrà preparare un orale di max 5 minuti dove illustrerete i due poemi di Pulci e Boiardo con riferimento ai testi letti.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
227
Quattrocento Quattrocento e cinquecento e cinquecento CAPITOLO
5 Ludovico Ariosto
LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Ariosto L’opera che maggiormente ci restituisce la fisionomia dell’uomo Ariosto, la sua equilibrata visione del mondo e della condizione umana, sono certamente le Satire (1517-1525). Perciò, per fare una prima presentazione del grande scrittore, abbiamo scelto qualche terzina dalla terza Satira (vv. 244-264), in cui il poeta delinea il proprio ideale di vita: accettare saggiamente quanto la vita offre, non nutrire ambizioni smodate, essere (e non solo sembrare) un uomo da ben, “per bene”. [...] se l’uomo è sì ricco che sta ad agio 245 di quel che la natura contentarse dovria, se fren pone al desir malvagio; che non digiuni quando vorria trarse l’ingorda fame, et abbia fuoco e tetto se dal freddo o dal sol vuol ripararse; 250 né gli convenga andare a piè, se astretto è di mutar paese; et abbia in casa chi la mensa apparecchi e acconci il letto, che mi può dare o mezza o tutta rasa la testa più di questo? Ci è misura 255 di quanto puon capir tutte le vasa. Convenevole è ancor che s’abbia cura de l’onor suo; ma tal che non divenga ambizïone e passi ogni misura. Il vero onore è ch’uom da ben te tenga 260 ciascuno, e che tu sia; che, non essendo, forza è che la bugia tosto si spenga. Che cavelliero o conte o reverendo il populo te chiami, io non te onoro, se meglio in te che ’l titol non comprendo. [...] se l’uomo è così ricco da trovare il benessere in ciò di cui la condizione naturale dovrebbe accontentarsi, se frena il desiderio perverso (di avere di più); se è abbastanza ricco da non essere costretto a digiunare quando vorrebbe saziarsi, e abbia il focolare e un tetto se vuole ripararsi dal freddo o dal sole; e non debba andare a piedi, se è obbligato a cambiare paese; abbia in casa chi apparecchi la tavola o prepari il letto, che cosa mi può dare di più aver la testa in parte rasata (come il papa) o del tutto (come il sultano)? C’è un limite di capienza per ogni recipiente (cioè, ogni uomo ha limitate capacità di provare piaceri). Inoltre è giusto che si abbia cura del proprio onore; ma in modo tale che non diventi ambizione smisurata. Il vero onore è che ognuno ti consideri una persona per bene, e che tu lo sia realmente; perché, se non lo sei, la menzogna per forza in fretta si spegne. Che il popolo ti chiami cavaliere, conte o reverendo, io non ti onoro se non percepisco in te qualcosa di più che il titolo.
228
Ludovico Ariosto appartiene senza alcun dubbio al canone dei grandi classici italiani ed europei grazie all’Orlando furioso, che rilancia con straordinario successo la fortunata tradizione del poema cavalleresco. Ariosto vive e opera alla corte estense di Ferrara, della quale è un funzionario: nelle sue Satire testimonia la difficoltà di conciliare le incombenze legate alla condizione di cortigiano con l’identità di umanista. La fama di Ariosto è affidata all’Orlando furioso, poema in ottave che ha il suo fulcro nella follia di Orlando, da cui deriva il titolo. La straordinaria novità dell’opera sta nell’aver utilizzato il codice dell’epica cavalleresca per esprimere una moderna, disincantata interpretazione della realtà e dei comportamenti umani. Nel variegato universo narrativo dell’Orlando furioso, in cui convergono tutti i temi dell’umana esperienza, si esprimono i parametri conoscitivi ed estetici della cultura rinascimentale: la sua pienezza ma, al contempo, i sintomi della sua crisi.
1 ritratto d’autore 2 Le opere 3 L’Orlando furioso 229 229
1 VIDEOLEZIONE
Ritratto d’autore 1 Una vita nella corte Ludovico Ariosto ferrarese La vita di Ludovico Ariosto, conformemente a un ideale esistenziale ed etico ispirato all’equilibrio e alla saggezza, è una vita “normale”, priva di eventi eclatanti, per nulla avventurosa e tormentata, che può deludere chi ancora pensa allo scrittore secondo il modello romantico del “genio” irregolare, in preda a drammi ideologici e spirituali. È una vita inserita pienamente nel contesto della corte, nel ruolo, quasi obbligato a quei tempi, di cortigiano, in particolare al servizio degli Estensi. L’intera esistenza di Ariosto si muove nell’atmosfera di Ferrara, città nella quale si forma, vive, scrive, e dalla quale si allontanava malvolentieri. Ferrara è il contesto naturale della produzione poetica dell’Ariosto e al di fuori di essa non si potrebbe adeguatamente comprendere né la sua fisionomia di uomo e di letterato né la sua opera. I primi anni e la formazione Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia l’8 settembre 1474, primo di dieci figli. Il padre Nicolò, ferrarese, era capitano della cittadella per conto di Ercole I d’Este. Nel 1484 la famiglia si trasferisce a Ferrara, destinata a diventare la dimora stabile e amata di Ludovico, che in essa compie i suoi primi studi. Per volontà paterna intraprende gli studi giuridici, ma senza nessun entusiasmo, anzi considerando questi anni come perduti, in quanto sottratti ai prediletti studi delle humanae litterae; «Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie, / non che con sproni, a volger testi e chiose, / e me occupò cinque anni in queste ciancie. / Ma poi che vide poco fruttuose / l’opere e il tempo in van gittarsi, dopo / molto contrasto in libertà mi pose»: così l’Ariosto nella Satira VI (vv. 157-162).
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva 1492
Muore Lorenzo il Magnifico. 1492
Cristoforo Colombo approda per la prima volta in America.
1474
Nasce l’8 settembre a Reggio Emilia, primo di dieci figli, dal conte Nicolò, funzionario della corte estense, e da Daria Malaguzzi.
1494
1503-1512
Carlo VIII giunge in Italia.
1494-1500
Dopo cinque anni di studi giuridici, inizia a dedicarsi agli studi letterari e a comporre poesie (Rime e Carmina).
1511
Pontificato di Giulio II.
1500
Muore il padre ed è costretto a cercare una sistemazione per poter provvedere ai fratelli.
230 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
1503
Entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este e prende gli ordini minori.
Erasmo da Rotterdam compone l’Elogio della follia.
1508
Compone La Cassaria, il primo esempio di commedia classicista rinascimentale. 1503-1516
Compie varie missioni delicate per gli Estensi, in particolare a Roma dove si reca varie volte.
1513-1521
Pontificato di Leone X (Giovanni de’ Medici).
Sguardo sulla storia Ferrara al tempo di Ariosto Gli Estensi avevano la loro corte nel castello medievale di Ferrara, sorto nel 1385 come strumento di controllo politico e militare. Ercole I d’Este, che per primo decise di stabilirsi nel castello, vi apportò delle modifiche per adattarlo alla vita di corte. La tradizione del mecenatismo estense, iniziata da Lionello, fu proseguita da Borso (che per primo ottenne il titolo di duca), da Ercole I e da Alfonso I, con i quali Ferrara divenne uno dei principali centri di irradiazione della cultura rinascimentale. Ferrara era allora una città di notevolissima importanza nello scenario del rinascimento padano. Governata dagli Estensi, che già ne erano stati nel medioevo i signori feudali, poté godere di una continuità politica che ne favorì lo sviluppo. Gli Estensi erano antichi feudatari, uomini d’armi, come testimonia la loro stessa dimora, rimasta sostanzialmente un castello medievale munito di difese e cinto da un fossato, in pieno centro cittadino. Anche l’aspetto d’insieme della città, fino agli ultimi decenni del Quattrocento, era ancora quello di un borgo medievale; ma Ercole I (1471-1505) impresse alla città un nuovo volto, attraverso un ambizioso progetto urbanistico, noto come “addizione erculea”, con l’obiettivo di rendere l’immagine della città rispondente allo splendore della corte estense e allo spirito rinascimentale: al vecchio nucleo cittadino, con le antiche vie medievali strette e chiuse da portici, viene aggiunta un’ampia zona residenziale, con vie larghe e diritte secondo la concezione rinascimentale dello spazio, su cui si affacciano eleganti dimore signorili. La cultura ferrarese è contraddistinta in particolare dall’amore per la letteratura cavalleresca. La biblioteca Estense, dove studiano Boiardo, Bembo e il giovane Ariosto, è ricchissima di testi francesi, e persino i nomi propri che si tramandano nella famiglia estense derivano spesso dalle leggende cavalleresche. Ma già nel corso del Quattrocento la cultura
ferrarese si mostra anche aperta agli scambi culturali, soprattutto con le università di Bologna e Padova. In ambito filosofico si diffonde soprattutto il neoaristotelismo (per influsso di Pomponazzi, maestro all’università di Padova), il cui richiamo al realismo e naturalismo sarà particolarmente recepito a Ferrara, ma non mancano influssi neoplatonici e l’interesse per l’astrologia, testimoniati dal celebre affresco dei mesi e dei segni zodiacali di palazzo Schifanoia. Un ruolo fondamentale nella diffusione dello spirito e dell’ottica culturale umanistica venne dalla presenza alla corte estense di Guarino Veronese, che divenne precettore del giovane duca Lionello d’Este (1407-1450) e a Ferrara esercitò il suo magistero pedagogico, volto a potenziare le qualità umane secondo l’insegnamento dei classici (➜ C1). Lionello chiama a corte grandi artisti contemporanei come Pisanello, Piero della Francesca, il giovane Mantegna e arricchisce la biblioteca di corte con testi classici.
1525
Pietro Bembo pubblica le Prose della volgar lingua. 1517
Martin Lutero affigge le 95 tesi. 1527
Sacco di Roma.
1516
Esce la prima edizione dell’Orlando furioso. Ne seguiranno altre due: nel 1521 e nel 1532.
1518 1517
Abbandona il servizio del cardinale Ippolito. Inizia la stesura delle sette Satire, che concluderà nel 1525.
Viene assunto al servizio del duca Alfonso d’Este, che lo impegna in varie mansioni.
1522-1525
Si trasferisce a Castelnuovo in Garfagnana, dove rimarrà circa tre anni come governatore della regione per conto degli Estensi.
1525
Torna a Ferrara dove vive gli ultimi anni in serenità, lavorando alla terza edizione dell’Orlando furioso (1532).
1533
Muore il 6 luglio nella sua casa di Ferrara.
Ritratto d’autore 1 231
Della frequentazione assidua dei classici sono frutto i primi componimenti poetici, in lingua latina (Carmina). Nel frattempo, Ariosto frequenta gli ambienti letterari e artistici della corte estense, particolarmente vivace e brillante in quegli anni per la presenza di personaggi illustri, tra cui anche Pietro Bembo, che vi soggiornò tra il 1497 e il 1499.
online
Gallery Ferrara e gli Estensi
Lessico otium Gli studi in ambito letterario e/o l’attività svolta in questo campo; ma già in epoca romana il termine indicava più generalmente anche il tempo, libero da impegni politici o lavorativi, ad essi dedicato.
Le responsabilità familiari e il ruolo di funzionario di corte Nel 1500 la morte del padre interrompe bruscamente una vita piacevole e dedita agli amati studi; le responsabilità del mantenimento della numerosa famiglia ricade su Ludovico, né egli vi si sottrae. Quella di funzionario di corte diventa allora la sua stabile professione, costringendolo ad abbandonare la quieta vita di studi, condotta fino a quel momento (con suo grande rammarico non potrà imparare il greco). Nel 1503 prende gli ordini minori, una strada pressoché obbligata per poter godere di una rendita: entrando nel numero dei chierici (che erano numerosissimi anche alla corte estense) era possibile infatti ottenere dalla Curia romana i benefici riservati al clero. Nello stesso anno Ariosto entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca di Ferrara, Alfonso I. La qualifica di Ludovico è quella di familiaris continuus commensalis (Zanette): il che significava far parte ufficialmente dei numerosi gentiluomini di corte, con in più lo speciale diritto, certo invidiato da molti, di pranzare quotidianamente con il potente signore. Il familiare non ricopriva un incarico particolare, ma veniva impiegato molto spesso in ambascerie, contatti con altri potentati e negoziazioni varie. Il complesso rapporto con la corte Da Ludovico, Ippolito pretendeva continui e improvvisi viaggi, che venivano subìti senza entusiasmo, anche se poi le missioni affidategli (soprattutto a Mantova, Bologna, Firenze) erano affrontate con scrupoloso zelo. Inizia qui quel rapporto con la corte che anche in seguito sarà caratterizzato dalla accettazione dei compiti assegnati, ma anche da una intima insofferenza nei confronti delle pretese del cardinale, poco propenso ad apprezzare l’attività poetica di Ludovico e a concedere al poeta l’otium umanistico che tanto desiderava: «dal giogo / del Cardinale d’Este oppresso fui; / che […] non mi lasciò fermar molto in un luogo, / e di poeta cavallar mi feo» (Sat. VI, vv. 233 e seguenti). Ariosto esprime in particolare nelle Satire il suo disagio personale e la sua critica all’ambiente umano della corte, differenziandosi così dalla tendenza a idealizzarne personaggi e comportamenti (come nel caso di Castiglione). Le difficili missioni a Roma Tra i viaggi diplomatici affrontati da Ludovico spiccano per difficoltà e disavventure quelli a Roma tra il 1509 e il 1510 presso il papa Giulio II, i cui rapporti con la corte estense erano in quel periodo molto difficili. Nel 1513, morto Giulio II e divenuto papa Giovanni de’ Medici col nome di Leone X, fu di nuovo a Roma al seguito di Alfonso e Ippolito, che vi A Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, è attribuito il soffitto della sala del Tesoro di palazzo Costabili di Ferrara. L’affresco (1503-1506, part.) raffigura una scena di vita rinascimentale animata da musici e putti, affacciati a una balaustra.
232 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
si recavano per rendere omaggio al nuovo pontefice. Ariosto probabilmente sperava in qualche beneficio da Leone X, interessato alle arti e già conosciuto dal poeta a Firenze, ma queste speranze andarono deluse, come lo stesso autore racconta vivacemente in una lettera e in alcuni versi della Satira III. Ariosto lascia il cardinale Ippolito Nel 1517 Ariosto interrompe il suo rapporto con il cardinale Ippolito, rifiutandosi di seguirlo ad Agria (l’attuale Budapest), dove questi aveva ottenuto una sede vescovile (➜ T2 ). La scelta dovette certo costargli molto, ma seguire Ippolito avrebbe significato allontanarsi da Ferrara, dalla donna amata, Alessandra Benucci, conosciuta nel 1513 e poi amata per tutta la vita, dai familiari e affrontare un mondo diverso e lontano, un’avventura che la sua indole meditativa e tranquilla non poteva accettare. «Più tosto che arricchir voglio quiete», dice il poeta nella Satira I, ispirata appunto alla difficile decisione. Intanto, nel 1516 aveva pubblicato la prima edizione dell’Orlando furioso. Al servizio del duca Alfonso: l’esperienza di governatore in Garfagnana Tra il 1517 e il 1522 rimane alle dipendenze di Alfonso d’Este, fratello del cardinal Ippolito, dividendo il suo tempo tra gli impegni di funzionario di corte e la composizione delle sue opere: lavora infatti alle Satire e al Furioso, di cui nel 1521 esce la seconda edizione. Nel 1522 viene nominato da Alfonso governatore della Garfagnana. Ariosto accetta l’incarico per necessità e senso di responsabilità e riesce a raggiungere apprezzabili risultati nonostante le oggettive difficoltà di amministrare e regolare un territorio “difficile”, ribelle all’autorità degli Estensi e in cui era diffuso il brigantaggio. Sul periodo garfagnino ci informano le moltissime lettere scritte da Ariosto durante quegli anni (ben 156) che offrono il ritratto di un uomo tutt’altro che sognatore, pigro e inetto, come in passato è stato talvolta visto, ma al contrario pragmatico ed efficiente nell’esercitare un ruolo assai impegnativo. Certo, non si può dire che Alfonso sostenesse né finanziariamente né in alcun altro modo l’azione politica di Ludovico, che gli chiede più volte di revocare l’incarico (➜ T1 ). Il ritorno a Ferrara e gli ultimi anni Nel 1525 avvenne il sospirato rientro nell’amata città, dove continuò a esercitare incarichi amministrativi e fu anche nominato sovrintendente agli spettacoli di corte, il che lo indusse a rielaborare le commedie scritte ormai parecchi anni prima e a realizzarne una nuova. Nel contempo continuava a lavorare intensamente al proprio poema (stava mettendo mano alla terza redazione dell’opera). Intanto aveva acquistato una casa in contrada Mirasole. In questa dimora a lui cara trascorse anni felici, resi sereni dall’amore di Alessandra, che sposa segretamente nel 1528, e dall’affetto del figlio Virginio, avuto da una precedente relazione. Furono anche anni di intenso lavoro, ma finalmente libero e “suo”: si trattava della revisione stilistica, linguistica e strutturale del Furioso, che lo impegnò quasi fino al termine della sua vita. Nel 1532 esce, accresciuto in 46 canti, l’ultima edizione del poema, destinato a straordinaria diffusione e fortuna ben oltre i confini di Ferrara. Un anno dopo, a quasi sessant’anni, il 6 luglio 1533, Ludovico Ariosto muore nella sua casa di Ferrara. La notizia della scomparsa si diffuse solo dopo le esequie, forse per una estrema volontà del poeta di difendere la sua identità privata, a cui sempre aveva Il cardinale Ippolito d’Este in un ritratto tenuto maggiormente che a quella di uomo pubblico. di Bartolomeo Veneto (1470-1531). Ritratto d’autore 1 233
2
Le opere 1 Lo sperimentalismo dei generi Una produzione eclettica Uno dei maggiori interpreti di Ariosto, il critico Lanfranco Caretti, ha osservato che quella dell’Ariosto «è una carriera con un solo libro al centro (il Furioso)». Effettivamente all’Orlando furioso Ariosto dedica l’intera sua esistenza; ma il poema non costituisce l’unica sua opera importante e non è isolato dalla restante produzione. Ariosto si rivolge infatti a una pluralità di generi letterari, a cui corrispondono diverse modalità di approccio al reale da parte dello scrittore: dalle Rime, che costituiscono il suo apprendistato poetico, alle Commedie – la prima delle quali, la Cassaria, inaugura nel 1508 il rinnovato teatro italiano – all’epistolario e alle Satire, in cui esprime una vena polemica. Le opere minori di Ariosto non vanno lette esclusivamente come un banco di prova e di sperimentazione per il poema: al contrario, esse possiedono una loro autonoma dignità e compiutezza, per cui costituiscono, nell’insieme del corpus delle composizioni ariostesche, un polo dialettico con l’armonia perfetta del Furioso. Leggendo le Satire e le Commedie si comprende, infatti, che il poeta dei mondi fantastici, delle avventure sul cavallo alato, della magia e della bellezza, il creatore del romanzesco mondo dei paladini e delle dame, delle armi e degli amori, non ignora affatto la dura realtà del quotidiano, ma anzi entra in rapporto con essa.
Anselm Feuerbach, Il giardino di Ariosto, 1862 (Monaco, Galleria Schack). Il poeta (quarto da destra), sul cui capo vi è una corona di alloro, passeggia con un libro aperto in mano e probabilmente declama i suoi versi. Al suo fianco vi sono due donne, una delle quali poggia un braccio e la testa sulla sua spalla, e forse rappresenta Alessandra Benucci Strozzi, amata dal poeta.
234 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
2 Le Rime La centralità del tema amoroso Oltre a una cospicua produzione di liriche latine, come era usuale per ogni cultore di studi umanistici, l’Ariosto nei primi anni del secolo inizia la composizione di rime in volgare che, dopo il 1513, in massima parte sono ispirate dalla donna amata, Alessandra Benucci: Alessandra viene cantata con toni di ammirazione contemplativa nella fase dell’innamoramento, poi con un’aperta sensualità, secondo la libera visione dell’amore propria del Rinascimento a cui anche nell’Orlando furioso l’autore mostra di aderire. Le Rime presentano una varietà metrica che ben testimonia lo sperimentalismo letterario del poeta: si tratta di 87 componimenti, di cui la maggior parte è costituita da sonetti e madrigali, tipici della poesia amorosa e galante dell’ambiente di corte. Non mancano, tuttavia, canzoni ed egloghe, e sono presenti anche numerosi capitoli in terza rima di argomento più realistico. I modelli Il punto di riferimento fondamentale per chi scrive rime d’amore nel primo Cinquecento non può che essere Petrarca, la cui supremazia nel genere lirico era stata consacrata dal Bembo; tuttavia nelle liriche ariostesche si scorge una pluralità di modelli: dalla lirica del Boiardo, con la sua gioia di vivere e di amare e il suo gusto per la rappresentazione della natura, al recupero di alcuni topoi stilnovistici, peraltro mai scomparsi dalla nostra lirica (l’apparizione della donna, il sospiro, l’amore non ricambiato e simili); a essi si aggiungono gli influssi dei poeti d’amore della letteratura latina, come Catullo, Properzio, Orazio, soprattutto per quanto riguarda la scoperta presenza della nota di sensualità che caratterizza parte delle rime dell’Ariosto.
3 Ariosto commediografo
PER APPROFONDIRE
La riscoperta del genere della commedia classica per l’intrattenimento della corte Sulla scia della ripresa umanistico-rinascimentale dei modelli classici, negli ambienti di corte nasce un teatro “laico” (ossia non legato ai temi religiosi delle sacre rappresentazioni medievali) che in un primo periodo consiste semplicemente nella rappresentazione delle commedie latine di Plauto e Terenzio (presto tradotte in volgare). Ma un ulteriore passaggio (la creazione, cioè, di nuove commedie) era espressamente stimolato dalle corti (quella estense, come quelle di Mantova, di Urbino, Milano e altre ancora), interessate a favorire lo sviluppo di una qualificata letteratura da intrattenimento che creasse consenso intorno alle signorie.
Ariosto pensava a un “canzoniere”? Sappiamo che, nella tipologia delle forme letterarie poetiche, con “canzoniere” si intende un insieme di componimenti lirici strutturati secondo un disegno compositivo organico, pensato per lo più a posteriori dal poeta. Il massimo esempio era quello del Petrarca, punto di riferimento di tutti i lirici del Cinquecento. L’Ariosto invece non si era preoccupato di organizzare in qualche modo le sue liriche (che peraltro furono edite postume).
Tuttavia alcuni studi filologici hanno rintracciato la presenza di un progetto organico con evidenti connessioni intertestuali tra 48 rime ariostesche. Questa nuova prospettiva critica (dovuta a Cesare Bozzetti) autorizza a ipotizzare un possibile vero e proprio canzoniere, che il poeta non ebbe forse il tempo di realizzare.
Le opere 2 235
Anche Ariosto, dopo aver tradotto per la corte ferrarese molte commedie plautine e terenziane (traduzioni andate perdute), decise di scrivere in prima persona commedie in volgare, fondate sempre su modelli latini, ma con rilevanti elementi di novità, rispondendo così a una vera e propria “richiesta di mercato”: dopo l’interruzione degli spettacoli di corte dovuta alla discesa di Carlo VIII in Italia e al minaccioso clima politico che ne conseguì, gli splendori della vita di corte ripresero con maggior vigore. Con la Cassaria, rappresentata con grande successo nel palazzo ducale di Ferrara in occasione del Carnevale del 1508, nasce in Italia il teatro laico in lingua volgare, d’ispirazione classicheggiante. «Nova commedia v’appresento»: la creazione di un genere e di un modello La trama della Cassaria (la “commedia della cassa”), così come quella della commedia scritta e rappresentata l’anno successivo, I Suppositi (cioè “gli scambiati”), deriva da modelli latini ed è strutturata sulle situazioni tipiche della commedia classica (scambi di persona, equivoci, amori contrastati, eterno conflitto tra giovani e vecchi, e così via). Quanto all’ambientazione, I Suppositi introduce una significativa innovazione: la vicenda si svolge proprio a Ferrara. In questo modo Ariosto «fissa quel legame tra scena, corte e città, che avrà un peso fondamentale per tutta la nuova commedia volgare» (Ferroni). Le prime commedie ariostesche sono scritte in prosa, con un distacco evidente dal modello latino, che si avvaleva invece dei versi: una scelta probabilmente dovuta all’intenzione dell’autore di modernizzare il genere della commedia classica e di renderlo più accessibile. Il prologo della Cassaria è invece in terzine, primo esperimento di linguaggio teatrale in versi: «Nova commedia v’appresento piena / di varii giochi che né mai latine / né greche lingue recitarno in scena». Con questa dichiarazione l’autore si mostra pienamente consapevole della novità della propria impresa, che si manifesta anche nell’invenzione linguistica, con la creazione di un linguaggio ricco di popolarismi e di latinismi del registro basso, che rappresenta il primo tentativo di un linguaggio comico teatrale italiano. Dalla prosa ai versi: la nuova forma della commedia Dopo una lunga interruzione, dovuta alle guerre presenti sul territorio, ai gravosi impegni di funzionario degli Estensi e soprattutto all’imponente fatica della prima stesura del Furioso (completata nel 1516), Ariosto riprende a dedicarsi al teatro, con un’importante novità, ossia la scelta, prima esclusa, del verso. Lo scrittore sente il verso come più congeniale al genere della commedia (derivato comunque dal modello latino) e più adeguato a un’esigenza di “letterarietà”: nell’ottica ariostesca la commedia nuova deve realizzare un giusto equilibrio tra le richieste estetiche di un pubblico elevato, come era quello della corte, e le ragioni della comicità. La scelta metrica cade sull’endecasillabo sdrucciolo sciolto, il cui ritmo, da un lato, può richiamare quello del senario giambico della tradizione latina e dall’altro si adatta meglio all’andamento dialogato, rimanendo oltretutto meno lontano di altri versi più lirici dalla conversazione prosastica. In versi egli scrive dunque due nuove commedie, Il Negromante e La Lena, rispettivamente nel 1520 e nel 1528, oltre a I studenti, rimasta però incompiuta. A partire dal 1528, nel periodo in cui si infittisce la sua attività di “regista” teatrale per l’ambiente cortigiano estense, riscrive in versi anche le due prime commedie composte in prosa.
236 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Le novità tematiche del Negromante e della Lena Nel Negromante entra in scena un personaggio nuovo rispetto alle fonti latine: si tratta della figura di un falso mago imbroglione, Mastro Iachelino, un personaggio in cui si può forse vedere un’allusione, ironica e addirittura parodica, alle credenze e alle pratiche magiche, assai diffuse nella cultura contemporanea all’Ariosto e nello stesso ambiente ferrarese. Quanto poi alla protagonista dell’ultima commedia, La Lena, è una ruffiana di mezza età, le cui tresche sono tollerate per interesse economico dal marito Pacifico. Lena è un personaggio legato alle implacabili leggi della sopravvivenza, in un mondo e in un ambiente sociale basso e legato agli istinti. Per danaro ha cominciato la sua carriera e per danaro la continua, in un contesto di amori più o meno clandestini, litigi, ricatti, inganni. È evidente che personaggi di questo tipo, pur riprendendo suggestioni dalle commedie classiche, si riallacciano alla realtà contemporanea, mettendone in luce gli aspetti negativi; è significativo a questo proposito anche l’ambiente in cui le vicende si svolgono: non più in luoghi lontani o in città della Grecia, ma in Italia (Il Negromante a Cremona e La Lena a Ferrara). L’“altra” Ferrara nelle vicende del basso mondo della Lena Opportunamente, il critico Guido Davico Bonino fa rilevare che agli spettatori della corte estense, alle dame raffinate, agli aristocratici intellettuali, agli uomini di potere, Ariosto presenta, con La Lena, l’“altra” Ferrara, ben diversa da quella della corte e dei palazzi. Il pubblico colto e raffinato è posto davanti a una realtà diversa dalla nobile facciata del potere estense, quasi a un mondo parallelo, che però molti cavalieri e nobili dovevano conoscere piuttosto bene: è la Ferrara dei sobborghi popolani, dei bordelli malfamati, nei quali la legge dominante è quella della sopraffazione e della frode, in nome del denaro.
4 L’epistolario Un corpus di lettere antiletterario L’epistolario di Ariosto è stato a lungo trascurato dalla critica proprio per la sua “prosaicità”: non ha infatti alcuna pretesa letteraria e rifiuta gli espedienti stilistici che potrebbero nobilitare quanto viene scritto. Le varie lettere (in tutto 216) non sono organizzate all’interno di una raccolta, né sono rielaborate con finalità artistiche o autocelebrative (come l’Epistolario di Petrarca), e neppure assumono la forma della lettera-saggio diffusa negli ambienti umanistici, ma hanno esclusivamente obiettivi di comunicazione diretta e pratica. Da qui anche l’uso dominante del volgare anziché del latino. Le lettere ariostesche hanno carattere sia ufficiale sia privato e costituiscono un documento prezioso per conoscere l’ambiente in cui visse Ludovico, la sua vita privata e, soprattutto, quella pubblica, così come la sua personalità. Riguardano la seconda parte della sua vita (dal 1509 alla morte), a parte due soli esempi precedenti a questa data. Particolarmente interessanti sono le lettere che documentano l’elaborazione e la storia editoriale del Furioso, la cura attenta del poeta nel seguirne la pubblicazione, nel tentativo di arginare con ogni mezzo la circolazione di copiepirata non autorizzate. In questo ambito Ariosto si rivela sagace amministratore della propria opera. Molto numerose nel corpus delle lettere sono le testimonianze della carriera pubblica di Ariosto come funzionario della corte estense. La sezione più ampia dell’epistolario è costituita dalle più di 150 lettere (dalla 30 alla 186) relative al commissariato Le opere 2 237
in Garfagnana, in cui sono documentate la coscienza e la rettitudine con cui Ariosto assolve il compito, lottando strenuamente contro i banditi che infestano la zona, ma anche la frustrazione per i pochi mezzi a disposizione e il sostanziale disinteresse del duca Alfonso per le sorti della regione. Le lettere dalla Garfagnana, considerate nel loro complesso, confutano da sole l’immagine vulgata di un Ariosto sognatore e passivo, rivelandone le doti di energico e intraprendente amministratore. Come si è detto, e come risulterà evidente da vari testi (➜ T1 ), Ariosto mostra disinteresse per un’eccessiva ricercatezza levigata della sua prosa: una caratteristica che lo distingue, nell’uso epistolare, dai molti letterati italiani, grandi e minori.
Ludovico Ariosto
T1
Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore Lettera 139 (1-2; 11)
L. Ariosto, Satire, Erbolato, Lettere, a c. di C. Segre, G. Ronchi e A. Stella, Mondadori, Milano 1984
Il passo che segue riporta l’inizio e la conclusione di una delle lettere inviate dall’Ariosto ad Alfonso d’Este durante il proprio governatorato in Garfagnana.
Se vostra extia non mi aiuta a difendere l’honor de l’officio1, io per me2 non ho la forza di farlo; ché se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra extia li absolva3, o determini in modo che mostri di dar più lor ragion che a me, essa4 viene a dar aiuto a deprimere l’authorità del magistro5. Serìa meglio che, s’io non ci sono idoneo6, a mandare uno che fosse più al proposito7, che guastando tuttavia quello che bene o male io faccia si attenuasse la maestà del commissariato8 [...]. Ma dove importa tanto smaccamento de l’honor mio9, io vo’ gridare e farne instantia, e pregare e suplicare10 vostra extia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna.
1 Se vostra… de l’officio: Se Vostra Ec-
6 SErìa... sono idoneo: Sarebbe meglio,
cellenza non contribuisce a difender la rispettabilità dell’incarico. 2 per me: da solo, per conto mio. 3 absolva: scagiona, giustifica. 4 essa: si riferisce a vostra excellentia. 5 viene... magistro: contribuisce a indebolire l’autorità del magistrato.
che se io non sono adatto al compito. 7 al proposito: competente. 8 che... commissariato: (piuttosto) che, a furia di mandare a monte i provvedimenti che bene o male io prendo, si incrini (si attenuasse) l’autorità della carica. 9 dove importa… de l’honor mio: quando
(ciò) comporta un tale smacco per il mio onore. 10 vo’... suplicare: voglio gridare e farne richiesta, e pregare e supplicare.
Analisi del testo Per onorare la funzione… Ariosto è esasperato per le circostanze difficili in cui è costretto a operare e chiede di essere al più presto sostituito e poter, così, rientrare a Ferrara. La lettera rivela aspetti significativi della personalità del poeta, qui nelle vesti di solerte funzionario: a spingerlo alla richiesta non è un interesse personale, non è la nostalgia per la vita tranquilla di Ferrara, ma il senso dell’onore e soprattutto la difesa dell’autorità pubblica in un paese allo sbando.
238 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Per cosa Ariosto chiede aiuto ad Alfonso d’Este? LESSICO 2. Rintraccia i termini o le espressioni appartenenti al mondo latino.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Nel periodo «se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra extia li absolva, o determini in modo che mostri di dar più lor ragion che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l’authorità del magistro» l’autore afferma un principio educativo valido ancora oggi. Dopo aver parafrasato, di se sei d’accordo o meno con Ariosto e perché.
5 Le Satire Tra innovazione e tradizione Nel 1517, in un momento assai difficile, ossia quando decide di abbandonare l’incarico presso il cardinale Ippolito, Ariosto inizia a comporre una serie di satire, che costituiscono la sua opera più importante dopo l’Orlando furioso. Le Satire, in tutto sette, sono ultimate entro il 1525; in quegli stessi anni lo scrittore si dedicava anche ad altre forme letterarie (come il teatro) e lavorava alla rielaborazione del Furioso per la seconda edizione del 1521. La scelta del genere satirico da parte del poeta si iscrive nella più generale tendenza umanistica a riportare in vita generi letterari latini che erano stati nel tempo abbandonati. Il modello è, in questo caso, rappresentato soprattutto dalla produzione satirica del grande poeta latino Orazio, dal quale Ariosto riprende la tendenza a trarre da uno spunto occasionale, legato a esperienze personali di vita, considerazioni più generali di carattere etico e la cui visione esistenziale, ispirata all’equilibrio e alla moderazione, sente particolarmente congeniale. Un altro autore latino presente come modello, anche se in modo meno rilevante, è Giovenale. La struttura epistolare: una scelta “comunicativa” La satira ariostesca fonde il modello di due opere oraziane: da una parte i Sermones, di cui riprende il tono colloquiale nel narrare fatti e misfatti della vita quotidiana, e dall’altro le Epistulae, da cui deriva la struttura epistolare, cioè la narrazione in forma di lettera. Come quelle di Orazio, anche le Satire dell’Ariosto sono indirizzate a un destinatario (che talvolta è una proiezione dell’autore stesso); la struttura dialogica consente allo scrittore di creare una situazione “confidenziale” capace di coinvolgere il lettore e di sviluppare in modo più disinvolto e discorsivo le sue riflessioni sui temi trattati. La proposta di un modello di uomo Nelle Satire spicca la presenza di elementi autobiografici, con riferimenti precisi e diretti a situazioni della vita del poeta. Questa dominante caratteristica dell’opera, oltre al ricorso al tu allocutorio, che evoca rapporti di quotidiana familiarità con i destinatari, ha favorito (soprattutto nell’età romantica) una lettura del lavoro come documento per ricostruire la biografia del poeta. La critica più recente si è allontanata ormai da questa impostazione e tende a considerare le Satire non più come una serie di testi fra loro slegati, ma come un vero e proprio “libro”, con una studiata organicità e il senso globale di una proposta etico-comportamentale. Le opere 2 239
La singola occasione (l’incontro con il papa, l’imminente matrimonio del cugino, la ricerca di un precettore per il figlio e così via) serve da punto di partenza per una serie di riflessioni che delineano un ritratto in primo luogo autobiografico, ma che assume al contempo i tratti di un modello umano e di comportamento ispirato ai valori (propri dell’etica classica e umanistica) del razionalismo, dell’equilibrio, della misura.
PER APPROFONDIRE
Frontespizio de Le Satire.
Un profilo dell’intellettuale ideale Dietro questo modello umano, Ariosto indirettamente tratteggia anche (ed è forse la prospettiva di lettura più significativa dell’opera), un profilo ideale dell’intellettuale del primo Cinquecento, nel quale proietta la propria stessa immagine: un intellettuale che non vuole essere coinvolto nelle grandi faccende della politica, che non desidera emergere a tutti i costi nella vita di corte, ma aspira a una vita schiva, dedita agli amati studi e alla cura delle proprie opere letterarie. Un intellettuale a cui va stretto il ruolo di cortigiano (celebrato invece dal Castiglione) e che assume consapevolmente il ruolo di coscienza critica della condizione, ambigua e difficile, del letterato vicino ai potenti (➜ T2-3 ).
Gli argomenti delle Satire Satira I Destinatari: Il fratello Alessandro e l’amico Ludovico da Bagno. Contenuti: Ariosto spiega le ragioni per cui rifiuta di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria. Il trasferimento in quel paese lontano gli procurerebbe certamente danni alla salute e lo allontanerebbe a lungo da Ferrara e dai suoi affetti. Alla costante disposizione al compromesso e all’adulazione, tipica del mondo della corte, il poeta contrappone il valore della libertà personale, da tenersi cara anche a prezzo della povertà. Satira II Destinatario: Il fratello Galasso. Contenuti: Il poeta chiede al fratello di procurargli un alloggio a Roma. Critica la corruzione della corte pontificia. Elogia una vita sobria e morigerata, in cui si possa anche viaggiare lontano, ma solo con la fantasia e con l’aiuto di manuali, come la Geografia di Tolomeo. Satira III Destinatario: Il cugino Annibale Malaguzzi. Contenuti: La satira sviluppa il tema della difficoltà della vita cortigiana. Il poeta rivendica la propria autonomia di pensiero e di comportamento rispetto alle imposizioni della vita di corte. Al centro della satira è la rievocazione dell’incontro deludente tra Ariosto e papa Leone X, preceduta e seguita da due apologhi, quello della gazza (favola mitologica sulla dipendenza da un padrone) e il famosissimo apologo della montagna della luna, che gli uomini salgono nell’illusione di raggiungere il corpo celeste, mentre naturalmente tale corsa è stolta e vana.
240 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Satira IV Destinatario: Il cugino Sigismondo Malaguzzi. Contenuti: Il poeta rievoca il difficile impatto con la Garfagnana. In contrapposizione con l’attuale situazione, in cui incombono sul poeta gravi responsabilità tra luoghi impervi e gente ostile, egli ritorna con la memoria alla sua giovinezza, alle prime prove poetiche e ai giorni felici trascorsi nella villa dei cugini nella natia Reggio. Satira V Destinatario: Il cugino Annibale Malaguzzi. Contenuti: In occasione delle prossime nozze del cugino, il poeta compone una sorta di trattatello (Debenedetti) sul tema del “prender moglie”, tracciando anche il ritratto della consorte ideale, del tutto in sintonia col suo programma di vita ispirato alla “medietà”. Satira VI Destinatario: Pietro Bembo. Contenuti: Il poeta cerca un precettore di greco per il figlio Virginio, quindicenne, e chiede al grande letterato Pietro Bembo di aiutarlo nella ricerca di un maestro sapiente, che sia anche però di onesti costumi e di saldi principi etici. La satira si conclude col ricordo dei propri studi giovanili e il rimpianto per non aver potuto apprendere la lingua greca. Satira VII Destinatario: L’amico Bonaventura Pistofilo. Contenuti: Il poeta motiva all’amico, cancelliere del duca Alfonso, il suo rifiuto dell’incarico di ambasciatore presso il papa Clemente VII. La parte finale si ricollega alla Satira III nell’elogio della vita tranquilla e sedentaria, quella che egli vuole vivere senza allontanarsi dalle vie e dalle piazze di Ferrara.
Lessico apologo Breve racconto di carattere allegorico avente come fine l’educazione morale del lettore.
online
Per approfondire Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo”
Gli apologhi: uno spazio narrativo-commentativo Lo spunto autobiografico riesce a elevarsi a tema generale di riflessione anche grazie all’inserimento, all’interno di alcune satire, di favolette che contengono una chiara “morale della storia” e assumono quindi il carattere di apologo (come si può facilmente notare in ➜ T2 ). Queste gradevoli storielle di carattere fantastico, interrompendo il corso della narrazione-riflessione, accrescono il piacere della lettura e conferiscono maggiore evidenza al tema morale, quasi “visualizzandolo” e imprimendolo così più facilmente nella memoria del lettore; la più celebre è quella degli uomini che vogliono raggiungere la luna. Per i suoi apologhi, che erano già presenti nella tradizione satirica classica (notissima ad esempio la favola del topo di campagna e di città narrata da Orazio), Ariosto si rifà a fonti note al lettore del suo tempo, da Esopo a Fedro, ai bestiari medievali, ma anche agli exempla dei predicatori. Il «laboratorio linguistico» delle Satire e la scelta metrica Nel complesso delle Satire prevale un tono volutamente colloquiale (talvolta addirittura dimesso), apparentemente semplice e spontaneo, ma in realtà frutto di un’accurata selezione: il linguaggio delle Satire è espressione di un vero e proprio «laboratorio linguistico», come è stato recentemente definito (Bologna). La scelta stilistica e linguistica dell’autore è congruente al messaggio di vita che vuole comunicarci con la sua opera: la proposta di un’esistenza ispirata all’ideale oraziano della medietas, del giusto mezzo (con la conseguente critica dell’eccessiva ambizione), nella saggia accettazione delle inevitabili frustrazioni che costellano ogni esistenza umana. All’interno di un registro mediamente colloquiale, ci sono sia momenti di accentuato realismo, in cui viene utilizzato il linguaggio quotidiano, sia dotte allusioni a personaggi mitologici ed elementi di ascendenza letteraria; non manca infine qualche imprestito del registro “comico” di Dante: l’eco delle aspre tonalità dell’Inferno dantesco si fa sentire nei momenti in cui l’Ariosto vuole dare particolare forza evocativa al linguaggio. Le Satire sono in terzine dantesche di endecasillabi a rima incatenata (schema ABA BCB). Non molto in auge in quegli anni dominati dal petrarchismo, la terzina dantesca aveva tuttavia una certa tradizione nei cosiddetti capitoli, forma letteraria decisamente minore, di carattere polemico-satirico, che Ariosto stesso pratica.
Le opere minori di Ariosto Rime
Commedie
Satire
Epistolario
• sia in latino sia in volgare • tema centrale è l’amore • modelli: Petrarca, Boiardo e poeti latini (Catullo e Orazio)
• commedie sul modello di Plauto e Terenzio • rispetto delle 3 unità aristoteliche • intrattenimento per la corte estense
• 7 componimenti in terzine • modello latino: Orazio • elementi autobiografici offrono lo spunto per riflessioni generali
• prezioso documento biografico • senza pretese letterarie
Le opere 2 241
Ludovico Ariosto
T2
Ariosto e la condizione cortigiana
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1, 2
Satira I, vv. 85-123 e 247-265 L. Ariosto, Satire, Einaudi, Torino 1987
Presentiamo una parte della prima satira, composta nel 1517 dall’Ariosto: il poeta si era rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este, presso cui prestava servizio, e costui lo aveva minacciato di privarlo dei benefici e delle rendite che gli aveva assegnato. La dolorosa esperienza personale costituisce lo spunto per un’amara riflessione sulla difficile e ambigua posizione degli intellettuali a corte e una rivendicazione dell’autonomia dell’attività letteraria. La satira si chiude con un apologo, L’apologo dell’asino, che ribadisce il tema generale della composizione.
Io, per la mala servitude mia1, non ho dal Cardinale ancora tanto ch’io possa fare in corte l’osteria2. 85
Apollo, tua mercé, tua mercé, santo collegio de le Muse, io non possiedo 90 tanto per voi, ch’io possa farmi un manto3. – Oh! il signor t’ha dato... – io ve ’l conciedo, tanto che fatto m’ho più d’un mantello; ma che m’abbia per voi dato non credo4. Egli l’ha detto: io dirlo a questo e a quello 95 voglio anco, e i versi miei posso a mia posta mandare al Culiseo per lo sugello5. Non vuol che laude sua da me composta per opra degna di mercé si pona; di mercé degno è l’ir correndo in posta6.
La metrica Terzine dantesche a rima incatenata: ABA, BCB, CDC, ecc. 1 la mala servitude mia: il mio servizio, mal compensato, di cortigiano. 2 fare… l’osteria: organizzarmi autonomamente per mangiare a corte. Il poeta, come dice in un altro punto della satira, soffriva di stomaco e necessitava di una dieta apposita. 3 Apollo… un manto: Grazie a te, Apollo (dio della poesia), e grazie a voi, sacre Muse, io non possiedo tanto da potermi permettere un mantello. Ariosto lamenta la scarsa considerazione (con le con-
seguenze economiche del caso) in cui il cardinale teneva la poesia. 4 Oh!… non credo: Ariosto immagina l’obiezione di qualcuno che gli ricorda quanto gli ha dato il signore, ma a sua volta ribadisce che quanto ha ottenuto non l’ha guadagnato certo per i propri meriti letterari. 5 e i versi miei… per lo sugello: e i miei versi posso a mio piacimento (a mia posta) mandarli al Colosseo (cioè “a quel pae se”) per farvi apporre il sigillo. Attraverso il doppio senso giocoso (per paronomasia) Colosseo-Culiseo Ariosto vuol dire che
242 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
per il suo signore i suoi versi non valgono alcunché. 6 Non vuol… in posta: (il cardinale: è il signor del v. 91) non vuole che sia considerata un’opera degna di retribuzione (si pona… di mercé) una sua lode composta da me. Degno di uno stipendio è viaggiare (ir = ire, “andare”, latinismo) di gran carriera cambiando i cavalli a ogni stazione di posta. Inizia qui l’elenco di chi svolge un lavoro degno di considerazione per il cardinale.
A chi nel Barco7 e in villa il segue, dona, a chi lo veste e spoglia, o pona i fiaschi nel pozzo per la sera in fresco a nona8; 100
vegghi la notte, in sin che i Bergamaschi se levino a far chiodi, sí che spesso 105 col torchio in mano addormentato caschi9. S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo, dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ocio; piú grato fòra essergli stato appresso10. E se in cancellaria m’ha fatto socio 110 a Melan del Constabil, sí c’ho il terzo di quel ch’al notaio vien d’ogni negocio11, gli è perché alcuna volta io sprono e sferzo mutando bestie e guide, e corro in fretta per monti e balze, e con la morte scherzo12. Fa a mio senno, Maron13: tuoi versi getta con la lira in un cesso, e una arte14 impara, se beneficii vuoi, che sia piú accetta. 115
Ma tosto che n’hai15, pensa che la cara tua libertà non meno abbi perduta 120 che se giocata te l’avessi a zara16; e che mai più, se ben alla canuta età vivi e viva egli di Nestorre17, questa condizïon non ti si muta. [...]
7 Barco: parco di caccia degli Estensi, fra le mura di Ferrara e il Po. 8 pona... a nona: ponga all’ora nona (circa le 15) i fiaschi in fresco nel pozzo per la sera. 9 vegghi… caschi: continua l’enumerazione dei lavori “rispettabili” e retribuiti a corte. (A chi..., v. 100) vegli la notte, fino all’alba – quando i fabbri (qui identificati per antonomasia nei carpentieri bergamaschi) si alzano per fare chiodi – così che spesso caschi addormentato con la torcia (torchio) in mano. 10 S’io l’ho… appresso: Se io l’ho inserito nei miei versi lodandolo, dice che l’ho fatto a mio piacere e nel tempo libe-
ro; avrebbe (fòra, “sarebbe stato”) gradito maggiormente (piú grato) che io fossi stato al suo seguito. Ocio, “ozio”, dal lat. otium, ha una coloritura dialettale settentrionale con -ci per -zi; lo stesso per negocio al v. 111. 11 se in cancellaria… d’ogni negocio: allude a un beneficio che il cardinale gli aveva procurato, cioè di dividere a Milano (Melan), con Antonio Constabile, un terzo delle rendite che venivano da ogni affare (ogni negocio) alla cancelleria arcivescovile. 12 con la morte scherzo: il poeta allude ai rischi legati agli incarichi assegnatigli, in particolare quelli presso la corte papale.
13 Fa a mio senno, Maron: il poeta che qui Ariosto invita a seguire i suoi consigli è il bresciano Andrea Marone che, al contrario dello scrittore, aveva sollecitato l’onore di accompagnare il cardinale Ippolito in Ungheria. 14 una arte: un mestiere. 15 Ma tosto che n’hai: Ma una volta che li hai ottenuti (i benefici). 16 zara: gioco d’azzardo con i dadi ricordato anche da Dante («Quando si parte il gioco de la zara…» Pg VI, 1-9). 17 Nestorre: Nestore, personaggio omerico celebre per la leggendaria longevità.
Le opere 2 243
Uno asino fu già18, ch’ogni osso e nervo mostrava di magrezza, e entrò, pel rotto del muro19, ove di grano era uno acervo20; e tanto ne mangiò, che l’epa21 sotto si fece piú d’una gran botte grossa, fin che fu sazio, e non però di botto. 250
Temendo poi che gli sien péste l’ossa22, si sforza di tornar dove entrato era, 255 ma par che ’l buco più capir nol possa23. Mentre s’affanna, e uscire indarno24 spera, gli disse un topolino: – Se vuoi quinci uscir, tràtti, compar, quella panciera25: a vomitar bisogna che cominci 260 ciò c’hai nel corpo, e che ritorni macro26, altrimenti quel buco mai non vinci27. – Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro Cardinal comperato avermi stima con li suoi doni, non mi è acerbo et acro28 265
renderli, e tòr la libertà mia prima29.
18 fu già: visse un tempo. Ricalca l’inizio delle favole: “C’era una volta…”. 19 pel rotto del muro: attraverso la breccia nel muro. 20 ove… uno acervo: in un luogo dove c’era un mucchio di grano. 21 l’epa: la pancia. 22 Temendo... l’ossa: Temendo poi di essere picchiato.
23 capir nol possa: non possa contenerlo (capir è latinismo dal lat. capere) più. 24 indarno: invano. 25 Se vuoi… quella panciera: Se vuoi uscire di qui (quinci), compare, elimina (tràtti) quella gran pancia (la panciera è propriamente la parte dell’armatura che protegge addome e ventre). 26 macro: magro.
Marcello Fogolino, Scena di torneo, 1520 ca., affresco del castello di Malpaga (Bergamo).
244 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
27 vinci: superi. 28 non mi è acerbo et acro: non mi è doloroso né amaro, difficile (latinismo, da acer). 29 tòr... prima: riprendermi la mia libertà originaria (prima).
Analisi del testo Una testimonianza personalmente sofferta della vita di cortigiano Per essere correttamente intesi, questi versi vanno ricondotti a un momento particolarmente difficile della vita di Ariosto, che lo induce a prese di posizione polemiche. D’altra parte le parole del poeta, pur motivate da una personale condizione di risentimento, costituiscono un ritratto abbastanza realistico, e per certi aspetti esemplare, della condizione cortigiana: essa comportava in ogni caso non pochi compromessi, difficili da accettare soprattutto da chi, come appunto l’autore, identificava sé stesso innanzitutto come intellettuale e poeta, mentre, come stipendiato dalla corte, gli competevano impegni del tutto estranei a tale vocazione e (stando almeno a quanto sostiene l’interessato) addirittura umilianti. Ariosto lamenta con amarezza che il suo apprezzamento da parte del cardinale derivi esclusivamente dall’assolvimento dei compiti di cortigiano anziché dall’attività di poeta, che il cardinale Ippolito considerava alla stregua di un passatempo.
L’apologo dell’asino Nell’ultima parte del testo la rivendicazione del valore della libertà personale è affidata a una favoletta che, attraverso una breve narrazione, ribadisce il tema che al poeta sta a cuore. La morale della favola è chiara e del resto il risvolto autobiografico è esplicitato da Ariosto stesso negli ultimi versi della satira. L’asino che si ingozza di cibo avventurandosi fuori dal suo habitat e che poi non riesce più a passare per la fessura del muro, con il pericolo di restare prigioniero, simboleggia la figura del cortigiano: per vivere agiatamente egli accetta di abdicare alla sua libertà. Per poterla recuperare, egli dovrà rinunciare agli agi e ai beni elargiti dal signore, scelta che l’autore è più che disposto a fare.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il consiglio che Ariosto dà al poeta di corte Andrea Marone sulla base della propria esperienza personale. COMPRENSIONE 2. Quale significato ha il riferimento ad Apollo e al «santo collegio de le Muse» (vv. 88-89)? LESSICO 3. Individua l’espressione con cui il poeta definisce sinteticamente (e significativamente) il proprio servizio a corte e commentala. 4. Identifica i punti in cui il lessico accoglie termini del parlato e fanne una dettagliata schedatura. STILE 5. Rintraccia nel testo la presenza degli aspetti dialogici tipici delle Satire e poi indica: a. a chi sono attribuite le voci che intervengono nel testo; b. quale effetto produce questa scelta stilistica; c. perché il poeta ne fa uso.
Interpretare
SCRITTURA 6. Quali aspetti più generali della condizione del poeta a corte sono deducibili dal testo ariostesco?
EDUCAZIONE CIVICA
7. Ariosto sa con certezza che il rifiuto di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria comporterà la rottura definitiva con lui, il licenziamento e la perdita di ogni beneficio; tuttavia non esita ad andarsene, in quanto ritiene che agi e privilegi abbiano un prezzo troppo alto da pagare, ossia la perdita della libertà. Cerca in Internet la Dichiarazione universale dei diritti umani e leggi con attenzione l’articolo 23, paragrafi 1-2-3; commentali e rifletti se nella società in cui vivi questi diritti sono assicurati a tutti.
nucleo
Costituzione
competenza 1, 2
Le opere 2 245
Ludovico Ariosto
T3
Ariosto e la condizione del cortigiano Satira III, vv. 1-72
L. Ariosto, Satire, Einaudi, Torino 1987
Nel 1518 Ariosto era passato al servizio di Alfonso I d’Este, dopo aver lasciato, per le note ragioni (Satira I) il cardinale Ippolito. I versi che presentiamo (tratti dalla prima parte della satira) costituiscono un’eloquente testimonianza della posizione assunta dell’autore nei confronti del “mestiere di cortigiano” e ci forniscono anche un garbato ritratto di Ariosto.
A Messer Annibale Malagucio Poi che, Annibale1, intendere vuoi come la fo2 col duca Alfonso, e s’io mi sento più grave o men de le mutate some3; perché, s’anco4 di questo mi lamento, 5 tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto5, o ch’io son di natura un rozzon lento6: senza molto pensar, dirò di botto7 che un peso e l’altro ugualmente mi spiace, e fòra meglio a nessuno esser sotto8. Dimmi or c’ho rotto il dosso9 e, se ’l ti piace, dimmi ch’io sia una rózza10, e dimmi peggio: insomma esser non so se non verace11. 10
Che s’al mio genitor, tosto che a Reggio Daria mi partorì, facevo il giuoco 15 che fe’ Saturno al suo ne l’alto seggio12, sì che di me sol fosse questo poco ne lo qual dieci tra frati e serocchie13 è bisognato che tutti abbian luoco14,
La metrica Terzine dantesche a rima incatenata: ABA, BCB, CDC, ecc. 1 Annibale: si tratta di Annibale Malaguzzi, cugino di Ariosto. 2 la fo: me la passo. 3 più grave o men de le mutate some: più gravato, o meno, dai nuovi incarichi (mutate some). 4 anco: anche. 5 guidalesco rotto: il guidalesco è una
piaga dovuta all’attrito dei finimenti sui cavalli da tiro o altri animali da soma. 6 rozzon lento: un ronzino malandato, senza fiato. 7 di botto: subito, senza pensarci. 8 fòra meglio a nessuno esser sotto: sarebbe meglio non sottostare a nessuno. 9 rotto il dosso: la schiena rotta. 10 una rózza: un ronzino, un cavallo sfiancato.
246 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
11 verace: franco, sincero. 12 ne l’alto seggio: in cielo. 13 frati e serocchie: fratelli e sorelle. 14 è bisognato che tutti abbian luoco: è servito che tutti trovassero posto. Qui Ariosto si riferisce al piccolo patrimonio familiare usato da fratelli e sorelle per ricavare il necessario per vivere.
la pazzia non avrei de le ranocchie15 20 fatta già mai, d’ir16 procacciando a cui scoprirmi il capo e piegar le ginocchie. Ma poi che figliolo unico non fui, né mai fu troppo a’ miei Mercurio17 amico, e viver son sforzato18 a spese altrui; meglio è s’appresso il Duca mi nutrico19, che andare a questo e a quel de l’umil volgo accattandomi il pan come mendico20. 25
So ben che dal parer dei piú mi tolgo21, che ’l stare in corte stimano grandezza, 30 ch’io pel contrario a servitú rivolgo22. Stiaci23 volentier dunque chi la apprezza; fuor n’uscirò ben24 io, s’un dí il figliuolo di Maia25 vorrà usarmi gentilezza. Non si adatta una sella o un basto solo 35 ad ogni dosso26; ad un non par che l’abbia27, all’altro stringe e preme e gli dà duolo. Mal può durar il rosignuolo28 in gabbia, piú vi sta il gardelino, e piú il fanello29; la rondine in un dí vi mor30 di rabbia. Chi brama onor di sprone o di capello31, serva re, duca, cardinale o papa; io no, che poco curo questo e quello. 40
In casa mia mi sa meglio32 una rapa ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco, 45 e mondo33, e spargo poi di acetto e sapa34, 15 la pazzia non avrei de le ranocchie: allusione alla favola di Esopo in cui le rane chiedono un re a Zeu,s che dona loro una terribile biscia. 16 ir: andare. 17 Mercurio: dio del commercio e del guadagno. 18 sforzato: costretto. 19 nutrico: nutro. 20 accattandomi il pan come mendico: elemosinando il pane come un mendicante. 21 mi tolgo: mi allontano. 22 ’l stare... rivolgo: considerano una condizione prestigiosa vivere a cor-
te, mentre io lo considero una forma di schiavitù. 23 Stiaci: Vi resti. 24 ben: di certo. 25 il figliuolo di Maia: è Mercurio, messaggero degli dei e dio dei commerci e della ricchezza. 26 Non si adatta... dosso: Non tutte le schiene (cioè gli uomini) si adattano alla sella o al basto allo stesso modo. Il basto è “la sella di legno su cui si pone il carico”; qui vale “servitù”. 27 ad un… l’abbia: a uno non sembra di averla (addosso). 28 Mal… rosignuolo: Vive male l’usignolo.
29 gardelino… fanello: cardellino… piccolo fringuello. 30 vi mor: vi muore. 31 onor di sprone o di capello: onori cavallereschi (di sprone) o ecclesiastici (di capello, con riferimento al cappello cardinalizio). 32 mi sa meglio: ha più sapore, mi piace di più. 33 mondo: pulisco, togliendole la buccia. 34 acetto e sapa: aceto e salsa mostarda. La salsa mostarda è una salsa di mosto cotto a base di senape.
Le opere 2 247
che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio35; e così sotto una vil coltre, come di seta o d’oro, ben mi corco36. E piú mi piace di posar le poltre 50 membra, che di vantarle che alli Sciti sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre37. Degli uomini son varii li appetiti38: a chi piace la chierca, a chi la spada, a chi la patria, a chi li strani liti39. Chi vuole andare a torno40, a torno vada: vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; a me piace abitar la mia contrada. 55
Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna, quel monte che divide e quel che serra 60 Italia41, e un mare e l’altro che la bagna. Questo mi basta; il resto de la terra, senza mai pagar l’oste, andrò cercando con Ptolomeo42, sia il mondo in pace o in guerra; e tutto il mar, senza far voti43 quando 65 lampeggi il ciel, sicuro in su le carte verrò, piú che sui legni, volteggiando44. Il servigio del Duca, da ogni parte che ci sia buona, piú mi piace in questa: che dal nido natio raro si parte45. Per questo i studi miei46 poco molesta, né mi toglie onde mai tutto partire non posso, perché il cor sempre ci resta47. 70
35 porco selvaggio: cinghiale. 36 sotto... mi corco: mi corico sotto una modesta coperta, come se fosse un copriletto di seta o trapunto di ricami d’oro. 37 piú mi piace… et oltre: preferisco riposare le mie membra pigre (poltre) piuttosto che vantarmi di essere stato in paesi lontani ed esotici (qui evocati attraverso il riferimento alle popolazioni: Sciti, Indi, Etiopi). 38 li appetiti: i desideri. 39 la chierca... liti: la chierca o chierica è la tonsura portata allora (e fino a tempi recenti) dagli ecclesiastici. Essa simbo-
leggia la carriera ecclesiastica, mentre la spada quella militare; li strani liti: le terre straniere (da scoprire). 40 a torno: in giro. 41 quel monte… Italia: la dorsale degli Appennini (che divide l’Italia in due versanti) e la corona delle Alpi (che la serra, “chiude”). 42 cercando con Ptolomeo: esplorando con l’aiuto di Tolomeo. Costui fu un celebre cosmografo dell’antichità (II sec. a.C.); Ariosto qui allude alle carte geografiche. 43 far voti: rivolgere preghiere (al cielo). 44 sicuro... volteggiando: andrò tran-
248 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
quillamente, muovendomi qua e là, più sulle carte che sulle navi. Legni vale per metonimia “navi”. 45 che dal nido... si parte: il poeta apprezza l’abitudine del duca Alfonso di muoversi poco (raro si parte) da Ferrara (nido natio). 46 i studi miei: i miei interessi, le mie passioni. 47 né mi toglie… ci resta: né mi allontana da quel luogo (Ferrara) dal quale non posso mai separarmi del tutto, perché vi rimane sempre il mio cuore.
Analisi del testo Un’orgogliosa rivendicazione di autonomia intellettuale e di vita Nell’esordio della terza satira, indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi, Ariosto immagina di rispondere a una sua domanda su come si trovi presso il nuovo signore. Il poeta risponde senza pensarci troppo che sarebbe meglio non essere alle dipendenze di nessuno ed essere libero. Da queste terzine della Satira III ricaviamo altre informazioni sulla posizione di Ariosto rispetto alla realtà della corte e alla condizione del cortigiano. Il poeta rivendica innanzitutto la specificità della propria posizione, sottolineandola in modo marcato con l’espressione «So ben che dal parer dei piú mi tolgo»: se l’impiego cortigiano rappresentava per tanti un grande onore e un’ottima sistemazione, per Ariosto invece la dipendenza dalla corte è solo un obbligo imposto da pressanti necessità economiche. La stessa vita dentro la corte è da lui mal sopportata e si protrae sempre con la speranza (che negli ultimi anni della sua vita finalmente si realizzerà) di potersi sottrarre ai riti mondani, allo spettacolo quotidiano delle adulazioni verso i potenti che caratterizzava quell’ambiente. L’autore rappresenta in modo icastico questa “diversità” della propria indole attraverso le metafore relative al mondo animale dei vv. 34-39. I vv. 43-72 delineano la natura dello scrittore, i gusti, la visione del mondo, anche se vi incidono non poco i topoi della tradizione letteraria classica: quello, assai ricorrente, della modestia e povertà del letterato e, più specificamente, il modello oraziano. Anche Orazio, infatti, dichiara di amare un cibo povero e semplice come la rapa. Ne esce l’immagine di un uomo schivo, amante della vita semplice, in un ambiente raccolto e familiare: il fatto che Alfonso I d’Este preferisca restare a Ferrara gli rende meno pesante il servizio presso di lui. Ai viaggi avventurosi e pericolosi il poeta preferisce il viaggio della fantasia, compiuto nell’intimità casalinga, fantasticando sulle carte geografiche.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto delle terzine della Satira III attribuendo a ogni parte individuata dei brevi titoli. ANALISI 2. Dopo aver individuato la tematica principale di questa satira, rintraccia nel testo le espressioni che servono a giustificare la tua risposta. STILE 3. Spiega il significato delle metafore zoologiche usate ai vv. 34-39. Quale implicito giudizio sulla corte puoi ricavare dal riferimento, in un caso al basto e nell’altro alla gabbia? 4. Indica le espressioni che si contrappongono a quelle indicate: casa mia (v. 43) – una rapa (v. 43) – posar le poltre membra (vv. 49-50)
Interpretare
SCRITTURA 5. A proposito del “viaggio sulle carte di Tolomeo”, che sembra prefigurare l’immaginosa geografia dell’Orlando furioso, scrive il critico Giorgio Bàrberi Squarotti: Più che una scelta di vita, l’Ariosto definisce qui una scelta di poetica. Di fronte al poco vero che si può conoscere viaggiando, ecco l’infinito vero che si conquista con il viaggio dell’immaginazione: il sogno è anche per l’Ariosto l’infinita ombra del vero, e pure per l’Ariosto il mondo è infinitamente più esteso immaginando che non lo sia quando poi venga percorso davvero. È la giustificazione del Furioso e delle «corbellerie» che contiene (secondo quanto è voce che dicesse il cardinale Ippolito di fronte al poco apprezzato poema): ma è l’ulteriore e più alta rivincita nei confronti dei “valori” che il mondo riconosce. La vera libertà è quella dell’immaginazione. G. Bàrberi Squarotti, Ludovico Ariosto, Marzorati-Editalia, Roma 2000
Commenta in max 20 righe quest’affermazione del critico Bàrberi Squarotti in relazione ai vv. 61-66 della III satira.
Le opere 2 249
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da L. Caretti, L’opera dell’Ariosto, in Antichi e moderni, Einaudi, Torino 1976
In questa pagina Lanfranco Caretti (1915-1995), uno dei maggiori studiosi della figura e dell’opera di Ariosto, ne tratteggia magistralmente il profilo, invitando i lettori a tenere nel debito conto il contesto socio-culturale in cui il grande scrittore visse e operò.
Una vita per niente avventurosa quella dell’Ariosto, quietamente compartita tra gli affetti e gli obblighi familiari e i cari studi, tra le modeste incombenze di corte e l’amore fedele ad una sola donna; per la maggior parte circoscritta entro le mura di una città («Da me stesso mi tol [toglie] chi mi rimove | da la mia terra, e fuor non ne potrei | viver contento…») e proprio in questo limite, deliberatamente eletto, assaporata con pacata discrezione […]. Una vita, dunque, scevra di colpi di scena e di gesti spettacolari, e tanto gelosamente difesa dall’imprevisto da essere poi per generazioni e generazioni assunta come emblema della placidità saggiamente perseguita, se non addirittura di un’ideale forma di edonistica pigrizia. Una vita siffatta, tale almeno agli occhi di chi l’ha misurata sulla scorta degli avvenimenti esteriori, doveva fatalmente favorire la formazione e quindi la cristallizzazione dell’immagine di un Ariosto non solo sedentario e contemplativo, ma anche furbescamente sornione, scettico e magari epicureo. Questa immagine o deformazione, che lo stesso De Sanctis1 è sembrato autorizzare parlando dell’Ariosto, quale apparirebbe nelle Satire, come di un personaggio da collocare «nella scala de’ Sancio Panza2 e de’ don Abbondio», ha finito poi col provocare, nell’opinione dei critici e nella coscienza dei lettori, una frattura quanto mai artificiosa tra l’uomo e l’artista quasi che il primo avesse bisogno di essere dimenticato perché non risultasse diminuito il fascino della sua opera poetica così potentemente e spregiudicatamente inventiva, così liberamente romanzesca. Di qui s’è generata anche la convinzione che la grande arte ariostesca, quella del Furioso, sia cresciuta in un clima di evasione, come la rivincita della fantasia sopra le ristrettezze del vivere quotidiano, consumato nel commercio delle cose terrene, come l’altra e più vera vita del poeta, tutta pura e incontaminata: la fuga dalla realtà, insomma, il segno smemorato e la perdizione felice. […] In effetti la vita dell’Ariosto, i modi quieti ed urbani di quella esistenza governata con sobria fermezza e tollerante bonomia3, rappresentano una scelta matura e meditata, e non già un pigro arrendersi alla mediocrità, una rassegnata rinuncia ad un diverso e più intenso vivere. Per capire questo occorre non applicare all’Ariosto, uomo della corte rinascimentale ferrarese, nel suo più energico e intenso rifiorire, la mitologia romantica, inaugurata dal Tasso, dell’artista come uomo d’eccezione, come eroe solitario della sventura e del contrastato successo. La verità è che l’Ariosto si manifesta uomo dell’epoca sua proprio nella scelta consapevole di quei particolari modi di vita, apparentemente angusti, perché egli così risolse, con adulta perspicacia, il problema della propria libertà, della difesa intelligente del proprio mestiere 1 De Sanctis: critico letterario e uomo politico, autore di Storia della letteratura italiana (1870). 2 Sancio Panza: personaggio del romanzo Don
250 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Chisciotte di M. Cervantes, scudiero del protagonista Don Chisciotte. 3 bonomia: benevolenza, bontà.
letterario, entro gli unici termini che gli erano obbiettivamente consentiti. Concepire infatti, nell’ambito della vita cortigiana cinquecentesca, forme diverse di indipendenza, gesti di aperta e clamorosa rivolta, è procedimento, a dir poco, tendenzioso e antistorico, quando non addirittura ingenuo e incongruente. Dobbiamo invece persuaderci a riconoscere all’Ariosto la virtù della discrezione, un senso concreto e realistico dell’esistenza: una inclinazione insomma, disincantata e profondamente saggia, a frenare le ambizioni impossibili, a mitigare le passioni troppo accese, a rintuzzare le velleità conturbanti, a elaborare un ideale di vita dominato dal sentimento della misura e dell’equilibrio interiori. Così operando, per una via cioè strenuamente razionale, l’Ariosto mostrava infatti di volere trarre partito4 da qualsiasi situazione, propizia o avversa che fosse, per indagare più da vicino la natura degli uomini, e la verità del proprio tempo, con spirito quanto mai penetrante ed acuto. Egli infatti sapeva, come i suoi contemporanei Machiavelli (soprattutto il Machiavelli dell’esilio di San Casciano) e Guicciardini (il Guicciardini sapientemente “esperto” dei Ricordi), che la conoscenza del mondo si può attuare ovunque la sorte ci collochi, tra i potenti come tra gli umili, nelle città come nelle campagne, nella corte come nei mercati, nei traffici o negli ozi della pace come negli orrori o nelle violenze della guerra. […] Se ci collochiamo in questa prospettiva, che è poi la vera e illuminata prospettiva da cui lo stesso Ariosto, nella pienezza della sua maturità di uomo e di artista, osservò la vita e la traspose poeticamente nel suo poema, potremo capire che questo straordinario artista era tutt’altro che un uomo mediocre e rinunciatario. […] Appare oggi chiaro che la celebrata “armonia” ariostesca5 resta inspiegabile come dato poetico se non si riesce a farla coincidere, dall’interno, con un’armonia d’altro ordine ma non sostanzialmente diversa, e cioè con l’armonia etica, intesa appunto come conoscenza profonda del mondo, del mondo storico degli uomini contemporanei, che l’Ariosto praticò e con i quali convisse, e del mondo universale delle passioni umane ricondotte alla loro legge interiore, alla dialettica complessa che alla fine tutte le chiarisce ed illumina.
4 trarre partito: trarre giovamento, trarre profitto. 5 “armonia” ariostesca: si fa riferimento all’armonia
Comprensione e analisi
Produzione
linguistica che caratterizza il poema Orlando furioso e la rigorosa struttura organizzativa.
1. Sintetizza, nelle sue linee fondamentali, la tesi sostenuta dal critico. 2. Quale tesi intende respingere il critico? Per quale motivo, a suo parere, è fuorviante? 3. Qual è il significato della citazione del giudizio desanctisiano che assimila l’uomo Ariosto a personaggi quali Sancio Panza e don Abbondio? 4. Qual è, per Caretti, l’approccio che consente di interpretare correttamente il rapporto tra la vita e l’opera di Ariosto? Quale funzione ha questo ragionamento all’interno dell’argomentazione? L’esperienza biografica e l’opera di Ariosto testimoniano i vari aspetti della condizione dell’intellettuale cortigiano nel Rinascimento. Prendendo spunto dalle osservazioni proposte da Caretti e sulla base delle tue conoscenze di studio, sviluppa le tue considerazioni circa la complessa posizione di scrittori e artisti nelle corti cinquecentesche. Elabora un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
Le opere 2 251
3
L’Orlando furioso 1 La genesi, le vicende editoriali, la trama
VIDEOLEZIONE
L’Orlando furioso continua l’Orlando innamorato All’inizio del Cinquecento l’eredità del Boiardo viene consapevolmente assunta da Ludovico Ariosto: il suo Orlando furioso inizia proprio da dove si era interrotto l’Orlando innamorato, di cui ben presto eclissa la fama (anche perché adeguato ai nuovi canoni linguistici), imponendosi come il capolavoro assoluto del genere cavalleresco e uno dei grandi classici della letteratura italiana. Quando Ariosto, poeta-cortigiano alla corte estense di Ferrara, inizia la composizione dell’Orlando furioso sa di poter contare sulla presenza di un pubblico già predisposto ad accogliere l’opera con favore. La corte estense aveva infatti già recepito con entusiasmo l’Orlando innamorato di Boiardo, che aveva saputo adattare le antiche vicende cavalleresche al gusto raffinato della corte. Già il titolo di quest’ultimo poema indicava, inoltre, la fusione tra la materia di Francia, legata al tema della guerra santa, sostenuta dai paladini di Carlo Magno, e la materia di Bretagna, caratterizzata dai fascinosi temi della magia, dell’avventura e dell’amore, che anche Ariosto manterrà nella propria opera. La morte di Boiardo (1494) aveva lasciato interrotto il lavoro, aprendo tra i letterati una competizione per raccoglierne l’eredità nei favori del pubblico. Ci furono così vari tentativi di gionte, “aggiunte”, cioè continuazioni, che, come detto sopra, saranno tutte sbaragliate dall’eccellenza indiscutibile del Furioso, inizialmente identificato e letto come una gionta dell’Innamorato. L’Orlando furioso (1516) avrà grande successo, sostituendo la fama del Boiardo nel gusto dello stesso pubblico ferrarese. Un successo che si deve forse alla felice conciliazione tra la ribadita identità cavalleresca del poema, che consentiva ai lettori di ritrovarvi facilmente i personaggi prediletti, il repertorio ben noto di duelli, colpi di scena, magie e, d’altra parte, la prospettiva innovativa con cui Ariosto guarda a quel mondo e consapevolmente lo utilizza, inserendo in un “involucro” ormai inerte i valori della matura e disincantata civiltà rinascimentale. Come osservava Lanfranco Caretti in un celebre saggio, la «vera materia del Furioso non è costituita dalle antiche istituzioni cavalleresche ormai scadute nella coscienza cinquecentesca, ma propriamente da quella moderna concezione della vita e dell’uomo che in ogni pagina del poema è presente». Con la propria opera lo scrittore trasforma il poema cavalleresco in “romanzo contemporaneo”: la materia è soltanto il codice letterario usato per interpretare il proprio tempo, esprimere gli ideali estetici e i modelli ideologici della cultura rinascimentale e al contempo ritrarre la crisi politica e culturale che già investiva la civiltà italiana. Proprio la moderna concezione del mondo che circola in ogni pagina del poema fa dell’Orlando furioso non solo e non più un poema “ferrarese” e “cortigiano”, ma “il poema” del Rinascimento italiano e, ancor più, in quanto specchio della condizione umana di ogni tempo, uno dei grandi classici della cultura europea.
252 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Il poema di una vita. Le tre edizioni L’elaborazione Ariosto dedicò all’opera la maggior parte della propria esistenza, almeno dal 1505 circa fino alla morte, avvenuta un anno dopo la terza e ultima edizione (1532), quando già egli meditava un’altra edizione rivista e accresciuta. Da alcune lettere, e naturalmente soprattutto dalle tre edizioni ufficiali, possiamo seguire la lunga elaborazione del capolavoro. • Dall’ideazione alla prima edizione (1505?-1516) La prima edizione dell’Orlando furioso si colloca nel 1516, ma almeno da una decina d’anni il poeta vi stava lavorando: da una lettera del 3 febbraio 1507 della marchesa Isabella d’Este, sposa di Francesco Gonzaga, inviata da Mantova al fratello cardinale Ippolito, veniamo infatti a sapere che la colta gentildonna aveva già potuto ascoltare dalla viva voce del poeta, ospite in città, brani del Furioso e ne aveva tratto gran piacere, dopo essere stata una quindicina d’anni prima tra le ammiratrici del Boiardo. Quindi in quella data il poema era già in fase di elaborazione, configurandosi fin dall’inizio come gionta all’Orlando innamorato: in questi termini ne parla infatti due anni dopo (5 luglio 1509) Alfonso I d’Este, scrivendo al fratello Ippolito («quella gionta [che] fece m. Lud.co Ariosto a lo Innamoramento de Orlando»). Nel settembre del 1515 il poema è concluso e pochi mesi dopo, il 22 aprile, l’Orlando furioso, in 40 canti, viene stampato. Dopo la prima lettura ai signori Estensi e Gonzaga, il libro di Ludovico Ariosto è immesso sul mercato con gran successo. • La seconda edizione (1521) Dopo la prima fortunata edizione, Ariosto riprende in mano l’opera con l’intenzione di correggerla e forse di ampliarla. In realtà nella seconda edizione il poema rimane inalterato quanto al contenuto (l’aggiunta è di soli 121 versi), mentre le correzioni (peraltro non particolarmente rilevanti sotto il profilo quantitativo: interessano il 10% del totale) riguardano l’ambito lessicale e morfologico. Gli interventi mostrano un’inequivocabile linea di tendenza: Ariosto decide di allontanarsi dalla veste linguistica padana che caratterizza la prima versione del poema, avviando una toscanizzazione della lingua, in linea con la più generale tendenza della cultura letteraria italiana di quegli anni. Se il primo Furioso, linguisticamente parlando, è sostanzialmente un libro «municipale e padano» (come, ancor più, lo era stato l’Orlando innamorato), il secondo Furioso tende a diventare un libro «italiano» (Bologna). • La terza edizione (1532) Alla ricerca di un continuo perfezionamento del proprio capolavoro, Ariosto prepara una terza edizione, accresciuta, questa volta, sotto il profilo del materiale: il nuovo Orlando si arricchisce di nuovi episodi, passando da 40 a 46 canti (i nuovi episodi sono quelli di Olimpia, canti IX-X; della rocca di Tristano, canti XXXII-XXXIII; di Drusilla e Marganorre, canto XXXII; di Ruggiero e Leone, negli ultimi tre canti). Episodi in cui la critica ha notato un cambiamento Una pagina autografa dell’Orlando furioso, con di clima, più cupo e pessimistico rispetto al comle correzioni dell’autore, conservata alla Biblioteca plesso dell’opera, con temi maggiormente legati alla comunale ariostea di Ferrara. Ariosto lavorò alla revisione del suo poema per tutta la vita. realtà contemporanea, nella quale si profilavano nubi L’Orlando furioso 3 253
minacciose (significativi il tema delle armi da fuoco [➜ T9 OL] e la presenza di personaggi malvagi come Cimosco, entrambi nell’episodio di Olimpia). Ma oltre ad accrescere il poema, Ariosto sottopone l’opera a una minuziosa revisione linguistica secondo la codificazione linguistica bembiana: nel 1525 le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo impongono ai letterati italiani un adeguamento della lingua letteraria al modello dei grandi classici del Trecento. Anche Ariosto, come la maggior parte dei letterati italiani, accoglie la norma, toscanizzando l’idioma del poema, ma riservandosi comunque degli ampi margini di libertà. Forse per questo atteggiamento di non stretta osservanza il Bembo, che pure conosceva di persona il poeta e al cui autorevole giudizio Ariosto chiede umilmente nel 1531 di sottoporre l’opera, non pronunciò mai neppure una parola sul libro di cui tutti, in quegli anni, parlavano. Di certo l’abbandono delle forme linguistiche municipali consentì al poema di varcare i ristretti confini ferraresi per inserirsi in un orizzonte nazionale.
La trama dell’Orlando furioso
PER APPROFONDIRE
Un poema dalle «varie fila e varie tele» «All’inizio c’è solo una fanciulla che fugge per il bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa fino a un certo punto: è la protagonista di un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena incominciato». Con queste suggestive parole Italo Calvino – che con l’Ariosto e l’Orlando furioso ebbe sempre un rapporto speciale, fondato su un’affinità intellettuale e letteraria – ci introduce nella fabula del Furioso, indicandone la continuità rispetto all’Innamorato. Concepito come continuazione diretta di questo, l’Orlando furioso inizia proprio dal punto in cui l’Orlando innamorato si era interrotto, cioè con la fuga della bella Angelica, personaggio ideato da Boiardo, figlia del re del Catai (favolosa regione della Cina) dall’accampamento cristiano. La trama dell’Orlando furioso potrebbe ben essere rappresentata dall’immagine della selva, spazio labirintico onnipresente nel poema come teatro di incontri inaspettati e avventure: entrare nell’Orlando significa infatti per il lettore entrare
L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore Dall’ultima edizione del poema restarono esclusi cinque canti, composti da Ariosto in data non sicura, custoditi dopo la morte del poeta dal figlio Virginio e pubblicati per la prima volta nel 1545, come appendice separata dell’opera. La critica ha dibattuto a lungo sulla data di composizione di questo materiale “erratico”, rimasto a margine del lavoro, e sui motivi che indussero l’autore a non inserirlo nel corpo del libro. Si pensa oggi che la stesura dei Cinque canti sia stata avviata tra il 1518 e il 1519, in vista dunque della seconda edizione (1521) del poema, e che vi fu forse una ripresa più avanti. Lo scrittore decise però di non inserirli né nella seconda né nella terza edizione, probabilmente perché si rese conto della sostanziale “diversità” dei cinque canti rispetto allo spirito e al tono fondamentale del Furioso. L’argomento ruota intorno al tradimento di Gano di Maganza, archetipo del traditore, nelle chansons medievali, ai danni di Carlo Magno e dei cavalieri cristiani. Violenze e inganni, con l’intervento di personaggi allegorici negativi, come l’Invidia e il Sospetto, dominano la scena dei Cinque canti fino
254 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
alla battaglia finale tra cristiani e saraceni sotto le mura di Praga: un quadro di sangue e morte sul quale la narrazione si interrompe. Sui Cinque canti ha scritto Lanfranco Caretti, uno dei maggiori interpreti del Furioso: «È un universo privo di luce razionale e di virtù cortesi, disamorato e squallido, dilacerato da torbide e smodate passioni, minacciato a ogni passo dall’arbitraria confusione del caos». Le parole del critico ci aiutano almeno a immaginare le ragioni che possono aver indotto Ariosto a non inserire nel Furioso un materiale che avrebbe incrinato (e inquinato) il clima complessivamente armonico, “leggero”, ironico, del capolavoro. C’è, d’altra parte, chi ha ipotizzato che i Cinque canti, più che episodi da inserire nel Furioso, costituissero il progetto di un nuovo poema destinato a continuare le vicende di Ruggiero dopo il matrimonio con Bradamante.
Testo di riferimento: L. Caretti, Storia dei Cinque canti, in Antichi e moderni, Einaudi, Torino 1977.
in un universo narrativo in cui ci si trova davanti a infiniti percorsi, liberamente intersecati, interrotti e ripresi a distanza. La macchina narrativa è così complessa, la struttura così policentrica e “aperta”, che è difficile (e forse inutile) sintetizzare l’opera. Ci limiteremo dunque a presentare i tre filoni principali all’interno dei quali si articola il complicato intreccio del Furioso e in cui è facilmente collocabile il percorso di lettura proposto.
Jean-Honoré Fragonard, Bradamante cerca di catturare l’ippogrifo, illustrazione per Orlando furioso (1785 ca).
Lessico motivo encomiastico Elemento contenutistico di un’opera che ha come scopo quello di lodare, elogiare, celebrare un determinato destinatario.
La prima ricerca e la follia di Orlando Il principale filone narrativo è costituito dall’“amorosa inchiesta” (la quête della tradizione cavalleresca, la ricerca di un oggetto del desiderio) di Orlando alla ricerca di Angelica, sempre fuggente, che egli ama di un amore puro e assoluto ma non ricambiato e che insegue, dopo aver abbandonato l’esercito cristiano, attraverso molte avventure. La fuga di Angelica, inseguita anche da numerosi altri cavalieri innamorati di lei, sia cristiani (Rinaldo, cugino di Orlando), sia Saraceni (Sacripante, Ferraù), apre l’opera (➜ T5 ) e ne costituisce la principale linea narrativa. Sulla ricerca di Angelica si innesta infatti anche il tema centrale della follia di Orlando, che dà il titolo al poema: dopo molte avventure, incontrate nel suo inquieto errare alla ricerca dell’amata, Orlando scopre casualmente gli amori di Angelica e del soldato Medoro, di cui la donna si è innamorata e di cui è divenuta sposa (➜ T13 ). Da qui lo scatenarsi della follia (➜ T14 ), che trasforma l’eroico paladino in un pazzo violento, incapace persino di riconoscere l’oggetto del suo desiderio (Angelica) quando finalmente gli capiterà di rincontrarlo (➜ T16 OL). Cavalcando l’ippogrifo, il magico cavallo alato, il paladino Astolfo salirà nel Paradiso Terrestre, dove incontrerà san Giovanni Evangelista e quindi sulla Luna dove, in una piccola vallata, si trovano tutte le cose perdute sulla Terra (➜ T17 ). Tra di esse, Astolfo riuscirà a recuperare il senno di Orlando, custodito in una grande ampolla. Riacquistata la ragione, Orlando potrà così tornare da par suo tra le armate cristiane, portandole alla vittoria contro i Saraceni nella battaglia di Lipadusa. La seconda ricerca Bradamante, guerriera cristiana, ricerca tenacemente l’amato Ruggiero, valoroso guerriero saraceno, che il mago Atlante tiene segregato al fine di proteggerlo e impedire il suo fatale destino, letto negli astri dal negromante stesso: la sua morte in battaglia dopo che si sarà fatto cristiano. Una lunga serie di ostacoli, sia voluti dal mago sia fortuiti, si oppone alle nozze dei due, che tuttavia alla fine si realizzeranno dopo la conversione di Ruggiero alla fede cristiana. Un esito necessario, perché dall’unione di Ruggiero e Bradamante trarrà origine la stirpe estense: su questo secondo filone tematico si innesta quindi il motivo encomiastico proprio della poesia legata alla corte. Soprattutto alla seconda “inchiesta” si lega, nell’opera, la presenza della dimensione spiccatamente romanzesca del poema e l’emergere del tema della magia: il mago Atlante (➜ T6a-b OL), la maga Melissa, la maga Alcina e l’isola maliosa dove l’ippogrifo conduce Ruggiero (➜ T8 OL), l’ippogrifo stesso, originariamente “di proprietà” del mago Atlante, l’anello magico (messo in bocca rende invisibili, infilato al dito neutralizza gli incantesimi), la straordinaria ideazione del castello e del palazzo di Atlante finalizzata a proteggere e trattenere Ruggiero (➜ T10 ). L’Orlando furioso 3 255
La guerra tra cristiani e Saraceni e la dimensione epica Funge da “contenitore”, e in un certo senso collega le peripezie dei personaggi, la guerra tra le forze cristiane, guidate da Carlo Magno, e l’esercito saraceno, guidato da Agramante, re d’Africa, e da Marsilio, re di Spagna. L’esercito cristiano si trova in grave difficoltà soprattutto quando Rinaldo e, ancor più, Orlando abbandonano il campo irretiti dall’amore; l’esercito saraceno pone l’assedio a Parigi e semina morte e terrore tra gli avversari soprattutto grazie all’incredibile forza di Rodomonte, tanto che Carlo Magno richiede a Dio un intervento celeste (➜ T11 OL). Ma alla fine saranno i cristiani ad avere la meglio e Agramante stesso sarà ucciso da Orlando, una volta rinsavito, mentre Rodomonte a propria volta sarà ucciso da Ruggiero nel duello che chiude il poema. Al filone tematico della guerra si collega la dimensione epica dell’Orlando furioso, emergente soprattutto nell’ultima parte dell’opera (ma quanto si possa davvero parlare di “epica” nel Furioso è oggetto di discussione fra i critici). L’Orlando furioso non è certo riducibile, come già si è accennato, a questi tre essenziali filoni: se in essi effettivamente convergono personaggi e vicende principali dell’opera, d’altra parte molte volte essi se ne distaccano, creando nuclei narrativi indipendenti che fanno germinare in modo apparentemente spontaneo nuovi episodi.
2 Temi e motivi Le donne… gli amori Un incipit nel nome delle donne Non è certo casuale che l’Orlando furioso si apra proprio con la parola «Le donne» associata, attraverso il celeberrimo chiasmo del primo verso, a gli amori e le cortesie completato dal successivo «l’arme/i cavallier/l’audaci imprese». Nell’ambiente cortigiano le donne rappresentavano il pubblico emergente, in rapporto al ruolo rilevante da esse esercitato nell’organizzazione della vita raffinata della
Sguardo sull'arte La maga Melissa secondo Dossi Dosso Dossi, Circe (o Melissa), 1515-1516 (Galleria Borghese, Roma). Il personaggio, con un turbante e in abiti sontuosi dai colori sgargianti è stato identificato con Melissa, la maga buona che riporta Ruggiero alla retta via e alla fedeltà per Bradamante. Immersa in un paesaggio boschivo, è seduta all’interno di un cerchio in cui sono trascritti simboli che richiamano la Cabala ebraica; nella mano sinistra impugna una fiaccola, mentre con la destra regge una tavoletta con disegni geometrici; il cane accanto alla maga è stato interpretato come simbolo di fedeltà.
256 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
corte, nella promozione e gestione di spettacoli e feste, ma anche nei rapporti con i maggiori intellettuali, come dimostra la figura di Isabella d’Este, intraprendente animatrice di cultura, donna di molteplici interessi, immortalata dal Castiglione nel Cortegiano come prototipo della «donna di palazzo». L’esaltazione della sensuale bellezza femminile Nel poema la bellezza femminile è ritratta senza reticenze o filtri intellettualistici: spesso il corpo femminile è rappresentato senza veli (celeberrimi i due medaglioni speculari dei nudi di Olimpia e Angelica, esposte sullo scoglio all’isola di Ebuda per essere pasto di un’orca marina), con lo stesso atteggiamento di serena ammirazione dei grandi pittori rinascimentali (➜ SGUARDO SULL’ARTE, La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano, PAG. 300), da Tiziano a Raffaello e a Giorgione, a testimonianza di quella piena accettazione e anzi valorizzazione del corpo che caratterizzano ampia parte della cultura del Rinascimento. La dimensione più significativa con cui Ariosto rappresenta l’amore è dunque quella sensuale: degno erede del suo grande predecessore Giovanni Boccaccio, l’autore presenta come naturali l’attrazione dei sensi e l’appagamento fisico. In questo senso lo scrittore si contrappone vistosamente alla tendenza petrarchista-neoplatonica e in genere agli stereotipi letterari dell’amore; anzi, si potrebbe addirittura leggere l’episodio chiave del poema, ovvero la follia di Orlando (➜ T14 ), come critica a un sentimento ossessivamente incentrato su un ideale femminile che non esiste più e che forse non è mai esistito: a dispetto del nome, Angelica non è una Laura-Beatrice ma una giovane scaltra, un po’ calcolatrice, che non accetta di essere passivo oggetto né di adorazione devota (di Orlando), né di concupiscenza (di tutti gli altri). Donerà la propria verginità a un giovane soldato (Medoro) di cui inaspettatamente si innamora e che sposerà, contravvenendo a tutte le regole della tradizione (una donna di nobile lignaggio non può sposare un plebeo). Poi la bella Angelica scompare dal poema, dopo aver a lungo dominato la scena con la propria fuga; come se, svanito il mito dell’irraggiungibilità e trovato l’amore, ella perdesse senso come personaggio. L’ossessione idealizzante di Orlando: una follia “annunciata” Al carattere trasgressivo del personaggio di Angelica si contrappone l’amore di Orlando per lei, la sua fedeltà assoluta non solo alla donna, ma alla tradizione letteraria più illustre della rappresentazione femminile. La sublimazione idealizzante della figura di Angelica, il mito della sua inviolabile verginità di cui Orlando si autoconsacra tutore unico pongono fin dall’inizio il prode paladino in una dimensione psicologica allucinatoria, potenzialmente a rischio di degenerare in follia vera e propria. È lo scarto tra realtà e ideale a scatenare la pazzia, che è in fondo l’esito drammatico del conflitto tra due codici culturali, uno antico e l’altro “moderno”: il codice amoroso delle Laure e delle Beatrici viene dissacrato da Medoro, che racconta con linguaggio petrarchesco come Angelica «nuda giacque» tra le sue braccia; Orlando, portavoce del codice amoroso antico, non può che restarne sconvolto. La follia per amore L’ossessione idealizzante di Orlando si rovescia allora nella furia autodevastante della follia e nella violenza: l’episodio, o meglio, il macroepisodio della sua follia occupa la sezione centrale del poema, costituendone per certi versi il fulcro tematico, e identifica la specifica natura del poema ariostesco nella secolare tradizione cavalleresca. Si tratta, come si è visto, di una “follia annunciata”, destinata inesorabilmente a maL’Orlando furioso 3 257
nifestarsi. E non è priva di significato la “punizione” quasi da contrappasso inflitta a Orlando dal suo autore: lui, che ha posto in cima ai desideri un mito femminile purissimo, una volta impazzito non riconosce Angelica quando finalmente la incontra di nuovo e, in preda a un bestiale istinto carnale, vorrebbe possederla, se Ariosto non la facesse uscire rapidamente dalla scena del poema in modo alquanto sconveniente: a gambe all’aria, in un evidente rovesciamento del “sublime” legato tradizionalmente alla rappresentazione della donna. Ma anche la seduzione sensuale può essere pericolosa... Certo, a sua volta anche l’impulso dei sensi può comportare dei pericoli, quando non è soggetto a una misura razionale: è il caso di Ruggiero, continuamente esposto a un’eccessiva “distrazione”, alla leggerezza contrapposta alla fedeltà assoluta della guerriera Bradamante; l’avventura di Ruggiero all’isola di Alcina (➜ T8 OL) dimostra che l’amore carnale può essere anch’esso pericoloso, in quanto seduzione, destinata a illudere e ingannare. Se Orlando alla fine impazzisce grazie a un banale oggetto “rivelatore” (il braccialetto), Ruggiero invece si ravvede grazie al magico anello, “rivelatore” anch’esso, ma di inganni. Ne segue lo sconvolgente “risveglio” di Ruggiero dalla malìa amorosa, quando il giovane scopre inorridito la reale natura della bellissima maga Alcina, una vecchia decrepita che con arti magiche si presenta giovane e seducente. Allo stesso modo il luogo del piacere, l’isola maliosa di Alcina, rivelerà improvvisamente il suo volto mostruoso, rovesciamento del falso idillio creato dalla maga.
JeanDominique Ingres, Ruggiero che libera Angelica, 1819 (Museo del Louvre, Parigi).
Amori negativi, amori eroici Nell’ampia fenomenologia degli amori del poema, a cui qui non si può che accennare, non mancano amori volubili e fedifraghi come quello di Doralice e di Bireno; ma esistono anche gli amori veramente esemplari, eroici e patetici, segnati dalla sventura, di fronte ai quali anche l’ironico Ariosto si inchina, riservando a essi un registro più elevato. Amori oltre la morte, come quello di Isabella e Zerbino (morto l’amato, Isabella sceglie a sua volta la morte pur di non soggiacere alle brame di Rodomonte) e di Brandimarte e Fiordiligi: morto Brandimarte nella battaglia finale tra Saraceni e cristiani a Lipadusa, Fiordiligi decide di passare la vita in una cella, accanto al sepolcro dell’amato.
I cavallier… l’armi: il tema della guerra Lo smorzamento della dimensione epica La guerra tra cristiani e infedeli, come si è detto, costituisce lo sfondo epico della narrazione. Tuttavia l’ispirazione del Furioso non è mai esclusivamente “epica” (com’è evidente nello stesso celebre episodio di Cloridano e Medoro) a causa della costante tendenza allo smorzamento ironico e alla ricerca del tono medio che caratterizza il poema (➜ T12 ). Persino quando rappresenta la morte, in battaglia o nei duelli, raramente Ariosto indulge al tono tragico, preferendo l’alternanza di registri diversi anche all’interno di una stessa scena. Del resto nel Furioso mancano gli elementi costitutivi del genere epico: non c’è assolutamente contrapposizione sul piano assiologico (cioè dei valori) fra i due schieramenti che si affrontano, come ad
258 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
esempio troviamo nella Chanson de Roland. La guerra “santa” è una memoria remota nel poema laico del Rinascimento e Ariosto si guarda bene dal proporre una prospettiva anacronistica; cristiani e Saraceni sono del tutto interscambiabili: i primi non sono affatto connotati come rappresentati della “giusta parte”, come nella Chanson e come avverrà nuovamente nella Gerusalemme liberata (1575), nel clima ideologico della Controriforma. Anzi, nel celebre episodio sopra citato di Cloridano e Medoro i due eroi della storia sono due oscuri soldati saraceni che, sprezzanti del pericolo, con gesto cavalleresco decidono di recuperare il corpo del loro re Dardinello per dargli degna sepoltura. Al contrario, l’accampamento cristiano che i due giovani attraversano è ritratto, impietosamente, immerso nel sonno e nell’ebbrezza, non senza qualche spunto di comicità: una rappresentazione evidentemente “abbassata” e antieroica. A ben vedere però, mancano addirittura nel poema ariostesco gli eroi propri della tradizione epica: quelli che potenzialmente avrebbero tutti i titoli per esserlo, Orlando in primis, si rivelano a loro volta manchevoli, deboli, preda di irrazionali passioni, addirittura capaci di dimenticare i sacri doveri verso la patria e il sovrano per inseguire una donna.
La dimensione del “meraviglioso”
Fabrizio Clerici, Orlando contro le genti di Cimosco, litografia, Electa, 1967, Milano.
Un tema “bretone” In relazione al “romanzesco”, ereditato dalla materia di Bretagna, anche nell’Orlando furioso è presente il tema della magia, che Ariosto maneggia con grande sapienza narrativa e che concorre non poco al piacere intrigante della lettura. Fin dal primo canto si accenna al motivo delle «fontane dell’amore e del disamore», bevendo alle quali ci si innamora o disamora; ma è nel secondo che, attraverso una presentazione indiretta (il racconto di Pinabello a Bradamante), entra in scena il protagonista “magico” del poema: Atlante con il suo cavallo alato, l’ippogrifo («e ritrovai [...] armato / un che frenava un gran destriero alato» [II 37, 7-8]). Un ingresso che anticipa e prepara la più scenografica apparizione del mago nel canto IV (➜ T6a OL): l’oste della locanda, gli avventori, i servi, tutti accorrono alla finestra per godersi l’inusitato spettacolo del mago che passa, alto nel cielo, in groppa all’ippogrifo, per poi calarsi verso un varco fra alte montagne. Una magia “naturale” Con assoluta naturalezza Ariosto passa dalla dimensione del reale a quella del magico e viceversa: nel mondo del Furioso è “naturale” che un cavallo alato solchi il cielo o che un cavaliere esca tutto armato dall’alveo di un fiume e si metta a rimproverare chi gli ha sottratto l’elmo (I, 26-30). Nell’introdurre l’elemento del “meraviglioso”, Ariosto non cambia infatti tono, ma mantiene l’abituale andamento discorsivo, pacato, medio, a volte addirittura dimesso: non c’è nella “voce” del narratore nessun indizio che quanto sta per narrare è insolito, nessuna concessione a elementi emozionali per attivare nel lettore il senso inquietante del mistero, del soprannaturale. Che le due fontane dell’amore-disamore producano strani effetti in chi beve alle loro acque è presentato come normalissimo: le loro magiche prerogative sono indicate con realismo, come se si trattasse di «una cartella clinica di due acL’Orlando furioso 3 259
que minerali» (G. Almansi); che la maga Alcina peschi pesci piccoli e grandi senza ami né reti è presentato con sconcertante disinvoltura: «Alcina i pesci uscir facea dell’acque / con semplici parole e puri incanti» (VI 38, 1-2). Ad Ariosto preme mantenere in ogni caso il ritmo fluido della narrazione, che non intende interrompere neppure per sfruttare la sorpresa. «Il poeta del meraviglioso» per eccellenza, scrive il critico Guido Almansi, «rifiuta una voce meravigliosa», alludendo con questa espressione a particolari scelte narratologiche e stilistiche che avrebbero potuto connotare la narrazione nei momenti in cui, appunto, irrompe il meraviglioso.
Luoghi-simbolo: la selva, il palazzo di Atlante, il valloncello della Luna I nuclei fondamentali dell’immaginario poetico del Furioso Nell’Orlando furioso sono evocati alcuni luoghi che, per la forte rilevanza simbolica che assumono, costituiscono dei nuclei fondamentali nell’immaginario poetico dell’opera e sono rappresentativi della visione del mondo ariostesca. Proprio questi luoghi-simbolo ci dimostrano come Ariosto non sia (come è stato a lungo presentato) il poeta dell’evasione fantastica volta a compensare le meschine frustrazioni della sua vita quotidiana, ma uno scrittore che pone, anzi, al centro del proprio lavoro la riflessione pensosa e critica sulla vita e sul suo significato, che traduce in ideazioni fantastiche di grande impatto sul lettore: • La selva-labirinto Fin dal primo canto, e anzi soprattutto in esso, emerge in primo piano la selva come teatro dell’azione narrativa, perché è in essa che i personaggi molto spesso si incontrano e si perdono (➜ T5 ). Uno scenario che non ha nulla di realistico, ma è in un certo senso un fondale “di cartapesta”, edificato su precedenti topoi letterari: il bosco è lo scenario pauroso delle fiabe ma soprattutto è, nei romanzi arturiani, il luogo per eccellenza dell’avventura cavalleresca e si connotava, anche al tempo dell’Ariosto, come il luogo in cui fare incontri inaspettati e smarrirsi. La selva è il luogo-simbolo «ove la via / conviene a forza, a chi va, fallire: / chi su, chi giù, chi qua, chi là travia» [XXIV 2, 3-5]). Ariosto non conferisce, però, alla selva una simbologia morale negativa, come avviene per quella «oscura» in Dante, ma ne accentua il carattere labirintico: nella selva ariostesca la ricerca dell’uomo è pericolosamente soggetta all’arbitrio della Fortuna, che per lo più vanifica i suoi sforzi. • Il castello dei desideri All’immagine della selva rimanda la straordinaria, affascinante ideazione del palazzo di Atlante (➜ T10 ), di cui Ariosto sottolinea inequivocabilmente il ruolo di centrale metafora del poema: ne rimarca infatti il carattere labirintico, il legame con i desideri illusori dell’uomo, sedotto dall’illusione di aver trovato chi o che cosa cerca. Orlando crede di riconoscere l’amata Angelica in una donna rapita da un cavaliere, Ruggiero crede di vedere Bradamante e anche quest’ultima, a sua volta alla ricerca incessante di Ruggiero, è attirata nel castello incantato dalla magia di Atlante. Il palazzo svela facilmente la sua natura di specchio simbolico dei vani desideri degli uomini, è immagine anche troppo eloquente del loro aggirarsi confusi e sperduti nel labirinto della vita, facili prede di allettamenti ingannevoli che li portano fuori dalla strada maestra. • Il vallone della Luna Il terzo, fondamentale, luogo simbolico del poema è il piccolo vallone sulla Luna dove Astolfo ritroverà il senno di Orlando (➜ T17 ). Attraverso una lunga enumerazione, Ariosto rappresenta in esso tutto ciò che si perde
260 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
sulla Terra e che va appunto ad accatastarsi nella piccola valle lunare. Il poeta del Furioso rovescia i temi-cardine dell’antropocentrismo umanistico, di cui rivela la sostanziale vanità, e pronuncia indirettamente anche una dura condanna dell’esperienza cortigiana. Dal lungo elenco è assente solo la follia, che non si trova sulla Luna, ma regna incontrastata sulla Terra: con questa sorta di apologo che è la sequenza lunare del Furioso, l’autore allinea l’opera a un testo importante dell’Umanesimo, ossia l’Elogio della follia di Erasmo (➜ C6 T3 ).
3 Le modalità narrative L’“inchiesta” e la visione ariostesca della vita umana Tra schema narrativo e tema L’Orlando furioso è stato definito da più parti «il poema del movimento»: effettivamente il ritmo dell’azione non ha soste e un forte dinamismo percorre tutto il libro, che raramente indugia in pause descrittive, se non per rilanciare l’azione. Non è un caso, allora, che l’elemento determinante nel promuovere le azioni del Furioso sia l’“inchiesta”, ovvero la ricerca (dal francese quête) di qualcuno, ma anche di qualcosa, come l’elmo o il cavallo Baiardo nel I canto o, in seguito, le armi di Orlando. Come si è visto dalla trama del Furioso, l’“inchiesta” è alla base dei due principali filoni narrativi del poema. Non si tratta certo di un elemento nuovo, di un’invenzione ariostesca. Nuova è, però, la particolare rilevanza che il tema-schema dell’“inchiesta” assume nel Furioso, e soprattutto la reinterpretazione che Ariosto ne fa, come del resto avviene per altri motivi ereditati dal passato: mentre nella tradizione arturiana le diverse quêtes raggiungevano la loro finalità e implicavano, come nel caso di quella del Graal, un cammino di perfezionamento spirituale del personaggio, nell’Orlando furioso per lo più l’attesa connessa all’inchiesta viene delusa e frustrata per l’intervento della Fortuna (sorte) o viene abbandonata per l’inserirsi di altre inchieste che attirano il labile interesse dell’uomo. Tutti i personaggi desiderano e ricercano qualche cosa: una donna, l’uomo amato, un elmo, una spada; ma l’inchiesta, la ricerca, risulta sempre fallimentare: nessuno ottiene mai ciò che cerca. Ancor più distante dall’Orlando furioso appare il modello della ricerca tracciato nella Commedia di Dante: l’inchiesta dantesca raggiunge alla fine l’obiettivo, in un percorso lineare, privo di ripensamenti e deviazioni. Dante realizza un difficile cammino di perfezionamento morale e conoscitivo, ponendosi alla fine di esso, nel momento di scrivere il poema, come maestro di sicure verità per il lettore, mentre nel Furioso manca completamente la dimensione trascendente e qualsiasi prospettiva provvidenziale. La Fortuna Nel Furioso non domina il disegno divino, ma l’azione della sorte imprevedibile e capricciosa. L’uomo descritto da Ariosto non combatte il destino, ma ne rimane vittima. A differenza di quanto accade ancora in Machiavelli, manca in Ariosto la fiducia nelle capacità dell’uomo di opporsi alla forza della Fortuna. La ricerca e l’interpretazione ariostesca del mondo L’emergere in primo piano del tema della ricerca e il suo carattere rigorosamente laico sembrano alludere simbolicamente alla moderna inquietudine intellettuale dell’uomo rinascimentale, L’Orlando furioso 3 261
all’abbandono del sapere e dell’etica tradizionali in favore di una sperimentazione che porterà ben presto anche alla nascita della scienza moderna. La concezione della realtà rispecchiata dal complesso delle vicende del poema è, dunque, sostanzialmente negativa: l’iniziativa individuale e la razionalità umana, così celebrate dalla cultura umanistico-rinascimentale, sono infatti costantemente messe alla prova dall’irrompere del caso, che spesso vanifica i progetti e i desideri degli individui. Per di più l’uomo insegue fantasmi illusori, è soggetto a pulsioni irrazionali che condizionano negativamente le sue azioni, limitandone la razionalità. Questa visione serpeggia in tutto il poema, ma è più evidente in alcuni episodi che assumono particolare rilevanza simbolica: è il caso del celebre episodio del palazzo di Atlante (➜ T10 ), dove tutti i cavalieri, preda di una magica fascinazione, inseguono l’oggetto del proprio desiderio senza mai poterlo raggiungere; ma soprattutto è il caso del macroepisodio della follia d’Orlando (➜ T14 ), che dà il titolo al poema e ne costituisce la principale novità rispetto alla tradizione e rispetto al modello più diretto, ovvero l’Orlando innamorato. La vita umana è dunque segnata dal miraggio di una felicità sempre irraggiungibile, quando addirittura non lo è dalla follia, cui approda la ricerca di Orlando, manifestazione estrema dell’irrazionalità che governa la vita degli individui. Se si considera il carattere elusivo o addirittura distruttivo della ricerca, il poema rovescia le ottimistiche fiducie antropocentriche proprie della cultura fino a quel momento. Un riscatto grazie al distacco ironico e al controllo formale Ma questa visione pessimistica è riscattata dal sorridente distacco ironico che aleggia nel Furioso, frutto di un equilibrio interiore faticosamente conquistato dall’autore, che implica un’accettazione della vita pur nella sua negatività: l’«energia dinamica» (Caretti), che percorre tutta l’opera e coinvolge tutti i personaggi, può allora significare la volontà dell’uomo di agire nonostante tutto, affrontando le inevitabili frustrazioni che lo attendono: una lezione di saggezza ed equilibrio tuttora attuale e che trova il suo corrispettivo formale nella capacità di dominare, secondo i canoni del classicismo, la propria materia, dandole una forma equilibrata e armonica. L’entrelacement. Varietà e simmetrie Con entrelacement (“intreccio” in francese) si intende un espediente narrativo usato nella tradizione cavalleresca che consiste nell’interrompere una vicenda per riprenderne una precedente o per narrarne un’altra, che poi a sua volta viene interrotta per ritornare a concludere un episodio precedente e così via. Legato alla trasmissione orale, serviva a tener desta l’attenzione del pubblico e per questo in genere veniva impiegato nel punto in cui «l’azione aveva una sosta o l’interesse s’era raffreddato» (Rajna). Ariosto eredita il procedimento e ne intensifica vistosamente l’uso rispetto a Boiardo e alla tradizione romanzesca, ma al solito mutandone la funzione all’interno di una più sofisticata tecnica narrativa, come vari studi recenti hanno puntualmente dimostrato. L’entrelacement dovette costituire ai suoi occhi «uno strumento privilegiato per la rappresentazione veridica della molteplicità del reale, della varietà delle azioni e degli accadimenti» (Marco Praloran), uno strumento per creare una dimensione multiprospettica attraverso la conduzione in parallelo di diverse fila narrative. La critica ha provato che al di sotto delle continue interruzioni e riprese che animano la complessa macchina narrativa del Furioso sta una precisa strategia registica, volta a istituire fra interi episodi e singole sequenze calcolate simmetrie,
262 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
significativi parallelismi e opposizioni. La coesione del poema è assicurata inoltre, a livello microtestuale, dalla presenza, evidenziata da alcuni studi critici (come nel caso di Maria Cristina Cabani), di un fitto tessuto di richiami lessicali, ritmici, fonici a distanza. La varietà di episodi e di storie, in parte intrecciate tra di loro, ha certo a che fare con l’obiettivo di evitare la monotonia, ma soprattutto con il desiderio di dare vita a un poema “totale”, secondo un ambizioso progetto che colloca il Furioso accanto a grandi capolavori come la Commedia o il Decameron.
“Strani viaggi”: il modello spaziale del poema La “poesia dello spazio” La geografia del poema è incredibilmente vasta e leggendo l’Orlando si intuisce che Ariosto amava fantasticare sulle carte geografiche, come dice in una delle satire (➜ T3 ): si va dalla Francia alle brume dei mari del Nord, dall’Oceano Indiano all’Estremo Oriente; ma lo spazio si dilata ulteriormente (essendo un’entità essenzialmente antirealistica) verso dimensioni fantastiche: l’isola di Alcina oltre le colonne d’Ercole, gli spazi dell’Oltremondo nel viaggio di Astolfo. Lo strumento principe delle più fascinose e vertiginose escursioni ariostesche, come quelle appena indicate, è l’ippogrifo. «La poesia dello spazio», di cui ha parlato il critico Giovanni Getto, nasce in gran parte nel Furioso dai voli di questo animale. Memorabile in particolare la descrizione del volo del cavallo alato verso l’isola di Alcina (nel canto VI): l’ippogrifo si lascia indietro l’Europa e le terre conosciute fino a discendere, dopo aver varcato le colonne d’Ercole, con ampie ruote, nello spazio magico dell’isola (➜ T8 OL).
Ruggiero affronta il servo di Alcina, maiolica, 1550 ca. (Museo d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo).
Un modello spaziale policentrico e labirintico Per quanto riguarda il modello spaziale sotteso al poema, si può dire che l’Orlando furioso sia un’opera senza “centro” (non esercita certo questo ruolo simbolico Parigi, dove pure si combatte l’epica guerra tra cristiani e Saraceni) o policentrica: i molteplici luoghi evocati sono centri solo temporanei dell’azione, a cui manca ogni principio teleologico, finalistico, nel continuo mutare delle direttrici. L’inchiesta inconcludente si traduce in un movimento circolare che non giunge mai a destinazione e ritorna sempre al punto di partenza. Questo moto è reso, nel testo, mediante formule che Ariosto utilizza spesso: «di su, di giù», «or quinci, or quindi», «di qua, di là» (Carne-Ross). La concezione dello spazio nel Furioso è prevalentemente “orizzontale” e labirintica, del tutto opposta al modello spaziale che si può individuare nella Commedia, il poema del medioevo cristiano, in cui lo spostamento del protagonista, dopo l’iniziale smarrimento nella selva, assume una direzione rigorosamente “verticale” e rettilinea, che non ammette deviazioni. Quarant’anni dopo l’Orlando furioso, nel mutato clima ideologico della Controriforma, nella Gerusalemme liberata si ripresenterà una concezione della modellizzazione spaziale fortemente connotata in senso morale: il centro è chiaramente stabilito in Gerusa-
L’Orlando furioso 3 263
lemme, dove si combatterà nuovamente una vera e propria guerra santa, e ogni deviazione da essa sarà connotata come “errore” e deviazione spirituale. La selva Metafora dello spazio labirintico è sicuramente la selva, che fa da sfondo al primo canto e a molti altri episodi: uno spazio intricato in cui i sentieri si intersecano e si aggrovigliano, e dove i personaggi si muovono alla ricerca del proprio oggetto del desiderio guidati dalla volontà della Fortuna.
I personaggi e il narratore Personaggi-funzione dell’azione Noi lettori moderni tendiamo a cercare nei personaggi risvolti psicologici reali, magari per immedesimarci nelle loro vicende. Nell’Orlando furioso i personaggi mancano di spessore psicologico (ovviamente per precisa scelta e non per incapacità dell’autore) e vivono di una vita di relazione all’interno del complesso scacchiere narrativo: è anche questa la ragione per cui né Orlando, né tanto meno Angelica si possono definire protagonisti del poema. I personaggi sono utilizzati dall’autore esclusivamente in funzione dell’azione e del ritmo narrativo che rispecchia il ritmo della vita, sono mossi a piacimento dal gran “burattinaio” che è il poeta, sono in un certo senso enti “agiti” più che “agenti”. Con essi lo scrittore stabilisce un rapporto che è comunque di distacco ironico e mai di immedesimazione e rispecchiamento, anche quando collega le loro vicende alle proprie. «L’Ariosto», scrive Caretti, «non mirava a figure autonome, alla creazione di caratteri veri e propri, né in senso obiettivamente realistico né come riflesso […] della propria autobiografia. Egli intendeva piuttosto creare delle figure che, di volta in volta, riflettessero soltanto un aspetto tipico della natura umana. [...] Agiva dunque nei confronti dei personaggi con intenti riduttivi e semplificatori». Questa scelta evita che essi si rinchiudano troppo a lungo in sé stessi, bloccando il movimento narrativo e concentrando sul proprio “caso” tutta l’attenzione del lettore: attenzione che Ariosto vuole condurre sempre oltre, verso nuove avventure.
Lessico metanarrativo Tutto ciò che riguarda la metanarrazione, ossia il processo narrativo attraverso il quale l’autore interviene direttamente nel testo che ha realizzato per parlare proprio di quest’ultimo.
Gli interventi del narratore e la presenza straniante dell’ironia Come aveva già fatto Boiardo, anche Ariosto cerca di ricreare, narrando, un’impressione di oralità, come se l’Orlando fosse una sorta di “racconto recitato” davanti a un pubblico, quello della corte, a cui il narratore si rivolge spesso direttamente e che viene immaginato non tanto nell’atto di leggere quanto di ascoltare. Una finzione riconducibile alla tradizione orale della materia cavalleresca; ma naturalmente Ariosto, come autore, è abissalmente distante dall’ingenua posizione dei canterini e dallo stesso Boiardo. Innanzitutto esibisce la sua funzione registica di narratore onnisciente attraverso costanti interventi metanarrativi , che evidenziano l’utilizzazione consapevole dell’entrelacement: «Signor, far mi convien come fa il buono / sonator sopra il suo instrumento arguto (melodioso), / che spesso muta corda, e varia suono, / ricercando ora il grave, ora l’acuto. / Mentre a dir di Rinaldo attento sono, / d’Angelica gentil m’è sovenuto, / di che lasciai ch’era da lui fuggita/ e ch’avea riscontrato (incontrato) uno eremita» (VIII 29). Ma più interessanti, e indice primo della “modernità” del poema, sono i molteplici interventi ironici sulla materia narrata, che infrangono deliberatamente la finzione narrativa, introducendo una nota critico-riflessiva: ad esempio, a proposito della verginità di Angelica, che la giovane sostiene, davanti al guerriero saraceno Sacripante, di aver preservato intatta, il narratore-autore commenta: «Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore» (I 56, 1-2). Il lettore è così
264 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
guidato ad assumere quello stesso atteggiamento di distanziamento dalla materia, dall’“involucro” cavalleresco, che caratterizza lo scrittore: Ariosto era infatti ben consapevole che una lettura “ingenua” del suo poema, cioè fondata sull’adesione acritica al piacere della lettura, avrebbe impedito di coglierne la ricchezza e soprattutto l’attualità. È quasi superfluo, dato che si tratta di un’acquisizione ormai pluridecennale della critica, sottolineare che l’ironia non si applica affatto al mondo cavalleresco in sé con l’obiettivo di svalutarlo. Per il lettore di oggi è ormai chiaro che quella cavalleresca è solo un’affascinante “veste”.
4 Le scelte stilistico-linguistiche e metriche
PER APPROFONDIRE
Un classico “leggibile” Come si è visto, nel passaggio dalla prima alla terza edizione Ariosto normalizza la fonetica, la morfologia e il lessico, conformandoli al modello del toscano letterario. L’adesione alla proposta di Bembo presumibilmente non è dettata da un’esigenza di purismo classicistico, come avviene per tanti altri scrittori del tempo, ma corrisponde alla volontà di Ariosto di sottrarre il suo poema alla sfera della “letteratura di consumo”, nobilitandone la veste linguistica, e soprattutto di inserirlo nel circuito di una comunicazione nazionale e non più solo municipale; questo va detto anche in rapporto al mutare del quadro politico italiano nello scenario internazionale, che vedeva la progressiva perdita di autonomia politica e di prestigio delle corti. D’altra parte il poeta si riserva ampia libertà di scelta, lavorando «con orecchio di poeta, non con rigore di grammatico» (Segre), e cioè seguendo più le intrinseche esigenze poetiche che quelle normative. La lingua del Furioso che esce dalla terza e ultima redazione è una lingua equilibrata, che rinuncia in genere alle punte eccessivamente auliche e a quelle troppo “basse”, ma all’occorrenza può accogliere latinismi (anche se mai per ragioni erudite) così come voci realistiche quali matto, attribuito niente meno che al paladino per eccellenza, Orlando, o calcagna, associato alla bella Angelica, eroina del poema. Una lingua ispirata alla “medietà”, che Ariosto tenacemente ricerca, come ha evidenziato l’analisi di Contini, attraverso il faticoso lavoro correttorio sul suo poema. La medietà linguistica si iscrive nella più generale medietà tonale: Ariosto non si sofferma mai a lungo su un unico tono – sia esso patetico, epico, lirico – ma tende a bilanciarlo attraverso una differente modulazione, così da realizzare quell’equilibrio che ben corrisponde alla sua visione della vita.
Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore In questa stessa prospettiva si collocano gli esordi dei vari canti, anch’essi tradizionalmente presenti nella tradizione cavalleresca e di cui Ariosto rivisita la funzione. Sono infatti spazi testuali spesso deputati proprio all’attualizzazione del poema, in cui lo scrittore riconduce la favola antica ai temi della coscienza moderna. A titolo di esempio si può ricordare l’intervento dell’autore-narratore all’inizio del canto VIII: dopo che Ruggiero, grazie all’anello magico, riesce a vedere le reali fattezze dell’incantatrice Alcina, che l’aveva ammaliato con le sue arti (VII), il poeta fa dell’oggetto una sorta di metafora della ragione che tutti gli uomini dovrebbero impiegare:
«Oh quante sono incantatrici, oh quanti / incantator tra noi, che non si sanno! [...] Chi l’annello d’Angelica, o più tosto / chi avesse quel de la ragion, potria / veder a tutti il viso, che nascosto / da finzione e d’arte non saria» (VIII, 1-2) Ma gli esordi dei canti sono anche spazi in cui Ariosto risalta in primo piano come persona, spazi autobiografici in cui garbatamente, con il tono scherzoso e autoironico che gli è proprio, riconduce la storia del poema alla propria stessa vita, come dopo il recupero del senno di Orlando da parte di Astolfo (XXXV, 1-2): «Chi salirà per me, madonna, in cielo, / a riportarne il mio perduto ingegno?».
L’Orlando furioso 3 265
online
Interpretazioni critiche Cesare Segre La ricerca di armonia nel Furioso
Nel complesso la lingua del Furioso è una lingua armonica (ed è forse questa la più autentica “armonia” del poema), unico esempio, nella sua scioltezza colloquiale, nella più illustre tradizione letteraria italiana, di un libro che anche uno studente liceale può leggere con piacere, senza continui faticosi rimandi a note esplicative: un libro che si fa capire e amare. L’ottava d’oro Con questa tradizionale definizione si allude alla “magica” ottava del Furioso, che con la sua proverbiale fluidità sostiene il ritmo narrativo che caratterizza il capolavoro ariostesco. Ariosto adotta come metro l’ottava (otto endecasillabi che rimano secondo lo schema ABABABCC) per naturale eredità della tradizione narrativa: l’ottava si era infatti ormai da tempo affermata come forma metrica tipica del narrare lungo in versi, dai cantari popolareggianti ad autori colti, a partire dal Boccaccio del Filostrato fino al Boiardo dell’Orlando innamorato e al Pulci del Morgante. Ma anche nell’ambito metrico, come in quello linguistico, Ariosto reiventa e innova, allontanandosi da ogni schematismo e creando uno strumento perfettamente duttile e funzionale alla propria poetica narrativa: i documenti autografi rivelano, anche in questo campo, un attento lavoro di revisione dalla prima all’ultima edizione del poema. Ariosto utilizza con sorprendente sapienza tecnica, anche se con apparente naturalezza, soprattutto i due ultimi versi dell’ottava, in rima baciata; spesso i due versi che chiudono l’ottava, o l’ultimo dell’ottava, sono impiegati con funzione dinamica: introducono un fatto nuovo e/o rilanciano in avanti il ritmo narrativo. Ecco alcuni esempi (tutti tratti dal I canto):
Di sù di giù, ne l’alta selva fiera tanto girò, che venne a una riviera. (ott. 13) con prieghi invita, ed al fin toglie in groppa, e per l’orme d’Angelica galoppa. (ott. 21) Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge. (ott. 32)
Talvolta i due ultimi versi sigillano l’ottava con una sentenza spesso ironica. A proposito, ad esempio, dell’accorata attestazione della propria verginità da parte di Angelica e della credulità di Sacripante, Ariosto così chiude l’ott. 56 del I canto:
Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole.
266 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da G. Petronio, Un libro godibilissimo in La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio, Mondadori, Milano 1995, vol. II
Nel breve passo che segue, Giuseppe Petronio sottolinea le ragioni per cui l’Orlando furioso è ancora oggi un libro di lettura agevole e piacevole, ma rileva anche che la sua apparente facilità è frutto di faticosa ricerca da parte dell’autore.
L’Orlando furioso è un libro godibilissimo; si può leggerlo, ancora oggi, a quasi cinque secoli dalla sua composizione, come un vero e proprio romanzo: storie affascinanti, un’arte consumata dell’intreccio, un’abilità rara nell’uso della suspense, cioè dell’arte di stuzzicare l’interesse del lettore, portarlo al massimo, e qui interrompere e rinviare il racconto. E inoltre uno stile di chiarezza cristallina, con il gusto della semplicità, e la capacità – naturale ma anche coltivata – di dire cose ingarbugliate con una facilità che incanta, e una lingua che ancora oggi è comprensibile anche a lettori di media cultura. Un libro dunque godibilissimo, di lettura agevole, eppure un libro difficile; difficile proprio perché in apparenza così facile. Non è un paradosso: si ricordi la pagina in cui il Castiglione elogia la «grazia» e la «sprezzatura»1, un comportamento studiato che però non lasci trasparire lo studio; così sciolto e misurato che non riveli l’impegno. È questo a distinguere il cortegiano, vero signore, dallo snob che esaspera l’eleganza fino al ridicolo, e dal cafone che faticosamente si affanna a mostrare una signorilità che non gli è congeniale. La stessa virtù Orazio2, il massimo maestro del classicismo, aveva celebrato nella scrittura; i versi grandi, aveva insegnato, sono quelli che a leggerli si pensa che ognuno li avrebbe potuti scrivere, e invece non poteva scriverli che Lui, il grande poeta. Mettere insieme versi manieristici, concettosi, ermetici3, non è difficile; difficile è scrivere, come Dante, la bocca mi baciò tutto tremante; o, come Ariosto, La verginella è simile alla rosa; oppure, parlando del senno: era come un liquor sottile e molle, atto a esalar se non si tien ben chiuso; o intonare, con orchestrata semplicità: Chi salirà per me, Madonna, in cielo, a riportarne il mio perduto ingegno? 1 si ricordi... la «sprezzatura»: Petronio fa qui riferimento a una celebre pagina del Cortegiano, fortunatissimo trattato cinquecentesco di Baldesar Castiglione, in cui si elogia come qualità del perfetto cortigiano la «sprezzatura», termine con cui Castiglione allude all’arte elegante di far apparire naturale
in un gesto, in un comportamento, ciò che è invece frutto di consapevole ricerca. 2 Orazio: uno dei maggiori poeti latini (65-8 a.C.), autore di Satire, Odi ed Epistole. 3 manieristi... ermetici: artefatti, cervellotici, oscuri.
L’Orlando furioso 3 267
Chi non ci crede ci provi! Ma è proprio la loro felice semplicità a fare difficilissimi questi versi, perché chi non ha naso e orecchie fini si inganna, li crede superficiali, e non si ferma a cercare le tante cose che essi nascondono sotto quella loro disinvolta scioltezza, così come chi non è naturalmente signore si lascia abbagliare da abiti sgargianti e da maniere artefatte, e non si rende conto delle doti naturali e dello studio che invece si nascondono dietro abiti e modi così apparentemente semplici che non si notano, e non vogliono farsi notare. Così le avventure leggendarie e fiabesche che l’Ariosto racconta nell’Orlando furioso – castelli incantati, magie di fontane e di anelli, duelli rocamboleschi, smarrimenti e fughe, innamoramenti subitanei e disinnamoramenti – sono solo la scorza dietro cui è nascosta la realtà umana di Ludovico Ariosto: le passioni, le aspirazioni, le frustrazioni sue e di tutta una età.
Comprensione e analisi
Produzione
1. Qual è la tesi sostenuta nel testo proposto dal critico Petronio? 2. Quali argomentazioni adduce il critico nel sostenere la sua tesi? 3. Nel brano ricorre più volte il termine studio e derivati: spiegane con le tue parole il significato in contesto. 4 Che cosa si nasconde, secondo Petronio, dietro le avventure che racconta Ariosto? Ti sembra che il modello dell’Orlando furioso, per struttura e tematiche, abbia tuttora una vitalità? In questo caso, in quali attuali prodotti letterari o cinematografici ti sembra di poterlo ritrovare e perché (max 30 righe)?
Ruggiero a cavallo dell’ippogrifo (particolare) in un’incisione di Gustave Doré per l’edizione illustrata dell’Orlando furioso.
268 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
L’Orlando furioso GENERE
poema cavalleresco in ottave
PUBBLICO
• corte di Ferrara • pubblico nazionale (corti rinascimentali)
STRUTTURA/ EDIZIONI
Ariosto pubblica il poema tre volte: 1516 (40 canti); 1521 (40 canti); 1532 (46 canti)
CONTENUTO
• continuazione dell’Orlando innamorato di Boiardo • i principali nuclei narrativi sono tre: 1) la guerra tra cristiani e Saraceni 2) la follia di Orlando 3) la storia di Ruggiero e Bradamante; dall’unione dei due avrà origine la stirpe degli Estensi
TEMI
l’amore, la follia, la guerra, l’avventura, la magia, il viaggio, la sorte
TECNICHE NARRATIVE
• entrelacement: intreccio complesso di più vicende portate avanti in parallelo, che il narratore riconduce a un insieme omogeneo • effetto “suspence” nel lettore • ironia • interventi diretti del narratore con giudizi, chiarimenti e anticipazioni • motivo dell’inchiesta (quête): continua ricerca di persone o oggetti desiderati • la ricerca è quasi sempre destinata al fallimento
STILE E LINGUA
• stile medio che ha come modello Petrarca • lingua misurata e regolare
SCOPO
• lodare il cardinale Ippolito d’Este • intrattenere piacevolmente il pubblico di corte
Orlando viene rappresentato folle per amore
ELEMENTI DI NOVITÀ
abbassamento della materia cavalleresca: i cavalieri presentano le caratteristiche di persone comuni, anzi a volte vengono ridicolizzati
l’amore non rende migliori i cavalieri, ma può divenire causa di follia
L’Orlando furioso 3 269
Ludovico Ariosto
T4
Un poema nuovo nasce dalla tradizione cavalleresca Orlando furioso, proemio I, 1-4
L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974
AUDIOLETTURA
Nelle prime quattro ottave che costituiscono il proemio, l’autore presenta la propria opera, il cui argomento è sintetizzato nel celebre incipit (Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori). Alla proposizione del tema, segue, secondo il cliché dell’epica antica, l’invocazione (in questo caso rivolta alla donna amata) e la dedica (a Ippolito d’Este).
1 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto1, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare2, e in Francia nocquer tanto3, seguendo l’ire e i giovenil furori4 d’Agramante lor re, che si diè vanto5 di vendicar la morte di Troiano6 sopra re Carlo imperator romano7. 2 Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta8 in prosa mai né in rima: che per amor venne in furore e matto9, d’uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso10. 3 Piacciavi, generosa Erculea prole11, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro12. Quel ch’io vi debbo, posso di parole
La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 canto: racconto in versi. 2 che furo… il mare: che avvennero all’epoca in cui i Mori (gli abitanti della Mauritania, per indicare gli arabi di Spagna e Africa) attraversarono il Mar d’Africa, ossia il Mediterraneo. 3 nocquer tanto: arrecarono lutti e distruzioni tanto grandi. 4 i giovenil furori: la furia giovanile. Ad Agramante, personaggio d’invenzione dell’Innamorato, il Boiardo attribuisce l’età
di ventidue anni.
5 si diè vanto: si vantò. 6 Troiano: è il padre di Agramante, ucciso da Orlando. 7 imperator romano: imperatore del Sacro Romano Impero. Carlo Magno era stato incoronato da papa Leone III nell’anno 800. 8 Dirò... detta: Racconterò allo stesso tempo di Orlando cose inaudite (nel senso di “nuove” ed “eccezionali”) sia in versi sia in prosa. 9 venne... matto: fu preso da pazzia e divenne folle. 10 se da colei… ho promesso: se colei
270 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
che mi ha quasi fatto impazzire come Orlando, e che di giorno in giorno consuma il mio piccolo ingegno, me ne concede però a sufficienza perché io possa portare a termine l’opera promessa. Il riferimento è all’amata Alessandra Benucci. 11 generosa Erculea prole: nobile figlio di Ercole. Ariosto si sta rivolgendo al cardinale Ippolito d’Este, figlio di Ercole I, duca di Ferrara. 12 aggradir... vostro: gradire questo (poe ma) che vuole donarvi il vostro umile servo, il quale di più non può (darvi).
pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono13. 4 Voi sentirete fra i più degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio14, ricordar quel Ruggier15, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio16. L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio, e vostri alti pensier cedino un poco, sì che tra lor miei versi abbiano loco17.
13 Quel ch’io… tutto vi dono: Ciò di cui vi sono debitore, posso restituirvelo in parte con le mie parole e i miei scritti (opera d’inchiostro); né mi si può accusare di concedervi poco, poiché tutto quello che posso offrire, io ve lo dono. 14 nominar... m’apparecchio: mi appresto a menzionare con lode (tessendone le lodi). 15 quel Ruggier: complemento oggetto
di ricordar, retto da Voi sentirete. Figlio di Ruggiero di Risa e di Galaciella (figlia del musulmano Agolante), Ruggiero è considerato il capostipite della famiglia d’Este. Ariosto riprende la genealogia dell’Orlando innamorato. 16 il ceppo vecchio: progenitore, capostipite. 17 L’alto valore... abbiano loco: vi farò udire il suo (di Ruggiero) grande valore e
le sue illustri imprese (chiari gesti; al maschile plurale all’uso cinquecentesco), se mi prestate orecchio; e i pensieri sublimi a cui siete abituato (riferimento, forse pure velatamente ironico, agli affari gravosi della politica del cardinale) siano un po’ accantonati, di modo che anche i miei versi possano trovare posto in mezzo a loro.
Analisi del testo Un proemio fra tradizione e innovazione Ariosto introduce l’opera ricorrendo alla formula tramandata dalla tradizione epica classica, che prevedeva la proposizione (ossia l’enunciazione in sintesi dell’argomento), l’invocazione e la dedica. Questa ripresa di un modulo classico costituisce una novità nell’ambito del poema cavalleresco, che in genere sceglieva esordi diversi, ad esempio rivolgendosi direttamente a un pubblico di immaginari uditori come fa Boiardo nell’Orlando innamorato. Come vedremo, più di un elemento differenzia il proemio ariostesco dalla tradizione epica medievale e quattro-cinquecentesca.
La proposizione del tema L’enunciazione dell’argomento, che si sviluppa per circa due ottave, è aperta dal celeberrimo verso chiastico iniziale, in cui è sintetizzata la fusione tra la materia carolingia (esposta nella parte centrale del verso: «i cavallier, l’arme») e la materia bretone (a cui fanno riferimento gli estremi del verso: «Le donne [...] gli amori»), una fusione già presente nell’Orlando innamorato. Il secondo verso riprende, più sinteticamente, il riferimento alla duplice tradizione narrativa che ritroveremo nel poema: «le cortesie, l’audaci imprese».
L’Orlando furioso 3 271
La prima ottava inquadra le vicende che saranno narrate nel contesto – più leggendariofantastico che propriamente storico – delle guerre tra cristiani e Saraceni (i Mori); più specificamente fa riferimento alla spedizione militare che condusse le truppe saracene in Francia, capitanate dal giovane re Agramante, intenzionato a vendicare l’uccisione del padre Troiano a opera di Orlando. Il tono dominante nella prima ottava è epico e solenne. La seconda ottava presenta la novità assoluta («cosa non detta in prosa mai né in rima») che il poema introduce nella tradizione narrativa: la trasformazione del paladino Orlando da saggio a folle per amor.
L’invocazione L’ultima parte della seconda ottava introduce la tradizionale invocazione. In questo caso però essa non è rivolta alle Muse o ad Apollo ma, sulla base del parallelismo tra Orlando e Ludovico in quanto entrambi innamorati, alla donna amata dal poeta, Alessandra Benucci, perché gli dia un po’ di tregua e gli lasci quel poco di ingegno necessario per terminare il poema. È facile notare rispetto alla prima ottava un mutamento di tono, un andamento più colloquiale; in questo abbassamento tonale spicca la scelta di un termine “basso”, d’uso comune, come matto per qualificare la follia di Orlando.
La dedica al cardinale Ippolito e il motivo encomiastico Nelle ultime due ottave del proemio Ariosto riconduce la composizione del poema al contesto della corte e in particolare della corte estense, di cui è evocato un protagonista, il cardinale Ippolito, designato con appellativi di tono aulico e altamente elogiativi («generosa, Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro») che tuttavia suonano forse ironici, come pure il riferimento agli alti pensier del cardinale (ott. 4, vv. 7-8) a cui il poeta contrappone la pochezza dei suoi versi. Nella terza ottava Ariosto offre dunque il poema al potente signore di cui era al servizio (si autodefinisce modestamente umil servo), ribadendo la propria fedeltà al “mestiere di poeta”, l’unico che sentiva veramente suo e in cui poteva eccellere e ricambiare così la protezione e il favore del cardinale. L’ultima ottava riprende il riferimento alla materia del poema, in chiave però propriamente encomiastica: nell’Orlando furioso si parlerà anche di Ruggiero, destinato a essere capostipite della casa d’Este.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto delle ottave (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Indica che cosa accomuna la materia dell’Orlando furioso a quella dell’Orlando innamorato e la novità che il poema di Ariosto introduce rispetto al poema di Boiardo, facendo riferimento ai versi che rispettivamente vi alludono. ANALISI 3. Il proemio del Furioso riprende la tradizionale formula epica classica: individua nel testo la proposizione, l’invocazione e la dedica. 4. Un elemento di novità del proemio è il richiamo a figure che appartengono a vario titolo all’autobiografia ariostesca. Costruisci una tabella in cui siano chiaramente indicati di quali figure si tratta, in quali punti del testo sono evocate e a che proposito. STILE 5. Evidenzia la compresenza nel proemio di modi e di un lessico aulici ed epici, con toni e lessico colloquiali e prosastici.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 6. Nel proemio si può leggere una nota indirettamente polemica da parte di Ariosto sulla propria condizione di poeta-cortigiano che puoi ricollegare a qualche passo delle Satire che conosci. Motiva le tue osservazioni con opportuni riferimenti ai testi.
272 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Ludovico Ariosto
T5
Il primo canto, compendio dell’universo poetico del Furioso Orlando furioso I, 5-71
L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974
AUDIOLETTURA
Il primo canto, che presentiamo quasi interamente, è stato definito non a caso un “microcosmo” dell’intero poema. Vi si condensano in modo esemplare, infatti, i temi del Furioso, in particolare l’amore e l’avventura; compaiono sulla scena alcuni dei personaggi principali come Orlando, Angelica, Rinaldo e sono già pienamente operanti gli schemi narrativi che ricorreranno nell’opera, a cominciare dall’“inchiesta”, la ricerca, principale motore di un’azione che in questo primo canto ha un ritmo particolarmente incalzante. Inoltre si affaccia sulla scena il narratore, in un ruolo che ricorrerà in tutto il lavoro: quello di regista degli eventi e loro ironico commentatore.
5 Orlando, che gran tempo innamorato fu de la bella Angelica, e per lei in India, in Media, in Tartaria1 lasciato avea infiniti ed immortal trofei2, in Ponente3 con essa era tornato, dove sotto i gran monti Pirenei con la gente di Francia e de Lamagna4 re Carlo era attendato alla campagna5,
7 che vi fu tolta la sua donna poi: ecco il giudicio uman come spesso erra! Quella che dagli esperi ai liti eoi9 avea difesa con sì lunga guerra, or tolta gli è fra tanti amici suoi, senza spada adoprar, ne la sua terra. Il savio imperator, ch’estinguer volse un grave incendio, fu che gli la tolse10.
6 per far al re Marsilio e al re Agramante battersi ancor del folle ardir la guancia6, d’aver condotto, l’un, d’Africa quante genti erano atte a portar spada e lancia; l’altro, d’aver spinta la Spagna inante7 a destruzion del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò quivi a punto8: ma tosto si pentì d’esservi giunto;
8 Nata pochi dì inanzi era una gara tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo11, che ambi avean per la bellezza rara d’amoroso disio l’animo caldo. Carlo, che non avea tal lite cara, che gli rendea l’aiuto lor men saldo, questa donzella, che la causa n’era, tolse, e diè in mano al duca di Bavera12;
La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 Media… Tartaria: “Media” era detta la regione dell’Asia a sud del mar Caspio; la Tartaria era invece la regione a nord-ovest della Cina. 2 trofei: testimonianze di valore. 3 Ponente: occidente. 4 Lamagna: Germania.
5 era attendato alla campagna: aveva posto il suo accampamento. 6 per far… la guancia: per far sì che Agramante e Marsilio ancora una volta si pentissero amaramente (battersi… la guancia) della loro folle audacia. Marsilio è il re di Spagna, alleato di Agramante. 7 d’aver... inante: di aver istigato la Spagna. 8 quivi a punto: qui al momento opportuno. 9 dagli esperi ai liti eoi: dai paesi occi-
dentali a quelli orientali. Cioè ovunque. 10 Il savio imperator… la tolse: Fu l’imperatore saggio, Carlo, che (che, “colui che”) gliela tolse (gli la tolse: cioè Angelica a Orlando), per sedare un grave contrasto (estinguer, “spegnere”, un grave incendio) scatenato dalla bella fanciulla, com’è detto nell’ottava seguente. 11 Rinaldo: celebre paladino, figlio di Amone di Chiaramonte. 12 duca di Bavera: Namo, duca di Baviera, consigliere di Carlo.
L’Orlando furioso 3 273
9 in premio promettendola a quel d’essi, ch’in quel conflitto, in quella gran giornata, degli infideli più copia uccidessi e di sua man prestasse opra più grata13. Contrari ai voti poi furo i successi14; ch’in fuga andò la gente battezzata15, e con molti altri fu ’l duca prigione16, e restò abbandonato il padiglione17.
12 Era costui quel paladin gagliardo, figliuol d’Amon, signor di Montalbano28, a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo per strano caso uscito era di mano. Come alla donna egli drizzò lo sguardo, riconobbe, quantunque di lontano, l’angelico sembiante e quel bel volto ch’all’amorose reti il tenea involto29.
10 Dove18, poi che rimase la donzella ch’esser dovea del vincitor mercede19, inanzi al caso20 era salita in sella, e quando bisognò le spalle diede21, presaga che quel giorno esser rubella dovea Fortuna alla cristiana fede22: entrò in un bosco, e ne la stretta via rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.
13 La donna il palafreno a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara più che per la folta, la più sicura e miglior via procaccia: ma pallida, tremando, e di sé tolta, lascia cura al destrier che la via faccia30. Di sù di giù, ne l’alta selva fiera31 tanto girò, che venne a una riviera32.
11 Indosso la corazza, l’elmo in testa, la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo23; e più leggier correa per la foresta, ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo24. Timida pastorella mai sì presta25 non volse piede inanzi a serpe crudo26, come Angelica tosto il freno torse27, che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.
14 Su la riviera Ferraù33 trovosse di sudor pieno e tutto polveroso. Da la battaglia dianzi lo rimosse34 un gran disio di bere e di riposo; e poi, mal grado suo, quivi fermosse, perché, de l’acqua ingordo e frettoloso35, l’elmo nel fiume si lasciò cadere, né l’avea potuto anco riavere.
13 in premio… grata: promettendola
22 presaga… fede: presagendo che quel
in premio a quello fra loro che, durante quello scontro, in quella giornata campale, avesse ucciso il numero più grande (più copia) di Saraceni e avesse compiuto le imprese più gradite. 14 Contrari… successi: Gli esiti della battaglia furono poi contrari alle speranze (ai voti, “a quelli desiderati”). 15 la gente battezzata: l’esercito dei cristiani. 16 fu ’l duca prigione: fu fatto prigioniero il duca di Baviera. 17 il padiglione: la tenda di Namo, finito prigioniero dei Mori. 18 Dove: nel padiglione. 19 mercede: premio. 20 inanzi al caso: prima della sconfitta. 21 e quando... diede: e, al momento opportuno, volse le spalle e scappò via.
giorno la Fortuna doveva essere avversa (rubella, “ribelle”) alla fede (cioè all’armata) cristiana. 23 Indosso… lo scudo: costruisci “aveva indosso la corazza” ecc. 24 più legger… mezzo ignudo: correva per la foresta più agile che il contadino mezzo nudo (dietro) al pallio rosso. Il pallio era il drappo che veniva destinato in premio ai vincitori delle corse a piedi. 25 sì presta: così rapida. 26 non volse… crudo: non ritrasse il piede davanti a un infido serpente. 27 tosto… torse: subito volse il cavallo. 28 Era costui… Montalbano: Rinaldo, alla ricerca del proprio meraviglioso cavallo Baiardo, come Ariosto ricorda nei due versi seguenti. L’episodio è raccontato nell’Innamorato (III, IV, 29).
274 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
29 ch’all’amorose… involto: che lo teneva imprigionato nella rete d’amore.
30 né per la rara… via faccia: e non prende la via più sicura e migliore, là dove la foresta appare meno folta (rara, “rada”), ma pallida, tremante e fuori di sé, lascia che sia il cavallo a prendere la strada che vuole. 31 ne l’alta selva fiera: nella foresta fitta (alta, “profonda”) e selvaggia. 32 a una riviera: sulla riva di un fiumicello. 33 Ferraù: cavaliere saraceno spagnolo, nipote di re Marsilio; aveva ucciso in combattimento il fratello di Angelica, Argalia. 34 rimosse: allontanò, distolse. 35 ingordo e frettoloso: avido e impaziente.
15 Quanto potea più forte, ne veniva gridando la donzella ispaventata. A quella voce salta in su la riva il Saracino, e nel viso la guata36; e la conosce subito ch’arriva37, ben che di timor pallida e turbata, e sien più dì che non n’udì novella38, che senza dubbio ell’è Angelica bella.
18 Poi che s’affaticar gran pezzo47 invano i dui guerrier per por l’un l’altro sotto, quando non meno era con l’arme in mano questo di quel, né quel di questo dotto48; fu primiero il signor di Montalbano, ch’al cavallier di Spagna fece motto49, sì come quel ch’ha nel cuor tanto fuoco, che tutto n’arde e non ritrova loco50.
16 E perché era cortese, e n’avea forse non men dei dui cugini39 il petto caldo40, l’aiuto che potea tutto le porse, pur come avesse l’elmo, ardito e baldo: trasse la spada, e minacciando corse dove poco di lui temea Rinaldo. Più volte s’eran già non pur veduti, m’al paragon de l’arme conosciuti41.
19 Disse al pagan: – Me sol creduto avrai, e pur avrai te meco ancora offeso51: se questo avvien perché i fulgenti rai del nuovo sol52 t’abbino il petto acceso, di farmi qui tardar che guadagno hai? che quando ancor tu m’abbi morto o preso53, non però tua la bella donna fia54; che, mentre noi tardiam, se ne va via.
17 Cominciar quivi una crudel battaglia, come a piè si trovar, coi brandi ignudi42: non che le piastre e la minuta maglia, ma ai colpi lor non reggerian gl’incudi43. Or, mentre l’un con l’altro si travaglia44, bisogna al palafren che ’l passo studi45; che quanto può menar de le calcagna, colei lo caccia al bosco e alla campagna46.
20 Quanto fia55 meglio, amandola tu ancora56, che tu le venga a traversar la strada, a ritenerla e farle far dimora57, prima che più lontana se ne vada! Come l’avremo in potestate, allora di ch’esser de’ si provi con la spada58: non so altrimenti, dopo un lungo affanno, che possa riuscirci altro che danno. –
36 guata: guarda. 37 la conosce… ch’arriva: la riconosce non appena arriva.
38 e sien… novella: benché (ben che, v. 6) siano molti giorni, non se ne sapeva più nulla. 39 dei dui cugini: Orlando e Rinaldo. 40 il petto caldo: il cuore infiammato (d’amore). 41 Più volte… conosciuti: Già più di una volta si erano non solo incontrati, ma si erano anche fronteggiati in combattimento (al paragon de l’arme). 42 coi brandi ignudi: con le spade sguainate. 43 non che le piastre… gl’incudi: ai loro colpi non avrebbero retto non solo le lamine di cui era fatta l’armatura, e la sottile
maglia di filo di ferro (che i cavalieri indossavano sotto), ma addirittura nemmeno le incudini. 44 l’un con l’altro si travaglia: sono impegnati l’un con l’altro. 45 bisogna… studi: occorre che il cavallo affretti il passo. 46 che quanto... alla campagna: perché con tutta la forza che ha per spronarlo (letteralmente “quanto può muovere i calcagni”), Angelica (colei) lo spinge verso la selva e la campagna. 47 gran pezzo: per lungo tempo. 48 quando… dotto: dal momento che l’uno non era meno valente dell’altro nel maneggio delle armi, né meno esperto. 49 fu primiero… motto: fu Rinaldo per primo a rivolgere la parola a Ferraù.
50 non ritrova loco: non trova pace. 51 Me sol… ancora offeso: Tu crederai di aver danneggiato me soltanto, eppure con me hai recato danno anche a te stesso. 52 i fulgenti rai del nuovo sol: la perifrasi indica gli occhi della bella Angelica. 53 quando... preso: anche nel caso che tu mi abbia ucciso o fatto prigioniero. 54 tua... fia: sarà tua Angelica. 55 fia: sarebbe. 56 amandola tu ancora: poiché anche tu l’ami. 57 ritenerla... dimora: trattenerla e farla fermare. 58 Come l’avremo… con la spada: Quando Angelica sarà in mano nostra, senza poter fuggire, allora decideremo di chi di noi debba essere, con un duello.
L’Orlando furioso 3 275
21 Al pagan la proposta non dispiacque: così fu differita la tenzone; e tal tregua tra lor subito nacque, sì l’odio e l’ira va in oblivione, che ’l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliuol d’Amone59: con preghi invita, ed al fin toglie in groppa60, e per l’orme61 d’Angelica galoppa.
24 Pur si ritrova ancor su la rivera, là dove l’elmo gli cascò ne l’onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l’elmo che ’l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l’estreme umide sponde: ma quello era sì fitto68 ne la sabbia, che molto avrà da far prima che l’abbia.
22 Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fé diversi62, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi63; e pur per selve oscure e calli obliqui64 insieme van senza sospetto65 aversi. Da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva.
25 Con un gran ramo d’albero rimondo69, di ch’avea fatto una pertica lunga, tenta il fiume e ricerca sino al fondo, né loco lascia ove non batta e punga. Mentre con la maggior stizza del mondo tanto l’indugio suo quivi prolunga, vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d’aspetto fiero.
23 E come quei che non sapean se l’una o l’altra via facesse la donzella (però che senza differenza alcuna apparia in amendue l’orma novella66), si messero ad arbitrio di fortuna, Rinaldo a questa, il Saracino a quella. Pel bosco Ferraù molto s’avvolse, e ritrovossi al fine onde si tolse67.
26 Era, fuor che la testa, tutto armato, ed avea un elmo ne la destra mano: avea il medesimo elmo che cercato da Ferraù fu lungamente invano. A Ferraù parlò come adirato, e disse: – Ah mancator di fé, marano70! perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi71, che render già gran tempo mi dovevi72?
59 tal tregua… figliuol d’Amone: fu subito stretta una tal tregua, e furono così presto dimenticati odio e rabbia, che Ferraù, allontanandosi dalle fresche acque del fiume, non volle lasciare a piedi Rinaldo. 60 toglie in groppa: fa montare in sella. 61 per l’orme: dietro alle orme, all’inseguimento. 62 eran di fé diversi: erano diversi per fede religiosa. 63 si sentian… anco dolersi: tutto il loro corpo era ancora dolorante per i colpi duri e spietati che si erano inferti l’un l’altro. 64 calli obliqui: sentieri tortuosi.
65 senza sospetto: senza temere l’uno
70 marano: con questa parola, che lette-
dell’altro. 66 come… novella: dal momento che non sapevano per quale dei due sentieri fosse fuggita la fanciulla, poiché le orme apparivano ugualmente fresche (orma novella) da una parte come dall’altra. 67 Pel bosco… onde si tolse: Ferraù vagò a lungo nel bosco, finché non si ritrovò allo stesso punto da cui era partito (onde si tolse), cioè al fiume. 68 fitto: conficcato. 69 rimondo: senza foglie (“pulito” dalle foglie).
ralmente significa “porco”, in Spagna si indicavano gli ebrei e i mori convertitisi al cristianesimo per opportunità. In senso lato indica il traditore. 71 t’aggrevi: ti dai pena. 72 mi dovevi: come verrà spiegato nell’ottava successiva, il cavaliere che si sta rivolgendo a Ferraù è Argalia, fratello di Angelica; dopo averlo colpito a morte, Ferraù gli aveva promesso di gettare nel fiume entro quattro giorni l’elmo, ma non era stato di parola.
276 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
27 Ricordati, pagan, quando uccidesti d’Angelica il fratel (che son quell’io), dietro all’altr’arme tu mi promettesti gittar fra pochi dì l’elmo nel rio. Or se Fortuna (quel che non volesti far tu) pone ad effetto73 il voler mio, non ti turbare; e se turbar ti déi, turbati che di fé mancato sei. 28 Ma se desir pur hai d’un elmo fino, trovane un altro, ed abbil74 con più onore; un tal ne porta Orlando paladino, un tal Rinaldo, e forse anco migliore: l’un fu d’Almonte75, e l’altro di Mambrino76: acquista un di quei dui col tuo valore; e questo, ch’hai già di lasciarmi detto77, farai bene a lasciarmi con effetto78. – 29 All’apparir che fece all’improvviso de l’acqua l’ombra, ogni pelo arricciossi, e scolorossi al Saracino il viso; la voce, ch’era per uscir, fermossi79. Udendo poi da l’Argalia, ch’ucciso quivi avea già (che l’Argalia nomossi80) la rotta fede così improverarse81, di scorno82 e d’ira dentro e di fuor arse. 30 Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ’l ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna il cor sì gli trafisse,
73 pone ad effetto: realizza. 74 abbil: abbilo, conservalo. 75 Almonte: fratello del re Troiano, era stato ucciso da Orlando in Aspromonte.
76 Mambrino: re pagano ucciso da Rinaldo.
77 ch’hai già di lasciarmi detto: che hai già promesso di lasciarmi. 78 con effetto: effettivamente. 79 arricciossi... fermossi: si arricciò... impallidì... si fermò.
che giurò per la vita di Lanfusa83 non voler mai ch’altro elmo lo coprisse, se non quel buono84 che già in Aspramonte trasse del capo Orlando al fiero Almonte. 31 E servò meglio questo giuramento, che non avea quell’altro fatto prima. Quindi si parte tanto malcontento, che molti giorni poi si rode e lima. Sol di cercare è il paladino intento85 di qua di là, dove trovarlo stima. Altra ventura al buon Rinaldo accade, che da costui tenea diverse strade86. 32 Non molto va Rinaldo, che si vede saltare inanzi il suo destrier feroce87: – Ferma, Baiardo mio, deh, ferma il piede! che l’esser senza te troppo mi nuoce. – Per questo88 il destrier sordo, a lui non riede89, anzi più se ne va sempre veloce. Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge: ma seguitiamo Angelica che fugge. 33 Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati, ermi90 e selvaggi. Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d’olmi e di faggi, fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi91; ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle.
80 che l’Argalia nomossi: questo, Argalia, era il suo nome. 81 la rotta... improverarse: rinfacciargli così la promessa non mantenuta. 82 scorno: vergogna. 83 Lanfusa: la madre di Ferraù. 84 buono: prodigioso. 85 Sol di... intento: (Ferraù) È tutto intento a cercare il paladino (Orlando). 86 Altra… strade: Un’altra avventura accade al valente (buon) Rinaldo, che percorreva una strada diversa da quella di costui (cioè Ferraù).
87 feroce: focoso. 88 Per questo: Nonostante queste parole. 89 riede: ritorna. 90 ermi: solitari. 91 Il mover... viaggi: Il movimento (e il rumore) che sentiva delle fronde e della vegetazione (verzure) di cerri, olmi e faggi, generando spaventi improvvisi (subite), le aveva fatto prendere percorsi inusitati (strani viaggi).
L’Orlando furioso 3 277
34 Qual pargoletta o damma o capriuola, che tra le fronde del natio boschetto alla madre veduta abbia la gola stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto92, di selva in selva dal crudel s’invola93, e di paura trema e di sospetto: ad ogni sterpo che passando tocca, esser si crede all’empia fera in bocca.
37 Ecco non lungi un bel cespuglio vede di prun fioriti e di vermiglie rose, che de le liquide onde al specchio siede99, chiuso dal sol100 fra l’alte querce ombrose; così voto nel mezzo, che concede fresca stanza fra l’ombre più nascose: e la foglia coi rami in modo è mista, che ’l sol non v’entra, non che minor vista101.
35 Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno s’andò aggirando, e non sapeva dove. Trovossi al fine in un boschetto adorno94, che lievemente la fresca aura muove. Duo chiari rivi, mormorando intorno, sempre l’erbe vi fan tenere e nuove; e rendea ad ascoltar dolce concento, rotto tra picciol sassi, il correr lento95.
38 Dentro letto vi fan tenere erbette, ch’invitano a posar chi s’appresenta102. La bella donna in mezzo a quel si mette, ivi si corca ed ivi s’addormenta. Ma non per lungo spazio così stette, che un calpestio le par che venir senta: cheta103 si leva e appresso alla riviera vede ch’armato un cavallier giunt’era.
36 Quivi parendo a lei d’esser sicura e lontana a96 Rinaldo mille miglia, da la via stanca e da l’estiva arsura, di riposare alquanto si consiglia97: tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura98 andare il palafren senza la briglia; e quel va errando intorno alle chiare onde, che di fresca erba avean piene le sponde.
39 Se gli è amico o nemico non comprende: tema e speranza il dubbio cor le scuote104; e di quella aventura il fine attende, né pur d’un sol sospir l’aria percuote105. Il cavalliero in riva al fiume scende sopra l’un braccio a riposar le gote106; e in un suo gran pensier tanto penètra, che par cangiato in insensibil pietra107.
92 Qual pargoletta… o ’l petto: Come una cucciola o di daino (damma) o di capriolo, che nel boschetto dove è nata abbia visto la madre azzannata alla gola dal ghepardo, o (abbia visto) squarciarle il ventre o il petto. 93 dal crudel s’invola: fugge dalla bestia feroce, cioè il ghepardo. Più sotto empia fera sta per “belva spietata”. 94 adorno: leggiadro, grazioso. 95 rendea… il correr lento: il lento scorrere dei due ruscelli che passavano fra piccole rocce produceva un suono armonioso (dolce concento) per l’orecchio che ascoltava.
96 a: da. 97 da la via... si consiglia: stanca per la
104 tema... le scuote: il cuore dubbioso è
strada e per la calura estiva decide (si consiglia) di riposare un poco. 98 pastura: pascolo. 99 de le liquide… siede: si specchia nelle limpide acque del ruscello. 100 chiuso dal sol: coperto dal sole. 101 la foglia… minor vista: le foglie sono talmente intrecciate coi rami che non vi passa il sole, nonché lo sguardo (minor vista, “occhio meno penetrante”). 102 s’appresenta: si avvicini. 103 cheta: in silenzio.
105 né pur… percuote: e non si lascia
278 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
combattuto fra timore e speranza. sfuggire un solo respiro, per paura d’essere scoperta. 106 sopra... le gote: a posare la guancia (le gote) a una mano. 107 e in un suo gran pensier… insensibil pietra: ed è talmente assorto in un suo profondo pensiero, che sembra essere trasformato in pietra, incapace di avvertire alcunché.
40 Pensoso più d’un’ora a capo basso stette, Signore108, il cavallier dolente; poi cominciò con suono afflitto e lasso a lamentarsi sì soavemente, ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso, una tigre crudel fatta clemente. Sospirando piangea, tal ch’un ruscello parean le guance, e ’l petto un Mongibello109.
43 Ma non sì tosto dal materno stelo rimossa viene e dal suo ceppo verde, che quanto avea dagli uomini e dal cielo favor, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che ’l fior, di che più zelo che de’ begli occhi e de la vita aver de’, lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti perde nel cor di tutti gli altri amanti114.
41 – Pensier (dicea) che ’l cor m’aggiacci ed ardi, e causi il duol che sempre il rode e lima110, che debbo far, poi ch’io son giunto tardi, e ch’altri a côrre111 il frutto è andato prima? a pena avuto io n’ho parole e sguardi, ed altri n’ha tutta la spoglia opima112. Se non ne tocca a me frutto né fiore, perché affligger per lei mi vuo’ più il core?
44 Sia vile agli altri, e da quel solo amata a cui di sé fece sì larga copia115. Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata! trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia116. Dunque esser può che non mi sia più grata?117 dunque io posso lasciar mia vita propia? Ah più tosto oggi manchino i dì miei118, ch’io viva più, s’amar non debbo lei! –
42 La verginella è simile alla rosa, ch’in bel giardin su la nativa spina mentre sola e sicura si riposa, né gregge né pastor se le avicina; l’aura soave e l’alba rugiadosa, l’acqua, la terra al suo favor s’inchina: gioveni vaghi113 e donne inamorate amano averne e seni e tempie ornate.
45 Se mi domanda alcun chi costui sia, che versa sopra il rio lacrime tante, io dirò ch’egli è il re di Circassia, quel d’amor travagliato Sacripante119; io dirò ancor, che di sua pena ria sia prima e sola causa essere amante120, e pur121 un degli amanti di costei: e ben riconosciuto fu da lei.
108 Signore: il poeta si rivolge al dedicatario della sua opera, il cardinale Ippolito d’Este. 109 Mongibello: l’Etna. Il petto del cavaliere scosso dai sospiri è simile a un vulcano. 110 Pensier… e lima: Diceva il cavaliere: «O pensiero che mi agghiacci il cuore e poi lo fai bruciare, e sei causa di quel dolore che lo tormenta e consuma in continuazione». 111 côrre: cogliere. 112 a pena avuto io… spoglia opima: io ne ho avuto a malapena qualche parola e pochi sguardi, mentre qualcun altro
ha potuto goder di tutto quanto il ricco bottino. 113 vaghi: innamorati, presi dal desiderio. 114 La vergine… amanti: è la seconda parte della similitudine, nella quale la vergine, che permette a qualcuno di cogliere quel fiore (la verginità), del quale dovrebbe avere maggior cura anche degli occhi e della propria stessa vita, dinanzi a tutti gli altri che l’amano perde il valore che prima aveva. 115 Sia vile... larga copia: Sia disprezzata dagli altri e amata solo da colui a cui fece dono così generoso di sé. 116 inopia: mancanza, privazione.
117 Dunque… grata?: E così potrebbe mai avvenire che lei non mi piaccia più? 118 manchino i dì miei: finiscano i miei giorni, arrivi la morte. 119 Sacripante: il re di Circassia, una regione del Caucaso; aveva portato aiuto ad Angelica, assediata in Albracca da Agricane, re dei Tartari. Era già comparso come personaggio nell’Orlando innamorato del Boiardo. 120 io dirò… amante: io dirò ancora che prima e sola causa del suo crudele tormento (pena ria) sia l’essere innamorato. 121 pur: soprattutto, in particolar modo.
L’Orlando furioso 3 279
46 Appresso ove il sol cade, per suo amore venuto era dal capo d’Oriente122; che seppe in India con suo gran dolore, come ella Orlando sequitò in Ponente123: poi seppe in Francia che l’imperatore124 sequestrata l’avea da l’altra gente, per darla all’un de’ duo che contra il Moro più quel giorno aiutasse i Gigli d’oro125.
49 Con molta attenzion la bella donna al pianto, alle parole, al modo133 attende134 di colui ch’in amarla non assonna135; né questo è il primo dì ch’ella l’intende: ma dura e fredda più d’una colonna, ad averne pietà non però scende, come colei c’ha tutto il mondo a sdegno, e non le par ch’alcun sia di lei degno.
47 Stato era in campo, e inteso avea di quella rotta crudel126 che dianzi ebbe re Carlo: cercò vestigio127 d’Angelica bella, né potuto avea ancora ritrovarlo. Questa è dunque la trista e ria novella che d’amorosa doglia fa penarlo128, affligger, lamentare e dir parole che di pietà potrian fermare il sole.
50 Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola le fa pensar di tor136 costui per guida; che chi ne l’acqua sta fin alla gola ben è ostinato se mercé137 non grida. Se questa occasione or se l’invola138, non troverà mai più scorta sì fida139; ch’a lunga prova conosciuto inante s’avea quel re fedel sopra ogni amante140.
48 Mentre costui così s’affligge e duole, e fa degli occhi suoi tepida fonte129, e dice queste e molte altre parole, che non mi par bisogno esser racconte130; l’aventurosa sua fortuna vuole ch’alle orecchie d’Angelica sian conte131: e così quel ne viene a un’ora, a un punto, ch’in mille anni o mai più non è raggiunto132.
51 Ma non però disegna de l’affanno che lo distrugge alleggierir chi l’ama141, e ristorar d’ogni passato danno con quel piacer ch’ogni amator più brama: ma alcuna finzione, alcuno inganno di tenerlo in speranza ordisce e trama142; tanto ch’a143 quel bisogno se ne serva, poi torni all’uso suo144 dura e proterva.
122 Appresso… d’Oriente: Dall’Estremo
129 fa… tepida fonte: fa scendere calde
Oriente era venuto, per amore, fino a Occidente (cioè fino alle terre dove il sole tramonta). 123 che seppe… in Ponente: dacché aveva saputo, in India, con gran dolore, che ella aveva seguito (sequitò, “seguì”) Orlando a Ponente (Occidente). 124 l’imperatore: Carlo Magno. 125 i Gigli d’oro: campeggiano nello stemma dei reali di Francia. 126 rotta crudel: grave sconfitta. 127 vestigio: tracce. 128 Questa... penarlo: Questa è la triste e dolorosa notizia che lo fa patire per pene d’amore.
lacrime dagli occhi. 130 racconte: narrate. 131 sian conte: giungano. 132 così quel... è raggiunto: così accade in un momento quel che non può accadere in mille anni o mai. 133 modo: atteggiamento. 134 attende: presta attenzione. 135 non assonna: non smette, non si stanca. 136 tor: prendere. 137 mercé: aiuto. 138 se l’invola: si lascia scappare.
280 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
139 sì fida: così fidata. 140 ch’a lunga... amante: perché, per averne avuto una serie di prove, aveva sperimentato in precedenza (inante) che quel re era fedele più di ogni altro (suo) innamorato. 141 Ma non però… chi l’ama: Ma non ha intenzione di sollevare colui che l’ama da quel tormento che lo consuma. 142 alcuna... trama: ordisce e progetta una finzione, un inganno con cui tenere accesa la sua speranza. 143 tanto ch’a: finché per. 144 all’uso suo: come suo solito.
52 E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco fa di sé bella ed improvvisa mostra, come di selva o fuor d’ombroso speco Diana in scena o Citerea si mostra145; e dice all’apparir: – Pace sia teco; teco146 difenda Dio la fama nostra, e non comporti147, contra ogni ragione, ch’abbi di me sì falsa opinione. –
55 Ella gli rende conto pienamente156 dal giorno che mandato fu da lei a domandar soccorso in Oriente al re de’ Sericani e Nabatei157; e come Orlando la guardò158 sovente da morte, da disnor, da casi rei: e che ’l fior virginal così avea salvo, come se lo portò del materno alvo159.
53 Non mai con tanto gaudio o stupor tanto levò gli occhi al figliuolo alcuna madre, ch’avea per morto sospirato e pianto, poi che senza esso udì tornar le squadre148; con quanto gaudio il Saracin, con quanto stupor l’alta presenza149 e le leggiadre maniere, e il vero angelico sembiante150, improviso apparir si vide inante.
56 Forse era ver, ma non però credibile a chi del senso suo fosse signore160; ma parve facilmente a lui possibile, ch’era perduto in via più grave errore. Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile, e l’invisibil fa vedere Amore. Questo creduto fu; che ’l miser suole dar facile credenza a quel che vuole.
54 Pieno di dolce e d’amoroso affetto, alla sua donna, alla sua diva151 corse, che con le braccia al collo il tenne stretto, quel ch’al Catai152 non avria fatto forse. Al patrio regno, al suo natio ricetto153, seco avendo costui, l’animo torse154: subito in lei s’avviva la speranza di tosto riveder sua ricca stanza155.
57 – Se mal si seppe il cavallier d’Anglante pigliar per sua sciocchezza il tempo buono161, il danno se ne avrà; che da qui inante nol chiamerà Fortuna a sì gran dono162 (tra sé tacito parla Sacripante): ma io per imitarlo già non sono, che lasci tanto ben che m’è concesso, e ch’a doler poi m’abbia di me stesso163.
145 come di selva... si mostra: come Diana (dea della caccia) entra in scena o si mostra Citerea (Venere, nata dalla schiuma del mare presso l’isola di Citera) nel bosco o fuori da un antro ombroso (speco, “grotta”). 146 teco: davanti a te. 147 non comporti: non permetta. 148 le squadre: gli eserciti di soldati. 149 l’alta presenza: la nobile figura. 150 sembiante: aspetto. 151 diva: dea. 152 al Catai: in Cina, nella sua patria. Ariosto parla di lei come di una “principessa dell’India”.
153 ricetto: rifugio. 154 l’animo torse: rivolse il pensiero. 155 stanza: dimora. 156 gli rende conto pienamente: gli racconta nei dettagli (ciò che gli è accaduto). 157 Sericani e Nabatei: popoli d’Oriente (della Cina del Nord e arabi), entrambi governati dal re Gradasso. 158 la guardò: la difese. 159 alvo: grembo. 160 a chi... signore: a chi fosse padrone di sé stesso. 161 Se mal si seppe... il tempo buono: Se Orlando (il cavallier d’Anglante) per la sua
ingenuità non ha saputo cogliere la buona occasione. 162 da qui inante... gran dono: d’ora in avanti la Fortuna non gli riserverà più un dono tanto prezioso. 163 ma io per... stesso: io non intendo certo fare come lui, da lasciarmi sfuggire un bene così grande come quello che mi è offerto, e poi rimproverare me stesso (di aver perso l’occasione).
L’Orlando furioso 3 281
58 Corrò la fresca e matutina rosa, che, tardando, stagion perder potria164. So ben ch’a donna non si può far cosa che più soave e più piacevol sia, ancor che se ne mostri disdegnosa165, e talor mesta e flebil166 se ne stia: non starò per repulsa o finto sdegno, ch’io non adombri e incarni il mio disegno167. –
61 Come è più presso, lo sfida a battaglia; che crede ben fargli votar l’arcione172. Quel che di lui non stimo già che vaglia un grano meno, e ne fa paragone173, l’orgogliose minacce a mezzo taglia174, sprona a un tempo, e la lancia in resta pone. Sacripante ritorna con tempesta175, e corronsi a ferir testa per testa176.
59 Così dice egli; e mentre s’apparecchia al dolce assalto, un gran rumor che suona dal vicin bosco gl’intruona l’orecchia, sì che mal grado168 l’impresa abbandona: e si pon l’elmo (ch’avea usanza vecchia di portar sempre armata la persona), viene al destriero e gli ripon la briglia, rimonta in sella e la sua lancia piglia.
62 Non si vanno i leoni o i tori in salto177 a dar di petto, ad accozzar sì crudi, sì come i duo guerrieri al fiero assalto, che parimente si passar gli scudi178. Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi179; e ben giovò che fur buoni e perfetti gli osberghi180 sì, che lor salvaro i petti.
60 Ecco pel bosco un cavallier venire, il cui sembiante è d’uom gagliardo e fiero: candido come nieve è il suo vestire, un bianco pennoncello169 ha per cimiero. Re Sacripante, che non può patire che quel con l’importuno suo sentiero170 gli abbia interrotto il gran piacer ch’avea, con vista il guarda disdegnosa e rea171.
63 Già non fero i cavalli un correr torto181, anzi cozzaro a guisa di montoni: quel del guerrier pagan morì di corto182, ch’era vivendo in numero de’ buoni183; quell’altro cadde ancor, ma fu risorto tosto ch’al fianco si sentì gli sproni184. Quel del re saracin restò disteso adosso al suo signor con tutto il peso.
164 Corrò… potria: Coglierò la rosa fresca, nata al mattino che, se tardassi (a farlo), potrebbe perdere la sua freschezza. 165 ancor che… disdegnosa: benché si mostri sprezzante. 166 flebil: lamentosa, piagnucolosa. 167 non starò... mio disegno: non mi fermerò, per un rifiuto o uno sdegno simulato, dall’intraprendere e realizzare il mio proposito. 168 mal grado: suo malgrado, contro la sua volontà. 169 pennoncello: pennacchio. 170 sentiero: passaggio.
171 con vista... rea: lo fissa con sguardo (vista) sprezzante e ostile. 172 fargli votar l’arcione: farlo cadere da cavallo. 173 Quel che... ne fa paragone: Quello (quell’altro cavaliere) che non credo che valga neppure una briciola meno di lui, e ne dà prova con le armi. 174 a mezzo taglia: interrompe a metà. 175 con tempesta: tempestosamente, con impeto furioso. 176 testa per testa: fronte a fronte, frontalmente. 177 in salto: in amore.
282 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
178 parimente... gli scudi: allo stesso modo si trapassarono l’un l’altro gli scudi. 179 poggi ignudi: colline senza alberi e arbusti. 180 osberghi: corazze. 181 non fero… torto: i cavalli non si schivarono l’un l’altro (letteralmente “non corsero in modo tortuoso”). 182 di corto: sul colpo. 183 in numero de’ buoni: tra i migliori destrieri che ci fossero. 184 ma fu risorto… gli sproni: ma si rialzò subito, non appena avvertì gli sproni pungergli i fianchi.
64 L’incognito campion che restò ritto, e vide l’altro col cavallo in terra, stimando avere assai di quel conflitto185, non si curò di rinovar la guerra186; ma dove per la selva è il camin dritto, correndo a tutta briglia si disserra187; e prima che di briga esca188 il pagano, un miglio o poco meno è già lontano.
67 – Deh! (diss’ella) signor, non vi rincresca! che del cader non è la colpa vostra, ma del cavallo, a cui riposo ed esca meglio si convenia che nuova giostra197. Né perciò quel guerrier sua gloria accresca; che d’esser stato il perditor dimostra: così, per quel ch’io me ne sappia, stimo, quando198 a lasciare il campo è stato primo. –
65 Qual istordito e stupido aratore189, poi ch’è passato il fulmine, si leva di là dove l’altissimo fragore appresso ai morti buoi steso l’aveva; che mira senza fronde e senza onore190 il pin che di lontan veder soleva: tal si levò il pagano a piè rimaso, Angelica presente al duro caso191.
68 Mentre costei conforta il Saracino, ecco col corno e con la tasca199 al fianco, galoppando venir sopra un ronzino200 un messagger che parea afflitto e stanco; che come a Sacripante fu vicino, gli domandò se con un scudo bianco e con un bianco pennoncello in testa vide un guerrier passar per la foresta.
66 Sospira e geme, non perché l’annoi192 che piede o braccio s’abbi rotto o mosso, ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi193 né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: e più194, ch’oltre il cader, sua donna poi fu che gli tolse il gran peso d’adosso. Muto restava195, mi cred’io, se quella non gli rendea la voce e la favella196.
69 Rispose Sacripante: – Come vedi, m’ha qui abbattuto, e se ne parte or ora; e perch’io sappia chi m’ha messo a piedi, fa che per nome io lo conosca ancora201. – Ed egli a lui: – Di quel che tu mi chiedi io ti satisfarò senza dimora202: tu dei saper che ti levò di sella l’alto valor d’una gentil donzella.
185 stimando… conflitto: ritenendo di aver ottenuto abbastanza da quello scontro. 186 rinovar la guerra: rinnovare l’assalto. 187 si disserra: si slancia. 188 di briga esca: si tolga dall’impaccio. 189 Qual... aratore: Come un contadino stordito e sbigottito. 190 senza onore: l’ornamento dei rami e del fogliame (in riferimento al pin al v. 6, che è il complemento oggetto di mira).
191 Angelica... caso: mentre Angelica assiste alla sfortunata vicenda. 192 l’annoi: lo addolori, gli rincresca. 193 a’ dì suoi: in tutta la sua vita. 194 e più: e in più, come se non bastasse. 195 restava: sarebbe restato. 196 favella: parola. 197 a cui... giostra: per cui sarebbe stato meglio riposarsi e mangiare (esca, “cibo”) che affrontare un nuovo duello. 198 quando: dal momento che.
199 tasca: sacca (per i dispacci). 200 ronzino: è un cavallo da trasporto. Il destriero, invece, è da torneo o combattimento e il palafreno da viaggio. 201 ancora: anche. 202 senza dimora: senza indugio.
L’Orlando furioso 3 283
70 Ella è gagliarda ed è più bella molto; né il suo famoso nome anco t’ascondo: fu Bradamante quella che t’ha tolto quanto onor mai tu guadagnasti al mondo. – Poi ch’ebbe così detto, a freno sciolto il Saracin203 lasciò poco giocondo204, che non sa che si dica o che si faccia, tutto avvampato di vergogna in faccia. 203 il Saracin: complemento oggetto di lasciò (soggetto è il messaggero). 204 poco giocondo: poco contento. L’e-
71 Poi che gran pezzo al caso intervenuto205 ebbe pensato invano, e finalmente si trovò da una femina abbattuto, che pensandovi più, più dolor sente; montò l’altro destrier, tacito e muto: e senza far parola, chetamente tolse Angelica in groppa, e differilla a più lieto uso, a stanza più tranquilla206.
spressione è ovviamente ironica.
205 intervenuto: che gli era accaduto. 206 tolse... tranquilla: fece salire Angelica
in sella e ne rimandò la conquista (differilla) a un momento più felice, in un luogo più tranquillo.
Analisi del testo La struttura Il canto si sviluppa per segmenti, secondo una struttura lineare che permette di distinguerne facilmente le diverse parti. • Antefatto (ott. 5-9): prima di dare il via all’azione, Ariosto presenta velocemente la sequenza di fatti che hanno generato la situazione in cui si trova Angelica, il primo personaggio che vediamo agire sulla scena del poema. • Narrazione (ott. 10-71): si entra nel vivo della vicenda, con l’immagine di Angelica in fuga attraverso un bosco. Da questo primo momento si dipanano tutte le vicende parallele che compongono il tessuto del primo canto, e che proseguiranno poi intrecciandosi variamente nei successivi. Vediamole in particolare: 1. Angelica fugge da Rinaldo e s’imbatte in Ferraù (ott. 11-15); 2. combattimento e successiva tregua fra Rinaldo e Ferraù (ott. 16-22); 3. Ferraù, incamminatosi per il bosco alla ricerca di Angelica fuggiasca, si ritrova al punto di partenza, sulle rive del ruscello dove aveva perduto l’elmo; lì gli appare il fantasma di Argalia (ott. 23-31); 4. Rinaldo, anch’egli impegnato nell’inseguimento di Angelica, s’imbatte nel suo destriero Baiardo (ott. 31-32); 5. Angelica in fuga trova rifugio in un boschetto adorno, dove sopraggiunge Sacripante; la fanciulla sente, non vista, i lamenti del guerriero e pensa di poter ottenere da lui un aiuto; da parte sua, anche Sacripante ha in mente di approfittare della situazione («Corrò la fresca e matutina rosa») per ottenere quello che brama (ott. 33-59); 6. arriva un misterioso cavaliere, che affronta Sacripante e lo disarciona, «qual istordito e stupido aratore»; per sua massima vergogna, Angelica lo soccorre e lo consola (ott. 60-67); 7. arriva a cavallo d’un ronzino lo scudiero dell’incognito campion, il quale rivela che quel misterioso personaggio altri non è che la bella e intrepida Bradamante: Sacripante è stato battuto da una gentil donzella. Il guerriero pagano, mortificato, prende in groppa al suo cavallo Angelica e rimanda ad altro momento la conquista della fanciulla (ott. 68-71).
Un geniale compendio dell’universo del Furioso In questo primo canto del Furioso Ariosto ha voluto presentare ai suoi lettori quello che potremmo definire, con espressione manzoniana, “il sugo” di tutta quanta l’opera, dal punto di vista sia del contenuto sia dello stile e delle tecniche narrative. Leggendo questo canto d’esordio ci troviamo immediatamente immersi in quella particolare atmosfera fantastica e lieve di cui è permeato l’intero poema, oltre che nel rapido ritmo narrativo che ci trasporta da una scena all’altra e ci permette di incontrare alcuni tra i suoi personaggi più importanti, come in una specie di carrellata cinematografica. Vediamo i principali aspetti che emergono in questo felicissimo “compendio”. • L’impiego esasperato dell’entrelacement Nel primo canto Ariosto sembra voler dare una dimostrazione esemplare del procedimento narrativo che dominerà la narrazione del Furioso: l’entrelacement. Le avventure di un personaggio a un certo punto si interrompono in modo
284 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
brusco e inaspettato, per lasciar spazio a quelle di un secondo personaggio, che a loro volta si intersecheranno con quelle di un terzo, per poi interrompersi ed essere sostituite e così via. Le interruzioni possono aver luogo o per un intervento esterno da parte del narratore, che decide di spostare il riflettore da un personaggio a un altro («ma seguitiamo Angelica che fugge…», ott. 32); o per un fattore interno al racconto stesso: incontri casuali, imprevisti, colpi di scena. Il caso, con l’incontrastabile potere che esercita sulla vita dell’uomo, è infatti uno dei motivi più significativi del poema, e in questo primo canto lo si può vedere assai bene: l’azione procede grazie all’energia incontrollabile della sorte, che domina e determina tutti i movimenti dei personaggi, quasi come se fossero pedine su di una scacchiera. • La ricerca e l’attesa delusa Il principale motore di tutto quanto il movimento narrativo, come abbiamo detto, è la ricerca (la quête della narrativa bretone), una ricerca il cui appagamento viene immancabilmente differito. Tutti, in questo canto così come nell’intero poema, cercano qualcosa: Angelica il ritorno a casa, Ferraù l’elmo caduto nel ruscello, Rinaldo il suo destriero Baiardo... Ma, tranne Angelica, le cui azioni sono tutte mirate con opportunistica tenacia al raggiungimento del primo scopo (ritornare in patria), nessun altro fra i personaggi è costante nel perseguire il proprio oggetto di desiderio: tutti, prima o poi, si fanno distrarre, cambiano idea, ritornano sui propri passi o si scoraggiano. E, dopo tanto movimento, alla fine del canto nessuno sarà riuscito a ottenere quello che cercava. Questo inconcludente affannarsi dei personaggi diventa metafora di una visione della vita velata dal pessimismo, sia pur temperato dall’ironia. L’uomo, sembrerebbe suggerire l’Ariosto fin da questo primo canto, consuma i suoi giorni nell’inseguimento di qualcosa che non potrà mai raggiungere e magari perde quel poco che la sorte avara e beffarda sarebbe magari disposta a concedergli. È proprio quello che accade a Ferraù, che per inseguire l’irraggiungibile Angelica perde di vista il prosaico, ma anche più realistico, obiettivo dell’elmo; o a Rinaldo, che per lo stesso motivo si lascia scappare il destriero Baiardo.
Un ritmo narrativo frenetico Il ritmo narrativo del canto è improntato a un estremo dinamismo; si potrebbe quasi definire frenetico: cambi di scena frequenti e veloci, netta preponderanza di verbi ed espressioni di movimento. Si tratta, come abbiamo visto, di un movimento quasi a vuoto, privo di una meta vera e propria: un movimento circolare, come nel caso di Ferraù che si ritrova al punto di partenza; o di Rinaldo, che lascia Baiardo alla sua fuga per inseguire Angelica, ma alcune ottave più avanti torna a imbattersi nell’animale.
Gli interventi del narratore Il narratore non si trincera dietro l’autorità della propria posizione onnisciente, ma interviene in maniera scoperta, o per sottolineare certi snodi della narrazione o per commentare, spesso in modo ironico, quanto accade ai suoi personaggi. Attraverso i propri interventi Ariosto stabilisce un contatto diretto con i lettori, invitati a loro volta a stabilire un distacco ironico dalla materia narrata. Celeberrimi i versi che accompagnano l’anomala alleanza tra Rinaldo e Ferraù, inopinatamente amici per inseguire Angelica fuggiasca («oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!», ott. 22); o ancora lo smaliziato commento che accompagna l’accorata rivendicazione di verginità da parte della fanciulla («Forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore», ott. 56).
L’“abbassamento” ironico della materia cavalleresca Già da questo primo canto possiamo vedere come Ariosto modelli la materia cavalleresca per trasmettere ai lettori la sua visione del mondo smagata e lontana da qualsiasi idealismo. Lo scrittore considera ormai lontani gli ideali e i valori della cavalleria; i suoi personaggi perdono dunque lo statuto di eroi epici e cavallereschi per acquistare un’umanità inedita attraverso lo sguardo divertito e disincantato del poeta, che ne svela le debolezze e li riporta sul piano di una comune umanità: ecco che allora, alla sua prima apparizione sulla ribalta del poema, il prode Rinaldo in corsa per la foresta viene paragonato al «villan mezzo ignudo» che gareggia per ricevere in premio il pallio rosso; a sua volta il cavaliere saraceno Ferraù viene colto in un momento assolutamente antieroico, quando, «di sudor pieno e tutto polveroso», cerca un po’ di refrigerio nelle acque di un fresco ruscello e, da vero sbadato, vi lascia cadere l’elmo; o ancora Sacripante, guerriero fiero e ardimentoso che, disarcionato da Bradamante, appare come un «istordito e stupido aratore» dopo che è stato colpito dal fulmine.
L’Orlando furioso 3 285
Un’ottica antidealistica e pragmatica Oltre al sistematico abbassamento ironico della materia cavalleresca, emerge in più punti di questo canto (e attraverserà l’intero poema) anche un atteggiamento di totale pragmatismo, che incrina i pilastri su cui si fondava l’etica cortese. Il momento in cui con maggior evidenza si manifesta questa posizione del poeta si incontra alle ott. 19 e 20, quando Rinaldo interrompe il combattimento con Ferraù per fargli notare che, quale che sia l’esito del loro duello, Angelica sarebbe comunque perduta per entrambi, dal momento che se ne sta fuggendo indisturbata. Di qui la proposta “sensata” e appunto pragmatica (del tutto incompatibile con l’ottica cavalleresca), di raggiungere una tregua e unire le loro forze per lanciarsi all’inseguimento della fanciulla; e la concretezza prosaica dimostrata da Rinaldo spicca ancora di più, se rapportata all’aulicità del lessico amoroso che lui stesso utilizza per descrivere il sentimento di Ferraù per Angelica («se questo avvien perché i fulgenti rai / del nuovo sol t’abbino il petto acceso»). Giungerà poi a suggellare il raggiunto accordo l’ironico commento del poeta: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!». Analogo pragmatismo caratterizza anche Angelica, la figura femminile-chiave del poema. Angelica è sempre mossa esclusivamente dalla volontà di perseguire il proprio scopo: si veda ad esempio l’ott. 50, che la dipinge mentre valuta attentamente l’opportunità di avvalersi di Sacripante come guida nella selva («Pur tra quei boschi il ritrovarsi sola / le fa pensar di tor costui per guida; / che chi ne l’acqua sta fino alla gola / ben è ostinato se mercé non grida»); solo in quest’ottica va letta la sollecitudine con cui si affanna a rivendicare il proprio onore intatto davanti al saraceno.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza la scena dello scontro tra Sacripante e il cavaliere misterioso. 2. Rintraccia nel canto gli interventi diretti da parte dell’autore e riassumine il contenuto. Ti sembra di poter individuare in essi un tono comune? COMPRENSIONE 3. La prima azione che vediamo svolgersi sulla scena dell’Orlando furioso è la fuga di Angelica attraverso un bosco: quali vicende costituiscono l’antefatto all’incessante fuga della fanciulla? In particolare, in questo canto, da chi fugge Angelica? 4. In quale punto del canto emerge il tema della magia? ANALISI 5. In quale punto del testo e con quale funzione compare il motivo canonico del locus amoenus, ereditato dalla tradizione classica? 6. Che cosa indica nel mondo poetico ariostesco il tema della quête, che emerge già qui? STILE 7. A chi viene paragonato Rinaldo al suo primo apparire in scena? Rintraccia i versi in questione e fanne la parafrasi; quindi rispondi: come si spiega l’uso di un paragone così prosaico e addirittura irriverente per un paladino?
Interpretare
LETTERATURA E NOI 8. Il personaggio di Angelica compare da subito accompagnato dal canonico epiteto di bella; la fanciulla è presentata come l’oggetto dello sconfinato amore di Orlando, ma nel corso del canto il suo personaggio si arricchisce di caratteri e connotazioni proprie. Quale idea ti sei fatto di questa donzella in fuga perenne? Tracciane un breve ritratto. TESTI A CONFRONTO 9. Ti proponiamo un brano tratto dalla Presentazione dell’Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, che tra l’altro è una lettura molto piacevole per chi voglia tentare un approccio diretto e “amichevole” al poema di Ariosto (naturalmente non può sostituire la lettura diretta dell’opera!). Rifletti sulle acute osservazioni di Calvino, cercando di calarle nella lettura di questo primo canto del Furioso. Dall’inizio l’Orlando Furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definirlo il primo canto tutti inseguimenti, disguidi, fortuiti incontri, smarrimenti, cambiamenti di programma.
286 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degl’inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento errante della poesia dell’Ariosto.
VERSO IL NOVECENTO
I. Calvino, Orlando Furioso di Lodovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Mondadori, Milano 1995
Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato Il poema dell’Ariosto attraversa anche il Novecento, e in particolare costituisce un punto di riferimento centrale per uno dei più importanti scrittori del secolo, Italo Calvino. Fin dai primi anni della sua attività letteraria, egli avverte una forte affinità con il poeta dell’Orlando furioso, di cui scrive: «Tra tutti i poeti della nostra tradizione, quello che sento più vicino e nello stesso tempo più oscuramente affascinante è Ludovico Ariosto, e non mi stanco di rileggerlo». Calvino si è occupato di Ariosto innanzitutto in sede critica, analizzando in numerosi saggi le caratteristiche della poesia dell’Ariosto. Nel 1968 tiene una serie di trasmissioni radiofoniche, dalle quali nasce in seguito la celebre antologia Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino (1970). Si tratta di una scelta di canti del poema, che vengono introdotti e collegati attraverso affascinanti riassunti-racconti, ispirati a una vera e propria mimesi dello “sguardo” e della “leggerezza” dello stile di Ariosto (Il lamento di Sacripante e la rosa). Nelle ormai celebri Lezioni americane – un ciclo di sei conferenze che lo scrittore era stato invitato a tenere nel 1984 dall’università di Harvard e che furono pubblicate postume per l’improvvisa morte di Calvino l’anno dopo – si fa riferimento all’Ariosto solo nella lezione dedicata appunto alla “leggerezza”, ma l’ispirazione ariostesca traspare anche nelle altre (dedicate a rapidità, esattezza, molteplicità, visibilità).
Italo Calvino Il lamento di Sacripante e la rosa I. Calvino, Orlando Furioso di Lodovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1970
Il brevissimo passo che proponiamo può dare almeno un’idea dell’operazione condotta da Calvino nella sua rilettura e insieme antologizzazione dell’Orlando furioso: il passo si riferisce al momento in cui, nel primo canto del poema, il guerriero saraceno Sacripante – innamorato, come tanti altri, della bella Angelica – si lamenta che la sua verginità (la rosa) possa essere stata colta da altri.
Angelica scruta tra gli arbusti e vede un guerriero enorme, dai lunghi baffi spioventi, armato di tutto punto, che se ne sta sdraiato come lei dall’altra parte del cespuglio, la guancia posata su una mano, e lamentandosi mormora delle frasi senza senso: la verginella... la rosa... Sta parlando di rose, questo pezzo di soldataccio: annusa una rosa appena sbocciata, e dice che sarebbe un peccato coglierla, che una volta spiccata dal suo stelo perde ogni valore; a lui sfortunato capita così ogni volta, che le rose le colgono sempre gli altri; ma sarà proprio vero, che la rosa già colta perde di valore? E perché lui allora non riesce a dimenticarla? online
Entra in scena la magia T6a Ludovico Ariosto Un anello, un mago, un cavallo alato... Orlando furioso IV, 4-8 T6b Ludovico Ariosto Un duello a colpi di magia: Bradamante sfida il mago Atlante Orlando furioso IV, 16-39
L’Orlando furioso 3 287
Ludovico Ariosto
T7
Rinaldo difensore dei “diritti delle donne”
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Orlando furioso IV, 51-67 L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974
Nella seconda parte del canto IV, Ariosto dà spazio a un’avventura dall’esibito “colorito bretone”: ne è protagonista Rinaldo, che va a finire nella selva Caledonia, teatro per eccellenza, nella tradizione, delle avventure cavalleresche degli eroi arturiani. Quasi ispirato dalla suggestione del luogo, Rinaldo si sente in dovere di andare in cerca di avventure cortesi. Capita in un convento dove viene amabilmente accolto dai frati, che gli propongono un’impresa veramente degna di un cavaliere: la giovane figlia del re, Ginevra, è ingiustamente accusata di lussuria e, secondo le leggi del luogo, se non trova un cavaliere che la difenda e la scagioni dall’accusa, dovrà morire. Rinaldo, pronto ad assumersi l’onere, fa alcune interessanti riflessioni...
51 Rinaldo l’altro e l’altro giorno scòrse1, spinto dal vento, un gran spazio di mare, quando a ponente e quando contra l’Orse2, che notte e dì non cessa mai soffiare. Sopra la Scozia ultimamente sorse3, dove la selva Calidonia4 appare, che spesso fra gli antiqui ombrosi cerri5 s’ode sonar di bellicosi ferri6.
53 ed altri cavallieri e de la nuova e de la vecchia famosi: restano ancor di più d’una lor pruova li monumenti e li trofei pomposi11. L’arme Rinaldo e il suo Baiardo12 truova, e tosto si fa por nei liti ombrosi13, ed al nochier comanda che si spicche14 e lo vada aspettar a Beroicche15.
52 Vanno per quella i cavallieri erranti, incliti in arme7, di tutta Bretagna, e de’ prossimi luoghi e de’ distanti, di Francia, di Norvegia e de Lamagna8. Chi non ha gran valor, non vada inanti9; che dove cerca onor, morte guadagna. Gran cose in essa già fece Tristano, Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano10,
54 Senza scudiero e senza compagnia va il cavallier per quella selva immensa, facendo or una ed or un’altra via, dove più aver strane aventure pensa16. Capitò il primo giorno a una badia, che buona parte del suo aver dispensa in onorar nel suo cenobio adorno le donne e i cavallier che vanno attorno17.
La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 scòrse: percorse. 2 contra l’Orse: verso nord. 3 ultimamente sorse: alla fine sbarcò. 4 selva Calidonia: la selva di Darnantes, teatro delle principali imprese dei cavalieri arturiani. 5 cerri: alberi simili alle querce. 6 s’ode… ferri: si sente risuonare dei rumori delle armi. 7 incliti in arme: famosi per le loro imprese militari. 8 Lamagna: Alemagna, cioè la Germania.
9 inanti: innanzi. 10 Vanno per quella... Galvano: in una dimensione spazio-temporale sospesa e magica, Ariosto evoca gli antichi cavalieri erranti della Tavola Rotonda (più avanti cita la vecchia del padre di Artù e la nuova e più celebre: appunto quella di re Artù), ai quali nel tempo ne sono succeduti altri che si aggirano affascinati nello spazio dell’avventura. 11 restano ancor... pomposi: rimangono le splendide testimonianze («li monumenti e li trofei pomposi») di più di una loro impresa (pruova). 12 Baiardo: è il cavallo di Rinaldo. 13 tosto... ombrosi: subito si fa sbarcare
288 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
sulle spiagge ombrose. 14 si spicche: se ne vada da lì. 15 Beroicche: Berwick, fra Scozia e Inghilterra. 16 Senza scudiero... pensa: Rinaldo, pienamente investito del ruolo di cavaliere errante, come se il luogo dove è capitato glielo imponesse, si immette consapevolmente nello spazio dell’avventura. 17 Capitò... attorno: una ben strana badìa, questa dove capita Rinaldo: i monaci spendono buona parte dei loro averi per accogliere degnamente e allietare nel bel monastero (cenobio) «le donne e i cavallier». Più che una badìa sembra una corte rinascimentale.
55 Bella accoglienza i monachi e l’abbate fero18 a Rinaldo, il qual domandò loro (non prima già che con vivande grate avesse avuto il ventre amplo ristoro)19 come dai cavallier sien ritrovate spesso aventure per quel tenitoro20, dove si possa in qualche fatto eggregio l’uom dimostrar, se merta biasmo o pregio. 56 Risposongli ch’errando in quelli boschi, trovar potria21 strane aventure e molte: ma come i luoghi, i fatti ancor son foschi22; che non se n’ha notizia le più volte. – Cerca (diceano) andar dove conoschi che l’opre tue non restino sepolte, acciò dietro al periglio e alla fatica segua la fama, e il debito ne dica23. 57 E se del tuo valor cerchi far prova, t’è preparata la più degna impresa che ne l’antiqua etade o ne la nova giamai da cavallier sia stata presa24. La figlia del re nostro or se ritrova bisognosa d’aiuto e di difesa contra un baron che Lurcanio si chiama, che tor le cerca e la vita e la fama25. 58 Questo Lurcanio al padre l’ha accusata (forse per odio più che per ragione) averla a mezza notte ritrovata trarr’un suo amante a sé sopra un verrone26. 18 fero: fecero. 19 (non prima... ristoro): non prima però che il suo ventre si fosse ben saziato con piacevoli vivande. 20 tenitoro: territorio. 21 trovar potria: avrebbe potuto trovare. 22 come i luoghi... son foschi: come i luoghi sono in ombra, così anche le imprese (come spiegano i frati al verso successivo) sono rimaste sconosciute. Invitano perciò Rinaldo a scegliere un’impresa che possa essere conosciuta, dandogli la fama. 23 acciò... ne dica: affinché al pericolo e alla fatica segua l’onore (la fama) e li celebri debitamente. 24 presa: affrontata. 25 che tor... la fama: che cerca di toglierle sia la vita sia l’onore.
Per le leggi del regno condannata al fuoco fia, se non truova campione che fra un mese, oggimai presso a finire, l’iniquo accusator faccia mentire27. 59 L’aspra legge di Scozia, empia e severa, vuol ch’ogni donna, e di ciascuna sorte28, ch’ad uomo si giunga, e non gli sia mogliera29, s’accusata ne viene, abbia la morte. Né riparar si può ch’ella non pera30, quando per lei non venga un guerrier forte31 che tolga la difesa32, e che sostegna che sia innocente e di morire indegna. 60 Il re, dolente per Ginevra33 bella (che così nominata è la sua figlia), ha publicato34 per città e castella, che s’alcun la difesa di lei piglia, e che l’estingua la calunnia fella35 (pur che sia nato di nobil famiglia), l’avrà per moglie, ed uno stato, quale fia convenevol dote a donna tale36. 61 Ma se fra un mese alcun per lei37 non viene, o venendo non vince, sarà uccisa. Simile impresa meglio ti conviene, ch’andar pei boschi errando a questa guisa38: oltre ch’onor e fama te n’aviene ch’in eterno da te non fia divisa, guadagni il fior di quante belle donne da l’Indo sono all’Atlantee colonne39;
26 averla... verrone: di averla scoperta a mezza notte mentre faceva salire su un balcone un suo amante. 27 Per le leggi… faccia mentire: Secondo le leggi del regno sarà (fia) condannata al rogo (al fuoco) se non trova un valoroso cavaliere che entro un mese, termine ormai vicino a finire, smentisca (faccia mentire) il malvagio accusatore. 28 ciascuna sorte: qualsiasi condizione. Quindi anche una principessa, come in questo caso. 29 ch’ad uomo... mogliera: che si unisca a un uomo senza essergli moglie. 30 Né... pera: E non si può in alcun modo evitarle la morte. 31 quando per lei... forte: a meno che non venga in suo soccorso un valente cavaliere.
32 tolga la difesa: ne assuma la difesa. 33 Ginevra: la fanciulla porta dunque un nome importante nella tradizione cavalleresca: nientemeno che quello della sposa di Artù, amata da Lancillotto. 34 ha publicato: ha fatto un editto. 35 e che... fella: e che sappia toglierle di dosso la malvagia calunnia. 36 ed uno stato... tale: e riceverà dal re una condizione che possa costituire una dote adeguata a chi ne sposa la figlia. 37 per lei: per aiutare lei. 38 a questa guisa: in questo modo. Cioè attendendo la casuale comparsa di qualche avventura degna. 39 oltre… colonne: oltre al fatto che te ne derivano (dall’impresa di difendere Ginevra) onore e fama, che saranno sem-
L’Orlando furioso 3 289
62 e una ricchezza appresso, ed uno stato che sempre far ti può viver contento; e la grazia del re, se suscitato per te gli fia il suo onor, che è quasi spento40. Poi per cavalleria tu se’ ubligato a vendicar di tanto tradimento costei, che per commune opinione, di vera pudicizia è un paragone41. –
65 Non vo’ già dir ch’ella non l’abbia fatto; che nol sappiendo, il falso dir potrei: dirò ben che non de’ per simil atto punizion cadere alcuna in lei46; e dirò che fu ingiusto o che fu matto chi fece prima li statuti rei47; e come iniqui rivocar si denno48, e nuova legge far con miglior senno.
63 Pensò Rinaldo alquanto, e poi rispose42: – Una donzella dunque de’ morire perché lasciò sfogar ne l’amorose sue braccia al suo amator tanto desire? Sia maladetto chi tal legge pose, e maladetto chi la può patire! Debitamente muore una crudele43, non chi dà vita al suo amator fedele.
66 S’un medesimo ardor, s’un disir pare inchina e sforza l’uno e l’altro sesso a quel suave fin d’amor, che pare all’ignorante vulgo un grave eccesso; perché si de’ punir donna o biasmare, che con uno o più d’uno abbia commesso quel che l’uom fa con quante n’ha appetito, e lodato ne va, non che impunito?49
64 Sia vero o falso che Ginevra tolto s’abbia44 il suo amante, io non riguardo a questo: d’averlo fatto la loderei molto, quando non fosse stato manifesto. Ho in sua difesa ogni pensier rivolto: datemi pur un chi mi guidi presto, e dove sia l’accusator mi mene; ch’io spero in Dio Ginevra trar di pene45.
67 Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti; e spero in Dio mostrar che gli è gran male che tanto lungamente si comporti50. – Rinaldo ebbe il consenso universale, che fur gli antiqui ingiusti e male accorti, che consentiro a così iniqua legge, e mal fa il re, che può, né la corregge.
pre con te («ch’in eterno da te non fia divisa»), conquisti il fior fiore delle belle donne che abitano le terre fra l’Indo (l’Oriente) e le colonne d’Ercole, (lo stretto di Gibilterra). Cioè tutto il mondo allora conosciuto. 40 la grazia... spento: la gratitudine del re se, grazie a te, gli sarà ripristinato (susci-
online T8 Ludovico Ariosto
Ruggiero all’isola di Alcina Orlando furioso VI, 20-22; 27-44; 47-51 T9 Ludovico Ariosto Una terribile invenzione di guerra: l’archibugio Orlando furioso IX, 28-31 e 89-91; XI, 21-27
tato) il suo onore, che ora è quasi svanito. 41 paragone: esempio. 42 Pensò... rispose: si aprono qui e si sviluppano per le successive quattro ottave le riflessioni personali di Rinaldo su quanto ha appena udito. 43 Debitamente... crudele: È giusto che muoia una donna che non si concede all’amore. 44 tolto s’abbia: abbia ammesso (alla sua camera). 45 datemi pur… trar di pene: datemi pure uno che mi faccia in fretta da guida, e mi conduca (mi mene) dove si trova l’accusatore, perché io spero, con l’aiuto di Dio (in Dio), di poter liberare Ginevra dal tormento. 46 in lei: su di lei. 47 chi... rei: chi stabilì queste leggi assurde.
290 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
48 come... si denno: si devono revocare perché inique.
49 S’un medesimo... impunito: Se è vero che uno stesso ardente desiderio inclina e spinge (inchina e sforza) l’uno e l’altro sesso a quella dolce meta dell’amore (il congiungimento carnale) che appare al volgo ignorante un eccesso dannoso, perché si deve punire o biasimare una donna che abbia commesso con uno o più uomini quello che l’uomo fa con quante donne desidera (n’ha appetito) e (addirittura) viene lodato e certo non punito? 50 Son fatti... si comporti: In questa legge diseguale vengono fatti alle donne torti evidenti (espressi) e io spero, nel nome di Dio, di mostrare che è un gran male il fatto che si sopporti (la legge) per così lungo tempo.
Analisi del testo L’impresa di Rinaldo Rinaldo arriva nella selva di Darnantes, teatro delle principali imprese dei cavalieri arturiani, e dopo aver percorso varie vie si imbatte in una strana badìa, che sembra avere le caratteristiche di una corte rinascimentale. Dopo aver ricevuto una buona accoglienza dai monaci, Rinaldo chiede loro in quale impresa possa dimostrare il proprio valore, ma non prima di essersi saziato con piacevoli vivande. Il desiderio di nobili avventure non implica certo in lui la rinuncia a soddisfare i prosaici bisogni del corpo, commenta ironicamente Ariosto. I monaci spiegano a Rinaldo che molte valide imprese sono rimaste nell’ombra e che se vorrà conquistare fama dovrà scegliersi un’impresa che possa essere conosciuta: così gli narrano la storia di Ginevra.
Le riflessioni di Rinaldo A questo punto iniziano le riflessioni di Rinaldo, che occupano ben quattro ottave. L’eroe maledice chi ha redatto le leggi del regno, arrivando ad affermare che dovrebbe invece morire una donna che non si concede all’amore. A Rinaldo non interessa se Ginevra abbia commesso o meno ciò di cui viene accusata, ma considera assurde le norme, che secondo lui dovrebbero essere revocate perché ingiuste. La cosa interessante è che per Rinaldo è ingiusto il fatto che si punisca una donna per aver ceduto all’amore, quando invece non viene punito, ma anzi viene lodato, l’uomo che si congiunge a tutte le donne che più desidera. Attraverso il personaggio di Rinaldo, Ariosto arriva ad affermare che con queste regole, che non contemplano uguaglianza tra i sessi, vengono fatti espressi torti alle donne.
La descrizione dell’amore Molto interessante è la descrizione dell’amore (ott. 66), la cui meta è il congiungimento carnale, giudicato invece dannoso dal volgo ignorante. Dietro questa idea dell’amore sembra di cogliere lo stesso pensiero che Boccaccio esprime in numerose novelle del Decameron.
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
tecnica narratiVa 1. Suddividi l’episodio in sequenze. ParaFraSi 2. Fai la parafrasi delle ottave 56-62. SinteSi 3. Sintetizza le considerazioni di Rinaldo sul caso di Ginevra. anaLiSi 4. C’è un punto del testo in cui si comprende chiaramente che Ariosto non crede più che i valori della società cavalleresca possano rivivere nella società a lui contemporanea, e anzi pratica un abbassamento della materia cavalleresca. Rintraccia il passo nel testo da cui si evince un tale cambiamento rispetto allo stesso Boiardo, che guarda con nostalgia a quel mondo. LeSSico 5. Rintraccia, trascrivi e commenta le espressioni riconducibili al codice cortese-cavalleresco.
interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
Letteratura e noi
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
6. Le ottave 66 e 67 fanno comprendere quanto possa essere giudicato moderno il poema di Ariosto: in esse Rinaldo rivendica l’uguaglianza tra il sesso maschile e quello femminile e giudica ingiuste le leggi che prevedono un diverso trattamento tra uomo e donna; tanto più se la punizione deriva dall’aver ceduto all’amore, visto come una forza naturale. Vengono utilizzate espressioni quali «statuti rei e iniqui», e si arriva ad affermare «Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti». Grandi passi in avanti sono stati compiuti dal periodo in cui Ariosto pubblica il suo Orlando furioso, ma ancora ne debbono essere fatti se, tra gli Obiettivi dell’Agenda 2030, il n. 5 è dedicato alla parità di genere. Cerca in Internet il contenuto dell’Obiettivo 5 e commenta le parti che ti colpiscono maggiormente e sulle quali secondo te c’è ancora bisogno di porre l’attenzione.
L’Orlando furioso 3 291
Collabora all’analisi
T10
Ludovico Ariosto
Il palazzo dei desideri Orlando furioso XII, 4-22
L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974
Il prode paladino Orlando ha percorso quasi tutta la Francia sulle tracce dell’amata Angelica, sempre sfuggente; ora la sta cercando in Italia, in Germania, in Spagna, addirittura fino in Libia. Ma all’improvviso una voce supplichevole lo distoglie dai suoi propositi e lo attrae in una dimensione meravigliosa: la voce sembra proprio quella di Angelica, che lo chiama dentro uno strano palazzo, dove tutti cercano qualcosa o qualcuno… È il palazzo di Atlante, una delle invenzioni più suggestive del poema.
4 L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia1 per Italia cercarla e per Lamagna2, per la nuova Castiglia e per la vecchia3, e poi passare in Libia il mar di Spagna4. Mentre pensa così, sente all’orecchia una voce venir, che par che piagna: si spinge inanzi; e sopra un gran destriero trottar si vede innanzi un cavalliero,
6 Non dico ch’ella fosse, ma parea Angelica gentil ch’egli tant’ama. Egli, che la sua donna e la sua dea vede portar sì addolorata e grama11, spinto da l’ira e da la furia rea, con voce orrenda il cavallier richiama; richiama il cavalliero e gli12 minaccia, e Brigliadoro a tutta briglia caccia.
5 che porta in braccio e su l’arcion davante per forza5 una mestissima donzella. Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante di gran dolore6; ed in soccorso appella7 il valoroso principe d’Anglante8; che come mira alla giovane bella9, gli par colei, per cui la notte e il giorno cercato Francia avea dentro e d’intorno10.
7 Non resta quel fellon13, né gli risponde, all’alta preda, al gran guadagno intento14, e sì ratto ne va per quelle fronde15, che saria tardo a seguitarlo il vento16. L’un fugge, e l’altro caccia17; e le profonde selve s’odon sonar d’alto lamento18. Correndo usciro in un gran prato; e quello avea nel mezzo un grande e ricco ostello19.
La metrica Strofe di ottave: quattro cop-
6 fa sembiante di gran dolore: rivela
14 all’alta... intento: tutto intento a por-
pie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 s’apparecchia: si prepara. 2 Lamagna: Germania. 3 per la nuova... la vecchia: regioni della Spagna. 4 passare... Spagna: passare il mar di Spagna (lo stretto di Gibilterra), per andare in Libia (cioè in Africa). 5 per forza: trattenendola con la forza, contro la sua volontà.
nell’aspetto una grande sofferenza. 7 appella: chiama. 8 il valoroso principe d’Anglante: Orlando. 9 come mira... bella: non appena guarda verso la bella giovane. 10 colei… e d’intorno: la perifrasi indica l’oggetto della sua ricerca, Angelica. 11 grama: infelice. 12 gli: lo. 13 Non resta quel fellon: non si ferma quel vigliacco.
tar via la sua nobile preda, il suo prezioso bottino. 15 fronde: metonimia per indicare il bosco. 16 saria... il vento: il vento sarebbe lento nell’inseguirlo. 17 caccia: insegue. 18 sonar d’alto lamento: risonare di un acuto lamento. 19 ostello: palazzo.
292 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
8 Di vari marmi con suttil20 lavoro edificato era il palazzo altiero21. Corse dentro alla porta messa d’oro22 con la donzella in braccio il cavalliero. Dopo non molto giunse Brigliadoro, che porta Orlando disdegnoso e fiero. Orlando, come è dentro, gli occhi gira; né più il guerrier, né la donzella mira.
11 E mentre or quinci or quindi invano il passo movea, pien di travaglio36 e di pensieri, Ferraù, Bradamante e il re Gradasso, re Sacripante ed altri cavallieri vi ritrovò, ch’andavano alto e basso37, né men facean di lui vani sentieri38; e si ramaricavan del malvagio invisibil signor di quel palagio.
9 Subito smonta, e fulminando23 passa dove più dentro il bel tetto s’alloggia24: corre di qua, corre di là, né lassa che non vegga ogni camera, ogni loggia25. Poi che i segreti d’ogni stanza bassa26 ha cerco27 invan, su per le scale poggia28; e non men perde anco a cercar di sopra, che perdessi di sotto, il tempo e l’opra29.
12 Tutti cercando il van39, tutti gli dànno colpa di furto alcun che lor fatt’abbia: del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno40; ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia41; altri d’altro l’accusa: e così stanno, che non si san partir di quella gabbia42; e vi son molti, a questo inganno presi, stati le settimane intiere e i mesi.
10 D’oro e di seta i letti ornati vede: nulla de muri appar né de pareti30; che quelle, e il suolo ove si mette il piede, son da cortine ascose e da tapeti31. Di su di giù va il conte Orlando e riede32; né per questo può far gli occhi mai lieti33 che riveggiano34 Angelica, o quel ladro che n’ha portato35 il bel viso leggiadro.
13 Orlando, poi che quattro volte e sei tutto cercato ebbe il palazzo strano43, disse fra sé: – Qui dimorar potrei, gittare il tempo e la fatica invano: e potria il ladro aver tratta costei da un’altra uscita, e molto esser lontano. – Con tal pensiero uscì nel verde prato, dal qual tutto il palazzo era aggirato.
20 suttil: raffinato. 21 altiero: superbo, splendido. 22 messa d’oro: dorata. 23 fulminando: correndo veloce come un fulmine.
24 dove… s’alloggia: nelle stanze più interne del palazzo.
25 né lassa... ogni loggia: e non tralascia di ispezionare ogni camera, ogni portico. 26 bassa: situata al pianterreno. 27 ha cerco: ha cercato. 28 poggia: sale. 29 non men... il tempo e l’opra: non perde meno tempo e fatica a cercare anche di sopra, di quanto ne abbia persi (che perdessi) di sotto. 30 nulla... de pareti: nulla si vede dei muri e delle pareti. 31 son... tapeti: sono coperte (nascose “nascoste”) da tendaggi e tappeti. 32 riede: ritorna.
33 può... mai lieti: può mai rallegrare gli occhi. 34 riveggiano: riveggano. 35 portato: rapito. 36 travaglio: angoscia. 37 andavano alto e basso: andavano su e giù, salivano e scendevano. 38 né men… sentieri: e non seguivano percorsi meno inutili di (quanti ne facesse) lui. 39 Tutti cercando il van: tutti lo vanno cercando vanamente. 40 altri è in affanno: uno è preoccupato. 41 ch’abbia... arrabbia: un altro è adirato per aver perduto la propria donna. 42 gabbia: trappola. 43 poi che... strano: dopo che un gran numero di volte (quattro volte e sei) ebbe esplorato (cercato) il palazzo misterioso.
Il palazzo di Atlante in un’incisione di Gustave Doré da un’edizione ottocentesca del Furioso.
L’Orlando furioso 3 293
14 Mentre circonda la casa silvestra44, tenendo pur45 a terra il viso chino, per veder s’orma appare, o da man destra o da sinistra, di nuovo camino46; si sente richiamar da una finestra: e leva gli occhi; e quel parlar divino gli pare udire, e par che miri il viso, che l’ha da quel che fu, tanto diviso47. 15 Pargli Angelica udir, che supplicando e piangendo gli dica: – Aita48, aita! la mia virginità ti raccomando più che l’anima mia, più che la vita. Dunque in presenza del mio caro Orlando da questo ladro mi sarà rapita? più tosto di tua man dammi la morte, che venir lasci49 a sì infelice sorte. – 16 Queste parole una ed un’altra volta fanno Orlando tornar per ogni stanza, con passione50 e con fatica molta, ma temperata pur d’alta speranza51. Talor si ferma, ed una voce ascolta, che di quella d’Angelica ha sembianza (e s’egli è da una parte, suona altronde52), che chieggia aiuto; e non sa trovar donde53. 17 Ma tornando a Ruggier, ch’io lasciai quando dissi che per sentiero ombroso e fosco il gigante e la donna seguitando, in un gran prato uscito era del bosco54;
io dico ch’arrivò qui dove Orlando dianzi55 arrivò, se ’l loco riconosco. Dentro la porta il gran gigante passa: Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa56. 18 Tosto che pon dentro alla soglia il piede, per la gran corte e per le logge mira; né più il gigante né la donna vede, e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira. Di su di giù va molte volte e riede57; né gli succede mai quel che desira: né si sa imaginar dove sì tosto con la donna il fellon si sia nascosto. 19 Poi che revisto ha quattro volte e cinque di su di giù camere e logge e sale, pur di nuovo ritorna, e non relinque58 che non ne cerchi fin sotto le scale. Con speme al fin che sian ne le propinque selve, si parte59: ma una voce, quale60 richiamò Orlando, lui chiamò non manco61; e nel palazzo il fe’ ritornar anco. 20 Una voce medesma, una persona che paruta era Angelica ad Orlando, parve a Ruggier la donna di Dordona62, che lo tenea di sé medesmo in bando63. Se con Gradasso o con alcun64 ragiona di quei ch’andavan nel palazzo errando, a tutti par che quella cosa sia, che più ciascun per sé brama e desia65.
44 circonda... silvestra: gira attorno all’e-
51 temperata... speranza: addolcita co-
dificio posto in mezzo al bosco. 45 pur: continuamente. 46 per veder... nuovo camino: per veder se si nota un’orma di (che indichi) un passaggio recente (nuovo camino), a destra o a sinistra. 47 che l’ha… diviso: che l’ha fatto diventare un altro uomo. Perifrasi canonica nel lessico della tradizione lirica per indicare la donna amata o l’Amore. 48 Aita: Aiuto. 49 venir lasci: mi abbandoni. 50 passione: tormento.
munque da una grande speranza. 52 altronde: altrove. 53 donde: da dove. 54 ch’io lasciai… del bosco: a Ruggiero era parso di vedere Bradamante rapita da un gigante violento e malvagio, che il cavaliere stava inseguendo (seguitando) nel tentativo di salvare la donna amata (canto XI, ott. 13-21). 55 dianzi: prima di lui. 56 non lassa: non smette. 57 riede: ritorna. È un’eco del v. 5, ott. 10. 58 non relinque: non tralascia. È un latinismo.
294 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
59 Con speme… si parte: alla fine, Ruggiero esce dal castello (si parte), con la speranza che il gigante e Bradamante possano essere nascosti nei boschi vicini (propinque selve). 60 quale: simile a quella che. 61 non manco: non meno, anche. 62 la donna di Dordona: Bradamante. 63 di sé medesmo in bando: fuori di sé (per amore). 64 alcun: qualcuno. 65 a tutti... desia: a ciascuno pare di vedere nella medesima cosa ciò che desidera ardentemente per sé (brama e desia).
21 Questo era un nuovo e disusato incanto66 ch’avea composto Atlante di Carena67, perché Ruggier fosse occupato tanto in quel travaglio68, in quella dolce pena, che ’l mal’influsso n’andasse da canto, l’influsso ch’a morir giovene il mena69. Dopo il castel d’acciar, che nulla giova, e dopo Alcina, Atlante ancor fa pruova70.
66 disusato incanto: straordinario incantesimo. 67 Atlante di Carena: il mago-indovino che ha allevato Ruggiero. La fonte è, al solito, Boiardo; la Carena è una catena montuosa della Mauritania. 68 travaglio: affanno.
22 Non pur costui, ma tutti gli altri ancora, che di valore in Francia han maggior fama, acciò che di lor man Ruggier non mora, condurre Atlante in questo incanto trama71. E mentre fa lor far quivi dimora, perché di cibo non patischin brama72, sì ben fornito avea tutto il palagio, che donne e cavallier vi stanno ad agio.
69 che ’l mal’influsso… mena: così da allontanare (n’andasse da canto) l’influsso funesto del destino (’l mal’influsso), che lo conduce a una morte prematura (ch’a morir giovene il mena). 70 ancor fa pruova: ci prova ancora. 71 Non pur costui... trama: Atlante pro-
getta di condurre in questo luogo incantato non solo Ruggiero, ma anche tutti gli altri cavalieri che in Francia hanno fama maggiore per il loro valore, affinché Ruggiero non muoia ucciso da loro. 72 non patischin brama: non soffrano la mancanza.
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
L’episodio, per la parte qui presentata, si struttura in due sequenze principali: la prima riguarda Orlando (ott. 4-16), la seconda Ruggiero (ott. 17-20), che in questo importante episodio confermano il ruolo primario che Ariosto assegna loro nel poema. 1. Riassumi il contenuto delle due sequenze. Noti delle somiglianze? Nell’episodio torna in scena il mago Atlante, che già abbiamo incontrato in uno dei primi canti del poema. Anche in quel caso c’era un castello incantato dove Atlante recludeva, ma in un soggiorno piacevole, belle dame e cavalieri rapiti sul suo ippogrifo. 2. Indica l’obiettivo che muove il mago Atlante a creare un nuovo castello. In quali versi lo ritrovi enunciato? Ariosto crea precise simmetrie tra le due sequenze di Orlando e Ruggiero, sia a livello dello schema narrativo sia nel tono, ma anche attraverso la ricorrenza, certo non casuale, di termini ed espressioni analoghe. 3. Rintraccia e scheda, in particolare, la presenza, nelle due sequenze, di sintagmi che appartengono all’ambito spaziale e che traducono l’affannoso e vano girovagare dei due cavalieri (e non solo di questi) dentro il palazzo. Il gioco delle apparenze in uno spazio-tempo magico Il castello è una “fabbrica di artifici”, dove niente è quello che sembra e tutto si moltiplica e rifrange in un’infinita girandola di apparenze, come in una grande galleria degli specchi. E a riprova di ciò, questi versi sono un proliferare di
L’Orlando furioso 3 295
verbi ed espressioni appartenenti all’area semantica dell’“apparire”. Il palazzo stregato è uno spazio labirintico in cui ci si ritrova varie volte al punto di partenza, senza aver compiuto un reale itinerario; ma anche il tempo non è scandito da un “prima” e da un “dopo”, così che sembra regnare nella magica dimora una dimensione temporale circolare più che lineare, potenzialmente infinita. D’altra parte il palazzo è anche raffigurato dal narratore con dettagli verosimili: a differenza del primo castello, che vediamo solo dall’esterno ed è simile a un’inespugnabile roccaforte medievale, il secondo, descritto in modo più analitico, ricorda le sontuose dimore rinascimentali. 4. Individua e scheda i verbi che alludono all’inganno e all’apparenza. 5. Individua e commenta il punto in cui Ariosto allude a una sorta di tempo potenzialmente infinito, circolare e sempre uguale a sé stesso. 6. Commenta la descrizione che il poeta fa del castello, da quella essenziale della sua ubicazione e del suo aspetto esteriore a quella più dettagliata dei suoi interni. Quale impressione il poeta vuole creare nel lettore?
Interpretare
Le valenze simboliche del secondo castello di Atlante Il secondo castello di Atlante è certo l’ideazione più celebre e affascinante dell’Orlando furioso, vero fulcro simbolico del poema e tema chiave dell’opera. Vi confluiscono le molte “inchieste”, amorose e non, dei personaggi, cristiani e saraceni. Se le ricerche nel corso del poema sono destinate quasi sempre a essere frustrate, a non raggiungere il proprio obiettivo, nell’episodio del castello di Atlante esse si rivelano addirittura illusorie, proiezione fantasmatica creata dalla magia dei vani desideri che conducono i personaggi, senza che ne siano consapevoli, entro una vera e propria prigione, anche se dorata: non a caso il poeta usa per il castello il sinonimo significativo di gabbia («e così stanno, / che non si san partir di quella gabbia»). L’incantesimo del mago ci appare allora innanzitutto una grande metafora dell’esistenza, che condanna gli uomini a rincorrere senza tregua obiettivi instabili e illusori, prigionieri dei propri desideri come i cavalieri di Ariosto. Solo pochi sono in grado di vedere gli inganni, di smascherare il gioco delle illusioni: qui è Angelica che, grazie all’anello che l’assicura da l’incanto, passerà indenne (in una parte successiva di questo stesso episodio) attraverso la labirintica costruzione prendendosi gioco dei propri spasimanti; sarà lei a togliere dai loro occhi il velo che li teneva irretiti. In un altro punto del poema Ariosto assimila significativamente l’anello svelatore alla ragione: «Chi l’anello d’Angelica, o più tosto / chi avesse quello de la ragion, potria / veder a tutti il viso, che nascosto / da finzione e d’arte non saria» (VIII, 2). Se dunque tutti avessimo il prezioso dono della ragione, sembra dirci Ariosto, potremmo vedere la realtà al di sotto delle illusioni che noi stessi, anche senza maghi, ci creiamo. 7. Scrive Calvino (nel suo Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino), introducendo l’episodio del castello: «Nel cuore del poema c’è un trabocchetto, una specie di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi [...] in mezzo a un prato non lontano dalle coste della Manica, vediamo sorgere un palazzo che è un vortice di nulla, nel quale si rifrangono tutte le immagini del poema […] il palazzo è deserto di quel che si cerca, e popolato solo di cercatori». Dietro il palazzo di Atlante si può leggere una visione certo non ottimistica della realtà e dei comportamenti umani, che rispecchia l’incipiente crisi della civiltà rinascimentale. Spiega perché. Un secondo significato simbolico attribuibile all’immagine del castello è l’allusione alla corte, presenza continua nel poema. Alla corte rimanda espressamente la dittologia, ricorrente per tutto il Furioso, «donne e cavallier» (ott. 22, v. 8) e, come si è detto, il palazzo incantato è ideato a immagine del palazzo rinascimentale. Se in altri punti del poema (ad es. nell’episodio del vallone lunare ➜ T17 ) i riferimenti alla corte sono espressamente critici e polemici, qui (ma anche nel primo castello) sembra prevalere piuttosto l’idea della corte come luogo seduttivo da cui è difficile uscire, una volta entrati. 8. Riguardo al rapporto tra la corte e il castello di Atlante, prova a commentare le parole del critico Corrado Bologna (La macchina del «Furioso»): «Egli [Ariosto] giunge dove mai Boiardo avrebbe osato spingersi: all’azzeramento, di fatto, della realtà storica della corte (di quella estense, di quella gonzaghesca) e alla sua riproposizione in termini di realtà virtuale, come astratto riferimento onirico, pura categoria spazio-temporale proiettata fuori della storia». 9. Cos’è oggi il castello di Atlante? La Rete, il virtuale in cui tutti siamo immersi, può essere considerato “un nuovo castello di Atlante”?
296 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Infine il castello di Atlante può essere interpretato come immagine simbolica del poema stesso, così come il mago Atlante può essere un “doppio” di Ariosto: come il mago, anche il poeta si diverte a convocare i suoi eroi ad appuntamenti solo apparentemente casuali; ma in realtà, come un abile burattinaio, egli tiene le fila delle vicende e le fa muovere dove e come vuole secondo direzioni prima centripete, come in questo caso, e poi ancora centrifughe (alla fine dell’episodio i cavalieri escono infatti di nuovo in groppa ai loro cavalli fuori dal castello per inseguire Angelica). Scrive Calvino: «La parte dell’incantatore che vuol ritardare il compiersi del destino e la parte del poeta che ora aggiunge personaggi alla storia, ora ne sottrae, ora li raggruppa, ora li disperde, si sovrappongono fino a identificarsi. La giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è tutto il mondo». 10. Nel canto II, ott. 30, Ariosto esibisce particolarmente il suo ruolo di narratore-regista di una materia intricata e multiforme che si diverte a interrompere e riannodare: «Ma perché varie fila a varie tele / uopo mi son, che tutte ordire intendo, / lascio Rinaldo e l’agitata prua, / e torno a dire di Bradamante sua». Individua anche in questo episodio la presenza esibita del ruolo registico dell’autore. Quindi spiega con le tue parole, dall’idea che te ne sei fatta leggendo fin qui il poema, in che senso il castello di Atlante possa rappresentare un’immagine del poema stesso dietro cui si profila Ariosto-Atlante.
Sguardo sulla letteratura e il teatro L’Orlando furioso di Ronconi Ideato e messo in scena per la prima volta a Spoleto nel 1969, lo spettacolo teatrale tratto dall’Orlando furioso dell’Ariosto è il risultato della collaborazione tra il regista Luca Ronconi (1933-2015), una delle personalità più innovative della scena teatrale italiana, e il poeta e critico Edoardo Sanguineti (1930-2010), entrambi esponenti, dall’inizio degli anni Sessanta, dello sperimentalismo nella letteratura e nel teatro. La scelta del poema ariostesco è motivata dai due artisti con il suo carattere “drammatico”, nel senso di continuo movimento narrativo, che lo rende particolarmente adatto alla trasposizione scenica. Uno spettacolo non convenzionale Sulla scia di esperienze già in atto, Luca Ronconi progetta uno spettacolo che si svolga non in teatro ma in luoghi nuovi (a Spoleto in una chiesa sconsacrata, successivamente in spazi aperti, come piazze o cortili, o chiusi, ma comunque diversi da quelli convenzionali), che consentano una partecipazione attiva e dinamica del pubblico: il testo (la cui elaborazione è affidata a Edoardo Sanguineti) dovrà essere solo un pre-testo (nel senso letterale del termine) per lo spettacolo nel suo farsi, come indica il sottotitolo L’azione-testo. La caratteristica dominante e rivoluzionaria dello spettacolo teatrale è costituita dalla simultaneità degli episodi, proposti contemporaneamente sulla base dei loro collegamenti. È un procedimento che intende riprodurre una struttura fondamentale del poema, e cioè lo svolgimento in simultanea di molte vicende: ad esempio Bradamante insegue Ruggiero mentre Orlando cerca Angelica e così via. La rappresentazione, infatti, si svolge in uno spazio con due palcoscenici e alcune piattaforme mobili: in questo modo viene stravolta la concezione convenzionale dello spazio teatrale, facendo sì che lo spettatore si trovi nel centro di una scena costituita da azioni simultanee, a
stretto contatto con gli attori (ne sono coinvolti più di 40). La particolare messa in scena favorisce il movimento del pubblico verso le scene che gli piacciono di più, inducendolo quindi a una partecipazione dinamica che rivoluziona anche l’abituale fruizione. La realizzazione, che enfatizza le componenti favolose e fantastiche del poema, ne accentua la dimensione magica: coniugando sperimentazione (le macchine da scena in vista, gli elementi scenografici dichiaratamente finti come l’ippogrifo e l’orca, i carrelli che trasportano gli attori in acrobazie aeree) e recupero della grande tradizione figurativa rinascimentale, essa trasforma i personaggi in figure irreali, immersi in una dimensione favolistica. La collaborazione Sanguineti-Ronconi L’Orlando furioso di Sanguineti e Ronconi, valutato positivamente dai settori più innovativi della critica teatrale, sarà rappresentato in molte città italiane ed europee e a New York, con grande partecipazione di pubblico. In occasione del quinto centenario della nascita dell’Ariosto (1974), il regista predispone una versione in cinque puntate per la Rai: trasmessa la domenica in prima serata, suscita più di una perplessità e stupore nel pubblico, abituato a trasmissioni di più facile intrattenimento, ma anche polemiche per quello che viene considerato un tradimento dell’ideazione iniziale, dovuto peraltro alle caratteristiche tecniche del mezzo televisivo. Si deve anche ricordare una versione per il grande schermo, incentrata su due dei cinque episodi televisivi (Ruggiero salva Angelica e la follia di Orlando). Il copione predisposto dallo scrittore ligure trascrive le vicende del poema, che nell’originale sono disperse dalla tecnica dell’entrelacement, in alcuni blocchi narrativi, ciascuno a sé stante, in corrispondenza all’interesse, condiviso con Ronconi, per una rappresentazione nello stesso
L’Orlando furioso 3 297
tempo frantumata (cioè senza un continuum narrativo) e simultanea, corrispondente a una sorta di mappa ideale, spaziale e temporale, dell’opera. L’obiettivo dei due autori è infatti quello di evidenziare nell’Orlando furioso – attraverso lo smontaggio della trama e la disposizione, poi, in parallelo nella messa in scena degli episodi con caratteristiche simili – i collegamenti tra storie diverse. L’altra importante modifica apportata al testo dell’Ariosto è rappresentata dal cambiamento della voce narrante dalla terza persona, prevalente nell’opera, alla prima; procedimento che valorizza, insieme all’uso dominante del tempo
presente, il ruolo primario dell’attore nell’opera teatrale: in questo modo i personaggi descrivono sé stessi nel momento stesso dell’azione, con un effetto autoironico che riproduce una delle caratteristiche fondamentali del poema. Proponiamo, per esemplificare la rielaborazione testuale attuata da Sanguineti, il passo in cui Ruggiero («Signor che voli»), sorvolando sull’ippogrifo l’isola di Ebuda, vede dall’alto Angelica che, legata a uno scoglio, sta per essere divorata dall’orca, un mostro marino: mentre nel poema la narrazione è in terza persona, con alcuni interventi del narratore che palesa la sua presenza, nella sceneggiatura sono i personaggi (qui Angelica) a raccontare la vicenda.
Una scena dallo spettacolo teatrale di Luca Ronconi tratto dall’Orlando furioso.
Orlando (Massimo Foschi) e il cavallo Baiardo nell’Orlando furioso di Luca Ronconi per la Rai, andato in onda nel 1975.
online
Video L’Orlando furioso di Ronconi
Odilon Redon (1840-1916), Angelica liberata da Ruggiero sull’ippogrifo.
298 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Orlando furioso
Al nudo sasso, all’Isola del pianto1; che l’Isola del pianto era nomata quella che da crudele e fiera tanto ed inumana gente era abitata, che (come io vi dicea sopra nel canto2) per vari liti sparsa iva in armata3 tutte le belle donne depredando4, per farne a un mostro poi cibo nefando5. Vi fu legata pur quella matina dove venìa per trangugiarla viva quel smisurato mostro, orca marina, che di aborrevole esca si nutriva. Dissi di sopra, come fu rapina di quei che la trovaro in su la riva dormire al vecchio incantatore a canto, ch’ivi l’avea tirata per incanto6. Canto X, 93-94 1 Isola del pianto: Ebuda. 2 sopra nel canto: nel canto precedente. 3 iva in armata: se ne andava ordinata in schiere.
4 depredando: rapendo. 5 cibo nefando: pasto scellerato. Nell’ottava seguente (v. 4) aborrevole esca sta per “cibo abominevole”.
6 fu rapina… per incanto: fu preda dei pirati che la trovarono sulla spiaggia accanto a un vecchio mago, l’eremita che l’aveva rapita, attirandola con un incantesimo.
Testo di Sanguineti
Angelica Signor che voli, or guarda tu, qui, a basso, Angelica legata al nudo sasso: al nudo sasso, all’Isola del pianto; ché l’Isola del pianto era nomata questa, che da crudele e fiera tanto et inumana gente è abitata: le belle donne vanno depredando, per farne a un mostro poi cibo nefando. Qui fui legata pur questa mattina, e qui verrà per trangugiarmi viva il smisurato mostro, orca marina, poi che m’hanno trovata in su una riva, dormendo a un vecchio incantatore a canto, che là m’ avea tirata per incanto. online T11 Ludovico Ariosto
La preghiera di Carlo Magno e il viaggio dell’angelo Michele: la dimensione religiosa entra nel poema? Orlando furioso XIV, 68-73; 78-82
L’Orlando furioso 3 299
Sguardo sull'arte
La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano La nuova visione umanistica considera positivo tutto ciò che è naturale; perciò, a differenza del Medioevo, rivaluta l’elemento corporeo, vedendo nella persona umana un’armonica sintesi di corpo e di anima. Cambiando la tipologia del modello femminile di riferimento, muta di conseguenza anche la rappresentazione letteraria della donna, sempre più spesso improntata a fisicità e sensualità, com’è nel ritratto ariostesco della maga Alcina, tratto dall’Orlando furioso. Questo tipo di descrizione letteraria trova un corrispettivo nella pittura, in cui emerge il motivo rinascimentale della
Venere, quasi sconosciuto alla pittura medievale. Il mito di Venere, prediletto dagli umanisti, simboleggia il ritorno alla natura, di cui la dea dell’amore è tradizionalmente simbolo; tuttavia, dietro alle tante Veneri mitologiche della pittura rinascimentale, ci sono anche, per la prima volta, donne vere e reali nella loro bellezza e sensualità. Fai un confronto tra la descrizione che Ariosto fa della maga Alcina e il dipinto di Tiziano che rappresenta Venere che esce dalle acque di Cipro.
Tiziano Vecellio, Venere Anadiomene, 1520 ca. (National Gallery of Scotland, Edimburgo). Il dipinto rappresenta la nascita di Venere dalle acque del mare di Cipro, lo stesso soggetto della celebre Nascita di Venere di Botticelli.
300 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
11 Di persona era tanto ben formata, quanto me’ finger san pittori industri1; con bionda chioma lunga ed annodata: oro non è che più risplenda e lustri. Spargeasi per la guancia delicata misto color di rose e di ligustri2; di terso avorio era la fronte lieta, che lo spazio finia con giusta meta3.
14 Bianca nieve è il bel collo, e ’l petto latte; il collo è tondo, il petto colmo e largo: due pome16 acerbe, e pur d’avorio fatte, vengono e van come onda al primo margo17, quando piacevole aura il mar combatte. Non potria l’altre parti veder Argo18: ben si può giudicar che corrisponde a quel ch’appar di fuor quel che s’asconde.
12 Sotto duo negri e sottilissimi archi4 son duo negri occhi, anzi duo chiari soli5, pietosi a riguardare, a mover parchi6; intorno cui par ch’Amor scherzi e voli, e ch’indi tutta la faretra scarchi7 e che visibilmente i cori involi8: quindi il naso per mezzo il viso scende, che non truova l’invidia ove l’emende9.
15 Mostran le braccia sua misura giusta; e la candida man spesso si vede lunghetta alquanto e di larghezza angusta19, dove né nodo appar, né vena escede20. Si vede al fin de la persona augusta21 il breve, asciutto e ritondetto piede. Gli angelici sembianti nati in cielo non si ponno celar sotto alcun velo22.
13 Sotto quel sta, quasi fra due vallette10, la bocca sparsa di natio cinabro11; quivi due filze son di perle elette12, che chiude ed apre un bello e dolce labro: quindi escon le cortesi parolette da render molle13 ogni cor rozzo e scabro14; quivi si forma quel suave riso, ch’apre a sua posta15 in terra il paradiso. 1 quanto... industri: quanto meglio (me’) la sanno rappresentare pittori abili, capaci (industri). 2 ligustri: fiori bianchi e profumati. 3 lo spazio... meta: si estendeva nello spazio con una misura esatta (perfettamente proporzionata). 4 archi: sopracciglia. 5 son duo... soli: sono due occhi neri, anzi due soli luminosi. La metafora degli occhi simili a soli luminosi è un topos della poesia amorosa petrarchesca. 6 pietosi... parchi: gli occhi mostrano un sentimento di pietà verso l’amante e sono lenti nel volgersi, cioè si fissano in quelli dell’innamorato, con uno sguardo seducente. 7 indi... scarchi: di lì (dagli occhi della
donna) Amore lancia tutte le sue frecce, svuotando la faretra. Il motivo topico di Amore con arco e frecce è accentuato in maniera iperbolica, rivelando una certa ironia nella descrizione. 8 involi: rubi. 9 che... emende: tale che neppure l’invidia potrebbe trovare nulla per cui possa criticarlo (perché non ha alcun difetto). 10 due vallette: le fossette delle guance. 11 natio cinabro: colorito rosso naturale. Il cinabro è un minerale di colore rosso vermiglio. 12 due filze... elette: ci sono due file di perle. 13 render molle: addolcire, ammorbidire. 14 scabro: insensibile.
L. Ariosto, Orlando furioso VII, 11-15
15 a sua posta: quando lo desidera. 16 pome: seni. 17 vengono... margo: ondeggiano come le onde del mare sul margine (al primo margo) della spiaggia. 18 Non... Argo: Argo (essere mitologico dai cento occhi) non potrebbe vedere le altre parti (perché sono celate dalla veste). 19 di larghezza angusta: stretta, piccola. 20 né nodo... escede: dove non ci sono nodosità, né appaiono vene in rilievo (escede, “eccede”). 21 augusta: nobile. 22 non si ponno... velo: non si possono nascondere sotto nessun velo.
L’Orlando furioso 3 301
Analisi passo dopo passo
T12
LEGGERE LE EMOZIONI
Ludovico Ariosto
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Una storia di amicizia e morte sullo sfondo della guerra: Cloridano e Medoro Orlando furioso XVIII, 165-173; 182-192; XIX, 1-15
L. Ariosto, Orlando furioso, Garzanti, Milano 1974
Ci troviamo di nuovo nello scenario della guerra: si è appena conclusa una sanguinosa battaglia tra le due armate, nella quale ha perso la vita il giovanissimo re saraceno Dardinello, figlio di Almonte. Il suo corpo giace chissà dove e due suoi fidi soldati, Cloridano e Medoro, decidono, a costo della propria vita, di cercarlo per dargli degna sepoltura. Il racconto dell’avventurosa uscita notturna dei due amici alla ricerca del loro re e degli eventi che ne conseguono è uno dei segmenti narrativi più noti del poema. È un episodio dal sapore epico, in cui Ariosto gareggia con una fonte illustre: l’Eneide di Virgilio, da cui è ripreso, ma con spirito tutto diverso, l’episodio di Eurialo e Niso.
CANTO XVIII, 165-173 165 Duo Mori ivi1 fra gli altri si trovaro, d’oscura stirpe nati in Tolomitta2; de’ quai l’istoria, per esempio raro di vero amore, è degna esser descritta. Cloridano e Medor si nominaro3, ch’alla fortuna prospera e alla afflitta4 aveano sempre amato Dardinello, ed or passato in Francia il mar con quello. 166 Cloridan, cacciator tutta sua vita, di robusta persona era ed isnella: Medoro avea la guancia colorita e bianca e grata5 ne la età novella6;
La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 ivi: qui. La scena si svolge ai margini del campo saraceno posto fuori delle mura di
Parigi. Le truppe di Carlo Magno, grazie all’intervento di Rinaldo, hanno avuto la meglio, costringendo i Saraceni a battere in ritirata e minacciandoli di un assedio che potrebbe essere risolutorio. 2 Tolomitta: Tolmetta, città della Cirenaica.
302 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
165 Il narratore presenta i due eroi di una vicenda esemplare che si annuncia espressamente come “epica” (l’istoria... è degna esser descritta). In conformità con questa prospettiva e con la scelta del modello illustre a cui l’episodio si ispira (la vicenda virgiliana di Eurialo e Niso), la narrazione seguirà un andamento lineare, anomalo rispetto alle consuete interruzioni e riprese che caratterizzano il modo ariostesco di raccontare. 166 Il ritratto dei due eroi privilegia il più giovane, Medoro, di cui evidenzia l’adolescenziale bellezza.
3 si nominaro: si chiamavano. 4 ch’alla… afflitta: i quali, nella buona come nella cattiva sorte.
5 grata: gradevole. 6 novella: giovane.
e fra la gente a quella impresa uscita7 non era faccia più gioconda e bella: occhi avea neri, e chioma crespa d’oro: angel parea di quei del sommo coro8. 167 Erano questi duo sopra i ripari9 con molti altri a guardar gli alloggiamenti10, quando la Notte fra distanze pari11 mirava il ciel con gli occhi sonnolenti. Medoro quivi in tutti i suoi parlari12 non può far che ’l signor suo non rammenti, Dardinello d’Almonte, e che non piagna che resti senza onor ne la campagna13. 168 Volto al compagno, disse: – O Cloridano, io non ti posso dir quanto m’incresca del mio signor, che sia rimaso al piano14, per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca15. Pensando come sempre mi fu umano16, mi par che quando ancor questa anima esca in onor di sua fama, io non compensi né sciolga verso lui gli oblighi immensi17.
168-169 Medoro è il rappresentante dell’etica cavalleresca antica, che impone la fedeltà al proprio signore anche a costo della morte (in questo caso è una fedeltà che riguarda addirittura un morto). Cavalleresco (ma anche proprio dell’epica antica) è anche il desiderio di Medoro che la sua impresa sia ricordata. I nobili valori di Medoro sono attribuiti da Ariosto a un Saraceno: sarebbe stato possibile al tempo della Chanson de Roland?
169 Io voglio andar, perché non stia insepulto in mezzo alla campagna, a ritrovarlo: e forse Dio vorrà ch’io vada occulto18 là dove tace il campo del re Carlo. Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto19 ch’io vi debba morir, potrai narrarlo: che se Fortuna vieta sì bell’opra, per fama almeno il mio buon cor si scuopra20 –
7 a quella impresa uscita: venuta a partecipare alla guerra contro i cristiani. 8 sommo coro: la schiera degli angeli del Paradiso più vicini (sommo coro) a Dio, i Serafini. 9 ripari: fortificazioni. 10 a guardar gli alloggiamenti: a far la guardia agli accampamenti. 11 fra distanze pari: a metà strada tra oriente e occidente. Era mezzanotte, dunque. 12 parlari: discorsi. 13 che resti… campagna: che il suo cor-
po resti insepolto sul campo di battaglia, senza aver ricevuto gli onori che merita. 14 al piano: sul campo. 15 per lupi… esca: cibo troppo nobile per lupi e corvi (corbi). 16 come… umano: come è sempre stato generoso verso di me. 17 mi par che… oblighi immensi: mi sembra che anche quando questa mia anima abbandoni il corpo per rendergli onore, io non avrei ancora compensato quanto gli devo, né sciolto gli obblighi immensi che sento verso di lui. Si noti la
rima equivoca tra il sostantivo esca (v. 4) e il verbo esca (v. 6). 18 occulto: di nascosto, senza che nessuno mi veda. 19 sculto: scolpito. Cioè “stabilito” dal cielo. 20 se Fortuna… si scuopra: se la Fortuna non concede che un’impresa tanto onorevole sia portata a termine, che almeno si sappia, attraverso la fama che mi daranno le tue parole, quale sia stato il mio coraggio (buon cor). Lo stesso per core al v. 1 dell’ottava seguente.
L’Orlando furioso 3 303
170 Stupisce Cloridan, che tanto core, tanto amor, tanta fede21 abbia un fanciullo: e cerca assai, perché gli porta amore, di fargli quel pensiero irrito e nullo22; ma non gli val23, perch’un sì gran dolore non riceve conforto né trastullo24. Medoro era disposto o di morire, o ne la tomba il suo signor coprire25.
170-171 Cloridano invece è caratterizzato esclusivamente da un sentimento individuale: l’amicizia verso Medoro, che gli rende impossibile immaginare la propria vita senza l’amico. Con questo sentimento si spiega la decisione di accompagnarlo nell’ardua impresa.
171 Veduto che nol piega e che nol muove26, Cloridan gli risponde: – E27 verrò anch’io, anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove28 anch’io famosa morte29 amo e disio. Qual cosa sarà mai che più mi giove30, s’io resto senza te, Medoro mio? Morir teco con l’arme è meglio molto, che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto31. – 172 Così disposti, messero in quel loco le successive guardie32 e se ne vanno. Lascian fosse e steccati, e dopo poco tra’ nostri son, che senza cura stanno33. Il campo dorme, e tutto34 è spento il fuoco, perché dei Saracin poca tema35 hanno. Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi, nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi36. 173 Fermossi alquanto37 Cloridano, e disse: – Non son mai da lasciar l’occasioni. Di questo stuol che ’l mio signor trafisse, non debbo far, Medoro, occisioni38? Tu, perché sopra alcun non ci venisse39,
21 fede: fedeltà. È un latinismo. 22 cerca… nullo: cerca in ogni modo, poiché gli vuole bene, di dissuaderlo dal proposito. Letteralmente: “rendendo quella sua intenzione vana e senza effetti”. 23 non gli val: non gli riesce. 24 trastullo: distrazione. 25 coprire: seppellire. 26 nol... move: non lo convince (piega) e non lo smuove. 27 E: allora. 28 vuo’... pruove: voglio sottopormi a una prova così lodevole.
29 famosa morte: una morte gloriosa. 30 Qual cosa... mi giove: che cosa ormai potrebbe piacermi.
31 Morir teco… mi sii tolto: è molto meglio morire insieme a te, con le armi in pugno, che di dolore in seguito, se succede che tu mi sia tolto (perché ucciso). 32 Così disposti... guardie: avendo così deciso, collocano nella postazione in cui erano le sentinelle del turno successivo. 33 senza cura stanno: se ne stanno tranquilli, senza preoccuparsi di possibili incursioni nemiche.
304 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
34 tutto: del tutto, completamente. 35 tema: paura. 36 Tra l’arme... immersi: stanno riversi fra le armi e i carri, immersi fino agli occhi nel vino (cioè “ubriachi fradici”) e nel sonno (ossia “profondamente addormentati”). 37 Fermossi alquanto: si fermò un momento. 38 occisioni: uccisioni, stragi. 39 perché… venisse: affinché non sopraggiunga nessuno.
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni40; ch’io m’offerisco farti con la spada tra gli nimici spaziosa strada41. – […] [Cloridano e Medoro danno inizio alla strage, che sembra non risparmiare nessuno; i due Saraceni si aggirano per il campo cristiano, immerso nel sonno e nei fumi dell’alcol, e come angeli vendicatori sgozzano e squartano quanti soldati incontrano sul loro cammino, finché non giungono nei pressi della tenda di re Carlo…] CANTO XVIII, 182-192 182 E ben che possan gir di preda carchi, salvin pur sé, che fanno assai guadagno42. Ove più creda aver sicuri i varchi43 va Cloridano, e dietro ha il suo compagno. Vengon nel campo, ove fra spade ed archi e scudi e lance in un vermiglio stagno44 giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli, e sozzopra45 con gli uomini i cavalli. 183 Quivi dei corpi l’orrida mistura, che piena avea la gran campagna intorno, potea far vaneggiar la fedel cura dei duo compagni insino al far del giorno46, se non traea fuor d’una nube oscura, a’ prieghi di Medor, la Luna il corno47. Medoro in ciel divotamente fisse48 verso la Luna gli occhi, e così disse: 184 – O santa dea, che dagli antiqui nostri debitamente sei detta triforme49; 40 perché sopra… parte poni: affinché
44 vermiglio stagno: lago rosso (di san-
nessuno ci sorprenda, tieni occhi e orecchie ben aperti. 41 m’offerisco… strada: mi offro di aprirti una larga strada tra i nemici, facendone strage con la spada. 42 E ben che… guadagno: e anche se potrebbero andarsene carichi di bottino, è meglio che pensino a salvare sé stessi, che già sarebbe un guadagno sufficiente. 43 Ove… varchi: laddove pensa che ci siano i passaggi più sicuri.
gue). 45 sozzopra: sottosopra. 46 Quivi dei corpi… al far del giorno: l’orribile intrico di cadaveri che c’era in quel luogo, avrebbe potuto rendere vana la sollecitudine fedele (cioè ispirata dalla fedeltà al loro re) dei due giovani finché non fosse giunta la luce del giorno. Tanti sono i corpi lì ammassati, che Cloridano e Medoro nel buio della notte non riescono a individuare quello di Dardinello.
182 Il pragmatico intervento esortativo del narratore («salvin pur sé, che fanno assai guadagno») smorza il tono epico. Anche nelle ottave precedenti non riportate, che descrivono l’uccisione dei cristiani da parte dei due amici, non mancano veri e propri stralci comicogrotteschi.
184 La preghiera di Medoro alla Luna è ricca di riferimenti mitologici. Ariosto non si preoccupa della scarsa verosimiglianza nel porre in bocca a un giovanissimo guerriero saraceno dotte immagini classicistiche.
47 se non traea… il corno: se, rispondendo alle preghiere (a’ prieghi) di Medoro, la Luna non avesse fatto uscire la propria falce (il corno) da una nube scura che le copriva. 48 fisse: rivolse. 49 triforme: nell’antichità la Luna era designata con nomi diversi, a seconda del luogo in cui si manifestava; precisamente “Cinzia” se in cielo, “Diana” in terra ed “Ecate” agli inferi.
L’Orlando furioso 3 305
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri l’alta bellezza tua sotto più forme, e ne le selve, di fere50 e di mostri vai cacciatrice seguitando51 l’orme; mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti, che vivendo imitò tuoi studi santi52. – 185 La luna a quel pregar la nube aperse (o fosse caso o pur la tanta fede), bella come fu allor ch’ella s’offerse, e nuda in braccio a Endimion si diede53. Con Parigi a quel lume si scoperse l’un campo e l’altro54; e ’l monte e ’l pian si vede: si videro i duo colli di lontano, Martire a destra, e Lerì all’altra mano55. 186 Rifulse lo splendor molto più chiaro ove d’Almonte giacea morto il figlio. Medoro andò, piangendo, al signor caro; che conobbe il quartier bianco e vermiglio56: e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro pianto, che n’avea un rio57 sotto ogni ciglio, in sì dolci atti, in sì dolci lamenti, che potea ad ascoltar fermare i venti58.
185 Il tono lirico e solenne dell’invocazione alla Luna è smorzato ironicamente dall’inciso («o fosse caso o pur la tanta fede») in cui si palesa il rinascimentale scetticismo dell’autore nei confronti di tutto ciò che è trascendente.
186 Riconosci la figura retorica attraverso cui Ariosto enfatizza il dolore di Medoro?
187 Ma con sommessa voce e a pena udita59; non che riguardi a non si far sentire, perch’abbia alcun pensier de la sua vita, più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire60: ma per timor che non gli sia impedita l’opera pia che quivi il fe’ venire61. Fu il morto re sugli omeri sospeso di tramendui62, tra lor partendo63 il peso.
50 fere: fiere. Diana è infatti la dea cacciatrice. 51 seguitando: seguendo. 52 che vivendo… santi: che (riferito a Dardinello, ’l mio re) quando era in vita fu cacciatore anche lui, come te. 53 bella come… si diede: bella come quella volta in cui si offrì nuda tra le braccia di Endimione, unico giovane mai amato dalla Luna. 54 l’un campo e l’altro: quello pagano e quello cristiano.
55 Martire… all’altra mano: Montmartre a destra, e Montlhéry dall’altra parte. Sono due colline di Parigi. 56 che conobbe… vermiglio: poiché aveva riconosciuto lo scudo a quartieri bianchi e rossi. 57 rio: rivo. 58 in sì dolci… i venti: con gesti e lamenti tanto dolci, che anche i venti si sarebbero fermati, se l’avessero udito. 59 Ma... udita: sott. “si lamenta”. 60 non che riguardi… vorrebbe uscire:
306 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
non che non voglia farsi sentire perché nutre qualche preoccupazione per la propria vita, che ora piuttosto la odia, e vorrebbe abbandonarla. 61 ma per timor… fe’ venire: ma per paura che gli venga impedito di compiere la pia opera che l’ha spinto a venire fin qui. per timor che è il solito costrutto alla latina. 62 Fu il morto re... tramendui: Il re morto fu sollevato sulle spalle (omeri) di entrambi. 63 partendo: dividendo.
188 Vanno affrettando i passi quanto ponno64, sotto l’amata soma che gl’ingombra65. E già venìa chi de la luce è donno66 le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra67; quando Zerbino68, a cui del petto il sonno l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra, cacciato avendo tutta notte i Mori, al campo si traea nei primi albori69. 189 E seco alquanti cavallieri avea, che videro da lunge i dui compagni. Ciascuno70 a quella parte si traea, sperandovi trovar prede e guadagni. – Frate71, bisogna (Cloridan dicea) gittar la soma, e dare opra ai calcagni72; che sarebbe pensier non troppo accorto, perder duo vivi per salvar un morto. –
188 Il dotto latinismo donno e il riferimento all’alta virtude di Zerbino, capitano cristiano degno di confrontarsi con i due eroi saraceni, nuovamente introduce il tono epico.
189-190 La pragmatica riflessione di Cloridano, a cui segue l’abbandono prudente del corpo del re, abbassa vistosamente l’“aura epica”. Quale termine in particolare è impiegato a questo scopo? Medoro invece rimane fedele al proprio idealismo cavalleresco e si carica il corpo del re sulle spalle.
190 E gittò il carco, perché si pensava che ’l suo Medoro il simil73 far dovesse: ma quel meschin, che ’l suo signor più amava, sopra le spalle sue tutto lo resse. L’altro con molta fretta se n’andava, come l’amico a paro o dietro avesse74: se sapea di lasciarlo a quella sorte, mille aspettate avria, non ch’una morte75. 191 Quei cavallier, con animo disposto che questi a render s’abbino o a morire76, chi qua chi là si spargono, ed han tosto preso ogni passo77 onde si possa uscire. Da loro il capitan poco discosto, più degli altri è sollicito a seguire78; 64 ponno: possono. 65 amata soma che gl’ingombra: l’amato carico (del loro signore Dardinello) che li impaccia nei movimenti. 66 donno: signore. Si tratta del Sole, signore della luce. 67 le stelle… l’ombra: a togliere le stelle dal cielo e l’ombra da terra. 68 Zerbino: personaggio d’invenzione ariostesca; è un cavaliere cristiano, figlio del re di Scozia. 69 a cui del petto... nei primi albori: Zerbi-
no, al quale il valore, quando ci sia necessità, scaccia il sonno dal petto (cioè “fa passare il sonno”), stava tornando al campo alle prime luci dell’alba, dopo aver fatto strage di Mori per tutta la notte. 70 Ciascuno... si traea: ciascuno (degli uomini di Zerbino) si dirige da quella parte, sperando di trovarvi prede e bottino. 71 Frate: fratello, qui sta per “amico”. 72 gittar... ai calcagni: abbandonare il corpo (la soma è “il peso”; più sotto il carco) e mettersi a correre.
73 il simil: la stessa cosa. 74 come… avesse: convinto che l’amico fosse insieme a lui, o subito dietro. 75 mille… morte: sarebbe rimasto ad aspettare non una sola, ma mille morti. 76 con animo disposto… o a morire: con animo determinato a far sì che questi (Cloridano e Medoro) debbano arrendersi (render) o morire. 77 preso ogni passo: occupato ogni passaggio. 78 sollicito a seguire: rapido a inseguire.
L’Orlando furioso 3 307
ch’in tal guisa vedendoli temere79, certo è che sian de le nimiche schiere. 192 Era a quel tempo ivi una selva antica, d’ombrose piante spessa80 e di virgulti, che, come labirinto, entro s’intrica di stretti calli e sol da bestie culti81. Speran d’averla i duo pagan sì amica, ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti82. Ma chi del canto mio piglia diletto, un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.
192 Gli ultimi due versi dell’ottava ospitano il consueto intervento del narratore, finalizzato a rilanciare il movimento del poema.
CANTO XIX, 1-15 1 Alcun non può saper da chi sia amato, quando felice in su la ruota siede83: però c’ha i veri e i finti amici a lato, che mostran tutti una medesma fede84. Se poi si cangia in tristo il lieto stato, volta la turba adulatrice il piede; e quel che di cor ama riman forte, ed ama il suo signor dopo la morte85.
1-2 L’intervento commentativo del narratore, che apre il canto XIX, riconduce la vicenda dei due giovani a una prospettiva più generale, illuminandone il carattere esemplare. La seconda ottava introduce un riferimento puntuale alla corte, come al solito polemico: negli ambienti cortigiani dominano l’adulazione e l’ipocrisia.
2 Se, come il viso, si mostrasse il core, tal ne la corte è grande e gli altri preme, e tal è in poca grazia al suo signore, che la lor sorte muteriano insieme86. Questo umil diverria tosto il maggiore87: staria quel grande infra le turbe estreme88. Ma torniamo a Medor fedele e grato, che ’n vita e in morte ha il suo signore amato.
79 ch’in tal guisa vedendoli temere: che vedendo la loro reazione spaventata. 80 spessa: folta. 81 entro s’intrica ... culti: dentro si fa intricata con sentieri stretti e frequentati (culti) solo dalle fiere. 82 Speran… occulti: i due pagani sperano che la selva si dimostri tanto amica da offrir loro un nascondiglio tra le sue fronde. 83 Alcun... siede: nessuno può sapere da chi sia veramente amato quando si trova
al colmo della fortuna. Letteralmente: “si trova sulla ruota della Fortuna”. 84 però... fede: perché ha accanto sia i veri sia i finti amici, che gli dimostrano tutti la medesima fedeltà. 85 Se poi... la morte: se poi la condizione felice si muta in triste, la massa degli adulatori si allontana; mentre colui che ama sinceramente (di cor) rimane costante nell’amare il proprio signore anche dopo la morte.
308 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
86 Se, come il viso... insieme: se il cuore potesse mostrarsi così come il viso, chi (tal) è importante nella corte e umilia (preme) gli altri e chi è poco nelle grazie del signore si scambierebbero le rispettive condizioni. 87 il maggiore: il più importante (nella corte). 88 turbe estreme: le ultime schiere (dei cortigiani).
3 Cercando già nel più intricato calle il giovine infelice di salvarsi89; ma il grave peso ch’avea su le spalle, gli facea uscir tutti i partiti scarsi90. Non conosce il paese, e la via falle91, e torna fra le spine a invilupparsi. Lungi da lui tratto al sicuro s’era l’altro, ch’avea la spalla più leggiera. 4 Cloridan s’è ridutto92 ove non sente di chi segue lo strepito e il rumore: ma quando da Medor si vede assente, gli pare aver lasciato a dietro il core. – Deh, come fui (dicea) sì negligente, deh, come fui sì di me stesso fuore, che senza te, Medor, qui mi ritrassi, né sappia quando o dove io ti lasciassi! – 5 Così dicendo, ne la torta via de l’intricata selva si ricaccia; ed onde era venuto si ravvia, e torna di sua morte in su la traccia93. Ode i cavalli e i gridi tuttavia94, e la nimica voce che minaccia: all’ultimo ode il suo Medoro, e vede che tra molti a cavallo è solo a piede.
4 Nota l’espressione patetica con cui Ariosto allude allo smarrimento di Cloridano quando si accorge di aver perso l’amato Medoro.
5 Domina l’ottava una sequenza affannosa di verbi relativi soprattutto alle impressioni uditive.
6 Cento a cavallo, e gli son tutti intorno: Zerbin commanda e grida che sia preso. L’infelice s’aggira com’un torno95, e quanto può si tien da lor difeso, or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno, né si discosta mai dal caro peso. L’ha riposato al fin su l’erba, quando regger nol puote96, e gli va intorno errando:
89 Cercando... di salvarsi: il giovine infelice andava (gìa) nei sentieri più intricati cercando di salvarsi. 90 gli facea... scarsi: gli rendeva vani tutti i tentativi.
91 falle: sbaglia. 92 ridutto: rifugiato. 93 torna... la traccia: torna sulle tracce
94 tuttavia: sempre. 95 torno: tornio. 96 nol puote: non lo può.
della propria morte.
L’Orlando furioso 3 309
7 come orsa, che l’alpestre cacciatore ne la pietrosa tana assalita abbia, sta sopra i figli con incerto core97, e freme in suono di pietà e di rabbia: ira la ’nvita e natural furore a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia98; amor la ’ntenerisce, e la ritira a riguardare ai figli in mezzo l’ira.
7 Nota l’efficacia rappresentativa del paragone scelto da Ariosto per descrivere lo stato d’animo di Medoro accerchiato dai cavalieri cristiani.
8 Cloridan, che non sa come l’aiuti, e ch’esser vuole a morir seco ancora, ma non ch’in morte prima il viver muti, che via non truovi ove più d’un ne mora99; mette su l’arco un de’ suoi strali acuti100, e nascoso con quel sì ben lavora, che fora ad uno Scotto101 le cervella, e senza vita il fa cader di sella. 9 Volgonsi tutti gli altri a quella banda ond’era uscito il calamo omicida102. Intanto un altro103 il Saracin ne manda, perché ’l secondo a lato al primo uccida; che mentre in fretta a questo e a quel domanda chi tirato abbia l’arco, e forte grida, lo strale arriva e gli passa la gola, e gli taglia pel mezzo la parola. 10 Or Zerbin, ch’era il capitano loro, non poté a questo104 aver più pazienza. Con ira e con furor venne a Medoro, dicendo: – Ne farai tu penitenza105. – Stese la mano in quella chioma d’oro, e strascinollo a sé con violenza: ma come gli occhi a quel bel volto mise, gli ne venne pietade, e non l’uccise.
97 con incerto core: indecisa (se assalire il cacciatore o difendere i piccoli). 98 ira... le labbia: l’ira e l’istintiva ferocia la inducono a sfoderare le unghie e a insanguinare il muso (cioè ad azzannare). 99 Cloridan… ne mora: Cloridano, che non sa come aiutarlo (Medoro) e che vuole
essere con lui (seco) anche nella morte, ma non trasformare la vita in morte (cioè senza morire) prima di aver trovato modo (via) per uccidere più di un nemico. 100 strali acuti: frecce acuminate. 101 Scotto: scozzese. 102 a quella... omicida: verso quella parte
310 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
(banda) da dove era uscita la freccia (calamo) omicida. 103 un altro: un’altra freccia. 104 a questo: a questo punto. 105 Ne farai tu penitenza: pagherai tu per queste morti.
11 Il giovinetto si rivolse a’ prieghi106, e disse: – Cavallier, per lo tuo Dio, non esser sì crudel, che tu mi nieghi ch’io sepelisca il corpo del re mio. Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi, né pensi che di vita abbi disio107: ho tanta di mia vita, e non più, cura, quanta ch’al mio signor dia sepultura108.
11-12 La preghiera di Medoro a Zerbino, che risulta molto convincente, è incentrata ancora una volta sul tema della fedeltà al proprio signore che connota il personaggio fino alla fine.
12 E se pur pascer vòi fiere ed augelli, che ’n te il furor sia del teban Creonte109, fa lor convito di miei membri110, e quelli sepelir lascia del figliuol d’Almonte. – Così dicea Medor con modi belli, e con parole atte a voltare un monte111; e sì commosso già Zerbino avea, che d’amor tutto e di pietade ardea. 13 In questo mezzo112 un cavallier villano, avendo al suo signor poco rispetto, ferì con una lancia sopra mano113 al supplicante il delicato petto. Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano114; tanto più, che del115 colpo il giovinetto vide cader sì sbigottito e smorto, che ’n tutto giudicò che fosse morto. 14 E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse, che116 disse: – Invendicato già non fia! – e pien di mal talento117 si rivolse al cavallier che fe’ l’impresa ria118: ma quel prese vantaggio, e se gli119 tolse dinanzi in un momento, e fuggì via. Cloridan, che Medor vede per terra, salta del bosco a discoperta guerra120. 106 si rivolse a’ prieghi: si rivolse alle preghiere. 107 che di vita abbi disio: che abbia desiderio di vivere. 108 ho tanta… sepultura: mi interessa vivere per seppellire il mio signore. Letteralmente: “ho una preoccupazione pari (tanta… quanta) e non superiore (più) a quella di dare sepoltura al mio signore”. 109 E se pur… Creonte: ma se proprio vuoi far mangiare belve e uccelli (rapaci),
in modo che sia in te la follia del tebano Creonte. Costui era il tiranno di Tebe che aveva stabilito per legge la pena di morte per chi seppellisse i nemici uccisi. 110 fa lor… membri: dai loro come pasto il mio corpo. 111 atte a… monte: capaci di capovolgere una montagna. 112 In questo mezzo: Nel bel mezzo. 113 sopra mano: che era impugnata sopra la spalla.
114 strano: immotivato. 115 del: per il. 116 se ne… dolse, che: se ne sdegnò e addolorò al punto che. 117 mal talento: istinto malvagio. 118 l’impresa ria: il gesto scellerato. 119 se gli: gli si. 120 discoperta guerra: scontro diretto.
L’Orlando furioso 3 311
15 E getta l’arco, e tutto pien di rabbia tra gli nimici il ferro121 intorno gira, più per morir, che per pensier ch’egli abbia di far vendetta che pareggi l’ira. Del proprio sangue rosseggiar la sabbia fra tante spade, e al fin venir si mira122; e tolto che si sente ogni potere, si lascia a canto al suo Medor cadere. 121 il ferro: la spada. 122 Del proprio sangue... si mira: vede (si mira) la sabbia diventare rossa del proprio sangue e (si vede) giungere alla fine della vita.
Simone Pederzano, Angelica e Medoro, 1560-1596.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Dopo aver analizzato il testo proposto, dividilo in sequenze e sintetizza il contenuto di ogni sequenza. 2. Cloridano e Medoro: due amici, come si è visto, legati da un sentimento profondo, ma assai diversi l’uno dall’altro. Dopo aver riletto attentamente l’episodio, tratteggia un ritratto per ciascuno di loro, a partire dall’aspetto fisico e approfondendo, poi, anche le caratteristiche psicologiche. COMPRENSIONE 3. Quali sono le motivazioni che muovono rispettivamente Medoro e Cloridano all’impresa? Confronta l’ottava 168, vv. 7-8 e l’ottava 171, vv. 2-4 e 7-8. 4. Come termina l’avventura dei due amici? ANALISI 5. Come riescono a riconoscere il corpo di Dardinello? 6. Individua i punti del testo in cui il narratore-autore interviene direttamente con il suo commento: quali ti sembrano le finalità di questi interventi? STILE 7. Individua il punto dell’episodio in cui Ariosto fa ricorso alla figura retorica della prosopopea e spiegane il significato in rapporto al contesto.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
TESTI A CONFRONTO 8. Ariosto e Virgilio: rintraccia l’episodio virgiliano di Eurialo e Niso a cui Ariosto si è ispirato (Eneide IX, v. 176 e sgg.) e approfondisci il confronto tra i due testi, indicando quali siano le differenze che ti sembra di riscontrare nel rapporto fra i due amici. Come si conclude la vicenda, nell’uno e nell’altro caso? 9. Nell’ottava 1 del canto XIX il narratore interviene per affermare che nessuno può sapere da chi sia amato veramente finché siede sulla ruota della Fortuna, ma quando la condizione da lieta diventa negativa, a rimanere sono solo i veri amici. Ti è mai capitato di essere abbandonato da un amico nel momento del bisogno? O, al contrario, ti è capitato di vivere un momento negativo nella tua vita nel quale sei stato confortato da un amico?
312 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Ludovico Ariosto
T13
Ricompare Angelica… ma è una nuova Angelica Orlando furioso XIX, 20-30; 33
L. Ariosto, Orlando furioso, Garzanti, Milano 1974
Come si è visto (➜ T12 ), Cloridano e Medoro giacciono insieme a terra. Medoro in realtà non è morto, ma è ferito così gravemente da essere condannato a morte certa. Il caso gli fa incontrare una donzella (ben nota al pubblico dei lettori, anche se – precisa il narratore – è tanto che non sentono più parlare di lei): è Angelica che, da quando è rientrata in possesso dell’anello magico sottrattole da Brunello, pare diventata ancora più ritrosa e altera del solito. Amore decide quindi di punirla per la sua arroganza, scoccando una delle sue frecce (ott. 17-19): inaspettatamente la bella e irraggiungibile principessa si troverà, così, follemente innamorata di un oscuro soldato saraceno. Dopo averlo guarito, Angelica sceglie Medoro come sposo e celebra con lui le nozze nell’idillico contesto della capanna di un pastore. La vicenda, che ha al centro la ricerca della fanciulla, conosce quindi uno snodo fondamentale: da qui prenderà le mosse il grande tema della follia di Orlando.
20 Quando Angelica vide il giovinetto languir1 ferito, assai vicino a morte, che del suo re che giacea senza tetto, più che del proprio mal si dolea forte2; insolita pietade in mezzo al petto si sentì entrar per disusate porte3, che le fe’ il duro cor tenero e molle, e più, quando il suo caso egli narrolle4. 21 E rivocando alla memoria l’arte ch’in India imparò già di chirugia5 (che par che questo studio in quella parte nobile e degno e di gran laude sia6;
La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 languir: giacere esanime. 2 che del suo re… si dolea forte: che si lamentava molto per il suo re, che giaceva privo di sepoltura (senza tetto “senza riparo”) più che delle proprie sofferenze. 3 disusate porte: attraverso porte poco usate, insolite per lei, ossia quelle per cui passa Amore, che Angelica finora ha rigettato. 4 e più… narrolle: e, ancora di più, quando Medoro le raccontò la propria storia.
e senza molto rivoltar di carte, che ’l patre ai figli ereditario il dia7), si dispose operar con succo d’erbe, ch’a più matura vita lo riserbe8. 22 E ricordossi che passando avea veduta un’erba in una piaggia amena; fosse dittamo, o fosse panacea9, o non so qual, di tal effetto10 piena, che stagna il sangue, e de la piaga rea11 leva ogni spasmo12 e perigliosa pena13. La trovò non lontana, e quella colta, dove lasciato avea Medor, diè volta14.
5 chirurgia: medicina. 6 par… sia: pare che in quella parte del mondo sia ritenuto nobile e degno di grande lode. In effetti, in molti romanzi cavallereschi si incontrano personaggi versati nelle conoscenze di medicina o abili nell’arte di medicare. 7 senza molto… il dia: senza bisogno di far ricorso a tanti libri (cioè si parla di conoscenze trasmesse a memoria), (pare) che (il soggetto è ancora questo studio al v. 3) lo passi (il dia) in eredità il padre ai figli. 8 si dispose... lo riserbe: decise di utilizzare del succo di erbe che possa conservarlo in vita fino a un’età più matura.
9 dittamo… panacea: due erbe medicamentose, la prima efficace nella cura delle ferite da freccia, la seconda per gli antichi rimedio per tutti i mali. “Panacea” è parola che deriva dal greco e significa “che tutto guarisce”. 10 effetto: potere. 11 piaga rea: terribile ferita. 12 spasmo: dolore. 13 perigliosa pena: sofferenza pericolosa, perché può condurre a morte. 14 La trovò... diè volta: La trovò non lontana e, dopo averla colta, fece ritorno (diè volta) dove aveva lasciato Medoro.
L’Orlando furioso 3 313
23 Nel ritornar s’incontra15 in un pastore ch’a cavallo pel bosco16 ne veniva, cercando una iuvenca, che già fuore duo dì di mandra e senza guardia giva17. Seco lo trasse ove perdea il vigore18 Medor col sangue che del petto usciva; e già n’avea di tanto il terren tinto, ch’era omai presso a rimanere estinto19.
26 Né fin che nol tornasse in sanitade30, volea partir: così di lui fe’ stima31, tanto se intenerì de la pietade che n’ebbe, come32 in terra il vide prima. Poi vistone i costumi33 e la beltade, roder si sentì il cor d’ascosa lima34; roder si sentì il core, e a poco a poco tutto infiammato d’amoroso fuoco.
24 Del palafreno Angelica giù scese, e scendere il pastor seco fece anche. Pestò con sassi l’erba, indi la prese, e succo ne cavò fra le man bianche; ne la piaga n’infuse20, e ne distese21 e pel petto e pel ventre e fin a l’anche: e fu di tal virtù questo liquore22 , che stagnò23 il sangue, e gli tornò24 il vigore;
27 Stava il pastore in assai buona e bella stanza35, nel bosco infra duo monti piatta36, con la moglie e coi figli; ed avea quella tutta di nuovo e poco inanzi fatta. Quivi a Medoro fu per la donzella la piaga in breve a sanità ritratta37: ma in minor tempo si sentì maggiore piaga di questa avere ella nel core38.
25 e gli diè forza, che25 poté salire sopra il cavallo che ’l pastor condusse. Non però volse indi26 Medor partire prima ch’in terra27 il suo signor non fusse. E Cloridan col re fe’ sepelire; e poi dove a lei piacque si ridusse28. Ed ella per pietà ne l’umil case del cortese pastor seco29 rimase.
28 Assai più larga piaga e più profonda nel cor sentì da non veduto strale39, che da’ begli occhi e da la testa bionda di Medoro aventò l’Arcier c’ha l’ale40. Arder si sente, e sempre il fuoco abonda41; e più cura l’altrui che ’l proprio male: di sé non cura, e non è ad altro intenta, ch’a risanar chi lei fere e tormenta42.
15 s’incontra: s’imbatte. 16 pel bosco: attraverso il bosco. 17 una iuvenca… giva: una giovenca, che già da due giorni era uscita dalla mandria ed era in giro senza pastore che la guardasse. Nell’Orlando furioso tutti cercano qualcosa o qualcuno. 18 Seco… il vigore: Lo portò con sé (soggetto è Angelica) dove perdeva l’energia vitale. 19 già n’avea… estinto: col suo sangue aveva oramai tanto intriso il terreno attorno a sé che era prossimo a rimanere privo di vita. 20 n’infuse: ne versò. 21 ne distese: ne spalmò. 22 fu... liquore: questo succo ebbe tale potere (virtù).
23 stagnò: fece fermare. 24 tornò: restituì. 25 che: tanto che. 26 indi: di là. 27 in terra: ossia prima che gli fosse stata data sepoltura. 28 si ridusse: andò. 29 seco: con lui. 30 nol tornasse in sanitade: non tornasse in salute. 31 fe’ stima: si interessava. 32 come: va unito a prima nello stesso verso. 33 i costumi: gli atteggiamenti, il modo di comportarsi. 34 d’ascosa lima: di un assillo nascosto. 35 stanza: casa. 36 piatta: nascosta.
314 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
37 Quivi a Medoro... ritratta: Letteralmente: “qui, in breve, a Medoro la ferita fu guarita (a sanità ritratta “riportata alla guarigione”) dalla (per la) giovane. 38 ma in minor tempo… nel core: ma in un tempo più breve (di quello impiegato dalla ferita per guarire) Angelica si sentì crescere nel cuore una ferita ancora più grande di quella di Medoro. 39 da non veduto strale: da una freccia invisibile. È quella lanciatale da Amore. 40 aventò l’Arcier c’ha l’ale: scagliò Amore, rappresentato secondo l’iconografia tradizionale. 41 abonda: cresce. 42 chi lei fere e tormenta: colui che è causa della sua ferita e della sua pena.
29 La sua piaga più s’apre e più incrudisce43, quanto più l’altra si ristringe e salda44. Il giovine si sana: ella languisce di nuova febbre, or agghiacciata, or calda. Di giorno in giorno in lui beltà fiorisce: la misera si strugge, come falda strugger di nieve intempestiva suole, ch’in loco aprico abbia scoperta il sole45. 30 Se di disio46 non vuol morir, bisogna che senza indugio ella se stessa aiti47: e ben le par che di quel ch’essa agogna48, non sia tempo49 aspettar ch’altri la ’nviti. Dunque, rotto ogni freno di vergogna, la lingua ebbe non men che gli occhi arditi: e di quel colpo domandò mercede, che, forse non sapendo, esso le diede50. […]
43 incrudisce: si aggrava. 44 l’altra… salda: quella di Medoro, si restringe e si richiude.
45 falda… il sole: come uno strato di neve fuori stagione (intempestiva), che il sole abbia scoperto in luogo esposto (aprico), di solito si scioglie. 46 disio: desiderio. 47 aiti: aiuti. 48 di quel ch’essa agogna: quanto a quel-
33 Angelica a Medor la prima rosa coglier lasciò, non ancor tocca inante51: né persona fu mai sì aventurosa52, ch’in quel giardin potesse por le piante53. Per adombrar, per onestar la cosa54, si celebrò con cerimonie sante il matrimonio, ch’auspice ebbe Amore, e pronuba la moglie del pastore55.
Sebastiano Ricci, Angelica e Medoro, olio su tela, 1716 (Muzeul Naţional Brukenthal, Sibiu, Romania).
lo che ella desidera ardentemente. Cioè unirsi a Medoro. 49 non sia tempo: non sia il caso. 50 di quel colpo… le diede: chiese (a Medoro) il risarcimento (mercede) per quella ferita che lui, forse senza rendersene conto, le aveva inferto. 51 non ancor tocca inante: mai toccata prima di allora. 52 aventurosa: fortunata.
53 ch’in quel… le piante: da poter mettere piede, entrare in quel giardino. 54 Per… la cosa: per coprire e legittimare onorevolmente l’accaduto. 55 ch’auspice… del pastore: ebbe come patrono, cioè testimone dello sposo (auspice), Amore e testimone della sposa (pronuba) la moglie del pastore. Presso i Romani, i due termini designavano coloro che conciliavano le nozze e facevano da testimoni.
Analisi del testo Angelica al bivio: da “personaggio” a “persona” grazie all’amore Con questo episodio siamo giunti al momento culminante della parabola narrativa concepita da Ariosto per la sua eroina, Angelica. Monocorde, sempre uguale a sé stessa – il suo movimento sulla scena narrativa è determinato, più che dalla volontà, dalle brame dei vari cavalieri che inutilmente la inseguono – in questo episodio chiave del poema Angelica si trasforma in modo radicale, sovvertendo la propria natura di personaggio schematico. Nel processo ha un ruolo primario l’amore, che giunge in modo del tutto imprevedibile e suscita nella donna reazioni inimmaginabili. Dapprima l’evento è dipinto, con ironia leggera, come la vendetta di Amore, non più disposto a tollerare l’alterigia della bella principessa; ma poi, ottava dopo ottava, Ariosto tratteggia con notazioni realistiche, sul piano psicologico, le tappe di un processo interiore che, in un crescendo di emozioni, porta la fanciulla al fatale innamoramento.
Un’Angelica “nuova”, che si prepara a uscire di scena Il punto culminante di questo suo nuovo dinamismo si raggiungerà quando, contravvenendo a ogni regola dell’amore cortese, sarà lei a dichiararsi a Medoro (ott. 30), concedendogli poi di cogliere la prima rosa (cioè la verginità) già inutilmente bramata da tanti altri (ott. 33). Ma proprio questo gesto di suprema autonomia, se da un lato la libera dalla sua rigida ma-
L’Orlando furioso 3 315
schera di oggetto irraggiungibile dei desideri, dall’altro determina la sua uscita dalla trama romanzesca: concedendosi a Medoro, Angelica diventa donna e moglie, e abbandona così lo statuto di “oggetto del desiderio” che fa muovere tutti gli altri personaggi. La “rosa” è stata colta, e Angelica si prepara ad abbandonare definitivamente i tortuosi sentieri narrativi dell’Orlando furioso.
Il silenzio di Medoro E Medoro? Come vive questo successo amoroso che lo vede primeggiare, lui, oscuro fante, fra tutti i paladini più celebri, cristiani e saraceni? Inaspettatamente, Medoro non dice una parola. Eppure ha avuto una fortuna inaspettata e straordinaria, come sottolinea maliziosamente Ariosto attraverso trasparenti metafore – «né persona fu mai sì aventurosa, / ch’in quel giardino potesse por le piante». La sua voce ricomparirà, ma in forma indiretta, solo nel canto successivo, quando un Orlando ormai avviato sulla strada della follia leggerà i versi tracciati sulla roccia dal giovane Saraceno per cantare le sue fortune amorose. Ma qui, quasi a fare da contraltare all’intraprendenza appena conquistata da Angelica, Medoro tace e subisce in tutto e per tutto l’iniziativa della fanciulla: ogni suo gesto, la narrazione del suo triste caso, la sua sofferenza, così come il suo rifiorire a guarigione avvenuta, sono visti attraverso lo sguardo della donna, vera protagonista di questo stralcio romanzesco.
La selva come “paradiso dell’amore” e fuga dal dramma della guerra L’ambiente che fa da teatro allo sbocciare dell’amore tra Angelica e Medoro è la stessa selva antica (canto XVIII, ott. 192, v. 1) nella quale si erano inoltrati Cloridano e Medoro in cerca di scampo; là labirinto intricato e infido, qui essa diventa rifugio amico, secondo gli schemi propri del locus amoenus. La selva, ambiente simbolico polivalente, è uno spazio dove tacciono le voci della guerra e della violenza, in cui l’uomo può riappropriarsi della condizione naturale e della gioia dell’amore: il luogo dove una principessa, abbandonata qualsiasi remora di convenienza sociale, può concedersi a un umile soldato, dopo essersi negata, nel corso di ben diciotto canti, ai cavalieri più illustri di entrambi gli schieramenti. Nel canto seguente, come vedremo, la stessa selva farà invece da sfondo all’improvvisa pazzia di Orlando, e subirà una nuova variazione di significato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi delle ottave 26-30, che mostrano il divampare della passione in Angelica. SINTESI 2. Riassumi l’episodio in 10 righe. COMPRENSIONE 3. Qual è il primo aspetto presente in Medoro da cui Angelica rimane colpita? ANALISI 4. Il canto ospita una parentesi realistica nelle ottave in cui sono descritte le iniziative con cui Angelica si prende cura di Medoro ferito (ott. 21-25). Di che cosa si tratta? LESSICO 5. Spiega il significato dei seguenti termini nel contesto del canto, indicando la differenza rispetto all’uso corrente: tetto, virtù, aventurosa, chirurgia, liquor, stanza. STILE 6. Ariosto fa ricorso a numerose figure retoriche per descrivere il progressivo innamoramento di Angelica per Medoro, soprattutto metafore e similitudini. Rintracciane la presenza e la funzione nel testo.
Interpretare
SCRITTURA 7. La metafora della rosa o del fiore (ott. 33) ricorre più volte all’interno del poema, e anche in alcuni passi antologizzati (in particolare nel canto I, “Il lamento di Sacripante” ➜ T5 ). Fai un confronto tra il testo citato e il passo del canto XIX qui proposto, evidenziando come questa immagine metaforica s’inserisca nella trama narrativa e le diverse valenze che assume (max 25 righe).
316 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
T14
E cominciò la gran follia sì orrenda Orlando furioso XXIII, 100-121; 126-136; XXIV, 1-7
L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Siamo giunti al momento culminante nella parabola narrativa del Furioso e all’episodio che dà il nome all’intero poema e in cui questo si identifica. Nelle sue peregrinazioni, Orlando giunge per caso proprio sul luogo che è stato teatro degli amori tra Angelica e Medoro (che la giovane aveva soccorso e di cui poi si era innamorata); qui il paladino vede i loro nomi intrecciati scritti ovunque. Inizialmente non vuole arrendersi all’evidenza e cerca di dare spiegazioni del tutto improbabili a quello che vede, ma il progressivo accumularsi di prove, fino a quella definitiva e inequivocabile, lo priva alla fine di ogni possibile illusione su quanto è accaduto. Impazzito, cade preda di una furia violenta che si abbatte sopra ogni cosa, trasformandosi da eroico paladino in una belva feroce.
100 Lo strano corso che tenne il cavallo del Saracin1 pel bosco senza via, fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo2, né lo trovò, né poté averne spia3. Giunse ad un rivo che parea cristallo, ne le4 cui sponde un bel pratel5 fioria, di nativo color vago e dipinto6, e di molti e belli arbori distinto7.
102 Volgendosi ivi intorno, vide scritti14 molti arbuscelli in su l’ombrosa riva. Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti15, fu certo esser di man de la sua diva16. Questo era un di quei lochi17 già descritti, ove sovente con Medor veniva da casa del pastore indi18 vicina la bella donna del Catai regina19.
101 Il merigge facea grato l’orezzo8 al duro9 armento ed al pastore ignudo; sì che né10 Orlando sentia alcun ribrezzo11, che la corazza avea, l’elmo e lo scudo. Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo; e v’ebbe travaglioso albergo e crudo12, e più che dir si possa empio13 soggiorno, quell’infelice e sfortunato giorno.
103 Angelica e Medor20 con cento nodi legati insieme, e in cento lochi vede. Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fiede21. Va col pensier cercando in mille modi non creder quel ch’al suo dispetto22 crede: ch’altra Angelica sia, creder si sforza, ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza23.
La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 Saracin: è Mandricardo, che Orlando stava inseguendo. Il loro duello era stato interrotto dal cavallo di Mandricardo che, imbizzarrito («Lo strano corso… pel bosco senza via»), era scappato via col il suo cavaliere. 2 in fallo: sbagliando strada, girovagando a vuoto. 3 averne spia: averne una traccia, un indizio. 4 ne le: alle. 5 pratel: praticello.
6 di nativo... dipinto: bello e colorato per i fiori che vi erano nati. 7 di molti... distinto: adorno di numerosi begli alberi. 8 Il merigge... l’orezzo: il caldo del pomeriggio rendeva gradita la frescura. 9 duro: resistente (alle fatiche). 10 né: neppure. 11 ribrezzo: brivido di freddo. 12 travaglioso albergo e crudo: un riparo angoscioso e crudele. 13 empio: spietato. 14 scritti: incisi. 15 Tosto che... fitti: Non appena vi ebbe posato gli occhi e fissato lo sguardo. 16 de la sua diva: della sua dea, Angelica.
17 lochi: luoghi. È un riferimento al canto precedente.
18 indi: a quel luogo. 19 la bella donna del Catai regina: altra perifrasi (è soggetto di veniva) per indicare Angelica. 20 Angelica e Medor: si intendono i loro nomi, che Orlando vede numerosissimi scritti ovunque (in cento lochi) intrecciati insieme (con cento nodi). 21 Quante lettere… fiede: Ognuna delle lettere che compongono quelle scritte sono chiodi con i quali Amore trafigge e ferisce (fiede) il cuore del misero Orlando. 22 al suo dispetto: suo malgrado. 23 scorza: corteccia.
L’Orlando furioso 3 317
104 Poi dice: – Conosco io pur queste note24: di tal’io n’ho tante vedute e lette. Finger questo Medoro ella si puote25: forse ch’a me questo cognome mette26. – Con tali opinion dal ver remote usando fraude a sé medesmo27, stette ne la speranza il malcontento Orlando, che si seppe a se stesso ir procacciando28.
107 Il mesto conte a piè quivi discese38; e vide in su l’entrata de la grotta parole assai, che di sua man distese Medoro avea39, che parean scritte allotta40. Del gran piacer che ne la grotta prese, questa sentenza in versi avea ridotta41. Che fosse culta in suo linguaggio io penso42; ed era ne la nostra tale il senso43 :
105 Ma sempre più raccende e più rinuova, quanto spenger più cerca, il rio sospetto29: come l’incauto augel30 che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto31, quanto più batte l’ale e più si prova di disbrigar32, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s’incurva il monte a guisa d’arco in su la chiara fonte33.
108 – Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata44, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano45 amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità46 che qui m’è data, io povero Medor ricompensarvi d’altro non posso, che d’ognor lodarvi47:
106 Aveano in su l’entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti34. Quivi soleano al più cocente giorno35 stare abbracciati i duo felici amanti36. V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, più che in altro dei luoghi circostanti, scritti, qual con carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso37.
109 e di pregare48 ogni signore amante49, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante50, che qui sua volontà meni o Fortuna51; ch’all’erbe, all’ombre, all’antro52, al rio, alle piante dica: benigno abbiate53 e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia54 che non conduca a voi pastor mai greggia55. –
24 Conosco... note: eppure io riconosco questi caratteri; cioè la scrittura di Angelica. 25 Finger... si puote: ella può essersi inventata questo Medoro. 26 forse... mette: forse è a me che mette questo soprannome (cognome). 27 Con tali... medesmo: con queste idee lontane dalla realtà (dal ver remote), ingannando sé stesso. 28 stette... procacciando: l’infelice (malcontento) Orlando si cullò nella speranza che era riuscito a procurarsi («a se stesso ir procacciando»). 29 sempre più... rio sospetto: quanto più (Orlando) cerca di mettere a tacere (spenger “spegnere”) il terribile (rio) sospetto, tanto più gli dà forza ([lo] raccende) e lo rinnova (rinuova). 30 augel: uccello. 31 che si ritrova… di petto: che si ritrova a sbattere con il petto nella rete (in ragna) o nel vischio (in visco). Sono trappole per catturare gli uccelli, nelle maglie di una rete o in una sostanza appiccicosa. 32 disbrigar: sciogliersi.
33 ove s’incurva… fonte: dove il monte, sopra la limpida fonte, forma un’altura, curva come (a guisa) un arco. Cioè una specie di grotta. 34 Aveano... erranti: edere e viti rampicanti (erranti) avevano adornato (aveano adorno) il luogo, all’entrata, con i (loro) ceppi (piedi) storti. 35 al più cocente giorno: nel momento più caldo della giornata. 36 i duo felici amanti: Angelica e Medoro. 37 impresso: intagliato. 38 Il mesto conte a piè quivi discese: Orlando (Il mesto [“triste”] conte) scese qui a piedi (da cavallo). 39 distese Medoro avea: Medoro aveva tracciate. 40 allotta: proprio in quel momento. 41 Del gran piacere… ridotta: Medoro aveva messo in versi questo pensiero (sentenza) sul grande piacere di cui aveva goduto in quella grotta. 42 Che fosse culta... io penso: penso che fosse stato composto (il pensiero) nella sua lingua, ossia in arabo. Medoro proveniva infatti dalla Cirenaica.
318 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
43 era... il senso: tale era il senso nella nostra (lingua). 44 spelunca... grata: grotta buia e gradevole per la fresca ombra che offre. 45 invano: inutilmente, perché non ricambiati. 46 commodità: riparo. 47 ricompensarvi... lodarvi: non posso ricompensarvi in altro modo, che lodandovi sempre (ognor). 48 e di pregare: e (non posso ricompensarvi) che pregando. 49 signore amante: nobile innamorato. 50 o paesana o viandante: o originaria di questo paese o qui solo di passaggio. 51 che qui... Fortuna: che qui (nella grotta, la spelunca dell’ott. 108, v. 2) porti la sua volontà o il caso. Cioè che qui giunga per sua volontà o condotto dal caso. 52 antro: grotta. 53 benigno abbiate: vi siano favorevoli. 54 proveggia: faccia in modo che. 55 non conduca... greggia: nessun pastore porti mai il proprio gregge (a pascolare) tra voi, deturpandovi. 56 arabico: arabo.
110 Era scritto in arabico56, che ’l conte intendea57 così ben come latino: fra molte lingue e molte ch’avea pronte58, prontissima avea quella il paladino; e gli schivò più volte e danni ed onte59, che60 si trovò tra il popul saracino: ma non si vanti, se già n’ebbe frutto61; ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto62.
113 L’impetuosa doglia71 entro rimase, che volea tutta uscir con troppa fretta. Così veggiàn restar l’acqua nel vase, che largo il ventre e la bocca abbia stretta72; che nel voltar che si fa in su la base, l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta, e ne l’angusta via tanto s’intrica, ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica73.
111 Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur63 cercando invano che non vi fosse quel che v’era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano64: ed ogni volta in mezzo il petto afflitto stringersi il cor sentia con fredda mano. Rimase al fin con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, al sasso indifferente65.
114 Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come possa esser che non sia la cosa vera74: che voglia alcun così infamare il nome de la sua donna e crede e brama e spera75, o gravar lui d’insopportabil some tanto di gelosia, che se ne pèra76; ed abbia quel, sia chi si voglia stato, molto la man di lei bene imitato77.
112 Fu allora per uscir del sentimento sì tutto in preda del dolor si lassa66. Credete a chi n’ha fatto esperimento67, che questo è ’l duol68 che tutti gli altri passa69. Caduto gli era sopra il petto il mento, la fronte priva di baldanza e bassa; né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto) alle querele voce, o umore al pianto70.
115 In così poca, in così debol speme78 sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco79; indi al suo Brigliadoro il dosso preme80, dando già il sole alla sorella loco81. Non molto va, che da le vie supreme dei tetti82 uscir vede il vapor del fuoco, sente cani abbaiar, muggiare83 armento: viene alla villa84, e piglia alloggiamento.
57 intendea: capiva. 58 fra molte... pronte: fra le moltissime lingue che il paladino padroneggiava, conosceva benissimo quella. 59 gli schivò... onte: gli evitò danni e ignominia. 60 che: è riferito a più volte del verso precedente, nel senso di “allorché, tutte le volte che”. 61 se già n’ebbe frutto: se un tempo ne ricavò un vantaggio. 62 può scontargli il tutto: può compensare qualsiasi guadagno mai avuto. 63 pur: sempre. 64 piano: semplice, facile da capire. 65 al sasso indifferente: non diverso dal sasso. Cioè Orlando è diventato come un sasso, è come pietrificato. 66 Fu allora per uscir… si lassa: Allora fu sul punto di perdere la ragione, tanto si abbandona in preda al dolore. 67 n’ha fatto esperimento: l’ha provato
di persona. È un riferimento che Ariosto fa alla propria vita. 68 duol: dolore. 69 passa: supera. 70 né poté aver… al pianto: e dal momento che il dolore si era del tutto impadronito di lui, non riuscì a trovar voce per esprimere i propri lamenti (querele), né lacrime (umore “liquido”) per piangere. 71 L’impetuosa doglia: il violento dolore. 72 Così veggiàn… stretta: allo stesso modo vediamo che rimane all’interno il liquido contenuto in un vaso con il corpo largo e l’imboccatura stretta. 73 che nel voltar… a fatica: che quando si capovolge la base verso l’alto, il liquido che vorrebbe uscire va tanto veloce e si ingolfa nel passaggio stretto che ne esce a fatica, goccia a goccia. 74 pensa… la cosa vera: pensa in quale modo ciò che ha visto possa essere non vero.
75 che voglia... e spera: che qualcuno voglia in questo modo gettare discredito sul nome della sua donna, e lo crede, lo desidera, lo spera. Il soggetto è Orlando. 76 o gravar… che se ne pèra: o far ricadere su di lui il peso (some) di una gelosia tanto grande, da farlo morire (che se ne pèra “che se ne muoia”). 77 ed abbia quel... imitato: e (pensa che) costui, chiunque sia stato, abbia imitato la scrittura di Angelica (la man di lei). 78 speme: speranza. 79 sveglia... poco: ritorna in sé stesso e riacquista un po’ di coraggio. gli vale li (“gli spiriti”). 80 il dosso preme: monta in sella. 81 dando... loco: quando ormai il sole lasciava il posto alla sorella, la Luna. 82 da le vie... tetti: dalle aperture nel punto più alto dei tetti, ossia dai comignoli. 83 muggiare: muggire. 84 villa: fattoria.
L’Orlando furioso 3 319
116 Languido smonta85, e lascia Brigliadoro a un discreto86 garzon che n’abbia cura; altri il disarma, altri gli sproni d’oro gli leva, altri87 a forbir va88 l’armatura. Era questa la casa ove Medoro giacque ferito, e v’ebbe alta avventura89. Corcarsi Orlando e non cenar domanda90, di dolor sazio e non d’altra vivanda.
119 come esso a prieghi99 d’Angelica bella portato avea Medoro alla sua villa, ch’era ferito gravemente; e ch’ella curò la piaga, e in pochi dì guarilla100: ma che nel cor d’una maggior di quella lei ferì Amor101; e di poca scintilla l’accese tanto e sì cocente fuoco, che n’ardea tutta, e non trovava loco102:
117 Quanto più cerca ritrovar quiete, tanto ritrova più travaglio91 e pena; che de l’odiato scritto92 ogni parete, ogni uscio, ogni finestra vede piena. Chieder ne vuol: poi tien le labra chete93; che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia cerca offuscar, perché men nuocer debbia94.
120 e sanza aver rispetto103 ch’ella fusse figlia del maggior re ch’abbia il Levante, da troppo amor costretta104 si condusse105 a farsi moglie d’un povero fante. All’ultimo l’istoria si ridusse, che ’l pastor fe’ portar la gemma inante, ch’alla sua dipartenza, per mercede del buono albergo, Angelica gli diede106.
118 Poco gli giova usar fraude a se stesso95; che senza domandarne, è chi ne parla96. Il pastor che lo vede così oppresso da sua tristizia, e che voria levarla97, l’istoria nota a sé, che dicea spesso di quei duo amanti a chi volea ascoltarla, ch’a molti dilettevole fu a udire, gl’incominciò senza rispetto a dire98:
121 Questa conclusion fu la secure107 che ’l capo a un colpo108 gli levò dal collo, poi che d’innumerabil battiture si vide il manigoldo Amor satollo109. Celar si studia Orlando il duolo110; e pure quel gli fa forza, e male asconder pòllo111: per lacrime e suspir da bocca e d’occhi convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi112.
85 Languido smonta: spossato, smonta da cavallo. 86 discreto: abile. 87 altri... altri: un altro garzone..., un altro..., un altro ancora. 88 a forbir va: va a lucidare. 89 v’ebbe alta avventura: vi trovò la fortuna grandissima (di ottenere l’amore di Angelica). 90 Corcarsi... domanda: Orlando va a coricarsi e non chiede di cenare. 91 travaglio: tormento. 92 de l’odiato scritto: delle incisioni odiate, con le scritte dei nomi intrecciati di Angelica e Medoro. 93 le labra chete: la bocca chiusa. 94 che teme… nuocer debbia: poiché ha paura che diventi troppo evidente (serena) e troppo chiara la cosa che lui cerca di tenersi nascosta («di nebbia cerca offuscar») perché non lo faccia soffrir troppo.
95 usar fraude a se stesso: ingannare se stesso. 96 che senza... ne parla: che c’è chi gliene parla senza bisogno che lui faccia domande. 97 levarla: darle sollievo. 98 l’istoria... a dire: incominciò a narrargli, senza riguardo (rispetto), la storia, a lui ben nota, dei due amanti che raccontava spesso a chi la voleva ascoltare, dato che fu un gran diletto per molti l’ascoltarla. 99 a prieghi: per le preghiere. 100 guarilla: la guarì. 101 nel cor... Amor: Amore la colpì al cuore con una ferita maggiore di quella (piaga). 102 loco: pace. 103 sanza aver rispetto: senza preoccuparsi. 104 costretta: vinta. 105 si condusse: giunse. 106 All’ultimo l’istoria… Angelica gli
320 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
diede: il racconto giunse alla fine in questo modo, che il pastore si fece portare il gioiello donatogli da Angelica alla sua partenza, come segno di riconoscenza (per mercede) per la buona ospitalità (albergo) ricevuta. 107 secure: scure. 108 a un colpo: con un sol colpo. 109 poi che… satollo: dopo che quel carnefice di Amore si considerò soddisfatto (satollo “sazio”) per gli innumerevoli colpi inferti (a Orlando). 110 Celar... il duolo: Orlando si sforza di nascondere il dolore. 111 e pure… pòllo: ma il dolore si impone su di lui, ed egli riesce a nasconderlo male. pollo “lo può”. 112 convien... che scocchi: è inevitabile che alla fine esca fuori, volente o nolente.
[Dopo la terribile rivelazione, Orlando cerca pace invano. Senza riuscire a prender sonno, lascia nottetempo la dimora del pastore e, appena solo, dà libero sfogo al proprio dolore con urla e pianti. Fugge i luoghi abitati, dorme per terra nella foresta e si chiede come possa sopravvivere a tanto strazio.]
126 – Queste non son più lacrime, che fuore stillo113 dagli occhi con sì larga vena114. Non suppliron le lacrime al dolore115: finir, ch’a mezzo era il dolore a pena116. Dal fuoco spinto ora il vitale umore fugge per quella via ch’agli occhi mena117; ed è quel che si versa, e trarrà insieme e ’l dolore e la vita all’ore estreme118.
128 Non son, non sono io quel che paio125 in viso: quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra126. Io son lo spirto suo da lui diviso, ch’in questo inferno tormentandosi erra, acciò con l’ombra sia, che sola avanza, esempio a chi in Amor pone speranza127. –
127 Questi ch’indizio fan del mio tormento119, sospir non sono, né i sospir sono tali120. Quelli han triegua talora; io mai non sento che ’l petto mio men la sua pena esali121. Amor che m’arde il cor, fa questo vento122, mentre dibatte intorno al fuoco l’ali123. Amor, con che miracolo lo fai, che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai124?
129 Pel bosco errò tutta la notte il conte; e allo spuntar de la diurna fiamma128 lo tornò129 il suo destin sopra la fonte dove Medoro isculse l’epigramma130. Veder l’ingiuria sua scritta nel monte l’accese sì, ch’in lui non restò dramma131 che non fosse odio, rabbia, ira e furore; né più indugiò, che trasse il brando fuore132.
113 stillo: verso. 114 con sì larga vena: tanto abbondantemente. 115 Non suppliron... al dolore: le lacrime non furono abbastanza per il dolore. 116 finir... a pena: finirono, quando il dolore non era giunto che a metà. 117 Dal fuoco spinto... mena: spinto dal fuoco della passione amorosa, ora il liquido della vita esce attraverso quella via che porta (mena) agli occhi. Secondo la medicina antica, la vita e la salute risiedevano negli umori vitali (il vitale umore). Orlando crede che non siano più lacrime quelle che sta versando, perché è impossibile che tante ne escano dagli occhi, ma che sia l’umore vitale che sta abbandonando il suo corpo, fino a farlo morire, come dice subito dopo.
118 trarrà… estreme: condurrà alla fine sia il dolore che la vita. 119 Questi... mio tormento: questi (sospir) che rendono visibile il mio dolore. 120 né i sospir sono tali: e i sospiri non son come questi. 121 Quelli… esali: quelli (i sospiri) di quando in quando si placano, mentre io non sento mai che il mio dolore si esprima con minor sospirare. 122 fa questo vento: (Amore) produce questi sospiri. 123 mentre dibatte... l’ali: mentre sbatte le ali attorno al fuoco dell’amore, che arde dentro al misero Orlando, per ravvivarlo. 124 Amor, con che... nol consumi mai: Amore, con che portento (lo è pleonasmo) fai che (il cor , v. 5) bruci sempre, senza che mai si consumi?
125 paio: sembro. 126 sì, mancando... fatto guerra: tanto gli è stata nemica, non mantenendo la fedeltà. Cioè tradendolo. 127 acciò… speranza: affinché con la sua ombra, che è l’unica cosa che resta, sia d’esempio a quanti ripongono le proprie speranze in Amore. 128 la diurna fiamma: il Sole. 129 lo tornò: lo ricondusse. Il soggetto è il suo destin. 130 isculse l’epigramma: scolpì l’epigramma (ott. 108-109). 131 dramma: la più piccola quantità. 132 trasse il brando fuore: estrasse la spada.
L’Orlando furioso 3 321
130 Tagliò lo scritto e ’l sasso133, e sin al cielo a volo alzar fe’ le minute schegge. Infelice quell’antro, ed ogni stelo134 in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, ch’ombra né gielo a pastor mai non daran più, né a gregge135: e quella fonte, già si chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura136;
133 Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo, lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo: l’arme sue tutte, in somma vi concludo, avean pel bosco differente albergo146. E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo l’ispido147 ventre e tutto ’l petto e ’l tergo148; e cominciò la gran follia, sì orrenda, che de la più non sarà mai ch’intenda149.
131 che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell’onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle che non furo mai più chiare né monde137. E stanco al fin, e al fin di sudor molle138, poi che la lena vinta non risponde139 allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira.
134 In tanta rabbia, in tanto furor venne, che rimase offuscato in ogni senso. Di tor la spada in man non gli sovenne150; che fatte avria mirabil cose, penso. Ma né quella, né scure, né bipenne151 era bisogno152 al suo vigore immenso. Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse153, ch’un alto pino al primo crollo svelse154:
132 Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba, e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto140. Senza cibo e dormir così si serba141, che ’l sole esce tre volte e torna sotto142. Di crescer non cessò la pena acerba143, che fuor del senno al fin l’ebbe condotto. Il quarto dì, da gran furor commosso144, e maglie e piastre145 si stracciò di dosso.
135 e svelse dopo il primo altri parecchi, come fosser finocchi, ebuli o aneti155; e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi, di faggi e d’orni e d’illici156 e d’abeti. Quel ch’un ucellator che s’apparecchi il campo mondo, fa, per por le reti, dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche, facea de cerri e d’altre piante antiche157.
133 Tagliò... sasso: spezzò la roccia e quanto vi era scritto sopra. 134 stelo: tronco d’albero. 135 Così restar… né a gregge: quel giorno furono ridotti in modo tale che non poterono mai più offrire ombra o frescura né a pastore, né a gregge. 136 da cotanta... sicura: non si salvò da un’ira tanto violenta. 137 da sommo… né monde: le sconvolse tanto dalla superficie al fondo, che non furono mai più limpide né pulite. 138 molle: madido. 139 la lena... risponde: l’energia esaurita non asseconda più. 140 non fa motto: non dice una parola. 141 si serba: rimane. 142 che ’l sole... torna sotto: per tre giorni.
143 acerba: amara. 144 da gran furor commosso: scosso, sconvolto. 145 e maglie e piastre: le maglie e le piastre. Elementi che costituiscono le parti dell’armatura. 146 avean pel bosco differente albergo: erano finite in punti diversi del bosco (albergo “collocazione”). 147 ispido: coperto di peli, irsuto. 148 tergo: schiena. 149 che de la più... ch’intenda: che non vi sarà mai chi sentirà parlare d’una follia più grande di questa. 150 Di tor... gli sovenne: non gli venne in mente di prendere la spada in mano. 151 bipenne: ascia a due lame. 152 era bisogno: erano necessarie.
322 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
153 Quivi fe’... prove eccelse: qui diede veramente le sue più straordinarie prove di forza. 154 al primo crollo svelse: sradicò scrollandolo solo una volta. 155 finocchi, ebuli o aneti: piante da orto, molto tenere, con steli sottili. Gli ebuli sono una specie di sambuco, l’aneto è una pianta aromatica affine al finocchio. 156 illici: elci. 157 Quel ch’un ucellator… piante antiche: di cerri (piante ad alto fusto simili alle querce) e di altre piante secolari fa la stessa cosa che un cacciatore di uccelli fa dei giunchi, delle stoppe e delle ortiche, quando ripulisce il campo («s’apparecchi il campo mondo») per sistemarci le sue reti.
136 I pastor che sentito hanno il fracasso, lasciando il gregge sparso alla158 foresta, chi di qua, chi di là, tutti a gran passo vi vengono a veder che cosa è questa. Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo vi potria la mia istoria esser molesta159; ed io la vo’ più tosto diferire, che v’abbia per lunghezza a fastidire.
3 Ben mi si potria dir: – Frate169, tu vai l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo170. – Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo171; ed ho gran cura172 (e spero farlo ormai) di riposarmi e d’uscir fuor di ballo173: ma tosto174 far, come vorrei, nol posso; che ’l male è penetrato infin all’osso.
CANTO XXIV, 1-7
4 Signor, ne l’altro canto io vi dicea che ’l forsennato e furioso Orlando trattesi l’arme e sparse al campo avea175, squarciati i panni, via gittato il brando, svelte le piante, e risonar facea i cavi sassi176 e l’alte177 selve; quando alcun’ pastori al suon trasse in quel lato lor stella, o qualche lor grave peccato178.
1 Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale160; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de’ savi universale161: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch’altro segnale162. E quale è di pazzia segno più espresso163 che, per altri voler, perder se stesso? 2 Vari gli effetti son, ma la pazzia è tutt’una però, che li fa uscire164. Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire165: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia166. Per concludere in somma, io vi vo’dire: a chi in amor s’invecchia167, oltr’ogni pena, si convengono i ceppi e la catena168.
158 alla: nella. 159 son giunto... molesta: sono arrivato a quel limite (segno), passato il quale la mia storia potrebbe infastidirvi. 160 Chi mette... l’ale: Chi posa il piede sulla trappola che gli è tesa da Amore (cioè chi si innamora), cerchi di ritrarlo e non si lasci invischiare le ali. La pania è una trappola per uccelli: è una sostanza collosa e adesiva, ottenuta dalle bacche del vischio, con cui si cospargevano i rami. 161 che non è… universale: che alla fin fine, secondo l’universale giudizio dei saggi, amore non è altro che follia. 162 a qualch’altro segnale: in qualche altro modo, con qualche altra manifestazione. 163 espresso: esplicito. 164 li fa uscire: li origina.
5 Viste del pazzo l’incredibil prove179 poi più d’appresso180 e la possanza181 estrema, si voltan per fuggir, ma non sanno ove, sì come avviene in subitana tema182. Il pazzo dietro lor ratto183 si muove: uno ne piglia, e del capo lo scema184 con la facilità che torria alcuno da l’arbor pome, o vago fior dal pruno185.
165 ove… fallire: dove è inevitabile che colui che vi entra smarrisca la giusta direzione. 166 travia: esce di strada. 167 a chi in amor s’invecchia: per chi insiste a inseguire l’amore. 168 i ceppi e la catena: sono strumenti usati per immobilizzare i pazzi furiosi. 169 Frate: fratello, amico. 170 fallo: errore. 171 or che... intervallo: ora che sto attraversando un momento di lucidità mentale. 172 ho gran cura: sono fermamente determinato. 173 d’uscir fuor di ballo: di uscire dal ballo. Cioè di non farmi più coinvolgere dall’amore. 174 tosto: velocemente.
175 trattesi... avea: si era tolto le armi e le aveva sparse tutte in giro. 176 i cavi sassi: le grotte. 177 alte: fitte, profonde. 178 quando alcun’... grave peccato: quando un destino infausto, o qualche grave peccato da loro commesso, condusse in quel luogo (lato) alcuni pastori richiamati dal rumore. 179 prove: atti, gesti. 180 più d’appresso: più da vicino. 181 possanza: potenza. 182 subitana tema: improvviso spavento. 183 ratto: veloce. 184 del capo lo scema: gli leva la testa. 185 che torria... pruno: con cui qualcun altro staccherebbe (torria “toglierebbe”) un frutto dall’albero o un bel (vago) fiore dal ramo.
L’Orlando furioso 3 323
6 Per una gamba il grave tronco186 prese, e quello usò per mazza adosso al resto187: in terra un paio addormentato stese, ch’al novissimo dì forse fia desto188. Gli altri sgombraro subito il paese, ch’ebbono il piede e il buono aviso presto189. Non saria stato il pazzo al seguir lento, se non ch’era già volto al loro armento190.
7 Gli agricultori, accorti agli altru’ esempli191, lascian nei campi aratri e marre192 e falci: chi monta su le case e chi sui templi193 (poi che non son sicuri olmi né salci), onde l’orrenda furia si contempli194, ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge; e ben è corridor chi da lui fugge195.
186 il grave tronco: il pesante corpo del
190 Non saria… armento: il pazzo non
contadino a cui aveva staccato la testa. 187 al resto: sottinteso “dei contadini”. 188 ch’al... fia desto: che forse si risveglierà (fia “sarà” desto) il giorno del giudizio. 189 ch’ebbono... presto: che ebbero pronto (presto) il piede e la saggia decisione. Cioè che decisero subito di darsela a gambe il più velocemente possibile.
avrebbe tardato a inseguirli, se non fosse che già la sua attenzione si era spostata sulle loro greggi. 191 accorti agli altru’ esempli: resi accorti dall’esempio di quanto era capitato agli altri. 192 marre: tipo di zappa. 193 templi: chiese.
La follia di Orlando in un’incisione di Gustave Doré per un’edizione ottocentesca del Furioso.
324 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
194 onde l’orrenda furia si contempli: da dove poter assistere all’orribile pazzia. 195 ben è corridor chi da lui fugge: chi riesce a sfuggirgli è davvero un velocista.
Analisi del testo La struttura Questo celebre episodio rappresenta il progressivo sprofondare del paladino Orlando nell’abisso della pazzia che, da eroe saggio e campione senza macchia della cavalleria, lo ridurrà alla condizione di animale feroce, privo del controllo della razionalità: “furioso”, per l’appunto. L’architettura del poema conferma l’assoluta centralità di questo evento: ci troviamo infatti a metà, in corrispondenza di quello che può essere considerato il culmine narrativo dell’opera. L’approdo di Orlando alla pazzia è costruito da Ariosto con grande sapienza narrativa, attraverso una serie di tappe che corrispondono almeno in parte alle principali sequenze: 1. La prima tappa (ott. 100-105) Condotto da un caso quanto mai beffardo e spietato, Orlando giunge nel luogo che era stato teatro degli amori tra Angelica e Medoro; amori i cui segni sono visibili ovunque, sotto forma dei nomi dei due incisi sulle cortecce degli alberi «con cento nodi legati insieme». Il paladino si arrabatta a cercare scuse e pretesti per allontanare da sé un’evidenza troppo dolorosa: è il primo gradino della sua discesa nell’inferno della pazzia. 2. La seconda tappa (ott. 106-114) Orlando ha la sfortuna di capitare proprio nella grotta che aveva offerto riparo agli amanti, dove i loro nomi si moltiplicano come in una sequenza ossessiva («V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno, / più che in altro dei luoghi circostanti»), e dove è inciso anche un epigramma composto da Medoro per celebrare le proprie fortune amorose. Orlando cerca ancora di negare a sé stesso una realtà ormai inconfutabile, con argomentazioni che appaiono però sempre più stentate. 3. La terza tappa (ott. 115-121) La beffa del destino conduce infine il paladino alla casa del pastore che aveva offerto ospitalità ad Angelica e Medoro. Quello che non era riuscito a fare l’accumulo di “prove indiziarie”, lo ottengono le parole di un testimone oculare e soprattutto un “oggetto rivelatore”: credendo di portare un po’ di sollievo all’animo del triste cavaliere, il buon pastore gli procura invece un profondo dolore, raccontandogli per filo e per segno la storia dei due amanti, da lui accolti proprio in quella fattoria. Come se non bastasse, gli mostra anche la gemma donatagli da Angelica in segno di riconoscenza, oggetto che diventa la materializzazione del peggiore incubo di Orlando («la secure / che ’l capo a un colpo gli levò dal collo»). 4. Il precipitare degli eventi (ott. 122-131) Da qui in avanti assistiamo a un precipitare degli eventi, con un tracollo rovinoso che condurrà il paladino sino alla follia totale: Orlando, ormai vittima di pensieri ossessivi che non lo abbandonano un istante (tutto intorno a lui gli parla dell’amore di Angelica e Medoro), abbandona la casa del pastore in una fuga forsennata, dando sfogo al proprio dolore con pianti, gemiti e lamenti. Mentre vaga fuori di sé, Orlando si ritrova in quei medesimi luoghi dove, solo poche ore prima, aveva fatto di tutto per negare l’evidenza dei segni che rivelavano la passione tra Angelica e il rivale. Il dolore si trasforma allora in rabbia furiosa: il cavaliere distrugge la grotta degli amanti, sradica alberi e frantuma rocce in un eccesso di violenza sovrumana che spazza via ogni traccia di quello che era un perfetto locus amoenus. 5. L’inizio della follia (ott. 132-136) Sfinito dopo questo sfogo di cieca rabbia, Orlando rimane steso a terra per tre giorni, senza mangiare né dormire, completamente svuotato di ogni energia finché, il quarto giorno, viene ripreso dal furore e compie un gesto altamente simbolico, che sancisce l’abbandono definitivo degli ideali cavallereschi e l’entrata nel labirinto della follia: il paladino si strappa l’armatura di dosso. 6. Orlando “furioso” (canto 24, ott. 4-7) A questo punto la narrazione si sospende per riprendere nel canto successivo dove, dopo tre ottave introduttive riservate a un commento dell’autore sul tema della follia amorosa, vediamo la rabbia di Orlando trasformarsi in vera e propria furia omicida ai danni degli ignari e sfortunati pastori accorsi all’udire il fracasso provocato dal cavaliere.
Una fenomenologia della gelosia Come spesso accade in Ariosto, anche qui assistiamo al rimaneggiamento di un tema narrativo preesistente. La pazzia amorosa di Orlando si ispira alle vicende del Tristano arturiano (dal quale riprende in parte anche il “copione” del manifestarsi della follia (➜ C6 PAG. 365), convinto – lui a torto, però – di essere tradito dall’amata Isotta. Ma qui l’episodio si arricchi-
L’Orlando furioso 3 325
sce di risvolti psicologici del tutto assenti nella vicenda bretone, forse anche in rapporto a un’esperienza realmente vissuta dall’autore stesso, come Ariosto sembra confermare, seppur con l’abituale leggera ironia (ott. 112, canto 24, ott. 3).
Il meccanismo della rimozione… La progressiva scoperta di indizi sempre più chiari e inequivocabili si alterna in Orlando a una caparbia volontà di negare l’evidenza: le inverosimili spiegazioni mediante le quali il paladino cerca di autoconvincersi che la realtà non sia quella che vede rimandano ai meccanismi della “rimozione”, descritti dalla moderna psicoanalisi come procedimenti mentali attraverso cui un individuo cerca di “rimuovere”, cioè di dimenticare, un evento traumatico o anche solo sgradevole senza rendersene conto completamente: «ch’altra Angelica sia, creder si sforza, / ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza» (ott. 103); «Finger questo Medoro ella si puote: / forse ch’a me questo cognome mette» (ott. 104); «pensa come / possa esser che non sia la cosa vera: / che voglia alcun così infamare il nome / de la sua donna e crede e brama e spera» (ott. 114).
… e la metafora della nebbia Tale atteggiamento trova poi la rappresentazione più significativa nella metafora della nebbia, nella quale il cavaliere vuole tenere avvolta una realtà per lui troppo dolorosa; arrivato alla casa del pastore, Orlando vede incisi ovunque i nomi di Angelica e Medoro (e a questo punto sorge quasi il dubbio che non si tratti di scritte reali ma di una fantasia ossessiva), ma non fa domande, per paura di scoprire qualcosa che non sarebbe in grado di sopportare: «Chieder ne vuol: poi tien le labbra chete; / che teme non si far troppo serena, troppo chiara la cosa che di nebbia / cerca offuscar, perché men nuocer debbia».
Il meccanismo del ribaltamento Per Orlando, il tradimento di Angelica (che in realtà, a ben vedere, tradimento non è; ma è indicativo che il paladino lo veda in questo modo…) rappresenta il ribaltamento di un intero sistema di valori sul quale si fonda l’intera sua esistenza: è l’etica cortese stessa, infatti, che si sgretola davanti ai suoi occhi esterrefatti, un’etica di cui faceva parte anche il principio dantesco dell’«amor ch’a nullo amato amar perdona», che autorizzava Orlando a considerare l’amore di Angelica come cosa a lui dovuta. Così non è, e la ferale scoperta si annuncia attraverso alcuni significativi ribaltamenti di topoi e “codici culturali” canonici.
La distruzione del locus amoenus L’episodio si apre con l’arrivo casuale di Orlando in un tipico paradiso pastorale, solito scenario di sentimenti sereni e armoniosi; la descrizione è assai dettagliata e si sofferma su elementi paradigmatici, quasi che Ariosto abbia voluto riprodurre fedelmente un catalogo ben noto al suo pubblico: il «rivo che parea cristallo», il bel pratel adorno di fiori multicolori e ombreggiato da «molti e belli arbori». Questo quadro sembrerebbe introdurre una situazione idilliaca, mentre diventerà il luogo che fornirà a Orlando i primi indizi del tradimento di Angelica e che, non a caso, la furia del paladino distruggerà nel giro di poche ottave.
La corrosione del “codice petrarchesco” Un altro ribaltamento cui assistiamo è quello del codice petrarchesco, ironicamente riprodotto dall’epigramma amoroso inciso da Medoro sulle pareti della grotta e letto da un sempre più affranto Orlando. La spietata smentita dell’etica cortese e cavalleresca giunge a Orlando proprio attraverso la tradizione letteraria che di quell’etica era espressione; Angelica, nonostante il nome, non è certo la donna angelicata della tradizione cortese a cui pensa Orlando, ma è donna vera, di carne, pronta a vivere fino in fondo il proprio amore, come non nascondono i versi di Medoro: «la bella Angelica che nacque / di Galafron, da molti invano amata, / spesso ne le mie braccia nuda giacque», dove la quanto mai esplicita dichiarazione va a rimare, con feroce e sottile ironia, proprio con il petrarchesco «limpide acque» del primo verso, mettendo quindi in evidente collisione due concezioni dell’amore. La disillusione di Orlando ormai è completa: è la fine di un intero sistema di valori al quale il paladino aveva aderito con convinzione totale. A questo punto la sua caduta nel baratro
326 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
della follia appare come la conseguenza più logica, non a caso sancita dal gesto, estremo e gravissimo per un cavaliere, di strapparsi di dosso le armi.
Il registro ariostesco della follia: tra tragedia e comicità La rappresentazione della follia generata da una delusione amorosa poteva molto facilmente scadere nel tono comico-realistico della farsa oppure, con una scelta stilistica opposta, subire un’impennata verso il registro tragico-sublime. Conformemente alla propria poetica, Ariosto mantiene invece un abile equilibrio tra i due: la drammaticità è smorzata da tocchi di ironia, così come le situazioni di dolore e di sofferenza psicologica si alternano a momenti quasi comici o comunque grotteschi.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi brevemente l’episodio (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Qual è il primo indizio dell’amore tra Medoro e Angelica incontrato da Orlando che lo farà uscire di senno? E quale, poi, lo convincerà definitivamente del “tradimento” di Angelica? ANALISI 3. Quale ruolo nella vicenda svolge il pastore? 4. Individua e sintetizza i sintomi e le manifestazioni del progressivo sprofondare di Orlando nella follia. STILE 5. Individua le similitudini presenti nel brano; poi schedale, spiegandone la funzione. 6. Si è detto che in questo episodio Ariosto è molto attento a mantenere il tono della narrazione su di un livello medio, calibrando sapientemente registro tragico e registro comico-grottesco. Individua i punti del testo in cui, secondo te, la dimensione ironica o quella comica si insinua in un contesto potenzialmente drammatico o addirittura tragico.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
online T15 Ludovico Ariosto
SCRITTURA 7. Nell’esordio del canto XXIV il narratore prende la parola in prima persona, esprimendo un commento sull’amore, che definisce significativamente amorosa pania. Commenta le prime tre ottave del canto. 8. Considera i sintomi della gelosia che esplode nell’animo di Orlando. Ti è capitato di sperimentare questo sentimento? Riconosci nella descrizione stati d’animo e reazioni che hai provato? Esponi in un elaborato la tua esperienza.
Un’avventura fuori dal mondo: Astolfo nel Paradiso Terrestre Orlando furioso XXXIV, 49-60
online T16 Ludovico Ariosto
Il rovesciamento della prodezza cavalleresca nella pazzia Orlando furioso XXIX, 52-61
L’Orlando furioso 3 327
Sguardo sull’arte La follia di Orlando Queste tre immagini raffigurano, con modalità espressive diverse, l’esplodere della follia di Orlando. a. Esamina per ciascuna immagine il paesaggio, i personaggi raffigurati e le azioni: di chi si tratta? Quali analogie e differenze puoi riscontrare? b. A quale momento dell’episodio della follia si riferiscono le tre immagini? Rintraccia nel testo i versi corrispondenti. c. Scrivi le didascalie delle immagini (eventualmente documentati in merito). d. Quale delle tre opere ti sembra renda meglio lo spirito ariostesco? e. Quale delle tre opere, secondo te, è più lontana culturalmente dai valori cavallereschi e dall’amor cortese?
328 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Ludovico Ariosto
T17
Il vallone lunare delle cose perdute: Astolfo recupera il senno di Orlando Orlando furioso XXXIV, 70-87
L. Ariosto, Orlando furioso, a c. di E. Sanguineti e M. Turchi, Garzanti, Milano 1974
ANALISI INTERATTIVA
Astolfo è giunto nel favoloso regno della Luna, che smentisce subito le false apparenze attraverso cui lo conoscono (o credono di conoscerlo…) gli uomini: ben diversa dal picciol tondo che si vede da quaggiù, la Luna è grandissima, con paesaggi naturali, città e case. Ma il paladino non si attarda a visitare questi luoghi favolosi, non si dimentica di essere qui per un motivo ben preciso: recuperare il senno di Orlando. Per questo, si reca subito nel vallone, dove viene conservato tutto ciò che si perde sulla Terra: ma prima di ritrovare il senno del prode cavaliere (oltre che il proprio), Astolfo avrà modo di vedere molte cose assai interessanti...
70 Tutta la sfera varcano del fuoco1, ed indi2 vanno al regno de la luna. Veggon per la più parte esser quel loco come un acciar3 che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco di ciò ch’in questo globo si raguna4, in questo ultimo globo de la terra5, mettendo6 il mar che la circonda e serra.
72 Altri fiumi, altri laghi, altre12 campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c’han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne non vide il paladin prima né poi13: e vi sono ample e solitarie selve, ove le ninfe ognor14 cacciano belve.
71 Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia: che quel paese appresso7 era sì grande, il quale a un picciol tondo rassimiglia8 a noi che lo miriam da queste bande9; e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia, s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande, discerner vuol10; che non avendo luce, l’imagin lor poco alta si conduce11.
73 Non stette il duca15 a ricercar16 il tutto; che là non era asceso a quello effetto17. Da l’apostolo santo18 fu condutto in un vallon fra due montagne istretto19, ove mirabilmente era ridutto20 ciò che si perde o per nostro diffetto21, o per colpa di tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, là si raguna22.
La metrica Strofe di ottave: quattro coppie di endecasillabi, tre a rima alterna, e una finale a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. 1 Tutta... fuoco: (Astolfo e san Giovanni) varcano tutta la sfera del fuoco. Nella cosmografia tolemaica, è la sfera che separa la Terra dal cielo della Luna. Ariosto riprende l’immagine del cosmo tratteggiata da Dante nel Paradiso (I, 49-142). 2 indi: di qui. 3 acciar: acciaio. 4 uguale… si raguna: delle stesse dimensioni o di poco più piccolo di quanto è contenuto in questo globo, ossia la Terra. 5 ultimo globo de la terra: nella concezione tolemaica, la Terra era l’ultimo pianeta, il più lontano dall’Empireo.
6 mettendo: compreso. 7 appresso: da vicino. 8 rassimiglia: sembra. 9 da queste bande: dalla nostra parte, da quaggiù. 10 e ch’aguzzar… discerner vuol: e (si stupisce) di dover aguzzare bene la vista (ambe le ciglia) se vuole distinguere da lì la Terra e il mare che si stende tutt’intorno ad essa. 11 che non avendo… si conduce: perché non emanando luce propria, la loro immagine (della terra e del mare) arriva poco in alto. 12 Altri… altri… altre: diversi... da quelli che sono qui sulla Terra («che non son qui tra noi», v. 2). L’iterazione del termine sembrerebbe enfatizzare la diversità
del mondo lunare rispetto a quello terrestre. Ma Ariosto sottolinea soprattutto le dimensioni maggiori di ciò che sta sulla Luna, che alla fine appare molto simile alla Terra. 13 de le quai... prima né poi: più grandi (magne è un latinismo) delle quali il paladino non vide mai né prima né dopo. 14 ognor: sempre. 15 il duca: Astolfo. 16 ricercar: esplorare. 17 a quello effetto: per quello scopo. 18 l’apostolo santo: san Giovanni. 19 istretto: racchiuso. 20 ove... ridutto: dove miracolosamente era raccolto. 21 diffetto: colpa, mancanza. 22 si raguna: si raduna.
L’Orlando furioso 3 329
74 Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora23; ma di quel ch’in poter di tor, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora24. Molta fama è là su, che, come tarlo, il tempo al lungo andar qua giù divora25: là su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno26.
77 Ami d’oro e d’argento appresso vede in una massa, ch’erano quei doni che si fan con speranza di mercede33 ai re, agli avari principi, ai patroni34. Vede in ghirlande ascosi35 lacci; e chiede, ed ode che son tutte adulazioni. Di cicale scoppiate imagine hanno versi ch’in laude dei signor si fanno36.
75 Le lacrime e i sospiri degli amanti, l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco27, i vani desideri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai.
78 Di nodi d’oro e di gemmati ceppi37 vede c’han forma i mal seguiti amori38. V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi39, l’autorità ch’ai suoi40 danno i signori. I mantici ch’intorno han pieni i greppi, sono i fumi dei principi e i favori che danno un tempo ai ganimedi suoi, che se ne van col fior degli anni poi41.
76 Passando il paladin per quelle biche28, or di questo or di quel chiede alla guida. Vide un monte di tumide vesiche29, che dentro parea aver tumulti e grida; e seppe ch’eran le corone30 antiche e degli Assiri e de la terra lida, e de’ Persi e de’ Greci, che già furo incliti31, ed or n’è quasi il nome oscuro32.
79 Ruine di cittadi e di castella stavan con gran tesor quivi sozzopra42. Domanda, e sa che son trattati, e quella congiura che sì mal par che si cuopra43. Vide serpi con faccia di donzella, di monetieri e di ladroni l’opra44: poi vide bocce rotte di più sorti, ch’era il servir de le misere corti45.
23 Non pur... lavora: non parlo soltanto
31 già furo incliti: un tempo furono ce-
dei regni e delle ricchezze su cui si esercita la ruota della Fortuna (la ruota instabile). 24 ma di quel… voglio ancora: ma voglio parlare anche (intender voglio ancora) di ciò che la Fortuna non ha il potere di togliere o di dare. 25 Molta fama... giù divora: lassù c’è molta fama, che quaggiù il tempo, con il suo scorrere, consuma (divora) come un tarlo. 26 là su... si fanno: lassù stanno le infinite preghiere (prieghi) e le suppliche (voti), che sono rivolte (si fanno) da noi peccatori a Dio. 27 vani... mai loco: progetti inutili che non si realizzano mai. 28 biche: mucchi. 29 tumide vesiche: sacche gonfie. 30 le corone: i regni.
lebri. 32 oscuro: sconosciuto. 33 con speranza di mercede: sperando di riceverne un vantaggio, una ricompensa. 34 patroni: protettori. 35 ascosi: nascosti. 36 Di cicale... si hanno: i poeti cortigiani sono paragonati a cicale scoppiate per le lodi sperticate (le adulazioni del verso precedente) al loro signore. 37 Di nodi... gemmati ceppi: di nodi ricamati in oro e di gioghi ricoperti di gemme. 38 i mal seguiti amori: gli amori sfortunati, infelici o non corrisposti. 39 seppi: l’inciso, in prima persona, indica che l’autore esprime la sua esperienza. 40 ai suoi: ai loro uomini. 41 I mantici… anni poi: i mantici di cui
330 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
sono pieni i declivi del vallone sono i favori che un tempo i signori elargivano ai propri protetti (ganimedi), e che poi svaniscono insieme alla loro giovinezza. Ganimede, mitico coppiere degli dei, qui indica per antonomasia i giovani favoriti del principe. 42 sozzopra: sottosopra, alla rinfusa. 43 Domanda... si cuopra: domanda (a san Giovanni), e viene a sapere che sono i trattati non rispettati e le congiure che non si riesce a tenere nascoste. 44 di monetieri... l’opra: (che rappresentano) l’opera di falsari e ladri. Fuor di metafora, sotto una bella apparenza si nascondono le insidie. 45 bocce... le misere corti: recipienti di vetro infranti di varie forme che rappresentano i servigi resi nelle tristi corti (inutili come quelle bocce rotte e inservibili).
80 Di versate minestre una gran massa vede, e domanda al suo dottor46 ch’importe47. – L’elemosina è (dice) che si lassa alcun, che fatta sia dopo la morte48. – Di vari fiori ad un gran monte passa, ch’ebbe già49 buono odore, or putia50 forte. Questo era il dono (se però dir lece51) che Costantino al buon Silvestro fece.
83 Era come un liquor suttile e molle61, atto a esalar62, se non si tien ben chiuso; e si vedea raccolto in varie ampolle, qual più, qual men capace63, atte64 a quell’uso. Quella è maggior di tutte, in che del folle signor d’Anglante era il gran senno infuso65; e fu da l’altre conosciuta, quando66 avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
81 Vide gran copia di panie con visco52, ch’erano, o donne, le bellezze vostre. Lungo sarà, se tutte in verso ordisco le cose che gli fur quivi dimostre53; che dopo mille e mille io non finisco, e vi son tutte l’occurrenze nostre54: sol la pazzia non v’è poca né assai; che sta qua giù, né se ne parte mai.
84 E così tutte l’altre avean scritto anco il nome di color di chi fu il senno. Del suo gran parte vide il duca franco67; ma molto più maravigliar lo fenno molti ch’egli credea che dramma manco non dovessero averne, e quivi dénno chiara notizia che ne tenean poco68; che molta quantità n’era in quel loco.
82 Quivi ad alcuni giorni e fatti sui, ch’egli55 già56 avea perduti, si converse57; che se non era interprete con lui, non discernea le forme lor diverse58. Poi giunse a quel che par sì averlo a nui, che mai per esso a Dio voti non ferse59; io dico il senno: e n’era quivi un monte, solo assai più che l’altre cose conte60.
85 Altri in amar lo perde, altri69 in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de’ signori70, altri dietro alle magiche sciocchezze71; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d’altro aprezze72. Di sofisti73 e d’astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n’era molto.
46 dottor: maestro, guida. 47 ch’importe: che cosa significhi. 48 L’elemosina… dopo la morte: è, dice
56 già: un tempo. 57 si converse: rivolse l’attenzione. 58 che se non era… lor diverse: che se
san Giovanni, l’elemosina che alcuni lasciano scritto nel testamento che venga fatta dopo la propria morte. Cosa che non avviene, sottintende Ariosto, perché gli eredi tengono tutto il denaro per sé. 49 già: un tempo. 50 putia: puzzava (leggi putìa). 51 se però dir lece: se però è giusto definirlo così. L’inciso si riferisce alla donazione di Costantino (il dono), i cui intenti positivi erano stati stravolti e che si era rivelata un danno per la Chiesa. 52 gran copia... visco: grande quantità di trappole per catturare gli uccelli. 53 Lungo sarà... dimostre: sarebbe lungo se descrivessi nei miei versi tutte le cose che gli furono (fur) mostrate qui (quivi). 54 l’occurrenze nostre: le cose che ci capitano. 55 ch’egli: Astolfo.
non ci fosse stato con lui chi gliele spiegasse (cioè san Giovanni, interprete) non avrebbe saputo riconoscere le loro forme differenti. 59 quel che par… non ferse: quella cosa che ci (a nui) sembra sempre di possedere, tanto che non la chiediamo mai a Dio. «a Dio voti non ferse» sta per “non si sono fatte (ferse “si fecero”) preghiere a Dio”. 60 solo assai... cose conte: che da solo era molto di più di tutte le altre cose di cui ho raccontato. 61 un liquor suttile e molle: un liquido leggero e volatile. 62 atto a esalar: che tende ad evaporare. 63 capace: capiente. 64 atte: destinate. 65 del folle... infuso: era travasato il grande senno di Orlando impazzito.
66 fu... quando: si distingueva dalle altre, perché.
67 il duca franco: Astolfo. 68 ma molto più maravigliar… ne tenean poco: ma lo fecero (fenno) meravigliare molto di più molti, che credeva non dovessero averne (di senno) nemmeno una briciola in meno (dramma manco), mentre qui si vedeva chiaramente (denno “diedero” chiara notizia) che doveva essergliene rimasto poco (ne tenean poco). 69 Altri… altri: alcuni… alcuni. Inizia una sequenza di casistiche di vari comportamenti umani. 70 ne le speranze de’ signori: riponendo le loro speranze nei signori da cui dipendevano. 71 magiche sciocchezze: arti magiche, negromanzia, alchimia. 72 ed altri... aprezze: e altri ancora in cose diverse che apprezza più di tutto. 73 sofisti: filosofi.
L’Orlando furioso 3 331
86 Astolfo tolse74 il suo; che gliel concesse lo scrittor de l’oscura Apocalisse75. L’ampolla in ch’era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse76: e che Turpin da indi in qua confesse ch’Astolfo lungo tempo saggio visse77; ma ch’uno error che fece poi78, fu quello ch’un’altra volta gli levò il cervello.
74 tolse: prese. Più sotto tolle (87, 3) “prende”. 75 lo scrittor de l’oscura Apocalisse: san Giovanni. L’Apocalisse è definita oscura perché di difficile comprensione. 76 L’ampolla… ne gisse: Si accostò semplicemente l’ampolla al naso, e sembra che il senno se ne andasse al proprio posto, ossia nel cervello.
87 La più capace e piena ampolla, ov’era il senno che solea far savio il conte, Astolfo tolle; e non è sì leggiera, come stimò, con l’altre essendo a monte79. […]
77 e che Turpin… visse: e (pare) che Turpino riconosca che da questo momento in avanti Astolfo visse a lungo saggiamente. L’arcivescovo Turpino è il presunto autore della Vita di Carlo Magno, alla cui autorità ironicamente si richiama Ariosto (e Pulci e Boiardo prima di lui). 78 uno error... poi: sarà un errore amoro-
so. Ariosto lo racconterà nei Cinque canti, ➜ PAG. 254. 79 non è sì leggiera… a monte: non è così leggera come aveva pensato vedendola ammucchiata insieme alle altre.
Analisi del testo Le fonti della sequenza lunare e la scelta di un “punto di vista” eccentrico Se nel suo complesso il mondo ultraterreno in cui si muove Astolfo si rifà alla tradizione aristotelico-tolemaica (ott. 70: «Tutta la sfera varcano del fuoco, / ed indi vanno al regno de la luna») e richiama ovviamente la Commedia, l’ideazione fantastica della sequenza lunare e del vallone delle cose perdute è ispirata da fonti che la critica recente ha identificato con certezza. Una fonte è classica: lo scrittore greco Luciano di Samosata (sec. II d.C.) con due sue opere, Storia vera e Icaromenippo; l’altra è d’età umanistica: Leon Battista Alberti, di cui Ariosto riecheggia, e in più parti riprende quasi alla lettera, il Somnium (Il sogno), compreso nella raccolta Intercœnales, un testo latino nel quale il grande umanista descrive un immaginario paese dei sogni di caratteristiche assai simili alla Luna ariostesca. Da entrambe le fonti Ariosto deriva la scelta, fondamentale nell’intera sequenza lunare, di un punto di vista eccentrico per osservare la realtà umana, cioè di una prospettiva straniante, “altra” (guardare la Terra e le cose umane da una distanza siderale e da un luogo “diverso”) che di fatto consente di smascherare l’inautenticità dei rapporti umani, la vanità dei desideri, delle ambizioni e delle dinamiche di potere, rivelandone la reale natura. La Luna è in rapporto dialettico con la Terra perché, dice lo scrittore, è il luogo dove si raduna ciò che sulla Terra si perde; ma di fatto, a ben vedere, diventa luogo dello “svelamento”, specchio rivelatore del vano affannarsi dell’uomo: è questo il senso del lungo elenco di oggetti che Astolfo vede nel vallone lunare.
La valle delle cose perdute: un’allegoria della vanità del mondo Dopo una veloce panoramica d’insieme Ariosto, assecondando le precise intenzioni di Astolfo (ott. 73: «Non stette il duca a ricercar il tutto; / che là non era asceso a quello effetto») si concentra su un luogo specifico: il vallone dove si trovano, per mirabile magia, tutte le cose che sono state perdute qui sulla Terra per errore degli uomini o per volontà del Fato, motivo assai caro all’autore dell’Orlando furioso. Comincia così una ricca e variegata rassegna che si protrae per ben otto ottave (74-81), che mostra tutto quello che gli uomini, nella loro vana follia, perdono senza nemmeno rendersene conto. Si parte dalla fama, che logora e divora il tempo come un tarlo implacabile, per poi passare alle preghiere, spesso fasulle e quindi inutili; si incontrano poi le pene amorose, il tempo perso al gioco o inseguendo progetti irrealizzabili. Con l’ottava 76 l’orizzonte si allarga, arrivando a includere problematiche d’ordine storico, con le corone antiche chiamate a rappresentare i regni un tempo gloriosi e ora nell’oblio. Cadono
332 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
poi vittima della vena satirica di Ariosto i doni che si fanno per accattivarsi l’amicizia dei potenti (ott. 77: «Ami d’oro e d’argento»), l’adulazione («in ghirlande ascosi lacci»), la poesia di corte vissuta come mero servilismo («Di cicale scoppiate immagine hanno / versi ch’in laude del signor si fanno»). Seguono gli amori senza esito (ott. 78: «nodi d’oro e gemmati ceppi»), gli incarichi di potere ambiti da tutti i sottoposti, così come i labili favori dei principi («d’aquile artigli gli uni, fumi gli altri»); gli accordi politici e le congiure senza successo (ott. 79: «Ruine di cittadi e di castella»), il lavoro dei ladri e dei falsari («serpi con faccia di donzella»), la vanità della vita di corte («bocce rotte di più sorti»), le elemosine post mortem (ott. 80: versate minestre). Non manca poi una puntata contro il potere temporale della Chiesa e, per finire, la stoccata misogina alla bellezza infida delle donne (ott. 81: «panie con visco»). Solo della pazzia, conclude Ariosto, non vi era traccia, perché quella rimane tutta quanta sulla Terra, e non se ne allontana mai.
Un catalogo fondato sull’analogia Come si può facilmente vedere, la rappresentazione di quanto viene perduto sulla Terra si fonda sul meccanismo dell’analogia, che materializza concetti e realtà astratte in oggetti tangibili, dando una forma concreta a delle metafore verbali. È un procedimento che ricorda un genere figurativo assai in voga nel Cinquecento e che certo Ariosto doveva conoscere molto bene: quello delle “imprese”, ovvero figure dal valore simbolico e allusivo, spesso accompagnate da un motto del quale esse costituirebbero la raffigurazione. Immagini di questo tipo erano spesso riprodotte sui frontespizi delle prime opere a stampa.
Un ritratto “in negativo” della corte Quella che emerge dalla rassegna di immagini contenute nel vallone delle cose perdute non è una realtà generica, ma vi si riconoscono i caratteri di un modello sociale ben preciso: quello della corte, che Ariosto conosceva da vicino e che spesso fu oggetto della sua vena satirica. L’assurdità e il vano affannarsi per cose effimere, la funzione puramente encomiastica della poesia, il desiderio smodato di gloria così come l’imprevedibile mutevolezza dei destini che lo stesso Ariosto aveva dovuto sperimentare sulla propria pelle nel burrascoso rapporto con il cardinale Ippolito, e poi quando il duca Alfonso lo inviò a governare la turbolenta provincia della Garfagnana, sono tutti elementi facilmente riconducibili all’ambiente delle corti italiane del Cinquecento.
Il senno perduto… e non solo da Orlando! Tra le cose perdute Astolfo giunge finalmente a trovare ciò che cercava e che costituiva, come gli ha spiegato san Giovanni nel Paradiso Terrestre (➜ T15 OL), il motivo del suo viaggio ultraterreno: ammucchiato in un monte che da solo supera tutte le cose descritte finora, gli si para di fronte quello che gli uomini non pensano mai di chiedere a Dio, perché convinti di possederlo già, ossia il senno. Questa facoltà umana, evidentemente più rara di quanto non sembrerebbe, è presente in grandi quantità nel vallone della Luna in forma di liquido racchiuso in ampolle di varia grandezza, a seconda della quantità di senno perduta in Terra dai proprietari, il cui nome è scritto sull’ampolla stessa. La più grande, manco a dirlo, è proprio quella di Orlando: ma anche Astolfo ha qui una sua ampolla non trascurabile, e molte altre ve ne sono, e di persone insospettabili. Nell’ottava 85 Ariosto fornisce un veloce repertorio dei modi e delle occasioni che possono indurre nell’uomo la perdita di senno, un elenco che riprende le tematiche già espresse nel descrivere la valle delle cose perdute; l’ottava si conclude con una nota autoironica, nella constatazione che ad abbondare era soprattutto il senno dei poeti. Prima di recuperare l’ampolla contenente il senno di Orlando, Astolfo, con il permesso dell’evangelista Giovanni, prende quella che contiene il suo, ma Ariosto, nascondendosi dietro il nome di Turpino, non manca di avvertire i lettori che l’assennatezza non può mai considerarsi un bene acquisito una volta per tutte: Astolfo, infatti, vivrà da savio per molti anni, ma un incontro d’amore lo porterà infine a impazzire di nuovo.
online T18 Ludovico Ariosto
L’Orlando furioso giunge in porto Orlando furioso XLVI, 1-3
L’Orlando furioso 3 333
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Come appare la Luna all’occhio del visitatore Astolfo? 2. Che cosa Astolfo vede ammucchiati nel vallone lunare? ANALISI 3. Dove viene conservato il senno degli uomini? Sotto quale aspetto si presenta? STILE 4. Individua il chiasmo presente nell’ottava 73. Secondo te, quale aspetto intende sottolineare Ariosto con il ricorso a questa particolare figura retorica?
VERSO IL NOVECENTO
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Fai un confronto tra il viaggio di Astolfo e quello di Dante: quale rapporto istituisce Ariosto con il grande modello? Quali sono le differenze tra il cammino di Dante-personaggio sui sentieri della trascendenza e l’avventura di Astolfo nel mondo della Luna, magica allegoria delle miserie terrene (max 25 righe)?
L’Orlando furioso come fonte e modello L’Orlando furioso costituisce una fonte di ispirazione fondamentale per i romanzi di Calvino, innanzitutto al livello più evidente, cioè nella ripresa manifesta di temi, personaggi e situazioni, intrecci, in particolare nei romanzi di materia “cavalleresca”: Il cavaliere inesistente e Il castello dei destini incrociati. In quest’ultimo ritornano personaggi ariosteschi (Orlando, Angelica) e sequenze narrative del poema (come il viaggio di Astolfo sulla Luna ➜ T17 ). Ariostesco è il tema stesso del “castello” come «vortice di nulla» (l’espressione è di Calvino) che sottrae i personaggi al reale e alle categorie spazio-temporali per le sue valenze simboliche di protezione, potere, incantesimo. L’influenza di Ariosto si avverte più sottilmente e profondamente nel modo calviniano di leggere e interpretare la realtà: Calvino condivide con l’autore dell’Orlando furioso l’atteggiamento di razionale distacco dall’immediatezza di quest’ultima. In entrambi gli scrittori però, l’adozione di uno sguardo lontano e distaccato non implica il rifiuto dei suoi aspetti negativi e anche tragici, ma piuttosto la loro relativizzazione ironica nel ritmo del divenire universale e la tendenza a trasfigurare, attraverso il filtro di un’affabulazione fiabesca, anche l’elemento più atroce in un’atmosfera di leggerezza e grazia. Ma forse l’aspetto che avvicina maggiormente i due grandi scrittori è rappresentato dalle modalità stesse del narrare, alle quali nel tempo Calvino ha rivolto un’attenzione sempre maggiore, anche sulla scia dei suoi interessi strutturalistici e narratologici. Non a caso nel saggio Ariosto: la struttura dell’Orlando furioso (1975) Calvino dedica alle sofisticate strategie narrative del poema (il montaggio degli episodi, i passaggi narrativi) un’attenta analisi. Gli schemi narrativi del Furioso non sono però oggetto solamente della sua riflessione critica, ma agiscono nella stessa prassi narrativa calviniana: come in Ariosto le aperture dei canti, così in Calvino gli inizi dei capitoli dei romanzi sono spazi testuali spesso dedicati a digressioni di ordine morale e a riflessioni filosofiche suggerite dal racconto, come in Ariosto sono frequenti gli interventi ironici del narratore, e così via. Ma soprattutto Calvino, in particolare nella sua maturità di scrittore, è attratto dal narrare ariostesco come raffinato gioco intellettuale fondato su regole “combinatorie” che l’intellettuale novecentesco, nutrito delle moderne teoAstolfo verso la Luna (particolare) in un’incisione rie della letteratura, estremizza in una scrittura di Gustave Doré per l’edizione illustrata dell’Orlando narrativa fortemente intellettualistica. furioso.
334 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Italo Calvino Storia di Astolfo sulla Luna I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Torino 1973
Nel romanzo Il castello dei destini incrociati tutti i personaggi, che si ritrovano in un castello, sono muti. Per loro parlano le carte dei tarocchi, che ognuno sceglie per narrare la propria storia e a cui corrisponde una decifrazione della realtà, pur enigmatica per definizione. Il passo qui proposto rivisita il celebre episodio ariostesco di Astolfo sulla Luna (➜ T17 ), ma si avverte, soprattutto nel desolato finale, una visione più pessimistica rispetto a quella dello scrittore rinascimentale: nel responso delle carte, la Luna rivela non il “senso” delle cose ma, arido deserto, il “vuoto di senso”, rendendo vane le avventure degli uomini-cavalieri erranti nel mondo.
Astolfo il suo Ippogrifo l’aveva e montò in sella. Prese il largo nel cielo. La Luna crescente gli venne incontro. Planò. (Nel tarocco, La Luna era dipinta con piú dolcezza di come le notti di mezza estate rustici attori la rappresentino nel dramma di Piramo e Tisbe1, ma con mezzi altrettanto semplici d’allegoria...) Poi veniva La Ruota della Fortuna, giusto al punto in cui ci aspettavamo una descrizione più particolareggiata del mondo della Luna, che ci lasciasse sbizzarrire nelle vecchie fantasie d’un mondo all’incontrario, dove l’asino è re, l’uomo è quadrupede, i fanciulli governano gli anziani, le sonnambule reggono il timone, i cittadini vorticano come scoiattoli nel mulinello della gabbia, e quanti altri paradossi l’immaginazione può scomporre e ricomporre2. Astolfo era salito a cercare la Ragione nel mondo del gratuito, Cavaliere del Gratuito egli stesso. Quale saggezza trarre per norma della Terra da questa Luna del delirio dei poeti? Il cavaliere provò a porre la domanda al primo abitante che incontrò sulla Luna: il personaggio ritratto nell’arcano numero uno, Il Bagatto, nome e immagine di significato controverso ma che qui pure può intendersi – dal calamo che tiene in mano come se scrivesse – un poeta3. Sui bianchi campi della Luna, Astolfo incontra il poeta, intento a interpolare nel suo ordito le rime delle ottave4, le fila degli intrecci, le ragioni e le sragioni. Se costui abita nel bel mezzo della Luna, – o ne è abitato, come dal suo nucleo più profondo, – ci dirà se è vero che essa contiene il rimario universale delle parole e delle cose, se essa è il mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata. – No, la Luna è un deserto – questa era la risposta del poeta, a giudicare dall’ultima carta scesa sul tavolo: la calva circonferenza dell’Asso di Denari, – da questa sfera arida parte ogni discorso e ogni poema; e ogni viaggio attraverso foreste battaglie tesori banchetti alcove ci riporta qui, al centro d’un orizzonte vuoto.
1 Piramo e Tisbe: due giovani, personaggi della narrativa dell’antichità, legati da un amore disperato che ricorda quello di Romeo e Giulietta. 2 vecchie fantasie... ricomporre: il narratore allude alle raffigurazioni letterarie che fanno della Luna il rovescio della Terra; da qui le immagini paradossali elencate.
3 Il Bagatto... un poeta: il Bagatto, detto anche il Mago, è la prima carta degli Arcani maggiori dei tarocchi: ha per lo più significato positivo, alludendo all’abilità e all’adattabilità. Dalla canna sottile (calamo) che impugna per scrivere, Calvino fa emergere l’immagine del poeta; un poeta a cui, nelle righe successive, tende a sovrapporsi l’immagine di Ludovico Ariosto.
4 Astolfo… ottave: dalle espressioni usate per designare il poeta è evidente l’allusione a Ludovico Ariosto, che nel suo poema ha usato le ottave, ha dato vita a intricate avventure e ha toccato il rapporto fra ragione e follia.
L’Orlando furioso 3 335
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da L. Caretti, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 1961
Nel passo proposto, estrapolato da un saggio di importanza basilare nella storia della critica ariostesca, Lanfranco Caretti evidenzia un aspetto fondamentale nella tecnica narrativa del Furioso: la tendenza a non privilegiare un personaggio, un tema, un sentimento, per rappresentare la complessità della vita, di cui sa cogliere le leggi profonde. Una rappresentazione armonica e insieme dinamica, frutto di uno sguardo lucido e distaccato.
Alla varietà dei personaggi corrisponde […] un’altrettanto ricca pluralità di motivi, di cui nessuno preminente. Neppure l’amore, che tuttavia costituisce il tema più frequente del poema. Prima di tutto perché l’amore nel Furioso si manifesta in modi diversi e talvolta addirittura contrastanti (da quelli puri e patetici a quelli sensuali e voluttuosi, da quelli eroici a quelli semplicemente puntigliosi, da quelli tragici a quelli comici e realistici), sì che nessuno saprebbe dire quali dei tanti amori ariosteschi può essere legittimamente considerato motivo fondamentale dell’opera; in secondo luogo perché accanto all’amore ci sono, nel poema, molti altri sentimenti espressi con altrettanta intensità e sincera adesione da parte del poeta: i temi dell’amicizia, della fedeltà, della devozione, della gentilezza, della cortesia, dello spirito d’avventura. E accanto ai temi per così dire ‘virtuosi’ non mancano i temi opposti, non meno schietti dei primi: quelli dell’infedeltà, dell’inganno, del tradimento, della superbia, della violenza, della crudeltà. Non basta. Come la vita dei personaggi, anche quella dei sentimenti è, nell’opera ariostesca, una vita così strettamente correlata che i vari temi dell’opera s’intrecciano tra loro condizionandosi a vicenda e richiamandosi l’uno con l’altro per affinità o per contrasto. L’alternanza perciò, anche contigua, di motivi tra loro opposti (ad esempio: il tragico sublime immediatamente rincalzato dal grottesco), che ha creato tanta perplessità nei lettori del Furioso e ha fatto pensare a una ambiguità sentimentale del poeta [...], in realtà corrispondeva alla disposizione dell’Ariosto a rappresentare con fedeltà il particolare nel molteplice, evitando con cura che ogni particolare di cui la natura è doviziosamente dotata risultasse isolato e brillasse di vita propria e indipendente. Onde le smorzature repentine, l’alzarsi e l’abbassarsi tempestivo dei toni. A un’arte che spaziava così largamente e che mirava a una così complessa rappresentazione della vita, molti pericoli sovrastavano. Primo fra tutti quello di approdare a una meccanica giustapposizione di figure e di temi, a una mera somma di risultati episodici, non a un organismo perfettamente fuso. E invece ogni pericolo di anarchia compositiva appare evitato, e l’opera ariostesca si presenta a noi come un esempio mirabile di unità e di armonia compositiva. La ragione è che l’Ariosto non si rivolgeva alla varietà della natura per il semplice gusto istintivo del romanzesco avventuroso, ma per cogliervi le leggi profonde che la regolano e la governano. Così quella varietà, anziché frantumarglisi nelle mani, veniva rivelando, alla sua coscienza d’uomo moderno, quel segreto ordine dell’universo entro cui si conciliano, senza esclusioni di sorta, anche le opposizioni più irriducibili. Gli era dunque consentito, dopo uno scandaglio così acuto, di assumere lietamente nella sua opera tutta intera la natura, non considerando alcunché di essa meritevole di esserne escluso. L’unità
336 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
che deriva da tale atteggiamento, e che il Furioso riflette fedelmente in sé, è tutt’altra cosa dall’unità di tipo medievale, immobile e con un centro fisso e prestabilito. È, proprio all’opposto, un’unità dinamica risultante dalla serie infinita dei moti della vita universale, compresenti nella loro totalità all’intelletto dello scrittore che li abbraccia e li rappresenta nei loro rapporti sempre diversi e inesauribili. Perciò il poema è solo apparentemente dominato dal caso (non si parli di destino che è concetto estraneo all’anima ariostesca). Tanto è vero che, mentre l’evento imprevisto sembra essere l’unico motore dell’opera, in realtà è la mente dell’Ariosto che ne predispone tutte le implicazioni e ne amministra con mano ferma e sicura tutti gli impulsi e le energie. L’unità del Furioso è dovuta, dunque, all’opera di sapiente armonizzazione che l’Ariosto ha saputo compiere per ridurre a cordiale e naturale convivenza i molteplici temi, anche contrastanti, di cui il poema è contesto. Un’opera che solo lo scrittore, in quanto uomo dell’arte, può realizzare interpretando e rappresentando la vita degli uomini [...], soggetti agli impulsi esterni e spesso anche vittime di essi. Lo scrittore, infatti, è ormai al di fuori della vita intricata degli impulsi. È colui che, per averli conosciuti tutti nella loro essenza e nelle loro contraddizioni, può controllarli interamente e quindi raffigurarne con lucido coordinamento, cioè in unità, l’assidua complicazione. Questa condizione di eccezionale libertà conferisce all’Ariosto quella sua rara virtù di sereno e obiettivo distacco, quell’autentica saggezza che è stata erroneamente giudicata come indifferenza o superficialità sentimentale.
Comprensione e analisi
Produzione
1. Individua la tesi proposta dal critico a proposito del capolavoro di Ariosto. 2. Ricostruisci lo schema argomentativo del testo riportato, sintetizzando gli argomenti presentati da Caretti a sostegno e illustrazione della propria tesi. 3. Quale interpretazione del poema e del suo stesso autore vuole respingere Caretti con la propria argomentazione? 4. In che senso l’unità dinamica del poema ariostesco si distingue dall’unità di tipo medievale? 5. Dalla sua interpretazione del Furioso, il critico desume anche un ritratto umano di Ariosto: illustralo brevemente. Il giudizio espresso dal critico Lanfranco Caretti nel testo proposto può rimandare ad alcuni dei valori fondanti e più fecondi della visione del mondo e della cultura rinascimentali. Individua e illustra come il Furioso esprime i più originali e vitali aspetti della concezione rinascimentale dell’uomo e della vita, istituendo eventualmente confronti con altre opere e autori che conosci. Sviluppa le tue considerazioni al riguardo in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
L’Orlando furioso 3 337
5 L’Orlando furioso nel tempo Il best seller del Rinascimento Il successo dell’Orlando furioso è immediato e grandissimo: il poema è subito diffuso e letto negli ambienti intellettuali, ma la sua conoscenza si diffonde anche negli ambienti popolari, che già conoscevano “la materia” attraverso la tradizione dei cantari. Non si contano nel Cinquecento le edizioni e le ristampe; ma si moltiplicano anche, sulla scia del successo dell’opera, le imitazioni, le continuazioni, le edizioni non autorizzate: così che l’Ariosto, finché vive, deve affannarsi per correggere dai numerosi errori le varie versioni del proprio poema immesse sul mercato. Il grandissimo successo di pubblico fu convalidato, almeno nella prima metà del secolo, anche dal giudizio positivo, e persino entusiasta, dei letterati. L’inizio della “sfortuna” del Furioso nel secondo Cinquecento Ma nel giro di pochi decenni, nella seconda metà del secolo, il cambiamento radicale del clima culturale segna l’inizio della “sfortuna” del poema ariostesco, per lo meno fra i teorici della letteratura: da un lato, nel clima austero della Controriforma, il Furioso diventa un’opera discutibile sotto il profilo morale e dall’altro le regole compositive di ordine, unità, regolarità, imposte dalle poetiche che si ispiravano ad Aristotele inducono a considerare il Furioso un poema caotico e “irregolare”, nel pullulare di personaggi e intrecci narrativi che lo caratterizza. La contrapposizione Ariosto-Tasso Nasce così, ben presto, una contrapposizione Ariosto-Tasso: la Gerusalemme liberata, nata sessant’anni dopo nel medesimo contesto della corte ferrarese, viene considerata un poema “moderno” rispetto al Furioso, in quanto fondato sull’autorità della storia, ordinato nella strutturazione della vicenda che, secondo il nuovo gusto, deve appunto essere organica e unitaria. Nel nuovo clima ideologico e culturale uno dei rari ammiratori del capolavoro ariostesco è il grande Galileo Galilei, che esalta il senso di libertà che circola nel Furioso, di cui celebra il carattere di mondo aperto e mobile nel grande scenario della natura, mentre paragona la Gerusalemme tassiana, in modo forse eccessivamente polemico, a uno studiolo chiuso, dove un dotto pignolo ha raccolto una serie di oggetti fissati nella loro staticità (➜ T19b OL). L’incomprensione del periodo barocco… Il consolidarsi del gusto barocco e il radicarsi del clima ideologico controriformistico segnano il punto più basso nell’apprezzamento del lavoro dell’Ariosto: l’Orlando furioso sembra inesorabilmente uscito di scena nei gusti del pubblico e nella stima degli studiosi. E la cosa non stupisce: i paradigmi culturali dominanti nel Seicento non possono apprezzarne l’ironia lieve, che è invece vista come mancanza di serietà, come un’infrazione grave alle leggi del poema epico (ma, appunto, epico l’Orlando non era...). ... e la persistenza del modello in Cervantes Una settantina d’anni dopo la pubblicazione del Furioso, Miguel de Cervantes scrive il Don Chisciotte (1605 e 1615): la storia triste e grottesca del cavaliere spagnolo che cerca invano di far vivere ancora una realtà cavalleresca che la storia ha superato (siamo ai primi del Seicento) con la crisi della nobiltà. Una vicenda tragicomica (➜ T20 OL) dietro la quale la critica ha ormai accertato con sicurezza la presenza del modello ariostesco. Cervantes si ricollega all’Ariosto soprattutto attraverso il grande tema della pazzia, particolarmente frequentato dalla letteratura rinascimentale.
338 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
La rivalutazione del Settecento La polemica nei confronti dell’enfasi barocca in nome della naturalezza e la ricerca di un restaurato senso di equilibrio classico, che caratterizzano il nuovo secolo, costituiscono le premesse per una rivalutazione del poema ariostesco. Ma è soprattutto l’Illuminismo, nella sua esaltazione della lucidità razionale, dell’anticonformismo, di una visione laica della vita e della libertà di pensiero, a riavvicinare nuovamente Ariosto. Uno degli esponenti di spicco dell’Illuminismo francese, Voltaire, che pure era partito da una critica pungente dell’opera, giunge a una vera e propria celebrazione dell’Ariosto, fino a scrivere: «L’Ariosto è il mio dio; tutti i poemi mi annoiano tranne il suo.». L’Orlando furioso e la cultura romantica Nell’età del Romanticismo la lettura del poema ariostesco è contrastata e talvolta contraddittoria: da un lato i romantici apprezzano nel poema la potenza illimitata della fantasia, dall’altro criticano l’assenza nell’opera di Ariosto della “serietà” dei contenuti, che essi individuavano allora nella passione, nella ricerca dell’Assoluto e soprattutto nell’esaltazione della patria e dell’impegno civile. Nell’ambito del primo Ottocento sta a sé, fissata in una sola splendida strofa della Canzone ad Angelo Maj, l’interpretazione che Leopardi dà del poema e del suo creatore, comprensibile all’interno dell’itinerario personale del poeta di Recanati, dalla valorizzazione dell’immaginazione alla presa di coscienza razionale dell’«arido vero» (➜ T21 OL). La critica romantica trova la sua massima espressione negli interventi di Francesco De Sanctis. Anche il grande critico legge la poesia dell’Ariosto nel segno della contraddizione: da un lato ne ammira la grandezza poetica, la naturalezza nel narrare e la libertà dell’immaginazione; dall’altro però individua nel poema le tracce di un’indifferenza verso gli autentici valori, che lo colloca fuori di quella formazione costruttiva dello spirito italiano che doveva culminare nel Risorgimento e che sono presenti invece in Machiavelli. L’Ariosto rappresenta pienamente lo spirito del Rinascimento, ma la sua opera testimonia anche la sopravvalutazione della dimensione estetica sui contenuti, il primato dell’arte sulla vita, che per De Sanctis costituisce il segno della complessiva decadenza della civiltà italiana. Del giudizio di De Sanctis è indicativo questo ritratto di Ludovico Ariosto, ben comprensibile nell’ottica romantico-risorgimentale: «Ludovico non ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il terreno già sgombro e senza opera sua. Non è credente, e non è scettico; è indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui che un interesse molto mediocre. Buona pasta d’uomo, con istinti gentili e liberi, servo non fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l’arte. Andate a vedere quest’uomo mezzano (medio, normale) e borghese come quasi tutt’i letterati di quel tempo, [...] andate a vedere quest’uomo quando fantastica e compone. Il suo sguardo s’illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un Iddio. Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia, l’Artista» (Storia della letteratura italiana, a c. di N. Gallo, Einaudi, Torino 1958, vol. II). L’Orlando furioso 3 339
Il superamento della dicotomia uomo-poeta e la rinuncia alle interpretazioni globali Una simile interpretazione della figura di Ludovico Ariosto è evidentemente condizionata dallo spirito risorgimentale del critico e della sua epoca, che esige uno scoperto impegno morale e politico per poter apprezzare fino in fondo e senza riserve un’opera d’arte. D’altra parte la posizione di De Sanctis fissa in ambito critico quella dicotomia, quella separazione tra il grande poeta e l’«uomo mezzano» che ha condizionato per molti decenni anche del Novecento l’approccio alla figura di Ariosto e la conseguente lettura del poema, considerato frutto di un’evasione fantastica da una vita soffocata e mediocre. Una posizione pregiudiziale che è definitivamente superata solo con il celebre saggio (del 1961) di Lanfranco Caretti (➜ VERSO L'ESAME DI STATO, PAG. 336), vero e proprio spartiacque verso la moderna critica ariostesca, che indirizzerà poi la sua ricerca verso specifici aspetti (stilistici, metrici, narratologici ecc.) del poema, abbandonando di fatto le sintesi interpretative globali.
online T19 Due opposti giudizi sul confronto Orlando furioso-
Gerusalemme liberata a Camillo Pellegrino Il palazzo illusionistico dell’Ariosto e la “fabrica” solida del Tasso Il Carrafa o vero Della epica poesia b Galileo Galilei Una galleria regia… lo studietto di qualche ometto curioso Scritti letterari
online T20 Miguel de Cervantes
Un’avventura “cavalleresca” di don Chisciotte Don Chisciotte della Mancia parte I, cap. XXI
online T21 Giacomo Leopardi
Il poema della felice immaginazione Canti, Ad Angelo Maj, vv. 106-120
Fissare i concetti Ludovico Ariosto Ritratto d’autore 1. Perché nel 1517 Ariosto decide di non seguire il cardinale Ippolito in Ungheria? 2. Quali differenze trova Ariosto tra il servizio presso il cardinale Ippolito e quello presso il duca Alfonso? 3. Come svolse Ariosto il suo incarico in Garfagnana? Le opere 4 Quale modello utilizza Ariosto nelle sue Satire e perché? 5. Quale funzione hanno gli apologhi all’interno delle Satire? L'Orlando furioso 6. In che senso l’Orlando Furioso è la continuazione dell’Orlando innamorato? 7. Quante e quali sono le edizioni dell’Orlando Furioso? Che differenze intercorrono tra esse? 8. Perché è difficile sintetizzare l’Orlando Furioso? 9. Quali sono i tre filoni principali del poema? 10. Quali sono i temi presenti nel Furioso? 11. In che cosa consiste il motivo dell’“inchiesta”? 12. Che cos’è il procedimento dell’entrelacement? 13. Qual è il modello spaziale sotteso al poema? 14. Come viene descritta da Ariosto la Fortuna? 15. Quale funzione riveste l’ironia nel poema? 16. Quali scelte stilistico-linguistiche e metriche caratterizzano il Furioso? 17. Quale saggio, di quale critico, ha segnato l’inizio della moderna critica ariostesca?
340 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Quattrocento e Cinquecento Ludovico Ariosto
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Una vita nella corte Ludovico Ariosto (1474-1533) è il più grande rappresentante del Rinascimento italiano nel mondo delle lettere. L’insieme delle opere e la sua stessa biografia ne fanno un illustre esempio di letterato cortigiano: la figura e la produzione di Ariosto si radicano infatti nella corte di Ferrara, città dove il poeta (nato a Reggio Emilia) si trasferisce nel 1484, nella quale sempre visse e al cui pubblico è idealmente rivolto il suo capolavoro, l’Orlando furioso. I rapporti di Ariosto con la corte, iniziati ufficialmente nel 1500 dopo la morte del padre, sono però difficili, sia per l’ambigua identità della figura del letterato cortigiano sia per la vocazione umanistica di Ludovico: fortemente convinto dell’alto ruolo della letteratura e della autonoma dignità del letterato, Ariosto avrebbe voluto dedicarsi in tranquillità solo a essa e agli amati studi; invece, è spesso obbligato ad assolvere difficili mansioni diplomatiche al servizio del cardinale Ippolito d’Este, cui fornisce i propri servigi fino al 1517, per poi passare alle dipendenze del fratello, Alfonso d’Este, fino al 1522. Non per questo smette di curare per tutta la vita (e soprattutto negli ultimi anni, liberi da impegni ufficiali) il proprio capolavoro, sottoposto a un perfezionistico lavoro di revisione. Muore a Ferrara nel 1533.
2 Le opere
Lo sperimentalismo dei generi Nella propria carriera letteraria, Ariosto si misura con numerosi generi letterari, realizzando opere di elevata dignità artistica; seppur a lungo trascurate, esse non devono venire considerate solo dei banchi di prova per l’Orlando furioso. Le Rime Dopo le liriche in latino, che appartengono al periodo giovanile (1494-1503), dai primi anni del XVI secolo l’autore si cimenta con le rime in volgare, pubblicate postume: 87 componimenti in vari metri, la maggior parte dei quali è ispirata dall’amore per Alessandra Benucci. Se le scelte stilistico-linguistiche rimandano al modello autorevole di Petrarca, il modo di rappresentare l’amore è lontano da ogni stilizzazione e idealizzazione ed è influenzato dal modello classico. Ariosto commediografo Tra i compiti che svolge a corte, quello certamente più congeniale ad Ariosto è l’allestimento di spettacoli teatrali per le feste. Egli è anche autore teatrale e svolge un ruolo di primo piano nella nascita del teatro classicistico, di ispirazione laica; a lui si deve, infatti, il primo esempio di commedia in volgare, modellata sui lavori di Plauto, Terenzio e della tradizione classica in generale: La Cassaria. Rappresentata nel 1508, essa è seguita da altre tre commedie: I Suppositi (1508), Il Negromante (1520), La Lena (1528); rimangono incompiuti I studenti. Inizialmente Ariosto usa la prosa, ma poi adotta l’endecasillabo sdrucciolo sciolto e versifica anche le prime due commedie. Negli intrecci si avverte l’influenza diretta del Sintesi Quattrocento e Cinquecento
341
modello latino; ma soprattutto negli ultimi due lavori, ambientati a Ferrara, non mancano riferimenti alla realtà contemporanea. L’epistolario A lungo svalutate per la loro prosaicità sono le 216 lettere, in parte ufficiali e in parte private, scritte da Ariosto per scopi pratici, senza pretese letterarie. Datate dal 1509 fino all’anno della morte, esse sono molto utili per conoscere personalità e vita dello scrittore: ne viene illuminato l’ambiente famigliare, la carriera pubblica (specialmente come proattivo governatore della Garfagnana) e il lavoro artistico, specialmente per quanto riguarda l’elaborazione dell’Orlando furioso. Le Satire Le Satire (composte tra il 1517 e il 1525) rappresentano l’opera più nota e apprezzata di Ariosto oltre al Furioso. Sono sette composizioni in terzine dantesche, in forma di lettere rivolte ad amici e conoscenti. Le Satire s’ispirano alle Satire e alle Epistole del poeta latino Orazio, di cui riprendono il tono colloquiale e la struttura dialogica. Prendono spunto da occasioni biografiche e presentano dunque il lato umano e intellettuale dello scrittore, illuminando il suo conflittuale rapporto con la corte e i suoi ideali di vita (equilibrio, misura, riservatezza e razionalità del comportamento). Le note biografiche, arricchite da apologhi, costituiscono l’occasione anche per pacate riflessioni più generali di carattere esistenziale e morale.
3 L’Orlando furioso
La genesi, le vicende editoriali, la trama Il nome di Ariosto è legato soprattutto all’Orlando furioso, capolavoro della letteratura rinascimentale. Si tratta di un poema in ottave, pubblicato in tre diverse edizioni (nel 1516, nel 1521 e infine nel 1532), nell’ultima delle quali si presenta composto da 46 canti: qui l’autore ne adegua la lingua quasi del tutto al modello proposto da Pietro Bembo, certo anche pensando a una diffusione in tutta Italia del proprio lavoro. L’Orlando furioso s’iscrive nel fortunato genere del poema cavalleresco, particolarmente apprezzato alla corte ferrarese, riprendendo l’Orlando innamorato del Boiardo al punto in cui era rimasto interrotto; l’atteggiamento di Ariosto verso la materia, tuttavia, non è nostalgico: egli utilizza il mondo feudale dei paladini come affascinante copione narrativo in cui iscrivere una moderna, laica e disincantata visione del mondo. La storia inizia con la fuga di Angelica, personaggio boiardiano, attraverso un bosco. Da qui si diparte una trama estremamente complessa ma riassumibile in tre filoni principali, ognuno formato da diversi episodi: il primo (sul quale si innestano i temi dell’amore e della follia del protagonista) è quello della sfortunata ricerca, da parte del paladino cristiano Orlando, della bella Angelica; il secondo (cui sono legati i temi dell’avventura e della magia e l’aspetto encomiastico) vede la guerriera cristiana Bradamante alla felice ricerca del saraceno Ruggiero; il terzo (che funge da sfondo e lega gli episodi degli altri due) è quello della guerra tra le armate di Carlo Magno e quelle del re saraceno Agramante, che si conclude con la vittoria del primo e il rinsavimento del protagonista. Temi e motivi Uno dei temi principali dell’opera è evidenziato già nella prima ottava: è quello della figura femminile e dell’amore. Ariosto rovescia la tipica concezione letteraria, neoplatonica e petrarchista, di entrambi gli aspetti (la cui interpretazione sublimata provoca di fatto la follia di Orlando) in favore di una rappresentazione senza reticenze dei corpi, della bellezza femminile ma anche dell’amore, raccontato sia come sentimento nobile ed elevato sia dal punto di vista puramente sensuale. Un secondo motivo che corre attraverso il poema è quello della guerra, del quale lo scrittore ribalta l’impostazione “epica”: il tono medio della scrittura e l’alternanza dei
342 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
registri tratteggiano un conflitto tra schieramenti che si equivalgono dal punto di vista valoriale e in cui mancano i veri eroi senza macchia della tradizione carolingia. Grande importanza per la trama e per il piacere della lettura ha la dimensione del “meraviglioso”, legato alla componente “bretone” dell’opera: Ariosto lo introduce e lo tratta con naturalezza mediante il consueto tono discorsivo e pacato, mantenendo il ritmo fluido della narrazione. Nello svolgersi della vicenda vengono evocati alcuni luoghisimbolo, occasioni di riflessione sul significato della vita, parentesi che attraversano il libro e ne smorzano il carattere di evasione fantastica: ricordiamo la selva, simbolo della componente labirintica della realtà, in cui le vicende umane sono soggette alla sorte imprevedibile; il castello dei desideri, metafora dell’insieme delle vane illusioni della vita; il vallone della Luna, dove viene ritrovato il senno di Orlando e dove si accatasta tutto ciò che viene perduto sulla Terra, che invece abbonda di follia, contrariamente a quanto celebrato dall’Umanesimo. Le modalità narrative L’Orlando furioso è il poema del movimento, per il ritmo intenso che lo anima. Movente dell’azione è sempre la ricerca di qualcuno o di qualcosa; una ricerca priva di moventi etico-religiosi e che è costantemente frustrata: anche per l’intervento capriccioso della Fortuna, l’oggetto del desiderio è sempre irraggiungibile o è addirittura vano, come sembra dirci l’aggirarsi inconcludente dei cavalieri irretiti dentro il magico palazzo di Atlante, l’ideazione forse più simbolica dell’intero poema. La visione della realtà che permea l’opera è quindi negativa, come conseguenza del crollo delle certezze antropocentriche prevalenti fino a quel momento Questa concezione è riscattata, tuttavia, da una dissacrante ironia, che aleggia su tutte le vicende e che il lettore è chiamato a condividere affrontando la vita con saggezza ed equilibrio. La struttura del poema è intricata e caotica, tante sono le fila della narrazione che s’intrecciano, si interrompono e tornano a riannodarsi. Ariosto porta all’eccesso l’uso – già presente nella tradizione cavalleresca – dell’entrelacement, ma in realtà l’autore-narratore è sempre padrone della materia, che governa con mano salda e consapevolezza registica. Anche la geografia del poema risulta complessa e vasta, sia nei richiami a terre reali sia in quelli a luoghi immaginari; i protagonisti vi si muovono in percorsi di ricerca circolari e inconcludenti all’interno di uno spazio concepito orizzontalmente: ben diversamente, dunque, da quanto accade nella Commedia medievale e nella successiva letteratura controriformistica, con la loro concezione lineare e verticale. I personaggi mancano di spessore psicologico e sono definiti solo dalle relazioni che intessono e dalle azioni che compiono. Ariosto, narratore onnisciente, non si identifica con alcuno tra essi e mantiene, anche negli interventi metanarrativi, un distacco ironico (che non significa, però, superficiale) sia con queste figure che con la materia cavalleresca in generale. Le scelte stilistico-linguistiche e metriche Nella terza edizione Ariosto adegua il proprio lavoro al modello del toscano letterario, seppur con qualche licenza poetica, per nobilitarne la veste formale e per portare il Furioso a conoscenza di un più ampio bacino di fruitori. Il risultato è quello di una lingua equilibrata, né troppo bassa né eccessivamente alta ma capace di accogliere esempi dei due registri estremi (latinismi e popolarismi). La medietà viene ottenuta anche nel tono, sempre variabile, organizzato in ottave di endecasillabi i cui ultimi due versi, in rima baciata, introducono nuovi argomenti rilanciando dinamicamente in avanti l’azione. Tutto ciò dà vita a una lingua armonica, vivace e colloquiale. L’Orlando furioso nel tempo Il successo dell’Orlando furioso è immediato e grandissimo: è apprezzato negli ambienti popolari e dai letterati ed è oggetto di imitazioni e edizioni non autorizzate.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
343
La sua fortuna, però, si interrompe presto: durante la seconda metà del XVI secolo, nel clima austero della Controriforma, il mutare del clima culturale lo trasforma in un’opera discutibile sotto il profilo morale e formale, soprattutto a confronto con la Gerusalemme liberata del Tasso, scritta sessant’anni dopo sempre a Ferrara ma più organica e unitaria secondo le regole della poetica aristotelica. Questa incomprensione prosegue anche in epoca barocca, sebbene nel primo Seicento Cervantes riprenda il modello ariostesco nel celeberrimo Don Chisciotte. Il Settecento – con il recupero dell’equilibrio classico nelle arti – e l’Illuminismo – laico, razionale e anticonformista – iniziano una rivalutazione del poema, continuata in parte con il Romanticismo: quest’ultima epoca, pur apprezzandone l’elemento fantastico e lo stile, ne critica tuttavia la mancanza di “serietà” e di impegno civile, il primato dell’arte sulla vita. Una lettura più completa e non pregiudiziale dell’artista e del suo capolavoro si avrà solo negli anni Sessanta del Novecento.
Zona Competenze Scrittura argomentativa
1. Ti proponiamo un brano tratto dalla Presentazione dell’Orlando furioso raccontato da Italo Calvino, lettura molto piacevole per un approccio “amichevole” al poema di Ariosto. Rifletti sulle acute osservazioni di Calvino, confrontandole con le tue letture del Furioso e raccogli le tue considerazioni in un testo di max 20 righe.
Dall’inizio l’Orlando furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e il divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definire il primo canto tutto inseguimenti, disguidi, fortuiti incontri, smarrimenti, cambiamenti di programma. È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degl’inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento errante della poesia dell’Ariosto. Esposizione orale
Scrittura argomentativa
2. La selva è uno dei luoghi simbolici ricorrenti nel poema di Ariosto. Sintetizza in uno schema gli episodi e le situazioni che si svolgono in questo spazio e il significato che assumono. Quindi prepara la scaletta di un intervento orale sul confronto tra le profonde valenze simboliche della selva in Ariosto e della «selva oscura» della Commedia di Dante. 3. Quali influenze ha esercitato l’ambiente culturale e geografico in cui è nato il Furioso nell’ideazione, nella strutturazione e nello spirito dell’opera?
344 Quattrocento e Cinquecento 5 Ludovico Ariosto
Quattrocento e cinquecento CAPITOLO
6 L’universo della follia.
Realtà sociale e interpretazioni letterarie
La follia è una condizione umana presente in ogni epoca. Tuttavia cambiano nel tempo la percezione di cosa sia la follia e soprattutto il rapporto che la società e la cultura intrattengono con i folli. Nel Medioevo i pazzi venivano emarginati, con estrema crudeltà, allo stesso modo dei lebbrosi, con l’eccezione di feste collettive, in cui era lasciato libero spazio al riso e alla trasgressione, cosicché ogni rapporto sociale era sovvertito. Nel Cinquecento, negli ambienti delle corti europee, la follia trova un ruolo istituzionale nella figura del “folle del re”, una sorta di buffone che si finge folle, a cui è concessa piena libertà di parola e di critica nei confronti del sovrano. La letteratura è affascinata, fin dall’età medioevale e barocca, per arrivare alla modernità, dal fenomeno della pazzia, che costituisce in molte opere un tema portante e che taglia trasversalmente la cultura letteraria nei vari secoli. Non dobbiamo dimenticare la fonte costituita dai classici: la pazzia nella letteratura greca è uno dei mezzi con cui gli uomini possono conoscere le manifestazioni estreme della loro natura.
follia: esperienza 1 Laumana e tema letterario 345 345
1
La follia: esperienza umana e tema letterario La follia è un’esperienza presente in ogni epoca della storia umana e, di conseguenza, anche nell’immaginario della letteratura. In relazione ai diversi parametri conoscitivi, culturali e comportamentali nelle diverse epoche muta l’identificazione di chi è folle e il rapporto della società con l’universo della follia. Ciò comporta anche un mutamento del modo in cui, in ambito letterario, viene tematizzata la follia.
1 Folli e follia dal Medioevo al Rinascimento “Fratelli del diavolo”... Nell’ottica medievale la follia è associata sostanzialmente al peccato e il folle è di fatto considerato un deviato morale: per i filosofi e i teologi che cercano di indagare la natura della follia (Agostino, i padri della chiesa, Tommaso d’Aquino) i fattori che scatenano l’alienazione mentale sono le passioni, l’intemperanza, la pigrizia. Autore della follia è il demonio, che altera l’armonia dello spirito e priva la mente del libero arbitrio: chi ha smarrito la via del bene diventa preda di allucinazioni, si abbandona a gesti e parole incoerenti e osceni, che infrangono le regole sociali e sconvolgono la sensibilità comune. ... e “folli di Dio” Alla follia come peccato e ai folli come “fratelli del diavolo” si affiancano nella società medievale i “folli di Dio”, per lo più mistici, asceti e predicatori, che mortificano il corpo con digiuni, privazioni e conducono una vita contemplativa, lontana per lo più dalla società organizzata. La follia è in questo caso vista come ispirata da Dio e, sebbene abbia in comune con la pazzia profana la provocazione, la tendenza all’eccesso e allo scandalo, viene pienamente accettata e anzi esaltata dalla società medievale: i “folli di Dio” (da Francesco d’Assisi a Jacopone da Todi, a Caterina da Siena) seguono modelli di vita “ribaltata”, come quella appunto dei folli, ma lo fanno per innalzarsi spiritualmente e costituiscono per i fedeli degli esempi. L’emarginazione dei folli Nel Medioevo – ma anche oltre – il folle vero e proprio conduce vita randagia, aggirandosi per le vie della città o, più spesso, vagando nelle campagne, dove si mescola ad altri emarginati e ai pellegrini; oppure è relegato dalle autorità in lebbrosari abbandonati alla periferia dei centri abitati, dove viene tenuto a debita distanza dai sani di mente. Soprattutto se straniero, il folle è però più spesso costretto a imbarcarsi in viaggi per mare senza una meta fissa, in compagnia di battellieri senza scrupoli che lo buttano in acqua o lo abbandonano su spiagge sconosciute. La nave dei folli, immortalata in un celebre dipinto di Hieronymus Bosch, (➜ SGUARDO SULL’ARTE, PAG. 347) non è solo un’immagine letteraria o figurativa, ma corrisponde a una reale pratica sociale: su di essa viaggiavano davvero i pazzi, che la città allontanava, nella convinzione che l’acqua garantisse la loro esclusione e purificazione.
346 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Sguardo sull’arte La nave dei folli L’opera del pittore fiammingo Hieronymus Bosch (14531516) rappresenta una navicella manovrata da folli, che veleggia verso l’ignoto e la morte. Il tema, tutto medievale, è qui trattato con mano fantastica e grottesca, in una composizione enigmatica, piena di simboli di incerta decifrazione: la nave, che non si capisce se sia in lenta navigazione o alla deriva, ma sembra comunque senza meta o direzione, imbarca degli strani passeggeri: alcuni con volti allucinati fissano il vuoto a bocca aperta (forse per addentare quello che sembra un pandolce pendente dall’alto), qualcuno canta e suona (la suora e il monaco al centro della scena), un buffone beve, uno vomita, uno sta per staccare un pollo dall’albero, mentre dei nuotatori nudi si accostano alla barca (tentati dalle ciliegie o dal vino negli orci messi a raffreddare nell’acqua?). L’impressione immediata è che l’artista abbia voluto descrivere una scena di stolta dissolutezza (in contrasto con il paesaggio apparentemente placido).
IMMAGINE INTERATTIVA
Stultiferas navis (La nave dei folli), 1490-1510 (Museo del Louvre, Parigi).
La dimensione “carnevalesca” e la festa dei folli Vi erano invece occasioni in cui i folli potevano unirsi ai normali, ai sani di mente, e addirittura rovesciare i reciproci ruoli: gli studi di Michail Bachtin su Rabelais, sulla cultura popolare e sulla letteratura «carnevalizzata» (Rabelais e la cultura popolare del Medioevo e del Rinascimento, 1965), pur incontrando numerosi oppositori, hanno consentito di ricostruire lo spirito e l’atmosfera del “mondo alla rovescia” che si creava in occasione della ciclica festa stultorum, la festa dei folli, ancora presente nel tardo Medioevo. La festa dei folli si svolgeva durante il Capodanno e celebrava il passaggio dal vecchio al nuovo anno: vi partecipavano clero e popolo, emarginati compresi, accomunati dal divertimento sfrenato e dall’eccesso: tutti avevano la possibilità di dare libero sfogo a desideri repressi e a pulsioni inconfessabili, e di abbandonarsi al gioco e al riso, fino al rovesciamento trasgressivo dei ruoli e delle gerarchie sociali abituali. La follia: esperienza umana e tema letterario 1 347
Nel mondo “capovolto” che si veniva così a realizzare, gli esclusi riacquistavano, per un giorno, spazi e ruoli normalmente negati alla marginalità, e talora guidavano il divertimento collettivo come re della festa. Il “folle del re”: la follia recitata Nel corso del Cinquecento conosce particolare diffusione nelle principali corti d’Europa, in coincidenza con l’assolutismo regio, una singolare figura: si tratta di un finto pazzo, scelto in genere fra nani e personaggi deformi, per rallegrare il re nel ruolo di buffone, ma anche per rivelargli verità poco gradite. Anche nel caso del “folle del re” si assiste a un rovesciamento dei ruoli e a una specie di “gioco delle parti”: un saggio, che finge di essere stolto, dà infatti consigli al suo re, che crede di essere saggio, ma in realtà è spesso più stolto del suo buffone di corte, perché non vede le “lacrime” e il “sangue” di cui gronda il suo scettro. Il falso folle, approfittando di una libertà di parola e di critica non permessa a nessun altro suddito, smaschera Folle con tunica, bastone e sfera, particolare da un lo strapotere del monarca assoluto. Di tale figura di fool capolettera di un salterio di provenienza francese del offrono molti esempi le tragedie di Shakespeare, tra XIV secolo. British Library, Londra. cui, soprattutto, Re Lear. Per rendere più credibile il suo online ruolo, il folle del re ricorre a una vera “divisa della follia”, che comprende un capPer approfondire L’iconografia della puccio con orecchie d’asino, uno scettro con testa di buffone, abiti molto colorati. follia
La follia nel Medioevo e nel Rinascimento La follia nel Medioevo
ispirata da Satana, era considerata frutto del peccato
accettata solo in occasioni in cui i ruoli erano sovvertiti
La follia nel Rinascimento
considerata una regressione umana allo stadio ferino
“rivalutata” come capacità di cogliere il senso autentico della complessa realtà
348 Quattrocento e cinQuecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
2 La follia come tema letterario Impazzire per amore: dal romanzo cavalleresco medievale all’Orlando furioso Tristano, Lancillotto, Ivano Il tema della follia è frequentato dalla letteratura romanza fin dalle origini, specie nella produzione cavalleresca medievale. I protagonisti, in genere cavalieri, si abbandonano all’amore con tale dedizione da superare il (labile) confine tra sanità e follia: così accade a Tristano, a Lancillotto, a Ivano. In particolare, Ivano, il cavaliere del Leone, protagonista del romanzo omonimo di Chrétien de Troyes (sec. XII), impazzisce per amore della moglie Laudine che non ha aspettato il suo ritorno: Ivano intende vendicare il cugino Calogrenant, sconfitto dall’avversario Esclados, nella foresta di Brocelandia. Recatosi nello stesso luogo, sfida a duello Esclados e lo uccide. Tuttavia, Ivano s’innamora della vedova di Esclados, di nome Laudine e con l’aiuto della damigella di lei, riesce a sposarla, ma Gawain lo convince a imbarcarsi in un’avventura cavalleresca. La moglie Laudine acconsente, a patto che Ivano ritorni dopo un anno, promessa che però egli non mantiene cosicché Laudine lo caccia dalla fortezza in cui la coppia vive. La fine del legame amoroso scatena la follia di Ivano, che si rifugia nella foresta: qui rompe ogni legame con la civiltà e diventa, per effetto della pazzia, un selvaggio regredito a uno stato di ferinità. L’episodio della follia di Ivano (➜ T1 ) si struttura su una sequenza di gesti e comportamenti che costituiscono una specie di «cerimoniale della follia», per usare l’espressione di Cesare Segre (Fuori del mondo, 1990), che si ripete in forme pressoché immutate in altri testi coevi e posteriori, tra cui l’Orlando furioso, così da costituire una sorta di “copione”. Lo schema-tipo delle conseguenze della follia prevede in genere le seguenti manifestazioni: denudamento, rinuncia alle armi, fuga nella foresta, assunzione di cibo crudo (selvaggina, radici), alterazione fisionomica, interruzione della comunicazione verbale (sostituita da urlo, grido...). L’eroe impazzito si libera innanzitutto dell’armatura, con un gesto fortemente simbolico che corrisponde alla rinuncia all’identità cavalleresca. Si strappa, poi, i vestiti ed esibisce la sua nudità, che si unisce a una forza bruta e distruttiva: il folle si serve della sua potenza smisurata contro ogni ostacolo, uomini, piante, bestie. Il pazzo infine, per completare la sua degradazione a uno stato di ferinità primitiva, si inoltra nella foresta, luogo dell’errare e dell’errore: la fuga nei suoi meandri ben si addice al perdersi nei labirinti oscuri della follia. Nella foresta il folle si ciba dei prodotti che la natura gli offre spontaneamente, oppure anche di selvaggina divorata cruda (l’assunzione del cibo crudo esprime la regressione allo stato di natura, la rinuncia alla “civiltà”). Il tema del cavaliere impazzito per amore torna secoli dopo: la pazzia di Orlando, il paladino saggio «che per amor venne in furore e matto», costituisce il fulcro tematico dell’Orlando furioso (➜ C5), il capolavoro di Ludovico Ariosto e occupa, per la sua importanza strutturale e simbolica, il centro del poema. La pazzia di Orlando nasce dallo scarto tra illusione e realtà: il paladino insegue un ideale di bellezza irraggiungibile, un amore assoluto, e perde il senno perché non sa accettare la realtà, spingendosi fino alla degradazione più bestiale. È significativo che, nella rappresentazione delle varie fasi della pazzia di Orlando, Ariosto segua proprio lo schema che sopra si è indicato a proposito della follia di Ivano. La follia: esperienza umana e tema letterario 1 349
Chrétien de Troyes
T1
Il «cerimoniale della follia» Yvain, vv. 2783-2883
Chrétien de Troyes, Yvain, in J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, a c. di F. Maiello, Laterza, Roma-Bari 2002
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Il passo che segue, tratto dal poema Yvain di Chrétien de Troyes, risalente agli anni settanta del XII secolo, rappresenta lo sprofondare progressivo di Yvain nella follia, che segue le tappe di uno schema narrativo ricorrente nei testi letterari cavallereschi.
Yvain è affranto: tutto quello che ascolta gli dà fastidio, tutto quello che vede lo tormenta; vorrebbe essere lontano, in una terra tanto selvaggia che non si sappia dove cercarlo, dove non ci sia alcuno, uomo o donna, che sappia nulla di lui, quasi si trovasse al fondo di un abisso. Il suo tedio aumenta, ormai non odia nulla di più 5 di se stesso, e non sa a chi rivolgersi per trovare consolazione. Sente che è lui stesso causa della propria disgrazia e del proprio smarrimento. Avrebbe preferito perdere il senno piuttosto che non essere in grado di vendicarsi di se stesso, per essersi fatto rapire la felicità. Si allontana quindi senza dire parola, tanto temeva di sragionare in mezzo ai baroni. E questi non gli fecero attenzione; lo lasciarono andare solo: 10 erano convinti che le loro intenzioni e i loro affari dovevano interessarlo molto poco. Ben presto si trova lontano dalle tende. Il delirio si impossessa a questo punto della sua testa. Si strappa i vestiti e li riduce in brandelli, se ne scappa per i campi e terreni coltivati. I compagni, preoccupati, lo cercano per tutti i cimiteri, per tutte le tende, per orti e verzieri, senza trovarlo. Yvain continua a correre come un pazzo, 15 fino a che, nei pressi di un parco, si imbatte in un ragazzo recante un arco con frecce dentate molto larghe e taglienti; e qui ha quel tanto di lucidità che gli consente di rubargliele. Ha perso la memoria di tutto ciò che ha fatto fino a quel momento. Si mette ad osservare gli animali del bosco, li uccide e mangia cacciagione cruda. Si aggira per la foresta delirante e selvaggio, fintanto che vede una capanna molto 20 bassa. Vi abitava un eremita, impegnato in quel momento a ripulire il terreno dagli sterpi. Quando l’eremita scorge quell’uomo nudo, si rende subito conto ch’egli era fuori di sé, e va a tapparsi nella sua casetta. Ma, mosso da carità, il buon uomo prende del pane e dell’acqua e li mette fuori su una stretta finestra. Il folle si accosta, e vinto dalla fame, prende il pane e lo addenta. Mai, credo, ne aveva assaggiato di 25 tanto cattivo e duro. La farina di cui era fatto non era costata neanche cinque soldi al sestario1, poiché era impastata d’orzo e di paglia, e poi era più acido del lievito, e rancido e asciutto come una scorza. Ma con la fame che lo tormentava, il pane gli sembrò buono; la fame, infatti, è il miglior condimento per ogni alimento, un condimento ben preparato e ben confezionato. Yvain mangia tutto il pane dell’ere30 mita e beve acqua fredda dall’orcio. Finito di mangiare, se ne scappa di nuovo nel bosco, alla ricerca di cervi e cerbiatte.
1 sestario: antica misura di capacità romana corrispondente a un sesto del congio, cioè a 0,545 l.
350 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Analisi del testo La follia di Ivano e di Orlando Il brano presentato prende in esame il passaggio dell’opera, nel momento in cui esplode la follia di Ivano («il delirio s’impossessa della sua testa»), che si strappa i vestiti, li riduce in brandelli, se ne scappa per i campi e i terreni coltivati, e dopo una breve pausa a casa di un eremita continua a correre come un pazzo nel bosco a caccia di cervi e cerbiatte. Quest’opera fu senza dubbio la fonte principale del capolavoro cavalleresco del Rinascimento, ossia l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto (➜ C5), con una differenza sostanziale però: che mentre l’Ivano medievale riesce a riconquistare l’amore della donna, al contrario il protagonista di Ariosto, Orlando, pur recuperando il senno con l’aiuto del cugino Astolfo, non otterrà mai la corresponsione amorosa di Angelica, che anzi predilige e sposa un umile pastore di nome Medoro.
Eroe medievale ed “eroe” rinascimentale Si delinea così il profilo differente dei due personaggi, legati a due epoche diverse. Da un lato, l’eroe cavalleresco medievale, Ivano, che in virtù dei suoi valori di forza, coraggio, temerarietà, e grazie alle sue imprese epiche, conquista l’amore della donna, in un lieto fine che esalta le doti del cavaliere, all’interno della cultura cortese e cortigiana. Dall’altro lato, il protagonista del poema del Rinascimento, Orlando, vulnerabile e passionale, che non è in grado, con nessuna impresa cavalleresca e nessuna manifestazione di forza, di sedurre la donna amata: il paladino ariostesco, in realtà, è un uomo comune, in preda agli impulsi, con la mente offuscata dalla gelosia e dagli istinti, che non stenta ad abbandonare la guerra per gettarsi all’inseguimento della fanciulla.
Arnold Böcklin, Orlando furioso, 1885 (Museum der bildenden Künste, Lipsia).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza la situazione narrativa in un testo di 5 righe. ANALISI 2. La follia d’amore di Ivano non si manifesta all’improvviso, ma è preceduta da una serie di azioni e reazioni che in qualche modo ne preparano il delirio vero e proprio. Descrivi la condizione psicologica e il comportamento di Ivano prima che la follia s’impadronisca della sua mente. 3. Indica quali sono le virtù dell’eroe cavalleresco medievale, che in lui sopravvivono anche nel momento della follia e che non intaccano il suo valore di paladino. LESSICO 4. La follia di Ivano si delinea e si costruisce attraverso un sapiente uso di aggettivi e verbi, che denotano la condizione mentale del cavaliere. Indica le parole emblematiche in tal senso.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
TESTI A CONFRONTO 5. Illustra, in un breve testo, le differenze di personalità, alla luce del brano antologizzato, fra l’eroe cavalleresco e il protagonista dell’Orlando furioso. LETTERATURA E NOI 6. L’autore nel testo fa notare che Ivano, nello stato di follia, perde i contatti principali con le persone e le situazioni che lo circondano. Quali sono, in particolare, i confini relazionali che oltrepassa Ivano? Ritieni che questa perdita di contatti col mondo, per quanto amplificata in un testo letterario, possa avere riferimenti con l’attualità?
La follia: esperienza umana e tema letterario 1 351
3 I diversi significati della follia
nella cultura umanistico-rinascimentale
La follia come in-degnità dell’uomo Nell’età umanistica si afferma una concezione dell’uomo e del mondo che pone in primo piano la virtù e la dignità dell’individuo, homo faber finalmente artefice del proprio destino: da qui appunto i numerosi trattati De dignitate hominis [La dignità dell’uomo] (➜ SCENARI, PAG. 60). All’interno del modello comportamentale umanistico componenti essenziali della dignità dell’uomo sono la saggezza e la razionalità, mentre la pazzia rappresenta, proprio perché in essa si manifesta il trionfo dell’irrazionale e del caos, l’in-degnità dell’uomo. Agli occhi degli umanisti la follia si presenta come vizio, non diversamente dal Medioevo, o come malattia da guarire in esponenti di un’umanità inferiore, soprattutto dal punto di vista morale, ma anche spesso fisico e mentale. La follia come condizione universale… D’altra parte alcuni intellettuali sono consapevoli che la follia sia forse una condizione universale riguardante tutti gli uomini, e non solo quelli comuni o i rappresentanti di una umanità “bassa”, ma anche gli eroi, che possono diventare anch’essi facile preda della follia, come insegna la storia esemplare di Orlando paladino. Nella straordinaria sequenza lunare dell’Orlando furioso (➜ C5 T17 ) è la follia a regnare sulla terra, mentre il senno degli uomini è quasi tutto “altrove”. … e come conoscenza superiore Nei secoli XV-XVI il mondo diventa più complesso e ambiguo, e si fa strada in alcuni intellettuali l’idea che siano necessarie più articolate e più raffinate modalità d’indagine, non fondate soltanto sulla ragione. In questa prospettiva la follia viene intesa non tanto come antitesi alla saggezza, ma come portatrice di un punto di vista “diverso”, di uno sguardo “obliquo” che consente l’esplorazione degli aspetti conflittuali e disarmonici del mondo e della natura umana. Illuminando il volto cangiante e contraddittorio della realtà anche nei suoi risvolti meno noti e comuni, la follia attiva una forma superiore di conoscenza e finisce per identificarsi, come accade in Erasmo, con la vera saggezza (➜ T3 ). Quanto meno i due opposti – pazzia e saggezza – si toccano, in un equilibrio instabile, sempre sul punto di scambiarsi le parti e darsi la staffetta. Di questo scambio di parti si fa a volte portavoce la figura del buffone-folle che rivela la verità sull’incoerenza e sulle debolezze degli uomini, e, in virtù di ciò, indica il significato più profondo dell’esistenza. A tale prospettiva sono funzionali anche l’ironia e il paradosso, impiegati sia nel Momus di Leon Battista Alberti (1450 ca), sia nel celebre Elogio della follia di Erasmo (1509), che traducono lo sguardo “alla rovescia”, l’angolo visuale da cui il pazzo o anche solo lo stravagante osserva il mondo.
Il doppio sguardo di Leon Battista Alberti Umanista tra i più significativi e versatili del Quattrocento, Leon Battista Alberti (1404-1472) rappresenta nelle sue opere sia la grandezza dell’uomo sia la sua miseria e follia, con un “doppio sguardo” che attraversa tutta la sua produzione letteraria (in volgare e in latino). Da una parte egli scrive il trattato De re aedificatoria (L’architettura) del 1452, in cui si costruisce la città a misura di ragione e nel segno di un armonico equilibrio modellato sui classici o il celebre dialogo Libri della famiglia (➜ SCENARI, PAG. 44); dall’altra, compone opere ludiche come le Intercenali (1440) e, soprattutto, Momus o De Principe (1450 circa), che rovesciano la compostezza
352 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
della produzione trattatistica del tempo e portano alla ribalta l’assurdità della vita e la follia dell’agire umano. Momus È un originale avvincente romanzo mitologico, un’opera ambigua ed enigmatica, di carattere satirico, scritta in latino prima del 1450 e ispirata ai Dialoghi dello scrittore greco Luciano di Samosata (120-fra 180 e 192). Costretto a lasciare la sede degli dei, perché ribelle al capo dei celesti, Momo vive per un certo periodo di tempo fra gli umani, come un vagabondo, predicando contro il culto degli dei e sobillando gli uomini; perciò è richiamato in cielo, dove, anche grazie alla sua capacità di adulazione e simulazione, Giove lo accoglie alla sua mensa. In quell’occasione pronuncia un paradossale elogio del vagabondo, suo “doppio”, per la marginalità in cui vive e la libertà di parola di cui gode, e si propone come “il matto del re”, capace di consigliare il padre degli dei nel suo progetto di ricreazione del mondo. Ma Giove non lo ascolta, e si affida invece ai filosofi e alle loro astruserie, il che scatena la rivolta di Momo, che fa fallire il progetto, ma paga con l’evirazione le sue responsabilità. Il dio proteiforme nuovamente viene estromesso dal consesso degli dei e abbandonato su uno scoglio. Qui, di fronte a due naviganti solitari, si lamenta della sua condizione, sempre in bilico tra verità e menzogna. Per questo Giove non ha tenuto conto dei suoi consigli e ha così provocato solo storture e caos. E il capo degli dei se ne rammarica, inutilmente. In tal senso, il personaggio di Momo, un dio ibrido, un po’ buffone e un po’ camaleonte, diventa l’emblema del cambiamento, della metamorfosi, della doppiezza. In quest’opera, Leon Battista Alberti osserva con occhio disincantato le contraddizioni e le trasformazioni incessanti della realtà, che l’uomo fatica a ridurre a un ordine stabile. Attraverso la sua indagine spregiudicata egli mette a nudo le debolezze umane e il funzionamento caotico del mondo, sottoposto allo strapotere della Fortuna: solo dopo aver esplorato il caos (e la follia) e aver preso coscienza dell’instabilità e contraddittorietà del reale – sembra dirci l’Alberti – si può forse costruire forme razionali di vita e di azione.
Leon Battista Alberti
T2
La libertà del vagabondo Momus o del principe, Libro secondo
L.B. Alberti, Momo o del principe, trad. di R.Colombo, Costa & Nolan, Genova 1992
Il brano che segue è tratto dal Momus e vi si delinea il carattere del protagonista, Momo (Momus in latino), un dio ibrido, un po’ buffone e un po’ camaleonte, che incarna il cambiamento e la doppiezza. Nella mitologia greca Momo, che è raffigurato con in mano una maschera e un bastone, rappresenta la critica, il sarcasmo burlesco (in greco mómos significa appunto “biasimo”).
Quanto al resto, Momo aveva deciso in partenza di lasciar perdere tutte le attività economiche e finanziarie, perché l’abbondanza e la pratica dell’accumulazione generano sazietà e noia, e poi, se si è spinti dall’avidità a desiderare più del necessario, possono anche portare a una forma di ansia gretta e meschina. Per concludere, 5 diceva di non aver trovato alcun genere di vita che valesse la pena di scegliere e desiderare in tutti i suoi aspetti, tranne quello di coloro che vanno in giro a chiedere l’elemosina, i cosiddetti vagabondi. La follia: esperienza umana e tema letterario 1 353
Si mise allora a dimostrare con molto spirito e ricchezza di argomenti che questo è davvero l’unico sistema di vita agevole, chiaramente vantaggioso, privo di disagi, 10 ricco di libertà e di piacere; e sosteneva tra l’altro: “Dicono i geometri che tutto quel che c’è da sapere nella loro professione lo conosce altrettanto bene un principiante che un esperto, una volta che l’ha imparato. Succede pressappoco la stessa cosa nell’arte del vagabondaggio: nello stesso breve spazio di tempo in cui la si apprende, eccola già bell’e nota e assimilata. C’è una sola differenza: chi vuol fare il geometra 15 ha bisogno di un altro geometra che gli insegni il mestiere, invece il vagabondaggio si apprende senza bisogno di alcun maestro. Ogni altra forma di professionalità richiede periodi d’istruzione, la fatica del tirocinio, esercizio continuo, una rigorosa programmazione, e poi sono necessari sussidi didattici e altri strumenti di lavoro di cui questa sola arte non ha affatto bisogno. Quest’arte sola si regge con suffi20 cienti garanzie sulla completa indifferenza per tutte quelle cose che si ritengono indispensabili nelle altre arti, e sulla loro mancanza. Non c’è bisogno di mezzi di trasporto, di una nave o di una bottega; non si deve aver paura dei mangiapane a tradimento, delle rapine, della congiuntura sfavorevole. Non c’è da investire nessun capitale tranne la povertà e la faccia tosta nel chiedere, e tutto il lavoro da fare per 25 perdere i propri beni e chiedere quelli degli altri consiste solo nel volerlo. Inoltre il vagabondo mangia alle spalle degli altri, occupa il suo tempo come gli pare e piace, chiede liberamente, non ha problemi a dire di no, prende da tutti, perché anche i poveretti offrono volentieri, e le persone agiate non si tirano indietro. Che dire poi della loro libertà, della loro maniera di vivere anarchica? Ridono, lan30 ciano accuse, fanno critiche, blaterano quanto gli pare senza mai doverne pagare le conseguenze. Il fondamento essenziale del loro potere sta proprio nel fatto che gli altri ritengono un disonore mettersi a disputare con un vagabondo e considerano una colpa alzare le mani su uno che non ha mezzi per difendersi. Poter fare quello che si vuole senza nessuno che stia a censurare le tue parole e le tue azioni: 35 ecco un sostegno e un valido mezzo di conservazione del potere! Non concederò neppure ai re il vantaggio di potersi servire delle ricchezze meglio dei vagabondi: sono dei vagabondi i teatri, dei vagabondi i portici, dei vagabondi qualunque luogo pubblico! Gli altri non avrebbero il coraggio di mettersi a sedere sulla piazza o di parlare con la voce un po’ alterata e, temendo le occhiatacce dei benpensanti, si 40 comportano in pubblico sempre secondo le buone norme, senza mai seguire le loro inclinazioni istintive. E tu invece, vagabondo, ti sdrai in mezzo alla piazza, alzi la voce liberamente, fai tutto quello che ti va assecondando i tuoi desideri. Nei tempi duri gli altri stanno a consumarsi in silenzio tutti mesti, tu canti e balli. Se al potere c’è un principe cattivo gli altri fuggono a peregrinare in esilio, tu frequenti le feste di 45 corte. Il nemico vincitore imperversa: tu solo del tuo popolo non hai paura a stargli di fronte. E quel che ciascuno ha messo insieme dopo grandi fatiche, rischiando anche la pelle, tu glielo chiedi come fossero primizie a te dovute. Un’altra particolarità molto conveniente è che nessuno ha invidia di chi vive in questo modo, e anche tu non hai invidia per nessuno, in quanto non vedi negli 50 altri niente che tu non possa facilmente ottenere, se vuoi. Inoltre la condizione del vagabondo si adatta così facilmente a qualsiasi altra professione che dovunque egli abbia messo mano ci fa una bellissima figura, il che non si verifica certo per le altre categorie d’uomini: infatti si accusa di superficialità chi cambia sempre mestiere, e ogni volta che lo fa ha un bello spreco di energie. Penso che non si debba dare
354 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
ascolto a chi va dicendo che la maniera di vivere dei vagabondi presenta un sacco d’inconvenienti. Posso affermare in base alla mia esperienza che in tutte le altre professioni mi sono imbattuto in un gran numero di difficoltà e di fastidi di cui avrei fatto a meno volentieri. Infatti a qualunque attività sono strettamente connessi molti aspetti pesanti e fastidiosi, che bisogna tuttavia sopportare se la si vuol esercitare; 60 invece solo nell’arte e nella disciplina (chiamiamola così!) del vagabondaggio non ho mai trovato nessuna cosa che non mi piacesse in tutto e per tutto. Tu vedi i vagabondi vestiti leggeri a cielo scoperto, coricati sulla dura terra, e li disprezzi, li guardi schifato come fa la maggioranza. Bada però che non siano i vagabondi a disprezzare te e tutti gli altri. Tu ti dai un sacco da fare per gli altri, il 65 vagabondo non muove un dito per te né per gli altri, quel che fa lo fa per sé. C’è proprio bisogno di dire quanto siano degne d’un uomo sciocco e insensato certe cose che la maggioranza ammira, come la toga, la porpora, l’oro, la mitra1 e roba del genere? Chi non si metterebbe a ridere a vederti camminare tutto impacciato dall’intrico dei vestiti che ti pesano addosso, per piacere agli occhi altrui? Questo il 70 vagabondo non lo fa, perciò ride. E tu, se sei una persona di buon senso, non cercherai di non essere infastidito dal peso dei vestiti, non ti rifiuterai di aver le membra oppresse e soffocate pur di seguire la moda, per sembrare più ricco ed elegante? Usiamo i vestiti per coprirci, non per metterci in mostra! Chi ha vestiti per ripararsi dalla pioggia e dal freddo è ben messo quanto basta all’utilità pratica e al naturale 75 decoro. Il vagabondo si corica per terra: embè? Quando si ha sonno, si dorme forse con gli occhi meno chiusi sul nudo pavimento che in mezzo alle coperte? La natura ha dato le piume ai cigni perché si coprissero, non per farne letti raffinati: se si avesse un sonno profondo quanto il materasso su cui ci si corica, non c’è dubbio che si dormirebbe moltissimo e bene. Con l’abitudine, il posto per riposare 80 che la natura ci concede diventa ogni giorno più soffice e più salutare, e se mancano le comodità il sonno farà da cuscino agli uomini stanchi. Se un vagabondo si mette a fare un discorso, anche se dice le stesse cose del primo oratore ingualdrappato2 che capita, chi avrà mai un pubblico più fitto? Chi ascolteranno con più attenzione? Quali perorazioni3 desteranno una commozione più grande? Chi susciterà approva85 zioni più calorose durante l’intero discorso? Grande è l’autorità di questa categoria d’uomini nei frangenti più gravi, nessun’altra ne ha di più. 55
1 mitra La mitra (dal latino mitra, derivante dal greco) è un paramento liturgico, un copricapo, usato dai vescovi di molte
confessioni cristiane durante le celebrazioni. 2 ingualdrappato: coperto da una gual-
drappa, ossia coperta di lusso, spesso riccamente ornata. 3 perorazioni: discorsi appassionati.
Analisi del testo Elogio del vagabondo In modo del tutto originale e spiazzante, in questo brano Leon Battista Alberti conduce, attraverso la figura di Momo, un vero e proprio elogio della vita del vagabondo: «Si mise allora a dimostrare con molto spirito e ricchezza di argomenti che questo è davvero l’unico sistema di vita agevole, chiaramente vantaggioso, privo di disagi, ricco di libertà e di piacere». L’autore realizza, in un’autentica dimostrazione scientifica, fondata su esempi documentati e su ragionamenti robusti e argomentati, il privilegio della condizione del vagabondo, rispetto a quella dei principi e dei potenti, e di ogni altra professione produttiva, poiché «sono dei vagabondi i teatri, dei vagabondi i portici, dei vagabondi qualunque luogo pubblico!», ma soprattutto poiché il vagabondo può condurre una vita libera, fuori delle regole, contro le
La follia: esperienza umana e tema letterario 1 355
convenzioni e le buone maniere: «Gli altri non avrebbero il coraggio di mettersi a sedere sulla piazza o di parlare con la voce un po’ alterata e, temendo le occhiatacce dei benpensanti, si comportano in pubblico sempre secondo le buone norme, senza mai seguire le loro inclinazioni istintive. E tu invece, vagabondo, ti sdrai in mezzo alla piazza, alzi la voce liberamente, fai tutto quello che ti va assecondando i tuoi desideri». In tal senso, si esalta il privilegio dello spirito libero, sganciato da ogni limitazione e maschera sociale, proprio come il folle, che si può permettere di dar spontanea espressione dei propri istinti.
Lo stile Ciò che colpisce, soprattutto, nello stile del Momo è la sofisticata trattazione di Alberti, fondata su una serie di esposizioni logiche e rigorose, proprio come una dimostrazione scientifica e sistematica, sostenendo i vantaggi dell’arte del vagabondaggio, facendo esempi con altre professioni, come quella del geometra o di chi deve aprire un’attività con «tirocini, apprendistato, programmazione». Ciò contribuisce a dare al testo non solo una disciplina razionale, ma anche un registro ironico e caustico, leggero e sottile, avvicinando il lettore all’esaltazione della vita emancipata del vagabondo, affrancata da ogni obbligo e servitù sociale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Rintraccia nel testo lo scopo e il metodo della narrazione, e sintetizza le informazioni raccolte in un testo espositivo di circa 10 righe. ANALISI 2. La dimostrazione dei privilegi dell’arte del vagabondaggio non si esprime in modo frettoloso e approssimativo, ma attraverso un’argomentazione molto rigorosa. Ricostruisci i vari passaggi con cui Alberti celebra la vita del vagabondo, specificandone i numerosi vantaggi. 3. Indica per quali motivazioni la condizione del vagabondo è migliore rispetto a quella di un geometra, di un principe o di qualsiasi altra professione. LESSICO 4. Spiega perché lo stile del brano può ritenersi ironico e in quali passaggi tale caratteristica si esprime in modo evidente.
Interpretare
SCRITTURA 5. Nel brano ricorre una parola chiave: «Libertà». In quale senso è utilizzata da Alberti, in relazione alla figura del vagabondo? Ritieni che questa concezione di libertà si possa collegare a un giovane del nostro tempo? Argomenta queste idee in un testo di almeno 20 righe.
Maarten van Heemskerck, Momus critica le opere degli dei, 1561 (Gemäldegalerie, Berlino).
356 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Erasmo da Rotterdam: la follia come saggezza Un umanista alla ricerca di una riforma costruttiva Filologo autorevole, scrittore raffinato (in latino), letterato e filosofo, l’umanista Erasmo da Rotterdam esercitò un grandissimo influsso culturale sulla sua epoca grazie alla sua forte personalità e ai suoi intensi rapporti con la comunità europea dei dotti. Nasce a Rotterdam nel 1467. Nel 1488 prende i voti e diventa monaco agostiniano. Viaggia in tutta Europa, con il sostegno di vari mecenati, ma non si lega a nessuno di essi. In Inghilterra conosce Tommaso Moro, autore dell’Utopia, di cui diventa amico. Dopo vari peregrinazioni e soggiorni, anche in Italia dove è ospitato dal grande tipografo-stampatore Manuzio, torna in Inghilterra e lì scrive il trattatello satirico Elogio della follia (pubblicato a Parigi nel 1511), a cui principalmente è legata la sua fama. Ma ottengono uno straordinario successo editoriale anche i Colloquia e gli Adagia, raccolte di aneddoti e detti celebri. Del 1516 è l’Institutio principis christiani (L’educazione del principe cristiano), dedicata a Carlo V, che idealmente può contrapporsi agli spregiudicati consigli esposti nel Principe di Machiavelli. Erasmo lavora quindi a Basilea all’esegesi dei testi sacri, a cui applica, secondo lo spirito umanistico, i nuovi metodi filologici, pubblicando un’edizione critica grecolatina del Nuovo Testamento. L’istanza etico-religiosa è centrale nel pensiero e nella figura di Erasmo: critico verso i vizi della Chiesa, sostenitore della necessità di una riforma, rimase sempre però all’interno dell’ortodossia cattolica. Egli pensa a un cristiano protagonista della propria fede, che deve essere vissuta senza ipocrisia ma anche senza intolleranti fanatismi: questa visione lo porta all’aperta polemica con gli aspetti più radicali del pensiero di Lutero (De libero arbitrio, 1524). Attaccato sia dai protestanti sia dai cattolici, muore nel 1536. I suoi libri sono inseriti nell’Indice dei libri proibiti. L’Elogio della follia: il titolo e la struttura Composta nel 1509, l’opera tradizionalmente è organizzata in 68 capitoli (secondo una suddivisione che non è dell’autore). Nella composizione dell’opera, Erasmo fu ispirato molto probabilmente dal De triumpho stultitiae di Faustino Perisauli, un poemetto in esametri latini pubblicato postumo a Rimini da Girolamo Soncino nel 1524, ma composto attorno al 1490 e che circolò manoscritto, per cui con ogni probabilità Erasmo lo lesse durante il suo soggiorno in Italia dal 1506 al 1509. L’opera di Erasmo presenta un doppio titolo, latino e greco, Morias Encomion, id est [cioè] Stultitiae Laus, che anticipa la prospettiva ironica e paradossale poi dominante nel testo. Vi si elogia infatti la follia, la stoltezza, a cui di solito si riserva il biasimo. Il titolo greco, con voluta ambiguità, allude anche, oltre che alla follia (in greco moría), all’illustre dedicatario, Tommaso Moro, amico di Erasmo e autore dell’Utopia. L’elogio è pronunciato dalla Follia stessa, personificata, in un lungo monologo. Proprio la scelta di affidare alla Follia l’intero discorso, senza alcun intervento esterno, e alcun contraddittorio, ne costruisce la costituzionale ambiguità: è giusto – si chiede il lettore – prestare fede a quanto si legge o, in quanto enunciato dalla follia stessa, va rovesciato nel suo contrario o rifiutato come assurdo? Di fatto l’adozione di questa singolare prospettiva consente a Erasmo di formulare, senza attribuirsene piena responsabilità, scottanti giudizi La follia: esperienza umana e tema letterario 1 357
sulla società del suo tempo (dalla corruzione del clero alle astrattezze dei dibattiti filosofico-teologici). • Prima parte La Pazzia, con volto di donna e abbigliamento da folle-buffone, loda se stessa davanti al pubblico. Rovesciando la comune prospettiva di giudizio, si presenta come il “sale della vita” e l’energia creativa che muove il mondo e la vita degli uomini, garantendo la felicità. I pazzi e gli stolti sono liberi da paure e condizionamenti, che invece gravano sui saggi, e sui filosofi, generalmente privi di passione e totalmente inutili sul piano pratico. La follia invece giova agli uomini perché li aiuta a dimenticare i loro mali e a tenere lontani i loro tormenti. Fra gli esseri viventi, oltre agli animali, che si affidano all’istinto, i più felici sono proprio i folli, mentre i più infelici sono i dotti che si macerano inutilmente negli studi. • Seconda parte Dal capitolo XXIX inizia una parte più propriamente filosofica e moraleggiante. Essendo la vita gioco di apparenze e scambio continuo di verità e finzione, vera e propria “commedia”, soltanto il pazzo riesce a cogliere la verità e a raggiungere la conoscenza, perché è un essere mobile, stravagante, inventivo: «si adatta ai tempi e alle circostanze», smaschera le finzioni, guidato dall’istinto e dalle passioni. Nella sua condizione di insensato, intuisce la doppiezza della vita e raggiunge quella vera saggezza di cui non sono capaci i filosofi, soprattutto stoici, e gli altri dotti, che perseguono una conoscenza astratta, lontana dal mondo e dagli uomini. Per questo la Follia si accompagna a parassiti, buffoni, nani, profeti, poeti, che condividono con essa la stessa aspirazione alla verità e gli stessi mezzi per raggiungerla. E si tiene invece a debita distanza dalla schiera degli stolti, tra cui figurano sofisti, astrologi, filosofi, retori e teologi. • Epilogo Nell’ultima parte del testo, densa di citazioni dal Vangelo, da san Paolo e dai Padri della Chiesa, la Follia sembra cambiare volto e assume i panni della “santa follia”, cioè della fedeltà assoluta al messaggio di Cristo, che ha redento il mondo con un atto di follia e non affidandosi alla sapienza. Secondo alcuni interpreti il senso del testo di Erasmo va ricercato proprio nel messaggio di questa parte finale.
La follia nella letteratura dei secoli XVI e XVII follia come saggezza Erasmo Elogio della follia mezzo per capire più a fondo la realtà
Cervantes Don Chisciotte
follia come saggezza
mezzo per evadere dalla realtà
follia come ossessione Shakespeare Amleto mezzo per rivelare le oscurità dell’animo
358 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Erasmo da Rotterdam
T3
Il rovesciamento del rapporto follia-saggezza Elogio della follia XXIX
Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia, a c. di T. Fiore, Einaudi, Torino 1998
Il passo è tratto da un capitolo fondamentale dell’Elogio in cui vengono messe a confronto saggezza e follia per definirne funzione ed essenza: pur in modo ambiguo e paradossale, il confronto si risolve a vantaggio della seconda, che rivendica per sé le prerogative della vera saggezza. Nella seconda parte è prospettata una visione della vita come commedia, visione sorprendentemente moderna, che sembra quasi anticipare certe intuizioni e immagini pirandelliane.
[…] E per cominciare, cos’è la prudenza1 se non la pratica della vita? E a chi può meglio competere l’onore di tale attribuzione, al saggio, che, un po’ per vergogna, un po’ per timidità, non osa prendere alcuna iniziativa, ovvero al pazzerellone, che nulla può distogliere dall’agire? Non sarà certo il pudore, a frenar costui; non ne ha; 5 e nemmeno il pericolo, ch’egli non sa commisurare. Il saggio non sa far altro che rifugiarsi fra i classici, per apprenderne soltanto sottigliezze verbali; l’altro invece, buttandosi alla brava2 fra i rischi, raccoglie, o m’inganno? frutti di prudenza. […] Esistono infatti due ostacoli che, più degli altri, si oppongono all’acquisto della conoscenza del mondo, e sono la vergogna, che offusca l’intelligenza, e la timi10 dezza, che esagera i pericoli, distogliendo così dall’azione. Ora, c’è uno splendido modo di liberarsi dall’una e dall’altra, possedere un granello di follia. Pochi son gli uomini che riescono a capire che non star sempre a vergognarsi ed esser pronti a tutto osare producono infiniti altri vantaggi. Ma se c’è chi crede preferibile a tutto quella specie di prudenza che si acquista col retto giudizio delle cose, state a sentire, 15 di grazia, quanto ne sian lontani coloro che vanno raccomandando se stessi sotto questo aspetto. Anzitutto, è noto che, come i Sileni di Alcibiade3, tutte le cose umane hanno due facce, completamente diverse l’una dall’altra, talché ciò che a prima vista è morte, a ben riguardare più addentro, si presenta come vita, e all’opposto la vita si rivela 20 morte, il bello brutto, l’opulenza non è che miseria, la mala fama diventa gloria, la cultura si scopre ignoranza, la robustezza debolezza, la nobiltà ignobiltà, la gioia tristezza, le buone condizioni celano la sventura, l’amicizia l’inimicizia, un rimedio salutare vi reca danno; in una parola, se apri la scatola4 vi troverai di colpo tutto l’opposto dell’esterno. […] 25 Se uno, mentre gli attori rappresentano un dramma, cercasse di toglier loro la maschera, per mostrarli agli spettatori con le loro facce vere e naturali, non guasterebbe tutta la rappresentazione? Non meriterebbe di essere cacciato dal teatro a scopate, 1 prudenza: senno, saggezza (lat. prudentia). 2 alla brava: con temerità, in modo spavaldo. 3 come i Sileni di Alcibiade: si tratta di antiche statuette in genere in legno, dal doppio aspetto: all’esterno raffiguravano il satiro Sileno (una divinità boschiva, con
figura d’uomo e orecchie, coda e zampe da cavallo, ritratto mentre suonava il flauto), all’interno nascondevano l’immagine di una divinità. Il riferimento è al Simposio di Platone, dove Alcibiade accosta Socrate a un Sileno. Nonostante il suo aspetto ridicolo e la sua malagrazia fisica, il filosofo ateniese era un «essere più umano che
divino», un grande animo (a dimostrazione che le apparenze ingannano e sono in contrasto con la verità). 4 se apri la scatola: si riferisce alla statuetta che poteva aprirsi come un contenitore (vedi la nota precedente).
La follia: esperienza umana e tema letterario 1 359
come un forsennato? Certo, per opera sua tutte le cose piglierebbero un nuovo aspetto, e chi prima era donna, ora sarebbe uomo, chi poco fa giovine, subito do30 po, vecchio, chi era re poco prima, si rivelerebbe d’improvviso un mascalzone, chi era prima dio, apparirebbe d’improvviso un pover’uomo. Ma... è lecito distruggere quest’inganno? Non si scompiglierebbe tutto il dramma? Poiché è proprio questa illusione, questo trucco a tener incatenati gli spettatori… E la vita umana che altro è se non una commedia? In questa gli attori escono in pubblico, celandosi chi sotto 35 una maschera, chi sotto un’altra, e ognuno fa la sua parte, sino a che il direttore li fa uscir di scena. Spesso però, allo stesso uomo dà ordine di ripresentarsi sotto altro travestimento, di modo che chi prima aveva fatto il re con tanto di porpora, ora fa lo schiavettino cencioso. Tutta la vita non ha alcuna consistenza5; ma, tant’è, questa commedia non si può rappresentare altrimenti. [...] 40 Fa molto male chi non si adatta ai tempi e alle circostanze, chi non piglia il panno pel suo verso6, chi, dimentico delle regole dei Greci a tavola – o bevi o va’ via –, pretendesse che la commedia non sia più commedia. Invece è da uomo veramente prudente, una volta che siamo mortali, non aspirare ad una saggezza superiore alla propria sorte. Bisogna rassegnarsi o a chiudere un occhio qualche volta, insieme con 45 tutta l’immensa folla degli uomini, ovvero a commettere sfarfalloni7, umanamente. Ma questo, diranno, sarebbe un agire da dissennati. Non lo negherei, purché d’altra parte non si conceda, che tale8 è la vita, la commedia della vita, che recitiamo. 5 Tutta la vita... consistenza: la vita degli uomini non ha alcuna solidità, ma è finzione, theatrum mundi, rappresentazione teatrale, come aveva già notato Platone nelle Leggi.
6 chi non… verso: in altre parole, chi non segue la corrente, non asseconda la tendenza dominante. 7 sfarfalloni: errori, spropositi, stupidaggini.
8 Non lo negherei... tale: costruzione alla latina con i verbi di negazione (“Non lo negherei, purché... si conceda che tale...”).
Analisi del testo La follia induce a sperimentare La saggezza, qui denominata con il latinismo prudenza, nella prima parte del testo è identificata nella molteplicità e ricchezza delle esperienze, che si realizzano quando ci si getta senza timori nell’azione. Ed è più facile che lo faccia il folle che non il sapiente, o sedicente tale (tutta l’opera è attraversata dalla critica alla conoscenza astratta e libresca dei dotti): il folle infatti non possiede il senso del limite, del pericolo e neppure è ostacolato da remore o da forme di pudore (quelli che per la moderna psicologia sono i “freni inibitori”).
Solo la follia sa smascherare la commedia della vita Nella seconda parte, ancor più incisiva della prima, Erasmo evidenzia, attraverso il discorso ambiguo e paradossale della Follia, come i cosiddetti saggi non siano in grado di cogliere (cosa che invece il folle sa fare) la natura della realtà; realtà che può essere molto diversa dall’apparenza che spesso gli uomini (la gente comune, ma anche i “sapienti”) accettano come “verità”. Erasmo usa con grande efficacia l’immagine metaforica della recita delle parti, della mascherata, cui si riduce la vita umana («E la vita umana che altro è se non una commedia?»). Una recita che gli spettatori (gli uomini tutti, che costituiscono il consesso civile) non vogliono sia interrotta da chi (come il folle, che è sempre sovvertitore di ogni schematismo) spezzi l’inganno, rivelando la finzione illusoria che regola i rapporti umani e la vita stessa. Senza dubbio memore di questa straordinaria riflessione di Erasmo è il celebre passo di Pirandello sullo “strappo nel cielo di carta” nel capitolo XII del Fu Mattia Pascal (➜ V3A).
360 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in massimo 10 righe il contenuto del testo. COMPRENSIONE 2. In cosa consiste il paragone sviluppato nel testo fra saggezza e follia? 3. Perché la follia è superiore alla presunta sapienza nell’acquisire esperienza di vita? Che cosa ostacola i sapienti nell’ottenerla? ANALISI 4. Spiega, in relazione al contesto, il significato della metafora dei Sileni di Alcibiade. 5. In cosa consiste la modernità, prospettata dall’autore, della visione della vita come commedia?
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Secondo Erasmo, il folle è superiore al sapiente anche nella comprensione della realtà: in rapporto a quale visione della vita l’autore formula questo giudizio? Sei d’accordo con il punto di vista dell’autore? Credi che sia attuale? Sviluppa un’argomentazione su questo tema di almeno venti righe.
online T4 Erasmo da Rotterdam
VERSO IL NOVECENTO
Il privilegio dei “folli del re” Elogio della follia, XXXVI
Da Erasmo a Pirandello: il folle “ragionatore” Il tema della follia, dalle sue lontane origini greche, omeriche e tragiche, attraversa tutta la cultura occidentale europea, dal Medioevo al Rinascimento, fino al Seicento con Miguel del Cervantes e col teatro di William Shakespeare (nei personaggi di Amleto, Re Lear, Otello), e approda, nel Novecento, all’opera di Luigi Pirandello, al vastissimo corpus delle novelle, ai romanzi (si pensi in particolare a Uno, nessuno e centomila), ma soprattutto al teatro (e in questo genere il testo più significativo è certamente Enrico IV). La follia assume in Pirandello un valore simbolico decisivo: è lo scarto che permette al personaggio di uscire dalla trappola della finzione, di estraniarsi dagli alienanti meccanismi delle apparenze e delle convenzioni sociali, quindi rappresenta un gesto di ribellione alla maschera, ai ruoli mortificanti che la vita impone e può così concretizzarsi in un gesto inconsulto. Novelle emblematiche, in tal senso, sono Il treno ha fischiato o Fuga (➜ V3A), dove i rispettivi protagonisti (il ragionier Belluca in un caso, e il signor Bareggi nell’altro), impiegati piccolo borghesi, esasperati dalle logiche del lavoro e dagli snervanti rapporti familiari, compiono un gesto inconsulto, fuggono, rompono le consuetudini, e sono dichiarati pazzi del consorzio civile. In tal senso – e in questo il grande scrittore siciliano si ricollega a Erasmo da Rotterdam, autore certo a lui ben noto – la follia è concepita come forma superiore di saggezza e di conoscenza. Se la vita, proprio come appare dal passo di Erasmo appena letto, è doppiezza, metamorfosi, ma soprattutto “commedia” in cui l’uomo è costretto a indossare una o più
“maschere”, solo chi “ha capito il gioco” può smascherare il gioco delle parti in cui consiste l’esistenza. Si tratta spesso di devianti, emarginati, folli o presunti tali, come Enrico IV, protagonista dell’omonimo dramma che inizialmente impazzisce dopo una caduta da cavallo e poi, rinsavito, continua la finzione della pazzia, obbligando tutti coloro che lo circondano a perseverare in una grottesca farsa. Enrico IV, nella sua condizione di outsider, di estraneo alla società, fa paura per le terribili verità che enuncia, quasi come i “folli del re”: «Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! – Voi dite: “questo non può essere!” – e per loro può essere tutto» (Enrico IV, atto II). Oltre che “chiaroveggenza”, lucida capacità di vedere la commedia della vita per quello che è, la follia (e anche questo è un tratto comune all’Elogio di Erasmo: vedi ultima parte del testo) in Pirandello diventa anche follia “evangelica”, vicinanza istintiva e trasgressiva (follia appunto) ai valori cristiani, ben lontana dalla predicazione ufficiale della Chiesa. È il caso di novelle come Padron Dio, Quand’ero matto, ma soprattutto Fuoco alla paglia, in cui il vagabondo Nazzaro, così come il Nazzareno, aggrega alla sua follia, facendone un vero e proprio discepolo, Simone Lampo che tutto ha perduto.
La follia: esperienza umana e tema letterario 1 361
4 La ripresa del tema della follia nell’età barocca Don Chisciotte: la follia come sogno e illusione Don Chisciotte, protagonista dell’omonimo romanzo del grande scrittore spagnolo Miguel de Cervantes (15471616), è uno dei personaggi chiave dell’immaginario europeo (➜ V2A C4) e la sua vicenda, incentrata sul tema della follia, riveste un valore simbolico che va ben oltre il tempo in cui il romanzo fu composto (1605-1615). Egli è però anche “figlio” del suo tempo, in cui la Spagna, dopo i fasti di Carlo V, era avviata a un inarrestabile declino: nobile decaduto, don Chisciotte deve misurarsi con una realtà sociale, economica e culturale mediocre, senza slanci e senza ideali. Per nobilitarla, si proietta – con l’immaginazione – nei romanzi di cavalleria e nei loro protagonisti, che elegge a modelli ideali di vita attraverso un’ossessiva lettura quotidiana. Di romanzo in romanzo, don Chisciotte s’immedesima a tal punto nelle vicende narrate e nei suoi eroi di carta da perdere il senno. Cerca allora di vivere come un cavaliere errante, sognando «inchieste e avventure», che lo allontanino dalla realtà. La sua follia è dunque illusione che esista una dimensione alternativa dove possano ancora essere apprezzati valori e ideali del mondo cortese. Fedele al codice cavalleresco, don Chisciotte affronta imprese di ogni tipo e nemici che in realtà sono frutto della sua immaginazione malata. Quando, nella seconda parte del romanzo, il folle cavaliere errante ritorna alla normalità (➜ T5 OL), dove non c’è posto per i sogni e le utopie, il personaggio vive una metamorfosi: Don Chisciotte riacquista la ragione, rinnega «le squallide letture» dei libri di cavalleria, i maghi, le Dulcinee e cavalieri erranti, ma si consegna così alla malattia e alla morte. Nel romanzo di Cervantes è la follia, con la sua capacità di suscitare fantasie e passioni, a dare significato all’esistenza, mentre la saggezza e la razionalità corrodono i sogni e le illusioni dell’uomo. La follia come ossessione nei personaggi di Shakespeare Anche nell’opera di Shakespeare, in particolare nelle tragedie, il tema della follia riveste un ruolo fondamentale, in chiave a volte simbolica, come nel Macbeth, dove la sete di potere e quindi la follia di dominio assume il volto di oscura ossessione; mentre in Amleto, il principe di Danimarca che assume lucidamente la maschera del pazzo, costringe implacabilmente chi gli sta intorno a rivelare rimorsi e vergogne. online T5 Miguel De Cervantes
Il testamento di Don Chisciotte Don Chisciotte, LXXIV
Fissare i concetti L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie 1. Come erano trattati i pazzi nel Medioevo? 2. In cosa consiste il “folle del re” nel Rinascimento? 3. Qual è la differenza fra la follia di Ivano e di Orlando, nelle opere di Chrétien de Troyes e Ludovico Ariosto? 4. Perché nell’Umanesimo la follia è vista come l’in-degnità dell’uomo? 5. Per quale motivo, secondo Erasmo da Rotterdam la follia è una forma di “vera saggezza”? 6. In che senso nel Momus dell’Alberti troviamo un impiego della ironia e del paradosso? 7. Perché Alberti elogia il vagabondo?
362 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da U. Galimberti, La pazzia secondo Foucault, «la Repubblica», 1° luglio 2006
Che rapporto c’è tra la psichiatria e la follia? A sentire Foucault un rapporto perverso, essendo la psichiatria una scienza nata non per curare la follia, ma per mettere la società al riparo dalla follia, segregandola un tempo nei manicomi e oggi nel chiuso dei corpi sedati dalle pillole. [...] La storia della psichiatria, scrive Foucault, è storia degli psichiatri, non storia della follia. E poi la follia è davvero una malattia o non piuttosto una delle tante forme della condizione umana? Probabilmente la follia esiste ed è presente in noi come la ragione, e una società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece la nostra società incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la “follia” in “malattia” allo scopo di trasformare l’irrazionale in razionale. [...] L’ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria trascurasse, senza curarsene, la “soggettività” dei folli, i quali furono tutti “oggettivati” di fronte a quell’unica soggettività salvaguardata che è quella del medico e del suo sapere. Quello che per un greco antico era un “invasato dal dio”, per un medioevale un “posseduto dal demonio”, per la scienza psichiatrica è un “malato”. [...] Oggi a essere minacciata è la società come istituzione totale, dove troppi individui, nel tentativo di gestire al meglio i propri umori, preferiscono, alla relazione sociale, il ricorso quotidiano alle pillole, fino a trasformarsi in robot chimici sempre all’altezza delle loro prestazioni nel cupo silenzio delle loro anime. [...] Nel corso dei secoli e nelle diverse società, la follia è stata variamente interpretata, facendo riferimento di volta in volta a parametri simbolici, morali, religiosi, o intellettuali, e comunque trattandola come una deviazione rispetto alla “normalità” accettabile e rassicurante. Anche ai nostri giorni, quando il problema sembra essere affrontato con gli strumenti della scienza e nel rispetto della dignità e dei diritti della persona, il rapporto tra il “folle” e la società, la capacità di quest’ultima di inserirlo nel proprio tessuto, il trattamento della “deviazione” continuano a presentare molti problemi e molti interrogativi. Prendendo spunto dalle considerazioni dell’autore – noto filosofo, sociologo e psicoanalista – sviluppa sul tema una tua riflessione critica. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
La follia: esperienza umana e tema letterario 1 363
Quattrocento e Cinquecento L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Sintesi con audiolettura
1 La follia: esperienza umana e tema letterario
Folli e follia dal Medioevo al Rinascimento Nell’ottica del Medioevo la perdita della ragione era considerata frutto di colpe morali, opera del demonio, la cui presenza, nel folle, sembrava testimoniata dall’incoerenza delle parole e dei gesti. I folli erano isolati dal consesso civile, emarginati e talvolta abbandonati dopo lunghi viaggi per mare. Solo durante particolari occasioni di festa essi erano esaltati dalla comunità come i “re della festa”, un sovvertimento istituzionalizzato di ruoli testimoniato anche dalla figura, presente nelle corti europee del Cinque-Seicento, del “folle del re”, un buffone che aveva pieno potere di parola e critica sull’operato del sovrano. La follia come tema letterario In ambito letterario emerge già nel romanzo cavalleresco medievale il tema della follia per amore, che dà vita a un copione narrativo ripreso secoli dopo da Ariosto nell’Orlando furioso, in cui l’eroe perde il suo equilibrio razionale e regredisce a una condizione di ferinità. I diversi significati della follia nella cultura umanistico-rinascimentale All’interno del modello comportamentale umanistico, componenti essenziali della dignità dell’uomo sono la saggezza e la razionalità, mentre la follia rappresenta, proprio perché in essa si manifesta il trionfo dell’irrazionale e del caos, l’in-degnità dell’uomo. D’altra parte, la stessa visione dell’Umanesimo mette in luce anche il volto complesso e contraddittorio della realtà e tende a individuare nella follia la capacità di un’interpretazione della realtà più profonda e autentica, un punto di vista “diverso” in grado di demistificare finzioni e ipocrisie. A tale prospettiva sono funzionali anche l’ironia e il paradosso, impiegati nel Momus di Leon Battista Alberti. Nel paradossale Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam saggezza e follia si scambiano i ruoli.
Zona Competenze Ricerca
1 Svolgi una ricerca sul tema della follia nella letteratura e nell’arte e raccogli la documentazione utile per organizzare a scuola una conferenza su questo tema. Descrivi dettagliatamente: le tematiche da affrontare, la scaletta degli interventi, i passi antologici da leggere, il materiale iconografico da proporre. Ricorda di soddisfare i seguenti requisiti: affrontare il tema da più punti di vista e privilegiare un approccio multidisciplinare.
Scrittura argomentativa
2. Il mare e la nave sono, in genere, associati al viaggio e al naufragio. Spiega perché, nel caso dei pazzi, l’uno e l’altra hanno sollecitato la fantasia di un pittore come Bosch.
364 Quattrocento e Cinquecento 6 L’universo della follia. Realtà sociale e interpretazioni letterarie
Quattrocento e cinquecento CAPITOLO
7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
Mentre nel Medioevo il teatro costituisce un’esperienza che coinvolge l’intera collettività e si incentra esclusivamente su temi religiosi, il teatro umanistico-rinascimentale ha carattere laico e si sviluppa all’interno delle corti per un pubblico ristretto e raffinato. Il teatro rinascimentale è una delle manifestazioni più significative del classicismo: si ispira infatti al teatro antico, da cui deriva aspetti strutturali, ma anche temi, situazioni, personaggi. Il genere teatrale di maggiore successo è la commedia, ispirata per lo più alla commedia latina, a cominciare dalla Cassaria di Ludovico Ariosto (1508) che inaugura il genere, alla Calandria del Bibbiena e alla Mandragola di Machiavelli, la più riuscita e celebre commedia rinascimentale. Si discosta nettamente dall’esempio dei classici il teatro di Ruzante, per la scelta di una rappresentazione realistica del mondo contadino, enfatizzata dal dialetto pavano, cioè il padovano popolare.
teatrali 1 Ledelforme Medioevo teatro umanistico2 ilrinascimentale 365 365
1
Le forme teatrali del Medioevo 1 Il teatro medievale: dai drammi liturgici alle “sacre rappresentazioni”
online
Per approfondire La specificità della comunicazione teatrale
online
Per approfondire Tragedia e commedia nel mondo classico
La decadenza del teatro classico nell’Alto Medioevo Durante l’Alto Medioevo lo spettacolo teatrale del tipo greco e romano sparisce completamente, sia per la distruzione fisica dei luoghi in cui si svolgevano le rappresentazioni teatrali sia, più in generale, per la grave decadenza della vita cittadina. Per secoli non verranno più costruiti teatri, ma la tradizione teatrale non andrà del tutto dimenticata: all’interno delle abbazie, negli scriptoria monastici, insieme agli altri testi della tradizione classica, i monaci continuano a ricopiare anche i testi teatrali antichi, consentendo così la futura ripresa del teatro laico che si svolgerà con l’Umanesimo e il Rinascimento. Un teatro religioso “collettivo” Come avviene per la maggior parte delle testimonianze culturali, anche il teatro – per tutto il Medioevo e parte del Quattrocento – ha a che fare quasi esclusivamente con la dimensione religiosa, per quanto riguarda sia i temi sia i generi (drammi liturgici, lauda drammatica, sacre rappresentazioni) sia gli ambienti (inizialmente la chiesa e gli spazi immediatamente circostanti) sia, infine, le occasioni delle rappresentazioni stesse: esse sono collegate ai principali eventi liturgici o alle feste dei santi patroni delle città. Il teatro medievale è sempre un evento “collettivo”, che coinvolge l’intera comunità dei fedeli. L’affermarsi, nel corso del Rinascimento, di un teatro di ispirazione laica modellato sui classici comporterà la decadenza degli spettacoli teatrali a contenuto religioso. Il dramma liturgico È agli inizi del X secolo che comincia a svilupparsi una forma embrionale di teatro ed è un teatro a soggetto religioso, che si collega strettamente alla liturgia stessa della messa (si parla infatti di “dramma liturgico”). I drammi liturgici, che conoscono una vasta diffusione in tutta Europa, vengono rappresentati nella chiesa stessa e la loro funzione è quella di supportare il rito della messa attraverso la spettacolarizzazione di temi religiosi tratti dal Vangelo (ad esempio la crocefissione o la resurrezione), così da coinvolgere maggiormente i fedeli. L’uso della lingua latina non consentiva infatti al pubblico dei credenti se non una presenza totalmente passiva. La lauda drammatica A un certo punto il teatro religioso non viene più solo ospitato entro la chiesa ma si riversa anche nelle piazze, a cominciare da quella antistante la chiesa e nelle vie cittadine. A questa “uscita”, di forte rilevanza simbolica, corrisponde, da un lato, l’impiego del volgare rispetto al latino e, dall’altro, la gestione del dramma religioso da parte non più degli ecclesiastici ma delle confraternite laiche di fedeli che si facevano portavoce di una religiosità più autentica e partecipata. Destinata alla recitazione di una confraternita (o forse dedicata dall’autore ai suoi confratelli), è la celebre lauda Donna de Paradiso di Jacopone da Todi (➜V1A C2 T7 ), probabilmente il primo esempio di lauda drammatica. La lauda drammatica rappresenta un particolare sviluppo della lauda in volgare affermatasi verso il 1260 con il movimento dei flagellanti o disciplinati: è caratterizzata dalla presenza di più voci che si alternano (come nel caso appunto di Donna de Paradiso), in una embrionale struttura teatrale.
366 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
La Deposizione di Cristo di Pietro Lorenzetti (132629), affresco dalla Basilica inferiore di Assisi. Il tema della Passione è reso con la tragicità propria dei drammi liturgici medievali: Maria, Mater Dolorosa, accarezza i capelli di Gesù, mentre la Maddalena, inginocchiata a terra, bacia i piedi insanguinati.
Le sacre rappresentazioni Diverse dal dramma liturgico e dalla lauda drammatica sono le sacre rappresentazioni, un tipo di spettacolo diffuso soprattutto nella Firenze quattrocentesca di cui ci sono pervenuti molti documenti scritti. Le sacre rappresentazioni non hanno più origine dall’ascetica cultura penitenziale delle laude drammatiche ma sorgono in un ambiente borghese e umanistico: si svolgevano in occasione della festa per un santo, in particolare per san Giovanni, patrono di Firenze. Il soggetto era sempre sacro (si fondava sui testi biblici o sulle più diffuse vite dei santi); ma, a differenza dei drammi liturgici, le rappresentazioni non erano più parte integrante di un rito religioso bensì una specie di spettacolo autonomo, allestito dalle numerose confraternite che fiorirono a Firenze. Tra una scena e l’altra venivano inoltre inseriti intermezzi musicali e persino inserti comici riguardanti personaggi e situazioni della cronaca fiorentina; il che dimostra un progressivo allontanamento di questo tipo di spettacoli da un carattere esclusivamente religioso-devozionale.
PER APPROFONDIRE
Le forme embrionali di teatro profano A questa produzione di carattere religioso fanno da contrappunto forme di teatralità diverse, su soggetti per lo più profani, legate al mondo eterogeneo e alle recitazioni estemporanee dei giullari, che avevano un antecedente negli spettacoli dei mimi latini.
Effetti speciali Nelle sacre rappresentazioni veniva accentuato il carattere spettacolare: già a partire dal Trecento erano venute perfezionandosi macchine teatrali capaci di creare quelli che oggi chiameremmo dei veri e propri “effetti speciali”, con lo scopo di tradurre il mistero religioso in sensazioni visive e uditive forti, che non potevano non suggestionare il pubblico dei fedeli. In molti spettacoli del Quattrocento si potevano vedere «angeli che volano, paradisi che si aprono e si chiudono, roteano e si
accendono di mille fiaccole, la Vergine realmente “assunta” in cielo, trucchi e fiamme dell’inferno, corpi che sembrano sudare sangue, fantocci sottoposti a veristiche torture e mutilazioni» (Carandini). La compenetrazione tra attori e pubblico, attori e spettatori è tipica del primo teatro religioso in volgare, nel quale non solo mancava uno spazio teatrale istituzionalmente deputato a ospitare gli spettacoli, ma persino un fondale che isolasse la messinscena e sottolineasse la finzione teatrale.
Le forme teatrali del Medioevo
1 367
2
Il teatro umanistico-rinascimentale 1 Il teatro di corte Il teatro umanistico-rinascimentale come “rito di corte” La nascita del teatro moderno si colloca nel Rinascimento e si collega strettamente alla vita della corte signorile: appartengono infatti all’universo cortigiano sia gli attori, sia chi mette in scena lo spettacolo, sia il pubblico; la rappresentazione stessa è allestita nella corte, in uno spazio adattato per l’occasione prima nei cortili e poi all’interno dei palazzi signorili (fino alla fine del Cinquecento non esistono, infatti, teatri fissi). Gli spettacoli sono organizzati in occasione di feste, come nel Medioevo. Le feste però riguardano non più solo occasioni quali il carnevale o momenti dell’anno liturgico, come avveniva per le sacre rappresentazioni, ma soprattutto eventi importanti nella vita della famiglia principesca: ad esempio fidanzamenti o nozze.
online
Per approfondire I luoghi del teatro
Ballo a corte (miniatura lombarda, XV secolo).
La riscoperta del testo scritto Tappa fondamentale nell’evoluzione delle forme teatrali verso la moderna nozione di teatro è la rinnovata dignità attribuita al testo scritto, che rappresenta una delle conquiste fondamentali dell’Umanesimo. Mentre nelle rappresentazioni medievali il testo letterario occupava un ruolo marginale rispetto alle componenti visive dello spettacolo (non a caso molti testi di teatro religioso ci sono pervenuti anonimi), con l’Umanesimo si riscoprono i grandi testi teatrali dell’antichità (in particolare la commedia di Plauto e Terenzio) riportati alla loro veste originaria dalla filologia umanistica. Le tre fasi della rinascita del teatro laico In un primo tempo i testi classici circolano solo fra addetti ai lavori (gli umanisti e i loro discepoli) e sono recitati in latino. Presto però il signore stesso commissiona la traduzione in volgare dei testi di Plauto e di Terenzio, di cui si inserisce la rappresentazione all’interno delle feste di corte. In questo contesto, un ruolo di significativa rilevanza riveste la storia del teatro nella corti padane, e in particolare a Ferrara. Più precisamente, la prima rappresentazione in città di un volgarizzamento plautino, avvenuta il 25 gennaio 1486, è considerata un evento di grande importanza nella storia del teatro italiano, perché si tratta della prima rappresentazione teatrale a corte che diventa occasione di spettacolo e richiamo pubblico in un luogo appositamente attrezzato: quindi la base del teatro moderno. Nella fattispecie, il luogo teatrale è il cortile del palazzo ducale, in uno dei cui lati viene innalzato un palcoscenico di assi, mentre di contro, sempre in legno, vengono costruite gradinate per il pubblico. Il passaggio successivo, di lì a pochi anni, sarà quello dalla rappresentazione teatrale in cortile alla rappresentazione all’interno del palazzo, in sale appositamente attrezzate e riparate dalle intemperie: il che, evidentemente, costituisce la base dei primi teatri. Negli stessi anni, inoltre, a Ferrara gli eventi teatrali si svolgono con continuità, secondo una vera e propria stagione (tranne che nei periodi di lutto); la grande passione di Ercole
368 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
d’Este per il teatro e la sua cura per gli allestimenti scenici, sempre più lussuosi e sofisticati, hanno peraltro un forte implicazione politica, poiché diventano pretesto e manifestazione di prestigio e suscitano l’emulazione degli altri signori. Si pensi che Ercole conservava una sorta di monopolio sui volgarizzamenti di Plauto e di Terenzio, prima facendone tradurre i testi a Battista Guarino, negli anni ’70 del Quattrocento, poi da altri letterati. La sua scelta dei Menecmi come spettacolo inaugurale dimostra senza dubbio un notevole intuito: non a caso, l’opera sarà di gran lunga la più rappresentata fino alla prima metà del Cinquecento, proprio perché il testo è l’emblema della cosiddetta “commedia degli errori” o del “sosia”, di forte impatto e capacità di intrattenimento per il pubblico. In questa fase, un ruolo pionieristico è esercitato da Ludovico Ariosto, che mette in scena per il carnevale del 1508 la Cassaria, con la quale inizia ufficialmente la fortunata storia della commedia italiana: modellata sulla Casina di Plauto, non è più infatti un semplice volgarizzamento dei testi classici, ma una nuova commedia in volgare. Illustrazione da un codice rinascimentale del 1460-70 contenente le Commedie di Plauto. Madrid, Biblioteca Nacional.
Un teatro all’insegna del classicismo Il teatro italiano, come altri generi della cultura rinascimentale, si forma all’insegna del classicismo. I due principali generi teatrali del Rinascimento – la tragedia e la commedia – derivano dall’antichità classica e sono nettamente distinti sulla base delle teorie contenute nella Poetica di Aristotele, un testo chiave nel dibattito letterario del tempo: la tragedia rappresenta personaggi più elevati rispetto alla comune umanità (come gli eroi della mitologia classica) che vivono conflitti morali e spirituali, usando uno stile sostenuto; la commedia, al contrario, presenta personaggi che appartengono al ceto medio o basso, immersi in situazioni quotidiane, e impiega un linguaggio medio o basso. La stessa scenografia – sulla base di indicazioni contenute nel De architectura di Vitruvio (I sec. a.C.) tradotto in volgare nel 1521 – prevede ambientazioni differenti per l’uno e l’altro genere: nel caso della commedia lo sfondo sarà costituito da piazze cittadine, abitazioni borghesi, botteghe o chiese, mentre la tragedia sarà ambientata fra dimore patrizie e monumenti antichi allusivi a quelli di Roma (l’arco trionfale, il Colosseo); il genere del dramma pastorale avrebbe avuto invece come sfondo boschi e
Il teatro laico rinascimentale riscoperta dei testi antichi
Teatro laico rinascimentale
poetiche di imitazione dei classici
ambiente di corte
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 369
capanne di pastori. Uno schema che la scena teatrale seguirà per lungo tempo. Sia le commedie sia le tragedie, infine, con pochissime eccezioni, rispettano le tre unità – di tempo, di luogo e d’azione – che erano ricondotte a quanto affermato nella Poetica aristotelica a proposito del teatro tragico greco (➜C1 PAG. 93). Il teatro laico (cioè non religioso quanto a tematiche e funzione) nasce dunque nell’ambito del classicismo e come esperienza socialmente elitaria: questo carattere comporta ovviamente dei risvolti negativi (e cioè la sostanziale emarginazione di ampia parte della popolazione); d’altra parte, però, assicura alle forme teatrali elaborate dal Rinascimento italiano un livello artistico molto più elevato rispetto alle coeve esperienze europee: ancora verso la metà del Cinquecento in Spagna, Francia e Germania il teatro era in mano a scalcinati mestieranti e veniva rappresentato in ambienti ben poco qualificati, davanti a un pubblico rozzo ed eterogeneo.
online
Video e Audio Festa del Paradiso di Leonardo in Vita di Leonardo Renato Castellani (Sceneggiato Rai, 1971)
La tragedia e il dramma pastorale La tragedia, ispirata ai classici greci e al teatro dello scrittore e filosofo latino Seneca (4 a.C.-65 d.C.), stentò ad affermarsi al di fuori di un pubblico di dotti e specialisti (anche perché destinata più alla lettura che alla rappresentazione) e produsse risultati artistici non rilevanti. Maggiore fortuna, perché meglio potevano legarsi al gusto raffinato e allo spirito edonistico della corte, avranno le forme teatrali a sfondo pastorale. Già nel corso del Quattrocento, nell’ambito del gusto erudito umanistico, comincia infatti a diffondersi nelle feste di corte la presenza di favole, cioè soggetti teatrali, di argomento mitologicopastorale. La prima, o almeno la più nota, testimonianza di queste ultime è la Fabula di Orfeo (per il soggetto ➜C1 PAG. 102), commissionata nel 1480 a Poliziano, uno dei più grandi intellettuali umanisti, dal cardinale Francesco Gonzaga per festeggiare un fidanzamento alla corte di Mantova. La Fabula di Orfeo ebbe grandissima fortuna, contribuendo a diffondere, soprattutto nelle corti dell’area padana (Milano, Ferrara, Mantova), la moda degli spettacoli a sfondo mitologico-pastorale: una tipologia che confluirà in un vero e proprio genere, ossia quello del dramma pastorale. Esso ritrae, sullo sfondo di un ambiente campestre, il mondo dei pastori in modo non certo realistico, ma stilizzato, ricreandolo attraverso le suggestioni della poesia classica (da Teocrito a Virgilio). Sarà un genere particolarmente congeniale al gusto classicistico ed elitario del Rinascimento, il cui capolavoro, quasi un secolo dopo l’Orfeo, sarà l’Aminta di Torquato Tasso (1573) (➜C10).
2 La commedia, genere chiave della cultura rinascimentale Comicità e commedia Delle due più importanti forme teatrali, quella sicuramente più significativa – sia a livello del gradimento del pubblico sia per quanto riguarda i risultati artistici – fu la commedia, che rispondeva maggiormente al gusto edo nistico del Rinascimento e alle situazioni della vita cortigiana in cui si iscrivevano le rappresentazioni teatrali (ossia, come già si è detto, le feste). Tra i generi praticati dalla letteratura rinascimentale, la commedia è quello che meglio documenta una visione laica della vita, qui affermata attraverso il veicolo della comicità. Nella commedia rinascimentale si consacra la legittimità del riso, l’iscrizione stabile nel territorio della letteratura del comico, che era stato margina lizzato o comunque confinato in ambiti e ruoli particolari dal rigorismo religioso del Medioevo.
370 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
Il Rinascimento associa la comicità a uno specifico genere letterario: se in questo modo la sfera del comico viene privata del suo spirito più genuino e trasgressivo, dall’altro però lo spettacolo comico risulta indubbiamente valorizzato dal suo inserimento tra le forme d’arte. Le costanti della commedia rinascimentale Già con le commedie di Ariosto inizia a delinearsi quella codificazione del teatro comico che si definirà stabilmente intorno al 1540 e che prevede alcuni elementi sostanzialmente costanti. Essi sono: • Lo scenario Conformemente alla tradizione latina, la commedia rinascimentale ha uno sfondo realistico: la scena rappresenta l’ambiente urbano, in cui si iscrivono situazioni e personaggi tratti dalla vita quotidiana. • La struttura La commedia rinascimentale è in genere divisa in cinque atti ed è preceduta da un prologo, per lo più impiegato (come nelle commedie latine di Terenzio) non per illustrare l’intreccio, ma come occasione talvolta polemica di dibattito letterario: è questa appunto la sua funzione in una delle due più celebri commedie rinascimentali: La Calandria del Bibbiena (➜ T1 OL). • L’intreccio L’ intreccio risente soprattutto del modello di Plauto: utilizza infatti le ricorrenti situazioni dello scambio di persona, dei capovolgimenti e magari dell’agnizione (cioè la rivelazione finale della vera identità di un personaggio), ma impiega anche molto spesso strutture tematiche e situazioni comiche attinte dal Decameron, in particolare per quanto concerne il tema della beffa. • I personaggi Essi non sono in genere caratterizzati psicologicamente ma rappresentano dei “tipi fissi” che rimandano spesso a figure già convenzionali nella commedia latina: il servo astuto, il giovane innamorato (per lo più contrapposto al vecchio severo), ecc. A questi personaggi tradizionali si associano, in alcune
Tragedia, favola pastorale, commedia
GENERE
tragedia
favola pastorale
commedia
MODELLO
Seneca
Teocrito e Virgilio
Plauto e Terenzio
CARATTERISTICHE
stanche rivisitazioni di modelli e storie della classicità
storie amorose in scenari bucolici
genere adatto all’intrattenimento con storie che esprimono lo spirito laico del tempo
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 371
commedie, tipi che rimandano alla realtà coeva come la figura del pedante saccente, ritratta in molte commedie del tempo (ad es. in Il pedante di Francesco Belo [1529] e in Il Marescalco di Aretino [1527, ed. a stampa 1533]). • La presenza della dimensione erotica Proprio per le convenzioni connesse al genere fin dall’antichità, la commedia rinascimentale dà spazio a una rappre sentazione dell’amore che investe soprattutto il piano della sessualità, talvolta evocata in modo diretto per stimolare il divertimento del pubblico. Una rappresentazione che contrasta vistosamente con le teorie dell’amor platonico, diffuse nei trattati del tempo (a cominciare dagli Asolani del Bembo). A una concezione idealizzante dell’amore la commedia contrappone una visione naturalistica e dà spazio alla rappresentazione dell’attrazione dei sensi (➜ T3a-b ). • I meccanismi della comicità La comicità delle commedie rinascimentali non è di “carattere”, cioè fondata sulla valorizzazione a fini umoristici delle diverse psicologie dei personaggi, ma di “intreccio”, ossia affidata alle situazioni in cui i personaggi si vengono a trovare. Inoltre le commedie utilizzano una comicità che sfrutta le risorse del linguaggio e che si può distinguere in “comico del si gnificato” (fondato sull’equivoco linguistico e sul conseguente fraintendimento) e “comico del significante” (presente quando si valorizzano comicamente determinati effetti fonici, a prescindere dal significato delle parole usate ➜PER APPROFONDIRE “comico del significato” e “comico del significante”). • Lo stile Secondo il principio derivato dalle poetiche classiche, che prevedeva una stretta congruenza tra materia e stile, la commedia (a differenza della tragedia), proprio perché rappresenta la realtà quotidiana, utilizza uno stile che oscilla in genere tra il medio e il basso e che può ospitare la mimesi del parlato e forme dialettali finalizzate a ritrarre determinati ambienti, situazioni, tipologie sociali. Nel suo complesso, la commedia documenta un insieme di scelte linguistiche molto vario e ricco ed è caratterizzata da un sostanziale plurilinguismo, che si contrappone alla rigida codificazione verso l’’alto’ della lingua letteraria imposto nel primo Cinquecento dal Bembo.
3 La produzione comica del Cinquecento Una ricca produzione Nel corso del Cinquecento, la produzione di commedie è molto ricca, stimolata dal crescente successo del genere presso il pubblico. Alla grande quantità di testi prodotti non corrisponde però nel complesso un elevato livello artistico. Pochi sono gli esempi davvero significativi: tra di essi spiccano La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena (1470-1520), la Veniexiana di autore ignoto e la Mandragola di Niccolò Machiavelli (➜ C8). Una commedia di successo: La Calandria Nel 1513 Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, chiede a un giovane e brillante ecclesiastico, Bernardo Dovizi da Bibbiena, diplomatico a Roma, di scrivergli una commedia per le feste del carnevale, nelle quali indirettamente si sarebbe celebrata la rinnovata alleanza tra Urbino e il papato. Nasce così La Calandria, l’unica commedia di Bibbiena e uno degli esempi più significativi, per la felice vena comica che la caratterizza, del teatro rinascimentale. Per allestire lo spettacolo viene scelto Castiglione, che allora soggiornava alla corte di Urbino, mentre la scenografia è affidata a un allievo di Raffaello, Gerolamo
372 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
Genga. Sul proscenio è ritratta una contrada, sul fondale strade, palazzi, chiese, torri in prospettiva, che rimandano alla città di Roma. La Calandria ha un successo strepitoso in Italia e anche all’estero. L’intreccio della commedia prende spunto dai Menecmi del commediografo latino Plauto, ma il modello plautino è intrecciato a fitti richiami decameroniani (al personaggio di Calandrino allude il titolo stesso), secondo una formula che diventerà ricorrente. I riferimenti al testo di Boccaccio, pur abilmente dissimulati, venivano presumibilmente identificati dal pubblico di corte, accomunato all’autore dal possesso di una raffinata cultura.
PER APPROFONDIRE
La Veniexiana Un vero capolavoro della commedia cinquecentesca è La Veniexiana (1536 ca.) di autore ignoto. Frutto della ricca cultura teatrale dell’ambiente veneziano, ambientata a Venezia (il titolo significa appunto “commedia di Venezia”) è una commedia in prosa, non fondata sull’imitazione di Plauto e Terenzio ma
“Comico del significato” e “comico del significante” La comicità, come si è detto, non ha solo a che fare con determinate situazioni e tipologie di personaggi, ma è affidata anche al linguaggio, come risulta evidente anche nel testo proposto. Quali sono i mezzi linguistici sfruttati per ottenere un effetto comico? La studiosa Maria Luisa Altieri Biagi, che ha dedicato un saggio illuminante al linguaggio teatrale, distingue tra “comico del significato” e “comico del significante”. Il primo, di cui la commedia rinascimentale offre innumerevoli esempi, si basa sul fraintendimento, sull’equivoco. Interrogandosi sulle ragioni per le quali l’equivoco linguistico suscita il riso, Altieri Biagi osserva che nell’equivoco linguistico c’è sempre un elemento di sorpresa, dovuto al turbamento della norma linguistica; il riso scaturisce dalla possibilità che noi abbiamo, pressoché simultaneamente, di restaurare mentalmente l’“ordine”, di riassorbire nel codice linguistico anche il significato imprevisto e improprio. Nella commedia rinascimentale la diffusa presenza di questa categoria del comico è anche un riflesso delle rigide gerarchie sociali vigenti: il pubblico di corte ride dell’ignoranza o della sciocchezza che fa scaturire l’equivoco linguistico, delle storpiature linguistiche frutto spesso di un’etimologia popolare che decifra in modo errato una parola. La comicità deriva quindi, in questo caso, da uno scontro di codici tra loro incomunicanti, in cui quello superiore è anche quello del pubblico. Ad esempio, nella Pastorale di Beolco, il dialogo tra Ruzante e Arpino, «l’equivoco è lo strumento linguistico che marca l’incomunicabilità fra due mondi, quello arcadico sannazariano e quello, irto di problemi fisiologici, del contadino pavano»:
RUZANTE Tu me vuò dar del pan? [...]
dell’equivoco in cui cade Ruzante (che, perennemente affamato, scambia Pan per il pan, il pane). Gli esempi di questo tipo di fraintendimento sono innumerevoli: i servi possono scambiare le epistole per fistole; o i sonetti per sognetti, e così via... La risata del pubblico è assicurata. Nel passaggio alla commedia dell’arte, forma teatrale che emergerà nel secondo Cinquecento, questo tipo di comicità (del “significato”) continua a essere sfruttato, ma in misura minore, mentre emerge prepotentemente il “comico del significante”, che si realizza «usando “ludicamente” la lingua, svalutandone l’aspetto semantico e la funzione comunicativa, per puntare sui valori fonici, musicali». Al contrario del “comico del significato” questo tipo di comicità è fondato sullo sperpero di parole, su un vero e proprio diluvio di parole: dire in trenta righe, a forza di ripetizioni, accumuli, enumerazioni (le più tipiche sono quelle di cibi), quello che potrebbe essere detto in tre righe. Inoltre, proprio perché la comicità del significante tende ad annullare la funzione comunicativa della lingua e a privilegiarne il suono in sé e per sé, sfrutta le assonanze, le rime, le allitterazioni, insiste su un monema lessicale, in un gioco funambolico che mira a stordire lo spettatore. Ecco un esempio proposto dalla Altieri Biagi e tratto dal Filosofo di Aretino (a. IV, sc. iii): «impacciarsi con simili donne astute talmente, che distrigano intrighi, che non gli distrigarebbe il distriga, i distrigamenti delle distrigaggini distrigate da le distrigature de la distrigaggine distrigatoia». È in particolare nella caratterizzazione linguistica dello sciocco, personaggio chiave della commedia dell’arte, che la lingua diventa «gioco puro, definitivamente liberato da ogni coerenza, libera fluttuazione di parole», in cui dominano tautologie, nonsensi, in una spericolata acrobazia verbale, come si può notare nell’esempio tratto dalla Calandria.
È chiaro che lo spettatore di corte, a differenza di Ruzante, è in grado di decifrare l’allusione al dio Pan della mitologia classica e proprio questa competenza gli consente di ridere
Testo di riferimento: M.L. Altieri Biagi, Appunti sulla lingua della Commedia del Cinquecento, in Il teatro classico italiano nel ’500. Atti del convegno dell’Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1971.
ARPINO O sacro Pan, pietà d’i servi toi!
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 373
PER APPROFONDIRE
realistica nella ricostruzione dello sfondo ambientale, nella scelta dei personaggi, nei temi e nel linguaggio (è impiegato prevalentemente il dialetto veneziano). La trama è molto semplice e ruota attorno al tema dell’amore, inteso in senso esclu sivamente erotico: una scelta tanto più audace se si pensa che in questo caso il desiderio amoroso e l’iniziativa per realizzarlo riguardano le donne: Angela, una vedova ancora giovane e Valeria, una giovane sposata a un uomo anziano. Entrambe si innamorano di un ragazzo molto bello, Iulio, da poco arrivato a Venezia. Ser-
La scenografia prospettica La sperimentazione teatrale del Rinascimento, oltre che nel definire in modo sempre più preciso e qualificato gli spazi teatrali, si rivolge anche all’ideazione della scena, stimolata innanzitutto dalla lettura del trattato di Vitruvio, De architectura (Sull’architettura), riscoperto nel primo Quattrocento e ricreato, coniugando rigore e purezza di linee, nell’opera dell’architetto Andrea Palladio (1508-1580) che diventerà il simbolo stesso di classicismo del mondo. Tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento è definito un modello di spazio scenico identificabile nella scena urbana prospettica: una scena in cui sono riprodotte le tre dimensioni dello spazio (larghezza, altezza e profondità) in modo da creare un’illusione di realtà. Fin dal Quattrocento le ricerche sulla prospettiva avevano prodotto una vera e propria rivoluzione in campo figurativo. Di questi studi ed esperienze artistiche si avvale anche la scenografia teatrale nella costruzione di uno sfondo urbano illusionistico, nel quale viene prospettata una visione fortemente gerarchizzata: viene infatti privilegiato il punto di vista centrale al quale corrisponde (non certo a caso) la postazione dove abitualmente sedeva in sala il principe, mentre il punto di fuga si trova diametralmente opposto al centro del fondale (Fontana). Proposta per la prima volta da Pellegrino da Udine per la Cassaria di Ludovico Ariosto (1508), la scena prospettica viene riproposta pochi anni dopo per La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, rappresentata nel 1513 a Urbino e replicata a Roma nel 1514 per l’allestimento di Baldassarre Peruzzi. Gli effetti spaziali illusionistici realizzati dal Peruzzi sono così commentati dal Vasari: «Né si può imaginare come egli in tanta strettezza di sito accomodasse tante strade, tanti palazzi e tante bizzarie di tempj, di loggie e d’andari di cornici così ben fatte che parevano non finte ma verissime, e la piazza non una cosa dipinta e picciola ma vera e grandissima». La scena prospettica diventerà una scelta costante del teatro rinascimentale, poi trasmessa al teatro europeo: dalla Francia alla Spagna all’Inghilterra. È bene precisare che la scelta di rappresentare uno sfondo urbano non è ispirata a intenti di rispecchiamento realistico, come si potrebbe pensare, ma deriva direttamente da un modello letterario, ovvero dall’ambientazione cittadina propria della commedia latina. Inoltre la scena urbana implica un processo di idealizzazione della città che accomuna l’ambito pittorico e architettonico alle creazioni della scenografia teatrale: la città rappresentata non è questa o quella città,
Tavola con la ricostruzione degli studi di Vitruvio sul teatro, da I dieci libri dell’architettura di Marco Vitruvio (vol. V), dall’edizione curata da Palladio (Venezia 1556).
ma è sempre un’idea di città, una forma simbolica. Del resto la vita della città è antitetica rispetto alla vita della corte, scandita da rituali raffinati ed elitari; il mondo cittadino, e le classi sociali più basse, sono “fuori” e “altrove” rispetto alla corte e al pubblico della corte.
Schema della pianta delle gradinate e della scena del teatro vitruviano nel trattato di Andrea Palladio I quattro libri dell’architettura (1570).
374 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
vendosi della complicità delle rispettive serve (Nena e Oria) e dell’aiuto del facchino Bernardo, le due donne riescono a turno a accompagnarsi al giovane straniero. A differenza della maggior parte delle commedie cinquecentesche, La Veniexiana non è tanto una commedia “di intreccio” (non ci sono travestimenti, agnizioni, complicate avventure) ma piuttosto “di caratteri”, vivacemente tratteggiati soprattutto attraverso i dialoghi.
online T1 Bernardo Dovizi da Bibbiena Prologo a difesa della modernità La Calandria
Bernardo Dovizi da Bibbiena
T2
Un esempio canonico di comicità La Calandria
B. Dovizi da Bibbiena, La Calandria, in Il teatro italiano. La commedia del Cinquecento, a c. di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1977
Sulla scena ci sono due dei protagonisti della commedia: il servo Fessenio e lo sciocco Calandro, marito sprovveduto di Fulvia. Costui si è perdutamente innamorato di quella che crede essere una donna, Santilla (in realtà ha visto Lidio, il fratello gemello di Santilla, travestito da donna) e Fessenio si prende gioco di lui, fingendo di fargli da intermediario. La scena, pur nella sua brevità, ci mostra in atto i fondamentali meccanismi della comicità utilizzati dalla commedia rinascimentale per divertire il pubblico. SCENA SESTA Fessenio servo, Calandro.
FESSENIO Salve, patron, che ben salvo sei da che la salute ti porto1. Dammi la mano. CALANDRO La mano, e i piedi. FESSENIO (Parti che i pronti detti gli sdrucciolino di bocca?2) CALANDRO Che c’è? 5 FESSENIO Che, ah? El mondo è tuo, felice sei. CALANDRO Che mi porti? FESSENIO Santilla tua ti porto: che piú te ama che tu non ami lei, e di esser teco piú brama che tu non brami, perché gli ho detto quanto tu se’ liberale, bello e savio: uuuh! tal che la vuol3, in fine, ciò che tu vuoi. Odi, patrone: ella non sentí 10 prima nominarti che io la viddi tutta accesa de l’amor tuo. Or sarai ben, tu, felice. CALANDRO Tu di’ il vero. E’ mi par4 mille anni succiar quelle labra vermigliuzze e quelle gote vino e ricotta5. FESSENIO Buono! (Volse dir6 sangue e latte) CALANDRO Ahi, Fessenio! Imperator ti faccio. 1 da che... ti porto: dato che ti porto la salvezza. Fessenio allude al fatto che finalmente Calandro potrà avere Santilla. 2 Parti... di bocca?: Ti pare (Fessenio si
rivolge al pubblico) che gli scivolino dalla bocca parole dirette? 3 tal che la vuol: così che lei desidera. 4 E’ mi par: mi sembra. E’ sta per “egli”.
5 gote vino e ricotta: guance bianche e rosse. 6 Volse dir: ha voluto dire.
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 375
15 FESSENIO (Con che grazia l’amico catta grazia7!)
CALANDRO Or andianne da lei. FESSENIO Come, da lei? E che? pensi tu ch’ella sia di bordello8? Andarvi ti bisogna con ordine9. CALANDRO E come vi si anderà? 20 FESSENIO Coi piedi. CALANDRO So bene. Ma dico: in che modo? FESSENIO Hai a sapere che, se tu palesemente vi andasse10, saresti visto. E però sono rimasto con lei, perché tu scoperto non sia e perché ella vituperata non resti11, che tu in un forziero12 entri e, portato in camera sua, insieme quel piacere prendiate 25 che vorrete tutti a due. CALANDRO Vedi che io non v’andrò coi piedi, come dicevi. FESSENIO Ah! ah! ah! accorto amante! Tu di’ il vero, in fine. CALANDRO Non durerò fatica13, non è vero, Fessenio? FESSENIO Non, moccicon14 mio, no. 30 CALANDRO Dimmi: il forziero sarà sí grande che io possa entrarvi tutto? FESSENIO Mo che importa questo? Se non vi entrerai intero, ti farén di pezzi15. CALANDRO Come, di pezzi?! FESSENIO Di pezzi, sí. CALANDRO Oh! come? 35 FESSENIO Benissimo. CALANDRO Di’. FESSENIO Nol sai? CALANDRO Non, per questa croce. FESSENIO Se tu avesse navigato, il saperresti16: perché aresti visto spesso che, 40 volendo mettere in una piccol barca le centinara delle persone, non vi enterriano17 se non si scommettessi18 a chi le mani, a chi le braccia e a chi le gambe secondo il bisogno; e, cosí stivate come l’altre mercanzie a suolo a suolo19, si acconciano sí che tengano poco loco20. CALANDRO E poi? 45 FESSENIO Poi, arrivati in porto, chi vuol si piglia e rinchiava21 il membro suo. E spesso anco avviene che, per inavvertenzia o per malizia, l’uno piglia el membro dell’altro e sel mette ove piú gli piace; e talvolta non gli torna bene, perché toglie un membro piú grosso che non gli bisogna, o una gamba piú corta della sua, onde ne diventa poi zoppo o sproporzionato, intendi? 50 CALANDRO Sí, certo. In buona fé, mi guarderò bene io che non mi sia nel forziero scambiato il membro mio.
7 catta grazia: acquista benevolenza. 8 sia di bordello?: sia una donna di malaffare? 9 Andarvi... con ordine: è necessario che tu vada da lei con un piano ponderato. 10 Hai a sapere... vi andasse: devi sapere che se tu andassi da lei scopertamente. 11 però... non resti: perciò sono d’accordo (sono rimasto) con lei perché tu non sia
scoperto e perché ella non sia rimproverata (vituperata). 12 forziero: cassa, cassapanca. 13 durerò fatica: farò fatica. 14 moccicon: moccioso. 15 ti farén di pezzi: ti divideremo in pezzi. 16 il saperresti: lo sapresti. 17 perché aresti… non vi enterriano: perché avresti visto spesso che, volendo
imbarcare centinaia di persone su una piccola imbarcazione, non vi entrerebbero. 18 si scommettessi: si sconnettessero, si svitassero. 19 a suolo a suolo: a strati. 20 si acconciano... poco loco: si dispongono in modo che occupino poco posto. 21 rinchiava: si riconnette, si riavvita.
376 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
FESSENIO Se tu a te medesimo non lo scambi, altro certo non te lo scambierà, andando tu solo in nel forziero: nel quale quando tu intero non cappia22, dico che, come quelli che vanno in nave, ti potremo scommettere almen le gambe; con ciò 55 sia che23, avendo tu ad essere portato, tu non hai ad oprarle24. CALANDRO E dove25 si scommette l’omo? FESSENIO In tutti e’ luoghi ove tu vedi svolgersi: come qui, qui, qui, qui... Vuo’lo sapere? CALANDRO Te ne prego. 60 FESSENIO Tel mosterrò in un tratto, perché è facil cosa e si fa con un poco d’incanto26. Dirai come dico io: ma in voce summissa27, per ciò che, come tu punto gridasse, tutto si guasteria. CALANDRO Non dubitare. FESSENIO Proviamo, per ora, alla mano. Da’ qua, e di’ cosí: Ambracullàc. 65 CALANDRO Anculabràc. FESSENIO Tu hai fallito28. Di’ cosí: Ambracullàc. CALANDRO Alabracúc. FESSENIO Peggio! Ambracullàc. CALANDRO Alucambràc. 70 FESSENIO Oimè! oimè! Or di’ cosí: Am... CALANDRO Am... FESSENIO ...bra... CALANDRO ...bra... FESSENIO ...cul... 75 CALANDRO ...cul... FESSENIO ...lac... CALANDRO ...lac... FESSENIO Bu... CALANDRO Bu... 80 FESSENIO ...fo... CALANDRO ...fo... FESSENIO ...la... CALANDRO ...la... FESSENIO ...cio... 85 CALANDRO ...cio... Una scena della Calandria di Bernardo Bibbiena (incisione, FESSENIO ...or... sec. XV). CALANDRO ...or... FESSENIO ...te la... CALANDRO ...te la... 90 FESSENIO do. CALANDRO Oh29! oh! oh! oi! oi! oimè!
22 nel quale... non cappia: nel quale, nel caso tu non ci stia dentro (cappia, latinismo da capĕre) intero. 23 con ciò sia che: dato che. 24 non hai ad oprarle: non hai da adoperarle.
25 dove: in quali punti del corpo. 26 con un poco d’incanto: con un pizzico
28 fallito: sbagliato. 29 Oh!: evidentemente Fessenio ha torto
di magia. 27 in voce summissa: a voce bassissima.
la mano all’ingenuo Calandro procurandogli un forte dolore.
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 377
30 Hai guasto lo ‘ncanto: hai spezzato l’incantesimo.
FESSENIO Tu guasteresti il mondo. Oh, che maladetta sia tanta smemorataggine e sí poca pazienzia! Ma, potta del cielo, non ti dissi pure ora che tu non dovevi gridare? Hai guasto lo ‘ncanto30. 95 CALANDRO El braccio hai tu guasto a me. FESSENIO Non ti puoi piú scommetter, sai? CALANDRO Come farò, dunque? FESSENIO Torrò, infine, forziero sí grande che vi entrerai intero. CALANDRO Oh, cosí sí! Va’ e trovalo in modo che io non mi abbia a scommettere, 100 per l’amor di Dio! perché questo braccio m’amazza. FESSENIO Cosí farò in un tratto. CALANDRO Io anderò in mercato, e tornerò qui subito. FESSENIO Ben di’. Adio. Sarà or ben ch’i’ trovi Lidio e seco ordini questa cosa, della quale ci fia da ridere tutto questo anno. Or vo via sanza parlare altrimenti a 105 Samia, che là su l’uscio vego borbottare da sé.
Analisi del testo I meccanismi della comicità: la ridicolizzazione dello sciocco Lo sciocco di cui ci si prende gioco è un personaggio costantemente presente nella commedia rinascimentale ed è figura già ampiamente sfruttata nella commedia plautina. In questo caso, però, come dimostra il nome stesso del personaggio, Calandro, è più rilevante l’influenza del modello boccacciano. Era immediato, infatti, per gli spettatori del tempo associare il personaggio ideato dal Bibbiena al Calandrino protagonista di alcune celebri novelle di Boccaccio. Come Calandrino, anche Calandro crede a ogni sciocchezza inverosimile raccontatagli da Fessenio, il servo abile e astuto che ripropone una figura tradizionale della commedia latina, ma che riecheggia soprattutto i personaggi di Bruno e Buffalmacco, i beffatori di Calandrino nel Decameron (si pensi ad esempio alla novella dell’elitropia, la pietra che rende invisibili ➜ V1A C8 T10a ).
La beffa fine a se stessa Nel beffare Calandro, Fessenio non ha un tornaconto né per sé né per altri: lo ispira un gusto perverso per la beffa fine a sé stessa, il piacere di divertirsi alle spalle di un povero sprovveduto che egli convince addirittura dell’opportunità di farsi slogare le membra per poter entrare nel forziero. In un’altra scena (a. II, sc. IX) Fessenio convincerà Calandro, una volta entrato nella cassapanca, della necessità di morire, spiegandogli poi che avrebbe potuto facilmente resuscitare sputando verso l’alto e scuotendo vigorosamente le membra! Il divertimento ha in questo caso a che fare con la complicità tra Fessenio e gli spettatori (colti, raffinati, appartenenti al pubblico della corte), accomunati dal gusto un po’ sadico di ridere alle spalle di una persona intellettualmente inferiore.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Riassumi in massimo cinque righe la situazione comica del brano, mettendo in evidenza il gioco degli equivoci presente nel testo. ANALISI 2. Pur nella sua brevità, il testo mette in evidenza l’ottusità mentale di Calandro nel cadere nelle inverosimili trappole di Fessenio. Indica gli aspetti più rilevanti, quasi grotteschi, in cui emerge la stupidità di Calandro. 3. In alcuni passaggi del testo, Fessenio si rivolge al pubblico. Quali frasi pronuncia agli spettatori e cosa implica ciò? LESSICO 4. Nel testo si possono riconoscere alcune espressioni “basse”, ossia legate al lessico popolare. Rintracciale e spiega il motivo del loro utilizzo.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Quali argomenti emergono nel brano e quindi quali temi l’autore esalta, seguendo il modello del Decameron di Boccaccio e facendo riferimento, ad esempio, alla novella dell’elitropia?
378 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
T3
La dimensione erotica nella commedia e la visione platonico-petrarchista dell’amore Presentiamo per un utile confronto un breve passo da Il libro del cortegiano di Castiglione, incentrato sul carattere ingannevole dell’amore sensuale, e una scena della Veniexiana.
Baldesar Castiglione
T3a
L’errato giudizio dei sensi Il libro del cortegiano, IV, LII
B. Castiglione, Il libro del cortegiano, a c. di E. Bonora, Mursia, Milano 1984
Nella parte conclusiva del suo celebre trattato dedicato alla figura del perfetto cortigiano, Castiglione introduce la trattazione di quel tema dell’amore che tanto appassionava gli intellettuali cortigiani nei primi decenni del Cinquecento. La difesa dell’amor platonico è affidata significativamente a Pietro Bembo, una delle figure più prestigiose della cultura rinascimentale, che a questo tema aveva dedicato i dialoghi degli Asolani.
Essendo adunque l’anima presa dal desiderio di fruir questa bellezza1 come cosa bona, se guidar si lassa dal giudicio del senso incorre in gravissimi errori e giudica che ’l corpo, nel qual si vede la bellezza, sia la causa principal di quella2, onde per fruirla3 estima essere necessario l’unirsi intimamente più che po con quel corpo; 5 il che è falso; e però4 chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza, s’inganna e vien mosso non da vera cognizione per elezion di ragione5, ma da falsa opinion per l’appetito del senso6; onde il piacer che ne segue esso ancora necessariamente è falso e mendoso7.
Giulio Romano, Due amanti, 1523-1524 (Ermitage, San Pietroburgo). 1 questa bellezza: la bellezza che appare nei corpi e nei volti e che è da considerarsi, nell’ottica neoplatonica, come pallido e imperfetto riflesso della bellezza divina. 2 giudica... la causa principal di quella: identifica la bellezza con la bellezza del corpo senza saper
risalire al principio di ogni bellezza: Dio. 3 onde per fuirla: perciò per poterla possedere. 4 però: perciò. 5 e vien mosso... di ragione: e non viene spinto da una conoscenza veritiera (vera cognizione)
e da una scelta razionale (elezion: latinismo da eligĕre). 6 per l’appetito del senso: a causa del desiderio (appetito) sensuale. 7 onde... mendoso: per cui anche il piacere che ne deriva è per forza di cose (necessariamente) falso e difettoso (mendoso).
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 379
Anonimo
T3b
L’incontro amoroso tra Angela e Iulio La Veniexiana, III, III
Anonimo, La Veniexiana, in Il teatro italiano, a c. di G. Davico Bonino, II, t. I, Einaudi, Torino 1981
Il facchino Bernardo è stato incaricato di condurre il bellissimo forestiero Iulio a casa di Angela. Nella prima scena essa si confida con la serva Nena e attende smaniosamente l’arrivo del giovane. Nella scena terza, qui presentata nella prima parte, l’incontro tra i due e il loro colloquio carico di sensualità e di riferimenti erotici.
ATTO TERZO scena III ANGELA Bona sera a questo zentilomo mio caro. IULIO Et a Vostra Signoria gentile e cortese. ANGELA Fio dolçe, quanto t’ho desiderao! No sciò qual cossa pí cara potesse aver abúo, che tegnerte qua mio preson. 5 IULIO Maggior grazia è la mia verso Vostra Signoria, che se abe degnato acceptarmi in servitore; e tanto più grande, quanto, non per mei meriti, per propria zentilezza lo ha fatto. ANGELA Cor mio, ti prego che te me voie aver excusàa, s’acussí grossamente e liçenziosamente te ho fato vegnir qua, e se prosumptuosamente parlasse, o fesse 10 qualche cossa che non ti paresse conveniente; perché el fogo del to amor, che me bruscia, me ha infiamàa come dopièr. IULIO Signora mia, la beltà e nobeltà vostra è tanta, che ogni vostra cosa a me parerà cortese. Né non è necessario excusarvi, perocché vi dono questa persona, questa anima; e, da qua avanti, sii vostro il tutto e non piú mio. 15 ANGELA Lo açeto, anima mia. E cussí tu pía la mia, che xè tuta toa. IULIO Et io la piglio, insieme cun questa persona, per mia Signora e Dio. ANGELA Cussí consumería. Spoia queste arme. Bevi un giozo, e reposàmo. IULIO Qui sun de Vostra Signoria tutto. Di bever, ho bevuto un poco; piú non mi comporta. ANGELA Questo puoco, per amor mio. 20 IULIO Per amor de voi, se fussi risagallo e arsenico, lo beveria. ANGELA Che lizadra persona! Beato el pare e la madre che tal fio ha fato nascer! IULIO Beati sono veramente, poiché hanno fatto che aggrada a Vostra Signoria, che è degnissima. ANGELA Ancora te voglio basar per questa parolina. 25 IULIO Piú dolce è la bocca vostra, che le mie labre. ANGELA Vien qua, che te voio aiutar. IULIO Questo non pàtio. Vostra Signoria se svesta, che io la adiutarò lei. ANGELA Avèu besogno de gnente? Non guardè a mi. Disèlo. IULIO Madonna, no! Né Vostra Signoria abi respecto alcuno de uno suo cordial servo. 30 ANGELA Respecto? No sastu che ti xè mio fio, caro, dolçe? Pur che te me voie la mità del ben che te voio, sum contenta. IULIO Lo amor mio verso Vostra Signoria mo è incomenziato, et serà tanto, che ancor Venezia me vederà vecchio. ANGELA Acònzati qua. Ancora un puco avanti. 35 IULIO Vostra Signoria me fa torto. Pur, poiché i’ sum suo, non voglio in cosa alguna contradire.
380 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
ANGELA Eco, Anzola, el to contento! Eco che ti ha presso el to amor e tuta la tua speranza. IULIO Madonna, sète voi mia, mia speranza, mia Signora. 40 ANGELA Lo mio lo volio guardar, ché nol sia robao; ma tegnerlo cussí, in le braze, streto.
VERSIONE IN ITALIANO
A. Buona sera a questo gentiluomo mio caro. I. E a Vostra Signoria gentile e cortese. A. Figlio dolce, quanto t’ho desiderato! Non so quale cosa più cara potessi aver avuto, che tenerti qua mio prigioniero. I. Maggior grazia è la mia verso Vostra Signoria, che si è degnata di accettarmi per servitore; e tanto più grande, in quanto, non per miei meriti, ma per sua propria gentilezza lo ha fatto. A. Cuor mio, ti prego che tu voglia avermi per scusata, se così grossolanamente e licenziosamente ti ho fatto venir qua, e se parlassi da presuntuosa, o facessi qualche cosa che non ti paresse conveniente; perché il fuoco del tuo amore, che mi brucia, mi ha infiammata come una torcia. I. Signora mia, la beltà e nobiltà vostra è tanta, che ogni vostra cosa a me parrà cortese. Né è necessario che vi scusiate, perché vi dono questa persona, quest’anima; e, di qui innanzi, sia vostro il tutto e non più mio. A. Lo accetto, anima mia. E così tu piglia la mia, che è tutta tua. I. E io la piglio, insieme con questa persona, per mia Signora e Dio. A. Così mi consumerei. Spoglia queste armi. Bevi un goccio, e riposiamo. I. Qui sono tutto di Vostra Signoria. Di bere, ho bevuto un poco: non ne ho più bisogno. A. Questo poco, per amor mio. I. Per amor di voi, se fosse risagallo e arsenico, lo berrei. A. Che leggiadra persona! Beato il padre e la madre che un tal figlio han fatto nascere! I. Beati sono veramente, poiché hanno fatto cosa che aggrada a Vostra Signoria, che è degnissima. A. Ancora ti voglio baciare per questa parolina. I. Più dolce è la bocca vostra, che le mie labbra. A. Vieni qua, che ti voglio aiutare. I. Questo non permetto. Vostra Signoria si svesta, che io aiuterò lei. A. Avete bisogno di niente? Non guardate a me. Ditelo. I. Madonna, no! né Vostra Signoria abbia riguardo alcuno per un suo cordiale servo. A. Riguardo? Non sai che tu sei mio figlio, caro, dolce? Purché tu mi voglia la metà del bene che ti voglio io, sono contenta. I. L’amor mio verso Vostra Signoria è appena incominciato, e durerà tanto, che Venezia mi vedrà vecchio. A. Accomodati qua. Ancora un poco avanti. I. Vostra Signoria mi fa torto. Pure, poiché io sono suo, non voglio in alcuna cosa contraddire. A. Ecco, Angela, il tuo contento! Ecco che hai presso il tuo amore e la tua speranza. I. Madonna, siete voi mia, mia speranza, mia signora. A. Il mio lo voglio guardare, che non sia rubato; ma tenerlo così, nelle braccia, stretto. Il teatro umanistico-rinascimentale 2 381
Analisi del testo Il rovesciamento del codice di comportamento amoroso
La tematica fondamentale della commedia, i cui spunti comici sono limitatissimi, è la rappresentazione realistica della passione amorosa all’interno di un preciso contesto sociale e ambientale. La novità della Veniexiana è che sono le donne a essere soggetto e non oggetto del desiderio amoroso: un desiderio travolgente che ha i tratti della “malattia d’amore” (ricorrente è la metafora del fuoco, della febbre) accomuna la vedova Angela e la giovane sposa Valeria. Sono le donne questa volta a prendere l’iniziativa per incontrare il giovane bellissimo forestiero, sono le donne a fare delle esplicite avances al giovane, a pronunciare le lodi tradizionali della bellezza dell’amato, a usare le metafore amorose proprie della tradizione letteraria.
Il piano linguistico
Nella scena proposta dialogano fra di loro due diversi piani linguistici: da un lato l’italiano cortigiano, un po’ manierato e lezioso di Iulio, in piena consonanza con i suoi modi un po’ artefatti, e dall’altra il veneziano parlato da Angela. Occorre precisare che a Venezia il veneziano non era percepito come dialetto ma come lingua vera e propria e non viene quindi impiegato nella commedia, come avviene invece per altre lingue regionali, con fini di tipizzazione (soprattutto comico-parodistica) del personaggio. Per questo fine viene usato nella Veniexiana il bergamasco, in cui si esprime il facchino Bernardo. All’interno del veneziano usato da Angela si potrebbe distinguere due diversi registri in relazione a due diversi momenti vissuti dal personaggio: più sostenuto e sintatticamente elaborato, almeno in alcuni punti, il linguaggio impiegato nelle prime schermaglie con Iulio (in particolare quando Angela si scusa, con imbarazzati giri di parole, del suo comportamento che potrebbe sembrare sconveniente al giovane); in seguito, dopo l’intimità che si è creata con il giovane, il linguaggio diventerà più diretto e carico di erotismo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del passo di Castiglione e identifica in esso il tema dell’amore platonico diffuso nella trattatistica del primo Cinquecento. COMPRENSIONE 2. Riscrivi in italiano corrente il passo di Castiglione. ANALISI 3. Evidenzia nel testo de La Veniexiana, attraverso precisi riferimenti, come Iulio utilizzi nel rapportarsi a Angela molti riferimenti al codice “cortese” e al tradizionale rapporto incentrato sulla “servitù” dell’amante verso madonna. LESSICO 4. Quale immagine metaforica usa più volte Angela per esprimere la sua passione?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. I due testi proposti ti mettono di fronte a due visioni opposte dell’amore: cerca di istituire un confronto che metta in luce le diverse convenzioni culturali e le diverse situazioni comunicative che possono spiegare la presenza di tale opposta concezione nella stessa epoca.
4 La commedia anticlassicistica di Aretino e Ruzante La parodia di Euripide alla base del teatro quattrocentesco Non sono molti gli autori importanti che si discostano dalle strutture codificate e piuttosto ripetitive della commedia classicheggiante: tra questi, oltre a Machiavelli, autore della più celebre commedia rinascimentale, la Mandragola, spiccano certamente, con una più decisa posizione anticlassicistica (➜ C1), Pietro Aretino e soprattutto Angelo Beolco detto “Ruzante”.
382 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
Anche in questo caso, come per gli altri generi teatrali e più complessivamente letterari, l’Umanesimo ha come riferimento la cultura greca e latina abilmente rielaborata e in particolare, per quanto concerne il dramma satiresco, un modello fondamentale è Il ciclope del drammaturgo greco Euripide, una parodia comica dell’episodio di Polifemo narrato nel libro IX dell’Odissea: il ciclope rappresentato da Euripide è assai diverso dal terribile Polifemo dell’Odissea, perché se Omero lo disegna come un essere mostruoso, primitivo, privo di qualsiasi scrupolo morale, al contrario il ciclope di Euripide è civilizzato e equilibrato e, pur vivendo ai margini della società, non ha nulla di bestiale. Vuole che i satiri gli puliscano bene la grotta e, mentre le sue greggi pascolano nei campi, lui se ne va a caccia, non per procurarsi il cibo, ma solo per divertimento. Insomma non rappresenta più la selvaggia ferinità del ciclope omerico, ma un’espressione più civile, cittadina e, per contro, sono i satiri che restano le uniche creature veramente legate alla natura. Ebbene, l’operazione di rovesciamento parodico e comico realizzata da Euripide, capace di prendere in mano un modello per sovvertirlo, diventa un punto di riferimento per il teatro satirico del Quattrocento, come quello di Vincenzo Braca (originale interprete di un genere dialettale detto “farsa cavaiola”, dove un cavaiuolo, ovvero un ignorante e stolto villico cavese, abitante della città di Cava, viene rappresentato nei suoi tratti più grossolani e caricaturali), ma soprattutto di Ruzante, eccentrico rappresentante di una sorta di “scapigliatura” rinascimentale (➜ C1 PAG. 131; T4 ).
La cortigiana di Pietro Aretino Un ritratto anti-idealizzante della vita di corte La scelta antiaccademica e anticlassicistica caratterizza ogni esperienza letteraria di Pietro Aretino (1492-1556 ➜ C1). La sua poetica, incline a contestare ogni regola e modello in nome della personale inclinazione, della “natura”, lo porta a rifiutare anche nell’ambito teatrale la lezione dei classici. Contribuì a diffondere questa tendenza a Venezia, dove risiedette stabilmente a partire dal 1527, dopo essere stato costretto ad abbandonare Roma. Soprattutto la sua prima commedia, La cortigiana (1525), ovvero la “commedia della corte”, riflette una decisa posizione anticlassicistica, esplicitata fin dal prologo, che contiene significative dichiarazioni polemiche contro l’accademismo fiorentineggiante e la moda petrarchista. Ne La cortigiana Aretino ritrae in forma caricaturale la corte di Roma, di cui critica aspramente i vizi e la corruzione. L’ideazione della commedia e il quadro fosco che presenta risentono certamente dell’astio personale dell’autore, costretto ad andarsene da Roma (era appena sfuggito addirittura a un attentato, pare organizzato da un potente uomo di fiducia del papa): nove anni dopo, nel testo definitivo (1534) attenuerà notevolmente gli spunti più polemici e non a caso abolirà il lungo e anticonformistico prologo. La scelta anticlassicista induce Aretino a mettere sulla scena non tipi astratti ma personaggi veri abbastanza riconoscibili dal pubblico, che appartenevano alla cronaca cortigiana del tempo (i personaggi storici, evocati magari con rapidissime allusioni, sono più di sessanta). La struttura teatrale de La cortigiana è molto particolare, caratterizzata da continue interruzioni e riprese in grado di dare un ritmo spezzato all’azione teatrale; quasi «una serie di sketches da moderno cabaret» (Doglio) che riproducono il disorientamento, la perdita di senso e di valori di una società ormai fatiscente. Il teatro umanistico-rinascimentale 2 383
Il teatro controcorrente di Ruzante
Lessico familiare Persona fidata al servizio di famiglie nobili e/o ricche come servitore o amministratore e che ne abitava la stessa casa o le terre di proprietà.
Chi era Ruzante La biografia di Angelo Beolco (ca. 1496-1542), detto “Ruzante” dal personaggio da lui impersonato come attore, è ancora in parte da ricostruire. Nato a Padova da una relazione extramatrimoniale del padre (un medico che fu anche rettore della facoltà di medicina di Padova), esercitò fin da giovanissimo e per tutta la vita l’attività teatrale, nel triplice ruolo di drammaturgo, impresario teatrale (diresse una delle prime compagnie teatrali semiprofessioniste, in cui ogni attore era specializzato in un ruolo fisso, e organizzò con essa tournée teatrali di successo nelle corti del tempo) e soprattutto attore di grande successo. Tra l’attività di drammaturgo e quella di attore esiste una stretta relazione: il successo conseguito da Beolco presso il pubblico nel ruolo del contadino padovano Ruzante non fu certo irrilevante nella sua decisione di approfondire in più testi teatrali, attraverso una progressiva indagine, il “suo” personaggio; con Ruzante, Beolco finirà per identificarsi, al punto da comparire con il nome di questo personaggio persino nei documenti ufficiali. La sua genialità di uomo di teatro fu intuita dal nobile Alvise Cornaro, uomo di vasta cultura, presso il quale Ruzante era entrato a servizio come familiare verso il 1525 e che lo aiutò a farsi conoscere dal pubblico. Del Cornaro, ricco proprietario terriero, Ruzante amministrava come uomo di fiducia le tenute: ebbe modo così di conoscere da vicino la dura vita quotidiana dei contadini che rappresenterà con vivace e spregiudicato realismo nelle sue opere più note. Un’interpretazione fuorviante Una lettura ingenua, di derivazione romantica, ha interpretato la figura di Ruzante secondo il cliché dell’artista bohémien, privo di cultura letteraria, le cui doti artistiche deriverebbero da una spontanea adesione al mondo contadino espressa anche dalla scelta del dialetto pavano (il padovano parlato dai contadini) presente nella maggior parte delle sue opere. Questo fraintendimento della figura e dell’identità artistica di Ruzante ha certo nuociuto a una corretta interpretazione della sua opera, contribuendo a relegarla a lungo nell’ambito inferiore della letteratura dialettale di carattere popolare. Gli studi novecenteschi, sia biografici sia critici, hanno invece da tempo dimostrato da una parte la sua identità sociale di borghese colto, e dall’altra il suo rapporto stretto con la cultura del tempo, i cui modelli Ruzante mostra di conoscere molto bene anche se assume spesso una posizione polemica rispetto ad essi. La Pastorale: la rivisitazione dei modelli letterari La consapevole rivisitazione dei modelli letterari è evidente fin dalla prima opera di Ruzante, composta nel 1518 o, secondo altri nel 1521, nella quale già compare il “suo” personaggio: la Pastorale, un “contrasto” in versi, nel quale il mondo idillico dei pastori è messo di fronte a quello sanguigno e rozzo dei contadini padovani. Di fatto sono contrapposte due tradizioni letterarie che Ruzante, pur giovanissimo, mostra di padroneggiare: da un lato la tradizione idealizzante della letteratura bucolica (dalle Egloghe di Virgilio all’Arcadia di Sannazaro) e dall’altro quella della “satira del villano”, particolarmente diffusa nell’area veneta; in questo tipo di testi il “villano”, ovvero il contadino, veniva sottoposto a una deformazione comico-satirica finalizzata a divertire il pubblico colto e raffinato della città. La contrapposizione investe anche il linguaggio adottato: letterario e stilizzato per i pastori, pavano per i contadini. La Betìa e la poetica del “naturale” Anche l’opera successiva di Ruzante, la Betìa (1524-1525), una commedia in cinque atti in versi e integralmente in dialetto pava-
384 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
no, si rifà a modelli letterari, in questo caso però popolareggianti: Ruzante attinge alla tradizione, tipicamente veneta, dei mariazi, farse incentrate sullo schema del “contrasto” che sfocia nella cerimonia nuziale: un genere che, con successive metamorfosi, attraverso la commedia dell’arte confluisce in molti melodrammi giocosi e opere buffe dei secoli successivi. Particolarmente importanti sono il prologo e il congedo della Betìa, in cui Ruzante enuncia per la prima volta la sua poetica del “naturale” (snaturalitè in pavano): «Il naturale tra gli uomini e le donne è la più bella cosa che ci sia, e perciò ognuno deve andare per la via diritta e naturale, perché, quando tu cavi la cosa dal naturale, essa ci imbroglia». La scelta del “naturale” induce Ruzante a criticare con sarcasmo la poesia bucolica che ritrae il mondo rurale in modo appunto “innaturale” e con un linguaggio toscaneggiante del tutto convenzionale, mentre Ruzante rivendica l’uso del dialetto pavano delle campagne, sia per ragioni di realismo rappresen tativo, sia per una volontà polemica contro l’emarginazione delle lingue locali da parte del fiorentino (la lingua moschèta, che significa appunto “artificiosa”). Non è quindi un caso che qua e là Ruzante parodizzi nella Betìa, volgendole in pavano, intere frasi del trattato di Bembo sull’amore platonico, ossia Gli Asolani: il che ne dimostra la scaltrita cultura letteraria e la volontà polemica. I Dialoghi: un teatro iperrealistico L’originalità del teatro di Ruzante, la vocazione realistica della sua poetica, emergono in particolare nei tre Dialoghi in lingua “rustica”: Menego (una zuffa a sfondo sessuale), Bìlora, una cruda vicenda di gelosia che si chiude con l’omicidio, da parte del contadino soprannominato Bìlora (che in pavano significa “faina”, con allusione a un carattere infido e sanguinario) dell’amante della moglie; e soprattutto il celebre Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo (➜ T4 ), vertice della drammaturgia dell’autore padovano per consenso generale della critica. I Dialoghi furono composti intorno al 1528 (la cronologia delle opere di Ruzante non è sicura e le indicazioni degli studiosi divergono notevolmente), parallelamente a due commedie, La Fiorina e La Moscheta. Quest’ultima rielabora in un quadro più complesso la stessa materia dei Dialoghi (il titolo allude al parlar moscheto e cioè fiorentineggiante, adottato da Ruzante in questa commedia per non farsi riconoscere dalla moglie di cui vuole, con esiti peraltro catastrofici, saggiare la fedeltà). Una contadina padovana, miniatura del sec. XVI, dal ms. Bottacin (Biblioteca civica di Padova).
Commedia o tragedia? Presentati al pubblico come “comici”, i brevi atti unici hanno in realtà contenuti tutt’altro che tali: come ha scritto Ludovico Zorzi, uno degli studiosi più autorevoli di Ruzante, «dietro le sembianze del comico si cela un “tea tro della crudeltà” tra i più asciutti e oppressivi del repertorio del Rinascimento». Nei Dialoghi il mondo contadino viene presentato senza alcun filtro deforman te (e neppure interpretativo), nella sua cruda realtà, nei suoi bisogni primari: «la costruzione delle due brevi commedie fa leva sugli istinti e sulle passioni elementari che vi si affrontano, la fame, il bisogno economico e sessuale, la violenza come mezzo di sopraffazione e di immediato soddisfacimento» (Zorzi). Non è certo un caso che per questi dialoghi Ruzante elimini il prologo, abolendo così la mediazione tra autore e pubblico e catapultando l’attore, senza alcuna preparazione, nel mezzo dell’azione: una scelta che ha richiamato a qualcuno l’espediente narrativo (noto come “eclissi del narratore”) con cui Giovanni Verga realizzerà nel tardo Ottocento una poetica radicalmente realista. Il teatro umanistico-rinascimentale 2 385
Il povero soldato che ritorna dalla guerra, incisione da un’edizione delle commedie di Ruzante (1589).
Il Reduce o Parlamento di Ruzante Il Parlamento (ovvero “discorso”), noto con il termine moderno di Reduce, è stato diviso in cinque scene: la prima presenta il monologo di Ruzante, un contadino reduce dalla guerra, che si dirige, lacero e affamato, verso Venezia, dove si è trasferita in sua assenza la moglie Gnua. La seconda scena vede l’incontro tra Ruzante e il suo compare Menato, che rimane colpito dal misero aspetto dell’amico. Menato informa Ruzante che la moglie, per campare, si è messa con un poco di buono. Nella terza scena sono messi a confronto Ruzante e Gnua. La donna sdegna sarcasticamente per la sua povertà il marito e a nulla valgono le sue profferte d’amore, alle quali essa contrappone la dura legge del bisogno. Nelle due scene successive Ruzante, senza opporre la minima resistenza, è bastonato dal bravaccio che si è preso sua moglie e tenta alla fine, davanti all’incredulo Menato, una menzognera autodifesa per salvare la sua umiliata dignità, chiudendo il suo “parlamento” con un’allucinata risata con la quale esce di scena.
Le principali commedie anticlassicistiche Aretino
La cortigiana
aperta critica dei vizi della corte romana
Ruzante
Dialoghi
rappresentazione realistica (e non bucolica) delle campagne
Ruzante
T4
Il monologo di Ruzante e l’incontro con la moglie Gnua Parlamento de Ruzante, I; III
Ruzante, Parlamento de Ruzante, in Teatro, Einaudi, Torino 1967
Il titolo completo dell’atto unico da cui sono tratti i due testi proposti è Parlamento de Ruzante che iera vegnù da campo, ovvero Discorso di Ruzante di ritorno dal campo di battaglia. Il primo testo, che apre l’opera, corrisponde esattamente al titolo del dialogo, poiché consiste in un monologo che accoglie le amare considerazioni di Ruzante. Nella seconda scena Ruzante incontra la moglie Gnua, che nel frattempo si è sistemata con un poco di buono e di fatto si è data alla prostituzione per sopravvivere. Alle profferte amorose del povero Ruzante la moglie risponde con duro pragmatismo e cinica indifferenza: non sa che farsene di un poveraccio che non può assicurarle di che vivere.
386 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
SCENA PRIMA Ruzante solo RUZANTE [sbuca ansimante dal fondo e avanza fin quasi al proscenio. È lacero e sporco, coperto di polvere. Si guarda intorno, asciugandosi il sudore che gli cola di sotto l’elmetto] A’ ghe son pur arivò a ste Veniesie! Che a’ m’he pí agurò de arivar-ghe, che no se aguré mè d’arivare al’erba nuova cavala magra e imbolsía. A’ me refaré pure. A’ galderé pure la mia Gnua, che gh’è vegnua a stare. Cancaro1 ai campi e ala guera e ai soldè, e ai soldè e ala guera! A’ sè che te no me ghe arciaperè pí in campo. A’ no sentiré zà pí sti remore de tramburlini, com a’ fasea, nié trombe mo’, criar arme mo’... Arètu mo’ pí paura mo’2? Che, com a’ sentía criar arme, a’ parea un tordo che aesse abù una sbolzonà. S-ciopiti mo’, trelarí mo’... A’ sè che le no me arvisinerà. Sí, le me darà mo’ in lo culo! Ferze mo’, muzare mo’? A’ dromiré pur i miè’ soni. A’ magneré pur, che me farà pro. Pota3, mo’ squase che qualche bota a’ no avea destro da cagare, che ‘l me fesse pro. Oh, Marco, Marco4! A’ son pur chí, e ala segura. Cancaro, a’ son vegnù presto. A’ cherzo che a’ he fato pí de sessanta megia al dí. Mo’ a’ son vegnù in tri dí da Cremona in qua. Poh, no gh’è tanta via com i dise. I dise che da Cremona a Bersa gh’è quaranta megia. Sí, gh’è un bati! El no ghe n’è gnan deseoto. Da Bersa ala Peschiera i dise che ghe n’è trenta. Trenta? Cope, Fiorin5! A’ n’è-gi ben seíse. Dala Peschiera a chí, che pò essere? A’ ghe son vegnù int’un dí. L’è vero ch’he caminò tuta la note. Mei sí, falcheto no volé mè tanto com a’ he caminò mi. Ala fé, che ‘l me duole ben le gambe. Tamentre, a’ no son gnan straco. RUZANTE Ah, ci son pur arrivato a questa Venezia! Che mi sono augurato più io di arrivarci, che non si augurò mai di arrivare all’erba nuova una cavalla magra e imbolsita. Mi rifarò pure. Godrò pure la mia Gnua, che c’è venuta a stare. Canchero ai campi, alla guerra, ai soldati, e ai soldati e alla guerra! So che non mi ci acchiapperete più, al campo! Non sentirò più quei rumori di tamburini, come sentivo, né trombe, né gridar «all’armi!»... Ora non avrai mica più paura, no? Che quando sentivo gridar «all’armi!», parevo un tordo che avesse avuto una frecciata. E schioppi, e artiglierie... So che non mi raggiungeranno. Sì, ora mi daranno nel culo! Frecce, ora, scappare? Dormirò pure i miei sonni. Mangerò pure, che mi farà pro. Potta! che quasi, qualche volta, non avevo comodo di cacare, che mi facesse pro. Oh, Marco, Marco! Son pur qua, al sicuro. Canchero, ho fatto presto a venire. Credo di aver fatto più di sessanta miglia al giorno. Sono venuto in tre giorni da Cremona fin qua. Poh! non c’è poi tanta strada come dicono. Dicono che da Cremona a Brescia c’è quaranta miglia. Sì, c’è un attimo! Non ce n’è neanche diciotto. Da Brescia a Peschiera dicono che ce n’è trenta. Trenta? Ma sì, coppe! Non ce n’è neanche sedici. Da Peschiera a qui, quanto ci può essere? Ci sono venuto in un giorno. È vero che ho camminato tutta la notte. Oh sí, un falchetto non volò mai tanto quanto ho camminato io. In fede mia, che mi dolgono bene le gambe. Eppure non sono neanche stanco. 1 Cancaro: intercalare frequentemente
3 Pota: altro intercalare frequente di
in bocca a Ruzante; ha il valore di una maledizione. 2 Arètu mo’ pí paura mo’: Ruzante parla a sé stesso, chiedendosi se per caso non abbia ancora paura.
Ruzante, presente anche oggi nel parlato bresciano-bergamasco; il termine allude all’organo sessuale femminile. 4 Marco, Marco!: san Marco è il protettore di Venezia, nelle cui armate aveva mili-
tato Ruzante; Marco, Marco! era il grido che esprimeva la fedeltà alla Repubblica di Venezia. 5 Cope, Fiorin!: sorta di imprecazione collegata al gioco delle carte.
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 387
Orbéntena, la paura me cazava, el desedierio me ha portò. Façe che le scarpe arà portò la pena: a’ le vuò vêre. [Si osserva, a turno, le suole delle scarpe]. Te ‘l diss-io? Cancaro me magne, te par che a’ ghe n’he dessolò una? Aré guagnò questo, in campo. Mo’ cancaro me magne, sí; se aesse abù i nemisi al culo, a’ no desea caminar tanto. He fato un bel guagno. [Si guarda intorno] Mo’ a’ son fuossi in luogo che a’ gh’in poré robare un paro, com a’ fiè queste, che a’ le robiè in campo a un vilan. Orbéntena, el no serae mal star in campo per sto robare6, se ‘l no foesse che el se ha pur de gran paure. Cancaro ala roba! A’ son chialò mi, ala segura, e squase che a’ no cherzo esserghe gnan. S’a’ m’insuniasse? La sarae ben de porco. A’ sè ben ch’a’ no m’insunio, po. Non son-gie montà in barca a Lizafusina7? A’ son stò pur a Santa Maria d’un bel Fantin8 a desfar el me vó. Se mi mo’ no foesse mi? E che a’ foesse stò amazò in campo? E che a’ foesse el me spirito? Lo sarae ben bela. [Cava in fretta dalla bisaccia un tozzo di pane e lo addenta] No, cancaro, spiriti no magna9. [A bocca piena] A’ son mi, e sí a’ son vivo; cossí saesse on’ catar adesso la mia Gnua, o me compare Menato, che a’ sè che l’è an elo chí ale Veniesie. Cancaro, la mia femena arà adesso paura de mi. Besogna ch’a’ mostre de esser fato braoso. Mo’, agne muò’, a’ son fato braoso e tirò dai can. Me compare me domanderà de campo. Cancaro, a’ ghe diré le gran noele. [Pausa; guarda verso il fondo]. Mo’ a’ cherzo che l’è quelo. Mo’ l’è ben elo. Compare, o compare! A’ son mi, Ruzante, vostro compare. Caspita, la paura mi cacciava, il desiderio mi ha portato. Credo che le scarpe l’abbiano pagata loro. Le voglio vedere. Te lo dicevo, io? Che il canchero mi mangi, lo vedi che ne ho dissolata una? Ci avrò guadagnato questo, in campo. Che il canchero mi mangi, sì; se avessi avuto i nemici al culo, non dovevo camminar tanto. Ho fatto un bel guadagno. Ma forse sono in un luogo dove potrò rubarne un paio, come feci con queste, che le rubai in campo a un villano. Davvero, non sarebbe male stare al campo per questo rubare, se non fosse che ci si pigliano delle gran paure. Al diavolo la roba! Sono qua, al sicuro, e quasi non credo di esserci. E se sognassi? Sarebbe proprio una porcheria. So bene che non sogno, poi. Non sono montato in barca a Lizzafusina? Sono pur stato a Santa Maria del bel Fantino a sciogliere il mio voto. E se io non fossi più io? E fossi stato ammazzato in campo? E fossi il mio spirito? Sarebbe ben bella. No, canchero! gli spiriti non mangiano. Sono io, e sono vivo. Così sapessi dove trovare la mia Gnua, o mio compare Menato, che so che anche lui è qui a Venezia. Canchero, la mia femmina avrà paura, adesso, di me. Bisogna che mostri di essere diventato un bravaccio. Eh, in ogni modo sono diventato un bravaccio, ma tirato dai cani. Mio compare mi domanderà del campo. Canchero, gli dirò grandi cose. Ma mi pare che sia quello. È proprio lui. Compare, o compare! Sono io, Ruzante, vostro compare. 6 el no serae... robare: Ruzante vede co-
8 Santa Maria d’un bel Fantin: il santua-
me unico pregio nella guerra la possibilità di fare bottino facilmente. 7 Lizafusina: Fusina, sul delta del Brenta, era il luogo di imbarco per chi proveniva dall’entroterra e voleva raggiungere Venezia.
rio dove si venerava l’immagine della Madonna col Bambino. Il voto a cui allude il personaggio era certo quello di aver salva la vita. 9 Se mi mo’... spiriti non magna: in una
scena quasi surreale, Ruzante si chiede se è vivo o morto; gli sorge il dubbio terribile di essere morto in battaglia, ma è l’evidenza del suo appetito, il fatto di poter ancora mangiare a confermargli la sua identità di persona reale.
388 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
SCENA TERZA Gnua, Ruzante e Menato
GNUA [passa indifferente sul fondo. Alle grida festose di Ruzante volge appena il capo verso di lui. Il tono della sua risposta è gelido e sprezzante] Ruzante? Si’-tu ti? Ti è vivo, ampò? Pota, te è sí sbrendoloso, te hê sí mala çiera... Te n’hê guagnò ninte, n’è vero, no? RUZANTE Mo’ n’he-gi guagnò assè per ti, s’a’ t’he portò el corbame vivo? GNUA Poh, corbame! Te me hê ben passù. A’ vorae che te m’aíssi pigiò qualche gonela pre mi. RUZANTE [tentando un ammicco] Mo’ n’è miegio che sipia tornò san de tuti i limbri, com a’ son? GNUA Mei sí, limbri mè in lo culo! A’ vorae che te m’aíssi pigiò qualche cossa. [Rapida pausa] Mo’ a’ vuogio andare, ché a’ son aspità. RUZANTE Pota, mo’ te hê ben la bela fuga al culo. Mo’ aspeta un può. GNUA [calma] Mo’ che vuò-tu ch’a’ façe chí, s’te n’hê gnente de far de mi? Lagame andare. RUZANTE O cancaro a quanto amore a’ t’he portò10! Te te vuossi ben presto andar a imbusare, e sí a’ son vegnù de campo a posta per vêr-te. GNUA Mo’ non m’hê-tu vezúa? A’ no vorae, a dir-te el vero, che te me deroiniessi; ché a’ he uno che me fa del ben, mi11. No se cata cossí agno dí de ste venture. RUZANTE [senza scomporsi] Poh, el te fa del ben! A’ te l’he pur fato an mi. A’ no t’he fato zà mè male, com te sê. El no te vuol zà tanto ben com a’ te vuogio mi. GNUA Ruzante, sê-tu chi me vol ben? Chi me ‘l mostra. RUZANTE Mei sí, che a’ no te l’he mè mostrò... GNUA Ruzante? Sei tu? Sei vivo ancora? Potta, sei cosí stracciato, hai una tal brutta cera... Non hai guadagnato niente, vero o no? RUZANTE Ma non ho guadagnato assai per te, se ti ho portato la carcassa viva? GNUA Oh, la carcassa! Mi hai ben pasciuta. Vorrei che tu mi avessi preso qualche gonnella per me. RUZANTE Ma non è meglio che sia tornato sano di ogni membro, cosí come sono? GNUA Ma sí, membro in culo! Vorrei che tu mi avessi preso qualcosa. Su, ora voglio andare, ché sono aspettata. RUZANTE Potta, ma hai proprio una gran fretta al culo. Aspetta un po’. GNUA Ma che vuoi che faccia qui, se non hai niente da fare con me? Lasciami andare. RUZANTE Oh, canchero a quanto amore ti ho mai portato! Ti vuoi subito andare a imbucare, e non pensi che io sono venuto dal campo apposta per vederti. GNUA E ora non mi hai veduta? Non vorrei, a dirti il vero, che tu mi rovinassi, ché ho uno che mi fa del bene, io. Non si trovano mica ogni giorno di queste fortune. RUZANTE Poh, ti fa del bene! Te l’ho pur fatto anch’io. Non ti ho mai fatto del male, come sai. Quello non ti vuole certo tanto bene come ti voglio io. GNUA Ruzante, sai chi mi vuol bene? Chi me lo mostra. RUZANTE Ma sí, come se io non te l’avessi mai mostrato... 10 O cancaro... a’ t’he portò: accidenti all’amore che ho avuto per te!
11 ché a’ he uno che me fa del ben, mi: Gnua allude al bravaccio con cui si è mes-
sa in assenza di Ruzante.
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 389
GNUA Che me fa che te me l’ebi mostrò, e che te no me ‘l puossi mostrare adesso, ché adesso a’ he anche de besogno? No sê-tu che agno dí se magna? Se me bastasse un pasto al’ano, te porissi dire. Mo’ el besogna che a’ magne ogni dí, e perzò besognerae che te me ‘l poíssi mostrare anche adesso, ché adesso he de besogno. RUZANTE Poh, mo’ el se dé pur far deferinçia da om a omo. Mi, com te seí, a’ son om da ben e om compío. GNUA [interrompendolo] Mo’ a’ la fazo ben. Mo’ el ghe è an deferinçia da star ben a star male. Aldi, Ruzante: s’a’ cognossesse che te me poíssi mantegnire, che me fa a mi?, a’ te vorae ben mi, intiendi-tu? Mo’ com a’ penso che te si’ poverom, a’ no te posso vêre. No che a’ te vuogie male, mo’ a’ vuogio male ala to sagura: ché a’ te vorae vêre rico, mi, azò a’ stassem ben mi e ti. RUZANTE [avvilito] Mo’, se a’ son povereto, a’ son almanco leale. GNUA Mo’ che me fa ste tuò’ lealtè, s’te no le può mostrare? Che vuò-tu darme? Qualche peogion, an? RUZANTE Mo’ te sê pure che, se aesse, a’ te darae, com t’he zà dò. Vuò-tu ch’a’ vaghe a robare e a farme apicare? Me consegere-tu mo’? GNUA Mo’ vuò-tu ch’a’ viva de agiere? E che a’ staghe a to speranza? E che a’ muora al’ospeale? Te n’iè tropo bon compagno, ala fé, Ruzante. Me consegiere-tu mo’ mi? RUZANTE Pota, mo’ a’ he pur gran martelo de ti, mo’ a’ sgangolisso. Mo’ no heítu piatè? GNUA E mi he pur gran paura de morir da fame, e ti no te ‘l pinsi. Mo’ n’heí-tu consinçia? El ghe vuol altro ca vender radicio né polizuolo. Com fazo, ala fé, a vivere? GNUA Che mi fa che tu me l’abbia mostrato, e che non me lo possa mostrare adesso? Perché adesso ne ho anche bisogno. Non sai che ogni giorno si mangia? Se mi bastasse un pasto all’anno, potresti parlare. Ma bisogna che mangi ogni giorno, e perciò bisognerebbe che tu me lo potessi mostrare anche adesso, perché adesso ne ho bisogno. RUZANTE Oh, ma si deve pur fare differenza tra uomo e uomo. Io, come sai, sono uomo dabbene e uomo compito. GNUA Sicuro che la faccio. Ma c’è anche differenza tra star bene e star male. Senti, Ruzante: se io sapessi che tu mi puoi mantenere, che mi fa a me? ti vorrei bene, io, intendi? Ma quando penso che sei un poveruomo, io non ti posso vedere. Non che voglia male a te, ma voglio male alla tua disgrazia; ché ti vorrei vedere ricco, io, acciò che stessimo bene, io e te. RUZANTE Ma se sono povero, sono almeno leale. GNUA E che me ne faccio, io, delle tue lealtà, se non me le puoi mostrare? Che vuoi darmi? Qualche pidocchio, forse? RUZANTE Ma sai pure che, se avessi, ti darei, come ti ho già dato. Vuoi che vada a rubare e a farmi impiccare? Mi consiglieresti cosí? GNUA E tu vuoi che viva d’aria, e stia qua a sperare in te, e che muoia all’ospedale? Non sei mica un buon compagno, in fede mia, Ruzante. Mi consiglieresti cosí, tu? RUZANTE Potta, ma io ho una gran passione per te, io spasimo. Ma non hai pietà? GNUA E io ho invece una gran paura di morire di fame, e tu non ci pensi. Ma non hai coscienza? Ci vuol altro che vendere radicchio o borragine. Come faccio, in fede mia, a vivere?
390 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
RUZANTE Pota, mo’ s’te me arbandoni, a’ moriré d’amore. A’ muoro, a’ te dighe che a’ sgangolo. GNUA E mi l’amore m’è andò via dal culo per ti, pensanto che te n’hê guagnò com te dîvi. RUZANTE Pota, te heí ben paura che ‘l ne manche. No manca zà mè... a robare. GNUA Pota, te hê pur el gran cuore e tristi lachiti. A’ no vego niente, mi. [Lo guarda con disprezzo da capo a piedi]. RUZANTE Pota, mo’ a’ no son se lomé arivò chive... RUZANTE Potta, ma se tu mi abbandoni, morirò d’amore. Muoio, ti dico che spasimo. GNUA E a me l’amore m’è andato via dal culo per te, pensando che non hai guadagnato come dicevi. RUZANTE Potta, hai ben paura che [la roba] ci manchi. Non manca mai, [se si va] a rubare. GNUA Eh sí, hai proprio un gran cuore, e triste gambe. Non vedo niente, io. RUZANTE Potta, ma sono appena arrivato qui...
Analisi del testo Ruzante Contadino dell’entroterra di Padova, costretto a lasciare la sua vita grama nei campi per la guerra, Ruzante è fuggito dal campo di battaglia e dopo alcuni giorni di cammino arriva a Venezia. È lacero, ancora più miserabile di prima, le sue speranze di arricchirsi con il bottino di guerra sono tutte miseramente fallite e gli resta solo il ricordo della gran paura avuta in battaglia.
Uno sfondo storico-sociologico reale Il Parlamento de Ruzante prende spunto da una precisa situazione storico-sociale: nella figura e nella vicenda del protagonista si rispecchia una condizione reale e una specifica categoria sociale, quella dei contadini dell’entroterra arruolati in massa (nelle cosiddette cernide) dalla Repubblica di Venezia ai tempi della Lega di Cambrai. Nel 1509, nella battaglia di Agnadello, l’esercito veneziano era stato duramente sconfitto dagli eserciti della Lega ed è questo il contesto in cui Beolco-Ruzante ha immaginato la propria opera. Quello che Beolco ci presenta attraverso le figure di Ruzante e della Gnua è un mondo contadino sconvolto, che ha perso la sua identità una volta sradicato dal suo ambiente. Allontanato dalle campagne, Ruzante non è più nessuno, la guerra ha stravolto la sua stessa personalità (estremamente indicativo al proposito è il dubbio formulato da Ruzante: se non fosse per la capacità di mangiare dubiterebbe addirittura di essere vivo). Allo stesso modo Gnua, trapiantata forzatamente in città, ha smarrito la propria natura genuina di villana, ha tradito per bisogno la fedeltà coniugale e si ritrova prostituta nelle mani di un bravaccio, che però almeno le assicura il pane quotidiano.
L’“ottica dal basso” e il realismo teatrale di Beolco-Ruzante Il tipo del contadino sensuale, materiale, violento era tradizionalmente ritratto, con l’obiettivo di far ridere, nella satira del villano, ma qui viene invece impiegato con potente volontà realistica. In un certo senso la satira del villano è il codice letterario di riferimento a cui Ruzante attinge, perché familiare al pubblico colto cui egli comunque si rivolge, ma per svuotarlo del suo obiettivo di divertimento e trasformarlo in impietoso ritratto sociale. Quello che cambia è sicuramente il punto di vista adottato dall’autore, che è quello del mondo di Ruzante: la sua è un’ottica radicalmente “dal basso”, la scelta di una focalizzazione interna al personaggio così totale che ha ricordato ai critici l’“eclisse dell’autore” verghiana (➜ V3A). In questo modo Beolco sottrae il suo personaggio alla dimensione satirico-parodica per consegnarlo passo dopo passo alla dignità della tragedia. Ruzante si svincola dalle convenzioni teatrali e letterarie per ritrarre con crudezza realistica il personaggio, dietro il quale si profila un’intera categoria sociale, la sua miseria, la sua condizione di vita scandita da bisogni
Il teatro umanistico-rinascimentale 2 391
elementari: il bisogno di cibo, il desiderio della “roba”, il bisogno di sesso, la paura fisica sono gli orizzonti istintuali in cui vive e pensa Ruzante e in cui pensa anche la più pragmatica Gnua. Orizzonti che si contrappongono alla prospettiva idealizzante (e quindi deformante) della letteratura idillico-pastorale di derivazione classicistica e più in generale ai modelli elitari della cultura dominante della corte. Ne risulta «una delle rappresentazioni più vere e più alte che del mondo subalterno annoveri la letteratura italiana» (S. Guglielmino). Allo stesso modo, a differenza di altri commediografi del tempo, Ruzante impiega il dialetto pavano non per far ridere, ma come lingua reale del mondo contadino. Il programma del Piccolo Teatro di Milano per la rappresentazione della Moscheta di Ruzante con Franco Parenti (1970).
La Moscheta di Ruzante, in uno storico allestimento del Piccolo Teatro di Milano nel 1955-56 con Giulio Bosetti e Cesco Baseggio.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Riassumi in 5 righe il contenuto del monologo di Ruzante. ANALISI 2. Pur nella sua brevità, il monologo di Ruzante presenta un quadro significativo della guerra visto dalla parte di un contadino arruolato. Indica gli aspetti più rilevanti di tale rappresentazione. 3. Il dialogo tra Ruzante e Gnua è come un “dialogo tra sordi”: spiega che cosa contrappone i due personaggi e le ragioni che impediscono loro di trovare un modo di intendersi. LESSICO 4. Nei due passi ci sono molte interiezioni ed espressioni “basse” attribuite sia a Ruzante sia alla Gnua. Rintracciale e spiega il motivo del loro utilizzo.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Che cosa differenzia la rappresentazione che Ruzante dà del mondo contadino rispetto a testi come l’Arcadia di Sannazaro da un lato e rispetto alla satira del villano dall’altro? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Attraverso precisi riferimenti ai due testi spiega la definizione che il critico Zorzi ha dato del teatro di Ruzante come di un «teatro della crudeltà».
Fissare i concetti Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento 1. In cosa consiste la lauda drammatica del Medioevo? 2. Quali sono le tre fasi della rinascita del teatro laico nell’Umanesimo? 3. Quali sono gli elementi costanti della commedia rinascimentale? 4. Quali sono i caratteri del dramma pastorale? 5. Perché è importante l’aspetto scenografico nelle rappresentazioni teatrali dell’Umanesimo e del Rinascimento? 6. Di cosa tratta La Calandria di Bibbiena? 7. Quali sono le caratteristiche della commedia La Veniexiana? 8. Quale è l’originale rappresentazione della corte romana che realizza Aretino nella Cortigiana? 9. Perché il teatro di Ruzante si può definire “controcorrente” 10. Di cosa tratta il Parlamento de Ruzante?
392 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
Quattrocento e cinquecento Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
Sintesi con audiolettura
1 Le forme teatrali del Medioevo
Dai drammi liturgici alle sacre rappresentazioni Nel Medioevo il teatro, a parte le performances dei giullari, consiste esclusivamente in manifestazioni volte a testimoniare lo spirito religioso, che coinvolgevano la collettività dei fedeli. Nei cosiddetti drammi liturgici (inizio sec. X), per rendere più coinvolgente il rito della messa, venivano “drammatizzati”, cioè trasformati in scene, momenti della vita dei santi e di Cristo o importanti episodi biblici. I drammi liturgici utilizzavano comunque per lo più il latino e la rappresentazione si svolgeva all’interno della chiesa. In una fase successiva (secoli XIII-XIV) con lo sviluppo dei movimenti penitenziali si diffondono forme di testimonianza religiosa (le laude) in lingua volgare, prodotte e recitate dalle confraternite di fedeli. Le laude assumono spesso al loro interno elementi dialogati tra due o più personaggi che costituiscono una forma embrionale di teatro: si parla per questo di lauda drammatica. Uno dei primi esempi è la celebre lauda drammatica Donna de Paradiso di Jacopone da Todi, in cui il dramma della Passione è rappresentato dal punto di vista centrale di Maria, evocata soprattutto nel suo dolore di madre. Dalla lauda drammatica si svilupperanno le sacre rappresentazioni, forme di spettacolo a soggetto religioso, recitate sul sagrato delle chiese che continuano almeno fino al Quattrocento in particolare a Firenze, accentuando sempre più gli aspetti spettacolari della rappresentazione.
2 Il teatro umanistico-rinascimentale
Il teatro di corte La nascita del teatro moderno si colloca nel Rinascimento e si collega strettamente alla vita della corte signorile: le occasioni di spettacolo non sono più legate solo all’ambito religioso ma a eventi importanti nella vita della famiglia principesca. Con l’Umanesimo si riscoprono i grandi testi teatrali dell’antichità (in particolare le commedie di Plauto e Terenzio) riportati alla loro veste originaria dalla filologia umanistica. Tale riscoperta e la diffusione di una poetica che induce a un rapporto di imitazioneemulazione dei classici sono alla base della nascita di un teatro laico (cioè a soggetto non religioso): inizialmente, nella corte vengono recitati i testi classici in latino, quindi, su iniziativa del signore, li si traduce e infine si cerca di creare tragedie e soprattutto commedie originali.
Sintesi Quattrocento e cinQuecento
393
In questo contesto, un ruolo significativo rivestono, per la storia del teatro, le corti padane, e in particolare Ferrara. Qui il luogo teatrale è il cortile del palazzo ducale. Il passaggio successivo sarà quello di spostare la rappresentazione teatrale all’interno del palazzo, in sale appositamente attrezzate e riparate: ciò costituisce la base dei primi teatri. Negli stessi anni, inoltre, sempre a Ferrara, gli eventi teatrali si svolgono con continuità, secondo una vera e propria stagione. In questa fase, Ludovico Ariosto mette in scena per il carnevale del 1508 la Cassaria, con la quale inizia ufficialmente la storia della commedia italiana: non è più un semplice volgarizzamento dei testi classici ma è una commedia nuova in volgare. Tragedia e commedia I due principali generi teatrali del Rinascimento sono la tragedia e la commedia: la tragedia rappresenta personaggi più elevati rispetto alla comune umanità (come gli eroi della mitologia classica) e utilizza uno stile sostenuto; la commedia, al contrario, presenta personaggi che appartengono al ceto medio o basso, immersi in situazioni quotidiane, e impiega un linguaggio meno elevato. Sia le commedie sia le tragedie, con pochissime eccezioni, rispettano le tre unità – di tempo, di luogo e d’azione – che erano ricondotte a quanto affermato nella Poetica aristotelica a proposito del teatro tragico greco. La commedia è certamente la forma più significativa delle forme teatrali, in quanto risponde maggiormente al gusto edonistico rinascimentale, rispecchia più fedelmente le situazioni di vita della corte e documenta la visione laica della vita tramite il veicolo della comicità. Si delineano progressivamente, e saranno stabilmente definiti attorno al 1540, alcuni elementi costanti: lo scenario realistico, la struttura in cinque atti con un prologo, l’intreccio, la mancanza di definizione psicologica dei personaggi, la dimensione erotica, i meccanismi della comicità, lo stile medio o basso. All’interno della ricca, seppur non sempre di alto livello, produzione di commedie lungo il Cinquecento, emergono La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, la Veniexiana di autore ignoto e, soprattutto, la Mandragola di Niccolò Machiavelli. La commedia anticlassicistica di Aretino e Ruzante Pietro Aretino e Angelo Beolco detto “Ruzante” – oltre al Machiavelli della Mandragola – assumono una posizione che vuole distinguersi, e contrapporsi, rispetto alle forme della commedia ispirata ai classici. Con
394 Quattrocento e Cinquecento 7 Il teatro. Dalle origini medievali al Cinquecento
La cortigiana, ossia la “commedia della corte”, Aretino mette in scena non tipi astratti ma personaggi veri abbastanza riconoscibili dal pubblico, che appartenevano alla cronaca cortigiana del tempo e ritrae così, in forma caricaturale, la corte di Roma, di cui critica aspramente i vizi e la corruzione. La prima opera di Ruzante è la Pastorale: qui il mondo idillico dei pastori è messo di fronte a quello sanguigno e rozzo dei contadini padovani. Nell’opera successiva, la Betìa, una commedia in cinque atti in versi e integralmente in dialetto pavano, Ruzante enuncia per la prima volta la sua poetica del “naturale”: «Il naturale tra gli uomini e le donne è la più bella cosa che ci sia, e perciò ognuno deve andare per la via diritta e naturale, perché, quando tu cavi la cosa dal naturale, essa ci imbroglia». Criticando la poesia bucolica che ritrae il mondo rurale in modo appunto “innaturale” e con un linguaggio convenzionale, Ruzante rivendica l’uso del dialetto pavano delle campagne. Infine, nei Dialoghi in lingua “rustica”, tra cui si distingue il Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, emerge tutta l’originalità del teatro di Ruzante e la sua vocazione al realismo.
Zona Competenze Competenza 1. Prepara una presentazione mediante slides per esporre alla tua classe le caratteristiche digitale del teatro umanistico-rinascimentale; prova a fare anche una ricerca iconografica. Scrittura giornalistica
2. Scrivi un articolo (max 2000 battute) per il giornale della scuola sulla novità del teatro di Ruzante.
Recensione
3. Scrivi una recensione sul testo di Bernardo Divizi da Bibbiena tratto da La Calandria (➜ T2 ).
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
395
Quattrocento Quattrocento e cinquecento e cinquecento CAPITOLO
8 Niccolò Machiavelli LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Machiavelli il sorriso enigmatico di niccolò Della persona fu ben proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente nell’ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura; ma soltanto Leonardo, col quale ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in pensiero, col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso. R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Sansoni, Firenze 1969
L’ultimo sogno Si racconta che prima di morire, il 21 giugno 1527, Niccolò Machiavelli abbia raccontato agli amici che gli restarono vicini fino all’ultimo di un suo sogno, che diventò poi celebre nei secoli come «il sogno di Machiavelli». Disse di aver visto in sogno una schiera di uomini, malvestiti, dall’aspetto misero e sofferente. Chiese loro chi fossero e quelli gli risposero «siamo i santi e i beati; andiamo in paradiso». Vide poi una moltitudine di uomini di aspetto nobile e grave, vestiti con abiti solenni, che discutevano solennemente di importanti problemi politici. Riconobbe fra di essi i grandi filosofi e storici dell’antichità che avevano scritto opere fondamentali sulla politica e sugli stati, fra i quali Platone, Plutarco e Tacito. Chiese anche a loro chi fossero e dove andassero. «Siamo i dannati dell’inferno», gli risposero. Terminato il racconto, spiegò agli amici che preferiva di gran lunga andarsene all’inferno per ragionare di politica con i grandi uomini dell’antichità piuttosto che in paradiso a morire di noia con i beati e i santi. Non sappiamo per certo se la storia del sogno di Machiavelli sia vera o inventata, ma ho voluto ricordarla perché credo che sia il modo migliore di presentare l’uomo di cui vorrei raccontare la vita e le idee. Nella narrazione del sogno ci sono infatti tutte le qualità di Niccolò: burlone, irriverente, dotato di un’intelligenza finissima; poco preoccupato dell’anima, della vita eterna e del peccato; affascinato dalle cose e dagli uomini grandi. Grandi erano per lui soprattutto i principi, e i governanti di repubbliche; gli uomini che diedero buone leggi ai loro popoli, che li strapparono dalla schiavitù e ne fecero popoli liberi, come Mosè. Grandi erano le vicende degli Stati e dei governi che decidevano della vita e dei destini di tanti uomini. Grande era insomma per Machiavelli la politica. Non c’è nulla di strano che in punto di morte abbia detto di preferire l’inferno in compagnia dei grandi politici che il paradiso con i santi. M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Laterza, Roma-Bari 1998
396
Commediografo, storico, politologo, il fiorentino Niccolò Machiavelli è una delle maggiori figure della cultura italiana del Rinascimento. Personalità eclettica e aperta, Machiavelli ha lasciato un’impronta rilevante in vari generi letterari. Ma la celebrità addirittura mondiale dello scrittore è dovuta al Principe, l’opera forse più discussa della letteratura politica di tutti i tempi, che ha sconvolto con le sue sconcertanti verità l’ottica moralistica con cui tradizionalmente si valutava l’azione politica: con Machiavelli – in nome della «verità effettuale» a cui lo scrittore si attiene nella sua analisi – la politica si rende autonoma dalla morale; diventa, o cerca di diventare, “scienza”. E di questa nuova “scienza” Machiavelli enuncia i princìpi basilari nel suo capolavoro, destinato a suscitare reazioni e polemiche a tutt’oggi non ancora sopite.
1 ritratto d’autore 2 Il Principe politologo, 3 Machiavelli storico e letterato 397 397
1 VIDEOLEZIONE
Ritratto d’autore 1 Una vita segnata dalla passione politica La formazione, i libri amati Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio 1469 da una famiglia fiorentina antica, ma ormai decaduta: il padre Bernardo, dottore in legge, è un uomo abbastanza colto da ospitare nella biblioteca di casa un buon numero di testi classici antichi e “moderni” (Dante, Petrarca e Boccaccio). Proprio nella biblioteca paterna il giovane Niccolò può leggere un libro che gli sarà sempre caro, la Storia di Roma di Tito Livio, a cui attingerà per comporre i suoi Discorsi sulla prima Deca. Poco o nulla sappiamo della formazione di Machiavelli. Di certo dispone di una buona cultura umanistica: il giovane Machiavelli trascrive di suo pugno il De rerum natura di Lucrezio, certo per poterne avere una copia a disposizione da leggere quando vuole (e Lucrezio può aver influenzato il costruirsi in Machiavelli di un’ideologia “laica” se non addirittura materialista). Ma le sue letture predilette furono sempre gli storici greci (Tucidide, Plutarco) e soprattutto latini (Tacito e Livio, appunto). Segretario della Repubblica. Comincia una vita in viaggio… Il 28 maggio 1498, cinque giorni dopo l’esecuzione pubblica di Savonarola, Niccolò Machiavelli diventa Segretario alla seconda Cancelleria, che si occupava degli affari interni e anche della politica estera di Firenze: un ruolo prestigioso, soprattutto data la sua giovane età (non era ancora trentenne). Quali erano i compiti di un Segretario della Cancelleria? Si potrebbe sintetizzarne il ruolo come quello di un “osservatore politico” presso potentati italiani e stranieri,
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva 1494
Discesa di Carlo VIII in Italia. Cacciata dei Medici da Firenze e instaurazione della repubblica governata da Savonarola.
1492
Morte di Lorenzo il Magnifico.
1470
1460
1480
1500
1490 1502-1503
1469
Nasce a Firenze Niccolò Machiavelli.
1498
Caduta e morte di Savonarola e instaurazione di una repubblica oligarchica.
È inviato dalla Repubblica di Firenze presso Cesare Borgia e a Roma segue i lavori del conclave da cui uscirà eletto papa Giulio II. Dalle missioni come osservatore politico derivano «relazioni» come la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino... e Del modo di trattare i popoli...
1498-1512
È eletto Segretario della seconda Cancelleria della Repubblica. Compie diverse missioni come osservatore politico, la prima delle quali è presso Luigi XII, re di Francia.
1506
Si batte per dotare la Repubblica fiorentina di armi proprie. Caldeggia l’istituzione di una nuova magistratura, i Nove della milizia, di cui viene nominato segretario. 1501
Sposa Marietta Corsini dalla quale avrà sei figli.
398 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
1507-10
Si reca presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo e quindi nuovamente in Francia.
con l’incarico di fornire al governo della Repubblica dettagliate informazioni su aspetti militari e politici. Per assolvere al suo delicato compito il giovane Segretario conta su un’équipe di “assistenti”. Con i suoi collaboratori, quando è in missione, Machiavelli scambia lettere dalle quali si deducono un rapporto amichevole, scherzoso e il gusto di formare non solo un gruppo di “tecnici della politica”, ma soprattutto di amici affiatati.
L’esecuzione di Savonarola in piazza della Signoria, 1498, Firenze, Museo San Marco. Girolamo Savonarola, scomunicato dal papa Alessandro VI, fu accusato di eresia e condannato ad essere impiccato e arso al rogo. Fu pubblicamente giustiziato il 23 maggio 1498.
L’“esperienzia delle cose moderne”: le missioni politico-diplomatiche Nel ruolo di Segretario è implicita la necessità di viaggiare (un obbligo che a Machiavelli, curioso e irrequieto di natura, non dispiace affatto). Nei quattordici anni del suo incarico di Segretario (1498-1512) Machiavelli compie numerose missioni politico-diplomatiche sia in Italia sia all’estero (tra di esse, particolarmente importanti furono quelle presso il re di Francia Luigi XII nel 1500 e nel 1510 e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo nel 1507, 1508 e 1509). Missioni faticose e delicate, che gli permettono di conoscere da vicino i meccanismi della “grande politica”, il duro pragmatismo che ne ispira le scelte e di acquisire così quella «lunga esperienzia delle cose moderne» che, insieme alla «lezione [lettura] delle antique», starà alla base dell’ideazione del Principe e dei Discorsi. Machiavelli si trova a constatare di persona la grave crisi non solo di Firenze ma degli stati italiani, militarmente deboli e politicamente instabili di fronte alla solidità e all’aggressiva politica delle grandi potenze europee (Francia, Spagna, Impero). Nel 1502-1503, in due diverse occasioni, Machiavelli incontra e conosce da vicino il duca Valentino, Cesare Borgia, che stava cercando di costruire uno stato forte
1511
1513
Erasmo pubblica l’Elogio della follia.
1527
Giovanni de’ Medici è eletto papa col nome di Leone X.
1512
1517
I Medici ritornano a Firenze; viene cacciato il gonfaloniere Pier Soderini.
Lutero pubblica le 95 Tesi. Inizia la riforma protestante.
1510
1520
Inizio del conflitto tra Carlo V e Francesco I di Francia.
1520
Il sacco di Roma indebolisce la posizione di Clemente VII. A Firenze il governo dei Medici viene rovesciato e nuovamente instaurata la repubblica.
1530
1517-19
Conclude i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, iniziati prima della stesura del Principe. 1515
Inizia a frequentare a Firenze le riunioni degli Orti Oricellari. 1512
Machiavelli viene allontanato dal suo ruolo, e condannato al confino per un anno.
1521 1518-1819
Compone la Mandragola, lavora all’Arte della guerra.
Pubblica il dialogo l’Arte della guerra.
1527
Muore a Firenze.
1513
È imprigionato e torturato con l’accusa di aver partecipato a una congiura antimedicea. Si ritira nella sua tenuta dell’Albergaccio presso San Casciano. Inizia la composizione del Principe che terminerà nel 1514.
1520
Per volontà del cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII) riceve l’importante incarico di scrivere una storia di Firenze: consegnerà le Istorie fiorentine nel 1525 a Clemente VII.
Ritratto d’autore 1 399
nel centro d’Italia che avesse come base i territori pontifici (Cesare Borgia era figlio naturale del papa Alessandro VI) e si estendesse verso la Toscana. La spregiudicata condotta politica del duca (arriva a far uccidere spietatamente a tradimento i suoi avversari politici) colpisce profondamente Machiavelli: una decina d’anni dopo, l’ideazione della figura del Principe risentirà non poco della forte suggestione esercitata dal personaggio del Valentino sullo scrittore (➜ T6 ). La milizia cittadina: un progetto deludente La stima che Machiavelli si acquista (il potente gonfaloniere Pier Soderini aveva particolare fiducia in lui) induce la Signoria ad accogliere nel 1506 la sua proposta di istituire una milizia cittadina per porre fine all’usanza di utilizzare milizie mercenarie (che Machiavelli critica duramente in più parti delle sue opere, oltre che nel trattato sull’Arte della guerra). Dopo aver dato una buona prova (1509), il progetto risulterà poi fallimentare: la nuova milizia subisce a Prato, due anni dopo, una clamorosa sconfitta da parte delle truppe imperiali, che marciano verso Firenze per restaurarvi il potere dei Medici.
PER APPROFONDIRE
Il cosiddetto Albergaccio, a San Casciano in Val di Pesa, dove visse Niccolò Machiavelli durante l’esilio da Firenze.
La carriera stroncata di un promettente politico Nel 1512 i Medici ritornano al potere a Firenze e l’anno successivo Giovanni de’ Medici (figlio del Magnifico) viene eletto papa col nome di Leone X. La restaurazione del potere mediceo comporta l’inevitabile liquidazione dell’assetto politico-amministrativo repubblicano. Machiavelli è tra i primi “licenziati”: viene rimosso dal suo incarico di Segretario, obbligato al confino entro il territorio fiorentino e al versamento di una somma come garanzia. È poi addirittura incarcerato e torturato, con l’accusa (poi risultata infondata) di aver partecipato a una cospirazione contro i Medici. Da quel momento la sua carriera politica si interrompe e, anche quando risalirà la china, di fatto non riuscirà più a occupare le posizioni di prestigio che aveva avuto. Vive il periodo del confino all’Albergaccio, una sua proprietà presso San Casciano, non molto distante da Firenze, lontano dagli affari pubblici, dedicandosi a futili, concrete occupazioni legate alla gestione del podere e alla vita banale di un piccolo borgo agricolo: una condizione frustrante per un uomo attivo e impegnato come lui, che Machiavelli ci ha descritto mirabilmente nella celebre lettera al Vettori (➜ T2 ).
I rapporti di un acuto osservatore politico Dalle missioni compiute da Machiavelli deriva una gran quantità di scritti: dalle lettere ufficiali mandate al governo fiorentino, a rapporti più strutturati, come Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503) o la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino per ammazzar Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503), resoconto del tradimento perpetrato dal Valentino ai danni dei suoi avversari. Nel capitolo VII del Principe, interamente dedicato al ritratto del Valentino, Machiavelli presenterà l’azione come esempio di efficienza politica. Dedicati all’analisi politica di due grandi potenze straniere
400 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
sono il Ritratto di cose di Francia (1510) e il Ritratto delle cose della Magna (1512); della Francia Machiavelli ammira l’avvenuto processo di unificazione che ne fa uno stato moderno, dotato di un potente esercito nazionale; della Germania la ricchezza e la forza militare (anche se ne critica la struttura politica e le divisioni interne). In queste relazioni, che furono molto apprezzate, già si possono rintracciare tratti della successiva riflessione machiavelliana: la tendenza ad analizzare in modo lucidamente razionale i comportamenti e lo stile incisivo e concreto.
Sguardo sulla storia La vita politica a Firenze negli anni del segretariato di Machiavelli La vita politica di Firenze tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento è caratterizzata da una grande instabilità, una caratteristica di cui occorre tenere conto per poter comprendere le riflessioni presenti nel Principe e nei Discorsi, le principali opere di Machiavelli. La cacciata dei Medici (1494) aveva permesso l’instaurazione di un regime repubblicano dominato per quattro anni dalla forte personalità del frate domenicano Girolamo Savonarola (1452-98), che esercita sulla popolazione una forte suggestione con le sue veementi prediche contro la corruzione dilagante tra i cittadini e nel clero stesso. Egli orienta la vita politica fiorentina in senso radicalmente democratico, imponendo l’allargamento del corpo politico con l’istituzione del Consiglio Maggiore (o Grande), al quale vengono attribuiti poteri molto ampi sul piano sia legislativo e giudiziario sia politico: eleggere i nove componenti della Signoria e le altre magistrature. Era previsto, però, che i membri del Consiglio rimanessero in carica solo sei mesi e ciò introduce un elemento di instabilità nella gestione del potere. Gli aristocratici riescono allora a far varare una riforma costituzionale che trasformava in una carica a vita la più importante e potente carica politica del governo a Firenze, quella di Gonfaloniere: l’obiettivo era quello di limitare l’influenza democratica sulla gestione dello stato. Il nuovo corso porta all’eliminazione del Savonarola, inviso alla curia romana: condannato al rogo come eretico, è giustiziato in piazza della Signoria il 23 maggio 1498. Pochissimi giorni dopo Machiavelli inizia la sua carriera politica nella repubblica.
Nel 1502 viene eletto Gonfaloniere a vita Pier Soderini, ma questa soluzione, pur positiva per certi aspetti, non riuscì ad arrestare l’azione di coloro che si muovevano a favore di una restaurazione medicea, mossi da concreti interessi e dall’idealizzazione di una continuità di governo che quella famiglia aveva assicurato. La vita della rinnovata repubblica fiorentina dura meno di vent’anni (1494-1512). Mutata la situazione internazionale, nel 1512 i Medici, sostenuti dalla Spagna, tornano alla guida di Firenze.
Alessandro de’ Medici ritratto da Giorgio Vasari, particolare, 1534 (Galleria Palatina, Firenze). Nipote di Lorenzo il Magnifico, fu l’ultimo discendente del ramo principale della famiglia (sullo sfondo del dipinto si scorge la cupola del Brunelleschi).
La nascita di un grande scrittore Proprio dalla dolorosa condizione dell’isolamento scaturiscono d’altra parte le sue opere maggiori, tutte composte dopo l’emarginazione dalla vita pubblica: impossibilitato a esprimere nell’azione la sua vocazione di osservatore politico, Machiavelli si rifugia nell’attività intellettuale, fissando e organizzando le riflessioni elaborate negli anni sui problemi politici. È da questa condizione intellettuale e psicologica che nascono Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Alla stesura delle opere politiche Machiavelli alterna la composizione di scritti letterari di argomento leggero (che egli chiamava scherzosamente badalucchi), come la commedia Mandragola o la novella Belfagor arcidiavolo, opere che testimoniano il lato beffardo e scherzoso della sua multiforme personalità umana. L’ambiguo rapporto con i Medici. Gli ultimi anni Durante gli anni della sua emarginazione dalla vita politica, Machiavelli non vive in un isolamento totale, ma intrattiene rapporti con amici importanti, come Guicciardini e Vettori (➜ T2 ); inoltre, a partire probabilmente dal 1515, frequenta assiduamente le riunioni di un cenacolo umanistico che si teneva a Firenze presso gli Orti Oricellari, cioè i giardini di Palazzo Rucellai. I partecipanti erano intellettuali raffinati, per lo più giovani, i quali – anche per suggestione dalla storiografia classica – nutrivano ideali politici antimedicei. Nei Discorsi, come vedremo, sono appunto rispecchiati temi e posizioni del dibattito degli Orti Oricellari. Ritratto d’autore 1 401
Nonostante ciò, in quegli stessi anni Machiavelli continua a cercare contatti con i Medici, che gli consentano di rientrare sulla scena politica: a questo fine dedica Il Principe a Lorenzo de’ Medici, con la speranza di ingraziarselo. Tentativi che solo parecchi anni dopo, nel 1520, producono un risultato tangibile: grazie all’intercessione di Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII, Machiavelli ottiene un incarico come storico ufficiale; nascono da questa esperienza le Istorie fiorentine. Revocata nel 1525 l’interdizione dai pubblici uffici, rivestirà ancora qualche incarico e parteciperà a missioni diplomatiche. L’atteggiamento contraddittorio di Machiavelli può essere forse spiegato pensando che egli si sentiva un competente “tecnico” della politica, al di là delle sue specifiche posizioni ideologiche e cercava in ogni modo di riprendere la propria funzione. D’altra parte, quando i Medici furono nuovamente cacciati nel 1527 e a Firenze la gestione della cosa pubblica tornò a cambiare, a Machiavelli fu negata la possibilità di riprendere il suo vecchio incarico di Segretario, probabilmente per le ambiguità del suo contegno politico. Niccolò muore, deluso e amareggiato, quello stesso anno, il 21 giugno 1527. Verrà sepolto nella Basilica di Santa Croce. Poche settimane prima della sua morte Roma veniva presa d’assalto e saccheggiata dalle truppe dei lanzichenecchi e da fanti spagnoli. Una tragedia che Machiavelli aveva previsto: ma il messaggio del Principe, volto a evitarla, non era stato per nulla preso in considerazione.
2 Le lettere di Machiavelli: l’acuto osservatore politico e l’uomo Il lato umano e professionale Nel periodo in cui è segretario della seconda cancelleria della Repubblica, Machiavelli scrive molte lettere ufficiali, anche dalle varie missioni che lo portano in diverse località in Italia e all’estero. Si tratta di lettere legate a occasioni specifiche, ma rivestono comunque interesse per gli studiosi: rivelano infatti un osservatore perspicace e attento alle diverse realtà politiche che si trova a incontrare e da esse traspare l’ottica realista che caratterizza anche le maggiori opere di Machiavelli. Anche nell’epistolario privato vengono trattati spesso, in rapporto ai destinatari, complessi problemi politici, ma non mancano lettere in cui lo scrittore racconta episodi di vita vissuta con immediatezza e umorismo. Dalle lettere di Machiavelli non esce – come invece da quelle di Petrarca – un’immagine idealizzata costruita a tavolino, ma il ritratto “dal vivo” dell’autore, capace di alternare momenti di riflessione sui gravi problemi del suo paese a occasioni di corrispondenza rilassanti e scherzose, in cui indulgere con gli amici a battute anche volgari, nello spirito tipico del costume toscano. La piena accettazione della vita umana in ogni suo aspetto, anche il più banale, l’inclinazione agli amori, agli scherzi, il contatto ricercato con i più vari aspetti del quotidiano e con la più varia umanità, ci può spiegare come nella stessa persona potessero trovar posto le riflessioni del Principe e le battute della Mandragola. Questo carattere dell’epistolario di Machiavelli si mantiene anche nelle numerose lettere che, dopo l’estromissione dagli incarichi pubblici, egli scambia con l’amico Francesco Vettori, uomo politico di alto profilo e di grandi responsabilità. Importante è anche il gruppo di lettere scambiate con Francesco Guicciardini, anch’egli personaggio di primo piano nella vita politica del tempo, che aveva conosciuto nel 1521 e con il quale stringe un rapporto di sincera amicizia.
402 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Niccolò Machiavelli
Lode della varietà di comportamento (e di stile)
T1
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Lettera al Vettori del 31 gennaio 1515 Durante il forzato esilio all’Albergaccio, Machiavelli invia numerose lettere all’amico Francesco Vettori, nelle quali alterna riflessioni sulla situazione politica a notizie di carattere privato, spesso ispirate a un tono scherzoso e talvolta irriverente.
N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, a c. di G. Inglese, Rizzoli, Milano 1989
Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare1, et vedesse le diversità di quelle2, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora3 che noi fussimo huomini gravi, tutti volti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare altro pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta4, gli parrebbe 5 quelli noi medesimi essere leggieri, incostanti, lascivi, vòlti a cose vane5. Questo modo di procedere6, se a qualcuno pare sia vituperoso7, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; et chi imita quella non può essere ripreso8. Et benché questa varietà noi la solessimo fare in più lettere, io la voglio fare questa volta in una, come vedrete, se leggerete l’altra faccia9. 1 honorando compare: stimabile amico. 2 le diversità di quelle: le diverse tonalità di quelle. 3 hora: ora (va correlato al successivo dipoi). 4 voltando carta: girando pagina; più sotto, faccia, “facciata”.
5 gli parrebbe... vane: gli sembrerebbe (a chi ci leggesse) che noi stessi fossimo superficiali, volubili, impudichi, interessati a cose futili. 6 procedere: comportarsi (scrivendo in modo diverso). 7 vituperoso: rimproverabile.
8 ripreso: rimproverato. 9 io la voglio... l’altra faccia: Machiavelli precisa che la presente lettera avrà un carattere vario, come l’amico stesso constaterà se andrà avanti a leggere la facciata successiva.
Analisi del testo L’imitazione della realtà Nel breve passo qui proposto, tratto da una lettera del 31 gennaio 1515, Machiavelli rivendica il diritto ad accogliere nelle sue lettere toni diversi, in rapporto alla varietà della natura umana e della vita stessa. Questo modo di procedere all’autore sembra degno di lode, perché si ispira alla realtà, nonostante preveda che ci possa essere qualche critica.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo. ANALISI 2. Descrivi sinteticamente il “modo di procedere” di Machiavelli. Quale significato ha il riferimento all’imitazione della natura presente alla fine del passo?
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 3. Nelle lettere indirizzate agli amici, Machiavelli non dà di sé un’immagine idealizzata ma sceglie di rappresentarsi nella sua essenza più vera. Nei messaggi e nelle mail che scambi con i tuoi amici, ti metti a nudo e ti apri al confronto o cerchi di mascherare i tuoi più autentici sentimenti?
Ritratto d’autore 1 403
Niccolò Machiavelli
T2
L’ozio forzato all’Albergaccio e la nascita del Principe Lettera al Vettori del 10 dicembre 1513
N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, a c. di G. Inglese, Rizzoli, Milano 1989
AUDIOLETTURA
La più celebre lettera di Machiavelli è quella inviata il 10 dicembre 1513 al Vettori, allora ambasciatore presso la corte papale. La lettera è scritta in risposta a una precedente del Vettori, in cui quest’ultimo descrive la sua sfarzosa vita romana e le frequentazioni importanti che comportava la sua qualifica di diplomatico. Anche Machiavelli allora, con una punta di autoironia, descrive la sua giornata-tipo nell’ozio a cui era costretto dopo l’abbandono forzato degli incarichi pubblici. Importante, nella seconda parte della lettera, è il riferimento alla composizione del Principe, presentata come già avvenuta, anche se l’opera, come Machiavelli stesso precisa, era ancora soggetta alla revisione da parte dell’autore.
Magnifico oratori florentino Francischo Vectori apud Summum Pontificem, patrono et benefactori suo. Romae1. Magnifico ambasciatore. «Tarde non furon mai grazie divine2.» Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai 5 tempo senza scrivermi, et ero dubbio donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto3 scritto che io non fussi buono massaio4 delle vostre lettere; et io sapevo che, da Filippo e Pagolo5 in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Honne rihauto per l’ultima vostra de’ 10 23 del passato6, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto offizio publico7, et io vi conforto a seguire8 così, perché chi lascia i sua commodi9 per li commodi d’altri, so perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado10. E poiché la Fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, et aspettar tempo che la lasci fare qualche 15 cosa agl’huomini; e allora starà bene a voi durare più fatica, veghiar11 più le cose, et a me partirmi di villa12 e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia, e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla. Io mi sto in villa13, et poi che seguirno quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad 20 accozarli tutti, 20 dì a Firenze14. Ho infino a qui uccellato a’ tordi di mia mano15.
1 “Al magnifico oratore fiorentino Francesco Vettori presso il Sommo Pontefice, patrono e benefattore suo. A Roma”. Nelle lettere cancelleresche l’intestazione e la data per consuetudine erano in latino. 2 Tarde…divine: ripresa del v. 13 del Trionfo dell’eternità di Petrarca, qui utilizzato in chiave ironica per specificare che, anche se la lettera dell’amico è arrivata in ritardo, è comunque cosa gradita. 3 suto: stato. 4 buono massaio: custode discreto. Il timore di Machiavelli è che Francesco possa aver pensato che lui avesse divulgato il contenuto delle loro missive che, talvolta,
toccavano argomenti scottanti. 5 Filippo e Pagolo: Filippo Casavecchia, comune amico di Machiavelli e Vettori, e Paolo, fratello di Francesco Vettori. 6 Honne… passato: Machiavelli ha avuto la riprova dell’amicizia di Vettori grazie alla sua ultima lettera del 23 novembre scorso. 7 cotesto offizio publico: Francesco Vettori era ambasciatore dei de’ Medici a Roma, dove un membro della stessa famiglia, Giovanni de’ Medici, era papa con il nome di Leone X. 8 seguire: continuare. 9 sua commodi: i propri vantaggi.
404 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
10 saputo grado: serbata gratitudine. 11 veghiar: sorvegliare. 12 partirmi di villa: venire via da San Casciano.
13 in villa: in campagna. 14 poi che… a Firenze: da quando sono successe le ultime mie vicissitudini (Machiavelli allude non solo al suo allontanamento, ma alla triste e più recente esperienza del carcere e della tortura perché sospettato di aver complottato con altri contro i Medici) non sono stato più di venti giorni in tutto a Firenze. 15 Ho… mano: Mi sono dedicato fino a ora a cacciare personalmente i tordi.
Levavomi innanzi dì16, inpaniavo17, andavone oltre18 con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con e libri d’Amphitrione19; pigliavo el meno dua, el più sei tordi, et così stetti tutto novembre. Dipoi questo badalucco20, ancora che dispettoso et strano21, è mancato con mio dispiacere; et 25 qual la vita mia vi dirò22. Io mi lievo la mattina con el sole et vommene23 in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua hore a rivedere l’opere24 del giorno passato, et a passar tempo con quegli tagliatori25, che hanno sempre qualche sciagura alle mane26 o fra loro o co’ vicini. Et circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute27, et con Frosino da Panzano28 et con altri che voleano di 30 queste legne. Et Fruosino in spetie mandò per certe cataste senza dirmi nulla29, et al pagamento mi voleva rattenere30 10 lire, che dice haveva havere da me quattro anni sono31, che mi vinse a cricca32 in casa33 Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo34; volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro35; tandem36 Giovanni Macchiavelli vi entrò di mezzo, et ci pose d’accordo. Batista Guicciardini, 35 Filippo Ginori, Tommaso del Bene et certi altri cittadini, quando quella tramontana soffiava37, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; et manda’ne una a Tommaso, la quale tornò in Firenze per metà38, perché a rizzarla39 vi era lui, la moglie, le fante40, e figliuoli, che paréno el Gabburra quando el giovedì con quelli suoi garzoni bastona un bue41. Di modo che, veduto in chi era guadagno42, ho detto 40 agl’altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso43, et in spezie Batista, che connumera questa tra l’altre sciagure di Prato44. Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare45. Ho un libro sotto46, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo,
16 Levavomi innanzi dì: mi alzavo prima dell’alba. 17 inpaniavo: impaniavo, spalmavo la pania (una sostanza vischiosa) sulle trappole per cacciare. 18 andavone oltre: mi incamminavo. 19 parevo… Amphitrione: sembravo Geta quando tornava dal porto con i libri di Anfitrione. Machiavelli allude a una scena tratta da una novella quattrocentesca in ottave (Geta e Birria), ispirata all’Anfitrione del commediografo latino Plauto. Geta è lo schiavo di Anfitrione e reca sulle spalle il gran carico di libri che il padrone ha portato da Atene. Data la notorietà del testo al tempo di Machiavelli, il riferimento scherzoso doveva essere chiarissimo al Vettori. 20 badalucco: passatempo. 21 ancora che dispettoso et strano: seppure condito di fastidio (dispettoso) e insolito (Machiavelli allude al fatto che, dati i suoi impegni abituali, di solito non passava le giornate a cacciare tordi!). 22 et qual... vi dirò: e vi racconterò quale sia la mia vita. 23 vommene: me ne vado (vo); forma con doppio pronome enclitico (leggi vòmmene). 24 l’opere: i lavori. 25 tagliatori: boscaioli incaricati di tagliare le piante.
26 qualche sciagura alle mane: qualche litigio in corso. 27 io vi harei... intervenute: io avrei da raccontarvi mille belle cose che mi sono capitate. 28 Frosino da Panzano: un conoscente di Machiavelli del posto, come altri più sotto citati. 29 Et Fruosino… nulla: e Fruosino in particolare mandò a prendere quattro cataste di legna senza avvisarmi. 30 rattenere: trattenere. 31 che dice... sono: che dice che doveva riavere da me da quattro anni. 32 cricca: è un gioco di carte. 33 in casa: in casa di. Usuale nell’italiano antico la caduta della preposizione di davanti a un nome proprio. 34 fare el diavolo: andare su tutte le furie. 35 volevo… per ladro: volevo accusare il trasportatore che era andato (ito) a prelevare le cataste di essere un ladro. 36 tandem: in latino “infine”. Come era nell’uso delle cancellerie umanistiche e rinascimentali, Machiavelli inserisce spesso congiunzioni latine. 37 quando... soffiava: il freddo intenso causato dal vento di tramontana aveva indotto molti conoscenti (citati nel passo) ad approvvigionarsi di cataste di legna. 38 la quale... per metà: la quale (catasta, venduta a Tommaso) a Firenze risultò va-
lere la metà di quella che era.
39 rizzarla: caricarla. 40 le fante: le fanti, le domestiche. 41 paréno… un bue: un altro vivace paragone, tratto questa volta dalla vita quotidiana (il Gabburra era un macellaio, evidentemente molto conosciuto). Il senso del paragone è probabilmente il seguente: come il macellaio e i suoi garzoni quando uccidono un bue, così Tommaso e i suoi familiari si erano dati da fare con enorme energia per accatastare la legna stretta, così da pagarla di meno, come sopra si dice (era stata evidentemente venduta a volume e non a peso). 42 Di modo che... guadagno: cosicché, visto chi realmente ci guadagnava (non certo Machiavelli). 43 ne hanno fatto capo grosso: ne hanno avuto dispiacere (del fatto che Machiavelli ha deciso di non dare più legna a nessuno). Espressione del parlato. 44 connumera… Prato: Batista Guicciardini equipara questa sciagura (ovvero il non poter avere la legna) al saccheggio di Prato (compiuto l’anno prima dalle truppe spagnole). 45 un mio uccellare: un mio bosco dove sono solito tendere trappole agli uccelli. 46 sotto: sottinteso “il braccio”.
Ritratto d’autore 1 405
Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia47, godomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove48 de’ paesi loro, intendo varie cose, et noto varii gusti et diverse fantasie49 d’huomini. Vienne in questo mentre50 l’hora del desinare, dove con la mia brigata51 mi mangio di quelli cibi che questa mia povera villa e paululo patrimonio comporta52. Mangiato che ho, 50 ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario53, un beccaio, un mugniaio, due fornaciai54. Con questi io m’ingaglioffo55 per tutto dì giuocando a cricca, a trichetach56, et poi dove nascono57 mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose58, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Così rinvolto entra59 questi pidocchi, traggo el cervello di muffa60 et 55 sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi61. Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio62; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto63, et mi metto panni reali et curiali64; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uo60 mini65, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui66; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità67 mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte: tucto mi transferisco in loro. 65 E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritener lo havere inteso68, io ho notato quello di che per la loro conversatione ho fatto capitale69, et composto uno opuscolo De principatibus70, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto71, disputando che cosa è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. Et se vi piacque 70 mai alcuno mio ghiribizo72, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, et maxime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indrizzo alla Magnificenza di Giuliano73. Philippo Casavecchia74 l’ha visto; vi potrà ragguagliare in 45
47 de’ mia: dei miei amori. 48 nuove: notizie. 49 fantasie: caratteri. 50 Vienne... mentre: Se ne viene in questo modo.
51 brigata: famiglia. 52 che... comporta: che questa modesta casa di campagna e il mio piccolissimo (paululo, latinismo) patrimonio consentono. 53 per l’ordinario: di solito. 54 un beccaio… fornaciai: un macellaio, un mugnaio, due lavoratori delle fornaci. Come si vede, nell’osteria Machiavelli si ritrova nella compagnia di persone di condizione sociale molto modesta. 55 m’ingaglioffo: mi trasformo in un perdigiorno, mi abbruttisco (il verbo ingaglioffirsi è un neologismo). 56 triche-tach: gioco a pedine, simile alla dama. 57 et poi dove nascono: e (altri giochi) da cui si originano. 58 parole iniuriose: insulti. 59 entra: fra, entro.
60 Così… di muffa: Così tra questa misera compagnia e queste basse attività (questi pidocchi) tengo impegnato il cervello. 61 sfogo… vergognassi: lascio sfogare la mia sorte avversa, permettendole di calpestarmi in questo modo per vedere se mai essa stessa se ne vergognasse. 62 scrittoio: studio. 63 di fango et di loto: coppia sinonimica (loto, “fango”, dal latino lutus). 64 reali et curiali: degni di re e di corti. 65 entro… uomini: Machiavelli allude metaforicamente alle sue letture dei testi classici, in particolare relativi alla storia e alla politica. 66 mi pasco… per lui: mi nutro di quel cibo che solo mi appartiene (appunto la cultura classica) e per il quale sono nato. 67 humanità: cortesia. 68 non fa scienza… inteso: non diventa conoscenza vera (scienza) il comprendere (lo havere inteso) senza la memorizzazione (sanza lo ritener). La citazione dantesca è da Pd V 41-42.
406 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
69 per la loro... ho fatto capitale: per mezzo della loro conversazione ho fatto tesoro, ho imparato. 70 uno opuscolo De principatibus: si tratta della prima testimonianza della composizione, qui presentata come già avvenuta, del Principe. 71 cogitationi di questo subbietto: riflessioni relative a questo argomento (appunto il principato). 72 ghiribizo: scritto bizzarro, estroso, composto per gioco. L’espressione, che Machiavelli usa abbastanza spesso, sembra qui dettata dalla modestia d’obbligo. 73 Giuliano: Giuliano de’ Medici, il terzogenito di Lorenzo il Magnifico, morì nel 1516. Il Principe sarà poi dedicato (e la dedica, quindi, verrà stesa in un secondo tempo rispetto all’opera) a Lorenzo il Giovane, nipote di Lorenzo il Magnifico. 74 Philippo Casavecchia: uno dei conoscenti di Machiavelli.
parte et della cosa in sé, et de’ ragionamenti ho hauto seco75, anchor che tuttavolta io l’ingrosso et ripulisco76. 75 Voi vorresti, magnifico ambasciadore, che io lasciassi questa vita77 et venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta78 hora è certe mie faccende, che fra 6 settimane l’arò fatte. Quello che mi fa stare dubbio è, che sono costí quelli Soderini, e quali io sarei forzato, venendo costí, vicitarli e parlar loro79. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scaval80 cassi nel Bargello80; perché, ancora che questo stato abbi grandissimi fondamenti e gran securtà, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el pensiero a me81. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo. 85 Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare82; et, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi83. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non ch’altro, letto, e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia faticha84. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia85, perché io mi logoro, et lungo tempo non posso 90 star così che io non diventi per povertà contennendo86, appresso al desiderio harei87 che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a
75 vi potrà ragguagliare… seco: vi potrà dare informazioni parziali sia sul libro sia sulle discussioni che ne abbiamo avuto. 76 anchor che… ripulisco: si tratta di un’informazione preziosa in cui Machiavelli allude al lavoro correttorio che lo impegnava al momento della lettera sul Principe, consistente sia nell’ampliamento di parti (a questo allude l’immagine metaforica io l’ingrosso) sia nella risistemazione anche formale (ripulisco). Anchor che tuttavolta sta per “sebbene giorno per giorno”. 77 questa vita: questa condizione di vita. 78 tenta: trattiene. 79 sono costì… loro: a Roma ci sono i Soderini che sarei obbligato a frequentare. A Roma c’erano i Soderini e, dunque, Machiavelli si sarebbe sentito obbligato ad andare a far loro visita. Tuttavia, Pier Soderini (di cui Machiavelli era stato uno stretto collaboratore) non era ben visto dai de’ Medici e, frequentandolo, lo scrittore si sarebbe esposto al rischio di compromettere i rapporti con famiglia della quale stava cercando di recuperare la fiducia. 80 Dubiterei… Bargello: Dubiterei che al mio ritorno, pensando di smontare a casa mia, dovessi invece smontare al Bargello, cioè in prigione. 81 perché… a me: perché anche se questo stato (il principato mediceo a Firenze) ha solide fondamenta e grande sicurezza, tuttavia è un regime appena costituito e per questo motivo incline al sospetto; e non mancano dei saccenti come Paolo
Bertini che, per mettersi in mostra, manderebbero altri all’albergo lasciando a me il conto. Cioè “mi manderebbero in prigione, accusandomi senza fondamento”. 82 se gli… non lo dare: Machiavelli asserisce di aver discusso con l’amico più sopra ricordato se offrire o no il libro a Giuliano de’ Medici. 83 se gli era bene… mandassi: il secondo dubbio riguarda il fatto di portare personalmente Il Principe a Giuliano o inviarlo. 84 El non lo dare… mia faticha: molto realisticamente Machiavelli ipotizza che il non offrire il libro al potente membro della famiglia Medici avrebbe comportato il rischio che non fosse letto e che magari qualcun altro se ne potesse appropriare; in particolare viene nominato Pietro Ardinghelli, segretario di Leone X, ostile a Machiavelli. 85 El darlo… mi caccia: la scelta di offrirlo è dettata, come Machiavelli ben spiega, dalle sue attuali difficoltà anche economiche. 86 così che… contennendo: così che io non diventi, a causa della mia povertà, degno di disprezzo (latinismo). 87 appresso al desiderio harei: oltre al desiderio che avrei. Machiavelli enuncia ora la seconda (e ben più importante) ragione per cui pensa di offrire il libro a un membro della famiglia Medici, ovvero il desiderio che le sue capacità di osservatore politico possano essere nuovamente impiegate e messe a frutto.
Sandro Botticelli, Ritratto di Giuliano de' Medici, 1478 ca. (National Gallery of Art, Washington).
Ritratto d’autore 1 407
farmi voltolare un sasso88. Perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me89; et per questa cosa90 quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a studio dell’arte dello stato, non gl’ho né dormiti, né giuocati91; et 95 doverrebbe ciascheduno aver caro servirsi d’uno che alle spese d’altri fussi pieno di experienzia. Et della fede92 mia non si doverrebbe dubitare, perché havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; et chi è stato fedele et buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natura; et della fede et della bontà mia ne è testimonio la povertà mia93. 100 Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia94 vi paia, et a voi mi raccomando. Sis felix95. Die X Decembris 151396. 88 se dovessino… un sasso: anche se all’inizio mi facessero far rotolare un sasso. Si avverte la nostalgia dell’azione. 89 Perché… di me: Perché se poi non dovessi riuscire ad accattivarmeli (i Medici), me la prenderei solo con me stesso. 90 questa cosa: allude al Principe.
91 né dormiti, né giuocati: Machiavelli sostiene con evidente orgoglio di aver ben impiegato gli anni trascorsi al servizio dello stato (tra il 1498 e il 1512). 92 fede: lealtà; non tanto a un partito politico ma allo stato, di cui Machiavelli si presenta fedele servitore.
93 la povertà mia: lo scrittore intende presentare la sua povertà come una prova della sua onestà. 94 questa materia: il modo più opportuno per consegnare la mia opera a Giuliano. 95 Sis felix: Sii felice. 96 Die… 1513: Il giorno 10 dicembre 1513.
Analisi del testo La struttura La lettera presenta una struttura articolata, che viene qui di seguito sintetizzata. La prima parte fa riferimento alla precedente lettera del Vettori: Machiavelli mostra il proprio piacere per avere finalmente ricevuto notizie dall’amico. Dato il suo silenzio, temeva che qualcuno avesse insinuato al Vettori che lui avesse fatto leggere le sue lettere ad altri che non fossero persone affidabili (cosa evidentemente disdicevole, data la levatura politica del personaggio). Si congratula quindi con lui per la serenità con cui assolve al suo compito e auspica che la Fortuna gli possa in futuro consentire maggiore possibilità di azione, oltre che consentire a lui stesso di ritornare alla vita attiva. Significativo nel passo è il riferimento al potere, nelle cose umane e in particolare negli eventi politici, della Fortuna, alla quale è necessario adattarsi a seconda delle circostanze. La parte centrale è costituita dall’ampio racconto autobiografico di una giornata-tipo nel podere di campagna (l’Albergaccio), dove Machiavelli viveva confinato, lontano dagli affari pubblici. La giornata descritta si suddivide in due fasi, corrispondenti al giorno e alla sera, a due diversi spazi, principalmente l’osteria del paese e lo studio dello scrittore, e soprattutto a due diverse condizioni interiori. Significativamente, Machiavelli utilizza due diversi registri stilistici e opera scelte lessicali fortemente connotate in senso oppositivo.
Il tempo diurno/lo spazio paesano e l’osteria Durante il giorno Machiavelli caccia e si occupa del suo podere (in particolare assistendo al taglio della legna del bosco, che poi vende al miglior offerente). Riferisce, con dettaglio di particolari (che possono apparire anche troppo insistiti) gli alterchi relativi al commercio di legname e le liti giornaliere fra boscaioli per le più futili questioni, a cui l’autore assiste rassegnato (ma forse anche divertito). Ma soprattutto frequenta l’osteria, nella quale s’ingaglioffa, immiserisce il suo spirito, in compagnia di gente del popolo, dedita a occupazioni umili (il macellaio, il mugnaio, i fornaciai, l’oste stesso) e dove volano anche gli insulti per i giochi d’osteria che animavano (e tuttora nei borghi toscani animano) le piccole comunità di paese. Due espressioni indicano il sostanziale disprezzo di Machiavelli per questa misera realtà, nella quale, suo malgrado, è costretto a vivere ampia parte della sua giornata: questi pidocchi e, appunto, m’ingaglioffo.
Lo spazio aristocratico dell’umanista/il tempo della sera Allo spazio popolare degradato e degradante dell’osteria e al tempo della giornata, consumato in occupazioni materiali e nel gioco, si contrappone il tempo della sera e lo spazio solitario
408 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
e silenzioso dello studio, lo scrittoio in cui Machiavelli si rifugia alla fine della sua inutile giornata. Significativamente il passaggio da uno spazio all’altro è segnalato nel testo da una sorta di “varco del confine” tra il “fuori” volgare e chiassoso e il “dentro” raccolto e meditativo dello studio, dove lo scrittore avvierà un silenzioso colloquio con gli amati scrittori antichi. Il “confine” è costituito da una sorta di mini-anticamera, in cui lo scrittore si ferma prima di entrare nello studio. In essa (come può osservare chi visita oggi la casa di Machiavelli nel podere dell’Albergaccio) c’è un lavabo di pietra e un armadio. In questo piccolo ambiente avviene una sorta di “rito di purificazione”, o almeno così doveva percepirlo Machiavelli a quanto ci dice nella lettera: si libera dal fango (non solo quello attaccato ai suoi vestiti e ai suoi stivali, ma forse anche quello interiore, incrostato dentro di lui a causa della banale trivialità del quotidiano) e indossa nuovi abiti (in senso reale e metaforico), consoni all’incontro con gli antichi a cui solennemente si prepara.
Le scelte stilistiche La dicotomia, la contrapposizione, che viene prospettata nella lettera è rispecchiata dallo stile: nella prima parte del testo, in cui Machiavelli racconta la sua giornata con vivaci particolari che fanno pensare a un rapporto di familiarità con il destinatario, anche se si tratta di un uomo importante, prevalgono espressioni popolari e addirittura gergali (badalucco, fare il diavolo, fare capo grosso, m’ingaglioffo, pidocchi ecc.), paragoni che attingono alla vita quotidiana (il macellaio Gabburra); nella seconda parte, relativa alla sera, l’andamento del discorso si fa invece lento e solenne, abbondano le immagini metaforiche, il lessico si fa elevato e scelto, con molti latinismi (antique, antiqui, loto) o addirittura forme latine, peraltro usuali nella prosa cancelleresca come solum o tandem.
L’ultima parte: l’annuncio dell’avvenuta composizione del Principe Molto importante nella lettera al Vettori è il riferimento al Principe, che l’autore definisce un opuscolo (cioè un’opera di piccola mole) e che presenta innanzitutto come frutto della sua lettura degli storici antichi («io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale»). Machiavelli comunica anche all’amico la sua intenzione di dedicarlo a Giuliano de’ Medici (sappiamo che, per la morte di quest’ultimo, Il Principe sarà invece dedicato a Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico). L’autore ci informa inoltre che al momento della stesura della lettera era impegnato a completare l’opera e a rivederne la veste stilistica (a questa operazione alludono le espressioni metaforiche «l’ingrosso et ripulisco»). Esprime infine all’amico le motivazioni che lo inducono a voler presentare di persona l’opera a Giuliano de’ Medici, nella speranza di ingraziarselo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Cosa sarebbe disposto a fare Machiavelli, pur di essere ancora al servizio dei de’ Medici? 2. Cosa trattiene Machiavelli dall’andare in visita all’amico a Roma? ANALISI 3. Nel testo si allude in due diversi momenti alle letture di Machiavelli: a. individua di quali differenti tipologie letterarie si parla e a quale contesto di lettura sono riferite; b. indica quale nesso istituisce l’autore fra le sue letture umanistiche e la stesura del Principe. 4. Rileggi il celebre passo della lettera in cui lo scrittore rivela come amava passare le serate nel suo studio: individua le informazioni che ci fanno capire come gli uomini di cultura del tempo leggevano i classici. STILE 5. Per descrivere il rapporto con gli autori antichi, l’autore utilizza una serie di metafore. Indicale e spiegane il significato.
Interpretare
SCRITTURA CREATIVA 6. Prova a riscrivere la lettera sotto forma di un dialogo immaginario tra Machiavelli e Francesco Vettori, rispettando le tematiche trattate.
Ritratto d’autore 1 409
2
Il Principe 1 Un “opuscolo” destinato a rivoluzionare i parametri della politica
VIDEOLEZIONE
Giorgione, Ritratto di guerriero con scudiero, 1502-1510 ca. (Galleria degli Uffizi, Firenze).
Storia del Principe Il 10 dicembre 1513, dal “confino” all’Albergaccio, Machiavelli scrive una celebre lettera all’amico Vettori, diplomatico presso la corte pontificia (➜ T2 ). In essa annuncia l’avvenuta composizione di un «opuscolo», di cui indica il titolo (De principatibus) e, sinteticamente, il contenuto dichiarando, inoltre, l’intenzione di indirizzarlo a Giuliano de’ Medici, che sembrava sul punto di diventare principe di un nuovo stato nel centro Italia. Afferma che l’opera è ancora in divenire (usando espressioni metaforiche come «l’ingrosso et ripulisco [lo amplio e lo rivedo nella forma]») e che non sa se farla pervenire a Giuliano (che si trovava allora a Roma dopo la nomina a pontefice del fratello Giovanni, Leone X), come lo spingeva a fare «la necessità». Un mese dopo, nel gennaio del 1514, in una lettera a Machiavelli, il Vettori esprime un giudizio positivo sul Principe, ma aggiunge anche che, per consigliare l’amico se sia il caso o no di presentarlo a Giuliano de’ Medici, ha bisogno di leggerlo tutto (se ne deduce che nel frattempo l’opera si stava forse ampliando). A maggio del 1514 l’opera è comunque terminata (ma alcuni pensano che Machiavelli abbia continuato a lavorarci fino al 1518), ma a questo punto Vettori sconsiglia l’amico di andare a Roma. Tra il 1515 e il 1516 Machiavelli cambia il destinatario della Dedica: il nuovo dedicatario (➜ T3 ) è Lorenzo de’ Medici, nipote del Magnifico, capo del governo di Firenze dal 1513, al quale forse l’opera fu consegnata, ma senza nessun riscontro positivo per il suo autore. Nel 1532, cinque anni dopo la morte dello scrittore, l’opuscolo sarà pubblicato con il titolo con cui passerà alla storia: Il Principe. Una doppia titolazione: I Principati o Il Principe? Come comunica lo stesso Machiavelli al Vettori (➜ T2 ), il titolo originario del trattato, in latino, è De principatibus (I principati). Fin dai primissimi tempi, però, i lettori privilegiano il ritratto dell’uomo politico spregiudicato (tratteggiato nella parte centrale del testo) rispetto all’analisi delle diverse tipologie di principati: si impone così – con un significativo orientamento dell’ottica stessa di lettura dell’opera – il titolo Il Principe, con il quale essa viene pubblicata. I contenuti Oltre alla Dedica, Il Principe consta di 26 capitoli, ognuno dei quali presenta un titolo in latino che ne prospetta sinteticamente il contenuto e che possono essere così raggruppati: • I-XI: dopo la presentazione della materia del trattato (o meglio, della sua prima parte) sono delineate le diverse tipologie di principati: ereditario (II), nuovo in parte (III-V), del tutto nuovo (VI-X).
410 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Quest’ultima tipologia è quella che maggiormente interessa Machiavelli, poiché è solo attraverso un principato nuovo che si potrebbe rimediare alla presente «ruina» d’Italia. Chiude la sezione il cap. XI, dedicato a quel particolare principato che è lo Stato della Chiesa, verso cui Machiavelli, come nei Discorsi, non risparmia critiche. • XII-XIV: viene discussa una questione assai urgente per Machiavelli, quella delle milizie. L’autore si fa portavoce della necessità, ribadita anche nei Discorsi e nell’Arte della guerra, che uno stato sia dotato di milizie proprie. • XV-XXIII: Machiavelli affronta la parte più scottante dell’opera, delineando (in particolare nei capp. XV-XIX) i comportamenti più adatti (anche se contrari alla morale) a un principe «virtuoso», cioè capace di operare per il bene dello stato. Nei capp. XX-XXIII continua l’enunciazione di precetti utili al principe virtuoso con riferimento a problemi specifici, come ad esempio la scelta dei ministri. • XXIV-XXVI: la riflessione si sposta sull’analisi della fallimentare politica dei prìncipi italiani che ha generato la decadenza dell’Italia. Si affronta inoltre il problema del peso esercitato dalla fortuna sulle cose umane (XXV). L’opera si conclude, ricollegandosi alla Dedica, con la celebre esortazione alla casata medicea a guidare il riscatto dell’Italia e a liberarla dai «barbari». Le finalità del trattato Nell’ideazione del Principe si sovrappongono tre distinte prospettive e tre diverse finalità. • L’intento trattatistico a cui corrisponde un’attitudine analitico-definitoria e che si manifesta soprattutto nei primi 11 capitoli, dove sono delineate le diverse tipologie dei principati. • L’intento pragmatico che riconduce il trattatello alla situazione contingente e ne fa un testo militante, una sfida politica imposta da un presente drammatico: da qui i celebri consigli al principe che si ritrovano nei capitoli centrali dell’opera. Machiavelli si propone di suggerire strategie politiche (ma anche militari) che consentano a un principe, dotato di straordinarie capacità, di costituire uno stato moderno in grado di affrontare il confronto con i grandi stati europei e di risolvere la grave crisi italiana, divenuta evidente dopo la discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494. • L’intento utilitaristico-personale secondo cui Machiavelli spera (come si deduce dalla Dedica) di far cosa gradita ai nuovi signori, confidando che la sua opera possa diventare un lasciapassare per rientrare sulla scena politica (un obiettivo che condiziona per più di un aspetto la scrittura dell’opera e che troppo spesso viene messo in secondo piano).
Ritratto di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino in una copia da un originale di Raffaello.
Il Principe 2 411
Il Principe: struttura e contenuti PRIMA PARTE: CAPITOLI I-XI ereditario
nuovo in parte Le tipologie di principato nuovo
preso con la violenza preso con il consenso
ecclesiastico
il caso dello Stato della Chiesa
SECONDA PARTE: CAPITOLI XII-XIV contro l’uso dei mercenari L’esercito il possesso di un proprio esercito come requisito per la sopravvivenza dello stato
TERZA PARTE: CAPITOLI XV-XXIII rifiuto di ogni rappresentazione ideale Le caratteristiche del principe etica subordinata alla politica
QUARTA PARTE: CAPITOLI XXIV-XXVI analisi della crisi dell’epoca
La situazione italiana
il rapporto virtù/fortuna nelle cose umane
esortazione al riscatto dell’Italia
412 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
2 I fondamenti metodologici del Principe La concezione naturalistica dell’uomo L’indagine di Machiavelli sulle dinamiche politiche poggia su una fondamentale premessa: la concezione “naturalistica” dell’uomo che sta alla base anche dei Discorsi. Per Machiavelli la natura umana non cambia con il trascorrere dei secoli, così come non cambiano le leggi che regolano il moto degli astri e non mutano i suoi elementi costitutivi (sole, luna ecc.): «Gli uomini nacquero vissero e morirono sempre con un medesimo ordine» scrive Machiavelli nei Discorsi (I, xi ). Proprio l’immutabilità della natura umana autorizza a fissare regole generali per il comportamento del politico valide anche per il futuro e, d’altra parte, legittima il ricorso a esempi tratti dalla storia passata. Un’antropologia pessimistica Dato come assioma (e cioè principio indiscutibile, di valore assoluto) che la natura dell’uomo sia dunque sempre la medesima e i suoi comportamenti in certo qual modo prevedibili, quale visione ha Machiavelli di essa? Per Machiavelli l’uomo è fondamentalmente malvagio: «non opera mai nulla bene se non per necessità»; «degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno» (cap. XVIII, p. 496). Ecco due delle molte sentenze volte a definire la negatività della natura umana che, per Machiavelli, non dipende da particolari circostanze storiche, ma è una qualità costituzionale, intrinseca all’essere umano. Da questo secondo assioma derivano le inevitabili scelte che il politico si trova a compiere se non vuole la «ruina» propria e dello stato che si trova a governare: «è necessario a chi dispone una repubblica e ordina leggi in quella», egli afferma, «presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malvagità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione». In questa pessimistica visione dell’umanità l’arte politica si prospetta anche come un rimedio agli egoismi dei singoli, che lasciati liberi di esprimersi, senza una guida e un deterrente, condurrebbero inevitabilmente un paese all’anarchia. Il richiamo alla «verità effettuale» e il coraggioso congedo dalla tradizione Fin dalla Dedica Machiavelli esibisce la consapevolezza che la sua è un’opera nuova, anche se inizialmente allude soprattutto alla novità dello stile. Occorrerà arrivare al cap. XV (➜ T7 ), che apre i capitoli chiave del Principe, perché la vera novità dell’opera venga esplicitata dall’autore: «partendomi massime [allontanandomi del tutto], nel disputare questa materia, da li ordini delli altri [dai giudizi formulati dagli altri]. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto [dietro] alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa». Segue un riferimento polemico ai molti che «si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere [nella realtà]». L’autorevole capostipite di coloro che parlando degli stati hanno seguito l’immaginazione e non la realtà è certamente il filosofo greco Platone; ma Machiavelli si pone in un confronto polemico più diretto con la tradizione medievale e poi umanistica dei trattati sull’“ottimo principe” (➜ PER APPROFONDIRE La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo”, PAG. 414). Essi prospettavano un astratto “catalogo di virtù” a cui doveva conformarsi chi governa ma che non aveva nessuna rispondenza con la realtà e risultava agli occhi di Machiavelli, più ancora che falso, del tutto inutile. Il Principe 2 413
Machiavelli, invece, pone al centro delle proprie riflessioni e dei propri consigli politici la concreta realtà dell’esperienza, sia passata (di cui ricerca le tracce nei testi degli storici), sia recente: quella che egli chiama, con neologismo da lui creato, «verità effettuale». Questa prospettiva innovativa, derivata dall’obiettivo dichiarato di essere utile a chi governa e non di proporre un astratto discorso teorico, costituisce la base di un nuovo metodo per interpretare i comportamenti collettivi e individuali che sconvolgerà i parametri di giudizio politico.
3 I temi chiave Etica e politica
PER APPROFONDIRE
La relativizzazione del codice etico Lo scopo primario dell’opera – fare cosa utile a chi governa – ha questa conseguenza: nel Principe i comportamenti umani sono valutati esclusivamente sulla base dei risultati che producono sul piano politico, nell’obiettivo di garantire l’efficienza dello stato. Da qui la celebre rassegna dei comportamenti umani (da seguire o da evitare) sviluppata nei capitoli centrali dello scritto, dalla quale emerge la novità della prospettiva machiavelliana rispetto alla tradizionale trattatistica politica. Machiavelli non conia nuovi termini che identifichino la condotta politica, ma
La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo” La novità del Principe si comprende pienamente solo se si inserisce l’opera all’interno di una tradizione e di uno specifico genere con cui Machiavelli istituisce un consapevole confronto polemico: il trattato politico, indirizzato a definire la natura e le finalità del potere politico e a consigliare chi governa. Nel Medioevo l’azione politica, in stretto rapporto con la visione religiosa che in quell’epoca permea quasi ogni scritto, è interpretata come una missione affidata da Dio stesso ai governanti perché conducano i sudditi al bene. Esempio del trattato politico medievale è la stessa Monarchia di Dante, ma più pertinenti al rapporto con Il Principe sono i riferimenti a Il governo del principe (De regimine principis) del filosofo Tommaso d’Aquino, La condotta dei principi (De regimine principum) di Egidio Colonna e Il difensore della pace (Defensor pacis) di Marsilio da Padova. In particolare, nel Medioevo era diffusa una specifica forma di trattato politico: lo Speculum principis, cioè Lo specchio del principe, proposta di un modello perfetto di principe che per essere tale doveva ovviamente seguire l’etica cristiana. Durante l’Umanesimo il “sottogenere” dello Specchio continua. I trattati (scritti tutti in latino) sono dedicati a signori sempre presentati come prìncipi ideali (un esempio per tutti: Il libro del principe [De principe liber] del 1484 di Giovanni Pontano, dedicato ad Alfonso d’Aragona ➜ D1a ). Però, rispetto all’analoga trattatistica medievale, si modificano i modelli di comportamento proposti, in rapporto alle diverse condizioni politiche – prevalendo la forma del potere signorile – e alle più generali prospettive culturali. Muta il “catalogo”
414 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
delle virtù su cui si fondava la trattatistica medievale: alle virtù morali e religiose si affiancano (e anzi tendono a prevalere come valori guida dell’azione del principe) la razionalità, la capacità di valutare con accortezza le situazioni e al contempo la necessità, per chi governa, di richiamarsi ai grandi modelli della storia antica, secondo i princìpi più generali della cultura umanistica. Emergono, inoltre, qualità tipiche della civiltà della corte, legate alla necessità per il signore di “apparire” se vuole conquistare il consenso dei propri sudditi.
Ambrogio Lorenzetti, Effetto del buon governo in città (part.), 1338 ca. (Palazzo pubblico, Siena).
utilizza il sistema lessicale “etico” tipico dei trattati umanistici sul “principe buono”, dissolvendone però in modo spregiudicato l’assolutezza: nell’ottica pragmatica del Principe, infatti, la bontà, la liberalità, il mantenimento della parola data – un insieme di valori che la morale considera indiscutibilmente virtù – diventano qualità negative se nuocciono allo stato; al contrario possono diventare “virtù”, cioè qualità positive, la crudeltà, il tradimento della parola data, persino l’uso deliberato della violenza, purché finalizzate al bene dello stato. Il metodo del «rovesciamento paradossale» (G. Inglese) di fonti autorevoli dell’etica umanistica è utilizzato anche a proposito della celeberrima immagine della golpe e del lione (cap. XVIII ➜ T8 ): la coppia volpe-leone era presente come simbolo di comportamento indegno nel De officiis di Cicerone (I, xiii , 41) e in vari luoghi della Commedia. Machiavelli la reintroduce invece come immagine del politico “virtuoso”: egli deve all’occorrenza saper usare la forza irruenta, la violenza (come appunto il leone), ma anche – e forse soprattutto – le astuzie tradizionalmente associate alla volpe, ossia la slealtà, la simulazione e l’inganno dissimulato.
Parola chiave
L’“assolutezza” della politica Nella visione pragmatica di Machiavelli, dunque, l’agire politico diventa “autoreferenziale”, nel senso che non è vincolato da alcuna altra legge se non quella dell’efficienza politica, né rimanda, per essere accettato, a un sistema morale e religioso. Scrive giustamente lo studioso Emanuele CutinelliRèndina, «piuttosto che di autonomia, che è pur sempre un relazionarsi e un distinguersi da un altro, bisognerà parlare per Machiavelli di assolutezza della politica»: una prospettiva che, una volta assunta, detta le proprie leggi ed è proprio questo che fonda la possibilità di costruire una “scienza della politica”. Non a caso alcuni interpreti hanno accostato la rivoluzione introdotta nel campo della riflessione politica da Machiavelli alla rivoluzione scientifica galileiana: «Machiavelli è il Galilei della politica» scriveva Gioberti già nell’Ottocento. In entrambi i casi si pongono al centro del metodo di analisi i dati dell’esperienza: nel campo dei fenomeni naturali per Galileo, in quello dell’agire umano nella storia per Machiavelli (➜ VERSO L’ESAME DI STATO, PAG. 499).
virtù/fortuna
Fin dal primo capitolo del Principe (➜ T4 ), Machiavelli introduce le due principali parole chiave dell’intera opera: fortuna e virtù. Virtù deriva dal latino virtus, nel senso di “vigore, forza, valore”, per lo più associato all’ambito militare. Con il cristianesimo il termine, così come succede a tanti altri vocaboli (ad esempio fides, “fede”), muta significato e si afferma l’associazione tra virtus e moralità. Il virtuoso per eccellenza è il santo, che nelle sue scelte di vita attua pienamente il richiamo cristiano ai valori dello spirito. Machiavelli laicizza il termine, riconducendolo all’accezione latina classica – e quindi all’idea di energia, forza vitale – ma lo trasferisce al campo politico: il politico virtuoso non è il portavoce dei valori cristiani, ma chi sa sfidare le difficoltà e affermare con forza il proprio progetto mettendolo in atto, chi sa operare scelte funzio-
nali, chi sa decidere tempestivamente ciò che è meglio per lo stato. Fortuna deriva dal latino fors, che significa “sorte”, “caso”. I latini ne fecero una divinità, personificando così la forza che condizionava ciecamente (da qui la tradizionale figurazione della dea come bendata) i destini degli uomini. Mentre nella lingua italiana corrente “fortuna” ha un’accezione esclusivamente positiva, in latino il termine assommava sia un significato positivo (la buona sorte) sia negativo (la cattiva sorte). Di questa duplice accezione resta traccia in Machiavelli, che comunque restringe l’uso del termine all’ambito strettamente politico o comunque afferente all’azione politica. La fortuna è un insieme di circostanze imprevedibili che possono favorire o danneggiare la capacità politica (la “virtù”) del principe: questa seconda accezione prevale nella parte finale del Principe.
Il Principe 2 415
Il rapporto virtù-fortuna Un legame essenziale A mano a mano che il trattato procede, si impone sempre più a Machiavelli una domanda: possedere la “scienza della politica” assicura davvero, in ogni caso, il successo politico dell’azione, o elementi imponderabili lo possono comunque compromettere? Il rapporto “virtù-fortuna” è posto fin dall’inizio nel Principe, ma non a caso emerge e viene fatto oggetto di specifiche argomentazioni nell’ultima parte dell’opera. Il ruolo della fortuna sulle cose umane è un soggetto tradizionale, particolarmente presente nella trattatistica quattrocentesca (ad esempio in Alberti ➜ PER APPROFONDIRE La Fortuna tra letteratura e arte, PAG. 448), ma certo al tempo di Machiavelli il problema si fa più pressante, in relazione al corso sempre più mutevole e imprevedibile degli eventi (a partire dalla discesa di Carlo VIII in Italia, nel 1494). Nella prima parte dell’opera la fortuna si configura soprattutto come “occasione”: una concomitanza di eventi e situazioni che la virtù del principe – intesa come capacità valutativa e decisionale – deve saper sfruttare a proprio favore: se manca l’occasione, la virtù non ha modo di esprimersi; e, d’altra parte, se l’occasione favorevole si presenta ma non c’è chi è capace di sfruttarla, essa non può concretizzarsi. Verso la conclusione dell’opera (e in particolare nel cap. XXV dedicato espressamente al tema della fortuna ➜ T10 ) tende a prevalere nel Principe una connotazione negativa di questa entità (in proposito, significativa l’immagine dominante della fortuna come un fiume in piena), vista come insieme di forze, tutte e sempre terrene, imprevedibili che possono inaspettatamente travolgere i progetti anche dei politici più “virtuosi”. Nell’ultima parte dello stesso capitolo conclusivo, la progettazione razionale dell’azione politica si scontra con un ostacolo ancora più grave del variare turbinoso degli eventi, cioè la natura di chi governa, la costituzionale indole di ognuno, che spesso non si accorda con il variare dei tempi. L’atteggiamento ideale sarebbe una perfetta adattabilità alle situazioni, ma Machiavelli sa che ciò non è possibile e allora, con uno scarto logico, una virata irrazionale, conclude che è meglio comunque essere «impetuosi» perché «la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla», come fanno in genere i giovani. La conclusione del Principe Da questa premessa trae origine l’appello appassionato alla liberazione dell’Italia dai «barbari» che chiude Il Principe (cap. XXVI ➜ T11 ): considerato da qualche critico un’appendice di natura retorica aggiunta in un tempo successivo, il discusso capitolo trova la sua genesi nella parte conclusiva del capitolo precedente. Il corso inesorabile della lucida riflessione machiavelliana ha portato, passo dopo passo, all’incrinarsi della fiducia assoluta nella progettazione razionale dell’azione politica, ma Machiavelli non dispera che un’azione di forza possa riscattare il suo paese: un’azione che non poteva avere il suo artefice in altri che in un membro della casata dei Medici, che una straordinaria occasione di fortuna vedeva contemporaneamente a capo di Firenze e a capo della Chiesa. Era quindi davvero possibile, agli occhi di Machiavelli, che questa casata guidasse la riscossa dell’Italia e desse vita a un forte “principato civile”, capace di sfidare le avversità della storia. La fredda razionalità dello scienziato della politica cede allora il posto nella celebre chiusa del Principe alla passione del politico, angosciato dalla «ruina» attuale dell’Italia, ma anche proteso verso la speranza della sua rinascita.
416 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Il pensiero di Machiavelli autonomia della politica dalla morale
la natura dell’uomo è sempre uguale nel tempo, quindi si possono definire delle leggi universali ed eterne
la storia è vista come un modello di comportamento
ogni riflessione deve partire dalla verità effettuale
il consenso: strategie espositive ed espressive 4 Ottenere nel Principe Una “voce” autorevole Un apparente paradosso percorre Il Principe: all’esposizione di regole e precetti oggettivamente dedotti dall’analisi dalla realtà effettuale si associa d’altra parte la scelta di una narrazione-esposizione condotta in prima persona da un soggetto che rinuncia a ogni delega o intermediazione e si assume la totale responsabilità delle parole che pronuncia. L’autore sottolinea volutamente la sua presenza attraverso l’uso insistito delle forme pronominali (io/me): «Raccolte io adunque tutte le azioni del duca…», «Rispondo con quello che per me di sotto si dirà circa alla fede dei principi», «Io laudo questo modo perché e’ gli è usitato ab antiquo». L’intrusione frequente del soggetto però non conferisce assolutamente alla prosa di Machiavelli un carattere soggettivo, ma al contrario il lettore tende a riconoscervi l’unica prospettiva interpretativa corretta. A questa autorevolezza contribuisce in modo rilevante il tipico andamento “binario” dell’argomentazione machiavelliana, che tende a escludere in modo perentorio ogni possibilità intermedia all’interno di un problema o di una categoria concettuale. La strategia del consenso Le tecniche discorsive e le strategie retoriche impiegate dall’autore nella propria opera sono finalizzate a ottenere il consenso da parte del lettore (e come lettore Machiavelli identifica innanzitutto l’illustre rappresentante della casata Medici a cui si rivolge l’opera): un consenso di cui Machiavelli ha forte bisogno, ma che non era affatto scontato, anche tenuto conto della novità scottante dei contenuti. Uno degli espedienti privilegiati per creare il coinvolgimento del lettore è l’uso assai frequente del tu; nel Principe Machiavelli si rivolge spesso a un interlocutore interno al testo, attraverso il pronome di seconda persona: «di modo che tu hai nemici», «e il bene che tu fai non ti giova» (più raramente il tu lascia il posto al voi: «se voi considererete…»). Machiavelli costruisce così un tipo di comunicazione dialogica molto efficace sul piano comunicativo, fondata sulla programmatica intesa tra un “io” autorevole, e un “tu” in grado di intenderlo correttamente. Il dialogo è, però, solo apparente, perché ne è esclusa la prerogativa più specifica, cioè l’ipotesi di un eventuale disaccordo, l’apertura a diverse possibilità interpretaIl Principe 2 417
tive degli eventi in nome di una interpretazione rigorosamente univoca della storia a cui il lettore è inesorabilmente condotto. La “retorica della persuasione” La persuasione è realizzata attraverso la coesistenza di due diverse modalità: da un lato l’uso di un’argomentazione «necessitante», come la chiama efficacemente il critico Giorgio Inglese, e dall’altro il ricorso al potere suggestivo della singola parola, di immagini metaforiche e simboliche di forte impatto. Per quanto riguarda l’argomentazione, nel Principe non può non colpire la successione incalzante delle argomentazioni, enfatizzata dall’uso insistito di connettivi testuali, tra i quali prevalgono i nessi causali e conclusivi («Dico adunque», «Donde nasce che», «È necessario pertanto»). La stringente logica argomentativa è sostenuta dall’uso di un “vocabolario della necessità”, come è stato definito dalla critica, ovvero da termini come conviene, è necessario, si deve, bisogna ecc. La volontà di semplificare a fini persuasivi l’enunciazione e interpretazione dei dati è alla base del procedimento dilemmatico caratteristico del metodo espositivo del Principe: Machiavelli individua due alternative possibili affidate alla congiunzione disgiuntiva o; da una di queste si dipartono altre opzioni fino alla conclusione del ragionamento. Su una struttura dilemmatica si fonda l’intero capitolo I dell’opera, che ne enuncia la materia: «Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati. E’ principati sono o ereditari […] o sono nuovi. E’ nuovi, o e’ sono nuovi tutti ecc.». Sull’altro versante si può citare il ricorso a espressioni colloquiali («si tirò drieto», «vi si godono»), all’ideazione di immagini corpose di forte impatto (il centauro, la volpe e il leone, la fortuna-fiume o donna ecc.), di paragoni e immagini metaforiche tratte spesso dalla realtà naturale, come il termine barbe (radici) usato in rapporto allo stato («mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi»); o ancora l’uso di massime e sentenze che condensano le tesi prima soggette ad analitica argomentazione: «Da qui nacque che tutti ’e profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno», «li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio».
online
Interpretazioni critiche Mario Martelli Lorenzo come il Valentino: la concretezza storica dell’esortazione a liberare l’Italia dai barbari
Lo stile del Principe: contro una prosa “ampollosa e magnifica” La prosa di Machiavelli costituisce un esempio unico non solo nel panorama del primo Cinquecento, ma più in generale nella storia della lingua letteraria italiana. È questa la principale ragione per cui il trattato di Machiavelli viene inserito in una storia della letteratura italiana, e non solo in una storia delle dottrine politiche. Innanzitutto occorre ricordare che Machiavelli sceglie di impiegare il volgare, rifiutando anche dal lato linguistico la tradizione del trattato politico umanistico, che era scritto comunemente in latino. Quanto ai trattati in volgare, i maggiori intellettuali del tempo, come Bembo e Castiglione, avevano usato nelle loro opere (celeberrime a quel tempo: Gli Asolani e Il Cortegiano) una prosa volutamente elevata e retoricamente sostenuta. Nella Dedica del Principe, Machiavelli fa una precisa dichiarazione d’intenti, implicitamente critica verso una prosa accademica, in cui si nobilitano e abbelliscono i contenuti con espedienti retorici: vuole che la sua opera sia apprezzata per l’importanza dei contenuti e non per la presenza di «clausule ample o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare».
418 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Le scelte linguistiche A livello fono-morfologico (ma anche sintattico) Machiavelli si attiene spesso al fiorentino parlato del suo tempo, secondo le posizioni che aveva assunto anche nel dibattito sulla questione della lingua (➜ SCENARI, PAG. 70). Segnaliamo solo alcuni tra i molti elementi ricorrenti e caratterizzanti: l’articolo maschile el (singolare) ed e’ (plurale) (el principe, e’ più eccellenti); il possessivo plur. sua («ne’ sua ordini nuovi»); i passati remoti in -ono (feciono) o -orno (ruinorno); il participio passato del verbo essere suto. L’impasto linguistico dell’opera è vario: accoglie, infatti, sia termini colti e latinismi (iudicare, esemplo, espedito, potestà, congiunzioni come et, etiam, tamen), sia componenti popolaresche («volendola tenere sotto»). Interessante è poi la risemantizzazione in senso politico di termini di impiego comune: Machiavelli trasforma in termini politici espressioni come ruina (propriamente “crollo di un edificio”), occasione, mantenere ecc. Ne risulta un impasto linguistico tutto particolare nel panorama generale, che tendeva ormai all’omologazione, della prosa primo-cinquecentesca.
Il Principe GENERE
trattato politico
DATA DI COMPOSIZIONE
presumibilmente 1513-14
DATA DI PUBBLICAZIONE
1532
STRUTTURA
26 capitoli preceduti da una Dedica
FINALITÀ
ingraziarsi un membro della potente famiglia Medici e offrire strumenti utili a un uomo politico per dar vita a un nuovo stato e porre un argine alla grave crisi italiana
CONTENUTO
• analisi dei vari tipi di principato • indicazioni su come conquistare o mantenere un principato • rassegna delle virtù (non in senso morale) necessarie all’esercizio del potere • esame del problema delle milizie • ruolo della fortuna
LINGUA
fiorentino parlato
STILE
prosa chiara e immediata
Il Principe 2 419
Niccolò Machiavelli
T3
La Dedica e la presentazione del Principe
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1, 2
Il Principe, Dedica N. Machiavelli, Opere, vol. I, a c. di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997
Era del tutto comune, ai tempi di Machiavelli, che uno scrittore dedicasse la propria opera a un illustre personaggio per ingraziarselo. Anche la Dedica del Principe, che qui leggiamo, indirizzata a Lorenzo de’ Medici, giovane nipote del Magnifico, si iscrive in questa consuetudine, tipica del costume delle corti. Particolari sono però le circostanze: al tempo in cui egli stende la Dedica (probabilmente tra il 1515 e il 1516), Machiavelli ha già composto il suo trattato e si trova da alcuni anni estromesso dalla vita politica. Da qui la speranza di ingraziarsi, con la propria opera, la potente famiglia Medici e di poter così riprendere una vita attiva. La Dedica, al di là delle frasi di circostanza, si articola in una serie di considerazioni che costituiscono una prima, significativa presentazione dell’opera.
NICOLAUS MACLAVELLUS MAGNIFICO LAURENTIO MEDICI IUNIORI SALUTEM1 Sogliono2 el più delle volte coloro che desiderano acquistare grazia appresso uno principe3 farsegli incontro con4 quelle cose che in fra le loro abbino più care o delle 5 quali vegghino lui più dilettarsi5; donde si vede molte volte essere loro6 presentati cavagli, arme, drappi d’oro, prete7 preziose e simili ornamenti degni della grandezza di quelli. Desiderando io adunque offerirmi alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella8, non ho trovato, in tra la mia supellettile9, cosa quale io abbia più cara o tanto esistimi10 quanto la cognizione11 delle 10 azioni delli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche12; le quali avendo io con gran diligenzia lungamente escogitate ed esaminate13; e ora in uno piccolo volume ridotte14, mando alla Magnificenzia vostra. E benché io iudichi questa opera indegna della presenza di quella15, tamen16 confido assai che per sua umanità gli debba essere 15 accetta, considerato come da me non gli possa essere fatto maggiore dono che darle facultà a potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io, in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi, ho conosciuto e inteso17. La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample18 o di parole ampullose e magnifiche19 o di
1 “Niccolò Machiavelli al Magnifico Lorenzo de’ Medici il giovane”. 2 Sogliono: sono soliti. 3 acquistare... principe: cercare di ottenere la benevolenza di un principe. 4 farsegli incontro con: offrirgli. 5 delle quali… dilettarsi: che vedono essere a lui più gradite. 6 loro: ai principi; più sotto di quelli, “dei principi”. 7 prete: pietre. 8 qualche testimone… di quella: qualche dono che possa testimoniare il mio desiderio di servirla (riferito a vostra Magnificenzia). 9 supellettile: l’insieme delle proprietà e dei beni di qualcuno.
10 esistimi: stimi (leggi: esìstimi). 11 cognizione: conoscenza. 12 una lunga... antiche: riferimento agli anni in cui Machiavelli, segretario della Repubblica fiorentina, aveva svolto delicati incarichi diplomatici e militari acquisendo un’esperienza diretta delle vicende contemporanee; e allo studio della storia antica (lezione vale “lettura” alla latina). 13 escogitate ed esaminate: meditate e analizzate. 14 ora… ridotte: avendole ora sintetizzate in un piccolo volume (appunto Il Principe). 15 indegna… di quella: indegna di essere presentata a essa (il riferimento è sempre alla Magnificenzia vostra).
420 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
16 tamen: tuttavia (congiunzione latina; uso proprio del linguaggio della cancelleria). 17 considerato… inteso: Machiavelli asserisce che non può fare dono maggiore a Lorenzo de’ Medici che quello di dargli la possibilità (facultà), attraverso la lettura del libretto, di comprendere rapidamente tutto quello che l’autore aveva appreso e compreso in tanti anni e con tanta fatica e pericoli. 18 clausule ample: elaborate chiuse ritmiche (secondo le norme del cursus). 19 ampullose e magnifiche: altisonanti ed elaborate.
qualunque altro lenocinio20 e ornamento estrinseco, con e’ quali molti sogliono le 20 loro cose descrivere e ornare, perché io ho voluto o che veruna21 cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata22. Né voglio sia imputata prosunzione se uno uomo di basso e infimo stato ar disce discorrere e regolare e’ governi de’ principi23; perché così come coloro che disegnano e’ paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti e, 25 per considerare quella de’ luoghi bassi, si pongono alto sopra’ monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi, conviene essere populare24. Pigli adunque vostra Magnificenzia questo piccolo dono con quello animo che io ’l mando; il quale se da quella fia25 diligentemente considerato e letto, vi conoscerà dentro uno estremo mio desiderio 30 che lei pervenga a quella grandezza che la fortuna e l’altre sue qualità le promettano26. E se vostra Magnificenzia da lo apice della sua altezza qualche volta volgerà li occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna27.
20 lenocinio: abbellimento retorico. 21 veruna: nessuna. 22 o che solamente… la facci grata: o che soltanto la varietà della materia e l’importanza del soggetto (subietto, latinismo) trattato la rendesse gradita (a chi legge). 23 discorrere… de’ principi: discutere il modo di governare dei principi e dare consigli (regolare) su di esso. 24 perché… populare: Machiavelli ricorre a un efficace esempio: come coloro che
disegnano le mappe geografiche si collocano in basso per delineare correttamente i luoghi elevati e in alto per delineare le pianure, allo stesso modo bisogna essere principi per conoscere bene la natura dei popoli e persone del popolo per conoscere bene quella dei principi. 25 se da quella fia: se da quella (cioè la Vostra Magnificenza) sarà. 26 la fortuna… promettano: la buona sorte e le qualità individuali le promettono (di raggiungere).
27 quanto io… di fortuna: Machiavelli colloca opportunamente in chiusura della Dedica il riferimento alla sua triste condizione personale, al suo essere vittima di una sorte maligna. Egli spera (una speranza che non si realizzerà) che il suo “opuscolo” gli consenta di rientrare nell’attività politica. La richiesta diretta non viene fatta a Lorenzo, ma è evidentemente implicita.
Analisi del testo L’autore presenta Il Principe Al di là e al di sotto delle espressioni di circostanza un po’ paludate, la Dedica contiene preziose informazioni sull’opera che Machiavelli aveva appena composto e sull’alta considerazione che aveva di essa. 1. Significativamente Machiavelli definisce la sua competenza politica («la cognizione delle azioni delli uomini grandi») come la cosa più cara che possiede e può offrire al potente signore. Precisa che la sua sapienza in campo politico è stata acquisita in lunghi anni attraverso l’esperienza diretta a contatto con la realtà politica e attraverso le letture degli storici antichi. Questa sapienza è condensata nel Principe. 2. Anche Lorenzo de’ Medici può acquisire la stessa sapienza in breve tempo, semplicemente leggendo l’opera, che quindi viene presentata come un prezioso strumento per un uomo politico importante. Machiavelli presenta indirettamente il suo libro come una sorta di manuale tecnico di politica di pronta utilizzazione, che potrebbe essere paragonato – fatte le debite differenze – ai prontuari sintetici oggi diffusi soprattutto in campo aziendale. 3. Machiavelli dichiara di non aver voluto “ornare” la sua opera con espressioni altisonanti e formule retoriche, come invece fanno molti altri, per evitare il rischio che venga letta per i pregi stilistici e non per il suo contenuto, che egli ritiene particolarmente degno di interesse. È certamente uno degli elementi della modernità del Principe. 4. Il libro viene offerto a Lorenzo perché possa realizzare più elevati obiettivi, ma anche perché, convinto dalla qualità di esso, ponga termine con il suo autorevole intervento all’inattività a cui Machiavelli è costretto da «una grande e continua malignità di fortuna».
Il Principe 2 421
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSione 1. Spiega la celebre definizione secondo cui Machiavelli attribuisce il sapere politico trasmesso nel trattato a «esperienza delle cose moderne» e «lezione delle antiche». A quali elementi della biografia e della formazione culturale dell’autore si riferiscono queste definizioni? anaLiSi 2. Modestia e orgoglio si alternano nella Dedica: rintraccia i punti in cui prevale l’uno o l’altro atteggiamento dell’autore del Principe. 3. Verso la conclusione della Dedica, Machiavelli ricorre a un paragone significativo: individualo e spiegane la funzione in rapporto al contesto. StiLe 4. Quale differenza rimarca Machiavelli sul piano stilistico tra la sua opera e altre analoghe? Quale preoccupazione lo ha indotto a rinunciare a determinati espedienti stilistici?
interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1, 2
Letteratura e noi 5. Machiavelli sottolinea nel testo quanto la competenza, nel suo caso nell’ambito della politica, derivi in pari misura dall’esperienza sul campo e dallo studio sui libri. Ritieni che oggi una simile considerazione sia ancora attuale? Oppure pensi che il sapere pratico porti alla svalutazione del sapere acquisito attraverso i libri? Rispondi esponendo le tue considerazioni in un testo di max 15 righe.
niccolò Machiavelli
t4
I diversi tipi di principati e le diverse condizioni della loro genesi Il Principe, cap. I
N. Machiavelli, Opere, vol. I, a c. di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997
Il primo, brevissimo, capitolo dell’opera ha la funzione quasi di un indice che possa orientare il lettore nell’opera: prospetta, infatti, a livello di pura e semplice definizione elencatoria, le diverse tipologie di principati e i diversi modi con cui si acquisiscono.
I. QUOT SINT GENERA PRINCIPATUUM ET QUIBUS MODIS ACQUIRANTUR1 Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio2 sopra gli uomini, sono stati e sono o republiche o principati3. E’ principati4 sono o ereditari, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe5, o sono nuovi. 5 E’ nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza6, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna7. Sono questi dominii, così acquistati o consueti a vivere sotto uno principe o usi a essere liberi8; e acquistonsi9 o con l’arme di altri o con le proprie10, o per fortuna o per virtù. 1 “Di quante specie siano i principati e in quali modi si acquistino”. 2 imperio: potere, sovranità. 3 principati: monarchie, stati retti da un sovrano. 4 E’ principati: I principati. 5 de ’quali… principe: nei principati ereditari la famiglia (el sangue) del signore è stata (suto è participio passato del verbo
essere, frequentemente usato da Machiavelli) per lungo tempo al potere (principe). 6 a Francesco Sforza: per Francesco Sforza. Capitano di ventura, a capo di milizie mercenarie, Francesco Sforza (1401-1466) riuscì a diventare signore di Milano dopo la morte di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, di cui aveva sposato la figlia. 7 al re di Spagna: Ferdinando il Cattolico
422 Quattrocento e cinQuecento 8 Niccolò Machiavelli
(1452-1516), re di Spagna, che aveva conquistato il regno di Napoli nel 1503. 8 usi a essere liberi: abituati a vivere in un regime repubblicano. 9 acquistonsi: si acquistano, ossia si conquistano. 10 o con l’arme… le proprie: o con eserciti mercenari (armi di altri) o con milizie proprie.
Analisi del testo Il procedimento dilemmatico Come è stato evidenziato dagli studi critici, la logica argomentativa del Principe tende a utilizzare una modalità che è stata definita “dilemmatica”. Con questa si riduce la complessità del campo indagato a una coppia antitetica; a sua volta il secondo corno, cioè l’altro polo del dilemma, si scinde in una nuova coppia antitetica e così via secondo una struttura “ad albero”. In questo capitolo il procedimento trova la sua massima espressione: l’intero breve testo è costruito su uno schema binario oppositivo (o… o). Machiavelli ha probabilmente esasperato qui quello che è un modo tipico del suo pensiero proprio perché ci troviamo “alle soglie” del testo, cioè all’inizio dell’opera, e gli preme conquistare subito il lettore anche a costo di semplificare la complessa materia che si prepara ad affrontare, dando un saggio dimostrativo del suo modo di argomentare e di scrivere.
Uno stile incisivo In queste poche righe Machiavelli dà dimostrazione non solo del suo modo di argomentare ma anche del suo stile: intenzionalmente lontano, come ha specificato nella Dedica, da una prosa paludata e classicheggiante, dalle «parole ampullose e magnifiche», e stringato, particolarmente incisivo e funzionale a un libro che vuole avere un obiettivo pragmatico.
Bonifacio Bembo, Ritratto di Francesco Sforza, 1460 ca. (Pinacoteca di Brera, Milano).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del capitolo completando lo schema che ne visualizza l’articolazione “dilemmatica”. Secondo Machiavelli, è possibile distinguere gli stati in: 1. ……………... 2. PRINCIPATI che possono essere: 2.1 ………. 2.2 NUOVI I principati nuovi possono essere: ………………………………… e si acquistano: 1 . o con LE ARMI ALTRUI o con ……………… 2. o con …………………. o con……..………………………. STILE 2. Nel breve capitolo prevale la coordinazione per asindeto o per polisindeto?
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Sviluppa una o più argomentazioni a tua scelta (di argomento letterario, storico, economico, politico di attualità ecc.) con il caratteristico procedimento dilemmatico.
Il Principe 2 423
Collabora all’analisi
T5
Niccolò Machiavelli
I principati nuovi acquistati grazie alla «virtù» e per mezzo di milizie proprie Proponiamo il testo originale del cap. VI del Principe (➜ T5a ) e anche la recentissima riscrittura in italiano contemporaneo di Carmine Donzelli (➜ T5b ).
T5a
I principati nuovi Il Principe, cap VI
N. Machiavelli, Opere, vol. I, a c. di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997
Nell’analisi delle strutture politiche sviluppata nella prima parte dell’opera (capp. I-XI), occupa un posto privilegiato, tra le diverse forme prospettate, quella dei principati nuovi, su cui Machiavelli concentra particolarmente il suo interesse, proprio perché solo un principato «nuovo» avrebbe potuto arginare la attuale «ruina» dell’Italia. Il capitolo VI è molto importante nell’economia complessiva dell’opera perché introduce alcuni fondamentali principi metodologici (come la necessità di imitare gli esempi dei “grandi” della storia) e una delle tematiche principali del trattato, cioè il rapporto fra la virtù e la fortuna, definendo per la prima volta entrambi questi concetti-chiave della riflessione machiavelliana.
VI. DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ARMIS PROPRIIS ET VIRTUTE ACQUIRUNTUR1 Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi, e di principe e di stato2, io addurrò grandissimi esempli. Perché, camminando gli uomini 5 sempre per le vie battute da altri3 e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie d’altri al tutto tenere4 né alla virtù di quegli che tu imiti aggiugnere5, debbe uno uomo prudente6 entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare: acciò che7, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore8; e fare come gli arcieri prudenti9, a’ quali parendo 10 el luogo dove desegnano ferire10 troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù11 del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro. Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si truova 15 a mantenergli più o meno difficultà secondo che più o meno è virtuoso12 colui che gli acquista. E perché questo evento, di diventare di privato principe, presuppone o virtù o fortuna13, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighino in parte molte 1 “I principati nuovi che si conquistano con le proprie armi e con la virtù”. 2 principati... stato: principati del tutto nuovi sia nella dinastia regnante sia negli ordinamenti. 3 camminando... da altri: poiché gli uomini in genere seguono la via già tracciata da altri. 4 né si potendo... tenere: poiché non si possono sempre seguire in tutto le vie degli altri. 5 né alla virtù... aggiugnere: né (potendo)
sempre raggiungere, eguagliare, la capacità politica dei modelli che imiti. 6 prudente: saggio, avveduto. 7 acciò che: in modo che. 8 ne renda qualche odore: assomigli almeno in parte al modello (per metafora “ne porti almeno una traccia”). 9 fare come gli arcieri prudenti: agire come i più abili tiratori d’arco. Machiavelli introduce qui un efficace paragone, per mostrare come l’agire del principe debba proporsi alte mete: come l’arciere, per
424 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
raggiungere un obiettivo lontano, deve mirare verso l’alto, così un abile uomo politico deve ispirarsi ai modelli più nobili e illustri. 10 el luogo... ferire: il bersaglio che intendono colpire. 11 virtù: potenza. 12 virtuoso: capace. 13 o virtù o fortuna: o capacità politica o fortuna. Procedimento dilemmatico tipico dello stile di Machiavelli.
difficultà; nondimanco, colui che è stato meno in su la fortuna si è mantenuto più14. Genera ancora facilità essere el principe constretto, per non avere altri stati, venire 20 personalmente ad abitarvi. Ma per venire a quegli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che e’ più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo15 e simili. E benché di Moisè non si debba ragionare, sendo suto uno mero esecutore16 delle cose che gli erano ordinate da Dio, tamen17 debbe essere ammirato, solum18 per quella grazia che lo faceva degno di parlare con Dio. Ma considerato 25 Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni, gli troverrete tutti mirabili19; e se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quegli di Moisè, che ebbe sì grande precettore20. Ed esaminando le azioni e vita loro non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione21, la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma che parse loro22: e sanza 30 quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano23. Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo24 e oppresso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Conveniva che Romulo non capessi in Alba, fussi stato esposto al nascere25, a volere 35 che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria. Bisognava che Ciro trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi, ed e’ medi molli ed effeminati per la lunga pace26. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli ateniesi dispersi27. Queste occasioni per tanto feciono questi uomini felici28 e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta29: donde la loro patria ne fu nobi40 litata e diventò felicissima30. 14 nondimanco... mantenuto più: tuttavia, colui che meno ha contato sulla fortuna (e più sulle proprie capacità), si è mantenuto più a lungo al potere. 15 Moisè... Teseo: gli esempi tratti dalle storie antiche riguardano personaggi appartenenti a epoche lontanissime l’una dall’altra, senza che sia fatta distinzione tra figure storiche e mitiche. Mosè è figura biblica: liberò gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto e li condusse nella Terra promessa; Ciro è il fondatore dell’impero persiano (VI sec. a.C.); Romolo fu il leggendario primo re di Roma (VIII sec. a.C.); Teseo fu il mitico re di Atene (XII sec. a.C.). 16 sendo suto... esecutore: essendo stato un semplice esecutore. 17 tamen: tuttavia (in latino). 18 solum: soltanto (in latino). 19 mirabili: degni di ammirazione. 20 se si considerranno... precettore: se si prenderanno in esame le azioni e gli ordinamenti introdotti da ciascuno di loro, appariranno non molto differenti da quelli di Mosè, che ebbe un così grande insegnante (Dio). L’affermazione, espressa dal laico Machiavelli, ha sapore evidentemente ironico: per lui l’arte della politica non ha nulla a che vedere con la dimensione del trascendente. 21 avessino... occasione: la fortuna concesse loro soltanto l’occasione favorevole (che essi seppero sfruttare grazie alla loro abilità politica).
22 dette... loro: Machiavelli utilizza qui la terminologia filosofica aristotelica (in particolare i termini materia e forma) applicandola all’ambito storico-politico: (l’occasione) offrì a loro (i personaggi sopra citati) un momento favorevole (la materia) che essi poterono plasmare secondo il proprio intendimento («introdurvi dentro quella forma che parse loro»). 23 sanza... invano: si sottolinea l’interdipendenza tra l’occasione (la situazione storica favorevole) e la virtù (la capacità politica) del principe: solo se si presentano entrambe è possibile realizzare grandi progetti. 24 stiavo: schiavo. Machiavelli definisce i caratteri dell’occasione offerta a Mosè: gli ebrei erano schiavi degli egizi e perciò ben disposti a seguire un capo autorevole che li conducesse alla libertà. Risulta evidente l’analogia con la situazione dell’Italia cinquecentesca, ormai divenuta preda di popoli stranieri politicamente meglio organizzati (francesi e spagnoli). 25 Conveniva... al nascere: Era opportuno che Romolo non trovasse posto (capessi è latinismo da capere “contenere”) ad Alba Longa e fosse abbandonato alla nascita. Secondo la tradizione Romolo, nato ad Alba Longa, era stato abbandonato e allevato da un pastore, perché figlio illegittimo di una vestale e del dio Marte. Romolo rappresenta la figura esemplare di fondatore per eccellenza, in quanto artefice dello stato
romano. È da sottolineare in questo e negli esempi che seguono l’uso di quello che è stato definito «vocabolario della necessità», a indicare come per Machiavelli l’occasione favorevole e la capacità del singolo costituiscano un binomio inscindibile. 26 Bisognava che... pace: Ciro il Grande, fondatore dell’impero persiano, come Mosè, liberò il suo popolo da una dominazione straniera, quella dei medi, snervati ed effeminati dopo un lungo periodo senza guerre. 27 Non poteva Teseo... dispersi: il passo sottolinea ancora una volta il legame tra l’occasione favorevole e la capacità di servirsene per realizzare un progetto politico. Secondo la tradizione, Teseo avrebbe riunito varie popolazioni dell’Attica in un unico organismo statale, con al centro Atene. Anche in questo caso il riferimento alla situazione italiana è evidente: non soltanto Teseo fonda un nuovo stato, ma riunisce popoli dispersi in varie aggregazioni, dunque in una situazione simile a quella dell’Italia del Cinquecento. 28 feciono... felici: resero fortunati quegli uomini. 29 la eccellente virtù... conosciuta: qualità fondamentale per un politico, come qui sottolinea Machiavelli, è saper vedere le occasioni favorevoli, e quindi utilizzarle a proprio favore. 30 felicissima: assai prospera.
Il Principe 2 425
Quelli e’ quali per vie virtuose31, simili a costoro, diventono principi, acquistano el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli hanno nello acquistare el principato nascono in parte da’ nuovi ordini e modi che sono forzati introdurre32 per fondare lo stato loro e la loro securtà33. E debbesi considerare 45 come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo di introdurre nuovi ordini34. Perché lo introduttore ha per nimico tutti quegli che degli ordini vecchi fanno bene35, e ha tiepidi defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene: la quale tepidezza nasce parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte da la incredulità36 50 degli uomini; e’ quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggano nata una ferma esperienza37. Donde nasce che, qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente38, e quelli altri difendono tiepidamente39: in modo che insieme con loro si periclita40. È necessario pertanto, volendo discorrere41 bene questa parte, esaminare se questi 55 innovatori stanno per loro medesimi42 o se dependono da altri: cioè se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare43. Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono44 cosa alcuna; ma quando dependono da loro propri45 e possono forzare, allora è che rare volte periclitano: di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno46. Perché, oltra alle cose dette, 60 la natura de’ populi è varia47 ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli48 in quella persuasione: e però conviene essere ordinato in modo che49, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono possuto50 fare osservare loro51 lungamente le loro constituzioni, se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra Ieronimo 65 Savonerola, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi52, come la moltitudine cominciò a non credergli, e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a
31 virtuose: che esigono capacità ed energia. 32 le difficultà che... introdurre: le difficoltà che hanno nel conquistare il principato nascono in parte dai nuovi ordinamenti e istituzioni che sono costretti a introdurre. 33 securtà: sicurezza (loro e dello stato). Tale sicurezza, come Machiavelli dimostrerà nel seguito del capitolo, può fondarsi soltanto su una adeguata forza militare. 34 farsi capo ... ordini: prendere l’iniziativa di introdurre nuove leggi. 35 degli ordini vecchi fanno bene: traggono vantaggio dal vecchio ordinamento; anche poco avanti, farebbono bene, “potrebbero trarre vantaggi”. 36 incredulità: diffidenza. 37 una ferma esperienza: una esperienza sicura, accertata. 38 partigianamente: con spirito fazioso. 39 tiepidamente: con scarso slancio. 40 si periclita: si corrono rischi; poco più sotto periclitano. 41 discorrere: analizzare. 42 stanno per loro medesimi: si reggono sulle proprie forze.
43 bisogna... forzare: devono chiedere sostegno ad altri (bisogna che preghino) o possono usare la forza. Anche nella trattazione di questo punto domina il procedimento dilemmatico. 44 non conducono: non portano a termine. 45 da loro propri: da sé stessi. 46 tutti e’ profeti... ruinorno: tutti i profeti armati hanno vinto, quelli privi della forza delle armi sono caduti in rovina. Come apparirà nel seguito del capitolo, la figura del profeta armato è contrapposta a quella del profeta disarmato fra’ Girolamo Savonarola (1452-1498), la cui vicenda colpì enormemente Machiavelli. Dopo aver avuto in un primo tempo largo seguito per le sue prediche ispirate, che annunciavano un’imminente punizione divina per i peccati commessi dai fiorentini e li invitavano a pentirsi e a mutare stile di vita, il frate ampliò ulteriormente il suo consenso quando le sue profezie sembrarono avverarsi, con la discesa in Italia del re di Francia, la cacciata dei Medici da Firenze, l’instaurazione della repubblica. Ma i suoi potenti nemici, capeggiati
426 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
da papa Alessandro VI, lo screditarono e lo avversarono finché, rimasto politicamente isolato, venne condannato come eretico e giustiziato nel 1498. 47 la natura... è varia: la natura umana è mutevole, incostante. È un altro aspetto dell’antropologia negativa di Machiavelli: i pareri della folla sono mutevoli, perciò chi governa deve sempre poter disporre della forza. Il richiamo all’attualità del tempo e all’episodio di Savonarola fa comprendere come il precedente riferimento a Mosè fosse ironico: nessuna forza profetica e nessuna giustizia ideale può, secondo Machiavelli, sostituire l’uso della forza, unica vera risorsa per un’efficace azione politica. 48 fermargli: renderli fermi, stabili. 49 però conviene... modo che: perciò conviene predisporre le cose in modo che. 50 arebbono possuto: avrebbero potuto. 51 loro: ai popoli. 52 ne’ sua ordini nuovi: nel suo nuovo ordinamento repubblicano.
fare credere e’ discredenti53. Però questi tali54 hanno nel condursi grande difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via55 e conviene che con la virtù gli superino. Ma superati che gli hanno, e che cominciano a essere in venerazione, avendo spenti56 quegli 70 che di sua qualità gli avevano invidia57, rimangono potenti, sicuri, onorati e felici. [Chiude il capitolo «uno esemplo minore», ovvero quello di Gerone, divenuto tiranno di Siracusa nel 263 a.C., presentato come esempio di somma virtù politica.]
53 lui non aveva... discredenti: non di-
54 Però questi tali: Perciò quelli che, di-
sponendo della forza delle armi, Savonarola non aveva la possibilità di mantenere fedeli quanti, dopo averlo seguito, avevano perso la fiducia in lui, né di convincere quanti fin dall’inizio si erano mostrati restii (e’ discredenti).
versamente dai profeti disarmati, si affidano alla forza. 55 fra via: nel corso dell’azione. 56 spenti: uccisi; è termine del lessico machiavelliano.
57 di sua qualità... invidia: per la loro posizione sociale altolocata provavano odio per il nuovo potere del principe.
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
Nel primo paragrafo, introdotto l’argomento che occuperà i capitoli dal VI al X, ovvero i principati del tutto nuovi, Machiavelli enuncia un importante principio metodologico: la necessità per un principe prudente di imitare nelle scelte politiche modelli eminenti del passato. In quanto autore di un trattato di politica, lui stesso citerà varie volte tali esempi, come appunto farà nel paragrafo successivo del capitolo, elencando quattro personaggi, dei quali sottolinea le mirabili virtù ma soprattutto la capacità di sfruttare le circostanze favorevoli che la fortuna mise loro davanti. 1. Spiega la funzione e il significato del celebre esempio degli arcieri che Machiavelli introduce nel primo paragrafo. 2. Quali personaggi esemplari sono ricordati da Machiavelli? Qual è l’unico personaggio storico tra di essi? Da cosa sono accomunati, oltre che dalla “virtù”? 3. Quale rapporto istituisce Machiavelli tra virtù e occasione? Nel paragrafo che segue, con grande rigore analitico, Machiavelli mette in luce le difficoltà che un «nuovo principe» incontra, identificabili sinteticamente nella generale diffidenza degli uomini verso le cose nuove, che ancora non conoscono, nel fatto che anche chi è favorevole alle nuove istituzioni e sostiene il nuovo regime lo fa tiepidamente, mentre il principe nuovo ha contro tutti quelli che hanno avuto vantaggi dalla precedente compagine statale. Procedendo nella sua riflessione Machiavelli afferma che i fondatori di stati hanno bisogno della forza: la fragilità propria di un potere politico nuovo, cui sopra ha alluso, implica che il principe nuovo debba essere in grado di poter usare al bisogno anche le armi per potersi imporre. È appunto il caso dei quattro principi nuovi prima citati, mentre in tempi recenti si è visto chiaramente che chi introduce ordini nuovi, ma non può contare sulla forza, è destinato inevitabilmente a ruinare. 4. A quale proposito è introdotto il riferimento a Savonarola? Secondo Machiavelli, da cosa dipendeva l’intrinseca debolezza del suo governo? Il “principio di imitazione” L’imitazione dei classici costituisce uno dei cardini dell’ottica culturale dell’Umanesimo. Come Machiavelli spiega nel Proemio dei Discorsi (➜ T12 ), non si deve limitare l’applicazione di questo principio al solo campo artistico-letterario, ma occorre estenderla anche al campo dell’azione politica, come appunto lo scrittore mostra di fare in questo importante capitolo. La motivazione di questa scelta è presentata da Machiavelli all’inizio del capitolo come fondata su un dato certo, così scontato che non necessita di alcuna dimostrazione: «gli uomini camminano sempre sulle vie battute da altri». La selezione di Machiavelli non può non suscitare perplessità: i personaggi scelti sono tra loro molto eterogenei e non si specifica per nulla in cosa sia consistita, sul piano politico, la loro eccezionale virtù; ma soprattutto solo uno di loro appartiene effettivamente alla storia (Ciro, fondatore dell’impero persiano). Si ha quasi l’impressione che Machiavelli abbia voluto suggestionare il lettore attraverso il ricorso a personaggi per certi aspetti mitici, la cui
Il Principe 2 427
indiscutibile eccezionalità era radicata nell’immaginario collettivo. Ne deriva, al di sotto della logica stringente delle argomentazioni, una certa approssimazione nel discorso propriamente storico, che verrà messa in discussione da Guicciardini, commentando i Discorsi. 5. Alla base della concezione storica di Machiavelli, secondo cui si verifica una sostanziale ripetibilità dei comportamenti, sta una visione naturalistica dell’uomo: confronta il primo paragrafo del capitolo con il Proemio dei Discorsi, mettendo in luce le analogie.
Interpretare
Il rapporto virtù/fortuna e l’occasione Machiavelli inizia qui a delineare il complesso gioco che, nella sua concezione politica, e nel corso dell’intera opera, pone in rapporto dialettico virtù e fortuna. In questa parte iniziale del trattato la fortuna ha ancora un campo circoscritto d’azione rispetto alla virtù e, associandosi strettamente all’occasione, assume una connotazione sostanzialmente positiva: la fortuna si configura soprattutto come quadro contingente variabile che fornisce la materia a cui il politico virtuoso può imprimere in modo demiurgico la forma da lui voluta. L’impiego della terminologia aristotelica è funzionale all’enfatizzazione del ruolo primario esercitato dalle doti individuali e dalla capacità progettuale dell’uomo politico. La virtù dei quattro personaggi presentati come modello ha potuto manifestarsi perché la fortuna ha offerto loro un’occasione favorevole: in questo caso una situazione negativa di partenza, che ha consentito ai grandi personaggi nominati di sfruttare a proprio favore una “mancanza”, dei bisogni che attendevano di essere accolti. 6. La visione machiavelliana quale traspare da questo capitolo relativamente alle forze in gioco nell’azione politica ti sembra prevedere interventi soprannaturali o è interamente laica? Come spieghi allora il riferimento a Mosè che, a quanto dice Machiavelli, parlava con Dio ed era l’esecutore dei suoi disegni? Le tecniche espositive Il capitolo costituisce, nel suo insieme, un esempio delle tecniche argomentative usate da Machiavelli nella propria opera. Sono in particolare evidenti: a. la ricchezza di connettivi testuali, in particolare causali e conclusivi (dunque, così ecc.) che sostengono con forza la progressione argomentativa; b. il procedere per dilemmi, cioè attraverso alternative (o... o) volte a escludere, a costo di semplificare, qualsiasi prospettiva intermedia; c. l’uso di sentenze lapidarie che sintetizzano l’argomentazione. 7. Attraverso puntuali riferimenti al testo presenta un’adeguata esemplificazione delle caratteristiche dello stile espositivo di Machiavelli. 8. Sai rintracciare nel testo qualche esempio di quello che è stato definito il «vocabolario della necessità»?
Niccolò Machiavelli
T5b
I principati nuovi (in italiano contemporaneo) Il Principe, cap. VI
N. Machiavelli, Il Principe, con traduzione a fronte in italiano moderno di C. Donzelli, introduzione e commento di G. Pedullà, Donzelli, Roma 2013
VI. SUI PRINCIPATI NUOVI CHE SI ACQUISISCONO CON LE ARMI PROPRIE E CON LA VIRTÙ Nessuno si meravigli se, nell’affrontare il tema dei principati totalmente nuovi – per ciò che riguarda sia il principe che lo stato – adopererò esempi grandissimi. In 5 effetti, gli uomini camminano sempre sulle vie battute da altri e procedono nelle loro azioni per imitazione; e dato che le strade percorse dagli altri non si possono ripercorrere in tutto e per tutto, né può essere raggiunta appieno la virtù di quelli
428 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
che sono imitati, un uomo saggio deve sempre incamminarsi su vie battute da uomini grandi, e imitare quelli che sono stati i più eccellenti: in modo che, se la sua 10 virtù non arriva ai loro livelli, almeno ne restituisca qualche sentore; egli deve fare perciò come quegli arcieri accorti1 i quali, considerando troppo lontano il punto che intendono colpire, e conoscendo la gittata del loro arco, mirano assai più in alto dell’obbiettivo desiderato, non per raggiungere con la freccia una così grande altezza, ma per poter centrare con l’aiuto di una mira così alta il loro bersaglio. 15 Dico dunque che nel caso di principati totalmente nuovi, in cui vi sia un nuovo principe, la difficoltà di mantenerli è più o meno grande a seconda che sia più o meno virtuoso colui che li acquisisce. E poiché questo fatto, di trasformarsi da semplice cittadino in principe, presuppone o virtù o fortuna, sembra che sia l’una che l’altra di queste due cose possano mitigare in parte molte difficoltà; anche se chi meno si 20 è basato sulla fortuna, più si è mantenuto. Ulteriore vantaggio deriva dal fatto che il principe sia costretto, non avendo altri stati, ad andare di persona ad abitarvi. Ma per venire a coloro che sono diventati principi per propria virtù e non per fortuna, dico che i più eccellenti sono Mosè, Ciro, Romolo, Teseo2 e simili. E benché di Mosè non si dovrebbe ragionare, essendo stato un mero esecutore delle cose 25 che gli erano ordinate da Dio, tuttavia egli deve essere ammirato quanto meno per quella grazia che lo rendeva degno di parlare con Dio. Ma se considerate Ciro, e gli altri che hanno acquisito o fondato regni, li troverete tutti ammirevoli; e se si considerano le azioni e le decisioni di ciascuno di loro, appariranno non dissimili da quelle di Mosè, che ebbe un così grande precettore3. E se si esaminano le azioni 30 e la vita di costoro, si vede che essi ebbero dalla fortuna null’altro che l’occasione che fornì loro la materia cui dare quella forma che a loro parve confacente4: senza quella occasione, la virtù del loro animo si sarebbe spenta; e senza quella virtù l’occasione sarebbe capitata invano5. Era dunque necessario che Mosè trovasse il popolo di Israele schiavo in Egitto e 35 oppresso dagli Egizi, affinché quel popolo, per uscire dalla schiavitù, si disponesse a seguirlo6. Era opportuno che Romolo non fosse accolto ad Alba e fosse abbandonato alla nascita, per far sì che diventasse re di Roma e fondatore di quella patria7. Biso1 fare... arcieri accorti: agire come i più abili tiratori d’arco. Attraverso questo efficace paragone, Machiavelli vuol mostrare come l’agire del principe debba proporsi alte mete: come l’arciere, per raggiungere un obiettivo lontano, deve mirare verso l’alto, così un abile uomo politico deve ispirarsi ai modelli più nobili e illustri. 2 Mosè, Ciro, Romolo, Teseo: gli esempi tratti dalle storie antiche riguardano personaggi appartenenti a epoche lontanissime l’una dall’altra, senza che sia fatta distinzione tra figure storiche e mitiche. Mosè è figura biblica: liberò gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto e li condusse nella Terra promessa; Ciro è il fondatore dell’impero persiano (VI sec. a.C.); Romolo fu il leggendario primo re di Roma (VIII sec. a.C.); Teseo fu il mitico re di Atene (XII sec. a.C.). 3 un così grande precettore: un così grande insegnante, cioè Dio. L’affermazione, espressa dal laico Machiavelli, ha sapore evidentemente ironico: per lui l’ar-
te della politica non ha nulla a che vedere con la dimensione del trascendente. 4 ebbero... confacente: ebbero dalla fortuna l’occasione favorevole che fornì loro l’opportunità di imprimere la propria volontà. La metafora rimanda all’immagine della materia da forgiare secondo il proprio volere e nel modo più opportuno e riflette la terminologia filosofica aristotelica (in particolare i termini materia e forma) applicandola all’ambito storico-politico: (l’occasione) offrì a loro (i personaggi sopra citati) un momento favorevole (la materia) che essi poterono plasmare secondo il proprio intendimento. 5 senza quella... capitata invano: sottolineando l’interdipendenza tra l’occasione (la situazione storica favorevole) e la virtù (la capacità politica) del principe, Machiavelli vuol dire che solo se si presentano entrambe sono realizzabili i grandi progetti. 6 Era dunque necessario... a seguir-
lo: Machiavelli tratteggia la condizione dell’occasione offerta ai vari personaggi sopra citati. In questo e negli esempi che seguono spicca l’uso di quello che è stato definito «vocabolario della necessità», a indicare come per Machiavelli l’occasione favorevole e la capacità del singolo costituiscano un binomio inscindibile. Nel caso di Mosè, gli ebrei erano schiavi degli egizi e perciò ben disposti a seguire un capo autorevole che li conducesse alla libertà (evidente l’analogia con la situazione dell’Italia cinquecentesca, ormai divenuta preda di popoli stranieri politicamente meglio organizzati, francesi e spagnoli). 7 Era opportuno... quella patria: secondo la tradizione Romolo, nato ad Alba Longa, era stato abbandonato e allevato da un pastore, perché figlio illegittimo di una vestale e del dio Marte. Romolo rappresenta la figura esemplare di fondatore per eccellenza, in quanto artefice dello stato romano.
Il Principe 2 429
gnava che Ciro trovasse i Persiani scontenti del dominio dei Medi, e i Medi molli ed effeminati per via del lungo periodo di pace8. E Teseo non avrebbe potuto dimostrare la sua virtù se non avesse trovato gli Ateniesi divisi9. Furono tali occasioni a rendere questi uomini fortunati, e la loro eccellente virtù10 fece sì che l’occasione fosse da 40 essi riconosciuta: così la loro patria ne fu nobilitata e diventò fortunatissima. Quelli che, come costoro, diventano principi grazie alle loro virtù, acquistano il principato con difficoltà ma con facilità lo mantengono; e le difficoltà che hanno nell’acquisire il principato nascono in parte dai nuovi ordinamenti e dai nuovi costumi che sono costretti a introdurre per fondare il loro stato e la loro sicurezza. E 45 si deve considerare come non c’è cosa più difficile da trattare, né più dubbia da realizzare, né più pericolosa da manovrare, che adoperarsi per introdurre nuovi ordinamenti. Chi li introduce ha infatti per nemici tutti coloro che dai vecchi ordinamenti traggono vantaggio, e per tiepidi difensori11 tutti quelli che dagli ordinamenti nuovi trarrebbero vantaggio; tiepidezza che nasce in parte dalla paura degli avversari, che 50 hanno la legge dal canto loro, e in parte dalla incredulità degli uomini, i quali non credono davvero alle cose nuove, se prima non ne hanno avuta una dimostrazione concreta. Dal che deriva che tutte le volte che coloro che sono nemici avranno occasione di attaccare, lo faranno con forte spirito partigiano, mentre al contrario gli altri difenderanno con animo tiepido; ed è per questo che, con questi ultimi, si 55 corrono grandi pericoli. È necessario perciò, volendo analizzare bene questo aspetto, valutare se questi innovatori si reggono su una forza autonoma o se dipendono da altri; cioè se per condurre la loro opera hanno bisogno di pregare, o se invece possono imporsi. Nel primo caso si troveranno sempre in difficoltà e non concluderanno nulla; ma quando 60 dipendono solo da se stessi e possono imporsi, allora è raro che corrano pericoli; da ciò deriva il fatto che tutti i profeti armati vinsero, e quelli disarmati furono travolti12. Giacché, oltre alle cose dette, la natura dei popoli è mutevole13, ed è facile convincerli di una cosa, ma è difficile farli persistere in quel convincimento; e perciò conviene essere organizzati in modo che, quando non credono più, si possa far loro 65 credere con la forza. Mosè, Ciro, Teseo e Romolo non avrebbero potuto fare osservare ai loro sudditi così a lungo le loro costituzioni se fossero stati disarmati; come in effetti è successo ai nostri tempi a fra Girolamo Savonarola, il quale fu travolto
8 Bisognava che... di pace: Ciro il Grande, fondatore dell’impero persiano, come Mosè, liberò il suo popolo da una dominazione straniera, quella dei Medi, snervati ed effemminati dopo un lungo periodo imbelle. 9 E Teseo... Ateniesi divisi: secondo la tradizione, Teseo avrebbe riunito varie popolazioni dell’Attica in un unico organismo statale, con al centro Atene. Anche in questo caso il riferimento alla situazione italiana è evidente: non soltanto Teseo fonda un nuovo stato, ma riunisce popoli dispersi in varie aggregazioni, dunque in una situazione simile a quella dell’Italia del tempo. 10 la loro eccellente virtù: è la qualità necessaria e fondamentale per un politi-
co, saper vedere le occasioni favorevoli, e quindi utilizzarle a proprio favore. 11 tiepidi difensori: sostenitori poco entusiasti e/o poco convinti; più avanti tiepidezza, “scarso slancio”. 12 tutti... travolti: la figura del profeta armato è contrapposta a quella del profeta disarmato fra’ Girolamo Savonarola (14521498), la cui vicenda colpì enormemente Machiavelli. Dopo aver avuto in un primo tempo largo seguito per le sue prediche ispirate, che annunciavano un’imminente punizione divina per i peccati commessi dai fiorentini e li invitavano a pentirsi e a mutare stile di vita, il frate ampliò ulteriormente il suo consenso quando le sue profezie sembrarono avverarsi, con la discesa in Italia del re di Francia, la caccia-
430 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
ta dei Medici da Firenze, l’instaurazione della repubblica. Ma i suoi potenti nemici, capeggiati da papa Alessandro VI, lo screditarono e lo avversarono finché, rimasto politicamente isolato, venne condannato come eretico e giustiziato nel 1498. 13 la natura... mutevole: è un altro aspetto dell’antropologia negativa di Machiavelli: i pareri della folla sono mutevoli e incostanti, perciò chi governa deve sempre poter disporre della forza. Il richiamo all’attualità del tempo e all’episodio di Savonarola fa comprendere come il precedente riferimento a Mosè fosse ironico: nessuna forza profetica e nessuna giustizia ideale può, secondo Machiavelli, sostituire l’uso della forza, unica vera risorsa per un’efficace azione politica.
coi suoi nuovi ordinamenti non appena la moltitudine cominciò a non credergli: ed egli non aveva alcun modo né per tenere saldamente con sé quelli che avevano creduto, né 70 per far credere gli increduli. Perciò questi innovatori hanno grande difficoltà a procedere; tutti i pericoli sono disseminati lungo il percorso, e bisogna che essi li superino con la loro virtù. Ma una volta che li hanno superati e cominciano ad essere oggetto di venerazione, avendo eliminato quelli che li invidiavano per le loro qualità, rimangono potenti, sicuri, onorati e felici. [...] online T6 Niccolò Machiavelli
PER APPROFONDIRE
Un principe esemplare: il duca Valentino Il Principe, cap. VII
Il duca Valentino: un modello per Il Principe Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI, noto come duca Valentino, al cui operato è dedicato il lungo capitolo VII del Principe, è solitamente indicato come la figura di riferimento cui Machiavelli si sarebbe ispirato nel delineare le caratteristiche del principe “virtuoso”, ovvero capace ed efficiente. Machiavelli, nelle sue missioni per conto della Repubblica di Firenze, ebbe modo di conoscere personalmente il Valentino e ne fu fortemente colpito. Quando, anni dopo la morte del Valentino (1507), scrive Il Principe, si sofferma analiticamente a considerare le spregiudicate scelte politiche del duca, giudicandole come esempi positivi e degni di emulazione da parte di un politico accorto (e tra queste scelte figura anche l’inganno, il tradimento, persino l’omicidio, perpetrati ai danni di temibili avversari politici): «Io non saprei» scrive «quali
precetti mi dare migliori a uno principe nuovo che lo esemplo delle azioni sua». Lo spazio dato alla figura del duca è motivato dalle possibili analogie fra il duca Valentino, divenuto principe di uno stato nuovo, appoggiato dal papa (di cui era figlio) e Giuliano de’ Medici, a cui Machiavelli aveva originariamente pensato di indirizzare la sua opera; a sua volta, Giuliano era fratello di un papa della sua stessa famiglia (Leone X). E in proposito circolavano voci secondo le quali il papa avrebbe favorito il fratello nella creazione di un principato nuovo in Emilia. L’insistenza nel cap. VII sulle “qualità” del Valentino (ma anche la segnalazione dell’errore che ne determinò la caduta) appare quindi motivata da precise circostanze e dalla volontà di Machiavelli di fare della storia recente (come del resto anche di quella passata) occasione fattiva di insegnamento politico.
Due ritratti di Cesare Borgia: il primo, di Altobello Melone (prima metà del XVI secolo, Accademia Carrara, Bergamo); il secondo, di un anonimo pittore romagnolo (XVI secolo, Palazzo Venezia, Roma).
Il Principe 2 431
Niccolò Machiavelli
Le qualità del principe machiavelliano
T7
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Il Principe, cap. XV N. Machiavelli, Opere, vol. I, a c. di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997
ANALISI INTERATTIVA
I capitoli XV-XIX costituiscono la sezione più nota del Principe. In essi è contenuto il nucleo più rivoluzionario dell’opera, ad essi si collega l’immagine vulgata del Principe come libro “scandaloso”. Machiavelli affronta in questi capitoli il tema scottante del comportamento del principe alla luce del rispetto della «verità effettuale». Una scelta metodologica che implica il rifiuto di ogni rappresentazione edulcorata e idealizzante della dura realtà dell’azione politica.
XV. DE HIS REBUS QUIBUS HOMINES ET PRAESERTIM PRINCIPES LAUDANTUR AUT VITUPERANTUR1 Resta ora a vedere2 quali debbino essere e’ modi e governi3 di uno principe o co’ sudditi o con li amici. E, perché io so che molti di questo hanno scritto4, dubito, 5 scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso5, partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri6. Ma sendo l’intenzione mia stata7 scrivere cosa che sia utile a chi la intende8, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa9. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero10 10 essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere11, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua12: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni13. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere14, imparare a potere essere 15 non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità15. Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime16 e’
1 “Di quelle cose per le quali li uomini, e specialmente i principi, sono lodati o biasimati”. 2 Resta ora a vedere: rimane ora da considerare. Il passo introduce la sezione più nuova e rivoluzionaria del Principe, dedicata all’etica. 3 e’ modi e governi: il modo di comportarsi. 4 molti… hanno scritto: Machiavelli si riferisce ad una lunga tradizione di trattatistica politica, che comincia con autori classici come Platone, Aristotele e Cicerone, fino ad arrivare agli scrittori cristiani medievali e agli umanisti. Pur presentando idee diverse, tali autori sono sostanzialmente accomunati da una visione idealizzata della politica, contestata da Machiavelli. 5 dubito... prosuntuoso: ho il timore, scrivendone anch’io, di essere considerato presuntuoso.
6 partendomi… delli altri: poiché, trattando questo argomento, mi discosto moltissimo dall’impostazione degli altri. 7 sendo... stata: dato che il mio scopo è stato. 8 cosa che… intende: precetti utili a chi li sa comprendere. Il criterio per giudicare il trattato politico di Machiavelli dovrà essere l’utilità dell’opera, non un giudizio moralistico. 9 andare dreto… essa: studiare l’effettiva realtà della cosa e non una sua rappresentazione ideale. 10 in vero: nella realtà. 11 gli è tanto… vivere: c’è tanta distanza tra come è effettivamente la vita a come dovrebbe essere secondo un ideale astratto. 12 impara… perservazione sua: impara più a rovinarsi che a salvarsi. Chi segue i propri ideali senza rendersi conto di quanto essi siano costantemente traditi nella
432 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
realtà, secondo Machiavelli va incontro alla propria rovina. 13 uno uomo… buoni: un uomo che voglia mostrarsi buono in ogni situazione, necessariamente va in rovina in mezzo a tanti che non sono buoni. La fondamentale malvagità della natura umana è uno dei presupposti principali (quasi un assioma) della riflessione politica di Machiavelli. 14 volendosi... mantenere: volendo un principe conservare il potere. 15 imparare… necessità: imparare a poter essere non buono (duro, sleale, crudele) e saper applicare o no tale modello di comportamento a seconda delle necessità. Machiavelli introduce qui una distinzione tra politica e morale: per dominare una massa di uomini “non buoni” il principe non potrà evitare di ricorrere a comportamenti condannati dalla morale tradizionale. 16 massime: soprattutto.
principi, per essere posti più alti17, sono notati di18 alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che19 alcuno è tenuto liberale20, alcuno 20 misero21 (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere22: misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo23); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace24; alcuno crudele, alcuno piatoso25; l’uno fedifrago26, l’altro fedele27; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce e animoso28; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo29, l’altro casto; 25 l’uno intero30, l’altro astuto31; l’uno duro, l’altro facile32; l’uno grave33, l’altro leggieri34; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone35. Ma perché le non si possono avere tutte né interamente osservare36, per le condizioni umane che non lo consentono, è necessario 30 essere tanto prudente37 ch’e’ sappi fuggire la infamia di quegli vizi che gli torrebbono lo stato38; e da quegli che non gliene tolgono guardarsi39, s’e’ gli è possibile: ma non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare40. Ed etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizi, sanza e’ quali possa difficilmente salvare lo stato41; perché, se si considera42 bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, 35 e seguendola43 sarebbe la ruina sua: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo44.
17 per essere... alti: per essere in una posizione più in vista. 18 notati di: giudicati per. 19 E questo è che: intendo dire che. La locuzione introduce esempi che meglio specificano l’affermazione precedente. 20 è tenuto liberale: è considerato generoso. 21 misero: avaro. 22 avaro… avere: avaro nella nostra lingua toscana è ancora colui che desidera possedere ciò che può ottenere sottraendolo (cioè è avido). 23 misero… usare il suo: noi chiamiamo misero quello che in ogni modo evita sistematicamente di spender del suo (si astiene troppo). 24 donatore… rapace: generoso… ingordo. 25 piatoso: pietoso. 26 fedifrago: sleale. 27 fedele: leale.
28 feroce e animoso: fiero e coraggioso. 29 lascivo: vizioso. 30 intero: sincero, onesto. 31 astuto: calcolatore. 32 facile: accomodante. 33 grave: serio. 34 leggieri: superficiale. 35 ciascuno… buone: ciascuno ammetterà che sarebbe una cosa lodevolissima se in un principe, tra le qualità sopra elencate, si trovassero tutte quelle che sono considerate buone. 36 interamente osservare: applicare completamente (in tutti i casi). 37 prudente: saggio. 38 ch’e’ sappi fuggire… stato: che sappia evitare la cattiva fama dei vizi che gli farebbero perdere lo stato. 39 guardarsi: astenersi. 40 da quegli… andare: guardarsi dai vizi che non gli farebbero perdere lo stato, se
è possibile; ma, se non è possibile, può lasciarsi andare a tali vizi con minore preoccupazione. 41 Et etiam… stato: e non si preoccupi di incorrere nella cattiva fama di quei vizi senza i quali difficilmente potrebbe salvare lo stato. 42 considera: considererà. 43 seguendola: se la seguisse. 44 seguendola… suo: quando la segue ne ricava sicurezza e condizioni favorevoli. In rapporto all’utilità politica sono dunque distinte tre categorie di vizi: quelli da evitare, perché farebbero perdere lo stato; quelli indifferenti ai fini politici, da evitare solo quando è possibile; quelli utili alla conservazione del potere, che il principe dovrà esercitare, almeno in alcune occasioni.
Analisi del testo Una dichiarazione metodologica rivoluzionaria «Resta ora a vedere…»: con questa affermazione iniziale Machiavelli segnala al lettore uno snodo importante: dopo la rassegna relativa alle tipologie dei principati e alle modalità della loro conquista, comincia una nuova sezione del Principe. La nuova sezione si apre con una presa di posizione netta nei confronti di una tradizione, quella della trattatistica politica, da cui Machiavelli prende polemicamente le distanze, inaugurando un nuovo modo di parlare di politica («partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri»). La motivazione di questa frattura con la tradizione è presto detta: «sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più
Il Principe 2 433
conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa». L’obiettivo pragmatico che ispira l’opera (suggerire comportamenti utili al principe) comporta di necessità il rifiuto di ogni rappresentazione ideale in nome della «verità effettuale», espressione coniata da Machiavelli per alludere alla realtà dei fatti, con cui il politico che non vuole ruinare deve necessariamente confrontarsi. Da questo principio deriva la necessità di «imparare a potere essere non buono» perché proprio la «verità effettuale» insegna che la maggior parte degli uomini non è buona.
La subordinazione dell’etica alle ragioni della politica Il capitolo prosegue in modo apparentemente più “innocuo”: Machiavelli elenca, persino con eccessiva analiticità e quasi pignoleria, qualità positive e negative per le quali un principe può farsi notare dai suoi sudditi. Ma la conclusione del capitolo, inaspettatamente, sovverte i tradizionali parametri di giudizio: l’agire politico viene infatti espressamente separato dalla morale, l’utilità politica diviene il criterio assoluto che giudica la “bontà” dei comportamenti del principe. In linea di principio è giusto evitare i comportamenti infamanti, ma solo se le qualità buone non risultano nocive per lo stato. Allo stesso modo ci possono essere comportamenti in sé viziosi che però risultano necessari per la salvezza dello stato e vanno perciò coraggiosamente seguiti. Con queste asserzioni, di cui lo scrittore non ignora per primo la portata innovativa, Machiavelli fonda l’autonomia dell’analisi politica rispetto alla visione morale che gli consente di formulare in ambito politico delle “leggi” a cui è possibile far riferimento se si vuole avere successo.
Lo stile In rapporto al concetto chiave del testo, e cioè la necessità in ambito politico di seguire la “verità effettuale” e non prospettive ideali, il capitolo utilizza con particolare frequenza strutture antitetiche, che sottolineano la contrapposizione tra la visione di Machiavelli e la tradizione: ad esempio verità effettuale vs immaginazione (e, più avanti, cose immaginate vs quelle che sono vere), ruina vs preservazione; antitetico è pure l’elenco di prerogative che arrecano biasimo o laude a un principe: liberale/misero, donatore/rapace, ecc. Anche la sconcertante conclusione del capitolo che relativizza, in rapporto agli effetti in campo politico, la virtù e il vizio, è strutturata in forma antitetica. Significativa, sempre in rapporto alla tesi centrale del capitolo, è la contrapposizione dei modi verbali: al condizionale, a cui afferisce la realtà ipotetica («quello che si dovrebbe fare», «sarebbe laudabilissima cosa...») si contrappone l’indicativo, che fa riferimento alla realtà effettuale («quello che si fa», «non si possono avere tutte...»). Infine, anche in questo capitolo, come in molti altri, si può rilevare la tendenza di Machiavelli a tradurre il suo pensiero in frasi sentenziose di forte pregnanza ed evidenza dimostrativa («...colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara più presto la ruina che la preservazione sua»).
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
coMPrenSione 1. Per quale motivo, secondo Machiavelli, per essere un buon principe non bisogna necessariamente essere un principe buono? 2. Perché Machiavelli ha il timore di apparire prosuntuoso? anaLiSi 3. In quali circostanze il principe deve evitare di tenere comportamenti viziosi e in quali, invece, può assumerli?
interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
Scrittura
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
4. Machiavelli nel passo avvicina la pusillanimità all’effemminatezza. Per quale motivo? Secondo te, la considerazione di Machiavelli, oggi, potrebbe essere ritenuta discriminatoria? Esponi le tue riflessioni in merito in un testo di max 15 righe.
434 Quattrocento e cinQuecento 8 Niccolò Machiavelli
Testi in dialogo
L’immagine del principe ideale nella trattatistica umanistica Proponiamo tre testi che delineano la figura del principe tra Umanesimo e Controriforma.
Giovanni Pontano
D1a
Immagini del principe tra Umanesimo e Controriforma De principe liber
G. Pontano, De principe liber, in Prosatori latini del Quattrocento, a c. di E. Garin, Ricciardi, MilanoNapoli 1952
Nella seconda metà del Quattrocento, all’interno delle corti signorili, è assai diffusa la produzione di trattati in latino che delineano le qualità necessarie a chi governa: in questi scritti gli intellettuali che dipendevano dal signore-mecenate assumevano il ruolo di consiglieri e educatori. Anche se questi scritti si inseriscono nell’ambito di una cultura, quella umanistica, ormai ispirata a valori prevalentemente laici, essi continuano a ritenere fondamentali quelle stesse virtù etiche esaltate dalla trattatistica politica medievale: la clemenza, la liberalità, la fedeltà, la giustizia. Ne risulta un’immagine del tutto ideale del principe.
Quelli che vogliono comandare devono innanzitutto proporsi due scopi: la liberalità e la clemenza. Infatti il principe che si mostri liberale renderà amici i nemici, suoi fautori gli estranei, fidi i malfidi; indurrà ad amarlo gli stranieri, anche se dimorino in terre lontanissime. Quanto poi a colui in cui troviamo la clemenza, lo ammiriamo 5 tutti, lo veneriamo, lo consideriamo una specie di Dio. Sono entrambe virtù che rendono il principe sommamente simile a Dio, la cui caratteristica è di fare del bene a tutti e di perdonare i colpevoli. [...] Il principe che si ricorderà di essere un uomo, online non si lascerà mai trasportare dalla superbia, ricercherà l’equilibrio, e quando vedrà D1b Erasmo da Rotterdam che tutte le cose gli vanno secondo il proprio disegno, allora specialmente si ricorderà Il «Principe cristiano» 10 che le vicende umane sono regolate da Dio, al quale la superbia riesce particolarmenL’educazione del te spiacevole. Bada a quel che prometti ed anche a chi prometti. Non basta infatti principe cristiano tener conto delle facoltà e dei meriti, ma anche dei tempi e degl’ingegni. Vanno infatti considerate molte altre cose, e soprattutto che non v’è nulla di più vergognoso del non mantenere la parola; la quale è così importante che quando si sia data anche online 15 a un nemico, tuttavia è necessario rispettarla. Ed essendo la fede, come dicono gli D1c Giovanni antichi, costanza e verità nelle parole e nei patti, il principe non deve anteporre nulla Botero «La religione è alla verità, come è mostrato da quella saggia costumanza dei nostri antichi, secondo fondamento di ogni prencipato» cui ogni giorno deve essere offerto al principe, perché lo baci, il libro degli Evangeli, Della ragion di stato che contiene la verità divina, in modo che il principe ne sia ammonito al rispetto V, II 20 della verità e ricordi di mostrarsi sommamente zelante di essa.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare Interpretare
COMPRENSIONE 1. Chiarisci il senso della massima di Pontano «bada a quel che prometti ed anche a chi prometti». SCRITTURA 2. Quale rapporto tra il principe e la figura divina emerge nei passi proposti? Esponi le tue riflessioni in un testo di massimo 10 righe.
Il Principe 2 435
Niccolò Machiavelli
T8
Il ribaltamento del “catalogo delle virtù”: il principe golpe e lione Il Principe, cap. XVIII
N. Machiavelli, Opere, vol. I, a c. di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997
ANALISI INTERATTIVA
Il capitolo XVIII è sicuramente quello che ha maggiormente colpito e sconcertato i lettori del Principe per l’ardito rovesciamento dei precetti moralistici propri del trattato umanistico, qui operato in rapporto al tema della lealtà. Il capitolo si pone in stretta continuità con il precedente e, come quest’ultimo, trova le proprie premesse concettuali nella dichiarazione di “metodo” enunciata nel cap. XV, ovvero nella necessità di aderire alla «verità effettuale» se si vuole scrivere cosa utile a chi legge.
XVIII. QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA1 Quanto sia laudabile2 in uno principe il mantenere la fede3 e vivere con integrità4 e non con astuzia, ciascuno lo intende: nondimanco5 si vede per esperienza, ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco 6 5 conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e alla fine 7 hanno superato quelli che si sono fondati in su la realtà . Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere8: l’uno con le leggi, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie9. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: 10 pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata alli principi copertamente10 da li antichi scrittori; e’ quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro11, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno 12 13 15 principe sapere usare l’una e l’altra natura : e l’una sanza l’altra non è durabile . Sendo dunque necessitato uno principe14 sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione15: perché el lione non si defende da’ lacci16, la golpe non
1 “In che modo i principi debbano mantenere la parola data”. 2 laudabile: lodevole. 3 mantenere la fede: rispettare la parola data. 4 con integrità: con lealtà. 5 nondimanco: tuttavia. La congiunzione avversativa sottolinea la distanza tra il comportamento teoricamente lodevole e quello che il principe è costretto a adottare sotto la pressione della «verità effettuale» delle circostanze politiche. 6 si vede... e’ cervelli: si vede per esperienza che nei nostri tempi hanno compiuto grandi imprese quei prìncipi che si sono poco curati di mantenere la parola data e che con l’astuzia hanno saputo ingannare le menti. 7 realtà: sincerità. 8 dua generazioni di combattere: due
generi di lotta politica.
9 l’uno con le leggi... delle bestie: Machiavelli si riferisce a un famoso passo di Cicerone (De officiis [I doveri] I, xi , 34): «essendoci due modi di combattere, uno con la discussione, l’altro con la forza, e pur essendo il primo tipico degli uomini, il secondo delle bestie, tuttavia bisogna ricorrere al secondo, quando non è possibile servirsi del primo». 10 copertamente: dietro la finzione di favole mitologiche e allegoriche. 11 scrivono... centauro: secondo il mito, Achille, come altri famosi eroi greci, fu allevato e educato dal centauro Chirone, per metà uomo e per metà cavallo; furno, “furono”. 12 sapere usare... natura: attraverso l’efficace immagine simbolica del centauro si sottolinea l’importanza della dimen-
436 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
sione istintiva e naturale dell’uomo che, secondo Machiavelli, non può affidarsi esclusivamente alla razionalità per esercitare il potere. 13 l’una... durabile: il ricorso a una sola delle due componenti (o razionale o “bestiale”), senza l’altra, non permette che il potere del principe sia durevole. 14 Sendo... uno principe: Quando un principe è costretto dalla situazione a. 15 la golpe e il lione: la volpe, simbolo di doppiezza e di astuzia, e il leone, simbolo di forza. Il senso del discorso machiavelliano è che, in situazioni di difficoltà, si può procedere sia attraverso la razionalità espressa dalle leggi, sia attraverso la sopraffazione dell’altro, effettuata con la violenza o con l’astuzia. 16 da’ lacci: dalle trappole; cioè, metaforicamente, dagli inganni.
si defende da’ lupi17; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire18 e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne inten20 dono19. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere20. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi21 e non la osserverebbono a te, tu etiam22 non l’hai a osservare a loro23; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inosser25 vanzia24. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante pace, quante promisse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi25: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato26. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire27 ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici28 gli uomini, e tanto ubbediscono alle necessità presenti29, che 30 colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare. Io non voglio delli esempli freschi30 tacerne uno. Alessandro sesto non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini31, e sempre trovò subietto32 da poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare33, e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno; nondimeno 34 35 sempre gli succederno gl’inganni ad votum , perché conosceva bene questa parte 35 del mondo . A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle; anzi ardirò di dire36 questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili37; come parere piatoso38, fedele39, umano, intero40, religioso, ed essere41: ma 40 stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario42. E hassi a intendere43 questo, che uno principe e massime
17 la golpe... da’ lupi: l’astuzia non si sa
24 mancorno... inosservanzia: sono
difendere dalla violenza. 18 sbigottire: spaventare. 19 coloro... intendono: i principi che si basano esclusivamente sulla forza (e non sull’astuzia) non comprendono la politica. 20 quando tale... promettere: quando il mantenere la parola data (tale osservanzia) gli rechi danno e siano svanite le ragioni che lo hanno spinto a promettere. 21 tristi: malvagi. In questo capitolo si evidenzia particolarmente l’antropologia negativa di Machiavelli, poiché vengono espressi giudizi negativi sia sulla moralità sia sulla capacità di giudizio della maggior parte degli uomini. Tale antropologia negativa giustifica quello che è probabilmente il precetto più sconcertante del trattato, l’invito alla doppiezza, alla slealtà e alla frode. 22 tu etiam: anche tu (latinismo). 23 non l’hai... loro: non devi mantenere la parola data loro. Nel capitolo si osserva il ricorrere del «lessico della necessità», a indicare che il principe è costretto ad allontanarsi dai precetti di un’etica che non tiene conto delle reali condizioni del potere.
mancati dei pretesti legittimi per mascherare la mancanza di lealtà. 25 fatte irrite... de’ principi: rese inutili e vane (coppia sinonimica) per la slealtà dei principi. 26 è meglio capitato: ha avuto più successo. 27 è necessario... colorire: è necessario sapere ben nascondere questa natura sleale. 28 semplici: creduloni, superficiali. 29 ubbediscono... presenti: guardano soltanto alla situazione del momento (dimenticando il passato). 30 freschi: recenti. 31 Alessandro sesto... uomini: nella curia romana Alessandro VI e suo figlio Cesare Borgia, il Valentino, erano famosi per l’astuzia e la doppiezza, come testimonia Guicciardini nella Storia d’Italia (VI, ii ): «La simulazione e dissimulazione de’ quali era tanto nota nella corte di Roma che n’era nato comune proverbio che ’l papa non faceva mai quello che diceva e il Valentino non diceva mai quello che faceva». 32 subietto: occasione. 33 in asseverare: nel garantire la verità di quanto affermava.
34 gli succederno... ad votum: gli inganni gli riuscirono secondo il suo desiderio.
35 conosceva bene... mondo: era esperto di questo aspetto della natura umana.
36 ardirò di dire: oserò dire. L’affermazione in prima persona sottolinea la consapevolezza dell’autore di quanto sia radicale e paradossale la conclusione a cui giunge. 37 avendole... utili: Machiavelli afferma che per un politico sarebbe utile fingere di possedere le qualità positive elencate, ma dannoso possederle davvero. 38 piatoso: pietoso. 39 fedele: leale. 40 intero: onesto. 41 ed essere: ed esserlo veramente. 42 stare in modo... il contrario: ma bisogna avere l’animo preparato in modo che, quando è necessario, tu possa e sappia rivolgerti a un modello di comportamento opposto. Il senso è che quando comportarsi secondo le norme etiche si rivela dannoso, bisogna saper ricorrere a un comportamento eticamente scorretto, ma utile ai fini della conservazione del potere. 43 hassi a intendere: si deve comprendere.
Il Principe 2 437
uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato44, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione45. E però biso45 gna che egli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano46; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato47. Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto 50 pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani48; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi49: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato 50 55 che gli difenda ; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine51. Facci52 dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli53 e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo, e’ pochi non ci hanno luogo quando 54 60 gli assai hanno dove appoggiarsi . Alcuno principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare55, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe56 più volte tolto e la riputazione e lo stato.
44 chiamati buoni... necessitato: considerati buoni, essendo spesso costretto a. 45 contro... religione: l’anafora evidenzia il paradossale comportamento richiesto al «buon principe». Machiavelli sottolinea come la situazione instabile di un principato nuovo obblighi il principe a comportamenti che sarebbero condannati dalla morale tradizionale. 46 abbia uno animo... comandano: attraverso la metafora del vento, che suggerisce l’immagine della navigazione, Machiavelli indica come fondamentale per il principe la capacità di adeguarsi al rapido mutamento delle situazioni, per il quale mantenere la parola data in precedenza può risultare in molti casi sfavorevole. 47 non partirsi… necessitato: non allontanarsi dal bene, se può, ma, saper entrare nel male, quando vi è costretto. 48 li uomini... mani: gli uomini in generale (in universali) giudicano più secon-
do l’apparenza esteriore (alli occhi) che secondo una piena comprensione della cosa, che vada oltre l’aspetto superficiale (alle mani). 49 tocca a vedere... a pochi: (dei provvedimenti del principe) a pochi capita di subire le conseguenze, a tutti di vederli dall’esterno. 50 quelli pochi... difenda: quei pochi (che sono scontenti del regime) non osano opporsi all’opinione della maggioranza che abbia il potere e le leggi dello stato a difenderla. 51 dove non è iudizio... fine: dove non c’è un’autorità superiore al cui giudizio appellarsi, si guarda al risultato delle azioni. 52 Facci: Faccia in modo. 53 e’ mezzi... onorevoli: i mezzi utilizzati saranno sempre giudicati onesti (dalla massa). Da questo passo venne tratta la massima “il fine giustifica i mezzi”, che viene erroneamente attribuita a Machiavelli. In realtà l’autore del Principe affer-
438 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
ma che, se il fine viene realizzato, i mezzi appaiono leciti a una massa sprovvista di capacità di giudizio (che Machiavelli chiama, con espressione spregiativa, vulgo). 54 el vulgo... appoggiarsi: il popolo, la massa deve essere conquistata con le apparenze (con quello che pare) e con il successo dell’azione; poiché nel mondo non si trovano altro che persone di tal genere, i pochi meritevoli non hanno spazio quando i più hanno il sostegno del potere politico. 55 Alcuno principe... nominare: un principe del nostro tempo, che non è prudente nominare. Con abile strategia retorica, dichiarando prudente non nominarlo, Machiavelli suscita un’atmosfera minacciosa attorno alla figura di Ferdinando, il re spagnolo definito “il Cattolico” per antonomasia. 56 arebbe: avrebbe.
Analisi del testo L’inizio del capitolo e la tecnica del “rovesciamento” Il capitolo, conformemente ai due che lo precedono, inizia con una dichiarazione di adesione dell’autore al codice tradizionale dei valori da tutti condiviso («ciascuno lo intende»). Il brusco inserimento della congiunzione modificativa nondimanco (frequente in Machiavelli) segna però subito la frattura tra un sistema di valori che sarebbe auspicabile rispettare e la “necessità”, imposta dalle dure leggi della politica, di non rispettarlo: hanno successo proprio quei principi che hanno raggirato gli uomini e hanno così potuto prevalere sui principi che sono stati leali. Anche se non detto in modo esplicito, dietro il passo sta certamente il travaglio che la coscienza dello scrittore dovette affrontare nel momento in cui demolisce l’assolutezza dei princìpi morali, divenuti nel suo pensiero un universo utopico e lontano.
Il mito del centauro Chirone e il lato ferino della politica Continuando la propria argomentazione, Machiavelli si rivolge ai lettori attraverso un enunciato fatico (che cioè vuol stabilire un contatto fra scrittore e lettore) di particolare autorevolezza: «Dovete adunque sapere». È un’autorevolezza che si rende particolarmente necessaria nel momento cruciale in cui l’autore si prepara a enunciare verità difficilmente accettabili: il politico, scrive Machiavelli, deve saper essere anche bestia e non solo uomo e adoperare il suo lato umano (il rispetto della legalità) e il suo lato animalesco (l’uso della forza) a seconda delle necessità. Come si è detto (nella nota 9), la fonte di questa osservazione machiavelliana è un passo del De officiis di Cicerone. Secondo l’autore questa doppia natura del principe è rappresentata in forma simbolica nel mito del centauro Chirone (i centauri avevano infatti, secondo la leggenda, busto umano e corpo equino) che allevò Achille e altri condottieri, come Giasone. Machiavelli accoglie l’immagine mitologica del centauro, di forte suggestione per chi legge, ma la sottopone a un’interpretazione razionalistica: il mito significa appunto che i politici devono disporre di qualità sia umane sia ferine.
La golpe e il lione
Giovanni Battista Cipriani, Chirone istruisce Achille nell'uso dell'arco, 1776 ca. (Philadelphia Museum of Art, Philadelphia).
La metafora animalesca del centauro si precisa ulteriormente, secondo l’abituale procedimento binario, nelle figure della volpe e del leone a cui deve ispirarsi la condotta politica del principe, associando la forza all’astuzia. A proposito di quest’ultima Machiavelli sostiene l’impossibilità per il politico di mantenere la parola data, tenuto conto della natura degli uomini, di cui Machiavelli ribadisce la negatività («se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro»). Come esempio di golpe, cioè di politico capace di simulare e dissimulare (due termini quasi sinonimici) Machiavelli cita l’esempio “moderno” di papa Alessandro VI; le parole con cui ne sintetizza la condotta politica suscitano ancora oggi sconcerto, essendo il personaggio citato a capo della Chiesa cattolica, che avrebbe dovuto farsi portavoce tra gli uomini dei principi cristiani: «non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini». Le immagini allegoriche della volpe e del leone, oltre che da Cicerone (De officiis, I, xiii, 41), sono ispirate dal XXVII canto dell’Inferno dantesco (vv. 74-76), in cui Guido da Montefeltro così dichiara il proprio carattere fraudolento: «l’opere mie / non furon leonine, ma di volpe. / Li accorgimenti e le coperte vie / io seppi tutte [...]». Ammiratore di Dante, Machiavelli si contrappone al poeta fiorentino che considera la frode un peccato gravissimo, perché volge al male la ragione, la più nobile prerogativa dell’uomo.
Il Principe 2 439
L’etica dell’apparenza, la “virtù” della dissimulazione Nel capitolo XV Machiavelli aveva elencato le qualità positive e negative che un principe avrebbe potuto avere. Limitandosi qui a quelle positive, Machiavelli sostiene che non è opportuno avere tutte quelle positive, l’importante è sembrare di averle (in particolare la pietà, la lealtà e soprattutto lo spirito religioso). Machiavelli è consapevole dello sconcerto che le sue affermazioni avrebbero suscitato, ma continua fino in fondo la sua dolorosa presa di coscienza delle terribili virtù richieste all’uomo politico: «bisogna […] non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato»; il popolo, sulle cui capacità critiche esprime un giudizio del tutto negativo, guarda ai risultati e non ai mezzi delle azioni politiche, guarda all’apparenza e non all’essenza («el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo»). La duttilità opportunistica, la valorizzazione dell’apparire rispetto all’essere, sconcertanti precetti di comportamento enunciati in questa parte fondamentale del Principe, sono alla base di quell’atteggiamento che è stato definito “machiavellismo”.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto del capitolo mettendo in evidenza i punti principali. COMPRENSIONE 2. Ti sembra che l’autore sia consapevole dell’arditezza delle sue affermazioni? ANALISI 3. Schematizza nella tabella sottostante le prerogative e i comportamenti del principe che corrispondono rispettivamente alla golpe e al lione. Golpe
Interpretare
Lione
ESPOSIZIONE ORALE 4. Nella parte finale del testo si fa riferimento al fine e ai mezzi dell’azione del principe. È su questa affermazione che si è tramandata la celebre massima “il fine giustifica i mezzi”, che – a torto – ha finito per essere attribuita allo stesso Machiavelli e che generalizza una riflessione che esige invece di essere contestualizzata con precisione. Prova a farlo, in un intervento orale di max 3 minuti. SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. In questo capitolo (ma anche in altri punti della sua opera), Machiavelli dà un giudizio negativo sul popolo, che appare facilmente manipolabile dal principe, come un passivo strumento nelle sue mani: utilizzando anche il passo critico di Garin (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO OL), in un testo di max 15 righe sviluppa una tua riflessione sul modello politico che si evince da questo e da altri capitoli de Il Principe in rapporto anche alla realtà storica delle signorie rinascimentali e alle strategie del consenso effettivamente praticate in esse.
online T9 Niccolò Machiavelli
Perché i principi d’Italia persero il regno Il Principe, cap. XXIV
440 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Eugenio Garin Il principe machiavelliano come espressione estrema della cultura italiana del Rinascimento E. Garin, La cultura del Rinascimento, Laterza, Bari 1973
Questo breve passo, tratto da un saggio di uno dei più importanti studiosi del Rinascimento italiano (1909-2004), sintetizza i rapporti tra la figura del principe tratteggiata da Machiavelli, la cultura rinascimentale – di cui costituisce un evidente frutto – e la forma assoluta assunta dal potere politico nel Rinascimento, che in breve tempo mostrerà tutta la sua fragilità.
Con ferrea coerenza Machiavelli trae alle ultime conseguenze la valorizzazione del mondano e dell’umano [della dimensione terrena e umana], che aveva caratterizzato la nascita della nuova civiltà rinascimentale. Dentro questo orizzonte terreno si collocano tutti i valori; dai cieli essi scendono in terra, commisurati al metro del 5 «bene comune»; la religione non solo non è più misura suprema e trascendente; è, essa stessa, subordinata ai bisogni della città terrena. Senonché, a sua volta, nel momento della crisi delle concezioni medievali, la res publica sembra contrarsi nel Principe; e il Principe, piuttosto che incarnazione e simbolo di uno stato espresso dalla volontà comune dei liberi cives [cittadini], appare col volto dei violenti 10 e sfrenati Signori dei principati italiani. Non più le Signorie dei «liberi» comuni medievali travolte dai conflitti interni ed esterni; ma non ancora lo stato come organizzazione di forze pubbliche per il pubblico bene; solamente un condottiero, una individualità d’eccezione, una «forza della natura», un Principe, appunto, tristo o buono poco importa, un individuo che per sua “virtù” ha vinto “fortuna”, e si 15 è fatto Dio in terra, o, meglio, nella città. Non un istituto, un magistrato rispetto a cui ogni civis conservi integra la propria libertà riconoscendosi in chi esprime la universitas civium [comunità dei cittadini], ma un signore onnipotente in terra, come il Signore Iddio era onnipotente nei cieli. Di fronte a lui, e a lui simmetrico, sta il “cortegiano” come esecutore di ordini […] nell’oscuro senso di insoddisfazione 20 per la propria soggezione, non a una norma, ma all’arbitrio di uomo.
Il Principe 2 441
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Antonio Gnoli e Gennaro Sasso “Bene” e “male” per Machiavelli A. Gnoli e G. Sasso, I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli, Bompiani, Milano 2013
Nel breve testo critico si delinea ciò che significa “bene” e “male” nella concezione dell’agire politico dell’uomo di governo.
Si è spesso accostato il potere al male, a quella voce demoniaca che risuona nella testa del principe e ne detta le azioni. In realtà, il “male” machiavelliano, ossia quel tratto antropologico che si ricava da una serie di discutibili comportamenti – sopraffazione, viltà, egoismo e violenza – non ha nulla di abissale e dunque di 5 insondabile. Esso non rinvia ad alcuna ferocia metafisica; non dispone – come pure talvolta si è equivocato – delle potenze infernali, non schiera angeli caduti. [...]. “Bene” e “male” non sono per Machiavelli valori morali ma istanze politiche. [...] Nel linguaggio machiavelliano [...] “bene” e “male” non implicano nessun mistero, nessuna presenza teologica, né tanto meno morale. 10 Costituiscono piuttosto il dettato elementare di ciò che in politica è suscettibile di un’azione tanto desiderabile quanto, possibilmente, volta al successo. Machiavelli libera l’agire politico dal peccato. Da questo punto di vista, nessuna colpa sovrasta l’azione: è cattiva politica solo quella destinata all’insuccesso. Ai suoi occhi, tuttavia, il successo non è solo la buona riuscita dell’azione politica, ma è soprattutto 15 la durata nel tempo degli effetti che ne conseguono. Sopravvivere alla decadenza dei tempi è il vero mandato che il principe dovrà tentare di rispettare.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Quale tesi sostiene Garin a proposito del potere del principe così come è tratteggiato da Machiavelli nel suo trattato? 2. Che cosa intende Garin quando asserisce che alla figura del principe, così come lo tratteggia Machiavelli, è simmetrica la figura del “cortegiano”? 3. Secondo Gnoli e Sasso, in che cosa consiste il vero successo politico per Machiavelli? 4. Gnoli e Sasso affermano che Machiavelli «libera l’azione politica dal peccato». Cosa intendono dire? 5. Nella forma politica del principato, caratteristica dell’Italia rinascimentale, si costituisce un particolare rapporto tra il detentore del potere e la società, soprattutto per quanto riguarda il ceto intellettuale, cooptato nella corte con specifiche funzioni e ruoli. Anche alla luce delle considerazioni di Garin a proposito di Machiavelli e facendo riferimento alle tue conoscenze, discuti come si evolve dal Medioevo all’età dei principati la collocazione politico-sociale degli intellettuali in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
442 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Analisi passo dopo passo
T10
Niccolò Machiavelli
Il ruolo della fortuna Il Principe, cap. XXV
N. Machiavelli, Opere, vol. I, a c. di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997
Il capitolo, penultimo del trattato, affronta una questione teorica molto dibattuta nel Rinascimento: il peso della fortuna sugli eventi umani. Machiavelli ammette che la crisi italiana abbia potuto indurre molti a rinnegare la fiducia umanistica nell’uomo come padrone del proprio destino, ma non accetta di attribuire al caso tutta la responsabilità degli eventi. Il suo sforzo è, dunque, quello di indicare come i grandi uomini possano essere comunque artefici della storia. La pagina costituisce perciò una sorta di cerniera che salda la riflessione teorica dei capitoli precedenti con l’appassionata esortazione finale a liberare l’Italia.
XXV. QUANTUM FORTUNA IN REBUS HUMANIS POSSIT ET QUOMODO ILLI SIT OCCURRENDUM1 E’ non mi è incognito2 come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da 5 la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle3, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare4 molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte5. Questa opinione è suta6 più creduta ne’ nostri tempi per le variazione grande 10 delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura7. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro8. Nondimanco9, perché il nostro libero arbitrio non sia spento10, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni 15 nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso11, a noi.
1 “Quanto potere abbia la fortuna e in che modo si debba opporsi ad essa”. 2 E’ non mi è incognito: non mi è ignoto. 3 sieno in modo... correggerle: siano determinate dalla fortuna o dalla provvidenza divina in modo che gli uomini con la loro avvedutezza non possano mutarle. 4 non fussi da insudare: non ci si dovesse affaticare. 5 lasciarsi... alla sorte: affidarsi al caso, rimettersi nelle mani del destino. 6 è suta: è stata. 7 le variazione... coniettura: i grandi mu-
tamenti politici che si sono visti e si continuano a vedere ogni giorno, al di fuori di ogni umana previsione. Machiavelli si riferisce alla situazione politica italiana, divenuta sempre più instabile e caotica dopo la discesa del re francese Carlo VIII. 8 mi sono... loro: mi sono per qualche aspetto accostato alla loro opinione (quella dei fatalisti). Il riferimento autobiografico sottolinea l’importanza che la crisi italiana ebbe per il pensiero politico di Machiavelli. 9 Nondimanco: tuttavia.
1. Il capitolo si apre con una considerazione generale: Machiavelli constata la diffusa tendenza (che i drammatici sconvolgimenti politici del suo tempo hanno contribuito ad accentuare) a una visione rinunciataria e fatalistica dell’agire umano, in quanto dipendente totalmente dalla fortuna o dalla volontà di Dio. Lo scrittore pensa, da una parte, al fato degli antichi e, dall’altra, alla visione provvidenziale della storia propria della cultura medievale. Con l’usuale Nondimanco Machiavelli si contrappone a questa concezione e rivendica il ruolo dell’azione e della progettualità umane, pur ammettendo che la fortuna incida per una metà sull’andamento delle cose. Una posizione mossa più dalla volontà che sostenuta dalla realtà (come dimostra l’impiego della proposizione finale, che esprime un desiderio, un auspicio più che una constatazione: «perché il nostro libero arbitrio non sia spento») e che è certo debitrice dell’umanistica esaltazione dell’uomo faber fortunae suae.
10 perché... spento: perché la nostra libertà di agire non sia cancellata. Machiavelli usa l’espressione libero arbitrio non nel senso teologico di scelta tra bene e male, ma nel senso di libertà di decidere il proprio destino. 11 o presso: o pressappoco. Secondo Machiavelli gli uomini possono influire sugli eventi circa per il cinquanta per cento, il resto è condizionato dalla fortuna; ne si riferisce a azioni nostre.
Il Principe 2 443
E assimiglio quella12 a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano13, allagano e’ piani, rovinano li albori e li edifizi14, lievano da questa parte terreno, pongono da quella 15 16 20 altra : ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare17. E, benché sieno così fatti, non resta però che18 gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento19 e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per 25 uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso20. Similmente interviene21 della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù22 a resisterle: e quivi volta e’ sua impeti23, dove la sa che non sono fatti gli argini né e’ ripari a tenerla. E se voi considerrete24 la Italia, 25 30 che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto26, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come è la Magna27, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande che la ha, o la non ci 28 35 sarebbe venuta . E questo voglio basti aver detto, quanto allo opporsi alla fortuna, in universali29. Ma restringendomi più a’ particulari30, dico come si vede oggi questo principe felicitare31 e domani ruinare32, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna; il che credo che nasca, 40 prima, da le cagioni che si sono lungamente per lo addreto discorse33: cioè che quel principe, che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia34. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi35: e similmente sia infelice quello che con 45 il procedere suo si discordano e’ tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli conducono al fine quale ciascuno
12 assimiglio quella: paragono la fortuna. 13 si adirano: il verbo sottolinea la violenza dell’alluvione, suggerendo una sorta di personificazione delle forze naturali. Al fiume viene attribuito il sentimento umano dell’ira, perché l’alluvione è determinata anche dall’incuria degli uomini. 14 allagano... edifizi: allagano le piane, distruggono gli alberi e le case. La similitudine dell’alluvione, di grande efficacia drammatica, si riferisce allegoricamente alla situazione dell’Italia ai tempi di Machiavelli; nel cap. VII, dedicato al Valentino, lo stato veniva paragonato a un albero e a un edificio, qui travolti dal fiume in piena. 15 lievano... altra: tolgono terreno da una parte e lo trascinano da un’altra. 16 ciascuno fugge... cede: i verbi sottoli-
neano l’impotenza degli uomini di fronte alla violenza della natura. 17 ostare: resistere (latinismo da obstare). 18 non resta però che: non è meno vero. 19 non vi potessino... provedimento: non potessero prendere provvedimenti. 20 licenzioso: sfrenato. 21 interviene: accade. 22 ordinata virtù: preparata una forza. 23 volta e’ sua impeti: volge il suo impeto. 24 considerrete: considererete, prenderete in esame. 25 sedia di queste variazioni: sede di questi mutamenti politici. 26 quella... moto: è l’Italia che ha dato l’avvio (il moto) agli sconvolgimenti che hanno portato alla rovina. 27 la Magna: la Germania. 28 questa piena... venuta: questa alluvio-
444 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
2. Assai efficace e celebre è il paragone che Machiavelli istituisce tra la fortuna e un fiume in piena che tutto travolge. La successione di verbi d’azione (allagano... rovinano... lievano... pongono... ciascuno fugge... ognuno cede...) crea un ritmo concitato che traduce in modo immediato, quasi “visivo”, la rovinosa azione del fiume. Tuttavia, questa azione dannosa può essere prevenuta, così come la fortuna può essere limitata da opportuni accorgimenti frutto della virtù dell’uomo. È quanto non hanno fatto i principi italiani, a differenza delle altre grandi potenze europee, riducendo l’Italia a «una campagna sanza argini e sanza alcun riparo», aperta alle scorrerie straniere.
3. Dalle osservazioni di carattere generale (gli universali) Machiavelli scende quindi a un discorso più analitico e concreto («Ma restringendomi più a’ particulari») relativo al rapporto tra il comportamento del principe e la fortuna. Un’argomentazione serrata e aperta, da una presa di posizione autorevole: dico. Alla constatazione che chi fa affidamento sulla fortuna è condannato a ruinare, segue la considerazione che un buon andamento politico deriva dall’accordo tra la natura (impetuosa o respettiva) del principe e i tempi in cui si trova a operare. Cambiando i tempi è quasi impossibile che un principe muti, adattandovisi, la propria indole. È da notare nel passo l’utilizzazione in senso politico di termini generici, come felicitare/felice/infelice, ruinare, respetto/respettivo. ne (allegoricamente le invasioni straniere) non avrebbe prodotto le grandi conseguenze che ha avuto, o non sarebbe avvenuta. 29 in universali: in generale. 30 restringendomi... particulari: rivolgendomi a questioni più specifiche. 31 felicitare: avere successo. 32 ruinare: cadere in rovina. 33 da le cagioni... discorse: dalle ragioni che precedentemente (per lo addreto) si sono lungamente analizzate. 34 si appoggia... varia: Machiavelli auspica qui che il principe sappia adattarsi al mutare delle circostanze. 35 sia felice... de’ tempi: abbia successo quello il cui modo di agire sia adatto alle caratteristiche del suo tempo.
ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente36: l’uno con rispetto37, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte38; l’uno per pazienza, l’altro col suo contrario; 50 e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi39, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua equalmente felicitare con dua diversi studi40, sendo l’uno rispettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non da la qualità de’ tempi che si conformano, o 55 no, col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto: che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto, e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene41; perché se uno, che si governa con rispetti e pazienza, e’ tempi e le cose 60 girano in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando, ma se e’ tempi e le cose si mutano, rovina, perché e’ non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accomodare42 a questo: sì perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina43, sì etiam perché, avendo 65 sempre uno prosperato camminando per una via44, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella. E però l’uomo respettivo, quando e’ gli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare: donde e’ rovina; che se si mutassi natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna45. 70 Papa Iulio II46 procedé in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa ch’e’ fe’ di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli47. Viniziani non se ne contentavano48; el re di Spagna, quel medesimo49; con Francia aveva ragionamenti50 di
36 si vede... variamente: si vede che gli uomini, nelle azioni che li (gli) conducono a realizzare i fini che ciascuno si propone, cioè gloria e ricchezze, procedono in modo diverso. 37 con respetto: con circospezione, cautela, ponderazione. 38 con arte: in modo studiato e abile. 39 rispettivi: categoria psicologica individuata da Machiavelli e contrapposta, con il consueto procedimento binario, agli impetuosi. I respettivi sono quelli che agiscono in modo cauto e ponderato, dopo aver riflettuto sulle conseguenze delle loro azioni; gli impetuosi si comportano invece con slancio e impulsività. 40 studi: inclinazioni. 41 del bene: sottinteso “del principe”. 42 si sappia accomodare: si sappia adattare, comportare.
43 a che la natura lo inclina: a cui è naturalmente predisposto. Secondo Machiavelli è quasi impossibile adeguare il proprio modo di agire alle esigenze del momento, che a volte richiedono slancio e iniziativa, in altre circospezione e cautela: qualità dipendenti dal carattere di ciascuno e non ugualmente presenti in tutti. Tale concezione della natura umana si allontana dall’ottimismo di umanisti come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, convinti che l’uomo fosse creatura capace di autodeterminarsi e di scegliere la natura del proprio essere. 44 prosperato... via: avuto successo procedendo in un certo modo. 45 fortuna: esito. 46 Iulio II: Giulio II, papa dal 1503 al 1513. Le testimonianze del tempo sono concordi nel rappresentarlo come impulsi-
4. Machiavelli fa poi riferimento a un esempio moderno: quello del papa Giulio II, la cui natura audace e impetuosa ottenne sempre positivi risultati perché si ebbe una felice coincidenza tra la sua natura (che non sarebbe certo riuscito a cambiare) e le esigenze dei tempi.
vo e aggressivo (si racconta che scalasse personalmente le mura delle fortezze assediate), tuttavia è evidente l’ironia di Machiavelli nel presentare i papi suoi contemporanei come dotati di caratteristiche ben poco adatte al loro ruolo. 47 impresa... Bentivogli: Giulio II occupò Bologna, dopo aver scomunicato e scacciato i Bentivoglio, che la governavano. 48 non se ne contentavano: vi si opponevano. 49 quel medesimo: lo stesso (cioè non l’approvavano). 50 aveva ragionamenti: era in trattative. Spagnoli e veneziani erano ostili all’impresa; i francesi avevano promesso di appoggiarla, ma le trattative erano ancora in atto.
Il Principe 2 445
tale impresa. E lui nondimanco con la sua ferocità51 e impeto si mosse personalmente a quella espedizione. La qual mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e viniziani, quegli per paura e quell’altro per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno 80 di Napoli52; e da l’altro canto si tirò dietro il re di Francia perché, vedutolo quel re mosso e desiderando farselo amico per abbassare e’ viniziani53, iudicò non poterli negare gli eserciti sua sanza iniuriarlo manifestamente54. Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro pontefice, 85 con tutta la umana prudenza, arebbe condotto. Perché, se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate55, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai gli riusciva56: perché il re di Francia arebbe avuto mille scuse e li altri li arebbono messo mille paure. Io voglio lasciare 90 stare le altre sua azioni, che tutte sono state simili e tutte gli sono successe bene57: e la brevità della vita58 non li ha lasciato sentire59 il contrario; perché, se fussino sopravvenuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua rovina60: né mai arebbe deviato da quegli modi61 alli quali la 95 natura lo inclinava. Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro modi ostinati62, sono felici mentre concordano insieme63 e, come e’ discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo: perché la for100 tuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto64, batterla e urtarla65. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quegli che freddamente procedono66: e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.
51 ferocità: audacia. 52 quell’altro... Napoli: il re di Spagna per il desiderio di recuperare il regno di Napoli (opponendosi alla Francia). Giulio II, come il Valentino, sa muoversi abilmente nel complesso gioco di alleanze della penisola italiana, che coinvolgeva francesi e spagnoli. 53 abbassare e’ viniziani: contrastare la potenza dei veneziani. 54 sanza iniuriarlo manifestamente: senza offenderlo apertamente. 55 di partirsi da Roma... ordinate: di partire da Roma per la spedizione contro
Bologna con le trattative (con i francesi) concluse e tutto predisposto. 56 mai gli riusciva: non sarebbe mai riuscito. 57 gli sono successe bene: hanno avuto successo. 58 della vita: del pontificato. 59 sentire: sperimentare. 60 che fussi bisognato... rovina: in cui fosse stato necessario procedere con cautela, sarebbe caduto in rovina. 61 modi: modo di comportarsi. 62 ostinati: è riferito a li uomini. 63 concordano insieme: la fortuna e i
446 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
5. La parte finale del capitolo ha un che di drammatico: le aporie, le questioni contraddittorie in cui il limpido ragionamento di Machiavelli si è scontrato sembrano smentire addirittura la possibilità di qualsiasi progetto politico razionale, visto il ruolo assodato della fortuna nei casi umani, e soprattutto visto che è impossibile cambiare la natura umana. La fine del capitolo vede così uno scatto irrazionale: è meglio comunque essere audaci perché, essendo la fortuna donna (secondo lo stereotipo misogino che associava alla donna mutevolezza e instabilità), è più facile sottometterla, come appunto fanno i giovani, che sono meno respettivi. Il capitolo si chiude quindi con un elogio dell’attivismo combattivo che, più della ponderazione, sembra in grado di fronteggiare una realtà politica sempre più caotica e indecifrabile.
modi, le circostanze e i comportamenti. 64 tenere sotto: dominare. 65 batterla et urtarla: batterla e contrastarla. La seconda immagine allegorica della fortuna, contrariamente a quella del fiume in piena dell’inizio del capitolo, che ne mette in luce gli aspetti distruttivi, pone invece in primo piano l’azione risoluta dei grandi uomini, capaci di opporsi vittoriosamente ai condizionamenti della sorte. 66 freddamente procedono: si comportano cautamente.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è la tematica principale del capitolo? 2. Secondo Machiavelli, in quale misura la fortuna determina gli eventi umani? ANALISI 3. Quale funzione ha l’esempio di Giulio II? 4. Confronta le due immagini della Fortuna presentate nel capitolo. Qual è il loro significato allegorico? E il loro rapporto reciproco? LESSICO 5. Indica il significato politico che Machiavelli attribuisce ai seguenti termini: felicitare/feliceinfelice; ferocità; respettivo.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Cosa sono gli argini che, secondo Machiavelli, i politici italiani avrebbero dovuto approntare per evitare le disastrose conseguenze che sono rappresentate dalla similitudine dell’inondazione? Argomenta la tua risposta e contestualizzala in un breve testo (max 15 righe).
Studiare con l'immagine 7. Osserva con attenzione l’immagine raffigurante l’allegoria della Fortuna e svolgi le seguenti richieste: a. rintraccia nell’immagine gli elementi in comune con la descrizione della fortuna che si evince dal testo di Machiavelli; b. ricollega l’immagine al testo appena analizzato e ad altri testi di Machiavelli che conosci e che parlano della fortuna: evidenzia le caratteristiche che testimoniano la visione dell’autore (max 15 righe).
Incisione di Nicoletto da Modena, un artista contemporaneo di Machiavelli, raffigurante l’allegoria della Fortuna.
Il Principe 2 447
PER APPROFONDIRE
La Fortuna tra letteratura e arte
In letteratura… Un tema dalla vita secolare Il riferimento alla sorte si dipana per tutto Il Principe, a cominciare dalla Dedica, in cui l’autore stesso si autorappresenta come vittima di una «grande e continua malignità di fortuna», per giungere al cap. XXV, che tratta dei rapporti fra l’azione umana e la fortuna. Questo tema ha una lunga vita nella tradizione letteraria e iconografica, a partire dal mondo antico, per arrivare all’età medievale e alla cultura umanistico-rinascimentale, all’interno della quale si iscrive Il Principe di Machiavelli. Il mondo antico e il Medioevo Per gli antichi la fortuna è una divinità, sempre rappresentata come entità femminile a cui, soprattutto in età ellenistica e romana, si dedicano templi e statue per ottenere favori. Divinità capricciosa e volubile, è spesso raffigurata come cieca o bendata e in continuo movimento, ma anche nell’atto di elargire ricchi doni: le sono perciò talvolta associati simboli dell’abbondanza, come la cornucopia (un corno pieno di fiori, frutti e monete). Nel Medioevo il ruolo della fortuna viene decisamente svalutato: essa regna soltanto sui beni mondani, che nella rigorosa concezione religiosa del tempo non hanno alcun valore rispetto alla salvezza dell’anima e possono essere facilmente perduti. Da qui l’immagine della ruota della Fortuna, diffusa nel repertorio iconografico medievale. Alla sorte viene contrapposta la Provvidenza divina, che regola secondo i propri disegni le sorti umane e il corso stesso della storia. Dante introduce un importante riferimento alla Fortuna nel canto VII dell’Inferno (vv. 67-96), ma si colloca ormai in un orizzonte culturale che subordina rigorosamente la Fortuna all’ottica cristiana, così da farla diventare un’intelligenza angelica, uno strumento provvidenziale. Predisposta a questa funzione – come «general ministra e
duce» – con il suo moto veloce e incessante permuta, cioè fa passare da una mano all’altra, «li ben vani... li splendor mondani», cioè quanto attiene alla dimensione terrena, vana e caduca, non a caso ma a tempo, ossia nel momento opportuno stabilito dai misteriosi disegni provvidenziali. La visione umanistica della fortuna Rovesciando del tutto questa prospettiva trascendente, già Boccaccio, in un’ottica pre-umanista, laicizza la fortuna, riducendola a mera casualità, tutta terrena, di fronte alla quale l’intelligenza o l’astuzia dell’uomo è messa alla prova. Nell’Umanesimo, dall’Alberti a Pontano, si mantiene e si accentua una visione laica della fortuna, concepita come imprevedibilità: è di Leon Battista Alberti l’immagine figurata, di cui Machiavelli può aver avuto memoria nel cap. XXV del Principe, della fortuna come violenza dei flutti in un fiume travolgente (cioè la vita) che solo la saggezza, nutrita di filosofia, può fronteggiare. Nel clima ideologico proprio dell’antropocentrismo ottimistico del primo Umanesimo si ritiene però che il conflittuale rapporto virtù-fortuna possa risolversi in ogni caso a favore della prima: ne può offrire testimonianza il passo che segue, tratto dal prologo ai Libri della famiglia (1434-1441) di Leon Battista Alberti (➜ SCENARI, PAG. 44). In esso l’autore, constatando che tante famiglie, prima fiorenti, sono cadute e ruinate, riflette sul ruolo della fortuna nelle vicende umane. Nell’ambito sia privato (le singole famiglie) sia pubblico (gli stati) Alberti nutre piena fiducia che la virtù dell’uomo possa prevalere sulla sorte e che si possa comunque avere successo, purché si mantengano vivi i valori morali e «le buone e sante discipline del vivere» (l’amore di patria, la fede ecc.). Presentiamo il testo in italiano moderno.
Per cui non senza motivo mi è sempre parso opportuno indagare se la fortuna abbia effettivamente tanto potere nelle cose umane, e se le sia davvero concesso l’arbitrio di rovinare famiglie importanti e prospere per la sua instabilità e incostanza. Ma quando io rifletto su questo problema in modo assolutamente imparziale, […] constato che più volte la fortuna è incolpata a torto dagli uomini e vedo molti, incorsi in gravi disavventure a causa della loro stessa stoltezza, lamentarsi della fortuna e dolersi del fatto di essere agitati da quelle onde tumultuose in cui loro stessi si sono precipitati. E così molte persone inette dicono che la causa dei loro errori è stata una forza estranea. Ma se qualcuno vorrà studiare che cosa innalzi il prestigio delle famiglie e le mantenga in una condizione elevata e felice, vedrà chiaramente che l’origine del successo e delle disgrazie sta negli uomini stessi e non potrà non consentire nel giudicare che la virtù vale più della fortuna per acquistare lode, grandezza e fama. E questa è una certezza; si indaghi inoltre sulle repubbliche e su tutti i passati principati: si constaterà che la fortuna non ha mai avuto più valore delle buone e sante regole del vivere nel conseguire, accrescere, conservare la grandezza e la gloria. Chi potrebbe dubitarne? Le leggi giuste, i princìpi virtuosi, le decisioni ponderate e sagge, le azioni forti e perseveranti, l’amore verso la patria, la fede, la diligenza, la lodatissima osservanza delle norme da parte dei cittadini sono sempre stati capaci anche senza l’aiuto della fortuna di conquistare la fama o, con l’aiuto della fortuna, di estenderla e gloriosamente propagarla, conquistando l’immortalità presso i posteri. L.B. Alberti, I libri della famiglia, a c. di R. Romano-A. Tenenti-F. Furlan, Einaudi, Torino 1994
448 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Gli imprevedibili e drammatici avvenimenti storici italiani dell’ultimo scorcio del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento indussero presto a dubitare delle illimitate capacità dell’uomo di dominare la sorte: se Leon Battista Alberti sembra avere ancora fiducia nella possibilità dell’uomo di fronteggiare l’imprevedibilità degli eventi, nel XXV capitolo del Principe Machiavelli tradisce non poche perplessità, pur
riservando comunque un largo margine di azione all’iniziativa umana. Sarà Francesco Guicciardini nei suoi Ricordi a farsi interprete di una visione ancor più pessimistica, vedendo nella fortuna un fattore fortemente limitante della capacità dell’uomo di determinare il proprio destino e di condizionare l’andamento della storia, avendo essa un arbitrio pressoché totale sugli eventi.
…nell’arte La ruota della Fortuna La Fortuna è rappresentata come una fanciulla che volge una ruota, il cui movimento è immagine dell’instabilità della sorte. In alto c’è un re con scettro e corona, all’estremo opposto un re detronizzato, nudo: immagine di chi, avendo in passato goduto del potere e dei doni della sorte, ne viene poi privato; ai lati c’è chi ascende e chi discende, umiliato e piegato verso il basso.
La ruota della Fortuna in una miniatura trecentesca di scuola francese (British Library).
Il Principe 2 449
PER APPROFONDIRE
L’Occasione Gli umanisti, sulla scorta dei classici, distinguevano tra Fortuna e Occasione. L’Occasione, che tanta importanza assume nel Principe di Machiavelli, è intesa come la tempestività nel cogliere il momento favorevole per sviluppare un’azione efficace e ha un corrispettivo iconografico in una figura femminile posata su una ruota che corre veloce; l’Occasione ha un ciuffo di capelli sulla fronte, dove può essere afferrata, ma sulla nuca è calva, perché l’occasione perduta non concede una seconda possibilità. Nell’affresco ogni particolare ne rivela il moto veloce: la sfera su cui poggia, lo slancio del corpo, il drappeggio della veste gonfiata dal vento. L’Occasione ha ormai sopravanzato le due figure che la seguono e che non possono più afferrarla perché la nuca della fanciulla è calva. È quindi inutile tendere le mani come fa la figura che rappresenta il pentimento: gesto vano e tardivo; perciò la figura della donna velata, che probabilmente rappresenta la Saggezza, lo trattiene. Il messaggio del dipinto è assimilabile a quello del Principe: bisogna saper afferrare l’occasione favorevole quando essa si presenta. Occasio et poenitentia, dipinto della scuola di Andrea Mantegna, inizi sec. XVI (Palazzo Ducale, Mantova).
Il dominio della Fortuna La famosa incisione di Dürer mostra l’instabilità e il dominio della Fortuna sulle sorti umane. In rapido volo su una ruota, la Fortuna alata tiene in mano una coppa, simbolo dei doni della sorte: ma la coppa, in bilico sulle dita di una mano, è in un equilibrio instabile; l’altra mano tiene dei lacci di cuoio, che indicano i condizionamenti del destino. Ma l’incisione rappresenta soprattutto l’enorme potere della Fortuna, che si staglia immensa, dominando una città che appare minuscola ai suoi piedi.
Albrecht Dürer, La grande Fortuna: Nemesi, incisione, 1501-1503.
450 Quattrocento e cinQuecento 8 Niccolò Machiavelli
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino 1964
Ecco la domanda: l’uomo può dunque tutto? La virtù, la capacità di fare dell’uomo è in grado di creare essa sola la storia? Di fronte a questo problema il pensiero medioevale rispondeva: «Niente affatto. È la volontà di Dio che guida la storia, è Dio che vede il fine degli eventi e che li indirizza a quel fine 5 e si serve dell’uomo, pure lasciando agli uomini una loro parte di libertà e di responsabilità». Ma Machiavelli Dio non lo vede più. Intendiamoci: egli rimane cattolico, formalmente [...] Ma nel suo pensiero – ed è quello che importa – Dio non c’è più: sugli uomini non aleggia più, sovrana, la volontà di Dio. Quando Machiavelli nei Discorsi parla della religione e insiste nel sottolineare 10 l’importanza della religione [...], ciò avviene da un tutt’altro punto di vista che da quello di uno scrittore medievale. La frase che fu coniata per Machiavelli, religio instrumentum regni, cioè la religione come mezzo per tenere fermo e saldo lo Stato, è sostanzialmente vera. Ma allora è la virtù, la capacità, l’energia dell’uomo, quella che da sola crea la storia? L’uomo può realmente tutto? 15 Nemmeno Machiavelli se la sente di rispondere proprio affermativamente: e allora ecco introdursi nella sua concezione il concetto di «fortuna». [...] La riflessione e gli interrogativi che il grande storico novecentesco Federico Chabod si pone a proposito delle potenzialità dell’uomo nella costruzione del proprio destino secondo la visione machiavelliana mantengono una sorprendente attualità, forse ancor più scottante in un mondo come il nostro, in cui le capacità del singolo di forgiare il proprio presente e il proprio futuro sembrano avviate a raggiungere traguardi sempre più arditi. La concezione umanisticorinascimentale dell’homo faber è quindi giunta al suo apice, abbattendo progressivamente ogni limite e rimuovendo ogni freno ideologico? Rifletti criticamente sulla questione, facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
Il Principe 2 451
Niccolò Machiavelli
T11
Esortazione a liberare l’Italia dai “barbari” Il Principe, cap. XXVI
N. Machiavelli, Opere, vol. I, a c. di C. Vivanti, Einaudi-Gallimard, Torino 1997
AUDIOLETTURA
Il capitolo XXVI, conclusivo del Principe, riprende i temi chiave dell’opera, riassumendoli in un’appassionata esortazione al principe della casata dei Medici affinché, traducendo in azione i precetti appresi dall’opera di Machiavelli, acquisti onore e gloria creando uno stato solido e ben governato e riesca a liberare l’Italia dal «barbaro dominio» delle invasioni straniere.
XXVI. EXHORTATIO AD CAPESSENDAM ITALIAM IN LIBERTATEMQUE A BARBARIS VINDICANDAM1 Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse2, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare3 uno nuovo principe, e se ci era 5 materia4 che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella5, mi pare concorrino6 tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a7 questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù8 di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo9 in Egitto: e a conoscere la grandezza dello 10 animo di Ciro, ch’e’ persi fussino oppressati10 da’ medi; e la eccellenzia di Teseo, che li ateniesi fussino dispersi11; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che la fussi più stiava che li ebrei, più serva ch’e’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine12, battuta, spogliata, lacera, corsa, e avessi sopportato d’ogni 15 sorte ruina13. E benché insino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare ch’e’ fussi ordinato da Dio per sua redenzione14, tamen si è visto come di poi, nel più alto corso delle azioni sua, è stato da la fortuna reprobato15. In modo che, rimasa16 come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le
1 “Esortazione a prendere la difesa dell’Italia e a liberarla dalle mani dei barbari”. 2 tutte... discorse: tutte le cose in precedenza analizzate. Machiavelli sottolinea il rapporto tra l’analisi politica svolta nei capitoli precedenti e l’esortazione finale. 3 correvano tempi da onorare: c’erano le circostanze adatte perché si facesse prosperare. 4 materia: la materia coincide per Machiavelli con l’occasione, cioè con la situazione di instabilità politica che consente a un nuovo ordinamento di instaurarsi con successo. L’autore del Principe riprende qui l’analisi del cap. VI, mostrandone l’attualità nella situazione politica italiana del momento. 5 facessi onore… quella: rendesse glorioso lui e fosse vantaggiosa per tutta la popolazione italiana. 6 concorrino: concorrano. 7 atto a: propizio, favorevole di. 8 virtù: capacità politica.
9 stiavo: schiavo. 10 oppressati: oppressi. 11 dispersi: non uniti, divisi in tanti staterelli. La puntuale citazione di tre dei quattro esempi del cap. VI (Mosè, Ciro, Teseo), la ripresa del concetto di occasione e della terminologia aristotelica di materia e forma, sembrerebbero indicare che, nonostante le diversità di stile, sussiste uno stretto rapporto fra l’esortazione finale e la parte precedente del trattato. 12 sanza capo, sanza ordine: senza un centro di potere superiore agli altri, senza un efficace ordinamento politico. 13 battuta… ruina: devastata, spogliata con saccheggi, divisa, percorsa da eserciti nemici e avesse sopportato sciagure di ogni genere. Il drammatico elenco indica gli effetti della debolezza politica sopra evidenziata. 14 benché insino a qui… sua redenzione: sebbene prima di ora sia apparso (si sia mostro) qualche barlume (spiraculo)
452 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
di virtù in qualche politico capace (ancora l’allusione è al Valentino), tanto da poter far immaginare che questi fosse stato inviato da Dio per la liberazione dell’Italia. Sorprende che, dopo il discorso laico e scientifico dei capitoli precedenti, Machiavelli introduca nella conclusione una prospettiva provvidenzialistica della storia. Si deve tuttavia considerare che il cap. XXVI è un’esortazione rivolta al principe mediceo perché adotti una politica energica ed espansionistica, che possa salvare l’Italia, e perciò ogni mezzo persuasivo può essere considerato lecito. Redenzione, termine afferente all’area semantica della religione, è parola chiave del capitolo. 15 tamen… reprobato: tuttavia (in latino tamen) si è visto successivamente come, nel momento culminante (più alto corso) delle sue imprese, sia stato respinto dalla fortuna. Machiavelli sintetizza qui il significato del cap. VII, dedicato al Valentino. 16 rimasa: rimasta.
sua ferite e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana17, 20 e la guarisca da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite18. Vedesi come la priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima19 da queste crudeltà e insolenzie20 barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. Né ci si vede al presente in quale lei possa più sperare che nella illustre Casa vostra, la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e da la Chie25 sa, della quale è ora principe21, possa farsi capo di questa redenzione. Il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati22; e benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimeno furno uomini, ed ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente perché la impresa loro non fu più iusta23 di questa, né più facile, né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è iustizia grande: 30 iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est24. Qui è disposizione grandissima25: né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pure che quella pigli delli ordini di coloro che io ho proposti per mira26. Oltre a di questo, qui si veggono estraordinari sanza esemplo, condotti da Dio: el mare si è aperto; una nube vi ha scorto il cammino; la pietra ha versato 35 acque; qui è piovuto la manna27. Ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio28 e parte di quella gloria che tocca a noi. E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati italiani29 non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra, e se, in tante revoluzioni30 di Italia e in tanti maneggi di guerra, e’ pare 40 sempre che in Italia la virtù militare sia spenta31; perché questo nasce che gli ordini antichi32 di quella non erono buoni, e non ci è suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi. E veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge ed e’ nuovi ordini trovati da lui33: queste cose, quando sono bene
17 a’ sacchi... Toscana: ai saccheggi fatti nell’Italia settentrionale dagli eserciti francesi e spagnoli e ai tributi imposti al Regno di Napoli e in Toscana. 18 piaghe… infistolite: piaghe che già con il tempo si sono aggravate per le fistole infette. Ispirandosi alla poesia di Dante e di Petrarca, Machiavelli raffigura l’Italia come una donna; la sua drammatica condizione è allegoricamente rappresentata dalle ferite che le coprono il corpo. 19 la redima: la liberi. 20 insolenzie: violenze. 21 favorita… principe: dal 1513 era papa Leone X, della famiglia de’ Medici; l’appoggio del papato, come Machiavelli sottolinea più volte nelle sue opere, era indispensabile per costituire un forte stato in Italia: l’elezione di Leone X è perciò l’occasione di cui parla Machiavelli. 22 se vi recherete… sopra nominati: se prenderete come modello le azioni e la vita di coloro che sono stati nominati sopra (Mosè, Ciro, Teseo). L’affermazione non ha assolutamente un carattere retorico, perché Machiavelli ritiene che gli esempi dell’antichità possano valere in ogni tempo, a causa dell’immutabilità della natura umana.
23 iusta: giusta. Anche la considerazione etica del concetto di giustizia pone il capitolo su un piano diverso dai precedenti. 24 iustum… est: la citazione – evidentemente fatta a memoria perché imprecisa – è da Livio (Ab urbe condita IX, 1): “è giusta infatti la guerra per coloro a cui è necessaria, e sono pietose le armi quando non vi è alcuna speranza se non nelle armi”. 25 disposizione grandissima: situazione storica estremamente favorevole. 26 pure che … per mira: purché quella venga rivolta all’imitazione dei provvedimenti di coloro che ho proposto ad esempio. 27 si veggono estraordinari… la manna: si vedono prodigi straordinari, di cui non si ricorda un altro esempio, voluti da Dio: una nube vi ha indicato il cammino; dalla pietra è scaturita acqua; è piovuta la manna dal cielo. Le citazioni bibliche, certo inconsuete in Machiavelli, sono intonate alla solennità dell’esortazione, indirizzata a un personaggio di dignità principesca. I riferimenti religiosi e provvidenzialistici possono forse anche essere spiegati se si pensa che lo scrittore si rivolge anche al papa Leone X, della famiglia Medici: Machiavelli sperava infatti che il nuovo
papa non agisse per la rovina dell’Italia, come avevano fatto i suoi predecessori (➜ T13 OL), ma contribuisse alla salvezza del paese. 28 non ci tòrre el libero arbitrio: non toglierci la libertà di scegliere. Da umanista, Machiavelli sottolinea il valore dell’iniziativa umana e della gloria che se ne può acquisire. 29 alcuno de’ prenominati italiani: si riferisce in particolare a Francesco Sforza e al duca Valentino. 30 revoluzioni: rivolgimenti politici. 31 in Italia… spenta: in un capitolo che si distingue dagli altri per il suo idealismo Machiavelli non trascura gli aspetti concreti della situazione italiana, esaminando in modo preciso, con dettagli tecnici, il problema cruciale delle tecniche di combattimento, a cui aveva dedicato i capp. XII-XIV del Principe e un’opera specifica, l’Arte della guerra. 32 gli ordini antichi: la precedente organizzazione. 33 veruna cosa… trovati da lui: nessuna cosa rende tanto onorato un uomo che assuma un potere nuovo, quanto le nuove leggi e le nuove forme di organizzazione da lui progettate.
Il Principe 2 453
fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile34. E in Italia non 45 manca materia da introdurvi ogni forma: qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi35. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi36, quanto gli italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno; ma come e’ si viene alli eserciti, non compariscono37. E tutto procede da la debolezza de’ capi: perché quegli che sanno non sono ubbiditi e a ciascuno pare sapere, non ci essendo 50 insino a qui suto alcuno che si sia rilevato tanto, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino38. Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passati venti anni, quando gli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova: di che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri39. Volendo dunque la illustre Casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini 55 che redimerno40 le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie41, perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati: e benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedessino comandare dal loro principe, e da quello onorare e intratenere42. È necessario pertanto prepararsi a queste arme, 60 per potersi con la virtù italica defendersi da li esterni. E benché la fanteria svizzera e spagnuola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro ma confidare di superargli43. [...] Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore. Né posso esprimere con quale amo65 re e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne44; con che sete di vendetta, con che ostinata fede45, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbono?46 Quali populi gli negherebbono la obbedienza? Quale invidia se li opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo ossequio47?
34 reverendo e mirabile: degno di rispetto e ammirazione. 35 qui è virtù... ne’ capi: Machiavelli dà voce a un’opinione corrente al tempo, che cioè i singoli (le membra) hanno una virtù grande che manca ne’ capi. 36 Specchiatevi... de’ pochi: Guardate il valore italiano rispecchiato nei duelli e nelle sfide fra pochi combattenti. Machiavelli allude probabilmente alla disfida di Barletta (nell’Ottocento resa celebre dal romanzo di Massimo d’Azeglio), avvenuta nel 1503, quando alcuni cavalieri italiani, al servizio degli spagnoli, sconfissero in un duello altrettanti cavalieri francesi. 37 non compariscono: non danno una buona prova. 38 non ci essendo… li altri cedino: non essendoci nessun principe che, per capacità o per fortuna, si sia potuto porre in una posizione superiore agli altri, in modo che gli altri fossero costretti a cedere (a ubbidirgli). In Italia, come sottolinea
Machiavelli in questo passo, mancava infatti un’autorità assoluta, presente in monarchie come la Francia e la Spagna, che potesse garantire un potere centralizzato e quindi più efficace in caso di guerra. 39 el Taro… Mestri: Machiavelli cita le battaglie in cui, tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento, gli eserciti italiani erano stati sconfitti da francesi e spagnoli: Fornovo sul Taro, Alessandria, Capua, Genova, Agnadello, Bologna, Mestre. 40 redimerno: riscattarono. 41 provedersi d’arme proprie: Machiavelli riprende qui brevemente la polemica contro le armi mercenarie, già presente nei capitoli XII-XIV. 42 intratenere: trattare bene. 43 nondimanco... superargli: non di meno in tutte e due ci sono dei difetti, per cui un ordinamento militare diverso da quello svizzero e spagnolo (uno ordine terzo), con un modo di organizzare la fanteria
454 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
diverso da quello adottato dagli svizzeri o dagli spagnoli, potrebbe non solo opporsi a loro, ma avere speranza di superarli. 44 illuvioni esterne: alluvioni venute dall’esterno; per allegoria, le invasioni straniere. La metafora dell’alluvione evidenzia il rapporto con il cap. XXV, in cui tale similitudine è riferita alla fortuna. 45 ostinata fede: assoluta lealtà. 46 Quali… serrerebbono?: Quali porte (di stati italiani) gli si chiuderebbero? 47 lo ossequio: l’obbedienza. Notiamo qui che la serie di interrogative retoriche, tra loro legate dall’anafora dell’interrogativo quale, innalza il tono del discorso, rendendolo sempre più incalzante e appassionato. Dopo i richiami alla «verità effettuale» presenti nel resto del trattato, l’idealismo dell’esortazione finale di Machiavelli ha sempre sorpreso i critici, che ne hanno dato differenti interpretazioni.
A ognuno puzza questo barbaro dominio48. Pigli adunque la illustre Casa vostra 70 questo assunto49, con quello animo e con quella speranza che si pigliono le imprese iuste, acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata e, sotto e’ sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca, quando disse: Virtù contro a furore prenderà l’armi, e fia el combatter corto, 75 che l’antico valore nelli italici cor non è ancor morto.50 48 A ognuno... dominio: Ogni italiano è disgustato dal dominio di popoli barbari. Padrone di tutte le risorse dello stile, Machiavelli colpisce il lettore con questa brusca inversione del registro, che diviene basso e popolareggiante, a sottolineare
l’odiosità della dominazione straniera e l’avversione che per essa provano tutti gli italiani. 49 assunto: compito. È l’esortazione conclusiva.
50 Virtù… morto: con un crescendo appassionato, Machiavelli chiude il suo trattato con una citazione poetica, tratta dalla Canzone all’Italia del Petrarca (Canz. CXXVIII, vv. 93-96).
Analisi del testo Il tono profetico dell’esortazione: un “altro” Machiavelli? L’esortazione finale del cap. XXVI ha sempre colpito critici e lettori per la palese diversità di tono e di stile rispetto al resto del libro. Alla lucida e rigorosa razionalità del trattato e al suo continuo richiamo alla «verità effettuale», si sostituiscono infatti nella conclusione toni esaltati e profetici (secondo alcuni critici addirittura “savonaroliani”) e un appassionato idealismo. Non solo: nell’esortazione finale si trovano richiami a quell’etica che Machiavelli aveva duramente contestato nei capitoli più “scandalosi” del Principe (dal XV al XIX): il destinatario viene invitato ad affrontare l’impresa perché giusta; si afferma che gli altri signori italiani lo avrebbero in tal caso seguito con quella «ostinata fede» in cui, in altri punti del trattato, Machiavelli mostra di credere poco. Nel XXVI capitolo non mancano neppure appelli alla religione, con una serie di richiami biblici e di considerazioni che sembrano ispirate a una concezione provvidenzialistica della storia («qui si veggono estraordinari sanza esemplo, condotti da Dio»). D’altra parte l’esortazione finale presenta molteplici agganci a tutte le parti precedenti dell’opera, come se in essa si tirassero le fila dell’intero discorso: è ripreso il concetto di occasione del cap. VI; dallo stesso capitolo sono tratti gli esempi di Mosè, Ciro, Teseo, di cui viene evidenziata l’attualità nella situazione italiana del tempo; la sfortunata ma gloriosa impresa del Valentino (analizzata nel cap. VII) è proposta come precedente autorevole per un secondo, meglio riuscito tentativo; si analizza la difficile e critica situazione italiana e la necessità di porvi rimedio, contrapponendo virtù a fortuna; si propongono soluzioni per il problema militare, già affrontato nei capp. XII-XIV del trattato. Perciò, a ben vedere, l’esortazione appare come la logica e consequenziale conclusione dell’opera.
Due diverse valutazioni critiche La difformità espositivo-stilistica dell’esortazione finale rispetto al resto dell’opera ha diviso i critici. Alcuni di essi, più inclini a vedere nel Principe un trattato teorico, disgiunto dalla situazione contingente, hanno considerato l’esortazione come una sorta di appendice retorica, forse aggiunta in un secondo tempo e comunque, di fatto, estranea all’opera; altri invece, e si tratta della tesi oggi prevalente, hanno visto Il Principe come un testo unitariamente composto, che rivela il suo senso proprio nel capitolo conclusivo. Secondo tale prospettiva critica Il Principe non è un’opera teorica, ma di attualità, “militante”, cioè di impegno storico-politico, che trae la sua origine dalla preoccupazione di Machiavelli per la grave crisi politica italiana. Per uscire da essa egli suggerisce ai Medici, molto concretamente, una politica assolutistica ed espansionistica, che consenta di creare uno stato forte nell’Italia centrale, che costituisca un baluardo contro le monarchie nazionali di Francia e Spagna.
Il Principe 2 455
La retorica della persuasione L’indubbia particolarità tonale e stilistica dell’esortazione non deve far pensare a un cambiamento ideologico in Machiavelli, la cui ottica rimane laica e pragmatica, ma si spiega innanzitutto con la sua collocazione alla fine dell’opera. Machiavelli conclude la sua fatica e riprende così, alla fine del Principe, circolarmente, il rapporto diretto con l’illustre personaggio della casata dei Medici a cui si è rivolto nella Dedica. Ha esposto tutto il suo sapere politico attraverso i 25 capitoli del trattatello e invita Lorenzo de’ Medici a farne tesoro e a sfruttarlo per redimere l’Italia dall’abbrutimento in cui si trova: al tempo presente non manca nella degradata situazione italiana la “materia” per introdurvi la “forma”, il progetto di stato che consenta la rinascita del paese. Per rendere persuasivo il proprio messaggio Machiavelli ricorre qui a un registro emozionale, anziché – come abitualmente – logico, ma lo fa consapevolmente, sfruttando tecniche appartenenti al sapere retorico di ogni umanista (del resto gli oratori dell’antichità nella parte finale dei discorsi puntavano proprio sugli effetti emotivi). Anziché alla stringente forza delle argomentazioni, per convincere il suo principe, nell’esortazione Machiavelli fa appello al pathos travolgente: da qui l’incalzare delle interrogative retoriche, la personificazione dell’Italia ferita e martoriata, i toni profetici, il climax di forte impatto che chiude il capitolo con i versi della Canzone all’Italia di Petrarca. Lo sforzo di Machiavelli rimase al suo tempo senza risultati, ma in compenso il Risorgimento amerà particolarmente questa pagina machiavelliana.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Machiavelli parla ripetutamente di occasione favorevole per un nuovo principe: a cosa si riferisce? ANALISI 2. Come è sua consuetudine, Machiavelli utilizza esempi tratti dalla storia passata e dalla storia recente. Individuali nel testo. LESSICO 3. Individua i vocaboli e le espressioni appartenenti alla dimensione profetico-religiosa. STILE 4. Esemplifica ognuna delle figure retoriche indicando le righe del testo in cui sono presenti. anafora: _____________________________________________________________________________ iperbole: ____________________________________________________________________________ interrogativa retorica: _________________________________________________________________ accumulazione di aggettivi: ____________________________________________________________ personificazione: _____________________________________________________________________
Interpretare
SCRITTURA 5. Indica, argomentando la tua posizione e presentando gli opportuni riferimenti testuali se, a tuo parere, l’esortazione sia la conclusione del trattato o un’aggiunta posteriore e, di conseguenza, se Il Principe sia da considerare o no un’opera unitaria. TESTI A CONFRONTO 6. Alle spalle del capitolo stanno illustri modelli della tradizione letteraria: la celebre apostrofe all’Italia di Dante (Pg VI) e la Canzone all’Italia di Petrarca, di cui Machiavelli utilizza alcuni versi particolarmente significativi (vv. 93-96). Fai un analitico confronto tra i testi, evidenziando analogie e differenze anche in rapporto alle differenti circostanze storico-politiche che animano la polemica dei tre scrittori.
456 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Giulio Ferroni Contestualizzare il pensiero di Machiavelli G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza, Donzelli, Roma 2003
Nel passo, tratto dal saggio di Giulio Ferroni Machiavelli, o dell’incertezza, il critico sottolinea la necessità di ricondurre il pensiero di Machiavelli (comprese le celebri asserzioni su cui si è fondata la discutibile attualizzazione del Principe nel tempo) al momento storico drammatico in cui fu elaborato e anche alla peculiare natura della cultura fiorentina. In essa era tradizionalmente presente la dimensione “comico-realistica”, con la connessa tendenza al rovesciamento irriverente ed era sentito il tema della “maschera” e del doppio di cui si avverte l’eco nelle riflessioni machiavelliane sull’agire del politico.
È un pensiero che non si inserisce in un programma teorico, che non è motivato da istanze ideologiche: che si sviluppa appunto entro il linguaggio, le istanze, le motivazioni, i presupposti della pratica quotidiana. Più che esito di un impegno da umanista o da letterato di professione, esso è il risultato delle domande che si fa un 5 uomo «pratico», che ama i grandi classici della storiografia e della letteratura, che si serve dei libri più diversi in modi eterogenei, in ragione dei problemi politici di volta in volta toccati, senza seguire un conseguente modello teorico. Un pensiero che è ben lungi dall’essere sistematico: del tutto «aperto» e contraddittorio, affronta la politica e la storia nel quadro di una concezione dell’uomo [...] radicata nella 10 cultura municipale fiorentina, entro un intreccio di abitudini, modi di comportamento, perfino presupposti mitici e simbolici, confrontati con le urgenze del «fare», con l’osservazione dei dati spesso imprevedibili posti dalla realtà contemporanea, e con quell’assidua ma non professionale frequentazione dei classici. Per questo esso non è risolvibile in formule filosofiche, legate a una visione «progressiva» 15 dello sviluppo del pensiero: la sua forza e originalità può essere adeguatamente riconosciuta proprio tenendo conto della sua distanza da noi, prescindendo dai nostri schemi, dagli umori delle polemiche e degli scontri politici contemporanei [...], nel suo strettissimo legame con le idee diffuse, con il linguaggio e la morale «pratica» corrente nella Firenze dei suoi anni. 20 Il carattere così sconvolgente di questo pensiero, la sua carica dissacratoria e provocatoria, che hanno dato luogo alla sua lunga (e, ancora, contraddittoria) fortuna storica, sono scaturite proprio da quelle circostanze così concrete, dal modo in cui Machiavelli si è trovato a confrontare i dati di uno spregiudicato «realismo» fiorentino, di una morale dotata di stretti legami con un fondo municipale e «po25 polare», con la situazione contemporanea, con quel clima di totale insicurezza, con i disastri e le rovine della politica fiorentina e italiana.[...] Proprio in questo legame con un mondo tanto concreto e particolare, e con le stesse nozioni e formule correnti in quel mondo, nei rapporti «pratici» della vita quotidiana, nell’impegno a risolvere problemi pressanti, in un orizzonte politico, militare, 30 diplomatico e amministrativo che da Firenze si affacciava sulla scena dell’intera Europa, si sviluppano e si approfondiscono quegli stessi tratti caratterizzanti del pensiero di Machiavelli che sono apparsi più sconvolgenti e provocatori, che hanno creato la sua fama «diabolica». Le formule e le sentenze più terribili, che sembrano contraddire i più assestati e riconosciuti principi morali, i rilievi impietosi sulla 35 necessità della crudeltà e della doppiezza, le massime più duramente pessimistiche
Il Principe 2 457
INTERPRETAZIONI CRITICHE
sulla natura degli uomini, non sono certo scoperte e invenzioni di Machiavelli; esse erano già emerse variamente, anche se spesso in modo sotterraneo, nelle più diverse fasi della cultura occidentale, e soprattutto venivano lungamente formulate e praticate nella vita concreta, nella spregiudicata violenza dei rapporti quotidiani, 40 che la cultura tradizionale relegava nell’ambito del comico, del «basso», del realismo grottesco. [...] Machiavelli è tutto immerso in quella tradizione comica; da essa il suo linguaggio riceve la sua forza e la sua vitalità, nell’evidenza degli scatti, delle metafore, dei contrasti anche violenti. [...] Ma il nesso più interno e profondo tra il comico e l’esercizio della politica è dato 45 dalla maschera, dal gioco del doppio e dell’apparenza, della simulazione e dissimulazione che essa comporta; proprio la familiarità «comica» con la maschera implica un’incoercibile disposizione a «estrarre» ciò che non è immediatamente visibile: un’attenzione alla necessità dei comportamenti «doppi» e insieme una prontezza nello svelarli, nel «toccare» quel che c’è sotto quello che appare alla vista. Quando 50 si parla di Machiavelli come scopritore dell’«ideologia», pronto a svelare il carattere «economico» dell’agire umano, i suoi fondamenti materiali, anticipatore di Marx, e magari anche di Nietzsche e di Freud, si deve tener conto del fatto che tale qualità ha comunque radice nella pratica della maschera, in quella coscienza della natura «doppia» e contraddittoria della realtà, dell’apparenza, dei comportamenti, che ha 55 molteplici modelli nella cultura antica, come nella tradizione culturale romanza e nella stessa cultura umanistica.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Perché, secondo Ferroni, la forza del pensiero di Machiavelli si può cogliere solo istituendo un’adeguata distanza tra esso e noi moderni? 2. Quale rapporto stabilisce il critico tra il pensiero di Machiavelli e la tradizione culturale fiorentina? 3. A che proposito evoca la consuetudine di Machiavelli con la dimensione teatrale del comico e il tema della maschera? 4. Giulio Ferroni sottolinea la necessità di contestualizzare l’opera di Machiavelli per poter esprimere su di essa un corretto giudizio. Le considerazioni del critico possono essere uno stimolo a una lettura consapevole di opere del passato e del presente. Rifletti su questo tema, facendo riferimento alle tue letture scolastiche e personali.
458 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
Riflessioni sulla guerra Nel pensiero di Machiavelli si impone il tema della necessità di ricorrere alla forza e alla guerra per potere difendere le istituzioni statali quando le armi della ragione non risultano essere sufficienti. Nella conclusione del Principe, Machiavelli ribadisce la sua posizione, sottolineando quanto la guerra “necessaria” sia da ritenersi giusta. Si tratta di un tema quanto mai attuale, visti i terribili scenari di conflitto che il mondo sta vivendo oggi. Proponiamo alcuni spunti di riflessione sul tema.
1. ALBERT EINSTEIN, Come io vedo il mondo, 1934
Questo argomento mi induce a parlare della peggiore fra le creazioni, quella delle masse armate, del regime militare voglio dire, che odio con tutto il cuore. Disprezzo profondamente chi è felice di marciare nei ranghi e nelle formazioni al seguito di una musica: costui solo per errore ha ricevuto un cervello; un midollo spinale gli sarebbe più che sufficiente. Bisogna sopprimere questa vergogna della civiltà il più rapidamente possibile. L’eroismo comandato, gli stupidi corpo a corpo, il nefasto spirito nazionalista, come odio tutto questo! E quanto la guerra mi appare ignobile e spregevole! Sarei piuttosto disposto a farmi tagliare a pezzi che partecipare a una azione così miserabile. Eppure, nonostante tutto, io stimo tanto l’umanità da essere persuaso che questo fantasma malefico sarebbe da lungo tempo scomparso se il buonsenso dei popoli non fosse sistematicamente corrotto, per mezzo della scuola e della stampa, dagli speculatori del mondo politico e del mondo degli affari.
2. ALBERT EINSTEIN - BERTRAND RUSSELL, Manifesto contro la guerra, 1955 Nel 1955 il filosofo-matematico Bertrand Russell e lo scienziato Albert Einstein si fanno promotori di una importante dichiarazione in favore del disarmo nucleare e della scelta pacifista per l’umanità, sottoscritta da scienziati e intellettuali di prestigio.
Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare, riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del documento che segue. Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano, la cui stessa sopravvivenza è ora in pericolo. […] Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa
nucleo Costituzione competenza 1
conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: “Quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?” La gente comune, così come molti uomini al potere, ancora non ha ben compreso quali potrebbero essere le conseguenze di una guerra combattuta con armi nucleari. Si ragiona ancora in termini di città distrutte. Si sa, per esempio, che le nuove bombe sono più potenti delle precedenti e che se una bomba atomica è riuscita a distruggere Hiroshima, una bomba all’idrogeno potrebbe distruggere grandi città come Londra, New York e Mosca. È fuor di dubbio che in una guerra con bombe all’idrogeno verrebbero distrutte grandi città. Ma questa non sarebbe che una delle tante catastrofi che ci troveremmo a fronteggiare, e nemmeno la peggiore. Se le popolazioni di Londra, New York e Mosca venissero sterminate, nel giro di alcuni secoli il mondo potrebbe comunque riuscire a riprendersi dal colpo. Tuttavia, ora sappiamo, soprattutto dopo l’esperimento di Bikini, che le bombe atomiche possono portare gradatamente alla distruzione di zone molto più vaste di quanto si fosse creduto. Fonti autorevoli hanno dichiarato che oggi è possibile costruire una bomba 2500 volte più potente di quella che distrusse Hiroshima. […] Nessuno sa con esattezza quanto si possono diffondere le particelle radioattive, ma tutti gli esperti sono concordi nell’affermare che una guerra con bombe all’idrogeno avrebbe un’alta probabilità di portare alla distruzione della razza umana. Si teme che l’impiego di molte bombe all’idrogeno possa portare alla morte universale – morte che sarebbe immediata solo per una minoranza, mentre alla maggior parte degli uomini toccherebbe una lenta agonia dovuta a malattie e disfacimento. In più occasioni eminenti uomini di scienza ed esperti di strategia militare hanno lanciato l’allarme. Nessuno di loro afferma che il peggio avverrà per certo. Ciò che dicono è che il peggio può accadere e che nessuno può escluderlo. Non ci risulta, per ora, che le opinioni degli esperti in questo campo dipendano in alcuna misura dal loro orientamento politico e dai loro preconcetti. Dipendono, a quanto emerso dalle nostre ricerche, dalla misura delle loro competenze. E abbiamo riscontrato che i più esperti sono anche i più pessimisti. Questo, dunque, è il problema che vi poniamo, un problema grave, terrificante, da cui non si può sfuggire: metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra? È una scelta con la quale la gente non vuole confrontarsi, poiché abolire la guerra è oltremodo difficile. Abolire la guerra richiede sgradite limitazioni alla sovranità nazionale. Ma forse ciò che maggiormente ci impedisce di comprendere pienamente la situazione è che la parola “umanità” suona vaga e astratta. Gli individui faticano a immaginare che
Il Principe 2 459
EDUCAZIONE CIVICA
a essere in pericolo sono loro stessi, i loro figli e nipoti e non solo una generica umanità. Faticano a comprendere che per essi stessi e per i loro cari esiste il pericolo immediato di una mortale agonia. E così credono che le guerre potranno continuare a esserci, a patto che vengano vietate le armi moderne. Ma non è che un’illusione. Anche se un accordo alla rinuncia all’armamento nucleare nel quadro di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe la soluzione definitiva del problema, avrebbe nondimeno una sua utilità. […] La maggior parte di noi non è neutrale, ma in quanto esseri umani dobbiamo tenere ben presente che affinché i contrasti tra Oriente e Occidente si risolvano in modo da dare una qualche soddisfazione a tutte le parti in causa, comunisti e anticomunisti, asiatici, europei e americani, bianchi e neri, tali contrasti non devono essere risolti mediante una guerra. È questo che vorremmo far capire, tanto all’Oriente quanto all’Occidente. Ci attende, se lo vogliamo, un futuro di continuo progresso in termini di felicità, conoscenza e saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte solo perché non siamo capaci di dimenticare le nostre contese? Ci appelliamo, in quanto esseri umani, ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità, e dimenticate il resto. Se ci riuscirete, si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; altrimenti, vi troverete davanti al rischio di un’estinzione totale. Invitiamo questo congresso, e per suo tramite gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente mozione: In considerazione del fatto che in una futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi sono una minaccia alla sopravvivenza del genere umano, ci appelliamo con forza a tutti i governi del mondo affinché prendano atto e riconoscano pubblicamente che i loro obbiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale e di conseguenza li invitiamo a trovare mezzi pacifici per la risoluzione di tutte le loro controversie.
Albert Einstein, Bertrand Russell, Max Born (Premio Nobel per la fisica), Percy W. Bridgman (Premio Nobel per la fisica), Leopold Infeld (Professore di fisica teorica), Frédéric Joliot-Curie (Premio Nobel per la chimica), Herman J. Muller (Premio Nobel per la fisiologia e medicina), Linus Pauling (Premio Nobel per la chimica), Cecil F. Powell (Premio Nobel per la fisica), Józef Rotblat (Professore di fisica), Hideki Yukawa (Premio Nobel per la fisica).
3. BERTRAND RUSSELL, Guerra e non-resistenza, 1915
Si dà per scontato che una nazione che non si oppone alla forza con la forza debba essere mossa da viltà, e debba perdere tutto ciò che di prezioso c’è nella sua civiltà. Entrambe queste supposizioni sono illusorie. Opporsi alla forza con la disobbedienza passiva richiede più coraggio
460 Quattrocento e cinQuecento 8 Niccolò Machiavelli
e molto probabilmente conserverebbe gli aspetti migliori della vita nazionale. E inoltre sarebbe più efficace nello scoraggiare l’uso della forza. Sarebbe la via della saggezza pratica se gli uomini fossero indotti a credervi. Ma temo che essi siano troppo legati alla convinzione che il patriottismo è una virtù e troppo smaniosi di dimostrare la propria superiorità agli altri in un contesto di forza. Immaginiamo che dopo una generazione di educazione nei principi della resistenza passiva come difesa migliore dalla guerra, l’Inghilterra sciolga il suo esercito e la sua marina. Supponiamo che allo stesso tempo l’Inghilterra annunci pubblicamente che non si opporrà con le armi a un invasore, che tutti possono entrare liberamente nel paese, ma che non sarà data alcuna obbedienza ad alcun ordine che un’autorità straniera potrebbe emanare. Cosa accadrebbe in questo caso? Supponiamo, per continuare il ragionamento, che il governo tedesco desideri trarre vantaggio dalla condizione indifesa dell’Inghilterra. Dovrebbe affrontare, all’inizio, l’opposizione in Germania da parte di chiunque non fosse assolutamente brutale, dal momento che non si potrebbe trovare alcun mantello per coprire la nudità dell’aggressione. Tutti i paesi civili, quando intraprendono una guerra trovano qualche scusa dignitosa: essi combattono, quasi sempre, o per autodifesa o in difesa dei deboli. Nessuna scusa potrebbe essere avanzata in questo caso. Non si potrebbe più dire, come stanno dicendo ora i tedeschi, che il predominio navale dell’Inghilterra mantiene le altre nazioni in condizioni di schiavitù e minaccia l’esistenza stessa delle nazioni che dipendono dall’importazione alimentare. Non si potrebbe dire che stiamo opprimendo l’India perché l’India potrebbe separarsi dall’impero in qualsiasi momento. […] Se l’Inghilterra non avesse né esercito né marina, i tedeschi avrebbero difficoltà a trovare un pretesto per l’invasione. Tutti i liberali in Germania si opporrebbero ad un’impresa simile; e altrettanto farebbero le altre nazioni, a meno che la Germania non offrisse loro una parte del bottino. Ma supponiamo che si vinca tutta l’opposizione interna e che una forza militare sia inviata in Inghilterra per occupare il paese. Questa forza, poiché non troverebbe opposizione militare, non avrebbe bisogno di essere grande e non ci sarebbe quello stato d’animo di paura e ferocia insieme che caratterizza un esercito invasore tra una popolazione ostile. Non ci sarebbe difficoltà a mantenere la disciplina militare e nessuna occasione per stupri e rapine che si sono sempre manifestate tra le truppe dopo una vittoria in battaglia. Non ci sarebbe gloria da acquisire né croci di ferro da guadagnare. I tedeschi non potrebbero vantarsi della loro prodezza militare o immaginare di stare manifestando l’austera abnegazione che si crede debba essere dimostrata dalla volontà di morire in battaglia. Per la mentalità militare, l’intera spedizione
sarebbe ridicola, indurrebbe un sentimento di vergogna e non di orgoglio. Forse si dovranno dare dei ceffoni a qualche impudente ragazzo di strada, ma non ci sarebbe nulla che conferisse dignità alla spedizione. Tuttavia, supporremo che l’esercito invasore arrivi a Londra, dove caccerebbe da Buckingham Palace il re e dalla Camera dei Comuni i parlamentari. […] Non ci sarebbe alcuna difficoltà nel gestire una nazione così docile e all’inizio quasi tutti i pubblici ufficiali sarebbero confermati nei loro ruoli. Infatti, il governo di un grande stato moderno è una faccenda complicata e sarebbe saggio facilitare la transizione con l’aiuto di uomini che hanno familiarità con la struttura esistente. Ma a questo punto, se la nazione dimostrasse lo stesso coraggio che ha sempre dimostrato in battaglia, inizierebbero le difficoltà. Tutti i pubblici ufficiali rifiuterebbero di collaborare con i tedeschi. Alcuni tra i più influenti sarebbero imprigionati, forse anche fucilati per spingere gli altri. Ma se questi resistessero e si rifiutassero di riconoscere o trasmettere gli ordini […] dovrebbero essere tutti licenziati, sino al più umile postino […]. E sarebbe molto difficile per i tedeschi creare immediatamente dal nulla una macchina amministrativa. Qualsiasi editto volessero proclamare sarebbe tranquillamente ignorato dalla popolazione. Se ordinassero che il tedesco dovesse essere la lingua insegnata nelle scuole, i maestri continuerebbero come se non ci fosse stato alcun ordine; se i maestri fossero licenziati, i genitori non manderebbero più i bambini a scuola. Se ordinassero che i giovani inglesi dovessero prestare servizio militare, quei giovani semplicemente si rifiuterebbero; dopo averne fucilati alcuni, i tedeschi sarebbero costretti ad abbandonare l’impresa disperata. Se tentassero di riscuotere le tasse doganali, dovrebbero avere doganieri tedeschi; ciò condurrebbe a uno sciopero di tutti i lavoratori del porto, così che questo sistema di riscossione tributaria diverrebbe impossibile. Se tentassero di impadronirsi delle ferrovie, ci sarebbe uno sciopero dei ferrovieri. Qualsiasi cosa toccassero si paralizzerebbe immediatamente e sarebbe subito evidente, anche a loro che niente si potrebbe trarre dall’Inghilterra senza conciliarsi la popolazione. Un tale modo di affrontare l’invasione, naturalmente,
richiederebbe forza d’animo e disciplina. Ma la forza d’animo e la disciplina sono richieste in guerra. Per secoli l’educazione è stata ampiamente indirizzata a formare queste qualità in funzione della guerra. Ora esse sono così diffuse che in ogni paese civile ogni uomo è pronto a morire in battaglia in qualsiasi momento il governo lo richieda. Lo stesso coraggio e idealismo che ora sono riposti nella guerra possono facilmente essere indirizzati con l’educazione verso la resistenza passiva. Non so quante perdite l’Inghilterra potrebbe subire prima che la guerra sia conclusa, ma se ammontassero a un milione nessuno se ne stupirebbe. Un numero immensamente minore di perdite con la resistenza passiva proverebbe a ogni esercito invasore che il compito di soggiogare l’Inghilterra al dominio straniero sarebbe impossibile. E questa dimostrazione sarebbe fatta una volta per tutte, indipendentemente dagli incerti eventi di guerra. […] È la viltà che rende difficile affrontare un’invasione con il metodo della resistenza passiva. Una pratica efficace di questo metodo richiede più coraggio e più disciplina dell’affrontare la morte nel fervore della battaglia […]. È la viltà che induce a preferire il vecchio metodo di cercare di essere più forte dell’avversario (in cui solo una parte può vincere) piuttosto di un nuovo metodo che richiede immaginazione e revisione dei criteri di giudizio tradizionali. Eppure, se gli uomini potessero pensare al di fuori dei logori solchi, ci sono molti semplici fatti che dimostrano la follia del modo convenzionale di governare. Perché la Germania ha invaso la Francia? Perché i francesi hanno un esercito. Perché l’Inghilterra ha attaccato la Germania? Perché i tedeschi hanno una marina. Eppure, le persone persistono nella convinzione che l’esercito francese e la marina tedesca contribuiscono alla sicurezza nazionale. Niente può essere più ovvio dei fatti; niente può essere più universale della cecità umana di fronte ad essi. […] La resistenza passiva, se fosse adottata deliberatamente dalla volontà di una intera nazione con lo stesso coraggio e la stessa disciplina che oggi si manifesta nella guerra potrebbe raggiungere una protezione di ciò che c’è di buono nella vita nazionale che eserciti e marine non potrebbero mai raggiungere, senza richiedere il coraggio, le perdite e l’immensa brutalità implicate nella guerra moderna.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
1. Quali sentimenti manifesta Einstein nei confronti del mondo militare? Quale tono usa per descrivere quest’ultimo? (testo 1) 2. In nome di chi parlano gli intellettuali firmatari del Manifesto Einstein-Russell? (testo 2) 3. Quale dovrebbe essere la giusta domanda che l’umanità dovrebbe porsi nella situazione che sta vivendo? (testo 2) 4. Cosa intende Russell quando parla di disobbedienza passiva? (testo 3)
Interpretare
5. Dopo aver letto i passi proposti, discutete in classe sul tema della guerra con il docente e i compagni, confrontandovi sui diversi punti di vista emersi.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
Il Principe 2 461
fu letto Il Principe: una pagina fondamentale 5 Come nella coscienza politica europea Un classico sorprendentemente attuale La fortuna e l’attualità di Machiavelli si identificano di fatto con la fortuna e l’attualità del Principe, uno dei libri italiani più conosciuti nel mondo. Un libro che è impossibile leggere in modo “neutro”, che fin dalla sua prima apparizione ha fatto scalpore, suscitando forti polemiche, e che continua, dopo cinquecento anni, ad alimentare un acceso dibattito e una ricchissima produzione critica (l’imponente bibliografia machiavelliana trova confronto solo con quella dantesca). Leggere Il Principe, oggi come secoli fa, rimane un’esperienza inquietante perché implica il confronto brutale con le leggi della politica e con i problemi morali che inevitabilmente essa suscita. Proprio in questo consiste la scottante attualità di questo celebre libro, che ha stimolato in tutte le epoche la riflessione di grandi pensatori (tra gli altri: Bacone, Spinoza, Hegel, Marx). Anche gli uomini politici, in momenti chiave della loro storia, non hanno potuto non incontrare Il Principe: da Mussolini a Gramsci ad altri esempi più recenti (➜ PER APPROFONDIRE I politici e Machiavelli OL). Alla fortuna secolare del Principe ha sicuramente contribuito il fatto che non sia rimasto confinato nel campo degli addetti ai lavori: è stata persino pubblicata una scelta di citazioni machiavelliane per manager!
Parola chiave
Dalla pubblicazione all’Indice dei libri proibiti Nel 1532 viene stampato Il Principe (ma già da tempo l’opera circolava in forma manoscritta) e in breve tempo il pensiero di Machiavelli conosce una fortuna straordinaria in Italia e in Europa: in soli 25 anni si annoverano una quarantina di edizioni delle sue opere. Ma già nel primo Cinquecento hanno inizio le aspre polemiche nei confronti di questo lavoro: tra i primi accusatori figura un ecclesiastico (anche in seguito, nel dibattito sul trattato, gli uomini di Chiesa saranno sempre in primo piano): il cardinale inglese Reginald Pole, nella sua Apologia a Carlo V (1539), definisce Il Principe un libro «scritto col dito di Satana». Assai presto nasce il fenomeno dell’antimachiavellismo e viene elaborata la categoria concettuale (tuttora presente nel linguaggio comune) di machiavellico come sinonimo di “immorale, spregiudicato, cinico, perfidamente astuto, empio”. Nel 1559 Il Principe (seguito dalle altre opere machiavelliane) viene inserito dal papa Paolo IV nell’Indice dei libri proibiti con una rilevanza tutta particolare, certo in rapporto alla pericolosità ideologica. Da quel momento diventa imprudente non solo leggere, ma persino nominare Machiavelli, a meno che non lo si condanni apertamente.
machiavellico L’aggettivo machiavellico (derivato evidentemente dal nome dell’autore del Principe) è ancora oggi comunemente impiegato. L’aggettivo nasce in Francia una quarantina d’anni dopo la pubblicazione del trattato – come più tardi anche il sostantivo machiavellismo (1611) – con una forte connotazione negativa. Questa connotazione si collega alla specifica ricezione dell’opera in Francia e Inghilterra. Soprattutto in questi paesi Il Principe fu letto come libro immorale: una raccolta di precetti cinici e opportunistici di uno studioso privo di scrupoli e di principi. Il termine
462 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
machiavellico, che deriva da questa lettura semplicistica del Principe, è poi uscito dall’ambito politico per diventare sinonimo di ogni comportamento ispirato a doppiezza, spregiudicatezza, astuzia ingannatrice. È bene precisare, invece, che il termine machiavelliano non è legato a connotazioni negative, ma designa semplicemente, senza alcun giudizio implicito, “tutto ciò che riguarda le opere e il pensiero di Machiavelli” (ad esempio lo stile machiavelliano, la concezione machiavelliana).
Il «machiavellismo dissimulato»: il trionfo della “ragion di stato” Al contempo però alcuni pensatori, specie in ambiente gesuita, non mancarono di utilizzare le acquisizioni di metodo e di analisi del Principe; ma lo fecero in modo camuffato, fingendo di biasimare ciò di cui capivano l’utilità (quindi, in modo sostanzialmente “machiavellico”!). Nell’età della Controriforma era fondamentale riportare l’agire politico nei rassicuranti confini della morale e della religione, ai quali Machiavelli l’aveva audacemente sottratta, senza perdere però la preziosa lezione politica del trattato di Machiavelli. Alla “ragion di stato” rigorosamente laica presente nel Principe si contrappongono allora i diritti di una “ragion di stato” ispirata ai princìpi del cattolicesimo, dei quali chi governa deve farsi portavoce e ai quali deve sottomettersi. Nel suo trattato intitolato appunto Della ragion di Stato (1589), il gesuita Giovanni Botero tratteggia l’immagine di un principe cristiano che pratica sì le dure leggi della politica, ma solo per tutelare l’autorità della legge di Dio sui popoli (➜ D1c oL). Si trattava, come è evidente, di «un machiavellismo dissimulato, funzionale alle esigenze delle monarchie assolute di diritto divino» (Ceserani) o, forse meglio, di un «machiavellismo cattolico» (Maier). Un antimachiavellismo strumentale La fama internazionale di Machiavelli coincise con un periodo estremamente convulso della storia europea: i decenni delle guerre di religione in cui furono coinvolti più o meno direttamente tutti i paesi europei, dalla notte di San Bartolomeo (1572) alla pace di Westfalia (1648). In un clima di tensione e di radicalizzazione, l’uso strumentale e a fini di polemica delle idee di Machiavelli divenne pratica corrente e Machiavelli stesso diveniva la personificazione dei vizi più diversi, un simbolo del male. Di fatto protestanti e cattolici si accusano reciprocamente di machiavellismo. Particolare diffusione ebbe il violento libello Antimachiavellus (1576) dell’ugonotto Innocent Gentillet. Il mito negativo di Machiavelli e l’interpretazione “nera” del Rinascimento italiano In Francia trova particolare seguito una nozione volgare di machiavellismo, ancora diffusa in tempi relativamente recenti: in questa immagine vulgata Il Principe è visto come un breviario politico che incita a comportamenti perversi, ispirati dall’empietà e dall’ateismo. Nell’immaginario francese del tempo Machiavelli non è diverso dai sanguinari Borgia, secondo un’interpretazione “nera” del
Frontespizi di una traduzione cinquecentesca francese e della prima edizione inglese del Principe.
Il Principe 2 463
Rinascimento italiano (evidentemente stereotipata e tendenziosa) che si riflette nel teatro francese del Cinquecento. Ma è soprattutto in Inghilterra che attecchisce, persino a livello popolare, il “mito negativo” di Machiavelli, che assume addirittura i tratti di un personaggio satanico, da leggenda nera: questa immagine sinistra e demoniaca compare nei drammi di Marlowe, Ben Johnson e dello stesso Shakespeare, ma ancora nei romanzi “gotici” di fine del Settecento persiste la tendenza ad attribuire connotazioni machiavelliche ai personaggi tenebrosi e malvagi. La nuova condanna del Principe nel contesto dell’Illuminismo Successivamente l’antimachiavellismo trova nuove motivazioni e nuovo alimento nel contesto ideologico e politico dell’illuminismo, che, alla luce dei nuovi princìpi filosofici e politici, condanna come liberticida la concezione machiavelliana dello stato e della politica. Poco prima di salire al trono è lo stesso Federico di Prussia a riproporre un Antimachiavel (1740), scritto con la collaborazione di Voltaire, in cui attacca il trattato non solo sul piano morale ma anche su quello politico, in nome della tolleranza illuminata propria del Settecento, esaltata come modello di condotta politica opposto a quello machiavelliano. Il «Machiavelli obliquo» Ma intanto la voce machiavélisme della celebre Encyclopédie (dovuta molto probabilmente a Diderot) comincia a gettare le basi del cosiddetto «Machiavelli obliquo»: l’impossibilità di accettare così come sono le sconcertanti analisi e dichiarazioni del Principe induce alcuni interpreti non più a condannarle, ma ad attribuire a Machiavelli intenzioni del tutto diverse da quelle apparenti, leggendo così Il Principe come una finzione motivata da nobili scopi: Machiavelli sarebbe non un “precettore” di prìncipi assoluti, ma colui che ha voluto svelare ai sudditi il vero volto del potere. Fra i primi fautori di questa interpretazione è J.-J. Rousseau: nel Contratto sociale (1762) sostiene che Machiavelli, «fingendo di dare lezioni ai re, ha dato grandi lezioni ai popoli», e che il vero obiettivo del Principe («il libro dei repubblicani») era quello di scoprire i meccanismi del potere (III, vi ). Questa tesi in Italia è condivisa innanzitutto da Vittorio Alfieri. Nel trattato Del principe e delle lettere (1786) dichiara: «dal solo libro Del Principe si potrebbe qua e là ricavare alcune massime immorali e tiranniche, e queste dall’autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambiziose ed avvedute crudeltà dei principi che non certamente per insegnare ai principi a praticarne». Anche Ugo Foscolo in alcuni celeberrimi versi dei Sepolcri (1806) mostra di credere all’interpretazione «obliqua» del trattato. Rievocando, tra i grandi italiani sepolti in Santa Croce, Machiavelli, lo esalta come «quel grande, / che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (vv. 155-158). A suo modo anche la lettura dello stesso Gramsci (1891-1937), il fondatore del Partito comunista italiano, sarà incentrata sul «Machiavelli obliquo» (➜ PER APPROFONDIRE I politici e Machiavelli OL). Machiavelli e il Risorgimento Sotto la spinta delle passioni politiche dell’età risorgimentale Machiavelli conosce in Italia una grande fortuna come “profeta” dell’indipendenza e dell’unità nazionale (e in questa ottica fu particolarmente valorizzato il capitolo conclusivo dell’opera che incitava alla liberazione dell’Italia dagli stranieri). È questa la visione che di Machiavelli ha anche il grande critico di età romantica Francesco De Sanctis, che contrappone al culto della forma, proprio della cultura rinascimentale, la passione civile di Machiavelli e lo spirito profonda-
464 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
mente laico che ne fa un precursore della scienza della politica moderna, colui che ha svincolato l’uomo dalla sudditanza al trascendente.
online
Per approfondire I politici e Machiavelli
Machiavelli tra attualizzazione e storicizzazione In generale si può dire che nella storia della ricezione del pensiero di Machiavelli è stata predominante da un lato l’interpretazione assolutizzante di un Machiavelli “genio del male”, e dall’altro un uso sostanzialmente strumentale del suo pensiero, riproposto ancora nei primi decenni del Novecento da parte delle ideologie totalitarie che se ne servono per legittimare l’idea di uno stato autoritario. In ogni caso il pensiero di Machiavelli è stato spesso svincolato dal tempo e dalle circostanze in cui fu elaborato. In tempi più recenti però la tendenza sicuramente emergente è la sempre più marcata storicizzazione del personaggio Machiavelli e della sua opera, sostenuta in ambito critico in particolare dagli studi fondamentali di Federico Chabod (1901-1960) e di Felix Gilbert (1905-1991), volti a riportare rigorosamente la riflessione politica di Machiavelli a un preciso contesto storico-politico (la crisi degli stati signorili, a cui egli cerca di trovare una soluzione) e al dibattito proprio degli ambienti intellettuali fiorentini. In generale, citando il celeberrimo filosofo tedesco Hegel, si potrebbe dire: «Se è doveroso, per concludere, non astrarre le considerazioni del Principe dal contesto storico-politico da cui derivano e a cui espressamente, non dimentichiamolo, si rivolgono, d’altra parte è anche giusto, soprattutto nella prassi scolastica, non eludere il problema di fondo posto dal testo machiavelliano: il rapporto politica-morale. Riteniamo che “attualizzare” Machiavelli voglia dire soprattutto tentare di dare una risposta a questo dilemma, che sicuramente travagliò la coscienza di Machiavelli e che risulta più che mai attuale».
Stefano Ussi, Niccolò Machiavelli nello studio, 1894 (Galleria nazionale d’arte moderna, Roma).
Il Principe 2 465
3
Machiavelli politologo, storico e letterato Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: la lezione 1 Idell’Umanesimo
Bramante, Uomo d’arme, 1485 (Pinacoteca di Brera, Milano). L’opera fa parte di una serie di otto affreschi che rappresentano i più famosi condottieri del tempo: raffigurati all’interno di nicchie architettoniche dipinte, hanno parvenza di statue.
I caratteri e il titolo Oltre al Principe, durante il suo forzato ritiro dalla scena politica, Machiavelli scrive un’altra importante opera politica a cui è affidato il suo pensiero: i Discorsi. A differenza del Principe i Discorsi non nascono da un’occasione contingente e non hanno l’organica struttura di un trattato: consistono infatti in una serie di riflessioni di diversa ampiezza suggerite a Machiavelli dalla lettura e interpretazione dei primi dieci libri (prima deca) della monumentale opera storica di Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) Ab urbe condita libri (Storia di Roma dalla sua fondazione). Il termine “discorsi” non è di Machiavelli, ma è usato nel titolo della prima edizione a stampa (1531) ed è poi rimasto nelle successive edizioni: va inteso nel senso etimologico di “divagazioni” a partire da un testo-base (dal latino discurrere). Una nuova applicazione del “principio d’imitazione” La premessa concettuale su cui si fondano i Discorsi è l’adesione dell’autore al principio umanistico dell’imitazione dei classici: come dichiara espressamente nel Proemio dell’opera (➜ T12 ), Machiavelli pensa però che l’imitazione dei classici non vada limitata al solo campo artistico-letterario, ma debba essere utilmente estesa anche all’ambito dell’azione politica, mentre «non si truova principe né repubblica che agli esempi degli antiqui ricorra». Il fondamento della possibilità di imitare gli esempi antichi è la concezione (presente anche nel Principe) che Machiavelli ha della natura umana come immutabile nel tempo: anche i comportamenti tendono dunque a seguire in un certo senso gli stessi modelli. Il valore pedagogico della storia Machiavelli crede quindi fermamente al valore pedagogico della storia (historia magistra vitae, “la storia è maestra di vita”) e considera la repubblica romana un modello politico da imitare. Non gli interessa, dunque, celebrare un mondo ormai passato, ma vuole ricavare, anche qui come nel Principe, esempi e norme di comportamento politico utili al presente: alla stabilità dello stato romano fa infatti da sfondo contrastivo per tutta l’opera (anche quando non è espressamente evocata) la drammatica instabilità della Firenze cinquecentesca, a cui occorre porre rimedio prima che sia troppo tardi. La datazione La data di composizione dei Discorsi non è sicura e diverse sono le posizioni degli studiosi in proposito. L’ipotesi tradizionale riteneva che i Discorsi fossero iniziati nel 1513, appena prima della stesura del Principe, interrotti (probabilmente al XVIII capitolo) per lasciare spazio alla più “urgente” composizione del trattato e poi ripresi subito dopo. Secondo l’ipotesi oggi più accreditata, Machiavelli avrebbe iniziato molti anni prima (tra il 1502 e il 1512) un’ope-
466 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
ra sulla struttura repubblicana (ad essa alluderebbe l’osservazione posta all’inizio del secondo capitolo del Principe: «Io lascerò indrieto el ragionare delle repubbliche, perché altra volta ne ragionai a lungo. Volterommi solo al principato...»). Il materiale, rielaborato, sarebbe poi confluito nei Discorsi tra il 1515 e il 1517, al tempo della frequentazione da parte di Machiavelli del gruppo degli Orti Oricellari. Probabilmente nel 1518 (ma altri spostano di qualche anno la data) i Discorsi sono completati, anche se l’opera non raggiunse mai una veste definitiva e mantiene una certa frammentarietà.
Andrea Mantegna, Trionfi di Cesare (part.), 1485-1505, (Palazzo reale di Hampton Court, Londra). La tela raffigura un corteo trionfale, con portatori di insegne, ispirato sia a descrizioni storiche antiche sia a rappresentazioni di trionfi romani e di cortei celebrativi rinascimentali.
La struttura e i contenuti I Discorsi (142 testi in tutto) sono organizzati in tre libri: • il primo libro tratta l’organizzazione della repubblica romana, l’origine delle leggi, la funzione di coesione sociale esercitata dalla religione, la vitale dialettica che contrappose la plebe e la nobiltà; • il secondo libro si incentra sul tema, sviluppato ampiamente nel Principe, dei rapporti tra virtù e fortuna in relazione all’espansione territoriale della repubblica romana, per poi considerare problemi di vario genere, tra cui quello, cruciale per Machiavelli, delle milizie; • il terzo libro è il più eterogeneo e presenta singoli esempi di grandi personaggi della storia antica iscrivibili in diverse problematiche.
I temi principali L’importanza delle istituzioni Nei Discorsi Machiavelli si pone soprattutto il problema della stabilità e dello sviluppo di uno stato già esistente, per garantire i quali gli appare fondamentale non tanto la “virtù” dei singoli governanti (come nel Principe), quanto piuttosto la validità delle istituzioni, di cui la repubblica romana ha offerto un modello esemplare. Prendendo spunto dallo storico greco Polibio (205-124 a.C.), Machiavelli prospetta come miglior forma di governo possibile la costituzione mista, cioè una forma di governo che possa esprimere istituzioni monarchiche, aristocratiche e democratiche: nella repubblica romana si realizzò appunto un tale governo (i consoli rappresentavano l’elemento monarchico, il senato l’elemento aristocratico, e i tribuni della plebe quello democratico). Queste istituzioni non furono ideate da un singolo legislatore, ma derivarono via via dall’insegnamento degli eventi storici e furono l’esito della conflittualità della vita politica, che Machiavelli non considera un elemento negativo ma al contrario vitale e positivo: le lotte tra patrizi e plebei ebbero come sbocco politico appunto una forma di governo misto e una solida legislazione. Secondo la riflessione di Machiavelli, particolarmente importante fu l’istituzione del tribunato della plebe, perché favorì l’integrazione della plebe nella vita civile e politica. Il riconoscimento del ruolo del popolo nell’amministrazione politica e l’istituzionalizzazione di chi ne prendeva le difese (il tribunato della plebe) costituì poi il presupposto per lo sviluppo territoriale dell’impero: infatti solo a un popolo che si riconosceva parte di una “patria” comune poteva essere chiesto di sacrificarsi sui campi di battaglia nelle campagne militari. Machiavelli politologo, storico e letterato 3 467
Il ruolo chiave della religione nel promuovere i “buoni costumi” dei cittadini Alla base della grandezza di Roma c’era stato però un popolo abituato dai suoi governanti alla moderazione, all’obbedienza civile, al rispetto dell’autorità, “buoni costumi” nei quali aveva avuto un ruolo fondamentale la religione. È importante precisare che Machiavelli considera la religione, qui come anche nel Principe, esclusivamente nell’ottica della funzionalità politica che può comportare la presenza nella popolazione di un forte sentimento di tal natura. Ne derivano suggerimenti ispirati allo stesso pragmatismo presente nel Principe, come quello di alimentare nel popolo la fede nei miracoli perché politicamente utile a chi governa. Il tema, in vario modo ricorrente nel corso dell’opera, occupa ben cinque capitoli (capp. XI-XV) del primo libro. La religione, associata da Machiavelli soprattutto al “timore di Dio”, fu particolarmente radicata nel popolo romano e rappresentò una leva capace di produrre comportamenti politicamente utili: «E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è cagione della rovina d’esse» (➜ T13 OL). Proprio perché convinto del ruolo positivo svolto dalla religione nella società, Machiavelli critica fortemente, come del resto fa Guicciardini (➜ C9), la Chiesa (seconda parte del cap. XII ➜ T13 OL), considerata responsabile del fatto che gli italiani sono diventati «sanza religione e cattivi» e, per di più, di aver impedito l’unificazione del paese. Il problematico rapporto fra Il Principe e i Discorsi Anche il lettore comune constata facilmente la diversità di vedute in ambito politico che si manifesta nelle due principali opere di Machiavelli: Il Principe e i Discorsi. I Discorsi sono improntati a un’ammirazione per gli ordinamenti repubblicani di Roma antica, che a volte si traduce in esplicita dichiarazione di superiorità delle istituzioni repubblicane su altre forme politiche (e in particolare sul principato): una posizione che appare in contraddizione con la rappresentazione del principato assoluto nel Principe. Inoltre nei Discorsi la vita dello stato sembra affidata alle istituzioni, alle buone leggi e alle virtù collettive di un’intera popolazione, mentre nel Principe è esclusivamente esaltata la “virtù” di chi governa che, secondo le necessità politiche, può anche tradursi in brutale oppressione o strumentalizzazione del popolo, il quale non ha (e non deve avere) nessuna voce in capitolo. La diversa natura e finalità delle due opere Dunque Machiavelli era fautore della repubblica o del principato? Di certo, data la sostanziale sovrapposizione cronologica tra le due opere, è da escludere un’evoluzione di posizioni politiche dell’autore nel tempo, da una fase monarchica (Il Principe) a una fase repubblicana (i Discorsi). Oggi la critica non giudica più in assoluto la discordanza di posizioni tra le due opere, ma la interpreta piuttosto in rapporto alla diversa natura dei due testi, alle diverse prospettive che le ispirano, ai diversi fini e circostanze di composizione. Il Principe è scritto nell’urgenza di un clima politico assai pesante e di una difficile situazione personale (Machiavelli cerca di rientrare in tutti i modi nel giro della politica): mette a fuoco, in particolare, la fondazione di uno stato nuovo, condizione in cui è pressoché inevitabile usare la violenza e la forza, e in cui è in gioco soprattutto la capacità politica individuale del Principe. I Discorsi hanno maggiore ambizione speculativa, sono il frutto della lettura meditata di uno storico antico (Livio) e si ricollegano al clima culturale del cenacolo umanistico fiorentino degli Orti Oricellari, dove si leggeva la storia passata confrontandola polemicamente con il presente (proprio come fa Machiavelli nei Discorsi):
468 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
la repubblica romana appariva il modello perfetto di uno stato che conciliasse efficienza politica, stabilità e tutela delle libertà. Quest’opera mette a fuoco soprattutto il problema della durata e della stabilità dello stato: in primo piano, perciò, si colloca il discorso sugli ordinamenti, cioè sulle istituzioni che possono rendere saldo nel tempo uno stato, sul modello appunto offerto dai mitizzati tempi romani. In relazione alle diverse circostanze compositive e alle diverse finalità che si propongono, anche lo stile delle due opere appare diverso: all’andamento rapido, incisivo e sentenzioso del Principe si contrappone l’andamento in genere pacatamente argomentativo e la sintassi classicheggiante dei Discorsi. Gli elementi comuni D’altra parte, al di là di schematiche contrapposizioni, sono molti i tratti che accomunano Il Principe ai Discorsi, testimonianze entrambi di una nuova visione della politica. Le due opere hanno un retroterra comune da cui scaturiscono perché entrambe presuppongono l’esperienza politica maturata da Machiavelli negli anni del suo incarico al segretariato. Inoltre, i Discorsi condividono con Il Principe la prospettiva laica, pragmatica, antidealistica dell’azione politica (anche se non pervengono a considerazioni così ardite come quelle presenti nel trattato); comune alle due opere è la visione naturalistica nei confronti della natura umana e dei comportamenti dell’uomo (evidente anche nel lessico e nelle immagini metaforiche tratte dal campo naturale e dalla medicina) e, ancora, la lezione degli antichi che è premessa del Principe e da cui prendono espressamente le mosse i Discorsi.
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
GENERE
riflessioni di natura politica, ispirate dalla lettura dei primi dieci libri della Storia di Roma di Tito Livio
DATAZIONE
inizio della stesura tra il 1502 e il 1512, completamento 1518
TITOLO
non attribuito da Machiavelli, significa “divagazioni”
STRUTTURA
tre libri
FINALITÀ
dedurre dalla storia antica modelli ed esempi positivi utili a risolvere i problemi politici del presente
CONTENUTO
analisi della repubblica romana: le sue istituzioni, il ruolo della religione, il mantenimento dello stato
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 469
Niccolò Machiavelli
T12
Bisogna imitare gli antichi anche in campo politico Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, 1 (Proemio)
N. Machiavelli, Tutte le opere, a c. di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971
Nel Proemio del primo libro, che fa da introduzione generale all’opera, Machiavelli enuncia con chiarezza le motivazioni che lo hanno indotto a scrivere l’opera e i princìpi metodologici su cui si fonda. È evidente l’orgogliosa consapevolezza, al di là delle dichiarazioni di modestia, di intraprendere un cammino nuovo e la certezza di fare cosa utile a chi leggerà l’opera.
Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’altri1; nondimanco2, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza alcuno 5 respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a ciascuno3, ho deliberato entrare per una via4, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita5, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora6 arrecare premio, mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino7. E se lo ingegno povero8, la poca esperienzia delle cose presenti e la debole notizia9 delle antique 10 faranno questo mio conato difettivo10 e di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che, con più virtù, più discorso e iudizio11, potrà a questa mia intenzione satisfare12: il che, se non mi arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo13. Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto 15 comperato gran prezzo14, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono15; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo16; e veggiendo, da l’altro canto, le virtuosissime operazioni17 che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani18, cittadini, latori di leggi19, ed altri che 20 si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate20; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno21; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga. 1 Ancora che… d’altri: Sebbene per la natura invidiosa degli uomini sia sempre stato pericoloso allo stesso modo (tanto) trovare forme e ordinamenti politici nuovi (quanto) andare in cerca di mari e terre sconosciute (incognite), perché gli uomini (per essere quelli) sono più pronti a biasimare che a lodare le azioni di altri. 2 nondimanco: tuttavia. 3 operare... ciascuno: mettere in atto senza nessun timore (sanza alcune respetto) quelle iniziative che credo (creda) portino un vantaggio comune per ognuno. 4 ho deliberato... una via: ho deciso di intraprendere (lett. “percorrere una strada”). 5 non essendo… trita: non essendo stata ancora percorsa da nessuno (trita è un latinismo dal verbo terere “percorrere”). 6 ancora: anche. 7 mediante... considerassino: mediante
coloro che giudicassero con benevolenza (umanamente) il fine di questa mia fatica. 8 lo ingegno povero: la modesta intelligenza. 9 la debole notizia: l’insufficiente conoscenza. 10 faranno… difettivo: renderanno imperfetto questo mio tentativo; sia difettivo (da deficere, “mancare”, sia conato (conatus) sono latinismi. Naturalmente qui Machiavelli fa la consueta dichiarazione di umiltà, comune a quasi tutti gli scrittori. In realtà il tono complessivo del Proemio dimostra la piena consapevolezza di essere all’altezza del compito. 11 più discorso e iudizio: maggiori capacità argomentative e intellettive. 12 potrà… satisfare: potrà realizzare il mio progetto. 13 il che... biasimo: la qual cosa, se non
470 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
mi darà lodi, non mi dovrebbe (neppure) sottoporre a critiche. 14 gran prezzo: a un prezzo elevato. 15 poterlo... dilettono: perché chi si diletta nell’arte della scultura (quella arte) lo possa copiare. 16 come… rappresentarlo: come gli scultori (quegli) poi con tutto il loro impegno (industria) si sforzano di riprodurre il modello in ogni loro opera. 17 le virtuosissime operazioni: le imprese, le azioni eccellenti. 18 capitani: condottieri. 19 latori di leggi: legislatori. 20 essere... imitate: (vedendo che le azioni eccellenti) sono ammirate piuttosto (più presto) che non imitate. 21 anzi… segno: anzi, addirittura essendo respinte da ciascuno tanto che non è rimasta traccia di quella antica capacità (virtù).
E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli 25 iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati22: perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti23, le quali, ridutte in ordine, a’ presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano24. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le republiche25, nel 30 mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra26, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio27, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la presente religione28 ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio29, 35 quanto dal non avere vera cognizione delle storie30, per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti31 che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono32, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino 40 variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente33. Volendo, pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti34, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose35, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi36, a ciò che coloro che 45 leggeranno queste mia declarazioni37, possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare sotto questo peso, confortato38, credo portarlo39 in modo, che ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.
22 tanto più… ordinati: tanto più (mi lamento) quanto vedo che si è sempre fatto ricorso alle sentenze o alle cure mediche giudicate valide dagli antichi nelle contese (diferenzie) tra i cittadini risolvibili per via legale (civilmente) o nella malattie in cui incorrono gli uomini. Machiavelli sottolinea che, a differenza del campo politico, nell’ambito legale e medico si fa sempre riferimento al sapere trasmesso dagli antichi. 23 iureconsulti: giuristi. 24 a’ presenti… insegnano: insegnano ai giuristi contemporanei a formulare corretti giudizi. 25 nello ordinare le republiche: nel dotare uno stato di una costituzione. 26 amministrare la guerra: gestire le operazioni militari. 27 nello accrescere l’imperio: nell’estendere territorialmente uno stato. 28 la presente religione: il cristianesimo; su di esso Machiavelli esprime un giudizio negativo sotto il profilo strettamente politico: ha creato debolezza.
29 uno ambizioso ozio: espressione quasi ossimorica, indicante un’ambizione non sostenuta da una politica energica. 30 vera cognizione delle storie: esatta conoscenza della storia antica. 31 infiniti: numerosissime persone. 32 pigliono piacere… contengono: si dilettano di leggere la molteplicità dei diversi avvenimenti in esse contenuti. Machiavelli allude qui a una lettura sterile, erudita e nozionistica della storia, che non approda a nulla. 33 come se… antiquamente: come se le stelle (il cielo), il sole, gli elementi naturali, la natura umana (li uomini) fossero cambiati nei movimenti, nelle leggi, nella possibilità di agire (potenza) rispetto a come erano in passato. Viene qui enunciata la visione naturalistica che Machiavelli ha dell’indole umana, che non cambia nel tempo così come non cambiano i moti degli astri ecc. 34 sopra tutti… intercetti: sopra tutti i libri di Tito Livio che non ci sono stati sottratti dal tempo. Dei 150 libri, divisi in
15 gruppi di 10 libri (o deche) della monumentale Storia di Roma ce ne sono pervenuti solo 35; l’intenzione di Machiavelli, a giudicare da quanto qui scrive, sarebbe stata quella di occuparsi di tutti i libri rimasti, non solo dei primi dieci come poi di fatto fece. 35 cognizione delle antique e moderne cose: conoscenza delle esperienze antiche (attraverso i libri) e moderne (attraverso la sua diretta esperienza in campo politico). 36 intelligenzia di essi: comprensione di essi. 37 queste mia declarazioni: questi miei commenti. 38 coloro che… confortato: coloro che gli hanno dato coraggio per affrontare questo compito gravoso sono i dedicatari dei Discorsi, Cosimo Rucellai e Zanobi Buondelmonti. 39 portarlo: sottinteso “avanti”.
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 471
Analisi del testo Una diversa applicazione del principio di imitazione Il Proemio dei Discorsi non è di facile lettura, soprattutto per un giovane studente, ma costituisce un testo importantissimo non solo per comprendere la prospettiva che ispira i Discorsi, ma anche per giustificare la presenza nel Principe di molti esempi tratti dal mondo antico. Del resto, come si è detto, le due opere sono concettualmente contigue e addirittura la loro stesura si interseca. Nel Proemio Machiavelli fa sua la generale ammirazione per il mondo antico che caratterizza il suo tempo e ricorda la diffusa tendenza ad acquistare a caro prezzo statue antiche per poterle imitare. Constata d’altra parte che pochissimi (anche se le ammirano) imitano le “virtuose” imprese degli antichi trasmesse dagli storici, le buone leggi da essi emanate e così via. Eppure, continua l’argomentazione di Machiavelli, in campo giuridico e medico si ricorre ancora al sapere degli antichi, sul quale si fondano la giurisprudenza e la medicina moderna.
Un modo diverso di leggere gli storici antichi Lo scrittore si chiede perché l’imitazione degli antichi non interessi anche l’ambito politico. La causa gli sembra essere una conoscenza limitata della storia passata, dovuta a una lettura delle opere volta solo a trarre piacere da quanto narrato, escludendo a priori la possibilità di imitare gli esempi antichi («[…] infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile»). Invece, anche in questo campo, l’indole umana è sempre la stessa, così come si ripetono immutabili i fenomeni naturali (la concezione naturalistica dell’uomo accomuna Il Principe e i Discorsi). Machiavelli si propone quindi di commentare – per farli capire meglio – i testi della Storia romana di Livio grazie alla competenza che si attribuisce in campo politico. L’obiettivo non è quindi un erudito commento fine a sé stesso, ma una chiarificazione che restituisca a questi testi antichi la loro viva voce, così da renderli ancora utili al lettore moderno.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del Proemio in non più di 10 righe e individua le parole chiave. COMPRENSIONE 2. Quale finalità si ripropone Machiavelli scrivendo i Discorsi? ANALISI 3. Nelle prime righe del Proemio, l’autore dà un ritratto di sé attraverso alcuni indizi testuali: sai rintracciare tali indizi che ci guidano a ricostruire la personalità di uomo e di scrittore di Machiavelli? 4. Il testo presenta una struttura argomentativa particolarmente rigorosa: a. individua i nuclei concettuali del testo e poi rappresentali in uno schema; b. indica i principali connettivi testuali (avverbi, congiunzioni, intere locuzioni) che concorrono a fare del Proemio un testo coeso. LESSICO 5. Riscrivi il primo paragrafo in italiano corrente. Poi elenca: latinismi; parole usate in un’accezione diversa rispetto a quella odierna; parole e forme dell’italiano cinquecentesco.
Interpretare
LETTERATURA E NOI 6. Machiavelli invita a seguire gli antichi nella convinzione che la natura umana sia immutabile nel tempo e che dunque i comportamenti dell’uomo obbediscano sempre alle medesime leggi. Ti sembra che i nativi digitali, prodotto della nostra epoca, possano ancora credere in questo “principio di imitazione”? Esponi le tue riflessioni in un testo di max 15 righe.
online T13 Niccolò Machiavelli
Il ruolo positivo della religione a Roma. Le gravi responsabilità della Chiesa cattolica Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio I, XI-XII
472 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
2 Dell’arte della guerra Un trattato dialogico Dell’arte della guerra è un trattato in sette libri organizzato in forma di dialogo che ebbe grande fortuna in Italia e in Europa. Il dialogo è ambientato negli Orti Oricellari, che Machiavelli stesso frequentava assiduamente negli stessi anni in cui è composta l’opera (1519-1520). Interlocutori sono appunto alcuni frequentatori di questo circolo umanistico; portavoce delle tesi dell’autore è Fabrizio Colonna, famoso condottiero romano del tempo. Contro i soldati mercenari Dell’arte della guerra è incentrato su un tema che stava molto a cuore a Machiavelli e a cui aveva già dedicato non poche pagine sia nel Principe (in particolare nei capp. XII-XV) sia nei Discorsi (II libro): la necessità per uno stato di disporre di un esercito proprio, adeguatamente preparato. Machiavelli fu sempre contrario al ricorso alle milizie mercenarie, che riteneva inaffidabili, pronte in ogni momento a tradire per danaro: servire in guerra il proprio paese non era per Machiavelli un mestiere mercenario, da esercitare dietro compenso, ma un dovere civile che i cittadini dovevano assolvere in caso di necessità, come avveniva nella repubblica romana. Durante gli anni del segretariato, fra il 1505 e il 1506, Machiavelli si era battuto per dotare la Repubblica di un esercito permanente formato da uomini del territorio fiorentino arruolati con ferma obbligatoria dal governo. La costituzione della milizia era stata approvata dal Consiglio Maggiore il 6 dicembre 1506 e Machiavelli era divenuto il cancelliere di una nuova magistratura preposta all’organizzazione dell’esercito; ma i soldati fiorentini diedero una prova rovinosa nella difesa di Prato (1512). Non per questo lo scrittore rinuncia alle proprie idee e, anzi, le enuncia con rinnovata convinzione nel trattato, nella speranza che vengano accolte (l’opera è dedicata a un potente personaggio della cerchia dei Medici). Un nuovo tipo di esercito In Dell’arte della guerra sono presenti anche considerazioni prettamente tecniche: ad esempio la valorizzazione della fanteria come elemento fondamentale dell’esercito (viene invece attribuita scarsa importanza alla cavalleria, ma anche alla nuova arma emergente, l’artiglieria). Machiavelli pensa che la nuova unità militare (l’«ordine terzo» di combattimento, varie volte nominato nel Principe) debba essere organizzata secondo il modello della legione romana: un battaglione di 5000 fanti articolato in 10 gruppi (come la legione romana era organizzata in 10 coorti).
Dell’arte della guerra GENERE
trattato dialogico
STRUTTURA
sette libri
DATAZIONE
1519-20
TEMI
• necessità per uno stato di avere un esercito proprio adeguatamente preparato • rifiuto dell’utilizzo di truppe mercenarie
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 473
3 Machiavelli storico: le Istorie fiorentine Storia e politica L’unico frutto positivo del tentativo di Machiavelli di avvicinare i Medici, signori di Firenze, sono le Istorie fiorentine, l’opera storiografica in otto libri che Machiavelli compone per volontà del cardinale Giulio de’ Medici (divenuto poi papa col nome di Clemente VII) tra il 1520 e il 1525. È il primo incarico ufficiale che riceve dopo il forzato ritiro dall’attività pubblica. Alle spalle dell’opera sta la tradizione storiografica umanistica fiorentina (da Leonardo Bruni a Poggio Bracciolini) che a sua volta si richiamava ai modelli degli storici latini. Da quest’ultima Machiavelli riprende l’inserimento dei discorsi diretti attribuiti a diversi personaggi, ma si discosta per il taglio interpretativo di tipo politico degli eventi storici. Dopo un primo libro che sintetizza gli eventi storici in Italia dalla caduta dell’impero romano alla fine del Trecento, nei tre successivi (II-IV) si passa alla storia di Firenze fino al 1434, quando Cosimo de’ Medici accentra il potere nelle sue mani. I restanti quattro libri (V-VIII) affrontano il periodo del dominio mediceo fino alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Probabilmente Machiavelli si ferma a Lorenzo de’ Medici per non essere costretto a esprimere giudizi sulla politica successiva dei Medici, che erano di fatto i committenti dell’opera. Il metodo di lavoro di Machiavelli come storico è sbrigativo e sostanzialmente discutibile: egli, infatti, non esercita alcun controllo critico sulle fonti utilizzate per i vari periodi (quasi esclusivamente cronache), né si preoccupa di consultare documenti d’archivio, come fece invece con estremo scrupolo Guicciardini. Ma soprattutto l’autore altera spesso i dati, falsando la realtà storica, pur di dimostrare le proprie tesi politiche e avvalorare personali convinzioni. Nelle Istorie fiorentine non si deve dunque cercare l’esattezza dei dati storici: l’interesse dell’opera sta in una lettura degli eventi che è comunque politica, con lo sguardo sempre rivolto, anche quando si tratta di fatti del passato, alle più pressanti questioni della politica contemporanea.
Istorie fiorentine GENERE
opera storiografica
STRUTTURA
8 libri
DATAZIONE
1520-1525
MODELLI
storiografia umanistica e storici latini
METODO
sbrigativo, privo di controllo critico sulle fonti
CONTENUTO
storia di Firenze fino al 1492, anno della morte di Lorenzo il Magnifico
474 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
4 L’“altro” Machiavelli: il letterato e il commediografo Machiavelli letterato Il nome di Machiavelli non è legato soltanto alla produzione politica per la quale è celebre. Intellettuale eclettico, spirito acuto e versatile, lo scrittore fiorentino si distinse per la sua originalità anche in altri campi della cultura letteraria del tempo. Machiavelli e la questione della lingua Anche Machiavelli partecipa al dibattito sulla lingua che nel primo Cinquecento coinvolge molti importanti letterati in Italia (➜ SCENARI, PAG. 70) con il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (1515 ca.). L’attribuzione del breve testo a Machiavelli non è però sicura, anche se alcune testimonianze (tra cui quella di un figlio) sembrano confermarla. L’opera potrebbe essere, secondo alcuni, la rielaborazione di un abbozzo dovuto a Machiavelli. Interessante nel Discorso è la concezione della lingua come organismo vivo, in continuo divenire; nel dibattito del tempo, che vede poi l’affermazione della proposta di Pietro Bembo, Machiavelli sostiene la superiorità del fiorentino dell’uso, essendo questa la base sulla quale erano stati generati i grandi capolavori del Trecento. Belfagor arcidiavolo Della sua attività di letterato ricordiamo, oltre ai Canti carnascialeschi, i Capitoli alla maniera del Berni e la divertente novella Il diavolo che prese moglie (detta anche Belfagòr arcidiavolo), composta forse nel 1519-20. La trama della novella riprende il vecchio tema misogino, consueto nella letteratura soprattutto medievale: l’arcidiavolo Belfagor è mandato sulla Terra in missione speciale per verificare l’affermazione di numerosi dannati, secondo cui causa della loro perdizione sia stata la donna. Il diavolo sceglie non a caso Firenze come sede della prova, perché proprio questa è città di «arti usuraie, di poca religione e di altri simili vitii ricolma». Assunta l’identità di un facoltoso cavaliere spagnolo, il diavolo prenderà moglie, sperimentando personalmente la folle attrazione per una donna superba e amante del lusso che lo porterà alla rovina. Dopo varie vicissitudini e dopo aver incontrato un contadino che ne sa… una più del diavolo, Belfagor se ne tornerà sollevato al suo inferno. L’interesse al genere della commedia La felice vena comica di Machiavelli si esprime però soprattutto nel genere elettivamente collegato al “riso”, ovvero la commedia: oltre alla Mandragola (1518), considerata unanimemente la più riuscita commedia del nostro teatro rinascimentale, compone la Clizia (la trama riprende la Casina di Plauto ed è incentrata sull’innamoramento di un vecchio, che finisce beffato) e traduce in volgare l’Andria di Terenzio.
Luca Signorelli, dettaglio dei Dannati dell’Inferno, 1499-1502 (Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto).
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 475
5 La Mandragola Le circostanze di composizione, il prologo, l’intreccio VIDEOLEZIONE
Vocazione teatrale e inattività politica La Mandragola di Niccolò Machiavelli, l’autore del Principe, è la commedia più riuscita e nota del teatro italiano rinascimentale. Incontrò subito un grande successo: nel 1522 una rappresentazione a Venezia non poté addirittura essere terminata per la straordinaria affluenza di pubblico. Niccolò Machiavelli scrive la Mandragola probabilmente nel 1518, quando già da alcuni anni si trova estromesso dalle funzioni di segretario della Repubblica fiorentina ed è costretto a una forzata inattività. Da questo periodo di esclusione dall’attività politica, di riflessione e di letture era già nato Il Principe (1513), il celeberrimo trattatello in cui Machiavelli sintetizza la sua esperienza e le sue osservazioni politiche. La Mandragola esprime la vocazione teatrale dell’autore e il suo straordinario estro comico. Il prologo Nel prologo è espressamente nominata la città dove si svolge l’azione (Firenze) e i principali scenari, che dovevano essere riprodotti dall’apparato scenico: la casa di Nicia, la chiesa e il convento di frate Timoteo (il confessore della protagonista femminile, Lucrezia). L’autore fa anche una prima, sintetica, presentazione dei personaggi: messer Nicia, caratterizzato dalla stupidità e insieme dalla saccenteria, l’astuto Ligurio, organizzatore e regista della beffa, frate Timoteo («un frate malvissuto»), il vacuo Callimaco e la passiva Lucrezia. La seconda parte del prologo ha carattere autobiografico e consente di collocare nel tempo, almeno in modo approssimativo, la composizione dell’opera: l’autore sembra alludere alla propria dolorosa condizione di emarginazione dalla vita politica attiva quando si scusa con il pubblico per essersi dedicato – lui, uomo «saggio e grave» – a una materia leggera come quella della commedia; attraverso di essa, egli cerca di compensare «el suo tristo tempo [...] perch’altrove non have / dove voltare el viso / ché gli è stato interciso [precluso] / mostrar con altr’imprese altra virtù e / non sendo premio alle fatiche sue». Nel prologo, Machiavelli non anticipa invece in alcun modo l’argomento della commedia, né accenna al significato del titolo, che crea nel pubblico molte domande in grado di trovare risposta solo nel corso della rappresentazione. Il titolo e l’intreccio Il titolo della commedia prende spunto dal nome di una pianta (la mandragola appunto) cui nell’antichità venivano attribuite proprietà magiche. Nella superstizione popolare la radice della mandragola non poteva essere estratta senza pericolo, per cui ci si doveva servire di un cane, destinato a venire ucciso dal veleno della pianta. Da questo spunto derivano aspetti fondamentali nell’intreccio della commedia, di cui sintetizziamo la trama. Nicia, un vecchio dottore in legge, presuntuoso e credulone, da tempo (ma inutilmente) desidera avere dei figli dalla moglie Lucrezia, una donna bellissima e molto virtuosa. Di questo ardente desiderio della coppia e della balordaggine di Nicia approfitta il giovane Callimaco, perdutamente innamorato di Lucrezia. Con l’aiuto dello scaltro Ligurio, Callimaco si fa passare per un famoso medico e assicura a Nicia che Lucrezia riuscirà a rimanere incinta se berrà una pozione di mandragola. Lo avverte, però, che la prima persona che si unirà sessualmente a lei ne assorbirà il veleno e morirà dopo pochi giorni. Occorre quindi trovare
476 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
qualcuno che si corichi con Lucrezia la prima notte dopo l’assunzione della pozione e muoia così al posto del marito (naturalmente nelle intenzioni di Ligurio e Callimaco questo qualcuno sarà Callimaco stesso in incognito, che potrà così unirsi all’amata Lucrezia). Il vero ostacolo non è lo sciocco Nicia, ma la virtuosa Lucrezia, la quale tuttavia cede alle insistenze della madre Sostrata e soprattutto alle spregiudicate “lezioni” del suo confessore, frate Timoteo. Al corrente del piano, egli usa cinicamente il suo sapere teologico e il formulario della Chiesa (Lucrezia è molto devota) per convincere la donna a un’azione immorale, che ripugna alla sua coscienza. Dopo la notte passata con Callimaco, Lucrezia, scoperto il piacere amoroso con il giovane amante e conosciuta la verità, si adatterà agli strani disegni del destino e acconsentirà a fare di Callimaco “il suo signore”.
tra tradizione e innovazione
La mandragola, in un’illustrazione dal Tacuinum sanitatis, XV secolo.
Ascendenze classiche e boccacciane La Mandragola rielabora con risultati di grande originalità molteplici spunti letterari ed è in questo piena espressione sia della cultura rinascimentale sia degli interessi umanistici e letterari di Machiavelli. Le fonti disseminate nel testo sono state analiticamente messe in luce da Ezio Raimondi. Innanzitutto le fonti classiche, come l’Andria di Terenzio, che Machiavelli aveva personalmente volgarizzato e la poesia amorosa greco-latina, riconoscibile nell’autoritratto di Callimaco che si strugge d’amore (monologo dell’atto IV). Alla commedia latina rimandano in parte la tipologia di alcuni personaggi: il vecchio sciocco (Nicia), il parassita (Ligurio), il giovane innamorato infelice (Callimaco) e situazioni topiche come l’agnizione (cioè il riconoscimento finale) che chiude la commedia. Dal canto suo la casta Lucrezia, nel nome e nel comportamento virtuoso, non può non richiamare alla mente l’antica eroina romana, modello emblematico di virtù. Accanto alla presenza dei modelli classici, nella Mandragola è assai rilevante anche l’apporto del Decameron di Boccaccio, che non solo influenza la strutturazione di alcuni personaggi come frate Timoteo (innumerevoli sono nel Decameron gli esempi di frati immorali), ma fornisce anche lo spunto per motivi e situazioni, legate essenzialmente alla beffa. La rivisitazione dei personaggi della tradizione Attraverso notazioni socio-psicologiche Machiavelli rivisita i tipi classici, trasformandoli in personaggi più realistici e moderni, che rispecchiano la sua pessimistica visione della società. Machiavelli politologo, storico e letterato 3 477
Nicia: nel personaggio di Nicia Machiavelli fonde la tradizionale figura del vecchio babbeo (reinterpretato attraverso l’apporto del Calandrino boccacciano e del recentissimo Calandro del Bibbiena ➜ C7 T2 ) con quella moderna del pedante borioso. Rispetto al personaggio della commedia latina e allo sciocco della Calandria, Nicia è maggiormente caratterizzato, anche grazie al suo particolare linguaggio (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE, Il ritratto linguistico di Nicia, PAG. 490) che assomma raffinatezze formali, il latino della legge e motti vernacolari ed espressioni gergali. Dietro la figura di Nicia si intravede il giudizio negativo di Machiavelli verso la società contemporanea: arrogante e presuntuoso, ma di fatto chiuso in ristretti orizzonti mentali e culturali, gretto e provinciale, cinicamente immorale ma timoroso dell’autorità, Nicia rappresenta un modello di umanità del tutto negativo. Callimaco: anche il personaggio di Callimaco è debitore di una tradizione ben nota al pubblico, incarna il tipo dell’amante malinconico e tormentato, preda della “malattia d’amore”, che si esprime in genere in un registro linguistico sostenuto. Ma anche nel caso di Callimaco le innovazioni non mancano, a cominciare dalla contaminazione, nel suo modo di esprimersi, di registro “alto” e “basso” (giustamente celebre è la scena, tra le più comiche della commedia, del consulto di Callimaco finto medico, tutta giocata sul contrasto fra il linguaggio dotto o presunto tale della medicina e le pesanti allusioni sessuali ➜ T14 ). Ma il contrasto percorre l’intera vicenda amorosa che ha Callimaco come protagonista, nella quale, come ha sottolineato il critico Davico Bonino, all’amore sublime, esaltato in modi lirici, si mescola un erotismo volgare cui danno voce quasi tutti i personaggi della Mandragola. Francesco Ubertini, detto il Bachiacca, Una strada di Firenze (part., XVI secolo, Rijksmuseum, Amsterdam).
478 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Inoltre Callimaco non è il passivo innamorato che il pubblico si doveva aspettare, ma è a sua volta un machiavelliano uomo d’azione, determinato ad agire per ottenere quanto desidera (e quel che desidera non è genericamente l’amore, ma il possesso sessuale di Lucrezia).
La contiguità tra la Mandragola e Il Principe
Totò interpreta frate Timoteo nell’adattamento cinematografico della Mandragola del 1965 diretto da Alberto Lattuada (qui con l’attrice Rosanna Schiaffino nella parte di Lucrezia).
Una visione negativa dell’umanità A partire dal critico ottocentesco Francesco De Sanctis, la critica ha sempre sottolineato la sostanziale omogeneità tra Il Principe e la Mandragola per quanto riguarda la visione del mondo. Anche nella commedia, infatti, gli uomini sono rappresentati come «simulatori e dissimulatori», «cupidi di guadagno», tendenzialmente malvagi. Anche nella Mandragola ogni azione, ogni iniziativa è mossa dall’utile, in questo caso esclusivamente personale: Nicia in particolare, il personaggio più negativo della commedia, è disposto a far prostituire la moglie e persino a uccidere un uomo innocente pur di avere figli (➜ T16 ); e questo non certo per ragioni affettive, ma esclusivamente economiche, avendo assoluto bisogno di un erede cui lasciare il suo cospicuo patrimonio. Anche il corrotto frate Timoteo (➜ T15 OL) mira all’utile nella sua cinica adesione al piano di Ligurio e persino la virtuosa Lucrezia cerca di “comprare” la grazia della sospirata maternità attraverso estenuanti pratiche religiose e soprattutto, anche se dopo aver resistito a lungo, acconsente alla sconcia proposta del marito, complici la madre e il turpe confessore. Ma la parentela della Mandragola con il celebre trattato politico non riguarda solo la comune rappresentazione di una “realtà effettuale” che ben poco spazio lascia a motivazioni ideali, ma si può cogliere anche in singoli temi e comportamenti dei personaggi, nei quali si riflettono le più note componenti dell’ideologia machiavelliana. Ad esempio il culto dell’azione lucidamente progettata e razionalmente realizzata, sempre celebrato nel Principe, si manifesta nella Mandragola attraverso il personaggio di Ligurio (secondo alcuni critici vero centro dell’ideazione della commedia), il freddo regista dell’azione. Ligurio è indotto a ideare la beffa non da una meschina sete di guadagno ma unicamente dal desiderio di veder realizzato il suo astuto progetto. In questo personaggio “machiavelliano” si proietta forse, come da qualcuno è stato suggerito, l’autore stesso, che compensa nella progettualità di Ligurio, nel suo piano perfetto in ogni dettaglio, la sua frustrazione di uomo attivo costretto all’inerzia dell’esilio. Del resto anche la caratterizzazione linguistica di Ligurio è particolarmente vicina alle modalità analitiche tipiche dell’argomentare machiavelliano. Persino nella condotta della bella Lucrezia, il personaggio forse più “dinamico” della commedia, si può in controluce leggere la Machiavelli politologo, storico e letterato 3 479
lezione del politico Machiavelli. Il suo brusco cambiamento di vedute dopo la notte passata con Callimaco e dopo aver da lui appreso la verità (➜ T16 ), ha dato luogo a contrastanti interpretazioni (vi accenniamo in Esercitare le compentenze). Secondo il critico Davico Bonino la scelta di Lucrezia di diventare stabilmente l’amante di Callimaco è una scelta lucida e razionale che tiene conto della realtà “effettuale” delle cose: essa si adatta, con duttilità tutta machiavelliana, all’andamento della Fortuna, così da assicurarsi dei vantaggi (non solo la sospirata prole, ma la più immediata e sicura felicità sessuale non conosciuta con il vecchio marito).
Mandragola GENERE
commedia
DATAZIONE
1518
MODELLI
commedia di Plauto e Terenzio; Boccaccio
TITOLO
prende spunto dalla pianta della mandragola che, secondo gli antichi, aveva proprietà magiche
TEMI
• tema della beffa erotica • visione pessimistica della natura umana
Due storiche messinscene della Mandragola: del 1953, per la regia di Marcello Pagliaro, con Sergio Tofano nel ruolo di messer Nicia; e del 1984 con Mario Scaccia come fra Timoteo (e regista).
480 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Niccolò Machiavelli
T14
Callimaco, finto medico, propone a Nicia il rimedio della mandragola Mandragola, II, 6
N. Machiavelli, Mandragola, a c. di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1980
Dietro suggerimento di Ligurio, il giovane Callimaco, innamorato di Lucrezia, si presenta al marito di lei, Nicia, nelle vesti di un medico di fama, venuto da Parigi: egli potrà risolvere il problema che lo affligge, ovvero il non riuscire ad avere figli da Lucrezia (atto II, scena 2). Nel primo incontro con Nicia, Callimaco colpisce il vecchio sciocco per la sua dottrina, esposta attraverso sapienti citazioni mediche in latino. Nella sesta scena, qui presentata, Callimaco dialoga con Nicia alla presenza di Ligurio e prospetta una possibile soluzione alla sterilità della moglie: una miracolosa pozione di mandragola che Lucrezia dovrà ingerire se vorrà rimanere incinta. Ma c’è un problema...
ATTO SECONDO SCENA SESTA Ligurio, Callimaco, messer Nicia. LIGURIO El dottore fia facile a persuadere; la difficultà fia la donna1, ed a questo 5 non ci mancherà modo. CALLIMACO Avete voi el segno2? NICIA E’ l’ha Siro, sotto3. CALLIMACO Dàllo qua. Oh! questo segno mostra debilità4 di rene. NICIA Ei mi par torbidiccio; eppur l’ha fatto ora ora. 10 CALLIMACO Non ve ne maravigliate. Nam mulieris, urinae sunt semper maioris grossitiei et albedinis, et minoris pulchritudinis quam virorum. Huius autem, in caetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eorum quae ex matrice exeunt cum urinis5. NICIA Oh! uh! potta di san Puccio6! Costui mi raffinisce in tralle mani7; guarda 15 come ragiona bene di queste cose! CALLIMACO Io ho paura che costei non sia, la notte, mal coperta8, e per questo fa l’orina cruda9. NICIA Ella tien pure adosso un buon coltrone10; ma la sta quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri, innanzi che la se ne venghi al letto11, ed è una bestia a patir 20 freddo12.
1 El dottore... fia la donna: sarà facile convincere Nicia (il dottore, qui nel senso più generale del termine: Nicia è infatti notaio), la difficoltà sarà (fia) convincere la donna (cioè Lucrezia). 2 el segno: l’indicatore; nella scena seconda Callimaco aveva richiesto un campione di urina di Lucrezia per poter formulare una diagnosi corretta. 3 E’ l’ha Siro, sotto: ce l’ha Siro, sotto (probabilmente sotto il mantello). Siro è il servo di Callimaco. 4 debilità: debolezza.
5 Nam mulieris... cum urina: Callimaco, avendone sperimentato l’efficacia presso Nicia, gioca nuovamente per accreditarsi presso il vecchio, l’arma della citazione latina (traduzione: “infatti le urine della donna sono sempre di maggior densità e bianchezza e di minor bellezza di quelle degli uomini. Causa di ciò, oltre al resto, è l’ampiezza dei canali e la mescolanza con l’urina di ciò che esce dalla vagina”). 6 potta di san Puccio: esclamazione volgare; potta è l’organo sessuale femminile.
7 mi raffinisce... tralle mani: costui mi diventa sempre più raffinato. 8 Io ho paura... mal coperta: Callimaco usa un malizioso doppio senso, ipotizzando che madonna Lucrezia sia forse poco coperta di notte e alludendo alla scarsità di rapporti sessuali con il vecchio marito. 9 cruda: alterata, torbida. 10 coltrone: coperta spessa. 11 innanzi che… al letto: prima che se ne venga a letto. 12 è una bestia a patir freddo: è capace di sopportare il freddo come una bestia.
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 481
CALLIMACO Infine, dottore, o voi avete fede in me, o no; o io vi ho ad13 insegnare un rimedio certo, o no. Io, per me, el rimedio vi darò. Se voi arete14 fede in me, voi lo piglierete; e se, oggi ad uno anno15, la vostra donna non ha un suo figliolo in braccio, io voglio avervi a donare dumilia ducati16. 25 NICIA Dite pure, ché io son per farvi onore di tutto, e per credervi piú che al mio confessoro17. CALLIMACO Voi avete ad intender questo, che non è cosa piú certa18 ad ingravidare una donna che dargli bere19 una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa esperimentata da me dua paia di volte20, e trovata sempre vera; e, se non era 30 questo, la reina di Francia sarebbe sterile, ed infinite altre principesse di quello stato. NICIA È egli possibile21? CALLIMACO Egli è come io vi dico. E la Fortuna vi ha intanto22 voluto bene, che io ho condutto qui meco tutte quelle cose23 che in quella pozione si mettono, e potete averla a vostra posta24. 35 NICIA Quando l’arebbe ella a pigliare25? CALLIMACO Questa sera dopo cena, perché la luna è ben disposta, ed el tempo non può essere piú appropriato. NICIA Cotesto non fia molto gran cosa. Ordinatela in ogni modo: io gliene farò pigliare. 40 CALLIMACO E’ bisogna ora pensare a questo: che quello uomo che ha prima a fare seco26, presa che l’ha, cotesta pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe27 el mondo. NICIA Cacasangue28! Io non voglio cotesta suzzacchera29! A me non l’apiccherai tu! Voi mi avete concio30 bene! 45 CALLIMACO State saldo, e’ ci è rimedio. NICIA Quale? CALLIMACO Fare dormire súbito con lei un altro che tiri, standosi seco una notte, a sé31 tutta quella infezione della mandragola: dipoi vi iacerete voi sanza periculo32. NICIA Io non vo’ far cotesto. 50 CALLIMACO Perché? NICIA Perché io non vo’ fare la mia donna femmina e me becco33. CALLIMACO Che dite voi, dottore? Oh! io non vi ho per savio34 come io credetti. Sí che voi dubitate35 di fare quel lo che ha fatto el re di Francia e tanti signori quanti sono là?
13 vi ho ad: devo. 14 arete: avrete. 15 oggi ad uno anno: tra un anno a par-
23 quelle cose: quegli ingredienti. 24 posta: disposizione. 25 l’arebbe ella a pigliare: dovrebbe bere
tire da oggi.
questa pozione.
16 voglio… ducati: mi impegno a darvi
26 che ha… fare seco: che ha a che fare
duemila ducati. 17 confessoro: confessore. 18 certa: sicura. 19 dargli bere: darle da bere 20 dua paia di volte: moltissime volte. 21 È egli possibile: egli è pleonastico, come Egli subito sotto. 22 intanto: tanto.
con lei (nel senso di “unirsi sessualmente a lei”) per primo (dopo l’assunzione della mandragola). 27 camperebbe: salverebbe. 28 Cacasangue: imprecazione volgare. 29 suzzacchera: porcheria. 30 concio: conciato. Nicia dà naturalmente per scontato di essere l’unico, in quanto
482 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
legittimo marito, a giacere con Lucrezia e si ribella dunque, con colorite espressioni popolari, alla possibilità di morire pur di assicurarsi una discendenza. 31 Tiri... a sé: attiri su di sé, assorba. 32 dipoi... sanza periculo: poi potrete unirvi a lei senza più pericolo. 33 femmina... becco: io non voglio fare di mia moglie una donna di facili costumi (femmina) e me stesso cornuto (becco). 34 non vi ho per savio: non vi vedo saggio. 35 dubitate: esitate.
NICIA Chi volete voi che io truovi che facci cotesta pazzia? Se io gliene dico, e’ non vorrà; se io non gliene dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto36: io non ci voglio capitare sotto male. CALLIMACO Se non vi dà briga37 altro che cotesto, lasciatene la cura a me. NICIA Come si farà? 60 CALLIMACO Dirovelo38: io vi darò la pozione questa sera dopo cena; voi gliene darete bere e, súbito, la metterete nel letto, che fieno39 circa a quattro ore di notte. Dipoi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io, e andrencene40 cercando in Mercato Nuovo, in Mercato Vecchio, per questi canti41; ed el primo garzonaccio che noi troveremmo scioperato42 lo imbavagliereno, ed a suon di mazzate lo condurreno in casa 65 ed in camera vostra al buio. Quivi lo mettereno nel letto, direngli quel che gli abbia a fare, non ci fia difficultà veruna43. Dipoi, la mattina, ne manderete colui44 innanzi dí, farete lavare la vostra donna, starete con lei a vostro piacere e sanza periculo. NICIA Io sono contento, poiché tu di’ che e re e principi e signori hanno tenuto questo modo. Ma sopratutto, che non si sappia, per amore degli Otto! 70 CALLIMACO Chi volete voi che lo dica? NICIA Una fatica ci resta, e d’importanza. CALLIMACO Quale? NICIA Farne contenta mogliama, a che io non credo che la si disponga mai45. CALLIMACO Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi essere marito, se io non 75 la disponessi a fare a mio modo. LIGURIO Io ho pensato el rimedio. NICIA Come? LIGURIO Per via del confessoro46. CALLIMACO Chi disporrà47 el confessoro, tu? 80 LIGURIO Io, e danari, la cattività nostra, loro48. NICIA Io dubito, non che altro, che per mio detto49 la non voglia ire50 a parlare al confessoro. LIGURIO Ed anche a cotesto è51 remedio. CALLIMACO Dimmi. 85 LIGURIO Farvela condurre alla madre. NICIA La le presta fede52. LIGURIO Ed io so che la madre è della opinione nostra. Orsú! avanziam tempo53, ché si fa sera. Vatti, Callimaco, a spasso, e fa’ che alle ventitré ore noi ti ritroviamo in casa con la pozione ad ordine54. Noi n’andreno a casa la madre55, el dottore ed 55
36 è caso da Otto: è un caso da tribunale (penale) degli Otto (Nicia, che è uomo di legge, si preoccupa delle conseguenze penali del gesto che Callimaco gli propone). 37 Se non vi dà briga: se non vi preoccupa 38 Dirovelo: ve lo dirò. 39 fieno: saranno. 40 andrencene: ce ne andremo. 41 per questi canti: in queste zone. Si tratta di zone popolari di Firenze. 42 il primo... scioperato: il primo giovinastro che troviamo sfaccendato. 43 non ci fia… veruna: non ci sia alcuna difficoltà.
44 ne manderete colui: lo manderete via. 45 Farne contenta… mai: convincere mia moglie (mogliama) a fare ciò che non credo possa mai accettare. 46 Per via del confessoro: per mezzo del suo confessore. Costui è frate Timoteo, che è presentato nel prologo come frate malvissuto. 47 disporrà: convincerà. 48 Io… loro: io, e il danaro (convinceremo il confessore), la nostra malizia (convincerà) loro. Alla “qualità” della malizia, Ligurio aggiunge la forza di convincimento del denaro a cui frate Timoteo è molto sensibile.
Infatti Ligurio si farà dare da Nicia venticinque ducati, che a ogni buon conto serviranno per convincere il frate a farsi strumento del piano presso la casta Lucrezia. 49 per mio detto: in seguito alle mie parole. 50 la non voglia ire: non voglia andare (latinismo). 51 è: c’è. 52 La le presta fede: si fida di lei. 53 avanziam tempo: sbrighiamoci. 54 ad ordine: pronta. 55 a casa la madre: a casa della madre.
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 483
io, a disporla, perché è mia nota56. Poi n’andreno al frate, e vi raguagliereno di quello che noi aren57 fatto. CALLIMACO Deh! non mi lasciar solo. LIGURIO Tu mi par’ cotto58. CALLIMACO Dove vuoi tu ch’io vadia59 ora? 95 LIGURIO Di là, di qua, per questa via, per quell’altra: egli è sí grande Firenze! CALLIMACO Io son morto60. 90
56 mia nota: mia conoscenza. Ligurio sa, appunto, che la madre, non è donna di specchiata virtù come invece la figlia Lucrezia.
57 aren: avremo. 58 cotto: tutto preso d’amore
59 vadia: vada. 60 Io son morto: per l’attesa angosciosa.
Analisi del testo Un personaggio negativo La figura di Nicia è certo quella che maggiormente resta impressa nel lettore e che più dovette colpire i primi spettatori della commedia, se è vero che Machiavelli stesso parlava della sua opera come della «commedia di Nicia». Molto spesso presente sulla scena, centro dell’azione drammaturgica, la figura di Nicia deriva dalla fusione tra il personaggio, tradizionale nella commedia classica, del vecchio sciocco e credulone, e la figura reale, assai diffusa nella società del tempo, dell’umanista pedante, amante di un sapere paludato e cultore della lingua latina. Ma, al di là dei modelli, Machiavelli conferisce a Nicia una spiccata personalità che lo sottrae alla tipizzazione: supponente, arrogante, anche egoista e di vedute meschinamente ristrette al proprio interesse, cinico e amorale (egli è davvero convinto che sarà commesso un omicidio, ma gli basta solo di non esserne accusato), Nicia è un personaggio completamente negativo, che riassume in sé quel capovolgimento totale dei valori che costituisce il significato finale della commedia. Nella scena appena letta, il finto medico Callimaco, che già in precedenza ha giocato la carta del “latinorum” per far colpo su di lui, finge di dare una valutazione diagnostica dell’urina della moglie e sfodera nuovamente una dottissima citazione in latino che fa andare in visibilio Nicia, abbattendo in lui ogni senso critico, ogni capacità di giudizio: non immagina nemmeno lontanamente di essere vittima di una crudele beffa. Il suo borioso sapere è insufficiente a fargli balenare almeno un dubbio di fronte alle proposte assurde di Callimaco.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale effetto dovrebbe produrre la pozione di mandragola? ANALISI 2. In cosa consiste l’inganno teso a Nicia da Ligurio e Callimaco? Qual è lo scopo della beffa? 3. Dietro le quinte Ligurio è il vero stratega dell’intera beffa. In questa specifica scena interviene solo alla fine, ma il suo suggerimento è fondamentale per la realizzazione del piano: in cosa consiste? STILE 4. Sai rintracciare nel testo un esempio di uso equivoco del linguaggio a fini comici? Per aiutarti: è Callimaco a utilizzare una espressione “a doppio senso”.
Interpretare
SCRITTURA CREATIVA 5. Immagina che Nicia in realtà non sia affatto sciocco e credulone e che abbia ben chiara la beffa di Callimaco. Scrivi una scena nella quale Nicia ordisca un inganno ai danni del giovane, per ripagarlo della stessa moneta.
online T15 Niccolò Machiavelli
Un capolavoro di cinismo e abilità retorica: l’“orazion picciola” di frate Timoteo Mandragola, III, 11
484 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Niccolò Machiavelli
La metamorfosi di madonna Lucrezia e un ambiguo “lieto fine”
T16
Mandragola V, 4-6 Nel quarto atto il piano di Ligurio viene messo in atto: Callimaco assume i panni di un ragazzotto che avanza cantando nella notte sul suo liuto. Tutti gli altri si travestono, compreso Nicia e frate Timoteo, che di fronte a Nicia fa finta di essere Callimaco. Il ragazzotto viene catturato. Passata la notte, nel quinto atto, il giovane viene cacciato dalla casa di Nicia e minacciato di ripercussioni a meno di un totale silenzio sulla vicenda. Nicia rievoca per gli amici e complici come l’abbia messo nel letto della moglie e come abbia voluto personalmente controllare che tutto fosse a posto e che il giovane si unisse veramente a Lucrezia, così che la mandragola potesse esercitare la sua funzione. Callimaco si confida con Ligurio e gli riferisce come Lucrezia, una volta venuta a conoscenza della verità (l’inganno ordito ai danni di Nicia e la passione di Callimaco per lei) decide di diventare, per sua libera scelta questa volta, la sua amante per sempre: sia per vendicarsi dello sciocco marito sia, e soprattutto, perché ha sperimentato in quella notte d’amore la differenza tra un marito vecchio e un amante giovane.
N. Machiavelli, Mandragola, a c. di G. Davico Bonino, Einaudi, Torino 1980
ATTO QUINTO SCENA QUARTA Callimaco, Ligurio. CALLIMACO Come io ti ho detto, Ligurio mio, io stetti di mala voglia infino alle nove ore; e, benché io avessi gran piacere, e’ non mi parve buono1. Ma, poi che io me le fu’ dato a conoscere, e ch’io l’ebbi dato ad intendere l’amore che io le portavo, e quanto facilmente, per la semplicità del marito, noi potavamo viver felici sanza infamia alcuna2, promettendole che, qualunque volta Dio facessi altro di lui, di prenderla per donna3; ed avendo ella, oltre alle vere ragioni, gustato che diffe10 renzia è dalla ghiacitura mia a quella di Nicia, e da e baci d’uno amante giovane a quelli d’uno marito vecchio4, doppo qualche sospiro, disse: – Poiché l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia5 del mio confessoro mi hanno condutto a fare quello che mai per me medesima arei fatto6, io voglio giudicare che venga da una celeste disposizione7, che abbi voluto cosí, e 15 non sono sufficiente a recusare8 quello che ’l Cielo vuole che io accetti. Però9, io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che 5
1 benché io avessi... non mi parve buono: Callimaco, dopo essersi unito a Lucrezia, ha come un ripensamento morale, che comunica a Ligurio: il piacere avuto (’e con ripresa pleonastica) non gli era sembrato onesto (buono). 2 Ma, poi che... alcuna: Callimaco racconta a Ligurio di aver rivelato a Lucrezia la verità e l’amore che le portava e di averle suggerito che avrebbero potuto vivere felici senza disonore (infamia) grazie alla stupidità (semplicità) del marito.
3 promettendole che... per donna: Callimaco inoltre promette a Lucrezia che l’avrebbe presa come moglie (donna: latinismo da domina, “signora”) quando (qualunque volta) Dio avesse chiamato a sé Nicia. 4 avendo ella... vecchio: certamente Lucrezia ha compreso le “vere ragioni” avanzate da Callimaco (ovvero il suo sincero amore per lei) per l’inganno di cui ingenuamente è stata vittima; ma soprattutto ha potuto apprezzare la sensibile differen-
za tra il modo di far l’amore di Callimaco (ghiacitura mia), amante giovane, rispetto a quello di Nicia, vecchio marito. 5 tristizia: malvagità, corruzione. 6 quello che... arei fatto: quello che per mia volontà mai avrei fatto. 7 io voglio... disposizione: io voglio pensare che (quanto è successo) sia il frutto di una decisione divina. 8 recusare: rifiutare. 9 Però: perciò.
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 485
sia ogni mio bene; e quel che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre10. Fara’ti adunque suo compare11, e verrai questa mattina a la chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi; e l’andare e lo stare starà a te12, e 20 potreno ad ogni ora e sanza sospetto convenire insieme13. – Io fui, udendo queste parole, per morirmi per la dolcezza. Non potetti rispondere a la minima parte di quello che io arei desiderato. Tanto che io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi mai nel mondo; e, se questa felicità non mi mancassi14 o per morte o per tempo15, io sarei più beato ch’e beati, più santo ch’e santi. 25 LIGURIO Io ho gran piacere d’ogni tuo bene, ed ètti intervenuto quello che io ti dissi appunto16. Ma che facciàn noi ora? CALLIMACO Andian verso la chiesa, perché io le promissi d’essere là, dove la verrà lei, la madre ed il dottore. LIGURIO Io sento toccare l’uscio suo: le sono esse, che escono fuora, ed hanno 30 el dottore drieto17. CALLIMACO Avviànci in chiesa, e là aspetteremole18.
SCENA QUINTA Messer Nicia, Lucrezia, Sostrata. NICIA Lucrezia, io credo che sia bene fare le cose con timore di Dio, e non alla pazzeresca19. LUCREZIA Che s’ha egli a fare, ora? NICIA Guarda come la risponde! La pare un gallo20! SOSTRATA Non ve ne maravigliate: ella è un poco alterata. LUCREZIA Che volete voi dire? 40 NICIA Dico che gli è bene che io vadia innanzi a parlare al frate, e dirli che ti si facci incontro in sull’uscio della chiesa, per menarti in santo21, perché gli è proprio, stamani, come se tu rinascessi22. LUCREZIA Che non andate? NICIA Tu se’ stamani molto ardita! Ella pareva iersera mezza morta. 45 LUCREZIA Egli è la grazia vostra! SOSTRATA Andate a trovare el frate. Ma e’ non bisogna23, egli è fuora di chiesa. NICIA Voi dite el vero. 35
10 quel che... sempre: con una punta di vendicativa saggezza femminile, Lucrezia decide che quello che il marito, per sua stupidità, ha voluto una sera (ovvero che lei si unisse a Callimaco) debba averlo per sempre (e cioè Lucrezia decide di divenire per sempre l’amante di Callimaco). 11 Fara’ti... compare: ti farai dunque suo compare (padrino di battesimo o, almeno, un amico di famiglia, cioè una figura quasi parentale, ammessa all’intimità della vita della famiglia). 12 e l’andare e lo stare starà a te: e sce-
glierai tu quando stare con noi e quando andartene. 13 convenire insieme: incontrarci. 14 mi mancassi: mi mancasse. 15 per tempo: per il trascorrere del tempo. 16 ètti intervenuto... appunto: ti è successo proprio quello che ti avevo detto. Ossia Callimaco è riuscito ad avere Lucrezia. 17 drieto: dietro. 18 Avviànci… aspetteremole: avviàmoci verso la chiesa e là le aspetteremo. 19 alla pazzeresca: senza ragionare.
486 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
20 La pare un gallo: Nicia avverte nella moglie un atteggiamento più aggressivo. 21 menarti in santo: condurti personalmente dentro la chiesa. 22 perché gli è... rinascessi: perché stamattina è come se tu fossi rinata. L’espressione suona equivoca: effettivamente c’è ormai una “nuova” Lucrezia, ma perché ha sperimentato il vero amore e perché si è verificata in lei una fondamentale presa di coscienza. 23 Ma e’ non bisogna: non occorre.
SCENA SESTA Fra’ Timoteo, messer Nica, Lucrezia, Callimaco, Ligurio, Sostrata. FRATE Io vengo fuora, perché Callimaco e Ligurio m’hanno detto che el dottore e le donne vengono alla chiesa. Eccole. NICIA Bona dies24, padre! FRATE Voi sete le ben venute, e buon pro vi faccia, madonna, che Dio vi dia a fare un bel figliuolo mastio25! 55 LUCREZIA Dio el voglia! FRATE E’ lo vorrà in ogni modo. NICIA Veggh’io in chiesa Ligurio e maestro Callimaco? FRATE Messer sí. NICIA Accennategli26. 60 FRATE Venite! CALLIMACO Dio vi salvi! NICIA Maestro, toccate la mano qui alla donna mia. CALLIMACO Volentieri. NICIA Lucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi aremo uno bastone che 65 sostenga la nostra vecchiezza27. LUCREZIA Io l’ho molto caro, e vuolsi che sia nostro compare. NICIA Or benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurio venghino stamani a desinare con esso noi. LUCREZIA In ogni modo. 70 NICIA E vo’ dar loro la chiave della camera terrena d’in su la loggia, perché possino tornarsi quivi a loro comodità, che non hanno donne in casa, e stanno come bestie28. CALLIMACO Io l’accetto, per usarla quando mi accaggia29. FRATE Io ho avere e danari per la limosina30. 75 NICIA Ben sapete come, domine, oggi vi si manderanno. LIGURIO Di Siro non è uomo che si ricordi31? NICIA Chiegga, ciò che i’ ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti grossi32 hai a dare al frate, per entrare in santo? LUCREZIA Io non me ne ricordo. 80 NICIA Pure, quanti? LUCREZIA Dategliene dieci. NICIA Affogaggine33! FRATE E voi, madonna Sostrata, avete, secondo che mi pare, messo un tallo in sul vecchio34. 50
24 Bona dies: buon giorno. 25 mastio: maschio. 26 Accennategli: fate loro cenno di avvicinarsi. 27 Lucrezia... la nostra vecchiezza: Nicia allude al fatto che, grazie al “medico” Callimaco, avranno un figlio che sarà un sostegno (uno bastone) alla loro vecchiaia. Ma l’autore equivoca maliziosamente su questo bastone di sostegno.
28 stanno come bestie: vivono in modo trascurato. 29 mi accaggia: mi capiti. 30 Io ho… limosina: io devo avere i danari per l’elemosina. Frate Timoteo ricorda a Nicia che deve ancora avere il suo compenso. 31 Di Siro… si ricordi: non c’è nessuno che si ricordi di Siro. 32 quanti grossi: quanti denari. Il grosso
è una moneta d’argento di valore variabile a seconda degli stati che ne facevano conio. 33 Affogaggine: accipicchia (letteralmente: “affogamento”). 34 E voi... in sul vecchio: Timoteo dice a Sostrata che gli sembra ringiovanita. Per farlo usa una metafora d’ambito agricolo: innestare un pollone (tallo) nuovo su un vecchio tronco per rivitalizzarlo.
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 487
85
SOSTRATA Chi non sarebbe allegra? FRATE Andianne35 tutti in chiesa, e quivi direno l’orazione ordinaria36. Dipoi, doppo l’ufizio, ne andrete a desinare a vostra posta37. – Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciàn più fuora38: l’ufizio è lungo, io mi rimarrò in chiesa, e loro, per l’uscio del fianco39, se n’andranno a casa. Valete40.
35 Andianne: Andiamo. 36 quivi direno… ordinaria: qui diremo la preghiera di rito (per purificare la puerpera).
37 Dipoi… a vostra posta: Poi, dopo l’uf-
ficio (il rito religioso), andrete a pranzare dove vi pare. 38 usciàn più fuora: usciamo di nuovo (in scena).
39 per l’uscio del fianco: da un’uscita di scena, ai lati del palcoscenico. 40 Valete: in latino “State bene”. È un’usuale formula di saluto rivolta al pubblico.
Analisi del testo Un personaggio “dinamico”: la virtuosa Lucrezia Lucrezia è un personaggio ben poco presente sulla scena (compare solo alla fine del terzo atto), sebbene intorno a lei ruoti tutta l’azione della commedia a cominciare dal motore dell’azione stessa. La sua fisionomia come personaggio è costruita dagli altri; la donna non ha voce in capitolo fin quasi alla fine della commedia quando, con una sorprendente e inaspettata metamorfosi, prende nelle mani il proprio destino, capovolgendo i copioni che le sono stati imposti. Atto I, 1 Lucrezia è la donna di cui, a Parigi, viene decantata la bellezza e la virtù, così che Callimaco quasi se ne innamora solo “per fama” (un tema letterario, quello dell’innamoramento “da lontano” di antica ascendenza, ripreso anche dal Boccaccio nel Dec. VII, 7) e viene poi a sapere, giunto in Italia, che la realtà supera addirittura la fama. Atto II, 6 La seconda presentazione indiretta avviene attraverso le parole di Nicia, che presenta la donna come una che «sta quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri» prima di venire a letto e dubita, per la sua moralità, che possa essere convinta a quanto Callimaco, nei panni di un finto medico, suggerisce. Atto III, 2 Sempre attraverso la mediazione delle parole di Nicia veniamo a sapere che Lucrezia («la più dolce persona del mondo») è stata vittima proprio del comportamento di un uomo di Chiesa («uno di quei fratacchioni») che aveva tentato di insidiarla proprio mentre andava alle funzioni di buon mattino, avendo fatto voto (sempre per ottenere la sospirata maternità) di assistere a quaranta messe mattutine. Dopo quell’episodio la giovane è diventata sospettosa e guardinga. Atto III, 10 Il suo “doppio” in negativo è la madre Sostrata, un tempo donna di facili costumi, consigliera della figlia. È lei che la conduce da frate Timoteo, dopo averle spiegato la questione della mandragola. La giovane si ribella e le prime parole che pronuncia nella commedia sono per rifiutare la cosa vergognosa che le si chiede («avere a sottomettere el corpo mio a questo vituperio»). Pochissime sono le parole pronunciate da Lucrezia nel colloquio con il frate e alla fine, per acconsentire, dopo molte perplessità, si affida alla misericordia e all’aiuto di Dio («Dio m’aiuti e la Nostra Donna»). Atto IV, 8 Nuovamente ritroviamo Lucrezia attraverso le parole di Nicia che racconta le molte resistenze fatte dalla moglie («questa mia pazza») per andare nel letto e ne riporta alcune frasi («Io non voglio!... Come farò io? Che mi fate voi fare?...»). Atto V, 4 Il più lungo discorso pronunciato da Lucrezia (che è però anche in questo caso assente dalla scena, poiché il suo discorso diretto è riportato da Callimaco) è successivo alla notte passata con Callimaco ed evidenzia con chiarezza la metamorfosi del personaggio. Questo è lo schema argomentativo del discorso di Lucrezia. a. Lucrezia premette che l’adulterio che ha commesso non è dipeso dalla sua volontà e inchioda alle loro responsabilità quelli che considera i responsabili dell’azione commessa, associando a ognuno di essi una prerogativa: a Callimaco l’astuzia, a Nicia la sciocchezza, a Sostrata la semplicità (nel senso di “credulità”), a Fra’ Timoteo la malvagità. b. Lucrezia ritiene inoltre che quanto è successo sia espressione di un disegno del Cielo, al quale non ha senso opporsi.
488 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
c. Date le premesse a. e b., Lucrezia sceglie consapevolmente di diventare l’amante di Callimaco per sempre (e non solo per una sera, come aveva stabilito per lei il marito). Le parole con cui Lucrezia consacra Callimaco suo compagno reale di vita («io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore») hanno il tono solenne di un’investitura cavalleresca e rimandano d’altra parte alle parole con cui Dante designa Virgilio sua guida: «tu duca, tu segnore e tu maestro» (If II 140). d. Lucrezia, che appare nel resto dell’opera una debole donna alla mercé degli altri e degli eventi, rivela nella parte finale del suo discorso a Callimaco un inaspettato pragmatismo: pensa infatti anche agli espedienti pratici che potranno rendere agevoli i suoi incontri amorosi con Callimaco.
Un lieto fine? La commedia si conclude con il tradizionale lieto fine: tutti i personaggi sono soddisfatti e qualcuno ha avuto anzi di più rispetto alle aspettative: Callimaco in particolare non solo è riuscito a possedere la bella Lucrezia ma, al di là dei suoi sogni più rosei, ne ha ottenuto l’amore e la devozione; Lucrezia avrà probabilmente il figlio desiderato ma ha anche conosciuto l’amore; Nicia avrà il bambino cui lasciare il suo cospicuo patrimonio; fra’ Timoteo ha ricevuto i soldi per le sue elemosine; l’astuto Ligurio, regista spregiudicato della beffa, ha visto trionfare il suo piano. Tuttavia lo spettatore ne esce, più che con il riso, con un ghigno amaro che è forse quello stesso dell’autore (il critico Nino Borsellino parla di un «lucido e pungente realismo che tuttavia non sa nascondere l’amarezza»). Lo spettatore ha infatti la percezione che il lieto fine sia costruito sul totale rovesciamento di ogni valore: ogni personaggio è chiuso nei propri egoistici interessi, perseguiti in una realtà squallida dominata dal deserto di ogni ideale. Degno epilogo della commedia è allora la conclusione: il rito di purificazione generale nella chiesa, in cui Nicia consegna, senza saperlo, la giovane sposa al nuovo “marito”, invitando i due a darsi la mano, costituisce un beffardo rovesciamento del rito nuziale e segna il trionfo dell’ipocrisia e dell’inganno.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza i contenuti di ogni scena in 2-3 righe assegnando a ciascuna un breve titolo. COMPRENSIONE 2. Quale significato riveste il fatto che Lucrezia non parli quasi mai direttamente e siano sempre gli altri a parlare di lei o a riferire i suoi discorsi? ANALISI 3. Nella scena quinta, Nicia rileva un cambiamento nel carattere di Lucrezia: come si può spiegare?
Interpretare
SCRITTURA 4. La brusca metamorfosi di Lucrezia è stata diversamente interpretata dalla critica. • La trasformazione avrebbe al suo centro soprattutto la scoperta del piacere sessuale e quindi sarebbe un esempio della visione laica dell’amore come esperienza naturale già presente in Boccaccio e diffusa in alcuni ambiti. In questa prima ipotesi la trasformazione del personaggio sarebbe approvata dall’autore come una liberazione da un ruolo costrittivo e formale. • La trasformazione avrebbe il carattere di uno “svelamento” della vera natura del personaggio, una natura cinicamente egoista che la virtù avrebbe soltanto mascherato. In questo caso anche Lucrezia si iscriverebbe nel quadro complessivo del “sistema dei personaggi”. • La trasformazione di Lucrezia sarebbe in linea con quanto Machiavelli afferma nel Principe a proposito della fortuna (cap. XXV), quando osserva che è molto difficile accordare la propria natura alla «qualità de’ tempi» e quindi al variare delle situazioni; tuttavia, riescono vincitori sulla sorte proprio quelli che sono in grado di farlo. Presa coscienza dell’assoluta sproporzione delle sue qualità morali rispetto a un mondo dove tutti sono cinici e dissoluti, da suo marito a sua madre al suo confessore, Lucrezia sceglie di accettare ciò che è avvenuto, mutando la sua natura di donna virtuosa per adattarsi alla “realtà effettuale” e trovare, come gli altri, uno spazio di felicità personale. Quale delle tre interpretazioni della figura di Lucrezia giudichi più fondata? E perché? Dopo averla individuata, raccogli le tue riflessioni personali in un testo argomentativo.
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 489
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Gennaro Sasso Il ritratto linguistico di Nicia G. Sasso, Introduzione a N. Machiavelli, La Mandragola, Rizzoli, Milano 1995
La critica ha sempre sottolineato il fatto che la componente linguistica ha un posto di primo piano nella caratterizzazione del personaggio di Nicia: il suo linguaggio è una sorta di pastiche che unisce pedanti espressioni giuridiche a forme del linguaggio popolare fiorentino, con cadute anche nella volgarità (soprattutto nei coloriti improperi). Così ne parla Gennaro Sasso (1928), storico della filosofia.
Non c’è, in questo personaggio, che vive totalmente chiuso in sé stesso e nella logica del suo interesse, ombra di simpatia e di cordialità umana. E lo si deduce, innanzi tutto, dal suo linguaggio che, nella sua stereotipa fissità e formularità è, appunto, quasi disumano. È stato detto che messer Nicia parla per proverbi, e 5 che questa è la prova della stupidità che lo affligge, dell’angustia che gli restringe l’animo, del suo essere prigioniero inconsapevole di una «saggezza» meschina, ricevuta e mai sul serio messa alla prova della vita. Ma nel linguaggio di Nicia, il tratto più profondo, quello dal quale tutti gli altri sembrano conseguire, è costituito dalla volgarità, dal compiacimento degradato e degradante che egli prova nel 10 pronunziare le parole più turpi, colorendo ed esprimendo con esse il suo pensiero del mondo. In effetti, basta ascoltarlo, e subito si avverte che, all’inizio, nel mezzo, alla fine di un suo periodo, ciò che dà senso e significato al suo parlare e pensare è un vocabolo turpe, un’ingiuria stizzosa. E perché messer Nicia è volgare? Perché parla così? La volgarità non è la causa, ma la conseguenza della sua cieca mali15 zia. Ed è ben per questo, forse, che nella sua prima scena, quando il problema è di affidare la causa, non l’effetto, con grande finezza Machiavelli fa che il suo linguaggio sia bensì intessuto di banalità e di cattiverie, di vuotezze e di ostilità, ma non, immediatamente, di cose volgari. La predilezione per il turpe deve, infatti, rivelarsi poco alla volta; e sopra tutto dev’esser chiaro che deriva da altro. 20 L’origine di quella predisposizione è infatti nell’odio, che egli chiude dentro di sé, nella oscura percezione della sua negatività, che lo rende cattivo e ostile. Poiché è in sordo conflitto con sé stesso, e dunque con il mondo degli uomini, che odia e dai quali si attende di essere odiato, ogni novità, innanzi tutto, lo infastidisce, e lo mette in sospetto.
5
10
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Sintetizza il passo critico proposto in max 5 righe. 2. Quali caratteristiche morali di Nicia vengono sottolineate da Sasso? 3. Cosa intende dire Sasso quando, parlando del linguaggio di Nicia, dice che è caratterizzato da «stereotipa fissità e formularità»? 4. Perché messer Nicia, secondo Sasso, si esprime in modo volgare? 5. Ritieni che il ricorso al turpiloquio sia caratteristico di persone con un basso livello culturale o pensi che oggi si sia diffuso capillarmente nella nostra società, senza alcuna correlazione con il profilo culturale di chi ne fa uso? Argomenta le tue riflessioni in un testo coerente e coeso.
490 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Sguardo sul cinema Il cinema sul Rinascimento Il Rinascimento è stato l’ambientazione privilegiata per i film in costume: ad esempio Le sei mogli di Enrico VIII (1933), successo degli anni Trenta, ambientato nell’Inghilterra del XVI secolo. I film ambientati nel Cinquecento si sono occupati non solo di regine e di re, ma anche di grandi artisti come Michelangelo, Benvenuto Cellini e Raffaello Sanzio. Uno dei più significativi è sicuramente Il tormento e l’estasi (1965) sulla vita di Michelangelo. Interessanti sono anche quei film che traggono spunto da opere letterarie rinascimentali. L’esempio più importante
è La mandragola di Alberto Lattuada del 1965, tratto dalla commedia di Machiavelli, di cui segue fedelmente il testo originale. Un film che offre interessanti spunti di riflessione è Il mestiere delle armi (2001) di Ermanno Olmi, che ha come protagonista Giovanni dalle Bande Nere, impegnato a difendere lo Stato Pontificio dai lanzichenecchi. Interessante è la rappresentazione che il regista dà della guerra come momento di grande orrore, a cui fa da contraltare il valore del protagonista che muore per onorare il proprio dovere.
Scena da La mandragola (1965) di Alberto Lattuada (con Romolo Valli che interpreta Nicia e Rosanna Schiaffino che è Lucrezia).
Scena de Il mestiere delle armi (2001) con Hristo Živkov che interpreta Giovanni dalle Bande Nere.
Fissare i concetti Niccolò Machiavelli Ritratto d’autore 1. Per quale motivo nel 1512 Machiavelli viene esautorato dall’incarico che rivestiva? 2. In che modo Machiavelli poté fare «esperienzia delle cose moderne» (ovvero conoscere da vicino la politica)? 3. Con Machiavelli la politica si rende autonoma dalla morale. In che senso? 4. Quali caratteristiche presenta l’epistolario di Machiavelli? Il Principe 5. Con quale intento Machiavelli scrive Il Principe? 6. Quale struttura presenta l’opera? 7. Quale ritratto emerge del principe? 8. Lo stile del Principe viene definito “dilemmatico”. Perché? Machiavelli politologo, storico e letterato 9. A cosa si ispira Machiavelli per stendere i Discorsi? 10. Qual è il tema centrale del trattato? 11. Perché si può dire che il metodo adottato da Machiavelli nelle Istorie sia discutibile? 12. Quale aspetto può accomunare il Principe e la Mandragola? 13. Quale concezione della natura umana emerge nella Mandragola?
Machiavelli politologo, storico e letterato 3 491
Quattrocento e Cinquecento Niccolò Machiavelli
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Una vita segnata dalla passione politica Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da una famiglia colta e benestante, in grado di garantirgli una buona educazione umanistica: ambito di studio che il giovane sempre apprezzerà, prediligendo soprattutto gli storici greci e latini. Nel 1498, Machiavelli diventa Segretario alla seconda Cancelleria, responsabile degli affari interni ed esteri di Firenze: un ruolo prestigioso, cui si accompagnano compiti da osservatore militare e politico presso potentati italiani e stranieri. Nelle numerose missioni politico-diplomatiche in Italia e all’estero, fino al 1512, il funzionario può osservare all’opera lo spietato pragmatismo della “grande politica”: ciò, insieme alle lezioni apprese dalla lettura dei classici, starà alla base dell’ideazione del Principe e dei Discorsi. In queste occasioni, inoltre, Machiavelli può inquadrare con precisione la grave crisi degli stati italiani, militarmente deboli e politicamente instabili. Nel 1502-1503, Machiavelli incontra e conosce da vicino il duca Valentino, Cesare Borgia, che stava cercando di costruire uno stato forte nel centro d’Italia: la sua spregiudicatezza, furbizia e forza di volontà colpiscono il futuro scrittore, che ne richiamerà alcuni caratteri nel delineare la figura del principe. Nel 1506 propone di istituire una milizia cittadina a Firenze, ma il progetto risulta fallimentare: nel 1512, quando i Medici ritornano al potere, Machiavelli viene rimosso dall’incarico e mandato al confino, che trascorre all’Albergaccio, presso San Casciano, lontano dagli affari pubblici. Qui nascono le sue opere maggiori: Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ma anche la Mandragola e la novella Belfagor arcidiavolo; qui continuano anche gli scambi epistolari con amici stretti, come Guicciardini e Vettori, e le riunioni presso il cenacolo umanistico di Palazzo Rucellai. Nel 1520, Machiavelli riesce a riavvicinarsi ai Medici: ottiene un incarico come storico ufficiale e scrive le Istorie fiorentine. Revocata nel 1525 l’interdizione dai pubblici uffici, rivestirà ancora qualche incarico e parteciperà a missioni diplomatiche fino alla nuova cacciata della famiglia Medici. Muore nel 1527. Le lettere di Machiavelli: l’acuto osservatore politico e l’uomo Durante il periodo in cui serve la Repubblica Machiavelli scrive molte lettere: le missive rivelano una personalità perspicace, attenta e realista, ma capace anche di umorismo e immediatezza. Gli scambi epistolari più significativi avvengono con gli amici Francesco Vettori e Francesco Guicciardini, entrambi personaggi politicamente di primo piano.
2 Il Principe
Un “opuscolo” destinato a rivoluzionare i parametri della politica Il Principe è uno dei testi della cultura italiana più celebri nel mondo. È un trattato in 26 capitoli dedicato a Lorenzo de’ Medici ed è stato scritto tra il 1513 e il 1514, durante il forzato ritiro di Machiavelli dall’attività politica.
492 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Il libro si configura come un esauriente trattato tecnico sulla politica, ma ha anche lo scopo di suggerire al principe strategie di azione in un momento politico-sociale difficile e di far guadagnare al suo autore l’attenzione dei potenti, per permettergli di riottenere il tanto agognato incarico diplomatico. I fondamenti metodologici del Principe Alla base dell’opera sta la concezione “naturalistica” dell’uomo, presente anche nei Discorsi. Per Machiavelli la natura umana non cambia con il trascorrere dei secoli e dunque è possibile fissare regole generali per il comportamento del politico ispirate al passato e valide per il futuro; questa natura, inoltre, è intrinsecamente malvagia. La politica deve tenere conto di questi due assiomi e rappresentare un rimedio agli egoismi dei singoli che, lasciati soli, tenderebbero all’anarchia. Per farlo, bisogna abbandonare le teorizzazioni troppo astratte e porre al centro del proprio ragionamento la «verità effettuale», cioè l’esperienza concreta. Questa prospettiva innovativa sconvolge i parametri di giudizio politico comuni nel Cinquecento. I temi chiave Lo scopo dell’opera porta l’autore a sostenere la tesi secondo cui i comportamenti dell’uomo di potere debbano essere valutati esclusivamente sulla base dei risultati che producono sul piano politico, nell’obiettivo di garantire l’efficienza di governo. In questa ottica pragmatica, le tradizionali virtù diventano qualità negative se nuocciono allo stato; al contrario, comportamenti e atteggiamenti disprezzabili possono essere valutati positivamente qualora siano finalizzati al bene della compagine pubblica. La politica, dunque, diventa “autoreferenziale”, nel senso che non è vincolata da alcuna altra legge se non da quella dell’efficienza, né si fonda su un sistema morale e religioso: essa detta da sola le proprie leggi ed è proprio questo che fonda la possibilità di trasformarla in scienza. Nell’ultima parte dell’opera, Machiavelli affronta il tradizionale tema del ruolo della fortuna sulle cose umane: essa è considerata come “occasione”, che la virtù (cioè le capacità) del principe può volgere a proprio favore; in generale, tuttavia, la si ritiene costituita da un insieme di forze terrene imprevedibili che possono inaspettatamente travolgere i progetti anche dei politici più “virtuosi”. L’unico modo di non esserne sopraffatti è che il principe abbia una natura e indole adattabile alle situazioni mutevoli oppure che, in mancanza di queste, egli sappia tenere almeno un atteggiamento irruento negli affari di governo. Nonostante l’azione della sorte e le difficoltà del contesto, Machiavelli non dispera che un’azione di forza, magari a opera di un membro della casata dei Medici, possa riscattare l’Italia: nella chiusa del Principe, l’autore pone un capitolo nel quale la razionalità dello scienziato è sostituita dalla passione del politico, angosciato dalla «ruina» attuale della patria ma speranzoso della sua rinascita. Ottenere il consenso: strategie espositive ed espressive nel Principe Nel Principe, Machiavelli utilizza strategie retoriche al fine di ottenere il consenso del lettore (innanzitutto Lorenzo de’ Medici). Infatti, la trattazione di regole e precetti considerati oggettivi è associata a una narrazione-esposizione molto efficace, condotta in prima persona secondo un andamento “binario”. A queste modalità di analisi, in grado di conferire autorevolezza all’autore, segue l’uso assai frequente del tu; capace di instaurare una coinvolgente comunicazione dialogica che, però, vuole condurre il destinatario a un’interpretazione rigorosamente univoca delle questioni sottopostegli. Le argomentazioni, non a caso, si succedono con ritmo incalzante, enfatizzato da connettivi testuali di natura causale e da locuzioni che indicano necessità. A questo si accompagnano espressioni colloquiali e paragoni e immagini metaforiche assai impattanti. Per i propri obiettivi, Machiavelli sceglie il volgare, in contrasto con la tradizione dei
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
493
trattati politici a lui coevi; lo utilizza per dare corpo a una prosa modellata sul fiorentino parlato del suo tempo, nella quale accoglie sia termini colti e latinismi sia componenti popolaresche, dando origine a un impasto linguistico originale e significativo nella storia della letteratura italiana. Come fu letto Il Principe: una pagina fondamentale nella coscienza politica europea Il Principe è uno dei libri italiani più conosciuti nel mondo: un’opera che fin dalla sua prima apparizione ha fatto scalpore, stimolato la riflessione di grandi pensatori e suscitato forti polemiche. Pubblicato nel 1532, è subito oggetto di aspre critiche: nascono il fenomeno dell’antimachiavellismo e viene elaborata la categoria concettuale di machiavellico come sinonimo di “immorale, spregiudicato, cinico, perfidamente astuto, empio”. Nel 1559 il libro viene inserito nell’Indice dei libri proibiti, anche se alcuni pensatori in ambiente ecclesiastico si appropriano in modo camuffato delle acquisizioni metodologiche contenutevi per elaborare una sorta di “ragion di stato cattolica”. In Francia e in Inghilterra trova particolare seguito una nozione volgare di machiavellismo, inteso come ideologia politica elaborata da un personaggio malvagio che incita a comportamenti empi. Anche l’Illuminismo condanna inizialmente Il Principe, portatore di una concezione liberticida dello stato e della politica. L’Encyclopédie, tuttavia, inizia a teorizzare il cosiddetto «Machiavelli obliquo»: l’interpretazione, celebre fino al primo Novecento, secondo cui Il Principe sarebbe stato scritto con nobili scopi, ossia svelare ai sudditi il vero volto del potere. Machiavelli conosce grande fortuna più tardi, specialmente in Italia, come “profeta” dell’indipendenza e dell’unità nazionale durante l’età risorgimentale. In tempi più recenti la tendenza sicuramente emergente in ambito critico è, invece, la sempre più marcata storicizzazione del personaggio Machiavelli e della sua opera.
3 Machiavelli politologo, storico e letterato
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: la lezione dell’Umanesimo I Discorsi sono un’opera di riflessione politica in 3 libri a commento dei primi dieci libri dell’opera dello storico romano Tito Livio, motivata dalla convinzione che gli esempi positivi della storia passata possano e debbano essere imitati per risolvere i problemi politici del presente in virtù dell’immutabilità nel tempo della natura umana. Scritta probabilmente a più riprese (dal 1502-1512 al 1518), stimolata dalla frequentazione del circolo umanistico degli Orti Oricellari e pensata – al contrario del Principe – in un contesto tranquillo dal punto di vista generale e personale, l’opera focalizza l’attenzione al mantenimento degli stati, assicurato, più che dalla virtù del singolo governante, dalle buone leggi, dalle istituzioni (come avvenne nella repubblica romana, dove esse nacquero come conseguenza della conflittualità della vita politica) e dalla coesione tra i cittadini, per la quale secondo Machiavelli ha un ruolo fondamentale il sentimento religioso. Da qui la critica alla Chiesa, che non solo ha ostacolato l’unità politica del paese, ma ha contribuito, con lo spettacolo della sua corruzione morale, alla decadenza del sentimento religioso tra la popolazione. Dell’arte della guerra Machiavelli era fermamente convinto che l’uso di milizie mercenarie rappresentasse una debolezza per gli stati e per questo si fece promotore della dotazione di milizie proprie della Repubblica fiorentina. Nonostante gli esiti negativi del progetto, nel dialogo Dell’Arte della guerra (1519-1520) in sette libri, lo scrittore ripropone il problema,
494 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
che aveva già sollevato anche nel Principe. Nell’opera, Machiavelli affronta con competenza aspetti tecnici dell’arte militare. Machiavelli storico: le Istorie fiorentine Le Istorie fiorentine (1520-1525) sono un’opera in otto libri sulla storia di Firenze che inizia la propria trattazione dalla caduta dell’Impero romano e si ferma alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492). Nella storia fiorentina, Machiavelli ricerca le cause della decadenza della città al suo tempo. La prospettiva con cui egli guarda al passato della città è politica più che storiografica, ed è accompagnata da un metodo discutibile che non attinge a documenti d’archivio e utilizza le fonti con eccessiva disinvoltura. L’“altro” Machiavelli: il letterato e il commediografo Oltre che politologo e storico, Machiavelli fu anche autore di testi più propriamente letterari. Tra di essi ricordiamo la novella Belfagor arcidiavolo. I testi letterari più importanti di Machiavelli sono però due commedie: la Clizia e, soprattutto, la Mandragola (1518), considerata la commedia più significativa del Cinquecento. L’opera, pur rifacendosi agli schemi e ai personaggi della commedia plautina e incorporando numerosi spunti – soprattutto classici e decameroniani – mostra tratti di originalità. Ambientata nella Firenze coeva, è incentrata su una beffa erotica. La visione fortemente pessimistica della natura umana accomuna l’opera al Principe.
Zona Competenze Competenza 1. Illustra, attraverso una rappresentazione grafica o una mappa di studio, il rapporto tra digitale Il Principe e i Discorsi. Recensione
2. Immagina di scrivere una recensione letteraria del Principe, ipotizzando che sia un’opera appena pubblicata. 3. Scrivi una tua recensione della Mandragola che possa invogliare ad assistere a una rappresentazione teatrale: presenta a un ipotetico spettatore gli aspetti della commedia che ti sembrano più stimolanti e significativi.
Scrittura creativa
4. Prova a immaginare un personaggio (italiano o straniero) della scena politica di oggi a cui Machiavelli potrebbe indirizzare una versione del Principe. Prova quindi a scrivere, sulla falsariga di quella del Principe, una Dedica a questo personaggio che presenti le finalità e i contenuti dell’opera.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
495
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Niccolò Machiavelli
«Della crudeltà e pietà» Il Principe, cap. XVII N. Machiavelli, Opere, vol. I, a.c. di C. Vivanti, EinaudiGallimard, Torino 1997
De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra1. [Della crudeltà e pietà e s’elli è meglio esser amato che temuto, o più tosto temuto che amato] Scendendo appresso alle altre preallegate2 qualità, dico che ciascuno principe 5 debbe desiderare di essere tenuto pietoso e non crudele: non di manco debbe avvertire di non usare male questa pietà. Era tenuto Cesare Borgia crudele; non di manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace et in fede3. Il che se si considerrà bene, si vedrà quello4 essere stato molto più pietoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome del crudele, 10 lasciò destruggere Pistoia5. Debbe, per tanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi sua uniti et in fede6; perché, con pochissimi esempli sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o rapine7: perché queste sogliono offendere una universalità intera8, e quelle esecuzioni che vengono dal principe 15 offendono uno particulare9. Et intra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli. E Virgilio, nella bocca di Didone, dice: Res dura, et regni novitas me talia cogunt Moliri, et late fines custode tueri10. 20 Non di manco debbe essere grave11 al credere et al muoversi, né si fare paura da sé stesso, e procedere in modo temperato con prudenza et umanità, che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile. Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma 1 “Della crudeltà e pietà e se sia meglio essere amato che temuto, o viceversa”. 2 Scendendo…. preallegate: venendo alle qualità elencate in precedenza. Machiavelli si riferisce a quanto detto nel cap. XV del Principe. 3 aveva racconcia…in fede: aveva riportato l’ordine in Romagna, l’aveva riunificata, portata alla pace e all’ubbidienza. 4 quello: Cesare Borgia. 5 il populo…. Pistoia: Pistoia era divisa nelle due fazioni dei
Cancellieri e dei Panciatichi e i fiorentini avevano favorito queste divisioni interne per conquistare più facilmente la città. Ottenuta la sottomissione di Pistoia, non ebbero la forza sufficiente per placare i tumulti. 6 in fede: fedeli. 7 con pochissimi esempli…rapine: con pochissimi esempi di punizioni, sarà più clemente di quelli che, per eccesso di clemenza, permettono che avvengano disordini, dai quali derivano omicidi e rapine.
496 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
8 universalità intera: l’intera cittadinanza.
9 uno particulare: un singolo. 10 Res dura…tueri: Eneide, Libro I, (vv. 563-64). “La dura necessità del governo e il regno di recente fondazione mi costringono ad agire in questo modo, e a controllare i confini con ampia custodia”. Sono i versi nei quali Didone si rivolge a Troiano Ilioneo che si era lamentato dell’ostilità dei fenici nei confronti dello sbarco dei troiani. 11 grave: cauto
perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli, come di sopra dissi12, quando il 30 bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina; perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma elle non si hanno, et a’ tempi non si possano spendere. E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci 35 amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e 40 non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognasse procedere contro al sangue di alcuno13, farlo quando vi sia iustificazione conveniente14 e causa manifesta; ma, sopra tutto, astenersi dalla roba d’altri; perché li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio. Di 45 poi, le cagioni del tòrre la roba non mancono mai; e, sempre, colui che comincia a vivere con rapina, truova cagione di occupare quel d’altri15; e, per adverso16, contro al sangue sono più rare e mancono più presto17. Ma, quando el principe è con li eserciti et ha in governo multitudine di soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome 50 non si tenne mai esercito unito né disposto ad alcuna fazione18. Intra le mirabili azioni di Annibale19 si connumera questa, che, avendo uno esercito grossissimo, misto di infinite generazioni di uomini, condotto a militare in terre aliene, non vi surgessi mai alcuna dissensione, né infra loro né contro al principe, cosí nella cattiva come nella sua buona fortuna. Il che non poté nascere da altro 55 che da quella sua inumana crudeltà, la quale, insieme con infinite sua virtù, lo fece sempre nel cospetto de’ suoi soldati venerando e terribile; e sanza quella, a fare quello effetto le altre sua virtù non li bastavano. E li scrittori poco considerati20, dall’una parte ammirano questa sua azione, dall’altra dannono21 la 25
12 come di sopra dissi: nel capitolo IX. 13 procedere…alcuno: condannare a morte qualcuno. 14 conveniente: adeguata. 15 colui che… d’altri: chi comincia a vivere di furti, trova la scusa di impadronirsi dei beni degli altri.
16 per adverso: al contrario. 17 mancono più presto: vengono meno, in concomitanza con il rafforzarsi del potere del principe. 18 fazione: impresa militare. 19 Annibale: grande condottiero cartaginese (247-183 a.C.), protagonista della II guerra pu-
nica contro Roma. Dopo aver varcato le Alpi con un esercito di 40.000 uomini, sconfisse i romani in più occasioni per essere poi vinto da Scipione nella battaglia di Zama del 202 a.C. 20 scrittori poco considerati: scrittori poco avveduti. 21 dannano: condannano.
Verso l’esame di Stato
497
principale cagione di essa. E che sia vero che l’altre sua virtù non sarebbano 22 60 bastate, si può considerare in Scipione , rarissimo non solamente ne’ tempi sua, ma in tutta la memoria delle cose che si sanno, dal quale li eserciti sua in Ispagna si rebellorono. Il che non nacque da altro che dalla troppa sua pietà23, la quale aveva data a’ sua soldati più licenza24 che alla disciplina militare non si conveniva. La qual cosa li fu da Fabio Massimo25 in Senato rimproverata, 65 e chiamato da lui corruttore della romana milizia. E’ Locrensi, sendo stati da uno legato di Scipione destrutti, non furono da lui vendicati, né la insolenzia di quello legato corretta26, nascendo tutto da quella sua natura facile27; talmente28 che, volendolo alcuno in Senato escusare, disse come elli erano di molti uomini che sapevano meglio non errare, che correggere li errori. La qual 29 70 natura arebbe col tempo violato la fama e la gloria di Scipione, se elli avessi con essa perseverato nello imperio30; ma, vivendo sotto el governo del Senato, questa sua qualità dannosa non solum si nascose, ma li fu a gloria. Concludo adunque, tornando allo essere temuto et amato, che, amando li uomini a posta loro, e temendo a posta del principe31, debbe uno principe savio fondarsi in su 32 75 quello che è suo , non in su quello che è d’altri: debbe solamente ingegnarsi di fuggire lo odio, come è detto.
22 Scipione: Scipione l’Africano maggiore (235-183 a.C.), il vincitore di Annibale a Zama. Nel 206 a.C. aveva dovuto fronteggiare la ribellione del suo esercito in Spagna. 23 pietà: indulgenza. 24 licenza: libertà. 25 Fabio Massimo: Quinto Fabio Massimo detto “il Tempo-
Comprensione e analisi
Interpretazione
reggiatore”, eletto dittatore dai romani nel 217 a.C. Fu avversario di Scipione. 26 corretta: punita. 27 facile: indulgente, accomodante. 28 talmente: al punto che. 29 violato: intaccato. 30 nello imperio: nel comando.
31 amando…principe: poiché gli uomini amano secondo il proprio arbitrio, ma temono secondo la volontà del principe. 32 suo: su ciò che gli appartiene; cioè il farsi temere dai sudditi, sui quali ha il controllo diretto.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto del capitolo. 2. Per quale motivo è preferibile, per un principe, essere temuto piuttosto che amato? 3. In quale punto risulta evidente il pessimismo antropologico di Machiavelli? 4. Chiarisci il senso dei riferimenti ad Annibale e Scipione. 5. Rintraccia nel testo qualche esempio di procedimento dilemmatico, tipico dello stile di Machiavelli. Machiavelli, come di consueto, per suffragare le proprie opinioni si appoggia, oltre che al racconto di fatti storici, anche all’autorità classica. Delinea un quadro del rapporto che si era instaurato con i “classici”, nel mondo letterario e delle arti figurative, nell’età umanisticorinascimentale.
498 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da L. Olschki, Machiavelli scienziato, in «Il pensiero politico», 1969, n. 3
Machiavelli creò una «scienza nuova» al modo stesso in cui Galileo diede inizio, alla fine del secolo, ad una nuova scienza del moto e ad una nuova filosofia naturale: e cioè limitando i fenomeni alla loro propria sfera, come oggetti indipendenti di una metodica interpretazione. Quando infatti Galileo, nel 1590, de5 cise di scoprire non perché, ma come i corpi cadono, la scienza naturale venne ad essere separata da tutte le implicazioni metafisiche, ontologiche e morali cui era stata sin’allora unita in un sistema universale del conoscere. In entrambi i casi i due grandi Fiorentini compresero che la prima condizione per osservare direttamente la vera natura dei fenomeni umani o naturali 10 consisteva nel districare i problemi dai modi di pensare tradizionali in cui per molti secoli essi erano stati come radicati e avvinti. Il primo tentativo in questa direzione era stato compiuto nelle immediate vicinanze del Machiavelli, anche se in altri campi scientifici, dal suo grande contemporaneo e concittadino Leonardo da Vinci, la cui bottega e studio erano situati presso il palazzo in cui 15 il Segretario fiorentino ebbe il suo ufficio per circa quattordici anni. Nel 1502 essi si incontrarono alla corte di Cesare Borgia e poco dopo collaborarono nel tentativo di regolare il corso inferiore dell’Arno presso Pisa. Machiavelli cercò di penetrare teoricamente nei meandri della storia e della politica, così come Leonardo tentò appassionatamente di trasformare la pittura 20 e l’ingegneria in un corpo coerente di cognizioni scientifiche ed empiriche. In tal modo i due grandi uomini proclamarono per primi il loro distacco dai rappresentanti puramente letterari ed eruditi di teorie politiche e storiche, oppure scientifiche o tecnologiche. Machiavelli asserisce che, discutendo dei metodi e della condotta del principe, egli si distacca «dalli ordini delli altri»; allo stesso 25 modo Leonardo schernì duramente la «pigritia et comoditate de’ libri», nonché i «recitatori e trombetti dell’altrui opere» (cioè chi cita ripetendo i contenuti di opere altrui), e dichiarò (lui che non conosceva il latino e non aveva una cultura da letterato) con franchezza, rivendicando la migliore scuola dell’esperienza: «Se bene come loro non sapessi allegare [citare] gli autori, molto magiore e più 30 degnia cosa allegherò allegando la sperientia [appoggiandomi all’esperienza], maestra ai loro maestri». Il modo direttamente teorico di affrontare le realtà della vita e della natura è, in entrambi i casi, tipico di quell’ardore creativo che aprì nuovi orizzonti alla scienza e alla storia ed è caratteristico di uomini che assorbirono tutta la cultura 35 della loro epoca senza inchinarsi alle regole e alle convenzioni delle Università e della cultura ufficiale. Nessuno di loro e nessuno dei grandi spiriti del Rinascimento frequentò in modo regolare le scuole e le Università dell’epoca; ma tutti crebbero liberi in un mondo così profondamente permeato da una rinata civiltà secolare, che l’eredità antica divenne un aspetto inseparabile della loro età. Fu 40 solo così che i due Fiorentini giunsero a contemplare l’Uomo e la Natura, cioè la storia umana e quella naturale, in proprio loco, indipendentemente da ogni connessione metafisica e teologica.
Verso l’esame di Stato
499
Su questa base essi si convinsero che i fenomeni politici e naturali sono retti da leggi intrinseche, che occorre scoprire con un metodo di tipo induttivo. Le45 onardo decise di fondare sull’esperienza il suo lavoro di scienziato, scrivendo: «Inanzi che tu facci di questo caso regola generale, pruovalo due e tre volte»; Machiavelli usò le stesse parole e procedure per svelare una infallibile «regola generale» anche negli eventi storici e negli sviluppi politici. Negli scritti di questi due Fiorentini, appaiono pertanto, alla stessa epoca e nello stesso ambiente 50 intellettuale, termini e concetti identici come espressioni originali di un nuovo modo di affrontare i problemi fondamentali della scienza e della storia.
Comprensione e analisi
Produzione
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’idea centrale su cui si impernia il discorso di Olschki? 2. Su quali basi concettuali il critico accomuna Machiavelli a Galileo e prima ancora a Leonardo? 3. In che senso ed entro quali limiti si può attribuire a Machiavelli la qualifica di “scienziato”, sulla base delle considerazioni di Olschki? Attraverso gli esempi di Machiavelli e Leonardo, Olschki mette in luce il clima di libertà intellettuale, di «ardore creativo», di fervore nella ricerca, che caratterizzò la civiltà rinascimentale consentendo straordinarie innovazioni e scoperte in molti ambiti della cultura, delle arti e delle scienze. Quali complessi e diversi fattori favorirono il diffondersi di questo nuovo clima culturale? Discuti la questione con riferimenti alle tue conoscenze, confrontandoti con gli spunti offerti dal passo proposto e sviluppa le tue considerazioni in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
500 Quattrocento e Cinquecento 8 Niccolò Machiavelli
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza, Donzelli, Roma 2003
Il pensiero di Machiavelli è ancora in grado di rivelarci certi caratteri della politica così come viene tuttora praticata, i meccanismi in atto in un esercizio del potere in cui impegno primo dei governanti è soltanto fare effetto sui governati: il che, nell’orizzonte dei regimi democratici, si estende nell’impegno di candidati e di eletti a fare effetto sugli elettori. Il rilievo dell’apparenza e del simulacro, di ciò che soltanto si vede, la dimensione «scenica» dell’agire politico, che Machiavelli definisce a partire da un’antica e radicata visione dell’intera vita come scena, teatro, in cui ciascuno recita la sua fabula, hanno acquistato un rilievo ancora più determinante, addirittura totalizzante, nel mondo contemporaneo, grazie all’espansione delle tecnologie della comunicazione e alla spettacolarizzazione dell’intera vita sociale. [...] È ben noto quale uso spregiudicato delle comunicazioni di massa, quale vastissima strategia dell’immagine siano state messe in atto dai regimi totalitari nel corso nel Novecento, con forme di propaganda diretta ed esplicita o più sottilmente indiretta e occulta. Negli anni a noi più vicini si dà peraltro una sorta di slittamento dalla propaganda alla pubblicità: la politica sembra tendere sempre più a identificarsi con la pubblicità, rivolgendosi alla presentazione «vuota» di prodotti indifferenti. L’uso sempre più ossessivo del sondaggio, con la proiezione apparente e predefinita che esso dà delle diverse opinioni dei cittadini-clienti, non è che uno degli esiti di questa riduzione pubblicitaria dell’apparenza politica: il pensiero e il giudizio sugli eventi, il consenso e il dissenso, la partecipazione e l’opposizione, tutto ciò sfuma nell’astrattezza delle percentuali, nella definizione di un’opinione formale ed anonima, privata di ogni densità mentale e corporea, virtualizzata e sganciata completamente dalla concretezza dell’esistere. La stessa esistenza, del resto, è così privata di spessore, ridotta a emergenza senza corpo e senza individualità: il sondaggista e il politico che usa i sondaggi partono proprio dal principio machiavelliano che «nel mondo non è se non vulgo», e trasformano quel «vulgo» in incorporea identità numerica.
Nel brano proposto, Giulio Ferroni fornisce una stimolante lettura del pensiero di Machiavelli secondo la prospettiva, estremamente attuale, dell’uso delle strategie proprie della pubblicità da parte della moderna comunicazione politica, nel quadro della «spettacolarizzazione dell’intera vita sociale» tipica del mondo contemporaneo. Concordi con il giudizio del critico e riscontri i fenomeni da lui descritti? Proponi una tua riflessione critica sul tema, facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze.
Verso l’esame di Stato
501
Quattrocento Quattrocento e cinquecento e cinquecento CAPITOLO
9 Francesco Guicciardini L’uomo Guicciardini Quando ci si accosta all’opera e alla figura di Francesco Guicciardini (1483-1540) è tuttora inevitabile il confronto con il contemporaneo Niccolò Machiavelli, di cui fu amico, ma da cui lo differenziavano posizioni ideologiche fondamentali e prima ancora, forse, caratteriali. Così uno studioso di Guicciardini sintetizza il diverso profilo umano dei due grandi scrittori. Certo i due amici (e va ricordato che fu amicizia profonda e schietta), pur parlando il linguaggio comune della politica e della storia, divergono quasi in tutto. E non solo per natali, personalità, aspetto fisico e stile di vita, fissati ormai in immagini e profili stereotipati: l’uno (Machiavelli) plebeo, edonista, estroverso, fiducioso, generoso, idealista, ingenuo e cinico al tempo stesso, capace di forti impeti, dotato di spontaneità e di felici intuizioni, dall’aspetto asciutto e dal viso minuto e beffardo; l’altro (Guicciardini), aristocratico, casa e famiglia, altero e riservato, scettico, non certo altruista, realista, introverso e con forti venature malinconiche, sempre riflessivo e razionale, dall’aspetto imponente e dal viso largo, pensoso e severo. A. Quatela, Invito alla lettura di Guacciardini, Mursia, Milano 1991
In molti suoi Ricordi è Guicciardini stesso a offrirci un eloquente ritratto di sé, delineando la sua personalità inquieta e tormentata, contraddistinta dall’ambizione e dalla continua ricerca del successo. Diamogli perciò la parola. 118. A chi stima l’onore assai succede [ha successo] ogni cosa, perché non cura fatiche, non pericoli, non danari. Io l’ho provato in me medesimo, però [perciò] lo posso dire e scrivere: sono morte e vane le azione degli uomini che non hanno questo stimulo ardente. 15. Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e n’ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho poi mai trovato drento [dentro] quella satisfazione che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini. F. Guicciardini, Ricordi, a c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
502
Francesco Guicciardini, uomo politico, storico, politologo, contemporaneo e amico di Machiavelli, è una delle figure di spicco della civiltà rinascimentale. Un ruolo oggi essenzialmente collegato ai Ricordi, suggestiva raccolta asistematica di brevi riflessioni sulla politica, la condizione umana e i limiti della conoscenza. L’opera è frutto della grave crisi del tempo, ma è ricca di spunti ancora attuali. Portavoce di una visione totalmente pessimistica, che nega ogni certezza, metafisica o razionale, Guicciardini rifiuta la validità esemplare dei modelli etico-politici della storia passata, considerata l’estrema variabilità delle circostanze e il peso determinante della fortuna nelle cose umane. All’impetuosa “virtù” del principe machiavelliano, Guicciardini contrappone la “discrezione”, una prudente e analitica valutazione dei dettagli, che comunque non garantisce la sicurezza del risultato.
1 ritratto d’autore politica alla 2 Dalla storiografia: tappe di un itinerario
Ricordi: il “libro 3 isegreto”
4 Guicciardini nel tempo 503 503
1
Ritratto d’autore 1 Una vita sotto il segno dell’ambizione Una giovinezza programmata per il successo Francesco Guicciardini (1483-1540) appartiene a una delle più illustri e ricche famiglie fiorentine. Avviato dal padre agli studi di legge, il giovane Francesco rivela ben presto un’intelligenza assai brillante e una forte ambizione, tanto da venir soprannominato dai compagni di studio “Alcibiade” (l’uomo politico ateniese proverbialmente noto, appunto, per la smisurata ambizione). La consapevolezza di poter arrivare in alto guida le scelte fondamentali della vita di Francesco: in un primo tempo il giovane pensa di intraprendere la carriera ecclesiastica, con l’aspirazione a «farsi grande nella chiesa»; quindi decide, contro la volontà paterna, di sposare (nel 1508) Maria Salviati, appartenente a una delle più potenti famiglie di Firenze. Un brillante avvocato e un giovanissimo ambasciatore Le tappe della scalata di Guicciardini sono precoci e brillantissime: si dedica con successo all’avvocatura e nel 1512, appena ventottenne, è nominato ambasciatore presso il re di Spagna: un lusinghiero riconoscimento, visto che era del tutto inusuale affidare un incarico così importante e delicato a un giovane (fu necessaria addirittura una speciale delibera). Il prestigioso incarico lo mette a contatto con la grande politica internazionale, consentendogli di dimostrare le sue indubbie qualità e di ampliare i suoi orizzonti politici. Nelle alte sfere della politica Da quel momento la sua vita si lega indissolubilmente alla politica, della quale diventa un protagonista, ricavandone gratificazioni e onori (➜ D1 OL) ma anche amari disinganni e personali sconfitte (➜ D2 OL). Mentre si trova in Spagna scrive il suo primo saggio di carattere politico, il Discorso di Logrogno, e inizia anche a stendere un primo nucleo del suo “libro segreto”, i Ricordi.
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva 1498
1492
Scoperta dell’America.
1494
Carlo VIII scende in Italia.
1480 1483
Nasce a Firenze da una delle più illustri famiglie. Il padrino di battesimo di Francesco è Marsilio Ficino, il filosofo neoplatonico, uno degli intellettuali più in vista della cerchia medicea.
1490
1513
Savonarola è condannato al rogo. A Firenze si afferma una Repubblica oligarchica.
1512
I Medici tornano al potere.
1500 1505
1517
Lutero pubblica le sue Tesi. Inizia la Riforma protestante.
1510 1516
1509
Si laurea in diritto civile e inizia la professione di avvocato.
Inizia le Storie fiorentine. 1508
Sposa Maria Salviati, di nobile e illustre famiglia, dalla quale avrà quattro figlie.
504 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
Machiavelli scrive Il Principe.
1512
È ambasciatore della Repubblica fiorentina in Spagna, presso Ferdinando il Cattolico. Scrive il Discorso di Logrogno.
Inizia la sua carriera alle dipendenze dei papi: è governatore di Modena e l’anno dopo di Reggio.
Vittore Carpaccio, Il commiato degli ambasciatori, part. dal ciclo delle Storie di Sant’Orsola, 1490-1495 (Venezia, Gallerie dell’Accademia).
Ritornato nel 1514 a Firenze, vi trova una situazione politica profondamente mutata: fallita l’esperienza della Repubblica popolare, i Medici sono tornati al governo. Temporaneamente esonerato dagli incarichi pubblici (la stessa sorte tocca anche a Machiavelli), Guicciardini si dedica nuovamente all’avvocatura e al fiorente commercio della seta; poi, anche grazie ai tradizionali rapporti della sua famiglia con la casata al potere, riesce a riprendere la carriera politica. Con l’elezione a papa di Giovanni de’ Medici (con il nome di Leone X) egli diventa un funzionario di spicco al servizio della politica papale e medicea. È poi nominato governatore di Modena e in seguito di Reggio. Mentre la stella di Machiavelli tramonta, sale la fortuna di Guicciardini; l’amicizia tra i due, accomunati dalla stessa visione laica e disincantata, si intensifica tra il 1521 e il 1525 e ci è testimoniata da un fitto scambio di lettere. Nominato commissario generale dell’esercito pontificio, guida la difesa di Parma dall’assedio dei Francesi e consolida così il suo già grande prestigio personale. Viene quindi chiamato alla presidenza della Romagna (allora una provincia del Vaticano) e dal 1526 diviene il principale ispiratore della politica papale al seguito di papa Clemente VII (Giulio de’ Medici): è lui a suggerire al papato la linea antimperiale, considerando inevitabile lo scontro armato con la Spagna di Carlo V ed è il principale fautore della Lega di Cognac (1526) tra il papato, Venezia, Milano e la Francia. L’inizio della decadenza L’apice della sua luminosa carriera coincide però con l’inizio della decadenza. La Lega è sconfitta, i lanzichenecchi (mercenari tedeschi) nel 1527 sottopongono Roma al terribile assalto e saccheggio noto come “sacco di Roma” (➜ T2 OL). Ne conseguono la prigionia del papa a Castel Sant’Angelo e la cacciata dei Medici da Firenze, dove viene restaurata la Repubblica. Guicciardini torna allora in città ma è visto con diffidente ostilità dal nuovo governo repubblicano ed è addirittura accusato di aver sottratto il denaro destinato alle paghe dei soldati (un’accusa davvero infamante). Da questa dolorosa situazione personale nascono tre orazioni (Consolatoria, Accu-
1527
Sacco di Roma. Nuova cacciata dei Medici da Firenze e ripristino della Repubblica.
1520
1530
1521
È nominato da Leone X commissario generale dell’esercito pontificio che combatte a fianco di Carlo V. Conosce Machiavelli. Inizia il Dialogo del reggimento di Firenze.
1523
Ha la presidenza della Romagna.
1526
È il principale promotore della Lega di Cognac, volta a contrastare il potere di Carlo V.
1527-1530
Si ritira a vita privata. Scrive le tre orazioni autobiografiche (1527); Le Conside razioni intorno ai Discorsi di Machiavelli (1529); stende l’ultima redazione dei Ricordi (1530).
1540 1530-1537
Il ritorno dei Medici a Firenze lo riporta in primo piano sulla scena politica.
1540
Muore all’età di 57 anni. 1537-1540
Si ritira definitivamente dalla vita politica. Ad Arcetri, vicino Firenze, scrive la Storia d’Italia.
Ritratto d’autore 1 505
satoria, Defensoria): nella Consolatoria si rivolge a sé stesso per consolarsi dell’esclusione dai pubblici uffici (➜ D2 OL), nell’Accusatoria (➜ D1 OL) immagina che un esponente del governo repubblicano lo accusi davanti al tribunale della Quarantìa, nella Defensoria (rimasta incompiuta) respinge le accuse rivoltegli. Si ritira quindi a vita privata e si dedica a riordinare i suoi Ricordi; è però costretto a lasciare Firenze per Roma in una sorta di esilio, durante il quale continua a lavorare a quest’opera e scrive le Considerazioni sui Discorsi di Machiavelli, in cui mostra la propria distanza dalla visione dell’amico. Nuovamente alla ribalta, ma per poco tempo Nuovamente, nel 1531, il convulso altalenare degli eventi riporta i Medici in Firenze e Guicciardini ancora una volta è proiettato sulla scena politica in un ruolo eminente: incaricato da Clemente VII di riorganizzare il governo, colpisce con spietata durezza i rappresentanti più estremisti del governo popolare, mandando a morte o condannando al confino molti online illustri cittadini di Firenze. La morte di Clemente VII lo priva D1 Francesco Guicciardini però del suo principale protettore: questa circostanza e insieLa vita splendida di messer Francesco in Romagna me l’assolutismo di Cosimo de’ Medici, che non condivide, lo Accusatoria spingono nel 1537 a ritirarsi definitivamente a vita privata. Nella sua villa di campagna presso Arcetri, assistito da un feonline dele segretario, scrive il capolavoro della storiografia rinasciD2 Francesco Guicciardini Amarezza per la perdita dell’onore mentale: la Storia d’Italia, rimasta priva dell’ultima revisione Consolatoria per la morte dell’autore, avvenuta il 22 maggio del 1540.
2 La centralità dell’interesse politico e la visione della realtà L’importanza dell’elemento politico A differenza di Machiavelli, più eclettico e interessato anche all’ambito letterario, Guicciardini nella sua vita si interessa soltanto alla politica del suo tempo, che vive in prima persona in ruoli di primo piano nel difficile periodo che intercorre tra la morte di Lorenzo il Magnifico e i primi decenni del Cinquecento. Questa centralità del tema politico si riflette nelle sue opere minori, dedicate a problemi concreti, innanzitutto legati allo stato di Firenze, a cui Guicciardini cerca di trovare soluzione con un’ottica sempre pragmatica. Il punto di vista La visione politica di Guicciardini è fondamentalmente quella di un conservatore (in un celebre ricordo definisce il popolo «animale pazzo, pieno di mille errori»): non per questo egli era chiuso nella difesa di interessi corporativi e di casta, ma si interrogava piuttosto su quale potesse essere il ruolo della classe sociale cui apparteneva all’interno dello stato, perché fosse assicurata la stabilità politica del governo. A differenza di Machiavelli Guicciardini non ritiene che si possa trarre esempio dalla storia passata, anche quando si tratta di grandi modelli, per ricavarne regole ed esempi da utilizzare al presente, perché troppe, a ben vedere, sono le variabili e le eccezioni, che rendono ogni situazione diversa da un’altra. Si è parlato al proposito di una visione anticlassicista e antiumanista. In un contesto storico caratterizzato da costante instabilità, in cui appariva sempre più dominante il peso della Fortuna, più che alla “virtù” agonistica di chi deve governare, in cui ha fiducia Machiavelli, il politico deve, per Guicciardini affidarsi alla capacità sottile di ponderare tutti gli aspetti (quella che Guicciardini chiama “discrezione”) usando come osservatorio l’esperienza diretta e non certo la lezione dei libri.
506 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
2
Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 1 Dagli scritti sul governo di Firenze alla Storia d’Italia Le opere dedicate al governo di Firenze
Lessico ottimati Cittadini in vista e potenti per origini famigliari, ricchezza o meriti personali, oppure per una combinazione di questi aspetti.
Lessico politologo Studioso di teorie, sistemi e problematiche politiche, sia passati sia presenti.
• Le Storie fiorentine (1508-1509) Nell’opera, in cui sono esaminati gli avvenimenti a Firenze fra il tumulto dei Ciompi (1378) e il 1509 (data in cui si interrompe l’opera), Guicciardini esprime in modo diretto l’ottica degli ottimati ai quali la sua stessa famiglia appartiene (e da lui identificati negli «uomini da bene e savi»): si oppone perciò nettamente a una larga partecipazione dei cittadini alla gestione politica, che si era espressa a Firenze nella istituzione del Consiglio maggiore (1494) e giudica negativamente l’emergere delle classi popolari. • Il Discorso di Logrogno Di pochi anni successivo (1512), testimonia un’evoluzione del pensiero di Guicciardini: in un primo tempo egli rifiuta senza mezze misure l’assetto della Repubblica fiorentina, mentre nel Discorso lo accetta pragmaticamente, riconoscendo sia l’esistenza del Consiglio maggiore sia del Gonfalonierato (carica a vita istituita nel 1504 per garantire la continuità della gestione politica e che era stata conferita a Pier Soderini). L’impellente necessità di arginare l’instabilità politica induce però lo scrittore a immaginare un terzo organo istituzionale che possa garantire, in un’equa distribuzione dei poteri, l’efficienza dello stato: pensa così a un consiglio di esperti in carica a vita, il senato, che avrebbe dovuto esercitare un importante ruolo di mediazione tra l’organo democratico (cioè il Consiglio grande) e il gonfaloniere. • Il Dialogo del Reggimento di Firenze Nel Dialogo, scritto tra il 1521 e il 1526, Guicciardini riprende le posizioni del Discorso di Logrogno (lo schema del buon governo è identico), ma l’ottica è qui più teorica e sistematica, da vero e proprio politologo : nel primo libro sono infatti introdotti i princìpi metodologici necessari per affrontare ogni discorso politico. Si tratta di princìpi riconducibili a un sostanziale pragmatismo: Guicciardini rifiuta l’adesione a un modello politico astratto, nella convinzione che la validità di una o dell’altra forma di governo possa essere misurata esclusivamente sul terreno della prassi. Nella finzione letteraria il dialogo si svolge in due giornate nel 1494. La scelta di retrodatare il dialogo è estremamente significativa: Guicciardini era infatti consapevole del fatto che la discesa di Carlo VIII in Italia e la fine dell’equilibrio avessero rappresentato un momento storico cruciale: si chiudeva definitivamente un’epoca e se ne apriva un’altra, densa per l’Italia e per Firenze di nubi oscure e minacciose.
Il distacco dall’ottica “fiorentina” e la rinuncia alla progettualità politica Nuovi campi e metodi d’indagine L’esperienza traumatica del sacco di Roma (1527, ➜ T2 OL) e gli eventi che ne seguirono rivestono un’importanza fondamentale nella vicenda umana di Guicciardini e incidono anche nell’orientare la sua succesDalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 2 507
siva attività di scrittore. A partire da quella data, Guicciardini si rende infatti conto che è ormai impossibile circoscrivere il discorso alla sola Firenze, divenuta semplice pedina all’interno di un complesso scacchiere politico internazionale. Tende dunque a distaccarsi dal contesto fiorentino per affrontare campi di indagine più ampi; al contempo viene meno in lui la fiducia nella possibilità di una proposta politica operativa e, ancor più, di un discorso unificante e sistematico, ormai inadeguato di fronte alla drammatica variabilità delle situazioni storiche. Dopo l’esperienza sconvolgente del sacco di Roma il pensiero politico rinuncia a enunciare tesi vigorose e diventa uno dei tanti aspetti di una «interrogazione ermeneutica» (Palumbo), di una meditazione cioè sostanzialmente filosofica, che si estende a ogni campo dell’attività umana. Da questo nuovo clima ideologico e psicologico hanno origine le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli (composte intorno al 1530) e la redazione finale dei Ricordi (1530), una serie di considerazioni in forma aforistica (➜ PER APPROFONDIRE I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi, PAG. 517) nelle quali si rispecchia la pessimistica visione dell’autore riguardo alla natura e le relazioni umane. Le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli Le Considerazioni mostrano bene la nuova linea di tendenza: sono state giustamente definite un testo volto più a “decostruire” che ad affermare. In queste note a margine dei Discorsi di Machiavelli (di cui prendono in considerazione solo 38 capitoli), Guicciardini mette soprattutto in discussione l’ammirazione di Machiavelli per la storia antica e in particolare per gli ordinamenti politici di Roma, da lui ritenuti modelli da imitare. Molte riflessioni in tal senso sono presenti anche nei Ricordi (➜ D3 , T3-6 ). Per Guicciardini, essendo la realtà sempre mutevole, non esistono leggi e costanti che possano regolamentare i comportamenti dei politici; di conseguenza anche le leggi e gli ordinamenti di Roma non possono in alcun modo costituire dei modelli da seguire. Una presa di posizione, questa, che ha fatto addirittura parlare per Guicciardini, come si è detto, di antiumanesimo. Certo è che la logica stringente che egli contrappone agli assiomi machiavelliani, alle sue generalizzazioni spesso semplificanti, costituisce un paradigma di “modernità”, se è vero che “modernità” significa innanzitutto problematicità, apertura al dubbio sistematico.
2 La Storia d’Italia La genesi e la stesura La vita e la produzione di Guicciardini si concludono con un’opera storica di vasto respiro, la Storia d’Italia: essa rispecchia l’itinerario ideologico dell’autore, l’ampliarsi della sua acuta investigazione dall’ambito fiorentino a quello internazionale, ma anche le amare considerazioni sulla natura umana presenti soprattutto nell’ultima elaborazione dei Ricordi. La genesi della Storia d’Italia risiede nelle gravi delusioni subite da Guicciardini, che lo avevano definitivamente allontanato dal palcoscenico della politica attiva (inizia le prime ricerche d’archivio proprio nel 1530), motivando in lui il desiderio di scrivere la tragedia dell’Italia con il distanziamento critico di chi ormai guarda le cose da lontano. Lavora all’opera con intensità soprattutto dal 1537-38, portando a termine in poco tempo un’impresa monumentale (20 libri). A differenza di tutti gli altri suoi scritti, è sua intenzione pubblicare la Storia d’Italia: da qui il lavoro di correzione e rifinitura
508 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
anche linguistica che porta avanti fino agli ultimi giorni di vita. L’incalzare della malattia che lo porterà rapidamente alla morte gli impedisce però di sottoporre a revisione gli ultimi cinque libri. Questa imperfezione e la consapevolezza di affidare ai posteri il giudizio su di sé proprio con questo testo lo induce, così pare, a ordinare la distruzione del suo capolavoro (ma la disposizione fortunatamente non viene eseguita). La scelta dell’argomento: alle radici della crisi italiana La Storia d’Italia prende le mosse dal 1490, l’era di Lorenzo il Magnifico, considerato unanimemente l’acme della prosperità italiana (➜ T1 ), a cui presto segue la decadenza degli stati italiani e la parallela crescita dei grandi imperi europei, e arriva fino al 1534, anno della morte di Clemente VII e dell’elezione al soglio pontificio di Paolo III. L’analisi è dunque ristretta a un blocco di eventi di pochi decenni, a cui Guicciardini attribuisce però un significato storico esemplare, facendoli coincidere con il tramonto di un’intera civiltà: un’interpretazione ancora oggi condivisa e seguita dagli studiosi. Abbandonando la prospettiva municipale, Guicciardini rivolge questa volta lo sguardo alla storia internazionale e contemporanea di cui era stato uno dei protagonisti. Egli segue minuziosamente anno per anno le tappe che portarono l’ago della bilancia politica a spostarsi dall’Italia all’Europa (e in questo processo non trascura l’importanza determinante dei rivolgimenti religiosi o delle esplorazioni geografiche), analizzando la progressiva involuzione della storia italiana e portando alla luce gli errori dei governanti che finirono per consegnare la penisola alla dominazione straniera. La sua diagnosi è estremamente lucida, ma nessuna terapia viene prevista, poiché a Guicciardini manca del tutto quella fede utopica in una possibilità di riscatto che aveva ispirato a Machiavelli l’appassionato capitolo finale del Principe. Un’ottica pragmatica e individualista Nell’interpretare gli eventi storici l’ottica di Guicciardini è, come quella di Machiavelli, fondamentalmente laica, ma è caratterizzata da un più accentuato pragmatismo: per Guicciardini, alla base dei processi storici non stanno nobili ideali e disinteressati valori, ma esclusivamente le ambizioni e gli interessi dei grandi personaggi che manovrano la storia. Di queste figure di spicco dello scenario storico contemporaneo Guicciardini fornisce dei celebri ritratti, per lo più caratterizzati da un giudizio negativo: al valore esemplare attribuito dalla storiografia umanistica ai grandi personaggi si contrappone la constatazione, nell’agire di papi, sovrani e politici, di egoismi e interessi, oltre che di errori umani che producono fallimenti e sconfitte. Nell’analizzare il comportamento dei grandi personaggi Guicciardini mostra uno straordinario intuito psicologico, ricostruendo le motivazioni spesso tortuose di comportamenti ambigui e problematici. Guicciardini fondatore della storiografia moderna? Una diffusa interpretazione considera Guicciardini il fondatore, con la sua Storia d’Italia, della storiografia moderna. In realtà, come osserva Anselmi, già le Istorie fiorentine (1525) di Machiavelli, di poco precedenti (e che si arrestavano al 1494), avevano segnato un’evidente frattura con la trattazione storica medievale e umanistica: innanzitutto veniva usato per la prima volta il volgare in una storia ufficiale; inoltre in essa trovava posto non una piatta successione annalistica di avvenimenti, né un’idealizzazione delle gesta del casato dei committenti (i Medici), ma una matura indagine sulle cause politiche e sociali dei processi storici. Rispetto a Machiavelli, però, Guicciardini ha indubbiamente una più specifica vocazione di storico: innanzitutto egli attinge sempre a fonti dirette, che considera essenziali per la ricostruzione storica (grazie al suo ruolo politico aveva potuto
Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 2 509
consultare importanti archivi e documenti). Il metodo con cui scrupolosamente cataloga e utilizza queste fonti ci è documentato dai quaderni autografi. In uno dei suoi Ricordi, Guicciardini critica l’approssimazione e la genericità che, secondo lui, caratterizzavano la storiografia antica (ed è questa la ragione per cui, a differenza di Machiavelli, considera ben poco utilizzabili gli “esempi” della storia greca e romana). In secondo luogo, in relazione alla sua scettica visione del mondo, Guicciardini si rivolge alla storia non per trarne delle regole generali, ma esclusivamente per capirla a fondo: dall’indagine rigorosa del passato si possono ricavare solo ipotesi di lettura del presente, che consentano al saggio di districarsi nella giungla imprevedibile degli eventi, non certo modelli da imitare. Lo stile Lo stile dell’opera è alto e solenne, costruito su ampi periodi classicheggianti, densi di incisi e subordinate: questa complessità traduce perfettamente la visione guicciardiniana di una realtà storica anch’essa complessa e corrisponde all’attitudine analitica propria dello storico fiorentino, alla sua volontà di illustrare i particolari, di non lasciar sfuggire alcun dettaglio utile a ricostruire il quadro d’insieme. Sul piano linguistico Guicciardini aderisce sostanzialmente alla proposta del Bembo (➜ SCENARI, PAG. 70; D17 ) e quindi, a differenza di Machiavelli, la sua prosa non accoglie forme popolareggianti. online D3 Francesco Guicciardini Il compito dello storico e i limiti della storiografia antica Ricordi, 143
Storia d’italia GENERE
opera storiografica moderna
DATA DI COMPOSIZIONE
tra il 1537 e il 1540
STRUTTURA
20 libri
CONTENUTO
eventi dall’era di Lorenzo il Magnifico (1490) alla morte di Clemente VII (1534)
TEMI
• realtà storica complessa • celebri ritratti
METODO
uso di fonti dirette
CARATTERISTICHE
• ottica laica • accentuato pragmatismo • intuito psicologico
STILE
alto, solenne, con ampi periodi densi di subordinate
510 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
PER APPROFONDIRE
La storiografia: da genere letterario a moderna scienza La storiografia, una delle forme più antiche e prestigiose di scrittura, risponde alla fondamentale esigenza, propria di ogni civiltà, di conservare memoria degli avvenimenti accaduti da trasmettere ai posteri. Secondo Aristotele, ciò che distingue la storia dalla poesia è il fatto di far riferimento a eventi realmente accaduti e non frutto della fantasia («la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere; [...] la poesia tende infatti a rappresentare l’universale, la storia il particolare» (Poetica, IX, 1451b, 4-9). La storiografia come genere letterario D’altra parte nella cultura classica, in particolare latina, la storiografia era un vero e proprio genere letterario: non a caso Cicerone la definisce opus oratorium maxime, “la più grande opera oratoria”, di fatto riconducendola all’interno della retorica. Ciò significa che gli storici romani, da Sallustio a Livio a Tacito, si riservavano il diritto di amplificare a fini artistici la portata di singole situazioni ed eventi, oltre ad attribuire discorsi ai protagonisti della storia che potessero esercitare una forte attrattiva per il lettore. Del resto, il problema dell’obiettività dello storico – qualità che a noi moderni appare doverosa – non era ancora avvertito come centrale nella storiografia antica: accade così che Sallustio, Livio, Tacito, scrivendo di storia, si facciano al contempo portavoce di una specifica posizione ideologica e politica. Nella cultura latina, alla storiografia corrispondeva una tipologia di scrittura attenta alla qualità stilistica del testo e destinata, come altri generi (ad esempio il teatro colto) a dissolversi con la rovina dell’impero romano. Le cronache medievali Nell’Alto Medioevo l’approccio agli eventi del passato è completamente diverso: la storiografia è fondata sulla prospettiva cristiana, gli autori sono per lo più uomini di Chiesa e l’impostazione è esclusivamente cronachistica. Vengono elencati gli avvenimenti ritenuti significativi all’interno di un’estensione temporale vastissima, che può attingere a tempi leggendari o addirittura mitici: ad esempio il vescovo Eusebio di Cesarea (265-339) riassume, nelle sue Cronache, l’intera vicenda umana dalla creazione del mondo al 324 d.C. Già questa amplissima periodizzazione indica che per i cronisti medievali non è importante controllare la veridicità delle molte notizie accumulate, perché il senso della storia non è comunque immanente: gli eventi ricevono significato solo dalla prospettiva religioso-provvidenziale, vera interprete del loro valore. Quando, nel Basso Medioevo, fiorisce l’esperienza comunale, l’osservatorio degli eventi della storia cambia, non è più l’abbazia ma la città. Lo schema della cronaca viene mantenuto, ma la narrazione storica è impiegata a illustrare i fatti che interessano le singole città: le cronache diventano insomma cronache strettamente cittadine. Non a caso al latino dei primi cronisti si sostituisce il volgare, in rapporto al nuovo pubblico borghese della vivace realtà comunale interessato a conoscere il passato della propria città. L’esempio più significativo (con riferimento alla città di Firenze) è la Cronica di Giovanni Villani (1280-1348), continuata poi dal fratello Matteo e dal nipote Filippo, che conduce la narrazione fino al 1364.
La riscoperta dell’interesse storico nell’Umanesimo Con l’Umanesimo, nel clima culturale che esalta i legami con l’antichità, si riannodano i rapporti con la storiografia classica: si riscopre il senso pedagogico della storia e si avverte la necessità di ricavare un insegnamento dai fatti passati sull’esempio degli storici latini (i già citati Livio e Sallustio). La narrazione storica rimane incentrata sui fatti militari e politici e privilegia la rappresentazione della psicologia dei grandi personaggi, ai quali la concezione individualistica e classicheggiante del periodo attribuisce un ruolo primario nella storia. Anche in rapporto alla ripresa del concetto della storiografia come genere letterario, la memoria dei fatti è calata in una rielaborazione colta, retoricamente sostenuta. Per la stessa ragione, spesso la storiografia umanistica ospita ritratti di grandi protagonisti della storia e discorsi diretti messi loro in bocca, orazioni di gusto classicheggiante. Per contro lo spirito critico che caratterizza la cultura umanistica induce gli storici a eliminare i riferimenti a leggende e miracoli provvidenziali in nome di una visione ormai laica del divenire. Lo scopo di questi intellettuali è in genere quello di esaltare la propria città, come avviene per la Storia di Leonardo Bruni (1370 ca.-1444), la cui prospettiva è la lode della libertà repubblicana. Non solo Firenze, ma ogni corte e ogni importante città ebbero la propria storia: le città-stato affidano in questo periodo ai maggiori letterati la scrittura storica, intesa come celebrazione dell’identità culturale, in fondo come propaganda di alto livello. Oltre gli schemi umanistici verso la moderna storiografia Machiavelli, ma soprattutto Guicciardini, rispettivamente con le Istorie fiorentine e la Storia d’Italia, danno un grande contributo all’evoluzione della storiografia, svincolandosi almeno in parte dagli schemi umanistici e aprendo la strada alla forma moderna della disciplina. Del resto proprio i drammatici eventi che travolsero l’Italia alla fine del Quattrocento vanificarono le ottimistiche interpretazioni dei primi storici dell’Umanesimo, che vedevano la propria epoca come una nuova età dell’oro dopo i secoli bui della barbarie medievale. Se Machiavelli, utilizzando proprio la lezione umanistica, applicherà uno spirito critico nell’analisi dei fatti, Guicciardini ne approfondirà il realismo, tanto a livello psicologico quanto documentario, sottoponendo a un’analisi ravvicinata gli eventi e sottraendoli a ogni schema interpretativo precostituito.
Tiziano Vecellio, Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza, olio su tela, 1565-70 (National Gallery, Londra).
Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 2 511
Francesco Guicciardini
T1
Proemio Storia d’Italia I, 1
F. Guicciardini, Storia d’Italia, in Opere, a c. di E. Lugnani Scarano, UTET, Torino 1970-1981
Nelle prime pagine dell’opera, Guicciardini definisce con chiarezza l’ambito geopolitico e cronologico della propria indagine. Fin dalle prime righe della Storia d’Italia si profila, come oggetto primario dell’interesse dello storico, la grave decadenza dell’Italia a partire dalla discesa di Carlo VIII (1494), una crisi a cui lo scrittore contrappone nostalgicamente l’immagine, che appartiene ormai al passato, di un’Italia prospera e felice. Proponiamo la prima parte del capitolo.
Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra1 in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri prìncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla2: materia, per la varietà e grandezza loro3, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti4; avendo patito tanti anni Italia 5 tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati5. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti6 onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato 10 da’ venti7, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi8, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano9, quando, avendo solamente innanzi agli occhi, o errori vani o le cupidità presenti10, non si ricordando delle spesse11 variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune12, si fanno, o per poca pruden15 za o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni13. Ma le calamità d’Italia (acciocché14 io faccia noto quale fusse allora lo stato suo15, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali) cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali16 erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio ro20 mano, indebolito principalmente per la mutazione17 degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare18 alla quale con maravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava19
1 alla memoria nostra: ai nostri tempi, in anni di cui possiamo ricordarci. 2 dappoi... perturbarla: dopo che gli eserciti francesi, chiamati dai nostri stessi principi, cominciarono a sconvolgere l’Italia con grandissimi cambiamenti; Guicciardini pone come punto di partenza della propria analisi storica la discesa delle armate di Carlo VIII in Italia, avvenuta anche per la richiesta di Ludovico il Moro. 3 loro: si riferisce alle cose accadute. 4 accidenti: eventi. 5 con le quali... essere vessati: con le quali sono soliti… essere tormentati.
6 Dalla cognizione... documenti: Ciascuno potrà dalla conoscenza (cognizione) di questi avvenimenti, tanto vari e tanto gravi, trarre molti utili (salutiferi) insegnamenti (documenti) utili al bene proprio e a quello collettivo. 7 né altrimenti... da’ venti: non diversamente che un mare agitato dai venti. 8 perniciosi: dannosi. 9 i consigli... che dominano: le decisioni sbagliate di coloro che governano. 10 avendo... presenti: tenendo solamente presenti false convinzioni o momentanee brame. 11 spesse: frequenti.
512 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
12 convertendo... comune: volgendo in danno (detrimento) per gli altri quel potere (potestà) loro concesso per il bene comune. 13 turbazioni: rivolgimenti. 14 acciocché: affinché. 15 lo stato suo: la sua condizione. 16 le cose universali: le condizioni generali dell’Italia. 17 mutazione: qui vale “corruzione”. 18 di quella... a declinare: a decadere da quella grandezza. 19 si riposava: godeva di pace e prosperità.
l’anno della salute cristiana20 mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e 25 prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de’ suoi medesimi21, non solo era abbondantissima d’abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata22 sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte nobilissime e 30 bellissime città, dalla sedia e maestà della religione23, fioriva d’uomini prestantissimi24 nella amministrazione delle cose publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa25; né priva secondo l’uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva. 35 Nella quale felicità26, acquistata con varie occasioni, la conservavano molte cagioni: ma trall’altre, di consentimento comune27, si attribuiva laude non piccola alla industria e virtù28 di Lorenzo de’ Medici29, cittadino tanto eminente sopra ’l grado privato30 nella città di Firenze che per consiglio31 suo si reggevano le cose di quella republica, potente più per l’opportunità del sito32, per gli ingegni degli uomini e per 40 la prontezza de’ danari33, che per grandezza di dominio34. E avendosi egli nuovamente congiunto con parentado e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano35, era per tutta Italia grande il suo nome, grande nelle deliberazioni delle cose comuni l’autorità. E conoscendo che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori 45 potentati36 ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio37 che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che più in una che in un’altra parte non pendessino38: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare39 con somma diligenza ogni accidente40 benché minimo, succedere non poteva.
20 della salute cristiana: della salvezza cristiana, ovvero si intende dopo la nascita di Cristo. 21 né sottoposta... medesimi: non sottoposta ad alcuna dominazione straniera. 22 illustrata: resa famosa. 23 dalla sedia e maestà della religione: dalla presenza e maestà della Chiesa. 24 prestantissimi: eccellenti. 25 preclara e industriosa: illustre (latinismo) e operosa. 26 felicità: felice condizione. 27 di consentimento comune: a comune giudizio. 28 industria e virtù: abilità ed energia.
29 Lorenzo de’ Medici: dal 1478 signore della città di Firenze. 30 sopra ’l grado privato: la condizione di privato cittadino. 31 consiglio: decisione. 32 l’opportunità del sito: la favorevole posizione geografica. 33 prontezza de’ danari: disponibilità finanziarie. Firenze era una città ricca, grazie soprattutto all’attività dei grandi banchieri, tra i quali gli stessi Medici. 34 grandezza di dominio: estensione territoriale. 35 E avendosi... pontefice romano: Ed essendosi imparentato con papa Inno-
cenzo III (una figlia di Lorenzo aveva sposato Francesco Cybo, figlio naturale del papa) e avendo indotto il papa a seguire in tutto e per tutto i suoi consigli. 36 alcuno de’ maggiori potentati: si allude alle altre potenze italiane (lo Stato della Chiesa, il regno di Napoli, il ducato di Milano e la repubblica di Venezia). 37 con ogni studio: con ogni mezzo. 38 procurava... non pendessino: viene qui efficacemente sintetizzato il senso della politica di Lorenzo, “ago della bilancia” della politica italiana. 39 vegghiare: sorvegliare. 40 accidente: fatto, evento.
Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 2 513
Analisi del testo Il perimetro cronologico e geografico della Storia d’Italia La Storia d’Italia si apre con la piena assunzione da parte dello scrittore della responsabilità delle sue scelte: «Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia». La scelta è quella di narrare e interpretare un’epoca che si iscrive nella memoria recente dei lettori e di cui Guicciardini è stato in parte testimone diretto: non più dunque, come avveniva nella storiografia medievale, una narrazione che prende le mosse da leggendarie fondazioni di città e si prolunga per secoli, con conseguente scarsa attendibilità storica, ma un arco temporale ristretto a circa quarant’anni: dalla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) alla morte di un altro Medici, papa Clemente VII (1534). La scelta di circoscrivere il campo di osservazione a quel limitato periodo è motivata dall’autore per via della eccezionale gravità degli eventi accaduti («materia... molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti»), ma è anche strettamente connessa al metodo di indagine storica di Guicciardini, analitico e preciso. La prospettiva con cui l’autore guarda agli eventi è sicuramente nuova: abbandona infatti un’ottica strettamente municipalistica, propria delle sue giovanili Storie fiorentine (e dello stesso Machiavelli) che restringeva il campo d’analisi alla realtà di Firenze e assume, come dichiara il titolo stesso dell’opera, un punto di vista nazionale e anche, ormai necessariamente, internazionale, per le strette interazioni tra storia d’Italia e storia d’Europa.
Un amaro confronto tra passato e presente Dopo la presentazione dell’argomento e delle finalità dell’opera e dopo aver già suggerito le responsabilità dei principi italiani nella crisi che ha colpito l’Italia (rr. 1-13 ho deliberato... tribolazioni), Guicciardini compie un nostalgico excursus sullo stato felice della penisola verso la fine del Quattrocento (rr. 18-31 «perché manifesto... riteneva»). Domina il passo la presenza di espressioni elogiative (prosperità, somma pace e tranquillità, magnificenza, splendore...) e la frequenza di iperboli e superlativi assoluti (abbondantissima, nobilissime e bellissime, prestantissimi, ornatissima, chiarissima): scelte stilistiche che traducono l’apprezzamento da parte dell’autore della stagione felice ma purtroppo assai breve dell’Italia prima della calata delle armate francesi di Carlo VIII, che segnano la fine di un’epoca di prosperità e pace. Il responsabile principale di questa felice condizione è identificato senza esitazione in Lorenzo de’ Medici, di cui Guicciardini delinea con pochi tratti incisivi il ruolo e la linea politica, sintetizzabile nella scelta di mantenere l’equilibrio tra i potentati d’Italia, impedendo che uno di essi potesse avere il sopravvento sugli altri. I cinque maggiori stati in cui era allora divisa l’Italia erano: le repubbliche di Firenze e Venezia, il ducato di Milano, lo stato della Chiesa e il regno di Napoli.
Le scelte stilistiche Il passo proposto fornisce un esempio indicativo dello stile usato da Guicciardini nella Storia d’Italia. Si tratta di una scrittura difficile, soprattutto per il lettore di oggi: i periodi sono molto ampi, ricchi di subordinate (causali, relative ecc.), densi di ablativi assoluti latineggianti. Una prosa che non segnala solo una concezione “alta” della scrittura, ma corrisponde anche al costante desiderio dell’autore di cogliere e riprodurre nelle proprie pagine la complessità della storia. Il tono generale del passo (e dell’intera opera) è solenne, lo stile e le scelte linguistiche sorvegliatissime, adeguati al compito giudicante, al di sopra delle parti, che Guicciardini attribuisce allo storico. Carlo VIII, olio su tela, copia del XVI secolo di un originale perduto (Kunsthistorisches Museum, Vienna).
514 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riscrivi con le tue parole la prima parte del Proemio (rr. 1-15). COMPRENSIONE 2. Quali comportamenti politici negativi sono attribuiti ai governanti? (rr. 10-15). 3. Quale giudizio dà Guicciardini di Lorenzo de’ Medici? Quale importante ruolo politico Guicciardini gli attribuisce? ANALISI 4. Identifica e commenta nella prima parte (rr. 1-15) il punto del testo in cui Guicciardini prospetta la finalità della propria opera. LESSICO 5. La prima parte del Proemio vede il ricorrere di espressioni che alludono al turbamento, allo sconvolgimento di un equilibrio: rintracciale e trascrivile. 6. Sulla base delle indicazioni offerte dal testo, scegli cinque aggettivi per sintetizzare la felice condizione dell’Italia prima della crisi. STILE 7. Questo testo esemplifica molto bene lo stile e la prosa di Guicciardini: numerosi sono infatti gli accorgimenti stilistici che ne evidenziano il carattere stilisticamente elevato. Completa la tabella facendo uno o più esempi. Mezzi stilistici
Esempi
Metafore Iperboli Superlativi assoluti ……………........…………
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 8. Spiega come l’affermazione dell’autore contenuta nel testo «Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti» possa essere ricollegata all’interpretazione di Guicciardini come fondatore della storiografia moderna (max 3 minuti).
online T2 Francesco Guicciardini Il sacco di Roma Storia d’Italia XVIII, 8
F.J. Amerigo, Il sacco di Roma, olio su tela, 1887 (Museo del Prado, Madrid).
Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 2 515
3
I Ricordi: il “libro segreto” coscienza della crisi e la fondazione di un nuovo genere 1 La di scrittura L’opera più nota e attuale di Guicciardini Il nome di Guicciardini è oggi soprattutto legato alla raccolta dei Ricordi: 221 pensieri, stesi in un arco di tempo molto ampio (dal 1512 al 1530) e frutto di una complessa elaborazione. Il titolo complessivo di Ricordi non appartiene all’autore, ma fu utilizzato a posteriori dagli editori dell’opera perché più volte Guicciardini denomina i suoi pensieri con tale termine; inoltre, in almeno due occasioni (Ricordi 9 e 210) è il complesso dei testi a essere definito così. La natura del “ricordo” guicciardiniano Il termine “ricordi” non va però inteso nel senso usuale di “memorie personali”, ma di “consigli, avvertimenti, cose interessanti da ricordare”, secondo il modello dei libri di famiglia, diffusi soprattutto negli ambienti mercantili fiorentini: i Ricordi, dunque, non sono scritti in vista di una pubblicazione ma sono rivolti da Guicciardini innanzitutto ai propri familiari e discendenti (i destinatari a cui si rivolge alcune volte l’autore con il pronome personale voi).
Pagina del manoscritto dei Ricordi di Francesco Guicciardini.
I Ricordi e la tradizione dei “libri di famiglia” I Ricordi di Guicciardini non sarebbero nati se non fosse esistita, in particolare nell’ambiente mercantile fiorentino, una particolare tradizione di scrittura: quella dei “libri di famiglia”, una tipologia testuale a cui Guicciardini si ricollega direttamente; del resto, prima di stendere i Ricordi, egli aveva scritto le Memorie di famiglia, biografie dei suoi antenati e le Ricordanze, in cui narra le circostanze che lo avevano portato a ricoprire determinate cariche politiche: testi entrambi molto vicini al genere. I libri di famiglia rappresentano un’evoluzione dei cosiddetti “libri di conti”, nei quali i mercanti fiorentini annotavano i fatti più rilevanti della loro attività commerciale; talvolta, a margine, inserivano qualche data e fatto importante nella vita della famiglia. Nel corso del Trecento queste essenziali annotazioni assumono una loro autonomia e cominciano a ospitare anche ricordi personali di chi scrive. L’intenzione non è però assolutamente autobiografica, ma è quella di contribuire con qualche nuova informazione alla ricostruzione della storia della famiglia, soprattutto se importante ed economicamente influente. Proprio per questa loro natura, i libri di famiglia non sono concepiti per essere pubblicati ma si iscrivono in una dimensione strettamente privata: essi hanno come destinatari elettivi i discendenti, ai quali sono rivolti anche gli eventuali insegnamenti e i precetti morali. Si tratta comunque di una morale di pronta utilizzazione nella vita pratica,
516 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
“pillole di saggezza” senza troppe pretese. Al contrario, nei Ricordi di Guicciardini le massime ispirate al buon senso borghese lasciano il posto a inquiete (e inquietanti) riflessioni esistenziali.
online
Per approfondire La complessa elaborazione dei Ricordi
online
Interpretazioni critiche
PER APPROFONDIRE
Matteo Palumbo La morfologia dei Ricordi
Una struttura asistematica per una visione decostruita della realtà e della conoscenza La raccolta dei Ricordi quali ora li leggiamo (l’ultima redazione, detta dagli studiosi “serie C”, è del 1530) è costituita da una serie di testi identificati esclusivamente dalla loro successione numerica e quindi totalmente slegati tra di loro. Questa scelta dello scrittore assume un chiaro significato: di fronte a una realtà sempre più irrazionale e incontrollabile, diventa impossibile una sintesi complessiva, improponibile un sapere concepito come totalità; da qui la struttura asistematica e aperta dei Ricordi, che rimanda di per sé a una visione “decostruita” della realtà e che non esclude la coesistenza di asserzioni che possono apparire contradditorie tra di loro. La visione di Guicciardini è ormai lontanissima dall’idea medievale secondo la quale esiste una verità assoluta e la conoscenza si configura come assunzione passiva e acritica di una parola autorevole. Al contrario, egli valorizza un’idea del conoscere come ricerca intellettuale, in cui esercita un ruolo fondamentale l’acume interpretativo. Non a caso nei Ricordi è ricorrente l’immagine della vista, dello sguardo: nel senso metaforico di “vista dell’intelletto”, l’occhio è sinonimo di osservazione razionale, strumento indispensabile per la decifrazione intelligente di un mondo che appare sempre più complesso.
I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi I Ricordi sono caratterizzati per lo più dalla brevità e dalla condensazione espressiva. Per questa caratteristica appaiono affini ad alcune tipologie di scrittura breve – in particolare la massima e l’aforisma – pur senza identificarsi del tutto con esse. La massima La massima è un tipo di testo breve diffuso già nel mondo antico e utilizzato per trasmettere soprattutto principi morali. Nella massima l’autore si fa portavoce di una sorta di saggezza collettiva ed enuncia giudizi presentati come immodificabili. Diverse dalle massime antiche sono certamente le Massime di François de La Rochefoucauld (1613-1680), a cui i Ricordi sono stati talvolta paragonati, non sempre opportunamente. La Rochefoucauld utilizza la forma della massima, quasi sempre brevissima, per smascherare l’apparenza delle virtù e rivelare la realtà dei vizi. In ogni caso, però, attraverso la massima viene fissata una verità che si presume definitiva; i Ricordi, invece, non vogliono rivelare vizi o menzogne in nome di una verità definitiva posseduta da chi scrive, ma si propongono un obiettivo conoscitivo, all’interno peraltro di un orizzonte avvertito come limitato e provvisorio. Inoltre in Guicciardini manca del tutto la punta epigrammatica tipica della massima di La Rochefoucauld. L’aforisma Un’altra forma sintetica di scrittura è l’aforisma (dal latino tardo aphorismus, a sua volta derivato dal greco aphorismós, “definizione”). L’aforisma condensa, anche se in forma meno lapidaria della massima, una riflessione etica,
sapienziale, filosofica, di cui presenta in un certo senso l’esito finale (ma rispetto alla massima la “responsabilità” ideologica dell’autore è maggiormente in primo piano). L’aforisma come tipologia di scrittura atta a introdurre notazioni e precetti propri di una morale laica viene introdotto da Erasmo da Rotterdam nei suoi Adagia (1500), che conobbero straordinaria diffusione e fortuna presso gli intellettuali umanisti. L’aforisma avrà grande successo nella cultura europea, in particolare francese, tra il Cinquecento e il Seicento: alcuni dei Saggi (1580-1595) di Montaigne e dei Pensieri (1670) di Pascal sono identificabili come aforismi. Nel Novecento la più nota testimonianza di una scrittura per aforismi si deve al filosofo Friedrich Nietzsche, in particolare in Così parlò Zarathustra (1883-85). Gli autori che prediligono la forma aforistica sono in genere contrari a una visione sistematica, chiusa, totalizzante del pensiero. L’aforisma non coincide mai con una verità data come assoluta e si costruisce attraverso un uso particolarmente sapiente e originale della parola, tanto da potersi quasi identificare in essa. L’impianto del ricordo guicciardiniano, come osserva Palumbo, condivide con l’aforisma l’attacco a ogni sistematicità di pensiero, ma non gli appartengono le sorprese linguistiche e l’uso del paradosso propri dell’aforisma (soprattutto quello moderno). D’altra parte lo distanzia dalla massima, oltre a quanto sopra detto, il rifiuto di un’impostazione generalizzante.
I Ricordi: il “libro segreto” 3 517
2 Le aree tematiche dei Ricordi I Ricordi come sintesi di un’intera esperienza di vita e come autoritratto Gli argomenti trattati nei Ricordi sono molto vari: si va dai motivi più propriamente autobiografici alle riflessioni sulla politica, lo Stato, la Chiesa, alle meditazioni sulla condizione umana. I Ricordi costituiscono però innanzitutto un affascinante autoritratto di Guicciardini, nel quale la forte presenza dell’autore è evidenziata dall’uso frequente della prima persona: in essi si riflette la sua storia personale, la sua inquieta personalità, la sua sconsolata saggezza, frutto di difficili esperienze di vita (non a caso ricorre ripetutamente la formula: «vedesi per esperienza»). Il ruolo negativo della fortuna Il tema emergente dei Ricordi è la fortuna, a cui Guicciardini attribuisce un ruolo dominante (Ricordo 30). La fortuna è un archetipo concettuale che, nell’epoca in cui vive l’autore, ha una grande rilevanza (da Ariosto a Machiavelli). A differenza, però, di Machiavelli, che (almeno nella prima parte del Principe) considera la fortuna anche come opportunità, come occasione favorevole da sfruttare, Guicciardini radicalizza il ruolo negativo della fortuna e la totale subordinazione a essa della virtù, cioè della capacità dell’uomo: la casualità degli eventi, nella sua visione, irrompe senza preavviso e motivazione, frustrando costantemente la capacità di previsione degli uomini, compresa quella dei cosiddetti savi (Ricordo 182). L’allegoria della Fortuna in una incisione cinquecentesca.
I limiti della conoscenza e dell’azione umana Dalla constatazione della variabilità delle circostanze derivano alcune fondamentali prese di posizione di Guicciardini: l’assurdità di ragionare in termini generali (Ricordo 6) e di giudicare secondo modelli astratti di comportamento (Ricordo 117), l’impossibilità di prevedere il futuro nell’illusione di poterlo influenzare («ogni minimo particulare che varii è atto a fare variare una conclusione», Ricordo 114). Poiché l’azione dell’uomo è soggetta al dominio della fortuna, se non addirittura di un fato-destino già scritto per ognuno di noi, diventa assurdo parlare della storia come magistra vitae, “maestra di vita”. Da qui la critica a chi, come Machiavelli, ha grande fiducia nella lezione degli antichi (Ricordo 110) e la contestazione in genere dei modelli libreschi. Empirismo e critica della teologia e della metafisica Poiché è impossibile trovare la verità assoluta «perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose» (Ricordo 125), occorre rinunciare all’indagine metafisica. La ricerca dei filosofi oltre l’ambito naturale è considerata da Guicciardini un esercizio intellettuale fine a sé stesso, così come inutili sono le disquisizioni dei teologi, perché la giustizia di Dio – della quale pure Guicciardini non dubita – è imperscrutabile per l’uomo. Il sentimento religioso non è assente nei Ricordi, ma non si esprime in un sistema di certezze positive, bensì nel senso drammatico del limite della conoscenza umana di fronte a fenomeni destinati comunque a rimanere inspiegabili
518 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
(«alle ragione de’ quali non possono gli intelletti degli uomini aggiugnere», Ricordo 123). Date queste premesse, l’uomo può misurarsi solo con situazioni concrete, nelle quali deve affidarsi alla sola lezione dell’esperienza, valutando in modo razionale le circostanze in cui si trova a operare. L’etica stessa viene fatta dipendere non da obblighi morali sanciti una volta per tutte, ma esclusivamente da un’analisi corretta da parte del soggetto, unico responsabile della propria condotta. Quella di Guicciardini è in sostanza una visione empirista , che interessa innanzitutto e principalmente l’ambito della politica (tema sicuramente centrale dell’opera, essendovi dedicati circa 90 ricordi). Il particulare Il concetto forse più noto dei Ricordi è il riferimento al particulare. Proprio su questa parola tematica si è fondata una lettura “ideologica” e fortemente limitativa della figura e del pensiero di Guicciardini, che ha avuto la sua più tipica espressione nel celebre intervento critico di De Sanctis (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE L’uomo del Guicciardini, simbolo della crisi italiana, PAG. 532). Ma cos’è il particulare? Come osserva il critico Alberto Asor Rosa, il particulare si deve intendere nella sua valenza teoretica (cioè come principio conoscitivo) prima che nei suoi risvolti etico-politici, sui quali invece esclusivamente si incentrava l’interpretazione di De Sanctis: il richiamo al particulare deriva infatti innanzitutto dalla crisi dei criteri generali e oggettivi di giudizio e corrisponde a quella valorizzazione della soggettività del pensiero, contrapposta a ogni semplificazione generalizzante, che costituisce il centro fondante del pensiero guicciardiniano. D’altra parte, però, non si può negare la coincidenza del particulare con l’interesse proprio, espressa in modo specifico nel celebre Ricordo 28 e nel Ricordo 66 dove si parla, in modo ancor più concreto, di interessi particulari (➜ T6 ). Ma qual è il vero interesse per l’uomo? Guicciardini precisa che bisogna distinguere l’interesse autentico dal puro e semplice commodo pecuniario (Ricordo 218). Il particulare per Guicciardini ha sempre a che fare con l’onore – termine che però non ha nessuna risonanza ideale – e con la buona riputazione, che non esclude l’apparenza o addirittura il ricorso alla simulazione, machiavellianamente ritenuta molto utile, come nei Ricordi 104 e 199.
Parola chiave
La discrezione e la teoria guicciardiniana del comportamento Se il particulare è la motivazione che spinge l’uomo ad agire, il mezzo che può assicurargli il successo è la discrezione, vero centro della teoria guicciardiniana del comportamento, in particolare in ambito politico. Il termine deve essere inteso nel suo significato etimologico: designa infatti la capacità di “distinguere” (Ricordi 6 e 186) un caso dall’altro e di analizzare a fondo
empirismo In senso specifico l’empirismo è una vera e propria corrente filosofica, rappresentata da Bacone, Locke e Hume. In senso più generale, empirico (in contrapposizione a teorico-razionale) si può definire l’atteggiamento di chi considera l’esperienza (in greco empeiria) l’unica fonte di conoscenza e svaluta di conseguenza ogni postulato metafisico. Negando l’esistenza di verità assolute, chi si rico-
nosce in un’ottica empiristica ritiene che ogni verità vada ricavata da limitati campioni di esperienza e non dedotta da leggi o teorie generali e che essa debba essere messa alla prova ed eventualmente modificata o abbandonata. Proprio dall’adozione di un’ottica empiristica derivano le sostanziali differenze tra il pensiero di Guicciardini e quello dell’amico Machiavelli.
I Ricordi: il “libro segreto” 3 519
ogni minimo aspetto di un problema e di una situazione. Un’operazione assolutamente indispensabile, soprattutto in un momento storico caratterizzato da eventi drammatici e rapidissimi mutamenti, perché «piccoli principi e a pena considerabili sono spesso cagione di grandi ruine o di felicità: però [perciò] è grandissima prudenza avvertire e pesare bene ogni cosa benché minima» (Ricordo 82). Alla capacità analitica richiesta dalle infinite combinazioni degli eventi deve poi corrispondere nel comportamento pratico la capacità di adattarsi alle circostanze, scegliendo volta per volta le soluzioni adatte al caso: una qualità che non si può apprendere certo dalla lezione degli antichi («la quale se la natura non t’ha data, rade volte si impara tanto che basti con la esperienza; co’ libri non mai», Ricordo 186). Sullo sfondo dei Ricordi si profila ormai la crisi della fiducia rinascimentale: alla virtù demiurgica del Principe di Machiavelli, l’autore dei Ricordi sostituisce l’invito a una vigile prudenza, a un calcolo ben meditato; sostanzialmente egli suggerisce un sistema difensivo più che attivo, che solo può assicurare all’azione politica del saggio qualche probabilità di successo. Il giudizio negativo sul comportamento umano Anche se l’ambito su cui si esercita la discrezione è programmaticamente circoscritto, non per questo è garantita la riuscita dell’azione. Se infatti la razionalità e la discrezione sono proprie dei saggi, la maggior parte degli uomini non è certo guidata dalla ragione, ma segue le abitudini ed è schiava di impulsi irrazionali. Come nel Principe, anche per Guicciardini esiste dunque, oltre alla fortuna, un’altra variabile, che rischia di inficiare ogni progetto politico razionale ed è la natura imprevedibile e per lo più irrazionale degli uomini. A parte la dichiarazione di principio (di ascendenza cristiana) presente nel Ricordo 135 – che considera gli uomini tendenzialmente inclinati al bene – di fatto nel comportamento umano che Guicciardini rappresenta nei Ricordi prevalgono le disposizioni negative: un quadro che giustifica la generale visione pessimistica dell’autore e la sua sfiducia nella possibilità che i pochi saggi possano incidere positivamente nella società.
Ricordi GENERE
raccolta asistematica non pensata per la pubblicazione secondo il modello dei libri di famiglia
DATAZIONE
elaborati dal 1512 al 1530
STRUTTURA
221 pensieri ispirati dall’esperienza dell’autore di politico e diplomatico
TEMI VARI
si va dai motivi più propriamente autobiografici alle riflessioni sulla politica, lo Stato, la Chiesa, alle meditazioni sulla condizione umana
520 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini
La critica delle regole e della fiducia nell’esemplarità della storia
T3
Ricordi 6, 110, 114, 117 La variabilità delle cose del mondo, della natura e dei comportamenti umani è tale, secondo Guicciardini, da precludere ogni possibilità di stabilire regole e princìpi che rendano capaci di prevedere e orientare il futuro. Da qui la sfiducia enunciata apertamente dall’autore verso esempi e modelli del passato, anche i più autorevoli, e dunque nella stessa lezione degli storici antichi.
F. Guicciardini, Ricordi, a c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
6. È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente1 e, per dire così, per regola2; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione3 per la varietà delle circustanze, le quali non si possono fermare4 con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma 5 bisogna le insegni la discrezione5. 110. Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano6 e’ romani! Bisognerebbe avere una città condizionata7 come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: el quale8 a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo9. 114. Sono alcuni che sopra le cose che occorrono10 fanno in scriptis11 discorsi del futuro, e’ quali quando sono fatti da chi sa, paiono a chi gli legge molto belli; nondimeno sono fallacissimi, perché, dependendo di mano in mano l’una conclusione dall’altra, una che ne manchi12, riescono vane tutte quelle che se ne deducono13; e ogni minimo particulare che varii, è atto a fare variare una conclusione. Però14 non 15 si possono giudicare le cose del mondo sì da discosto15, ma bisogna giudicarle e resolverle giornata per giornata. 10
117. È fallacissimo16 el giudicare per gli esempli17, perché, se non sono simili in tutto e per tutto, non servono, conciosia che ogni minima varietà nel caso18 può essere causa di grandissima variazione nello effetto: e el discernere queste varietà, quando 20 sono piccole, vuole19 buono e perspicace occhio.
1 assolutamente: in assoluto. 2 per regola: basandosi su regole generali. 3 hanno distinzione e eccezione: presentano elementi che le differenziano ed eccezioni rispetto alla regola generale. 4 fermare: definire, fissare. 5 discrezione: si tratta di un termine chiave della riflessione di Guicciardini che identifica la capacità di cogliere la specificità di una situazione, di un problema, l’attitudine ad analizzare i dati disponibili per compiere una valutazione critica (dal latino discernĕre, distinguere).
6 allegano: citano, chiamano in causa. 7 condizionata: costituita e ordinata. 8 el quale: la qual cosa. 9 a chi ha le qualità... uno cavallo: a chi ha prerogative diverse (e forse anche inadeguate: questo potrebbe essere il senso di disproporzionate) è tanto inadeguato come sarebbe pretendere che un asino corresse come un cavallo. 10 occorrono: accadono. 11 in scriptis: “sui libri”. 12 una che ne manchi: se viene meno una delle conclusioni.
13 riescono... deducono: risultano vane tutte quelle che derivano necessariamente da quella. 14 Però: Perciò. 15 sì da discosto: così da lontano. 16 fallacissimo: del tutto ingannevole. 17 per gli esempli: sulla base di modelli esemplari. 18 conciosia che... nel caso: dato che la più piccola differenza esistente nel caso (rispetto al modello). 19 vuole: richiede.
I Ricordi: il “libro segreto” 3 521
Analisi del testo Il realismo guicciardiniano e l’arte della discrezione I Ricordi qui proposti sono tra quelli considerati basilari nella visione guicciardiniana: su di essi principalmente si fonda il tradizionale confronto con Machiavelli. Alla fiducia di Machiavelli nella possibilità di ricavare, dagli esempi del passato, dei precetti che possano guidare l’azione del politico, Guicciardini contrappone il richiamo a un’osservazione pragmatica e analitica del presente. Nel celebre Ricordo 6 appare per la prima volta la discrezione, vera parola chiave del suo pensiero: la discrezione consiste in una superiore arte del discernimento ed è una dote, egli dice, che non si impara dai libri. La particolarità di ogni situazione è tale che le variabili prevalgono nettamente sulle costanti: ne deriva la critica a coloro (è forse questo il principale elemento di dissenso tra Guicciardini e Machiavelli) che considerano indiscutibile la lezione degli antichi, gli esempi autorevoli della storia romana. L’implacabile realismo di Guicciardini gli preclude le facili schematizzazioni di Machiavelli: il passato è inesorabilmente diverso dal presente e questa distanza storica lo rende improponibile come modello. Allo stesso modo è impossibile fare congetture sul futuro, ma bisogna limitarsi a risolvere i problemi giorno per giorno: l’empirismo (➜ PAROLA CHIAVE, PAG. 519) è la dimensione in cui si iscrive la visione guicciardiniana. Proprio l’adozione del «buono e perspicace occhio» di cui si parla nel Ricordo 117 preclude a Guicciardini sia la possibilità delle generose utopie sia le speranze irrazionali che percorrono l’ultimo capitolo del Principe (a cui forse, tra le righe, il ricordo allude). Date queste premesse, il libro stesso dei Ricordi non può presentarsi al lettore come libro dall’impianto e dalla struttura tradizionale: Guicciardini deve letteralmente «scompaginare» la forma del vecchio libro per adattarla alla forma di un nuovo pensiero «frammentizzato» (Asor Rosa), in cui i vari elementi sono compresenti e che può ospitare anche delle contraddizioni interne.
La metafora dell’“occhio” Nel corpus dei Ricordi ricorrono con particolare frequenza e pregnanza termini associati allo sguardo e alla vista. Essi denotano in primo luogo una funzione fisica, ma contemporaneamente (e soprattutto) l’esercizio riflessivo e speculativo sulla realtà contingente. L’occhio diventa metafora della conoscenza, nella specifica accezione guicciardiniana, ovvero acuta attenzione ai particolari, giudizio sostenuto da razionale osservazione. Senza l’atto dell’“osservare bene” non può darsi la stessa capacità di “distinguere” e “valutare” in cui consiste la discrezione.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale aspetto del pensiero di Guicciardini emerge in particolare nel Ricordo 114? LESSICO 2. Tra i verbi presenti nei Ricordi antologizzati, quale richiama il concetto di discrezione? 3. Ricerca le comuni accezioni del termine discrezione: elencale e mettile a confronto con il significato specifico che il termine assume in Guicciardini.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Esaminando i Ricordi qui proposti e il Proemio dei Discorsi machiavelliani (➜ C8 T12 ), confronta le posizioni di Guicciardini e Machiavelli circa il concetto di imitazione, centrale nel pensiero umanistico-rinascimentale, e illustra il diverso ruolo che i due scrittori gli hanno assegnato.
522 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini
T4
Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane
LEGGERE LE EMOZIONI
Ricordi 30, 136 F. Guicciardini, Ricordi, a c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
AUDIOLETTURA
Nelle cose umane la fortuna ha per Guicciardini un ruolo ben più rilevante di quanto fosse disposto ad ammettere Machiavelli. Di fronte agli imprevisti della sorte, ben poco possono la virtù e la ragione dell’uomo. Un politico avveduto e razionale può fare scelte peggiori di un politico magari sprovveduto e irrazionale ma favorito dalla fortuna.
30. Chi considera bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti1, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli2: e benché lo accorgimento e sollicitudine3 degli uomini possa moderare molte cose, 5 nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora4 la buona fortuna. 136. Accade che qualche volta e’ pazzi5 fanno maggiore cose6 che e’ savi. Procede perché7 el savio, dove non è necessitato, si rimette8 assai alla ragione e poco alla fortuna, el pazzo assai alla fortuna e poco alla ragione: e le cose portate dalla fortuna hanno talvolta fini9 incredibili. E’ savi di Firenze arebbono creduto alla tempesta presente, e’ pazzi, avendo contro a ogni ragione voluto opporsi, hanno fatto insino 10 a ora quello che non si sarebbe creduto che la città nostra potessi in modo alcuno fare10: e questo è che dice el proverbio: Audaces fortuna iuvat11.
1 ricevono... fortuiti: derivano grandi sconvolgimenti (moti) da fatti secondari e casuali (accidenti fortuiti). 2 che non è... schifargli: che non è in potere (potestà) degli uomini né prevederli né evitarli. 3 lo accorgimento e sollicitudine: la pronta attenzione. 4 gli bisogna ancora: gli occorre anche. 5 e’ pazzi: qui nel senso generico di “persone irrazionali” (in seguito identificate in un preciso schieramento politico). 6 fanno maggiore cose: realizzano imprese più rilevanti, conseguono maggiori successi. 7 Procede perché: Questo deriva dal fatto che. 8 dove… si rimette: quando non è obbligato, si affida. 9 fini: esiti. 10 E’ savi di Firenze... alcuno fare: I savi di Firenze si sarebbero arresi alla necessità contingente (tempesta è un latinismo);
i pazzi, avendo voluto opporsi contro ogni logica razionale, hanno fatto finora ciò che non si sarebbe creduto che la nostra città potesse fare in alcun modo. Guicciardini fa qui riferimento a un preciso fatto storico e anche i termini savi e pazzi vanno contestualizzati, alludendo il primo agli ottimati e il secondo al partito popolare (l’uso del termine “savi” per identificare gli ottimati e “pazzi” per i rappresentanti del popolo è frutto della visione politica aristocratica e conservatrice di Guicciardini): nel 1529 Clemente VII e Carlo V cercarono di rimettere i Medici al potere in Firenze. Gli ottimati insistevano perché venissero accettate le condizioni imposte, mentre i popolani riuscirono a far deliberare la resistenza al nemico e, per lo meno fino all’inizio di agosto del 1530, i fiorentini riuscirono a resistere all’assedio. 11 e questo è... fortuna iuvat: e questo è il significato del proverbio “la fortuna aiuta gli audaci”.
M. Bonechi, Apoteosi di casa Guicciardini, particolare della Fortuna bendata, affresco, inizi XVIII secolo (Palazzo Valori-Altoviti, Firenze).
I Ricordi: il “libro segreto” 3 523
Analisi del testo L’importanza della fortuna Per analizzare i due Ricordi sopra proposti può essere utile la voce fortuna del Glossario ideo logico che conclude l’edizione citata dei Ricordi. La fortuna, che sfuma di volta in volta nel concetto di caso, di fato, di provvidenza divina, rappresenta la forza irrazionale ed oscura che l’uomo è costretto ad affrontare nel proprio agire, “la zona d’ombra insuperabile”, che insidia la certezza di conseguire quanto si è proposto. Il ruolo della fortuna risulta più decisivo che in altri autori rinascimentali e tinge di fatalismo agnostico [slegato dalla politica, dalla morale, dalla religione] la visione del mondo guicciardiniana (B52). Essa rappresenta uno scacco alla logica perché può favorire il pazzo e non il savio (C136), al quale non resta che assecondare gli eventi senza opporvisi (C138, là dove è citato il verso di Seneca “Ducunt volentes fata, nolentes trahunt”) [...]. Si capisce allora come sia imprescindibile il concorso della fortuna per il compimento di qualsiasi impresa (C30-31, 147) e, in specie, per la vittoria in battaglia (C183). Non vi è tuttavia in Guicciardini atteggiamento di rinuncia e tanto meno di passività. La nota più viva dei Ricordi è pur sempre l’esaltazione del fare. Glossario ideologico, a c. di C. Pedretti, in F. Guicciardini, Ricordi, a c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riscrivi in italiano corrente con parole tue il Ricordo 30. COMPRENSIONE 2. Sintetizza la concezione della fortuna di Guicciardini e poi fai un confronto con quella enunciata da Machiavelli nei suoi scritti. ANALISI 3. Nel Ricordo 136 colpisce la forza stringente dell’argomentazione: identifica le parti del testo che corrispondono alle sequenze argomentative indicate. a. asserzione di carattere generale
b. giustificazione dell’asserzione
c. esempio storico a conferma
d. conclusione
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
TESTI A CONFRONTO 4. Riprendi il cap. XXV del Principe (➜C8 T10 ), il cui tema dominante è il rapporto virtù-fortuna, e cerca di spiegare, riferendoti ai due testi sopra citati, perché la visione di Guicciardini sia nettamente più pessimistica sulla possibilità delle qualità umane in rapporto al potere della fortuna. LETTERATURA E NOI 5. Spesso constatiamo che la sorte (fortuna) ha grande potere nella vita degli uomini; questa considerazione però non libera l’individuo dall’assumersi la responsabilità di agire nella propria vita e di cercare di incidere su di essa con la propria volontà dirigendo gli eventi. Che cosa pensi del rapporto fortuna/volontà umana? Hai fiducia nel potere dell’uomo di decidere del proprio destino o ritieni che la sorte sia più forte della volontà umana e quindi che a nulla serva l’agire umano?
524 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini
T5
Meditazioni sulla natura degli uomini, sull’esistenza e sui limiti della conoscenza umana Ricordi 60, 92, 125, 134, 161
F. Guicciardini, Ricordi, a c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
Il multiforme universo tematico dei Ricordi è attraversato da un filo rosso collegato alla riflessione dello scrittore sulla condizione umana e sul destino dell’uomo. Una riflessione dalla quale emerge complessivamente una visione della vita incentrata sulla coscienza della precarietà e della sostanziale infelicità della condizione umana. Il pessimismo dell’autore non è riscattato né dall’abbandono fiducioso alla fede né dall’agonismo laico di Machiavelli.
60. Lo ingegno più che mediocre1 è dato agli uomini per loro infelicità e tormento, perché non serve loro a altro che a tenergli con molte più fatiche e ansietà che non hanno quegli che sono più positivi2. 92. Non dire: «Dio ha aiutato el tale perché era buono, el tale è capitato male perché 5 era cattivo»; perché spesso si vede el contrario. Né per questo dobbiamo dire che
manchi la giustizia di Dio, essendo e’ consigli3 suoi sì profondi che meritatamente sono detti abyssus multa4. 125. E’ filosofi e’ teologi e tutti gli altri che scrutano le cose sopra natura5 o che non si veggono, dicono mille pazzie: perché in effetto gli uomini sono al buio del10 le cose, e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. 134. Gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che al male, né è alcuno el quale, dove altro rispetto non lo tiri in contrario6, non facessi più volentieri bene che male; ma è tanto fragile la natura degli uomini e sì spesse7 nel mondo le occa15 sione che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene. E però e’ savi legislatori trovorono e’ premi e le pene8: che non fu altro che con la speranza e col timore volere tenere fermi gli uomini nella inclinazione loro naturale9. 161. Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infermità, di caso, di violenza e in modi infiniti, è sottoposta la vita dell’uomo, quante cose bisogna 20 concorrino nello anno a volere che la ricolta sia buona10, non è cosa di che io mi maravigli più che vedere uno uomo vecchio, uno anno fertile.
1 più che mediocre: superiore. 2 positivi: attenti alla sola realtà materiale
gioni non lo spingano in senso opposto.
e contingente.
7 spesse: frequenti. 8 però... e le pene: proprio per questa ra-
3 consigli: disegni, decisioni. 4 abyssus multa: un abisso profondo. 5 sopra natura: soprannaturali, astratte. 6 dove... in contrario: quando altre ra-
gione i saggi legislatori istituirono i premi e le pene. 9 che non fu... naturale: la qual cosa (l’istituzione di premi e pene) non fu mo-
tivata da altro che dall’intento di tenere ancorati (fermi) gli uomini alla loro inclinazione naturale. 10 quante cose... sia buona: quante circostanze favorevoli occorre si assommino in un anno perché si realizzi l’auspicio di un buon raccolto.
I Ricordi: il “libro segreto” 3 525
Analisi del testo Un Ricordo di taglio autobiografico (60) Dietro il Ricordo 60 è facile riconoscere il profilo dell’autore stesso, la consapevolezza della propria acuta intelligenza («lo ingegno più che mediocre»), che in nessun modo gli servì a raggiungere delle rassicuranti verità, delle certezze. Il ricordo è strutturato, come in molti altri casi, su un enunciato dato per certo, in seguito giustificato e spiegato da una serie di subordinate tra le quali domina, come accade spesso, la causale (perché).
La critica alle disquisizioni teologiche e filosofiche (92 e 125) L’adozione, da parte di Guicciardini, di un’ottica empiristica (➜ PAROLA CHIAVE, PAG. 519) e
pragmatica in unione con il suo scetticismo verso le costruzioni teoriche lo porta a rifiutare categoricamente, e addirittura a liquidare sprezzantemente (125) il sapere dei filosofi e ancor più quello dei teologi («dicono mille pazzie»): filosofia e teologia sono pure esercitazioni intellettuali fini a sé stesse. Naturalmente Guicciardini non nega l’esistenza di Dio e ha, in un certo qual modo, fiducia che la Sua giustizia agisca nel mondo, anche se la realtà dei fatti sembra smentirlo. I disegni di Dio sono totalmente imperscrutabili (abyssus multa) per gli uomini (92), condannati a non poter cogliere il senso del loro essere in questo mondo: «gli uomini sono al buio delle cose» (125). Si avverte nei due Ricordi una profonda sfiducia nei poteri stessi della ragione umana, capace sì di indagini sottili e profonde, ma limitate quanto alla portata e al respiro. Guicciardini ha ormai alle spalle i grandi sistemi filosofici del Medioevo e d’altra parte non sembra condividere le sicurezze antropocentriche del primo Rinascimento. Il suo scetticismo sconsolato prelude alle riflessioni che qualche decennio dopo farà il grande filosofo e scrittore francese Michel de Montaigne (1533-1592).
La natura degli uomini (134) Nel Ricordo 134 Guicciardini si discosta dalla visione totalmente negativa della natura umana che, come un assioma indiscutibile, sta alla base dell’intera progettazione politica del Principe: per Guicciardini gli uomini per natura sono inclini più al bene che al male. D’altra parte il seguito del pensiero, sbilanciando in senso negativo la positiva asserzione iniziale (si pone infatti l’accento sulla fragilità della natura umana e sulla molteplicità delle occasioni potenzialmente travianti), finisce per portare Guicciardini a conclusioni non molto diverse da Machiavelli.
Una riflessione di sapore “leopardiano” (161) Il Ricordo 161, introdotto per la prima volta solo nell’ultima redazione, è una delle testimonianze più radicali del disincantato pessimismo che caratterizza la visione di Guicciardini. Esso affonda le radici nella sua acuta consapevolezza della fragilità e precarietà della condizione umana, esposta quotidianamente alla violenza, agli accidenti del caso, alle malattie. Una lotta drammatica per la sopravvivenza: questa è in un certo senso l’intera vita umana. Da qui la conclusione quasi paradossale dell’autore, che ci appare qui precorrere un altro grande scrittore, Giacomo Leopardi (1798-1837), non a caso tra i primi estimatori di Guicciardini.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Identifica in ciascun ricordo il tema principale ed esponilo brevemente in due righe. Quale potrebbe essere il filo conduttore? ANALISI 2. Perché Guicciardini polemizza con i filosofi e i teologi?
Interpretare
SCRITTURA 3. I Ricordi 92, 125, 134 e 161 testimoniano in vario modo una visione pessimistica, da parte dell’autore, che investe anche il piano conoscitivo: stendi un testo sintetico (max 15 righe) che presenti questo tema utilizzando i quattro testi.
526 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini
T6
La Chiesa, il popolo, la politica Ricordi 28, 48, 66, 140, 141, 157
F. Guicciardini, Ricordi, a c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
A conclusione di questa breve antologizzazione, nel corpus dei Ricordi presentiamo una serie di testi di carattere politico o più generalmente etico-politico. Anche, e tanto più in questo ambito, emerge lo spietato realismo, lo spregiudicato pragmatismo di Guicciardini, quel vuoto di ideali che tanta indignazione suscitò in epoca romanticorisorgimentale.
28. Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie1 de’ preti: sì2 perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto 5 molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici3, m’ha necessitato a amare per el particulare mio4 la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo5: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente6, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti7, cioè a restare o sanza 10 vizi o sanza autorità. 48. Non si può tenere stati secondo conscienza8, perché – chi considera la origine loro9 – tutti sono violenti, da quelli delle repubbliche nella patria propria in fuora10, e non altrove: e da questa regola non eccettuo lo imperadore e manco e’ preti, la violenza de’ quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le 15 spirituale11. 66. Non crediate a costoro che predicano sì efficacemente12 la libertà, perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l’obietto13 agli interessi particulari: e la esperienza mostra spesso, e è certissimo, che se credessino trovare in uno stato stretto14 migliore condizione, vi correrebboro per le poste15.
1 Io non so… la mollizie: Io non so a chi più che a me riesca sgradita l’ambizione, l’avidità, la mollezza (cioè la corruzione). 2 sì: qui vale “sia”. Le tre causali («perché... perché... e ancora perché») scandiscono tre diversi momenti della condanna che Guicciardini rivolge al clero: innanzitutto ognuno dei tre vizi è esecrabile di per sé, quindi nel loro insieme ben poco si addicono (si convengono) a chi fa una scelta di vita religiosa, infine sono tra di loro così contrastanti (sì contrari) che possono trovarsi uniti solo in un soggetto davvero particolare (detto con ironia). 3 el grado... pontefici: gli alti incarichi che ho avuto con più pontefici (in particolare Leone X e Clemente VII). 4 per el particulare mio: particulare è termine tradizionalmente collegato al nome stesso di Guicciardini; è da intendersi non
come semplice tornaconto personale, ma come piena realizzazione delle sue aspirazioni. 5 se non… medesimo: se non ci fosse questo rispetto, avrei amato Martin Lutero come me stesso. Con la pubblicazione delle 95 Tesi di Wittenberg, nel 1517, Lutero iniziò la sua battaglia contro alcune pratiche della Chiesa cattolica (il commercio delle indulgenze), avviando così la Riforma protestante. 6 non per liberarmi... communemente: Guicciardini sottolinea che la sua eventuale adesione a Lutero non ha nulla a che fare con ragioni teologiche, ma con il disgusto per la condotta della Chiesa cattolica. 7 a’ termini debiti: nei giusti limiti. 8 secondo conscienza: rispettando le regole della morale.
9 chi... loro: se si considerano i modi in cui si instaura il potere. 10 da quelli... in fuora: a eccezione delle repubbliche, ma solo all’interno del loro territorio; se ne deduce che Guicciardini pensa che anche le repubbliche esercitino un potere violento verso i territori a esse sottomessi. 11 ci sforzano... le spirituale: ci costringono con le armi del potere temporale e con quelle del potere spirituale (ad esempio la scomunica). 12 sì efficacemente: con tanta foga. 13 l’obietto: la mira. 14 stato stretto: governo aristocratico, contrapposto al governo largo o popolare. 15 per le poste: in tutta fretta; è un’espressione popolaresca.
I Ricordi: il “libro segreto” 3 527
20
140. Chi disse uno popolo disse veramente uno animale, pazzo16, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanza deletto17, sanza stabilità.
141. Non vi meravigliate che non si sappino le cose delle età passate, non quelle che si fanno nelle provincie o luoghi lontani: perché, se considerate bene, non s’ha vera notizia18 delle presenti, non di quelle che giornalmente si fanno in una medesima 25 città; e spesso tra ‘l palazzo e la piazza19 è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India. E però si empie20 facilmente el mondo di opinione erronee e vane. 157. Non è bene vendicarsi nome21 di essere sospettoso, di essere sfiducciato22; non30 dimeno l’uomo è tanto fallace, tanto insidioso, procede con tante arte sì indirette, sì profonde, è tanto cupido23 dello interesse suo, tanto poco respettivo24 a quello di altri che non si può errare a credere poco, a fidarsi poco. 16 pazzo: irrazionale. 17 sanza deletto: senza capacità di giudizio e discernimento; è un latinismo da deligĕre, ”scegliere”. 18 vera notizia: conoscenza sicura.
19 ’l palazzo e la piazza: chi governa e la massa dei governati. La metonimia palazzo per alludere ai governanti è diventata di uso corrente. 20 però si empie: perciò si riempie.
21 vendicarsi nome: acquistare la fama. 22 sfiducciato: diffidente. 23 cupido: desideroso. 24 respettivo: attento.
Analisi del testo Il particulare (28, 66, 157) Le affermazioni contenute nel celebre Ricordo 28, a cui può utilmente essere affiancato il Ricordo 66 (incentrato anch’esso sull’«etica del particulare») hanno suscitato riprovazione e sdegno nell’epoca risorgimentale e a esse è inesorabilmente legato il nome di Guicciardini (a torto, visto le tante altre interessanti sfaccettature del suo pensiero, che anche solo una piccola selezione di Ricordi come quella qui presentata riesce a evidenziare). Indubbiamente si tratta di affermazioni sconcertanti e tali da turbare la coscienza. Se si pensa che in altre zone dell’Europa nello stesso periodo eretici e riformatori affrontavano il rogo per difendere le proprie idee non può non suscitare perplessità la posizione abbastanza cinica enunciata da Guicciardini: egli condanna con sarcastica veemenza la condotta riprovevole della Chiesa di Roma, arrivando a dichiararsi pronto ad appoggiare Martin Lutero se solo gli fosse possibile, ma al contempo dichiara di essere stato costretto dal proprio particulare a lavorare per accrescere il potere dei papi. È vero che in un altro pensiero (218) Guicciardini precisa che l’interesse proprio (ovvero il particulare) non coincide, come pensano erroneamente alcuni, con un gretto tornaconto economico, ma piuttosto con l’onore, con la riputazione e il buono nome; tuttavia la sostanza non cambia: sostituire una brillante carriera, l’altissimo prestigio delle cariche raggiunte all’interesse economico non rende meno discutibile sotto il profilo etico il celebre pensiero guicciardiniano. Anche nel Ricordo 66 ritorna il tema del “particulare”. Guicciardini introduce un’osservazione pragmatica: nell’appoggiare l’una o l’altra forma di governo (aristocratica e oligarchica o democratico-popolare) la motivazione è sempre e solo l’interesse personale. Anche in questo ricordo emerge una desolata (e desolante) mancanza di idealità. Se le terribili asserzioni machiavelliane contenute nei capitoli centrali del Principe (➜ C8) hanno una sorta di sinistra e tragica grandezza (e Machiavelli ribadisce che l’interesse primario che può giustificare certe azioni è il bene dello stato), qui ci troviamo di fronte a orizzonti più limitati e a un’idea dell’azione politica insieme freddamente tecnica e considerata frutto esclusivamente di calcolo personale. È sulla base di ricordi come questi che De Sanctis arrivò a considerare l’«uomo del Guicciardini» come frutto di una nazione che aveva smarrito gli ideali, il senso stesso della morale. Una visione duramente realistica del comportamento umano (e il politico non fa eccezione,
528 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
anzi) ispira anche il Ricordo 157, di sapore davvero “machiavelliano”: ritorna l’allusione alla ricerca del proprio interesse («l’uomo... è tanto cupido dello interesse suo»), presentata come condizione indubitabile e generale. Da qui l’invito alla diffidenza.
Il popolo (140) La visione aristocratica e conservatrice della gestione politica induce Guicciardini a formulare un giudizio particolarmente duro e sprezzante sul popolo, presentato come antitesi del saggio capace di discrezione. In un passo delle sue Considerazioni sui Discorsi di Machia velli, Guicciardini si contrappone alle asserzioni fatte dall’amico nel capitolo dei Discorsi (I, 58) intitolato «La moltitudine è più savia e più costante di uno principe», giudicando costituzionalmente instabile il governo della moltitudine. Le parole delle Considerazioni richiamano da vicino il Ricordo 140: «[...] dove è moltitudine quivi è confusione, e in tanta dissonanza di cervelli, dove sono vari giudìci, vari pensieri, vari fini, non può essere né discorso ragionevole, né risoluzione fondata, né azione ferma. Muovonsi gli uomini leggermente per ogni vano sospetto, per ogni vano romore, non discernono, non distinguono, e con la medesima leggerezza tornano alle deliberazione [decisioni] che avevano prima dannate [condannate], a odiare quello che amavano, amare quello che odiavano; però [perciò] non sanza cagione è assomigliata [paragonata] la moltitudine alle onde del mare, la quale secondo e’ venti che tirano vanno ora in qua ora in là sanza alcuna regola, sanza alcuna fermezza».
Il palazzo e la piazza (141) La generale sfiducia di Guicciardini nella possibilità di comprendere il senso della realtà, di decifrare un disegno nella storia, investe anche l’ambito politico: nel celebre Ricordo 141 Guicciardini rappresenta con una serie di immagini metaforiche la totale incomunicabilità tra i governanti e i governati: questi ultimi ignorano le scelte dei politici e, ancor più, le motivazioni che le ispirano. Un tema, purtroppo, ancora profondamente attuale.
Statua di Gucciardini alla Galleria degli Uffizi di Firenze.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riscrivi con parole tue il Ricordo 28. COMPRENSIONE 2. Che cosa rimprovera Guicciardini alla Chiesa? Perché apprezza Martin Lutero? ANALISI 3. Quale immagine del potere politico si ricava dal Ricordo 48? STILE 4. Il tema del Ricordo 141 è presentato attraverso una serie di pregnanti metafore, divenute celebri: indicale e spiegane il significato.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
TESTI A CONFRONTO 5. La visione politica di Guicciardini non prevede un coinvolgimento degli strati popolari al governo: commenta il Ricordo 140, evidenziando le analogie con il testo delle Considerazioni sui Discorsi di Machiavelli proposto nell’analisi del testo. SCRITTURA 6. Sintetizza con parole tue il contenuto del Ricordo 157 e commentalo esprimendo le tue considerazioni e la tua opinione motivata in merito in un elaborato scritto di max 20 righe. Come ti rapporti agli altri? Con fiducia in loro o sospettando sempre che non siano onesti con te? Ti fidi dei tuoi amici e degli adulti?
I Ricordi: il “libro segreto” 3 529
4
Guicciardini nel tempo 1 La ricezione dell’opera di Guicciardini Dall’autore della Storia d’Italia allo scrittore dei Ricordi Per secoli, la conoscenza e la fama di Guicciardini come scrittore è collegata alla Storia d’Italia. I Ricordi erano infatti praticamente sconosciuti. La Storia d’Italia è stampata a Firenze nel 1561 dopo la morte dello scrittore (come del resto tutti i suoi scritti). Nella prima edizione si rilevano già alcune censure relative a passi critici della morale e della politica ecclesiastica, come le considerazioni sul potere temporale dei papi (XII, 4), oppure la segnalazione delle contraddizioni tra la Bibbia e le scoperte geografiche (IX, 6). Mancano inoltre gli ultimi quattro libri, non ancora revisionati dall’autore. La prima edizione integrale, che reintegrava anche i passi censurati, si ha a Ginevra nel 1621 e avvia la straordinaria fortuna del libro negli ambienti protestanti d’Europa (la Storia d’Italia fu tradotta in latino e nelle principali lingue europee). Anche in Italia si hanno almeno trenta edizioni tra il 1564 e il 1645 nonostante l’azione censoria della Controriforma che, all’inizio del Seicento, inserisce la Storia d’Italia nell’Indice dei libri proibiti. La fortuna del libro continua nel Settecento illuminista (Voltaire considerava Guicciardini un nuovo Tucidide, il grande storico della Grecia classica) e nell’Ottocento (un successo testimoniato dalle numerose edizioni dell’opera fino al 1860). Nel frattempo però compaiono i Ricordi. La prima edizione esce a Parigi nel 1576: si tratta di una raccolta parziale, come anche la prima edizione italiana (Venezia 1578). Il volto dell’opera è quindi molto diverso dai Ricordi che leggiamo noi. Inoltre l’opera viene letta sulla scia della fortuna editoriale della Storia d’Italia: in Guicciardini si vede perciò esclusivamente l’uomo politico e lo storico. I primi editori intendono quindi i Ricordi come uno dei “manuali di comportamento del politico” che cominciavano a diffondersi nel secondo Cinquecento. Da qui il titolo scelto per la prima edizione: Consigli e avvertimenti di Messere Francesco Guicciardini, una pista interpretativa accentuata dall’edizione veneziana di due anni dopo che intitola l’opera addirittura Concetti politici. La preminenza dei Ricordi nella valutazione critica e nella fortuna di Guicciardini Verso la metà dell’Ottocento la scoperta dei testi ancora inediti dei Ricordi a opera del filologo Giuseppe Canestrini porta una svolta nell’interpretazione di Guicciardini e in un certo senso ribalta la prospettiva globale della sua interpretazione: se prima i pochi ricordi conosciuti erano letti alla luce dello storico e del politico, dopo tale data è la figura intera di Guicciardini che viene letta alla luce dei Ricordi o per lo meno dei più celebri tra di essi. La lettura di De Sanctis: Guicciardini teorico dell’opportunismo Ne deriva e si radica nel discorso critico l’immagine di un uomo spregiudicato, privo di ideali, teorico dell’opportunismo. Un’immagine legata soprattutto alla celeberrima lettura del grande critico ottocentesco Francesco De Sanctis (L’uomo del Guicciardini, 1869) che orienta per molti decenni l’interpretazione della figura di Guicciardini. Il grande storico, politologo e moralista viene identificato nel modello umano prospettato, secondo De Sanctis, dal complesso dei Ricordi: Guicciardini diventa
530 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
«l’uomo del particulare», un uomo privo di qualsiasi prospettiva ideale, attento solo a salvaguardare i propri interessi personali e a realizzare le proprie ambizioni. Nel giudizio passionale di De Sanctis, uomo del Risorgimento, Guicciardini appare il simbolo della decadenza della coscienza morale dell’Italia, che ha aperto la strada alla dolorosa perdita dell’indipendenza politica. Il celebre intervento critico di De Sanctis (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE, PAG. 532) è oggi leggibile soprattutto come documento di un preciso clima ideologico. La critica moderna, come è ovvio, ha superato un giudizio sostanzialmente moralistico e prettamente ideologico come quello di De Sanctis: gli studiosi attuali apprezzano in Guicciardini l’acuto interprete di un mondo complesso, non più inquadrabile in schemi prefissati di giudizio, come si può notare nel passo proposto di Fubini (➜ VERSO L’ESAME DI STATO PAG. 537).
Machiavelli e Guicciardini a confronto MACHIAVELLI
GUICCIARDINI Aspetti comuni
• attenzione alla sfera politica • considerazione realistica della “verità effettuale” • visione laica • autonomia dell’azione politica dalla religione e dalla morale
Differenze • piena fiducia che le capacità del politico “virtuoso” possano fronteggiare la fortuna • gli esempi offerti dalla storia antica possono e devono essere imitati perché i comportamenti seguono leggi costanti • esaltazione della “virtù” • slancio utopistico • fede nella “redenzione” dell’Italia
• la fortuna ha un peso determinante e l’uomo può solo adeguarvisi • nella storia le variabili prevalgono sulle costanti • non esistono modelli passati o presenti di validità assoluta • la “discrezione” è una qualità ottimale • scetticismo radicale • impossibilità di immaginare un futuro migliore
Fissare i concetti Francesco Guicciardini Ritratto d’autore 1. Quali sono stati gli incarichi politici più importanti nella vita di Guicciardini? 2. Quale fatto determina la decadenza della sua carriera? 3. Che cosa contraddistingue la visione politica di Guicciardini? Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario 4. Quali sono le opere dedicate al governo di Firenze? 5. Qual è il pensiero che caratterizza le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli? 6. Qual è il genere, la struttura d il contenuto della Storia d’Italia? I Ricordi: il “libro segreto” 7. Che cosa sono i Ricordi, a chi sono destinati e perché hanno una struttura asistematica? 8. “Discrezione” e “particulare” sono parole chiave dei Ricordi: puoi spiegarne il significato? 9. Quale ruolo Guicciardini assegna alla fortuna? 10. Quale giudizio Guicciardini ha dell’uomo?
Guicciardini nel tempo 4 531
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Francesco De Sanctis L’uomo del Guicciardini, simbolo della crisi italiana F. De Sanctis, Saggi critici, a c. di L. Russo, Laterza, Roma-Bari 1953
Il celebre saggio desanctisiano L’uomo del Guicciardini è scritto nel 1869, all’indomani dell’Unità d’Italia, quando la neonata nazione andava costruendosi. In questo particolare contesto si spiega la risentita polemica morale che ispira il giudizio critico di De Sanctis (1817-1883), che fa dell’uomo savio di Guicciardini, in cui lo scrittore stesso si rispecchia, il simbolo della fiacchezza morale che consegnò l’Italia al dominio straniero. Il saggio del celebre critico di età romantico-risorgimentale è costruito su un collage di citazioni tratte dai Ricordi, abilmente montate a dimostrazione di una tesi precisa.
Quest’uomo savio, secondo l’immagine che ce ne porge il Guicciardini, è quello che oggi direbbesi un gentiluomo, un amabile gentiluomo, nel vestire, nelle maniere e ne’ tratti. Il ritratto è così fresco e vivo, così conforme alle consuetudini moderne che ad ogni ora ti par d’incontrarlo per via, con quel suo risetto di una benevolenza 5 equivoca, con quella perfetta misura ne’ modi e nelle parole, con quella padronanza di sé, con quella confidenza nel suo saper fare e saper vivere. [...] Senza dubbio il nostro savio ama la gloria, e desidera di fare cose «grandi ed eccelse», ma ingegno positivo1, com’egli è, a patto che non sia con suo danno o incomodità2. Gli cascano di bocca parole d’oro. Parla volentieri di patria, di libertà, di onore, di 10 gloria, di umanità; ma vediamolo a’ fatti. Ama la patria e se perisce gliene duole non per lei, perché così ha a essere, ma per sé, «nato in tempi di tanta infelicità». È zelante3 del ben pubblico, ma «non s’ingolfa tanto nello Stato», da mettere in quello tutta la sua fortuna4. Vuole la libertà, ma quando la sia perduta non è bene fare mutazioni5, perché spesso mutano «i visi delle persone non le cose», e come 15 non puoi mutare tu solo, «ti riesce altro da quello che avevi in mente, e non puoi fare fondamento sul populo» così instabile, e quando la vada male, ti tocca la vita spregiata del fuoruscito6. Se tu fossi «di qualità a essere capo di Stato7», passi; ma, così non essendo, è miglior consiglio portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto, e neppure ti pongano tra i malcontenti8. Quelli che altrimenti 20 fanno9, sono «uomini leggieri». Nel mondo sono i savii e i pazzi. E pazzi chiama quei fiorentini, che «vollero contro ogni ragione opporsi», quando i «savii di Firenze arebbono10 ceduto alla tempesta». A nessuno dispiace più che a lui l’«ambizione, l’avarizia e la mollizie11 de’ preti e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti12, cioè «a restare 25 o sanza vizi, o sanza autorità»; ma «per il suo particulare» è necessitato amare la grandezza de’ pontefici, e operare a sostegno dei preti e del dominio temporale. [...] Così il nostro savio si nutre di amori platonici e di desiderii impotenti13. E la sua impotenza è in questo, che a lui manca la forza di sacrificare «il suo particulare» 1 positivo: realista. 2 incomodità: fastidio, scomodità. 3 zelante: sollecito. 4 fortuna: sorte. 5 ma quando... mutazioni: ma quando essa (la libertà) è persa, non è bene indulgere a cambiamenti. 6 la vita spregiata del fuoruscito: la vita disprezzata dell’esule.
7 Se tu fossi... capo di Stato: Se tu avessi le qualità per governare uno stato. 8 ma così... malcontenti: ma se non è così, è meglio comportarsi in modo da non essere sospettato da quelli che governano e da non essere considerato tra gli scontenti. 9 altrimenti fanno: quelli che agiscono diversamente da così.
532 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
10 arebbono: avrebbero. 11 l’avarizia e la mollizie: l’avidità e la rilassatezza nei costumi 12 ridurre… debiti: costringere questa moltitudine di scellerati entro i dovuti confini. 13 Così il nostro savio... impotenti: in questo modo il nostro saggio si alimenta di utopistici e velleitari progetti.
a quello ch’egli ama e vuole: perché quelle cose che dice di amare e di desiderare, la verità, la giustizia, la virtù, la libertà, la patria, l’Italia liberata da’ barbari, e il mondo liberato da’ preti, non sono in lui sentimenti vivi e operosi, ma opinioni e idee astratte, e quello solo che sente, quello solo che lo muove, è «il suo particolare». La lotta era accesa in Germania per la riforma religiosa e si stendeva nelle nazioni vicine, e non mancavano «pazzi» tra noi che per quella combattevano e 35 morivano; in Italia si combattevano le ultime battaglie della libertà e dell’indipendenza nazionale; il paese si dibatteva tra Svizzeri, Spagnoli, Tedeschi e Francesi; e il nostro savio non pare abbia anima d’uomo, e non dà segno quasi di accorgersene e non se ne commuove, e libra, e pesa14, e misura quello che gli noccia o gli giovi. La vita è per lui un calcolo aritmetico. 40 L’Italia perì perché i pazzi furono pochissimi, e i più erano i savii. Città, principi, popolo, rispondevano all’esemplare stupendamente delineato in questi Ricordi. L’ideale non era più Farinata15, erano i Medici; e lo scrittore di questi tempi non era Dante, era Francesco Guicciardini. La società s’era ita trasformando16: pulita, elegante, colta, erudita, spensierata, amante del quieto vivere, vaga dei piaceri dello 45 spirito e della immaginazione, quale tu la senti ne’ versi di Angiolo Poliziano17. Ogni serietà e dignità di scopo era mancata a quella insipida realtà. Patria, religione, libertà, onore, gloria, tutto quello che stimola gli uomini ad atti magnanimi e fa le nazioni grandi, ammesso in teoria, non aveva più senso nella vita pratica, non era più il motivo della vita sociale. E perché mancarono questi stimoli, i quali 50 soli hanno virtù18 di mantener vivo il carattere e la tempra delle nazioni, mancò appresso19 anche ogni energia intellettuale ed ogni attività negli usi e ne’ bisogni della vita, e il paese finì in quella sonnolenza, che i nostri vincitori con immortale scherno trasportarono ne’ loro vocabolarii e chiamarono il «dolce far niente». 30
14 e libra, e pesa: e valuta in modo ponderato e soppesa. 15 Farinata: il personaggio evocato nel canto X dell’Inferno dantesco, qui
considerato emblema della passione politica. 16 s’era ita trasformando: era andata trasformandosi.
17 Angiolo Poliziano: filologo e poeta della corte medicea.
18 virtù: capacità. 19 appresso: insieme, subito dopo.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Quale Guicciardini esce dalle parole di De Sanctis? Rispondi usando almeno sei aggettivi che lo definiscano. 2. Che cosa pensa il critico ottocentesco di Guicciardini e della sua opera? Sintetizzane l’opinione in un breve testo (max 10 righe). 3. Spiega e commenta queste espressioni in rapporto al contesto, alla struttura argomentativa del passo e alla più generale interpretazione della figura di Guicciardini: – «E la sua impotenza è in questo, che a lui manca la forza di sacrificare il suo “particulare” a quello ch’egli ama e vuole». – «La vita è per lui un calcolo aritmetico». – «Lo scrittore di questi tempi non era Dante, era Francesco Guicciardini». – «L’Italia perì perché i pazzi furono pochissimi, e i più erano savi». 4. Quale significato ha il riferimento a Poliziano?
Guicciardini nel tempo 4 533
Quattrocento e Cinquecento Francesco Guicciardini
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Una vita sotto il segno dell’ambizione Di illustre famiglia, Francesco Guicciardini (14831540) si dimostra presto intelligente e ambizioso: a nemmeno trent’anni è già avvocato e ambasciatore in Spagna; inizia qui la sua esperienza nella politica internazionale e la stesura dei Ricordi. Ritorna nel 1514 a Firenze, dove i Medici sono al governo; diventa un funzionario di spicco al servizio della politica papale e medicea sotto Leone X (Giovanni de’ Medici), poi governatore di Modena e Reggio, quindi commissario generale dell’esercito pontificio, in seguito presidente della Romagna e dal 1526 consigliere di Clemente VII (Giulio de’ Medici) con idee antimperiali, tanto da essere fautore della Lega di Cognac. Ma la Lega è sconfitta e nel 1527 Roma subisce il terribile “sacco”. Guicciardini raggiunge Firenze come privato cittadino: ma il clima ostile, che gli ispira tre orazioni, lo convince a rientrare a Roma, dove scrive le Considerazioni sui Discorsi di Machiavelli. Nel 1531, però, i Medici riconquistano il potere in patria e Guicciardini ritrova un ruolo politico come riorganizzatore del governo su incarico del papa. La morte del pontefice e l’assolutismo di Cosimo de’ Medici lo spingono nel 1537 a ritirarsi definitivamente a vita privata. Negli ultimi anni realizza il capolavoro della storiografia rinascimentale: la Storia d’Italia, rimasta priva dell’ultima revisione a causa della morte, il 22 maggio del 1540. La centralità dell’interesse politico e la visione della realtà Contrariamente all’amico Machiavelli, Guicciardini si interessa soltanto alla politica coeva, cui si dedica in modo pragmatico. Egli è conservatore, anche se non arroccato in una difesa corporativa, quanto preoccupato di garantire la stabilità politica degli organi di governo. Guicciardini è anche anticlassicista e antiumanista: non ritiene, infatti, che si possa trarre esempio dal passato perché troppe sono le variabili e le eccezioni che popolano il reale.
2 Dalla politica alla storiografia: tappe di un itinerario
Dagli scritti sul governo di Firenze alla Storia d’Italia In un primo tempo la riflessione politica di Guicciardini è dedicata a Firenze, esempio di instabilità politica. Tra vari scritti sono da ricordare le Storie fiorentine (1509) il Discorso di Logrogno (1512) e il Dialogo del Reggimento di Firenze (1521-1526): Guicciardini cerca di comprendere quali forme di governo possano garantire stabilità, in un’equa distribuzione di poteri, alla città. Nel 1529 scrive le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli nelle quali problematizza gli assiomi dell’autore: per Guicciardini non esistono leggi e costanti che possano regolamentare i comportamenti dei politici e l’unica guida risiede nell’esperienza. Dal 1537 al 1540, Guicciardini stende una monumentale opera storiografica in 20 volumi, la Storia d’Italia, punto di arrivo della sua riflessione, che ripercorre quarant’anni della recente storia italiana: dalla morte di Lorenzo il Magnifico (1492) a quella di Clemente
534 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
VII (1534). La prospettiva metodologica è del tutto innovativa: Guicciardini attinge scrupolosamente a fonti sicure e a documenti d’archivio; inoltre analizza i dati e risale alle cause degli eventi con minuzioso realismo, in un’ottica laica.
3 I Ricordi: il “libro segreto”
La coscienza della crisi e la fondazione di un nuovo genere di scrittura I Ricordi (15121530) sono l’opera di Guicciardini oggi più nota: si tratta di 221 riflessioni per lo più brevi, destinate non alla pubblicazione ma ai propri discendenti e non organizzate in alcun modo in una struttura, ma slegate l’una dall’altra. Questo carattere asistematico dell’opera è in parte riconducibile alla sfiducia di Guicciardini in un’interpretazione globale di una realtà ormai avvertita come enigmatica e dominata dall’irrazionalità. Le aree tematiche dei Ricordi Gli argomenti dei Ricordi sono molto vari: essi coprono l’ambito autobiografico senza tralasciare i temi della politica, dello Stato, della Chiesa e della dimensione umana in generale, affrontandoli con taglio meditativo-filosofico. Rilievo centrale ha il ruolo della fortuna, cioè della casualità, elemento negativo capace di subordinare le virtù umane, poiché in grado di limitare pesantemente le possibilità di conoscenza e azione. Celebre è il tema del particulare, cioè della soggettività del pensiero ma anche dell’interesse personale, inteso come acquisto e conservazione dell’onore e della reputazione; qualità da guadagnare e mantenere mediante la discrezione, ovverosia la capacità di analizzare a fondo ogni aspetto di una data situazione per adattarsi alla mutevolezza delle circostanze.
4 Guicciardini nel tempo
La ricezione dell’opera di Guicciardini Per secoli, il nome di Guicciardini è legato alla Storia d’Italia: l’opera incontra grande successo nella penisola e all’estero fino all’Ottocento. La prima edizione dei Ricordi risale all’ultimo quarto del XVI secolo e contiene un testo parziale; le parti inedite vengono scoperte nel XIX secolo e ribaltano per lungo tempo la prospettiva attraverso la quale ci si approccia all’autore: l’età romantico-risorgimentale vede in lui una personalità amorale e spregiudicata, simbolo stesso della decadenza italiana. Oggi gli studiosi ne sottolineano l’acutezza interpretativa in un mondo complesso.
Zona Competenze Scrittura creativa
1. Immagina e scrivi un dialogo in cui Machiavelli e Guicciardini si confrontano sull’importanza e sull’utilità della lezione degli antichi nell’azione politica del presente e sul valore pedagogico, educativo della storia.
Recensione
2. Immagina che Guicciardini scriva una recensione del Principe di Machiavelli.
Competenza 3. Realizza una mappa interattiva che metta in relazione gli avvenimenti storici che fanno digitale da sfondo alla vita e all’opera di Guicciardini con la sua produzione politica e storica.
Sintesi Quattrocento e Cinquecento
535
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Francesco Guicciardini
«La fede fa ostinazione» Ricordi 1 F. Guicciardini, Ricordi, a c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
1. Quello che dicono le persone spirituali1, che chi ha fede conduce2 cose grandi e, come dice lo Evangelio, chi ha fede può comandare a’ monti3 ecc., procede perché la fede fa ostinazione4. Fede non è altro che credere con openione ferma, e quasi certezza le cose che non sono ragionevole5, o, se sono ragionevole, 5 crederle con più resoluzione che non persuadono le ragione6. Chi adunche ha fede diventa ostinato in quello che crede, e procede al cammino suo intrepido e resoluto, sprezzando le difficultà e pericoli, e mettendosi a soportare ogni estremità7: donde nasce8 che, essendo le cose del mondo sottoposte a mille casi e accidenti9, può nascere per molti versi nella lunghezza del tempo aiuto 10 insperato a chi ha perseverato nella ostinazione, la quale essendo causata dalla fede, si dice meritamente10: chi ha fede ecc. Esemplo a’ dì nostri ne è grandissimo questa ostinazione de’ fiorentini che, essendosi contro a ogni ragione del mondo11 messi a aspettare la guerra del papa e imperadore sanza speranza di alcuno soccorso di altri, disuniti e con mille difficultà, hanno sostenuto in sulle 15 mura già sette mesi gli eserciti12, e’ quali non si sarebbe creduto che avessino sostenuti sette dì13, e condotto le cose in luogo che14, se vincessino, nessuno più se ne maraviglierebbe, dove prima da tutti erano giudicati perduti: e questa ostinazione ha causata in gran parte la fede di non potere perire15 secondo le predizione di Fra Ieronimo da Ferrara16.
1 le persone spirituali: i credenti (ma forse anche gli uomini di Chiesa). 2 conduce: realizza. 3 come dice lo Evangelio... monti: Guicciardini fa riferimento a un passo del Vangelo secondo Matteo (17, 20-21), in cui Gesù dice: «se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile». 4 procede... fa ostinazione: deriva dal fatto che la fede genera determinazione; il soggetto logico è «Quello che dicono...». 5 ragionevole: ragionevoli. 6 con più resoluzione... le ragione: con una determinazione maggiore di quanto non riescano a convincere le argomentazioni razionali (le ragione). 7 estremità: difficoltà. 8 donde nasce: da cui consegue. 9 accidenti: avvenimenti improvvisi. 10 meritamente: giustamente.
536 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
11 ragione del mondo: logica razionale. 12 essendosi... gli eserciti: Guicciardini allude a fatti che si stavano svolgendo proprio allora: l’assedio di Firenze (ottobre 1529-agosto 1530) da parte dell’esercito di Carlo V, alleato con il papa Clemente VII, che da sette mesi attanagliava la città; Guicciardini seguiva gli eventi da Roma. Il 3 agosto 1530 le truppe imperiali avranno la meglio e a Firenze sarà ripristinato il potere dei Medici. 13 e’ quali... dì: i quali (fiorentini) non si sarebbe creduto che avessero potuto resistere sette giorni. 14 in luogo che: al punto che. 15 perire: essere sconfitti. 16 secondo... da Ferrara: secondo la profezia del ferrarese fra’ Gerolamo Savonarola; il frate domenicano Savonarola, sostenitore di un governo popolare, fu a capo della repubblica instaurata a Firenze nel 1494; scomunicato, sarà arso sul rogo nel 1498. La profezia riguardava il fatto che il governo popolare, in quanto voluto da Dio, non poteva crollare.
Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Indica il tema centrale del Ricordo. 2. Da quale circostanza storica trae spunto il Ricordo? 3. Quale definizione viene data della fede? Sintetizzala con le tue parole. 4. Quale atteggiamento comporta l’avere fede e in cosa consiste la “positività” dell’avere fede? 5. A che proposito è ricordato Gerolamo Savonarola? 6. Il testo presenta una struttura articolata. Dividilo nelle brevi sezioni che lo compongono e dà a ognuna di esse un titolo. 7. Qual è il collegamento tra l’asserzione relativa alla natura delle cose del mondo (rr. 8-11) e il tema del Ricordo?
Interpretazione
L’atteggiamento di Guicciardini ti sembra quello di chi afferma il valore trascendente della fede e invita i lettori a essere religiosi? O è piuttosto quello di chi osserva con spirito critico i comportamenti umani per cercare di comprenderli? Motiva la tua risposta. Ogni Ricordo fissa un punto di partenza da cui, attraverso nessi rigorosi, si snodano argomentazioni che confermano, approfondiscono precisandola o negano l’asserzione iniziale. Cerca di evidenziare la struttura argomentativa del Ricordo.
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da M. Fubini, Introduzione a F. Guicciardini, Ricordi, a. c. di M. Fubini, Rizzoli, Milano 1984
Ma particolare spicco nella storia della fortuna del Guicciardini ha il saggio famoso del De Sanctis, L’uomo del Guicciardini, riecheggiato non so quante volte e anche travisato. Saggio fondamentale eppur tale da non dover essere accolto come pagina di pacata storiografia, bensì come di polemica pedagogica propria 5 del De Sanctis, che qui ha una delle sue punte caratteristiche. Il problema del De Sanctis era quello di comprendere le ragioni della decadenza italiana: perché con tanto splendore d’arte e vivacità d’ingegni l’Italia aveva perduto l’indipendenza e così rapidamente si era avviata a una decadenza non solo politica ma morale: il suo problema era problema urgente per un uomo del Risorgimento, 10 tutto inteso appunto al risorgere della patria, all’educazione perciò di una nuova coscienza civile. Entro l’ambito e il pensiero del De Sanctis quell’interpretazione con altre della Storia aveva una ragione d’essere: ma doveva portare il grande critico ad una visione deformata o almeno parziale di più d’un aspetto e di una figura dell’Italia del passato. Il desanctisiano «uomo del Guicciardini» non 15 del tutto corrisponde al Guicciardini storico: chi legga il saggio desanctisiano e soltanto le pagine in cui si citano i Ricordi guicciardiniani si rende conto di una deformazione involontaria a cui sono stati piegati [...]. Ci troviamo qui di fronte al contrasto di due età, un uomo del Rinascimento giudicato da un uomo del Risorgimento, quel che nel Guicciardini è severo senso della realtà, lucida 20 comprensione degli altri e di sé medesimo viene scambiata per indifferenza,
Guicciardini nel tempo 4 537
interesse esclusivo per il proprio particolare da un uomo tutto inteso al dover essere, alla resurrezione della patria che ancor troppo gli sembra legata a quel passato. Comprendiamo il De Sanctis e le ragioni del suo nobile errore: ma chi dopo di lui ne ha ripetuto i giudizi, insistendo ancor più sulla limitazione, 25 anzi sulla condanna, del Guicciardini, si è allontanato ancor più dal vero e ha contribuito a diffondere un giudizio fortemente limitativo sul grande storico fiorentino, sulla sua personalità intellettuale e morale. Che resta quello di una delle menti più lucide e coraggiose del suo tempo, un ultimo portato della grande civiltà fiorentina di cui sono uno dei monumenti appunto i Ricordi.
Comprensione e analisi
Produzione
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’argomento affrontato da Fubini nel passo proposto? 2. Qual è la tesi sostenuta dal critico in merito all’argomento trattato? In quale punto del brano è formulata? 3. A cosa allude Fubini parlando di «polemica pedagogica» (r. 4) per il saggio di De Sanctis? Quale espressione contrappone a questa? 4. In che senso Fubini parla di «nobile errore» (r. 23) di De Sanctis rispetto a Guicciardini? Il passo critico riportato tocca il tema dell’interpretazione e del giudizio storiografico su autori e opere, che possono essere orientati diversamente a seconda del clima storico e culturale in cui vengono formulati, esprimendo così anche la sensibilità e la personalità dell’interprete che li elabora. Oltre a quello citato da Fubini a proposito di De Sanctis, conosci altri esempi che illustrano tale tema? Come valuti l’interpretazione di opere del passato secondo la prospettiva di chi le interroga e le giudica? Discuti il problema facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze, in un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Il Ricordo 141 (➜ T6 ) di Guicciardini è incentrato sul tema della totale assenza di comunicazione tra la politica e i cittadini, tra palazzo e piazza. Ritieni che tale mancanza di comunicazione tra governanti e governati costituisca ancora oggi un elemento di forte criticità e un significativo ostacolo alla circolazione delle informazioni e alla possibilità di una reale partecipazione dei cittadini alla vita politica? Rifletti sul problema facendo riferimento alle tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
538 Quattrocento e Cinquecento 9 Francesco Guicciardini
Il secondo Cinquecento
Guicciardini nel tempo 4 539
540
Il secondo Cinquecento
Scenari socio-culturali Manierismo e Controriforma
LEZIONE IN POWERPOINT
Due elementi caratterizzano il secondo Cinquecento: • la grave crisi politica che vede l’Italia ormai asservita alla Spagna e la conseguente decadenza della civiltà delle corti; • la Controriforma cattolica, che si definisce attraverso il Concilio di Trento (1545-1563). La Chiesa tenta di arginare le conseguenze della Riforma protestante attraverso un rigido controllo su ogni manifestazione del pensiero, cui è difficile sfuggire. È istituito, nel 1559, l’Indice dei libri proibiti. In pochi anni la libertà che in precedenza ha improntato i comportamenti sociali è superata dall’atteggiamento di obbedienza ai dettami della Chiesa controriformistica. Entra in crisi la visione rinascimentale dell’uomo e di conseguenza la visione della letteratura, dominata ora da esigenze normative e dalla ripresa del fine educativo. Questo sconvolgimento dà luogo al Manierismo, che investe in particolare l’arte, sovvertendo i canoni classicistici, ma anche le forme letterarie. Il Manierismo reinterpreta i modelli classici attraverso un’inquieta e moderna sensibilità.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
1 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 4 L’evoluzione della lingua 541
Il secondo Cinquecento Sguardo sulla storia Il quadro europeo Un periodo di crisi Negli ultimi decenni del Cinquecento inizia un periodo di crisi che investe vari ambiti: la società, la politica, la cultura. Inizia anche una recessione economica che si aggraverà successivamente. La decadenza della Spagna Nonostante le ricchezze provenienti dalle colonie, la Spagna si avvia alla decadenza, sia a causa delle ingenti spese per il mantenimento dell’apparato militare e burocratico necessario al controllo dei vasti domini, sia a causa della tendenza al lusso e alla dissipazione da parte di una nobiltà parassitaria, arroccata su antichi privilegi, in assenza di un ceto borghese capace di modernizzare l’economia. La Controriforma Dopo il Concilio di Trento (1545-1563), la Chiesa cattolica esercita un controllo ideologico negli stati governati da sovrani cattolici con il supporto
Cronologia interattiva 1560
1550 1555
Pace di Augusta tra l’imperatore Carlo V d’Asburgo e i principi tedeschi protestanti: affermazione del principio cuius regio eius religio.
1559
Pace di Cateau-Cambrésis, che pone fine al conflitto tra gli Asburgo e la Francia e sancisce il predominio della Spagna sull’Italia.
542 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
1563
Conclusione del concilio di Trento: condanna delle tesi luterane e definizione della riforma della Chiesa cattolica.
del tribunale dell’Inquisizione, reprimendo ogni manifestazione di dissenso nei confronti dei princìpi tridentini. Il complesso di iniziative volte, da un lato, a ripristinare l’autorità assoluta delle gerarchie ecclesiastiche in campo dogmatico (contro il Protestantesimo e gli altri movimenti riformatori) e ad affermare il rigoroso controllo delle coscienze e dei comportamenti e, dall’altro, a riportare la Chiesa ai princìpi evangelici è noto come “Controriforma” (o “Riforma cattolica”). Sostenitore del programma controriformistico in Europa è Filippo II di Spagna: la sua opposizione alla libertà di culto di protestanti e calvinisti nei Paesi Bassi sotto il suo dominio ne provoca la ribellione; la guerra si conclude con la proclamazione di indipendenza da parte delle Province Unite del Nord. Ha invece successo la lotta condotta dal re di Spagna contro l’avanzata dei turchi ottomani, sconfitti dalla Lega cattolica a Lepanto (1571). L’Italia durante la dominazione spagnola A partire dalla seconda metà del Cinquecento, gli stati italiani iniziano una fase di declino, conseguente alla pace di Cateau-Cambrésis (1559) che sancisce il dominio della Spagna sul ducato di Milano e sul regno di Napoli e ne determina il controllo sulla maggior parte della penisola. L’unico stato che mantiene la propria indipendenza è la Repubblica di Venezia, che però deve avvalersi dell’aiuto della Spagna contro l’avanzata turca nell’Adriatico. La Chiesa svolge un ruolo importante nell’ambito politico e nella vita sociale intervenendo, secondo il programma controriformistico, sull’educazione, l’arte e la cultura.
1570
1580
1571
Battaglia di Lepanto con la vittoria della Lega Santa delle forze cattoliche sugli ottomani.
1590
1581
Proclamazione di indipendenza dalla Spagna da parte delle Province Unite del Nord dei Paesi Bassi.
1588
1588 Sconfitta dell’Invincibile Armada di Filippo II di Spagna a opera della flotta inglese.
Sguardo sulla storia 543
1
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 L’eclissi della libertà di pensiero Un nuovo clima ideologico La visione del mondo, la mentalità e lo stesso immaginario artistico già negli ultimi decenni del Cinquecento sono condizionati dal nuovo clima ideologico che si viene a creare con la Controriforma: la Chiesa, come reazione alla Riforma protestante, intraprende una svolta autoritaria che in pochi decenni, in modo traumatico per le coscienze, limita fortemente il clima di libertà e tolleranza che aveva caratterizzato il Rinascimento. A determinare tale svolta assume un ruolo fondamentale il Concilio di Trento. Il concilio di Trento Convocato per superare le drammatiche conseguenze della Riforma protestante, il Concilio si svolge in varie riprese tra il 1545 e il 1563. Le posizioni del Concilio modificano profondamente il volto della Chiesa cattolica e incidono fortemente, di riflesso, sui comportamenti collettivi e sulla cultura stessa. Nel Concilio possono essere distinti due aspetti: la “riforma cattolica”, ossia i provvedimenti intesi a moralizzare la Chiesa, e la “contro-riforma” in senso stretto, cioè le disposizioni rivolte ad arginare l’influenza dei movimenti riformatori non cattolici. La distinzione tra cattolici e luterani viene tracciata in modo netto e si esclude ogni possibilità di riconciliazione con i protestanti. Le disposizioni conciliari, però, assumono ben presto il volto di una offensiva più generale nei confronti di ogni manifestazione di libero pensiero.
Lessico ortodossia Adesione integrale alle regole e/o ai principi di un’organizzazione o di un’ideologia.
La riorganizzazione della Chiesa La Chiesa viene riorganizzata secondo un rigido principio gerarchico. Per il clero diventa obbligatorio il celibato, la residenza nella propria parrocchia, l’esercizio delle funzioni religiose; inoltre si istituiscono i seminari per curarne la formazione e garantirne l’ortodossia . Così, in pochi decenni, la figura dei ministri del culto risulta profondamente trasformata: nel Medioevo e nel Rinascimento i papi e in generale molti religiosi conducono una splendida e dispendiosa vita mondana e spesso la loro condotta morale è tutt’altro che irreprensibile (basti l’esempio di papa Alessandro VI, padre del duca Valentino, reso famoso da Machiavelli); dopo il concilio di Trento invece i ministri del culto si presentano come un corpo compatto e disciplinato, meno esposto a critiche sul piano morale. L’Inquisizione e il capillare controllo della società L’intera società viene costretta a subordinarsi alle autorità ecclesiastiche: a numerose categorie di laici, come i medici e gli insegnanti delle università, è imposto un giuramento di obbedienza ai decreti della Chiesa triden-
Pasquale Cati, La Chiesa trionfante schiaccia l’eresia, sullo sfondo il Concilio di Trento, particolare di affresco, 1588 (Santa Maria in Trastevere, Roma).
544 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
tina. Una fitta rete di strumenti di controllo, legata all’Inquisizione, impedisce ogni deviazione dall’ortodossia. Occorre precisare che anche nelle chiese riformate, tra Cinquecento e Seicento, domina un clima di intolleranza, di fanatismo e il rifiuto di ogni manifestazione di pensiero dissidente. I tribunali dell’Inquisizione esistono già nel Medioevo, ma con la Controriforma la rete inquisitoria viene centralizzata: nel 1542 è istituita a Roma la sede del Sant’Uffizio, da cui sono fatte dipendere le sedi locali dell’Inquisizione. Proprio grazie a un’organizzazione capillarmente ramificata, la Chiesa può attuare un controllo sulla popolazione che nel tempo finisce per annullare gli spazi del libero pensiero. Su artisti e intellettuali che si discostano dalla linea ufficiale incombono infatti minacciosamente i processi e le condanne. Gli inquisitori, per lo più gesuiti e Domenicani, sono incaricati di valutare i casi di deviazione dottrinale, di eresia, magia e stregoneria. I gesuiti, “milizia di Cristo” Nel 1534 sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) aveva fondato la Compagnia di Gesù, che ai consueti voti ne aggiunge uno improntato allo spirito dell’epoca: il giuramento di obbedire al papa perinde ac cadaver (“come un cadavere”, cioè incondizionatamente). Il termine compagnia, appartenente all’ambito militare, evidenzia i caratteri del nuovo ordine, che Ignazio di Loyola, ex soldato, organizza come un esercito, con l’obbligo per gli appartenenti di assoggettarsi sempre e comunque ai superiori. Disciplinati e obbedienti, più inclini all’azione che alla solitaria meditazione, i gesuiti combattono una vera e propria guerra per l’affermazione della Chiesa cattolica nel mondo, perché ad essa sia ricondotta ogni manifestazione di dissidenza e per diffondere, come missionari, la parola del Vangelo nei luoghi più remoti della Terra (vere e proprie colonie furono create in America Latina); ma anche per guidare il popolo attraverso la predicazione e per consigliare i potenti. L’arma principale dei gesuiti è la parola: espertissimi nella retorica, accuratamente coltivata nelle loro scuole (➜ SCENARI, PAG. 555), essi sanno conquistare abilmente l’animo dei fedeli.
VERSO IL NOVECENTO
I confessori, «doganieri delle coscienze» Sulla massa della popolazione il controllo delle coscienze viene esercitato dai confessori, «doganieri delle coscienze» (come li definisce lo storico Adriano Prosperi), incaricati di riferire al Sant’Uffizio i casi di sospetta eresia e di miscredenza: durante la confessione, i ministri del culto devono chiedere ai fedeli se tengano in casa libri proibiti o se conoscano chi ne ha; online oppure se, per qualche ragione, sospettino di eresia i propri T1 Franco Cardini parenti e conoscenti. Si comprende come, in questo clima di La confessione di una strega: Gostanza di sospetto e di delazione, possa trovar posto un tragico fenomeLibbiano Gostanza, la strega di San Miniato no come la “caccia alle streghe”.
La chimera di Sebastiano Vassalli La chimera, romanzo pubblicato da Sebastiano Vassalli (1941-2015) nel 1990, prende spunto dalla vicenda, realmente avvenuta nel novarese, di Antonia, arsa sul rogo come strega poco più che ventenne nel 1610. Come spesso accadeva per le donne accusate di stregoneria, Antonia si distingueva dalle altre: era una ragazza dalla particolare bellezza e dalla nascita irregolare, essendo una trovatella; inoltre, il suo carattere fiero e appassionato le impediva di conformarsi alla mentalità ristretta
dei compaesani. Cominciò così a suscitare dei sospetti, che sfociarono in un’accusa all’Inquisizione in grado di segnare la sua sorte. Il libro ricostruisce la vicenda della sfortunata ragazza, mostrandone la grande forza morale nel sostenere, di fronte agli inquisitori, le sue opinioni di semplice e ingenua popolana; capace però, nonostante la giovane età e il periodo oscuro in cui ebbe il destino di vivere, di concepire una personale opinione sul mondo.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 545
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
La caccia alle streghe: una pagina oscura della storia La persecuzione delle streghe riguarda non tanto il Medioevo, come si potrebbe pensare, quanto l’età della Controriforma, raggiungendo il suo apice nel cinquantennio compreso tra il 1570 e il 1620. Già verso la fine del Quattrocento (nel 1496) fu pubblicato, a opera di due domenicani tedeschi, il tristemente noto Malleus maleficarum (Il martello delle streghe), un manuale usato nel tempo dagli inquisitori, che delineava la figura della strega: ciò che fino ad allora era soltanto nell’immaginazione di quanti credevano all’esistenza di malefici infine assumeva i caratteri inquietanti di una pretesa realtà. Con la Controriforma, la cosiddetta caccia alle streghe, compiuta in nome dell’ortodossia cattolica (ma la persecuzione della stregoneria ci fu anche in campo protestante) divenne un fenomeno molto diffuso e drammatico. Chi erano le persone accusate di stregoneria? Prima di tutto, erano donne: i dati dei processi per stregoneria tenuti in Europa tra Cinque e Seicento documentano percentuali del sesso femminile superiori all’80%, e anche le testimonianze iconografiche riportano soprattutto immagini femminili. Per quali ragioni? In primo luogo, perché le donne erano più im-
NUCLEO Costituzione COMPETENZA 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
plicate in attività, come ad esempio la preparazione dei cibi, che avrebbero potuto favorire le supposte pratiche magiche. Le donne erano inoltre temute perché, secondo la severa morale religiosa dell’epoca, suscitavano la tentazione della lussuria. Le donne sospettate di essere streghe erano per lo più sole, nubili o vedove, quindi non protette da una rete familiare, e spesso mostravano un carattere indipendente, considerato inaccettabile in un’epoca in cui l’obbedienza era il valore supremo. Pettegolezzi e liti anche banali tra vicini di casa, soprattutto nei piccoli paesi, sfociavano dunque assai spesso in accuse di stregoneria. Le presunte streghe erano in genere accusate di aver stretto un patto con il diavolo, prestandosi come sue alleate nella diffusione del male. I processi contro le streghe si concludevano per lo più con la condanna a morte, dopo confessioni estorte con la tortura. Emblematico per comprendere come la caccia alle streghe incidesse sull’immaginario popolare è anche il caso, analizzato dallo storico Franco Cardini, di Gostanza da Libbiano, una levatrice di San Miniato che alla confessione, estorta con la tortura, aggiunse una serie di fantasiosi racconti, rivelando una formidabile immaginazione.
Esercitare le competenze spunti per la riflessione
1. Dividete la classe in gruppi e cercate documentazione sulla caccia alle streghe tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento e sul perché fossero le donne ad essere condannate e in particolar modo in quali paesi dell’Europa. 2. Create un documento di lavoro che sia o discorsivo o schematico da condividere con la classe. 3. Condividete il risultato della vostra ricerca che contenga anche immagini con il docente e con gli altri componenti della classe.
Sguardo sul cinema Streghe, inquisitori, eretici Dies Irae Uno dei film più importanti sulla figura della strega e sulla sua persecuzione è Dies Irae (1943) del regista danese Carl Theodor Dreyer (1889-1968). Si tratta di un film estremamente moderno per l’epoca in cui è stato realizzato, soprattutto per la profondità psicologica con cui analizza la figura della presunta strega Anne. Il regista lascia volutamente aperta la questione se davvero la protagonista sia una figura amorale e diabolica o la vittima predestinata di un mondo ostile e dominato dal sospetto.
Un caso italiano: la strega Gostanza Un’interessante pellicola sulla stregoneria e sull’Inquisizione è Gostanza da Libbiano (2000) di Paolo Benvenuti. Il film, ambientato negli ultimissimi anni del Cinquecento, ha come protagonista la tessitrice Gostanza che, rimasta vedova, viene accusata di stregoneria ed arrestata. Dapprima Gostanza si dichiara innocente, poi confessa le proprie colpe. Il film richiama le atmosfere angosciose di quel tempo. La locandina del film Gostanza da Libbiano.
Una scena dal film Dies Irae (1943) di C.T. Dreyer
546 IL seCondo CInqueCento Scenari socio-culturali
2 La crisi dei valori rinascimentali Lessico sincretismo Fusione di idee religiose o filosofiche di origini diverse.
Presunto ritratto di Michel de Montaigne.
La sfiducia nella ragione L’influenza della Controriforma si traduce in un quasi totale rovesciamento dei valori rinascimentali. Il pensiero umanistico valorizzava la ragione, ritenendola capace di percorrere la distanza tra l’uomo e Dio. Proprio la fiducia nella ragione fu alla base del clima di tolleranza e di sincretismo religioso del Rinascimento: pensatori come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola riconoscevano nelle diverse filosofie e religioni un comune nucleo razionale, sulla cui base pensavano di poter giungere a una pacificazione religiosa universale. Tale illusione viene drammaticamente infranta dai gravi conflitti religiosi sorti con la riforma luterana. Insieme ad altri fattori, come il traumatico crollo della secolare visione del mondo fondata sulla filosofia aristotelica e il clima oppressivo della Controriforma, i conflitti religiosi contribuiscono a vanificare il ruolo di conciliazione universale della ragione. Dal secondo Cinquecento, la sfiducia nella ragione accomuna protestanti e cattolici: gli uni la giudicano debole e insufficiente e le antepongono la fede; gli altri le sostituiscono un’obbedienza assoluta alla Chiesa controriformistica. Il rovesciamento dell’ottimismo rinascimentale Con la Controriforma, l’ottimismo rinascimentale entra in crisi: in nome di una visione della realtà ispirata a severi valori cristiani, non si esalta più l’umanistica virtù dell’uomo, ma si sottolinea la sua inclinazione al peccato; non la grandezza, insomma, ma i limiti. Nei suoi Esercizi spirituali, il fondatore dell’ordine dei gesuiti Ignazio di Loyola (1491-1556) suggerisce ai fedeli di meditare sulla nullità dell’essere umano. Ma anche un pensatore laico come Michel de Montaigne (1533-1592) delinea un’immagine dell’uomo che si discosta da quella rinascimentale, descrivendolo come la più «miserabile e meschina creatura» (➜ D1 ). Ovviamente, nell’incrinare le fiducie rinascimentali ha un ruolo determinante anche la situazione storica, che vede la rapida decadenza dell’Italia delle corti rinascimentali in seguito al controllo della Spagna su ampia parte della penisola, sancito con la pace di Cateau-Cambrésis (1559). Si diffonde, così, la percezione angosciosa di una crisi destinata ad aggravarsi nel Seicento. L’inconciliabilità tra valori laici e valori cristiani Se nel Rinascimento era possibile conciliare i princìpi etici della classicità con quelli cristiani, ora tale eventualità è decisamente negata. Non a caso è sancita una netta separazione tra “sacro” e “profano”, abitualmente associati nella cultura umanistico-rinascimentale: nella pittura del Rinascimento le scene sacre erano frequentemente collocate su uno sfondo naturale e spesso accoglievano personaggi estranei alle Scritture, come a Firenze era accaduto per esponenti della famiglia Medici. Dopo il concilio di Trento, nelle opere di soggetto religioso non sono, invece, più tollerati dettagli che non corrispondano ai testi sacri. Gli artisti che non si conformano a tali disposizioni sono sottoposti a processi.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 547
La svalutazione della dimensione terrena e la demonizzazione del piacere Nell’età controriformistica si rifiutano gli elementi fondamentali del naturalismo rinascimentale: nella bellezza della natura non si vede più una manifestazione del divino, come nel neoplatonismo rinascimentale, ma una fonte pericolosa di seduzioni peccaminose; la vita terrena viene svalutata rispetto alla dimensione spirituale-religiosa; viene demonizzata la dimensione del corpo e condannata senza appello l’attrazione del piacere dei sensi. All’invito a godere lietamente la giovinezza, presente nella celebre ballata di Lorenzo il Magnifico, possono essere significativamente contrapposte le cupe esortazioni di Ignazio di Loyola, nei già citati Esercizi spirituali, a spegnere ogni inclinazione al piacere: «qualunque pensiero di gioia e letizia è di ostacolo al sentir pena, dolore e lacrime per i nostri peccati; prefiggermi, invece, di voler sentire dolore e pena, traendo piuttosto alla memoria la morte, il giudizio». La censura nella rappresentazione artistica del corpo Considerata dalla Controriforma un fondamentale veicolo ideologico, l’arte fu sottoposta a rigide direttive, applicate con crescente severità. Non solo la rappresentazione del corpo nudo fu proibita, ma venne anche “censurata” nelle opere rinascimentali in cui era presente: il caso più clamoroso, data l’importanza e la notorietà dell’opera, fu quello delle figure michelangiolesche del Giudizio nella cappella Sistina, ricoperte dal pittore Daniele da Volterra (ca. 1509-1566), che ne ricavò il soprannome di “Braghettone” (➜ ARTE NEL TEMPO, PAG. 566).
Elementi della visione del mondo nel secondo Cinquecento Sfiducia nella ragione
non si ritiene più strumento di risoluzione dei conflitti, in particolar modo di quelli religiosi
Caduta dell’esaltazione della virtù dell’uomo
entra in crisi l’ottimismo rinascimentale
Separazione netta tra sacro e profano
non è più possibile conciliare i principi della classicità con quelli cristiani
Svalutazione della vita terrena
viene condannato il piacere e demonizzato il corpo
548 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
Michel de Montaigne
L’uomo, la più miserabile delle creature
D1
Saggi II, xii Nel suo capolavoro, i Saggi, de Montaigne riflette su come l’ottica antropocentrica della filosofia rinascimentale fosse determinata dalla vanità dell’uomo, la più fragile e, al contempo, la più superba delle creature.
M. de Montaigne, Saggi, a c. di F. Garavini, Adelphi, Milano 1996
Consideriamo dunque per ora l’uomo solo, senza soccorso esterno, armato delle sue sole armi e sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, che è tutto il suo onore, la sua forza e il fondamento del suo essere. Vediamo quanto egli possa resistere in questo bello stato. Che egli mi faccia capire con la forza del suo ragio5 namento su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che pensa di avere sulle altre creature. Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo1, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? È possibile immaginare qualcosa di tanto 10 ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di sé stessa ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell’universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla? E quel privilegio che si attribuisce, di essere cioè il solo in questa gran fabbrica2 ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza e le parti, il solo a 15 poter renderne grazie all’architetto3 e tener conto del bilancio del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? Ci mostri le credenziali4 di questo grande e bell’ufficio. […] La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa5 e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. 1 fiaccole… capo: le stelle. 2 fabbrica: costruzione (dell’universo). 3 architetto: creatore. Nell’Oratio de hominis dignitate, Pico della Mirandola sostiene che Dio abbia creato l’uomo come
unica creatura capace di comprendere e ammirare la perfezione dell’universo. 4 le credenziali: termine del linguaggio burocratico, qui usato con ironia; sono i documenti attestanti che il mondo è di
proprietà dell’uomo e le prove che Dio ha creato il mondo per l’uomo. 5 calamitosa: sventurata, debole.
Concetti chiave Il superamento dell’antropocentrismo
Nelle incalzanti domande che si pone Montaigne (ma che di fatto pone all’uomo che si crede signore dell’universo) è evidente un rovesciamento dell’antropocentrismo umanistico-rinascimentale. Montaigne sfida a dimostrare, attraverso argomentazioni razionali, la superiorità dell’uomo. Al contrario, è evidente la fragilità dell’essere umano e i limiti della sua capacità di conoscere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il pensiero espresso da Montaigne nel testo in max 5 righe. ANALISI 2. Rintraccia nel testo le espressioni che sottolineano l’“indegnità” dell’uomo.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 3. Il brano si può contrapporre all’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola (➜ SCENARI PAG. 60, D14 ). Immagina e scrivi la replica in cui l’umanista (anche sotto forma di lettera) sostenga le proprie convinzioni rispetto a quelle enunciate dal pensatore francese.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 549
3 La concezione dello spazio geografico Dopo le scoperte geografiche: i nuovi mondi nell’immaginario del tempo Dopo la metà del secolo si accetta ormai il fatto che esistano nuovi mondi, ben diversi dai territori fino ad allora conosciuti, e si inizia a prendere coscienza di una nuova geografia del globo terrestre, grazie alle relazioni dei navigatori e dei primi missionari inviati per evangelizzare le nuove terre. L’importanza storica ed economica delle scoperte geografiche è grandissima e in seguito ad esse inizia a delinearsi una nuova visione “geo-antropologica” che sottolinea la diversità costituzionale delle nuove realtà sia riguardo al paesaggio naturale sia (soprattutto) in relazione ai suoi abitatori. Se la “diversità” del paesaggio suscita la stupita ammirazione degli esploratori per una natura vergine e lussureggiante, l’incontro con popoli di cui non si era neppure sospettata l’esistenza mette in crisi molte certezze, prima fra tutte il racconto biblico e la convinzione che il sacrificio di Cristo avesse redento tutta l’umanità. Come considerare popolazioni primitive fino ad allora ignote e ignare del messaggio cristiano? Degli indigeni per lungo tempo è prevalsa l’idea dell’“inferiorità” (soprattutto in rapporto alla nudità e alle abitudini sessuali totalmente libere). L’inferiorità degli autoctoni si misura nel rapporto obbligato con la civilizzata Europa, secondo una prospettiva che oggi definiremmo eurocentrica e che era di certo storicamente spiegabile a quei tempi. L’adozione comune di questo punto di vista giustificherà, in modo implicito, lo sfruttamento e a volte l’annientamento di intere popolazioni praticato dalle potenze europee nelle nuove terre (vengono distrutte antichissime civiltà come quella azteca e quella inca) e anche il sistematico assoggettamento ideologico e religioso degli abitanti, considerato dagli europei come un compito doveroso, una specie di missione: gli indigeni erano infatti visti come pericolosi selvaggi proprio perché ignari della vera fede. Può essere testimonianza del sentire comune dell’epoca un’ottava della Gerusalemme liberata (XV, ott. 28), in cui la Fortuna guida due crociati, Carlo e Ubaldo, alle occidentali isole Fortunate e profetizza loro la futura scoperta dell’America. Gli amerindi sono rappresentati, secondo uno stereotipo allora diffusissimo, come empi e barbari, dediti a crudeli riti pagani, e pure cannibali.
Gli soggiunse colei1: – Diverse bande2 diversi han riti ed abiti e favelle3: altri adora le belve4, altri la grande comune madre, il sole altri e le stelle; 5 v’è chi d’abominevoli vivande le mense ingombra scelerate e felle5. E ’n somma ognun che ’n qua da Calpe siede6 barbaro è di costume, empio di fede. 1 colei: la Fortuna. 2 bande: regioni. 3 favelle: lingue.
4 altri… belve: alcuni adorano le belve. 5 d’abominevoli… felle: riempiono la tavola di cibi abominevoli, scellerati e cru-
550 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
deli (cioè praticano il cannibalismo). 6 ’n qua da Calpe siede: si trova al di là di Gibilterra.
L’accettazione del “diverso” Appare di sorprendente modernità la posizione del grande scrittore francese Michel de Montaigne (1533-1592) che, nel capitolo XXI del primo libro dei suoi Essais (Saggi), fa riferimento ai nuovi popoli che le esplorazioni geografiche avevano scoperto. Alla generale preclusione di fronte a individui considerati costituzionalmente inferiori, Montaigne contrappone una posizione relativistica e la saggia accettazione di chi appare “diverso” agli occhi di una civiltà che si è molto allontanata dalla felice condizione naturale. Scrive Montaigne: «[…] Ora mi sembra, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e utili e naturali virtù e proprietà, che invece noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto».
4 I valori e i modelli di comportamento La virtù dell’obbedienza accomuna sudditi e regnanti Nel mutato contesto religioso e culturale, la principale virtù è l’obbedienza. Ignazio di Loyola inserisce, nei suoi Esercizi spirituali (n. 365), la raccomandazione di obbedire sempre alla Chiesa, «che ci governa e regge per la salvezza delle anime nostre»: perciò, egli afferma, se vediamo il bianco, dobbiamo «credere che è nero, se la Chiesa gerarchica così lo determina». L’obbedienza alla Chiesa era considerata la prima virtù anche per i regnanti. Il gesuita Giovanni Botero (1544-1617), nel suo trattato Della ragion di Stato (1589), sostiene che un buon principe dovrebbe essere in primo luogo obbediente alla Chiesa. È evidente il contrasto con la visione machiavelliana, incentrata sull’idea di una virtù laica, del tutto svincolata dalla morale religiosa. Machiavelli, tuttavia, non è assente dal quadro ideologico dell’epoca: sebbene, per prudenza, non sia quasi mai citato, le sue idee vengono spesso riprese in modo dissimulato. Lo stesso concetto di “ragion di Stato” deriva in ultima analisi dalla concezione machiavellica: nel proprio trattato Botero, quando detta le norme della vita politica e delinea lo Stato perfetto, non fa che sancire, edulcorandolo, l’assolutismo (➜ D2 ). Il ruolo sempre più marcato dell’apparire Nel secondo Cinquecento, il controllo dell’Inquisizione deprime ogni vivacità culturale: poiché esprimere liberamente le proprie opinioni diviene rischioso, cessano le appassionate discussioni intellettuali di un tempo. Timorosi di lasciar trasparire le proprie opinioni, i cortigiani divengono sempre più simili ad attori che recitano un ruolo stereotipato; la vita di corte, regolata da ferree regole di etichetta, si riduce a un’ostentazione di fasto e di potere. In tale elitario microcosmo sociale, spentosi l’interesse per il dialogo e il dibattito culturale, appare più importante apparire che essere: in questo senso la società cortigiana di quest’epoca è stata da alcuni sociologi paragonata all’odierna società mediatica.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 551
Giovanni Botero
Il principe assoluto deve umiliarsi davanti a Dio
D2
Della ragion di Stato, II, xv Verso la fine del Cinquecento, nel clima politico e culturale della Controriforma, spetta nuovamente alla Chiesa (così come nella teocrazia medievale) la legittimazione del potere e delle scelte dei politici, di cui vengono controllate da vicino la moralità e l’ortodossia. In questo passo, tratto dal XV capitolo del suo fortunato trattato Della ragion di Stato (1589), Giovanni Botero evidenzia il necessario e stretto rapporto che deve intercorrere tra potere politico e religione: solo se il principe seguirà i princìpi della religione cattolica, lo stato di cui è alla guida potrà essere stabile. Già da trent’anni, cioè dal 1559, Il Principe di Machiavelli era stato inserito dalla chiesa di Roma nell’Indice dei libri proibiti.
G. Botero, Della ragion di Stato, a c. di L. Firpo, UTET, Torino 1948
Deve dunque il prencipe di tutto cuore umiliarsi innanzi la Divina Maestà e da lei riconoscere [ammettere di aver ricevuto] il regno e l’obedienza de’ popoli; e quanto egli è collocato in più sublime grado sopra gli altri, tanto deve abbassarsi maggiormente nel cospetto di Dio, non metter mano a negozio [non dare inizio a un affare], 5 non tentar impresa, non cosa nissuna, ch’egli non sia sicuro esser conforme alla legge di Dio. Il perché [Il motivo è perché] l’istesso Dio commanda al re, che abbia presso di sé copia della sua santa legge [le Sacre Scritture] e che l’osservi sollecitamente […]. Per lo che sarebbe necessario che il prencipe non mettesse cosa nissuna in deliberazione nel conseglio di Stato, che non fosse prima ventillata [esaminata] 10 in un conseglio di conscienza, nel quale intervenissero dottori eccellenti in teologia e in ragione canonica [ispirata dalle norme del diritto canonico], perché altramente caricarà la conscienza sua e farà delle cose, che bisognerà poi disfare se non vorrà dannare l’anima sua e de’ successori. [...] La religione è fondamento d’ogni prencipato, perché, venendo da Dio ogni podestà [potere] e non si acquistando la grazia e 15 ’l favor di Dio altramente che con la religione, ogni altro fondamento sarà rovinoso.
Concetti chiave Una nuova prospettiva sui regnanti
Il testo di Botero, come si evince anche da questo breve passo, è concepito in voluta contrapposizione al Principe di Machiavelli: in particolare costituisce un dialogo critico con la parte più nota del libro, dedicata appunto alle virtù e ai comportamenti di chi governa. La differente concezione dell’operato del principe deriva dall’adozione della prospettiva religiosa, in contrapposizione netta alla visione laica dell’opera dell’autore toscano. Per Botero, il principe deve umiliarsi di fronte a Dio e operare secondo le leggi del Vangelo o meglio secondo i consigli della Chiesa. Il principe dovrebbe essere assistito da figure che, con la loro autorevole conoscenza della teologia e del diritto canonico, alleggeriscano la sua coscienza.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il pensiero dell’autore espresso nel testo. COMPRENSIONE 2. Qual è il rischio che corre il principe se non segue ciò che afferma Botero?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 3. Confronta quanto scritto da Botero con quanto contenuto nel Principe di Machiavelli (➜ C8).
552 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
decadenza delle corti e la trasformazione del ruolo 5 La e dell’identità dell’intellettuale La decadenza delle corti Nella seconda metà del Cinquecento, anche e soprattutto in rapporto alla situazione politica, tramonta il ruolo della corte come centro di aggregazione degli intellettuali e di promozione di modelli culturali: non è un caso che figure di spicco come Bembo e Castiglione si spostino a Roma, unico centro (insieme a Venezia) a mantenere una propria autonomia politica e culturale, grazie alla presenza della corte pontificia. Dal “cortigiano” al “segretario” A partire dal secondo Cinquecento, il ruolo dell’intellettuale umanista – centrale, in Italia, nella civiltà del Rinascimento e delle corti – decade vistosamente. Il prevalere dei regimi assolutistici fa apparire ormai anacronistica la figura delineata dal fortunato trattato del Castiglione che, con la sua saggezza e la sua cultura, guidava e consigliava il signore. Al cortigiano sempre più si sostituisce la figura del segretario, dedito a funzioni esclusivamente burocratiche e caratterizzato da obbedienza, discrezione, segretezza. Un fortunato trattato di Francesco Sansovino, Il secretario (1564), primo di una tipologia in seguito molto diffusa, delinea appunto il ruolo ormai subalterno del letterato: tenuto all’oscuro dei segreti della politica, esercita la propria abilità retorica nella scrittura di lettere e documenti in uno stile ampolloso. Le accademie Con la decadenza delle corti e del modello culturale a esse connesso, sono le accademie gli ambiti in cui si polarizza l’organizzazione culturale. Nelle accademie gli intellettuali ricercano quel ruolo e quelle sicurezze che erano venute meno nelle corti. Già nel periodo umanistico-rinascimentale ne esistevano, ma dal secondo Cinquecento in poi si moltiplicano: da luoghi di dibattito intellettuale tendono ora però a trasformarsi in strutture chiuse, in cui domina una visione rigidamente classicistica e precettistica della letteratura.
Le istituzioni culturali Religiose
• il tribunale dell’Inquisizione • i gesuiti
Laiche
accademie letterarie
Nel 1573 il pittore Paolo Veronese è accusato di aver dipinto un’Ultima cena non strettamente conforme al racconto evangelico, perché, secondo il costume rinascimentale, somigliava piuttosto a un fastoso banchetto mondano. Al pittore venne ingiunto di modificare l’opera. Egli tuttavia riuscì a cavarsela semplicemente cambiando il titolo, ribattezzata con una meno impegnativa Cena in casa di Levi (part., Galleria dell’Accademia, Venezia).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 553
2
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Copernico e la teoria eliocentrica
Lessico eliocentrismo Modello astronomico che pone il Sole al centro del sistema planetario; si oppone al “geocentrismo”, che al centro poneva invece la Terra.
online
Per approfondire
PER APPROFONDIRE
Il disorientamento conoscitivo e la perdita delle certezze
Scoperte decisive Nuovi orizzonti si aprono in campo astronomico e nell’immagine del cosmo grazie alle intuizioni dello scienziato polacco Niccolò Copernico (1473-1543). Nel suo De revolutionibus orbium coelestium (Le rivoluzioni dei mondi celesti, 1543), fondato su precise ricerche matematiche, Copernico formula l’ipotesi, a quel tempo incredibilmente audace, dell’eliocentrismo , contestando il geocentrismo tolemaico, secondo cui la Terra si trovava immobile al centro dell’universo. Alla tesi di Copernico seguiranno ben presto le intuizioni di Tycho Brahe, Keplero e soprattutto di Galileo, destinate a sconvolgere gli orizzonti conoscitivi nella seconda metà del Cinquecento e all’inizio del Seicento. Se le scoperte geografiche trasformano in pochi decenni, come si è detto, l’immagine dello spazio terrestre, ancor più sconvolgente sarà l’effetto sull’immaginario della rivoluzione copernicana (ma occorre precisare che si realizzerà pienamente soprattutto nel Seicento): rivelando che la Terra non è al centro dell’universo, Copernico faceva crollare l’armoniosa costruzione del cosmo tolemaico e metteva in crisi l’orgogliosa visione antropocentrica su cui si era fondato il modello culturale rinascimentale. Dal paradigma tolemaico a quello copernicano Bisogna osservare però che, con il De revolutionibus orbium caelestium, Copernico non si proponeva affatto di rivoluzionare la cosmologia. Innanzitutto il suo universo era ancora “finito” e geometricamente ordinato, ma soprattutto era ancora permeato di un significato teologico: il sole, immaginato da Copernico con tratti antropomorfici al centro dell’universo, era considerato come la più vera immagine di Dio (secondo la concezione propria del neoplatonismo, di cui Copernico era cultore).
La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie Il pensiero di essere smarriti su una terra in movimento, in un universo senza ordine e armonia, determina una crisi profonda delle coscienze, testimoniata nel poema L’anatomia del mondo del 1611, del poeta metafisico inglese John Donne (1572-1631). Con penetrante immaginazione, il poeta vede dissolversi l’antico universo gerarchicamente ordinato (come l’armonica costruzione dell’universo dantesco) in una massa scomposta di atomi; e anche l’ordine sociale, considerato nel Medioevo come un riflesso di quello cosmico, vede cadere il proprio fondamento metafisico: «Tutto è in frantumi, ogni coesione è svanita, ogni equità e ogni relazione». Da allora, pensatori, filosofi e scrittori – da Shakespeare (per Amleto, il tempo è scardinato, la terra un «promontorio sterile», il firmamento «una massa lurida e pestifera di vapori»), a Pascal, a Leopardi (nella Ginestra la Terra, perduta negli immensi
554 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
spazi cosmici, è un «oscuro granel di sabbia») – hanno individuato nella distruzione del cosmo antropocentrico l’origine di una crisi delle certezze che ha investito nel profondo tutta la cultura moderna, con riflessi fin nel Novecento, in cui Freud, nella Introduzione alla psicoanalisi (lezione XVIII), definisce il copernicanesimo come una mortificazione all’amore di sé per l’umanità, che si vede spodestata dal centro dell’universo; mentre, in una celeberrima pagina del suo romanzo Il fu Mattia Pascal (1904) nella Premessa seconda (filosofica), a mo’ di scusa, Pirandello mette in relazione la crisi di valori del mondo contemporaneo con l’influenza delle teorie copernicane che, mostrando l’insignificanza della Terra («un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché») avevano tolto significato alle vicende degli uomini che la abitano (➜ V3A).
Di fatto, però, l’ipotesi copernicana, allontanando la Terra dalla posizione al centro dell’universo, diede l’avvio a una serie di conseguenze che avrebbero condotto a dubitare dell’intero sistema e, andando ben oltre l’ipotesi di Copernico, avrebbero disgregato in pochi decenni l’immagine aristotelico-tolemaica dell’universo.
2 La pedagogia dei gesuiti I princìpi della Ratio studiorum Nell’epoca della Controriforma, i gesuiti detengono il monopolio dell’istruzione. I loro collegi, organizzati unitariamente secondo una Ratio studiorum, cioè un organico piano di studi, sono frequentati non soltanto da futuri membri dell’ordine, ma anche da giovani delle classi dirigenti, destinati alla carriera diplomatica o militare. I gesuiti coltivano a livello eccellente tutti i campi del sapere, umanistico e scientifico, badando però a che gli studi non stimolino lo spirito critico degli studenti e non mettano in discussione il principio di autorità e l’obbedienza ai dettami della Chiesa che costituiscono i fondamenti della pedagogia gesuitica. Secondo la Ratio studiorum, obiettivo principale dell’insegnante era quello di «condurre i suoi allievi all’obbedienza e all’amore di Dio». Ma come distogliere gli studenti dall’apprezzare autori che li avrebbero condotti sulla strada dell’eresia o comunque di una non perfetta ortodossia? La Ratio studiorum suggeriva agli insegnanti il rimedio: screditarli con mezzi abili e sottili, tipici di una pedagogia tanto raffinata quanto subdola, dimostrando che quel che avessero detto di buono l’avevano desunto da altri.
Rembrandt, Il predicatore Cornelis Claeszoon Anslo con la moglie Aeltje Schouten, 1641 (Gemäldegalerie, Berlino).
La riproposizione del principio di autorità Le due autorità fondamentali per i gesuiti erano Aristotele per la filosofia e san Tommaso per la teologia. Gli autori classici erano studiati in modo approfondito, ma disgiunti dai valori di libertà e senso critico che avevano caratterizzato l’ottica umanistica; se ne dovevano soprattutto ricavare insegnamenti di stile, per ottenere una sicura padronanza dell’arte retorica: dalle scuole dei gesuiti, infatti, dovevano uscire innanzitutto predicatori e missionari, capaci di padroneggiare perfettamente il linguaggio e di renderlo persuasivo. I gesuiti coltivavano anche le discipline scientifiche e alcuni di loro possedevano una notevole preparazione in matematica e fisica. Anche in questo campo, tuttavia, il principio di autorità poneva un freno alle innovazioni: non potendo mettere in discussione Aristotele, gli scienziati dell’ordine non potevano che rifiutare la rivoluzione copernicana (e infatti fu proprio un Gesuita, il cardinale Bellarmino, a suggerire il decreto anticopernicano del 1616). E se gli insegnanti fossero risultati «troppo aperti alle novità o di spirito troppo libero»? Il rimedio era chiaramente indicato nella Ratio studiorum: «rimuoverli senza esitazioni dall’insegnamento». Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 555
3
Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 1 Oltre il classicismo rinascimentale: il Manierismo Il Manierismo tra imitazione dei modelli e “trasgressione” Verso la metà del Cinquecento – e grosso modo fino all’ultimo decennio del secolo – si riscontra un mutamento nell’arte e nella letteratura in cui si manifesta la crisi dell’ottimismo rinascimentale (di cui si è parlato) e che corrisponde a un nuovo modo di vedere la realtà. Per definirlo e definire le espressioni artistico-letterarie che ne conseguono è entrato nell’uso il termine Manierismo. Impiegato prima, e secondo alcuni interpreti più correttamente, in ambito soltanto artistico, più recentemente è stato esteso anche all’ambito letterario: vi definisce la letteratura del secondo Cinquecento nei suoi aspetti di sperimentalismo rispetto alle forme assunte durante il Rinascimento; in altri termini: si verifica una forte tendenza a sottoporre i materiali della tradizione letteraria alla ricerca di inedite combinazioni. Il termine “Manierismo” deriva da “maniera”, sinonimo di “stile” proprio di un artista ed è impiegato in particolare da Giorgio Vasari (1511-1574) per indicare il quid dei lavori di grandi personalità come Raffaello e Michelangelo, in grado di raggiungere ormai il massimo della perfezione, a tal punto che coloro che li avrebbero seguiti non avrebbero potuto che imitare la loro arte anziché la natura. Da sempre si riteneva che l’arte fosse imitazione della natura; ora il modello proposto è l’arte, perché divenuta perfetta: da qui l’obbligo di seguire lo stile e la lingua di grandi autori. L’obiettivo di artisti e autori del Manierismo era da una parte imitare lo stile dei grandi maestri, dall’altra contestare la perfezione formale a favore di una deformazione dei modelli e una esagerazione espressiva. Il tratto prevalente del Manierismo è la ricerca dell’ideale e l’allontanamento da esso con una contestazione interna: il modello non viene totalmente rifiutato, viene invece deformato. Già nel Settecento, “Manierismo” acquista un significato negativo, che si è mantenuto a lungo (tuttora è parzialmente esistente) e diventa sinonimo di un’arte artificiosa, convenzionale, che imita senza ricerca di originalità autonoma. L’infrazione dell’armonia e dell’equilibrio In realtà, per artisti e scrittori del tardo Cinquecento non è così: i modelli permangono (anche perché ai grandi esempi del passato si guarda come a un sicuro baluardo a cui fare riferimento) ma vengono assunti in modo originale. Di fronte alla crisi politica, morale e culturale del tempo si infrangono gli ideali di armonia, di equilibrio propri dell’arte rinascimentale; se ne esasperano e deformano, quindi, le caratteristiche salienti: le citazioni dai grandi sono inserite in contesti stranianti, in atmosfere irreali, in cui le figure si contorcono in posizioni innaturali, a esprimere una visione problematica, se non addirittura drammatica, della condizione umana. In ambito artistico, il Manierismo è una tendenza propria di pittori come Pontormo (1494-1557), Rosso Fiorentino (1494-1540), Giulio Romano (1499-1546), Tintoretto (1518-1594) e altri ancora.
556 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
È piuttosto recente, come si è detto, l’estensione della categoria alla letteratura per scrittori che, come Tasso, non rifiutano le regole e i modelli classici, ma li interpretano appunto in modo innovativo, alla luce di una moderna, inquieta sensibilità. Ne è un esempio la Gerusalemme liberata, che si può considerare un’opera manieristica perché, pur riprendendo i modelli classici dell’Eneide e dell’Iliade, è ormai ben lontana dall’armonia rinascimentale ed esprime a più livelli la crisi spirituale dell’età controriformistica. Il poema di Tasso dà molto spesso spazio, inoltre, a scene notturne affini a quelle della pittura manieristica: si pensi all’episodio della morte di Clorinda o della fuga di Erminia, che possono ricordare la pittura di Tintoretto; o a prospettive spaziali labirintiche e irregolari, tipicamente manieristiche, come quelle del giardino di Armida.
IMMAGINE INTERATTIVA
Tra le caratteristiche della pittura manieristica c’è l’abbandono della struttura unitaria dello spazio e della prospettiva centrale del Rinascimento, mentre sono privilegiati punti di vista periferici e inconsueti; le figure umane, spesso innaturalmente allungate, sono collocate in pose tese e contorte; i contorni sono tracciati con linee irregolari e sinuose (definite «serpentinate» dal critico Mario Praz); le tinte sono spesso innaturali e sono accentuati i contrasti tra i colori e quelli tra luce e ombra. Si veda, ad esempio, la Deposizione di Rosso Fiorentino (1521, Pinacoteca Comunale di Volterra), una composizione drammatica, organizzata per linee spezzate, dissonante, con colori violenti, senza chiaroscuri.
Il Manierismo EPOCA
CARATTERISTICHE
dal 1550 circa • sperimentalismo anticlassico • infrazione di armonia ed equilibrio • visione problematica della condizione umana • inquieta sensibilità
TERMINE
deriva da “maniera”, “stile” (Vasari); prima indica un fenomeno artistico e poi letterario
MODELLI
Raffaello e Michelangelo
CONCETTO CHIAVE
l’arte non imita più la natura ma un modello ritenuto perfetto
AUTORI
in arte Pontormo, Rosso Fiorentino e Tintoretto; in letteratura Tasso
Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 3 557
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Ezio Raimondi Per la nozione di manierismo letterario E. Raimondi, Rinascimento inquieto, Einaudi, Torino 1994
In questo saggio, il critico Ezio Raimondi ripercorre il cammino che conduce alla nascita del concetto di maniesismo letterario.
Per la critica d’arte la nozione di Manierismo può considerarsi un acquisto recente. Proposta con un indice positivo tra il 1920 e il 1930 e connessa, almeno nella cultura tedesca, alle esperienze espressionistiche e al sentimento di un disagio, di una crisi che riavvicinava fraternamente l’uomo moderno a un’epoca, come definiva il 5 Dvorak il secondo Cinquecento, di «catastrofe spirituale», di «apparente caos», essa si è venuta consolidando nei decenni successivi come una categoria storiografica di valore europeo, e talora anche come una formula di moda, necessaria per intendere al di fuori di un’antica e tenace tradizione polemica la metamorfosi stilistica che ebbe luogo all’interno del grande classicismo rinascimentale. 10 […] la maggior parte degli studiosi è oggi concorde nel considerare il Manierismo un «atteggiamento» primario del mondo figurativo cinquecentesco, una creazione, per ripetere la frase di un critico tanto acuto quanto elegante, di «begli spiriti in concettosità, bizzarrie, grazie, capricci, lezii, calcolate orridezze e satanismi persino», che non può essere interpretata semplicemente né come una perdita della 15 misura rinascimentale, un periodo di decadenza, né, tanto meno, come un ordinato preannuncio del vitalismo naturalistico barocco. Rispetto alla critica d’arte, […] la storiografia letteraria è giunta tardi al concetto o, se si vuole, al traslato di Manierismo. […] In effetti, bisogna attendere gli studi del Curtius e la sua Europäische Literatur 20 und lateinisches Mittelalter, perché il termine di manierismo entri ufficialmente nel dizionario della critica letteraria, sebbene in un’accezione ampliata […]. Spetta a uno scolaro del Curtius, Gustav René Hocke, il merito d’aver tentato di ristabilire un nesso genetico tra la retorica dell’anormale e gli esperimenti figurativi del tardo Rinascimento […]. Il concetto di Manierismo che incomincia a farsi 25 luce all’interno delle diverse tradizioni a mano a mano che si viene smontando la vecchia macchina del Barocco, resta poi più che altro un’esigenza: una difficoltà da chiarire, oltre tutto, in ordine a una nuova nozione di storia letteraria e di gusto. […] Quanto alla letteratura italiana, è opportuno in primo luogo ricordare i lavori di 30 Georg Weise, lo storico che da trent’anni continua le sue esplorazioni […] per integrare storia dell’arte e disciplina letteraria […]. È probabile, allora, che quanto più si avanzerà in questa direzione […] la poesia del Tasso, dopo l’avventura del Casa, debba divenire, assai più che non dicano oggi gli accenni di qualche studioso, il culmine di un’esperienza vitale che solo un teleologismo ingenuo1, con un 35 rimando al futuro, può accontentarsi di definire prebarocca, una volta ammessa che la Gerusalemme sia la risposta più geniale alla crisi della forma ariostesca.
1 teleologismo ingenuo: dottrina filosofica del finalismo, secondo la quale la realtà è rivolta sempre a un fine. Raimondi critica l’ingenuità di leggere gli eventi sulla base degli esiti.
558 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
1. Per quale motivo la nozione di Manierismo per la critica d’arte viene definita «un acquisto recente»? 2. Quale motivazione ha spinto la critica d’arte a coniare la nozione di Manierismo? 3. Quale diverso atteggiamento rispetto al Manierismo si è venuto a creare tra la critica d’arte e la storiografia letteraria? 4. Quale merito ha avuto il Curtius? E quale invece il suo scolaro Gustav René Hocke? 5. Che cosa rappresenta la Gerusalemme rispetto all’Orlando furioso?
Produzione
6. Ripercorri, aiutandoti con quanto scritto nello scenario, gli elementi tipici del Rinascimento che entrano in crisi nella seconda metà del Cinquecento. Perché la seguente citazione presente nel testo: «I temi e le forme fondamentali del Manierismo nella lirica, nell’etica e nel teatro coincidono con quelli del Manierismo nell’arte e nella musica», in modo da costituire «uno stile unitario sui generis nella storia dello spirito europeo», è da ritenersi condivisibile?
2 Il dibattito letterario
Lessico metaletterario Tutto ciò che riguarda la letteratura che parla di sé, cioè la letteratura che discute delle caratteristiche o delle dinamiche della letteratura stessa.
La centralità della Poetica di Aristotele Mentre nel pieno Rinascimento regnava la libertà degli scrittori nel loro rapporto con i generi letterari e non si era particolarmente sentito il bisogno di una rigorosa riflessione teorica sul modo di fare letteratura, al contrario nel secondo Cinquecento si avverte la necessità di individuare regole precise di poetica e di delineare rigorosamente i tratti distintivi dei generi principali: si avvia così quella classificazione dei generi letterari che durerà fino alla rivoluzione romantica. Una tendenza che si ricollega certamente a quella più generale a regolare i comportamenti, all’ossessione per il rispetto dei ruoli. Ma non certo irrilevante è anche il richiamo costante all’obbedienza che veniva dalla Chiesa controriformistica e che certamente più di tutto contraddistingue il tempo. All’affermazione di questa tendenza metaletteraria e normativa dà un impulso fondamentale la riscoperta della Poetica (IV sec.a.C) di Aristotele. L’opera, peraltro, circolava da tempo negli ambienti intellettuali (la prima edizione a stampa dell’originale compare nel 1508 in una collezione di autori greci curata da Aldo Manuzio), ma senza esercitare l’enorme influenza che avrà nel secondo Cinquecento, quando si moltiplicano le edizioni, i volgarizzamenti dell’opera, che a loro volta danno vita a molteplici scritti teorici. Nel primo libro della Poetica Aristotele, sulla base delle grandi tragedie greche (come l’Edipo re di Sofocle) indica i caratteri fondamentali del genere tragico: la verosimiglianza (le vicende devono essere credibili, non inverosimili) e la razionale concatenazione dei fatti. Nel primo libro dell’opera si riflette anche sul genere epico considerato, per soggetto e caratteri dei personaggi, “alto” come la tragedia. Nella Poetica, Aristotele non fornisce, in realtà, norme vincolanti per gli scrittori. I critici del secondo Cinquecento ricavano invece dal testo aristotelico principi a cui occorreva che gli scrittori si conformassero. Riguardo alla tragedia, diventa obbligatorio il rispetto delle unità di tempo, luogo, Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento 3 559
azione: la vicenda deve svolgersi in una sola giornata, in un unico luogo e ruotare, senza elementi digressivi secondari, intorno a un’unica vicenda. Essa deve produrre alla fine nello spettatore quella che Aristotele definisce “catarsi”, cioè la “purificazione dalle passioni”. Ma la realizzazione della catarsi, nel clima della cultura post-tridentina, è identificata di fatto in una ripresa del valore educativo o, meglio, addirittura edificante, del testo letterario, e ciò non solo per la tragedia, ma anche per il poema. Il dibattito sul poema epico In nome di Aristotele non si può che rifiutare il modello “irregolare” del poema cavalleresco di Ariosto, che da un lato non risponde alle esigenze di unitarietà e regolarità, dall’altro è del tutto indifferente al fine morale e educativo esaltato dalla visione controriformistica ed è anche portavoce di una visione dichiaratamente laica e disincantata della vita. Si cerca allora di incentivare la produzione di nuovi poemi epici (o eroici, come vengono denominati) che rispondano al nuovo gusto e ai nuovi compiti assegnati alla letteratura. Dalla Poetica si desumono in sintesi alcune regole principali: il poema deve rispettare l’unità d’azione (che risulta garantita dalla scelta di un evento centrale che rispetti la verosimiglianza, come un argomento storico, e di un eroe intorno a cui si raccorda la trama); deve trattare di grandi eventi e grandi uomini in uno stile “alto” e deve trasmettere un insegnamento morale.
I generi principali Il poema epico In seguito alle discussioni a cui abbiamo appena fatto riferimento, vi sono vari tentativi di dar vita a un poema epico moderno. L’esempio più noto è L’Italia liberata dai Goti (1547) di Gian Giorgio Trissino (1478-1550) che narra, in uno stile volutamente aulico, la remota guerra combattuta dai Bizantini contro gli Ostrogoti. Il tentativo è fallimentare e non riscuote l’interesse del pubblico. Sarà Tasso con la sua Gerusalemme liberata a dare ai suoi contemporanei l’auspicato poema eroico, destinato a sostituire il modello ariostesco. Ma, come si vedrà nel Seicento, il genere è destinato ben presto a decadere. La tragedia In Italia il genere tragico, nonostante la centralità di esso nel dibattito del tempo, non ha particolare successo, anche perché non si affermano tragediografi veramente significativi. Il più importante è Giambattista Giraldi Cinzio, che peraltro si ispira al teatro tragico latino di Seneca e non alla tragedia greca. Nella sua più celebre tragedia, Orbecche (1541), che anticipa aspetti propri delle poetiche del secondo cinquecento, dominano toni orrorosi, tematiche violente, presenti anche in alcune sue novelle della raccolta Gli Ecatommiti (1565). Il trattato di argomento politico Il pensiero politico controriformistico si identifica in particolar modo con l’opera di Giovanni Botero, che nella sua Della ragion di Stato (1589) affronta la questione politica subordinandola ai principi controriformistici. Il dramma pastorale Molto gradito al pubblico delle corti è il genere del dramma pastorale, che si richiama al modello classico della poesia bucolica e all’Arcadia di Jacopo Sannazaro. Il dramma pastorale mette in scena, sullo sfondo di scenari idillici agresti, vicende pastorali dietro le quali si celano personaggi e situazioni della corte stessa. L’esempio più noto e significativo è opera di Tasso stesso, Aminta (1573), ma grande successo riscuote anche il Pastor fido di Battista Guarini (1590), una tragicommedia in cui anche lo stile è caratterizzato dall’ibridismo.
560 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
4
L’evoluzione della lingua Il volgare italiano Il Cinquecento è il secolo in cui il volgare conquista dignità: sono sempre più numerosi i dotti che lo utilizzano nelle loro opere. Proprio questa diffusione rende necessario definire il modello linguistico da adottare. A causa del Sacco di Roma del 1527 si disperde la corte romana: di conseguenza fallisce l’idea di una lingua cortigiana, ossia dell’utilizzo della lingua delle corti (e la corte per eccellenza è appunto quella della Città Eterna). Rimangono il toscano contemporaneo e il fiorentino del Trecento; alla fine prevale il volgare fiorentino letterario di Dante, Petrarca e Boccaccio, sostenuto da Leonardo Salviati. La sua posizione è sposata dall’Accademia della Crusca, istituzione tuttora esistente e operativa, fondata a Firenze nel 1583. L’Accademia, di cui Salviati è tra i principali promotori, ha lo scopo di eliminare le impurità della lingua (metaforicamente: separare la crusca dalla farina). Nel 1612 l’Accademia realizza il progetto del vocabolario della lingua italiana.
Frontespizio dell’edizione del 1612 del vocabolario degli Accademici della Crusca.
Fissare i concetti Il secondo Cinquecento 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Quale trasformazione subisce la visione del mondo nella seconda metà del Cinquecento? Chi è Ignazio di Loyola? Perché nascono le accademie? Quali conseguenze determina sull’immaginario l’ipotesi che formula Copernico? Da che cosa è caratterizzato l’insegnamento dei gesuiti? In che cosa consiste il Manierismo? Quali sono i generi letterari che meglio rappresentano il gusto manieristico?
L’evoluzione della lingua 4 561
Libri, lettori, lettura
Leggere durante la Controriforma: l’Indice dei libri proibiti La Riforma aveva dimostrato come, con l’avvento della stampa, il libro, ormai facilmente riproducibile in numerosi esemplari, fosse un temibile strumento di battaglia ideologica. La Chiesa rispose pubblicando l’Indice dei libri proibiti: leggere i libri vietati diventava un reato punibile per legge, per cui si poteva essere processati. Il primo Indice fu emanato dal papa Paolo IV nel 1559: tra i divieti c’era quello di leggere la Bibbia e il Nuovo Testamento in volgare, perché chi non conosceva il latino, ossia la gran parte della popolazione, non fosse tentato di mettere in discussione l’interpretazione ufficiale della Chiesa. Tale divieto ebbe enormi conseguenze sulla cultura dei cattolici, che persero il contatto con il libro fondamentale della loro fede: la Bibbia in volgare sarebbe stata riammessa soltanto nel 1758 da papa Benedetto XIV! Erano poi proibiti i libri considerati eretici e immorali e quelli che contenevano critiche alla Chiesa: fra le opere all’Indice si annoveravano il Decameron di Boccaccio, gli scritti di Machiavelli, Erasmo, Rabelais e il De Monarchia di Dante.
L’Indice tridentino e la consuetudine delle edizioni emendate Successivamente, nel 1564, fu emanato un nuovo elenco, detto Indice tridentino, che introduceva la possibilità di “espurgare” i libri, cioè di introdurvi censure e modifiche delle parti condannate. Alcuni libri tornavano così in circolazione, ma snaturati, con tagli e/o mutamenti tanto più insidiosi quanto meno avvertibili. Ne è un esempio il Decameron, da cui vennero espunte le critiche rivolte a ecclesiastici, mentre i preti coinvolti in vicende amorose vennero sostituiti da più innocui maestri di scuola.
online
Educazione civica I regimi che proibiscono i libri
online
Testi in dialogo
D3 Pro e contro l’Indice dei libri proibiti D3a Roberto Bellarmino I libri sono più pericolosi degli eretici Scritti politici D3b John Milton I libri vivono: distruggerli è come uccidere un uomo Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa D3c Paolo Sarpi I libri sono una difesa contro un potere tirannico Istoria del Concilio tridentino
562 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
Frontespizio di un’edizione dell’Indice dei libri proibiti.
Libri, lettori, lettura
Verso l’esame di Stato
Testo tratto da: M. Firpo, Una definizione: Riforma, Controriforma, riforma cattolica, in Il materiale e l’immaginario, vol. 5, La società dell’antico regime, a cura di R. Ceserani, L. De Federicis, Loescher, Torino 1980.
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Il termine, e concetto storiografico, di Controriforma (nato nella seconda metà del Settecento) con cui si è a lungo definito il periodo storico aperto anche in seno al cattolicesimo dalla riforma protestante e che trova il suo punto nodale nel Concilio di Trento (1545-1563), è anch’esso entrato in crisi. Carico delle 5 stesse ambiguità del suo opposto – Riforma – nel presentarsi di per sé pregiudizialmente valutativo, esso è apparso inoltre sostanzialmente subalterno alle vicende d’oltralpe e troppo connotato in senso meramente negativo per dar ragione di quella capacità di ripresa e di riforma presente all’interno del mondo cattolico, anche nelle più alte gerarchie ecclesiastiche, negli anni che precedono 10 e accompagnano la drammatica crisi del secolo. A chi si è fatto promotore di questa revisione storiografica è sembrato che il termine di Controriforma racchiudesse in sé e finisse quindi col confondere due diversi problemi, certo profondamente intrecciati ma in qualche modo autonomi: da un lato i vari anche se spesso sconnessi fermenti di riforma presenti nel 15 mondo cattolico, confluiti nell’opera di rinnovamento interno che la Chiesa seppe intraprendere grazie al rafforzamento garantito alle sue strutture gerarchiche e alla sua compattezza dottrinale dal Concilio di Trento, e, dall’altro, la risposta energica alla secessione riformata, sul piano della grande politica, dello scontro diplomatico e militare, della severa repressione del dissenso interno. […] 20 Il concetto di riforma cattolica si è largamente affermato negli ultimi decenni, per connotare sia le risposte in positivo e le tensioni di rinnovamento innescate soprattutto in Italia e in Spagna dalla crisi religiosa del secolo, prima e durante gli anni della Riforma, ma in qualche modo indipendenti da essa, sia il concreto e poderoso sforzo organizzativo attraverso cui la Chiesa, nella riacquistata soli25 dità dei suoi contorni dottrinali, cercò di darsi una nuova e più efficace prassi pastorale […]. Sotto questo profilo il Concilio di Trento definisce il suo ruolo e significato proprio nel collegare tra loro la riforma cattolica e la Controriforma: punto d’avvio della seconda, esso rappresenta anche la conclusione della prima, di cui ereditava e realizzava istanze importanti, consegnandole al futuro con 30 una rinnovata forza istituzionale e innestandole alla base della stessa opera di restaurazione del cattolicesimo. È in tal senso che il concetto di riforma cattolica affianca, ma non sostituisce quello di Controriforma. È indiscutibile il fatto che il problema storico della riforma cattolica ha avuto il merito di attirare l’attenzione su quei complessi fattori di crisi religiosa che, 35 tra Quattro e Cinquecento, sembrano accomunare più che dividere quelli che alla metà del secolo saranno mondi contrapposti, in lotta l’uno contro l’altro; di render conto in qualche modo di un processo storico che, all’indomani del Tridentino, non fu solo di reazione e di risposta, ma anche di rinnovamento interno [...]. Ma [...] tale prospettiva storiografica sembra aver ormai esaurito 40 le sue feconde potenzialità ed essere entrata in crisi. Entro certi limiti, infatti, nel suo stesso sottolineare con forza l’esistenza di un filo rosso di autonomo rinnovamento cattolico che, pur tra incertezze e fragilità, accompagna e attra-
Verso l’esame di Stato
563
versa il Concilio di Trento, tale prospettiva sembra in qualche modo riallacciarsi a quella preoccupazione di continuità nella quale proprio gli storici e gli apo45 logeti della Controriforma avevano trovato un punto di forza. Ma soprattutto il concetto di riforma cattolica rivela sempre più chiaramente i suoi limiti nel sopravvalutare il significato della volontà e dei tentativi di rinnovamento presenti nel mondo cattolico preconciliare, volontà e tentativi che certo ci furono, ma in forme disperse, atomizzate, spesso divise e anzi contraddittorie, e che rimasero 50 spesso confinate nell’ambito di esperienze limitate, aristocratiche, ascetiche, tese a una riforma personale e morale, quasi sempre estranea, se non ostile, ad affrontare il problema dell’istituzione ecclesiastica nel suo complesso. […] Per converso, proprio nell’accentuare il significato delle tensioni riformatrici del cattolicesimo pre e postridentino, esso tende a sottovalutare due aspetti essenziali 55 della sua ripresa e dell’opera di rinnovamento della prassi teologica e pastorale avviata dal Concilio. Occorre infatti tener ben presente, da un lato, l’obiettiva finalizzazione a una più efficace lotta contro l’eresia cui quel rinnovamento era destinato, nel suo stesso configurarsi come rafforzamento dell’autorità gerarchica del papato romano, e, dall’altro, il quadro di severa repressione di 60 ogni forma di dissenso religioso e culturale cui essa si accompagnò, fin dagli anni delle sessioni conciliari. E non basta riferirsi soltanto alle forme più note e appariscenti di vigilanza e di censura, l’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti in primo luogo, ma anche e forse soprattutto a quelle forme indirette, e perciò stesso più largamente e sottilmente efficaci, di pressione e intimidazione cui 65 il generale clima repressivo dava vita, contribuendo in modo determinante al dilagare di un conformismo intellettuale in cui la civiltà umanistica e rinascimentale avrebbe presto visto impallidire molte delle sue istanze creative. In tal senso la Chiesa cattolica della Controriforma avrebbe esercitato un’azione larga e incisiva, contribuendo con la sua ritrovata egemonia all’isterilirsi della 70 vita culturale e all’irrigidimento della società e della vita politica italiana in consolidate forme gerarchiche e aristocratiche. Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.
Comprensione e analisi
1. Di quale questione si occupa lo storico nel brano proposto? 2. Qual è il motivo comune che ha messo in crisi i due termini, e concetti, di Riforma e Controriforma? 3. In particolare, secondo Firpo, quali debolezze, quali limiti, presenta il termine Controriforma rispetto alla complessità del fenomeno che intende definire? 4. Lo storico ritiene pienamente soddisfacente l’utilizzo dell’espressione “riforma cattolica”? Motiva la tua risposta. 5. Qual è la conclusione, e quindi la tesi, cui perviene l’autore rispetto alla questione affrontata?
Produzione
Il fenomeno della Controriforma fu tra i più complessi e gravidi di conseguenze della storia non solo religiosa, ma anche politica, istituzionale nonché culturale dell’Europa, e segnatamente dell’Italia, tra il XVI e il XVII secolo. Come si manifesta e come procede la crisi religiosa del Cinquecento nella penisola? Con quali effetti e ricadute sulla società? Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso. Puoi confrontarti con le tesi espresse nel testo sulla base delle tue esperienze personali.
564 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
Dall’eccentricità al rispetto del dogma
distacco dalla realtà non poteva che portare l’arte figurativa verso l’antinaturalismo e un certo grado di erudizione e astrazione, a cui si aggiunge il progressivo codificarsi della necessità di esprimere la propria individualità, facendo sfoggio del proprio stile e andando alla ricerca dell’artificio.
Questo cambiamento di gusto nella rappresentazione, storicizzato con il termine di Manierismo (dal termine maniera, usato da Vasari con il significato di “stile”), coincide con un periodo di profondo cambiamento politico che vede il riflettersi, sul territorio della penisola italica, dello scontro per gli equilibri di potere in Europa tra Francesco I, re di Francia, e Carlo V, alla guida del Sacro Romano Impero. È il 1527 quando l’esercito mercenario dei Lanzichenecchi assoldato da Carlo V saccheggia la città di Roma per punirla della sua alleanza con la Francia. Questa Roma violata e fragile è la stessa che assiste al diffondersi della Riforma di Lutero e delle sue
aspre critiche rivolte ai privilegi e alla gestione del potere da parte della Chiesa romana, costretta a intraprendere un percorso di riforma al proprio interno che si concretizza nel Concilio di Trento (1545-1563). Se, da un lato, l’insicurezza e l’angoscia del primo Cinquecento si manifestano nelle arti visive attraverso un linguaggio ambiguo carico di eccentricità, dall’altro la Controriforma della Chiesa di Roma porta a un maggior controllo sulle immagini sacre, con il conseguente restringimento delle libertà espressive degli artisti a favore del rigore visivo, nel rispetto dei testi sacri e dei dogmi religiosi.
Arte nel tempo
L’armonia e l’equilibrio che caratterizzano le opere degli artisti del primo CinIl manierismo quecento vengono turbati dal diffondersi, negli anni ’20, di uno stile fortemente anticlassico e denso di eccessi sia espressivi sia formali. Gli artisti di questa gee la nerazione portano all’esasperazione alcuni aspetti della pittura dei loro maestri: Controriforma non imitano la natura ma l’arte, cioè le opere di Michelangelo e Raffaello. Questo
1 Il Trasporto di Cristo di Jacopo Pontormo
Il Trasporto di Cristo di Jacopo Pontormo, terminato nel 1528 per la cappella della chiesa di Santa Felicita a Firenze, e Il Giudizio Universale, dipinto da Michelangelo Buonarroti dal 1536 al 1541 sulla parete dietro l’altare della Cappella Sistina, incarnano l’angosciosa espressività tipica degli anni ’30, ancora libera dai dettami della Controriforma. In entrambe le opere assistiamo a una resa spaziale antiprospettica costruita dalla plasticità dei corpi, senza una concezione razionale o naturalistica dei piani di profondità. I movimenti sono accentuati, i corpi presentano muscolature eccessive, i volti sono caratterizzati da espressioni spesso angosciose e grottesche. La solidità della composizione piramidale, forma privilegiata dell’immaginario del primo Cinquecento, viene annullata e rovesciata dall’instabilità del gruppo di personaggi del Trasporto di Pontormo, in cui il corpo di Cristo è precariamente sostenuto dai piedi incerti e traballanti del personaggio in primo piano. Nel “movimento collettivo” della scena la pesantezza di alcuni gesti e delle forme anatomiche si contrappone ai colori acidi dei tessuti e all’incorporeità delle figure fluttuanti e senza peso in secondo piano.
Jacopo Pontormo, Il Trasporto di Cristo (Deposizione), tempera a uovo su tavola, 1526-1528 (Cappella in Santa Felicita, Firenze).
Arte nel tempo 4 565
Arte nel tempo
2 Il Giudizio Universale di Michelangelo
Ritroviamo uno spazio “costruito da corpi” anche nell’affresco di Michelangelo, il quale abbandona la sequenzialità chiara della volta realizzata quasi trent’anni prima per rappresentare il Giudizio come un moto circolare di corpi e azioni intorno alla figura centrale di Cristo Giudice. La caratterizzazione grottesca delle figure, la resa muscolare eccessiva di corpi quasi sproporzionati, la composizione caotica rendono la rappresentazione ambigua e di difficile interpretazione, carica di tensione e di drammaticità anche nelle figure dei beati, prive di qualsiasi armonia.
w Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio Universale, affresco, 1536-1541, (Cappella Sistina, Città del Vaticano).
w Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio Universale, affresco, 1536-1541, particolare dei beati (Cappella Sistina, Città del Vaticano).
566 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
3 La Deposizione di Simone Peterzano Con il Concilio di Trento ci si pone il problema del rapporto tra la libertà stilistica ed espressiva dei pittori e il rispetto del sentimento religioso. Le immagini divengono l’oggetto di una riflessione specifica: l’arte deve ispirare devozione, rivolgendosi al fedele senza ambiguità, aderendo alle scritture secondo i principi di verità e chiarezza. Le composizioni si fanno leggibili, le scene sono spesso ambientate in contesti riconoscibili e vicini al fedele, i soggetti pagani e le nudità vengono condannati. Chiare espressioni di questo nuovo clima culturale sono la copertura nel 1565 dei nudi del Giudizio Universale di Michelangelo a opera di Daniele da Volterra, e la stesura del Discorso intorno le immagini sacre e profane nel 1582 da parte dell’arcivescovo di Bologna Gabriele Paleotti. Anche la Deposizione di Simone Peterzano (1584), in
San Fedele, se confrontata con il Trasporto interpretato da Pontormo, è un esempio delle nuove esigenze espressive dell’arte religiosa del tardo Cinquecento: la luce proveniente da sinistra illumina una scena dai toni spenti e realistici in cui Cristo in primo piano siede deposto nel sepolcro mostrando i segni della passione e, intorno a lui, Maria, Maddalena e Nicodemo si stringono in un addolorato compianto. Non vi sono eccentricità né licenze poetiche, non vi è nessun dettaglio di difficile interpretazione o non giustificato: la pittura esprime in modo assoluto e pietistico il necessario sentimento religioso. Simone Peterzano, pittore da cui andrà a bottega il giovane Caravaggio, rispetta appieno i confini posti alle rappresentazioni visive dalla Controriforma, saldando il realismo lombardo alle esigenze della nuova Chiesa, guidata a Milano dal cardinale Carlo Borromeo.
Simone Peterzano, Pietà (Deposizione), olio su tela, 1585 (San Fedele, Milano).
Arte nel tempo 4 567
Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali Il secondo Cinquecento
Sintesi con audiolettura
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
L’eclissi della libertà di pensiero Il periodo che va dalla seconda metà del XVI secolo alla seconda metà del XVII è segnato dalla Controriforma cattolica, con cui la Chiesa di Roma cerca di arginare il processo originato dalla Riforma protestante. Con il Concilio di Trento (1545-1563) vengono dibattuti i contenuti e organizzate le strategie di ristrutturazione della Chiesa in senso gerarchico. Si tratta di un programma che, fissando dogmi e codificando norme rigorose, comporta una pesante limitazione della libertà delle masse e delle classi dirigenti, attuata in particolare attraverso l’organizzazione centralizzata dell’Inquisizione, l’Indice dei libri proibiti e le disposizioni severe nel campo dell’attività intellettuale, dell’arte e del comportamento. La crisi dei valori rinascimentali Anche per influsso del clima controriformistico, oltre che del difficile contesto storico, muta la visione della vita: all’orgoglio antropocentrico del Rinascimento si contrappongono pessimismo, sfiducia nel potere della ragione, senso della vanità della vita terrena; alla rivalutazione rinascimentale del piacere si contrappongono l’invito al pentimento e la demonizzazione del corpo, della natura e dei sensi, oltre che severe norme contro la loro rappresentazione artistica. La concezione dello spazio geografico Dalla metà del Cinquecento si afferma la consapevolezza dell’esistenza di nuove realtà geografiche, estremamente differenti da quella europea e che proprio con il metro di giudizio del Vecchio Mondo vengono categorizzate come inferiori: dunque passibili di annientamento, assoggettamento e sfruttamento. Da questa posizione, tuttavia, c’è chi si allontana, valutando le novità in senso relativista e quindi accettandone le diversità. I valori e i modelli di comportamento I modelli di comportamento imposti dalla Chiesa vedono in primo piano l’obbedienza e la subordinazione alle direttive ecclesiastiche; ciò si esplica in un clima di sospetto e di controllo su ogni espressione di religiosità e su ogni aspetto della vita dei fedeli, siano essi sudditi o regnanti, semplici popolani o affermati intellettuali. Chi non vi si conforma viene sospettato, inquisito o addirittura rischia di essere accusato di eresia. La decadenza delle corti e la trasformazione del ruolo e dell’identità dell’intellettuale Anche le corti risentono della mancanza di libertà dell’epoca e vanno decadendo. Il rapporto tra intellettuale e potere muta rispetto a quello caratteristico del Rinascimento: il ruolo dell’uomo di cultura diviene marginale, subalterno e trova espressione soprattutto nella figura del segretario, a cui non è richiesto di avere idee proprie, ma solo di gestire ruoli burocratici e di mostrare la massima obbedienza e discrezione. La cultura si organizza ora nelle accademie, ma la visione che vi si crea è intellettualmente sterile e precettistica.
568 Il secondo Cinquecento Scenari socio-culturali
2 Modelli del sapere
Copernico e la teoria eliocentrica La rivoluzione copernicana, che nega la centralità della Terra nell’universo, sovverte la visione antropocentrica del mondo legata al geocentrismo tolemaico e innesca una serie di scoperte, che in circa un secolo rivoluzioneranno completamente l’idea cosmologica e la fisica aristotelica. La pedagogia dei gesuiti Nel sistema scolastico predominano i gesuiti, che istruiscono ad alto livello in tutti i campi del sapere la futura classe dirigente ecclesiastica e civile. Questo modello culturale si fonda sul principio di autorità, incarnato in Aristotele per la filosofia e in san Tommaso per la teologia, cui si accompagnano gli autori classici studiati, però, esclusivamente sotto il profilo stilistico e non contenutistico, onde evitare approfondimenti critici individuali.
3 Caratteri e generi della letteratura nel secondo Cinquecento
Oltre il classicismo rinascimentale: il Manierismo Tra il secondo Cinquecento e il Seicento si afferma, in arte e in letteratura (ad esempio nei lavori di Tintoretto e Tasso), il Manierismo, un nuovo modo di rappresentare la realtà. Questa corrente si ispira ancora ai modelli classici, ma rifiuta l’armonia e l’equilibrio rinascimentali, rielaborandone le caratteristiche principali in modo esasperato o deforme ed esprimendo, così, la crisi spirituale del mondo controriformistico. Il dibattito letterario Dalla metà del Cinquecento si avverte anche la necessità di delineare, in modo teoricamente preciso, i lineamenti distintivi dei diversi generi letterari: un impulso che nasce dalla riscoperta della Poetica di Aristotele, testo metaletterario dedicato a epica e tragedia che, sebbene privo di carattere vincolante, viene interpretato in senso prescrittivo. Ciò motiva un rifiuto della critica coeva verso il poema cavalleresco e una rielaborazione in senso moralistico, educativo ed edificante degli altri generi (poema epico, tragedia, trattato politico e dramma pastorale).
4 L’evoluzione della lingua
Nel XVI secolo il volgare conquista dignità letteraria. Con il supporto dell’Accademia della Crusca, il modello linguistico che si afferma è quello del fiorentino letterario trecentesco.
Zona Competenze Competenza 1. Costruisci una mappa che evidenzi i rapporti tra il contesto storico-ideologico dell’età digitale compresa tra fine Cinquecento e Seicento e le principali caratteristiche della mentalità e della cultura. Scrittura
2. In un testo espositivo-argomentativo di max 20 righe, spiega i rapporti tra il clima storico, sociale e culturale e le espressioni letterarie fiorite nella seconda metà del Cinquecento.
Sintesi Il secondo Cinquecento
569
Il secondo quattrocento cinquecento e cinquecento
10 Torquato Tasso CAPITOLO
LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Tasso Per conoscere l’autore della Gerusalemme liberata, la testimonianza più illuminante è sicuramente la Canzone al Metauro, scritta nel 1578, in cui Torquato Tasso traccia un pessimistico quadro della propria vita. I versi proposti (vv. 21-40) forniscono una chiave autobiografica che può spiegare l’infelicità esistenziale, la fragilità, l’inclinazione alla malinconia che caratterizzarono il grande poeta. Oimè! dal dí che pria trassi l’aure vitali e i lumi apersi1 in questa luce a me non mai serena, fui de l’ingiusta e ria2 25 trastullo e segno3, e di sua man soffersi piaghe che lunga età risalda a pena4. Sassel la gloriosa alma sirena, appresso il cui sepolcro ebbi la cuna5: cosí avuto v’avessi o tomba o fossa 30 a la prima percossa!6 Me dal sen de la madre empia fortuna pargoletto divelse7. Ah! di quei baci, ch’ella bagnò di lagrime dolenti, con sospir mi rimembra8 e de gli ardenti 35 preghi che se ’n portar l’aure fugaci9: ch’io non dovea giunger piú volto a volto10 fra quelle braccia accolto con nodi cosí stretti e sí tenaci. Lasso11! e seguii con mal sicure piante12, 40 qual Ascanio13 o Camilla14, il padre errante.
1 trassi… apersi: cominciai a respirare e apersi gli occhi. 2 ingiusta e ria: è la Fortuna; ria, “malvagia”. 3 trastullo e segno: oggetto di scherno e bersaglio. 4 piaghe… pena: ferite che il tempo guarisce con fatica (a pena). 5 Sassel… cuna: Lo sa la sirena gloriosa e vivificatrice, presso il cui sepolcro ebbi la culla (cioè nacqui). Secondo il mito, Napoli
570
sorgeva presso il sepolcro della sirena Partenope; significativamente Tasso accosta il luogo della sua nascita a un’immagine di morte. 6 cosí… percossa!: così avessi potuto avere là la tomba (morire) a quel primo colpo della sorte! 7 Me... divelse: Il destino crudele strappò me bambino dalla madre (il verbo divelse sottolinea la difficoltà del distacco). 8 mi rimembra: mi ricordo.
9 preghi… fugaci: preghiere che il vento (l’aure) portò via.
10 ch’io... a volto: perché io non dovevo (non ero destinato a) congiungere più il mio volto al tuo. 11 Lasso: Infelice. 12 con… piante: con i passi incerti (di un fanciullo). 13 Ascanio: figlio di Enea, seguì il padre nella fuga da Troia. 14 Camilla: eroina dell’Eneide; anch’ella seguì il padre in esilio.
La Gerusalemme liberata, capolavoro di Tasso, ultimata verso il 1575, fu composta presso la corte di Ferrara come l’Orlando furioso. Lo spirito della Liberata è però molto diverso da quello del Furioso: vi si riflette infatti il clima religioso della Controriforma, nel ruolo predominante della guerra contro gli infedeli come ricostruzione di un evento centrale per la cristianità, la riconquista del Santo Sepolcro nella prima crociata. Il poema di Tasso rispecchia le contraddizioni di un’epoca, segnata dal contrasto tra la cultura rinascimentale ancora viva e le imposizioni del concilio di Trento. Tale conflitto travolse il Tasso stesso, che nel corso della sua vita ne fu psicologicamente turbato; ma il suo poema rimane come specchio del suo autore e insostituibile documento del dramma e delle inquietudini degli uomini del suo tempo.
1 Ritratto d’autore lirica, la “favola 2 lapastorale”, Aminta e Re Torrismondo
Gerusalemme 3 laliberata 4 epistolario e Dialoghi Gerusalemme 5 laliberata nel tempo
571 571
1 VIDEOLEZIONE
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Ritratto d’autore L’infanzia in esilio e la vita nelle corti La vita di Torquato Tasso, per le vicissitudini tormentate e inquiete, i continui vagabondaggi e per l’immagine del poeta solitario e incompreso che se ne evince, ha costituito un tema di grande sugge stione per la cultura romantica fra Sette e Ottocento, che fece del poeta una sorta di mito e figura emblematica. Nato a Sorrento l’11 marzo 1544, l’anno precedente all’apertura di quel concilio di Trento (1545-1563) che tanto profondamente avrebbe segnato la cultura italiana, inaugurando l’età della Controriforma, Torquato Tasso visse i primi anni d’infanzia a Sorrento e a Napoli. La madre era di origine toscana; il padre Bernardo, di nobile casata bergamasca, era poeta e gentiluomo di corte presso il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino. La serenità della vita familiare fu ben presto interrotta, quando il Sanseverino, coinvolto in una rivolta contro Carlo V, fu esiliato e quindi costretto ad abbandonare il regno di Napoli; Bernardo, cui furono confiscati tutti i beni, lo seguì, prendendo con sé Torquato che, a soli dieci anni, dovette abbandonare la madre, per mai più rivederla (nel 1556 giunse infatti la notizia della sua morte, un evento traumatico per un ragazzo appena dodicenne). Costretto a spostarsi di corte in corte alla ricerca di munifici protettori, Bernardo poté comunque assicurare al figlio un’educazione raffinata e quasi principesca, essendo entrambi ospitati nelle più splendide corti italiane. Per la formazione di Torquato, dopo i primi studi in casa sotto la guida del padre, di don Giovanni d’Angeluzzo e del cugino Cristoforo, sono soprattutto importanti tre luoghi: Urbino, Venezia e Padova.
Cronologia interattiva
1566
1563
1545
Si chiude il concilio di Trento.
Inizia il concilio di Trento
1540
1560
1550
1544
Nasce a Sorrento da Bernardo Tasso e Porzia de’ Rossi.
Alfonso II d’Este si allea con l’imperatore Massimiliano II nella guerra contro i Turchi in Ungheria.
1556
1554
Si reca a Roma per raggiungere il padre, che aveva seguito in esilio il suo signore Ferrante Sanseverino, principe di Salerno.
572 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Muore la madre, che Torquato non aveva più rivisto dopo essersi recato a Roma.
1559
A Venezia, compone alcune ottave del Gierusalemme, primo abbozzo della futura Gerusalemme liberata.
1565
È accolto come cortigiano nella corte estense. Comincia a lavorare al poema.
A Urbino, nella splendida corte rinascimentale di Guidobaldo II della Rovere, celebrata dal Cortegiano di Baldesar Castiglione, padre e figlio rimasero alcuni anni (il padre era stato costretto a lasciare Roma nel 1556 e trasferirsi a Urbino, in seguito al dissidio fra Filippo II re di Spagna e il papa Paolo IV); qui Torquato studiò scienze, lettere e arti cavalleresche con il figlio del duca, il principe ereditario Francesco Maria, avendo come maestri Girolamo Muzio, Antonello Galli e Federico Commandino. Da Venezia a Padova, la formazione letteraria Altra tappa importante fu Venezia, dove Bernardo si trasferì nel 1559 per attendere alla stampa del suo poema Amadigi. Nella città lagunare era particolarmente sentita la minaccia dei Turchi, con cui si alternavano guerre e alleanze, e il giovanissimo poeta iniziò a scrivere un poema sulla guerra santa (Libro primo del Gierusalemme). Ma, evidentemente non ancora pronto per un’opera così ambiziosa, preferì interromperne la stesura, dopo poco più di un centinaio di ottave, dedicandosi per il momento alla composizione di un più tradizionale poema cavalleresco, il Rinaldo, che pubblicò nel 1562 presso Francesco Sanese, a soli diciotto anni, con dedica al cardinale Luigi d’Este, suo futuro protettore. Avviato così a una promettente carriera di poeta cortigiano, Torquato continuò a perfezionare la sua cultura, frequentando la facoltà di giurisprudenza, poi di eloquenza e di filosofia presso l’università di Padova, dove strinse rapporti di amicizia con Sperone Speroni. Risalgono a questo periodo i primi studi sulla Poetica di Aristotele sotto la guida di Carlo Sigonio, che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’autore. Nello stesso anno in cui fu pubblicato il Rinaldo, Tasso scrisse varie rime per Lucrezia Bendidio, damigella della principessa Eleonora d’Este. Fra il 1563 e il 1564 continuano i trasferimenti: a Bologna e a Mantova (dove il padre era passato al
1571
Vittoria cristiana sui turchi a Lepanto.
1570
1580 1579
Torna a Ferrara e dà in escandescenze durante le nozze di Alfonso II. Viene incarcerato a Sant’Anna. 1573
Compone e fa rappresentare l’Aminta.
1577
Manifesta segni di squilibrio e il duca lo fa chiudere in un convento. Ne evade e comincia un viaggio lungo l’Italia. A Sorrento si reca dalla sorella Cornelia senza farsi inizialmente riconoscere. 1575
Conclude il poema, ancora intitolato Goffredo. Ne legge parti al duca Alfonso II e a Lucrezia, sorella del duca. Comincia a sottoporne parti ai revisori.
1590 1586
Viene liberato dopo una reclusione durata sette anni.
1580
1593 1590
È rappresentato il Pastor fido di Battista Guarini, che riprende il modello dell’Aminta tassiano.
Con il titolo di Gerusalemme conquistata, Tasso pubblica la prima edizione del poema da lui approvata, che però è molto diversa dalla Liberata. 1595
Viene pubblicata una prima, scorretta, edizione del poema. Nel 1581 viene pubblicata la prima edizione completa del poema, a cura di Febo Bonnà, con il titolo di Gerusalemme liberata.
Muore il 25 aprile nel convento di Sant’Onofrio a Roma, mentre si preparava la sua solenne incoronazione poetica.
Ritratto d’autore 1 573
servizio del duca Guglielmo Gonzaga), dove conobbe e amò Laura Peperara, per la quale compose diverse liriche amorose. A Bologna inoltre, mentre frequentava il quarto anno di studi, fu accusato di aver composto una satira pungente contro professori e studenti dello Studio bolognese e fu costretto a fuggire e a riparare a Padova, dove fu ben accolto dal principe Scipione Gonzaga e dove entrò a far parte dell’Accademia degli Eterei col nome del “Pentito”. Poeta alla corte di Ferrara Nel 1565, ventunenne, Tasso viene accolto alla corte di Ferrara, prima al servizio del cardinale Luigi d’Este e poi, dal 1572, del duca Alfonso II. Sono anni di intensa creatività e di successi letterari. Tenuto in grande considerazione nell’ambiente di corte, il poeta gode dell’amicizia delle sorelle del duca, Lucrezia ed Eleonora, per le quali scrisse alcune fra le sue liriche più belle (da cui prenderà spunto, in parte, la letteratura romantica). In quell’ambiente cortigiano culturalmente ancora assai vivace (dove erano stati scritti i poemi cavallereschi del Boiardo e dell’Ariosto e dove Tasso strinse rapporti di amicizia e collaborazione con nobili e intellettuali come Giovan Battista Pigna, Ercole Cato, Giovan Battista Guarini, Antonio Montecatini, Annibale Romei), Tasso compone il dramma pasto rale Aminta (1573, che venne rappresentato nel luglio di quell’anno sull’isoletta del Belvedere) e la Gerusalemme liberata, il suo capolavoro. Nel frattempo, a Ostiglia, dove era governatore, morì il padre Bernardo nel 1569. Ma lo splendore della corte ferrarese celava una situazione instabile: la città estense era una sorvegliata speciale dell’Inquisizione, sia perché anni prima Renata di Francia, madre di Alfonso II, aveva ospitato a corte un circolo di calvinisti sia perché, non avendo Alfonso II eredi diretti, la Chiesa aspirava a impadronirsi dei suoi territori (come poi in effetti avvenne) e teneva la corte ferrarese sotto un attento controllo. Il poema sulla crociata suscita inquietudini e dubbi Nel 1575 il poema sulla crociata, a cui lavora ormai da circa un decennio (che ha come titolo iniziale il Goffredo) è finalmente completato: il poeta lo legge ad Alfonso e a Lucrezia, ma non si decide a pubblicarlo; anzi continua a rivederlo e a correggerlo, preda di in finiti dubbi di natura sia letteraria sia morale-religiosa. Se il poema doveva essere il gran libro del secolo, era davvero conforme alle norme della poetica aristotelica, nel secondo Cinquecento considerata canone imprescindibile per un poema eroico? E, soprattutto, se doveva essere un libro cristiano, erano davvero ammissibili le tante concessioni al “maraviglioso”, gli incanti, le avventure, le magie? Era lecito che in un’opera sulle crociate fossero inseriti tanti commoventi episodi d’amore? Erano dubbi legittimi nell’età della Controriforma, un periodo in cui l’Inquisizione pretendeva che i soggetti sacri fossero trattati con la più assoluta ortodossia. Inquieto per il «rigor de’ tempi», il poeta temeva di non poter pubblicare il poema o di vederlo colpito da censure. I dubbi di Tasso, i giudizi dei revisori, la crisi Tormentato da dubbi e incertezze, Tasso chiese il parere di religiosi e letterati dell’epoca, Scipione Gonzaga, Flaminio Nobili, Silvio Antoniano, Sperone Speroni (si reca a Roma in occasione del Giubileo del 1575), ricevendone giudizi poco incoraggianti. Illuminanti sono gli scambi epistolari con un revisore ecclesiastico, Silvio Antoniano. Sempre più inquieto e turbato, il poeta diviene preda di scrupoli e ossessioni, che sfociano in veri e propri sintomi di squilibrio: convinto che alcuni cortigiani lo avessero denunciato al Sant’Uffizio, si reca di propria iniziativa dall’inquisitore ferrarese per farsi esaminare. Il religioso lo assolve, ma Tasso manifesta l’intenzione di recarsi da
574 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
altri inquisitori, fuori da Ferrara, per essere ancora più scrupolosamente interrogato, suscitando la preoccupazione di Alfonso II, che in questo modo vedeva accrescersi ulteriormente il controllo inquisitorio sulla sua corte. La prima carcerazione e la fuga Nel frattempo le stranezze e i segni della mania di persecuzione del poeta divengono sempre più evidenti e gravi. Mentre conversa con Lucrezia d’Este, convinto di essere spiato da un servo, lo aggredisce con un coltello; carcerato in un convento, si dà alla fuga, attraverso l’Italia. Si reca a Sorrento dove vive la sorella Cornelia, che non vede da lungo tempo e, per verificarne l’affetto (come Oreste nell’Elettra di Sofocle), travestito da pastore e quindi non riconoscibile, si finge un messaggero giunto con notizie del fratello; riconosciuto, non resta però a lungo con lei, ma si allontana da Sorrento, cercando ospitalità in varie corti. Sette anni nella prigione di Sant’Anna Torna infine a Ferrara nel febbraio del 1579, mentre si stanno celebrando le nozze del duca Alfonso con Margherita Gonzaga. Accolto con freddezza, in casa Bentivoglio dà in escandescenze e si reca al Castello ducale per inveire contro la corte. Così viene preso a forza per ordine del duca ed è rinchiuso come pazzo nell’ospedale ferrarese di Sant’Anna, dove rimarrà sette anni, dal 1579 al 1586. Per la precisione, dopo i primi 14 mesi di severa e pesante segregazione, gli vengono concesse alcune stanze dove egli può ricevere gli amici e dedicarsi alla scrittura. Anche in carcere, infatti, Tasso riesce a realizzare un’intensa attività letteraria: compone versi, scrive quasi tutti i Dialoghi (di contenuto letterario e filosofico) e continua a rimaneggiare il poema sulla crociata, per approntare la redazione definitiva, per sua stessa mano. Mentre si trovava a Sant’Anna, infatti, il poema era stato pubblicato contro la sua volontà, a volte addirittura in edizioni scorrette: nel 1581 cominciano a uscire le prime edizioni della Liberata, tra cui fondamentali le due stampe curate a brevissima distanza l’una dall’altra da Fabio Bonnà.
François R. Fleury, Michel de Montaigne visita Tasso al Sant’Anna di Ferrara, 1821 (Musée des Beaux-Arts, Lione).
Ritratto d’autore 1 575
Le lettere scritte da Sant’Anna sono impressionante testimonianza di uno stato d’animo profondamente alterato: il poeta appare assalito da scrupoli religiosi e, influenzato dal clima controriformistico, si tormenta per aver nutrito nella giovinezza concezioni laiche, materialistiche (nella lettera XXV a Scipione Gonzaga rivela di aver dubitato di fondamentali dogmi religiosi, quali la creazione del mondo, l’incarnazione, l’eternità dell’anima individuale); in altre lettere rivela veri e propri sintomi di follia, affermando che un folletto lo perseguita, sottraendogli lettere e cibo (➜ T12 ). Gli ultimi, inquieti anni di peregrinazioni Nel 1586 Tasso viene finalmente liberato per intercessione di Vincenzo Gonzaga, cognato di Alfonso II, che aveva chiesto di portarlo con sé a Mantova. Insieme alla libertà, il poeta recupera un cer to fervore creativo e riprende la tragedia incompiuta Galealto, trasformandola nel Torrismondo, re di Norvegia, la cui stesura stanca il poeta al punto da aumentare il suo squilibrio. Sempre più inquieto, tuttavia, continua a spostarsi, preferendo alle corti luoghi più tranquilli come i conventi e le case di amici, soprattutto a Napoli (nel marzo del 1588, accolto nel monastero del Monte Oliveto, che ispirò l’omonimo poemetto, in onore dei frati che lo hanno benignamente accolto) e a Roma, presso Scipione Gonzaga, dove scrive il Rogo amoroso (stampato postumo). In questo periodo compone Il mondo creato, poema ispirato al racconto biblico della creazione (pubblicato solo nel 1603) e nel 1593 pubblica a Roma presso il Facciotti la Gerusalemme conquistata, rifacimento della Gerusalemme liberata, in cui accoglie la maggior parte dei suggerimenti dei revisori. L’opera, ormai totalmente conforme allo spirito controriformistico, è apprezzata nell’ambiente cattolico romano, tanto che a Tasso è offerta la solenne incoronazione poetica. Ma prima che la cerimonia potesse avvenire, il poeta, ormai gravemente malato, muore cinquantunenne alle ore 11 antimeridiane del 25 aprile 1595, in una piccola chiesa nel convento di Sant’Onofrio, sul Gianicolo, a Roma, dove si era ritirato.
Caratteristiche della personalità di Torquato Tasso lacerazione della coscienza e turbamento psicologico-esistenziale: Tasso è attratto dai valori rinascimentali che vorrebbe conciliare con la morale cattolica
religiosità sofferta, segnata dal senso di colpa e del peccato
sentimento ambivalente rispetto alla vita cortigiana: è cosciente che solo in quell’ambiente può realizzarsi, ma è insofferente delle regole rigide e del clima di falsità
576 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
2
La lirica, la “favola pastorale” Aminta e Re Torrismondo 1 Le Rime: verso il superamento del modello petrarchesco La produzione di una vita intera Per tutta la sua vita Tasso scrisse liriche, dall’esordio giovanile agli anni trascorsi alla corte di Ferrara, fino al periodo di reclusione a Sant’Anna e agli ultimi tempi (dedicati soprattutto alla poesia religiosa): più di millesettecento testi, di cui solo una parte fu pubblicata dall’autore. Le liriche non sono organizzate in un canzoniere, ma suddivise per generi tematici, inaugurando una tendenza nuova, destinata a grande fortuna. Negli ultimi anni della sua vita Tasso pubblica le poesie amorose (con il titolo di Prima parte delle rime, 1591) e le liriche encomiastiche (Seconda parte delle rime, 1593); dopo la sua morte, nel 1597, infine, videro la luce le poesie religiose. Molte rime di Tasso sono di carattere occasionale: alcune sviluppano temi auto biografici, come la celebre Canzone al Metauro (➜ PAG. 570); altre sono legate alla vita cortigiana, di cui rappresentano un quadro affascinante, con i balli, gli svaghi, le feste, i corteggiamenti, le consuetudini eleganti e raffinate. Un buon numero di rime sono indirizzate a personaggi della corte, in particolare alle principesse estensi, Lucrezia ed Eleonora d’Este, molto legate al poeta. La sperimentazione stilistica e la nuova musicalità dei madrigali Tasso rinnova profondamente il genere lirico, costituendo un importante punto di riferimento per la poesia successiva. La sua lirica si allontana, per lo meno in una prima fase, dall’equilibrio e dall’armonia formale propri del modello petrarchesco: grazie anche all’esempio della poesia di Della Casa (1503-1556), da lui attentamente studiato, Tasso conferisce ai sonetti e alle canzoni un andamento più mosso, inquieto, di tipo manieristico, caratterizzato da un uso intenso e frequente degli enjambements. La lirica tassiana si distingue rispetto al modello del Canzoniere anche per la presenza di componenti spiccate di sensualità nel modo di rappresentare l’amore e per la tendenza a utilizzare metafore complicate, aprendo la strada al concettismo barocco. Tipica della lirica tassiana, in particolare nei madrigali, è la ricerca della musicalità. I madrigali, genere lirico in cui Tasso eccelse, sono poesie brevi, in cui si alternano liberamente endecasillabi e settenari, con rime senza schema fisso, spesso baciate. Sfondo dei madrigali è di frequente una natura umanizzata e partecipe dei sentimenti del poeta (➜ T1 ). Le liriche sacre Composte negli ultimi anni della vita di Tasso, le liriche sacre appaiono invece poeticamente meno ispirate e caratterizzate spesso da toni di solenne eloquenza tipici della religiosità controriformistica. Anch’esse costituirono, comunque, un modello importante per la poesia religiosa del Seicento, soprattutto per le grandiose immagini che preludono al barocco, simili a quelle di altre opere tarde del poeta, la Gerusalemme conquistata e il poema religioso Le sette giornate del mondo creato.
La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 577
T1
Un nuovo modello lirico I tre testi che proponiamo evidenziano l’originalità della lirica tassiana rispetto al modello petrarchesco, soprattutto per la più intensa musicalità. Si tratta di madrigali, cioè poesie brevi e, per la frequenza di rime baciate, molto musicali, adatte a esprimere con immediatezza le più intense e fuggevoli emozioni. È significativa anche la visione della natura, che appare umanizzata come se fosse dotata di un’anima e partecipe dei sentimenti del poeta. Soprattutto per questo aspetto la lirica tassiana costituì un modello di indubbio fascino e suggestione, anticipando la poesia romantica.
Torquato Tasso
T1a
Tacciono i boschi e i fiumi Rime (498)
T. Tasso, Le rime, a c. di B. Basile, Salerno, Roma 1994
La lirica descrive la quiete notturna, favorevole agli amanti, perché consente di nascondere il loro amore segreto.
Tacciono i boschi e i fiumi, e ’l mar senza onda giace1, ne le spelonche2 i venti han tregua e pace, e ne la notte bruna 5 alto3 silenzio fa la bianca luna; e noi tegnamo ascose4 le dolcezze amorose. Amor non parli o spiri5, sien muti i baci e muti i miei sospiri.
La metrica Madrigale, costituito da endecasillabi e settenari; il primo verso è irrelato; gli altri sono tutti collegati da rime baciate. Lo schema è abBcCddeE. 1 giace: resta immobile. 2 spelonche: grotte. I versi semplici e
apparentemente solo descrittivi celano un riferimento mitologico, alludendo alla grotta in cui, secondo il mito, Eolo, dio dei venti, li teneva rinchiusi. 3 alto: profondo (latinismo, da altus). La coppia aggettivo-sostantivo suggerisce
l’immensità e la calma del cielo notturno, associata all’apparire della luna in cielo. 4 tegnamo ascose: teniamo nascoste. 5 spiri: respiri, sospiri.
Analisi del testo La quiete del paesaggio notturno Il madrigale dipinge con note essenziali un suggestivo “notturno”: tema dominante è il silenzio, sottolineato dal lessico, con la parola chiave tacciono, accompagnata da diversi termini riferiti al medesimo campo semantico (alto silenzio, muti, due volte ripetuto nel verso finale). Tutti gli elementi della natura (i boschi, i fiumi, il mare, la luna) concorrono a suscitare un’impressione di quiete, sottolineata dalle parole in rima baciata giace-pace. Quiete e silenzio con cui la natura sembra voler favorire gli amanti, mantenendo segreto e protetto il loro legame. Il lessico sottolinea la corrispondenza tra natura e stato d’animo, attribuendo agli elementi naturali espressioni appropriate per gli esseri umani (tacciono, giace, alto silenzio fa). I versi, di raffinata semplicità, sono intessuti di echi classici, come l’aggettivo alto, classicamente inteso nel senso di “profondo”, e il riferimento mitologico ai venti, imprigionati da Eolo.
578 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto del madrigale. COMPRENSIONE 2. Qual è il motivo principale della poesia? 3. Fai la parafrasi degli ultimi 5 versi. ANALISI 4. In che modo il poeta descrive la natura?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 5. Esponi in max 2 minuti il tema del madrigale.
Torquato Tasso
T1b
Qual rugiada o qual pianto Rime (324)
T. Tasso, Le rime, a c. di B. Basile, Salerno, Roma 1994
AUDIOLETTURA
Anche questo componimento (come ➜ T1a ) è costruito sulla corrispondenza tra la natura – di nuovo, un paesaggio notturno con «le suggestioni della diafana luminosità stellare e lunare» (Ossola) – e la vicenda umana e amorosa dell’autore: il poeta immagina infatti che la rugiada sia il pianto del cielo per l’allontanarsi della donna amata.
Qual rugiada o qual pianto, quai1 lagrime eran quelle che sparger vidi dal notturno manto2 e dal candido volto de le stelle? E perché seminò la bianca luna di cristalline stelle un puro nembo a l’erba fresca in grembo?3 Perché ne l’aria bruna s’udian, quasi dolendo, intorno intorno 10 gir4 l’aure insino al giorno? Fur segni forse de la tua partita5, vita de la mia vita? 5
La metrica Madrigale costituito da endecasillabi e settenari, con rime disposte in modo variato; lo schema è: abABCDdcEeFf. 1 quai: quali. 2 notturno manto: il cielo notturno, immaginato come avvolto da uno scuro
mantello cui coloristicamente si contrappone al v. seguente dal candido volto). 3 E perché... grembo?: E perché la bianca luna ha sparso sull’erba una limpida nuvola (nembo) di stelle di cristallo? Cristalline stelle sono le gocce di rugiada (come cristalli tersi) in cui si specchiano le stelle.
Il fenomeno della rugiada (oggetto della metafora) si credeva causato dalla luna. 4 gir: andare, muoversi. Si riferisce allo spirare del vento (l’aure) che risuona come una voce lamentosa (dolendo); insino sta per fino. 5 partita: partenza.
La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 579
Analisi del testo La partecipazione della natura al dolore del poeta Il madrigale descrive a prima vista un paesaggio notturno, ma i particolari del paesaggio evocati via via non appartengono assolutamente a una descrizione oggettiva, ma rimandano, attraverso le metafore impiegate, a una dimensione di tristezza («pianto/lagrime... quasi dolendo») e vengono enunciati in modo originale, attraverso l’iterazione di forme dubitative e interrogative che creano un senso di sospensione e di mistero. Percorre tutta la lirica il legame tra natura e stato d’animo, consueto nei madrigali di Tasso, suggerito già nel primo verso, nel quale le gocce della rugiada notturna appaiono come lacrime del cielo e delle stelle. Anche lo scenario di questo madrigale, come quello del madrigale precedente, è caratterizzato dal contrasto tra luce e oscurità, frequente anche nella pittura manieristica e sottolineato dall’antitesi tra i termini in rima nei versi 5 e 8 (bianca luna: aria bruna) Con la terza proposizione (vv. 8-10, ancora interrogativa), si passa dal piano visivo a quello uditivo (sempre con umanizzazione della natura: il suono dei venti notturni evoca infatti un lamento). La situazione ispiratrice della poesia, che motiva la dolente partecipazione della natura (il distacco dall’amata) è rivelata soltanto negli ultimi due versi.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto del madrigale in 3 righe, sottolineando i parallelismi che il poeta inventa. COMPRENSIONE 2. Qual è il motivo principale della poesia? 3. Fai la parafrasi dei primi 4 versi. ANALISI 4. Quale atteggiamento assume il poeta verso la natura descritta? 5. In che senso nella lirica si sviluppa un contrasto fra luce e ombra? LESSICO 6. Quale valore ha l’opposizione delle espressioni bianca luna e aria bruna? STILE 7. Quale significato hanno le tre interrogative della seconda strofa?
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Dietro alla descrizione della natura, in tono doloroso e struggente, si nasconde un motivo di tipo sentimentale che si rivela solo negli ultimi due versi. Di cosa si tratta? Ritieni che questo procedimento letterario sia attuale? Sapresti individuare un testo musicale, di qualche autore del nostro tempo, che ricalca questa tecnica di scrittura? Sviluppa un elaborato prendendo spunto da queste domande.
Le Rime quasi 1700 componimenti in un arco di tempo che va dal 1567 al 1593
suddivisione per temi (non criterio cronologico): amore, vita di corte, spiritualità
musicalità e varietà metrica online T1c Torquato Tasso
Ecco mormorar l’onde Rime (124)
580 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
2 Un teatro “lirico” Le analogie tra teatro e madrigali Tasso compose due opere teatrali, la favola pastorale Aminta, rappresentata nel 1573, e la tragedia Re Torrismondo, iniziata nello stesso periodo dell’Aminta, ma conclusa e pubblicata più tardi, nel 1587. La favola pastorale, in particolare, presenta analogie con i madrigali (il critico Umberto Bosco la definì «il più bel madrigale della letteratura italiana»), in primo luogo per il metro: anche nell’Aminta, endecasillabi e settenari si alternano liberamente; nelle parti in cui i personaggi raccontano prevalgono gli endecasillabi, quando invece essi esprimono le loro emozioni si intensificano i settenari, dal ritmo più veloce e cantabile, specie nei passaggi in cui sono presenti rime baciate. La struttura metrica dell’Aminta rappresenta un precedente per il futuro melo dramma, in cui si alterneranno i “recitativi” e le “arie”: gli uni destinati alla narrazione, le altre all’espressione lirica dei sentimenti. Un teatro non di azioni, ma di emozioni Un altro elemento che avvicina le opere teatrali di Tasso alla lirica è il prevalere dell’espressione dei sentimenti sull’azione drammatica. Nell’Aminta gli eventi non si svolgono quasi mai sulla scena, ma sono rievocati dai protagonisti che, raccontandoli, esprimono i propri sentimenti ed emozioni. Anche la corrispondenza fra natura e stato d’animo, propria dei madrigali tasseschi, trova riscontro nei due testi teatrali. Nell’Aminta la natura non è soltanto sfondo agli eventi, ma è pervasa dalla medesima forza amorosa che domina la vicenda, e sembra condividere i sentimenti dei protagonisti. Lo stesso Aminta spiega all’amico Tirsi come la natura sembri partecipare alle sue pene d’amore (Aminta, a. I, sc. ii , 338-341): «Ho visto al pianto mio / risponder per pietate i sassi e l’onde, / e sospirar le fronde / ho visto al pianto mio». Così, nel Re Torrismondo, i tenebrosi sfondi naturali nordici rispecchiano la disperazione dei protagonisti, Alvida e Torrismondo che, dopo essere diventati amanti, scoprono con orrore di essere fratelli e, annientati dalla disperazione, si tolgono la vita.
3 L’Aminta Lessico stilizzazione Elaborazione di un’opera letteraria o di una sua parte secondo un determinato modello tipico, richiamandone solo i tratti principali.
Dimensione agreste L’Aminta è un testo teatrale in endecasillabi alternati a settenari. È diviso in cinque brevi atti, ognuno dei quali chiuso da un coro. La vicenda è ambientata in una dimensione agreste stilizzata ; anche i personaggi (e il coro stesso) sono pastori e ninfe, secondo la tradizione bucolica. L’opera, composta quasi di getto, in due mesi nel 1573 (pubblicata solo nel 1580) in un momento particolarmente felice della carriera poetica del Tasso, fu rappresentata il 31 luglio di quello stesso anno, sull’isolotto del Belvedere sul Po, dove amava recarsi la corte, dai comici della Compagnia dei Gelosi, dove recitavano attori già famosi come Vittoria Piissimi, Simon Bolognese, Giulio Pasquati e Rinaldo Petignoni. I cori della pastorale invece furono aggiunti in un secondo tempo, in vista di una messa in scena che ebbe luogo a Pesaro, nel 1574, presso la corte urbinate dei Della Rovere. La trama La vicenda dell’Aminta è semplice: in uno scenario idillico di monti, selve, fonti e limpidi fiumi, in cui tutti sono dediti alla pastorizia e alla caccia, il giovane Aminta scopre dentro di sé un sentimento prima sconosciuto, l’amore per La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 581
la compagna di giochi Silvia. Ma la giovane, ancora legata al mondo fanciullesco, appassionata soltanto alla caccia, ma soprattutto bloccata dai codici dell’onore e dell’orgoglio, non è pronta per l’amore e in qualche modo si sente tradita per il mutato comportamento dell’amico. Ne segue una serie di equivoci e di peripezie. Dapprima Silvia è creduta morta, dato che è sparita dopo essere scampata alle insidie di un Satiro grazie all’intervento di Aminta che la salva; e addirittura, quando la compagna Nerina si imbatte nel velo, insanguinato, che Silvia indossava, si crede che alcune ossa ritrovate nello stesso luogo siano le sue. Convinto della sua morte, Aminta, che già da tempo minacciava il suicidio per i rifiuti di Silvia, decide di togliersi la vita, quand’ecco che sulla scena compare la fanciulla, sana e salva: sfuggita al lupo, durante l’inseguimento aveva perduto il velo, mentre le ossa, e il sangue di cui il velo era macchiato, erano di un animale. Quando la fanciulla apprende che per amor suo Aminta vuole togliersi la vita, finalmente in lei nasce un sentimento di compassione, che prelude all’amore. Corre a cercare Aminta, che si è gettato da un dirupo: fortunatamente il giovane è soltanto ferito, perché la caduta è stata attutita da alcuni rami, e ormai può essere felice perché anche Silvia contraccambia il suo amore. La pastorale si conclude così con un lieto fine, in margine tuttavia a una serie di fortuiti e casuali eventi.
PER APPROFONDIRE
L’Aminta e il genere del dramma pastorale Definito «favola boschereccia» dall’autore, l’Aminta appartiene al genere del dramma pastorale, che si discosta dalla tragedia per la presenza del lieto fine e dalla commedia per il linguaggio sempre sorvegliato e l’ambientazione non urbana e realistica. Il dramma pastorale rappresenta lo sviluppo teatrale del genere bucolico, che aveva avuto origine nell’antichità, con le opere del greco Teocrito e del latino Virgilio e aveva ottenuto grande fortuna nella letteratura italiana umanistica e rinascimentale, in particolare con l’Arcadia di Sannazzaro (➜ C1). Come è caratteristico del genere, sotto le vesti di pastori e pastorelle sono raffigurate persone reali: come in un gioco di specchi, i cortigiani, spettatori della rappresentazione, vi potevano riconoscere, sebbene idealizzati, dame e gentiluomini della corte estense, fra i quali lo stesso poeta, che nel testo teatrale si cela dietro il personaggio di Tirsi. Fanno però eccezione i due protagonisti, i giovani Aminta e Silvia, «due voci primigenie della natura» (Moretti), che rappresentano la spontaneità della giovinezza.
Una dissimulata letterarietà: le fonti Uno degli aspetti più riusciti dell’Aminta è l’equilibrio tra naturalezza e letterarietà: il testo è intessuto di innumerevoli echi letterari che appaiono però “dissimulati” in un insieme omogeneo e armonioso. Questo aspetto era particolarmente apprezzato dal pubblico della corte, perché rendeva possibile a tutti una fruizione “ingenua” del testo e, al contempo, concedeva ai più colti il piacere di riconoscere allusioni ad autori italiani, latini e greci. Tra le innumerevoli fonti dell’Aminta si possono ricordare
582 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
l’Arcadia di Sannazzaro e le opere bucoliche di Teocrito, Mosco e Virgilio; si possono riconoscere, inoltre, episodi del romanzo greco di Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte (da cui è tratta la scena del bacio, rubato a Silvia con l’inganno ➜ T2 OL). Il tema del giovane (o della giovane) che rifugge l’amore ha una lunga tradizione letteraria che va dall’Ippolito di Euripide alle Stanze di Poliziano. La creduta morte di Silvia ricorda quella di Tisbe nelle Metamorfosi di Ovidio anche se Tasso, a differenza dell’autore latino, dà alla vicenda il lieto fine.
I temi La natura e l’amore Fondamentali temi dell’Aminta sono la natura e l’amore, fra loro strettamente collegati. L’Aminta rappresenta un mondo in cui la natura e l’uomo sono in perfetta armonia: nell’ambiente bucolico, estraneo alla civiltà, le uniche occupazioni sono la pastorizia, la caccia, i giochi tra pastori. Secondo la concezione rinascimentale che ispira l’Aminta, l’amore è la forza che pervade e anima l’universo, accomunando, appunto, uomo e natura. Il giovane pastore Aminta scopre il sentimento amoroso come una forza natu rale, che si fa strada dentro di lui, ancora fanciullo, prima che egli ne abbia piena coscienza: come confida all’amico Tirsi, «fui prima amante ch’intendessi che cosa fosse amore» (➜ T2 OL). Anche il celebre coro O bella età de l’oro, intonato dai pastori, ha come tema l’esaltazione della naturalità dell’amore, in contrapposizione con i divieti e la repressione propri della civiltà (➜ T3 ). Il passaggio dall’infanzia all’età adulta Il passaggio dall’infanzia all’età adulta è un altro tema dell’Aminta. Entrambi i protagonisti passano dal mondo spensierato dell’infanzia a quello più complesso, pieno di slanci, desideri e turbamenti dell’adolescenza. Più di Aminta, Silvia teme questo passaggio, bloccata dai codici e dalle regole dell’onore, dell’orgoglio, della virtù virginale, come emerge nel dialogo che ella ha con l’amica confidente Dafne, nella seconda scena dell’atto primo. In tal senso, Silvia sembra vivere come un tradimento il fatto che Aminta non voglia più essere per lei un amico e un compagno di giochi, ma un amante. Entrambi i ragazzi vivono un processo di formazione che passa attraverso l’ombra di una morte sfiorata (Silvia è creduta uccisa, Aminta minaccia fin dalla prima scena di suicidarsi per la mancata corresponsione amorosa e infatti poi tenta il suicidio), simbolo della difficile iniziazione all’età adulta. Dopo varie vicissitudini, Aminta comprende la necessità di moderare il suo impulso istintivo verso l’amore, Silvia impara a aprirsi all’esperienza amorosa. In tal senso i due protagonisti della pastorale, distaccandosi dal canone della tradizione amena e bucolica, rispecchiano appieno il tipico conflitto tassiano, l’irresolubile e sofferta compresenza di onore e amore, come emergerà poi in modo sontuoso nelle grandi figure della Gerusalemme liberata, intrise di chiaroscuri tormentati e inquieti. Non a caso – è interessante precisare – l’Aminta fu composta di getto nello stesso tempo in cui il Tasso attendeva, con impegno e dedizione, ai grandi canti di Armida e di Rinaldo del poema epico, ovvero proprio in quei canti in cui il poeta «ha rappresentato il mondo delle delizie voluttuose e dell’oblio immemore, in un’atmosfera intrisa di morbida sensualità, di languida seduzione, ma ha anche provveduto a dissolvere, dal di dentro e non per atto di moralità estrinseca, quella meravigliosa finzione» (Caretti). La visione ingenua e impulsiva di Aminta e Silvia è posta in confronto dialettico con il punto di vista più maturo di due personaggi adulti: Tirsi e Dafne (nella realtà il primo rappresenta lo stesso poeta, la seconda una dama di corte) che, con la loro scettica e disincantata saggezza, tentano di far comprendere ai due adolescenti come la loro visione della vita sia ancora immatura e parziale; Tirsi tenta infatti di convincere Aminta che non è giusto voler morire per un amore non ricambiato, mentre Dafne spiega a Silvia che anche lei un giorno dovrà inevitabilmente cedere all’amore, essendo tutta la natura pervasa dal «potere de l’amoroso foco». La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 583
Il tema del tempo Un altro tema dell’Aminta è quello del tempo; anzi, secondo alcuni (come il critico Roberto Fedi) il dramma pastorale costituisce «una sottile [...] riflessione sul sentimento del tempo». L’azione si svolge in un solo giorno, secondo l’unità di tempo di origine aristotelica, ma la prospettiva temporale da cui la guardano i personaggi è molto più ampia. In un flashback, Aminta racconta come il suo sentimento amoroso si sia lentamente sviluppato tra l’infanzia e l’adolescenza; inoltre, mentre Aminta e Silvia vivono la loro vicenda amorosa nel presente, Dafne e Tirsi ricordano la propria passata giovinezza rispecchiandosi in essi. L’orizzonte temporale si amplia ulteriormente nel coro O bella età de l’oro (➜ T3 ) in cui i pastori, come se per un momento si staccassero dalla scena e si ponessero all’esterno della vicenda, confrontano la mitica età dell’oro di un tempo felice, in armonia con la natura, con il tempo storico degli spettatori e dell’autore stesso, ormai irreparabilmente distante dalla felicità naturale.
4 Il Re Torrismondo La tragedia L’opera è una cupa tragedia, il cui soggetto è ispirato all’Edipo re di Sofocle. Scritta nel 1586, come rielaborazione di un testo a cui Tasso aveva lavorato nel 1574, il Galealto re di Norvegia, riprende le norme della tragedia classica e racconta le vicende di Torrismondo, principe dei Goti, che chiede in moglie la figlia del re di Norvegia, Alvida, con l’intento di cederla poi al suo amico Germondo, che ne è innamorato; una volta ottenutala, però, durante il viaggio di ritorno in Gotia se ne innamora a sua volta e ne viene ricambiato. Ma quando viene a sapere che Alvida è in realtà sua sorella, cerca di allontanarla e Alvida, disperata, si uccide, inducendo anche Torrismondo a compiere il tragico gesto. L’ambientazione nordica e spettrale della tragedia tende a far rispecchiare nelle tinte fosche e gotiche del paesaggio, nell’orrore di una natura selvaggia e incontaminata, il dramma interiore dei personaggi, combattuti dal tipico conflitto tassiano fra onore e amore, regola e sentimento, decoro e passione, dove l’esito tragico esemplifica il tema della forza devastante del destino. Joachim Wtewael, L’età dell’oro, 1605 (Metropolitan Museum, New York).
online T2 Torquato Tasso
Il mondo bucolico di Aminta e l’amore per Silvia Aminta, atto I, scena ii, vv. 401-539
584 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Torquato Tasso
T3
«O bella età de l’oro»: il contrasto tra natura e civiltà Aminta, coro
T. Tasso, Aminta, a c. di B. Maier, Rizzoli, Milano 1976
Nell’Aminta ogni atto si chiude con un coro, la cui funzione è quella di commentare la vicenda. O bella età de l’oro, coro di pastori posto al termine del primo atto, è un testo chiave dell’opera, fondamentale per comprendere l’ideologia tassiana. Il coro è incentrato sulla contrapposizione tra un passato mitico felice – l’età dell’oro – e un presente afflitto dall’Onore.
O bella età de l’oro, non già1 perché di latte sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco2; non perché i frutti loro 660 dier da l’aratro intatte le terre3, e gli angui errar senz’ira o tosco4; non perché nuvol fosco non spiegò allor suo velo, ma in primavera eterna, 665 ch’ora s’accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo5; né portò peregrino o guerra o merce a gli altrui lidi il pino6;
La metrica Canzone in cinque stanze di endecasillabi e settenari, con schema delle rime abCabCcdeeDfF; congedo XyY. 1 non già: non tanto. 2 di latte... bosco: scorreva un fiume di latte e il miele (mele) stillava spontaneamente dagli alberi. 3 i frutti... le terre: le terre produssero frutti senza esser state toccate (intatte) dall’aratro (senza il lavoro dei campi). 4 angui... tosco: e i serpenti (angui, latinismo) strisciavano (letteralmente “erravano”) senza aggressività e senza veleno (tosco). 5 nuvol fosco... cielo: (non perché) nuvole nere non velavano il cielo ma (anzi, il cielo) era ridente di luce e di serenità in un’eterna primavera, mentre (ch’) ora si accende di calore nel periodo estivo e si raffredda e si incupisce d’inverno. 6 portò... pino: né perché le navi (la materia per l’oggetto: pino per “legno” e, con ulteriore passaggio, per “nave”, è una metonimia, o secondo altri, una sineddoche), recandosi in altri paesi (peregrino), non vi portavano guerra o merci.
ma sol perché quel vano 670 nome senza soggetto, quell’idolo d’errori, idol d’inganno, quel che dal volgo insano onor poscia fu detto7, che di nostra natura ’l feo tiranno8, 675 non mischiava il suo affanno fra le liete dolcezze de l’amoroso gregge9; né fu sua dura legge10 nota a quell’alme in libertate avvezze11, 680 ma legge aurea e felice che natura scolpì12: “S’ei piace, ei lice”13.
7 ma... detto: ma solo perché quel nome
12 scolpì: il verbo scolpire esprime la for-
vano (in quanto convenzionale), non riferibile a una realtà esistente (cioè privo di consistenza), quella falsa divinità, causa di errori e di inganni, quello che dal popolo stolto poi (poscia) fu chiamato onore. L’avversativa ma, posta in apertura della seconda strofa, sottolinea come per Tasso l’età de l’oro sia diversa da quella del mito e insieme introduce il tema fondamentale del coro: la contrapposizione tra presente e passato come contrasto fra natura e cultura. Secondo il poeta, l’età dell’oro è un’era del passato dell’uomo in cui, a differenza dell’epoca sua, l’onore non frenava gli istinti naturali. 8 che di nostra... tiranno: che lo rese predominante sulle tendenze naturali. 9 de l’amoroso gregge: del popolo (gregge in quanto aggregazione spontanea e naturale) dedito all’amore. 10 sua dura legge: la sua (dell’onore) severa legge. 11 alme... avvezze: anime abituate alla libertà.
za della legge naturale, profondamente radicata nell’animo umano e richiama l’uso antico di incidere nella pietra o nel bronzo leggi e norme per simboleggiarne la perennità. 13 “S’ei... lice”: se (qualcosa) piace, è lecita. La massima, che riassume il significato del coro tassiano, può essere ricondotta alla filosofia epicurea ed è stata poi ripresa nel Rinascimento, che considera il piacere come il massimo bene per l’uomo; l’espressione echeggia un verso del canto dantesco dei lussuriosi, in cui la regina Semiramide «libito fé licito in sua legge» (If V 56). Se l’espressione in Dante condanna i costumi lascivi della regina, qui vale come un principio positivo. Il chiasmo dura legge (v. 678) e legge aurea (v. 680) sottolinea l’opposizione tra la legge imposta dalla civiltà, difficile da sopportare, e la legge naturale.
La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 585
Allor tra fiori e linfe14 traen dolci carole15 gli Amoretti senz’archi e senza faci16; 685 sedean pastori e ninfe meschiando a le parole vezzi e susurri, ed a i susurri i baci strettamente tenaci; la verginella ignude 690 scopria sue fresche rose, ch’or tien nel velo ascose, e le poma del seno acerbe e crude17; e spesso in fonte o in lago scherzar si vide con l’amata il vago18. 695 Tu prima, Onor, velasti la fonte de i diletti19, negando l’onde a l’amorosa sete20; tu a’ begli occhi insegnasti di starne in sé ristretti21, 700 e tener lor bellezze altrui secrete22; tu raccogliesti in rete23 le chiome a l’aura sparte; tu i dolci atti lascivi24 festi25 ritrosi e schivi;
14 linfe: acque limpide, di ruscelli e di laghi. 15 traen dolci carole: (sogg. gli Amoretti) ballavano armoniosamente. La carola è un ballo che si danzava tenendosi per mano e girando in cerchio. 16 senz’archi... faci: senza archi e senza fiaccole. Gli amorini sono rappresentati senza le tradizionali “armi”, cioè le frecce, e senza fiaccole, a indicare che gli amori erano gioiosi e istintivi, e non generavano sofferenza. 17 la verginella... crude: la fanciulla lasciava nude le sue fresche membra rosate, che ora tiene coperte da vesti (nel velo) e scopriva le giovanili rotondità del seno (paragonate, come tradizione, a frutti acerbi). 18 il vago: l’innamorato. 19 velasti... diletti: copristi la bellezza, fonte del piacere. 20 negando... sete: negando la soddisfazione (l’onde, “l’acqua”) alla sete amorosa. La metafora amorosa sete sottolinea la naturalità del desiderio amoroso. 21 in sé ristretti: abbassati per pudore.
a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte26; opra è tua sola27, o Onore, che furto sia quel che fu don d’Amore28. E son tuoi fatti egregi29 le pene e i pianti nostri. 710 Ma tu, d’Amore e di Natura donno30, tu domator de’ regi, che fai tra questi chiostri31, che la grandezza tua capir non ponno32? Vattene, e turba il sonno 715 a gl’illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa33 viver ne l’uso de l’antiche genti34. 705
Amiam, ché non ha tregua 720 con gli anni umana vita, e si dilegua35. Amiam, ché ’l sol si muore e poi rinasce: a noi sua breve luce s’asconde, e ’l sonno eterna notte adduce36.
22 altrui secrete: nascoste ad altri. 23 raccogliesti in rete: fa riferimento alle acconciature di moda, con le chiome variamente raccolte in reticelle. 24 lascivi: sensuali, amorosi. 25 festi: facesti, rendesti. 26 l’arte: l’artificio. 27 opra è tua sola: è solo colpa tua. 28 che furto... d’Amore: che quello che un tempo era un dono d’Amore, ora sia diventato un furto, qualcosa che si ruba, che si ricerca di nascosto. Per il nuovo, rigido codice di comportamento imposto dalla Controriforma, l’amore è accompagnato da sensi di colpa; perciò appare come un furto. 29 fatti egregi: grandi azioni, imprese. 30 donno: signore, dominatore; deriva dal latino dominus (“signore”) e si riferisce all’Onore, che ormai predomina sull’amore e sulla natura. 31 chiostri: luoghi chiusi, ritirati, cioè luoghi bucolici, i boschi, considerati nella poesia pastorale spazi di evasione dalla società. 32 capir non ponno: non possono contenere (capire, dal latino capio).
586 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
33 noi qui... lassa: è il gruppo (noi... turba) di umili pastori; negletta, “trascurata”. Si noti l’aequivocatio di turba (v. 714 verbo e v. 717 sostantivo). 34 viver... genti: vivere come gli antichi; cioè come i pagani, senza l’idea cristiana del peccato. 35 Amiam... dilegua: Amiamo, perché la vita umana scorre fugace e presto finisce. L’invito ad amare, data la brevità e fugacità della vita, si ispira a una concezione epicurea e paganeggiante della vita, frequentemente ripresa nel Rinascimento (si pensi solo alla ballata di Lorenzo il Magnifico Quant’è bella giovinezza ➜ C1 T1 ). 36 Amiam... adduce: i versi riprendono quasi alla lettera il carme V (vv. 4-6) di Catullo, il cui tema è l’invito ad amare, perché la vita è breve: «Soles occidere et redire possunt: nobis, cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda» (“il sole può tramontare e risorgere; noi, quando sarà tramontata la breve luce della nostra vita, dovremo dormire un’unica, eterna notte”).
Analisi del testo Il mito dell’età dell’oro Nella prima strofa il poeta rievoca il mito dell’età dell’oro, narrato dal poeta greco Esiodo e ripreso da altri autori classici, come Virgilio, Tibullo e Ovidio. Gli antichi ignoravano l’idea di progresso e consideravano il corso della storia come una decadenza dalla perfezione originaria: collocavano in un remoto passato l’epoca più felice per l’umanità (la mitica età dell’oro), immaginandola come allietata da una natura spontaneamente feconda e sotto il segno di una pacifica, serena convivenza tra gli uomini. Il poeta riassume gli elementi topici del mito, ripresi in particolare dalle Metamorfosi di Ovidio (I, vv. 89-112): nella mitica età dell’oro la terra produceva spontaneamente i suoi frutti, scorrevano fiumi di latte e, senza la fatica dell’apicoltura, il miele stillava direttamente dai tronchi degli alberi; gli animali non conoscevano la ferocia e il mondo era allietato da un’eterna primavera; la fecondità della natura rendeva inutili il lavoro e il commercio; perciò le navi non solcavano i mari per i loro traffici, non c’erano guerre e gli uomini vivevano in pace.
Una visione alternativa dell’età dell’oro Nella seconda strofa, aperta dalla forte antitesi ma, il poeta, attraverso la voce del coro, precisa però che “l’età dell’oro”, l’epoca di una remota felicità perduta e rimpianta, non è per lui il periodo mitico dell’abbondanza e della fertilità immaginato dagli antichi poeti, ma è una condizione di vita più libera di quella presente (v. 679) in cui, senza divieti e costrizioni, gli uomini seguivano una morale naturale rivolta al piacere. Non è difficile identificare l’età rimpianta da Tasso con il Rinascimento, che cominciava negli ultimi decenni del Cinquecento a essere un modello culturale e ideologico “lontano”, un’epoca in cui era diffusa una concezione edonistica della vita, che si riallacciava alla filosofia epicurea. Il coro contiene infatti l’invito epicureo a godere dei piaceri e delle gioie dell’esistenza, un tratto caratteristico della cultura rinascimentale (espresso in molti testi emblematici, come ad esempio la ballata di Lorenzo il Magnifico Quant’è bella giovinezza). La formula «S’ei piace, ei lice» (è lecito tutto quello che dona piacere), riassume i valori di un’etica paganeggiante e edonistica, in cui la ricerca naturale del piacere non è condannata, ma considerata piena adesione alla vita. Ma, come il poeta lamenta, alla legge aurea e felice del piacere, in accordo con la natura, la civiltà ha contrapposto la dura legge dell’onore.
Cos’è l’“onore”? Ma cosa è per Tasso l’“onore”, parola chiave del coro? Il concetto coincide con la stessa civiltà: già per i guerrieri omerici possiamo parlare di un senso dell’onore, basato sull’etica guerresca; successivamente, con il tempo, l’onore assume sfumature diverse, in rapporto all’evoluzione della società, ma coincide in ogni caso con la conformità dell’individuo ai valori del contesto sociale e culturale in cui è inserito. L’onore, ai tempi di Tasso, può essere dunque l’obbligo di seguire il codice di comportamento imposto dalla Chiesa controriformistica, che inevitabilmente si trovava in conflitto con i valori edonistici rinascimentali. Sebbene in forma indiretta e in modo allusivo, nell’Aminta Tasso dà espressione a questo conflitto e manifesta per contro la sua adesione alla visione precedente della vita e alla sua concezione positiva della natura e dell’uomo.
Il confronto con la Gerusalemme liberata Il tema sarà ripreso nella Gerusalemme liberata, nell’episodio di Rinaldo e Armida(➜ T11 ), in cui però la mentalità edonistica rinascimentale, lungi dall’essere rimpianta, è condannata. Poiché i due testi furono scritti all’incirca nello stesso periodo, non si può pensare a un mutamento intervenuto nella concezione dell’autore. Occorre invece rifarsi alle convenzioni del genere: sarebbe stato impensabile in un poema epico (oltretutto di argomento religioso) esaltare una tale etica, mentre questo può essere concesso in un genere tradizionalmente disimpegnato, inscritto in uno scenario idillico e al di fuori della storia.
La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo 2 587
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi in 5 righe la rappresentazione dell’età felice del coro dell’atto primo, suddividendo il tuo testo in tre sequenze e dando a ognuna un titolo. COMPRENSIONE 2. Quali caratteristiche presenta l’ambiente naturale nell’età dell’oro? 3. Perché viene data all’onore la seguente definizione: «idolo d’errori, idol d’inganno»? 4 Cosa significa che l’onore ha «velato la fonte de’ diletti»? ANALISI 5. Quale principio si celebra con la formula «S’ei piace, ei lice»? 6. In cosa consiste la contrapposizione, che in questo brano il Tasso sviluppa, fra Onore e Amore? STILE 7. Con quali aggettivi si può definire lo stile, e in particolare il lessico (la scelta delle parole), utilizzato in questo brano? Quale significato implica questa scelta stilistica?
PER APPROFONDIRE
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Ritieni che le riflessioni sviluppate dal Tasso in questo brano siano attuali? O meglio: che la concezione di un anelato ritorno a una primitiva età dell’oro vada contro l’ideale di un progresso? Elabora un testo argomentativo di almeno 15 righe trattando questo spunto.
Il “disagio della civiltà” da Tasso all’epoca moderna Il contrasto tra l’istinto naturale al piacere e la repressione imposta dalla civiltà, denunciato nel coro dell’Aminta, risulta ancor oggi attuale: basti pensare a una delle più importanti opere di Freud, Il disagio della civiltà (1929), in cui il fondatore della psicoanalisi teorizza che un disagio, una sofferenza, una tensione fra individuo e società siano conseguenza inevitabile della civilizzazione, intrinsecamente fondata sulla sistematica repressione del principio del piacere (un desiderio di godimento innato in ciascun individuo) e della sfera dell’istintività (che si esercita spontaneamente nella prima infanzia) per adattare l’individuo alle esigenze della comunità. Il contrasto fra la natura istintiva dell’uomo e la civiltà è un tema che percorre tutta la riflessione filosofica nel tempo, estrinsecandosi in due posizioni fra loro opposte che qui, di necessità, schematizziamo.
588 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
La prima (in analogia con l’Aminta) è che la natura umana sia fondamentalmente positiva e quindi la repressione sociale sia tendenzialmente condannabile: è la posizione del filosofo illuminista Rousseau e di pensatori novecenteschi come Marcuse, Fromm, Foucault; ma c’è chi vede lo stato di natura originario in modo opposto, funestato da guerre e sopraffazioni reciproche. È la posizione del filosofo Thomas Hobbes (1588-1679) per cui, in assenza della legge e dell’ordine civile e politico, homo homini lupus (“l’uomo è un lupo per l’uomo”); ma anche di un famoso libro di William Golding, Il signore delle mosche (1954), in cui un gruppo di ragazzi rimasti da soli in un’isola deserta involve istintivamente verso la violenza e la barbarie. Dunque, qual è la vera natura dell’uomo in assenza del baluardo della civiltà? Una questione che finora non ha trovato una risposta univoca.
3 VIDEOLEZIONE
La Gerusalemme liberata 1 Storia della Gerusalemme liberata Dall’Orlando furioso alla Gerusalemme liberata Tra l’Orlando furioso, pubblicato nell’ultima edizione nel 1532, e la Gerusalemme liberata, ultimata da Tasso verso il 1575, intercorrono circa quarant’anni. Entrambe le opere furono scritte presso la corte di Ferrara e possono essere ricondotte al genere cavalleresco; entrambe sono in ottave e accomunate dalla presenza di storie di cavalieri, guerre, amori ed episodi in cui entra in scena la magia. Ma proprio tali analogie fanno maggiormente risaltare le differenze tra i due poe mi, che rispecchiano due opposte visioni del mondo: l’Orlando furioso, con le sue vicende avventurose e fantastiche, rappresenta un punto di vista laico, ispirato alla libertà degli ideali rinascimentali; la Gerusalemme liberata, poema non più cavalleresco ma eroico , (come Tasso stesso lo definisce) si incentra invece su una vicenda storica, la prima crociata, ed è animato da una visione religiosa, che risente degli ideali della Controriforma e del concilio di Trento.
Parola chiave
Un macrosistema intertestuale La Gerusalemme liberata si inserisce in un più ampio «macrosistema intertestuale» (Anselmi), ossia un insieme di testi varia mente in rapporto con la composizione del capolavoro. Dall’adolescenza fino agli ultimi anni di vita, Tasso si impegna a realizzare un poema in grado di rispondere alle attese del proprio tempo: rivolgendosi a una cristianità sempre più pressata dalla minaccia dei Turchi (contro cui si sarebbe combattuta la grande battaglia di Lepanto del 1571, contemporanea al poema), ma soprattutto dilaniata al suo interno dalla Riforma protestante, Tasso aspira a realizzare un poema epico cristiano, individuandone sin dall’inizio l’argomento nella prima crociata, come momento di coesione e di riscossa della cristianità. Del progetto di poema eroico sulla crociata fanno parte un abbozzo giovanile di poema in ottave, il Gierusalemme, iniziato da Tasso a soli quindici anni, nel 1559, poi lasciato incompiuto, di cui molti versi confluiscono, quasi senza variazioni, nei primi tre canti della Liberata; il poema cavalleresco Rinaldo, pubblicato nel 1562, che consentì a Tasso, allora appena diciottenne, di acquisire una completa padronanza di temi, motivi e linguaggio di quella componente romanzesca che, con grande abilità letteraria, sarebbe poi riuscito a fondere con la trama storica della Gerusalemme liberata, e il tardo rifacimento della Liberata, intitolato Gerusalemme conquistata. Appartengono a pieno titolo al macrosistema anche i testi di poetica dedicati da Tasso al poema eroico: i Discorsi dell’arte poetica, le Lettere poetiche
poema eroico Così Tasso definisce la Gerusalemme liberata, per differenziarla dai poemi cavallereschi di Boiardo e Ariosto, con i quali ha vari elementi in comune (il metro dell’ottava, l’intreccio tra guerra e amori, e diversi motivi topici, come
l’avventura, la magia, i duelli cavallereschi), ma da cui si distingue per il fondamento storico e per l’intento di presentare i suoi eroi come modelli etici, da proporre all’imitazione del lettore.
La Gerusalemme liberata 3 589
e i più tardi Discorsi del poema eroico. Sono infatti opere in cui la trattazione interagisce con l’ideazione del capolavoro tassiano, costituendone il supporto teorico. La tormentata vicenda compositiva e editoriale La composizione della Gerusalemme liberata si protrae per circa dieci anni, dal 1565 circa al 1575, quando l’opera, costituita da venti canti, è ormai compiuta (il titolo provvisorio era Goffredo) e Tasso può leggerla ad Alfonso II e a Lucrezia d’Este. Nello stesso tempo comincia a spedirne delle parti a revisori da lui scelti, per verificare come potrebbe essere ac colta dalle autorità ecclesiastiche e dai letterati sostenitori delle teorie aristoteliche. L’esito non è incoraggiante e, angustiato dalle severe critiche dei revisori, il poeta si vede costretto a intraprendere un interminabile processo di riscrittura. Nel frattempo, durante la carcerazione di Tasso a Sant’Anna, alcuni editori, entrati in possesso di copie parziali e scorrette della prima versione non rivista, le stampano senza il suo consenso. In seguito alcuni letterati amici del poeta curano edizioni più attendibili della re dazione originaria, fra le quali due curate da Febo Bonnà e pubblicate nel 1581: la seconda, con nuove correzioni di Tasso, è ancora alla base delle edizioni moderne dell’opera; dunque la Gerusalemme liberata così come la leggiamo noi non corrisponde alla volontà ultima dell’autore. Neppure il titolo con cui è universalmente nota si deve al Tasso, ma è stato introdotto dal letterato Angelo Ingegneri. Mentre l’opera si diffonde con enorme successo, Tasso continua dunque a rive derla e correggerla, soprattutto per renderla in linea con i pareri dei severi revisori ecclesiastici: perciò comincia a eliminare e a modificare (spesso a malincuore, rendendosi conto che si tratta delle parti più felici) tutto ciò che può apparire poco edificante per un’epoca rigida e ossessionata dal peccato qual è la Controriforma.
Macrosistema intertestuale della Gerusalemme liberata Gierusalemme
Rinaldo
Gerusalemme liberata
Discorsi dell’arte poetica e Discorsi del poema eroico
Gerusalemme conquistata
abbozzo giovanile in ottave (1559), incompiuto
poema cavalleresco (pubblicato nel 1562), testimonia i primi esperimenti sui temi e sul linguaggio poetico della componente “romanzesca”
fra il 1565 e il 1575 la stesura del poema
scritti teorici di poetica
rifacimentoriscrittura, frutto degli scrupoli letterari e religiosi che assillavano il poeta (1593)
590 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
La Gerusalemme conquistata Il risultato della quasi ventennale riscrittura è la Gerusalemme conquistata, pubblicata soltanto nel 1593, unica versione del poema sulla crociata edita e approvata da Tasso. Si tratta però di un’opera molto diversa dalla Gerusalemme liberata: i canti vengono portati da venti a ventiquattro, per analogia con il modello classico dell’Iliade; alcuni episodi famosi, ma poco consoni allo “spirito di crociata”, sono eliminati; i pagani e i cristiani sono più nettamente contrapposti; i riferimenti alla tematica amorosa e alla magia vengono ridotti a favore del tema epico-guerresco, mentre lo stile diventa uniformemente alto e solenne, privo delle sfumature che rendevano affascinante il poema proprio per la sua complessità psicologica ed emotiva. Più consona allo spirito controriformistico, la Gerusalemme conquistata non è ap prezzata, però, dal pubblico, che preferisce continuare a leggere la Gerusalemme liberata (come facciamo, del resto, ancora oggi).
PER APPROFONDIRE
La produzione epico-cavalleresca Rinaldo
tradizionale poema cavalleresco in 12 canti
Gerusalemme liberata
il capolavoro di Tasso; poema eroico in 20 canti, ultimato nel 1575, che ha per sfondo storico la prima crociata
Gerusalemme conquistata
riscrittura della Gerusalemme liberata in 24 canti, pubblicata nel 1593, con notevoli modificazioni, a cominciare dall’eliminazione di episodi ritenuti non adatti a un poema cristiano
Leggere la Liberata o la Conquistata? Un caso unico nella filologia italiana Dal punto di vista filologico, quello della Liberata è un caso unico. Infatti, in genere, quando esistono diverse redazioni o versioni a stampa di un’opera se ne legge l’ultima, considerandola più corrispondente alle intenzioni dell’autore e perciò capace di esprimerne al meglio il messaggio poetico ed esistenziale. Ciò accade, ad esempio, per I promessi sposi e per l’Orlando furioso. Nel caso di Tasso ci comportiamo in modo diverso e, facendo riferimento al giudizio dei lettori più che alla volontà dell’autore, leggiamo la Gerusalemme liberata, poema non pubblicato né approvato dall’autore, mentre trascuriamo la Gerusalemme conquistata, che Tasso considerava l’unica versione legittima del poema.
Se in genere uno scrittore, rivedendo la propria opera, riesce a mettere a fuoco sempre meglio il suo progetto e a esprimere la propria individualità personale e poetica, a Tasso, sempre più preda di scrupoli religiosi e ossessionato dalle critiche dei revisori ecclesiastici, sembra sia avvenuto il contrario. E alla fine, dominato dai sensi di colpa per un’opera non abbastanza consona agli ideali controriformistici, diventa «l’inesorabile e implacabile Inquisitore e Censore di sé stesso», tanto da giungere ad affermare di sentirsi «alieno» [estraneo] dal primo poema, come «i padri da’ figliuoli ribelli, e sospetti d’esser nati d’adulterio». La Gerusalemme liberata, per il suo autore, fu dunque come un figlio illegittimo, frutto del peccato, indegno di essere ufficialmente riconosciuto.
La Gerusalemme liberata 3 591
2 La riflessione teorica sul poema: i Discorsi dell’arte poetica Riflessioni di poetica Tasso ha ben chiaro fin dal principio il proprio obiettivo: scrivere un’opera in grado di appagare le attese sia dei letterati sia del pubblico, coniugando le caratteristiche di un poema cavalleresco, vario e piacevole come quello dell’Ariosto, con quelle più ambiziose di un poema epico, in cui tutta la comunità cristiana cattolica possa riconoscersi. Un’opera che possa aspirare alla dignità di un nuovo “classico”, alla pari dell’Iliade e dell’Eneide. Per affrontare il difficile compito, si dedica ad approfonditi studi e riflessioni sulla poetica, il cui frutto sono i Discorsi dell’arte poetica ed in particolare sopra il poema eroico. Probabilmente scritti tra il 1561 e il 1562 (ma alcuni studiosi propongono una data più tarda, tra il 1565 e il 1566), nel periodo in cui l’autore riprende l’abbozzo del giovanile Gierusalemme per dare al poema sulla crociata una forma compiuta, i Discorsi vengono in seguito rielaborati, ampliati in sei libri, e pubblicati nel 1594 con il titolo Discorsi del poema eroico. Nell’elaborazione della propria poetica, Tasso si rifà principalmente (ma non esclusivamente) ad Aristotele, la cui Poetica aveva assunto un’importanza fondamentale nel secondo Cinquecento (➜ SCENARI PAG. 559) e ne riprende due princìpi cardine: il verisimile e l’unità dell’opera. La scelta dell’argomento: storia o invenzione? I Discorsi dell’arte poetica sono suddivisi in tre libri, ciascuno incentrato su un problema compositivo specifico. Il primo è dedicato alla scelta della materia narrativa del poema. In linea con la tendenza moralistico-pedagogica propria dell’età della Controriforma, Tasso ritiene che la poesia debba offrire al lettore insegnamenti morali e modelli etici: questi però risultano più efficaci e credibili se attinti alla realtà storica. La prima crociata – che, svoltasi tra il 1096 e il 1099, aveva permesso ai cristiani la temporanea riconquista della Terra Santa – appare al poeta l’argomento più adatto, sia perché aveva rappresentato la riscossa cristiana contro i nemici della fede, sia perché si tratta di un evento collocato alla giusta distanza storica: non troppo lontano nel tempo, così da essere consegnato alla leggenda, ma neppure troppo vicino (perché in tal caso sarebbe stato difficile inserirvi elementi immaginari e fantasiosi). Una materia, dunque, coinvolgente per i lettori e tale da poter essere trattata con una certa libertà (per la teoria aristotelica, infatti, il poeta non deve ritrarre il vero, ma il verisimile). Verisimile e “maraviglioso” Accanto al verisimile, Tasso ritiene però debba trovare spazio anche il maraviglioso, ossia l’insieme degli elementi fantasiosi, magici e sovrannaturali che avevano reso così piacevole e avvincente l’opera ariostesca. Il rischio che il maraviglioso si ponga in contrasto con il verisimile, annullandone la credibilità, esiste; ma, per un argomento legato alla religione come la crociata, la soluzione si trova, secondo il poeta, nel «maraviglioso cristiano», che consiste nel ricondurre gli eventi straordinari a forze divine e demoniache, a cui un cristiano crede per fede, a differenza delle mitologiche divinità pagane (ma anche delle figure e situazioni proprie del “fantastico” cavalleresco ➜ D1 ). Unità e varietà Il secondo libro è incentrato sul rapporto tra varietà e unità. Obiettivo dichiarato di Tasso è conciliare il principio dell’unità teorizzato da Aristotele con la piacevole varietà dell’esempio ariostesco. Un compito difficile: la varietà dell’Orlando furioso era infatti intimamente connessa alla visione rinascimentale del mondo, mentre l’epoca della Controriforma impone di assoggettarsi a un unico sistema di valori, fondato su una rigida ortodossia religiosa. Per contemperare i due principi (unità e varietà) Tasso fa sua l’idea, di origine neoplatonica, del poema co
592 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
me «picciolo mondo», insieme uno e molteplice: varietà, dunque, ma subordinata a un’idea d’insieme unitaria (di fatto Tasso organizza la trama intorno a un evento centrale e a un personaggio cardine, Goffredo di Buglione). Lo stile del “poema eroico” Il terzo libro dei Discorsi è dedicato allo stile. Trattandosi di un “poema eroico”, fondato su imprese di nobili personaggi, Tasso teorizza un modello linguistico distante dal registro piano e colloquiale del poema ariostesco: uno stile alto, «magnifico e sublime», caratterizzato da scelte lessicali raffinate (voci «peregrine e da l’uso popolare lontane»), da molteplici figure retoriche, da una costruzione sintattica complessa, da frequenti enjambement (osserva infatti nei Discorsi sopra il poema eroico: «I versi spezzati, i quali entrano l’uno ne l’altro […] fanno il parlar magnifico e sublime»). In una lettera a Scipione Gonzaga, Tasso precisa inoltre di aver adottato il «parlar disgiunto», in cui le parole e le frasi sono legate più in modo implicito che da puntuali nessi logico-grammaticali.
I testi teorici di poetica Discorsi dell’arte poetica STRUTTURA
tre libri
PUBBLICAZIONE
1587 (ma iniziati molti anni prima)
CONTENUTO
riflessioni sul poema eroico e su come conciliare l’unità, richiesta da Aristotele, con la varietà di episodi e di azioni dei materiali cavallereschi, sul modo di realizzare la verosimiglianza e sulla necessità di introdurre la dimensione del meraviglioso per attrarre i lettori, purché sia un meraviglioso “cristiano”, non fiabesco
PER APPROFONDIRE
Discorsi del poema eroico STRUTTURA
sei libri
PUBBLICAZIONE
pubblicati postumi nel 1594
CONTENUTO
riprendono i Discorsi dell’arte poetica, con un’attenzione centrata sul poema eroico, a sostegno dell’operazione compiuta con la Gerusalemme conquistata
Le fonti storiche del poema e la rielaborazione fantastica La Gerusalemme liberata è basata su un’accurata documentazione storica. La fonte principale impiegata da Tasso per ricostruire gli avvenimenti della crociata è la Historia belli sacri verissima (Storia fedele della Guerra santa) di Guglielmo di Tiro, che l’autore aveva già consultato per il giovanile Gierusalemme. In genere il poeta si attiene con un certo scrupolo ai dati storici, ma apporta qualche mutamento per rendere più suggestiva la narrazione: ad esempio raddoppia la durata della crociata, da tre (1096-1099) a sei anni, per far apparire l’impresa ancora più difficile e sofferta. Altri cambiamenti rispetto alla storia sono determinati dall’inserimento, accanto a figure reali come quella dei crociati Goffredo di Buglione e Tancredi, di Pietro l’Eremita (predicatore al seguito della
crociata), di personaggi di invenzione come Erminia, Argante, Clorinda, Armida, Rinaldo (immaginato come capostipite degli Estensi, dunque figura affine al Ruggiero ariostesco). Anche i personaggi tratti dalla storia, tuttavia, assumono nel poema tratti idealizzati: ad esempio, Goffredo di Buglione fu effettivamente eletto re di Gerusalemme, ma non era così virtuoso come lo dipinge il poeta; ancora più marcata la metamorfosi di Tancredi: nella realtà storica era rissoso e dissoluto e, come il poeta stesso ricorda in una lettera, «molto incontinente et oltramodo vago degli abbracciamenti delle saracine», mentre nel poema è un eroe «giovinetto» (in realtà era adulto), dall’animo gentile e malinconico, disperatamente innamorato della nemica Clorinda.
La Gerusalemme liberata 3 593
Torquato Tasso
D1
La poetica di Tasso: il «maraviglioso cristiano» Discorsi del poema eroico
T. Tasso, Prose, a c. di F. Flora, Rizzoli, Milano 1933
Tasso accompagnò la stesura del poema con un’approfondita riflessione teorica, componendo i Discorsi dell’arte poetica, poi rielaborati e pubblicati col titolo Discorsi del poema eroico (1594). Da quest’ultima stesura è tratto il brano proposto, incentrato sul «maraviglioso cristiano».
La poesia non è altro, che imitazione1: e questo non si può chiamare2 in dubbio: e l’imitazione non può essere discompagnata3 dal verisimile, perché l’imitare non è altro, che il rassomigliare: non può dunque parte alcuna di poesia esser separata dal verisimile: ed in somma il verisimile non è una di quelle condizioni richieste 5 ne la poesia per maggior sua bellezza ed ornamento; ma è propria ed intrinseca de l’essenza sua, ed in ogni sua parte sovra ogni altra cosa necessaria4. Ma benché io stringa il poeta epico ad un obbligo perpetuo di servare il verisimile5, non però escludo da lui l’altra parte, cioè il maraviglioso6: anzi giudico che un’azione medesima possa essere e maravigliosa e verisimile [...]. 10 Attribuisca il poeta alcune operazioni7 che di gran lunga eccedono il potere8 de gli uomini a Dio, a gli angioli suoi, a’ demoni, o a coloro a’ quali da Dio o da’ demoni è conceduta questa potestà, quali sono i santi, i magi9 e le fate. Queste opere, se per se stesse saranno considerate, maravigliose parranno; anzi miracoli sono chiamati nel comune uso di parlare. Queste medesime, se si avrà riguardo a la virtù10 ed a la 15 potenza di chi l’ha operate, verisimili saranno giudicate: perché avendo gli uomini nostri bevuta ne le fasce insieme col latte questa opinione11, ed essendo poi in loro confermata dai maestri de la santa fede12, cioè che Dio ed i suoi ministri13, e i demoni, e i magi, permettendolo lui14, possano far cose sovra le forze de la natura15 maravigliose; e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne nuovi esempi non parrà loro 20 fuori del verisimile quello che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate16 esser avvenuto e poter di nuovo molte volte avvenire [...]. Ultimamente17, dovendo il poeta aver molto riguardo al giovamento18, molto meglio accenderà l’animo de’ nostri cavalieri con l’esempio de’ fideli, che de gl’infedeli19, movendo sempre più l’autorità de’ simili che de’ non simili, e de’ domestici che de gli 25 stranieri20. [...] Per queste cagioni medesime ai nostri tempi le vittorie de’ fedeli contro gl’infedeli porgeranno gratissimo e nobilissimo argumento di poetare. Dee dunque l’argumento del poema epico esser derivato da vera istoria e da non falsa religione. 1 La poesia... imitazione: il precetto deriva dalla Poetica di Aristotele: la poesia deve imitare la vita reale. 2 chiamare: porre. 3 discompagnata: separata. 4 il verisimile… necessaria: Tasso spiega che il verisimile è una condizione necessaria alla poesia, non un ornamento aggiunto. 5 Ma benché... verisimile: Sebbene io ritenga che il poeta epico debba sempre essere obbligato a restare nell’ambito del verisimile. 6 non però escludo… il maraviglioso: il
verisimile non esclude il “maraviglioso” (il soprannaturale, il prodigioso, il fantastico), purché sia cristiano e non mitologico e paganeggiante. 7 operazioni: opere. 8 eccedono il potere: superano le possibilità. 9 magi: maghi. 10 virtù: capacità di operare. 11 bevuta... opinione: acquisita fin dalla primissima infanzia questa opinione. 12 maestri... fede: religiosi. 13 i suoi ministri: gli angeli. 14 permettendolo lui: se Dio lo permette.
594 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
15 sovra... natura: sovrannaturali. 16 spesse fiate: molte volte. 17 Ultimamente: Infine. 18 al giovamento: all’utile. Tasso si riferisce all’utilità morale per il lettore, all’ammaestramento etico. 19 con l’esempio... infedeli: con l’esempio dei cristiani piuttosto che dei pagani. 20 movendo... stranieri: poiché è più efficace l’esempio di chi è simile rispetto a chi è differente (per cultura) e dei connazionali rispetto agli stranieri.
Concetti chiave Il meraviglioso e la concezione religiosa della vita
La poesia, come sostiene Aristotele, deve imitare la vita reale, ma questa imitazione della vita reale non può risultare noiosa: da qui l’importanza di ricorrere all’elemento meraviglioso, al fantastico. Il fantastico deve, secondo Tasso, essere ispirato a una concezione religiosa della vita: perciò l’operato di angeli e demoni, materia di fede, può essere associato a eventi reali e storici senza intaccarne la credibilità.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi in uno schema le argomentazioni del passo. LESSICO 2. Dai una definizione di maraviglioso cristiano e di verisimile.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Argomenta, in max 20 righe, perché, secondo il poeta, «la poesia non è altro che imitazione».
3 La trama La struttura bipartita ovvero la struttura teatrale del poema La Gerusalemme liberata narra in 20 canti le vicende conclusive della prima crociata, che porteranno alla conquista della Città Santa da parte delle armate cristiane. L’impresa è contrastata dalle forze del male, alleate dei nemici dei cristiani e che prevalgono nella prima parte del poema (canti I-XII), mentre nella seconda (a partire dal canto XIII) si assiste alla rivincita delle forze del bene, fino alla vittoria finale dei crociati. Un’altra interpretazione, più complessa e articolata, della struttura del poema è quella di Ezio Raimondi nel saggio Poesia come retorica, in cui si mette in parallelo l’intelaiatura del poema a uno schema teatrale, suddiviso in cinque parti come gli atti di una tragedia. Raimondi, infatti, rifacendosi peraltro alle intuizioni dell’umanista Ludovico Castelvetro e analizzando l’evoluzione tematica della storia dal momento di crisi iniziale a un momento di incertezza e di tensione emotiva centrale (climax) fino alla risoluzione e allo scioglimento finale, osserva che «i canti 1-3 formano l’atto primo, 4-8 il secondo, 9-13 il terzo, 13-17 il quarto, 18-20 il quinto, con una simmetria che rispecchia quasi in una figura emblematica la tensione drammatica del racconto». Questo modello strutturale avvicina il racconto della Liberata a quello di una tragedia, quindi sottolinea l’impostazione teatrale e scenografica, la raffigurazione drammatica dei personaggi, che in fondo sta alla base di tutta l’ispirazione tassiana. L’antefatto Premessa alla conquista della Città Santa è un intervento divino. Dio manda l’arcangelo Gabriele da Goffredo di Buglione, il solo tra i guerrieri cristiani animato da un sincero spirito religioso, a differenza dei compagni, sviati da ambizioni, interessi personali, passioni mondane. Eletto capo dei Crociati, Goffredo dovrà infondere uno slancio comune (➜ T4 ) e ricondurre i soldati cristiani erranti sotto i santi segni del vessillo cristiano. La Gerusalemme liberata 3 595
L’assedio a Gerusalemme e i primi scontri tra i due schieramenti Giunti a Gerusalemme, i Crociati pongono l’accampamento presso le mura e stringono d’assedio la città. Nei primi scontri emergono tra i cristiani Tancredi e Rinaldo, tra gli infedeli Argante e Clorinda. Dall’alto delle mura Erminia, principessa di Antiochia, spodestata dai Crociati, indica ad Aladino, re di Gerusalemme, i più valorosi guerrieri cristiani: Erminia è segretamente innamorata di Tancredi, che a sua volta ama la guerriera musulmana Clorinda (➜ T5 OL). L’azione demoniaca prevale sulle forze in armi Di fronte al pericolo che i Crociati si ricompattino e la fede trionfi, Satana convoca un concilio infernale: i demoni dovranno stimolare nei combattenti cristiani tendenze che li distolgano dal dovere, distrazioni rivolte agli amori vani, all’individualismo cavalleresco, frutto di un erroneo senso dell’onore (➜ T6 ). Molti Crociati, via via sempre più sviati da maligne tendenze «centrifughe», abban donano il campo: alcuni, accecati dalla seduzione amorosa dell’affascinante maga Armida, che si finge spodestata e bisognosa d’aiuto, la seguono e vengono da lei imprigionati in un castello sul Mar Morto. Alle armate cristiane viene meno anche il sostegno di Rinaldo: spinto dall’ira, il cavaliere uccide un altro crociato e viene cacciato dal campo. Tancredi a sua volta è ferito gravemente in duello da Argante. L’avventura di Erminia Erminia, indossate le armi di Clorinda, si reca di nascosto all’accampamento cristiano per soccorrere l’amato Tancredi. Ma è sorpresa dai Crociati ed è costretta alla fuga. Si rifugia allora tra i pastori, lontano dalla guerra. Tancredi e Clorinda La situazione dei crociati precipita ulteriormente quando Argante e Clorinda incendiano la torre d’assedio indispensabile per espugnare Gerusalemme (➜ T9a OL). I due sono scoperti e Tancredi, senza riconoscerla, affronta in duello l’amata Clorinda, ferendola a morte (➜ T9b ); in seguito può contribuire ben poco alla causa cristiana: è così prostrato per le ferite e per l’angoscia di aver ucciso l’amata da meditare il suicidio (da cui viene distolto dai rimproveri e dalle esortazioni di Pietro l’Eremita). La selva incantata Per assediare Gerusalemme sarebbe necessaria un’altra torre, ma vi si oppone un incantesimo del mago Ismeno, che chiama a raccolta le forze demoniache nella selva di Saron, da cui i Crociati avrebbero dovuto procurarsi il legno per la costruzione. La selva incantata diviene uno spaventoso teatro dell’orrore, in cui ciascun guerriero vede ciò che più lo impaurisce e angoscia, perdendo il coraggio di troncarne i rami (➜ T10 OL). Ormai sembra che le forze del male abbiano la meglio: una terribile siccità rende arida e desolata la regione di Gerusalemme e molti Crociati, tormentati dalla sete, si ribellano contro Goffredo, accusandolo di averli condotti a morire per una vana ambizione.
Parola chiave
La riscossa dei crociati Ma a questo punto un intervento divino, invocato da Goffredo, capovolge la situazione: da qui in poi per i crociati tutto si volge al meglio.
errante Nel poema di Tasso l’aggettivo ha un duplice significato: si riferisce all’errore morale come peccato e deviazione dalla fede, ma anche allo spirito avventuroso dei cavalieri erranti, che nei romanzi medievali erano impegnati nella continua ricerca (quête) di imprese.
596 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
I due significati coincidono per i Crociati, che devono subordinare lo spirito avventuroso, sempre potenzialmente distraente, alla disciplina e all’alto fine religioso dell’azione guerresca, vincendo perciò entrambe le tendenze a un tempo.
Avvertito da un sogno profetico, Goffredo incarica i guerrieri Carlo e Ubaldo di sottrarre Rinaldo, predestinato a vincere l’incantesimo della selva, alla seduzione della sensuale Armida, nella sua dimora nelle Isole Fortunate (➜ T11 ). Richiamato al suo dovere e purificato dopo un’ascesa-pellegrinaggio al monte Oliveto, Rinal do vince i maligni incanti di Ismeno, consentendo la ricostruzione delle torri d’assedio. I Crociati possono così finalmente entrare in Gerusalemme e liberare il Santo Sepolcro, anche se devono ancora affrontare duri scontri e duelli per vincere la disperata resistenza degli assediati e per annientare, in una battaglia campale, l’armata d’Egitto, accorsa in aiuto di Aladino. Nelle ultime fasi del conflitto Tancredi uccide Argante in duello; Rinaldo annienta le ultime resistenze musulmane, facendo cadere anche il valoroso Solimano, e incontra infine Armida che, deposta la volontà di vendicarsi per l’abbandono dell’amante, si converte alla fede cristiana.
4 I temi e le caratteristiche generali La guerra Tema dichiarato della Gerusalemme liberata è il conflitto tra infedeli e cristiani, con la vittoria di questi ultimi. La guerra riacquista il peso perduto nei poemi cavallereschi: come ai tempi della Chanson de Roland, sono rimarcate le opposizioni fra i due schieramenti, annullando la sostanziale identità tra le parti in conflitto che aveva caratterizzato l’Orlando furioso; le azioni belliche, rappresentate con inedita precisione, e i duelli, condotti secondo le regole di un secolo puntiglioso in materia di cavalleria, si caricano del peso reale e amaro del sangue e della morte. Il “maraviglioso cristiano” e la magia L’intervento del «maraviglioso cristiano» dilata la guerra a livello cosmico, per l’intervento di angeli e demoni, che segnano l’opposto prevalere delle forze del bene e del male. Tale conflitto si intreccia con il tema religioso e con un altro tema centrale nella Gerusalemme liberata, la magia, perché nello schieramento pagano militano maghi e incantatrici, che si servono dell’aiuto dei demoni (praticando cioè la magia nera) per suscitare nei combattenti passioni maligne e distruttive. Alla magia nera si contrappone nel poema quella “bianca” del mago di Ascalona, che aiuta i Crociati a vincere gli incantesimi e a far prevalere la ragione sulla passione: è lui che, in veste di “aiutante”, dona a Carlo e Ubaldo gli oggetti magici (un libro, una bacchetta per domare gli animali feroci, uno scudo adamantino dalla superficie rispecchiante) che servono a liberare Rinaldo, prigioniero della seducente maga Armida. I conflitti della coscienza Il conflitto tra forze divine e demoniache si ritrova anche nell’animo dei Crociati, che sono insidiati non soltanto dall’esterno, ma soprattutto dall’interno, dai conflitti della loro coscienza: nei personaggi cristiani della Gerusalemme l’equilibrio è sempre instabile e costantemente insidiato dal conflitto tra bene e male, piacere e dovere, fede e peccato, passione e ragione. Qui sta una delle ragioni della modernità del poema, che apre uno spazio senza pre cedenti all’interiorità, a cui guarderanno con ammirazione quanti hanno esplorato la complessità conflittuale dell’animo umano: da Goethe, ai Romantici, allo stesso Freud, fondatore della moderna psicoanalisi. L’amore In tale avvicendarsi di forze opposte si colloca, in contrasto con la guerra, La Gerusalemme liberata 3 597
l’altro grande tema della Liberata, l’amore. I due schieramenti avversi sono in realtà uniti, come è stato detto, da una corrente sotterranea di desiderio e i grandi amori del poema sono significativamente quelli tra nemici. Già la lettura delle ottave che narrano l’arrivo dei crociati a Gerusalemme, nel terzo canto del poema (➜ T5 OL), è rivelatrice. Siamo nel bel mezzo di un conflitto, per di più di natura religiosa, e tra i due schieramenti si intrecciano sguardi dettati da irresistibili attrazioni amorose. Erminia, musulmana, è innamorata del cristiano Tancredi il quale, a propria volta, non riesce più a ragionare quando sotto l’elmo appaiono i biondi capelli della nemica Clorinda. A sua volta, Rinaldo sarà irretito dall’attrazione sensuale per la maga musulmana Armida. Solo l’amore di Rinaldo e Armida avrà un lieto fine, mentre gli altri sono destinati a restare inappagati: ma proprio perché insoddisfatto, il desiderio amoroso tanto più si perpetua e si rafforza, generando l’atmosfera sensuale che pervade il poema. La categoria critica del «bifrontismo» di Tasso L’attrazione tra nemici, che mette in crisi la logica della “guerra santa”, ha suscitato da sempre interrogativi nei lettori: cosa rappresentano i due schieramenti nel sistema simbolico del poema? Chi sono per Tasso in realtà gli “infedeli”? Una questione tanto più importante quanto più si osserva (ed è giudizio unanime dei critici) la maggiore ispirazione degli episodi legati alle passioni amorose (dunque ciò che unisce i due fronti) che non ai temi religiosi (ciò che li divide). Fin dal 1961 Lanfranco Caretti, in un suo importante saggio, per definire la complessa situazione psicologica e culturale da cui trae origine il poema, espressione di un’età di profonda crisi, propose una convincente tesi critica, coniando la fortunata formula di un «bifrontismo spirituale», vale a dire un’ambivalenza nel sistema di
“Bifrontismo spirituale” nella Gerusalemme: le tematiche attrazione verso il centro di potere CORTE disprezzo per l’ipocrisia, le falsità, gli intrighi
manifestazioni di eroismo GUERRA atti di brutale violenza
sensualità AMORE passione
profonda esperienza spirituale RELIGIONE rituali ripetitivi, ipocrisia, limitazione della libertà di pensiero
598 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
valori nella Gerusalemme liberata. Mentre la Divina commedia – e per certi versi anche l’Orlando furioso – rimandano a una visione del mondo coerente e omogenea, la Gerusalemme liberata riflette la compresenza nell’autore di due sistemi di valori inconciliabili, ma entrambi fortemente sentiti, facendo del poema un campo di continue tensioni. «Era fatale» – scrive Caretti – «che ne uscisse una struttura del tutto nuova [rispetto alla Commedia e al Furioso], fondata non sopra un’unica e fortissima sollecitazione, ma sopra un ritmo alterno di spinte e controspinte che ora impongono alla poesia tassiana sviluppi ascendenti, a spirale (con quelle vertiginose impennate verso zone di assoluto rasserenamento, di ansia purificata), ed ora sviluppi diversivi, più distesamente autonomi, ma mai del tutto eccentrici rispetto all’azione centrale. Il risultato è una originale compenetrazione di piani diversi, in cui momenti eroici (storici e morali) e quelli lirici (sentimentali e autobiografici) strettamente si intrecciano e reciprocamente si trasfondono attraverso suggestive increspature e secondo impulsi subitanei ed eccitati, in un continuo e spesso repentino mutare di luci e ombre, di opposte prospettive».
Il bifrontismo nell’ideologia e nella struttura narrativa della Gerusalemme liberata UNITÀ
vs
MOLTEPLICITÀ
impostazione controriformistica (rigore morale e dogmatismo)
impostazione rinascimentale (edonismo, laicismo, pluralismo)
cielo (il bene)
inferno (il male)
spazio verticale (dimensione del trascendente)
spazio orizzontale (dimensione terrena)
cristiani (portatori di valori controriformistici)
pagani (portatori di valori rinascimentali)
Goffredo (eroismo e religiosità)
soldati (molteplici interiorità confuse e instabili)
influsso dell’aristotelismo (struttura unitaria e chiusa)
richiamo del modello romanzesco (varietà delle azioni e struttura aperta)
evento centrale (assedio di Gerusalemme e conquista del Santo Sepolcro)
digressioni narrative secondarie (imprese individuali di eroi cristiani e pagani)
La Gerusalemme liberata 3 599
Il conflitto fra pagani e cristiani come «conflitto di codici culturali» In un altro saggio fondamentale per gli studi tassiani, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, il critico Sergio Zatti ha sviluppato e arricchito con nuove argomentazioni l’ipotesi di Caretti sul «bifrontismo spirituale» di Tasso. Dietro l’opposizione tra musulmani e cristiani non si profilerebbe, secondo il critico, un conflitto ideologico tra due culture, ma un contrasto interno alla cultura del tempo che Tasso si trovò drammaticamente a vivere: quello fra il codice culturale rinascimentale (con i suoi valori laici, individualisti, edonisti), condannato dalla cultura postridentina, ma di cui ancora si avvertiva il fascino (soprattutto da parte di quelli che, come Tasso, in tale clima si erano formati), e i rigidi princìpi, etici e religiosi della cultura controriformistica. Il complesso e conflittuale atteggiamento dell’autore Tasso si propone come il cantore epico del suo tempo, perciò deciso a proporre i valori controriformisti ci: la celebrazione dell’azione bellica al servizio dei valori religiosi, il trionfo della fede, dell’ordine, della disciplina morale sui piaceri mondani; ma questo piano intenzionale è sotterraneamente contrastato da un’opposta attrazione per i valori considerati “devianti” e condannati come peccato, ma che, alla luce della riuscita stessa della loro rappresentazione artistica nel poema, rivelano l’ambiguità della posizione tassiana: una contraddizione che, lungi dal vanificare il valore poetico dell’opera, ne accresce il fascino.
5 Le modalità narrative Il sistema dei personaggi La simpatia per gli “infedeli” La tesi interpretativa di Caretti e Zatti trova conferma nel sistema dei personaggi. Ciò che soprattutto mette in crisi l’opposizione tra i due schieramenti, in un poema che intenderebbe glorificare le crociate, è l’evidente simpatia dell’autore per gli “infedeli”, al cui schieramento appartengono alcune delle figure più vive del poema, dal valoroso Argante al regale Solimano, alla sensibile e delicata Erminia, all’intrepida e splendida Clorinda. Tasso assume spesso, inoltre, il punto di vista degli “infedeli”, mostrando in più passaggi del poema di aderire (in modo neppur troppo sotterraneo) ai valori di cui essi si fanno portavoce. Gli avversari dei Crociati non sono ritratti nella Gerusalemme come i testimoni di una fede e di una cultura (quella musulmana) diverse da quella cristiano-occidentale, ma sembrano incarnare proprio quei valori del passato rinascimentale che venivano attaccati dalla Controriforma, a cominciare dal pluralismo: se il campo dei Crociati tende forzosamente all’unità e al rispetto di un principio gerarchico superiore, quello degli infedeli rappresenta l’opposta spinta alla molteplicità, alla diversità delle scelte individuali, alla libertà. Nei musulmani, per come li rappresenta Tasso, rivivono gli ideali rinascimentali dell’homo faber, artefice del proprio destino, la concezione terrena della vita, il culto dell’onore, l’eroismo individualistico: basti pensare che un’iniziativa bellica decisiva per lo schieramento musulmano, come l’incendio della torre, è progettata dalla donna guerriera Clorinda e non dal re o dal capo dell’esercito (➜ T9a OL). È inoltre nei musulmani (in particolare in Solimano, Clorinda e Argante) e non nei cristiani che si realizza in pieno un ideale di virtù eroica: sono loro ad affrontare
600 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
lucidamente e intrepidamente il pericolo, la sventura e la morte, privi – per come li rappresenta Tasso – del conforto della fede religiosa. Paradossalmente persino Lucifero (ed è la prima volta nella letteratura) è presentato con tratti nobili ed eroici, nell’episodio del concilio infernale; quando, con un discorso eloquente e appassionato, esorta i compagni demoni a perseguire quella umanistica “virtù” che già in passato li aveva spinti a ribellarsi contro Dio (IV, 15, 5-8 ➜ T6 ). Lo schieramento cristiano: tra dovere e attrazione per la deviazione Se gli infedeli sono caratterizzati da una sostanziale coerenza “laica”, significativamente nello schieramento cristiano, al di là della formale obbedienza al principio dell’autorità e alla dichiarata subordinazione alla missione della guerra santa, si manifesta la ten denza a deviare dal proprio dovere e quindi a porsi di fatto nel “campo nemico”, innanzitutto, come si è detto, cadendo vittime dell’attrazione amorosa. Solo Gof fredo, perfetto eroe controriformistico dedito, senza cedimenti, all’ideale eroicoreligioso della “guerra santa”, si mantiene immune dalle tentazioni della sensualità e dell’amore; ma proprio quello che viene proposto come eroe esemplare per la cristianità appare, a giudizio unanime dei lettori del poema, un personaggio scialbo, poco realizzato sul piano artistico. I cavalieri “erranti”: Tancredi e Rinaldo Ben diverso è il fascino dei personaggi definiti dal poeta “erranti”, sviati dalle tendenze peccaminose: il malinconico Tan credi, che subordina il proprio impegno di crociato alla passione per la nemica Clorinda e dopo averne provocato la morte vive in una dimensione angosciosa, dilaniato dai sensi di colpa; e soprattutto Rinaldo, che solo dopo molteplici errori imparerà a subordinare l’individualismo cavalleresco e le seduzioni amorose all’impegno nella difesa della fede, in una sorta di “romanzo di formazione” che simbo-
I cavalieri cristiani e i cavalieri musulmani I CRISTIANI NELLA GERUSALEMME…
I MUSULMANI NELLA GERUSALEMME…
si sottopongono a un ordine gerarchico
assumono di preferenza iniziative individuali
antepongono la fede alle attrattive mondane, ma sono interiormente combattuti
hanno una mentalità laica a cui si mantengono coerenti
sono aiutati da Dio
sono aiutati da Satana
il loro aiutante mago, il mago di Ascalona, pratica la magia bianca
il loro aiutante mago, Ismeno, pratica la magia nera
i loro valori sono quelli della Controriforma: fede, obbedienza, distacco dai piaceri terreni
i loro valori sono quelli del Rinascimento: onore, gloria individuale, coraggio
La Gerusalemme liberata 3 601
leggia il passaggio dall’eroe cavalleresco – con i suoi valori (l’onore, il desiderio di gloria, lo spirito avventuroso) – a quello cristiano. Certamente, comunque, le molteplici defezioni dei guerrieri cristiani nel poema testimoniano in modo indiretto ma eloquente l’attrazione, ancora presente nelle coscienze e fortemente sentita da Tasso, per gli ideali del passato rinascimentale e la difficoltà a aderire a un ideale etico rigidamente fondato sui princìpi del dovere e della fede cattolica. Un nuovo modo di trattare i personaggi I personaggi della Gerusalemme liberata sono frutto certamente anche di reminiscenze letterarie: ad esempio Rinaldo, personaggio sfaccettato e “dinamico”, all’inizio, quando abbandona il campo cristiano ricorda Achille, quindi per lo spirito “curioso” l’eroe omerico Odisseo, per assumere alla fine, dopo l’ascesa penitenziale al monte Oliveto, i tratti di un novello Dante. Nella figura di Armida confluiscono le “seduttrici” ariostesche (Angelica e Alcina), ma anche, quando la maga viene abbandonata da Rinaldo, le antiche eroine come Didone e Arianna. Se è indubbio il dialogo con la tradizione letteraria, altrettanto indubbi sono gli elementi di novità che il poema di Tasso evidenzia nel modo di trattare i personaggi: mentre nel poema ariostesco i personaggi sono in funzione dell’azione e sono tendenzialmente privi di spessore psicologico, Tasso ne approfondisce l’interiorità (senza far distinzione tra cristiani e infedeli). Spesso inoltre si proietta in essi con una sensibilità nuova, che non a caso sarà particolarmente apprezzata nell’età romantica.
Il narratore e il punto di vista Gli interventi del narratore Mentre la voce narrante del poema ariostesco tendeva a intervenire in modo riflessivo, smorzando le tensioni con l’ironia e favorendo la presa di distanza critica, gli interventi del narratore nella Gerusalemme liberata tendono, al contrario, ad accrescere il pathos, a coinvolgere emotivamente il let tore. Inoltre il narratore si rispecchia spesso nei sentimenti e nelle emozioni dei personaggi. E, nella sua partecipazione, non fa distinzione fra gli appartenenti allo schieramento cristiano e musulmano: se anticipa lo strazio di Tancredi, quand’egli, inconsapevole, sta per uccidere Clorinda («Misero, di che godi? oh quanto mesti / fiano i trionfi ed infelice il vanto! / Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) / di quel sangue ogni stilla un mar di pianto» [XII, 59, 1-4]), si rivolge con tono altrettanto partecipe e commosso al grande Solimano, affranto per la perdita del suo giovane paggio («Tu piangi, Soliman? tu, che destrutto / mirasti il regno tuo co ’l ciglio asciutto?» [IX, 86, 7-8]). La focalizzazione narrativa In direzione analoga si pone la focalizzazione nar rativa: diversamente da quanto avviene, ad esempio, nella medievale Chanson de Roland, in cui la superiorità dei cristiani sugli infedeli è rimarcata dall’adozione di un unico punto di vista, quello dei paladini cristiani, nella Gerusalemme liberata la focalizzazione si alterna tra i due schieramenti: ad esempio nel passo dell’arrivo dei Crociati a Gerusalemme (➜ T5 OL), la “macchina da presa” si sposta più volte dall’esterno all’interno delle mura di Gerusalemme, dagli assedianti agli assediati. Altrettanto significativo è il fatto che la presa finale di Gerusalemme venga mostrata non solo dal punto di vista dei Crociati, ma anche (e con maggior commozione) da quello degli sconfitti, che vedono crollare la città regina della Giudea con un senso
602 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
di nostalgica e sconsolata malinconia, come emblema di un passato irrevocabilmente al tramonto. Così il musulmano Argante, impegnato nel duello finale con Tancredi in cui avrebbe trovato la morte, apre per un attimo l’animo all’avversario (XIX, 10, 1-4): «– Penso – risponde – a la città del regno / di Giudea antichissima regina, / che vinta or cade, e indarno [invano] esser sostegno / io procurai de la fatal ruina [...]». Similmente il valoroso Solimano, asserragliato nella torre di David per un’ultima, disperata resistenza (XX, 73, 2-8), contemplando dall’alto la battaglia, con una prospettiva che sembra estendersi dallo spazio al tempo, vede nel crollo di Gerusalemme un emblema della tragica condizione umana, immersa nell’oscurità di un destino imperscrutabile («i gran giochi del caso») e senza scampo; una prospettiva molto vicina a quella dell’autore: «salse in cima a la torre ad un balcone / e mirò, benché lunge, il fer [valoroso] Soldano; / mirò, quasi in teatro od in agone [torneo], / l’aspra tragedia de lo stato umano: / i vari assalti e ’l fero [feroce] orror di morte, / e i gran giochi del caso e de la sorte». Se si pensa che, nella realtà storica, Gerusalemme sarebbe stata riconquistata dal Saladino neppure un secolo dopo la crociata, e che ai tempi di Tasso faceva ormai stabilmente parte dell’impero ottomano, si comprende come il pathos per la caduta della città in mani cristiane sia da riferire, più che alla storia, al senso simbolico del poema: al crollo appunto, questo davvero irrevocabile e definitivo, degli ideali ottimistici e antropocentrici del Rinascimento.
La simbologia spaziale Un modello spaziale complesso Il modello spaziale della Gerusalemme liberata è quello di «un vero e proprio “poema del Cosmo”» (Anselmi), in cui si rispecchia un’immagine totale del mondo. Mentre nel poema dantesco era dominante nell’organizzazione del modello spaziale la dimensione “verticale” (il viaggio del poeta-narratore si configurava come progressiva ascesa verso la visione di Dio); e in quello di Ariosto, al contrario, prevaleva la dimensione “orizzontale”, laica e terrena, dell’avventura, il poema di Tasso rappresenta «un’originale compenetrazione di piani diversi» (Caretti), in cui sono presenti sia l’organizzazione “orizzontale” sia quella “verticale” dello spazio, a evidenziare in modo simbolico un conflitto che investe tutte le dimensioni del reale. Lo spazio “orizzontale”: tra dimensione centripeta e centrifuga Lo spazio “oriz zontale” dell’allontanamento da Gerusalemme, luogo-simbolo del dovere, dell’onore, della subordinazione dell’individuo all’etica della guerra santa, si configura come quello della devianza e dell’“errore”: esempio paradigmatico è lo smarrirsi di Rinaldo, preda del desiderio amoroso per la maga Armida, che lo trattiene nelle Isole Fortunate, lontanissime dal teatro della guerra. Non a caso il ravvedimento del personaggio prevederà non solo il ritorno al “centro”, ma anche un percorso di tipo “verticale”, ispirato ai valori religiosi (l’ascesa penitenziale del monte Oliveto). La dimensione “verticale”, teatro di uno scontro soprannaturale La dimensione spaziale verticale della Gerusalemme liberata ha poi a che fare con il «maraviglio so cristiano» (➜ D1 ). Il cielo e l’inferno irrompono dilatando lo spazio del poema, con scene dagli effetti grandiosi e “sublimi” che preludono al barocco e che saranno poi imitate da poeti come Milton. Accanto ai guerrieri dei due schieramenti, prendono sovente posto le opposte schiere angeliche e demoniache. A sostegno degli “infedeli” emergono dalle profondità della La Gerusalemme liberata 3 603
Terra e pervadono lo spazio, oscurando il cielo, innumerevoli presenze demoniache («Mille nuvole e più d’angeli stigi [diavoli] / tutti han pieni de l’aria i campi immensi» [IX, 53, 3-4]), a cui si contrappongono gli interventi delle forze angeliche che discendono dal cielo quando, secondo un’iconografia che avrebbe avuto grande fortuna nelle arti figurative del barocco, accanto ai cristiani combattono angeli armati. Gli interventi angelici segnano i momenti decisivi del poema fino alla grande visione finale concessa al solo Goffredo: nel momento della conquista di Gerusalemme, il condottiero vede spalancarsi gli spazi celesti, con i compagni morti e beatificati e le schiere degli angeli gloriosamente cooperanti all’azione vittoriosa.
I “chiaroscuri” del poema Il “montaggio patetico” Uno degli aspetti più affascinanti della Gerusalemme liberata è il contrasto tra elementi opposti, combinati con una vera e propria «arte del montaggio» (Raimondi), con effetti di “chiaroscuro”: scene epiche si alternano a situazioni patetiche e sentimentali, con una ben calcolata varietà e un effetto contrappuntistico; montaggio di elementi contrastanti che si evidenzia anche all’interno dei singoli episodi, come quello già citato dell’arrivo dei crociati a Gerusalemme, con le opposte emozioni dei personaggi che lo animano: l’esultanza dei cristiani al cospetto dell’agognata meta, lo sgomento dei cittadini inermi, il segreto turbamento amoroso di Erminia, l’estasi di Tancredi alla vista di Clorinda (➜ T5 OL). I contrasti pervadono anche il famoso episodio della morte di Clorinda, con l’opposizione tra la feroce scena del duello e il rivelarsi della bellezza fragile, femminile e sensuale di quella che era stata creduta un feroce guerriero, con la pace dell’abbandono a Dio della morente, in contrasto con la disperazione inconsolabile di Tancredi, che ha ucciso la donna che ama (➜ T9b ). Gli scenari naturali-temporali Innovativo ed estremamente suggestivo è anche il modo in cui è introdotto il paesaggio che fa da scenario all’azione narrativa: come nelle liriche, anche nella Gerusalemme liberata si crea sovente una corri spondenza tra gli stati d’animo dei personaggi e l’ambiente. Se l’arrivo dei Crociati a Gerusalemme o gli amori tra Rinaldo e Armida si svolgono in pieno sole, la Gerusalemme liberata è soprattutto un poema “notturno”: molti degli episodi più drammatici, come il duello di Tancredi e Clorinda e l’assalto di Solimano al campo cristiano, avvengono su uno sfondo di tenebre, rischiarato da rare luci, con effetti di contrasto che possono essere accostati a quelli della contemporanea pittura manieristica (si pensi ad esempio al Tintoretto). Fortemente simbolica è l’associazione fra l’alba e la rinascita spirituale, come nella scena in cui Rinaldo, purificato nell’animo, ascende sul monte Oliveto, da cui contempla le bellezze celesti, o nella scena della morte di Clorinda, quando il cielo sembra aprirsi alle luci del mattino per accogliere l’anima della giovane, convertita al cristianesimo.
6 Le scelte stilistiche e metriche Un poema all’incrocio tra diversi generi letterari La varietà e l’unità, principi fondanti del poema, ne informano anche lo stile. Nel suo capolavoro, il poeta si muove con maestria tra diversi generi letterari, rifacendosi alla tradizione e
604 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
al contempo aprendo spazi al nuovo. Come si è detto, il poema eroico di Tasso fonde in sé il poema cavalleresco, rinascimentale e quello epico, ispirato ai modelli dell’antichità, ma dà spesso spazio a momenti lirici negli episodi patetici e amorosi (ed è un’assoluta novità che schiuderà la strada al melodramma) e a episodi riconducibili al genere tragico: l’uccisione di Clorinda da parte di Tancredi è infatti (come osserva il critico Raimondi) una vera e propria tragedia incastonata nel poema, che si rifà al modello codificato dalla Poetica di Aristotele, fondandosi, come l’Edipo re di Sofocle, sull’agnizione, il tardivo riconoscimento della colpa. Uno stile duttile e ricco di sfumature Seguendo il principio classicistico della congruenza dello stile all’argomento, Tasso adotta per le scene epiche ed “eroiche” uno stile elevato e “magnifico”, ricco di figure retoriche – specie similitudini, metafore, antitesi, chiasmi, iperboli – ulteriormente evidenziato da uno studiato rallentamento del discorso (in contrasto con il dinamismo dell’ottava ariostesca). L’effetto di rallentamento è prodotto soprattutto da quello che il poeta definisce «parlar disgiunto»: una disposizione degli elementi del discorso diversa da quella abituale, con inversioni e spezzature di coppie sintagmatiche (come quella fra nome e aggettivo), che innalza lo stile nelle parti epiche ma è anche impiegato per intensificare gli effetti emotivi in quelle liriche e sentimentali. Si può citare ad esempio il momento in cui Erminia, fuggita da Gerusalemme per raggiungere l’amato Tancredi, giunge alla vista del campo cristiano: il verso «O belle a gli occhi miei tende latine!», con la disposizione inusuale delle parole e la separazione del sostantivo tende dal suo aggettivo belle, rende il lettore partecipe della visione soggettiva di Erminia, animata dall’emozione e dalla speranza, che poi si rivelerà vana, di rivedere l’amato (➜ T7 OL). Lessico dell’epos e lessico dell’interiorità In generale il lessico del poema è selezionato all’interno di un registro elevato, con termini raffinati, forme dotte e rare, di latinismi e di preziosismi. In rapporto poi alle diverse situazioni rappresentate,
Presunto ritratto di Tasso in un dipinto della scuola emiliana, 1590 ca. (Galleria Palatina, Firenze).
La Gerusalemme liberata 3 605
si alternano differenti modalità stilistiche, da quella epica, sostenuta e vibrante, delle scene di guerra, a quella lirica, ricca di sfumature e in grado di rendere le emozioni più profonde. Alle due modalità stilistiche corrispondono differenti scelte lessicali. Al versante epico si possono ricondurre i termini tecnici riferiti alla guerra e alla cavalleria, e gli aggettivi, frequenti nel poema, che suggeriscono idee di magni ficenza, altezza. A tali campi semantici (cui si aggiungono quelli della violenza e dell’orrore) si associano figure retoriche come la similitudine e l’iperbole. Il versante lirico dell’ispirazione tassiana si traduce invece in un lessico “interio re”, costituito di termini, soprattutto aggettivi, riferiti ai sentimenti, con una predilezione per quelli che suggeriscono il senso dell’indefinito, come ignoto, infinito, antico, innumerabili, e quelli che alludono alla solitudine, quali ermo, solitario, solingo, deserto. Un lessico capace di suscitare una profonda risonanza intima e tale da affascinare oltre due secoli dopo Leopardi, il quale lo ha attentamente studiato e ripreso nei suoi Idilli: anche per questo aspetto, dunque, Tasso si proietta al di là del suo tempo, anticipando la sensibilità romantica. La metrica: l’enjambement come costante stilistica L’ordito stilistico del poema tassiano, a differenza di quello ariostesco che tende a separare con nettezza i versi, è cadenzato da frequenti enjambement, che ne variano il ritmo e, separando i vocaboli alla fine del verso dai legami grammaticali più stretti e usuali, ne liberano le potenzialità connotative. L’abbondanza degli enjambement è una costante nel poema, ma gli effetti stilistici sono informati alla varietà che caratterizza la Gerusalemme liberata.
La Gerusalemme liberata GENERE E STRUTTURA
poema eroico in ottave, suddiviso in 20 canti
ARGOMENTO
la prima crociata (1096-1099): eventi storici e “maraviglioso cristiano”
TEMI
• la guerra eroica e tragica fra cristiani e saraceni per la riconquista della Terra Santa • l’amore, specie fra guerrieri nei campi nemici • aspetti del mondo e dell’immaginario cristiano rielaborati in senso controriformistico • “maraviglioso cristiano” e magia
OPPOSTE SPINTE CONFLITTUALI
• osservanza delle forme religiose controriformiste e ossequio ai doveri cristiani • richiamo ai valori dell’edonismo rinascimentale e cedimento alla trasgressione (con sensi di colpa)
606 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Quando l’enjambement ricorre nelle parti epiche, esso tende ad accrescere la gran diosità delle immagini, associandosi a un discorso ampio e solenne che travalica la misura dei versi, spesso articolandosi in tutto lo spazio dell’ottava, mentre negli episodi lirici e sentimentali lo stacco di fine verso, frequentemente interposto tra aggettivo e sostantivo, frammentando il discorso, «viene come a sollevare in primo piano il sentimento che è al di sotto delle parole» (Fubini) enfatizzando i momenti di eccezionale intensità emotiva: si può citare ad esempio il momento in cui Tancredi, vedendo per la prima volta Clorinda, all’istante se ne invaghisce (I, 47, 5-6):
Egli mirolla, ed ammirò la bella sembianza, e d’essa si compiacque, e n’arse. L’enjambement dopo l’aggettivo bella crea una pausa che fa percepire al lettore la forte risonanza emotiva che l’apparizione di Clorinda produce in Tancredi. Lo stile del manierismo Lo stile della Liberata, che riesce a penetrare «in pieghe della coscienza prima poco sondate o taciute» (Fedi), diviene così «duttile strumento di nuove inquietudini, di nuove introspezioni psicologiche», riflettendo l’animo inquieto del poeta ma anche i tormenti del suo tempo, ormai lontano dai caratteri rinascimentali di equilibrio, razionalità, armonia.
L’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata ORLANDO FURIOSO
GERUSALEMME LIBERATA
AUTORE
Ludovico Ariosto
Torquato Tasso
GENERE
poema cavalleresco
poema epico-eroico
METRICA
ottave di endecasillabi con schema metrico ABABABCC
ottave di endecasillabi con schema metrico ABABABCC
STRUTTURA
46 canti
20 canti in 5 parti (come la tragedia classica, con i suoi 5 atti)
EDIZIONI
1516 (40 canti); 1521 (40 canti); 1532 (46 canti)
• prima versione conclusa nel 1575 • prima edizione (incompleta e non autorizzata dall’autore) nel 1580 • altre edizioni (riviste da terzi o in parte da Tasso e non autorizzate dall’autore) nel periodo 1581-1583 • ultima versione (Gerusalemme conquistata, rivista e approvata dall’autore) nel 1593
AMBIENTAZIONE
Europa, VIII secolo
Medio Oriente, prima crociata (1099)
La Gerusalemme liberata 3 607
Torquato Tasso
T4
Il proemio del poema Gerusalemme liberata I, 1-5
T. Tasso, Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983
Come prevede il genere epico, il proemio della Gerusalemme liberata è suddiviso in proposizione (esposizione dell’argomento), invocazione e dedica. In poche ottave, l’autore delinea i temi fondamentali del poema, il conflitto drammatico che lo contraddistingue ed espone gli elementi fondamentali della propria poetica. Già in queste prime ottave emerge una profonda differenza con il rinascimentale Orlando furioso.
AUDIOLETTURA
1 Canto l’arme pietose1 e ’l capitano2 che ’l gran3 sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co ’l senno e con la mano4, molto5 soffrì6 nel glorioso acquisto7; e in van l’Inferno vi s’oppose8, e in vano s’armò d’Asia e di Libia il popol misto9. Il Ciel gli diè favore10, e sotto a i santi segni11 ridusse12 i suoi compagni erranti13.
La metrica Ottave con schema delle rime ABABABCC. 1 arme pietose: armi usate in difesa della fede cristiana. L’ossimoro arme pietose mette in rilievo il tema della guerra santa. 2 capitano: Goffredo di Buglione. Personaggio storico, duca della Bassa Lorena, fu eletto capo dei Crociati e guidò la conquista di Gerusalemme. 3 gran: è da notare l’aggettivazione del proemio, tendente a sottolineare l’importanza dell’impresa. 4 con la mano: con le azioni (metonimia). 5 molto: l’anafora di molto (vv. 3-4) sottolinea la difficoltà del compito. 6 soffrì: il rilievo dato alla sofferenza di Goffredo evidenzia l’analogia con Enea, altro eroe che agisce più per adempiere alla volontà divina che per desiderio di gloria personale. Anche nell’Eneide si sottolinea la sofferenza di Enea («multa quoque et bello passus», “molto sofferse anche in guerra”: I, 5). 7 glorioso acquisto: la conquista di Gerusalemme. L’aggettivo glorioso assume risalto anche per il suono, rallentato ed evidenziato dalla dieresi vocalica. 8 l’Inferno... oppose: inutilmente i demoni cercarono di ostacolarlo con arti diaboliche. Il conflitto tra Goffredo e gli infedeli coinvolge il Ciel e l’Inferno, ed è presentato come un conflitto cosmico tra
2 O Musa14, tu che di caduchi allori15 non circondi la fronte in Elicona16, ma su nel cielo infra i beati cori17 hai di stelle immortali aurea corona18, tu spira al petto mio celesti ardori19, tu rischiara20 il mio canto, e tu perdona s’intesso fregi al ver21, s’adorno in parte d’altri diletti22, che de’ tuoi, le carte23.
bene e male. Emerge già nella prima ottava il «maraviglioso cristiano», l’intervento di forze soprannaturali. 9 s’armò... misto: si unirono nella guerra i popoli musulmani dell’Asia e dell’Africa. 10 Il Ciel... favore: la vittoria dei Crociati è attribuita alla Grazia divina, più che all’azione umana. 11 santi segni: le sacre insegne dei Crociati. L’espressione è sottolineata dal forte enjambement. Prima di conquistare Gerusalemme, i Crociati, guidati da Goffredo, devono ritrovare la purezza della fede e la compattezza dell’esercito. 12 ridusse: ricondusse. 13 erranti: parola chiave del poema; mette in luce come i Crociati, in contrasto con Goffredo di Buglione, l’unico tutto rivolto al compito religioso di riconquistare Gerusalemme, fossero sviati da molteplici passioni terrene. La parola “errante” assume nel poema una duplice connotazione: spaziale, legata all’errare fisico dei cavalieri che si erano allontanati dal campo cristiano, e morale, a indicare il peccato. 14 O Musa: la seconda ottava è dedicata all’invocazione alla musa, ispiratrice di una poesia di argomento religioso. Tale musa cristiana viene generalmente identificata con Urania, musa dell’astronomia e della poesia epico-religiosa, anche se altri ritengono che il riferimento sia alla
608 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Vergine Maria. Nell’ottava ricorrono termini (su, cielo, immortali, celesti, rischiara) che evocano un’atmosfera celeste, elevata e luminosa. 15 caduchi allori: caduchi perché destinati a cadere, effimeri; allori è metonimia per indicare la gloria terrena. Si riferisce a una poesia non religiosamente ispirata. 16 in Elicona: l’Elicona è un monte della Beozia, sacro alle muse. 17 infra i beati cori: tra i cori dei beati. 18 hai... corona: hai una corona d’oro di stelle immortali. La poesia religiosa è contrapposta ai caduchi allori, alla gloria effimera di una poesia non cristianamente ispirata. 19 spira al petto mio celesti ardori: infondi al mio animo un’ispirazione poetica cristiana. 20 rischiara: illumina. 21 tu perdona... ver: perdonami se aggiungo invenzioni fantastiche alla verità storica. Già nel proemio emergono gli scrupoli religiosi del poeta per aver inserito episodi amorosi e romanzeschi in un poema cristiano, come era difficilmente accettabile per i severi dettami culturali della Controriforma. 22 diletti: piaceri. 23 le carte: le pagine del poema.
3 Sai che là corre il mondo ove più versi di sue dolcezze il lusinghier Parnaso24, e che ’l vero, condito in molli versi, i più schivi allettando ha persuaso25. Così a l’egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso: succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l’inganno suo vita riceve26.
5 È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace il buon popol di Cristo unqua si veda34, e con navi e cavalli al fero Trace35 cerchi ritòr36 la grande ingiusta preda37, ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace, l’alto imperio de’ mari a te conceda38. Emulo di Goffredo, i nostri carmi intanto ascolta, e t’apparecchia39 a l’armi.
4 Tu, magnanimo Alfonso27, il qual ritogli al furor di fortuna28 e guidi in porto me peregrino errante29, e fra gli scogli e fra l’onde agitato e quasi absorto30, queste mie carte in lieta fronte accogli31, che quasi in voto a te sacrate32 i’ porto. Forse un dì fia33 che la presaga penna osi scriver di te quel ch’or n’accenna.
24 Sai che... Parnaso: Sai che il pubblico accorre più numeroso quando la poesia affascina gli animi con maggiori dolcezze. Il Parnaso, monte consacrato ad Apollo, simboleggia l’ispirazione poetica; Tasso giustifica le invenzioni non strettamente legate alla verità storica, spiegando che il pubblico, attratto dalla bellezza dell’opera, ne accoglierebbe più facilmente il messaggio cristiano. 25 e che ’l vero... persuaso: e che la verità, resa attraente dalla dolcezza dei versi, ha persuaso i più refrattari ad accoglierla. 26 Così... riceve: Così porgiamo al fanciullo malato la tazza con i bordi cosparsi di un liquido dolce: egli ingannato beve l’amara medicina e dall’inganno riceve la vita. La similitudine è ripresa dal De rerum natura (1, 936-942) del poeta latino Lucrezio: per guarire un fanciullo malato, la tazza che contiene il farmaco viene cosparsa di dolce miele. Si tratta di una dichiarazione di poetica: un’opera moralmente utile
deve essere anche piacevole per attrarre un maggior numero di lettori, instradandoli verso un insegnamento salvifico. 27 magnanimo Alfonso: l’ottava contiene la dedica, elemento topico dei poemi epici, rivolta ad Alfonso II d’Este. Il pathos con cui Tasso descrive la propria difficile situazione personale e la protezione accordatagli dal duca, che prega di accogliere favorevolmente il poema, contrasta con il distacco ironico della dedica ariostesca dell’Orlando furioso. 28 ritogli… fortuna: sottrai alla furia della tempesta. 29 errante: me pellegrino errante; l’aggettivo istituisce una significativa connessione tra la situazione morale dei crociati erranti, perché peccatori, e quella dell’autore. 30 absorto: latinismo molto ricercato, significa “inghiottito” ed è riferito alla metafora del mare in tempesta, tradizionale per indicare le difficoltà della vita; il poeta
è come un naufrago, guidato a un porto sicuro dalla protezione di Alfonso II. 31 queste mie... accogli: accogli lietamente questi miei versi. 32 sacrate: consacrate (come per un voto religioso). 33 fia: accadrà. 34 s’egli... veda: se avverrà mai (unqua, latinismo) che si vedano i cristiani in pace. 35 al fero Trace: ai Turchi crudeli. 36 cerchi ritòr: cerchi di togliere. 37 la grande ingiusta preda: il Santo Sepolcro e la Terra Santa. 38 ch’a te... conceda: nell’ottava viene istituito un collegamento tra la crociata medievale e le guerre del secondo Cinquecento contro i Turchi. Emerge il motivo encomiastico: se la cristianità, finalmente riunita, dovesse intraprendere una nuova crociata, potrebbe affidarne il comando (l’alto imperio), per terra o per mare, al duca estense. 39 t’apparecchia: preparati.
Analisi del testo La prima ottava: una perfetta sintesi del poema Il poema si apre con la proposizione (ott. 1) che preannuncia l’argomento principale del poema, la guerra santa (evidenziato da una sorta di ossimoro: arme pietose) e ne presenta il protagonista, Goffredo di Buglione, il capitano. La figura di Goffredo è modellata sul virgiliano Enea, come è messo in luce da precisi rimandi testuali: il primo verso ricalca l’inizio dell’Eneide, «Arma virumque cano» (Canto le armi e l’eroe); pietose sviluppa la qualifica di pius attribuita da Virgilio a Enea; anche molto soffrì (v. 4) richiama il poema virgiliano (cfr. nota 6). Le affinità tra l’eroe di Virgilio e Goffredo di Buglione mostrano come Tasso, diversamente dall’Ariosto, abbia voluto rifarsi a un modello letterario “alto”, a un classico come l’Eneide.
La Gerusalemme liberata 3 609
Il carattere eroico del poema è rimarcato da espressioni che evidenziano la grandiosità dell’impresa e il ruolo primario di Goffredo: «gran sepolcro», «Molto egli oprò», «Molto soffrì», «glorioso acquisto». In relazione a Goffredo, sempre nella prima ottava, ai vv. 7-8 è delineato il sistema dei personaggi: al capitano si contrappongono i compagni, definiti erranti perché tentati dal peccato e sviati da falsi valori. L’ottava mette in luce un altro elemento fondamentale: come appare al v. 5, la lotta è considerata non soltanto nella prospettiva storica di una guerra fra cristiani e musulmani, ma anche in quella metafisica, come uno scontro tra bene e male, Cielo e Inferno, in cui intervengono forze soprannaturali. È così preannunciato il «maraviglioso cristiano» del poema. In questa prima ottava, come evidenzia il critico Sergio Zatti, Tasso fa dunque emergere il triplice conflitto che caratterizzerà la Gerusalemme liberata: – crociati contro musulmani; – Cielo contro Inferno; – Goffredo contro compagni erranti.
L’invocazione alla musa cristiana e la poetica Nelle ott. 2-3 si colloca l’invocazione alla musa, canonica nei poemi epici, accompagnata da una precisa dichiarazione di poetica. A evidenziare l’ispirazione religiosa dell’opera, Tasso invoca infatti il sostegno di una musa celeste, ma fa anche trasparire la preoccupazione (tu perdona) per aver intessuto fregi al ver, cioè introdotto episodi d’invenzione, ricchi di situazioni fantastiche e immaginose, per rendere più affascinante il proprio scritto. A giustificare tale libertà, l’autore osserva che l’utilità morale, fine del suo poema, deve coniugarsi alla piacevolezza, per attrarre il lettore verso gli insegnamenti salvifici. Tale messaggio è reso attraverso una similitudine ripresa dal De rerum natura di Lucrezio, in cui il lettore è paragonato a un fanciullo malato, che guarisce grazie ai succhi amari delle medicine, sorbiti in una tazza cosparsa di liquido dolce, per invogliarlo ad assumere la bevanda salutare.
La dedica e l’autorappresentazione del poeta Anche la dedica evidenzia la distanza tra il poema tassiano e quello ariostesco. Alla distaccata ironia dell’Ariosto nella dedica del Furioso si contrappone l’orgogliosa celebrazione tassiana (ott. 4-5) del ruolo eccelso della poesia, ispiratrice di nobili imprese, come un’auspicata nuova crociata contro i Turchi, che il poeta immagina capeggiata dal suo signore Alfonso II. All’altissimo valore assegnato all’opera si contrappone però l’umana debolezza confessata dal poeta, che prega il signore di proteggerlo nelle angoscianti traversie della vita, rappresentata come un mare in tempesta, in cui egli annegherebbe senza l’intervento del potente protettore.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi in 3 righe il contenuto del Proemio, suddividendo il tuo testo in tre sequenze (relative ai tre temi principali) e dando d ognuna un titolo. COMPRENSIONE 2. Individua e spiega i versi relativi alla proposizione dell’argomento e all’invocazione alla Musa. 3. In cosa consiste la terza parte del Proemio, relativa alla dedica? ANALISI 4. Dove, nel testo, compare la parola erranti? Quali significati assume? 5. Dopo aver analizzato la seconda ottava, e in particolare la similitudine presente nella terza ottava, spiega i caratteri della poetica del «maraviglioso cristiano». STILE 6. Già nel Proemio si evidenzia l’elevato livello stilistico del poema. Indica in proposito: a. i periodi in cui si evidenzia una disposizione latineggiante delle parole; b. le figure retoriche; c. gli enjambements più notevoli, indicandone l’effetto; d. le scelte lessicali proprie di un registro elevato; e. gli aggettivi che sottolineano la grandiosità dell’impresa.
610 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 7. Quale nuovo significato, derivato dalla cultura della Controriforma, assume l’aggettivo pietose riferito alle armi? In che senso si può stabilire un collegamento con la pietas, virtù peculiare di Enea, l’eroe virgiliano? 8. A differenza del poema ariostesco, nel proemio tassiano non si accenna agli amori. Ti sembra che siano comunque presenti allusioni a tale tematica? 9. Confronta il Proemio della Gerusalemme liberata con quello dell’Orlando furioso, analizzando gli elementi indicati: argomento principale; fatti narrati e periodo storico; temi; personaggi; rapporto con il signore dedicatario dell’opera; registro linguistico e stile. 10. Metti a confronto il Proemio della Gerusalemme liberata, quello dell’Orlando furioso e l’incipit dell’Eneide di Virgilio, analizzando in particolare i seguenti aspetti: a. aderenza tematica e stilistica al modello latino; b. analogie e differenze tra due eroi: Enea e il capitano Goffredo; c. Roma e Gerusalemme: centri della cristianità. Alla luce dell’analisi svolta, individua chi tra Ariosto e Tasso sembra essere più vicino al modello latino e spiegane le ragioni in una breve trattazione (max 15 righe). COMPETENZA DIGITALE – SCRITTURA ARGOMENTATIVA 11. Svolgi in Internet una ricerca sul tema del rapporto fra intellettuali e potere nella storia della letteratura. Dopo esserti documentato, sviluppa un testo argomentativo chiedendoti se gli spunti di riflessione che il testo tassiano propone sono attuali.
online T5 Torquato Tasso
Un poema d’amore o di guerra? I Crociati alle porte di Gerusalemme Gerusalemme liberata III, 1-13; 16-23
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da: Franco Cardini, Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Jouvence, Roma 1993
Miti e mistificazioni [...]: l’accostamento dei due sostantivi potrebbe suonare come generico, e al tempo stesso apparir sottintendere un troppo duro e sbrigativo giudizio. Rimane il fatto che – al di là del valore proprio del termine “mito” come narrazione di eventi accaduti in età cosmogonica1 quale ce lo indicano 5 in modo convincente taluni antropologi e storici delle religioni – quanto nella crociata c’interessa oggi è appunto la diversificazione da essa subita nel tempo e nelle varie forze che se ne sono fatte portatrici, nonché l’attività “mitopoietica”2 nel senso che il termine “mito” ha assunto nel linguaggio comune, attività in funzione propagandistica e quindi mistificante, svolta da tali forze. 1 cosmogonica: riferita all’origine e formazione dell’universo. 2 “mitopoietica”: l’attività di creazione dei miti.
Nel passo relativo alla crociata, lo storico Franco Cardini parla di “miti” e di “mistificazioni”, alludendo alla trasfigurazione che un evento storico di così grande portata ha subìto nel corso del tempo e nelle varie temperie storico-culturali, diventando simbolo ed espressione di valori e ideologie diverse, fino a essere utilizzato in funzione propagandistica. Ti sembra che un processo analogo abbia interessato eventi storici attuali o comunque recenti? Che cosa, a tuo avviso, concorre a determinare l’assunzione di un evento storico a “mito”? E in che senso, in questo caso, si può parlare di “mistificazione”? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
La Gerusalemme liberata 3 611
Collabora all’analisi
T6
Torquato Tasso
Il concilio infernale e il piano di guerra di Satana Gerusalemme liberata IV, 1-4; 8-18
T. Tasso, Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983
Dal piano orizzontale del racconto, legato alla realtà storica, della pianura intorno a Gerusalemme, il poema passa al livello verticale, quello del piano metafisico, situando la scena nelle profondità della Terra, nella voragine infernale. Qui Satana, preoccupato per il prevalere delle forze cristiane, convoca i demoni ed espone il proprio piano d’azione: introdurre le creature infernali nell’animo dei guerrieri cristiani per suscitare irrefrenabili passioni che li distolgano dalla guerra santa.
1 Mentre son questi a le bell’opre intenti1, perché debbiano tosto in uso porse, il gran nemico de l’umane genti2 contra i cristiani i lividi occhi torse3; e scorgendogli omai lieti e contenti, ambo le labra per furor si morse4, e qual tauro ferito il suo dolore versò mugghiando e sospirando fuore5.
3 Chiama gli abitator de l’ombre eterne il rauco suon de la tartarea tromba10. Treman le spaziose atre caverne11, e l’aer cieco12 a quel romor rimbomba; né sì stridendo mai da le superne regioni del cielo il folgor piomba, né sì scossa giamai trema la terra quando i vapori in sen gravida serra13.
2 Quinci, avendo pur tutto il pensier vòlto a recar ne’ cristiani ultima doglia6, che sia, comanda, il popol suo raccolto (concilio orrendo7!) entro la regia soglia; come sia pur leggiera impresa, ahi stolto!, il repugnare a la divina voglia8: stolto, ch’al Ciel s’agguaglia, e in oblio pone come di Dio la destra irata tuone9.
4 Tosto gli dèi d’Abisso in varie torme concorron d’ogn’intorno a l’alte porte14. Oh come strane, oh come orribil forme! quant’è ne gli occhi lor terrore e morte! Stampano alcuni il suol di ferine orme15, e ‘n fronte umana han chiome d’angui attorte16, e lor s’aggira17 dietro immensa coda che quasi sferza18 si ripiega e snoda.
La metrica Ottave con schema delle rime ABABABCC.
1 questi... intenti: i cristiani intenti alle operazioni belliche, di guerra. 2 il gran... genti: Satana. 3 torse: il demonio “torce” i suoi occhi, lividi per il suo odio verso i cristiani, perché guarda verso l’alto dal basso dell’inferno. 4 ambo... morse: per il furore si morse le labbra. 5 e qual... fuore: e come un toro ferito manifestò il suo dolore con muggiti e sospiri. I due verbi al gerundio (interposti tra versò e fuore) prolungano la durata dell’azione. 6 Quinci... doglia: Poi (Quinci ha valore temporale), avendo rivolto tutto il suo pensiero a come danneggiare (recar... doglia) il più possibile i cristiani.
7 concilio orrendo: l’intervento esclamativo del narratore sottolinea l’orrore del concilio infernale. 8 come sia... voglia: come se fosse un’impresa facile opporsi alla volontà di Dio; repugnare è un latinismo. 9 in oblio... tuone: si dimentica di quanto sia terribile l’ira divina. 10 Chiama... tromba: Il suono aspro della tromba infernale richiama gli abitanti degli inferi. Le numerose allitterazioni (r, tr), di tutta l’ottava, con il loro fonosimbolismo, riecheggiano un rumore simile a quello di un terremoto. 11 le spaziose... caverne: le cavità infernali enormi e oscure. 12 l’aer cieco: l’aria oscura. 13 né sì... serra: né mai dalle più alte (superne) regioni del cielo il fulmine piomba con tanto fragore né la terra si scuote
612 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
tanto per un terremoto quando è gravida di vapori (secondo Aristotele i terremoti sarebbero provocati da vapori accumulati dentro la terra). Anche in questi versi si riscontra un accentuato fonosimbolismo. 14 Tosto... porte: Subito le divinità infernali, in diverse schiere, corrono da tutti i luoghi circostanti verso le porte della città infernale. 15 Stampano... orme: Alcuni lasciano impronte simili a fiere (perché hanno zampe animalesche). Il verbo stampano suggerisce il peso dei mostri colossali. 16 e ’n fronte... attorte: e su volti umani hanno chiome attorcigliate di serpenti (angui, latinismo). 17 s’aggira: si muove sinuosamente. Il verbo suggerisce un movimento simile a quello di un serpente. 18 quasi sferza: come una frusta.
[I demoni si schierano alla destra e alla sinistra di Plutone (Satana) per udirne il discorso.] 8 […] Mentre ei parlava, Cerbero i latrati ripresse, e l’Idra si fe’ muta al suono19; restò Cocito20, e ne tremàr gli abissi, e in questi detti il gran rimbombo udissi21: 9 – Tartarei numi22, di seder più degni là sovra il sole, ond’è l’origin vostra23, che meco già da i più felici regni spinse il gran caso24 in questa orribil chiostra25, gli antichi altrui26 sospetti e i feri sdegni27 noti son troppo, e l’alta impresa nostra28; or Colui regge a suo voler le stelle, e noi siam giudicate alme rubelle29. 10 Ed in vece del dì sereno e puro, de l’aureo sol, de gli stellati giri, n’ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro30, né vuol ch’al primo onor per noi s’aspiri31; e poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro! quest’è quel che più inaspra i miei martìri32) ne’ bei seggi celesti33 ha l’uom chiamato, l’uom vile e di vil fango in terra nato.
19 Cerbero... suono: Cerbero (il cane a tre teste guardiano dell’inferno) frenò i latrati, l’Idra ammutolì al suono (delle parole). L’immota sospensione delle creature infernali sottolinea l’importanza del discorso di Satana. 20 restò Cocito: arrestò il suo corso il fiume infernale Cocito. 21 in questi... udissi: il grande rimbombo risuonò in queste parole. 22 Tartarei numi: Divinità infernali. 23 di seder... vostra: più degni di avere sede in cielo, al di sopra del sole, dove è la vostra origine. Lucifero dimostra una perfetta padronanza dell’arte retorica, iniziando il discorso con una captatio benevolentiae: ricordando ai diavoli la cacciata dal paradiso, Lucifero afferma che essi sarebbero ancora degni del cielo. Li spinge così a rinnovare la loro antica ribellione contro Dio. 24 caso: caso è un latinismo ricercato; ha il significato di “caduta”. 25 in questa... chiostra: in questo orribile luogo chiuso (l’inferno).
11 Né ciò gli parve assai34; ma in preda a morte, sol per farne più danno, il figlio diede35. Ei venne e ruppe le tartaree porte, e porre osò ne’ regni nostri il piede, e trarne l’alme a noi dovute in sorte, e riportarne al Ciel sì ricche prede36, vincitor trionfando, e in nostro scherno l’insegne ivi spiegar37 del vinto Inferno. 12 Ma che rinovo i miei dolor parlando? Chi non ha già l’ingiurie nostre38 intese? Ed in qual parte si trovò, né quando, ch’egli cessasse da l’usate imprese39? Non più déssi40 a l’antiche andar pensando, pensar dobbiamo a le presenti offese. Deh! non vedete omai com’egli tenti tutte al suo culto richiamar le genti?
26 altrui: di Dio (che nell’inferno non può essere nominato). 27 feri sdegni: le ire feroci. 28 l’alta impresa nostra: la ribellione a Dio. 29 alme rubelle: anime ribelli. 30 Ed in vece... oscuro: il discorso di Lucifero delinea una serie di opposizioni spaziali, tra il cielo e l’abisso infernale, tra luoghi aperti e luminosi e luoghi chiusi e oscuri; il tema è il rimpianto del paradiso perduto. 31 né vuol... aspiri: e non vuole che noi aspiriamo nuovamente all’onore di essere le prime creature. 32 inaspra... martìri: inasprisce le mie sofferenze. 33 ne’ bei seggi celesti: in paradiso. 34 assai: sufficiente. 35 in preda... diede: solo per danneggiarci maggiormente, (Dio) ha reso mortale il Figlio. Dio ha voluto rendere mortale il proprio Figlio, per riscattare l’umanità dal peccato e sottrarla a Satana. 36 ruppe... prede: (Cristo) ruppe le porte
dell’inferno e osò entrare nel nostro regno, sottrarre le anime a noi destinate, e portare in Cielo le anime dei patriarchi ebrei («sì ricche prede»). Dopo la resurrezione Cristo, come ricorda anche Dante nella Divina commedia, scese nell’inferno e ne trasse, per portarle in paradiso, le anime dei patriarchi ebrei morti prima della sua nascita. 37 l’insegne... spiegar: e porre là i segni della vittoria sull’inferno. Le anime che Cristo ha portato in cielo dall’inferno attestano la sua vittoria sui demoni che le custodivano. 38 l’ingiurie nostre: l’ingiustizia da noi subita. 39 Ed in qual... imprese: Dove e quando si trovò un luogo e un momento in cui (Dio) rinunziasse alle sue imprese abituali. Nel discorso retoricamente elaborato di Satana abbondano le interrogative retoriche, che hanno l’intento di acuire lo spirito di rivalsa dei demoni. 40 déssi: si deve.
La Gerusalemme liberata 3 613
13 Noi trarrem neghittosi41 i giorni e l’ore, né degna cura fia che ’l cor n’accenda42? e soffrirem43 che forza ognor maggiore il suo popol fedele in Asia prenda? e che Giudea soggioghi44? e che ’l suo onore, che ’l nome suo più si dilati e stenda45? che suoni in altre lingue, e in altri carmi si scriva, e incida in novi bronzi e marmi46?
15 Ah! non fia ver, ché non sono anco estinti gli spirti in voi di quel valor primiero51, quando di ferro e d’alte fiamme cinti pugnammo già contra il celeste impero. Fummo, io no ’l nego, in quel conflitto vinti, pur non mancò virtute al gran pensiero52. Diede che che si fosse a lui vittoria: rimase a noi d’invitto ardir la gloria53.
14 Che sian gl’idoli nostri a terra sparsi47? ch’i nostri altari il mondo a lui converta48? ch’a lui sospesi i voti, a lui sol arsi siano gl’incensi, ed auro49 e mirra offerta? ch’ove a noi tempio non solea serrarsi, or via non resti a l’arti nostre aperta? che di tant’alme il solito tributo ne manchi, e in vòto regno alberghi Pluto50?
16 Ma perché più v’indugio54? Itene, o miei fidi consorti55, o mia potenza e forze: ite56 veloci, ed opprimete i rei57 prima che ’l lor poter più si rinforze; pria che tutt’arda il regno de gli Ebrei, questa fiamma crescente omai s’ammorze58; fra loro entrate59, e in ultimo lor danno60 or la forza s’adopri ed or l’inganno.
41 trarrem neghittosi: trascorreremo oziosi. 42 né degna cura... accenda: né vi sarà una nobile impresa che infiammi i nostri cuori. 43 soffrirem: sopporteremo. 44 Giudea soggioghi: sottometta la Giudea. 45 si dilati e stenda: si diffondano e si estendano. 46 che suoni... marmi: che (il suo nome) risuoni in altre lingue, sia scritto in altri versi, sia inciso in altri monumenti di bronzo e di marmo. Satana descrive le conseguenze che sarebbero provocate da una vittoria cristiana nella crociata. 47 Che sian... sparsi: Che siano abbattute le nostre immagini. 48 ch’i nostri... converta: che il mondo trasformi gli altari non cristiani (pagani e di altre religioni) in altari dedicati al dio cristiano. Il discorso di Satana, che ricalca quello di un comandante prima di una battaglia, è reso più efficace da una serie di interrogative retoriche e prospetta il quadro, temuto dalle forze demoniache,
di un mondo unificato nella fede cristiana. 49 auro: oro (latinismo). 50 in vòto... Pluto: Plutone (Satana) regni in un inferno vuoto. Per la sconfitta delle forze demoniache non ci sarebbero più anime dannate. Plutone è l’antico re dell’Ade; Satana è così chiamato perché i musulmani sono indicati nel poema anche con il nome di pagani. 51 non fia ver... primiero: non avverrà, perché non si è ancora spento in voi l’antico valore (che si è manifestato nella prima ribellione contro Dio). 52 quando... pensiero: le belle immagini, di grandiosità barocca, sottolineano l’epica lotta contro Dio e il valore eroico degli angeli ribelli; l’impresa appare ancora più grande (gran pensiero) per il coraggio (virtute) dimostrato nello sfidare l’immenso potere divino. 53 Diede... gloria: Qualunque sia stata la causa della vittoria divina, a noi è rimasta la gloria di un indomito coraggio. Satana sostiene di essere il vincitore morale del conflitto, per aver avuto il coraggio di ribellarsi.
614 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
54 v’indugio: vi trattengo. Inizia l’esortazione finale, resa più energica da un’altra interrogativa retorica. Satana vede che le schiere demoniache, persuase dal suo abile discorso, ormai ardono per il desiderio di combattere. 55 Itene... consorti: Andate, o miei fedeli compagni. 56 ite: l’iterazione dell’imperativo sottolinea l’incitamento a un’azione energica e veloce. 57 opprimete i rei: vincete i malvagi. Dal punto di vista di Satana, i malvagi sono i cristiani. 58 s’ammorze: si spenga. 59 fra loro entrate: entrate nell’animo dei Crociati. 60 in ultimo lor danno: per la loro estrema rovina.
17 Sia destin ciò ch’io voglio61: altri disperso se ‘n vada errando62, altri rimanga ucciso, altri in cure d’amor lascive immerso idol si faccia un dolce sguardo e un riso63. Sia il ferro incontra ’l suo rettor converso64 da lo stuol ribellante e ’n sé diviso65: pèra il campo e ruini, e resti in tutto ogni vestigio suo con lui distrutto66. –
61 Sia destin... voglio: Accada ciò che io desidero. Satana traccia il suo piano di battaglia. 62 altri... errando: alcuni crociati vadano dispersi come cavalieri erranti. Satana intende ispirare nei Crociati quelle passioni colpevoli che per lungo tempo impediranno loro di conquistare Gerusalemme. I punti del programma di Satana coincidono con i principali episodi del poema, incentrati sulle tentazioni peccaminose dei Crociati. 63 altri in... riso: immerso in peccaminosi pensieri amorosi, adori come un idolo il dolce sguardo e sorriso (di una donna). Si preannuncia l’amore di Rinaldo per Armida.
18 Non aspettàr già l’alme a Dio rubelle che fosser queste voci al fin condotte67; ma fuor volando a riveder le stelle68 già se n’uscian da la profonda notte69, come sonanti e torbide procelle70 che vengan fuor de le natie lor grotte ad oscurar il cielo, a portar guerra a i gran regni del mar e de la terra.
64 Sia il ferro... converso: Le armi siano rivolte contro il capitano Goffredo. Nell’VIII canto del poema si assiste infatti a un tentativo di ribellione contro Goffredo, guidato dall’italiano Argillano; un’altra rivolta è descritta nel XIII canto, nel momento più difficile della crociata, quando i Crociati sono stremati da una terribile siccità. 65 da lo stuol... diviso: dalla schiera dei Crociati ribelle e internamente discorde. 66 pèra... distrutto: il campo crociato perisca e vada in rovina e ogni sua traccia (vestigio) resti distrutta con lui. 67 Non... condotte: Le anime ribelli a Dio (cioè i demoni) non aspettarono che quelle parole fossero terminate.
68 fuor... stelle: la citazione dantesca, in un passo ricco di echi della Divina commedia, è particolarmente significativa perché si riferisce all’ultimo verso dell’Inferno («E quindi uscimmo a riveder le stelle», If XXXIV 139). Nella Divina commedia, tuttavia, è Dante che, con un senso di liberazione, esce dal cupo abisso infernale; qui, invece, i soggetti sono i demoni. 69 profonda notte: la notte infernale; profonda perché priva di stelle. 70 come... procelle: come tempeste fragorose e oscure. L’aggettivo torbide istitui sce un legame tra i demoni e le passioni che susciteranno, togliendo agli animi la limpidezza.
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
L’episodio si struttura in tre sequenze: la descrizione del concilio infernale; il discorso di Satana; l’uscita dei demoni dall’inferno per compiere la loro missione. 1. Qual è il rapporto fra le tre sequenze? Come si pongono in relazione con la trama generale del poema? Per incitare i demoni, Satana pronuncia un discorso eloquente e persuasivo, condotto secondo i dettami dell’arte retorica. 2. Riassumi brevemente l’allocuzione di Satana. L’opposizione spaziale Nell’episodio domina l’opposizione spaziale tra le vaste regioni celesti e quelle oscure e chiuse dell’inferno. Satana stesso ricorda ai compagni infernali i tetri abissi in cui ora sono confinati, dopo essere stati scacciati, a suo parere ingiustamente, dalle luminose e alte sedi originarie (IV, 10, 1-3) e li invita, con citazione dantesca, a «riveder le stelle». Il passo si conclude con il volo dei demoni fuori dalle viscere della Terra. 3. Rintraccia e scheda le espressioni che sottolineano il senso di prigionia e cupezza degli inferi e la bellezza e vastità del cielo. L’orrore infernale La descrizione dei demoni ne sottolinea gli aspetti esteriormente mostruosi, tendendo a suscitare orrore nei lettori sia per l’affollarsi disordinato delle creature infernali, sia per il loro aspetto ibrido, misto di tratti umani e bestiali. L’effetto della descrizione è accentuato dal fonosimbolismo del linguaggio, che tende a riprodurre il rimbombo delle caverne infernali (cfr. in particolare l’ott. 3).
La Gerusalemme liberata 3 615
4. Individua e scheda le due serie di espressioni: quelle che mettono in luce l’aspetto bestiale dei demoni e quelle che ne evidenziano caratteristiche umane. 5. Riconosci i versi in cui è più evidente il fonosimbolismo, tendente a riprodurre l’effetto di rimbombo delle caverne infernali. La sapienza retorica di Satana Alla mostruosità dei demoni, che nelle ottave omesse è attribuita anche a Satana, in conformità con la tradizione e con l’ortodossia cattolica dell’autore, corrisponde un’assai meno ortodossa considerazione del punto di vista del capo dei demoni, che pronuncia un discorso costruito secondo la più perfetta arte retorica, degno di un valoroso comandante. L’arringa si apre con una captatio benevolentiae in piena regola, rivolta ai compagni infernali («Tartarei numi, di seder più degni»), e prosegue mettendo in luce una consumata tecnica oratoria. 6. Individua le interrogative retoriche usate da Satana. Che effetto ottengono? 7. Individua gli espedienti usati da Satana per accrescere la volontà di combattere delle sue “truppe”. 8. Individua nel discorso le espressioni con funzione conativa.
Interpretare
Satana come eroe epico Il discorso di Satana non è solo abilmente costruito, ma (e questo appare sorprendente) anche nobile ed elevato. Per la prima volta nella letteratura (fino ad allora il diavolo era sempre stato rappresentato con uno stile comico-realistico) Tasso presenta Satana con tratti nobili: esprime elevati sentimenti, come il senso dell’onore e la volontà di riscatto e, rimpiangendo le aeree e luminose sedi celesti, mostra di possedere il senso estetico del bello; sa inoltre spronare i demoni come un abile generale prima di una battaglia, toccando le corde più sensibili del loro animo. Rievocando «l’alta impresa» degli angeli ribelli, Satana afferma orgogliosamente che, sebbene la vittoria fosse andata alle forze divine, i vincitori morali dello scontro sarebbero i demoni, artefici di un’eroica ribellione («l’alta impresa nostra»), tanto più degna di ammirazione (pur non mancò virtute al gran pensiero») perché inevitabilmente destinata alla sconfitta, visti gli ineguali rapporti di forza («rimase a noi d’invitto ardir la gloria»). 9. Individua i passi del discorso che evidenziano il carattere eroico attribuito da Satana all’impresa degli angeli ribelli. 10. Il discorso di Satana rovescia la prospettiva della storia sacra: quali eventi ricorda oltre la ribellione di Lucifero? Come li presenta? 11. Il piano di guerra enunciato da Satana («Sia destin ciò ch’io voglio») prevede che i demoni entrino nell’animo dei Crociati scatenandone le passioni represse. Quali in particolare? Riconosci nel discorso qualcuno degli episodi che saranno poi sviluppati nel poema? Il tema della libertà L’immagine di Satana presenta evidenti analogie con quelle dei più valorosi guerrieri musulmani della Liberata, in particolare Solimano, un personaggio che riunisce in sé aspetti eroici e demoniaci: re detronizzato, combatte accompagnato da mostri, prodigi e presenze infernali; sul suo elmo si erge un terribile serpente. Se il vanto di Satana è quello di un «invitto ardir», anche Solimano, quando cade, nel momento della morte è definito «l’uom smisurato, il rege invitto» (XX, 103, 7). Una rappresentazione che tradisce un’evidente (e forse in parte inconscia) simpatia per il campo opposto ai Crociati, in cui risplendono i valori, condannati dalla rigida Chiesa controriformistica, di una rinascimentale “virtù”. Più che simbolo del male, Satana appare emblema di ribellione e di libertà, a cui Tasso – pur non confessandolo apertamente, forse neppure a sé stesso – si sentiva evidentemente molto vicino. 12. Quali sono i tratti più nuovi della figura di Satana? In quali versi li puoi meglio riconoscere? 13. Il critico Sergio Zatti sintetizza la lotta tra i due campi nemici come il contrasto fra il principio gerarchico di unità, imposto dalla Chiesa postridentina, e la molteplicità delle inclinazioni spontanee, valorizzate nel Rinascimento. In che senso il piano di guerra di Satana rispecchia tale scontro di valori? 14. Per quali aspetti l’episodio rappresenta un esempio del “maraviglioso cristiano” teorizzato da Tasso?
616 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Sguardo sulla letteratura straniera Echi di Tasso in John Milton La novità della figura di Satana nella Gerusalemme liberata ispira il poeta inglese John Milton (1608-1674), conoscitore e ammiratore dell’opera di Tasso, che nel suo poema Il Paradiso perduto ne riprende lo spirito, rappresentando anch’egli la ribellione di Satana come un atto nobile e coraggioso. A differenza di Tasso, che aveva cercato di mitigare la rappresentazione positiva del capo dei demoni (certo poco gradita alla Chiesa del tempo) attribuendogli forme esteriori mostruose, Milton fa corrispondere la bellezza dell’aspetto alla nobiltà dell’animo, per cui Satana conserva i segni del passato splendore di angelo caduto. Nel Paradiso perduto, Satana e i suoi compagni manifestano la stessa indomabile volontà di ribellione del Lucifero immaginato da Tasso. Si possono ricordare le parole di Belzebù a Satana (1, 139-142) simili a quelle della Gerusalemme liberata: «for the mind and spirit remains / invincible, and vigour soon returns, / Though all our Glory extinct, and happy state / Here swallow’d up in endless misery» (“perché la mente e lo spirito rimangono invincibili, / e subito ritorna l’energia, anche se è estinta / tutta la nostra gloria, e lo stato felice sommerso / dalla miseria infinita”).
Come ricorda l’anglista Mario Praz nel libro intitolato La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, dedicato alla cultura romantica e decadente, la figura di Lucifero della Gerusalemme liberata, ripresa da Milton nel Paradiso perduto, con la sua grandezza eroica di ribelle affascinò gli scrittori romantici, da Blake a Shelley, il quale afferma che nulla «può superare l’energia e lo splendore del carattere di Satana quale si trova espresso nel Paradiso perduto»; a Baudelaire, che vide nel Satana miltoniano il «tipo più perfetto della beltà virile». L’angelo caduto sarebbe, secondo Praz, l’archetipo delle figure romanzesche della letteratura romantica inglese che, con la loro spietata energia di eroi del male, animano «gli sfondi pittoreschi e goticizzanti dei romanzi terrifici inglesi», fino a Byron, che porta a perfezione «il tipo del ribelle, lontano discendente del Satana di Milton».
Testo di riferimento: M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1988. La cit. è da J. Milton, Paradiso perduto, a c. di R. Sanesi, Mondadori, Milano 1990
Gustave Doré, San Michele scaccia dal Paradiso gli angeli caduti, 1866.
online T7 Torquato Tasso
La fuga di Erminia innamorata di Tancredi Gerusalemme liberata VI, 54-67; 90-93; 102-106; 109-110
La Gerusalemme liberata 3 617
Torquato Tasso
T8
EDUCAZIONE CIVICA
La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6
Gerusalemme liberata, VII, 1-22 T. Tasso, Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983
Dopo aver assistito al duello fra Tancredi e Argante dalle mura di Gerusalemme, la principessa Erminia (segretamente e infelicemente innamorata del guerriero cristiano) esce dalla città con indosso l’armatura di Clorinda, nel tentativo di recarsi al campo crociato per curare il suo amato; tuttavia viene avvistata dalle sentinelle e messa in fuga, mentre Tancredi la insegue credendo che si tratti della donna da lui amata. Dopo un allontanamento precipitoso, che ricorda in parte quello di Angelica in apertura del Furioso, Erminia capita in un villaggio abitato da pastori che vivono lontani dalla guerra in uno spazio idilliaco, dove chiede e ottiene di essere ospitata per qualche tempo nella speranza (vana) di dimenticare il proprio amore infelice.
1 Intanto Erminia infra l’ombrose piante d’antica selva1 dal cavallo è scòrta2, né piú governa il fren3 la man tremante, e mezza quasi par tra viva e morta. Per tante strade si raggira4 e tante il corridor5 ch’in sua balia6 la porta, ch’al fin da gli occhi altrui7 pur si dilegua8, ed è soverchio9 omai ch’altri la segua.
3 Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno errò senza consiglio e senza guida, non udendo o vedendo altro d’intorno, che le lagrime sue, che le sue strida. Ma ne l’ora che ‘l sol dal carro adorno scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida16, giunse del bel Giordano17 a le chiare acque e scese in riva al fiume, e qui si giacque.
2 Qual dopo lunga e faticosa caccia tornansi10 mesti ed anelanti i cani che la fèra11 perduta abbian di traccia, nascosa in selva da gli aperti piani12, tal pieni d’ira e di vergogna in faccia13 riedono14 stanchi i cavalier cristiani. Ella pur fugge15, e timida e smarrita non si volge a mirar s’anco è seguita.
4 Cibo non prende già, ché de’ suoi mali solo si pasce18 e sol di pianto ha sete; ma ‘l sonno, che de’ miseri mortali è co ‘l suo dolce oblio posa e quiete, sopí19 co’ sensi20 i suoi dolori21, e l’ali22 dispiegò sovra lei placide e chete; né però cessa Amor con varie forme la sua pace turbar mentre ella dorme.
La metrica Ottave con schema delle rime ABABABCC. 1. antica selva: bosco antico. 2. scòrta: condotta. 3. il fren: le briglie. 4. si raggira: vagabonda. 5. corridor: in corsa. 6. in sua balia: in suo potere. 7. da gli occhi altrui: dalla vista degli inseguitori. 8. si dilegua: sparisce. 9. soverchio: inutile. 10. tornansi: fanno ritorno.
11. fèra: animale feroce, preda. 12. aperti piani: pianura aperta. 13. tal pieni... in faccia: con espressioni cariche di rabbia e di mortificazione.
14. riedono: ritornano. 15. pur fugge: nonostante tutto, continua a scappare.
16. Ma ne... s’annida: Ma nell’ora in cui il sole scioglie i cavalli dal suo carro dorato e si tuffa nel mare (lunga perifrasi per indicare il tramonto). 17. Giordano: fiume dell’Asia occidentale – che bagna Israele, Libano, Cisgiordania,
618 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Siria e Giordania – dove fu battezzato Gesù; per gli ebrei è il luogo da cui il successore di Mosè, cioè Giosuè, portò il popolo ebraico nella Terra Promessa. 18. si pasce: si nutre. 19. sopí: placò, acquietò. 20. co’ sensi: insieme al corpo (sensi). 21. i suoi dolori: le sofferenze del cuore. 22. l’ali: il Sonno, ovvero Hypnos, che nella mitologia classica viene raffigurato più giovane di Thanatos (Morte) e dotato di ali sulle spalle.
5 Non si destò fin che garrir23 gli augelli non sentí lieti e salutar gli albori, e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l’onda scherzar l’aura24 e co i fiori. Apre i languidi lumi25 e guarda quelli alberghi solitari de’ pastori, e parle voce udir tra l’acqua e i rami26 ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.
8 Soggiunse poscia: «O padre39, or che d’intorno d’alto incendio di guerra arde il paese, come qui state in placido soggiorno senza temer le militari offese?40» «Figlio,» ei rispose «d’ogni oltraggio e scorno41 la mia famiglia e la mia greggia illese sempre qui fur, né strepito di Marte42 ancor turbò questa remota parte.
6 Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene, che sembra ed è di pastorali accenti27 misto e di boscareccie inculte avene28. Risorge, e là s’indrizza29 a passi lenti, e vede un uom canuto a l’ombre amene tesser fiscelle a la sua greggia a canto30 ed ascoltar di tre fanciulli il canto.
9 O sia grazia del Ciel che l’umiltade d’innocente pastor salvi e sublime, o che, sí come il folgore43 non cade in basso pian ma su l’eccelse cime44, cosí il furor di peregrine spade45 sol de’ gran re l’altere teste opprime46, né gli avidi soldati a preda alletta47 la nostra povertà vile e negletta48.
7 Vedendo quivi comparir repente31 l’insolite32 arme, sbigottír33 costoro; ma li saluta Erminia e dolcemente gli affida34, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro35: «Seguite,»36 dice «aventurosa gente al Ciel diletta, il bel vostro lavoro, ché non portano già guerra quest’armi a l’opre vostre37, a i vostri dolci carmi.»38
10 Altrui vile e negletta, a me sí cara che non bramo tesor né regal verga49, né cura50 o voglia ambiziosa o avara51 mai nel tranquillo del mio petto alberga52. Spengo la sete mia ne l’acqua chiara, che non tem’io che di venen53 s’asperga54, e questa greggia e l’orticel dispensa cibi non compri a la mia parca mensa.
23. garrir: cinguettare. 24. l’aura: il vento. 25. lumi: occhi. 26. parle voce udir tra l’acqua e i rami: le sembra che abbiano una voce lo scrosciare delle onde del fiume e il fruscio delle fronde. 27. pastorali accenti: canti di pastori. 28. boscareccie inculte avene: semplici zampogne. 29. s’indrizza: si dirige. 30. tesser fiscelle a la sua greggia a can to: vede intrecciare ceste di vimini accanto al gregge. 31. repente: d’un tratto. 32. insolite: rare a vedersi.
33. sbigottír: sgomenti. 34. gli affida: li tranquillizza. 35. bei crin d’oro: bei capelli biondi. 36. Seguite: Continuate. 37. opre vostre: i vostri lavori. 38. vostri dolci carmi: vostri canti armoniosi. 39. O padre: O pastore anziano. 40. or che d’intorno… militari offese?: mentre intorno a voi arde l’incendio della guerra, come potete voi vivere in così quieto soggiorno senza temere i pericoli della guerra? 41. scorno: pericolo. 42. strepito di Marte: il rumore della battaglia. Marte è il dio della guerra.
43. folgore: fulmine. 44. eccelse cime: le vette più alte. 45. peregrine spade: armi degli stranieri. 46. opprime: colpisce. 47. alletta: invita. 48. vile e negletta: semplice e modesta. 49. regal verga: scettro regale. 50. cura: preoccupazione. 51. voglia ambiziosa o avara: desiderio di onori o danaro.
52. nel tranquillo del mio petto alberga: vive nella tranquillità del mio animo.
53. venen: veleno. 54. s’asperga: si contamina.
La Gerusalemme liberata 3 619
11 Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro bisogno onde la vita si conservi55. Son figli miei questi ch’addito e mostro, custodi de la mandra, e non ho servi. Cosí me ‘n vivo in solitario chiostro56, saltar veggendo i capri snelli e i cervi, ed i pesci guizzar di questo fiume e spiegar57 gli augelletti al ciel le piume.
14 Mentre ei cosí ragiona70, Erminia pende da la soave bocca intenta71 e cheta; e quel saggio parlar, ch’al cor le scende, de’ sensi in parte le procelle acqueta. Dopo molto pensar, consiglio prende72 in quella solitudine secreta insino a tanto almen farne soggiorno73 ch’agevoli fortuna il suo ritorno.
12 Tempo già fu, quando piú l’uom vaneggia ne l’età prima58, ch’ebbi altro desio e disdegnai di pasturar la greggia; e fuggii dal paese a me natio, e vissi in Menfi59 un tempo, e ne la reggia fra i ministri60 del re fui posto anch’io, e benché fossi guardian de gli orti61 vidi e conobbi pur l’inique corti62.
15 Onde al buon vecchio dice: «O fortunato, ch’un tempo conoscesti il male a prova74, se non t’invidii75 il Ciel sí dolce stato, de le miserie mie pietà ti mova; e me teco raccogli in cosí grato albergo ch’abitar teco mi giova76. Forse fia77 che ‘l mio core infra quest’ombre del suo peso mortal parte disgombre78.
13 Pur lusingato da speranza ardita soffrii lunga stagion63 ciò che piú spiace64; ma poi ch’insieme con l’età fiorita65 mancò la speme66 e la baldanza audace, piansi i riposi di quest’umil vita67 e sospirai la mia perduta pace, e dissi; `O corte, a Dio.’68 Cosí, a gli amici boschi tornando, ho tratto69 i dí felici.»
16 Ché se di gemme e d’or, che ‘l vulgo adora sí come idoli suoi, tu fossi vago79, potresti ben, tante n’ho meco ancora, renderne il tuo desio contento e pago.» Quinci, versando da’ begli occhi fora umor di doglia80 cristallino e vago, parte narrò di sue fortune81, e intanto il pietoso pastor pianse al suo pianto.
55. poco... si conservi: molto poco necessario a noi per sopravvivere. 56. chiostro: luogo appartato. 57. spiegar: aprire. 58. quando... prima: quando l’uomo, in età giovanile, insegue vane illusioni. 59. Menfi: città dell’Egitto; anticamente era la capitale. 60. ministri: servi. 61. orti: giardini. 62. inique corti: ambienti cortigiani: qui l’autore, attraverso la voce del padre pasto-
re, esprime la sua critica alla vita nelle corti. 63. lunga stagion: per molto tempo. 64. ciò che piú spiace: continue umiliazioni. 65. età fiorita: la giovinezza. 66. speme: speranza. 67. piansi i riposi di quest’umil vita: rimpiansi la pace di questa vita umile. 68. a Dio: addio. 69. tratto: vissuto. 70. ragiona: parla. 71. intenta: rapita, attratta.
620 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
72. consiglio prende: decide. 73. farne soggiorno: di rimanere in quel luogo.
74. a prova: per esperienza personale. 75. non t’invidii: non privarti. 76. mi giova: mi piace. 77. fia: avverrà. 78. disgombre: si liberi. 79. vago: desideroso. 80. umor di doglia: pianto di dolore. 81. fortune: eventi avversi.
17 Poi dolce la consola e sí l’accoglie come tutt’arda di paterno zelo82, e la conduce ov’è l’antica moglie che di conforme cor gli ha data il Cielo. La fanciulla regal di rozze spoglie83 s’ammanta84, e cinge al crin ruvido velo; ma nel moto de gli occhi e de le membra non già di boschi abitatrice sembra.
20 Indi dicea piangendo: «In voi serbate questa dolente istoria, amiche piante; perché se fia ch’a le vostr’ombre grate92 giamai soggiorni alcun fedele amante, senta svegliarsi al cor dolce pietate de le sventure mie sí varie e tante, e dica: ‘Ah troppo ingiusta empia mercede diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!93’
18 Non copre abito vil la nobil luce85 e quanto è in lei d’altero e di gentile, e fuor la maestà regia traluce per gli atti ancor de l’essercizio umile. Guida la greggia a i paschi e la riduce86 con la povera verga al chiuso ovile, e da l’irsute mamme87 il latte preme e ‘n giro accolto poi lo strige insieme88.
21 Forse averrà, se ‘l Ciel benigno ascolta affettuoso alcun prego mortale, che venga in queste selve anco tal volta quegli a cui di me forse or nulla cale; e rivolgendo gli occhi ove sepolta giacerà questa spoglia94 inferma e frale, tardo premio conceda a i miei martíri95 di poche lagrimette e di sospiri;
19 Sovente, allor che su gli estivi ardori giacean le pecorelle a l’ombra assise, ne la scorza de’ faggi e de gli allori segnò l’amato nome89 in mille guise, e de’ suoi strani ed infelici amori gli aspri successi90 in mille piante incise, e in rileggendo poi le proprie note91 rigò di belle lagrime le gote.
22 onde se in vita il cor misero fue, sia lo spirito in morte almen felice, e ‘l cener freddo de le fiamme sue96 goda quel ch’or godere a me non lice.»97 Cosí ragiona a i sordi tronchi, e due fonti di pianto da’ begli occhi elice98. Tancredi intanto, ove fortuna il tira lunge da lei, per lei seguir99, s’aggira.
82. come... zelo: allo stesso modo di come
88. e ‘n giro accolto poi lo strige insie
un padre arde di paterna compassione. 83. rozze spoglie: vestiti semplici. 84. s’ammanta: indossa. 85. Non... luce: L’abito semplice e contadino non è sufficiente a nascondere lo splendore delle nobili origini. 86. riduce: riconduce. 87. irsute mamme: mammelle pelose delle pecore.
me: comprime in forme rotonde (‘n giro accolto); operazione per fare il formaggio. 89. amato nome: il nome dell’amato Tancredi. 90. aspri successi: dolorosi episodi. 91. note: parole. 92. grate: gradite. 93. Ah troppo ingiusta… gran fede!: Ah, una ricompensa troppo ingiusta e crudele,
hanno dato la Fortuna e l’Amore per una così grande fedeltà!. 94. spoglia: corpo. 95. martíri: dolori. 96. fiamme sue: amore. 97. a me non lice: per me non è possibile godere. 98. elice: fa uscire. 99. per lei seguir: per inseguirla (è convinto che fosse Clorinda).
La Gerusalemme liberata 3 621
Analisi del testo Una parentesi idilliaca: il topos del locus amoenus La principessa Erminia, sfinita e impaurita, durante una fuga precipitosa (durante la quale ha persino perso il controllo del cavallo) giunge in una comunità di pastori, suscitando all’inizio preoccupazione e sgomento; ma poi, dopo aver rassicurato gli umili abitanti sulle sue miti intenzioni, instaura con loro un’armoniosa relazione di pacata conversazione e addirittura di condivisione della quieta vita pastorale. Infatti, dopo che l’anziano patriarca della comunità ha spiegato a Erminia il senso della loro vita, e cioè il fatto che la guerra non li coinvolge perché è un affare dei potenti (distanti e indifferenti alla modesta ma profonda e arricchente vita dei campi) a quel punto Erminia, principessa d’Antiochia, depone l’armatura, indossa umili vesti e si convince a condurre (purtroppo per breve tempo) quella semplice vita pastorale. Si tratta di una parentesi idilliaca assai significativa; non solo per la caratterizzazione della protagonista (indimenticabile figura elegiaca e suggestiva, emblema di un amore tenero e sofferto, proteso verso un ideale di vita appartata), ma anche perché il luogo ha tutte le caratteristiche del locus amoenus: prati sempreverdi, una brezza leggera che addolcisce la scena, il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle fronde degli alberi, il ritmato scrosciare delle acque di ruscelli (ott. 5); un’idea che poi si ripete nella ottava 9, quando il saggio padre della comunità paragona il luogo alle alte cime non colpite dai fulmini, permettendo all’autore di sviluppare una riflessione sulle perfide e spietate dinamiche della guerra e anche della vita di corte. Non a caso, quando Erminia tenterà di integrarsi nella vita dei pastori, non riuscirà tuttavia a nascondere le sue origini nobili (ott. 18), che traspaiono dagli atteggiamenti anche sotto i rozzi panni che indossa mentre porta le bestie al pascolo e munge le capre. È qui che Tasso esprime la propria polemica, che aveva già manifestato attraverso la voce del padre pastore, contro la vita delle corti (ott. 12 e 13), in cui la principessa, e lui stesso, sono imprigionati, impossibilitati a condurre l’esperienza libera nella comunità agreste.
Riferimenti letterari e scarto tassiano Questa situazione elegiaca è peraltro intrisa di riferimenti letterari, i cui modelli principali sono le Georgiche e Bucoliche di Virgilio (in particolare Georgiche II, vv. 458 sgg.), nelle quali si celebra la vita rurale come prosecuzione della primitiva età dell’oro; tema che Tasso aveva già toccato nel coro dell’Aminta, O bella età de l’oro (➜ T3 ). Vi sono poi riferimenti letterari alla tradizione poetica precedente al Tasso, umanistica e rinascimentale, da Petrarca ad Ariosto. La fuga disperata di Erminia, che non governa i fren e si lascia trasportare dal cavallo in un disordinato vagabondare, richiama l’errare di Angelica all’inizio dell’Orlando furioso. Tuttavia Tasso realizza un forte scarto rispetto al precedente ariostesco, perché l’eroina del Furioso, Angelica, denota una personalità determinata, astuta, scaltra, ben diversa dalla tenera ingenuità e dalla trepida debolezza di Erminia (che fugge dai nemici, mentre Angelica fugge da coloro che sono invaghiti di lei). Inoltre anche dal punto di vista strutturale le due fughe hanno una funzione ben diversa: la fuga di Angelica è strumentale, nel corso di tutto il poema di Ariosto, a tenere vivo l’intreccio, in un dinamico e concitato ritmo narrativo; al contrario, la fuga di Erminia, che apre la parentesi nel locus amoenus dei pastori, crea una sospensione dell’intreccio e insinua una nota patetica e sentimentale nella vicenda (riflesso dell’anima tassiana), che è del tutto assente nel gioco dell’ironia, del dinamismo, della rapidità dell’Orlando furioso. Nell’ambito di citazioni e rimandi letterari, possiamo osservare che le incisioni che Erminia lascia sulla corteccia degli alberi, in cui rammenta il suo amato Tancredi, in un lacerato amore non corrisposto, richiamino il passo del Furioso in cui Orlando legge i nomi di Angelica e Medoro sugli alberi, e da qui inizia a impazzire (➜ C5 T14 ). Un’altra citazione ariostesca si può riconoscere nel passaggio in cui Erminia si rivolge alle piante pregandole di offrire riparo ai viandanti e di raccontare la sua storia, che richiama alla memoria i versi incisi da Medoro all’ingresso della grotta. Infine si possono rinvenire imitazioni dal Canzoniere di Petrarca, quando Erminia si augura di essere sepolta dopo la morte in quel luogo e che Tancredi, attraversando quei luoghi, possa piangere sulla sua tomba (➜ V1A C8 T11b ).
622 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
sIntesI 1. Riassumi in 5 righe il contenuto della conversazione che avviene fra Erminia e l’anziano padre (uom canuto) della comunità di pastori, suddividendo il tuo testo in tre sequenze e dando ad ognuna un titolo. coMPRensIone 2. Quale reazione suscita, all’inizio, Erminia ai pastori? Perché? 3. Che cosa risponde Erminia ai pastori dopo la loro prima reazione? 4. Di cosa si stupisce Erminia di fronte alla comunità agreste? AnAlIsI 5. Nella ottava 9 è presente una similitudine: «sí come il folgore non cade». A cosa si riferisce il poeta? In cosa consiste tale similitudine? 6. L’isolamento nella comunità di pastori è sufficiente a Erminia per dimenticare le sue pene d’amore? lessIco 7. Con quali aggettivi e sostantivi viene descritto il luogo in cui si viene a trovare Erminia? 8. Quale immagine emerge del potere politico e militare dalle parole del pastore?
Interpretare
testI A conFRonto 9. Il tema della vita appartata e semplice, all’insegna del rapporto con la natura e del valore delle cose essenziali, che danno stabilità e serenità all’uomo, è un tema che troviamo anche nel coro dell’atto primo dell’Aminta. Metti a confronto i due testi, individuando e commentando analogie e differenze. scRIttuRA ARGoMentAtIVA 10. Svolgi una ricerca sul tema del progresso e delle forme di sviluppo alternativo, nel rispetto all’ambiente. Dopo esserti documentato, sviluppa un testo argomentativo che dimostri la necessità di cambiare abitudini per salvaguardare il mondo nel quale viviamo.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5, 6
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
scRIttuRA 11. Nel brano, Tasso celebra la qualità di una vita legata al rapporto con la natura, quieta e lenta, lontana dal frastuono della guerra. Oggi viviamo in un mondo rumoroso, sempre più frenetico, all’interno del quale spesso si sono complicate le relazioni umane. Ritieni che il testo tassiano possa offrire, in tal senso, spunti di riflessione per le scelte di un giovane d’oggi? Secondo te come bisognerebbe vivere? Vivere lentamente, appartato e in solitudine, presenta solo aspetti negativi o ha anche un suo valore?
Guercino, Erminia e il pastore, olio su tela, 1619-1620 (Birmingham Museum, Birmingham).
La Gerusalemme liberata 3 623
T9
La storia di Clorinda Nella Gerusalemme liberata Clorinda, donna guerriera dell’esercito musulmano, è un personaggio “dinamico”, che subisce una trasformazione interiore. Audace e valorosa, addirittura “famelica” nella sua ricerca dell’onore, arriverà a ideare e realizzare con il compagno Argante l’impresa più ardita dei saraceni, che procurerà difficoltà quasi insormontabili per i cristiani: bruciare la loro più alta torre d’assedio. Nonostante primeggi per valore nell’esercito musulmano, la guerriera è destinata a morire però cristianamente, battezzata da Tancredi che, senza riconoscerla, l’ha colpita a morte.
online T9a Torquato Tasso
Clorinda, coraggiosa donna guerriera Gerusalemme liberata, XII, 1-9, 18-32, 39-41
Torquato Tasso
T9b
Il duello di Tancredi e Clorinda Gerusalemme liberata, XII 52-70
T. Tasso, Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983
Clorinda e Argante riescono nella temeraria impresa di distruggere la torre d’assedio cristiana. Mentre stanno rientrando attraverso una delle porte di Gerusalemme, aiutati dai compagni, Clorinda si slancia nuovamente all’esterno per inseguire un guerriero cristiano che l’aveva colpita e resta così chiusa fuori dalle mura. Potrebbe salvarsi soltanto dissimulandosi tra i Crociati ma, per un crudele scherzo del destino, proprio Tancredi ha notato le sue mosse e, pur senza riconoscerla, la insegue, avendo compreso che appartiene all’esercito nemico.
52 Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima degno a cui sua virtù si paragone1. Va girando colei l’alpestre cima2 verso altra porta, ove d’entrar dispone3. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avien che d’armi suone, ch’ella si volge4 e grida: – O tu, che porte5, che corri sì? – Risponde: – E guerra e morte. –
La metrica Ottave con schema delle rime ABABABCC.
1 a cui... paragone: con cui mettere alla prova il suo valore. Tancredi non riconosce Clorinda a causa dell’armatura mutata ma, vedendo come ha colpito il guerriero crociato contro cui si era slanciata, ha potuto constatarne il valore; perciò egli sfida a duello quello che crede soltanto un nemico. 2 l’alpestre cima: la cima del colle su cui si trova Gerusalemme. 3 dispone: pensa. 4 Segue... si volge: Egli la rincorre così
53 – Guerra e morte avrai; – disse – io non rifiuto darlati, se la cerchi –, e ferma attende6. Non vuol Tancredi, che pedon veduto ha il suo nemico, usar cavallo, e scende7. E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto, ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende; e vansi a ritrovar non altrimenti che duo tori gelosi e d’ira ardenti8.
impetuosamente (a cavallo) che molto prima di raggiungerla lei sente il frastuono delle armi, cosicché si volta. 5 che porte: cosa porti, quali sono le tue intenzioni. 6 darlati... attende: di dartela (la morte) se la cerchi e, fermandosi, lo aspetta. Clorinda è abbastanza lontana da Tancredi e forse potrebbe ancora salvarsi rientrando da un’altra porta, ma l’etica cavalleresca non le consente di fuggire; perciò si ferma e ricambia la sfida. 7 Non vuol Tancredi... scende: Tancredi, che ha visto il suo nemico a piedi, non
624 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
vuole usare il cavallo e scende. Come nei poemi di Matteo Maria Boiardo e di Ludovico Ariosto, durante il duello emergono i valori cavallereschi dei due combattenti; per non essere avvantaggiato contro un nemico a piedi, Tancredi, lealmente, scende dal cavallo. 8 vansi... ardenti: si scagliano l’uno contro l’altro non diversamente da due tori gelosi e infuriati. La similitudine sottolinea il carattere brutale e all’ultimo sangue del duello ed evidenzia quanto Tancredi sia all’oscuro della vera identità del nemico.
54 Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno teatro, opre sarian sì memorande. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e ne l’oblio fatto sì grande, piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama loro; e tra lor gloria splenda del fosco tuo l’alta memoria9.
56 L’onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l’onta rinova; onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s’aggiunge e cagion nova14. D’or in or più si mesce e più ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi15.
55 Non schivar, non parar, non ritirarsi voglion costor, né qui destrezza ha parte10. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte11. Odi le spade orribilmente12 urtarsi a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte13; sempre è il piè fermo e la man sempre in moto, né scende taglio in van, né punta a vòto.
57 Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, ed altrettante da que’ nodi tenaci ella si scinge, nodi di fer nemico e non d’amante16. Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge con molte piaghe; e stanco ed anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira17.
9 Notte... memoria: Notte, che hai avvolto nelle tue oscure profondità e nella dimenticanza una così grande impresa, accetta che io la tragga fuori (dall’oscurità) e la narri in piena luce alle età future. Rimanga viva la loro fama e tra i motivi della loro gloria risplenda il ricordo dello sfondo oscuro in cui avvennero le loro imprese. Nell’ottava l’azione è sospesa, lasciando spazio all’intervento diretto del narratore, che, con un’apostrofe, chiede alla notte di poter tramandare le grandi gesta compiute senza che nessuno le potesse ammirare. 10 Non schivar... parte: Costoro non vogliono né schivare i colpi, né pararli, né indietreggiare, né in questo duello trova posto l’abilità nella scherma. Non è una sfida a regola d’arte, da torneo, ma uno scontro all’ultimo sangue. 11 toglie... arte: l’oscurità notturna e la
furia dei duellanti fanno dimenticare le raffinatezze dell’arte della scherma. 12 orribilmente: l’avverbio acquista rilievo per la posizione al centro del verso ed è parola chiave dell’ottava. 13 il piè... parte: il piede non si stacca dal suolo. I due guerrieri colpiscono rimanendo fermi nella loro posizione, senza indietreggiare. 14 L’onta... nova: La vergogna (di essere stati colpiti) provoca lo sdegno e invita a vendicarsi; ma la vendetta offende l’avversario (che, a sua volta, sdegnato, si vendica) cosicché sempre nuovi incitamenti e motivi accrescono il desiderio di ferire e la furia dei due contendenti. Viene descritto il crescendo della battaglia, sempre più ravvicinata e furiosa. 15 si mesce... scudi: la battaglia si fa più stretta e confusa e non è più possibile usare la spada: si colpiscono coi pomi
(delle spade) e, inferociti e crudeli, fanno cozzare insieme gli elmi e gli scudi; Infelloniti sta per “dimentichi delle leggi cavalleresche”. 16 si scinge... amante: si libera (si scinge) dagli stretti abbracci di nemico inferocito e non d’amante. Per la prima volta, e per un attimo, il narratore abbandona il punto di vista “dall’esterno” e la focalizzazione con il personaggio per mettere in luce ciò che il lettore sa e che Tancredi ignora: l’odiato nemico è in realtà la donna amata. Il lessico (cavalier, donna) evoca la situazione che Tancredi avrebbe desiderato: un abbraccio amoroso e non quello tragico e mortale del duello. 17 Tornano... respira: Dopo lo stretto corpo a corpo, i duellanti riprendono lo scontro alla normale distanza infliggendosi numerose ferite (piaghe).
La Gerusalemme liberata 3 625
58 L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue18 su ’l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l’ultima stella il raggio langue al primo albor ch’è in oriente acceso19. Vede Tancredi in maggior copia20 il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso21. Ne gode e superbisce22. Oh nostra folle mente ch’ogn’aura di fortuna estolle23!
60 – Nostra sventura è ben che qui s’impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci neghi e lode e testimon degno de l’opra28, pregoti (se fra l’arme han loco i preghi29) che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra, acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o la vittoria onore30. –
59 Misero, di che godi24? oh quanto mesti fiano25 i trionfi ed infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla26 un mar di pianto. Così tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro27 alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:
61 Risponde la feroce: – Indarno chiedi quel c’ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese31. – Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: – In mal punto il dicesti32; – indi riprese – il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta, barbaro discortese, a la vendetta33. –
18 essangue: indebolito per aver perso molto sangue. 19 de l’ultima... acceso: il raggio dell’ultima stella impallidisce alla prima luce dell’alba che si è accesa da oriente. Si sta concludendo la notte che ha visto il duello mortale fra Tancredi e Clorinda. 20 copia: quantità (latinismo). 21 offeso: colpito, ferito. 22 superbisce: insuperbisce. 23 ogn’aura... estolle: ogni soffio di vento favorevole rende superba. L’intervento del narratore, come spesso avviene nella Gerusalemme liberata, è volto a intensificare l’effetto emotivo della narrazione, e perciò è espresso in una proposizione esclamativa. La prima persona plurale accomuna tutti gli uomini nella cecità di fronte al destino che spesso induce a commettere errori irreparabili senza avvedersene, anzi esaltandosene come per un trionfo. È da notare il ritmo rallentato dell’esclamazione, per l’enjambement, nei due versi che chiudono l’ottava in cui, dopo l’incalzare
del duello, l’azione è sospesa, in una sequenza descrittiva e meditativa. 24 Misero... godi: Infelice, di cosa gioisci. In un crescendo di emozione il narratore entra in scena e si rivolge al personaggio. 25 fiano: saranno. 26 stilla: goccia. 27 cessaro: si fermarono. 28 sorte... opra: ma poiché la cattiva sorte ci nega fama e un testimone degno delle nostre gesta. 29 han loco i preghi: trovano posto le preghiere. 30 onore: onora. Il discorso di Tancredi, che occupa l’intera ottava, evidenzia i nobili ideali cavallereschi del personaggio: la vittoria e la morte sarebbero ugualmente motivo d’onore con un avversario di cui riconosce il valore. 31 Indarno... accese: Chiedi invano quello che ho l’abitudine di non rivelare. Ma chiunque io sia, vedi davanti a te uno dei due che hanno bruciato la grande torre d’assedio. Alla cortesia cavalleresca di
626 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Tancredi, Clorinda (la feroce) risponde in modo offensivo e provocatorio, rivelando di essere l’artefice della distruzione della torre cristiana. La dura risposta chiude la fase dei rapporti cortesi e cavallereschi tra i guerrieri nemici, aprendo la fase finale e più drammatica del duello. 32 In mal... dicesti: L’hai detto nel momento sbagliato. 33 il tuo dir... vendetta: barbaro scortese, le tue parole (riguardanti l’incendio della torre) e l’aver taciuto il tuo nome mi incitano ugualmente alla vendetta. Non rivelare il proprio nome, quando richiesto, è una violazione del codice cavalleresco. Perciò, lontanissimo dalla verità (chiama barbaro discortese l’ignoto nemico), Tancredi si adira ulteriormente, non potendo immaginare che la donna amata celi il suo nome proprio perché la lealtà e il coraggio la spingono a rifiutare un modo troppo facile di salvare la vita, dato che scoprire la propria identità avrebbe certo impedito l’esito mortale del duello.
62 Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta, benché debili34 in guerra. Oh fera pugna35, u’36 l’arte in bando37, u’ già la forza è morta, ove, in vece, d’entrambi il furor pugna38! Oh che sanguigna e spaziosa porta39 fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna40, ne l’arme e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita41.
64 Ma ecco omai l’ora fatale43 è giunta che ’l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli44 il ferro nel bel sen di punta che vi s’immerge e ’l sangue avido beve; e la veste, che d’or vago trapunta le mammelle stringea tenera e leve, l’empie d’un caldo fiume45. Ella già sente morirsi, e ’l piè le manca egro e languente46.
63 Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto ritien de l’onde anco agitate e grosse, tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto quel vigor che le braccia a i colpi mosse, serbano ancor l’impeto primo, e vanno da quel sospinti a giunger danno a danno42.
65 Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine47 minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; parole ch’a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme48: virtù ch’or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella49.
34 debili: deboli. 35 fera pugna: crudele battaglia. 36 u’: dove (dal latino ubi). 37 l’arte in bando: l’arte della scherma è bandita, non è utilizzata.
38 u’ già... pugna: dove la forza si è già spenta, dove, al posto di entrambe (tecnica e forza) combatte il furore. 39 sanguigna... porta: sanguinosa e larga apertura (ferita). 40 giugna: giunga. 41 se la vita... unita: se la vita non ne esce, è perché lo sdegno la tiene attaccata al petto. 42 Qual l’alto... danno: Come il profondo mar Egeo, per quanto si calmino i venti Aquilone (vento freddo di Tramontana) o Noto (vento proveniente dal sud), che lo avevano prima mosso e agitato, non si calma per questo, ma mantiene (ritiene) il rumore e il movimento delle onde, ancora agitate e gonfie, così – anche se, per il sangue versato, in loro manca quella forza che aveva mosso le braccia a colpire – essi conservano ancora il precedente slancio e, sospinti da quello, vanno ad aggiungere ferita a ferita. L’ampia similitudine è tipica
dello stile epico in cui, per accrescere la grandiosità degli eventi, sono spesso evocati maestosi spettacoli naturali, paragonati al comportamento dei combattenti: il senso è che, come il mare continua a essere agitato anche dopo che è cessato l’impeto dei venti, così Tancredi e Clorinda continuano a combattere anche se sono ormai privi di forze. 43 l’ora fatale: il momento predestinato della morte; fatale perché il destino di Clorinda era stato annunciato da molteplici presagi. 44 Spinge egli: il verbo spinge sottolinea la forza con cui Tancredi trafigge Clorinda; il soggetto egli è messo in risalto dalla posposizione. 45 la veste... fiume: un caldo fiume di sangue (caldo si riferisce alla sensazione di Clorinda, mutando per un attimo la focalizzazione) inonda la veste trapunta di bei ricami d’oro che, leggera e morbida (tenera), le stringeva il seno. Nell’immagine non c’è più nulla di guerriero, ma solo la femminilità di Clorinda, prima celata dall’armatura.
46 egro e languente: debole e vacillante. Anche in questa ottava vi è un significativo mutamento del punto di vista: la focalizzazione passa dal personaggio al narratore onnisciente, che rivela la delicatezza e la femminilità di Clorinda; ella cela, sotto l’armatura, una veste leggera e ornata d’oro, aderente al suo bel corpo femminile. Gli aggettivi (bel, vago, tenera e leve, egro e languente) evocano un’immagine di dolcezza e di fragilità, in contrasto con l’ingannevole aspetto esteriore di feroce guerriero. 47 la trafitta vergine: l’enjambement sottolinea ancora la fragilità femminile della fanciulla, ormai in punto di morte. 48 parole... speme: parole che uno spirito cristiano di fede, di carità, di speranza (virtù teologali), per lei nuovo, sembra dettarle. 49 se rubella... ancella: se in vita fu ribelle (rubella, cioè ostile al cristianesimo), in morte (Dio) la vuole sua seguace. La Grazia di Dio ispira Clorinda, che ritrova la fede cristiana dei suoi genitori.
La Gerusalemme liberata 3 627
66 – Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave50, a l’alma51 sì; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch’ogni mia colpa lave52. – In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave53 ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza54, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza55.
69 D’un bel pallore ha il bianco volto asperso64, come a’ gigli sarian65 miste viole, e gli occhi al cielo affisa66, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e ’l sole67; e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole gli dà pegno di pace68. In questa forma passa69 la bella donna, e par che dorma.
67 Poco quindi56 lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio57. Tremar sentì la man58, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio59. La vide, la conobbe, e restò senza60 e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
70 Come l’alma gentile uscita ei vede, rallenta70 quel vigor ch’avea raccolto; e l’imperio di sé libero cede al duol71 già fatto impetuoso e stolto72, ch’al cor si stringe e, chiusa in breve sede la vita, empie di morte i sensi e ’l volto73. Già simile a l’estinto il vivo langue al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue74.
68 Non morì già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, e premendo il suo affanno61 a dar si volse vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise62. Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise63; e in atto di morir lieto e vivace, dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace.»
50 nulla pave: non può temere nulla. 51 l’alma: l’anima. 52 lave: lavi, purifichi. 53 flebile e soave: flebile è ciò che commuove e induce al pianto (dal latino fleo, “piango”); soave: dolce. 54 ammorza: addolcisce. 55 e gli occhi... sforza: e induce e costringe gli occhi a versare lacrime. 56 quindi: di lì. 57 al grande ufficio e pio: al battesimo, compito (ufficio) grande e santo (pio). 58 Tremar sentì la man: Tancredi, già commosso dalla dolcezza delle parole dell’ignoto avversario, percepisce forse un oscuro presentimento sull’identità di colui che ha ferito a morte. 59 la fronte... scoprio: sciolse dall’elmo e scoprì il viso (fronte è metonimia) ancora sconosciuto. La parola tronca ancor, accentata sull’ultima e seguita da una forte pausa, sottolinea il momento di sospensione e di tensione emotiva.
60 senza: il forte enjambement crea una pausa angosciosa. 61 ché... affanno: perché raccolse tutte le sue forze (virtuti) in quell’atto e le volse a rafforzare il suo cuore e, tenendo a freno la sua angoscia. 62 a dar... uccise: si accinse a dare la vita eterna con l’acqua battesimale a colei che aveva ucciso con le armi. Il chiasmo sottolinea i contrasti della situazione: Tancredi uccide il corpo di Clorinda, ma dona all’anima la vita eterna con il battesimo. Alla disperazione del vincitore si contrappone la serenità di colei che è stata sconfitta, ma ha ritrovato pace nella fede in Dio. 63 egli... rise: egli pronunziò le parole sacre del battesimo, lei si trasfigurò per la letizia e sorrise. 64 asperso: cosparso. 65 sarian: sarebbero. 66 affisa: rivolge. 67 in lei converso... sole: il sole e il cielo
628 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
sembrano volti verso di lei per la pietà. Sta nascendo la luce dell’alba: la natura sembra partecipe degli eventi umani, secondo un motivo tipico della poesia tassiana, presente anche nelle Rime. 68 pegno di pace: segno di pace. La scena violenta e fragorosa del duello si spegne nel silenzio e nella pace del raccoglimento religioso. 69 passa: trapassa, muore. 70 rallenta: viene meno. 71 l’imperio... al duol: abbandona il controllo di sé al dolore. 72 stolto: folle. 73 ch’al cor... volto: che pone ogni forza vitale nel cuore e, mentre la vita è concentrata in un piccolo spazio, riempie i sensi e il volto di morte (cioè, impallidisce e sviene). 74 Già simile... sangue: Il vivo giace senza forze, già simile a un morto per il colore, il silenzio, l’atteggiamento, il sangue (che lo ricopre).
Analisi del testo Il canto di Clorinda Il XII della Gerusalemme liberata è il canto di Clorinda: si apre con l’iniziativa della guerriera di bruciare la torre cristiana; racconta la storia del personaggio, dai toni favolosi, propri del «maraviglioso cristiano» teorizzato da Tasso, facendoci scoprire che la giovane musulmana, che ha avuto come balia una tigre, è di origine cristiana e protetta da san Giorgio (➜ T9a OL) e si chiude con il tragico duello in cui Tancredi la uccide senza riconoscerla.
Il tema del destino Il dramma di Tancredi, inconsapevole artefice della propria rovina, appare come un emblema della cecità degli uomini nei confronti del proprio destino (come sottolinea il narratore: «Oh nostra folle / mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!» 58, 7-8). Cecità simboleggiata dalle tenebre in cui si svolge il duello: i cupi sfondi notturni, squarciati da luci, del poema di Tasso – simili a quelli della coeva pittura manieristica – si contrappongono agli ameni sfondi del poema ariostesco, per lo più in piena luce. La luminosità del poema di Ariosto è simbolo di un controllo razionale sul mondo, mentre l’oscurità notturna, comune ad alcuni dei più importanti episodi della Gerusalemme liberata, appare come il simbolo dell’impossibilità di dominare razionalmente il reale, propria di un’epoca lontana dall’ottimismo rinascimentale.
I due punti di vista della narrazione Il tema della cecità inconsapevole degli uomini è evidenziato dall’alternarsi nel passo di due prospettive diverse che, come in altri episodi del poema tassiano, sembrano preannunciare il montaggio cinematografico: la prospettiva di Tancredi, ignaro di chi sia l’ignoto nemico, e quella consapevole del narratore. Al punto di vista “cieco” di Tancredi si associano termini epici e similitudini guerresche, come quella per cui i due combattenti sono paragonati a due tori «gelosi e d’ira ardenti» (53, 8). Ma a tale punto di vista si contrappone quello onnisciente del narratore che – come il lettore – sa che nell’armatura è celata Clorinda e descrive il precipitare drammatico degli eventi. Il narratore onnisciente evidenzia più volte il fatale errore di Tancredi, ad esempio quando suggerisce che l’abbraccio mortale della lotta corpo a corpo tra i due avversari, in altre circostanze, avrebbe potuto essere un dolce abbraccio amoroso («nodi di fer nemico e non d’amante» 57, 4).
La rivelazione della femminilità di Clorinda Il divario fra il punto di vista onnisciente del narratore e quello inconsapevole del personaggio culmina nell’immagine finale, quando colei che Tancredi ritiene ancora un feroce guerriero si rivela una fragile e bellissima donna («la trafitta / vergine» 65, 1-2), ferita da un colpo mortale nel bel sen, e rivestita sotto l’armatura di una leggerissima veste «d’or vago trapunta» (65, 5), particolare del tutto improbabile e perciò ancora più suggestivo. Gli aggettivi dell’ottava (vago, tenera, leve, egro, languente) evocano una sensazione di tenerezza e di fragilità femminile.
La prospettiva religiosa dell’episodio Dal punto di vista di Tancredi, l’episodio è tragico: come osserva il critico Ezio Raimondi, la morte di Clorinda è come una tragedia classica incastonata nel più vasto organismo epico e fondata su un motivo topico del dramma attico, centrale già nell’Edipo re: il mancato riconoscimento (quando Edipo uccide il padre e giace con la madre ignora la loro identità). Dal punto di vista della guerriera musulmana, l’episodio non è così funesto, anzi segna per lei la rivelazione di un’identità più profonda e vera. Un’identità non solo femminile, ma cristiana: perciò Clorinda muore serena e in pace. Il mutamento del paesaggio, non più notturno, ma rischiarato dalle prime luci dell’alba, è specchio della trasfigurazione dell’anima della giovane donna, illuminata dalla grazia divina, che le suggerisce parole per lei ancora ignote «di fé, di carità, di speme» (65, 6) e il gesto di pace con cui si congeda fraternamente da Tancredi.
La conclusione paradossale: la fede cristiana di Clorinda, la disperazione di Tancredi La conclusione è paradossale: Tancredi, guerriero crociato, non trova conforto nella fede per il suo tragico errore; nelle ottave seguenti del canto, infatti, è tentato dal suicidio e ne viene distolto soltanto dagli aspri rimproveri di Pietro l’Eremita, che gli ricorda come in tale caso sa-
La Gerusalemme liberata 3 629
rebbe incorso in un «morir doppio»: la morte del corpo e la dannazione dell’anima (XII, 84-89). Clorinda, invece, guerriera musulmana, muore rasserenata dalla fede cristiana: un motivo preannunciato quando è esclusa dalle mura di Gerusalemme (esclusione che prelude a quella dalla vita, ma anche al passaggio dall’appartenenza musulmana a quella cristiana): per Clorinda si chiudono le mura della Città Santa, ma «s’apre il cielo»; si spegne la vita terrena, ma si preannuncia la vita eterna.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi l’episodio in 10 righe, dividilo in sequenze e dai a ognuna un breve titolo. COMPRENSIONE 2. Quali sono le fasi del duello? Schematizzale, indicandone le sequenze. 3. Quali ragioni rendono lo scontro fra Tancredi e Clorinda particolarmente feroce? ANALISI 4. Indica i casi in cui nell’episodio è seguito il codice cavalleresco e quelli in cui invece vi si contravviene, e per quali ragioni. 5. Riconosci i termini e le espressioni (lessico, figure retoriche) che: a. fanno percepire il duello come uno scontro tra feroci guerrieri; b. sottolineano la femminilità di Clorinda. 6. Individua gli interventi del narratore, spiegando la funzione di ciascuno. Indica quando essi tendono a far riflettere il lettore e quando sono invece rivolti a farlo immedesimare emotivamente nella narrazione. 7. Riconosci i casi in cui il punto di vista (rivelato anche da elementi testuali minimi, come aggettivi, similitudini ecc.) sia quello “cieco” di Tancredi e quelli in cui invece sia messo in risalto il punto di vista di un narratore onnisciente. Spiega quali effetti il poeta ricavi dall’alternarsi dei due punti di vista opposti. STILE 8. Clorinda è un personaggio dinamico: evidenzia le fasi del suo mutamento e gli elementi testuali che più chiaramente lo mettono in luce.
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 9. Considera le testimonianze pittoriche, a partire dal quadro di Domenico Tintoretto Battesimo di Clorinda (1585), a cui, con una ricerca sul web, potrai aggiungere le opere che ti appaiano più adatte a esprimere il senso dei versi tassiani, motivando le ragioni della tua scelta.
IMMAGINE INTERATTIVA
In un suo dipinto dedicato al battesimo di Clorinda, Domenico Tintoretto (1560-1635) interpreta lo spirito dell’episodio, ponendo Tancredi nella zona oscura del quadro, fuori dall’alone di luce, simbolo della Grazia, che brilla sul volto di Clorinda e sull’elmo, contenitore dell’acqua battesimale.
online T10 Torquato Tasso
La magia demoniaca della selva incantata Gerusalemme liberata, XIII, 17-28; 32-46
630 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
online
Sguardo sulla letteratura Come Goethe scopre la propria vocazione teatrale grazie alla storia di Clorinda
Torquato Tasso
T11
Il giardino di Armida: traviamento e riscatto di Rinaldo Gerusalemme liberata, XVI, 1; 8-23; 26-35
T. Tasso, Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983
L’episodio ha una funzione fondamentale nel poema, in quanto determina il ritorno di Rinaldo, l’eroe predestinato a infrangere l’incantesimo della selva. Trova così compimento l’accenno del Proemio della Gerusalemme liberata in cui Tasso sottolinea come, prima di conquistare Gerusalemme, Goffredo di Buglione debba ricondurre i «compagni erranti» sotto i «santi / segni» della croce. Rinaldo è infatti doppiamente “errante”, sia perché, seguendo il modello di vita avventuroso degli antichi cavalieri, si era allontanato da Gerusalemme, giungendo fino alle lontane Isole Fortunate, sia perché, dimentico del suo dovere di crociato, si era lasciato sedurre dalla maga Armida. I guerrieri cristiani Carlo e Ubaldo ricevono dal mago di Ascalona i mezzi per vincere gli incantesimi di Armida: una mappa dell’edificio labirintico in cui si trova Rinaldo, una verga aurea per cacciare gli animali feroci che custodiscono il giardino interno a esso e uno scudo adamantino in cui Rinaldo, specchiandosi, possa riprendere coscienza dei propri doveri.
1 Tondo è il ricco edificio, e nel più chiuso grembo di lui, ch’è quasi centro al giro1, un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso di quanti più famosi unqua fioriro2.
D’intorno inosservabile e confuso ordin di loggie i demon fabri ordiro3, e tra le oblique vie di quel fallace ravolgimento impenetrabil giace4.
[I crociati Carlo e Ubaldo entrano nel giardino.] 8 Qual Meandro5 fra rive oblique e incerte scherza e con dubbio corso or cala or monta, queste acque a i fonti e quelle al mar converte6, e mentre ei vien, sé che ritorna affronta, tali e più inestricabili conserte son queste vie, ma il libro in sé le impronta (il libro, don del mago) e d’esse in modo parla che le risolve, e spiega il nodo7.
La metrica: Ottave con schema delle rime ABABABCC. 1 nel più... giro: nella parte più interna, che è quasi nel centro della circonferenza. Dato che il cerchio è simbolo di perfezione, la collocazione non centrale del giardino suscita disorientamento e un senso di sospetto. 2 unqua fioriro: mai fiorirono (unqua è latinismo). 3 D’intorno... ordiro: Intorno al giardino i demoni, suoi artefici, costruirono una serie di logge, impossibile da cogliere con
9 Poi che lasciàr gli aviluppati calli8, in lieto aspetto il bel giardin s’aperse: acque stagnanti9, mobili cristalli10, fior vari e varie piante, erbe diverse, apriche11 collinette, ombrose valli, selve e spelonche in una vista offerse12; e quel che ’l bello e ’l caro accresce a l’opre, l’arte, che tutto fa, nulla si scopre13.
uno sguardo d’insieme per il suo aspetto confuso. 4 tra... giace: (il giardino) si trova tra le vie tortuose di quell’ingannevole labirinto, in modo tale che è impossibile penetrarvi. 5 Meandro: fiume dell’Asia Minore famoso per il suo corso tortuoso. 6 converte: rivolge. 7 il libro... nodo: il libro (donato dal mago di Ascalona) raffigura queste vie e le descrive in modo da risolvere ogni difficoltà del cammino. 8 gli aviluppati calli: i sentieri tortuosi.
9 acque stagnanti: piccoli laghi. Il chiasmo evidenzia l’armonia prodotta dalla ben calcolata varietà del giardino. 10 mobili cristalli: ruscelli di acqua cristallina. 11 apriche: soleggiate. 12 in una... offerse: mostrò a uno sguardo d’insieme. 13 e quel... scopre: e, cosa che accresce la bellezza e la preziosità del luogo, non si scorge per nulla l’artificio con cui (il giardino) è stato costruito (dai demoni).
La Gerusalemme liberata 3 631
10 Stimi (sì misto il culto è co ’l negletto) sol naturali e gli ornamenti e i siti14. Di natura arte par, che per diletto l’imitatrice sua scherzando imiti15. L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto16, l’aura che rende gli alberi fioriti: co’ fiori eterni eterno il frutto dura17, e mentre spunta l’un, l’altro matura.
13 Vola fra gli altri un che le piume ha sparte di color vari ed ha purpureo il rostro26, e lingua snoda in guisa larga, e parte la voce sì ch’assembra il sermon nostro27. Questi ivi allor continovò28 con arte tanta il parlar che fu mirabil mostro29. Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti, e fermaro i susurri in aria i venti.
11 Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia sovra il nascente fico invecchia il fico; pendono a un ramo, un con dorata spoglia, l’altro con verde, il novo e ’l pomo antico18; lussureggiante serpe alto e germoglia la torta vite ov’è più l’orto aprico19: qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have e di piropo e già di nèttar grave20.
14 – Deh mira – egli cantò – spuntar la rosa dal verde suo30 modesta e verginella, che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa, quanto si mostra men, tanto è più bella. Ecco poi nudo il sen già baldanzosa dispiega31; ecco poi langue32 e non par quella, quella non par che desiata inanti fu da mille donzelle e mille amanti.
12 Vezzosi augelli infra le verdi fronde temprano a prova lascivette note21; mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde garrir che variamente ella percote22. Quando taccion gli augelli alto risponde23, quando cantan gli augei più lieve scote24; sia caso od arte, or accompagna, ed ora alterna i versi lor la musica òra25.
15 Così trapassa al trapassar d’un giorno33 de la vita mortale il fiore e ’l verde34; né perché faccia indietro april ritorno, si rinfiora ella mai, né si rinverde. Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno di questo dì, che tosto il seren perde; cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando esser si puote riamato amando35. –
14 Stimi... siti: Tu stimeresti (tanto l’artificio è commisto alla naturalezza) che i luoghi e le loro bellezze siano soltanto naturali. 15 Di natura... imiti: Sembra che la natura, per gioco, imiti quella che solitamente è la sua imitatrice (cioè l’arte). 16 L’aura... effetto: A parte il resto, l’aria è creata dalla maga. 17 co’ fiori... dura: con i fiori che non sfioriscono durano eternamente anche i frutti. Nel giardino non vi è l’avvicendarsi delle stagioni, per cui i fiori primaverili coesistono con i frutti estivi. Questa caratteristica ricorda il regno di Venere delle Stanze di Poliziano, ma assume un significato opposto: là rappresentava il regno ideale, qui un luogo demoniaco. 18 un con dorata... antico: il frutto appena spuntato e quello già maturo, uno con la buccia verde, l’altro dorata. 19 lussureggiante... aprico: dove il giardino (orto) è più soleggiato, la vite serpeggia verso l’alto e germoglia lussureggiante. La
disposizione dei termini riproduce l’andamento tortuoso e irregolare dei tralci della vite; le linee serpeggianti del giardino ricordano quelle della contemporanea pittura manieristica in cui è frequente la «linea serpentinata» (Praz). 20 qui l’uva... grave: qui (la vite) ha l’uva ancora in fiore, acerba, là dorata e già ripiena di un dolce succo, di colore rosso. Il piropo è una pietra preziosa rossa. 21 temprano... note: modulano a gara canti sensuali. 22 e fa... percote: e fa stormire le foglie e le onde colpendole in vario modo (con soffi ora più lievi, ora più forti). 23 alto risponde: risponde con un suono più alto. 24 più lieve scote: colpisce più lievemente (le foglie e l’acqua). 25 or accompagna... òra: e l’aria (òra) musicista ora accompagna ora fa da contrappunto ai canti degli uccelli. La rima equivoca (ora : òra) sottolinea l’impressione di artificiosità.
632 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
26 un che... rostro: uno che ha le piume variopinte e il becco color porpora. È un pappagallo. 27 lingua... nostro: snoda agilmente, con ampi giri, la lingua e articola la voce in modo che assomigli al nostro linguaggio. 28 continovò: continuò. 29 mostro: prodigio. 30 dal verde suo: dal suo stelo. 31 Ecco... dispiega: Ecco che poi già più sicura di sé apre i suoi petali. Secondo un motivo topico, la rosa è personificata come simbolo della bellezza femminile ed è colta in tre momenti: quando è ancora in boccio, quando è nel pieno del suo splendore e quando sfiorisce. 32 langue: sfiorisce. 33 al trapassar d’un giorno: rapidamente. 34 il fiore e ’l verde: la giovinezza; come più sotto «’l mattino... di questo dì». 35 amiamo or... amando: amiamo quando amando si può essere riamati.
16 Tacque, e concorde de gli augelli il coro, quasi approvando, il canto indi ripiglia. Raddoppian le colombe i baci loro, ogni animal d’amar si riconsiglia; par che la dura quercia e ’l casto alloro36 e tutta la frondosa ampia famiglia37, par che la terra e l’acqua e formi e spiri dolcissimi d’amor sensi38 e sospiri.
19 e i famelici sguardi avidamente in lei pascendo46 si consuma e strugge. S’inchina, e i dolci baci ella sovente liba47 or da gli occhi e da le labra or sugge48, ed in quel punto ei sospirar si sente profondo sì che pensi: «Or l’alma fugge e ’n lei trapassa peregrina49.» Ascosi50 mirano i duo guerrier gli atti amorosi.
17 Fra melodia sì tenera, fra tante vaghezze39 allettatrici e lusinghiere, va quella coppia40, e rigida e costante se stessa indura a i vezzi del piacere41. Ecco tra fronde e fronde il guardo inante penetra e vede, o pargli di vedere, vede pur certo il vago e la diletta42, ch’egli è in grembo a la donna, essa a l’erbetta.
20 Dal fianco de l’amante (estranio arnese51) un cristallo52 pendea lucido e netto53. Sorse54, e quel fra le mani a lui sospese a i misteri d’Amor ministro eletto55. Con luci56 ella ridenti, ei con accese, mirano in vari oggetti un solo oggetto57: ella del vetro a sé fa specchio, ed egli gli occhi di lei sereni a sé fa spegli58.
18 Ella dinanzi al petto ha il vel diviso, e ’l crin sparge incomposto43 al vento estivo; langue per vezzo44, e ’l suo infiammato viso fan biancheggiando i bei sudor più vivo: qual raggio in onda, le scintilla un riso ne gli umidi occhi tremulo e lascivo. Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle le posa il capo, e ’l volto al volto attolle45,
21 L’uno di servitù, l’altra d’impero si gloria59, ella in se stessa ed egli in lei. – Volgi, – dicea – deh volgi – il cavaliero – a me quegli occhi onde beata bèi60, ché son, se tu no ’l sai, ritratto vero de le bellezze tue gli incendi miei61; la forma lor, la meraviglia a pieno più che il cristallo tuo mostra il mio seno62.
36 ’l casto alloro: l’alloro è definito casto per il mito di Dafne, che si mutò in quella pianta per sfuggire all’amore di Apollo. 37 e tutta... famiglia: e tutta la numerosa serie delle piante. 38 spiri... sensi: emani dolcissimi sentimenti amorosi. 39 vaghezze: piacevolezze. 40 quella coppia: i crociati Carlo e Ubaldo. 41 se stessa... piacere: si rende insensibile alle seduzioni del piacere. 42 tra fronde... diletta: lo sguardo rivolto in avanti penetra tra le fronde e vede, o crede di vedere, poi vede con certezza l’amante (il vago) e l’innamorata. 43 ’l crin... incomposto: sparge i capelli sciolti. L’aggettivo incomposto aggiunge una connotazione di sensualità e di disordine morale. 44 langue per vezzo: si mostra languida e sensuale.
45 attolle: solleva. 46 pascendo: saziando. 47 liba: gusta. 48 sugge: succhia, assapora. 49 e ’n lei... peregrina: e, mutando di luogo, passa in lei. 50 Ascosi: Nascosti. 51 estranio arnese: oggetto poco usuale per un guerriero. 52 un cristallo: uno specchio di cristallo. È una metonimia. 53 netto: pulito, senza macchia. 54 Sorse: (Armida) Si alzò in piedi. 55 quel... eletto: sollevò quello (lo specchio), scelto come sacerdote dei misteri d’amore, tra le mani di Rinaldo. Lo specchio è detto ministro dei misteri d’amore perché indica alla maga come rendersi più seducente. 56 luci: occhi, sguardi. 57 mirano... oggetto: ammirano in due oggetti (Armida nello specchio, Rinaldo di-
rettamente nel volto di Armida) un oggetto solo (la bellezza della donna). Sarà ricorrente nel barocco il motivo dello specchio, che produce una molteplicità di punti di vista. 58 gli occhi... spegli: si specchia (fa spegli: fa specchi) nei suoi occhi sereni (nel senso che Rinaldo non riesce a distogliere lo sguardo da Armida). 59 L’uno... gloria: L’uno (Rinaldo) è fiero di essere schiavo della donna, l’altra (Armida) si gloria del suo potere su di lui; servitù è parola chiave ed esprime una condanna morale per Rinaldo, asservito a una donna. 60 onde beata bèi: con cui tu, donna angelica, infondi beatitudine. 61 gli incendi miei: la mia passione amorosa. 62 la meraviglia... seno: il mio animo innamorato mostra più pienamente del tuo specchio la tua meravigliosa bellezza, seno è metonimia per “cuore”, “animo”.
La Gerusalemme liberata 3 633
22 Deh! poi che sdegni me63, com’egli è vago mirar tu almen potessi il proprio volto64; ché il guardo tuo, ch’altrove non è pago, gioirebbe felice in sé rivolto65. Non può specchio ritrar sì dolce imago, né in picciol vetro è un paradiso accolto66: specchio t’è degno il cielo, e ne le stelle puoi riguardar le tue sembianze belle. –
23 Ride Armida a quel dir, ma non che cesse dal vagheggiarsi e da’ suoi bei lavori67. Poi che intrecciò le chiome e che ripresse con ordin vago i lor lascivi errori68, torse in anella i crin minuti69 e in esse, quasi smalto su l’or, cosparse i fiori; e nel bel sen le peregrine rose giunse a i nativi gigli70, e ’l vel compose.
[Armida continua ad adornarsi, per essere sempre più seducente.] 26 Fine alfin posto al vagheggiar71, richiede a lui commiato, e ’l bacia e si diparte72. Ella per uso il dì n’esce73 e rivede gli affari suoi, le sue magiche carte. Egli riman, ch’a lui non si concede por orma o trar momento74 in altra parte, e tra le fère spazia e tra le piante, se non quanto è con lei, romito amante75.
28 Qual feroce destrier ch’al faticoso onor de l’arme vincitor sia tolto, e lascivo marito80 in vil riposo fra gli armenti e ne’ paschi81 erri disciolto, se ’l desta o suon di tromba o luminoso acciar, colà tosto annitrendo è vòlto, già già brama l’arringo82 e, l’uom su ’l dorso portando, urtato riurtar nel corso83;
27 Ma quando l’ombra co i silenzi amici rappella a i furti lor gli amanti accorti traggono le notturne ore felici sotto un tetto medesmo entro a quegli orti76. Ma poi che vòlta a più severi uffici77 lasciò Armida il giardino e i suoi diporti78, i duo, che tra i cespugli eran celati, scoprirsi79 a lui pomposamente armati.
29 tal si fece il garzon, quando repente84 de l’arme il lampo gli occhi suoi percosse. Quel sì guerrier, quel sì feroce ardente suo spirto a quel fulgor85 tutto si scosse, benché tra gli agi morbidi languente, e tra i piaceri ebro e sopito86 ei fosse. Intanto Ubaldo oltra87 ne viene, e ’l terso adamantino scudo ha in lui converso88.
63 sdegni me: non ti degni di guardarmi. 64 com’egli... volto: tu almeno potessi vedere come è bello il tuo volto.
65 il guardo... rivolto: il tuo sguardo, che contemplando altri oggetti non è appagato, gioirebbe felice se potesse vederti. 66 Non può specchio... accolto: uno specchio non può ritrarre un’immagine così dolce, né un piccolo oggetto di vetro può contenere un paradiso. Le parole di Rinaldo ricordano le concettose immagini della lirica manieristica del tempo: la bellezza di Armida è troppo grande per riflettersi in un piccolo vetro. 67 non che cesse... lavori: non smette di ammirarsi e di farsi bella. 68 ripresse... errori: ricompose in un ordine aggraziato il loro sensuale disordine. 69 torse... minuti: inanellò i fini capelli. 70 le peregrine rose... gigli: unì le rose tratte dall’esterno (quelle del giardino) ai gigli naturali (il bianco seno). Con l’or-
namento dei fiori, Armida esalta la sua naturale bellezza. 71 al vagheggiar: ad ammirarsi. 72 si diparte: si allontana. 73 Ella... n’esce: abitualmente, di giorno, ella esce dal giardino. 74 a lui... momento: a lui non è concesso andare (por orma “porre il piede”) o trascorrere un momento. 75 tra le fère... amante: si aggira tra gli animali e le piante, a meno che non sia con lei, amante isolato (dagli altri uomini). I versi evidenziano la degradazione di Rinaldo, escluso dal genere umano e posto insieme ad animali e piante, non a esseri razionali. La situazione ricorda quella dei compagni di Ulisse, trasformati in animali dalla maga Circe. 76 Ma quando... orti: ma quando l’oscurità notturna, con i silenzi complici, induce gli amanti prudenti ai loro amori furtivi, loro trascorrono felicemente le ore notturne
634 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
sotto uno stesso tetto, dentro quei giardini. 77 a più severi uffici: a compiti più impegnativi (le sue magie). 78 diporti: piaceri. 79 scoprirsi: si mostrarono. 80 lascivo marito: come stallone. 81 fra gli armenti... paschi: fra i branchi di cavalli e nei pascoli. 82 l’arringo: il campo di battaglia. 83 riurtar nel corso: urtare a sua volta nella corsa. 84 repente: d’improvviso. 85 fulgor: il brillare delle armi lucenti. 86 ebro e sopito: stordito (come per ubriachezza) e addormentato. Inizialmente nell’animo di Rinaldo c’è una lotta tra valore e mollezza. 87 oltra: avanti. 88 ’l terso... converso: ha rivolto verso di lui il lucido scudo di diamante. Lo scudo, dono del mago di Ascalona, è simbolo della coscienza e della ragione.
30 Egli al lucido scudo il guardo gira, onde si specchia in lui qual siasi e quanto con delicato culto adorno89; spira tutto odori e lascivie il crine e ’l manto90, e ’l ferro, il ferro aver, non ch’altro, mira dal troppo lusso effeminato a canto: guernito è sì ch’inutile ornamento sembra, non militar fero instrumento91.
33 Qual sonno o qual letargo ha sì sopita100 la tua virtute101? o qual viltà l’alletta102? Su su; te il campo e te Goffredo invita, te la fortuna e la vittoria aspetta. Vieni, o fatal guerriero103, e sia fornita la ben comincia impresa104; e l’empia setta, che già crollasti105, a terra estinta cada sotto l’inevitabile106 tua spada. –
31 Qual uom da cupo e grave sonno oppresso dopo vaneggiar lungo in sé riviene, tal ei tornò nel rimirar se stesso, ma se stesso mirar già non sostiene92; giù cade il guardo, e timido e dimesso93, guardando a terra, la vergogna il tiene. Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro il foco per celarsi, e giù nel centro94.
34 Tacque, e ’l nobil garzon restò per poco spazio confuso e senza moto e voce. Ma poi che diè vergogna a sdegno loco, sdegno guerrier de la ragion feroce107, e ch’al rossor del volto un novo foco successe, che più avampa e che più coce108, squarciossi109 i vani fregi e quelle indegne pompe110, di servitù misera insegne111;
32 Ubaldo incominciò parlando allora: – Va l’Asia tutta e va l’Europa in guerra: chiunque e pregio brama95 e Cristo adora travaglia in arme or ne la siria terra96. Te solo, o figlio di Bertoldo97, fuora del mondo, in ozio, un breve angolo serra98; te sol de l’universo il moto nulla move, egregio campion d’una fanciulla99.
35 ed affrettò il partire, e de la torta confusione uscì del labirinto112. [...]
89 onde... adorno: per cui si specchia in esso (e vede) cosa sia diventato e come sia adornato con delicata ricercatezza. 90 spira... manto: i capelli e l’abito emanano profumi sensuali. 91 ’l ferro... instrumento: a parte tutto il resto, vede la spada che ha accanto, troppo lussuosa da essere effeminata; è così adorna che sembra un ornamento inutile, non un temibile strumento militare. 92 ma... sostiene: ma non riesce più a sopportare di guardarsi. 93 giù cade... dimesso: lo sguardo gli cade a terra, timido e basso. 94 nel centro: nel centro della terra. L’ottava, introdotta dalla similitudine con un uomo che si risvegli vaneggiante dopo un lungo sonno, mostra come Rinaldo, vedendosi immerso nel vizio, provi prima di tutto un sentimento di vergogna, per cui vorrebbe sprofondare sotto terra, nel mare, o nel fuoco. 95 pregio brama: desidera onore e gloria. 96 travaglia... terra: sopporta rischi e
fatiche in guerra nelle regioni della Siria (del Medio Oriente, dove si trova Gerusalemme). 97 figlio di Bertoldo: Ubaldo ricorda a Rinaldo la sua nobile stirpe. 98 un breve... serra: un breve angolo esclude dal mondo esterno. 99 te sol... fanciulla: lo sconvolgimento di tutto l’universo in questa guerra te solo non coinvolge per nulla (poiché ti accontenti di essere) il valoroso campione di una fanciulla. 100 sopita: addormentata, annullata. 101 la tua virtute: il tuo valore. 102 qual... l’alletta: quale viltà l’attrae. 103 fatal guerriero: guerriero destinato dal fato a risolvere la guerra (vincendo la selva di Saron). 104 sia fornita... impresa: sia conclusa l’impresa bene iniziata. 105 l’empia... crollasti: gli infedeli (l’empia setta), che già facesti vacillare. 106 inevitabile: infallibile. 107 diè vergogna... feroce: alla vergogna
subentrò lo sdegno, fiero difensore della ragione. Lo sdegno di Rinaldo è dettato da una giusta ragione. Nel passo vi è un ricordo della tripartizione dell’anima nella Repubblica di Platone (che verrà in seguito ampiamente illustrata a Rinaldo dal mago di Ascalona): una parte razionale, una irascibile, una concupiscibile. La parte irascibile dell’anima dovrebbe essere posta a difesa della ragione. 108 al rossor... coce: al rossore della vergogna subentrò il nuovo fuoco dell’ira, che più arde e brucia. 109 squarciossi: si strappò. 110 pompe: segni di lusso. 111 di servitù... insegne: segni di una misera schiavitù (quella della passione amorosa). 112 de la torta... labirinto: uscì dalla confusione tortuosa del labirinto. La costruzione sintattica irregolare sottolinea la tortuosità del labirintico giardino di Armida, simbolo del traviamento di Rinaldo.
La Gerusalemme liberata 3 635
Analisi del testo Il giardino di Armida come locus diabolicus In queste ottave, Tasso ci descrive i caratteri del magnifico e lussureggiante giardino di Armida, una sorta locus amoenus in chiave pagana e peccaminosa, prodotto di arti diaboliche, luogo di tentazione e di piaceri carnali. Nel giardino di Armida, infatti, si gode di una artificiosa eterna primavera in cui i frutti maturi pendono dallo stesso albero su cui pendono i frutti acerbi e tra gli uccelli che cantano spicca un pappagallo prodigioso (mirabil mostro) che imita il linguaggio umano. Non a caso è stato osservato che questo giardino rappresenta una sorta di trasformazione da locus amoenus in locus diabolicus, perché la natura apparentemente perfetta, ma invece ingannevole e piena di lusinghe, in una sorta di negazione della realtà dove i frutti maturi convivono assieme ai frutti acerbi, induce gli eroi crociati – in questo caso Rinaldo – ad abbandonarsi ai piaceri lascivi e sensuali. In tal senso Rinaldo, da paladino cristiano, qui si trasforma in un personaggio negligente e superficiale, opposto al senso del dovere e del rigore morale incarnato dai due inviati di Goffredo, Carlo e Ubaldo. Nel giardino di Armida, ben diverso dal locus amoenus in cui trova momentaneo ricovero Erminia fra i pastori, aleggia un’atmosfera stregata che ha emulato, oltraggiandola, la purezza della natura e lo ha reso un paradiso pagano.
Il pappagallo e la rosa All’esotico e colorato pappagallo, che incarna in modo significativo l’immobilismo ingannevole di questo universo, Tasso affida un “elogio della rosa”, ossia il tema del carpe diem, dell’invito a cogliere l’attimo contro la fugacità della vita. La voce del pappagallo è quindi l’emblema di questo mondo dove tutto è finzione e allettamento, ingannevole copia dove il vero cede all’apparenza: quel canto del pappagallo che è in grado di imitare la voce umana è lo specchio di Armida che allo stesso modo è in grado di imitare, stravolgendola, la natura creata da Dio. Al pappagallo umanizzato Tasso fa pronunciare ironicamente parole da cui emerge il senso della precarietà della vita, della giovinezza e del piacere, un’elegia sulla fugacità della vita, raffigurata dalla rosa che trapassa al trapassar d’un giorno (v. 1, ottava 15). Allo stesso modo la rosa è simbolo della perfezione della natura ed emblema della fugacità della bellezza, della giovinezza e del piacere, rievocando così il topos catulliano della vergine rosa, fiore bellissimo, simbolo dell’eros femminile e della purezza della donna, ma effimero perché minato dalla caducità.
Gianbattista Tiepolo, Rinaldo incantato da Armida, 1742-1745 (Art Institute, Chicago).
636 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Lo stile Il brano è intessuto di numerose figure retoriche e raffinate forme stilistiche, intese a creare un effetto di musicalità, per rendere l’impressione di piacevolezza e incanto del magico ambiente: il che pone Tasso come maestro e rappresentante significativo del manierismo stilistico. Si rinvengono allitterazioni (lussureggiante serpe, v. 5 ott. 11 – allitterazione in s per rappresentare il procedere sinuoso della vite; «infra le verdi fronde», v.1 ott.12; «cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando / esser si puote riamato amando», vv. 7-8 dell’ottava n.15 – l’allitterazione in am che trasmette con intensità crescente la tematica dell’abbandono amoroso ); anadiplosi («non par quella, / quella non par», vv. 6-7 ott. 14); anafore (l’aura… / l’aura, vv. 5-6 ott. 10; quando… / quando, vv. 5-6 ott. 12; cogliam la rosa …/cogliam … la rosa, vv. 5-7 ott. 15); antitesi (acque stagnanti – mobili cristalli, v. 3 ott. 9; apriche collinette – ombrose valli, v.5 ott.9); chiasmi («acque stagnanti, mobili cristalli», v.3 ott.9; «fior vari e varie piante», v. 4 ott. 9; «fiori eterni eterno il frutto», v. 7 ott. 10; «spunta l’un, l’altro matura», v. 8 ott. 10; «tronco istesso e tra l’istessa foglia», v. 1 ott. 11; torta vite … orto aprico, v. 6 ott. 11; «pendono a un ramo, un con dorata spoglia, / l’altro con verde, il novo e ‘l pomo antico», vv. 3-4 ott. 11; «non par quella, / quella non par», vv. 6-7 ott. 14) e una metafora («spuntar la rosa / dal verde suo modesta e verginella», vv. 1-2 ott. 14, per indicare bella fanciulla).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. L’episodio del giardino di Armida rappresenta un momento di svolta fondamentale in relazione alla figura di Rinaldo. Riassumi l’episodio in 5 righe sottolineando il punto di svolta narrativo con un titolo appropriato. COMPRENSIONE 2. Descrivi l’atteggiamento di Rinaldo prima e dopo il momento di cambiamento. 3. Descrivi quale comportamento e carattere mostrano Carlo e Ubaldo. ANALISI 4. Evidenzia gli elementi testuali che caratterizzano il giardino di Armida come luogo di traviamento. 5. Spiega quali due opposte visioni del mondo si contrappongano in questo episodio, facendo riferimento, più in generale, alla poetica del Tasso. LESSICO 6. Ricerca i termini che evidenziano la natura sensuale dell’amore tra Rinaldo e Armida.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 7. Confronta la descrizione del giardino di Armida con il regno di Venere descritto nelle Stanze di Poliziano (➜ C1 T2 ), evidenziando affinità e differenze e illustrandone i rispettivi significati. 8. Confronta temi e messaggio dell’episodio di Rinaldo con quelli del coro dell’Aminta (➜ T3 ). SCRITTURA ARGOMENTATIVA 9. Nel testo si fa riferimento in più passaggi alla figura del labirinto. Quale valore simbolico assume, a tuo parere, nel brano? Sviluppa un testo argomentativo su questo spunto di riflessione e allarga il ragionamento, se lo ritieni opportuno, parlando anche del valore simbolico che la stessa immagine del labirinto assume nella poetica di Ariosto.
La Gerusalemme liberata 3 637
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Lanfranco Caretti Il “bifrontismo” di Tasso L. Caretti, Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 2001
Nel saggio Ariosto e Tasso (1961), il critico Lanfranco Caretti (1915-1995) studia il rapporto fra la Liberata e l’epoca di composizione e conia la fortunata formula di «bifrontismo spirituale» per definire la situazione psicologica di Tasso, diviso tra l’adesione alla Chiesa controriformistica e il rimpianto per gli ideali rinascimentali, ormai appartenenti al passato.
Questo significa che la storia della poesia tassiana rispecchia piuttosto l’intero arco della crisi e ne riflette tutto il cammino variamente accidentato: dal momento vivo e positivo, che nei suoi aspetti drammatici e intensi era già stato suggestivamente espresso dall’opera di Michelangelo, al momento della chiusura più rigida della 5 restaurazione cattolica. Ciò che conta perciò è tenere d’occhio non l’atto ultimo della resa, quando la voce del Tasso si confonde e veramente si annulla nei colori grigi del tempo, ma il lungo e generoso periodo della resistenza attiva al disgregarsi d’un mondo che era pur sembrato tanto saldo e sicuro di sé. In questo periodo, che giunge almeno sino al compimento della Liberata, il Tasso offre l’esempio d’una 10 singolare autonomia intellettuale, di un impegno umano ed artistico commovente, di una ostinazione orgogliosa, di una applicazione intrepida, di una perspicua lucidità critica, di una buona fede schietta e fervida. È il periodo in cui la poesia tassiana riflette il caldo riverbero dell’eredità rinascimentale, ancora operante nelle coscienze dei suoi contemporanei, e viene arditamente innestandovi lo spirito 15 nuovo e inquieto d’una età percossa dall’urto violento della Riforma e intimamente desiderosa d’una sincera renovatio [in latino “rinnovamento”] morale. In questo generoso tentativo di conciliazione del classicismo con la moderna ansietà religiosa, il Tasso non muoveva però da una posizione già chiara e sicura, come era accaduto all’Ariosto, ma stava egli stesso nel mezzo della corrente perigliosa e 20 partecipava così, di volta in volta, a tutti gli slanci e alle speranze, ma anche alle incertezze e confusioni sentimentali che caratterizzarono quell’epoca di rottura, di autentico bifrontismo spirituale.
Sergio Zatti I musulmani e i valori del Rinascimento S. Zatti, L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Il Saggiatore, Milano 1983
Nel saggio L’uniforme cristiano e il multiforme pagano, Sergio Zatti sviluppa l’impostazione critica di Caretti con l’apporto di metodologie di scuola strutturalistica e psicoanalitica, riconoscendo nella Gerusalemme liberata un conflitto fra due codici culturali: l’uno umanistico-rinascimentale, di cui nel poema sono interpreti i musulmani, l’altro controriformistico, rappresentato dai Crociati.
Fondata su queste premesse e vincolata a una precisa prospettiva di metodo, la mia analisi è rivolta a verificare la legittimità di una chiave di lettura figurale dello scontro militare tra Cristiani e Pagani, che costituisce la materia narrativa del poema. Secondo tale prospettiva, la guerra per la conquista di Gerusalemme 5 rinvierebbe ad una lotta per l’egemonia che si instaura fra due codici diversi, fra
638 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
due sistemi di valori antitetici. Dell’uno sono campioni i Pagani e, potremmo dire, schematizzando, che esso si richiama agli ideali di un umanesimo laico, materialista e pluralista; l’altro, di cui sono portatori i Crociati, dà voce alle istanze religiose autoritarie della cultura della Controriforma. 10 Se la materia storica della narrazione, che il Tasso desume dai cronisti delle Crociate, propone lo scontro tra due religioni e culture contrapposte, è un fatto che, nella concreta vicenda poetica, lo scontro assume piuttosto i connotati di un conflitto tra due codici, divenuti incompatibili, che si genera all’interno di una medesima cultura e di una medesima società, entrambe occidentali e cristiane: tanto è vero 15 che a misurarsi nella guerra, parallela a quella terrena, che si combatte in cielo non sono Dio e «Macometto» bensì Dio e Satana, la verità cristiana trovando come proprio antagonista non già una verità pagana ad essa alternativa, bensì piuttosto i principi di negazione ad essa connaturati, cioè l’errore, il male, l’eresia. Proprio come tali, infatti, cioè come negativi, erronei o quantomeno insufficienti, si confi20 gurano nella GL [Gerusalemme liberata] quei valori cavallereschi che la tradizione recente del genere aveva rifondato in senso umanistico: ovviamente secondo uno soltanto dei codici, anche se si tratta di quello ideologicamente privilegiato – è il punto di vista di Dio, dei Cristiani, di Goffredo – e di fatto storicamente vincente. Ed è per questo che soltanto sulla bocca di personaggi pagani è possibile ascoltare 25 l’affermazione degli ideali eroici di virtù e di onore, fatta con orgogliosa fierezza e in assenza di qualsiasi ottica religiosa o soprannaturale, sia pure pagana [...]. E non manca un richiamo a questi ideali neppure nel discorso in cui Satana rievoca la ribellione degli angeli caduti al Dio cristiano [...]. Sono dichiarazioni in cui ritornano motivi tipici di un sistema di valori storicamen30 te definiti: mito dell’homo faber, antagonismo fortuna/virtù; e sono dichiarazioni che invano cercheremmo di ritrovare sul versante cristiano, e non già perché tra le file dei crociati manchino grandi eroi, ma perché essi ispirano (o dovrebbero ispirare) la loro azione a un complesso di moventi e di ideali entro cui la dimensione umanistica individuale, quando non è assente, è purtuttavia subordinata alle 35 finalità di una collettiva missione di fede. Nei discorsi dei guerrieri cristiani il riconoscimento della positività dei valori cavallereschi si accompagna invariabilmente a un principio superiore che tali valori integri, senza il quale non è lecito sperare nella vittoria.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Individua e sintetizza le tesi sostenute dai due critici. 2. Con quali argomenti Zatti sostiene la propria tesi? 3. In che senso si può individuare una continuità tra le due interpretazioni? 4. La complessa situazione psicologica di Tasso e il conseguente ambivalente spirito che informa il suo poema sono anche il riflesso delle lacerazioni spirituali e ideologiche del tempo. Tenendo conto delle argomentazioni di Caretti e di Zatti, presenta la Liberata come espressione della crisi religiosa e culturale del secondo Cinquecento. Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo, in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
La Gerusalemme liberata 3 639
4
Epistolario e Dialoghi 1 L’epistolario I turbamenti interiori Il corpus delle lettere di Tasso è molto vasto (circa 1700). Parzialmente pubblicate quando l’autore era in vita, sono indirizzate ad amici e a vari personaggi della società del tempo. In particolare, le lettere scritte durante la penosa reclusione a Sant’Anna forniscono molti elementi autobiografici. Tasso ritrae in esse la sua vita tormentata, il suo rapporto contradditorio con l’ambiente della corte, la sua sofferenza psichica, ma evidenzia anche la consapevolezza della propria genialità di poeta. I modelli letterari L’esperienza vissuta è però filtrata attraverso modelli letterari e mediata attraverso il controllo retorico tipico di un letterato del secondo Cinquecento.
Torquato Tasso
T12
Le persecuzioni del folletto Lettera LXV a Maurizio Cataneo
T. Tasso, Lettere, a c. di E. Mazzali, Einaudi, Torino 1978
La lettera del 30 dicembre 1585 (di cui riportiamo uno stralcio), costituisce un impressionante documento delle condizioni di instabilità mentale del Tasso al tempo della prigionia nell’ospedale di Sant’Anna: testimonia infatti come il poeta fosse affetto da vere e proprie idee deliranti, come quella di un folletto che gli spostasse e nascondesse cibo, libri e oggetti. Il poeta parla della sua «maninconia infinita» e dei rimorsi per le proprie speculazioni filosofiche del passato, contrarie alla religione.
A Maurizio Cataneo1. Roma Oggi, ch’è il penultimo de l’anno2, il fratello del reverendo Licino3 m’ha portato due lettere di Vostra Signoria; ma l’una è sparita da poi ch’io l’ho letta, e credo che se l’abbia portata il folletto, perché è quella ne la quale si parlava di lui; e questo è 5 un di que’ miracoli ch’io ho veduto assai spesso ne lo spedale4: laonde son certo che sian fatti da qualche mago, e n’ho molti altri argomenti5; ma particolarmente d’un pane toltomi dinanzi visibilmente a ventitre ore; d’un piatto di frutti, toltomi dinanzi l’altro giorno che venne a vedermi quel gentil giovane polacco6, degno di tanta maraviglia; e d’alcune altre vivande de le quali altre volte è avenuto il mede10 simo, in tempo che alcuno non entrava7 ne la mia prigione; d’un paio di guanti, di
1 Maurizio Cataneo: è un gentiluomo bergamasco, già amico del padre di Torquato, che aiutò e sostenne il poeta durante la carcerazione a Sant’Anna. Quando Tasso gli scrive, viveva a Roma come segretario di un cardinale.
2 il penultimo... anno: il 30 dicembre 1585, sesto e penultimo anno della reclusione a Sant’Anna. 3 il fratello... Licino: don Fermo Licino, anch’egli monsignore, esponente di un’altra famiglia bergamasca.
640 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
4 spedale: l’ospedale di Sant’Anna. 5 argomenti: prove, conferme. 6 giovane polacco: un visitatore di Tasso a Sant’Anna, non identificato. 7 in tempo... entrava: nel tempo in cui nessuno era entrato.
lettere, di libri cavati da le casse serrate8 e trovatili la mattina per terra; ed altri non ho ritrovati, né so che ne sia avenuto; ma quelli che mancano in quel tempo ch’io sono uscito9, possono essere stati tolti da gli uomini: i quali, come io credo, hanno le chiavi di tutte le mie casse. Laonde io non posso difendere cosa alcuna da’ nemici 15 o dal diavolo, se non la volontà, con la quale non consentirei d’imparar cosa da lui o da suoi seguaci10, né d’avere seco alcuna familiarità o co’ suoi maghi: i quali, come dice il Ficino, possono muover l’imaginazione, ma senza l’intelletto non hanno alcuna autorità o alcuna forza, perché egli11 dipende da Iddio immediatamente. [...] Ma Iddio sa ch’io non fui né mago né luterano giamai; né lessi libri eretici o di 20 negromanzia12, né d’altra arte proibita; né mi piacque la conversazione d’Ugonotti, né di lodare la dottrina, anzi la biasmai13 con le parole e con gli scritti; né ebbi opinione contra14 la santa Chiesa cattolica, quantunque io non neghi d’aver alcuna volta prestata troppa credenza a la ragione de’ filosofi15, ma non in guisa ch’io non umiliassi l’intelletto sempre a’ teologi e ch’io non fossi più vago d’imparare che di 25 contradire16. Ma ora la mia infelicità ha stabilita17 la mia fede, e fra tante sciagure ho questa sola consolazione, ch’io non ho dubbio alcuno; ma confesso aver molti desideri. [...] Fra tanto io sono infelice, né voglio tacer le mie infelicità, perché Vostra Signoria ci rimedi con tutto il suo sforzo, con tutta la diligenza, con tutta la fede. 30 Sappia dunque c’oltre que’ miracoli del folletto, i quali si potrebbono numerare per trattenimenti18 in altra occasione, vi sono molti spaventi notturni, perché, essendo io desto, mi è paruto di vedere alcune fiammette ne l’aria; ed alcuna volta gli occhi mi sono scintillati in modo ch’io ho temuto di perder la vista; e me ne sono uscite faville visibilmente. Ho veduto ancora nel mezzo de lo sparviero19 ombre de’ topi, 35 che per ragione naturale non potevano farsi in quel luogo; ho udito strepiti spaventosi; e spesso ne gli orecchi ho sentito fischi, titinni, campanelle e romore quasi d’orologi da corda20; e spesso è battuta un’ora; e dormendo m’è paruto che mi si butti un cavallo addosso; e mi son poi sentito alquanto dirotto21: ho dubitato del mal caduco22, de la gocciola23, de la vista; ho avuto dolori di testa, ma non ecces40 sivi; d’intestino, di fianco, di cosce, di gambe, ma piccioli; sono stato indebolito da vomiti, da flusso di sangue, da febbre. E fra tanti terrori e tanti dolori m’apparve in aria l’imagine de la gloriosa Vergine co ’l Figlio in braccio, in mezzo cerchio di colori e di vapori: laonde io non debbo disperar de la sua grazia. E benché potesse
8 serrate: chiuse. 9 ch’io sono uscito: Tasso veniva a volte accompagnato fuori dall’ospedale di Sant’Anna. 10 da lui... seguaci: dal diavolo o dai maghi suoi seguaci. 11 egli: l’intelletto. Rifacendosi all’autorità di Marsilio Ficino (1433-1499), filosofo neoplatonico e cultore di magia naturale, Tasso sostiene che la magia demoniaca può influire sull’immaginazione, ma non sull’intelletto, che dipende direttamente da Dio. 12 negromanzia: magia nera. Nel periodo controriformista, leggere libri proibiti era una grave colpa. 13 né mi piacque... biasmai: e non volli intrattenere rapporti con gli Ugonotti
(cioè i calvinisti francesi) e non ne lodai la dottrina, anzi la criticai. 14 né ebbi opinione contra: e non presi posizione contro (nel senso di “non criticai”). 15 troppa... filosofi: in altre lettere, Tasso spiega di aver seguito in passato l’aristotelismo radicale, arrivando a dubitare di dogmi cristiani come la creazione del mondo e l’immortalità dell’anima. 16 ma non... contradire: ma non in modo (in guisa) che io non abbassassi la mia ragione sempre di fronte ai princìpi della teologia e fossi più desideroso (vago) di imparare (dalla lettura dei filosofi) che di contrastare (i dogmi della religione). Tasso vuole sottolineare che, per quanto
avesse concepito opinioni non sempre in linea con le verità di fede, apertamente non aveva mai contestato i fondamenti della teologia cattolica. 17 stabilita: rafforzata. 18 numerare per trattenimenti: raccontare in modo più disteso. 19 sparviero: specie di baldacchino del letto, diffuso nel Cinquecento, con cortine di tessuto che ricordano appunto questo uccello rapace con le ali aperte. 20 romore... da corda: rumore simile al meccanismo degli orologi a muro, nei quali una catena sostiene i pesi e contrappesi. 21 dirotto: spossato, stremato. 22 mal caduco: epilessia. 23 gocciola: emorragia interna.
Epistolario e Dialoghi 4 641
facilmente essere una fantasia perch’io sono frenetico24, e quasi sempre perturbato 45 da vari fantasmi, e pieno di maninconia25 infinita, nondimeno, per la grazia d’Iddio, posso cohibere assensum alcuna volta, la qual operazione è del savio, come piace a Cicerone26: laonde più tosto devrei27 credere che quello fosse un miracolo de la Vergine. 24 frenetico: malato di nervi. 25 maninconia: malinconia. 26 posso... Cicerone posso qualche volta rifiutarmi di prestar fede (alle visioni im-
maginarie), secondo un atteggiamento che è proprio del saggio, come afferma lo stesso Cicerone (nell’opera filosofica Academica, II 29, 94).
27 laonde... devrei: di conseguenza, dovrei piuttosto.
Analisi del testo Una drammatica testimonianza dello squilibrio psichico di Tasso La lettera è rivelatrice non solo delle condizioni mentali di Tasso recluso a Sant’Anna, ma anche di come il clima culturale della Controriforma si rifletta sulla psicologia inquieta e tormentata del poeta. L’autore della Gerusalemme liberata manifesta chiari sintomi di squilibrio: descrive allucinazioni visive (scorge fiamme e scintille uscirgli dagli occhi e ombre di topi), uditive (sente fischi, tintinni, campane); mentre dorme, gli pare di sentirsi precipitare addosso il peso di un cavallo. Tasso è inoltre convinto di essere perseguitato da un folletto, che gli sottrarrebbe cibo, lettere (in particolare quelle in cui si parlava di lui), oggetti vari. Il biografo Manso, che aveva ospitato il poeta in un periodo successivo alla reclusione a Sant’Anna, testimonia come Tasso, convinto di vedere un folletto, parlasse a volte da solo: «E mentr’io andava pur con gli occhi attorno riguardando e niente scorgendo, ascoltai che Torquato era in altissimi ragionamenti entrato con chi che sia».
I sensi di colpa del poeta Tasso si proclama innocente riguardo ad alcuni “peccati” (lettura di libri proibiti, conversazioni con eretici, adesione alle concezioni dei protestanti) ma ne ammette altri (in particolare l’interesse per le idee di filosofi atei che lo avevano condotto in passato a dubitare di dogmi della fede cristiana). Tali ammissioni rivelano che Tasso – come tanti uomini della sua epoca – psicologicamente era diviso fra il seguire l’ortodossia della Chiesa e l’accondiscendere a un naturale desiderio di libertà di pensiero. Se, artisticamente, questo contrasto si traduce nel “bifrontismo” della Gerusalemme liberata, nella psiche complessa e tormentata del poeta tale conflitto causa un costante senso di colpa, con l’effetto di minarne progressivamente la serenità di giudizio e l’equilibrio.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi in 5 righe il contenuto della lettera di Tasso, suddividendo il tuo testo in tre sequenze e dando a ognuna un titolo. COMPRENSIONE 2. Cosa Tasso immagina gli venga fatto da un folletto e da un mago? 3. Oltre ad allucinazioni visive, l’autore ha anche allucinazioni uditive? Se sì, quali? 4. Quali motivazioni adduce Tasso per dimostrare di non essere eretico? 5. Cosa significa, nella conclusione della lettera, che l’autore ammette di essere colpito da “maninconia infinita”? 6. In cosa consiste la citazione di Cicerone nella parte conclusiva della lettera, circa l’operazione che deve assumere l’uomo saggio? ANALISI 7. Quali aspetti della personalità dell’autore e della genesi del suo poema si comprendono attraverso questa lettera? 8. In un passo della lettera Tasso dichiara di aver concepito opinioni non sempre in linea con le verità di fede. In che modo egli cerca di giustificarsi?
642 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
9. Pur nella sua brevità, la lettera offre un quadro significativo del contesto storico e culturale della Controriforma. Quali aspetti del testo forniscono utili informazioni su tale contesto? LESSICO 10. Il testo, pur essendo una lettera e quindi pur avendo una destinazione privata e personale, rivolta a un amico confidente, presenta termini che appartengono alla tradizione letteraria colta. Individua nel brano queste parole e fornisci una breve spiegazione, aiutandoti anche con le note.
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 11. Quali argomentazioni adduce il Tasso in due direzioni: da un lato per giustificare il suo disagio mentale, ossia la sua “maninconia infinita” e dall’altro per tutelarsi dalle eventuali condanne di eresia? Spiega le posizioni dell’autore, con un elaborato di almeno 10 righe. COMPETENZA DIGITALE 12. Svolgi su Internet una ricerca sul tema della “malinconia”, un topos della letteratura dal Medioevo fin al Novecento. Dopo esserti documentato, prova a domandarti se ancora oggi questo motivo sia stato ripreso in qualche forma d’arte (letteratura, cinema, pittura, musica ecc.) ESPOSIZIONE ORALE 13. Ripercorri in un’esposizione orale di max 2 minuti il significato della “maninconia” tassiana.
2 I Dialoghi Una complessa elaborazione retorica In particolar modo durante la prigionia a Sant’Anna Tasso si dedicò alla stesura di dialoghi in prosa, componimenti tra poe sia e filosofia che avevano come modello i dialoghi di Platone. I dialoghi di Tasso sono 28 testi scritti tra il 1578 e il 1594 e pubblicati in modo sparso. I temi sono morali, filosofici, civili, ma ospitano anche aspetti autobiografici, in una prosa raffinata. I dialoghi infatti presentano una complessa elaborazione retorica, con citazioni letterarie e riferimenti culturali; si comprende quindi come Tasso, recluso a Sant’Anna, volesse offrire un’immagine delle proprie doti intellettuali e della propria cultura. I più noti sono Il messaggero e Il padre di famiglia, entrambi a sfondo autobiografico (➜ T13 ). • Il messaggero Il primo descrive il colloquio del poeta con uno spirito apparsogli in carcere utilizzando toni cupi e sofferti. • Il padre di famiglia Scritto nel 1580 durante la reclusione a Sant’Anna e dedicato all’amico Scipione Gonzaga, il dialogo dal titolo Il padre di famiglia si riferisce a un episodio realmente avvenuto: un incontro, nell’autunno del 1578, fra lo stesso Torquato Tasso, in fuga da Ferrara, e un saggio padre di famiglia. Tasso, infatti, nelle sue peregrinazioni inquiete, dopo un breve soggiorno a Urbino presso i della Rovere (occasione nella quale scrisse la Canzone al Metauro), si diresse in Piemonte nella speranza di ottenere la protezione del duca Emanuele Filiberto di Savoia; mentre viaggiava da Novara a Vercelli, nell’impossibilità di superare il fiume Sesia, molto ingrossato, ricevette l’ospitalità di un gentiluomo nella sua residenza di campagna. È questa la situazione rappresentata nel dialogo, di cui riportiamo l’inizio, in cui il viandante, in una notte di tempesta, trova ricovero nell’accogliente dimora di campagna presso Vercelli di un saggio “padre di famiglia” e con lui intrattiene una conversazione attorno al modo di governare la casa, i possedimenti agricoli, la servitù. L’opera, tra le più interessanti nella produzione in prosa di Tasso, è ricca di valori simbolici perché testimonia la necessità dell’autore di trovare un rifugio sicuro e protettivo, di pace e stabilità, e allo stesso tempo afferma il ritratto del perfetto uomo di corte e intellettuale secondo il modello rinascimentale, con importanti riferimenti alla cultura classica. Epistolario e Dialoghi 4 643
Torquato Tasso
Il perfetto cortigiano e padre di famiglia
T13
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Dialoghi, Il padre di famiglia Tasso si descrive come un viandante che in una notte tempestosa trova rifugio in una dimora di campagna, dove il capofamiglia parla dell’amministrazione della casa, luogo dove è possibile vivere bene lontano dalle corti.
T. Tasso, Dialoghi, a cura di C. Guasti, Le Monnier, Firenze, 1859
Mentre queste cose dicevamo, i famigliari1 avevan recata l’acqua a le mani: e poiché lavati ci fummo2, a tavola ne sedemmo, come piacque al buon vecchio, che volle me come forestiero onorare. E incontinente de’ melloni3 fu quasi caricata la mensa; e gli altri frutti vidi, che a l’ultimo de la cena ad un suo cenno furono riserbati. 5 Ed egli così cominciò a parlare: – Quel buon vecchio Coricio, coltivator d’un picciol orto, (del quale mi sovviene d’aver letto in Virgilio): Nocte domum dapibus mensas onerabat inemptis4. E a questa imitazione disse il Petrarca, del suo bifolco ragionando:
10
E poi la mensa ingombra Di povere vivande, Simili e quelle ghiande, Le quai fuggendo tutt’il mondo onora5.
Sì che non dovete maravigliarvi s’anch’io, ad imitazion loro, potrò caricarvi la mensa di vivande non comprate; le quali se tali non saranno quali voi altrove sete solito 15 di gustare6, ricordatevi che sete in villa, ed a casa di povero oste vi sete abbattuto.7 – Estimo, diss’io, parte di felicità il non esser constretto di mandare a le città8 per cose necessarie al ben vivere, non che al vivere, de le quali mi pare che qui sia abbondanza. – Non occorre, diss’egli, ch’io per alcuna cosa necessaria o convenevole a vita di 20 povero gentiluomo mandi a la città, percioché da le mie terre ogni cosa m’è, la Dio mercè, copiosamente somministrata; le quali in quattro parti o specie, che vogliam dirle, ho divise. L’ una parte, e la maggiore, è da me arata e seminata di fromento e di ogn’altra sorte di legumi: l’altra è lasciata a gli alberi ed a le piante, i quali sono necessari o per lo fuoco o per l’uso de le fabriche9 e de gl’instromenti de le 25 case; come che10 in quella parte ancora che si semina, sian molti ordini d’alberi, su’ quali le viti, secondo l’usanza de’ nostri piccioli paesi, sono appoggiate: la terza è prateria, ne la quale gli armenti e le greggi, ch’io ho, usano di pascolare: la quarta ho riserbata a l’erbe ed a’ fiori, ove sono ancora molti alveari d’api; perciochè, oltre questo giardino, nel quale tanti alberi fruttiferi vedete da me piantati, ed il quale da 30 le possessioni è alquanto separato, ha un broilo11 molto grande, che d’ogni maniera d’erbaggio è copiosissimo molto.
1 famigliari: la servitù di casa. 2 e poiché lavati ci fummo: dopo che ci fummo lavati. 3 melloni: meloni. 4 Nocte… onerabat inemptis: Virgilio, Georgiche, IV, 133.
5 E poi… il mondo onora: Francesco Petrarca, Canzoniere, L, 21-24. 6 sete solito di gustare: siete abituato a mangiare. 7 a casa di povero oste vi sete abbattuto: vi siete imbattuto (avete incontrato) nella
644 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
casa di un oste povero. 8 constretto di mandare a le città: comprare in città. 9 fabriche: utensili. 10 come che: nonostante. 11 broilo: orto.
– Bene avete le vostre terre compartite, diss’io; e ben si pare che di Varrone, non sol di Virgilio, siate studioso. [...] 35 Qui egli si tacque: ed io, mostrando d’approvare ciò ch’egli diceva, mi taceva; sapendo che i vecchi, o quelli che già cominciano ad invecchiare, sogliono essere più vaghi del ragionare che di alcuna altra cosa, e che non si può far loro maggior piacere che ascoltargli con attenzione. Ma egli, quasi pur allora aveduto che la moglie vi mancasse, disse: 40 – La mia donna, da la vostra presenza ritenuta12, aspetta forse d’essere invitata; onde, s’a voi pare, la farò chiamare: perchè se ben so che i modesti forestieri con alquanto di vergogna e di rispetto maggiore dimorano in presenza de le donne che de gli uomini, nondimeno non solo la villa, ma l’uso de’ nostri paesi porta seco una certa libertà, a la quale sarà bene che cominciate ad avvezzarvi. 45 Venne la moglie chiamata, e s’assise13 in capo di tavola, in quel luogo che voto era rimaso per lei; ed il buon padre di famiglia rincominciò: – Ormai avete vedute tutte le mie più care cose, perchè figliuola femina non m’è stata concessa dal cielo; del che io certo molto avrei da ringraziarlo, se non fosse che la mia donna, che da’ maschi, com’ è costume de’ gioveni, spesso è abbandonata, 50 de la solitudine si lamenta; ond’io penserei di dar moglie al maggior, di questi miei figliuoli, s’egli l’animo molto alieno non ne dimostrasse. – Allora io dissi: – Io non posso in alcun modo lodar questa usanza di dar così tosto14 moglie a’ gioveni; perciochè, ragionevolmente, non si dovrebbe prima attendere a l’uso de la 55 generazione, che l’età de l’accrescimento fosse fornita15, ne la quale vostro figliuolo ancora mi par che sia. Oltre di ciò, i padri dovrebbon sempre eccedere i lor figliuoli16 almeno di ventiotto o di trent’anni; conciosia cosa che, di meno eccedendoli17, sono anco nel vigor de l’età quando la giovinezza de’ figliuoli comincia a fiorire .... Ed in questo proposito mi ricordo che, leggendo Lucrezio, ho considerata quella 60 leggiadra forma di parlare, che egli usa, Natis munire senectam18: percioché i figliuoli sono, per natura, difesa e fortezza del padre; né tali potrebbon essere, s’in età ferma e vigorosa non fossero, quando i padri a la vecchiaia sono arrivati; a la quale voi essendo già vicino, mi par, che non meno de l’età, che de le altre condizioni de’ vostri figliuoli debbiate esser sodisfatto, e rimaner parimente contento, che ’l vostro 65 maggior figliuolo, che ragionevol certo è molto, non cerchi di piacervi nel prender moglie, la qual fra dieci o dodici anni a tempo prenderà. Io m’accorgeva, mentre queste cose diceva, che più al figliuolo che al padre il mio ragionamento era grato19; ed egli, del mio accorgere accorgendosi, con volto ridente disse: – Non in tutto indarno20 sarò uscito oggi fuori a la caccia, poi che non solo ho fatto pre70 da, ma (quel ch’ anco non isperai) così buono avocato21 ne la mia causa ho ritrovato. Così dicendo, mi mise su ’l piatto alcune parti più delicate del capriolo, che parte era stato arrostito, e parte condito in una maniera di manicaretti assai piacevole al gusto. 12 ritenuta: restia. 13 s’assise: si sedette. 14 tosto: presto (inteso, come in età così giovane) 15 che l’età de l’accrescimento fosse for nita: prima che l’età dello sviluppo non si fosse compiuta.
16 i padri dovrebbon sempre eccedere i lor figliuoli: i padri dovrebbero sempre essere più vecchi dei figli. 17 conciosia cosa che, di meno ecce dendoli: poiché, se la differenza d’età è inferiore. 18 Natis munire senectam: si tratta di una
citazione proveniente da Lucrezio, De rerum natura, IV, 1256. 19 grato: condiviso, accettato. 20 indarno: invano. 21 buono avocato: buon avvocato (si riferisce a Tasso, che approva la sua posizione).
Epistolario e Dialoghi 4 645
Analisi del testo Una vita semplice, specchio di un ideale Rinascimento Questo brano letterario, tratto dall’inizio del dialogo, descrive l’incontro fra il narratore, capitato per caso nell’abitazione di campagna di un gentiluomo piemontese, e il padrone di casa, che offre una modesta cena da «povero oste», ma ricca di cibi provenienti dalle terre che coltiva. La semplicità della situazione (nonostante il gentiluomo sia benestante e potrebbe far sfoggio di ricchezza) e il tentativo del padrone di casa di mettere a proprio agio il viandante, sono il segno di una saggezza che sa osservare e valorizzare le cose importanti della vita. Non a caso il gentiluomo sottolinea che i beni della casa sono da lui stesso prodotti e conservati, frutto di un lavoro organizzato, semplice e rigoroso, esempio di una vita sobria e misurata: «le mie terre ogni cosa m’è, la Dio mercè, copiosamente somministrata; le quali in quattro parti o specie, che vogliam dirle, ho divise. L’ una parte, e la maggiore, è da me arata e seminata di fromento e di ogn’altra sorte di legumi: l’altra è lasciata a gli alberi ed a le piante, i quali sono necessari o per lo fuoco o per l’uso de le fabriche e de gl’instromenti de le case». Vi sono evidenti analogie tra questo brano e l’episodio di Erminia tra i pastori nel canto VII della Liberata, in cui la principessa viene accolta dopo una fuga disperata dal pastore e dalla sua famiglia che la terranno con loro per un periodo di tempo. Dunque, il breve soggiorno nella “villa” è presentato come una pausa di serenità, un momento di quiete dalle tormentate vicende personali di Tasso, così che il gentiluomo viene idealizzato come espressione di quei valori del mondo classico e del primo Rinascimento, a cui Tasso profondamente aspirava, che invece nel periodo inquieto del tardo Cinquecento e della Controriforma erano ormai tramontanti. Il protagonista del dialogo è presentato come un uomo che sa accontentarsi di poco, che dà valore alle cose significative e trascorre una vita stabile e rassicurante, nel conforto delle gioie familiari, modello che rimanda anche alla Satira III di Ludovico Ariosto (➜ C5 T3 ).
Riferimenti letterari: Virgilio e la cultura classica Il brano è fitto di riferimenti letterari, più o meno espliciti, sintomo del profondo legame dell’autore col mondo classico e del suo radicamento con la cultura dell’Umanesimo. Ricorrono numerosi richiami a Virgilio, e in particolare alle Georgiche (IV, vv. 125 ss.), in margine alla figura del vecchio di Corico, che coltiva il proprio orticello e riempie la tavola di cibi non comperati ma frutto delle proprie fatiche (è un passo che ritroviamo con citazione quasi letterale nel discorso del pastore a Erminia, nella Liberata, VII, 1-22: e questa greggia e l’orticel dispensa / cibi non compri a la mia parca mensa, VII, 10, vv. 7-8). Sempre in margine alla descrizione dell’organizzazione delle proprie terre (campi coltivati a cereali, frutteti, pascoli per l’allevamento del bestiame, apicultura), oltre a Virgilio viene menzionato anche Varrone Reatino, autore nel I sec. a.C. del trattato De re rustica. Occorre precisare che il Tasso, gentiluomo di corte e letterato, aveva conoscenze libresche del mondo agricolo, ovvero solo sulla base delle sue letture e dei suoi studi e non per esperienza personale diretta.
Una concezione patriarcale Un altro tema centrale che emerge nel dialogo è la concezione della famiglia e della donna nell’età del Tasso, idee tipiche di una società patriarcale, in cui l’uomo ha una posizione dominante. Fin dall’inizio del brano si prende in considerazione il governo della famiglia e l’opportunità o meno che i figli si sposino presto. In tal senso, l’autore sostiene la tesi per cui bisognerebbe mettere al mondo figli quando si hanno almeno trent’anni, in modo che essi possano essere sostegno della vecchiaia dei genitori: l’autore si appoggia alla citazione classica di Lucrezio del De rerum natura (IV, 1256), dove l’autore latino afferma che occorre fortificare la vecchiaia con i figli. In tal senso il padre di famiglia sposa un ideale familiare di tipo romano, fondato sull’autorità del pater familias, cui sono sottoposti sia la moglie che i figli. Molto emblematico, in tal senso, il passaggio in cui si descrive la moglie che esita a unirsi alla tavola per non creare imbarazzo all’ospite: «La mia donna, da la vostra presenza ritenuta, aspetta forse d’essere invitata; onde, s’a voi pare, la farò chiamare». Tale motivo verrà ulteriormente sviluppato nel dialogo e costituirà l’elemento centrale del ragionamento, dove si configura un’immagine dell’uomo come depositario delle qualità superiori, spirituali e intellettuali, mentre la donna è considerata «pura cupidità», soggetta agli impulsi passionali e fisici, incapace di controllarsi con la ragione.
646 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Esercitare le competenze comprendere e analizzare
sIntesI 1. Riassumi in 5 righe il contenuto del Dialogo di Tasso, suddividendo il tuo testo in tre sequenze e dando a ognuna un titolo. coMPRensIone 2. Da dove provengono i frutti che il «buon vecchio» offre al viandante? 3. Perché il padrone di casa spiega che non occorre andare in città a prender il cibo per il mantenimento della famiglia? 4. Quale concezione esprime il gentiluomo sull’educazione dei figli? AnAlIsI 5. Sottolinea nel testo i passaggi che fanno riferimento al ruolo della donna in famiglia e illustra quale condizione ella assume in casa. lessIco 6. Ricerca e trascrivi i termini o le espressioni che fanno riferimento ad autori classici, quindi commenta lo stile complessivo del testo che, pur essendo in forma di dialogo, non presenta la colloquiale semplicità di una conversazione.
Interpretare
testI A conFRonto 7. Il tema della vita appartata e semplice, all’insegna del rapporto con la natura e del valore delle cose rustiche e davvero importanti, che danno stabilità e serenità all’uomo, è un tema che troviamo in questo dialogo ma anche nell’episodio di Erminia fra i pastori (Liberata, VII) e nella terza Satira di Ariosto. Metti a confronto questi testi, individuando e commentando analogie e differenze. scRIttuRA ARGoMentAtIVA
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
8. Svolgi una ricerca sul tema della condizione della donna nella società del Medioevo e del Rinascimento. Dopo esserti documentato, sviluppa un testo argomentativo domandandoti se oggi la situazione è cambiata o meno e in che misura.
Epistolario e Dialoghi 4 647
5
La Gerusalemme liberata nel tempo successo e le interpretazioni artistiche 1 Ildella Gerusalemme liberata Un poema di straordinaria popolarità Nonostante le polemiche dei revisori religiosi, la Gerusalemme liberata fu subito apprezzata da un vasto ed eterogeneo pubblico, che anzi mostrò di prediligere proprio gli episodi condannati dai censori controriformisti. Al successo contribuirono vari fattori: la trama avvincente e romanzesca, il fascino dei personaggi, gli amori passionali e contrastati, il pathos drammatico, le situazioni “romantiche” e commoventi, la musicalità dei versi. Molti ne imparavano delle parti a memoria: nel Dictionnaire de musique (Dizionario di musica, 1768) Rousseau racconta che i gondolieri veneziani, mentre remavano, ne intonavano versi; è testimoniato che ancora nell’Ottocento i cantastorie ne declamavano le ottave più celebri nelle piazze di Napoli. Dal libro agli altri codici artistici: le arti figurative Anche le arti figurative testimoniano l’immensa popolarità della Gerusalemme liberata: solo la Divina commedia può esserle paragonata. Tra i motivi della predilezione dei pittori per la Gerusalemme vi è la costruzione visiva delle scene, con un calcolato rapporto tra sfondi e primi piani, tra paesaggio e personaggi; i pittori erano inoltre attratti dalla varietà delle scene da rappresentare, che vanno dagli episodi di guerra, al drammatico duello notturno di Tancredi e Clorinda, allo scenario bucolico della fuga di Erminia tra i pastori, al locus amoenus degli amori di Rinaldo e Armida, allo scenario fantasmagorico della selva incantata. Del resto, lo stesso Tasso pensa di corredare il poema di illustrazioni e, durante la prigionia a sant’Anna, prende contatto con alcuni disegnatori fra i quali Bernardo Castello (1557-1629) autore di disegni che, pubblicati per la prima volta in un’edizione del 1570, sono poi inseriti in diverse altre stampe del poema.
online
Video e Audio Claudio Monteverdi, Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1624)
La fortuna di Tasso in ambito musicale... Anche in campo musicale la Gerusalemme liberata viene considerata un soggetto degno di interesse: in particolare, il Combattimento di Tancredi e Clorinda musicato da Claudio Monteverdi (1567-1643) sulle ottave del Tasso, è considerato un capolavoro pari, secondo il critico musicale Massimo Mila, al testo poetico. Ma è principalmente il personaggio di Armida a costituire un’importante fonte di ispirazione per il melodramma. A loro volta le Rime del Tasso, per la loro melodiosità, sono state musicate da vari compositori.
2 I romantici e Tasso: un rapporto privilegiato I personaggi , la natura, Tasso come personaggio Durante il periodo romantico, l’opera – e ancor più la figura – di Tasso esercitano un grande fascino: i Romantici ammirano particolarmente i personaggi degli amanti infelici che caratterizzano il poema; ma certamente anche la visione della natura come specchio dei sentimenti, che costituisce un elemento tipico della poesia tassiana, è in perfetta sintonia con la
648 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
concezione romantica. Indubbiamente la drammatica vicenda biografica di Tasso colpisce e suggestiona ancora oggi, ed è difficile leggere il poema senza pensare all’autore rinchiuso come pazzo a Sant’Anna. Ma sono soprattutto i Romantici a enfatizzare la vicenda biografica del poeta in rapporto alla loro visione del mondo. L’artista incompreso, tra genio e follia Per i Romantici l’artista è colui che, per i suoi nobili ideali, entra in conflitto con la prosaica società borghese; le passioni, gli eccessi, gli esasperati sentimenti che lo caratterizzano possono farlo considerare folle dalla gente comune e mai come durante il Romanticismo il genio è stato considerato vicino alla follia. La prigionia di Tasso appariva allora proprio come un emblema del conflitto tra il poeta e la società, incapace di coglierne la grandezza: nell’immaginario dell’epoca romantica, Tasso diviene un simbolo del poeta geniale e incompreso (tanto che è scelto come protagonista di molte opere di vario genere: dal teatro, alla poesia, al melodramma). Osserva il critico Giovanni Macchia: «Nessun poeta nella storia della letteratura è stato per tanti decenni esaltato, compianto, difeso quanto lui. Nessun altro poeta è divenuto un personaggio, un grande, mutevole personaggio moderno». L’amante infelice e il poeta perseguitato dal potere Trascurando i sintomi della follia del poeta (in realtà inequivocabili, come dimostrano le lettere da Sant’Anna), i Romantici attribuiscono la carcerazione del poeta a oscure macchinazioni. Lo spunto è tratto dalla prima biografia di Tasso, composta dall’amico Giovan Battista Manso, che lo aveva ospitato dopo la liberazione da Sant’Anna: Manso accenna a un amore segreto di Tasso per una nobildonna della corte ferrarese e suggerisce l’ipotesi che si trattasse di una delle sorelle del duca, Eleonora d’Este (pur senza fornire al proposito alcuna prova convincente). Di lì il passo è breve: i Romantici danno per certo che il poeta, cantore di tanti amori impossibili nella Gerusalemme liberata, sia egli stesso vittima della passione per una donna irraggiungibile, appunto la sorella del duca, e venisse perseguitato per questa ragione dal signore estense; una ricostruzione poco credibile, ma l’esistenza di un amore irrealizzabile completa il ritratto di Tasso come eroe romantico. La fantasiosa vicenda, perciò, entrò costantemente a far parte delle biografie e delle rappresentazioni letterarie della vita di Tasso. Ne è un esempio la tragedia Torquato Tasso di Goethe (1749-1832), pubblicata nel 1790, in cui il poeta online T14 Johann Wolfgang Goethe appare un romantico idealista, una specie di Werther, preda di Tasso eroe romantico, pazzo per amore una passione senza freno e senza limiti per Eleonora e vittima Torquato Tasso, atto IV, scena iv di una corte funestata da intrighi e meschinità (➜ T14 OL). Foscolo e Leopardi: Tasso come alter ego La tendenza a proiettare nella figura di Tasso elementi autobiografici era diffusa tra i Romantici. Già Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, affida al personaggio Jacopo un ritratto di Tasso «melancolico, infermo, indigente», la cui grandezza d’animo non viene riconosciuta, che appare un alter ego del protagonista dell’Ortis e dello stesso autore. Anche Leopardi riconosceva nell’autore della Gerusalemme liberata una sorta di alter ego, un fratello spirituale, tanto che in una lettera da Roma al fratello confessa di aver pianto visitandone il sepolcro. Nella Canzone ad Angelo Maj, del 1820 (➜ VOL. LEOPARDI), Leopardi dedica due strofe (vv. 121-135) al «misero Torquato», presentando il poeta come vittima dell’«immondo / livor privato e de’ tiranni», condotto – nonostante la sua indole calda e appassionata – al gelo dell’anima dalla perdita di ogni illusione. È evidente che Leopardi vede in Torquato un altro sé stesso. Testimonia la predilezione leopardiana per il poeta della Gerusalemme l’aver dato nei Canti alle due adolescenti La Gerusalemme liberata nel tempo 5 649
morte precocemente, simboli di giovinezza stroncata prima di poter fiorire, i nomi di Silvia e di Nerina, gli stessi delle fanciulle dell’Aminta. La stessa poetica «dell’in definito e del vago» trae spunto anche da un attento studio del lessico della Gerusalemme liberata, come documentano molte pagine dello Zibaldone. Il Tasso di Delacroix e Baudelaire L’immedesimazione dei Romantici con Torquato Tasso fu tale che, come ricorda Giovanni Macchia, il poeta inglese Ge orge G. Byron (1788-1824) volle farsi chiudere nella prigione di Sant’Anna per scrivere il suo Lamento del Tasso. Così, nel suo diario e nelle sue lettere, il pittore romantico Eugène Delacroix (1798-1863) esprime la propria compassione per l’infelice poeta e dipinge Tasso in manicomio (1839) con tratti così suggestivi da ispirare a sua volta un sonetto del poeta francese Charles Baudelaire (1821-1867) in cui Tasso diviene un vero e proprio simbolo, rappresentando l’anima «dagli oscuri / sogni», rinchiusa nell’angusta prigione del reale (➜ T15 OL).
Tasso in prigione, Eugène Delacroix, (1839, coll. privata).
online T15 Charles Baudelaire
Tasso in prigione, o l’«Anima... che il Reale soffoca fra i suoi muri» Sul Tasso in prigione di Eugène Delacroix, Relitti, Epigrafi XVI
Fissare i concetti Torquato Tasso 1. Perché la Canzone al Metauro del 1578 può considerarsi una chiave autobiografica del Tasso? 2. Perché la figura del Tasso ha costituito un tema di grande suggestione per la cultura romantica? 3. Quale rapporto ebbe Tasso prima con il cardinale Luigi d’Este e poi con il duca Alfonso II d’Este? 4. In cosa consiste la novità dello sperimentalismo stilistico delle Rime del Tasso? 5. In cosa consiste la vicinanza della favola pastorale Aminta ai madrigali del Tasso? 6. Qual è l’occasione “mondana” della composizione dell’Aminta? 7. In cosa consiste la trama della pastorale Aminta? 8. Quali sono le ragioni dell’intimo conflitto dei due protagonisti della pastorale, Aminta e Silvia? 9. Perché l’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata presentano due opposte visioni del mondo? 10. Quale teoria letteraria, molto precisa e lucida, esprime Tasso nei Discorsi dell’arte poetica, che poi sarà alla base della composizione del poema? 11. In cosa consiste l’irruzione delle forze demoniache sulle dinamiche della guerra crociata e, allo stesso tempo, la presenza del magico e del meraviglioso nella Liberata? 12. Quali caratteristiche presenta l’avventura di Erminia fra i pastori nella Liberata? 13. In cosa consiste il dramma d’amore di Tancredi per Clorinda nella Liberata? 14. Quali caratteristiche ha la storia d’amore di Rinaldo e Armida nella Liberata? 15. Per quale motivo viene usata la categoria critica di “bifrontismo” tassiano per indicare un carattere tipico della Gerusalemme liberata? 16. In cosa consiste la differenza fra il narratore che interviene nell’Orlando furioso rispetto a quello della Gerusalemme liberata? 17. Perché è stata osservata l’abilità di Tasso nella cosiddetta “arte del montaggio”?
650 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
Ludovico Ariosto e Torquato Tasso
CONTESTO E PERSONALITÀ
Ludovico Ariosto
Torquato Tasso
vive e scrive nel periodo di maggior splendore delle corti italiane
vive e scrive nel momento di crisi della civiltà cortigiana
temperamento placido, distaccato e sottilmente ironico
temperamento inquieto e insicuro
profondo e continuo legame con Ferrara e la sua corte
continui spostamenti, lungo tutta la vita, tra città e città, corte e corte, alla ricerca di stabilità e serenità
i punti di riferimento sono Virgilio, Ovidio, Catullo, Dante, Petrarca, i romanzi del ciclo bretone e il Boiardo
i punti di riferimento sono Omero, Aristotele, Virgilio, il teatro tragico del ‘400 e del ‘500, Ariosto e Trissino
centrale, nell’Orlando furioso, è il fantastico, metafora dell’incertezza della vita
centrale, nella Gerusalemme liberata, è il verosimile, la rilettura della storia necessaria per fare emergere verità
il poema serve a intrattenere piacevolmente il pubblico
il poema serve a educare il pubblico
l’Orlando furioso è policentrico e labirintico
la Gerusalemme liberata è unitaria e armonica
POETICA
La Gerusalemme liberata nel tempo 5 651
Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Torquato Tasso
Erminia sotto lo «stellato velo» della notte Gerusalemme liberata VI, 102-106 T. Tasso, Gerusalemme liberata, a c. di L. Caretti, Mondadori, Milano 1983
Erminia ha mandato a Tancredi il suo scudiero per annunciargli l’arrivo di una donna (di cui non svela il nome) che lo ama e vuole curarlo. Eccola mentre sta aspettando ansiosamente il ritorno del messaggero.
102 Ma ella intanto impaziente, a cui troppo ogni indugio par noioso e greve1, numera fra se stessa i passi altrui2 e pensa: «or giunge, or entra, or tornar deve». E già le sembra, e se ne duol, colui men del solito assai spedito e leve3. Spingesi al fine inanti4, e ’n parte ascende onde comincia a discoprir le tende5. 103 Era la notte, e ’l suo stellato velo chiaro spiegava e senza nube alcuna e già spargea rai luminosi e gelo di vive perle la sorgente luna6. L’innamorata donna iva co ’l cielo le sue fiamme sfogando7 ad una ad una, e secretari8 del suo amore antico fea i muti campi e quel silenzio amico. 104 Poi rimirando il campo ella dicea: – O belle a gli occhi miei tende latine9! Aura spira da voi che mi ricrea10 e mi conforta pur che m’avicine11; così a mia vita combattuta e rea qualche onesto riposo il Ciel destine12, come in voi solo il cerco, e solo parmi che trovar pace io possa in mezzo a l’armi13. 1 noioso e greve: angoscioso e insopportabile. 2 numera… altrui: conta fra sé e sé i passi dello scudiero. 3 spedito e leve: veloce e agile. 4 inanti: avanti.
652 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
5 ’n parte… tende: sale in un luogo da cui comincia a vedere (le tende del campo cristiano). 6 spargea rai… luna: già la luna appena sorta spargeva raggi lucenti e freschezza di viva ru-
giada (gelo di vive perle: le gocce di rugiada, illuminate dalla luna, risplendono come perle). 7 iva… sfogando: andava sfogando i suoi sentimenti amorosi (fiamme) con il cielo. 8 secretari: confidenti. 9 O belle… latine: l’aggettivo latine, in rilievo alla fine del verso, in questo caso equivale a “cristiane”. 10 mi ricrea: mi rincuora. 11 mi conforta… avicine: mi invita ad avvicinarmi. 12 così a mia vita… destine: così alla mia vita tormentata e dolorosa (combattuta e rea) il Cielo possa destinare qualche giusta tregua. 13 come in voi… a l’armi: come in voi solo lo cerco (il riposo) e mi sembra che possa trovar pace solo fra le armi.
105 Raccogliete me dunque, e in voi si trove14 quella pietà che mi promise Amore e ch’io già vidi, prigioniera altrove, nel mansueto mio dolce signore15. Né già desio di racquistar mi move co ’l favor vostro il mio regale onore16; quando ciò non avenga, assai felice io mi terrò se ’n voi servir mi lice17. – 106 Così parla costei, che non prevede qual dolente fortuna a lei s’appreste. Ella era in parte ove per dritto fiede l’armi sue terse il bel raggio celeste, sí che da lunge il lampo lor si vede18 co ’l bel candor che le circonda e veste, e la gran tigre ne l’argento impressa fiammeggia sì ch’ognun direbbe: «È dessa19.» 14 si trove: si trovi. 15 prigioniera… signore: Erminia ricorda il tempo in cui era stata prigioniera di Tancredi. 16 Né già… onore: Né mi spinge il desiderio di riacquistare il mio
Comprendere e analizzare
Interpretare
onore di regina col vostro sostegno (dei cristiani). 17 assai felice... lice: mi considererò assai felice se mi sarà concesso di servire voi (nelle tende latine).
18 era in parte… si vede: era in un luogo dove il bel raggio della luna (celeste) colpiva direttamente le sue lucidate armi, cosicché da lontano se ne vede la lucentezza. 19 È dessa: È lei.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Riassumi il contenuto delle ottave in 10 righe. 2. Qual è il motivo dell’impazienza di Erminia? Dove si svolge la vicenda narrata? 3. Per quale ragione l’accampamento nemico è per Erminia il luogo più dolce? 4. Per chi viene scambiata Erminia? Sintetizza in tre righe l’ottava 106. 5. Fai la parafrasi dell’ottava 103. 6. Quale figura retorica presenta il verso «O belle a gli occhi miei tende latine!» (104, 2)? Spiega se, e nel caso in che modo, il ricorso a questa figura retorica sia funzionale al significato. 7. Riconosci i termini e le espressioni (lessico, figure retoriche) che: a. esprimono l’antitesi tra pace e guerra; b. descrivono il dissidio interiore di Erminia. 8. Spiega l’espressione «mansueto mio dolce signore» (105, 4). 9. Spiega il sintagma dolente fortuna (106, 2). 10. Individua i punti in cui sono presenti interventi del narratore: quale funzione svolgono? La vicenda di Erminia presenta alcune analogie con la storia amorosa di Angelica, quando incontra Medoro: quali? Quali differenze, invece, si riscontrano? Svolgi un confronto tra le due eroine, Erminia e Angelica, e prova a mettere in evidenza: a. il diverso temperamento; b. la necessità di fuggire; c. la visione dell’amore. Erminia sembra condannata a vivere la dimensione di profonda solitudine propria di altre eroine tassiane. In un breve scritto (max 15 righe) fai alcune osservazioni in merito, partendo dalla descrizione dei tratti distintivi della solitudine di questo personaggio.
Verso l’esame di Stato
653
Il secondo Cinquecento Torquato Tasso
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
L’esistenza di Torquato Tasso, nato nel 1544 (un anno prima dell’inizio del concilio di Trento) è condizionata, come tutta la cultura italiana del tempo, dalla religiosità controriformistica, che condanna i valori edonistici e mondani in cui si era formato. La sua educazione è infatti raffinata, in quanto perfezionata nelle diverse località in cui si sposta a seguito del padre, gentiluomo di corte: tra esse spiccano Urbino, Venezia e Padova. Come poeta cortigiano, Tasso si pone dal 1565 al servizio degli Estensi, a Ferrara, dove compone i suoi capolavori: l’Aminta, rappresentata nel 1573, e la Gerusalemme liberata. Il poema sulla crociata è terminato verso il 1575: subito il poeta lo sottopone di propria volontà al giudizio di revisori ecclesiastici e accademici, ricevendone anche giudizi sfavorevoli per la scarsa conformità ai dettami controriformistici e per la prevalenza di episodi di contenuto amoroso o incentrati sulla magia rispetto a quelli di ispirazione propriamente religiosa. Quando Torquato, a partire dal 1579, comincia a manifestare disturbi psichici, almeno in parte dovuti alla severità delle critiche rivolte al suo capolavoro, viene rinchiuso nell’ospedale ferrarese di Sant’Anna; qui continua comunque la propria attività letteraria (scrive versi, i Dialoghi e rimaneggia, fino a concludere, una nuova versione della Gerusalemme) mentre una versione più recente del poema è pubblicata e diffusa contro la sua volontà. Liberato dal Sant’Anna nel 1586, preda di gravi disordini mentali e ossessionato da scrupoli religiosi, Tasso intraprende una vita errabonda per l’Italia in cui è spesso ospite di conventi, come quello di Sant’Onofrio a Roma. Qui muore nel 1595, un anno dopo aver pubblicato la Gerusalemme conquistata, la versione del suo poema rivista e resa più conforme all’ortodossia: ma, forse proprio per questo, per giudizio unanime artisticamente inferiore alla Liberata.
2 La lirica, la “favola pastorale”, Aminta e Re Torrismondo
Le Rime: verso il superamento del modello petrarchesco Alla vita cortigiana possono essere ricondotte molte fra le numerose rime di Tasso (più di 1700), dedicate a molteplici temi (l’amore, la vita di corte, la religione) e realizzate tra il 1567 e il 1593. Si tratta di una poesia innovativa sia per la forma delle raccolte (non più organizzate come canzoniere, ma suddivise secondo un criterio tematico) sia per l’intensa musicalità, ottenuta attraverso un frequente uso degli enjambements e mediante l’ideazione di frequenti e complicate metafore (aspetti che rinnovano profondamente il modello petrarchesco); ma anche per le tematiche, tra cui emerge l’amore sensuale. Anche le rime a tema sacro, considerate meno ispirate rispetto a quelle della prima produzione, diventano un modello, nel Seicento, per la poesia religiosa. L’Aminta Alle Rime può essere accostata l’opera teatrale Aminta (1573), favola pastorale di argomento amoroso, i cui personaggi, in particolare i protagonisti Aminta e Silvia, giovani e ingenui, rappresentano la semplicità della vita secondo natura. Nell’opera, in cinque atti, si
654 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
alternano endecasillabi e settenari liberamente rimati, che la avvicinano metricamente ai madrigali e la caratterizzano come un precedente del melodramma. Contenutisticamente, altro elemento comune alla lirica è il prevalere delle parti dedicate all’espressione dei sentimenti su quelle utilizzate per narrare l’azione drammatica. Raccontando l’amore e la crescita di Aminta e Silvia, Tasso introduce numerosi temi. Il principale è quello della natura e dell’amore, fra loro strettamente collegati: il sentimento pervade l’universo e unisce esseri umani ed elementi naturali. Altro tema è il passaggio dall’infanzia all’età adulta, che coinvolge i due personaggi principali e avviene attraverso una difficile iniziazione. Questi due contenuti evidenziano la compresenza, nei due protagonisti, di onore e amore, come emergerà anche nella Gerusalemme liberata. Un altro tema, infine, è quello del tempo: l’azione si svolge in un solo giorno, secondo le indicazioni aristoteliche, ma la prospettiva temporale da cui la guardano i personaggi è molto più ampia. Il Re Torrismondo L’opera (1586) è una cupa tragedia ispirata all’Edipo re di Sofocle che riprende le norme della tragedia classica e racconta il dramma interiore (un conflitto tra opposti tipicamente tassiano) di Torrismondo, principe dei Goti, ambientandolo in un contesto nordico e spettrale.
3 La Gerusalemme liberata
Storia della Gerusalemme liberata Poema epico cristiano in 20 canti, elaborato idealmente da Tasso a partire dall’adolescenza (attraverso l’esperienza della Gierusalemme e del Rinaldo) e fino agli ultimi anni di vita, la Gerusalemme liberata, il suo capolavoro, è un’opera di argomento eroico, che esprime una visione religiosa e controriformistica. Molto diversa, dunque, dal laico e cavalleresco Orlando furioso, con cui spesso viene confrontata e a cui resta comunque legata da altri aspetti, seppur non così significativi. Una prima composizione ha luogo dal 1565 circa al 1575. L’autore ne spedisce alcune parti a revisori scelti per verificare la possibile accoglienza delle autorità ecclesiastiche; viste le severe critiche ricevute, però, Tasso considera necessario un lungo processo di riscrittura, che termina solo nel 1593. Nel frattempo, durante la successiva carcerazione del letterato, alcuni editori stampano senza consenso alcune copie parziali della prima versione; un gruppo di amici dello scrittore, dunque, cura nel 1581 un’edizione più corretta e attendibile, che è ancora alla base di quelle odierne. La Gerusalemme conquistata, risultato in 24 canti della riscrittura nel 1593, è molto diversa dalla Liberata: i pagani e i cristiani sono più nettamente contrapposti; il tema epico-guerresco prevale, mentre lo stile diventa uniformemente alto e solenne; l’opera non è apprezzata, però, dal pubblico, che preferisce continuare a leggere la Gerusalemme liberata. La riflessione teorica sul poema: i Discorsi dell’arte poetica Per comporre la Gerusalemme liberata, Tasso si dedica a molti studi di poetica, sintetizzati nel trattato in tre libri Discorsi dell’arte poetica (poi rielaborati e pubblicati come Discorsi del poema eroico). Per Tasso, la poesia deve tendere anzitutto a un fine educativo e perciò presentare esempi di condotta nobile e virtuosa. A tal fine, il poeta sceglie come argomento una vicenda storica, quindi credibile, ricca di valori morali e religiosi: la riconquista cristiana del Santo Sepolcro nella prima crociata (1096-1099). Consapevole che l’attrattiva di un poema, come aveva mostrato l’Orlando furioso, consista in una varietà che lasci spazio alla fantasia e all’immaginazione, ma deciso ad attenersi per quanto possibile al vero o al verisimile, il poeta teorizza l’intervento nella sua opera del «maraviglioso cristiano», un soprannaturale credibile per i fedeli, grazie a cui gli eventi
Sintesi Il secondo Cinquecento
655
straordinari e miracolosi sono dovuti all’apporto di forze angeliche e divine e, nel campo opposto, di aiutanti demoniaci al fianco degli infedeli. Tasso si focalizza anche sul rapporto tra varietà e unità. Per conciliare l’unità teorizzata da Aristotele con la varietà del Furioso, lo scrittore adotta l’idea neoplatonica del poema come un “picciolo mondo”, armonizzando varietà e unità. Inoltre, l’autore sceglie di utilizzare uno stile alto e sublime, distante dal colloquialismo ariostesco e caratterizzato da scelte lessicali raffinate, figure retoriche, sintassi complessa e legami impliciti tra le frasi, senza nessi logici sempre esplicitati (“parlar disgiunto”). La trama Un intervento divino ispira il capo della spedizione cristiana, il pio Goffredo di Buglione, a ridare slancio ai suoi soldati per conquistare la Città Santa. Tuttavia, durante l’assedio di Gerusalemme, molte tentazioni di natura diabolica distolgono i guerrieri cristiani dal dovere: la maga Armida attira diversi Crociati nel suo castello; il cavaliere ed eroe cristiano Rinaldo, responsabile di un omicidio dovuto a un attacco d’ira, viene cacciato dal campo, mentre il commilitone Tancredi è gravemente ferito in duello. La principessa musulmana Erminia, innamorata di Tancredi, cerca allora di soccorrerlo, senza però riuscirci; e la situazione si complica quando i pagani Argante e Clorinda incendiano la torre d’assedio necessaria per espugnare le mura gierosolimitane: Tancredi, senza riconoscere Clorinda, la affronta in combattimento e la ferisce mortalmente; la consapevolezza di aver ucciso il suo oggetto d’amore lo prostra fino a metterlo fuori gioco. Inoltre, la selva incantata da cui si dovrebbe prendere il legno per costruire una seconda torre d’assedio si rivela infestata da forze demoniache e, per concludere, un’ondata di siccità crea sofferenza e malcontento tra le truppe e verso i comandi. Ma un intervento divino ribalta la situazione: Goffredo, guidato da un sogno profetico, invia guerrieri a liberare Rinaldo dal fascino di Armida. Rinaldo, purificato, vince gli incantesimi della foresta e consente la ricostruzione degli strumenti d’assedio. La storia culmina con l’entrata in Gerusalemme, la liberazione del Santo Sepolcro, l’uccisione di Argante e la conversione di Armida al cristianesimo. I temi e le caratteristiche generali Tema principale dell’opera è il conflitto tra infedeli e cristiani: della lotta è mostrata senza sconti la violenza, secondo un’impostazione, dunque, diversa da quella dell’Orlando furioso. Importante è anche la magia: strumento di cui si servono entrambe le fazioni, può essere bianca o nera a seconda degli scopi che si prefigge chi l’utilizza; essa è realizzazione visibile di un conflitto cosmico tra Bene e Male (rappresentati sulla Terra dalle due fazioni opposte) che continua anche nella coscienza dei Crociati: Tasso, infatti, descrive approfonditamente, e con intuizione assai moderna, l’interiorità perennemente scissa dei personaggi. Principale motivo di peccato e altro fulcro tematico del poema è l’amore, che nell’opera tassiana lega per lo più gli appartenenti ai diversi eserciti: così il crociato Tancredi ama la nemica Clorinda che, senza riconoscere, finirà per uccidere, ed è a sua volta amato da Erminia, figlia del re di Antiochia. Anche Rinaldo, irretito dalle arti magiche e dalla sensualità della maga Armida, trascura le armi e solo in ultimo ritorna al suo dovere di crociato, mosso dall’intervento dei compagni Carlo e Ubaldo, inviati da Goffredo. La guerra santa trova così un triplice campo d’azione: in primo luogo quello propriamente bellico fra i due eserciti nemici; in secondo, il conflitto interiore dei crociati erranti, divisi tra valori rinascimentali, edonistici e valori controriformistici, religiosi; infine lo scontro cosmico tra le forze di Dio e quelle di Satana, originalmente presentato da Tasso come campione di libertà eroica. L’attrazione presente tra avversari ha sempre suscitato interrogativi, che inevitabilmente hanno condotto a chiedersi cosa rappresentino le due schiere nel sistema simbolico del
656 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
poema e chi siano gli “infedeli” secondo Tasso. Alla ricerca di una spiegazione, alcuni critici hanno introdotto il concetto di “bifrontismo spirituale”, evidenziando una permanente ambivalenza valoriale del poema; si è suggerito che dietro all’opposizione tra musulmani e cristiani non ci sia solo un conflitto ideologico, ma un contrasto interno alla cultura del tempo di Tasso. Questo conflitto riflette la lotta tra il codice culturale rinascimentale e i principi controriformistici, rendendo il poema un campo di tensioni tra valori opposti. La medesima opposizione si riscontra in Tasso stesso, che è deciso a proporre i valori controriformistici ma vive un’opposta attrazione per i valori considerati “devianti”, dimostrata dalla riuscita della loro rappresentazione artistica nel poema. Le modalità narrative In effetti l’autore mostra una certa simpatia per gli “infedeli”, di cui adotta spesso il punto di vista, anche aderendo in modo non troppo nascosto ai loro valori. Gli avversari non sono semplici esponenti della cultura musulmana, ma incarnazione di valori rinascimentali, opposti al mondo monolitico e gerarchico dei Crociati. Addirittura anche Lucifero viene presentato con tratti nobili ed eroici. Nel campo cristiano, al contrario, emerge un contrasto tra il rispetto del dovere e le deviazioni da esso, con Goffredo unico modello di eroe controriformistico. Tuttavia, proprio costui risulta, al gusto dei lettori, scialbo artisticamente rispetto ai personaggi “erranti” come Tancredi e Rinaldo, che rappresentano la difficoltà a bilanciare l’attrazione esercitata dai valori cavallereschi e il rispetto di quelli della fede. Questo scenario è reso magistralmente da Tasso curando, con particolare sensibilità, la resa del lato psicologico dei personaggi, innovativa rispetto allo stile dei predecessori. Dal punto di vista narrativo, nella Gerusalemme liberata il narratore non si serve delle ironiche riflessioni ariostesche ma, al contrario, intensifica il pathos per coinvolgere emotivamente il lettore, riflettendosi e volendo far immedesimare nei sentimenti dei personaggi senza distinzioni tra cristiani e musulmani. La focalizzazione si alterna tra i due schieramenti, anche nell’episodio culmine della presa di Gerusalemme: un accadimento particolarmente partecipato dai protagonisti della storia e che evidentemente simboleggia il crollo irreversibile degli ottimistici ideali rinascimentali. Per quanto riguarda il modello spaziale, la Gerusalemme liberata è un “poema del Cosmo”, in quanto capace di ambientare l’azione sia su una dimensione “orizzontale” sia su quella “verticale”, offrendo quindi un’immagine completa del mondo ed evidenziando simbolicamente un conflitto che attraversa tutte le realtà. Lo spazio orizzontale rappresenta l’allontanamento da Gerusalemme, simbolo del dovere e dell’onore; il ritorno al “centro” implica anche un percorso “verticale”, ispirato ai valori religiosi e collegato al “maraviglioso cristiano”, con le sue scene grandiose anticipatrici del Barocco. Il fascino della Gerusalemme liberata è legato anche al contrasto tra elementi opposti, connessi con un esercizio di montaggio di stile quasi cinematografico. Scene epiche si alternano a situazioni patetiche e sentimentali, creando un effetto chiaroscurale. A ciò si accompagna una resa innovativa del paesaggio, che risulta sempre correlato agli stati d’animo dei personaggi. Il poema è principalmente notturno, con episodi drammatici che si svolgono tra le tenebre, illuminati da rare luci, richiamando la pittura manieristica. Ma anche le scene diurne presentano un significato simbolico: l’associazione tra alba e rinascita spirituale, ad esempio, è evidente. Le scelte stilistiche e metriche La varietà e l’unità, che sottolineano i tormenti di Tasso e del suo tempo, si rilevano anche nello stile. Il poeta si muove tra diversi generi letterari, fondendo poema cavalleresco, rinascimentale ed epico, dando comunque spazio a momenti lirici negli episodi patetici e amorosi e a episodi riconducibili al genere tragico.
Sintesi Il secondo Cinquecento
657
Seguendo il principio classicistico della congruenza dello stile all’argomento, Tasso adotta per le scene epiche ed “eroiche” uno stile elevato e “magnifico”, evidenziato da uno studiato rallentamento del discorso. Questo effetto è prodotto soprattutto da quello che il poeta definisce «parlar disgiunto»: una disposizione degli elementi del discorso diversa da quella abituale, con inversioni e spezzature di coppie sintagmatiche. Il lessico è selezionato all’interno di un registro elevato. In rapporto, poi, alle diverse situazioni rappresentate, si alternano differenti modalità stilistiche, da quella epica a quella lirica. Alle due tipologie stilistiche corrispondono differenti scelte lessicali. Al versante epico si possono ricondurre i termini tecnici riferiti alla guerra e gli aggettivi che suggeriscono idee di magnificenza. Il versante lirico si traduce invece in un lessico “interiore”, costituito di termini riferiti ai sentimenti, capace di suscitare un profondo coinvolgimento con il lettore. L’ordito stilistico è cadenzato da frequenti enjambements, che ne variano il ritmo, accrescono la grandiosità delle immagini epiche ed evidenziano il sentimento delle sezioni liriche; ma gli effetti stilistici sono informati alla varietà.
4 Epistolario e Dialoghi
L’epistolario Tasso scrive circa 1700 lettere, che forniscono molti elementi autobiografici (la sua vita tormentata, il suo rapporto con la corte, la sofferenza psichica, le sue idee sulla letteratura) anche se filtrati da modelli illustri ed elaborati con un sapiente uso della retorica. I Dialoghi Durante la prigionia, Tasso elabora 28 raffinati dialoghi in prosa (1578-1594), componimenti tra poesia e filosofia che avevano come modello i dialoghi di Platone e contenuti morali, filosofici, civili, ma anche autobiografici. I più celebri sono Il messaggero e Il padre di famiglia (una tra le più interessanti opere tassiane: profondamente simbolica e testimone della necessità dell’autore di trovare un rifugio sicuro, ma anche un ritratto del perfetto uomo di corte e intellettuale rinascimentale).
5 La Gerusalemme liberata nel tempo
Il successo e le interpretazioni artistiche della Gerusalemme liberata La Gerusalemme liberata fu subito apprezzata da un vasto pubblico, che anzi mostrò di prediligere proprio gli episodi condannati dai censori controriformisti. Anche nelle arti figurative gli artisti predilessero l’opera su tutte (insieme alla Commedia), grazie alla varietà e alla costruzione visiva delle scene. Il lavoro suscitò enorme interesse pure in campo musicale: il Combattimento di Tancredi e Clorinda musicato da Claudio Monteverdi (1567-1643) è considerato un capolavoro pari al testo poetico e il personaggio di Armida è stato fonte di ispirazione per il melodramma. A loro volta le Rime del Tasso sono state musicate da vari compositori. I romantici e Tasso: un rapporto privilegiato Durante il periodo romantico, l’opera – e ancor più la figura – di Tasso esercitano un grande fascino: i personaggi degli amanti infelici e la visione della natura come specchio dei sentimenti richiamano infatti alcuni aspetti dell’ideologia romantica, così come fa anche la suggestiva biografia tassiana. La prigionia dell’autore, in particolare, rievoca il conflitto tra il poeta e la società (e in generale quello tra genio e idee borghesi): nell’immaginario dell’epoca, Tasso diviene quindi
658 Il secondo Cinquecento 10 Torquato Tasso
un simbolo del poeta geniale e incompreso. I Romantici ne attribuiscono la carcerazione a oscure macchinazioni, in quanto vittima della passione per una donna irraggiungibile (la sorella del duca estense): da tale fantasiosa ricostruzione si sviluppa la consacrazione di Tasso come eroe romantico, che si ritrova ancora, ad esempio, nel Foscolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Ma è soprattutto Leopardi a riconoscervi una sorta di alter ego, un fratello spirituale; una guida capace, tra l’altro, di ispirargli la poetica «dell’indefinito e del vago», che trae spunto anche da un attento studio del lessico della Gerusalemme liberata.
Zona Competenze Scrittura creativa
1. Immagina un dialogo tra Ariosto e Tasso in cui ciascuno presenti sé stesso, il contesto a cui appartiene, il proprio pensiero, il sistema di valori; metti soprattutto in evidenza le possibili differenze e analogie. 2. Presenta in chiave moderna una tua personale riscrittura della vicenda di Erminia, inserendola in un contesto narrativo contemporaneo. 3. Prova a riscrivere in prosa l’episodio di Tancredi e Clorinda o un altro episodio della Gerusalemme liberata a tua scelta, in cui sia introdotto qualche mutamento rispetto alla narrazione tassiana.
Intervista
4. Immagina di far parte della redazione delle pagine culturali di una rivista. Devi realizzare un’intervista immaginaria con il poeta Torquato Tasso su queste tematiche: · rapporto tra intellettuale e potere (politico e religioso); · analogie e differenze con l’opera di Ariosto; · verisimile e maraviglioso; · le figure femminili e la rappresentazione dell’amore; · il fascino del magico; · il conflitto tra cristiani e pagani.
Recensione
5. Dopo aver ascoltato Il combattimento di Tancredi e Clorinda (OL), uno dei Madrigali del musicista Claudio Monteverdi (1567-1643), scrivi una recensione da pubblicare su un blog di musica classica, cercando di evidenziare i rapporti tra la musica ed il testo scritto.
Competenza 6. Scegli un’applicazione nel web e rendi interattivo un quadro che ti appaia adatto a digitale esprimere un episodio della Gerusalemme da te scelto.
Sintesi Il secondo Cinquecento
659
Indice dei nomi A Agostino (sant’), 346 Agrippa, Heinrich Cornelius, 119 Alberti, Leon Battista, 30, 38, 40, 41, 44, 56, 80, 87, 113, 352, 353, 448, 449 Alessandro VI, papa, 400, 431, 544 Alfieri, Vittorio, 464 Alighieri, Dante, 30, 69, 72, 99, 156, 241, 260, 261, 398, 414, 561, 562 Almansi, Guido, 260 Altieri Biagi, Maria Luisa, 373 Ambrogini, Angelo, 98 Anselmi, Gian Mario, 509 Antonello da Messina, 78 Archimede, 63 Aretino, Pietro, 51, 67, 73, 78, 131, 133, 134, 373, 382, 383, 392, 394 Ariosto, Galasso, 240 Ariosto, Ludovico, 29, 45, 51, 67, 72, 78, 196, 202, 204, 224, 228-344, 349, 365, 369, 374, 394, 518, 560 Ariosto, Nicolò, 230 Ariosto, Virginio, 233, 240, 254 Aristotele, 23, 59, 71, 89, 93, 338, 369, 511, 555, 559, 560, 573 Asor Rosa, Alberto, 174, 519 Augusto, 51
B Bachtin, Michail, 144, 347 Bacone, Francesco, 462 Bandello, Matteo, 68, 173, 174, 175, 178, 180, 181, 185 Battisti, Eugenio, 130 Belo, Francesco, 372 Bembo, Carlo, 72 Bembo, Pietro, 23, 45, 51, 66, 68, 70, 71, 72, 75, 90, 91, 98, 113, 117, 118, 119, 130, 131, 133, 151, 153, 154, 155, 171, 224, 232, 235, 240, 254, 265, 342, 372, 385, 418, 475, 510, 553 Benucci, Alessandra, 235, 235, 341 Beolco, Angelo vedi Ruzante Berni, Francesco, 91, 131, 156, 172, 475 Bibbiena, Bernardo Dovizi da, 66, 117, 365, 371, 372, 374, 394, 478 Boccaccio, Giovanni, 23, 71, 72, 173, 174, 175, 178, 193, 196, 257, 266, 373, 398, 448, 477, 561, 562 Boiardo, Matteo Maria, 45, 67, 69, 71, 116, 154, 195, 198, 199, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 224, 226, 235, 252, 253, 262, 264, 266, 574 Bologna, Corrado, 241, 253, 296 Borgia, Cesare, detto il duca Valentino, 121, 399, 400, 431 Borgia, famiglia, 463 Borgia, Lucrezia, 119 Borsellino, Nino, 130 Bosch, Hieronymus, 346 Botero, Giovanni, 463, 551, 560 Botticelli, Sandro, 31, 59, 100, 101 Bozzetti, Cesare, 235 Bracciolini, Poggio, 30, 31, 34, 174, 176, 474
660
Brahe, Tycho, 42 Brunelleschi, Filippo, 30, 40, 80, 174 Bruni, Leonardo, 31, 55, 474, 511 Bruscagli, Riccardo, 203 Buonarroti, Michelangelo, 50, 52, 68, 121, 155, 156, 166, 171, 556, 565, 566, 567 Burchiello (Domenico di Giovanni), 156, 172, 199 Burke, Peter, 48, 120
C Cabani, Maria Cristina, 263 Calvino, Italo, 254, 287, 334, 335 Canestrini, Giuseppe, 530 Capella, Galeazzo Flavio, 119 Caprara, Antonia, 202 Carandini, Silvia, 367 Caretti, Lanfranco, 250, 252, 254, 262, 264, 340, 583, 612 Carlo Magno, 197, 200, 204, 252, 254, 256 Carlo V d’Asburgo, imperatore, 26, 116, 118, 133, 166, 357, 505, 565, 572 Carlo VIII, re, 25, 202, 236, 411, 416, 507 Carpaccio, Vittore, 78 Castiglione, Baldesar, 45, 51, 66, 70, 88, 91, 116, 117, 118, 121, 130, 131 Caterina da Siena, santa, 346 Catullo, 29, 235 Cellini, Benvenuto, 68, 91, 131, 132, 152 Cervantes, Miguel de, 118, 338, 361, 362 Ceserani, Remo, 463 Chabod, Federico, 451, 465 Chrétien de Troyes, 349, 350 Cicerone, 38, 43, 56, 66, 74, 415 Clemente VII, papa, 131, 240, 402, 474, 505, 506, 509 Colombo, Cristoforo, 26, 41 Colonna, Egidio, 414 Colonna, Fabrizio, 473 Colonna, famiglia, 48 Colonna, Vittoria, 165, 166, 172 Contini, Gianfranco, 265 Copernico, Niccolò, 42, 87, 554, 555 Cornaro, Alvise, 384 Cornaro, Caterina, 114, 119 Cromwell, Thomas, 118 Cutinelli-Rendina, Emanuele, 415
D Dante vedi Alighieri, Dante Davico Bonino, Guido, 237, 478, 480 Debenedetti, Giacomo, 240 Della Casa, Giovanni, 66, 91, 119, 120, 151, 153, 155, 156, 171, 175, 577 Della Rovere, famiglia, 116, 581 Della Rovere, Francesco Maria, 372 Della Rovere, Guidobaldo II, 573 De Sanctis, Francesco, 339, 340, 464, 479, 530 Diderot, Denis, 464 di Tarsia, Galeazzo, 155, 156 Doglio, Federico, 383 Domenichi, Ludovico, 119 Dürer, Albrecht, 450
E Enrico IV, re, 361 Epicuro, 29, 43 Erasmo da Rotterdam, 55, 71, 143, 261, 352, 357, 358, 361, 364, 517, 562 Ermete Trismegisto, 59 Erspamer, Francesco, 166 Esopo, 241 Este, Alfonso I d’, 231, 232, 253 Este, Alfonso II d’, 574, 575, 576 Este, Beatrice d’, 119 Este, Ercole I d’, 121, 230, 231, 369 Este, Ippolito d’, 231, 233, 240, 253, 341 Este, Isabella d’, 79, 119, 121, 253, 257 Estensi (d’Este), famiglia, 24, 199, 201, 204, 226, 230, 231, 233, 236, 253 Euripide, 99, 383, 582
F Federico d’Aragona, 109 Fedro, 241 Ferroni, Giulio, 137, 166, 457 Ficino, Marsilio, 23, 31, 49, 50, 56, 57, 59, 60, 94, 98, 101, 199, 547 Florimonte, Galeazzo, 119 Folengo, Teofilo, 91, 131, 135, 136, 137, 142, 152 Foscolo, Ugo, 464 Francesco d’Assisi, san, 346 François de La Rochefoucauld, 517 Francesco I, re, 133, 180, 565 Franco, Veronica, 165 Fregoso, Federico, 72, 117
G Galilei, Galileo, 42, 63, 338, 415, 554 Gambara, Veronica, 119, 165 Garin, Eugenio, 441 Genga, Gerolamo, 373 Gensfleisch, Johannes vedi Gutenberg, Johann Gentillet, Innocent, 463 Getto, Giovanni, 263 Gilbert, Felix, 465 Gioberti, Vincenzo, 415 Giorgione (Giorgio da Castelfranco), 257 Giovenale, 239 Giulio II, papa, 232 Goffredo di Buglione, 608, 609 Gonzaga, Elisabetta, 119 Gonzaga, famiglia, 24, 52, 83, 116, 150, 180 Gonzaga, Francesco (cardinale), 98, 102, 121, 253, 370 Gonzaga, Guglielmo, 574 Gonzaga, Ludovico II, 82, 83 Gonzaga, Margherita, 575 Gonzaga, Scipione, 574, 576 Gonzaga, Vincenzo, 576 Gramsci, Antonio, 462, 464 Guarini, Battista, 121, 560, 574 Guarino Veronese (Guarino de’ Guarini), 55, 121, 231 Guicciardini, Francesco, 45, 251, 401, 402, 449, 468, 474, 492, 502-538 Gutenberg, Johann, 35, 71, 76
H Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 462, 465 Hobbes, Thomas, 588
I Inglese, Giorgio, 415, 418 Innocenzo III, 32 Ippocrate, 64
J Jacopone da Todi (Jacopo de Benedetti), 346, 366 Johnson, Ben, 464
K
Montaigne, Michel de, 42, 55, 118, 547, 517, 551 Montefeltro, Federico di, 52, 81 Moro, Tommaso, 357 Morra, Isabella di, 165, 170 Mussolini, Benito, 462
N Niccoli, Niccolò, 50 Niccolò V, papa, 50 Nietzsche, Friedrich, 517
O Omero, 383 Orazio, 29, 71, 93, 201, 235, 239, 241 Orsini, famiglia, 48 Ovidio, 71, 93, 99, 102, 202, 582
Keplero, Giovanni, 42, 554
L Landino, Cristoforo, 59 Lascaris, Costantino, 72 Leonardo da Vinci, 49, 63, 64, 84, 85, 89, 116, 174, 193 Leone X, papa, 72, 232, 233, 240, 400, 410, 431 Leopardi, Giacomo, 156, 339, 554, 605, 664 Leto, Pomponio, 50 Levi, Primo, 143 Livio, Tito, 398, 401, 466, 468, 511 Lodovico il Moro, 63 Luciano di Samosata, 353 Lucrezio, 34, 398 Ludovico da Bagno, 240 Luigi XII, re, 399 Luigi XIII, re, 109 Lutero, Martin, 27, 28, 357, 565
M Machiavelli, Niccolò, 31, 44, 66, 70, 71, 78, 121, 174, 179, 261, 339, 357, 365, 372, 382, 394, 396-501, 503, 505, 506, 508, 509, 518, 544, 551, 562 Maier, Bruno, 463 Manetti, Giannozzo, 30 Mantegna, Andrea, 54, 82, 121, 231 Manuzio, Aldo, 32, 49, 50, 71, 72, 76, 78, 113, 118, 121, 154, 171, 357, 559 Marlowe, Christopher, 464 Marx, Karl, 462 Massimiliano I d’Asburgo, 399 Mecenate, 51 Medici, Cosimo de’, 50, 506 Medici, famiglia, 23, 24, 31, 50, 59, 132, 199, 200, 400, 401, 402, 416, 417, 473, 474, 505, 506, 547 Medici, Giovanni de’, vedi Leone X, papa Medici, Giuliano de’ (figlio di Lorenzo il Magnifico), 72 Medici, Giuliano de’ (fratello di Lorenzo il Magnifico), 98, 99, 117, 410 Medici, Giulio de’, vedi Clemente VII, papa Medici, Lorenzo de’ (detto il Magnifico), 25, 50, 59, 72, 94, 98, 199, 410, 509 Medici, Lorenzo de’ (nipote del Magnifico), 410 Medici, Piero de’, 94 Michelangelo, vedi Buonarroti, Michelangelo
P Palladio, Andrea, 374 Panofsky, Erwin, 40, 81 Paolo III, papa, 131, 509 Paolo IV, papa, 462, 562, 573 Paolo, san, 358 Pascal, Blaise, 517, 554 Patrizi, Giorgio, 118 Pazzi, famiglia, 94, 98, 99 Pellegrino da Udine, 374 Perugino, Pietro, 121 Peruzzi, Baldassarre, 374 Petrarca, Francesco, 23, 28, 34, 38, 43, 51, 68, 69, 71, 72, 79, 89, 99, 153, 154, 155, 156, 165, 202, 235, 237, 398, 402, 561 Petruccelli, Tommaso vedi Niccolò V, papa Piccolomini, Alessandro, 119 Piccolomini, Enea Silvio vedi Pio II, papa Pico della Mirandola, 50, 59, 71, 98, 101, 116, 547 Piero della Francesca, 52, 81, 231 Pio II, papa, 41, 51 Pirandello, Luigi, 361, 554 Pistofilo, Bonaventura, 240 Platone, 49, 56, 59, 60, 66, 71, 396, 413 Plauto, 66, 179, 235, 368, 369, 371, 373, 475 Plutarco, 398 Pole, Reginald, 462 Polibio, 467 Poliziano, Angelo, 30, 50, 51, 59, 67, 69, 91, 93, 98, 99, 100, 101, 102, 174, 199, 370 Pontano, Giovanni, 109, 414, 448 Praloran, Marco, 262 Properzio, 121, 201, 235 Pulci, Luigi, 135, 142, 195, 198, 199, 200, 201, 224, 226, 266
Q Quintiliano, 34
R Rabelais, François, 142, 143, 144, 347, 562 Raffaello, vedi Sanzio, Raffaello Raimondi, Ezio, 477 Rajna, Pio, 262 Ronconi, Luca, 297 Rossellino, Bernardo, 41
Rousseau, Jean-Jacques, 464, 588 Rucellai, famiglia, 401, 492 Ruzante, Angelo Beolco detto, 67, 110, 131, 365, 383, 384, 385, 386
S Sallustio, 511 Salutati, Coluccio, 31, 58 Salviati, Leonardo, 561, Sanguineti, Edoardo, 297, 298 Sannazaro, Jacopo, 67, 69, 91, 109, 154, 384, 560 Sanseverino, Roberto, 199 Sanzio, Raffaello, 130, 257, 372, 556, 565 Sasso, Gennaro, 490 Savonarola, Girolamo, 398, 401 Scipioni, famiglia, 43 Segre, Cesare, 265, 349 Seneca, 99, 370, 560 Sforza, famiglia, 24, 180 Shakespeare, William, 68, 174, 178, 180, 185, 348, 361, 362, 464, 554 Socrate, 57 Soderini, Pier, 400, 401, 507 Spinoza, Baruch, 462 Stampa, Gaspara, 165, 166, 172 Strozzi, Ercole, 72
T Tacito, 398, 511 Tasso, Torquato, 45, 195, 196, 224, 227, 338, 370, 557, 560, 570-659 Teocrito, 109, 370, 582 Terenzio, 66, 235, 368, 369, 371, 373, 475, 477 Tiziano, Vecellio, 85, 257, 300 Tolomeo, 240 Tommaso d’Aquino, san, 346, 357, 414, 555 Tornabuoni, Lucrezia, 94, 200 Trissino, Gian Giorgio, 560 Tucidide, 398
V Valentino, duca vedi Borgia, Cesare Valla, Lorenzo, 29, 33, 36, 37, 43, 69, 109 Vasari, Giorgio, 52, 68, 80, 374, 401, 556, 565 Verga, Giovanni, 385 Vettori, Francesco, 78, 400, 401, 402, 410, 492 Villani, Giovanni, 511 Virgilio, 67, 71, 93, 99, 102, 109, 121, 370, 384, 582 Vitruvio, 34, 369, 374 Vittorino da Feltre, 30, 55 Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet), 339, 464
W Warburg, Aby, 100 Wind, Edgar, 100
Z Zancan, Marina, 165 Zanette, Emilio, 232 Zorzi, Ludovico, 385
indice dei nomi
661
Glossario
Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi).
A
Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, all’inizio di un verso o di una sua parte, eccedente la normale misura metrica.
Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine.
Anadiplòsi Figura retorica che consiste
Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”)
La formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri).
Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”. Agnizione Riconoscimento (special-
mente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio.
Alessandrino Verso della tradizione poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese). Allegoria Figura retorica tramite la qua-
le il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo.
Allitterazione Figura retorica che con-
siste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive. Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII).
Anàfora Ripetizione di una o più parole
proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indicare Dante, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne.
Antropomorfismo Tendenza ad as-
segnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie.
all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3).
Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”.
Analessi (anche ➜ flashback) In nar-
Apografo Manoscritto che è copia di-
ratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi.
Apologo Racconto allegorico di gusto favolistico e con fini didattico-morali.
Analogia Procedimento stilistico che
Apostrofe Consiste nel rivolgersi di-
istituisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee semanticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti).
Anàstrofe (o inversione) Figura reto-
rica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate, / venite a noi parlar» (If V 80-81); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11).
Anfibologìa Espressione che può pre-
starsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semantico o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola).
Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia in-
Allocuzione ➜ Apostrofe
tendere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra).
Anacoluto Costrutto in cui la seconda
Antonimìa Figura retorica che con-
parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI).
662
nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66).
Antonomàsia Sostituzione del nome
siste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134).
retta di un testo originale.
rettamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76).
Asindeto Forma di coordinazione rea-
lizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso).
Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt). Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco. Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica). Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime. Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.
B Ballata Forma metrica, destinata in origine al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedu-
te da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari.
Bestiario Trattato medievale in cui ve-
Catarsi Secondo Aristotele, la libera-
zione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni.
nivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici.
Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso.
Bildungsroman ➜ Romanzo di for-
Chiasmo Figura retorica che consiste
mazione
Bisticcio ➜ Paronomasia Bozzetto Racconto breve che rappre-
senta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana.
Bucolica ➜ Egloga
C Campo semantico Insieme delle parole i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base. Canone L’insieme degli autori e delle
opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Pertanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via.
Cantare Poema composto per lo più in ➜ ottave, di materia epico-cavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV.
Canzone Forma metrica caratterizzata
dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa.
Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in ➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di
Petrarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comico-satirici.
nel contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134).
Chiave (o concatenatio) In una ➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una
rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico.
Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato se-
condario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo.
Consonanza Sorta di rima in cui si ri-
petono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa.
Contaminazione Nella critica testua-
le l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria.
un periodo.
Contrasto Componimento poetico che rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva.
Climax Enumerazione di termini dal
Coppia sinonimica (o dittologia sino-
Chiosa ➜ Glossa Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di
significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera).
Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le
coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva.
Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente. Collazione Confronto sistematico dei ➜ testimoni di un testo, allo scopo
di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione.
Commiato ➜ Canzone Concordanze Repertori alfabetici di
tutte le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono.
nimica) Coppia di parole dal significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo.
Corpus L’insieme delle opere di un sin-
golo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema.
Correlativo oggettivo Concetto poe-
tico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza necessitare di alcun commento da parte del poeta.
Cronòtopo Il termine, introdotto nella critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spazio-temporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto. Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo
armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).
Glossario
663
D Dedicatoria Lettera o epigrafe ante-
posta a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata.
Deittico Elemento linguistico che indi-
ca la collocazione spazio-temporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani).
ponimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico.
Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”. Elzeviro Articolo di fondo della pagina
mario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione.
culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo).
Deverbale Sostantivo ricavato da un verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”.
Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla ➜ cesura.
Diacronia Indica la valutazione dei
Enclisi Fenomeno linguistico per cui
Denotazione Indica il significato pri-
fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia).
Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali
consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74).
Diegesi Modalità di racconto narrativo
indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi).
Dieresi In metrica ➜ iato tra due vo-
cali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13).
Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi. Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica
E Edizione critica (lat. editio) Edizione che si propone di presentare un testo nella forma più possibile conforme alla volontà ultima dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa. Egloga Nella letteratura classica com-
ponimento poetico di argomento bucolico-pastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale.
664
Elegia Nella letteratura classica com-
una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami.
Endecasillabo È il verso di undici silla-
be, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non vengono raggruppati in strofe e non sono rimati.
Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77).
gia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141).
Epanadiplòsi Figura retorica che con-
siste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria).
Epanalèssi (o geminatio) Figura retori-
ca che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10).
Epifonema Sentenza o esclamazione che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale» (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143). Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che
consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75).
Epigramma Breve componimento in versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale. Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi
alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58).
Epiteto Sostantivo, aggettivo o locu-
zione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce.
Enjambement (o inarcatura) Procedimento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito).
Epìtome Riassunto, compendio di un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico.
Entrelacement È la tecnica di costru-
Etimologia Disciplina che studia l’ori-
zione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes.
Enumerazione Figura retorica che consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e man-
Esegesi Interpretazione critica di un testo.
gine e la storia delle parole.
Eufemismo Figura retorica che consi-
ste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo religioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”.
Excursus (o digressione) Divagazione
dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di
temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale.
Exemplum Breve racconto a scopo didattico-religioso.
F Fabula La successione logico-tempora-
le degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio.
Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento.
Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio). Filologia (dal greco “amore della pa-
rola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale.
Flashback ➜ Analessi Flusso di coscienza Tecnica narrativa
caratteristica del romanzo del Novecento, dall’inglese stream of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore.
Fonema La più piccola unità di suono
che, da sola o con altre, ha la capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”.
Fonetica Indica sia la branca della lin-
guistica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua.
Fonosimbolismo Espediente stilisticoretorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea. Fonte Ogni tipo di documento o testo
dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera.
Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in
cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.
G Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi
Glossa Annotazione esplicativa o interpretativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe.
Gradazione ➜ Climax Grado zero In senso generale, indica il livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.
H Hàpax legòmenon (dal greco “detto una sola volta”) Indica una parola che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore.
Hýsteron pròteron Figura retorica per cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).
Intreccio La successione degli eventi così come sono presentati dall’autore e non necessariamente seguendo l’ordine logico-temporale (come la ➜ fabula). Inversione ➜ Anastrofe Ipàllage Figura retorica che consiste
nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diverso da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”.
Ipèrbato Figura retorica che consiste
nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iperbato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro).
Iperbole Figura retorica che consiste
nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”.
Ipèrmetro Verso con un numero ec-
cessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro.
I
Ipòmetro ➜ Ipermetro
Iato Fenomeno per cui due voca-
Ipotassi Costruzione del periodo fon-
li contigue non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: pa-ese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe.
Ictus ➜ Accento ritmico Idillio Presso i greci, breve componimento, di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri.
Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua.
Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro.
Inquadramento ➜ Epanadiplosi
Ipostasi ➜ Personificazione data sulla subordinazione di una o più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi.
Ipotipòsi Figura retorica che consiste nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66). Iterazione Ripetizione di una o più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.
K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.
Glossario
665
L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo.
Lassa Strofa caratteristica degli antichi poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi.
Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera.
Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia.
procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa riflette su sé stessa.
Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa.
Metaromanzo Romanzo che riflet-
te sull’operazione stessa dello scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo.
parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile.
Metateatro Testo in cui la finzione drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”.
Litote Figura retorica che consiste
Metàtesi Spostamento di fonemi all’in-
Lessema Il minimo elemento linguistico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni.
Lezione (lat. lectio) La forma in cui una
nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”.
Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.
M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista. Martelliano ➜ Alessandrino Memorialistica Genere letterario di carattere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume.
Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”.
666
Metanarrativo Aggettivo riferito ai
terno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”.
Metonìmia Figura retorica che consiste
nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”.
Mimesi Secondo la concezione estetica
classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica, volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi.
Monologo interiore Rappresentazio-
ne dei pensieri di un personaggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.
N Neologismo Parola introdotta di recente nella lingua, oppure nuova accezione di un vocabolo già esistente.
Nominale (stile nominale) Particolare
organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.
O Omofonia Indica l’identità di suono tra
parole differenti.
Onomatopea Figura d’imitazione vol-
ta a imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera).
Ossimoro Figura retorica che consiste
nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio).
Ottava Strofa di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.
P Palinodia Componimento poetico che
ritratta opinioni espresse in precedenza.
Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi. Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron). Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintattico-grammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc. Paratassi Costruzione del periodo fon-
data sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi.
Parodia Imitazione di un autore, di un
testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico.
Paronomàsia (o bisticcio o annomi-
nazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata).
Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia.
Perifrasi Figura retorica che consiste
nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte.
Personificazione (o prosopopea) Fi-
gura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare animali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata).
Piede Nella metrica classica la più pic-
cola unità ritmica di un verso, formata da due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone.
Pleonasmo Elemento linguistico su-
perfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi).
Plurilinguismo L’uso in un testo let-
terario di diversi registri linguistici ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda.
Pluristilismo La compresenza in un testo letterario di diversi livelli di stile.
Poliptòto Figura retorica che consiste
nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25).
Polisemia La compresenza di due o
più significati all’interno di una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.).
Polisindeto Forma di coordinazione realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o
selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso).
Prolessi Anticipazione di un elemen-
to del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze).
Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in
cui l’autore espone l’argomento dell’opera.
Q Quartina È la strofa composta di quat-
tro versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.
R Rapportatio Tecnica compositiva arti-
ficiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali.
Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere,
il livello espressivo proprio di una particolare situazione comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere.
Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste
nel troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi).
Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore. Ripresa ➜ Ballata
Romanzo di formazione Romanzo
nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità.
Rubrica Nei codici medievali il breve
riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.
S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fit-
tizio con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca.
Sestina Componimento lirico con sei strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca. Settenario È il verso composto da
sette sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata.
Significante / Significato Il signifi-
cante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno.
Sillogismo Tipo di ragionamento, co-
dificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione).
Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio).
Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia.
Ritornello o refrain Verso o gruppo
Similitudine Figura retorica che con-
di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa.
siste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando avverbi e vari connettivi (“come”,
Glossario
667
“tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie).
Sinalèfe In metrica, il computo come
una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Movesi il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca).
Sincope Caduta di una vocale all’in-
terno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”.
Sincronia Indica lo stato di una lingua
in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia).
Sinèddoche Figura retorica che con-
siste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”.
Sinèresi In metrica, il computo come
Spannung (ted. “tensione”) termine che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione. Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico.
Straniamento Procedimento con cui
lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa.
Strofa (o strofe o stanza) All’interno
di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine.
Summa Termine con cui nel medio-
evo si indicavano le trattazioni sistematiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).
T
una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46).
Tenzone Termine derivante dal pro-
Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due
Terza rima ➜ Terzina a rime incate-
termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera).
Sintagma Unità sintattica di varia
complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc.
Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didattico-morale o di ispirazione celebrativa. Sonetto Forma poetica (forse “inven-
tata” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi,
668
suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni.
venzale che indica un dibattito tra poe ti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso. nate.
Terzina a rime incatenate È il me-
tro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”.
Testimone In filologia ogni libro an-
tico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale.
Tmesi Divisione di una parola compo-
sta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio).
Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica. Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ov-
vero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricorrente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature).
Traslato Espressione o parola il cui significato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc. Tropo ➜ Traslato
V Variante In filologia, ciascuna delle ➜ lezioni che differiscono dal testo originale ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc.
Variatio (o variazione) Artificio reto-
rico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi.
Variazione ➜ Variatio
Z Zèugma Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.
PER APPROFONDIRE
PAROLA CHIAVE
LESSICO
Indice delle rubriche apologo 241 dramma satiresco 102 ecloghe 109 eliocentrismo 554 empirismo 519 errante 596 familiare 384 metaletterario 559 metanarrativo 264
ortodossia 544 otium 232 ottimati 507 poema eroico 589 politologo 507 sincretismo 547 Studio fiorentino 98 sublimazione 29 topoi 92
edonismo 29 humanitas 43 incunaboli 76
machiavellico 462 virtù/fortuna 415
La nascita del collezionismo
34
online La filologia all’opera
Il metodo filologico e la ricostruzione dei testi originari
37
Le città ideali
41
online Danzar, festeggiar, cantar e giocare…
Il ruolo della festa nella società signorile online L’Accademia platonica di Careggi online Le scuole umanistiche di Guarino
e di Vittorino da Feltre online Segrete corrispondenze: l’interesse
rinascimentale per la magia Gli studi anatomici e la nascita della medicina moderna
64
Dante e Petrarca di fronte al rapporto latino-volgare
69
Aldo Manuzio: un geniale umanista-editore
71
Il repertorio classicistico: alcuni esempi
93
Dal mito di Orfeo alla Fabula di Poliziano
102
online Dal “giardino paradiso” dell’età umanistico-
rinascimentale al “giardino della sofferenza” di Leopardi online Miguel de Cervantes Don Chisciotte
e Sancio Panza in Arcadia (Parte II, cap. lxvii) Il libro del Cortegiano, un best seller su cui si formarono i gentiluomini europei
118
Il mito del paese di Cuccagna
137
Cosa significava essere una “cortigiana”?
165
online Sigmund Freud Il motto di spirito
e la sua relazione con l’inconscio
La fortuna del repertorio cavalleresco presso il pubblico popolare 197 La fortuna contrastata dell’Orlando innamorato 205 Ariosto pensava a un “canzoniere”? 235 Gli argomenti delle Satire 240 online Scrivere per polemizzare: la satira fra “genere” e “modo” L’enigma dei Cinque canti: un materiale rifiutato dall’autore 254 Gli esordi dei canti: uno spazio commentativo per l’autore 265 online L’iconografia della follia online La specificità della comunicazione teatrale online Tragedia e commedia nel mondo classico Effetti speciali 367 online I luoghi del teatro “Comico del significato” e “comico del significante” 373 La scenografia prospettica 374 I rapporti di un acuto osservatore politico 400 La tradizione della trattatistica politica sul “buon governo” 414 Il duca Valentino: un modello per Il Principe 431 La Fortuna tra letteratura e arte 448 online I politici e Machiavelli online Il disorientamento conoscitivo e la perdita delle certezze La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie 554
Indice delle rubriche
669
VERSO IL NOVECENTO EDUCAZIONE CIVICA secondo le NUOVE Linee guida
La storiografia: da genere letterario a moderna scienza 511 online La complessa elaborazione dei Ricordi I Ricordi e le forme “brevi” della scrittura: massime e aforismi 517 Una dissimulata letterarietà: le fonti 582
Il “disagio della civiltà” da Tasso all’epoca moderna Leggere la Liberata o la Conquistata? Un caso unico nella filologia italiana Le fonti storiche del poema e la rielaborazione fantastica
593
online Achille Campanile Un rovesciamento umoristico
Ariosto e Calvino: un rapporto privilegiato L’Orlando furioso come fonte e modello Da Erasmo a Pirandello: il folle “ragionatore” La chimera di Sebastiano Vassalli
287 334 361 545
Niccolò Machiavelli Le qualità del principe machiavelliano Il Principe, cap. XV
432
dell’eurocentrismo: “La scoperta dell’Europa” Dalla facezia umanistica alla barzelletta Gianni Celati racconta ai lettori di oggi l’Orlando innamorato
175 218
NUCLEO CONCETTUALE Costituzione Il ruolo della «donna di palazzo»: Isabella d’Este
T6
T7
Vittoria Colonna Qui fece il mio bel sole a noi ritorno Rime (VI)
T7 PARITÀ DI GENERE equilibri
121
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
167
Matteo Maria Boiardo Orlando difende i valori della cultura e dell’amore Orlando innamorato I, xviii, 40-48 220
T2
Ludovico Ariosto Ariosto e la condizione cortigiana Satira I, vv. 85-123 e 247-265
T7
Ludovico Ariosto Rinaldo difensore dei “diritti delle donne” PARITÀ DI GENERE Orlando furioso IV, 51-67
288
La caccia alle streghe: una pagina oscura della storia
LEGGERE LE EMOZIONI
T3
D6
Leon Battista Alberti Il valore del tempo Libri della famiglia, III
#PROGETTOPARITÀ
459 PARITÀ DI GENERE equilibri
546
online I regimi che proibiscono i libri
Torquato Tasso
T13 Il perfetto cortigiano e padre di famiglia Dialoghi, Il padre di famiglia
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
644
NUCLEO CONCETTUALE Sviluppo economico e sostenibilità T8
Torquato Tasso La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori Gerusalemme liberata VII, 1-22
618
T1
Chrétien de Troyes Il «cerimoniale della follia» Yvain, vv. 2783-2883
350
T1
Niccolò Machiavelli Lode della varietà di comportamento (e di stile) Lettera al Vettori del 31 gennaio 1515 403
T4
Francesco Guicciardini Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane Ricordi 30, 136 523
T6
Francesco Guicciardini La Chiesa, il popolo, la politica Ricordi 28, 48, 66, 140, 141, 157
38
Leonardo Bruni
D13 Il valore educativo della discussione
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
e del confronto Dialogo a Pier Paolo Vergerio
58
Ludovico Ariosto T12 Una storia di amicizia e morte sullo EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI sfondo della guerra: Cloridano e Medoro Orlando furioso XVIII, 165-173; 182-192; XIX, 1-15 302 Ludovico Ariosto T14 E cominciò la gran follia sì orrenda Orlando furioso XXIII, 100-121; 126-136; XXIV, 1-7
670
420
PARITÀ DI GENERE equilibri
#PROGETTOPARITÀ
#PROGETTOPARITÀ
Niccolò Machiavelli La Dedica e la presentazione del Principe
591
Riflessioni sulla guerra
242
equilibri
588
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
T8 317
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
527
Tortquato Tasso La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI Gerusalemme liberata VII, 1-22 618
I LUOGHI DELLA CULTURA SGUARDO
La corte Il cenacolo e l’accademia La biblioteca
sulla storia Ferrara al tempo di Ariosto La vita politica a Firenze negli anni del segretariato di Machiavelli
sul teatro e cinema 231 401
sull’arte Poliziano e Botticelli: il mondo della bellezza tra poesia, filosofia e arte La fusione del Perseo La maga Melissa secondo Dossi La riscoperta della bellezza del corpo: la maga Alcina e la Venere di Tiziano La follia di Orlando La nave dei folli
ORIENTARE E ORIENTARSI
48 49 50
D6
100 132 256 300 328 347
La storia di Giulietta e Romeo: dalla novella al teatro al cinema Il cinema sul Rinascimento Streghe, inquisitori, eretici
185 491 546
sulla letteratura e il teatro L’Orlando furioso di Ronconi Echi di Tasso in John Milton online Come Goethe scopre la propria vocazione teatrale grazie alla storia di Clorinda
297 617
Leon Battista Alberti, Il valore del tempo
38
D13 Leonardo Bruni, Il valore educativo della discussione e del confronto 58 D14 Pico della Mirandola, Il posto dell’uomo nell’universo 60 T4
Jacopo Sannazaro, L’evocazione di un mondo idillico fuori dal tempo
110
T8b Giovanni Della Casa, Suggerimenti su come comportarsi in società
127
T3 Matteo Bandello, Bandello e i “casi strani”: Galeazzo ruba una fanciulla a Padova e poi per gelosia
e lei e sé stesso uccide 181
T7
Matteo Maria Boiardo, Orlando difende i valori della cultura e dell’amore 220
T1
Ludovico Ariosto, Ariosto chiede ad Alfonso d’Este di esonerarlo dall’incarico di governatore
238
T14 Ludovico Ariosto, E cominciò la gran follia sì orrenda 317 T1
Chrétien de Troyes, Il «cerimoniale della follia» 350
T2
Leon Battista Alberti, La libertà del vagabondo 353
T3
Erasmo da Rotterdam, Il rovesciamento del rapporto follia-saggezza 359
T1
Niccolò Machiavelli, Lode della varietà di comportamento (e di stile) 403
T3
Niccolò Machiavelli, La Dedica e la presentazione del Principe
420
T1
Francesco Guicciardini, Proemio
512
T4
Francesco Guicciardini, Il ruolo primario della fortuna nelle cose umane
523
T6
Francesco Guicciardini, La Chiesa, il popolo, la politica
527
T8
Torquato Tasso, La parentesi idilliaca: Erminia tra i pastori 618
Indice delle rubriche
671
secondo le NUOVE Linee guida
L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills
Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.
equilibri #PROGETTOPARITÀ
Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere
La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI
attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;
IMMAGINI
valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;
LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.