ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita,
Edizione azzurra
per rispondere agli interrogativi
N. Gazich M. Lori
appassionata che la letteratura da sempre
con la collaborazione di
L’amorosa inchiesta allude alla ricerca
F. La Porta
L’amorosa inchiesta
Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di
Filippo La Porta
che l’umanità di ogni tempo si pone.
Novella Gazich è stata per molti anni docente di
Manuela Lori è dottoranda di ricerca in Letteratura italiana all’Università di Macerata. Consulente editoriale, è autrice di libri scolastici per la secondaria di primo e di secondo grado. È stata docente di Lettere nei licei e formatrice in ambito disciplinare ed in preparazione al nuovo esame di Stato.
Filippo La Porta è critico e saggista, scrive regolarmente su “La Repubblica”, “Il Riformista”, il periodico “Left” e collabora all’“Unità”. Insegna alla Scuola Holden e in altre scuole di scrittura. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo La nuova narrativa italiana (Bollati Boringhieri 1995), Pasolini (Il Mulino 2012), Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Bompiani 2018), L’impossibile “cura” della vita. Cechov, Céline e Carlo Levi, medici-scrittori coscienziosi e senza illusioni (Castelvecchi 2021), Splendori e miserie dell’impegno. L’impegno civile degli scrittori, da Manzoni a Michela Murgia (Castelvecchi 2023).
LIBRO DIGITALE Versione interattiva del libro di testo con tantissime risorse e la possibilità di trasformare i testi in alta leggibilità.
Nel VOLUME • Struttura chiara, ordinata, non dispersiva • Profilo completo scritto con un linguaggio piacevole • Centralità dei testi il progetto attribuisce un ruolo centrale alla lettura e all’interpretazione dei testi letterari • Scrittura femminile presente in tutte le epoche • Educazione civica vengono proposte attività per la formazione del cittadino consapevole, sensibile ai grandi temi socio-politici • Orientamento, educazione alle emozioni e alle relazioni vengono proposti spunti per la didattica orientativa e per l’educazione alla gestione delle emozioni e delle relazioni • Numerose rubriche, supporti allo studio e attività per consolidare le competenze di comprensione, analisi ed interpretazione di testi • Esame di Stato sono presenti prove in preparazione alla prova scritta dell’esame di Stato
Nel LIBRO DIGITALE • Contenuti digitali integrativi sono proposti numerosi testi, rubriche, contributi audio e video integrati alla scelta su carta • Videolezioni sulle biografie e sulle opere maggiori • Lezioni in Power Point • Analisi del testo interattive • Audioletture dei brani e delle sintesi • Immagini interattive • Carte dei luoghi interattive • Cronologie interattive • Mappe tematiche interattive
APP LIBRARSI
2a L’amorosa inchiesta Edizione azzurra
Lettere nei licei. In ambito critico si è occupata in particolare di Pirandello narratore, un interesse documentato da varie pubblicazioni. Ha insegnato nella scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario presso l’Università degli Studi di Pavia. Da anni si dedica all’editoria scolastica. Ha progettato e diretto il manuale di letteratura italiana per i trienni Lo sguardo della letteratura (2016) e successivamente Il senso e la bellezza (2019).
2
Edizione azzurra
L’amorosa a inchiesta Seicento e Settecento
EDUCAZIONE CIVICA
equilibri
PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ
EquiLibri
Consente di accedere subito a tutti gli audio e i video del corso direttamente con smartphone o tablet. Disponibile per dispositivi iOS e Android.
secondo le NUOVE Linee guida
ORIENTAMENTO
Progetto del Gruppo Editoriale ELi per la promozione dei valori di giustizia sociale ed uguaglianza, per favorire una cultura dell’inclusione.
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Sistema Digitale Accessibile RA UR ZZ TO 03 A A EN 06 EST EC 0 S0 HI ETT 251 PA INC E S 165 A O 4 OS NT 888 OR CE 7 M EI 9 L’A S
Questo volume sprovvisto del talloncino è da considerarsi CAMPIONE GRATUITO fuori campo IVA (Art. 2, c. 3, I.d, DPR 633/1972 e Art. 4, n.6, DPR 627/1978)
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€ 26,90 L’AMOROSA INCHIESTA AZZURRA SEICENTO E SETTECENTO
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
19/12/24 10:16
Novella Gazich Manuela Lori
L’amorosa inchiesta 2a
con la collaborazione di
Filippo La Porta
Edizione azzurra
Gruppo Editoriale ELi
Il piacere di apprendere
Seicento e Settecento
secondo le NUOVE Linee guida
L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills
Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.
equilibri #PROGETTOPARITÀ
Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere
La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI
attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;
IMMAGINI
valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;
LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.
L’amorosa inchiesta Dentro la letteratura Il significato di un titolo Nessuno sa creare affascinanti metafore come Ludovico Ariosto. Per questa letteratura abbiamo così scelto come titolo proprio un’espressione ariostesca, densa di possibili significati metaforici: “l’amorosa inchiesta”. Nell’Orlando furioso l’”amorosa inchiesta” è la ricerca della perduta Angelica da parte del paladino Orlando, motivata dall’amore che prova per lei. Ma forse anche noi oggi (chi opera nella scuola, chi scrive libri per la scuola) abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare, come Orlando, di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola, spesso marginalizzata da una visione pragmatica della formazione scolastica, che privilegia saperi immediatamente fruibili nella vita pratica e professionale, sminuendo tutto ciò che è passato. L’ ”amorosa inchiesta” è allora per noi innanzitutto allusivo alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone. L’ ”amorosa inchiesta” vuole riferirsi anche all’atteggiamento che vorremmo che le ragazze e i ragazzi, come moderni “cavalieri erranti”, assumessero, entrando nell’universo labirintico della grande letteratura: non la passiva assunzione di dati, ma un atteggiamento interrogativo, curioso, esigente, per scoprire, insieme ai loro insegnanti, attraverso i testi letterari, piste da percorrere in un cammino che non è solo culturale, ma può e deve essere anche esistenziale e di orientamento per elaborare un progetto di vita e sostenere le relative scelte. L’ ”amorosa inchiesta”, infine, è la prospettiva che ha ispirato la progettazione di questa opera e ne ha motivato le scelte: il tentativo, forse utopistico, di suscitare curiosità, emozioni, interesse verso un patrimonio culturale, quello della secolare storia della letteratura, che ha ancora tanto da dire, così da ridare un senso centrale nella scuola di oggi alla lettura e interpretazione dei testi letterari.
La letteratura come “atlante delle emozioni” Recentemente è emerso nella riflessione didattica un volto della letteratura a lungo misconosciuto e a cui abbiamo cercato di dare spazio: quello di strumento chiave per attivare la conoscenza di sé e per sviluppare nella classe l’ “intelligenza emotiva”, cioè la capacità di riconoscere e descrivere in modo appropriato le emozioni proprie e altrui, così da saperle poi gestire e da assumere verso gli altri un atteggiamento di empatia.
IV
Senza la competenza emotiva si è facilmente vittime delle pulsioni, mentre saper identificare la paura, l’ansia, la frustrazione porta a ottimizzare le proprie risorse interiori, porta a saper gestire le situazioni problematiche che di certo non mancano nella fase adolescenziale. Ma la letteratura cosa ha a che fare con ciò? Attraverso i testi, i personaggi dei romanzi e le biografie stesse delle autrici e degli autori, la letteratura si presenta come la più straordinaria galleria delle emozioni che esista, a cominciare da Orlando che, da ingessato eroe al servizio della “guerra santa”, in nome di un amore malato, sperimenta via via nella sua “inchiesta” la delusione, l’autoinganno, la disperazione, la rabbia incontrollata e infine la degradazione della follia. Nelle emozioni rappresentate dalla letteratura di ogni tempo la classe, attraverso processi di identificazione, può riconoscere le proprie, può vivere altre vite da un osservatorio privilegiato e protetto e acquisire così gradualmente una competenza emotiva oggi riconosciuta sempre più importante. Perché questo avvenga, occorre però favorire l’incontro tra giovani lettori e testi letterari, respingendo una visione della letteratura come immutabile museo delle cere, interrogando i testi, come abbiamo cercato di fare, anche sotto il profilo emozionale e presentando le biografie delle autrici e degli autori, grandi e meno grandi, non come freddo insieme di nozioni da imparare, ma come racconti di vite vissute, con gioie, dolori, passioni, ma anche limiti e debolezze, come è la vita per ogni essere umano.
La letteratura come lettura del mondo Accanto alla competenza emotiva, alla conoscenza di sé, non è certo meno importante la capacità che gli studenti devono acquisire di interpretare il proprio tempo, i miti e i modelli di comportamento che lo governano. Anche in questo ambito la letteratura può e deve avere un ruolo fondamentale. La letteratura vive infatti nel mondo e il mondo rappresenta attraverso i testi e la personale interpretazione, il personale sguardo, di chi scirve. Perché la letteratura possa diventare strumento chiave di interpretazione critica del presente va costantemente ricercata e proposta, come abbiamo cercato di fare, l’interazione tra tendenze letterarie e visione del mondo, modelli comportamentali, nuclei dell’immaginario presenti nelle varie epoche. Questa visione coesa del sapere oltre tutto risulta, a nostro parere, molto più motivante per gli studenti e le studentesse di oggi che non lo studio asettico di autori e correnti a se stanti.
La letteratura come educazione ai valori civili I grandi temi socio-politici, le dinamiche del potere, la disuguaglianza, i rapporti tra le generazioni, la condizione femminile, l’ambiente, il valore dell’istruzione, non sono certo estranei alla letteratura e sono ben presenti sia nelle scelte testuali, sia nelle parti esercitative di questa opera: essa non si propone di formare specialisti in campo letterario, ma cittadini e cittadine consapevoli, sensibili ai valori civili e ai diritti dell’umanità. Gli autori
V
Attraverso il libro
L’amorosa inchiesta
Struttura del testo Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana prevede una struttura composta da Scenari socio-culturali e Capitoli. Gli Scenari analizzano l’interazione della letteratura con la cultura, con la società e con i grandi temi e sono suddivisi in quattro sezioni: 1. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2. I modelli del sapere e le tendenze filosofico-scientifiche 3. I caratteri e le forme della letteratura (nelle diverse epoche); il dibattito culturale 4. L’evoluzione della lingua La trattazione degli Scenari è anticipata da una sezione, Sguardo sulla storia, dedicata a ricostruire il contesto storico con immagini e cronologia interattiva. Gli Scenari si chiudono con un percorso intitolato Libri, lettori, lettura ed uno spazio rivolto all’Arte, presentato con schede informative di inquadramento del periodo e letture iconologiche di opere esemplari per i vari periodi cronologici. I capitoli sono dedicati a generi, autori o temi ed i materiali sono organizzati in modo da creare una forte interazione tra profilo e testi. Sono presenti sia testi (T) sia documenti (D), entrambi con numerazione progressiva indipendente. I testi sono commentati mediante l’Analisi del testo, mentre per i documenti sono messi in evidenza solo i Concetti chiave. • Nei testi o nei documenti che presentino tematiche riconducibili a temi
di EDUCAZIONE CIVICA questo aspetto è messo in evidenza. Nella parte degli esercizi relativi al brano c’è almeno un’attività finale che chiede di lavorare su quest’aspetto.
Le rubriche Il testo è corredato da numerose rubriche: • Parola chiave : definisce in sintesi le idee guida, i motivi di un’epoca, di un genere o
dell’universo tematico di un autore. • PER APPROFONDIRE : schede che consentono al docente o allo studente di
approfondire maggiormente un aspetto della trattazione, senza creare eccessive digressioni nel profilo. Gli approfondimenti sono sempre posizionati vicino alla parte del profilo da cui scaturiscono. • VERSO IL NOVECENTO : ai testi del passato si accostano testi del Novecento e oltre, scelti
per l’affinità dei temi trattati o a volte anche per contrasto, per evidenziare come certe esperienze o sensazioni ritornino nel tempo o si trasformino, assumendo nuovi significati in un’ottica di intertestualità;
VI ATTRAVERSO IL LIBRO
• EDUCAZIONE CIVICA secondo le Nuove Linee Guida / PARITÀ DI GENERE : l’attenzione a quest’aspetto
è stata tradotta in due direzioni. Tutti i testi antologizzati che presentino tematiche riconducibili ai tre nuclei: Costituzione, Sviluppo economico e Sostenibilità e Cittadinanza digitale e le relative competenze contenute nelle Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’educazione civica o ai Global Goals (17 obiettivi) dell’Agenda 2030, sono segnalati con evidenza. Questa indicazione è completata nella parte degli esercizi relativi al brano con almeno un’attività finale che chieda di lavorare su questi aspetti. Inoltre sono state realizzate schede di educazione civica su temi di interesse collettivo come la diversità, la parità di genere, la guerra, seguite da spunti di riflessione o attività didattiche; • LEGGERE LE EMOZIONI / EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI : questa rubrica intende stimolare nei
giovani la competenza emozionale e relazionale, in modo che la riflessione su loro stessi, sul loro vissuto personale e sulla realtà che li circonda li aiuti a crescere con maggiore consapevolezza; • Sguardo su… : è fondamentale comunicare l’idea che il sapere non sia isolato, ma
che dialoghi in continuazione anche con ambiti diversi. Nel manuale vengono dunque istituite numerose connessioni tra la letteratura e altre discipline come Storia, Filosofia, Arte, Letterature straniere, Musica, Teatro e Cinema; • Testi in dialogo : a numerosi testi vengono accostati brani di altri autori; questo
perché si ritiene che il confronto sia prezioso, per sviluppare capacità critiche e riflessive che servono per orientarsi meglio nelle scelte di vita; • INTERPRETAZIONI CRITICHE/INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO : il testo propone
numerosi passi critici legati alla trattazione o ai testi, scelti in base a una reale accessibilità di lettura e comprensione per gli studenti. I passi scelti vengono presentati sotto due forme: o un passo di un solo critico (Interpretazioni critiche) o passi di due critici messi a confronto sul medesimo tema (Interpretazioni critiche a confronto); la parte esercitativa di entrambe è stata concepita come tipologia B dell’esame di Stato, per far esercitare sull’analisi e la produzione di un testo argomentativo; • I LUOGHI DELLA CULTURA : mette in evidenza i luoghi-simbolo del periodo di
riferimento a seconda dei secoli analizzati sia attraverso la descrizione dei luoghi (monastero, castello, corte ecc.) sia attraverso le immagini.
Apparato didattico • Esercitare le competenze : i testi antologizzati sono corredati da un apparato
suddiviso in due parti: “Comprendere e analizzare” e “Interpretare”. Nel “Comprendere e analizzare” sono stati inseriti esercizi di parafrasi, sintesi, comprensione, tecnica narrativa, analisi, lessico e stile; nell’”Interpretare” esercizi di scrittura, scrittura creativa, scrittura argomentativa, esposizione orale, testi a confronto e competenza digitale. Le attività proposte sono volte al consolidamento delle competenze di lettura, di scrittura e di analisi testuale. • Verso l’esame di Stato : vengono proposte, sia in itinere sia in alcune zone di ciascun
volume, prove simili a quelle previste per la prima prova dell’esame di Stato secondo le tre tipologie A, B e C; • Zona competenze : al termine degli Scenari e di ciascun capitolo sono proposte attività
che attivano competenze trasversali, disciplinari e interdisciplinari in situazione nuove e per compiti svolti in autonomia, in forma individuale o di gruppo. ATTRAVERSO IL LIBRO VII
Nell’opera è offerta inoltre una serie di supporti allo studio per favorire un apprendimento consapevole e duraturo. • Fissare i concetti : al termine di parti significative di profilo negli Scenari e nei
capitoli di genere/tema e al termine di ciascun autore vengono proposte domande che servono allo studente per individuare i punti chiave della trattazione, per ripassare i passaggi più significativi e per esercitarsi nell’esposizione orale. • Analisi passo dopo passo : annotazioni esplicativo-critiche, a lato del testo, che ne
accompagnano la lettura e aiutano a visualizzarne i principali elementi tematicostilistici. • Collabora all’analisi : consiste in un coinvolgimento diretto del giovane lettore nel
processo interpretativo: l’analisi, che segue le tradizionali partizioni (Comprendere e analizzare e Interpretare), “dialoga” attraverso specifiche richieste con lo studente, in modo tale che lo stesso studente dia il proprio contributo attivo al lavoro sul testo. • Lessico : sono stati inseriti nel corso della trattazione dei riquadri laterali di
definizioni in cui si spiegano i concetti più complessi o si definiscono termini specialistici o disciplinari. • Sintesi : alla fine di ogni capitolo sono state poste le sintesi, anche in formato audio,
che riassumono i contenuti principali della trattazione. Esse rappresentano un utile contributo per lo studio, la memorizzazione e il ripasso. • Studiare con l’immagine : pitture, sculture, fotografie corredate di didascalie ricche
e interessanti consentono la percezione immediata, visiva, di alcuni aspetti della letteratura e del suo contesto storico: attraverso l’immagine si riflette per comprendere meglio l’autore, l’opera o il contesto storico-sociale di riferimento. • Schemi: sistematica presenza di schemi e visualizzazioni che semplificano
l’apprendimento.
La didattica orientativa La didattica orientativa è un approccio educativo e formativo che ha come finalità quella di aiutare gli studenti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie attitudini e delle proprie capacità; può essere svolta in classe grazie all’aiuto della rubrica Leggere le emozioni e a tutti i numerosi spunti, come ad esempio le attività contemplate nell’Interpretare e nella Zona Competenze, e grazie ai testi segnalati, utili per svolgere attività di orientamento. Esse risultano disseminate in tutto il manuale al fine di sviluppare competenze di auto-orientamento e supportare l’assunzione di decisioni consapevoli riguardo a sé e alle proprie scelte professionali future. Aiutare lo studente a conoscere meglio se stesso, le sue inclinazioni, le sue attitudini, i suoi interessi e le sue aspirazioni farà sì che con più facilità sia orientato a una comunicazione efficace, a realizzare relazioni rispettose, a prendere decisioni e a sviluppare pensiero critico, pensiero creativo, empatia. Ogni volta che insieme a obiettivi di natura disciplinare si perseguono anche obiettivi di tipo orientativo si può parlare di didattica orientativa.
VIII ATTRAVERSO IL LIBRO
La didattica multimediale Nelle pagine sono inserite icone che indicano la presenza e il tipo di contenuti digitali disponibili sul libro. I contenuti digitali sono fruibili sul sito www.gruppoeli.it , sull’eBook+ e con l’App librARsi.
Contenuti digitali integrativi • Testi aggiuntivi integrati alla scelta su carta • Per approfondire
• Interpretazioni critiche
• Contributi Audio e Video
• Verso il Novecento
• Verso l’esame di Stato
• Sguardo su…
• Gallery gallerie di immagini
Attivazioni operative • Videolezioni mirano al racconto della biografia degli autori maggiori, ripercorrendone in maniera dinamica i momenti salienti e a fornire un quadro esaustivo delle opere principali dei medesimi autori, attraverso una narrazione accattivante. • Lezioni in PowerPoint percorsi didattici semplici e intuitivi che coincidono con l’accesso a dei Power Point modificabili e relativi ai principali contesti culturali in cui vengono concepite le opere della nostra letteratura e anche ai loro principali autori, di cui si riassumono i tratti biografici, la produzione e le opere maggiori. • Immagini interattive • Audioletture di alcuni testi scelti • Carte dei luoghi interattive consentono una lettura interattiva e agile della biografia dei classici della nostra letteratura. In particolare, le carte geografiche permettono di percorrere diacronicamente e collocare visivamente gli autori nei luoghi che ne hanno scandito la vita, dalla formazione alla nascita delle opere di maggior rilievo, dando accesso a dei contenuti multimediali come link, immagini, audio e video. • Mappe interattive e interdisciplinari incentrate sui temi più rilevanti, individuati all’interno delle opere e dei periodi letterari di maggior spessore consentono di svolgere un percorso interattivo e un’analisi trasversale di tematiche che dal passato affiorano fino ai giorni nostri, per mezzo di collegamenti para-testuali, garantiti dalla presenza di contenuti multimediali di vario tipo. • Cronologie interattive • Analisi interattive • Classe capovolta Sistema Digitale Accessibile
Il Sistema Digitale Accessibile soddisfa pienamente le esigenze della didattica inclusiva con queste funzionalità di base:
• carattere specifico ad alta leggibilità e alto contrasto • sintesi vocale dei contenuti testuali (audiolibro) • pagine “liquide” con possibilità d’ingrandimento
IX IX
Indice Seicento Scenari socio-culturali L’età del Barocco
3
Sguardo sulla storia 4
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 6 1 Un “cielo nuovo” 6 2 L’immagine dell’uomo e dell’esistenza: instabilità e mutamento 7 PER APPROFONDIRE Il tema delle metamorfosi e il gusto barocco 8
3 I valori e i modelli di comportamento 9 Torquato Accetto D1 Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione”
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
10
Della dissimulazione onesta
4 Il ruolo dell’intellettuale SGUARDO SUL CINEMA Giordano Bruno, il film
12 13
Tommaso Campanella D2 Al carcere 14 I sonetti
Tommaso Campanella
online D3 A certi amici I sonetti 14
5 Due città in conflitto: Roma, città dei papi, e Venezia “porta dell’Italia verso l’eresia”
15
Paolo Sarpi D4 Le speranze deluse dal Concilio di Trento 17 Istoria del Concilio tridentino, Proemio
6 I centri della cultura 19 I LUOGHI DELLA CULTURA Le accademie scientifiche 20
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 21 1 Contro il principio di autorità: la ricerca del metodo e la nascita della scienza 21 PER APPROFONDIRE Scienziati e maghi 23
3 Caratteri e forme della letteratura 24 1 Il Barocco e la ricerca del “nuovo” 24 2 La poetica dell’“ingegno” e la centralità della metafora 25 Emanuele Tesauro D5 La metafora come un «pien teatro di meraviglie» 26 Il Cannocchiale aristotelico
X
INDICE
3 Il rinnovamento dei generi letterari 28 VERSO IL NOVECENTO Dalla condanna all’attualità del Barocco
28
4 L’evoluzione della lingua 30 1 Tra vecchio e nuovo: la lingua del Seicento 30 Francesco Redi
online D6 Il nuovo linguaggio della scienza: la descrizione della vipera Osservazioni intorno alle vipere
LIBRI, LETTORI, LETTURA Leggere in età barocca 32 EDUCAZIONE CIVICA secondo le NUOVE I regimi che proibiscono i libri EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
33
ARTE NEL TEMPO
Tra Cinquecento e Seicento La pittura di Caravaggio 34 1. La Vocazione di san Matteo di Caravaggio 34 Il Barocco romano 35 1. Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini 35 2. San Carlino alle Quattro Fontane e la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini 36 3. Il Trionfo del nome di Gesù di Giovan Battista Gaulli e la Glorificazione di sant’Ignazio di Loyola di Andrea Pozzo 37 Sintesi con audiolettura 38 online
Zona Competenze 40 Lezione in Power Point Cronologia interattiva Mappa interattiva Le scoperte scientifiche nella dimensione europea
Per approfondire Una frattura epocale nel sistema del sapere: dalla somiglianza alla differenza Immagini interattive
1 Marino e la lirica barocca 41 1 Una nuova lirica 42 1 La poetica barocca della meraviglia 42 2 La rivisitazione dei motivi della tradizione 42 SGUARDO SULL’ARTE Due esempi dell’immaginario manieristico e barocco 43
2 Marino, il maggior poeta barocco 44 1 Una vita irrequieta e avventurosa 44 2 L’Adone, poema barocco del piacere sensuale 45 3 Le principali raccolte liriche 47 Giambattista Marino T1 Elogio della rosa 48 L’Adone III, ott. 156-161
3 I poeti “marinisti” 51 1 La personalità letteraria di Marino 51 T2
Immagini di donna “a sorpresa” 52
INDICE
XI
Giambattista Marino T2a Donna che si pettina 52 La Lira VIII
Anton Maria Narducci T2b Sembran fere d’avorio in bosco d’oro 54 Claudio Achillini T2c La spiritata 55
2 Il Barocco moraleggiante e l’allegorismo 57 T3 L’orologio, emblema della fuga del tempo 59 Ciro di Pers LEGGERE T3a Orologio da rote LE EMOZIONI 59 Giacomo Lubrano online T3b Oriuolo ad acqua SGUARDO SULL’ARTE L’orologio “barocco” di Dalí 60 INTERPRETAZIONI CRITICHE
Giovanni Getto Gli orologi e il tema barocco del tempo 61 Giovan Leone Sempronio LEGGERE T4 Quid est homo? LE EMOZIONI 62 La selva poetica
T5 Gli inganni dello specchio 63 Girolamo Preti online T5a Per la sua donna specchiantesi Giovan Battista Marino online T5b Mentre la sua donna si specchiava La lira, XI
Tommaso Stigliani T5c Scherzo d’immagini 64 Canzoniere
SGUARDO SULL’ARTE Immagini allo specchio 65
4 Contro gli “eccessi”: il classicismo barocco 66 Gabriello Chiabrera
online T6 Riso di bella donna Canzonette
5 La grande lirica europea 67 1 La lirica spagnola del Siglo de oro
67
2 La “poesia metafisica” inglese 68 T7 Riflessioni sul tempo 69 Luis de Góngora T7a Mentre per emulare i tuoi capelli 69 Francisco de Quevedo LEGGERE T7b Ehi, della vita! Nessuno risponde? LE EMOZIONI 71 Sonetti amorosi e morali
William Shakespeare T7c Guerra contro il tempo 73 Sonetti XV
VERSO IL NOVECENTO
XII
INDICE
Emblemi barocchi nella poesia moderna: l’orologio, la clessidra, lo specchio 75 Charles Baudelaire L’orologio 75 Giuseppe Ungaretti Variazioni su nulla 76 Jorge Luis Borges Gli specchi 77
Sintesi con audiolettura 79
online
Zona Competenze 80 Interpretazioni critiche a confronto I due volti del Barocco: crisi conoscitiva e arte dell’infinito. Calcaterra, «L’anima in barocco» vs Hauser, Il barocco, arte dell’infinito Cronologia interattiva Audioletture
Immagini interattive Gallery Allegorie secentesche Per approfondire La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie
2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento 81 1 Il Seicento, il secolo del teatro 82 1 La centralità del teatro nel Seicento 82
2 Il teatro in Francia 84 1 L’opera di Corneille 84 Pierre Corneille
online T1 Il conflitto di don Rodigo tra amore e dovere Il Cid, atto I, scene V-VI
2 Il teatro classicistico di Racine 85 SGUARDO SULLA FILOSOFIA Il giansenismo 86 Jean Racine LEGGERE T2 La confessione di Fedra e la potenza LE EMOZIONI incoercibile della passione 86 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Fedra, atto I, scena III
3 Il teatro di Molière 90 Molière T3 Argante: despota in famiglia, ma succube dei medici 91 Il malato immaginario atto I, scena V; atto III, scena V; atto III, scena X
T3a Il miglior genero? Un medico!
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
91
#PROGETTOPARITÀ
T3b L’ira del dottor La Squacquera contro il malato “ribelle” 92 T3c Il falso luminare 93
3 Il teatro in Spagna 98 1 Calderón de la Barca e La vita è sogno Pedro Calderón de la Barca T4 Il “disinganno” e la scelta del bene La vita è sogno, atto II, scene XVIII e XIX
98 LEGGERE LE EMOZIONI
100
T4a Il risveglio di Sigismondo 100 T4b La vittoria del libero arbitrio 102
4 Il teatro in Inghilterra 104 1 Il teatro elisabettiano 104 2 William Shakespeare 104 La vita 105 Le opere teatrali 106 I drammi storici 106
INDICE
XIII
Le commedie 107 Le tragedie 108 I drammi romanzeschi 110 Un teatro “cosmico” 111 PER APPROFONDIRE Da Machiavelli a Shakespeare 113 William Shakespeare online T5 Un’analisi della folla degna del Principe Giulio Cesare, atto III, scena II
T6
Un eroe moderno in un mondo machiavellico
Amleto atto III, scena I
T7
LEGGERE LE EMOZIONI
115
Il dubbio di Macbeth: “spegnere” il re Duncan o ascoltare la voce della coscienza? 117
Macbeth atto I, scena VII
T8
Machiavelli sbarca sull’isola 120
La tempesta, atto II, scena I INTERPRETAZIONI CRITICHE
Erich Auerbach La tempesta, un mondo teatrale che oltrepassa la realtà visibile
122
PER APPROFONDIRE Dal testo alle interpretazioni teatrali e cinematografiche 123
5 La scena teatrale in Italia 124 1 Il teatro tragico italiano 124 SGUARDO SULL’ARTE La miseria nell’arte del Seicento 125 Federico Della Valle secondo le NUOVE T9 Il coro dei soldati: la parola agli oppressi EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
126
Judith, Coro
2 Due nuovi generi destinati a un travolgente successo 127 Sintesi con audiolettura 131
online
Zona Competenze 133 Interpretazioni critiche Ermanno Caldera La vita è sogno, dramma filosofico e religioso
Audioletture Immagini interattive
3 Galileo Galilei
134
1 Ritratto d’autore 136 1 Le prime fasi di una vita votata alla scienza 136 2 La battaglia per un nuovo sapere 138 3 Il processo, la sconfitta, l’abiura 139 PER APPROFONDIRE Il rapporto tra Galileo e la Chiesa: gli sviluppi recenti 139 SGUARDO SUL CINEMA Il Galileo di Liliana Cavani 140 Alceste Santini D1 L’ultimo interrogatorio di Galileo, la sentenza di condanna e l’abiura
141
Il caso Galilei
4 La fiducia nella ragione e la fondazione del metodo scientifico 144
XIV
INDICE
2 Galileo scienziato-scrittore 146 1 Il Sidereus Nuncius 146 T1
Non esiste differenza tra terra e cielo
Sidereus Nuncius
LEGGERE LE EMOZIONI
147
2 Le Lettere copernicane 149 T2
Il rapporto tra scienza e Sacre Scritture COLLABORA ALL'ANALISI 149
Lettera a Benedetto Castelli
3 Il Saggiatore T3
153
L’universo è un libro scritto in caratteri matematici 154
Il Saggiatore online T4
All’origine dei suoni
PER APPROFONDIRE Un’immagine chiave: il libro della natura 155 INTERPRETAZIONI CRITICHE
Maria Luisa Altieri Biagi Galileo, grande scrittore
156
4 Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano
157
T5
La critica dell’ipse dixit ANALISI PASSO DOPO PASSO 160 Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano VERSO IL NOVECENTO La Vita di Galileo di Bertolt Brecht 164 Bertolt Brecht «Siamo come intrappolati dentro» 164 Vita di Galileo, scena I VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Galileo Galilei L’intelligenza umana è simile a quella divina,
167
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Eugenio Garin Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
168 170
online
Sintesi con audiolettura 171 Zona Competenze 174 Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Dialogo sopra i due massimi sistemi Carta dei luoghi interattiva Cronologia interattiva
Per approfondire Il confronto tra Galileo e Giordano Bruno nel film Galileo di Liliana Cavani Il sistema dei personaggi come chiave di lettura del Dialogo sopra i due massimi sistemi Audioletture Immagini interattive
4 Il rinnovamento delle forme narrative 175 1 Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 176 1 La ripresa barocca della fiaba: Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile 176 Giovan Battista Basile
online T1 La fiaba delle metamorfosi: Peruonto Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille, Trattenimento terzo della giornata prima
PER APPROFONDIRE Le metafore come micro-racconti 178
2 Il poema “eroicomico”: il rovesciamento ironico dell’epos 178 Alessandro Tassoni T2 Il proemio: Elena trasformata in una secchia di legno 179 La secchia rapita canto I, ottave 1-2
INDICE
XV
3 Il nuovo genere del romanzo 181 T3 L’apprendistato dell’eroe picaresco 182 T3a L’insegnamento del cieco: «saperne una più del diavolo»... 182 Lazarillo de Tormes secondo le
NUOVE T3b Lazarillo mette a profitto la lezione con il prete avaro EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
183
Lazarillo de Tormes
2 Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte
187
1 Una vita “da romanzo” 187 2 L’intreccio e le fonti del Don Chisciotte 188 3 Le modalità narrative, i temi e i personaggi 190 4 Il «prospettivismo» del Don Chisciotte 192 5 Le interpretazioni del romanzo 193 Miguel de Cervantes T4 Da lettore a protagonista: Don Chisciotte decide di diventare cavaliere errante 195 Don Chisciotte della Mancia, I, 1 VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
T5
198
L’investitura cavalleresca di Don Chisciotte 199
Don Chisciotte della Mancia, I, 3 online T6 I perseguitati vanno difesi a ogni costo... anche se sono burattini ANALISI PASSO DOPO PASSO Don Chisciotte della Mancia II, 26 online T7 L’avventura del mulino ad acqua ANALISI PASSO DOPO PASSO Don Chisciotte della Mancia II, 29
T8
Le ragioni dello spirito e quelle del corpo 201
Don Chisciotte della Mancia, II, 68
online
Sintesi con audiolettura 204 Zona Competenze 206 Interpretazioni critiche a confronto Martín de Riquer vs Francisco Rico La dialettica dei personaggi: Don Chisciotte e il suo scudiero Sancio Audioletture
Verso il Novecento Attualità del Don Chisciotte: interpretazioni artistiche, cinematografiche, musicali
5 L’Utopia: mondi (im)possibili 207 1 Immaginare un mondo perfetto 208 1 La nascita della letteratura utopica 208 2 I caratteri delle opere utopiche 209 3 I principali trattati utopici 210 Tommaso Moro T1 I nobili svaghi della città di Utopia Utopia
La Città del Sole
INDICE
PARITÀ DI GENERE equilibri
212
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
214
215
L’altro mondo o Stati e Imperi della Luna
XVI
secondo le NUOVE Linee guida
#PROGETTOPARITÀ
Tommaso Campanella T2 L’educazione naturale dei «Solari» Cyrano de Bergerac T3 I libri parlanti
EDUCAZIONE CIVICA
VERSO IL NOVECENTO Dall’utopia alla distopia 217 Romanzi distopici del Novecento 217 Aldous Huxley online T4 I bambini condizionati a odiare i libri e i fiori Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo
Sintesi con audiolettura 219 Zona Competenze 220
Settecento Scenari socio-culturali L’età dell’Illuminismo
223
Sguardo sulla storia 224
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 227 1 L’Illuminismo 227 PER APPROFONDIRE La metafora della luce e il termine “Illuminismo”
227
2 Dalla visione teologica alla visione razionale-scientifica del mondo 228 SGUARDO SULL’ARTE Ritratti di scienziati 229 Voltaire online D1 Che cosa significa essere teista Dizionario filosofico, s.v. “Teista” online D2 Critica della fede nei miracoli Dizionario filosofico, s.v. “Miracoli”
Paul-Henry d’Holbach D3 La visione materialistico-meccanicistica dell’universo
LEGGERE LE EMOZIONI
230
Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali
3 Una nuova immagine del mondo naturale e dell’uomo 232 4 Il tema della felicità e il mito del progresso 233 PER APPROFONDIRE Il sensismo 233 Pietro Verri
online D4 La diffusione dei lumi e i progressi della civiltà europea Del piacere e del dolore
5 Una nuova figura di intellettuale: il philosophe
235
online D5 Identikit del philosophe Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze delle arti e de’ mestieri ordinatoda Diderot e d’Alembert, s.v. “Filosofo”
6 Nuovi luoghi per la circolazione delle idee: salotti e caffè 238 PER APPROFONDIRE Il nuovo volto delle accademie 239
7 I valori e i modelli di comportamento 240 Voltaire
online D6 La virtù come valore sociale Dizionario filosofico, s.v. “Virtù”
PER APPROFONDIRE Il Grand Tour 242 VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Voltaire Virtù è far del bene al prossimo 243
INDICE
XVII
TESTI IN DIALOGO • Razionalità vs passione
LEGGERE LE EMOZIONI
244
Daniel Defoe D7a I bilanci razionali di Robinson 244 Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6
Jean-Jacques Rousseau D7b La voce della passione e del sentimento
245
Le confessioni
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 247 1 L’educazione “illuminata” 247 online D8
Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze Gaetano Filangieri online D8a I vantaggi della scuola pubblica La scienza della legislazione, libro IV
Jean-Jacques Rousseau
online D8b Fate il contrario di ciò che è in uso Emilio, libro I
Sebastiano Franci
online D8c Le carenze dell’educazione femminile Difesa delle donne
J. Antoine-Nicolas Condorcet
online D8d Istruzione e uguaglianza Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano EDUCAZIONE CIVICA
secondo le
NUOVE CIVICA «I lumi smorzati»: l’educazione femminile EDUCAZIONE Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
248
#PROGETTOPARITÀ
2 Il progetto di un nuovo sapere e l’Enciclopedia EDUCAZIONE CIVICA
secondo le
NUOVE CIVICA Dall’Encyclopédie all’IA EDUCAZIONE Linee guida
249
251
online D9
Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze Denis de Diderot online D9a La rivalutazione delle “arti meccaniche” e il ruolo degli artigiani come consulenti nell’Encyclopédie Encyclopédie, Prospectus online D9b
Le arti liberali devono contribuire a eliminare i pregiudizi verso le arti meccaniche
Encyclopédie s.v. “Arte”
3 La cultura come impegno civile e battaglia ideologica 251 Montesquieu
online D10 La libertà politica non può esistere dove vi sia abuso di potere Lo spirito delle leggi, libro XI, capp. III-IV, VI
SGUARDO SUL CINEMA Un antieroe settecentesco: Barry Lyndon 255 Voltaire secondo le EDUCAZIONE NUOVE D11 Requisitoria contro l’intolleranza 256 CIVICA Linee guida Trattato sulla tolleranza, XXII
Jean-Jacques Rousseau secondo le NUOVE D12 Alle radici della diseguaglianza e del patto sociale EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
259
Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza
3 Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 262 1 Un quadro delle tendenze letterarie del Settecento 262
XVIII INDICE
2 Estetica del sensismo, del sublime e neoclassica: tre modelli per la letteratura e l’arte del secondo Settecento 265
4 L’evoluzione della lingua 268 1 Il problema della lingua in Italia al tempo dell’Illuminismo 268 Alessandro Verri D13 Per una lingua antiaccademica 270 Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni
LIBRI, LETTORI, LETTURA
I libri e la lettura nell’età dei lumi 272 Giornali e pamphlet: la nascita dell’opinione pubblica 274 Cesare Beccaria online D14 Lode dei giornali De’ fogli periodici
Gaetano Filangieri
online D15 Il tribunale dell’opinione pubblica La scienza della legislazione
Voltaire
online D16 Difesa della libertà di stampa De l’horrible danger de la lecture ARTE NEL TEMPO
Il Rococò 275 1. Il boudoir della regina di Napoli 275 Il vedutismo 276 1. Piazza San Marco di Canaletto e Francesco Guardi 276 2. Capriccio con edifici palladiani di Canaletto 276
online
Sintesi con audiolettura 277 Zona Competenze 280 Per approfondire La visione preevoluzionistica di Buffon Il nettare nero che ha trasformato il costume La storia della massoneria Una tormentata storia editoriale Gallery Le tavole dell’Enciclopedia Verso il Novecento Eugenio Scalfari In viaggio con Diderot
Sguardo sul cinema Immagini del Settecento Lezione in PowerPoint Cronologia interattiva Immagini interattive Mappa interattiva I viaggi culturali degli illuministi in Europa
6 Letteratura e cultura nel primo Settecento 281 1 Il sogno regressivo dell’Arcadia 282 1 “Buon gusto” e ripresa del classicismo 282 2 La poesia arcadica 283 Giambattista Felice Zappi T1 In quell’età ch’io misurar solea 284 Rime
Jacopo Vittorelli T2 Una lirica tardo-arcadica 285 Anacreontiche a Irene, V
Paolo Rolli
online T3 Solitario bosco ombroso Ode d’argomenti amorevoli
INDICE
XIX
2 Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 287 1 Il rinnovamento del melodramma 287 Pietro Metastasio
online T4 Un’aria metastasiana: È la fede degli amanti Demetrio, atto II, scena III
Carlo Goldoni
online T5 Regole assurde per i compositori di melodrammi Memorie, I, XXVIII
SGUARDO SULLA MUSICA Il melodramma 289 Pietro Metastasio T6 Il conflitto di Enea 290 Didone abbandonata, I, xviii (vv. 526-553)
Lorenzo Da Ponte LEGGERE T7 L’aria di Cherubino LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
292
Le nozze di Figaro, atto II, scena III
3 Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 294 1 Muratori: l’erudizione al servizio di un nuovo sapere 294 2 Vico e la Scienza nuova
295
Giambattista Vico
online T8 Ma Omero è esistito veramente? La Scienza nuova, III, I
T9
Alcune «degnità» vichiane 298
La Scienza nuova, Elementi XXXV-XXXVII, l, liii
Sintesi con audiolettura 300
online
Zona Competenze 302 Video L’aria da Le nozze di Figaro su YouTube.com
7 La svolta illuminista in Italia 303 1 Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 304 1 Un Illuminismo riformista e moderato 304 Pietro Verri T1 «Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa…» 307 «Il Caffè», Introduzione online T2 Contro la società delle “buone maniere” «Il Caffè», La buona compagnia
2 L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 310 1 Il problema della riforma del diritto e l’opera di Cesare Beccaria 310 2 La vita 311 3 Un libro “di gruppo”? Come nacque Dei delitti e delle pene 311 4 Il contenuto e le novità di un libro di enorme successo 312
XX
INDICE
EDUCAZIONE CIVICA NUOVE Una riflessione giuridica di sorprendente attualità EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
secondo le
313
Cesare Beccaria T3 Autodifesa
315
Dei delitti e delle pene, Premessa online T4 Contro l’oscurità delle leggi Dei delitti e delle pene, capp. V e XLI
T5
NUOVE La tortura è una consuetudine barbara EDUCAZIONE CIVICA Linee guida secondo le
317
Dei delitti e delle pene, cap. XVI
NUOVE T6 Le pene eccessivamente crudeli e la pena di morte EDUCAZIONE CIVICA Linee guida sono disumane e inutili per prevenire i delitti 319 secondo le
Dei delitti e delle pene, capp. XXVII-XXVIII EDUCAZIONE CIVICA NUOVE Il cammino verso l’abolizione della pena di morte in Italia EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
secondo le
323
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Franco Venturi Un libro pericoloso
324
Sintesi con audiolettura 325
online
Zona Competenze 326
Interpretazioni critiche Dorinda Outram L’Illuminismo e l’esotico
Immagini interattive Audioletture
8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
327
1 La nascita del romanzo borghese 328 2 Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 330 Robinson Crusoe di Daniel Defoe 332 PER APPROFONDIRE Il mito di Robinson 334 Daniel Defoe T1 Robinson modello dell’intraprendenza borghese
335
Le avventure di Robinson Crusoe
T1a «Questa estrema necessità mi spronò al lavoro»
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
335
T1b Un’esaltazione della ragione 336 online T2 Robinson medita sui veri valori dell’esistenza Le avventure di Robinson Crusoe
Moll Flanders di Daniel Defoe 338 online T3 Un episodio cruciale nella vita di Moll Flanders Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders online T4 Moll Flanders diventa una ladra Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders
Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson 339 Samuel Richardson secondo le EDUCAZIONE NUOVE T5 Una cameriera virtuosa (ma anche battagliera) CIVICA Linee guida Pamela o la virtù ricompensata, Lettera XVI
PARITÀ DI GENERE equilibri
340
#PROGETTOPARITÀ
INDICE
XXI
Henry Fielding online T6 Un elogio dei diritti del corpo: la grande abbuffata di Tom Jones Tom Jones, vol. 1, ix, v
3 Le tipologie del romanzo settecentesco 345 I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift 346 Jonathan Swift secondo le NUOVE T7 Una guerra per stabilire da che parte si rompono le uova EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
347
I viaggi di Gulliver, I, iv
Giulia o La nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau 351 Jean-Jacques Rousseau T8 Il pentimento di Giulia
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
353
Giulia o la nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta
Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre online T9 Un’appassionata esaltazione dello stato di natura Paolo e Virginia
Candido di Voltaire 355 Voltaire LEGGERE LE EMOZIONI T10 Come Candide fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato 357 Candido, I
Voltaire secondo le NUOVE T11 Un eroico macello EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
360
Candido, III
online T12 «il paese dove tutto va bene» Candido online T13 Gli orrori dello schiavismo Candido
Voltaire T14 «Bisogna coltivare il nostro giardino»: il finale aperto e problematico del romanzo 363 Candido, XXX
VERSO IL NOVECENTO Leonardo Sciascia Il Candido di Sciascia 366 Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne 368 Laurence Sterne T15 Un esempio di metanarrazione
LEGGERE LE EMOZIONI
370
La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Italo Calvino Robinson Crusoe, il giornale delle virtù mercantili
373
Sintesi con audiolettura 375
online
Zona Competenze 377
XXII INDICE
Interpretazioni critiche Ian Watt L’«orientamento individualista e innovatore» del novel Audiolettura
Giuseppe Sertoli Tristram: un «io che vive fra le “cose” della mente» Verso il Novecento L’eredità del romanzo settecentesco
9 Giuseppe Parini 378 1 Ritratto d’autore 380 1 Una vita tutta milanese 380 2 L’ideologia: un illuminista moderato 383 3 La sfida di Parini: una poesia “alta” per la modernità 384 D1
Un nobile e un poeta si confrontano dopo la morte 386
Dialogo sopra la nobiltà, Conclusione
2 Il libro delle Odi
388
1 Un genere poetico antico per una poesia moderna 388 2 La prima fase: la poesia al servizio dell’impegno civile 388 3 Le odi della seconda fase 390 4 Lo stile delle Odi: tra sensismo e (neo)classicismo 392 PER APPROFONDIRE Il neoclassicismo pariniano: un problema critico 392 secondo le EDUCAZIONE NUOVE T1 La salubrità dell’aria 393 CIVICA Linee guida Odi, II
PER APPROFONDIRE I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento 398 T2
La caduta
LEGGERE LE EMOZIONI
399
Odi, XV online T3 La delinquenza è figlia della povertà Odi, IV – Il bisogno
3 Il giorno
405
1 Un poemetto satirico 405 2 L’articolazione dei contenuti 405 PER APPROFONDIRE All’incrocio di diversi generi 405
3 Le modalità narrative 407 I personaggi 408 Il modello spazio-temporale 409 PER APPROFONDIRE La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica 409
4 Le caratteristiche stilistiche e metriche 411 PER APPROFONDIRE Perché Il giorno non fu terminato? Alle radici di una crisi di ispirazione 411 INTERPRETAZIONI CRITICHE
Dante Isella Parini e l’eredità del classicismo online T4 Il prologo del Giorno nella prima redazione
413
Il mattino, I vv. 1-30
T5
Il «giovin signore» si risveglia 415
Il mattino, II vv. 1-91
T6
Caffè o cioccolata? 420
Il mattino, II vv. 92-124 INTERPRETAZIONI CRITICHE
Sergio Antonielli Il «giovin signore» «cavaliere inesistente»
422
INDICE XXIII
T7
Un mondo di oggetti e di status symbol COLLABORA ALL'ANALISI
423
Il mattino, II vv. 909-927; 933-972 online T8 La favola del Piacere Il meriggio, vv. 250-338
T9
La vergine cuccia 427
Il meriggio, vv. 659-697 online T10
Due interventi metaletterari: il congedo dal personaggio e quello dal precettore-narratore online T10a Il congedo del protagonista La notte, vv. 70-77
online T10b ... e quello del narratore-precettore La notte, vv. 248-259
T11 La parodia della sfilata degli eroi epici 430 La notte, vv. 351-382; 440-455
4 La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future 433 VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 436 Giuseppe Parini Le letture alla moda, Il meriggio, vv. 970-990 436
Sintesi con audiolettura 438
online
Zona Competenze 441 Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Il giorno Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Audioletture
Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio Un cauto riformatore Per approfondire L’allestimento del libro delle Odi Un mondo di automi
10 Carlo Goldoni 442 1 Ritratto d’autore 444 1 Una vita per il teatro 444 PER APPROFONDIRE Venezia nel Settecento: la capitale dell’editoria e dello spettacolo 448
2 I Mémoires
449
1 Goldoni racconta Goldoni 449 D1
Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
450
Memorie I, iv-v
3 La riforma del teatro comico 453 1 Motivazioni, caratteri e storia della riforma goldoniana 453 online D2
Il Teatro comico: una commedia sul nuovo modo di fare teatro
online D2a Bisogna innovare con gradualità Il teatro comico II, X online D2b Da cosa deriva il successo della commedia di carattere Il teatro comico II, I online D3 I primi passi della riforma nel ricordo di Goldoni Memorie I, XL
XXIV INDICE
PER APPROFONDIRE Cronistoria della commedia goldoniana 457 VERSO L’ESAME DI STATO
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano 458 Carlo Goldoni Il «Mondo» e il «Teatro» in Goldoni 458
4 I temi, l’ideologia, la lingua 460 1 La radiografia delle classi sociali 460 PER APPROFONDIRE La famiglia, i giovani, le donne: una visione progressista? 461
2 Le lingue di Goldoni 462 T1
Un tributo alla commedia dell’arte: Arlecchino diventa “armeno”
464
La famiglia dell’antiquario I, xvi-xvii
T2
Oltre la commedia dell’arte: il nuovo volto di Pantalone
EDUCAZIONE CIVICA
La famiglia dell’antiquario I, xviii; II, xi EDUCAZIONE
secondo le
secondo le NUOVE Linee guida
467
NUOVE DI GENERE T3 Lo studio del “carattere” entro una CIVICA Linee guida categoria sociale: due «rusteghi» COLLABORA ALL'ANALISI 470 PARITÀ
equilibri
#PROGETTOPARITÀ
I rusteghi, II, v
5 La locandiera
476
1 La locandiera e la nuova commedia 476 2 La vicenda e i personaggi 477 3 La struttura drammaturgica 479 T4 La locandiera, atto I 480 secondo le NUOVE T4a Il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita a confronto” EDUCAZIONE 480 CIVICA Linee guida La locandiera I, i
T4b L’entrata in scena della protagonista
482
La locandiera I, v secondo le NUOVE T4c Il primo monologo di Mirandolina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
La locandiera I, ix
484
#PROGETTOPARITÀ
secondo le NUOVE T4d Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
La locandiera I, x
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
485
#PROGETTOPARITÀ
T4e L’inizio della sfida di Mirandolina al cavaliere misogino
486
La locandiera I, xv-xvi
T5
La locandiera, atto II
492
T5a La tattica psicologica di Mirandolina: abbattere le difese del Cavaliere
492
La locandiera II, iv
T5b Il gioco degli “a parte”
496
La locandiera II, vi
T5c Lo svenimento di Mirandolina: un magistrale colpo di mano
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
PARITÀ DI GENERE equilibri
499
#PROGETTOPARITÀ
La locandiera II, xvii
T6
La locandiera, atto III
502
T6a Il cavaliere innamorato
502
La locandiera III, vi
T6b Le pragmatiche riflessioni di Mirandolina
504
La locandiera III, xiii
T6c Le carte si scoprono... e il cavaliere è sconfitto La locandiera III, xviii
EDUCAZIONE CIVICA
secondo le NUOVE Linee guida
505
INDICE
XXV
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
Ugo Dèttore «Mirandolina è forse il più decisamente femminile dei personaggi goldoniani» Roberto Alonge Il ruolo maschile di Mirandolina Guido Davico Bonino Una piccolo-borghese in cerca d’identità
510 510 511
Sintesi con audiolettura 514
online
Zona Competenze 517
Per approfondire Il modello narrativo dei Mémoires: tra autobiografia, romanzo e teatro Autobiografia in scena: Goldoni rappresenta Goldoni Interpretazioni critiche Franco Fido Le commedie del biennio 1760-62 e la proposta di una morale borghese più moderna
Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita La locandiera Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Audioletture
11 Vittorio Alfieri 518 1 Ritratto d’autore 520 1 Una vita “contro” 520 online D1 L’autoritratto di un aristocratico viziato e prepotente Vita, Epoca terza, cap. XII
SGUARDO SULL’ARTE Il ritratto nel Settecento 522 D2
La “conversione” alla letteratura 523
Vita, Epoca terza, cap. XV
2 La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 525 1 Un filo rosso tra le opere: il tema chiave della libertà 525 2 Un nuovo modello umano e una nuova idea di poesia 526 3 Un autoritratto in versi: le Rime 527 T1
Sublime specchio di veraci detti
LEGGERE LE EMOZIONI
528
Rime
T2
Tacito orror di solitaria selva
LEGGERE LE EMOZIONI
530
Rime
4 I trattati politici: il tema del potere e della libertà 532 Della Tirannide 532 secondo le NUOVE T3 La definizione di tirannide EDUCAZIONE 533 CIVICA Linee guida Della tirannide I, II
Del principe e delle lettere
534
PER APPROFONDIRE Gobetti e Alfieri 534 T4
Il potere e la cultura hanno fini opposti
Del principe e delle lettere I, IV; III, X
XXVI INDICE
536
5 Un’opera affascinante e attuale: la Vita T5
La lettura di Plutarco, «il libro dei libri»
537 LEGGERE LE EMOZIONI
539
Vita, Epoca terza, cap. VII
T6
Alfieri, uomo libero di fronte ai sovrani assoluti 540
Vita, Epoca terza, cap. VII
T7
La libertà dello spirito nella natura selvaggia della Svezia invernale LEGGERE LE EMOZIONI 542
Vita, Epoca terza, capp. VIII-IX
PER APPROFONDIRE Il registro ironico come espressione del distanziamento critico dal passato 543 SGUARDO SUL CINEMA La Vita di Alfieri e il film Into the Wild di Sean Penn: un possibile confronto? 544
6 Le tragedie 544 La scelta del genere tragico e la riforma della tragedia 544 online D3 Come Alfieri scriveva i testi tragici Vita, Epoca quarta, cap. IV
Il corpus delle tragedie: dal conflitto tiranno-uomo libero al conflitto interiore 546 Il Filippo, archetipo delle tragedie alfieriane “di libertà” 547 T8 Il conflitto fra il tiranno Filippo e l’uomo libero Carlo 548 Filippo, atto V, scene III-IV
PER APPROFONDIRE Il Filippo: un re “tiranno” e il conflitto padre-figlio 553 Saul e il conflitto interiore del tiranno 554 T9 Il sogno e la follia di Saul 555 Saul, atto II, scena I
T10 La fine di Saul LEGGERE LE EMOZIONI Saul, atto V, scene III-V, vv. 117-225
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
558
La Mirra e il tormento interiore della passione illecita 563 online T11 La forza incoercibile dell’eros e il matrimonio incompiuto Mirra, atto IV, scena III
T12 La confessione di Mirra COLLABORA ALL'ANALISI 565 Mirra, atto V, scene II e IV INTERPRETAZIONI CRITICHE
Ezio Raimondi Alfieri, fra i lumi e «le ombre sull’abisso»
568
3 Alfieri e le generazioni successive 569 Sintesi con audiolettura 571 Zona Competenze 573 VERSO L’ESAME DI STATO
online
Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Vittorio Alfieri Virginia, Virginia, II, I 574 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Mario Fubini La Vita di Alfieri 576 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità 578 Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Le tragedie
Carta interattiva dei luoghi Cronologia interattiva Immagine interattive Audioletture
INDICE XXVII
12 Libertini e letteratura libertina 579 1 La figura del libertino 580 1 Un nuovo protagonista del dibattito culturale 580 2 Giacomo Casanova: vita di un libertino 581 Giacomo Casanova D1 «Coltivare il piacere dei sensi»
LEGGERE LE EMOZIONI
582
Storia della mia vita
SGUARDO SUL CINEMA Giacomo Casanova secondo Fellini 583
2 Il filone libertino della letteratura settecentesca 584 1 La letteratura libertina 584 2 Il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte 585 PER APPROFONDIRE Don Giovanni: dal personaggio al mito 587 Lorenzo Da Ponte secondo le NUOVE T1 Il catalogo del seduttore EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Don Giovanni, I, v
T2
PARITÀ DI GENERE equilibri
588
#PROGETTOPARITÀ
L’etica di Don Giovanni 590
Don Giovanni, II, I
3 Libertinismo al femminile: la marchesa di Merteuil e Le relazioni pericolose 591 Pierre Choderlos de Laclos secondo le NUOVE T3 La formazione di una libertina EDUCAZIONE CIVICA Linee guida Le relazioni pericolose
PARITÀ DI GENERE equilibri
592
#PROGETTOPARITÀ
4 Dal cinismo alla perversione: il marchese de Sade 595 online T4 Una fredda teorizzazione del piacere Justine
Sintesi con audiolettura 598
online
Zona Competenze 599 Gallery Hogarth, La carriera di un libertino Video Aria cantata da Leporello, «Madamina, il catalogo è questo» su YouTube
Verso il Novecento Il dissoluto assolto di Saramago Sguardro sul cinema Il Settecento: un secolo di libertini
Indice dei nomi
600
Glossario
602
Indice delle rubriche
607
XXVIII INDICE
Seicento
2
Seicento
Scenari socio-culturali L’età del Barocco
LEZIONE IN POWERPOINT
Il Seicento è un’epoca di forte crisi segnata dall’instabilità ma anche da un profondo rinnovamento. La recessione economica, iniziata nella seconda metà del Cinquecento, si aggrava. L’Europa è dilaniata dalla guerra dei Trent’anni che ne ridefinisce la carta politica. Le scoperte scientifiche di Galileo Galilei contribuiscono all’affermazione della rivoluzione copernicana e allo sviluppo di una nuova concezione del mondo. Scoprire che la Terra non è al centro dell’universo è una ferita traumatica per l’orgoglio dell’umanità, che accentua il senso della vanità dell’esistenza umana. La cultura del Seicento è inoltre segnata dal crollo del paradigma aristotelico della conoscenza e dall’inizio della rivoluzione scientifica. Da questo mutamento di paradigma nasce la moderna idea di progresso. Nella produzione culturale e artistica si afferma un nuovo stile: il Barocco. Caratteristiche del Barocco sono il rifiuto dei modelli classici e di ogni tipo di regola, la ricchezza di decori e, in ambito letterario, di ingegnose metafore, volta a stupire il lettore. In campo linguistico l’aspetto più significativo è la scelta di Galileo e di altri scienziati a lui vicini di fare del volgare la lingua della scienza nascente.
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e forme della letteratura 4 L’evoluzione della lingua 3
Seicento Sguardo sulla storia Il quadro europeo L’aggravarsi della crisi economica e demografica La recessione economica, iniziata nella seconda metà del XVI secolo, si aggrava nel Seicento per molteplici fattori: dalla diminuzione della domanda delle merci e del loro prezzo al calo della produzione agricola e manifatturiera. Si verifica un crollo drastico della popolazione, causato dalle guerre, dalle carestie, dalle epidemie (devastanti quelle di peste). I ceti più deboli sono i più colpiti dalla crisi e vanno incontro a un grave impoverimento. La nascita delle compagnie commerciali Emerge però una situazione differenziata sulla base delle aree geografica coinvolte. Rispetto agli stati affacciati sul mar Mediterraneo, per i quali già nella seconda metà del Cinquecento era iniziata una fase di decadenza, gli stati che si affacciano sull’Atlantico sono invece favoriti dalle nuove rotte commerciali: con la nascita, prima in Inghilterra e in Olanda e in seguito in Francia, delle compagnie per lo sfruttamento delle colonie, lo sviluppo dei commerci rafforza i settori artigianali più qualificati e accresce il potere della borghesia mercantile, creando all’interno della compagine sociale una situazione dinamica. Monarchia assoluta e nuovi modelli politico-istituzionali La forma di governo dominante in questa fase è la monarchia assoluta, che assume nella Francia di Luigi XIV, il re Sole (1643-1715), l’espressione più compiuta, con la concentrazione di tutti i poteri nella persona del sovrano e la creazione di un nuovo apparato amministrativo borghese che esautora di fatto la nobiltà dal governo effettivo. In alcuni stati nello stesso periodo si affermano però nuove forme di governo, destinate a sostituire nel tempo il potere assoluto del sovrano. In Inghilterra, fallito nella prima metà del Seicento il tentativo degli Stuart di esautorare il Parlamento, dopo i conflitti politici e religiosi della rivoluzione guidata da Oliver Cromwell, si afferma con la seconda rivoluzione (1688) una monarchia costituzionale che sarà un modello per tutta Europa. L’Olanda, liberatasi dal dominio spagnolo, è protagonista di un rapido sviluppo economico e sociale che sostiene un modello politico repubblicano, basato sulla tolleranza religiosa e la libertà di pensiero.
Cronologia interattiva 1603
Fine del lungo regno di Elisabetta I d’Inghilterra.
1600
1600
Fondazione in Inghilterra della Compagnia delle Indie Orientali.
1610
1602
Fondazione della Compagnia olandese delle Indie Orientali.
4 Seicento Scenari socio-culturali
1618-1648
Guerra dei Trent’anni, all’inizio tra le forze cattoliche imperiali e i principi protestanti in Germania e successivamente con il coinvolgimento di tutti gli stati europei.
1620
1630
1630-1631
Diffusione della peste nel Ducato di Milano.
1642-1660
La rivoluzione inglese a opera del Parlamento contro il tentativo degli Stuart di attuare il potere assoluto; dopo il protettorato di Oliver Cromwell, tornano gli Stuart.
1640
1650 1648
Pace di Vestfalia, a conclusione della guerra dei Trent’anni: è confermata la pace di Augusta, con il riconoscimento della sovranità degli Stati a prescindere dalla fede religiosa; i sovrani si impegnano a rispettare le minoranze religiose.
La guerra dei Trent’anni e la nuova “carta” politica d’Europa Nella prima metà del Seicento la guerra dei Trent’anni (1618-1648), originata dai conflitti religiosi e dalla volontà di supremazia tra gli stati, devasta ampie zone d’Europa. Alla sua conclusione la pace di Westfalia (1648) ridefinisce i rapporti di potere nel vecchio continente, con la fine del ruolo egemone della Spagna, sostituito dal predominio politico della Francia e dell’Inghilterra. L’impero degli Asburgo risulta fortemente ridimensionato nel suo prestigio europeo e la Germania esce dal conflitto con un’economia distrutta e indebolita dalla divisione in una molteplicità di piccoli stati. La fine dei conflitti religiosi tra gli Stati e il perdurare dell’intolleranza La fase delle guerre di religione è chiusa ufficialmente dalla pace di Westfalia (1648), che ribadisce il principio del “cuius regio eius religio”, già sancito dalla pace di Augusta (1555), in base al quale i sudditi seguono la religione del loro sovrano, al quale è riconosciuta la libertà di scelta. Rispetto al trattato precedente viene inoltre stabilito il rispetto delle minoranze religiose. Continuano tuttavia a manifestarsi forme di intolleranza nei confronti di queste: in Francia nel 1685 la revoca da parte di Luigi XIV dell’editto di Nantes (che aveva concesso la libertà di culto agli ugonotti) causa l’esodo di circa duecentomila protestanti verso l’Europa settentrionale; l’anno successivo (1686) in Piemonte si compie uno sterminio dei valdesi. La decadenza della penisola In Italia la nuova realtà politica, segnata dal predominio della potenza spagnola sulla maggior parte della penisola, aggrava la situazione economica e sociale, compromessa dallo spostamento dei commerci dal Mediterraneo all’Atlantico e dalla crisi delle manifatture, a cui corrisponde il prevalere dell’attività agricola. Ne deriva un processo di concentrazione della proprietà fondiaria nelle mani di poche grandi famiglie, interessate ad avere una rendita senza preoccuparsi di modernizzare la produzione e di migliorare le condizioni di vita dei contadini. Anche nella Repubblica Veneta, tradizionalmente dedita all’attività mercantile, la terra diventa un bene rifugio per gli investimenti del patriziato cittadino. Nei primi decenni del Seicento la popolazione della penisola diminuisce drasticamente a causa delle carestie e delle epidemie di peste nei territori coinvolti nella guerra dei Trent’anni, in particolare nel milanese. Le condizioni di vita sono rese ancor più drammatiche dalla pesante politica fiscale di imposte indirette del governo spagnolo che colpisce i beni di consumo e quindi i ceti più poveri, determinando in alcuni casi sollevazioni popolari come la rivolta di Napoli del 1647, guidata dal popolano Masaniello. 1661
1685
Assunzione del potere da parte di Luigi XIV, dopo la reggenza del cardinale Mazzarino (dal 1643) e affermazione in Francia della monarchia assoluta.
1660
1670
Revoca dell’editto di Nantes a opera di Luigi XIV con abolizione dei diritti da questo riconosciuti agli ugonotti.
1680
1690
1700
1689
Seconda rivoluzione in Inghilterra: inizio del regno di Guglielmo III d’Orange e Maria II Stuart e affermazione della monarchia costituzionale.
Sguardo sulla storia 5
1
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 Un “cielo nuovo”
Due dei primi telescopi di Galileo (Firenze, Museo Galileo).
Galileo, il cannocchiale e la Luna Nel 1543, con la pubblicazione del De revolutionibus orbium caelestium l’ipotesi copernicana, che poneva il Sole al centro dell’universo e vedeva la Terra ruotare, con la Luna e gli altri pianeti, intorno ad esso, aveva innescato una serie di conseguenze che avevano iniziato a minare l’intero sistema cosmologico basato sulla concezione aristotelico-tolemaica. Tuttavia, più che con l’opera di Copernico, inizialmente conosciuta soltanto da una cerchia ristretta di studiosi (matematici, astronomi e scienziati), la nuova visione dello spazio celeste si impose con il Sidereus Nuncius (1610) di Galileo. Nel trattato lo scienziato pisano descrive le osservazioni astronomiche da lui effettuate con il cannocchiale: in particolare dimostra che la Luna era assai simile alla Terra, e dotata di una superficie irregolare, con valli, montagne, crateri (➜ C3 T1 ) smentendo inequivocabilmente l’idea che la Terra e gli astri fossero composti di materia differente, l’una caduca, l’altra perfetta ed eterna. Veniva così vanificata l’immagine di uno spazio cosmico disomogeneo e gerarchicamente ordinato, come lo si era concepito nel Medioevo, ed appariva sempre più plausibile l’ipotesi che la materia degli spazi terrestri e celesti fosse accomunata da leggi uniformi. Ipotesi poi confermata dalla teoria gravitazionale di Newton, che avrebbe unificato la spiegazione dei fenomeni terrestri e celesti. Inoltre il cannocchiale aveva rivelato la natura della Via Lattea come un agglomerato di stelle, troppo poco luminose per poter essere distinte a occhio nudo, aveva permesso di scoprire quattro satelliti di Giove, e molte stelle ancora sconosciute, rivelando così l’esistenza di un universo più ampio, vario e complesso di quanto si fosse potuto immaginare fino ad allora. Nel Sidereus Nuncius Galileo accompagna le sue osservazioni scientifiche con chiari disegni esplicativi, rendendo le questioni astronomiche finalmente accessibili anche a chi non fosse in possesso di una preparazione scientifica: un “cielo nuovo” si apriva così all’immaginazione dei contemporanei di Galileo, che ne riportarono un’impressione straordinaria, come provano molteplici testimonianze letterarie e artistiche dell’epoca. Ad esempio il poeta Marino (➜ C1) nell’Adone (canto X, ottave 39-40) fa descrivere da Mercurio il satellite terrestre con parole che riprendono quasi alla lettera la descrizione in latino nel Sidereus Nuncius (a dimostrazione della diffusione del trattato tra gli intellettuali anche non specialisti), facendole significativamente seguire da un elogio di Galileo e del suo telescopio:
6 Seicento Scenari socio-culturali
[...] Or io ti fo saver che quel pianeta1 non è, com’altri vuol, polito e piano2, ma ne’ recessi suoi profondi e cupi ha, non men che la terra, e valli e rupi. 40. La superficie sua mal conosciuta dico ch’è pur come la terra istessa, aspra, ineguale e tumida e scrignuta3, concava in parte, in parte ancor convessa. [...] 39.
1 quel pianeta: la Luna. 2 polito e piano: naturalmente levigato e liscio. Secondo la teoria aristotelica, i corpi celesti erano costituiti di materia perfetta e incorruttibile (etere o quintessenza). 3 tumida e scrignuta: rigonfia e fortemente incurvata.
L’idea di un universo infinito Una volta dimostrata l’inesistenza del “cosmo chiuso” della tradizione medievale, divenne accessibile all’immaginazione l’idea, affascinante e insieme sconcertante, di un universo infinito: un’ipotesi già formulata, nell’antichità, da Epicuro, e ripresa nel Quattrocento dal filosofo neoplatonico Cusano, ma che, una volta messo in crisi il modello cosmologico geocentrico, appariva ora maggiormente plausibile. La nuova immagine di un universo infinito suscitò opposte reazioni. Se Giordano Bruno (1548-1600) nella Cena delle ceneri (1584) l’aveva evocata entusiasticamente e aveva espresso lo slancio di un’immaginazione che, libera finalmente dai “ceppi” della concezione cosmologica tolemaica, spaziava negli infiniti spazi cosmici, compenetrata nella vita divina dell’universo, in altri, come il grande filosofo Blaise Pascal (1623-1662), produce invece un angoscioso smarrimento.
2 L’immagine dell’uomo e dell’esistenza: instabilità e mutamento
Anonimo francese, Vanitas, prima metà del XVII sec., Museo del Louvre, Parigi
La scoperta dell’universale caducità Alla base della visione del mondo di questa epoca, che si riflette nell’arte e nella letteratura del Barocco, sta certamente lo sconvolgimento conoscitivo prodotto dal crollo del paradigma cosmologico geocentrico e dalla fine, in un breve arco di tempo, di secolari certezze: persino il mondo celeste, essendo del tutto simile a quello terrestre, contrariamente a quanto si era sempre creduto, è destinato a corrompersi e a decadere, così come è fugace e caduca ogni cosa terrena. Inevitabilmente si diffonde un senso di precarietà, di IMMAGINE INTERATTIVA
Anonimo, Vanitas, 1600 ca. (Parigi, Musée du Louvre).
Un esempio del motivo della vanitas, tipico della pittura del Seicento, è un quadro conservato al Louvre, dipinto da un anonimo pittore francese del Seicento, in cui, su un fondo oscuro, emergono vari simboli del memento mori (in latino “ricorda che devi morire”, ovvero il monito a tenere presente la mortalità dell’essere umano): un teschio, che sembra guardare verso di noi, riflesso in uno specchio (simbolo dell’illusorietà e fugacità dell’esistenza), una borsa di denaro, delle carte da gioco aperte da un asso di cuori, una scacchiera (simboli di ricchezza e di fortuna), armi (che rappresentano la forza e il potere); e, d’altra parte, una chitarra con una corda rotta, dei libri chiusi, dei fiori recisi: la vita dell’uomo è trascorsa, lasciando poche, labili tracce. Tutto, si ricorda nel quadro, è destinato ad appassire, come i fiori recisi, e a svanire nel nulla, come la musica suonata dallo strumento ormai abbandonato. Gli stessi colori del quadro, dai toni pallidi e smorti, sottolineano la fugacità della vita, mentre la posizione obliqua e instabile dello specchio ne evidenzia la precarietà.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 7
instabilità: emblema di tale visione è il motivo iconografico della vanitas, ricorrente, come si vedrà, nell’arte e nella letteratura, che ricorda attraverso immagini allegoriche (come le candele spente, le bolle di sapone, i fiori recisi) la fugacità della gloria mondana e l’incombere costante della morte. Si tratta di un tema radicato nell’immaginario del tempo anche in rapporto alla visione controriformistica che, in contrasto con la prospettiva laica propria del Rinascimento, svalutava la vita terrena e induceva a riflettere sui limiti dell’uomo, sulla transitorietà e insignificanza delle cose del mondo rispetto all’eterno. Non certo irrilevante, inoltre, è stata la tragica esperienza della peste: il quotidiano spettacolo di morti repentine ha certamente condizionato l’immagine dell’esistenza, ponendo in primo piano il tema della precarietà della vita umana e la presenza minacciosa della morte.
PER APPROFONDIRE
Il mondo come teatro Smarrito ogni senso di ordine e di armonia, il senso diffuso della mutevolezza investe l’identità stessa dell’uomo del Seicento: «Quando l’uomo di questa epoca tenta di definirsi, lo fa sempre in termini di instabilità, di fluidità, di fuga» (Rousset). Lo dimostra in modo esemplare l’opera del grande artista Gian Lorenzo Bernini (1598-1680): nelle sue sculture predilige la rappresentazione di miti incentrati sulla metamorfosi, come il celeberrimo gruppo scultoreo di Apollo e Dafne, e, secondo le testimonianze dell’epoca, aveva adottato un modo nuovo di ritrarre i suoi modelli: non fermi in posa, ma in movimento. Nella visione seicentesca della realtà non a caso domina l’equivalenza mondo-teatro: ciò che cade sotto i sensi può rivelarsi solo illusoria parvenza, “scenario teatrale” che può improvvisamente cambiare volto. Gli uomini stessi si scoprono “attori” che recitano una parte.
Il tema delle metamorfosi e il gusto barocco La metamorfosi è un elemento ricorrente nella letteratura, ma particolarmente congeniale al Barocco, che si impernia su una visione cangiante e mutevole del mondo. Tra metamorfosi e metafora, due modalità centrali dello stile barocco, esiste una stretta connessione. Ad esempio: se con una metafora, diciamo che un uomo crudele è una belva feroce, nell’immaginario delle metamorfosi, la trasformazione avviene realmente (un uomo crudele, Licaone, nelle Metamorfosi di Ovidio è trasformato in lupo); se un giovane è di una bellezza fresca e delicata, può subire negli antichi miti la trasformazione in un fiore (Narciso, che, innamorato della propria immagine, si specchia nell’acqua, è trasformato nel fiore omonimo, che ama l’acqua e inclina verso il basso il suo calice). Pur alludendo a mondi immaginari più complessi, lo stretto rapporto tra metamorfosi e metafora può essere evidenziato anche nella letteratura moderna, come nella trasformazione mostruosa del dottor Jekyll in mister Hyde del romanzo di Stevenson, o in quella surreale e simbolica di un uomo in scarafaggio nella Metamorfosi di Kafka. Il tema della metamorfosi, legato all’idea di un mondo instabile, in continuo divenire, trova un modello fondamentale nelle Metamorfosi di Ovidio, non a caso onnipresenti nell’arte e nella letteratura barocca. Anche nel Medioevo il poema ovidiano spesso era stato ripreso ma interpretato in un’ottica cristiana. Nella Divina Comme-
8 Seicento Scenari socio-culturali
dia i miti ovidiani, in un mondo ordinato da precise gerarchie dell’essere, assumono il significato di una salita e di una discesa nella scala dei viventi. Le trasformazioni di Pier della Vigna in albero e dei ladri in serpenti, nell’inferno, rappresentano la discesa dei dannati nella scala degli esseri. All’opposto, la metamorfosi del pastore Glauco nel paradiso è per Dante la rappresentazione figurata dell’accesso ad una dimensione superiore a quella umana, il «trasumanar». Nel mondo barocco, come in quello ovidiano, invece, non esistono gerarchie ontologiche (che cioè riguardano il divino), e la sola legge cosmica è l’universale incessante divenire.
Testi di riferimento: J. Rousset, La letteratura dell’età barocca in Francia. Circe e il pavone, Il Mulino, Bologna 1985; G.M. Anselmi, Metamorfosi, metafora e conoscenza nel Rinascimento, in AA.VV., Metafora e conoscenza, a c. di A.M. Lorusso, Bompiani, Milano 2005.
3 I valori e i modelli di comportamento Un’epoca in cui non si ride Proprio della visione controriformistica è il richiamo all’austerità del comportamento: ridere in questo periodo viene considerato inopportuno se non addirittura colpevole. Non è quindi certo casuale il fatto che, nei ritratti dell’epoca, si vedano personaggi austeri, spesso vestiti di nero, dai volti severi, raramente sorridenti. La” dissimulazione onesta” Una virtù caratteristica del secolo, oltre all’obbedienza assoluta ai dettami della Chiesa, è l’“onesta dissimulazione”, la prudenza e la riservatezza necessarie per sopravvivere in un’epoca priva di libertà e in cui, comunque, i comportamenti individuali erano soggetti a un rigido controllo. Il letterato Torquato Accetto (1600 ca. - 1640) nel trattato Della dissimulazione onesta (1641) cerca di delineare il sottile confine che intercorre tra la colpevole menzogna e le scelte necessarie per sopravvivere in un regime tirannico (➜ D1 ). Dall’“onesta dissimulazione” all’ipocrisia il passo è breve, e l’ipocrisia è presentata non a caso nella letteratura e nel teatro come uno dei vizi del secolo: ad esempio nel Don Giovanni di Molière (➜ C11 PAG. 585), a un certo punto il protagonista spiega al servo Sganarello di voler assumere la maschera dell’ipocrita, “di moda” in quell’epoca: «l’ipocrisia è una moda; e tutti i vizi di moda passano per virtù. Il personaggio del virtuoso è dunque il migliore che si possa oggigiorno recitare e come professione quella dell’ipocrita offre vantaggi sorprendenti».
IMMAGINE INTERATTIVA
La scultura di Bernini evidenzia la nuova concezione della forma del Barocco, non statica, ma in movimento: colta in un momento che è una fase momentanea di un incessante divenire. Il corpo di Apollo esprime il dinamismo della corsa, improvvisamente bloccata, con un moto di stupore evidenziato dal braccio che non si protende per afferrare, ma sembra di colpo ritrarsi. Dafne è colta nel pieno della metamorfosi: la spinta in avanti della corsa è bloccata e il corpo sembra improvvisamente stirarsi verso l’alto, mentre le forme umane, a partire dalle estremità, trapassano in quelle vegetali. Lo spettatore non ha di fronte la rigidità di una statua, ma l’immagine di un rapido divenire, ed è indotto egli stesso a girare intorno alla statua, che da ogni angolazione presenta un aspetto diverso. Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1623-25 (Roma, Galleria Borghese).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 9
Parola chiave
Il culto dell’onore e l’epoca dei duelli Tra la seconda metà del Cinquecento e il Seicento la classe aristocratica assume nuovamente un ruolo preminente nell’ordine sociale. Per questo fenomeno si parla di “rifeudalizzazione”, anche perché la crisi commerciale del Mediterraneo, dovuta alle nuove rotte atlantiche, deprime i commerci, favorendo gli investimenti in possedimenti terrieri. Il ruolo dei nobili di quest’epoca è però totalmente diverso da quello medievale quando la cavalleria aveva un’importante funzione militare, in seguito vanificata dall’invenzione delle armi da fuoco. Perduta l’originaria funzione, per legittimare la loro superiorità i nobili danno grande importanza ai loro titoli e assumono un contegno contrassegnato dal fasto, dall’alterigia e, spesso, dalla violenza. Proprio come li ritrae Manzoni nei Promessi sposi, usavano circolare per le strade sempre armati di spada, circondati dai loro “bravi”; le questioni di etichetta diventano fondamentali, e non essere trattati in modo conforme al proprio rango nobiliare diviene un’offesa da riparare con il sangue, come testimoniano innumerevoli opere romanzesche e teatrali del tempo. Ne è un esempio il Cid di Corneille (➜ C2 TX OL). Il Seicento è dunque l’epoca dei duelli, considerati non soltanto legittimi per dirimere ogni questione controversa, ma addirittura doverosi. Neppure la Chiesa condannava con decisione tale pratica: il filosofo Blaise Pascal denunciava l’ipocrisia dei gesuiti, ricordando come essi tentassero di giustificare i duelli tra nobili con pretestuose sottigliezze dialettiche, sostenendo che i delitti commessi per ragioni d’onore potevano essere perdonati da Dio.
onore Nella gerarchia dei valori del secolo ha un posto di primo piano l’onore. Però, diversamente che in passato, quando era legato all’adempimento dei doveri imposti dal proprio ruolo (soprattutto il coraggio per chi combatte, senza il quale si è disonorati), ora l’onore dipende dal riconoscimento altrui. Nel Seicento i titoli nobiliari sono puntigliosamente esibiti ed è
necessario che gli altri li riconoscano nel loro prestigio. Quando ciò non avviene, l’onore deve essere tutelato, e chi ha mancato di rispetto deve essere punito: se nobile con una sfida a duello, se plebeo con un’azione esemplare degli sgherri e dei “bravi”. I duelli e le violenze imposte dal codice stesso di comportamento nobiliare segnarono il costume di tutta un’epoca.
Torquato Accetto
D1
Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione”
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Della dissimulazione onesta Politici e moralisti del Seicento, a cura di B. Croce e S. Caramella, Bari, Laterza, 1930
Torquato Accetto, letterato napoletano vissuto nella prima metà del Seicento, ha legato il suo nome a un trattato uscito nel 1641, Della dissimulazione onesta, in cui delinea una strategia difensiva per evitare le più gravi conseguenze del dispotismo.
La frode è proprio mal dell’uomo, essendo la ragione il suo bene, di che quella è abuso1; onde nasce ch’è impossibile di trovar arte alcuna che la riduca a segno di poter meritar lode2. Pur si concede talor il mutar manto per vestir conforme alla stagion della fortuna3, non con intenzion di fare, ma di non patir4 danno, ch’è quel 5 solo interesse col quale si può tollerar chi si vuol valere della dissimulazione, che 1 La frode… abuso: riferimento a un verso dantesco, «Ma perché frode è de l’uom proprio male, / più spiace a Dio» (Inferno XI 25-26). Il senso è che la frode è un cattivo uso della ragione, che perverte la dote migliore dell’uomo.
10 Seicento Scenari socio-culturali
2 onde… lode: di qui deriva che è impossibile trovare alcun modo di giustificarla, tanto da poterla lodare. 3 Pur si concede… fortuna: tuttavia, pur senza esercitare la frode (che è a danno degli altri), è lecito qualche volta dissimu-
lare, per assumere un’apparenza adatta ai tempi. L’autore indica la dissimulazione con la metafora di un manto, che non lascia trasparire quanto in certi tempi può essere motivo di ostilità o di persecuzione. 4 patir: subire.
però non è frode; e anche in senso tanto moderato5, non vi si dee poner mano6 se non per grave rispetto7, in modo che si elegga8 per minor male, anzi con oggetto di bene9. Sono10 alcuni che si trasformano con mala piega di non lasciarsi mai intendere11; e, spendendo questa moneta con prodiga mano12 in ogni picciola occorrenza13, 10 se ne trovano scarsi dove più bisogna14, perché, scoperti e additati per fallaci15, non è chi loro creda. Questo è per avventura il più difficile in tal’industria16, perché, se in ogni altra cosa giova l’uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il contrario, poi che il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona riuscita. È, dunque, dura impresa il far con arte perfetta quello che non si 15 può esercitar in ogni occasione. 5 in senso tanto moderato: in senso tanto ristretto, utilizzandola cioè non per recare danno, ma per non subirne. 6 non vi si dee… mano: non vi si deve ricorrere. 7 rispetto: motivo. 8 si elegga: si scelga (di utilizzarla).
9 con oggetto di bene: con uno scopo benefico. 10 Sono: ci sono. 11 si trasformano… intendere: fingono, con la cattiva abitudine di non farsi mai comprendere. 12 spendendo… mano: la metafora indica
che queste persone usano mentire con grande frequenza (prodiga, “generosa”). 13 in ogni picciola occorrenza: anche in questioni poco importanti. 14 bisogna: è necessario. 15 fallaci: menzogneri. 16 industria: abilità, arte.
Concetti chiave La differenza tra “onesta dissimulazione” e frode
La tesi dell’autore, espressa con un periodare tortuoso, specchio della delicatezza dell’argomento trattato, è che in certe particolari circostanze può essere utile non dire tutta la verità, a patto che la dissimulazione non danneggi nessuno e non diventi una regola di vita. Si potrebbe ricordare che nel Principe Machiavelli suggeriva di saper «essere gran simulatore e dissimulatore» (cap. XVIII). Sebbene il trattato secentesco mostri l’influenza dello storico fiorentino, se ne discosta sul piano etico, distinguendo i casi in cui si può operare la dissimulazione (perché non danneggerebbe nessuno) da quelli in cui sarebbe da condannare (perché rivolta a intenzioni dannose verso il prossimo). Inoltre, a differenza di Machiavelli, Accetto non rivolge il suo scritto a chi detiene il potere o aspira ad averlo, ma a chi lo subisce, sperimentandone il volto tirannico. L’“onesta dissimulazione” si distingue dunque dalla frode, perché, lungi dall’istigare alla menzogna o alla doppiezza, mira a contenere i danni della cattiva condotta altrui.
L’attualità del trattato
Il Seicento non fu l’unico periodo in cui si apprezzò il valore dell’“onesta dissimulazione”. L’opera di Torquato Accetto venne scoperta e pubblicata da Benedetto Croce nel 1928, durante il periodo fascista, e apparve illuminante a un intellettuale che, come Croce, non volle mai cedere al fascismo, ma preferì esercitare la sua opposizione in modo prudente e misurato, senza gesti clamorosi, riuscendo a evitare le persecuzioni del regime e a risultare, nello stesso tempo, un punto di riferimento fondamentale per gli antifascisti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Perché Torquato Accetto definisce «onesta» la dissimulazione? ANALISI 2. Secondo quanto è detto nel brano, la «dissimulazione onesta» coincide con la frode (rr. 2-3)? STILE 3. Evidenzia le metafore del brano, spiegandone il significato.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
ESPOSIZIONE ORALE 4. Sei d’accordo con quanto l’autore del brano esprime in merito all’importanza della dissumulazione per non subire danni o ne dissenti in tutto o in parte? In entrambi i casi argomenta la tua risposta.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 11
4 Il ruolo dell’intellettuale Il perdurante influsso della Controriforma e il drammatico problema della libera espressione del pensiero Nel corso del Seicento l’influsso della Controriforma permea in Italia ogni aspetto della vita e della cultura, grazie a un’azione capillare di propaganda (che investe anche l’ambito artistico), al rilancio dell’educazione cattolica, affidate entrambe all’ordine dei gesuiti, e al perfezionamento di un sistema repressivo della libertà di pensiero molto efficiente, attraverso l’Inquisizione (in cui i domenicani ebbero ruoli di primo piano) e la Congregazione dell’Indice, pronte a censurare ogni voce dissidente (o presunta tale). Nel clima opprimente della Controriforma, la maggior parte degli intellettuali rinuncia così ad un’azione critica, sceglie la “dissimulazione” prudente delle proprie idee e spesso si limita a pubblicare all’estero le proprie opere (è il caso dell’Adone di Marino, il maggior poeta del tempo, pubblicato in Francia nel 1623). Gli intellettuali dissidenti Ma non mancano intellettuali “dissidenti”, afferenti soprattutto all’ambito filosofico-scientifico, che avvertono la responsabilità del loro ruolo e si battono per difendere la libera espressione del pensiero e per riportare l’umanità ai giusti valori. Per lo più essi pagano a caro prezzo la loro indipendenza: da Giordano Bruno, la cui morte sul rogo come eretico (1600) apre emblematicamente il secolo, a Tommaso Campanella (1568-1639), che passa in carcere la maggior parte della sua vita, a Galileo, costretto alla resa umiliante dell’abiura (cioè la rinuncia sotto giuramento alle idee in cui credeva). In un sonetto, che riportiamo, Campanella presenta significativamente come inevitabile approdo dei sostenitori del libero pensiero il carcere (➜ D2 ) Altra figura di intellettuale critico, appartenente però all’ambito della storiografia, è quella di Paolo Sarpi, sostenitore dell’autonomia tra stato e Chiesa e autore dell’Istoria del Concilio tridentino, da lui considerato l’esito della grave decadenza della Chiesa. Giordano Bruno Giordano Bruno può essere considerato un eroe del libero pensiero. Frate domenicano, inizia ben presto a manifestare uno spirito indipendente e ribelle e viene perciò denunciato all’Inquisizione. Dopo un primo processo, abbandona Napoli e inizia una vita errabonda, che lo conduce in diversi paesi europei (Svizzera, Francia, Inghilterra, Germania). Le nuove prospettive aperte dalla rivoluzione copernicana lo entusiasmano, ma, andando oltre Copernico, ipotizza che l’universo sia infinito. Le sue teorie sono considerate sospette dall’Inquisizione, che avvia un procedimento nei suoi confronti. Il processo, iniziato a Venezia nel 1592, in seguito a una denuncia del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo (che lo aveva ospitato, ma era poi entrato in conflitto con il filosofo), dall’anno seguente prosegue a Roma presso il Sant’Uffizio. Giordano Bruno è inizialmente fiducioso nel dialogo e nella forza delle idee: cerca perciò di confrontarsi intellettualmente coi teologi del Sant’Uffizio, ma alla fine, dopo un processo durato otto anni, è posto di fronte a un aut-aut, l’abiura o la condanna a morte. Considerando la dignità del proprio pensiero più importante della vita stessa, il filosofo sceglie la condanna a morte. Condannato al rogo, sarà giustiziato nel febbraio del 1600 a Campo de’ Fiori a Roma, dove ancor oggi, a ricordo della sua eroica difesa della libertà di pensiero, campeggia una sua statua. Quel giorno non potrà dire nulla alla folla riunita per assistere all’esecuzione, perché la sua libertà di parola, temuta dagli inquisitori, sarà impedita bloccandogli la lingua con una morsa.
12 Seicento Scenari socio-culturali
Le sue rivoluzionarie teorie cosmologiche sono esposte in tre dialoghi in volgare scritti nel 1584: La cena de le ceneri, De la causa, principio et uno e De l’infinito universo et mondi, in cui Bruno non solo sostiene la teoria copernicana, ma anche l’infinità dello spazio cosmico e l’esistenza di innumerevoli mondi. Sempre in volgare sono i tre dialoghi morali: Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo Pegaseo e De gl’heroici furori. Particolarmente significativa è l’esaltazione dell’”eroico furore”, inteso come passione conoscitiva che porta l’uomo a comprendere la forza inesauribile e creativa della natura. Giordano Bruno è anche autore della commedia Il Candelaio. Tommaso Campanella Tommaso Campanella nelle sue numerose opere, scritte per lo più in carcere, conduce una coraggiosa battaglia per illuminare le coscienze dei contemporanei, convinto, sulla scia di Dante, della missione profetica dell’intellettuale. Nato nel 1568 a Stilo, un paese della Calabria da una famiglia povera (il padre, analfabeta, era calzolaio), Campanella entra, ancora adolescente, nell’ordine domenicano e inizia ben presto a peregrinare per l’Italia. Animato da un’intensa religiosità, denuncia senza esitazioni la Chiesa controriformistica, accusandola di aver tradito il compito affidatole da Dio. Gli interessi di Campanella spaziano dall’astrologia alla magia, dalla filosofia naturalistica di Telesio al modello cosmologico copernicano, tutti campi allora “sospetti” del pensiero; viene perciò ben presto accusato di eresia ed è più volte arrestato e imprigionato (anche a Roma nelle carceri del Sant’Uffizio). Tornato in Calabria, partecipa a una congiura contro il dominio degli spagnoli e della Chiesa, volta a instaurare una maggiore giustizia sociale. Arrestato e tradotto nelle carceri di Napoli nel 1599, Campanella riesce a evitare la pena di morte fingendosi folle, nonostante le reiterate torture. Resta nelle carceri napoletane ben ventisette anni, durante i quali scrive molte opere: trattati filosofici, politici e anche poesie di carattere filosofico-religioso, in cui si avverte la lezione di Dante. Fra tutte le opere spicca il trattato utopico La Città del Sole (➜ C5 PAG. 210), che amici fidati riescono a diffondere e a far pubblicare, nella versione latina, nel 1623 (e quindi, a Parigi, nel 1637). Rimesso in libertà nel 1626, si reca a Roma, dove, dopo essere stato di nuovo arrestato, riesce a ottenere la protezione di papa Urbano VIII, interessato alle sue dottrine astrologiche. Qualche anno dopo, su consiglio dello stesso papa, fugge in Francia dove è accolto con favore dal re, e dove rimane fino alla morte, nel 1639.
Sguardo sul cinema Giordano Bruno, il film Il film Giordano Bruno di Giuliano Montaldo (1973) racconta gli ultimi nove anni della vita del filosofo, presentato nella sua complessa umanità, in un’interpretazione dell’attore Gian Maria Volonté di grande forza espressiva. Contribuisce all’efficacia del film la splendida fotografia, che sottolinea il contrasto tra la sontuosità barocca degli ambienti aristocratici veneziani e della curia vaticana, e l’aspra durezza delle carceri dell’Inquisizione. Anche nella parte iniziale del Galileo di Liliana Cavani (1968) è rappresentata suggestivamente la figura di Giordano Bruno. Una scena significativa è quella in cui si immagina un colloquio tra Bruno e Galileo, quando entrambi si trovavano nello stato veneziano, in cui se ne mettono in luce affinità e differenze.
Fotogramma dal film Giordano Bruno di Giuliano Montaldo.
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Tommaso Campanella
D2
Al carcere I sonetti
T. Campanella, Le poesie, a c. di F. Giancotti, Einaudi, Torino 1998
Tema del sonetto è la condizione del pensatore libero nel periodo della Controriforma e l’orrore delle carceri del Sant’Uffizio. Di incerta datazione, è probabilmente da riferire al breve periodo (1594-1595?) in cui Campanella, arrestato per eresia, fu imprigionato a Roma insieme a Giordano Bruno, Francesco Pucci e altri pensatori liberi.
Come va al centro ogni cosa pesante dalla circonferenza1, e come ancora in bocca al mostro, che poi la devora, 4 donnola incorre timente e scherzante2; cosí di gran scienza ognuno amante, che audace passa dalla morta gora al mar del vero, di cui s’innamora, 8 nel nostro ospizio alfin ferma le piante.3 Ch’altri l’appella antro di Polifemo, palazzo altri d’Atlante, e chi di Creta 11 il laberinto, e chi l’Inferno estremo (ché qui non val favor, saper, né pièta), io ti so dir4; del resto, tutto tremo, 14 ch’è ròcca sacra a tirannia segreta5.
La metrica: Sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD. 1 Come… circonferenza: come ogni oggetto pesante tende a cadere dalla superficie verso il centro della terra. 2 come… scherzante: come la donnola corre per istinto naturale (perciò timente, “timorosa”, ma anche scherzante, quasi spensierata) nelle fauci del rospo, da cui è attratta, e che poi la divora. La credenza
in misteriose “simpatie” naturali tra esseri diversi, di cui Campanella parla nel libro Senso delle cose, è propria della magia naturale, di cui Campanella era seguace. Le due similitudini sottolineano l’inevitabilità delle persecuzioni per chiunque ricercasse la verità nel periodo oscuro della Controriforma. 3 cosí… piante: così ogni amante della conoscenza che, con coraggio, passi dalla morta palude (gora) delle opinioni im-
poste dalla Chiesa, al mare aperto della verità, di cui si innamora, termina inevitabilmente il suo cammino nel luogo che ci ospita (il carcere del Sant’Uffizio). L’espressione morta gora (“fossato d’acqua paludosa e stagnante”) è tratta dall’Inferno dantesco (VIII 31, in riferimento alla palude Stigia) e anticipa le immagini di luoghi infernali rappresentati nelle terzine. 4 Ch’altri… dir: perché io ti so dire che alcuni chiamano questo luogo antro di Polifemo, altri palazzo di Atlante, altri labirinto di Creta (in cui era rinchiuso il Minotauro), altri il profondo dell’inferno (perché qui non esistono benevolenza, sapienza né pietà). I luoghi mitici e immaginari, enumerati con un climax che significativamente giunge fino all’inferno, suggeriscono un senso di smarrimento, di chiusura e di oppressione. 5 del resto… segreta: per il resto, tremo nel parlarne, perché (il carcere) è la roccaforte di una misteriosa tirannia. Campanella vuole suggerire che il carcere del Sant’Uffizio non è consacrato al bene, e perciò a Dio, ma al male, e perciò al suo avversario, il demonio.
Concetti chiave Il carcere del Sant’Uffizio, convegno di spiriti liberi e luogo infernale
Nella prima parte del sonetto, costituita dalle quartine, attraverso due similitudini, l’una tratta dall’osservazione della natura (la pietra che cade verso terra), l’altra dalla concezione magica delle “simpatie occulte” (la donnola attratta dal rospo), l’autore vuole evidenziare come il carcere del Sant’Uffizio fosse l’inevitabile approdo di chi aspirasse ai vasti e liberi orizzonti della verità. Nelle terzine, immagini tratte dalla letteratura e dal mito mettono in luce le connotazioni “infernali” delle carceri dell’Inquisizione, delineando la rappresentazione claustrofobica di un luogo chiuso, oppressivo, sepolto nelle profondità della terra, fortificato (rocca), alla cui potenza tirannica non si sfugge.
14 Seicento Scenari socio-culturali
La simbologia dello spazio
Il contrasto fra l’intellettuale libero e il potere tirannico è evidenziato dalla simbologia dello spazio, caratterizzata da marcate opposizioni: all’orizzonte aperto e libero del pensiero, il mar del vero, la cui vastità è resa dall’enjambement dei vv. 6-7 e dall’aggetivo audace in apertura di verso, a suggerire lo slancio di una navigazione verso lontani orizzonti, si contrappone l’angustia della morta gora delle opinioni imposte dalla Chiesa: un sapere morto, limitato da angusti confini.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della poesia. STILE 2. I temi della poesia sono espressi attraverso metafore legate a immagini concrete: indica in modo schematico le metafore del sonetto, evidenziando il rapporto con i temi.
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 3. Fai una ricerca sui rimandi letterari presenti nel sonetto e condividi i risultati della ricerca in classe.
online D3 Tommaso Campanella A certi amici I sonetti
città in conflitto: Roma, città dei papi, e Venezia, “porta 5 Due dell’Italia verso l’eresia” Roma barocca, centro di potere e di cultura Nel Seicento, come già fin dalla seconda metà del Cinquecento, Roma e Venezia si confermano due poli in contrapposizione. Roma è la capitale di una Chiesa cattolica sempre più simile a una monarchia assoluta. La stessa configurazione urbanistica della città tende in quest’epoca a sottolineare tale ruolo attraverso una sfarzosa e scenografica architettura barocca, dove spicca il colonnato di piazza San Pietro, il cui significato ideologico è sintetizzato dall’autore, Gian Lorenzo Bernini (1598-1680): «essendo San Pietro quasi matrice di tutte le chiese, doveva haver un portico che dimostrasse di ricevere a braccia aperte maternamente i cattolici per confermarli nella credenza, gli heretici per riunirli alla Chiesa, e gli infedeli per illuminarli alla vera fede». La città eterna in quest’epoca si consolida come centro di potere e di cultura, dove hanno sede non solo le istituzioni legate alla Chiesa, come il Sant’Uffizio e il Collegio romano dei gesuiti, ma anche l’accademia dei Lincei e, più tardi (dal 1690), quella dell’Arcadia. Venezia: da «porta dell’Italia verso l’eresia» a capitale dell’edonismo A Roma si contrappone Venezia: fin dal periodo della Riforma, Venezia era considerata «la porta dell’Italia verso l’eresia» (Ricci), la città più aperta ai contatti con i protestanti. Nella città lagunare si potevano trovare facilmente libri proibiti; nei salotti veneziani, in cui intervenivano anche numerosi intellettuali europei, si discuteva con una libertà impensabile nelle altre città italiane. Non sorprende perciò che Venezia si sia posta più volte in contrasto con la Chiesa romana, fino ad arrivare a un vero e proprio scontro, la cosiddetta “contesa dell’interdetto”, tra il 1606 e il 1607, che fece persino temere il passaggio di Venezia al campo protestante. La “contesa dell’interdetto” All’origine della contesa è il tentativo del papa Paolo V di limitare l’indipendenza della Repubblica di Venezia, contestando l’emanazione La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 15
da parte di quest’ultima, tra il 1604 e il 1605, di leggi che impedivano di costruire chiese o di cedere beni a ordini religiosi senza l’autorizzazione del Senato veneziano, e soprattutto l’arresto, disposto dai magistrati veneziani, di due ecclesiastici, accusati di reati comuni. Il papa intimò a Venezia di annullare tali disposizioni e di consegnare i due religiosi alla Santa Sede. Al netto rifiuto del governo veneziano, Roma rispose con la scomunica e l’interdetto, ossia il divieto di celebrare funzioni religiose nel territorio. Come difensore, Venezia scelse Paolo Sarpi, frate appartenente all’ordine dei Serviti, uomo di legge e sostenitore convinto del dialogo e della libertà di coscienza. Venezia capitale del divertimento Quando la frattura fu ricomposta, Venezia abbandonò quasi del tutto le aspirazioni al rinnovamento religioso, ma non quelle alla libertà. Assunse allora i caratteri di una gaudente capitale dell’edonismo, così attraente per i viaggiatori da essere denominata la «calamita d’Europa». In questo periodo Venezia scoprì la sua vocazione per il teatro, che tanti frutti avrebbe dato nel secolo successivo. Nel 1637 vi si aprì il primo teatro pubblico a pagamento, il San Cassiano. Alla fine del secolo i teatri sarebbero stati almeno diciotto.
Veduta di Venezia, incisione di Hogenberg e Braun dal Civitates Orbis Terrarum, 1571-1617.
Paolo Sarpi e l’Istoria del Concilio tridentino Paolo Sarpi, veneziano (1552-1623), apparteneva all’ordine dei frati serviti. Uomo di vastissima cultura, esperto di teologia e di diritto, era consulente della Repubblica di Venezia e in questo ruolo stese vari rapporti consultivi. In occasione del conflitto con la Curia pontificia, Sarpi, che credeva fermamente nell’autonomia dello Stato dalla Chiesa, difese con grande vigore la Repubblica veneziana dall’ingerenza della Curia romana. Nonostante la protezione del Senato veneziano, subì diversi attentati e, nel 1607, venne scomunicato. Dopo che la contesa venne risolta, Sarpi tradusse la sua visione etico-religiosa nell’Istoria del Concilio tridentino, un trattato in otto libri pubblicato nel 1619 in Inghilterra con lo pseudonimo di Pietro Soave Polano. Per le idee espresse l’opera venne immediatamente messa all’Indice. L’Istoria del Concilio tridentino ricostruisce in modo analitico, sulla base dei documenti, le vicende che portarono al Concilio di Trento e il suo svolgimento fino alla conclusione del Concilio stesso. Si tratta di un testo “militante” in un duplice senso: alla base dell’opera sta una grande passione etico-religiosa e in essa la lettura dei fatti è soggetta alla tesi che Sarpi vuole sostenere. Per lo storico veneziano il Concilio è stato un’operazione fallimentare perché fin dall’inizio la Chiesa cattolica, ormai lontana dallo spirito evangelico che avrebbe dovuto ispirarla, si era proposta di condannare la riforma protestante e di ribadire l’autorità assoluta del papa e della Chiesa di Roma sui credenti. Non gli ideali religiosi, ma la ragion di Stato, la volontà di mantenere e accrescere il potere temporale della Chiesa, hanno agito, secondo Sarpi, nelle vicende conciliari. Nonostante la vis polemica che lo stimola a scrivere, Sarpi utilizza uno stile controllato, rigorosamente razionale, lontano dall’enfasi propria di molta prosa barocca.
16 Seicento Scenari socio-culturali
Paolo Sarpi
D4
Le speranze deluse dal Concilio di Trento Istoria del Concilio tridentino, Proemio
P. Sarpi, Istoria del Concilio tridentino, Einaudi, Torino 2011
Nel Proemio della Istoria, che riportiamo, Sarpi illustra gli obiettivi della sua opera e contrappone gli uomini pii, che con il Concilio intendevano riunificare la Chiesa, alla curia romana, che se ne era invece servita per accrescere la sua già esorbitante potenza.
Il proponimento1 mio è di scrivere l’istoria del Concilio tridentino2, perché quantonque3 molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti n’abbiano toccato qualche particolar successo4, e Giovanni Sleidano5, diligentissimo autore, abbia con esquisita diligenza6 narrate le cause antecedenti7, nondimeno, poste tutte queste cose insieme, 5 non sarebbono bastanti ad un’intiera8 narrazione. Io subito ch’ebbi gusto delle cose umane9, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero10, e dopo l’aver letto con diligenza quello che trovai scritto e li publici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercar nelle reliquie de’ scritti11 de prelati et altri nel Concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate e li 10 voti o pareri detti in publico, conservati dagli autori proprii12 o da altri, e le lettere d’avisi13 da quella città scritte, non tralasciando fatica o diligenza, onde ho avuto grazia di vedere sino qualche registro intiero di note14 e lettere di persone ch’ebbero gran parte in quei maneggi15 Avendo adunque tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abondante 15 materia per la narrazione del progresso16, vengo in risoluzione di ordinarla. Racconterò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di 22 anni17 per diversi fini e con varii mezzi da chi procacciata e sollecitata18, da chi impedita e differita19, per altri anni 1820 ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con varii fini, e che ha sortita forma e compimento tutto contrario al dissegno 20 di chi l’ha procurata21 et al timore di chi con ogni studio22 l’ha disturbata: chiaro documento di rasignare li pensieri in Dio23 e non fidarsi della prudenza24 umana.
1 proponimento: proposito. 2 Concilio tridentino: il Concilio di Trento, svoltosi dal 1545 al 1563. 3 quantonque: sebbene. 4 toccato… successo: accennato a qualche avvenimento particolare. 5 Giovanni Sleidano: legato protestante di Schleiden, città presso Colonia, aveva partecipato al Concilio di Trento e ne aveva parlato in una sua opera storiografica dedicata all’impero di Carlo V e alle origini della Riforma. È significativo che, in apertura della propria Istoria, Sarpi citi, lodandola, l’opera di uno storico protestante. 6 esquisita diligenza: apprezzabile precisione. 7 le cause antecedenti: le cause che portarono alla convocazione del Concilio. 8 intiera: completa.
9 Io… umane: non appena io provai interesse per le cose umane. 10 saperne l’intiero: averne una co noscenza completa. 11 nelle… scritti: negli scritti rimasti. 12 dagli autori proprii: da coloro che li avevano proposti. 13 le lettere d’avisi: le relazioni ufficiali inviate ai vari stati. 14 onde… note: tanto che ho avuto la fortuna di vedere anche delle raccolte complete di annotazioni. 15 maneggi: affari, questioni. 16 progresso: susseguirsi degli avvenimenti. 17 nel corso… anni: dal 1523 (anno in cui il papa Adriano VI manifestò il proposito di convocare un Concilio) al 1545 (quando ebbe inizio il Concilio di Trento). 18 da chi… sollecitata: da alcuni (quelli
che aspiravano a una riconciliazione con i protestanti) ricercata e sollecitata. 19 da chi… differita: da altri (il papato) ostacolata e rimandata. 20 per… 18: dal 1545 al 1563, periodo in cui, con varie interruzioni, si svolse il Concilio. 21 ha sortita… procurata: ha conseguito forma e conclusione del tutto contrari agli obiettivi di coloro che l’avevano fatto convocare. 22 studio: mezzo, impegno. 23 chiaro… Dio: prova evidente della necessità di confidare (rasignare) soltanto in Dio. 24 prudenza: previdenza, capacità di determinare il proprio destino. Sarpi esprime qui un’idea fatalistica del destino, che gli uomini non sarebbero in grado di determinare in alcun modo.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 17
Imperoché questo Concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii25 per riunire la Chiesa che comminciava a dividersi, ha così stabilito lo schisma26 et ostinate le parti,27 che ha fatto28 le discordie irreconciliabili; e maneggiato da li prencipi29 per 25 riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior deformazione30 che sia mai stata da che vive il nome cristiano, e dalli vescovi sperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, l’ha fatta loro perdere tutta intieramente, riducendoli a maggior servitù; nel contrario temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza, da piccioli 30 principii pervenuta con varii progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggetta, che non fu mai tanta, né così ben radicata31. Non sarà perciò inconveniente chiamarlo la Illiade del secol nostro, nella esplicazione32 della quale seguirò drittamente la verità; non essendo io posseduto33 da 35 passione che mi possi far deviare. E chi mi osserverà in alcuni tempi34 abondare35, in altri andar ristretto36, si raccordi37 che non tutti li campi sono di ugual fertilità, né tutti li grani meritano d’esser conservati; e di quelli che il mietitore vorrebbe tenir conto, qualche spica38 anco sfugge la presa della mano o il filo della falce, così comportando la condizione39 d’ogni mietitura, che resti anco parte per rispigolare40. 25 procurato… uomini pii: ottenuto dagli uomini sinceramente religiosi. Il giudizio indica chiaramente la posizione ideologica dell’autore, secondo il quale i veri uomini di fede erano coloro che volevano riconciliarsi con i protestanti. 26 stabilito… schisma: rafforzato lo scisma. 27 ostinate… parti: rese inconciliabili le posizioni. 28 fatto: reso. 29 maneggiato… prencipi: utilizzato dai
Sebastiano Ricci, Papa Paolo III ispirato dalla Fede a convocare il Concilio di Trento, 1687 (Piacenza, Museo Civico).
18 Seicento Scenari socio-culturali
principi. 30 deformazione: degenerazione, decadenza. 31 per moderare… radicata: per rego-lare l’enorme potere (della Chiesa di Roma), da un modesto inizio pervenuto gradualmente a un eccesso illimitato, lo ha talmente rinsaldato e reso sicuro su tutta la parte della Chiesa rimasta soggetta al papato, che mai tale potere era stato così grande e così assoluto. 32 esplicazione: resoconto.
33 posseduto: dominato. 34 in alcuni tempi: in alcuni momenti. 35 abondare: è sottinteso “nella nar-razione”. 36 andar ristretto: essere breve. 37 si raccordi: bisogna che si renda conto. 38 spica: spiga. 39 così… condizione: essendo inevitabile. 40 che non tutti li campi… rispigolare: l’autore fa uso di una metafora; rispigolare: raccogliere ciò che è sfuggito, l’autore intende da parte degli storici.
Concetti chiave Il metodo storico e la tesi dell’autore
Nel passo proemiale dell’Istoria del Concilio tridentino, Paolo Sarpi, come è consueto nelle opere storiografiche, illustra il procedimento di composizione della propria opera, riferendo di aver consultato un gran numero di documenti, anche di prima mano, e di opere storiografiche; dichiara inoltre di aver sempre ricercato il vero, senza essere spinto da faziosità; al contempo, però, esplicita fin da principio una tesi ben precisa, che il Concilio abbia fallito in tutti i suoi obiettivi, non ponendo alcun rimedio alle difficoltà della Chiesa, ma anzi aggravandole. Secondo l’autore, il Concilio, anziché ristabilire il dialogo tra cattolici e protestanti, come avevano sperato coloro (gli uomini pii) che ne avevano auspicato la convocazione, aveva reso insanabile la frattura tra le due parti; anziché limitare il potere del pontefice, l’aveva reso assoluto; anziché riformare la Chiesa cattolica, ne aveva accentuato la degenerazione.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Come è d’uso, nel Proemio della sua opera storiografica, Sarpi si presenta come autore. Quali aspetti di sé fa emergere? Quali elementi della sua opera storiografica mette in rilievo? ANALISI 2. Che giudizio dà Sarpi del Concilio di Trento? Per quali ragioni? 3. Lo scrittore critica la Chiesa cattolica del suo tempo. Per quali aspetti? Quale ideale religioso fa emergere? Come vorrebbe la Chiesa? STILE 4. Individua nel brano le antitesi e riportale in uno schema che evidenzi il conflitto su cui si incentra il trattato storiografico di Sarpi.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Lo scetticismo di Sarpi potrebbe essere paragonato a quello di Guicciardini. Sapresti spiegare per quali idee?
7 I centri della cultura Il declino della corte e la crisi dell’università Nel corso del Seicento, anche in rapporto alla grave crisi politica ed economica che investe l’Italia, le corti perdono sempre più il ruolo di centri propositivi di modelli culturali capaci di influenzare la visione del mondo, come era stato l’Umanesimo, e assumono il volto di complesse strutture burocratiche che necessitano di efficienti (e obbedienti) funzionari o di tecnici, più che di intellettuali creativi e autonomi. A loro volta le università cadono in un rigido conformismo, rinunciano, anche in rapporto al plumbeo clima controriformistico, a sviluppare la ricerca intellettuale e si limitano a custodire e tramandare un sapere acquisito una volta per tutte, fondato, in ambito filosofico-scientifico, sul dogmatico rispetto dei testi di Aristotele. Il proliferare delle accademie Per tutto il Seicento l’Italia vede la nascita di innumerevoli accademie, non solo nelle grandi città, ma anche in centri minori. Il fenomeno può essere spiegato con il bisogno, avvertito dagli uomini di cultura, di ritrovarsi in ambienti riservati solo agli adepti, in cui poter dialogare lontano dalle pretese e dal controllo del potere. I soci delle accademie assumevano nomi fittizi, usavano linguaggi cifrati e rispettavano minuziose regole sugli argomenti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 19
da trattare (nella maggior parte dei casi erano programmaticamente esclusi campi pericolosi come la teologia o la politica). Limite delle accademie letterarie, a parte rarissimi casi, fu l’autoreferenzialità, cioè il fatto che i destinatari dei contenuti prodotti coincidessero con i produttori dei medesimi, senza che fosse previsto uno scambio con l’esterno, un confronto reale.
I LUOGHI DELLA CULTURA
Il ruolo delle accademie scientifiche nella costruzione di un nuovo sapere Nel Seicento acquistano particolare rilevanza le accademie scientifiche. La più importante fu l’Accademia dei Lincei, fondata a Roma nel 1603, di cui fu membro anche Galileo (fu proprio l’Accademia a pubblicare nel 1623 il Saggiatore): il nome Lincei, riferito allo sguardo acuto e penetrante della lince, rappresenta il programma di ricerca dell’accademia, ossia l’intento di cogliere i segreti più nascosti della realtà. A Firenze, nel 1657, fu fondata da allievi di Galileo l’Accademia del Cimento, con l’obiettivo di mantenere vivo e proseguire l’insegnamento del grande scienziato. Ne fecero parte figure importanti di naturalisti e medici, come Francesco Redi, Marcello Malpighi e Lorenzo Magalotti.
Le accademie scientifiche Nel Seicento un luogo di aggregazione fondamentale per gli intellettuali sono le accademie, tra le quali acquistano particolare rilevanza le accademie scientifiche, come quella del Lincei, fondata a Roma nel 1603. Le accademie scientifiche in quest’epoca sono un luogo di cultura contrapposto alle università: se queste infatti erano rivolte alla divulgazione di un sapere già acquisito, le accademie miravano a uno sviluppo costante delle conoscenze; inoltre, mentre la cultura universitaria era fondata prevalentemente su libri, quella delle accademie dava spazio all’osservazione diretta e alla sperimentazione, avvalendosi dei nuovi strumenti allora inventati, quali cannocchiali e microscopi. Le accademie erano anche dotate di laboratori, giardini botanici, raccolte museali, fondamentali per un sapere vivo e in continua evoluzione, costruito sull’osservazione diretta e sulla sperimentazione. Nelle università il rapporto tra docente e discepoli era asimmetrico e gerarchico, mentre nelle accademie era fondato sulla parità e sulla collaborazione reciproca. Anche i libri prodotti dalle accademie erano di tipo nuovo: erano infatti arricchiti da illustrazioni precise e dettagliate e scritti con un linguaggio adatto alla comunicazione scientifica, chiaro, univoco e preciso.
Tavole illustrate corredavano i volumi dell’accademia dei Lincei: ne sono esempio il Tèsoro messicano, con illustrazioni di piante e animali scoperti nelle nuove terre americane, e il Persia tradotto in verso sciolto e dichiarato, pubblicato nel 1630, una traduzione e commento delle Satire del poeta latino Persio, accompagnata da tavole illustrative, tra le quali una dedicata alle api, importante perché costituisce iI primo esempio di illustrazione ricavata da un’analisi al microscopio con la riproduzione dei singoli particolari dell’insetto in scala ingrandita.
università
accademie
• sapere già assodato • strumento principale: i libri • rapporto gerarchico • lingua della comunicazione: il latino
• sapere da costruire • vari strurnenti: libri, ma anche telescopi, microscopi, giardini botanici... • rapporto paritario • lingua della comunicazione: italiano
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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche il principio di autorità: la ricerca del metodo e la nascita 1 Contro della scienza
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Mappa interattiva Le scoperte scientifiche nella dimensione europea
Una nuova concezione, antidogmatica e dinamica, e del sapere Nel Seicento al modello culturale imposto dai gesuiti, fondato sul principio di autorità, si contrappone una nuova idea del sapere che è alla base della rivoluzione scientifica e che viene sostenuta da filosofi e scienziati del tempo (in questo periodo filosofia e scienza non sono ancora nettamente distinte, ma si avviano ad esserlo), accomunati da un’ottica razionalistica e dal desiderio di rifondare, secondo nuovi principi metodologici, l’approccio alla conoscenza della realtà. Essi rifiutano il principio di autorità, il dogmatismo, respingono l’idea medievale di una verità data una volta per tutte, contrapponendole una concezione del sapere come ricerca inesauribile, le cui acquisizioni sono destinate a essere rimesse in discussione e ad accrescersi nel tempo, senza però pretendere di giungere a una verità definitiva. Il dubbio diventa un principio metodologico imprescindibile; così nel fondamentale Discorso sul metodo (1637) in cui Cartesio (René Descartes, 15961650), padre della filosofia moderna, prospetta la necessità che la ricerca filosofica e scientifica sia guidata dal dubbio metodico, si liberi da qualsiasi preconcetto e usi esclusivamente la guida della ragione nel processo conoscitivo: l’unico criterio di verità diventa l’evidenza razionale. Secondo questa concezione del sapere, il primo passo da compiere è liberare la mente dalle idee errate che inutilmente l’affollano, impedendo la costruzione di un nuovo sapere: “nuovo” è un termine chiave della rivoluzione scientifica, ricorrente anche nei titoli di numerose opere filosofiche e scientifiche, come il Novum organon (1620; significativamente contrapposto all’Organon aristotelico) del filosofo inglese Bacone (Francis Bacon, 1561-1626), considerato uno dei “padri” della nuova scienza. Bacone definisce idoli gli ostacoli sulla via della verità, ossia entità immaginarie, come le teorie e i pregiudizi perpetuati per generazioni, che «assediano le menti in modo da rendere difficile l’accesso alla verità» (trad. di P. Rossi). L’ostacolo principale per Bacone è proprio l’ossequio al metodo aristotelico-scolastico nel campo delle scienze, che ha prodotto in esse un danno infinito, impedendone di fatto il progresso. Un ossequio che è messo in crisi innanzitutto dalle rivoluzionarie scoperte astronomiche descritte da Galileo e Keplero (1571-1630) già nel primo decennio del secolo, la cui portata era tale da comportare inevitabilmente lo scontro con la tradizione aristotelica. La nuova astronomia trovò poi il suo punto più avanzato nella teoria della gravitazione universale, formulata da Isaac Newton nel 1686. La differenziazione della scienza dalla filosofia La scienza va definendo rapidamente la sua fisonomia e il suo campo d’azione rispetto alla filosofia, o quantomeno alla filosofia tradizionale: mentre la filosofia aspira a cogliere l’essenza e Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 21
a comprendere il fine, la scienza vuole invece comprendere come funzionano le cose e scoprire le leggi che regolano i fenomeni naturali, rinunciando programmaticamente a qualsiasi implicazione trascendente. Naturalmente questo non significa negare l’esistenza di Dio, ma Dio è l’“architetto” di un universo concepito come una macchina, il cui movimento è regolato da leggi proprie. Il metodo sperimentale Di centrale importanza nella fondazione della scienza è l’adozione del metodo sperimentale di cui proprio Galileo pone le basi: la conoscenza dei fenomeni naturali non deve fondarsi sull’autorità dei libri e neppure sulla sola speculazione teorica, ma sull’osservazione diretta della realtà, sulla raccolta sistematica di dati, la cui interpretazione conduce a ipotesi che vanno poi validate attraverso prove sperimentali adeguatamente predisposte (le “sensate esperienze”) fino alla formulazione di leggi di valore scientifico, espresse in linguaggio matematico. Un metodo rigoroso, i cui risultati possono essere razionalmente trasmessi ad altri scienziati e da essi, altrettanto razionalmente, discussi. La valorizzazione della tecnica Molto importante per la nascita della scienza moderna è l’idea che la testimonianza dei sensi possa essere resa più attendibile e precisa grazie agli strumenti approntati dalla tecnica, come il cannocchiale e i primi microscopi, inventati appunto nel secolo XVII (a cui si aggiunsero il termometro e il barometro). Si tratta di un concetto per noi moderni del tutto ovvio, ma tale non era ai tempi di Galileo, in cui vigeva l’autorità indiscussa e indiscutibile della parola di Aristotele. All’entusiasmo suscitato dalla possibilità, grazie al telescopio, di vedere la Luna come se fosse improvvisamente divenuta molto più vicina, si affiancano in quest’epoca lo stupore e la meraviglia di scorgere un universo in miniatura in una goccia d’acqua, in un filo d’erba, in un insetto, guardandoli attraverso una lente. I primi microscopi rivelano una realtà davvero sorprendente, in cui appaiono esseri viventi prima invisibili all’occhio umano, come protozoi e batteri. Un microscopio inglese del XVII secolo appartenuto al filosofo e scienziato Robert Hooke.
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Per approfondire Una frattura epocale nel sistema del sapere: dalla somiglianza alla differenza
I modelli culturali del Seicento sistema scolastico
moderno metodo scientifico
• principio di autorità (freno alle innovazioni) • dogmatismo • aristotelismo
• sapere come ricerca inesauribile • esercizio sistematico del dubbio • adozione del metodo sperimentale • valorizzazione degli strumenti tecnici
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PER APPROFONDIRE
Scienziati e maghi Dal mago rinascimentale allo scienziato Tra la seconda metà del Cinquecento e il Seicento una nuova figura si contrappone a quella del mago rinascimentale, per diversi aspetti sua “erede”: lo scienziato. Sia il mago sia lo scienziato ricercano infatti un’unità profonda tra i fenomeni; entrambi – diversamente dal filosofo di stampo aristotelico – si propongono come fine un’azione pratica sulla natura. Altrettanto evidenti sono tuttavia le differenze: se il mago rinascimentale tentava di dominare la natura come se si trattasse di un essere vivente da influenzare con tecniche simili a quelle usate per gli esseri umani, lo scienziato assimila l’universo a un meccanismo, simile a un orologio meccanico, creato da un artefice divino. Ne derivò un approccio “matematizzante” allo studio della fisica, che consentì un rapido progresso della scienza; lo stesso corpo umano fu assimilato da Cartesio a una macchina, un’analogia che permise di fondare una fisiologia scientifica, tuttora alla base della medicina moderna. Un altro tratto che differenzia gli scienziati dai maghi è l’idea di un sapere razio-
nale e comunicabile, aperto alla condivisione della comunità scientifica. Il persistente fascino della magia Però la figura dello scienziato non arriva a oscurare nell’immaginario comune il fascino che ha ancora la magia in quest’epoca: tra Cinquecento e Seicento si leggevano con passione i libri di Paracelso (14931541), medico e alchimista, che si vantava di poter creare un homunculus, forma embrionale di uomo, straordinariamente sapiente (una leggenda che avrebbe affascinato Goethe, ispirando varie scene del Faust). I filosofi Bruno e Campanella erano noti come maghi. Del resto, anche vari artefici della rivoluzione scientifica (Copernico, Keplero, Newton) coltivavano letture magiche ed ermetiche. Non è perciò un caso che la letteratura proprio in quest’epoca sia popolata di figure di maghi: dal maligno incantatore della selva di Gerusalemme, Ismeno, al benefico mago di Ascalona nella Gerusalemme liberata, al Dottor Faust di Marlowe, a Prospero della Tempesta shakespeariana.
Allievo di David Teniers il Giovane, Un alchimista nel suo laboratorio, XVII secolo (Londra, Wellcome Collection).
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3 Caratteri e forme della letteratura 1 Il Barocco e la ricerca del “nuovo”
L’indipendenza dai modelli e il culto dell’originalità Utilizzato a partire dal Settecento, il termine “barocco” designa le manifestazioni artistiche e letterarie di ampia parte del Seicento, ma anche la visione del mondo ad esse sottesa, caratterizzata da una condizione psicologica di crisi e incertezza conseguente al crollo di una millenaria immagine dell’universo. L’abbandono dell’armonia rinascimentale, il gusto per l’irregolarità e una certa eccentricità, che già erano state peculiarità del Manierismo, sono accentuate nel Barocco: rifiutando ogni principio di imitazione, gli artisti barocchi rivendicano un’assoluta indipendenza da qualunque modello. La vera regola del Barocco, come afferma il poeta Marino, è «saper rompere le regole». Si cerca la novità, l’originalità a tutti i costi: come osserva il critico spagnolo José A. Maravall, il Seicento, epoca rigida e conservatrice nei modelli di comportamento, assume una tendenza opposta in ambito artistico-letterario, probabilmente perché le forze innovatrici vengono incanalate nei campi in cui non possono risultare eversive e pericolose come lo sarebbero in quello sociale. L’arte e la letteratura del Barocco perseguono l’obiettivo di incuriosire, di stupire il pubblico e non è certo un caso: mentre il Manierismo è ancora legato alle corti rinascimentali e ad un pubblico elitario e raffinato, il Barocco si rivolge a un’utenza più ampia, che va conquistata con nuovi mezzi. Il Barocco è lo stile adottato anche dalla Chiesa controriformistica: le sorprendenti strutture architettoniche di molti edifici religiosi e la ricerca di effetti spettacolari nelle rappresentazioni teatrali sono volti a coinvolgere emotivamente le masse, così da conquistarne il favore. In ambito artistico il Barocco infrange i canoni di equilibrio e armonia propri del Rinascimento: si ricerca la varietà, il dinamismo delle forme, si prediligono le curve rispetto alla linearità. Tipiche dell’arte barocca – in architettura, in pittura – sono la grandiosità dell’insieme e la ricchezza dei particolari, che si moltiplicano disordinatamente, con l’effetto di sovraccarico tipico di questo stile. In ambito letterario il gusto barocco supera gli schemi del classicismo in modo ben più radicale dell’anticlassicismo cinquecentesco, stravolgendo anche i generi canonici come il poema e la lirica (➜ PAG. 28). Inoltre, nonostante il clima ideologico della Controriforma tenda a riproporre con forza la missione etico-pedagogica dell’arte, i teorici barocchi prospettano piuttosto come fine il diletto, il piacere che deriva dalla meraviglia, dallo stupore che il poeta sa suscitare, come recita la celeberrima affermazione di Marino: «È del poeta, il fin la meraviglia / (parlo de l’eccellente e non del goffo): / chi non sa far stupir, vada alla striglia!». Il termine “barocco”: un’etimologia incerta Il termine “barocco” si afferma nel Settecento, con un’accezione negativa, come sinonimo di “bizzarro, irregolare”. Due sono le possibili etimologie del termine: la parola “barocco” rinvia forse al portoghese barroco, che indica una perla di forma asimmetrica, irregolare. Una seconda possibilità rimanda a un ambito semantico completamente diverso, quel-
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lo della logica medievale: “barocco” indicava nella filosofia scolastica un tipo di sillogismo particolarmente cavilloso, corretto in apparenza ma in realtà ingannevole. Comunque stiano le cose, in entrambe le etimologie è implicito un giudizio negativo, proprio del gusto razionalistico settecentesco, severamente critico verso le manifestazioni artistiche e letterarie del Seicento, considerate bizzarre, irrazionalistiche, contrarie al buon gusto. Il termine continua oggi a essere usato, ma ha ovviamente perso ogni connotazione negativa per designare una stagione importantissima della cultura europea.
Il Barocco epoca
caratteristiche
definizione
concetti chiave
il Seicento
• indipendenza da modelli e originalità • grandiosità e ricchezza di particolari • stile enfatico e ridondante • coinvolgimento emotivo del pubblico
doppia etimologia: • una perla di forma asimmetrica • un ragionamento logicamente corretto, ma che può condurre a paradossi
• abbandono di ogni principio di imitazione a favore di una ricerca di originalità • il diletto come fine, che deriva dalla meraviglia
2 La poetica dell’“ingegno” e la centralità della metafora La teorizzazione dello stile barocco Nel Seicento, la più nota opera sulla poetica barocca è Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (Torino 1592-1675), sacerdote dell’ordine dei gesuiti, poi precettore alla corte sabauda. Ammiratore di Marino e del nuovo stile barocco, nel Cannocchiale aristotelico (pubblicato in edizione definitiva nel 1670) Tesauro ne definisce i tratti fondamentali, individuando la qualità caratteristica dei poeti del nuovo stile nell’“ingegno”, capaci di cogliere nessi inediti tra i diversi aspetti della realtà. A ben vedere, il titolo del trattato di Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, è esso stesso “ingegnoso”, perché collega due elementi apparentemente incompatibili: le dottrine retoriche aristoteliche e il cannocchiale, strumento simbolo della rivoluzione scientifica anti-aristotelica. Per Tesauro, componente chiave del nuovo stile è la figura retorica della metafora, che egli considera come un illusionistico «teatro di meraviglie», capace di mostrare aspetti nuovi e inconsueti della realtà, suscitando nel lettore il piacere della sorpresa. La metafora barocca La metafora è stata sempre presente nelle opere letterarie, in particolare nella poesia. Prima del Barocco, tuttavia, i poeti seguivano i precetti retorici di Aristotele, che raccomandava di non utilizzare metafore fondate su elementi troppo distanti fra loro, perché sarebbero apparse forzate. I poeti barocchi invece non si pongono più limiti nella creazione di ardite e stravaganti metafore (ad esempio il poeta Tommaso Stigliani definisce la Luna come una «celeste frittata»). Nella creazione di metafore originali i poeti barocchi esibiscono dunque una sfrenata originalità, una straordinaria abilità virtuosistica, come evidenziano i versi del più famoso dei poeti barocchi italiani, Giambattista Marino. Caratteri e forme della letteratura 3 25
Emanuele Tesauro
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La metafora come un «pien teatro di meraviglie» Il Cannocchiale aristotelico
Trattatisti e narratori del Seicento, a c. di E. Raimondi, Ricciardi, MilanoNapoli 1960
Le riflessioni qui riportate sono tratte dal Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, pubblicato in edizione definitiva nel 1670, in cui l’autore mette in luce l’originalità del Barocco. Nel passo proposto l’autore analizza la metafora, la figura retorica che, mostrando nuovi e inattesi rapporti tra le cose, porta l’immaginazione del lettore a spaziare da un oggetto all’altro, ponendo davanti agli occhi di chi legge «un pien teatro di meraviglie».
Ed eccoci alla fin pervenuti grado per grado1 al più alto colmo2 delle figure ingegnose, a paragon delle quali tutte le altre figure fin qui recitate3 perdono il pregio, essendo la metafora il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino4 e mirabile, il più gioviale e giovevole5, il più facondo6 e fecondo parto7 dell’umano intelletto. Inge5 gnosissimo veramente, però che, se l’ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate nozioni degli propositi obietti8, questo apunto è l’officio9 della metafora, e non di alcun’altra figura: perciò che, traendo la mente, non men che la parola, da un genere all’altro10, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovando in cose dissimiglianti la simiglianza11. Onde conchiude 10 il nostro autore12 che il fabricar metafore sia fatica di un perspicace e agilissimo ingegno. E per conseguente ell’è fra le figure la più acuta: però che l’altre quasi grammaticalmente si formano e si fermano nella superficie del vocabulo, ma questa riflessivamente13 penetra e investiga le più astruse nozioni per accoppiarle; e dove quelle14 vestono i concetti di parole, questa veste le parole medesime di concetti15. 15 Quinci16 ell’è di tutte l’altre la più pellegrina per la novità dell’ingegnoso accoppiamento: senza la qual novità l’ingegno perde la sua gloria e la metafora la sua forza. Onde ci avisa il nostro autore che la sola metafora vuol essere da noi partorita17, e non altronde, quasi supposito parto, cercata in prestito18. E di qui nasce la meraviglia, mentre che l’animo dell’uditore, dalla novità soprafatto, considera l’acutezza 20 dell’ingegno rappresentante e la inaspettata imagine dell’obietto19 rappresentato. Che s’ella è tanto ammirabile, altretanto gioviale e dilettevole convien che sia20: però che dalla maraviglia nasce il diletto, come da’ repentini cambiamenti delle scene e da’ mai più veduti spettacoli tu sperimenti21. Che se il diletto recatoci dalle
1 grado per grado: gradualmente. 2 al più alto colmo: al vertice. 3 recitate: elencate. 4 pellegrino: originale. 5 gioviale e giovevole: allegro e utile. Da notare il gioco di parole tipico del gusto barocco. 6 facondo: eloquente. 7 parto: prodotto, generato. L’espressione è metaforica. 8 ligare… obietti: collegare le idee più lontane e separate tra loro dei soggetti trattati. 9 l’officio: il compito, la funzione. 10 traendo… altro: trasportando la mente, come la parola, da un genere di oggetti all’altro.
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11 trovando… somiglianza: trovando la somiglianza in cose (apparentemente) dissimili. 12 il nostro autore: Aristotele, di cui Tesauro commenta in questo passo il trattato della Retorica. 13 riflessivamente: attraverso la riflessione, il gioco dell’intelligenza. 14 quelle: le altre figure retoriche. 15 vestono… concetti: il senso è che le altre figure retoriche riguardano l’espressione, mentre la metafora nasce da uno studio più profondo dei concetti. 16 Quinci: di qui, di conseguenza. 17 vuol… partorita: deve essere inventata da noi.
18 altronde… prestito: presa in prestito da un’altra fonte, come un parto non nostro (supposito come sostantivo è colui a cui è attribuito uno stato di famiglia non corrispondente al vero, come un bambino scambiato alla nascita). 19 obietto: oggetto. 20 gioviale… sia: conviene che sia piacevole e dilettevole. 21 come… sperimenti: come tu sperimenti dagli improvvisi cambiamenti di scena e dagli spettacoli mai visti prima. Tesauro collega la metafora con il teatro barocco, caratterizzato da scenografie spettacolari e da rapidi mutamenti di scena.
retoriche figure procede (come ci ’nsegna il nostro autore) da quella cupidità22 delle 25 menti umane d’imparar cose nuove senza fatica e molte cose in piccol volume23, certamente più dilettevole di tutte l’altre ingegnose figure sarà la metafora: che, portando a volo la nostra mente da un genere all’altro, ci fa travedere24 in una sola parola più di un obietto. Perciò che se tu di’25: «Prata amoena sunt»26, altro non mi rappresenti che il verdeggiar de’ prati; ma se tu dirai: «Prata rident»27, tu mi farai 30 (come dissi) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l’amenità il riso lieto. Talché in una paroletta transpaiono tutte queste nozioni di generi differenti: terra, prato, amenità, uomo, anima, riso, letizia. E reciprocamente con veloce tragitto osservo nella faccia umana le nozioni de’ prati e tutte le proporzioni che passano fra queste e quelle, da me altra volta non osservate28. E questo è quel 35 veloce e facile insegnamento da cui ci nasce il diletto, parendo alla mente di chi ode vedere in un vocabulo solo un pien teatro di meraviglie. 22 cupidità: desiderio. 23 in piccol volume: in modo concen-
25 di’: dici. 26 «Prata… sunt»: “i prati sono piacevoli
trato, rapido. 24 travedere: vedere insieme.
27 «Prata rident»: “i prati ridono”.
(belli)”.
28 le proporzioni… osservate: le somiglianze che intercorrono fra le due nozioni, da me precedentemente non osservate.
Concetti chiave La poetica barocca e la metafora
Il passo del Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro mette in luce alcuni aspetti fondamentali della poetica barocca, mostrando come essa risponda a un fine insieme edonistico e conoscitivo: il “diletto” barocco, cioè la piacevolezza dello stile, deriva infatti dalla sorpresa di vedere la realtà sotto un aspetto nuovo. Perciò fondamentale è la metafora, capace di instaurare un rapporto tra elementi distanti; con un’efficace immagine Tesauro afferma che essa apre al lettore «un pien teatro di meraviglie».
Le caratteristiche del poeta barocco: “perspicacia” e “agilità”
In rapporto a tali fini della poesia, Tesauro individua come qualità fondamentale per il poeta barocco un ingegno «perspicace», ossia capace di cogliere gli aspetti profondi della realtà, e «agilissimo», ossia in grado di passare rapidamente da una nozione all’altra, individuando inedite relazioni tra le cose. Fautore dello stile barocco, Tesauro lo adotta anche per il suo trattato, caratterizzato da innumerevoli figure retoriche, giochi di parole, immagini suggestive, come quella della mente del lettore portata a volo dallo slancio creativo del poeta attraverso un caleidoscopio di immagini.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali sono secondo Tesauro i fini della poetica barocca? 2 Quando la metafora è più piacevole secondo Tesauro? Per quali ragioni? ANALISI 3. Indica le qualità che, secondo Tesauro, un poeta barocco dovrebbe possedere. LESSICO 4. Individua nel testo le espressioni che suggeriscono un’idea di movimento, come se la poesia barocca fosse assimilabile a un viaggio della fantasia.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 5. Spiega perché Tesauro ritenga la metafora la più significativa tra le figure retoriche.
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3 Il rinnovamento dei generi letterari La crisi dei generi tradizionali Il Seicento è un’epoca di forte rinnovamento dei generi letterari, in rapporto al rifiuto del principio dell’imitazione classicistica: nascono così generi nuovi (come il melodramma e il romanzo moderno), mentre quelli tradizionali sono profondamente trasformati. La lirica La lirica italiana del Seicento abbandona (a parte alcuni difensori della tradizione classicistica) l’ossequio obbligato a Petrarca ed è caratterizzata dalla sperimentazione di nuovi contenuti e nuove forme espressive. Ai canzonieri del Quattrocento e del primo Cinquecento, che, a imitazione del modello petrarchesco, ripercorrevano una vicenda interiore legata al tema dell’amore, si sostituiscono raccolte organizzate in modo più libero, spesso per generi; il repertorio dei temi trattati si amplia fino a includervi soggetti originali e bizzarri. Anche la figura femminile viene rappresentata in modi inusuali, che non escludono la bruttezza e persino la deformità, nell’obiettivo di stupire il lettore. Di livello artistico ben più alto è la lirica europea, che dà spazio soprattutto ai grandi temi dell’esistenza, in particolare la fugacità del tempo e della vita: ne sono grandi testimoni in Spagna Luis de Góngora e Francisco de Quevedo, in Inghilterra John Donne e William Shakespeare.
VERSO IL NOVECENTO
Il poema L’anticlassicismo del Seicento si manifesta anche nel poema. Questo genere letterario, appartenente alla grande tradizione classica e che Tasso nel secondo Cinquecento aveva riproposto, con la Gerusalemme Liberata, nella forma del poema “eroico”, non incontra più il favore del pubblico, in rapporto alla decadenza dei valori epici o eroici. Nell’Adone di Marino, principale poema del tempo, è centrale non la guerra ma la sensualità dell’amore, e la struttura tradizionale è dissolta dalla proliferazione di digressioni descrittive o liriche. In La secchia rapita di Alessandro Tassoni il poema epico e i suoi valori vengono sottoposti alla deformazione parodica, dando vita al poema “eroicomico”: la guerra (in questo caso tra modenesi e bolognesi) è originata dal furto di una vecchia
Dalla condanna all’attualità del Barocco La condanna settecentesca del Barocco I teorici del Settecento, fautori del classicismo e del razionalismo, utilizzano il termine barocco in un’accezione spregiativa, a indicare una tendenza artistica che essi giudicano folle e delirante. Tale connotazione negativa permane a lungo, sebbene il Barocco abbia prodotto grandi capolavori nell’arte e nella letteratura, in particolare in alcuni paesi, come la Spagna, dove l’epoca della sua fioritura è designata come Siglo de oro, ossia il secolo d’oro della letteratura. Solo in tempi relativamente recenti, dopo la fine dell’Ottocento, il Barocco viene decisamente rivalutato, nel momento in cui è messo in relazione con la visione del mondo da cui trae origine. Il Barocco, arte dell’infinito Inaugura tale tendenza lo storico dell’arte Heinrich Wölfflin che, in un suo saggio (Rinascimento e Barocco, 1888), mette in luce significative corrispondenze tra le forme dinamiche e movimentate del Barocco e la rivoluzione cosmologica. Se nell’arte rinascimentale si fissava l’immagine di un cosmo statico, perfetto, razionale, l’arte barocca rispecchia un mondo dalla labirintica complessità, fluido, dinamico, in divenire.
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L’attualità del Barocco In questo senso il Barocco trova un’evidente analogia con l’epoca attuale, per la sua idea di realtà complessa e multiforme: il semiologo e studioso del linguaggio dei media e delle arti visive Omar Calabrese (1949-2012), nel suo L’età neobarocca (1987), non a caso ha definito “neobarocco” il postmoderno di fine Novecento: secondo lo studioso accomunerebbe le due tendenze una crisi nella concezione tradizionale dello spazio e del tempo (crisi del modello spaziale aristotelico tolemaico nel caso del Barocco, e crisi del concetto lineare del tempo e della percezione dello spazio, continuamente modificati dall’evolversi rapidissimo dei media, nell’epoca moderna). Nell’ultima delle sue Lezioni americane, dedicata alla Molteplicità, Italo Calvino evidenzia come la complessità, tipica caratteristica barocca, contraddistingua anche molte opere letterarie del Novecento, come quelle di Gadda (secondo il quale «barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine»), di Joyce e di Borges, in cui «il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo».
secchia di legno. La tradizionale situazione dell’epica è degradata dal riferimento a un oggetto della quotidianità, come appunto la secchia. La decadenza della novella e la nascita del romanzo Nel Seicento la novella, genere molto fortunato nella cultura italiana dal Duecento al Cinquecento, decade. L’unica opera significativa è in dialetto napoletano: Lo cunto de li cunti, raccolta di cinquanta novelle di carattere per lo più fiabesco, di Giambattista Basile. Emerge nel Seicento una forma narrativa del tutto nuova, destinata a secolare successo: il romanzo. In Italia si diffondono romanzi dall’intreccio avventuroso, magari avvincenti, ma di scarsa qualità. In Spagna si afferma il genere del romanzo picaresco, che narra le avventurose vicende di personaggi di bassa condizione sociale (i picari) che cercano di sopravvivere in un mondo ostile. Sempre in Spagna si ritrova il capostipite del romanzo moderno, uno dei capolavori della letteratura occidentale: Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Il teatro La tendenza all’innovazione segna anche il teatro secentesco. Si affermano in Italia due generi teatrali nuovi, destinati ad una straordinaria fortuna europea: la commedia dell’arte e il melodramma. La commedia dell’arte, indirizzata a un vasto pubblico, fonda la sua attrattiva sulle abilità, gestuali e di improvvisazione, di attori specializzati nella parte di un determinato personaggio. Il melodramma, destinato a successo nel tempo soprattutto in Italia, è un testo teatrale musicato e cantato, che all’inizio (ha origine nel tardo Cinquecento a Firenze) utilizza gli scenari e i temi della mitologia e della tradizione bucolica. Mentre il teatro italiano tradizionale non offre un panorama particolarmente interessante, nel Seicento il teatro europeo conosce una straordinaria stagione, che produce veri e propri capolavori: dall’Inghilterra, in cui spicca il genio multiforme di Shakespeare, alla Spagna, con Lope de Vega e Calderón de la Barca, alla Francia, in cui la tragedia raggiunge grandi livelli artistici con Corneille e Racine, e la commedia trova un interprete magistrale in Molière. Il trattato Nel Quattro-Cinquecento il genere tipicamente umanistico del trattato era stato il terreno elettivo del confronto di idee: tendeva perciò ad assumere la forma di un dialogo aperto e tollerante, in cui potevano trovare posto opinioni contrastanti. Con il tramonto del Rinascimento non c’è più posto per tale forma dialogica. I trattati sono ora volti a sostenere tesi ben precise o sono impiegati a fini prettamente espositivi, come Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro o Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto. Novità del periodo sono i trattati scientifici, contraddistinti da un ben preciso criterio di organizzazione testuale e dalla volontà di comunicare con precisione i risultati della ricerca (➜ D6 OL). A questa trattatistica di livello alto e ideologicamente impegnata si accompagna nel Seicento un’ampia produzione didascalica di minor impegno teorico, che regola i più diversi ambiti della vita sociale (la vita di corte, i duelli e così via). Le relazioni di viaggio e la Istoria della Compagnia di Gesù Nel secondo Cinquecento e nel Seicento va diffondendosi la letteratura di viaggio. Tra le opere riconducibili a questo campo vanno ricordati i resoconti del missionario gesuita Matteo Ricci (1552-1610): giunto in Cina, impara perfettamente la lingua e decide poi di vivere nel paese orientale, dove compie un’importante opera di mediazione culturale, traducendo in cinese testi fondamentali della letteratura occidentale e descrivendo la cultura e la civiltà cinese in molti scritti, fra cui Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, pubblicata postuma. Caratteri e forme della letteratura 3 29
4 L’evoluzione della lingua 1 Tra vecchio e nuovo: la lingua del Seicento
Il volgare italiano: il modello bembiano e l’Accademia della Crusca Nel sistema linguistico dell’Italia del Seicento coesistono, con diverse funzioni, il volgare letterario italiano, i dialetti, e il latino. Il volgare italiano, derivato dal toscano letterario, nel Seicento si va consolidando come lingua letteraria nazionale, secondo la tesi di Pietro Bembo, soprattutto nella letteratura “alta”, in particolare nella poesia e nel teatro. Ma già a partire dal secondo Cinquecento, secondo gli appartenenti alla corrente dei “puristi”, nel canone della lingua modello avrebbero dovuto rientrare non solo i grandi trecentisti (in particolare Petrarca e Boccaccio), ma tutti gli scrittori fiorentini, anche minori, dell’aureo Trecento. È l’Accademia della Crusca (tuttora attiva), fondata a Firenze nel 1585, ad assumere in campo linguistico un ruolo normativo in una direzione puristica e arcaizzante (separando idealmente così la “farina” dalla “crusca”): consacrare ufficialmente vocaboli ed espressioni dell’uso trecentesco impiegati dagli scrittori fiorentini (cui si affiancano in un secondo tempo alcuni selezionati non fiorentini o scrittori del Quattro-Cinquecento, ma in sottordine). A questo scopo, gli accademici della Crusca approntano uno strumento lessicografico fondamentale: il Vocabolario della Crusca (la prima edizione è del 1612). L’opera degli accademici della Crusca ha il merito di aver reso più facilmente accessibile ai letterati di tutta Italia il modello linguistico scelto; al contempo la lingua scritta veniva fissata in uno stadio arcaico, bloccandone la naturale evoluzione. La voce del dialetto Per reazione sono rivalutati i dialetti, che continuavano a essere usati come lingua del parlato quotidiano e non solo a livello popolare. In ambito letterario i dialetti sono visti come uno strumento linguistico più espressivo e legato alla vita reale: fra le tradizioni letterarie dialettali spiccano il napoletano, usato da Giovan Battista Basile (1575-1632) nella raccolta di novelle Lo cunto de li cunti, e il milanese, destinato a futuri grandi sviluppi nell’ottocentesca opera di Carlo Porta, impiegato nel teatro da Carlo Maria Maggi (1630-1699), autore di commedie in versi in cui alcuni personaggi parlano in dialetto. Il latino, lingua della Chiesa e delle università Nel Seicento, in Italia, il latino è ancora la lingua d’uso nella Chiesa, nelle università, nelle scuole dei gesuiti, la cui Ratio studiorum, cioè l’ordinamento scolastico dei collegi dell’ordine, esplicitamente prescriveva di «vigilare sulla diligente osservanza dell’uso interno della lingua latina fra gli studenti. Dall’obbligo di parlare latino gli studenti non devono mai essere esonerati, tranne che nei giorni di vacanza». A differenza dei paesi protestanti – in cui, per il principio del libero esame, i fedeli leggono la Bibbia in traduzione – in Italia la Chiesa controriformista lo vieta. Sul piano linguistico le conseguenze sono molto negative, perché, mentre nei paesi protestanti la lettura quotidiana della Bibbia costituisce la base per la diffusione delle lingue nazionali, in Italia i meno colti perdono tale importante occasione di servirsi di un idioma comune a tutta la penisola. Il fatto che il latino sia usato nelle università lo rende invece lo strumento di comunicazione internazionale, che permette lo scambio e la circolazione di idee in tutta l’Europa.
30 Seicento Scenari socio-culturali
La scelta di Galileo: rinnovare la lingua per rinnovare gli schemi di pensiero Dall’uso del latino come lingua dello studio, della filosofia e della scienza si discostano Galileo e i suoi seguaci, che, con un’audace innovazione, adottano il volgare per il trattato scientifico. Dopo aver esordito in latino, pubblicando nel 1610 il Sidereus nuncius, in seguito Galileo passa al volgare, che padroneggiava con rara eleganza. La prima motivazione di questa scelta è quella di rivolgersi a un pubblico più ampio e composito: in una lettera, a proposito di una sua opera (Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari), afferma: «Io l’ho scritta vulgare perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere». Inoltre Galileo è indotto ad adottare il volgare anche da un’altra importante ragione: i termini latini del lessico filosofico e scientifico erano ormai indissolubilmente legati alla fisica aristotelica. Grazie all’uso del volgare, Galileo può staccarsi dagli schemi di pensiero aristotelici, per riportare la scienza a un rapporto diretto con la realtà: costruisce così in volgare un sistema lessicale del tutto nuovo, che sarà sviluppato dai seguaci del suo metodo, mutando volto alla scrittura scientifica.
Il sistema linguistico italiano del Seicento volgare letterario italiano
dialetti
latino
• si consolida come lingua letteraria nazionale, secondo la tesi di Bembo • con l’Accademia della Crusca si cristallizza su un modello linguistico influenzato dalle tendenze puriste e arcaicizzanti
• vengono rivalutati, non solo a livello popolare • in ambito letterario vengono utilizzati a fini espressivi e per avvicinare il testo al parlato reale
resiste nella Chiesa e come lingua internazionale del sapere
online D6 Francesco Redi Il nuovo linguaggio della scienza: la descrizione della vipera Osservazioni intorno alle vipere
Fissare i concetti L’età del Barocco 1. Perché la pubblicazione degli studi di Galileo Galilei furono fondamentali per l’affermazione della rivoluzione eliocentrica iniziata da Copernico? 2. Perché nel Seicento scienziati e filosofi furono perseguitati? 3 Quale concezione del sapere fu introdotta da scienziati e filosofi fondatori del nuovo metodo scientifico e si contrapponeva al modello culturale promosso dalle scuole gesuitiche? 4. Quali sono le caratteristiche del Barocco in letteratura e nell’arte? 5. Quali sono gli aspetti principali del processo di rinnovamento che coinvolge gran parte dei generi letterari nel Seicento? 6. Che cosa caratterizza il sistema linguistico del Seicento?
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Libri, lettori, lettura
Leggere in età barocca Come si eludevano i divieti imposti dal Concilio I divieti imposti dalla censura controriformistica non furono sempre rispettati: si escogitarono infatti modi ingegnosi per eluderli come quello, più volte praticato dagli editori veneziani, di celare opere sospette con titoli falsamente innocui. Inoltre, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, spesso i lettori di libri condannati dalla Chiesa erano proprio gli ecclesiastici: i religiosi impegnati in attività inquisitorie, come i domenicani e i gesuiti, dovevano infatti conoscere i contenuti filosofici e teologici delle opere vietate, conservate allo scopo nelle biblioteche monastiche. Non è un caso che Bruno e Campanella, coinvolti fin dalla giovinezza in processi per eresia, si fossero formati in monasteri domenicani. Già nel Seicento gli Stati assoluti, in grado di porsi in contrasto con la Chiesa, posero dei limiti alla censura; in seguito l’Illuminismo aprì la strada alla libertà di stampa, proclamata dalla Francia nel 1789, con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. I limiti alla censura La Congregazione dell’Indice durò tuttavia fino al 1917; in seguito i suoi compiti furono trasferiti al Sant’Uffizio. Possedere opere all’Indice non era più un reato punibile per legge ma un divieto per i fedeli, tenuti a chiedere ai confessori il permesso di consultare le opere segnalate. Una disposizione abolita da papa Paolo VI soltanto nel 1965, anno in cui il Sant’Uffizio divenne la Congregazione per la dottrina della fede.
Jan Davidsz de Heem, Natura morta con libri, 16288 (L’Aia, Maurithshuis).
Gabriel Metsu, Uomo che scrive una lettera, 1664-1666 (Dublino, National Gallery of Ireland).
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Venditore ambulante di opuscoli, pamphlets e opere popolari, dipinto di scuola francese, 1623 ca. (Parigi, Musée du Louvre).
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
I regimi che proibiscono i libri L’articolo 21 della nostra Costituzione sancisce la libertà di stampa: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure […]». Il diritto alla libertà di stampa è uno dei più importanti diritti democratici, da sempre negato dai regimi totalitari. Così avvenne ad esempio per il nazismo: nel maggio del 1933, pochi mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere, cominciarono i roghi dei libri. A Berlino, la sera del 10 maggio, migliaia di studenti si recarono nella piazza di fronte all’università e bruciarono circa 20.000 libri: opere di Freud, Thomas Mann, Einstein, Brecht, Remarque, ma anche Jack London, Zola, Proust, che si riteneva potessero «minare il pensiero tedesco, la patria tedesca e le forze che guidano il nostro popolo». Anche in altre città vi furono roghi di libri; contemporaneamente erano tolte dai musei tedeschi opere dell’arte considerata da Hitler «degenerata», come i dipinti di Cézanne, Van Gogh, Gauguin, Matisse, Picasso. Nella piazza dove avvenne il rogo dei libri (Bebelplatz), un monumento semplice ma suggestivo ricorda ancora oggi l’infausto evento: una botola nell’asfalto, chiusa da una spessa lastra di vetro, da cui si scorge una stanza bianca con ripiani per i libri, vuoti. Anche nella Russia staliniana, come ricorda la storica e filosofa Hannah Arendt (1906-1975), gli autori sospetti al regime furono perseguitati insieme ai loro libri. Ma ancora oggi vi sono paesi che non accettano la libertà di stampa: basti ricordare il caso della Cina, in cui quanto è stampato è sottoposto a censura e continuamente vengono
nucleo Costituzione competenza 1
bloccati siti Internet con contenuti non accetti al regime. Il tema della distruzione dei libri è entrato nell’immaginario letterario e cinematografico; basti ricordare Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury (1920-2012), da cui il regista François Truffaut trasse l’omonimo film del 1966, in cui è immaginata una società anti-utopica, nella quale leggere e possedere libri è un reato e una squadra di “vigili del fuoco” perquisisce le case per bruciare i libri che vi fossero nascosti. Per difendere la memoria e la lettura, ciascuno impara a memoria un libro, tanto che alla fine diventa quasi un tutt’uno con il libro prediletto, con cui viene identificato. Una situazione che può ricordare l’idea di Milton, che un libro, frutto della ragione, è qualcosa di molto simile a un uomo. iferimenti bibliografici: W.L. R Shirer, Storia del Terzo Reich, trad. di G. Glaesser, Einaudi, Torino 1962; H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999.
Copertina di un’edizione statunitense di Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.
Rogo di libri a Berlino. Questi roghi vennero organizzati nel 1933 dalle autorità della Germania nazista per bruciare le pubblicazioni non corrispondenti all’ideologia nazista.
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Arte nel tempo
Tra Cinquecento e Seicento La pittura di Caravaggio
L’arte figurativa di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) incarna le complessità del clima culturale degli ultimi anni del Cinquecento e anticipa la sensibilità del secolo successivo. Da un lato la sua pittura è radicata nella realtà e ispirata al dato naturale, rivolgendo un’attenzione al quotidiano che incontra sia le necessità della Controriforma sia l’interesse razionale seicentesco verso la realtà. Dall’altro mostra un interesse crescente verso il movimento e il dinamismo, aspetti cardini del Barocco.
11 La Vocazione di san Matteo di Caravaggio La Vocazione di san Matteo (1600) è parte del ciclo realizzato per la Cappella Contarelli nella chiesa romana di San Luigi dei Francesi, prima importante commissione pubblica per Caravaggio, trasferitosi a Roma dopo la formazione a Milano presso Simone Peterzano ed entrato in contatto con il mecenatismo romano attraverso il cardinale Federico Maria del Monte. La scena rappresenta l’entrata di Cristo accompagnato da san Pietro in una locanda, spoglia ed essenziale. L’aspetto quotidiano del tavolo e delle sedute dove è riunito il gruppo di uomini, vestiti di abiti seicenteschi, collocano la scena al tempo di Caravaggio. Il braccio proteso di Cristo, gesto della vocazione, rimanda alla Creazione michelangiolesca della Sistina ed è accompagnato da un fascio di luce proveniente da destra dove si vede una finestra chiusa, a sottolineare che la luce non proviene da una fonte naturale, ma è
la luce della grazia. All’apparizione di Cristo gli uomini reagiscono voltandosi e uno di essi, identificato come il santo, riprendendo il gesto di Cristo, si indica come a chiedere “è proprio me che stai chiamando?”. Un’interpretazione recente identifica invece san Matteo con il giovane a capotavola con il capo ancora abbassato che conta il denaro, interpretando il gesto dell’uomo anziano come rivolto verso il giovane. La chiarezza narrativa, la concretezza dell’ambientazione, il naturalismo con cui le figure si muovono nello spazio caratterizzano il lessico pittorico di quest’opera della prima maturità del pittore. Caravaggio fonda il colorismo della sua tavolozza nel contrasto tra luce e ombra allegoria della manifestazione di Dio. Nei suoi dipinti le scene accadono con un realismo essenziale ed espressivo, in cui le figure appaiono animate nel presente. Caravaggio, Vocazione di san Matteo, 1600, olio su tela (Roma, San Luigi dei Francesi, Cappella Contarelli).
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Il Barocco romano
Il Seicento è un secolo caratterizzato da tensioni culturali divergenti, in cui convivono il fermento religioso delle guerre di religione, l’avanzamento tecnologico della Rivoluzione inglese, e l’interesse per un pensiero più razionale che parta dall’osservazione del reale e che si concretizza con la nascita del metodo scientifico. Dal punto di vista della produzione figurativa e dell’architettura, si assiste all’affermazione di forme intricate e complesse e di una teatralità illusionistica, che saranno definite usando il termine Barocco. Roma nel Seicento è luogo di grande fermento costruttivo e di importanti committenze, trasformata da una serie di interventi urbani monumentali tesi a soddisfare le esigenze monumentali della Chiesa controriformata. Il cosiddetto Barocco romano è opera di grandi personalità come Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini, Pietro da Cortona, le cui opere sono caratterizzate da una radicale e coinvolgente visionarietà trasformativa.
La 1 Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini La concezione integrata di scultura e architettura alla base della pratica di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) guida l’intervento nella Cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria a Roma, dove l’artista lavora dal 1647 al 1652. La scultura è pensata per invadere lo spazio caratterizzato da un vivace colorismo marmoreo che coinvolge il fedele dentro la rappresentazione sacra. Al centro del complesso decorativo Bernini inserisce il gruppo scultoreo Estasi di santa Teresa d’Avila, dove rappresenta la transverberazione della santa, riversa su una nuvola mentre un angelo le solleva la veste con una mano e con l’altra tiene una freccia con cui sta per trafiggerla. Le due figure realizzate in un marmo bianchissimo sono inserite
in una struttura classicheggiante movimentata dalla curva dell’architrave e del timpano. Dietro alle sculture, dei raggi dorati vibranti della luce naturale che entra da un’apertura nascosta movimentano la scena. Il complesso decorativo marmoreo è completato da due finti palchi teatrali dai quali si affacciano i membri della famiglia Cornaro come se stessero assistendo a uno spettacolo. Il vitalismo e l’estrema espressività dei personaggi accentuano il dinamismo dell’insieme, che è un esempio del “bel composto” tra le arti berniano e della capacità dell’artista di progettare uno spazio teso a stupire in senso scenografico, dove l’immagine si fa illusione di presenze reali.
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa d’Avila, marmi policromi, stucco, bronzo e affresco, 1647-1652 (Roma, Santa Maria della Vittoria, Cappella Cornaro).
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Arte nel tempo
21 San Carlino alle Quattro Fontane e la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini
Francesco Borromini (1599-1667), architetto “rivale” di Bernini, è stato un altro fondamentale innovatore dell’architettura nella Roma del Seicento. In San Carlino alle Quattro Fontane (1634-1644), chiesa commissionata dai Padri Trinitari Scalzi, Borromini idea, a coronamento di una pianta dall’impianto ellittico formato dalla combinazione di due triangoli equilateri, una cupola ovale che poggia su quattro pennacchi sostenuti dalla trabeazione. L’ellisse della cupola crea un equilibrato contrasto con l’irregolarità dell’ovale della chiesa. La superficie interna è decorata da cassettoni alternatamente cruciformi e ottagonali che si restringono verso l’alto per aumentare illusionisticamente la percezione della profondità. La chiusura a lanterna, anch’essa ellittica, è aperta da una serie di finestre che fanno entrare luce naturale. Lo stucco crea una superficie omogenea e chiara che dilata lo spazio, ma offre anche una soluzione economica adatta alle disponibilità limitate della committenza. La cupola di Sant’Ivo alla Sapienza (1642-1662) segue la forma della pianta centrale, ottenuta dall’intersezione di due triangoli equilateri. La cupola poggia direttamente sulla trabeazione, movimentata dalle curve concave e convesse che smussano i vertici ideali dei due triangoli su cui è disegnata. Esternamente si presenta racchiusa da un tamburo sinusoidale che ne nasconde la forma a ogiva e nel quale si aprono sei finestre. La lanterna, che dall’interno si presenta come un semplice cerchio, all’esterno è chiusa da alti pinnacoli e da una forma elicoidale a spirale inedita e di un dinamico decorativismo. In Borromini tensione al dinamismo e contrasti strutturali si armonizzano grazie all’equilibrata varietà delle forme e all’intelligenza delle soluzioni progettuali, in una continuità quasi metamorfica di elementi verticali e orizzontali.
L’interno della chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane, Roma.
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La cupola di Sant’Ivo alla Sapienza (interno ed esterno), Roma.
31 Il Trionfo del nome di Gesù di Giovan Battista Gaulli
e la Glorificazione di sant’Ignazio di Loyola di Andrea Pozzo
Il dinamismo spettacolare del Barocco caratterizza anche gli affreschi che trasformano le cupole e le volte di alcune delle più importanti chiese di Roma, in particolare quelle che fanno capo ai gesuiti. La decorazione illusionistica contribuisce alla costruzione degli spazi sacri, dove pittura e scultura dialogano nel segno della teatralità aprendo i soffitti chiusi delle chiese su cieli sconfinati invasi da corpi e luci abbaglianti. La grandiosità decorativa evoca una religiosità potente e pervasiva necessaria all’esaltazione dell’ordine committente. Nel Trionfo del nome di Gesù, realizzato nel 1679 sulla volta della Chiesa del Gesù, Giovan Battista Gaulli (1639-1709) rappresenta il miracolo dell’apparizione del monogramma del nome di Cristo nel cielo: la scena sconfina all’esterno della cornice, invadendo lo spazio reale della chiesa. La volta diventa un cielo luminoso e cangiante, libero da griglie prospettiche. Pochi anni più tardi, nel 1694, Andrea Pozzo (1642-1709) rappre-
senta nella Chiesa di Sant’Ignazio la Glorificazione di Sant’Ignazio da Loyola: un’ascensione vertiginosa verso il cielo, un tripudio di figure che si muovono lungo un’architettura perfettamente scorciata. L’impiego perfetto della prospettiva centrale accentua la verticalità e l’illusionismo di questa rappresentazione in cui pittura e scultura sono integrate per dilatare lo spazio architettonico in uno spazio infinito. Questa particolare decorazione parietale, progettata in relazione con le linee strutturali dell’architettura reale, viene chiamata quadratura e incarna perfettamente lo spirito grandioso e illusionistico del Seicento. Lo stesso gusto per l’artificio illusionistico lo troviamo, in scala minore, nelle nature morte, dove emerge il gusto per il dettaglio, lo sguardo sugli oggetti di uso comune, la rappresentazione simbolica della vanitas e della morte.
Giovan Battista Gaulli, Trionfo del nome di Gesù, 1661-1679 (Roma, chiesa del Gesù).
Andrea Pozzo, Glorificazione di Sant’Ignazio di Loyola, 1694 (Roma, chiesa di Sant’Ignazio).
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Seicento Scenari socio-culturali L’età del Barocco
Sintesi con audiolettura
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
Un “cielo nuovo” Con la pubblicazione del Sidereus Nuncius (1610) di Galileo Galilei, la rivoluzione eliocentrica di Copernico inizia a diffondersi e ad affermarsi anche al di là di una stretta cerchia di intellettuali e scienziati. Attraverso le osservazioni astronomiche con il cannocchiale, Galileo dimostra somiglianze tra la Terra e la Luna, sfidando la dicotomia Terra-cielo e favorendo l’idea di leggi uniformi. Le scoperte astronomiche di Galileo cambiano la visione del cosmo. Il cannocchiale svela la natura stellare della Via Lattea e nuovi corpi celesti, ampliando la percezione dell’universo. L’immagine dell’uomo e dell’esistenza: instabilità e mutamento La rivoluzione copernicana e le scoperte di Galilei influenzano profondamente la visione del mondo. Con l’adozione dell’eliocentrismo, cade l’ipotesi medievale di un ordine celeste prestabilito da Dio, portando alla riflessione sulla transitorietà delle cose terrene. Questa visione, espressione anche del clima controriformistico, influisce sull’arte e sulla letteratura barocca, evidenziata dall’iconografia della vanitas, che simboleggia la precarietà e l’inevitabilità della morte. Smarrito ogni senso di ordine e di armonia, il senso della mutevolezza investe l’identità stessa dell’uomo. Nella visione della realtà domina l’equivalenza mondo-teatro: ciò che cade sotto i sensi può rivelarsi una parvenza illusoria. I valori e i modelli di comportamento In quest’epoca il comportamento è improntato all’austerità e le virtù fondamentali sono quelle dell’obbedienza e dell’“onesta dissimulazione”, fondata sulla prudenza e sulla riservatezza. La classe aristocratica, tornata ad avere un ruolo preminente nell’ordine sociale (rifeudalizzazione), assume un contegno
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contrassegnato dal fasto, dall’alterigia e dalla violenza. I modelli di comportamento si irrigidiscono: il Seicento è il periodo in cui i duelli, per ragioni d’onore, divengono una consuetudine. Il ruolo dell’intellettuale Nel corso del Seicento l’influsso della Controriforma limita la libertà di pensiero e, in questo clima di oppressione, la maggior parte degli intellettuali sceglie la “dissimulazione” prudente delle proprie idee. Ci sono però scrittori che non accettano tali restrizioni e assumono un ruolo di coscienza critica. È il caso di Giordano Bruno, denunciato dall’Inquisizione per le sue teorie sull’universo, che egli considera infinito, e morto sul rogo come eretico, di Tommaso Campanella, convinto sostenitore della missione profetica dell’intellettuale e perseguitato dalla Chiesa controriformistica da lui accusata di aver tradito il compito affidatole. Anche lo storico Paolo Sarpi esercita tale ruolo di intellettuale critico, denunciando lo strapotere della Chiesa. Due città in conflitto: Roma, città dei papi, e Venezia, “porta dell’Italia verso l’eresia” Nel Seicento Roma e Venezia si configurano come due città in contrapposizione. La prima si presenta come una monarchia assoluta, centro di potere e di cultura; la seconda si dimostra una città aperta ai contatti con i protestanti e una capitale del divertimento. Chi sostenne Venezia dall’ingerenza della Chiesa fu Paolo Sarpi, autore dell’Historia del Concilio tridentino, opera subito messa all’Indice. I centri della cultura In Italia nasce un gran numero di accademie e acquistano particolare rilevanza quelle scientifiche, la più importante delle quali fu l’Accademia dei Lincei di cui fu membro anche Galileo. Le accademie scientifiche miravano a uno sviluppo costante delle conoscenze e si contrapponevano alle università, rivolte alla trasmissione di un sapere tradizionale autorevole.
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche
Contro il principio di autorità: la ricerca del metodo e la nascita della scienza. Al principio di autorità si oppongono i fondatori del nuovo metodo scientifico, convinti di dover ristrutturare dalle fondamenta l’edificio del sapere, basato sui princìpi aristotelici, di cui si era mostrata l’infondatezza. Il dubbio diviene ora il nuovo principio metodologico imprescindibile. Si afferma la nuova figura dello scienziato, che affianca il sapere intellettuale a quello tecnico, ripreso dalle arti meccaniche, e adotta il metodo sperimentale.
3 Caratteri e forme della letteratura
Il Barocco e la ricerca del nuovo Nel Seicento si afferma nell’arte figurativa e in letteratura il Barocco, che si stacca dai modelli classici e tende al nuovo, seguendo una sola regola: «saper rompere le regole», come afferma Marino. La letteratura barocca è caratterizzata dalla volontà di stupire e da una continua ricerca di originalità, per cui i generi e i modelli tradizionali sono profondamente rinnovati. Il termine “barocco”, dall’etimologia incerta, rinvia forse al portoghese barroco, che indica una perla di forma asimmetrica o a un tipo di sillogismo medioevale particolarmente astruso. La poetica dell’“ingegno” e e la centralità della metafora Come in arte, così in letteratura, il Barocco è uno stile ricco e sovrabbondante, per la profusione di figure retoriche e soprattutto di metafore, volutamente originali per illuminare aspetti nuovi della realtà e per la capacità di aprire un «pien teatro di meraviglie», come scrive nel suo trattato sul Barocco il letterato secentesco Emanuele Tesauro. L’evoluzione Sintesi dellaSeicento lingua 4 39
Il rinnovamento dei generi letterari Il Seicento è un’epoca di grande rinnovamento dei generi letterari. Da un lato i generi tradizionali assumono una nuova veste — la lirica si caratterizza per la grande sperimentazione e l’obiettivo di stupire il lettore; il poema per l’anticlassicismo; il trattato per la finalità di sostenere una tesi) —, dall’altro nascono nuovi generi come il melodramma, la commedia dell’arte, il trattato scientifico e il romanzo.
4 L’evoluzione della lingua
Tra vecchio e nuovo: la lingua del Seicento In ambito linguistico nel XVII secolo il volgare, derivato dal toscano letterario, si consolida come lingua letteraria nazionale, secondo la tesi sostenuta da Bembo. Una data importante nella storia della lingua è il 1585, anno in cui viene fondata l’Accademia della Crusca. In ambito letterario vengono rivalutati anche i dialetti per la loro ricchezza espressiva. Il latino continua a essere lingua della Chiesa e delle università e strumento di comunicazione internazionale. Un’audace innovazione è quella di Galileo che, superando la tradizione dell’uso del latino nello studio della filosofia e della scienza, adotta il volgare per il trattato scientifico.
Zona Competenze Scrittura creativa
1. Immagina di essere un poeta barocco e prova a scrivere almeno tre esempi di metafore che suscitino meraviglia e stupore nei lettori per l’originalità degli accostamenti ideati.
Competenza digitale
2. Utilizzando Google Maps crea due itinerari virtuali alla scoperta di luoghi emblematici del ruolo che le città di Roma e Venezia ebbero nel Seicento.
Discussione orale
3. Scegliete una o più tematiche di studio tra quelle proposte di seguito e avviate una discussione in classe su caratteristiche in comune e aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea. Prendete nota degli interventi e tenete traccia di eventuali documenti utilizzati durante la discussione in classe. • Il ruolo dell’intellettuale nella società • Il sistema di valori della società del Seicento • La concezione del sapere • Il sistema linguistico del Seicento
Scrittura
4. In un breve testo espositivo-argomentativo (max 20 righe) spiega i rapporti tra il clima storico, sociale e culturale e le espressioni letterarie fiorite tra la fine del Cinquecento e il Seicento.
40 Seicento Scenari socio-culturali
Seicento CAPITOLO
1 Marino e la lirica barocca
La lirica è uno dei generi in cui emergono maggiormente la ricerca del nuovo e la volontà sperimentale del Barocco. Emblematico è il poema Adone di Giambattista Marino, che ai temi e ai valori eroici dell’epos contrappone il piacere, la pace, la scienza. Le raccolte poetiche del Seicento testimoniano una netta rottura rispetto al petrarchismo e si riferiscono a diverse aree tematiche. Nella poesia “marinista” la tradizionale lode della donna è sovvertita, secondo la “poetica della meraviglia”. Ne derivano nuove rappresentazioni del femminile che accolgono il difforme, l’inusuale, persino il brutto e il patologico. Temi tipici della lirica barocca sono l’illusorietà del reale, la brevità e vanità della vita e l’ossessione della morte, che caratterizzano anche la grande lirica europea, dalla Spagna con Góngora e Quevedo, all’Inghilterra con John Donne e Shakespeare.
1 Una nuova lirica il maggior poeta 2 Marino, barocco 3 I poeti “marinisti” gli “eccessi”: il 4 Contro classicismo barocco 5 La grande lirica europea 41
1 Una nuova lirica 1 La poetica barocca della meraviglia La lirica barocca è caratterizzata soprattutto dalla ricerca di originalità. Giambattista Marino, indiscusso caposcuola della lirica barocca italiana – che in Italia, perciò, sarà anche definita “marinista” –, afferma nella sua Murtoleide (XXXIII fischiata, vv. 9-11) che lo scopo fondamentale di un poeta è quello di suscitare la «meraviglia» dei lettori: «È del poeta il fin la meraviglia / (parlo de l’eccellente, non del goffo): / chi non sa far stupir, vada a la striglia». I poeti barocchi rifiutano perciò le regole classicistiche, che erano considerate imprescindibili nel primo Cinquecento, e abbandonano l’autorevole modello petrarchesco. Significativamente il critico Carlo Calcaterra intitola un suo importante saggio (del 1940) sulla poesia barocca Il Parnaso in rivolta: il Parnaso (il monte dove, secondo la mitologia, soggiornavano le Muse) simboleggia infatti l’armonia della poesia classica, volutamente sovvertita dai poeti marinisti nella loro ricerca di novità: una ricerca che investe sia i temi, sia lo stile, in particolare attraverso la moltiplicazione e l’estrema creatività (ai limiti dell’astrusità) delle metafore, che collegano realtà tra loro molto distanti per creare punti di vista nuovi e originali (➜ PAG. 25).
2 La rivisitazione dei motivi della tradizione online
Interpretazioni critiche a confronto I due volti del Barocco: crisi conoscitiva e arte dell’infinito. Calcaterra, «L’anima in barocco» vs Hauser, Il barocco, arte dell’infinito
Anche motivi topici della tradizione letteraria sono rinnovati dal particolare “sguardo” barocco: ad esempio, nel celebre sonetto di Marino Onde dorate, e l’onde eran capelli (➜ T2a ), il motivo topico dell’elogio della bellezza della donna amata risulta trasformato dall’insistenza su un singolo dettaglio (la bionda chioma ondulata della donna) e dalla serie di fantasiose metafore impiegate dal poeta per descriverlo (le onde dei capelli divengono un mare dorato in tempesta, in cui naufraga il cuore dell’amante).
Pieter Paul Rubens, Toeletta di Venere, 1628 ca. (Madrid, Museo Thyssen– Bornemisza).
42 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
Dalla vicenda amorosa “esemplare” alla varietà tematica L’originalità della poesia barocca emerge anche nell’organizzazione dei canzonieri: non si tende più (come avveniva nel Quattro-Cinquecento) a riprodurre il modello petrarchesco di una storia esemplare, spesso culminante nel pentimento conclusivo; quello amoroso diviene uno dei tanti temi di una lirica che punta più sulla varietà degli argomenti che sull’approfondimento delle vicissitudini interiori incentrate su un amore idealizzato, nutrito della visione neoplatonica, come avviene nel classicismo cinquecentesco. Il maggiore poeta barocco italiano è Giambattista Marino, a cui in vario modo si richiamano i cosiddetti “marinisti”, ai quali faremo riferimento specifico in seguito.
Sguardo sull’arte Due esempi dell’immaginario manieristico e barocco Arcimboldo, pittore della «maraviglia» La ricerca di originalità della lirica manieristica e barocca trova un corrispettivo artistico nella pittura di Giuseppe Arcimboldi, detto l’Arcimboldo (1527-1593), famoso per i suoi volti costruiti con un insieme di diversi elementi, fiori, frutti, pesci, animali, ma anche un bibliotecario tutto fatto di libri: l’equivalente in pittura dell’originalità delle metafore barocche, che associano elementi tra loro eterogenei. Ad esempio, L’Ortolano (1590 ca.): il dipinto sembra un viso, ma, capovolto appare come una ciotola di vegetali. Bomarzo, un luogo della «maraviglia» barocca Il bizzarro immaginario manieristico e barocco sembra concretizzarsi nel Parco dei Mostri di Bomarzo (in provincia di Viterbo), fatto costruire da Vinicio Orsini nel secondo Cinquecento. A Bomarzo si trova tutto ciò che può suscitare meraviglia: una casa pendente, una gigantesca tartaruga bizzarramente sormontata da una figura statuaria drappeggiata, elefanti, animali fantastici, draghi, esseri mitologici, l’enorme testa di un orco che emerge dal verde con gigantesche fauci spalancate, in cui si trova un minuscolo vano, dove possono entrare i visitatori (la bocca dell’Orco).
Giuseppe Arcimboldi, detto l’Arcimboldo, L’Ortolano, 1590 ca. (Cremona, Museo Civico Ala Ponzone).
L’Orco all’interno del Parco dei Mostri di Bomarzo (Viterbo), progettato e realizzato nel 1547 da Pirro Ligorio.
Una nuova lirica 1 43
2 Marino, il maggior poeta barocco 1 Una vita irrequieta e avventurosa
La formazione di un intellettuale cortigiano Il poeta più famoso e rappresentativo dello stile barocco in Italia è sicuramente Giambattista Marino. Nato a Napoli nel 1569, inizia la sua carriera di poeta cortigiano nelle piccole corti napoletane. Qui comincia a coltivare la passione per l’arte, che avrebbe in seguito ispirato una delle sue raccolte più originali, La Galeria (1619), in cui, come in una collezione d’arte, descrive una serie di dipinti e sculture, gareggiando nei suoi versi con le arti visive. Ma, accanto ai lussi e alle raffinatezze della vita cortigiana, due soggiorni in carcere (il primo per motivi non chiari, il secondo per un falso in atti processuali) testimoniano il carattere irrequieto e insubordinato del poeta. Alla corte dei Savoia Costretto dalle vicissitudini giudiziarie a lasciare Napoli, cerca riparo prima a Roma, dove entra a servizio del cardinale Aldobrandini, nipote del papa, e diviene famoso con le sue Rime, stampate a Venezia (1602); in seguito a Torino, accolto alla corte del duca di Savoia, da cui per meriti poetici viene nominato cavaliere (per questo è famoso anche come ˝il cavalier Marino˝). L’onore ricevuto gli inimica un poeta rivale a corte, Gaspare Murtola, che Marino, con spregiudicatezza, scredita con ogni mezzo e contro cui scrive la Murtoleide, un’opera satirica in cui non gli risparmia le ingiurie e le offese pesanti, definendo il rivale «matto», «incesto di porco e di castrone», «gaglioffo» e augurandosi, dopo averne visto appeso il ritratto, di «vedere anche impiccato l’esemplare». Esasperato, l’avversario risponde a colpi di pistola, che lasciano illeso Marino. In seguito entra in contrasto anche con il duca di Savoia, che lo tiene in prigione per più di un anno. A Parigi: l’apoteosi della fama e del successo Finalmente liberato, il poeta, ormai celebrato come massimo esponente del nuovo gusto alla moda, è accolto a Parigi alla corte di Maria de’ Medici, reggente per Luigi XIII, dove raggiunge ciò che da sempre desiderava: fama, successo, ricchezza. Al culmine della sua carriera di poeta cortigiano, può scrivere: «Qui me ne sto come un papa ed ho tanti quattrini che non so quel che farne».
Frans Pourbus il giovane, Ritratto virile (probabilmente Giambattista Marino), 1619 ca. (Institute of Arts, Detroit).
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La pubblicazione dell’Adone Lontano dallo stretto controllo della censura ecclesiastica, che da tempo lo teneva d’occhio per i suoi versi considerati immorali, in Francia Marino dà alle stampe quasi tutti i suoi scritti, e in particolare, nel 1623, pubblica L’Adone, la sua opera più importante. Il poema, a cui lavorava da tempo, riceve una struttura definitiva proprio negli anni parigini, quando (come ha dimostrato il critico Giovanni Pozzi) Marino vi include i temi più innovativi, nati dal contatto con intellettuali francesi come Cartesio, Gassendi, e i libertini (➜ C12). Raggiunta con L’Adone l’apoteosi della fama e del successo, nel 1623 torna in Italia, dove viene accolto trionfalmente.
Il poema e la censura controriformistica Ben presto però cominciano i problemi con la censura ecclesiastica. Marino aveva tentato di eludere i sospetti della Chiesa, premettendo a ogni canto improbabili allegorie moraleggianti. Nonostante i goffi tentativi di camuffare il vero significato del poema (Marino afferma che «quanto vi è di lascivo, è tutto indirizzato al fine della moralità»), nel suo fluviale sviluppo, L’Adone presenta contenuti non certo allineati all’ortodossia (un elogio di Galileo, critiche alla stessa Chiesa controriformistica, la celebrazione di comportamenti sensuali o lascivi, che arrivano fino a una ripresa parodica di motivi religiosi), e fiancheggia idee decisamente in contrasto con i princìpi religiosi (su tutto una concezione del mondo materialistica). Non c’è dunque da sorprendersi se, dopo la morte del poeta, avvenuta nel 1625, l’opera viene inserita nell’Indice dei libri proibiti.
2 L’Adone, poema barocco del piacere sensuale
Veronese, Venere e Adone, 1580 (Museo del Prado, Madrid).
La vicenda Per una vendetta di Amore, Venere si innamora del bellissimo Adone, giunto a Cipro, dimora della dea. Con la guida di Mercurio, lo conduce all’interno del suo palazzo, nel Giardino del Piacere, dove ci sono cinque zone che rappresentano i cinque sensi; nel giardino più interno, quello del tatto, gli amanti sono congiunti in matrimonio da Mercurio. Adone e Venere si recano poi all’isola della Poesia, dove viene introdotta una rassegna di poeti, greci, latini e italiani. Dall’isola della Poesia, Adone intraprende una sorta di viaggio dantesco nei cieli più vicini alla terra secondo la cosmologia tolemaica: sulla luna Adone visita la grotta della Natura, su Mercurio il palazzo dell’Arte, in cui sono raccolti gli esemplari di tutte le future invenzioni e di tutti i libri importanti; in una digressione a proposito del cannocchiale, il poeta elogia Galileo. Dopo altre vicissitudini, Adone è eletto re di Cipro. Ottiene poi da Venere il permesso di cacciare in una riserva piena di belve feroci, dove è ucciso da un cinghiale inviato da Marte, amante di Venere e geloso di Adone. Ai giochi funebri in onore di Adone partecipano vari nobili cavalieri, fra i quali Fiammadoro, che rappresenta la Francia. Su uno scudo donato da Venere a Fiammadoro sono rappresentate le guerre di religione combattute in Francia, per la quale, dopo il tragico periodo dei conflitti religiosi, si apre una nuova era di pace. I caratteri dell’opera L’Adone di Marino rappresenta in pieno il gusto barocco, in evidente contrasto con il poema eroico del cattolicesimo controriformista, la Gerusalemme liberata (non a caso l’Adone è stato definito dal critico Giovanni Pozzi «un’antigerusalemme»). Innanzitutto la vicenda narrata non Marino, il maggior poeta barocco 2 45
è storica ma mitologica: il poema narra infatti gli amori di Venere e del bellissimo giovinetto Adone, con una chiara ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio. Rispetto alla concezione cristiana ed eroica della Gerusalemme liberata il punto di vista nell’Adone è ribaltato: cardine dell’azione del poema mariniano è la ricerca del piacere sensuale da parte del protagonista, per il quale non è previsto né alcun ripensamento né una qualsiasi maturazione etica e religiosa, come invece avviene ad esempio per l’eroe tassiano Rinaldo. Adone non ha più nulla dello status di eroe epico: non è investito di alcuna missione, non è votato ad alcuna causa, non è nemmeno identificabile da un insieme di prerogative etiche, ideologiche o almeno psicologiche tipicamente sue, ma esclusivamente dal suo aspetto seducente (è eletto re di Cipro non per qualche impresa eroica, ma perché vincitore di un concorso di bellezza). Adone è il suo corpo e le varie sensazioni che ne ricava. I nuovi valori del poema Il poema di Marino tuttavia non è del tutto disimpegnato: esprime infatti dei valori, seppur ormai differenti da quelli epici. Il primo è la pace. L’Adone è un «poema di pace», come già lo definiva il critico francese Jean Chapelain, in un’introduzione pubblicata a Parigi insieme all’opera. L’antagonista di Adone nel poema è Marte, dio della guerra, che lo fa uccidere da un cinghiale, mentre gli sono favorevoli Venere, dea dell’amore, e Mercurio, divinità ingegnosa e pacifica, che lo guida in un percorso di conoscenza, prima in giardini dedicati alle esperienze dei cinque sensi, poi nei cieli della Luna, di Mercurio e di Venere. Durante tale viaggio emerge un secondo tema portante dell’opera: l’esaltazione della scienza, messa in luce nell’elogio di Galileo e nella celebrazione delle più moderne scoperte scientifiche e dei ritrovati della tecnica. L’amplificazione barocca e la dissoluzione del poema epico L’Adone è il poema più lungo della letteratura italiana: Marino arriva a trasformare un episodio narrato da Ovidio in 73 versi in un poema di oltre 40.000 versi, in venti canti. L’esile trama principale è continuamente intersecata da innumerevoli digressioni, dalla costante germinazione di episodi secondari, da molteplici indugi descrittivi che infrangono l’unità del poema, conferendogli una natura mutevole e policentrica. Per questi caratteri, frutto del rifiuto delle regole classicistiche e dell’esuberanza immaginativa tipica del Barocco (Giulio Ferroni ha parlato di un «esuberante repertorio del visibile»), oltre che per gli aspetti tematici di cui si è parlato, l’Adone rappresenta la definitiva crisi del poema epico.
L’Adone Genere
«poema di pace» che si configura come un “antigerusalemme”
Struttura
20 canti in oltre 40.000 versi (è il poema più lungo della letteratura italiana)
Datazione
1623
Contenuti
storia d’amore tra Amore e Venere, esaltazione della scienza; valorizzazione della pace; digressioni su molteplici argomenti, episodi mitologici
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Lo stile Anche lo stile del poema riflette il gusto barocco, nell’impiego insistito, soprattutto nelle parti descrittive, di metafore inusuali, a volte in sequenza, che istituiscono collegamenti arditi, anche se Marino, rispetto ad altri poeti del tempo, è sempre attento a salvaguardare la comprensibilità del testo. Molto ricco e ricercato è il tessuto retorico, con l’impiego in particolare di antitesi, anafore, e di figure di suono, in particolare allitterazioni. Prerogativa di Marino infine è la ripresa di forme, stilemi e registri di tutta la tradizione letteraria, rivisitati però e miscelati tra loro e con forme nuove, così da risultare nuovi a loro volta.
3 Le principali raccolte liriche
Agnolo Bronzino, Allegoria, 15401545 (Londra, National Gallery).
Dopo la pubblicazione nel 1602 delle Rime, che lo fanno conoscere al pubblico e agli scrittori del tempo, più di un decennio dopo, nel 1614, Marino procede a una selezione del materiale poetico precedente, vi aggiunge una ampia nuova sezione e pubblica tre volumi di liriche raccolte sotto il nome complessivo La lira, con riferimento alla musicalità dei suoi versi, che gli assicura grande fama ed esercita forte influenza sui poeti del tempo, i quali guarderanno a lui come principale modello. Marino ricerca consapevolmente il favore del pubblico, aprendo la poesia a nuovi temi, accanto a quelli tradizionali. Al centro rimane comunque il tema dell’amore, ma Marino si lascia alle spalle la tradizione petrarchista, l’interesse per complesse analisi introspettive, per dare spazio a una poesia sensuale e preziosamente descrittiva. Molto spesso, come è stato osservato, Marino utilizza materiali precedenti della intera tradizione letteraria – come afferma egli stesso nella prefazione alla raccolta La Sampogna, era solito «leggere col rampino» (“uncino”, “gancio”) i testi di altri autori, per attingervi materiale e riutilizzarlo nelle proprie opere –, che assumono però, in un diverso contesto e filtrati da una nuova sensibilità, un volto rinnovato; una tendenza, quella del “riuso” di molteplici fonti letterarie, che ritornerà in d’Annunzio, anche per altri aspetti spesso paragonato al Marino. Il gusto della descrizione è ulteriormente accentuato in La galeria (1619), in cui le liriche traggono spunto da opere d’arte (Marino era anche un appassionato collezionista) che vengono in un certo senso “catalogate” come appunto nelle gallerie pubbliche o, più spesso, private, di cui Marino era frequentatore. La raccolta, che evidenzia il legame tra le varie arti, tipico del gusto barocco, avrebbe dovuto essere illustrata da riproduzioni delle opere a cui si fa riferimento, ma l’operazione fu abbandonata perché sarebbe risultata troppo dispendiosa. Marino, il maggior poeta barocco 2 47
Giambattista Marino
T1
Elogio della rosa L’Adone III, ott. 156-161
G.B. Marino, L’Adone, a c. di G. Pozzi, Mondadori, Milano 1976
La dea Venere, punta da una rosa, ne tinge i petali di sangue, colorandoli di vermiglio. Recandosi a una fonte per bagnare la ferita, incontra Adone, di cui si innamora; rivolge perciò un elogio alla rosa, indiretta causa dell’incontro amoroso. Da tale esile pretesto narrativo si sviluppa uno dei passi più noti dell’Adone, e uno dei più significativi esempi dello stile barocco, caratterizzato dalla sontuosa ricchezza delle metafore, risplendenti di luci e di colori. Il passo costituisce pertanto un’efficace esemplificazione del «pien teatro di meraviglie» prodotto, secondo Tesauro, dalla poetica barocca.
156 Rosa riso1 d’amor, del ciel fattura2, rosa del sangue mio fatta vermiglia3, pregio del mondo e fregio di natura4, 4 dela terra e del sol vergine figlia, d’ogni ninfa e pastor delizia e cura, onor dell’odorifera famiglia5, tu tien d’ogni beltà le palme prime6, 8 sovra il vulgo de’ fior donna sublime7. 157 Quasi in bel trono imperadrice altera siedi colà su la nativa sponda8. Turba d’aure vezzosa e lusinghiera 12 ti corteggia dintorno e ti seconda9 e di guardie pungenti armata schiera10 ti difende per tutto e ti circonda. E tu fastosa del tuo regio vanto 16 porti d’or la corona e d’ostro il manto11. 158 Porpora de’ giardin, pompa12 de’ prati, gemma di primavera, occhio d’aprile13,
La metrica Ottave di endecasillabi, con
5 odorifera famiglia: la specie dei fiori
schema ABABABCC
profumati. 6 tu tien… prime: tu ottieni il primo premio in ogni gara di bellezza. Presso gli antichi, un ramo di palma era simbolo di vittoria. 7 sovra… sublime: sopra il popolo dei fiori signora eminente. Viene anticipato il tema della rosa come regina dei fiori. 8 siedi… sponda: siedi (come su un trono) nel luogo in cui sei nata. 9 Turba… seconda: una folla di venti leggeri, come se ti vezzeggiassero, ti fa da corteo regale e ti segue. I venti sono per-
1 Rosa riso: la metafora è sottolineata dalla paronomasia e dall’allitterazione. 2 del ciel fattura: opera divina. È da notare il chiasmo, che conferisce simmetria al verso. 3 del sangue… vermiglia: secondo il mito, la rosa, prima bianca, diviene rossa perché macchiata dal sangue di Venere. 4 pregio… di natura: cosa preziosa del mondo e ornamento della natura. È da notare la rima interna (pregio : fregio), che accresce la musicalità del testo.
48 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
sonificati, secondo l’uso della mitologia. 10 di guardie… schiera: si riferisce alle spine, che difendono il fiore. Anche questo verso è costruito a chiasmo. 11 porti… manto: porti una corona dorata (gli stami del fiore) e un mantello di porpora (i petali vermigli). A completare la metafora della rosa regina dei fiori, vengono evidenziati i segni del fasto regale. 12 pompa: splendore. 13 occhio d’aprile: la rosa sembra aprirsi come un occhio nel prato, per il contrasto di colori.
di te le Grazie e gli Amoretti alati fan ghirlanda ala chioma, al sen monile14. Tu qualor torna agli alimenti usati ape leggiadra o zefiro15 gentile, dai lor da bere in tazza di rubini16 24 rugiadosi licori17 e cristallini18. 20
159 Non superbisca19 ambizioso il sole di trionfar20 fra le minori stelle, ch’ancor tu fra i ligustri e le viole 28 scopri le pompe tue superbe e belle21. Tu sei con tue bellezze uniche e sole splendor di queste piagge22, egli di quelle, egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo, 32 tu sole in terra, ed egli rosa in cielo. 160 E ben saran tra voi conformi voglie23, di te fia ’l sole e tu del sole amante. Ei de l’insegne tue, dele tue spoglie 36 l’Aurora vestirà nel suo levante24. Tu spiegherai ne’ crini e nele foglie la sua livrea dorata e fiammeggiante25; e per ritrarlo ed imitarlo a pieno 40 porterai sempre un picciol sole in seno26. 14 monile: gioiello, collana. 15 zefiro: vento primaverile. Anche in questo caso il vento è personificato. 16 tazza di rubini: il calice rosso del fiore. 17 licori: liquori, bevande. 18 cristallini: limpidi, puri. 19 superbisca: insuperbisca. 20 trionfar: la forma tronca del verbo conferisce maggior rilievo e sonorità al
verso. L’incontro vocalico io presente in ambizioso e trionfar prolunga la durata dei versi e ne rafforza la sonorità trionfale. 21 ch’ancor… belle: che anche tu fra i ligustri (piante con fiori bianchi) e le viole manifesti orgogliosamente la tua superiorità. 22 piagge: regioni; si riferisce alla terra. 23 conformi voglie: desideri in armonia, amore ricambiato.
24 Ei… levante: al suo sorgere, l’Aurora vestirà il sole, dei suoi colori rosati, simili ai tuoi; spoglie in questo caso sono le vesti, altra metafora per i petali della rosa. 25 Tu spiegherai… fiammeggiante: tu mostrerai nella corolla i suoi colori dorati e splendenti. 26 un picciol… seno: un piccolo sole nella tua corolla (gli stami).
Cornelis Holsteyn, Venere e Cupido piangono la morte di Adone, 1655 (Haarlem, Frans Hals Museum).
Marino, il maggior poeta barocco 2 49
Analisi del testo Lo stile barocco della meraviglia Il passo è un esempio dell’illusionistico «teatro di meraviglie» prodotto dalle metafore, di cui parla Tesauro nel Cannocchiale aristotelico. Nella tradizione letteraria, la bellezza della rosa era associata all’effimero splendore della giovinezza, e se ne ricavavano diversi ammonimenti, come quello medievale a trascurare le realtà effimere del mondo e quello opposto, rinascimentale, a goderne finché fosse possibile. A Marino interessa il gioco delle metafore più della morale che può trarne: egli vuole sorprendere il lettore, secondo la poetica barocca, e perciò associa alla rosa non una, ma molte metafore, in un sorprendente caleidoscopio di immagini in continuo mutamento. La prima, che vede la rosa come regina dei fiori, è sviluppata in una serie di metafore secondarie, che evocano uno splendido ambiente regale: lo stelo è il trono, le spine guardie armate, i venti un corteo regale, i petali purpurei il manto, il pistillo dorato la corona. L’atmosfera preziosa della descrizione è sottolineata dall’elaborata tessitura fonica dei versi, ricchi di allitterazioni («Rosa riso d’amor», r. 1) e rime interne (pregio : fregio, al v. 3, ecc.); tra le figure retoriche predominano il parallelismo e il chiasmo, che evidenziano una tendenza alla simmetria, tipica di questo poeta.
Il moltiplicarsi delle metafore Alla prima metafora, come è caratteristico dello stile barocco, ne succedono altre sempre più inconsuete e originali (la rosa, che spicca purpurea sul verde dei prati, è paragonata a un occhio e a una tazza di rubini, in cui si dissetano le api e i venti primaverili). Le metafore si susseguono a grappolo subentrando l’una all’altra, cosicché, secondo una caratteristica del Barocco, «l’una estromette l’altra in un continuo gioco di sostituzioni, come se ciascuna, lasciata a sé stessa, non dovesse bastare a raggiungere lo scopo» (Rousset). L’immagine iniziale della rosa sembra così continuamente trasformarsi, in una serie di metamorfosi, che culminano in quella finale, in uno scenario cosmico: la rosa è paragonata al sole e, specularmente, anche il sole diviene «rosa in cielo».
Il rapporto tra rivoluzione cosmologica e stile barocco Il punto di vista passa così improvvisamente dalla terra al cielo, rovesciando la prospettiva. Lo stile barocco del passo sembra porsi in rapporto con la rivoluzione cosmologica: probabilmente non è un caso che il poeta, autore di un elogio a Galileo (X, 42-47), proponga all’immaginazione del lettore prospettive interscambiabili, prima dalla Terra al Sole, poi dal Sole alla Terra, evocando così il mutamento del punto di vista prodotto dalla rivoluzione copernicana.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del brano in un breve testo (max 5 righe). ANALISI 2. Il critico Giovanni Getto nota che nell’Adone si osserva la tendenza a «tradurre i particolari del mondo fisico in oggetti sontuosi». Indica nel passo gli esempi di questo orientamento, individuando i termini che evocano un’atmosfera di lusso, ricchezza e preziosità. LESSICO 3. Analizza il lessico: individua i principali campi semantici e i temi a essi legati. STILE 4. Individua le metafore presenti nel testo e prepara uno schema indicando quelle che si sviluppano in vari elementi. 5. Individua nel testo un esempio per ognuna di queste figure retoriche: metafora, metonimia, apostrofe, personificazione, paronomasia, parallelismo, chiasmo, anafora.
Interpretare
SCRITTURA 6. Contestualizza il testo, ponendolo in relazione alla “poetica della meraviglia” e al Barocco.
50 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
3 I poeti “marinisti” 1 La personalità letteraria di Marino Marino è sicuramente la figura di riferimento dei poeti del tempo, sia quando, per lo più, ne seguono l’esempio, sia quando se ne discostano: in ogni caso il panorama della lirica del tempo è posto sotto il segno del “marinismo”, con cui è spesso identificata, anche nella tradizione critica, la lirica barocca italiana. Non si può parlare propriamente di una “scuola”, ma semplicemente della fortissima influenza di una personalità letteraria di spicco e della presenza di comuni tendenze e scelte tematiche. Tra i principali “marinisti” figurano: il bolognese Claudio Achillini, il napoletano Giacomo Lubrano, il friulano Ciro di Pers. L’ampliamento del campo del poetabile La ricerca di novità dei poeti marinisti si manifesta innanzitutto nell’esplorazione di nuovi soggetti poetici al di fuori della tradizione: tratti dal campo della natura (ogni specie di fiori, di piante, di animali, in particolare quelli più singolari ed esotici, dal pappagallo al pavone; oppure – con il gusto barocco del minuscolo – ogni tipo di insetti: ragni, api, vespe, farfalle, formiche, pulci, lucciole) ma anche dal campo della tecnica, che in questo periodo produce innovativi strumenti (dal cannocchiale al microscopio (l’«occhialino»), agli orologi meccanici). Un campo privilegiato della sperimentazione marinista: l’immagine femminile I poeti barocchi abbandonano il modello femminile stereotipato dipinto dalla tradizione letteraria illustre e dal Canzoniere petrarchesco per dare spazio a tipi femminili del tutto inusuali in un ricco catalogo che non poteva non sorprendere il lettore del tempo: la donna viene ritratta in atteggiamenti e attività inconsueti, che ne infrangono l’immagine tradizionale, statica e ispirata al decoro. Nei canzonieri secenteschi troviamo la donna che cuce e che si pettina, o addirittura che si dedica allo sport: la bella donna a cavallo, la bella nuotatrice, la tuffatrice, la saltatrice, l’acrobata. Un’immagine che non ha alcun corrispettivo realistico (diversamente dal Rinascimento, nel periodo controriformistico l’educazione trascurava l’armonico sviluppo del corpo e le donne non godevano certo della libertà che avrebbe consentito loro di praticare un’attività sportiva), ma è dettata dal desiderio di stupire il lettore oltre che da un interesse estetico per il corpo in movimento, tipico dell’arte barocca. I poeti barocchi fanno a gara per dimostrare la propria abilità anche ritraendo donne dall’aspetto sgradevole o affette da imperfezioni o menomazioni: la «bella donna con gli occhiali», descritta in un sonetto di Giuseppe Artale, «la bella zoppa», «la bella nana», «la bella tartagliante» (cioè balbuziente) di Paolo Abriani, la «bella donna impazzita (Tommaso Gaudiosi), la «bellissima spiritata» (Claudio Achillini) e persino «la bella donna con un occhio di vetro» di Giovan Leone Sempronio! Si arriva, per rinnovare a tutti i costi l’immagine femminile, a varcare i confini del buon gusto, come nel sonetto di Anton Maria Narducci, Sembran fere d’avorio in bosco d’oro: le «fere» evocate dal titolo sono i pidocchi che infestano le chiome dorate della donna (➜ T2b ).
I poeti “marinisti” 3 51
T2
Immagini di donna “a sorpresa” La ricerca della meraviglia attraverso tre liriche dedicate alla figura femminile: con grande maestria, i tre poeti presentano, con soluzioni tecniche tipiche del gusto barocco, l’immagine di donne molto diverse fra loro.
Giambattista Marino
T2a
Donna che si pettina La Lira VIII
Marino e i marinisti, a c. di G. Getto, Utet, Torino 1962
AUDIOLETTURA
Il sonetto, sicuramente uno dei più riusciti dell’autore, è tratto da una raccolta di poesie del Marino, intitolata La Lira. Come accade spesso nella poesia barocca, non presenta un ritratto della donna, ma è incentrato su un dettaglio, la chioma bionda e ondulata. Attraverso la metafora delle onde marine, il poeta trasfigura le chiome ondulate in un sorprendente paesaggio dai colori dorati e splendenti, del tutto fantasioso.
Onde dorate, e l’onde eran capelli, navicella d’avorio un dì fendea1; una man pur d’avorio la reggea2 4 per questi errori prezïosi e quelli3; e, mentre i flutti tremolanti4 e belli con drittissimo solco dividea5, l’òr de le rotte fila Amor cogliea, 8 per formarne catene a’ suoi rubelli6. Per l’aureo mar, che rincrespando apria il procelloso suo biondo tesoro, 11 agitato il mio core a morte gìa7. Ricco naufragio, in cui sommerso io moro8, poich’almen fûr ne la tempesta mia, 14 di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro9!
La metrica Sonetto a schema ABBA, ABBA, CDC, DCD
1 Onde… fendea: un giorno, una navicella d’avorio (il pettine) solcava un mare dorato, le cui onde erano i capelli (della donna). Il primo verso, attraverso la particolare costruzione sintattica con il complemento oggetto preposto a soggetto e verbo, evidenzia la parola chiave del sonetto, onde, due volte ripetuta nel primo verso. Tutti gli elementi della descrizione sono reinterpretati a livello metaforico e riferiti a un paesaggio marino; così il pettine che divide i capelli diviene una nave, che solca le onde del mare dorato. 2 una… reggea: una mano, anch’essa d’avorio, reggeva il pettine. L’avorio, comune
52 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
alla descrizione della donna e degli oggetti che la circondano, conferisce alla scena un’atmosfera di preziosità. 3 per… quelli: attraverso le ondulazioni dei capelli, che evocano i movimenti erranti (errori) di una nave sulla distesa marina. 4 i flutti tremolanti: le onde dei capelli in movimento. Diversamente dalla parola onde, che può essere riferita anche ai capelli, flutti rende evidente il piano metaforico della descrizione. 5 con... dividea: divideva con una scriminatura diritta (simile alla scia di una nave che solca il mare). 6 l’òr… suoi rubelli: Amore raccoglieva l’oro dei capelli separati dal pettine per formarne catene che leghino quelli restii
(rubelli “ribelli”) all’amore (che si innamorano della donna, guardandola mentre si pettina). 7 che… gìa: che, increspandosi, apriva il suo tempestoso (per le onde mosse) biondo tesoro, il mio cuore agitato andava (gìa) incontro alla morte. 8 moro: muoio. 9 poich’almen… oro: poiché, nella mia tempesta, almeno lo scoglio fu di diamante e il golfo d’oro. A livello referenziale, di diamante è un elemento dell’acconciatura della donna, probabilmente un fermaglio; a livello metaforico, nel naufragio, il mare (golfo) è d’oro e lo scoglio su cui si va a infrangere la nave è di diamante.
Analisi del testo Metafora e metamorfosi Nel sonetto, prendendo spunto da un elemento convenzionale nella tradizione letteraria, cioè la lode della bionda chioma della donna amata, il poeta sviluppa una serie di immagini metaforiche riccamente fantasiose. Dall’ondulazione della chioma deriva la metafora che associa i capelli alle onde di un mare dorato. Secondo una tendenza della lirica barocca, e in particolare della poesia di Marino, la metafora principale è sviluppata in diversi elementi, qui relativi al campo semantico del mare. Così, se la chioma è una distesa marina, il pettine è una nave, e il fermaglio uno scoglio; le onde suscitano l’idea di un mare in tempesta, che produce il naufragio da cui è travolto il cuore dell’amante. Il colore dorato dei capelli evoca inoltre l’idea di un tesoro, da cui derivano l’immagine delle catene d’oro con cui Amore imprigiona il poeta innamorato. Come se tutti gli elementi della descrizione subissero una metamorfosi davanti agli occhi del lettore, la chioma bionda si trasforma in un paesaggio marino del tutto irreale, attraverso il fluire seducente delle immagini, che prescinde di fatto da una articolazione propriamente logica.
La poetica marinista: immaginazione e preziosità Come si nota anche in questa lirica, Marino rinuncia all’analisi psicologica a favore di un’attenzione ad aspetti esteriori e visivi: mentre nella poesia petrarchesca la ricorrente metafora del naufragio era associata a sentimenti di tristezza e angoscia del poeta, Marino, la associa a un elemento tutto esteriore: l’ondulazione dei capelli. Un altro elemento tipicamente barocco è il dinamismo della scena. Marino riesce a costruire una situazione movimentata anche se non si può definire drammatica, con un effetto di climax: prima le onde, poi il naufragio e infine la morte dell’amante, corrispondente al cedimento di fronte alla bellezza travolgente della donna. Anche un naufragio riesce a essere occasione per uno sfoggio verbale di preziosità: ricorrente è l’immagine dell’oro, in ciascuna delle quartine e delle terzine, secondo la «fondamentale legge di splendore e di lusso» (G. Getto) propria della poesia di Marino, sempre segnata dal preziosismo delle immagini.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
ANALISI 1. La lirica può essere suddivisa in due parti, una corrispondente alle quartine, l’altra alle terzine. Indica il tema di ciascuna e gli elementi stilistici che le contraddistinguono. LESSICO 2. Riporta i termini relativi al campo semantico del lusso e della preziosità. STILE 3. Individua nel sonetto i termini e le espressioni riferite alla preziosità del colore dorato dei capelli e quelli riferiti alla metafora delle onde del mare, e trascrivili in uno schema simile a questo; indica anche le espressioni in cui in modo “concettoso” sono associati i due campi metaforici. metafora dei capelli
Interpretare
metafora delle onde del mare
metafore “concettose”
TESTI A CONFRONTO 4. Confronta il sonetto con l’Elogio della rosa (➜ T1 ) e individua gli elementi comuni.
I poeti “marinisti” 3 53
Anton Maria Narducci
T2b Marino e i marinisti, a cura di G.G. Ferrero, Ricciardi, Milano-Napoli 1954.
Sembran fere d’avorio in bosco d’oro Un tipico esempio del “cattivo gusto” barocco, al tempo apprezzato dal pubblico che ne era divertito, è un sonetto di Anton Maria Narducci (1585 ca.- XVII secolo). Con questo sonetto, che esemplifica la tendenza dell’epoca a trattare con grande serietà e impegno stilistico argomenti irrilevanti, l’autore ribalta con tono polemico e autoironia l’immagine femminile.
Sembran fere d’avorio1 in bosco d’oro2 le fere erranti onde sì ricca siete; anzi, gemme son pur che voi scotete 4 da l’aureo del bel crin natio tesoro3; o pure, intenti a nobile lavoro, così cangiati gli Amoretti avete, perché tessano al cor la bella rete 8 con l’auree fila ond’io beato moro4. O fra bei rami d’or volanti Amori, gemme nate d’un crin fra l’onde aurate,5 11 fere pasciute di nettarei umori6; deh, s’avete desio7 d’eterni onori, esser preda talor non isdegnate 14 di quella preda onde son preda i cori8! La metrica Sonetto con schema delle rime ABBA ABBA CDC DCD 1 fere d’avorio: fiere d’avorio (per il colore biancastro).
2 bosco d’oro: secondo una consueta metafora, la chioma dorata della donna.
3 gemme… tesoro: costruisci così: “son pur (solo) gemme che voi scotete dall’aureo (dorato) tesoro natio del bel crin”. 4 beato moro: felice, muoio (d’amore). 5 aurate: dorate. 6 fere… umori: fiere nutrite di liquidi rugiadosi. 7 desio: desiderio.
Georges de La Tour, La serva con la pulce, 1638 ca. (Nancy, Musée Historique Lorrain).
8 esser… cori: lasciatevi qualche volta afferrare da colei che è vostra preda e della quale sono preda i cuori. Il senso della conclusione del sonetto, retoricamente elaborata e concettosa (preda ritorna tre volte nei due versi), è l’augurio alla donna di liberarsi dai pidocchi.
Analisi del testo Un tema bizzarro Pur di suscitare meraviglia e incredulità, il poeta non si tira indietro nel dare spazio a un soggetto disturbante e bizzarro quale quello dei pidocchi, inserendolo, con un effetto shock per il lettore, nell’ambito di uno scenario tradizionale (i capelli biondi della donna, il «bosco d’oro»). Il rifiuto della poetica tradizionale, attenta a mettere in luce quegli aspetti che meglio rispondevano a un ideale di bellezza, si traduce così in nell’immagine di una bella donna dai lunghi capelli biondi, come da tradizione, ma deturpati dai pidocchi, che simili a fiere d’avorio si muovono nel «bel crin» dorato. Nonostante il soggetto decisamente “basso”, il sonetto di Narducci è ineccepibile dal punto di vista formale e ricco di metafore e di artifici stilistici secondo il gusto proprio della lirica barocca che intendeva stupire il lettore.
54 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. A chi si rivolge il poeta nelle quartine del sonetto? E nelle terzine? Rende esplicito l’argomento di cui sta parlando (i pidocchi) o lo lascia indovinare al lettore? Per quale ragione? LESSICO 2. Ricerca nel sonetto tutti i termini che impreziosiscono l’argomento trattato. STILE 3. Per verificare l’abilità tecnica del poeta, riporta in uno schema le metafore riferite alla chioma e quelle attribuite alle «fere».
Interpretare
SCRITTURA 4. In un testo scritto (max 10 righe) spiega, attraverso esempi tratti dal testo, perché il sonetto di Narducci è ben rappresentativo della lirica barocca. SCRITTURA CREATIVA 5. Accanto a una estetica del bello, che aveva caratterizzato la produzione poetica precedente, si afferma in questo periodo quella che possiamo definire una estetica del brutto. Prova a descrivere una persona con un evidente difetto fisico, senza rinunciare però alla ricercatezza del lessico e alla cura formale.
Claudio Achillini
T2c Marino e i marinisti, a cura di G.G. Ferrero, Ricciardi, Milano-Napoli 1954
La spiritata Claudio Achillini (1574-1640), professore di diritto e poeta bolognese, era amico ed estimatore di Marino, di cui condivideva la poetica. Il sonetto rovescia l’immagine tradizionale della donna-angelo: la fanciulla amata è un’indemoniata. Il testo sembrerebbe sfiorare l’eresia, ma in realtà risponde all’intento di suscitare nel lettore la «maraviglia» tutta barocca.
Là1 nel mezzo del tempio, a l’improviso,2 Lidia3 traluna gli occhi e tiengli immoti4, e mirano i miei lumi a lei devoti 4 fatto albergo di Furie un sì bel viso5. Maledice ogni lume errante e fiso6 e par che contra Dio la lingua arroti7. Che miracolo8 è questo, o sacerdoti, 8 che Lucifero torni in paradiso9? La metrica Sonetto a schema ABBA AB-
5 mirano…bel viso: i miei occhi (sogget-
BA CDC DCD
to), a lei consacrati, contemplano (mirano) un così bel viso, preda di furori. Secondo la mitologia, le Furie sono le divinità dell’ira e della vendetta. 6 ogni lume errante e fiso: i pianeti e le stelle fisse (la donna maledice quindi il cielo); fiso, “fisso”. 7 la lingua arroti: affili, renda la lingua acuta e tagliente come un’arma. Arrotare una lama significa affilarla passandola sopra una ruota di pietra arenaria. Il termine metaforico fa immaginare le
1 Là: l’avverbio all’inizio del sonetto mette in rilievo il luogo in cui si svolge la scena, in mezzo a una chiesa (tempio). 2 a l’improviso: la locuzione avverbiale sottolinea il carattere sorprendente e inaspettato della situazione. 3 Lidia: nome convenzionale attribuito alla donna. 4 traluna… immoti: strabuzza gli occhi e li tiene sbarrati.
parole violentemente ingiuriose proferite dalla donna. 8 miracolo: il termine evoca la lirica stilnovistica, evidenziando l’intento di rovesciamento parodico del poeta. 9 in paradiso: il paradiso è la donna; il “concetto” barocco è questo: cacciato dalle sedi celesti, Lucifero rientra in un altro paradiso che è la donna, rendendola indemoniata.
I poeti “marinisti” 3 55
Forse costui, che non poteo, mal saggio, sovrastar, per superbia, al suo Fattore10, 11 venne in costei per emolarne un raggio11? Torna confuso al tuo dovuto orrore, torna al nodo fatal del tuo servaggio12, 14 e sgombra questa stanza al dio d’amore! 10 costui… suo Fattore: costui (Lucifero) che, folle (mal saggio, “dissennato”), non poté (poteo) sovrastare il suo Creatore, Dio.
11 emolarne un raggio: imitare un raggio (dello splendore divino). 12 torna… servaggio: torna al vincolo a te destinato della tua schiavitù (cioè l’infer-
no). L’apostrofe è rivolta al demonio, invitato ad abbandonare la donna, tornando all’inferno, e a lasciarla al dio d’amore; la stanza è il corpo dell’amata.
Analisi del testo Il rovesciamento dell’immagine stilnovistica della donna-angelo L’immagine della donna presentata dal poeta è volutamente originale: dà in escandescenze in una chiesa e con occhi stralunati lancia maledizioni. Come è tipico nella poesia barocca, la situazione non ha un carattere drammatico, ma è piuttosto il pretesto per un paradosso ingegnoso: la donna è posseduta dal demonio che crede così di riguadagnare, almeno in parte, il paradiso perduto. E infatti l’apostrofe finale si rivolge a Lucifero, invitandolo a lasciarla a Cupido. Se si leggesse questo sonetto non in una prospettiva intertestuale – cioè non mettendolo in rapporto con la lirica stilnovistica di cui è il rovesciamento – si potrebbe erroneamente credere che si tratti di una scena realistica: invece l’intento del poeta è quello di sorprendere, meravigliare, scandalizzare, ed è perciò che egli rovescia completamente l’immagine della donna angelicata della poesia della tradizione amorosa. Non solo la donna non è un angelo, ma è posseduta dal demonio, e la sua furia si manifesta proprio in chiesa, dove Dante e Petrarca contemplavano le angeliche presenze delle amate. Se Beatrice è per Dante come un angelo, «una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare», lo stesso termine «miracolo» si riferisce ora a una situazione opposta, la possessione demoniaca. Il sonetto si fonda quindi su un arguto gioco intellettuale e si rivolge a un lettore capace di comprenderne le allusioni; la sua efficacia è nella resa particolarmente viva e movimentata della scena, Bernardo Strozzi, La vecchia civetta, 1637 ca. (Mosca, Museo Puškin). nonostante il suo carattere non realistico.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è l’invito finale che il poeta rivolge a Lucifero? ANALISI 2. Qual è il tratto distintivo che caratterizza Lucifero? Per quale motivo? LESSICO 3 Attraverso quali espressioni viene sottolineato il carattere indemoniato della donna?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 4. In un intervento orale di circa 2 minuti, indica gli elementi più significativi del rovesciamento nella rappresentazione dell’amata rispetto all’immagine tradizionale della donna-angelo.
56 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
2 Il Barocco moraleggiante e l’allegorismo Accanto alla tradizionale lirica amorosa, si sviluppa una poesia concettistica e moraleggiante, diffusa in Italia soprattutto a partire dal terzo decennio del Seicento, anche in relazione alle condizioni storiche della penisola che, tra guerre, carestie, pestilenze e rivolte popolari, non sembrava ormai più indurre all’edonismo disimpegnato. È una lirica che non rinuncia alla “meraviglia” di stampo barocco, ma se ne avvale per imprimere nella mente del lettore riflessioni, ammonimenti, insegnamenti morali. È il caso di Ciro di Pers (1599-1663 ➜ T3a ) e di Giacomo Lubrano (1619-1693) (➜ T3b ), la cui lirica «innovativa e ardita [...] dissolve in vertiginose catene di metafore l’immagine della realtà» (G. Jori). I campi da cui Lubrano trae le sue metafore spaziano dal regno naturale (come i sonetti dedicati al Verme villan, il baco da seta, che, trasformandosi in farfalla, diventa simbolo dell’ascesa dell’anima al cielo) alle più recenti innovazioni della tecnica, come il sonetto dedicato all’occhialino, il microscopio, in cui l’evocazione di una realtà microscopica ingigantita agli occhi dell’osservatore è finalizzata alla riflessione morale su come l’uomo amplifichi enormemente, in una prospettiva illusoria, i beni fragili e fugaci della vita terrena. La poesia barocca tende spesso a rappresentare i temi cari alla nuova sensibilità attraverso oggetti-simbolo. In rapporto alla centralità del tema del tempo nell’immaginario barocco, l’emblema più frequente è l’orologio, la cui presenza domina ossessiva la poesia di quei decenni: orologi meccanici a ruote dentate, meridiane, clessidre a polvere e ad acqua invadono le raccolte di poesia barocca, rendendo tangibile agli occhi del lettore il silenzioso scorrere delle ore (➜ T3 ). Nelle innumerevoli poesie sugli orologi del Seicento, ogni elemento del meccanismo può rappresentare una diversa allegoria dello scorrere inesorabile del tempo: il movimento incessante delle lancette ne raffigura la fuga veloce, mentre il suono dell’orologio che batte le ore, in un famoso sonetto di Ciro di Pers (➜ T3a ), richiama alla mente la tromba del giudizio universale e, nella concettosa immagine finale, ispirata al gusto macabro dell’epoca, una mano che bussa alla tomba. La fugacità della vita, nella poesia barocca, è comunque evocata da infiniti oggetti, analogamente al motivo della vanitas nella pittura: ad esempio, in un sonetto, Giovan Leone Sempronio (➜ T4 ), interrogandosi sull’essenza dell’uomo, la definisce attraverso una serie di immagini di cose labili, mutevoli e in rapido movimento: la spuma del mare, il fumo, il baleno, la nebbia, lo strale lanciato da un arco. Un altro oggetto-simbolo prediletto dal Barocco è lo specchio, che, moltiplicando le immagini, rende incerta la distinzione tra reale e illusorio, divenendo così emblema del disorientamento e dell’incertezza conoscitiva del Seicento. Già Tasso, nella Gerusalemme liberata, aveva rappresentato lo specchio come simbolo della seduzione ingannevole di Armida, inaugurando quello che, in diverse variazioni, sarebbe divenuto un topos della poesia barocca, la donna che si specchia. La «ricerca, propria del Barocco, di prospettive artificiali, di immagini in cui la realtà sfuma in illusione» (Getto) trova un emblema nella superficie riflettente dell’acqua, che, analogamente allo specchio, moltiplica le apparenze e suscita miraggi. Ne è un esempio un suggestivo madrigale di Tommaso Stigliani, animato da un concettistico gioco barocco: il poeta, dietro le spalle della donna, la contempla mentre si ammira allo specchio; ma tale immagine è a sua volta raddoppiata, perché I poeti “marinisti” 3 57
riflessa dalla superficie del mare. In questo gioco di rispecchiamenti l’immagine della donna perde la propria consistenza, si dissolve nel suo riflesso, «l’ombra de l’ombra» (➜ T5c ). Allo specchio è associato il mito di Narciso, tratto in inganno dalla propria immagine riflessa e condotto alla morte da una parvenza illusoria. Quello di Narciso non a caso è uno dei miti prediletti del Seicento, rappresentato in un celeberrimo quadro di Caravaggio e più volte ripreso da Marino e da altri poeti. Alla complessità dell’universo, rivelata dalla rivoluzione cosmologica, è invece connessa l’immagine del labirinto: già simbolo universale e leggendario fin dall’antichità, allude a una realtà disorientante, difficilmente padroneggiabile.
Nel Narciso (1597-1599 ca. attribuito a Caravaggio, Galleria Nazionale d’Arte Antica a Palazzo Barberini in Roma) il pittore prende spunto dall’episodio mitologico per dipingere un’immagine che guarda sé stessa riflessa nello specchio d’acqua.
La lirica barocca
Principali caratteristiche
• Ricerca della novità: il fine della poesia è suscitare nel lettore “la meraviglia” • Sovvertimento del modello petrarchesco • Rovesciamento del modello femminile • Varietà tematica • Ampio uso di metafore originali e bizzarre • Ricorso a oggetti emblematici con significato allegorico
58 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
T3
L’orologio, emblema della fuga del tempo Il tempo e la sua misurazione scandiscono la vita che fugge e, inesorabilmente, l’avvicinarsi della morte. La «voce» dell’orologio ricorda l’inarrestabile lotta contro il tempo e diviene metafora di un destino inevitabile.
Ciro di Pers
T3a Marino e i marinisti, a c. di G.G. Ferrero, Ricciardi, Milano-Napoli 1954
Orologio da rote
LEGGERE LE EMOZIONI
Molte liriche della poesia riflessiva e meditativa di Ciro di Pers (1599-1663), uno dei maggiori poeti del Barocco italiano, sono dedicate al tema del tempo. Il celebre sonetto qui riportato è dedicato all’orologio.
Mobile ordigno di dentate rote1 lacera il giorno e lo divide in ore, ed ha scritto di fuor con fosche note2 4 a chi legger le sa: sempre si more. Mentre il metallo concavo percuote3, voce funesta mi risuona al core; né del fato spiegar meglio si puote 8 che con voce di bronzo il rio tenore4. Perch’io non speri mai riposo o pace, questo, che sembra in un timpano e tromba5, 11 mi sfida ognor contro all’età vorace6. online T3b Giacomo
Lubrano Oriuolo ad acqua
E con que’ colpi, onde il metal rimbomba, affretta il corso al secolo7 fugace, 14 e perché s’apra, ognor picchia a la tomba8.
La metrica Sonetto con schema ABAB
3 il metallo… percuote: la campana dell’o-
ABAB CDC DCD
rologio batte i colpi. 4 né del fato… tenore: né si può esprimere meglio il carattere funesto del destino (del fato… il rio tenore) che con il rintocco del bronzo. 5 sembra… tromba: sembra insieme un timpano (strumento a percussione) e una tromba (questa allude al giudizio universale, e quindi richiama l’immagine della morte).
1 Mobile… rote: meccanismo in movimento di ruote dentate dell’ingranaggio. 2 con fosche note: con caratteri oscuri. Si può pensare a una scritta sull’orologio, oppure si intende che il continuo movimento degli ingranaggi, con il perenne scorrere del tempo, fa pensare all’inevitabilità della morte.
6 mi sfida…vorace: mi sfida continuamente a lottare contro il tempo che tutto divora. L’immagine del tempo divoratore rinvia ai versi iniziali. 7 secolo: tempo. 8 ognor… tomba: in ogni momento bussa alla tomba. I rintocchi dell’orologio sono come il bussare alla tomba, perché ogni momento di tempo consumato fa avvicinare la morte.
Analisi del testo L’orologio e il tempo divoratore Il sonetto è incentrato sull’immagine simbolica dell’orologio: sull’oggetto meccanico si proiettano le connotazioni angoscianti del tempo. Nella prima quartina c’è un’immagine visiva: gli ingranaggi meccanici dell’orologio, costituiti di ruote dentate, appaiono come emblema del tempo divoratore, e anche il termine «ordigno» assume un tono minaccioso e inquietante. Il verbo «lacera» suggerisce l’idea che il meccanismo faccia a pezzi qualcosa di estremamente fragile: il tempo fugace e invisibile. Nella seconda quartina subentrano impressioni uditive, accomunate a quelle visive dalle connotazioni minacciose. Il rintocco dell’orologio risuona inquietante, sia per il timbro metallico del bronzo, sia per il crescendo suggerito al v. 12 dal verbo «rimbomba», sia per il paragone con il suono di una «tromba» (v. 10, in rima), che evoca il giorno del giudizio.
I poeti “marinisti” 3 59
Scandito dal ritmo ossessivo dei rintocchi dell’orologio, lo scorrere del tempo conduce verso la morte, che appare in primo piano nell’ultima immagine, in cui, come sempre nella poesia barocca, si concentra l’“acutezza” del componimento: se ogni istante trascorso avvicina l’uomo alla morte, i battiti dell’orologio sono come il bussare dell’uomo alla propria tomba. Il poeta riesce a concentrare in pochi versi molte immagini, tutte intonate a una stessa atmosfera meditativa, cupa, funerea: l’immaginazione del lettore spazia dall’orologio al tempo, alla morte, alla tomba, al giudizio finale.
Lo stile della poesia Il lessico sottolinea i temi del sonetto: predominano i campi semantici della distruzione («lacera», «vorace») e i termini intonati a un’atmosfera «funerea: «fosche», «si more», «funesta», «tomba». All’efficacia del sonetto contribuisce l’andamento ritmico: le rime delle quartine sono legate da assonanze (ote, ore), che producono l’effetto di un battito regolarmente variato; i versi, quasi privi di punteggiatura, non presentano enjambements e assumono perciò una cadenza uniforme, che riproduce la regolarità meccanica dell’orologio; tale scansione, isolando ogni singolo verso con la breve pausa finale, ferma l’attenzione del lettore sulle parole in rima, che culminano in tre termini evocativi: «tromba» : «rimbomba» : «tomba».
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in circa 3 righe. LESSICO 2. Riporta i termini relativi al campo semantico della fuga del tempo e della morte. STILE 3. Descrivi il livello fonico-ritmico del sonetto.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 4. Dal sonetto emerge la visione della vita come di un qualcosa di fugace ed effimero, divorata dal tempo che scorre senza sosta. Sei d’accordo con questa posizione o ti sembra un po’ troppo cupa e pessimista? Pensi che rifletta una particolare situazione storico-culturale o piuttosto voglia solo provocare il lettore inducendolo a considerazioni più profonde? Motiva il tuo pensiero in un testo scritto (max 15 righe). SCRITTURA CREATIVA 5. Il sonetto riflette il tema dell’inarrestabile scorrere del tempo. Con quale altra immagine potresti alludere allo stesso tema? Prova a idearne una diversa da quella proposta nel sonetto.
Sguardo sull’arte L’orologio “barocco” di Dalí Il famoso artista catalano offre un significativo esempio di un’analogia tra l’immaginario barocco e quello del Novecento. Dalí era un ammiratore delle bizzarrie del Barocco; ne diede prova, come ricorda Mario Praz, con il suo entusiasmo per i mostri di Bomarzo, le colossali e bizzarre sculture realizzate da Vinicio Orsini nel tardo Cinquecento. Nel quadro intitolato La persistenza della memoria (1931) ricorre l’immagine emblematica degli orologi e vi si può riscontrare un procedimento analogo a quello della metafora barocca: l’artista mostra la «perspicacia e versatilità» dell’ingegno nell’attuare collegamenti acuti e originali, teorizzata da Emanuele Tesauro nel Cannocchiale aristotelico. Gli orologi infatti appaiono di una consistenza quasi fluida, molli, e richiamano alla mente lo scorrere del tempo (e l’impossibilità di ricondurlo nel corso della vita di ognuno a una condizione lineare; in pieno Novecento, rimanderà anche alla concezione della sua relatività).
60 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
Salvador Dalí, La persistenza della memoria, 1931 (Moma, New York).
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Giovanni Getto Gli orologi e il tema barocco del tempo G. Getto, Il Barocco letterario in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2000
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Sul tema del tempo nella poetica del Barocco proponiamo una suggestiva pagina del critico Giovanni Getto (1913-2002).
In questo repertorio di immagini si distinguono, per la frequenza con cui ritornano, quelle che danno origine a molte liriche concentrate sul tema dell’orologio. Moralità1 ricavate da orologi dei più diversi tipi, a ruote e a sole, ad acqua e a sabbia, orologi che suonano le ore, che sono collocati su specchi o adorni di scritte e di immagini lugubri, compaiono assai spesso nei canzonieri barocchi. Il solo Sempronio2 ha dedicato a questo tema quasi una trentina di sonetti. Alla radice di questa preferenza tematica agisce da un lato la poetica della sorpresa, sollecita di scegliere una materia nuova e ardua, fertile di possibilità simboliche, e dall’altro il sentimento del tempo, profondamente e diffusamente sofferto da tutta questa età. […] La Weltanschauung3 di questi lirici barocchi insiste su una visione della vita fragile e fugace, sulla presenza continua del tempo distruttore e veloce, sull’ossessione lugubre e desolata della morte. Non sono rari i componimenti che hanno come soggetto la constatazione del carattere effimero e contrastante della vita. […] Nessuna età, dicevamo, ebbe come il Seicento una così acuta e sofferta coscienza del tempo. Il tempo costituisce uno dei motivi di umanità più sentiti, e uno dei motivi di stile più suggestivi, di questo secolo. Esso compare qualche volta nella figura allegorica del vecchio alato, munito di falce o di specchio, intento a trasformare e distruggere ogni cosa […], ma più spesso interviene sotto forma di categoria della realtà e di persuasione dolorosa del passare e mutare di tutte le cose. Il sentimento del tempo nell’età barocca si fonde con il sentimento della vita, della vita presente instabile e fuggevole, della vita che muore e cade nel nulla. [...] Se l’età medievale avvertì il tempo come una durata di tipo inferiore, quella per cui esistono le cose che sono nella materia e per le vicissitudini della quale l’uomo si scopre mortale, questa durata era tuttavia sentita come quella che conduce all’eternità, a Dio: l’attimo del presente si colmava dunque di futuro, di una divina speranza di infinito. E a sua volta l’età rinascimentale nell’intuire la temporalità come il teatro della immortalità, in cui l’uomo può affermarsi e lasciare memoria di sé, padrone del proprio destino e fabbro della propria fortuna e conquistatore della propria gloria, dava un significato al tempo presente, che sembrava così caricarsi di passato e nobilitarsi di memoria storica. Ma l’età barocca, in cui l’uomo, mentre l’immanenza rinascimentale4 più non soddisfa e appare remota la semplice concezione del mondo medievale, si sente dolorosamente solo, avrà del tempo una sensibilità più disperata: per essa il tempo si pone con un carattere di estrema instabilità, come presente senza speranza di futuro e senza conforto di passato, come
1 Moralità: sentenze, aforismi morali. 2 Sempronio: Giovan Leone Sempronio (1603-1646), autore della raccolta La selva poetica, che al tempo ebbe varie edizioni.
3 Weltanschauung: in ted. “visione del mondo”, modo di concepire la vita e il proprio tempo. 4 l’immanenza rinascimentale: la tendenza dominante nel Rinascimen-
to a spiegare la realtà, la natura, la vita dell’uomo indipendentemente da ogni principio di trascendenza.
I poeti “marinisti” 3 61
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istante minacciato continuamente dal futuro e sepolto senza rimedio dal passato. Di qui l’attenzione concentrata sulla morte, sulla morte vista in una prospettiva tragica di distruzione e di sepoltura. La pietra sepolcrale, la putrefazione della tomba, lo scheletro e il teschio, la polvere a cui anche le ossa saranno inevitabilmente ridotte: sono tutte immagini ossessive della fantasia barocca.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione
1. Spiega con parole tue e con un esempio che cosa significa il termine Weltanschauung. Perché è utilizzato dal critico? 2. Come viene rappresentato il tempo nella poesia barocca? 3. Perché il critico definisce sofferta la visione del tempo propria del Barocco? 4. In un testo scritto indica quali sono le differenze tra la concezione del tempo medievale, rinascimentale e barocca, spiegando quale contesto riflettono.
Giovan Leone Sempronio
T4
Quid est homo?
LEGGERE LE EMOZIONI
La selva poetica Lirici marinisti, a c. di G. Getto, Tea, Torino 1990
ANALISI INTERATTIVA
Secondo la tendenza barocca a rendere i concetti astratti attraverso immagini concrete, il poeta Giovan Leone Sempronio (1603-1646) definisce in un suo sonetto l’essenza dell’uomo attraverso una serie di allegorie, che ne mettono in luce la nullità e l’insignificanza. L’esistenza umana è paragonata a elementi fugaci, come la nebbia, la spuma del mare, il fumo, cosicché sembra dissolversi nel nulla. Tali immagini richiamano l’iconografia della vanitas, ricorrente nella pittura del Seicento.
Oh Dio, che cosa è l’uom? L’uom è pittura di fugaci colori ornata e cinta, che in poca tela e in fragil lin dipinta 4 tosto si rompe, e tosto fassi oscura1. O Dio, che cosa è l’uom? L’uom è figura dal tempo e da l’età corrotta e vinta, che in debil2 vetro effigiata e finta, 8 a un lieve colpo altrui cade e non dura. È strale3, che da l’arco esce e sen passa; è nebbia, che dal suol sorge e sparisce; 11 è spuma, che dal mar s’erge e s’abbassa.
online Gallery
Allegorie secentesche
È fior, che nell’april nasce e languisce; è balen4, che nell’aria arde e trapassa; 14 è fumo, che nel ciel s’alza e svanisce.
La metrica Sonetto con schema ABBA ABBA CDC DCD
1 Oh Dio… fassi oscura: la vita dell’uo-
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mo è paragonata a un quadro dai colori evanescenti, che tendono a oscurarsi; il quadro è dipinto su una fragile tela, che può in un breve momento essere distrutta.
2 debil: fragile. 3 strale: freccia. 4 balen: baleno, emissione di luce intensa e brevissima che accompagna il fulmine.
Analisi del testo Il tema della vanitas Il sonetto rappresenta la fragilità e la brevità dell’esistenza umana, un tema, tipico della sensibilità barocca, espresso attraverso una serie di realtà fugaci e inconsistenti. L’associazione di diverse immagini allegoriche trova un’analogia nei quadri sullo stesso tema.
L’analisi formale del sonetto Il sonetto, costruito in modo rigoroso e simmetrico, può essere suddiviso in due parti, corrispondenti a quartine e terzine. Le due quartine sono accomunate dalla domanda in apertura su cosa sia l’uomo, accompagnata da una sconsolata invocazione a Dio («O Dio, che cosa è l’uom?»). Nelle quartine la vita dell’uomo è paragonata a due emblemi di fugacità: una pittura che tende a svanire, impressa sulla superficie di una tela delicata, e una figura dipinta su un vetro, un materiale fragile che può infrangersi a un lievissimo colpo. Lo stacco tra quartine e terzine è segnalato dal ritmo, che diviene più rapido nelle terzine, in cui a ogni verso corrisponde un’allegoria, scandita dall’anafora di È. All’esistenza dell’uomo sono associate immagini di cose fugaci (la freccia, il lampo), inconsistenti (la nebbia, il fumo), di effimera durata (il fiore, la spuma). Ogni verso è diviso in due: un oggetto-simbolo, a cui viene riferita una frase relativa, in cui sono accostati due verbi di significato opposto, che delineano una parabola (dall’altezza alla caduta, dalla vita alla morte), facendo apparire la vita come una congiunzione tra opposti, e un’instabile fuga tra estremi, che sembrano toccarsi per la durata di un attimo. Con la sua serie di emblemi, il sonetto suggerisce un’idea «di inevitabilità, di fatale certezza in un destino di morte» (Getto).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Riassumi brevemente il tema fondamentale del sonetto. ANALISI 2. Elenca le immagini allegoriche che nel sonetto rispondono alla domanda su che cosa sia l’esistenza dell’uomo. 3. Sottolinea i verbi delle terzine, indicando, quando sono in antitesi, a quali contrasti si riferiscono. LESSICO 4. Riporta gli elementi lessicali che evidenziano l’idea della fugacità della vita. STILE 5. Spiega quali elementi differenziano la prima dalla seconda parte della poesia. Considera in particolare la struttura dei versi, le immagini, il lessico.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
T5
SCRITTURA 6. Attraverso una serie di immagini allegoriche il poeta riflette sulla condizione del’uomo, destinato a una esistenza fragile e breve. Quali sensazioni suscita in te la lettura di questo sonetto? Che considerazioni ne nascono?
Gli inganni dello specchio Con il suo gioco di immagini riflesse, lo specchio compare di frequente nei componimenti barocchi. Fra realtà e illusione, può essere simbolo di bellezza ma, allo stesso tempo, anche di precarietà, ricordando che la gioventù sfiorisce con il passare del tempo.
online T5a Girolamo Preti
Per la sua donna specchiantesi
T5b Giovan Battista Marino Mentre la sua donna si specchiava La Lira, XI
I poeti “marinisti” 3 63
Tommaso Stigliani
T5c
Scherzo d’immagini Canzoniere
Lirici marinisti, a c. di G. Getto, TEA, Torino 1990
La breve poesia ben esemplifica l’arguzia e la concettosità barocca. Dipinge, con tratto lieve, una scena in cui le immagini si moltiplicano in un gioco di rispecchiamenti. Come spesso avviene nella lirica del tempo, lo specchio è simbolo di molteplicità delle prospettive sulla realtà, ma anche di illusorietà delle apparenze.
Mentre ch’assisa1 Nice2 del mare a la pendice3 stava a specchiarsi in un piombato vetro4, io, ch’essendole dietro 5 affisati i miei sguardi a l’acqua avea5, l’ombra sua6 vi vedea con la sinistra man di specchio ingombra: e ne lo specchio ancor l’ombra de l’ombra7.
La metrica Madrigale di endecasillabi e settenari, con schema aaBbCcDD
3 del... pendice: sulla costiera marina. 4 piombato vetro: specchio. È una ci-
1 assisa: seduta. 2 Nice: nome grecizzante.
tazione dantesca («S’i’ fossi di piombato vetro» Inf, XXIII, 25). 5 affisati… avea: avevo posato il mio sguar-
do (“avevo fissati i miei occhi”) sull’acqua.
6 l’ombra sua: il suo riflesso (nell’acqua). 7 ne lo specchio… de l’ombra: l’immagine rispecchiata di lei, a sua volta rispecchiata nell’acqua.
Analisi del testo Il tema del rispecchiamento della realtà La donna si contempla in uno specchio, e la sua immagine è riflessa dall’acqua del mare: il poeta, alle sue spalle, la vede perciò rispecchiata nell’acqua, con lo specchio tra le mani, dentro cui vede un’altra immagine riflessa. Così le immagini della donna si moltiplicano: la donna reale, la donna riflessa dall’acqua, l’immagine nello specchio, e così via. Il moltiplicarsi vertiginoso delle prospettive è tipicamente barocco; termine chiave della poesia è ombra, ripetuto due volte nell’ultimo verso, che riconduce al tema della vanità delle apparenze: nel moltiplicarsi delle immagini la realtà sembra dissolversi e divenire inconsistente. Le rime del componimento, tutte baciate, accentuano la leggerezza e la musicalità della poesia, e si collegano al tema del rispecchiamento: la rima baciata produce infatti un effetto di eco, come se la fine di una parola “si rispecchiasse” immediatamente nella successiva.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Ricostruisci la scena descritta nel sonetto. LESSICO 2. Quali termini possono essere ricondotti al campo semantico del vedere?
Interpretare
SCRITTURA 3. Il sonetto non è solo un gioco di specchi e riflessi, ma porta con sé un significato più profondo. Sapresti dire quale? Attraverso quali espressioni emerge?
64 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
Sguardo sull’arte Immagini allo specchio Il madrigale dello Stigliani (➜ T5c ) può essere paragonato a un Autoritratto (1646) del pittore Johannes Gumpp, conservato agli Uffizi di Firenze, in cui l’artista ritrae sé stesso nell’atto di rappresentare sulla tela la propria immagine riflessa in uno specchio. Un virtuosismo che anticipa le moderne incisioni e i disegni dell’artista olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1972), sottolineando una volta di più la sorprendente attualità del Barocco e la sua consonanza con la cultura novecentesca. La mano dell’artista (disegnata con cura iperrealista) sostiene una sfera riflettente. In questa sorta di “specchio” egli vede l’immagine di sé e dell’ambiente circostante molto più ampia di quella che avrebbe attraverso la visione diretta. Lo spazio complessivo che lo circonda – le pareti, il pavimento, il soffitto della camera – infatti è rappresentato, anche se distorto e compresso, nel disco della sfera. La testa dell’artista, o, più precisamente, il punto fra i suoi occhi, si trova nel centro. In qualsiasi direzione si giri, egli rimane il punto focale. Johannes Gumpp, Autoritratto, 1646 (Firenze, Galleria degli Uffizi).
Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente, litografia, 1935 (Utrecht, M.C. Escher Foundation).
Il celebre quadro di Diego Velázquez (1599–1660), Las meninas, rappresenta una scena probabilmente avvenuta alla corte di Spagna, nel palazzo dell’Alcázar, a Madrid, ma soprattutto propone una riflessione sulla visione, in cui lo specchio assume un grande ruolo. Creando quello che nel linguaggio cinematografico sarà chiamato il “fuori campo”, Velázquez al centro del quadro non dipinge quello che sarebbe dovuto esserne l’elemento più importante, il punto focale, cioè Filippo IV e Maria Anna d’Austria, ma ne rivela la presenza riflessa in uno specchio appeso sulla parete di fondo dell’atelier. Il pittore, a sua volta, si autorappresenta, con il pennello in mano, davanti alla tela vista da dietro, mentre guarda da lontano i reali dipinti e al contempo indirizza lo sguardo verso lo spettatore. Il re e la regina sono dunque nella stanza, anche se fuori dallo spazio centrale dell’“inquadratura”, e non in primo piano. Sullo sfondo, nel vano di una porta, in controluce, si staglia la silhouette di uno dei consiglieri di corte. Ma che cosa rappresenta la scena del quadro? Forse, mentre il pittore sta lavorando al ritratto della coppia reale, l’infanta Margherita (al centro, in abito bianco), è venuta in visita ai suoi genitori con le sue damigelle d’onore, las meninas del titolo, come ritengono alcuni interpreti del quadro (ad esempio il filosofo e sociologo francese Michel Foucault; oppure lo specchio riflette solo una parte del quadro, che in realtà ritrae tutta la famiglia reale, compresa l’infanta in posa (come suggerisce lo storico della filosofia tedesco Reinhard Brandt). In ogni caso, in quest’opera enigmatica lo specchio (e il gioco degli sguardi di osservatori e osservati) diviene emblema dell’incertezza e della molteplicità di prospettive della visione, con la consapevolezza che nessuna di esse può mostrarci tutta la realtà. IMMAGINE INTERATTIVA
Diego Velázquez, Las meninas, 1656 (Madrid, Museo del Prado).
I poeti “marinisti” 3 65
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Contro gli “eccessi”: il classicismo barocco
La lirica barocca si presenta come rottura della tradizione classicistica ormai considerata non più rispondente al bisogno dell’epoca di originalità, «maraviglia», arguzia concettuale. Seppure minoritaria, tuttavia, è presente nello stesso periodo anche una diversa tendenza poetica, rappresentata dal cosiddetto “classicismo barocco”, a volte definito anche “antimarinismo”: alcuni poeti rifiutano gli eccessi della «maraviglia» marinista, in nome di un ideale poetico ispirato alla moderazione, all’equilibrio e all’armonia (con risvolti per certi aspetti anche etici, per lo meno per alcuni di essi). Anche in questi poeti è presente la ricerca dell’innovazione e lo sperimentalismo barocco, che si manifestano tuttavia in ambito metrico e linguistico anziché nell’appariscente virtuosismo marinista. D’altra parte, è evidente un richiamo alla tradizione e alla lezione dei classici. Il più famoso esponente della tendenza classicistica nella lirica del Seicento è il savonese Gabriello Chiabrera (1552-1638), che antepone la semplicità, la chiarezza e l’armonia all’artificiosità barocca, sebbene anch’egli non sia estraneo a una ricerca di originalità, soprattutto a livello metrico e nella ricerca di effetti musicali. I suoi testi poetici, ispirati a un ideale classico di misura ed eleganza, riprendono i modelli del latino Orazio e del greco Anacreonte (che Chiabrera leggeva in traduzione latina). Chiabrera introduce nella poesia italiana la “canzonetta”, un’ode costituita da versi brevi e caratterizzata da estrema musicalità, grazia e leggerezza: un esempio famoso è la poesia Riso di bella donna (➜ T6 OL). Oltre che ai modelli classici, Chiabrera si ispirava al francese Pierre de Ronsard (1524-1585), esponente della scuola poetica classicistica della Pléiaonline de. Non è un caso: tra la fine del Cinquecento e il Seicento, in ambito T6 Gabriello Chiabrera Riso di bella donna europeo, la Francia, in cui già nel Seicento emerge una tendenza Canzonette razionalistica, è il paese meno favorevole al gusto barocco. Significativamente proprio dalla Francia proviene, alla fine del XVII secolo, la più decisa contestazione delle stravaganze dei poeti barocchi italiani, con Nicolas Boileau e la sua Arte poetica (1674): «Coi loro versi mostruosi dimostrano / di ritenersi umiliati a pensar come gli altri. / Evitiam questi eccessi: lasciamo all’Italia / la splendida follia di questo falso oro» (trad. di S. Guglielmino). La lirica semplice e musicale di Chiabrera sarà particolarmente apprezzata dai poeti dell’Arcadia (una scuola poetica fondata a Roma nel 1690; ➜ C6), e darà vita a una tradizione che si manterrà viva fino alle odi ottocentesche di Foscolo, Manzoni e Carducci. Un altro importante esponente del classicismo secentesco italiano è il ferrarese Fulvio Testi (1593-1646). Testi rifiuta la poesia barocca ma per ragioni diverse da quelle di Chiabrera: in nome di una concezione impegnata della letteratura che si rifà ai modelli dell’antichità, affronta temi civili in modi che desteranno l’entusiasmo degli scrittori dell’Ottocento romantico (da Foscolo a Leopardi a Manzoni) e di Carducci.
66 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
5 La grande lirica europea
La diffusione nel Seicento di una poesia riflessiva e moraleggiante non è una peculiarità solo italiana, ma più generalmente europea. Tra il secondo Cinquecento e il Seicento il genere lirico conosce una grande fortuna in tutta Europa. Ovunque il modello di riferimento è la poesia italiana, in particolare Petrarca, la cui lezione, rivisitata da una nuova sensibilità, apre la strada a nuove direzioni poetiche. Contemporaneamente, tuttavia, l’Italia perde il suo primato letterario: mentre per il nostro paese si parla, per l’età del Barocco, di una sostanziale decadenza, in altri paesi la poesia raggiunge vertici altissimi: è il caso dell’Inghilterra e della Spagna, in cui l’epoca della sua fioritura è chiamata Siglo de oro (“secolo d’oro”). La lirica europea si caratterizza per una considerevole omogeneità di temi e di motivi: tra di essi assume particolare rilievo il tema del tempo, congeniale alla sensibilità barocca, ossessionata dalla fugacità della vita, dalla precarietà di ogni cosa terrena e dalla minaccia incalzante della morte.
1 La lirica spagnola del Siglo de oro Il tema barocco dello scorrere inesorabile del tempo accomuna i due più grandi lirici della letteratura spagnola, Góngora e Quevedo, che tuttavia si ispirarono a una diversa poetica e furono divisi da rivalità e polemiche. Luis de Góngora (1561-1627) è il maggiore esponente del “culteranesimo” (che poi da lui prese il nome anche di “gongorismo”), una lirica musicale e raffinata, intessuta di echi e citazioni colte, talvolta oscura ed ermetica. Góngora affida la suggestione dei suoi versi a figure retoriche ricercate (soprattutto metafore, ma anche iperbati, sinestesie, allitterazioni). Le sue liriche lasciano nella memoria del lettore non tanto immagini nitide e concrete, quanto suggestioni musicali e coloristiche, spesso intensamente luminose, come nel testo antologizzato Mentre per emulare i tuoi capelli (➜ T7a ), in cui il poeta descrive nei dettagli la trionfante bellezza di una giovane donna, per poi mostrarne, con un effetto di contrasto, la rovina e l’annullamento nella morte, quando di quella bellezza seducente non sarebbe restato che «terra, fumo, polvere, ombra, niente». Francisco de Quevedo (1580-1645) tratta temi affini a quelli di Góngora, ma sulla base di una poetica differente, il “concettismo”, che si affida soprattutto all’ingegnosità delle analogie, all’esasperazione delle metafore e a una originale e profonda riflessione, nutrita di filosofia. La lirica di Quevedo, celebre anche come narratore (il suo romanzo picaresco El Buscón è considerato un capolavoro del genere), non è però intellettualistica e astratta, ma coglie la drammaticità della condizione umana. Ne è un esempio il sonetto Ehi, della vita! Nessuno risponde? (➜ T7b ). Qui il tema della fuga del tempo è presentato attraverso una sorta di monologo teatrale. Il poeta associa sapientemente, e con esemplare concisione, una profonda meditazione filosofica sul tempo, che richiama pagine di Seneca e sant’Agostino, a immagini concrete e realistiche, come quella dell’uomo che bussa alla porta del tempo trascorso, per richiamarlo, e, non ottenendo risposta, inutilmente si ribella allo sfuggire della vita. La grande lirica europea 5 67
2 La “poesia metafisica” inglese online
Per approfondire La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie
Come la lirica spagnola, anche quella inglese si ispira al modello petrarchesco e lo sviluppa nella direzione del concettismo. Per la letteratura inglese i critici utilizzano di preferenza la categoria di “poesia metafisica”, a indicare una lirica caratterizzata dalla concettosità della riflessione filosofica e dallo sforzo di rappresentare idee e pensieri astratti in immagini concrete; il principale esponente della “poesia metafisica” è considerato l’inglese John Donne (1571 o 1572-1631). I Sonetti di Shakespeare Anche nei Sonetti di William Shakespeare (editi nel 1609 in una raccolta probabilmente non curata dall’autore) ricorre il tema della fuga del tempo, spesso in antitesi con l’arte eternatrice; ne è un esempio il sonetto XV, in cui il Tempo sottrae gioventù e bellezza a uno splendido giovane, ma lo scrittore, immortalandone il ricordo nella poesia, può restituire all’amico quanto gli è stato tolto (➜ T7c ).
Balthasar van der Ast, Natura morta con frutta, conchiglie e tulipano, 1620 ca. (L’Aia, Mauritshuis).
La lirica barocca in Europa Spagna Siglo de oro
Luis de Góngora 1561-1627 “culturanesimo” o gongorismo poesia colta e sofisticata, musicalmente suggestiva; spesso oscura per le figure retoriche e i riferimenti ricercati
Francisco de Quevedo 1580-1645 “concettismo” ingegnose analogie, antitesi e artificiose metafore, suggerite dalla riflessione filosofica
68 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
Inghilterra poesia metafisica
rappresentazione di idee e concetti filosofici in immagini e forme poetiche
John Donne 1573-1631
William Shakespeare 1573-1616 Sonetti
T7
Riflessioni sul tempo L’incessante fluire del tempo costituisce uno dei motivi più suggestivi della lirica barocca. L’uomo medita sulla vita che fugge e sulla morte, attraverso immagini ossessive e tragiche di distruzione e sepoltura.
Luis de Góngora
T7a L. de Góngora, Le solitudini e altre poesie, a c. di Norbert von Prellwitz, Rizzoli, Milano 1984
Mentre per emulare i tuoi capelli Attraverso la descrizione della sfolgorante bellezza di una fanciulla, il sonetto (del 1582) suona come un invito perché ne goda prima che l’effimera giovinezza sia fuggita.
Mentre per emulare i tuoi capelli oro brunito1 al sole splende invano, mentre sdegnosa2 guarda in mezzo al piano 4 la tua candida fronte il giglio bello, mentre più del garofano precoce3 il tuo labbro trascina avidi sguardi, e mentre trionfa con gagliardo orgoglio 8 il tuo collo gentile sul cristallo4, godi5 collo, capelli, fronte e labbro, prima che quanto fu in età dorata6 11 oro, giglio, garofano, cristallo, non solo in viola mozza7 o in argento si muti, ma tu e tutto unitamente 14 in terra, fumo, polvere, ombra, niente.
La metrica Sonetto, come l’originale spagnolo. La traduzione non mantiene lo schema delle rime del testo originale, ma presenta solo alcune rime sparse. 1 brunito: fiammeggiante, fulgido. 2 sdegnosa: la fronte guarda con disprez-
zo i bei gigli, perché li supera in candore.
3 precoce: fiorito per primo. 4 trionfa… cristallo: costruisci: la tua gola delicata con baldanzosa fierezza trionfa sul cristallo (per la purezza della linea del collo e per la sottile fragilità). 5 godi: l’invito è rivolto alla giovane fan-
ciulla. 6 in età dorata: nella giovinezza. 7 mozza: recisa, e perciò appassita. Il viola, il nero e l’argento sono i colori penitenziali e funerari nella liturgia ecclesiastica.
Analisi del testo Il tema della vanitas Il sonetto riprende il tema del carpe diem, l’invito a “cogliere l’attimo”, alla luce della sensibilità barocca. Costituito da un solo, ampio periodo, articolato in quattro subordinate temporali, scandite dall’anafora di «mentre», rende efficacemente il senso del fluire del tempo e del continuo mutare, e degradarsi, della realtà sensibile. A livello lessicale, è incentrato su due parole chiave, il verbo «godi» (che apre le terzine), e il sostantivo «niente» (che le chiude), a sottolineare la parabola dello splendore terreno, destinato a dissolversi. Il tema barocco della vanitas è evidenziato dal climax discendente dell’ultimo verso, in cui, con un effetto di dissolvenza, della bellezza radiosa della donna non rimane che «terra, fumo, polvere, ombra, niente».
La grande lirica europea 5 69
Una descrizione impressionistica La fanciulla è descritta con un lessico che ne evoca la fulgida bellezza e il carattere orgoglioso («sdegnosa», «trascina avidi sguardi», «trionfa»). Secondo una caratteristica tipica della lirica barocca, più che un completo ritratto femminile, emergono dettagli, di cui, con effetto impressionistico, risaltano i vivi colori. Colori sottolineati dai paragoni con le sostanze più preziose della natura, l’oro risplendente del sole (v. 2), il candore dei gigli (v. 4), il rosso del garofano (v. 5), la trasparenza del cristallo (v. 8), ripresi poi al verso 11, su cui tuttavia vince la bellezza della donna. I colori sono posti in risalto anche quando la parabola si incurva nel suo corso discendente, allorché, con un effetto di metamorfosi, l’oro, il candore di giglio della carnagione, il rosso delle labbra, si spengono nelle tinte funeree del viola e dell’argento (v. 12).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale ammonimento il poeta rivolge alla fanciulla? ANALISI 2. Rintraccia le espressioni che nella prima parte del sonetto compongono il ritratto della donna nel pieno fulgore della sua bellezza. 3. Con quali espressioni, invece, il poeta allude al dissolversi della giovinezza?
Interpretare
SCRITTURA 4. Qual è a tuo parere il tema centrale del sonetto, il carpe diem o la vanitas? Motiva la scelta attraverso l’analisi testuale.
Jan Miense Molenaer, Allegoria della vanità, 1633 (Toledo, USA, Toledo Museum of Art).
70 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
Francisco de Quevedo
T7b
Ehi, della vita! Nessuno risponde?
LEGGERE LE EMOZIONI
Sonetti amorosi e morali F. de Quevedo, Sonetti amorosi e morali, prefaz. e trad. di V. Bodini, Einaudi, Torino 1965
Quevedo affronta in modo originale il tema della fuga del tempo e della brevità della vita, rappresentando, come in un monologo teatrale, un uomo che, comprendendo solo alla fine che la vita gli è sfuggita, medita con amarezza sul mistero del tempo. L’autore così aveva intitolato il sonetto esplicitandone il tema: «Si rappresenta la brevità del tempo che si vive, e come sembra nulla quello che s’è vissuto».
Ehi, della vita1! Nessuno risponde? Voglio qui tutti gli anni che ho vissuto! La Fortuna2 il mio tempo ha già compiuto3, 4 la mia pazzia le Ore mi nasconde4. Ch’io non possa saper come né dove la salute e l’età sono fuggite! Manca la vita, c’è l’aver vissuto5. 8 Non v’è calamità che non mi provi. Ieri sparì, Domani non è giunto, l’Oggi se ne va via senza fermarsi6; 11 sono un Fu, un Sarà, un È già smunto7. Nell’oggi, ieri e domani congiungo pannolini e sudario8; son rimasto 14 eredità presente d’un defunto9.
Jan Brueghel il Vecchio “Dei Velluti”, Topolino con rose, c. 1605-1611 (Milano, Pinacoteca Ambrosiana).
La metrica Sonetto. Nella traduzione italiana sono irregolarmente presenti soltanto alcune rime. 1 Ehi… vita: il poeta immagina che l’uomo, ormai anziano, bussi alla porta della vita, ma naturalmente nessuno gli aprirà. 2 Fortuna: sorte (è soggetto). 3 compiuto: concluso. 4 la mia pazzia… nasconde: l’uomo capisce di aver sprecato il tempo, ma non riesce a ricordare come abbia impiegato
tutte le ore che ha avuto a disposizione.
5 l’aver vissuto: la consapevolezza di aver vissuto. 6 l’Oggi… fermarsi: Quevedo, che studiò filosofia, si riferisce soprattutto alla riflessione sul tempo di Agostino, che osserva come il passato e il futuro siano per l’uomo realtà solo della mente, mentre il presente è inafferrabile perché in continua fuga. 7 smunto: consunto. 8 congiungo… sudario: il senso è che nel presente si congiungono il passato nel-
la memoria (rappresentato, per metonimia, dai pannolini dell’infante) e il futuro nell’attesa (simboleggiato dal sudario in cui si avvolgono i defunti). 9 son rimasto… defunto: sopravvivo a me stesso, cioè nel mio tempo presente vivo ciò che è rimasto di un defunto. La conclusione concettosa si riferisce all’idea che il tempo passato appartiene non alla vita, ma alla morte.
La grande lirica europea 5 71
Analisi del testo La ribellione alla fuga del tempo Il sonetto tratta il tema già petrarchesco e ricorrente nella lirica barocca della fuga del tempo, ma lo fa in modo del tutto originale, con riflessioni che possono essere ricondotte agli scritti filosofici di Seneca e di sant’Agostino sullo stesso argomento. Il testo non ne risulta però appesantito, né appare particolarmente difficile o astratto, perché Quevedo traspone le riflessioni in immagini concrete, talvolta dure e quasi urtanti nella loro materialità («pannolini e sudario»). Mettendo in scena un personaggio che bussa alla porta della vita e chiede di riavere gli anni vissuti, ribellandosi alla fuga del tempo, l’autore trasforma una riflessione universale in un dramma individuale, che però è quello vissuto da ogni uomo. Il tono perentorio e drammatico del sonetto lo distanzia enormemente da quello pacato e malinconico dei sonetti petrarcheschi. Come è caratteristico del “concettismo” di Quevedo, l’espressione dei pensieri è densa e sintetica; il linguaggio è duro, quasi brutale; i periodi sono brevi e concisi, della misura di uno o due versi, a volte spezzati da cesure. Questi aspetti stilistici accentuano la drammaticità nel sonetto, ulteriormente sottolineata dalle interrogative e dalle esclamative, con cui sono espressi i sentimenti di delusione e di rabbia del protagonista, il quale, come ogni altro uomo, sa di dover morire, ma non riesce mai a prendere seriamente in considerazione questa realtà, come se non lo riguardasse e, quando la morte si avvicina, d’istinto si ribella ritenendo di avere ancora diritto di vivere.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Con quale immagine si apre il sonetto? Qual è il rammarico dell’uomo? Qual è la sua unica consapevolezza? 2. A quali immagini il poeta affida il passato e a quali il futuro? 3. Come si definisce il poeta in chiusura del sonetto? Per quale motivo? STILE 4. Qual è l’aspetto stilistico più evidente che caratterizza il sonetto? Che cosa vuole sottolineare?
Interpretare
SCRITTURA 5. Leggi le seguenti riflessioni sul tempo di Seneca e sant’Agostino e spiega in un testo scritto (max 15 righe) come, in forma più concreta e drammatizzata, siano riprese da Quevedo.
Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Seneca, Lettere a Lucilio (l. I, lettera 1), trad. di C. Barone, Garzanti, Milano 1989
Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Sant’Agostino, Le confessioni (l. XI, cap. 14), trad. di C. Vitali, Rizzoli, Milano 1999 LEGGERE LE EMOZIONI
6. Essendo ancora molto giovane, sicuramente non ti sei mai soffermato sul tema centrale del sonetto, ovvero la fugacità del tempo. Ma se ti chiedessimo di esprimere la tua opinione su questo tema, attraverso quali aspetti lo affronteresti? Quali consigli ti sentiresti di dare a una persona più adulta di te con tanti anni vissuti alle spalle? E ad una giovane, che, invece, ha ancora molto tempo davanti a sé?
72 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
William Shakespeare
T7c
Guerra contro il tempo Sonetti XV
William Shakespeare, Sonetti, a c. di A. Serpieri, Rizzoli, Milano 1998
Molti dei Sonetti shakespeariani si incentrano sul tema del tempo che fugge. Leggiamone uno.
Quando considero che tutto ciò che cresce solo un breve momento si regge in perfezione, che questo immenso palcoscenico presenta solo apparenze 4 su cui le stelle con segreto influsso fanno commenti1; quando percepisco che gli uomini come piante si ingrandiscono incoraggiati e contrastati dal medesimo cielo2, si vantano della loro giovane linfa, in vetta decrescono3, 8 e consumano il loro superbo stato al di là della memoria4; allora il pensiero di questo incostante stare5 ti pone ricchissimo di giovinezza davanti alla mia vista, dove il Tempo devastatore dibatte con Rovina 12 per mutare il tuo giorno di giovinezza in lurida notte6; e in piena guerra col Tempo, per amor tuo, di quanto egli ti toglie io ti innesto nuovo7. La metrica Sonetto elisabettiano (tre quartine seguire da un distico a rima baciata).
1 questo immenso… commenti: con una metafora frequente nella letteratura barocca, il poeta presenta la vita come una recita su un palcoscenico teatrale. È originale l’immagine delle stelle che, come spettatori nelle gallerie del teatro elisabettiano, assistono allo spettacolo del mondo, e lo influenzano misteriosamente (con segreto influsso). 2 incoraggiati… cielo: le medesime leg-
gi naturali fanno crescere e decadere gli uomini. 3 in vetta decrescono: quando sono giunti al culmine della giovinezza cominciano a decadere. 4 consumano… memoria: consumano la gloria della giovinezza senza che ne rimanga il ricordo. 5 incostante stare: è una sorta di ossimoro che sottolinea la precarietà di ogni condizione terrena, in questo caso della bellezza del giovane. 6 dove… notte: dove il Tempo distruttore
si accorda con la Rovina per trasformare la tua giovinezza, luminosa come il giorno, nella turpe notte della vita (la vecchiaia e la morte). Il Tempo e la Rovina sono personificati come in una scena di teatro allegorico medievale. 7 in piena… nuovo: la metafora dell’innesto indica che, in contrasto con l’azione distruttrice della natura, attraverso la poesia, il poeta restituisce al giovane la bellezza che gli è sottratta dal Tempo.
Analisi del testo L’arte supera la natura Argomento del sonetto è la guerra contro il tempo, su cui il poeta riporta una piena vittoria grazie all’immortalità della sua opera. La precarietà della bellezza e della giovinezza deriva da una legge naturale, per cui tutte le cose crescono, raggiungono il pieno splendore, poi declinano e muoiono. La poesia però può sottrarle alla loro effimera durata, rendendole eterne. Ne emerge il contrasto tra la natura e l’arte, interpretato nel senso che l’arte supera la natura e ne colma le manchevolezze. È significativa a questo proposito la metafora botanica dell’“innesto”, a indicare che l’arte perfeziona la natura, senza contrapporsi ad essa. Un concetto che accomuna il sonetto alla Tempesta, uno dei capolavori del teatro shakespeariano (➜ C2). Nella ricca serie di metafore del testo è particolarmente suggestiva, e tipicamente barocca, quella che rappresenta la fugacità della vita come uno spettacolo, a cui le stelle assistono dall’alto, come se guardassero dalla galleria di un teatro.
La grande lirica europea 5 73
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali riferimenti al teatro sono presenti nel testo? ANALISI 2. Nella scena descritta si possono individuare un protagonista, un antagonista e un aiutante. Prova a identificarli. STILE 3. Individua e fai una schedatura delle varie metafore del testo.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Confronta il sonetto shakespeariano con quello di Góngora (➜ T7a ), individuando elementi comuni e differenze.
Fissare i concetti Marino e la lirica barocca 1. Qual è il tratto caratteristico della lirica barocca? In che cosa si concretizza? 2. In che cosa la lirica barocca si allontana dalla tradizione? 3. Perché l’Adone di Marino risponde in pieno al gusto barocco? Quali valori vengono esaltati nel poema? 4. Quali sono le principali raccolte liriche di Marino? Quali temi trattano? 5. Chi sono i poeti “marinisti”? Qual è il campo privilegiato della sperimentazione marinista? 6. Da che cosa sono mossi i poeti barocchi nella rappresentazione dell’immagine della donna? Come vengono ritratte le figure femminili? 7. Quali sono gli oggetti-simbolo attraverso cui la poesia barocca rappresenta i temi cari alla nuova sensibilità? Qual è il loro significato? 8. Quali sono le caratteristiche e i temi affrontati nella poesia barocca spagnola? Quali i maggiori rappresentanti? 9. Qual è il significato dell’espressione “poesia metafisica”? 10. Qual è uno dei temi più ricorrenti nella poesia lirica barocca? In che modo viene tradotto?
Autoritratto con i simboli della vanità di David Bailly, 1651 (Leida, Museo De Lakenhal).
74 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
VERSO IL NOVECENTO
Emblemi barocchi nella poesia moderna: l’orologio, la clessidra, lo specchio Indubbiamente l’immaginario barocco esercita un inesauribile fascino, come rivela la sua persistenza nella poesia di grandi autori dell’Ottocento e del Novecento: fra tutti, Baudelaire, Ungaretti, Borges, che ne riprendono gli emblemi (l’orologio, la clessidra, lo specchio) e i temi (la fugacità della vita e l’incertezza conoscitiva).
Charles Baudelaire L’orologio I fiori del male, Spleen e ideale LXXXV C. Baudelaire, I fiori del male, in Opere, a c. di G. Raboni e G. Montesano, intr. di G. Macchia, Mondadori, Milano 1996
Nei Fiori del male di Charles Baudelaire (1821-1867) torna il tema barocco dell’orologio come emblema visibile del tempo e, come nelle liriche del Seicento, l’orologio-tempo assume connotazioni antropomorfiche, ammonendo il lettore. Anche Baudelaire, precursore della poesia moderna, è evidentemente affascinato dal Barocco, ma il suo orologio non assume un tono predicatorio come nei canzonieri del Seicento, bensì un tono crudele, nel mostrare una realtà a cui è tolta ogni illusione. La composizione è del 1860.
Orologio – implacabile, sinistro, iddio che un dito alza a minaccia e dice: «Ricorda: presto i dolori piomberanno sul pavido bersaglio del tuo cuore; 5 in veloci vapori si squaglierà il Piacere, silfide che dietro le quinte si dilegua1; ogni istante corrode il capitale di delizie che per tutta la vita spetta all’uomo. Trentasei volte cento ogni ora2 i sussurri: 10 mormora: Ricorda! – e Adesso, breve stridìo d’insetto, dice: Sono l’Appena-stato; la mia tromba3 ha prosciugato, immonda, la tua vita! Ricorda, spendaccione! Remember! Esto memor! (Parlo tutte le lingue4 con la mia gola di metallo). 15 O sventato mortale, un minuto è una ganga5 che non devi lasciare senza cavarne l’oro. Ricorda: giocatore avido, il Tempo non ha bisogno di barare per vincere ogni mano. Cresce la notte, il giorno s’assottiglia,
1 silfide… si dilegua: nella mitologia nordica la silfide era una divinità che poteva abitare i boschi e l’aria; il termine passa perciò a indicare una donna molto snella, di una leggerezza quasi evanescente. Per creare una similitudine con la fugacità della vita i versi suggeriscono l’immagine di una ballerina sul palcoscenico di un teatro, cui alludono i veloci vapori in cui si squaglierà il Piacere (nel
testo francese Le Plaisir vaporeux fuira vers l’horizon), probabilmente in un’analogia evocativa del costume vaporoso della danzatrice. 2 Trentasei… ora: il senso ossessivo dello scorrere del tempo è reso dalla precisione del numero dei secondi. 3 tromba: la proboscide di alcuni insetti, come la zanzara, per succhiare il sangue, che rappresenta l’energia vitale.
4 Parlo tutte le lingue: nel senso che nessuno si può sottrarre al tempo.
5 ganga: miniera (più propriamente, è l’insieme dei minerali sterili associati a quelli metalliferi utili, estratti in una miniera: la metafora indica perciò che il tempo è qualcosa da cui puoi estrarre oro, ma soltanto se ne sei capace).
La grande lirica europea 5 75
VERSO IL NOVECENTO
20
l’abisso ha sempre sete, la clessidra si svuota. Presto suonerà l’ora che dal Caso divino e da Virtù, sposa augusta e ancor vergine6, e persino da Pentimento (ah, l’estremo rifugio7!) sentirai: S’è fatto tardi. Muori, povero vecchio vile!»
6 sposa… vergine: la tua nobile sposa
7 Pentimento… rifugio: la metafora in-
che non hai ancora conosciuto. La poesia si rivolge perciò a un giovane.
dica che il pentimento per gli errori passati è l’ultima fase della vita, attraverso cui tutti devono passare. La vita è vista
come un viaggio, durante il quale ci si ferma in rifugi successivi, che indicano le diverse fasi della vita.
Giuseppe Ungaretti Variazioni su nulla Terra promessa G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a c. di L. Piccioni, Mondadori, Milano 2005
In questa lirica di Giuseppe Ungaretti (1888-1950) – la raccolta è del 1950 – il movimento della clessidra è emblema dello scorrere del tempo. Scrive Ungaretti su questo testo: «Il tema è la durata terrena oltre la singolarità delle persone. Null’altro se non un disincarnato orologio che, solo, nel vuoto, prosegua a sgocciolare i minuti». La ripresa di temi barocchi, il dissolversi nel nulla di ogni cosa e la clessidra come emblema del tempo, non toglie tuttavia nulla al fascino di questo testo, che mostra come il poeta sentisse profondamente sua la sensibilità barocca.
Quel nonnulla1 di sabbia che trascorre dalla clessidra muto e va posandosi2, e, fugaci, le impronte sul carnato, 4 sul carnato che muore, d’una nube3... Poi mano che rovescia la clessidra, il ritorno per muoversi, di sabbia, il farsi argentea tacito di nube 8 ai primi brevi lividi dell’alba...4 La mano in ombra la clessidra volse, e, di sabbia, il nonnulla che trascorre silente, è unica cosa che ormai s’oda 12 e, essendo udita, in buio non scompaia5. 1 nonnulla: piccola quantità. Il tema del nulla è evidenziato dal titolo, e dalla parola chiave nonnulla, che ricorre nella strofa iniziale e in quella conclusiva, sottolineando la continua fuga del tempo, e il senso del vuoto che rimane, come una sorta di abisso. 2 trascorre… posandosi: scorre silenzioso (muto) lungo la clessidra e via via si deposita. La sabbia che si posa simboleggia il tempo trascorso.
76 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
3 le impronte… nube: i riflessi rosati, che si spengono, su una nube; carnato significa “color carne”, quindi rosato. Nella poesia sono i riflessi del sole al tramonto, che poi si spengono. 4 il farsi… alba...: il colorirsi d’argento di una nube, è il momento iniziale dell’alba (primi brevi lividi, “l’apparire della prime luci pallide dell’alba”). Il tempo trascorso è indicato da una clessidra, mossa da una mano misteriosa. I puntini di sospensione alla fine delle prime due strofe evidenziano la continuità dello scorrere del tempo. 5 il nonnulla… scompaia: la poca sabbia
che si muove silenziosa nella clessidra è l’unica cosa che si oda e non scompaia completamente nel buio. Il terzo momento della poesia è la notte. La sinestesia ai vv. 13-14 («essendo udita, in buio non scompaia») suggerisce lo spegnersi delle sensazioni visive, al dissolversi nel nulla di tutte le cose.
Jorge Luis Borges Gli specchi L’artefice J.L. Borges, L’artefice, in Tutte le opere, vol. I, Mondadori, Milano 1984
La poesia, inserita nella raccolta L’artefice, del 1960, evidenzia come anche in autori del Novecento possa essere ancora viva la sensibilità barocca. Borges sceglie un oggetto emblematico del Barocco, lo specchio, che, moltiplicando le vane e illusorie apparenze delle cose, sembra rivelare la vanità dell’esistere.
Io, che sentii l’orrore degli specchi non solo in faccia al vetro impenetrabile dove finisce e inizia, inabitabile, l’impossibile spazio dei riflessi 5 ma in faccia all’acqua specchiante che copia l’altro azzurro nel suo profondo cielo che a volte riga l’illusorio volo d’uccello inverso o agita un tremore e avanti alla distesa silenziosa 10 del sottile ebano la cui tersura ripete come un sogno la bianchezza d’un vago marmo o d’una vaga rosa, oggi, al termine di tanti e perplessi anni d’errare sotto varia luna, 15 mi chiedo quale caso di fortuna volle che io paventassi gli specchi. Gli specchi di metallo, il mascherato specchio di mogano che nella bruma del suo rossastro crepuscolo sfuma 20 il volto che mirando è rimirato, infiniti li vedo, elementari esecutori d’un antico patto, moltiplicare il mondo come l’atto generativo, veglianti e fatali. 25 Fanno più vasto il vano mondo incerto in un’allucinante ragnatela; a volte nell’annottare li appanna il tacito respiro d’un vivente. Il cristallo ci spia. Se tra le quattro 30 pareti della stanza v’è uno specchio, non sono solo. C’è un altro: il riflesso che innalza all’alba un segreto teatro. Tutto accade ma nulla si ricorda entro quei gabinetti cristallini 35 dove, fatti fantastici rabbini, leggiamo i libri da destra a sinistra1. 1 fatti… a sinistra: il riferimento è alla scrittura da destra a sinistra dell’ebraico (e comune a tante lingue in Oriente, diversamente da quelle in Occidente) per alludere alla grafia speculare, stesa con un andamento da destra a sinistra e che quindi può essere decifrata solo a mezzo di uno specchio.
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VERSO IL NOVECENTO
Claudio, re d’una sera, re sognato, non sentì d’esser sogno fino al giorno che un attore mimò il suo tradimento 40 con arte silenziosa, sulla scena2. È strano che ci siano sogni, specchi, che il logoro, consueto repertorio d’ogni giorno comprenda l’illusorio orbe3 profondo ordito dai riflessi. 45 Dio (ho pensato) persegue un proposito in questa architettura inafferrabile che edifica la luce col nitore del cristallo e la tenebra col sogno. Dio ha creato le notti che si colmano 50 di sogni e le figure dello specchio affinché l’uomo senta che è riflesso e vanità. Per questo ci spaventano. 2 Claudio... sulla scena: nell’Amleto shakespeariano, Claudio è l’assassino del padre di Amleto e l’usurpatore del trono. In una famosa scena di “teatro nel teatro” per scoprire le sue reazioni, e comprendere se avesse effettivamente commesso
l’omicidio, Amleto fa recitare a una compagnia di attori l’uccisione a tradimento di un re. Borges porta all’estremo il gioco barocco: Claudio è «re d’una sera, re sognato» perché è soltanto un personaggio, immaginato da Shakespeare, e
sembra rendersi conto di tale esistenza illusoria solo quando, a sua volta, vede una rappresentazione teatrale delle sue stesse azioni. 3 orbe: mondo.
L’immagine perturbante allo specchio Come nella lirica barocca, nella poesia di Borges lo specchio diviene emblema di una visione della vita, complessa, sfuggente, ingannevole, e tale da suscitare un sentimento “perturbante” di smarrimento, che qui diviene addirittura orrore. La nostra vita, ricorda la poesia di Borges, è intessuta di rispecchiamenti: le immagini si raddoppiano negli specchi, ma anche nelle superfici levigate, come le acque limpide che riflettono il cielo azzurro e il volo degli uccelli. Ma tutte queste immagini sono illusorie e gli spazi fatti immaginare dalle superfici riflettenti in realtà non esistono. A questa percezione già di per sé inquietante si aggiunge l’idea del doppio, dell’esistenza di un altro sé che è la nostra immagine allo specchio. Così tutta la vita sembra consistere in una serie infinita di rispecchiamenti, come se un’arcana volontà (un antico patto) avesse voluto in questo modo moltiplicarla all’infinito. È ciò che accade con il sogno, irreale replica dell’esistenza diurna. Ma anche l’arte, la letteratura, e il teatro sono specchi della vita, come Borges evidenzia attraverso la bella immagine di re Claudio nell’Amleto, che si rende conto di essere personaggio («re d’una sera, re sognato») quindi irreale, quando vede un attore che ne ripete le azioni (il regicidio) in una scena di una rappresentazione teatrale a corte fatta allestire da Amleto. Nella lirica di Borges si moltiplicano dunque le immagini allo specchio, come se ogni cosa avesse un “doppio” replicato all’infinito (il carattere perturbante dell’infinito è un tema fondamentale anche nei racconti di Borges, e in generale in tutte le opere dell’autore argentino), ma proprio nel moltiplicarsi di tali apparenze, effimere e irreali, la vita sembra rivelare la sua inconsistenza. Le immagini preziose e raffinate della poesia evocano un’impressione di rarefatta levità. Pur essendo scritto nel Novecento, il testo, estremamente suggestivo, rivela una sensibilità barocca, sia per l’immagine emblematica dello specchio, sia per il tema della vanità della vita, sia per il gioco vertiginoso dei rispecchiamenti che si moltiplicano all’infinito.
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Seicento Marino e la lirica barocca
Sintesi con audiolettura
1 Una nuova lirica
La rivisitazione dei motivi della tradizione Carattere fondamentale della lirica barocca è l’originalità, il fine è la «maraviglia» del lettore. Il modello petrarchesco viene totalmente sovvertito. L’organizzazione delle raccolte non traccia più una storia esemplare come nel Canzoniere, ma si basa in genere su un criterio tematico. La varietà tematica Allo stile petrarchesco, composto e armonioso, si sostituisce uno stile ricco di metafore. Queste ultime dominano la lirica barocca: sono sempre originali, spesso stravaganti, bizzarre, volte a colpire l’immaginazione del lettore.
2 Marino, il maggior poeta barocco
L’Adone, poema barocco del piacere sensuale Il poeta più rappresentativo dello stile barocco in Italia è il napoletano Giambattista Marino (1569-1625). Autore del più celebre poema del tempo, L’Adone (1623) – il poema più lungo della letteratura italiana con i suoi oltre 40.000 versi –, Marino celebra non la guerra ma la sensualità dell’amore, la pace, il piacere, in un poema la cui struttura tradizionale è dissolta dalla prevalenza di digressioni descrittive e liriche. Ma l’Adone non è soltanto un’opera disimpegnata, perché propone anche nuovi valori come quello dell’esaltazione della scienza. Le principali raccolte liriche Oltre all’Adone, Marino compone diverse raccolte poetiche, incentrate prevalentemente sul tema dell’amore; tra queste ricordiamo in particolare La lira (1614) e La galeria (1619).
3 I poeti “marinisti”
La personalità letteraria di Marino La forte personalità poetica di Marino esercita una grande influenza nel suo tempo e diviene punto di riferimento per poeti che vengono definiti “marinisti”, in quanto sviluppano tendenze e temi affrontati da Marino. Essi sono spinti dalla ricerca della novità e dell’ampliamento del campo del poetabile: campo privilegiato della sperimentazione marinista è quello femminile. Viene abbandonata l’immagine della donna tradizionale e il modello femminile del Canzoniere è rovesciato: nuovi tipi femminili, spesso, a sorpresa, poco attraenti e perfino mostruosi (la “donna zoppa”, la “nana”, la “bella pidocchiosa”...) entrano in scena; alla donna angelicata della lirica stilnovistica si contrappone l’indemoniata. La donna non è più legata al decoro, è ritratta in atteggiamenti e attività inconsueti; la nuova immagine, però, non rispecchia la realtà, ma è dettata dal desiderio dei poeti di stupire il lettore. La lode di “donne brutte” è pertanto un banco di prova per mostrare l’abilità poetica di valorizzare imperfezioni e menomazioni. Il Barocco moraleggiante e l’allegorismo Accanto alla tradizionale lirica amorosa, si sviluppa anche una poesia concettista e moraleggiante. Essa non rinuncia alla ricerca della “meraviglia”, ma se ne avvale per imprimere nei lettori insegnamenti morali. Temi chiave di questa tendenza poetica sono ad esempio quelli della riflessione sul tema del tempo o del disorientamento conoscitivo, concretizzati in oggetti-simbolo come l’orologio o lo specchio. Sintesi Seicento
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4 Contro gli “eccessi”: il classicismo barocco
Anche se minoritario, nello stesso periodo si afferma anche un “classicismo barocco”, talvolta definito anche “antimarinismo”. Gli esponenti di questa tendenza poetica, di cui ricordiamo il savonese Gabriello Chiabrera (1552-1648), rifiutano gli eccessi della “meraviglia” marinista, in nome di un ideale poetico ispirato alla moderazione e all’equilibrio.
5 La grande lirica europea
La lirica spagnola del Siglo de oro La diffusione della poesia riflessiva e moraleggiante nel Seicento è un fenomeno europeo. Mentre l’Italia perde il suo primato letterario, la Spagna (è il Siglo de oro) vede poeti del calibro di Góngora e Quevedo; in Inghilterra si parla di “poesia metafisica” il cui principale modello è John Donne. La “poesia metafisica” La lirica europea si caratterizza per l’omogeneità di temi e motivi che vertono principalmente sul tema del tempo e della precarietà delle cose terrene. Anche nei Sonetti di Shakespeare (1609) è presente il tema della fuga del tempo.
Zona Competenze Scrittura
1. Rifletti sulle coordinate storico-culturali in cui si inscrive la lirica barocca per illustrarne sinteticamente la possibile influenza sul sorgere e sull’affermarsi di una linea esistenziale e moraleggiante (max 30 righe).
Lavoro di gruppo
2. Avete il compito di allestire una mostra a scuola su “Il Barocco e l’arte della meraviglia”. In piccoli gruppi occupatevi di: – ricercare e selezionare il materiale artistico da proporre; – progettare e curare lo spazio espositivo; – realizzare il materiale esplicativo (didascalie e pannelli ecc.) e quello promozionale (locandina, volantini, ecc.) – promuovere la mostra sul sito della scuola (o sul giornalino scolastico) scrivendo un articolo.
Scrittura argomentativa
3. È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente e non del goffo): chi non sa far stupir, vada alla striglia! Giambattista Marino, Murtoleide, XXXIII fischiata
I versi qui riportati, rappresentano il manifesto poetico di Marino e della sua epoca. Argomenta questa affermazione con opportuni riferimenti ai brani antologici che hai letto. Scrittura creativa
4. “Rivisita” in chiave contemporanea uno degli emblemi o delle metafore o delle allegorie su cui è costruito uno dei componimenti antologizzati, a tua scelta: la vanitas, lo scorrere del tempo, il moltiplicarsi delle immagini riflesse, l’elogio di bellezze femminili (o maschili) fuori dai canoni ecc. Adotta la forma lirica e la struttura metrica che credi più adatte alla tua scrittura poetica.
80 Seicento 1 Marino e la lirica barocca
Seicento CAPITOLO
2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
Il teatro è forse il genere più rappresentativo del Seicento, sia per la sua diffusione a livello europeo, sia perché molti dei maggiori autori del periodo scrivono per il teatro. La produzione è estremamente varia: dalla commedia alla tragedia, ai drammi “metafisici” di Calderón, al teatro di Shakespeare, che supera ogni categoria, per assurgere a una dimensione “cosmica”. Dal secondo Cinquecento il teatro si stacca completamente dai modelli classici, per trovare forme e modi del tutto originali, che rispondono all’esigenza barocca della spettacolarità. Un ruolo di primo piano ha l’Italia, dove sono create due nuove forme teatrali: il teatro dell’arte e il melodramma. Nel teatro barocco si manifesta l’immaginario di un secolo fantasioso, amante delle apparenze fastose e della “meraviglia”, ma anche pronto ad andare oltre le apparenze, ragionando sugli inganni dei sensi, sul rapporto tra umano e divino: mai come in quest’epoca la metafora della vita come teatro è stata più veritiera.
Seicento, il secolo del 1 Ilteatro 2 Ilinteatro Francia 3 Il teatro in Spagna Il teatro 4 in Inghilterra scena teatrale 5 Lain Italia 8181
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Il Seicento, il secolo del teatro 1 La centralità del teatro nel Seicento Il secolo del teatro Il Seicento è considerato il secolo del teatro: molti capolavori dell’epoca sia in Inghilterra sia in Spagna e in Francia, appartengono al genere teatrale e, non a caso, è diffusa nella letteratura del tempo la metafora che rappresenta la vita come uno spettacolo teatrale. La centralità del teatro nella cultura e nella società del tempo è da attribuire a diverse ragioni. • La crisi gnoseologica, prodotta dalla rivoluzione scientifica, e la visione religiosa controriformista fanno percepire la vita terrena come parvenza effimera di una più vera realtà, quasi avesse la durata provvisoria di uno spettacolo. E il teatro è il genere più adatto a esprimere questa visione. • I modelli di comportamento dell’epoca inducono a vedere la vita come una sorta di recitazione in cui ciascuno interpreta una parte, che non sempre coincide con il proprio intimo sentire. • La Chiesa promuove l’uso strumentale del teatro come mezzo di diffusione dei valori cristiani. Molti autori, come lo spagnolo Calderón de la Barca, collaborano con la Chiesa proponendo drammi su figure esemplari di santi e martiri e incentrati su temi teologici. Nuove funzioni e nuovi temi del teatro In questo periodo il teatro, in particolare in Europa, non è soltanto un mezzo per avvincere gli spettatori, ma assume un ruolo culturale chiave nei veicolare nuovi e importanti contenuti, diventa occasione di profonda riflessione sull’uomo e sulla società: ne sono esempio, in Francia, la proposta di modelli ideali di comportamento (come nel Cid di Corneille), la rappresentazione di drammatici conflitti interiori (come nella Fedra di Racine) o la rappresentazione critica della società (in particolare nel teatro di Molière). Ma il teatro barocco talvolta mette in scena vicende che assumono complesse significazioni metafisiche, dando voce al dibattito del tempo su importanti temi teologici, come quello del libero arbitrio, di cui è un esempio il celebre dramma dello spagnolo Calderón de la Barca, La vita è sogno. Ricchissimo di temi sorprendentemente moderni è poi, in Inghilterra, il teatro di Shakespeare. La trasformazione della scena teatrale In rapporto alla più generale trasformazione della visione del mondo e dell’idea di teatro che si afferma nel Seicento, si verifica una trasformazione dello spazio scenico. Il palcoscenico si amplia; la scenografia statica, a prospettiva centrale, adottata nel Cinquecento e adatta per un teatro classicistico (fondato sulle unità di tempo e di luogo), viene sostituita da sfondi più fantasiosi ed elaborati: non solo vie cittadine ma scene boschive, distese marine, in quiete o in tempesta, e anche, sempre più spesso, ambienti fantastici e soprannaturali. Grazie a quinte scorrevoli si realizzano rapidi cambiamenti di scena che strappano applausi agli spettatori: sul palcoscenico possono avvenire incendi e naufragi, spalancarsi abissi infernali, aprirsi aeree prospettive celesti. Questo illusionismo, proprio del gusto barocco della metamorfosi e della spettacolarità, richiede l’opera di abili scenografi: agli spettacoli teatrali vengono perciò chiamati
82 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
a collaborare artisti famosi, come lo scultore Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) che, a Roma, allestì diverse rappresentazioni. Al gusto della spettacolarità si collegano i due generi teatrali nuovi che si affermarono in Italia nel periodo barocco: la commedia dell’arte e il melodramma.
Parola chiave
Il teatro nel teatro La visione “teatrale” della vita propria del tempo produce la tendenza a mescolare vita e teatro, a far corrispondere (o a sovrapporre) finzione teatrale e vita reale, come se l’esistenza si svolgesse su un palcoscenico. Tendenza che si esprime spesso in forme di metateatro attraverso l’artificio del “teatro nel teatro”. Un esempio canonico è l’Amleto di Shakespeare, in cui il giovane principe di Danimarca fa rappresentare a una compagnia di attori itineranti l’assassinio di un re, con lo scopo di sondare le reazioni dell’usurpatore Claudio e della propria madre assistendo a una scena simile a quella che Amleto suppone sia avvenuta nella realtà (➜ T7 ).
metateatro Con metateatro si intende un teatro che riflette sul teatro stesso. Tipico procedimento metateatrale è quello del “teatro nel teatro” che consiste nell’inserire, all’interno di un’opera drammatica, come parte integrante della vicenda che si svolge sul palcoscenico, la messinscena di un altro spettacolo, in cui gli attori recitano, ma anche discutono, esprimono le loro idee (e
indirettamente quelle dell’autore) sull’attività teatrale stessa, talvolta anche rivolgendosi al pubblico e coinvolgendolo. Questa pratica teatrale – che pone l’accento sul carattere illusorio della rappresentazione, dello spazio scenico, degli spettatori stessi – è stata riproposta nel primo Novecento dal teatro pirandelliano (il testo più emblematico è Sei personaggi in cerca d’autore).
Attori francesi e italiani sul palco, opera anonima del 1670 ca.
Il Seicento, il secolo del teatro 1 83
2 Il teatro in Francia
Nel XVII secolo il teatro in Francia si emancipa dalla scarsa considerazione nei confronti delle compagnie di attori itineranti, che si esibivano nelle piazze per un pubblico eminentemente popolare; si formano compagnie stabili e il teatro, particolarmente favorito (e finanziato) dalla politica culturale della corte di Francia, acquista dignità e prestigio grazie all’opera di grandi autori come Corneille e Racine, che danno vita a una drammaturgia tragica di alto livello e di impronta classicistica, a cominciare dal rispetto delle unità aristoteliche. Dal canto suo Molière inaugura un nuovo genere di commedia che, senza rinunciare agli espedienti comici cari al pubblico ed enfatizzati dalla commedia dell’arte, introduce una corrosiva critica dei difetti umani diffusi nella società del suo tempo.
1 L’opera di Corneille La biografia Pierre Corneille (1606-1684), compiuti gli studi presso i gesuiti, si dedicò all’attività teatrale, cimentandosi sia nel genere comico sia in quello tragico, in cui riscosse maggior successo, per lo meno fino a quando Racine non gli sottrasse il favore del pubblico. I personaggi del teatro di Corneille Essi rappresentano il suo ideale umano, elevato ed eroico: il più famoso è il Cid, protagonista dell’omonima tragedia, ispirata a un dramma spagnolo di ambientazione medievale. Altri personaggi di drammi di successo sono tratti dalla storia romana, come Orazio, Cinna o Poliuto, protagonisti delle omonime tragedie. Nei suoi drammi Corneille presenta situazioni conflittuali, in cui la volontà dei protagonisti riesce però a trionfare su ogni umana debolezza, secondo la lezione “ottimistica” della pedagogia dei gesuiti (nella quale Corneille era stato formato) che esaltava il valore del libero arbitrio, sostenuto dalla forza di volontà dell’individuo. Pierre Corneille in un ritratto attribuito a Charles Le Brun, XVII secolo.
Il Cid, dramma dell’onore Ne è un esempio Il Cid (rappresentato con successo nel 1637), il cui protagonista è un personaggio storico, Rodrigo Díaz de Vivar, soprannominato il Cid Campeador, vissuto nell’XI secolo, eroe nazionale spagnolo per le sue imprese contro i musulmani durante la Reconquista. Per vendicare l’onore del padre, il Cid, ancora giovanissimo, uccide il padre della donna amata, Scimena, il quale aveva schiaffeggiato l’anziano genitore del Cid: per la mentalità dell’epoca un oltraggio di questo genere doveva essere vendicato con il sangue. L’onorabilità appare un valore così fuori discussione tra i nobili che, sebbene addolorata per la morte del padre, Scimena non può disapprovare il comportamento del Cid, riconoscendolo come l’unico possibile in quella situazione; tuttavia anche lei, aderendo allo stesso codice etico, si vede moralmente costretta ad anteporre l’onore all’amore e a denunciare l’amato, chiedendone la morte, per vendicare a sua volta il proprio padre (➜ T1 OL). La difficile situazione si apre a una possibile soluzione, allorché il Cid è chiamato a difendere un valore ancora superiore all’onore online familiare, la difesa della patria, attaccata dai musulmani; T1 Pierre Corneille parte così per la guerra, in cui raccoglierà tanta gloria da Il conflitto di don Rodigo tra amore e dovere fargli acquistare fama immortale e, probabilmente, al ritorIl Cid, atto I, scene V-VI no, ottenere il perdono di Scimena.
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2 Il teatro classicistico di Racine L’influenza del giansenismo su Racine Il conflitto tra passioni e ragione è al centro dei drammi dell’altro grande tragediografo francese del tempo: Jean Racine (1639-1699), a lungo rivale di Corneille, che alla fine egli sostituì nell’apprezzamento del pubblico. Educato nel convento di Port-Royal, il principale centro del giansenismo francese (➜ SGUARDO SULLA FILOSOFIA, PAG. 86) a cui il tragediografo rimase legato per tutta la vita, fu influenzato nella sua concezione del mondo dalla visione pessimistica della natura umana, propria del giansenismo. Con Racine il teatro classicistico raggiunge il suo più alto livello, anche per la straordinaria eleganza dello stile: si tratta di un teatro deliberatamente rivolto al pubblico selezionato della corte reale di Francia. Per la sua poetica classicistica Racine trae per lo più i soggetti dei suoi drammi dagli autori antichi e dal mito: da Andromaca (1667) a Mitridate, a Ifigenia, a Fedra. Ma il drammaturgo legge in chiave moderna i personaggi antichi, mettendo in particolare in luce la loro fragilità umana di fronte alla forza dirompente delle passioni: i suoi personaggi sono travolti da esse e sono incapaci di risalire la china che li conduce alla perdizione, sebbene tentino con ogni mezzo di farlo. La razionalità di cui dispongono consente loro di ravvisare gli errori in cui sono caduti, ma non di risollevarsene.
JeanBaptiste Santerre, Ritratto di Racine, XVII secolo.
Fedra, vittima di una devastante passione L’opera più famosa di Racine è Fedra (1677), il cui soggetto è ripreso dall’Ippolito del tragico greco Euripide: Fedra, sposa di Teseo, si innamora del figliastro Ippolito, ma viene da lui rifiutata. Per la vergogna si uccide, dopo aver lasciato credere che sia stato il figliastro a usarle violenza (ma Racine fa ricadere la colpa soprattutto sulle macchinazioni della nutrice Enone). Teseo maledice allora l’innocente Ippolito e, per effetto di un dono in passato ricevuto da Nettuno, la maledizione si avvera, provocando la morte atroce del figlio, travolto dai suoi cavalli terrorizzati da un mostro apparso dalle profondità marine. Differenziandosi da Euripide, Racine sposta l’interesse della tragedia da Ippolito alla donna innamorata (come rivela già il titolo dell’opera, a sua volta ripreso dal tragico latino Seneca) e incentra la propria analisi sull’esperienza dirompente dell’eros. Come lo stesso Racine sottolinea nella prefazione, Fedra «non è assolutamente colpevole, né assolutamente innocente», perché la passione è più forte di ogni sua resistenza. Preda di un delirio d’amore irrefrenabile, Fedra è anche cosciente della follia del suo sentimento: perciò vive un dramma interiore devastante in quanto diventa giudice implacabile di se stessa, e la sua razionalità rende la colpa insostenibile (➜ T2 ). Ma l’oscuro destino che ne decreta la sorte infelice non le consente di esercitare una libera volontà di scelta. Racine interpreta così un personaggio del mito greco alla luce di una moderna sensibilità, che, mentre riflette la sfiducia giansenistica sulla possibilità umana di resistere alla tentazione della colpa, fa presentire le oscure forze dell’inconscio della psicoanalisi novecentesca. Il teatro in Francia 2 85
Sguardo sulla filosofia Il giansenismo Nel corso del Seicento, all’interno del dibattito teologico su questioni dogmatiche e morali, si affermano il pensiero del teologo olandese Cornelio Giansenio (1585-1638) e il movimento che da lui prende il nome. Il giansenismo è un movimento di profondo rinnovamento della vita religiosa che si propone un ritorno alla spiritualità delle origini cristiane e una revisione dei fondamenti dogmatici della fede. L’attenzione di Giansenio, che per più di venti anni si era dedicato allo studio di Agostino, si concentra sul problema della salvezza e della predestinazione: egli sostiene che gli uomini, in conseguenza del peccato originale, sono per natura inclini al peccato e che soltanto la grazia può aprire
loro la strada della salvezza, teorizzando così – in contrasto con i gesuiti e vicino alle posizioni protestanti (per questo alcune proposizioni del giansenismo furono condannate da papa Innocenzo X nel 1653) – la debolezza del libero arbitrio. Secondo Giansenio, infatti, non basta la volontà dell’uomo per ottenere la salvezza, che solo la grazia divina può offrire ai predestinati, agli eletti, indipendentemente dai meriti, di cui l’umanità tutta è totalmente priva. Intorno a queste posizioni si scatenò una lunga battaglia, durata più di un secolo, che vide da una parte i gesuiti e gli organi della Chiesa, i quali non tardarono a condannare come eretico il giansenismo, e dall’altra i seguaci di Giansenio, sempre più numerosi, soprattutto in Olanda e Francia.
Due diversi punti di vista Corneille
Racine
• studi presso i gesuiti • importanza del libero arbitrio • l’uomo, sostenuto dalla forza di volontà, è capace di vincere le passioni e l’inclinazione al male
• educato secondo il pensiero giansenista • debolezza del libero arbitrio • l’uomo è per natura incline al male, che non può vincere se non è salvato dalla grazia
Jean Racine
T2
La confessione di Fedra e la potenza incoercibile della passione
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Fedra, atto I, scena III J. Racine, Fedra, trad. di G. Ungaretti, a c. di A. Capatti, Mondadori, Milano 1981
Fedra è tormentata da una sofferenza di cui nessuno riesce a comprendere la causa. Con la sua insistenza nel voler sapere le cause del male, la nutrice Enone riesce a indurre la padrona a confessare il suo segreto, la passione incestuosa per il figliastro Ippolito.
Atto I Scena III Fedra, Enone [...] FEDRA
ENONE
O odio di Venere! O fatale collera! In quali smarrimenti Dall’amore gettata fu mia madre1! Dimentichiamoli; e silenzio eterno
1 mia madre: Pasifae, madre di Fedra, concepì una folle passione per un toro, da cui generò il Minotauro. Ricordando i folli amori delle donne della
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sua stirpe, Fedra mostra di credere a una sorta di fatale predestinazione che ne attenuerebbe, in parte, la colpa.
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FEDRA ENONE 10
FEDRA
ENONE 15 FEDRA ENONE FEDRA 20
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ENONE FEDRA 25 ENONE
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2 Arianna... lasciata: figlia di Minosse e Pasifae, Arianna aveva aiutato a uscire dal labirinto Teseo, che l’aveva poi abbandonata sull’isola di Nasso; qui Bacco
All’intero avvenire Nasconda quel ricordo. Arianna, o mia sorella, Per ferita d’amore, Moriste sulle sponde Dove foste lasciata2. Che mai fate, Signora? e quale affanno Oggi v’anima contro tutto il sangue Vostro? Poiché lo vuole Venere, di quel sangue deplorevole Ultima, e la più misera, perisco. Sareste innamorata? Ho ogni furia d’amore. Per chi? Stai per udire Il colmo degli orrori. Amo... Rabbrividisco A quel nome fatale, Amo... Chi? Tu conosci Quel figlio dell’Amazzone, Quel principe che anch’io ho oppresso a lungo? Ippolito? L’hai nominato tu. Cielo! tutto il mio sangue Nelle vene si gela. Disperazione! colpa! O razza abbominevole! O viaggio sfortunato! O lido sciagurato, Avvicinare le pericolose Tue rive, era prescritto? Viene da più lontano il male mio. Non appena da leggi Dell’imene impegnata, Al figliuolo d’Egeo3, Quiete, felicità Sembravano essersi per me affermate. Atene mi mostrò Il nemico superbo4. Lo vidi, ed arrossii, Impallidii vedendolo; Confusione s’alzò Nell’anima mia scossa; Non vedevano più Gli occhi miei, e non potevo più parlare; Sentii tutto il mio corpo E agghiacciarsi e bruciare. Venere riconobbi E i suoi fuochi temibili, A sangue che perseguiti Tormenti inevitabili. Con assidue promesse Mi lusingai di sviarli: Le eressi un tempio e l’adornai con cura. Continuamente io stessa Circondata da vittime, Nei loro fianchi frugando, la persa Mia ragione cercavo. D’un amore inguaribile, Impotenti rimedi! l’avrebbe raccolta. Fedra si rivolge alla sorella perché la sente vicina nella passione amorosa. 3 da leggi... Egeo: impegnata dal vincolo
matrimoniale con Teseo (figlio di Egeo). 4 Il nemico superbo: Ippolito, figlio di un’amazzone e di Teseo, perciò figliastro di Fedra.
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Invano la mia mano, andava incenso Bruciando sugli altari: Quando il nome implorava Della Dea la mia bocca, Ippolito adoravo; E vedendolo sempre, Anche appiè degli altari Che annebbiavo di fumo, Tutto offrivo a quel Dio Che invocare per nome non ardivo. Ovunque lo evitavo. O colmo di miseria! I miei occhi nei tratti Lo ritrovavano del padre suo. Contro me stessa infine Osai farmi ribelle: Il cuore mio incitai a perseguitarlo. Per bandire il nemico Del quale ero idolatra, Ostentai insofferenze D’un’ingiusta matrigna; Ed io l’esilio ne sollecitai Ed i miei eterni lagni Dalle braccia paterne lo strapparono. Enone, respiravo; Durante la sua assenza Giorni meno agitati, Cara, scorrevano nell’innocenza. Sottomessa al mio sposo, Le mie noie celando, D’attenzioni ero prodiga Verso i frutti del suo fatale imene5. Ah! precauzioni vane! Mio crudele destino! Dallo stesso mio sposo A Trezene6 condotta, Ho rivisto il nemico Che avevo allontanato: La mia ferita, troppo Viva, è presto tornata a sanguinare. Non è più ardore ascoso7 entro le vene: È tutta intera Venere Avvinghiata alla preda. Per la mia colpa, giusto Terrore ho concepito; La vita ho preso in odio, La mia fiamma in orrore. Volevo col morire Dimostrare che ancora Mi curo della gloria, E, fiamma tanto nera, Alla luce sottrarre.
Pierre Narcisse Guérin, Fedra e Ippolito, 1815 (Bordeaux, Musée des Beaux-Arts).
5 Verso... imene: verso i figli, frutto del matrimonio fatale. 6 Trezene: antica città greca, se-
condo il mito patria di Teseo. 7 ascoso: nascosto.
88 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
Analisi del testo Fedra, né colpevole né innocente Il passo è incentrato sulla confessione dell’amore colpevole di Fedra per il figliastro Ippolito: nel suo racconto la donna risale all’indietro, ben oltre le origini di quel sentimento, per rievocare le vicende della sua stirpe maledetta, dall’amore scellerato della madre Pasifae per un toro, da cui era nato il Minotauro, fino al tormento amoroso della sorella Arianna, abbandonata da Teseo nell’isola di Nasso. Rievocare quegli antichi miti, all’origine della sua stirpe, conferisce alla passione di Fedra un carattere di predestinazione fatale, di inevitabilità. Il problema della colpa è dunque cruciale nella tragedia, che, nonostante sia incentrata su eroi del mito, come è usuale per Racine, ne legge le vicende in chiave cristiana. I riferimenti agli inutili sacrifici agli dei pagani, offerti da Fedra per essere aiutata a vincere la sua passione, vanno trasposti nella concezione giansenistica della fede di Racine: Fedra rappresenta l’umanità non sorretta dalla grazia, per cui, appunto secondo la concezione giansenistica, ogni sforzo di resistere alla tendenza al peccato è insufficiente.
Lo stile di Racine Lo stile di Racine, con la struttura simmetrica dei versi alessandrini, divisi in due emistichi, ripresa anche nella traduzione italiana di Giuseppe Ungaretti (1888-1970), conferisce una cristallina chiarezza all’analisi del caos interiore: una lucidità di analisi a cui non corrisponde per la protagonista la capacità di agire altrettanto razionalmente.
L’immagine chiave della fiamma Nel passo emerge con ossessiva insistenza un’immagine chiave della tragedia, la fiamma: Fedra paventa i «fuochi temibili» (v. 40) di Venere, si sente ardere di passione, ed è ritratta mentre brucia incensi sull’altare, avvolta nel fumo come di un incendio. Il motivo topico del fuoco amoroso si trasforma in un’immagine di autodistruzione e di morte, come rivela l’espressione inusuale di una «fiamma tanto nera» (v. 82), come la definisce la stessa protagonista (alla fiamma dovrebbe essere naturalmente associato il colore rosso), da condurre ineluttabilmente alla rovina sia l’amante Fedra sia l’amato Ippolito. La metafora della fiamma sottolinea la violenza di una passione che rompe ogni argine, annientando il libero arbitrio della donna, troppo fragile per resisterle: un’eroina dunque opposta agli eroi di Corneille, capaci di vincere le proprie passioni con la forza della volontà.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Che cosa accomuna Fedra alle figure citate all’inizio del passo? 2. In che modo Fedra cerca di vincere la propria tormentata passione? 3. Al colmo della passione Fedra si accanisce contro Ippolito. In che modo? Riesce così a trovare pace? ANALISI 4. Analizza e descrivi il tormento e il forte contrasto interiore che vive Fedra. 5. In quale punto del testo è evidente il senso di colpa che assale Fedra? Con quali espressioni viene messo in luce? 6. Quali sono i sentimenti che si accendono in Fedra alla vista di Ippolito? Rintraccia nel testo le espressioni relative. LESSICO 7. A quale campo semantico appartengono i termini e le espressioni con cui viene descritta la passione di Fedra?
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. È stato detto che i personaggi di Fedra e del Cid di Corneille incarnano due opposte visioni dell’uomo: sei d’accordo? Spiega il tuo pensiero in merito in un testo scritto.
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Il teatro in Francia 2 89
3 Il teatro di Molière Una vita per il teatro Un’importante funzione del teatro francese nel Seicento è quella di fornire una rappresentazione critica della società. Una tendenza riflessa soprattutto nelle commedie di Molière, lucido osservatore dei costumi della sua epoca, ma anche dei comportamenti umani d’ogni tempo: non a caso le sue commedie sono tuttora rappresentate con successo. Nato da una ricca famiglia borghese, Molière (1622-1673), pseudonimo di JeanBaptiste Poquelin, dedica tutta la sua vita al teatro: dopo aver frequentato il collegio gesuitico di Clermont e studiato diritto, abbandona ben presto l’avvocatura per unirsi a un gruppo di attori itineranti con cui fonda una compagnia teatrale. Svolgendo il triplice ruolo di attore, capocomico e autore, vive girovagando per la provincia francese in precarie condizioni economiche; in seguito, il re Luigi XIV diviene suo ammiratore e lo accoglie a corte, proteggendolo dall’ostilità e dalle critiche feroci dei benpensanti e degli aristocratici, offesi dal realismo della sua drammaturgia. Dal canto suo Luigi XIV, oltre ad apprezzare l’arte di Molière, la considerava un’alleata per contrastare il potere dell’aristocrazia e del clero, la cui propaganda ideologica veniva fortemente messa in discussione dal razionalismo dell’autore. Molière muore nel 1673, proprio mentre recitava la parte del protagonista nella sua ultima, poi celeberrima, opera: Il malato immaginario.
Ritratto di Molière nel ruolo di Giulio Cesare in La morte di Pompeo di Pierre Corneille, in un dipinto di Nicolas Mignard, 1656 (Parigi, Museo Carnavalet).
Il “realismo critico” di Molière Obiettivo primario del teatro di Molière è rappresentare caratteri veri, ripresi dal mondo reale, per denunciarne errori, vizi, storture: «il compito della commedia è quello di rappresentare in assoluto i difetti degli uomini, in particolare degli uomini del nostro tempo», così afferma nell’opera metateatrale L’improvvisazione di Versailles lo stesso commediografo. Attento osservatore dell’animo umano e acuto analista dei meccanismi che regolano i comportamenti sociali, Molière denuncia come vizi dell’epoca il conformismo, l’ipocrisia, la tendenza ad adeguarsi passivamente alle mode e ai ruoli sociali codificati, l’abitudine a voler apparire diversi da ciò che si è in realtà. È quello che accade nel Borghese gentiluomo (1670), in cui un borghese arricchito si sforza di apparire un aristocratico, con esiti comici; o nelle Donne sapienti (1672), in cui alcune donne letterate, per adeguarsi alla moda del tempo, risultano in realtà soltanto ridicole. Nemico di ogni atteggiamento artefatto, attraverso il suo teatro Molière cerca di far comprendere come le norme di comportamento non debbano essere dettate dall’esterno, ma ciascuno debba trovarle dentro di sé, facendosi guidare dalla ragione e dalla natura. Spesso l’analisi di Molière parte dal microcosmo della famiglia. Al centro di molte sue commedie (ad esempio L’Avaro) è un padre di famiglia che esercita la propria tirannia fra le mura domestiche. L’esempio forse più famoso è Argante, protagonista del testo più celebre di Moliere, Il malato immaginario, che impone alla figlia la propria volontà, cercando di impedirle di sposare l’uomo che ama, ma nel dirigere la propria vita si affida a dei ciarlatani, i medici detestati da Molière (allora lontani da un approccio scientifico della medicina). Le opere più importanti del commediografo francese, in cui maggiormente si esplicita la corrosiva critica sociale propria
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del suo teatro, sono Tartufo (1664), Don Giovanni o il convitato di pietra (1665), liberamente tratto da un dramma dello spagnolo Tirso de Molina (1579-1648), Il misantropo (1666), L’avaro (1668), e Il malato immaginario (1673). In particolare Tartufo, che attacca una religiosità bigotta e formalista, mettendo in scena un truffatore che si finge religiosissimo, e Don Giovanni, il cui protagonista è un libertino che irride le leggi terrene e divine, furono accusati di empietà dagli ambienti ecclesiastici e ne fu proibita la rappresentazione, se non a costo di rilevanti rimaneggiamenti. Per la funzione critica esercitata dal suo teatro Molière è stato avvicinato ai grandi moralisti francesi del Seicento, come François de La Rochefoucauld (1613-1680) e Jean de La Bruyère (1645-1696).
Molière
T3
Argante: despota in famiglia, ma succube dei medici Il malato immaginario atto I, scena V; atto III, scena V; atto III, scena X
Molière, Il malato immaginario, a c. di S. Bajini, Garzanti, Milano 1991
Argante, il protagonista del Malato immaginario, è il tipico ipocondriaco. Credendosi gravemente malato, trascorre le sue giornate sottoponendosi a continue cure, obbediente fino allo scrupolo ai medici, a cui si affida ciecamente.
EDUCAZIONE CIVICA
T3a
Il miglior genero? Un medico!
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Argante in famiglia è dispotico, tanto da voler imporre come marito il nipote del suo medico alla figlia Angelica, in realtà innamorata del giovane Cleante. In difesa di Angelica interviene Antonietta, cameriera dal carattere vivace e ricco di arguzia.
Atto I Scena V Antonietta, Argante, Angelica [...] ANTONIETTA Come? avete pensato davvero a un progetto così grottesco? Con tutti i soldi che avete, vorreste dare vostra figlia a un medico? ARGANTE Sì. A te che importa, sciagurata, svergognata che non sei altro? ANTONIETTA Dio mio! chetatevi: passate subito agli insulti. È mai possibile che non si possa discutere insieme senza perdere la pazienza? 5 Su, ragioniamo serenamente. Per quale motivo, sentiamo, siete favorevole a questo matrimonio? ARGANTE Per il motivo che, invalido e malato come mi ritrovo, voglio farmi tra i medici un genero e delle amicizie, al fine di assicurarmi ogni soccorso possibile contro la mia malattia, di avere 10 in famiglia la fonte stessa dei rimedi che mi sono necessari, e di disporre a piacimento di tutti i consigli e di tutte le ricette che desidero. ANTONIETTA Benissimo! questo significa fornire un motivo, e fa piacere sentirsi rispondere con dolcezza. Ma, Signore, mettetevi una 15 mano sulla coscienza: siete davvero malato, voi? Il teatro in Francia 2 91
ARGANTE Come, sciagurata, mi chiedi se sono malato? Se sono malato io, o spudorata? ANTONIETTA Va bene! siete malato, Signore, non parliamone più; d’accordo, 20 siete malatissimo, anzi molto più malato di quel che pensate: questo è un fatto. Ma vostra figlia deve avere un marito suo; e non essendo malata, non è necessario che sposi un medico. ARGANTE È per me che deve sposare un medico; e una brava figliola dev’essere felicissima di sposare ciò che riesce utile alla salute 25 di suo padre.
T3b
L’ira del dottor La Squacquera contro il malato “ribelle” Su invito del fratello Beraldo, Argante chiede di rimandare una cura al giorno dopo. Il dottor La Squacquera giudica la proposta «un’aperta ribellione di un malato al proprio medico» e reagisce con furia vendicativa.
Atto III Scena V Il dottor La Squacquera, Argante, Beraldo, Antonietta DOTTOR LA SQUACQUERA
e ho sentite delle belle, giù alla porta: qui ci si prende N gioco delle mie prescrizioni, ci si rifiuta di assumere i rimedi che ho ordinato. ARGANTE Signore, non è... 5 DOTTOR LA SQUACQUERA Ci vuole un bel coraggio, siamo di fronte all’aperta ribellione di un malato al proprio medico. ANTONIETTA È spaventoso. DOTTOR LA SQUACQUERA Un clistere, che avevo con tanto piacere ideato io stesso. ARGANTE Io non... 10 DOTTOR LA SQUACQUERA Composto e formato secondo le regole dell’arte. ANTONIETTA Ha sbagliato. DOTTOR LA SQUACQUERA E che avrebbe prodotto nelle viscere un effetto meraviglioso. ARGANTE Mio fratello... DOTTOR LA SQUACQUERA Mandarlo indietro con disprezzo! 15 ARGANTE È stato lui... DOTTOR LA SQUACQUERA Un’autentica diffamazione. ANTONIETTA È vero. DOTTOR LA SQUACQUERA Nella fattispecie, un reato contro la medicina. ANTONIETTA Che ha causato... 20 DOTTOR LA SQUACQUERA Un delitto di lesa-Facoltà, che non sarà mai punito abbastanza. ANTONIETTA Avete ragione. DOTTOR LA SQUACQUERA Vi dichiaro che interromperò il mio rapporto con voi. ARGANTE È stato mio fratello... DOTTOR LA SQUACQUERA E non voglio più imparentarmi con voi1. 1 non voglio... voi: il medico, offeso, manda a monte il matrimonio tra il ni-
pote e la figlia di Argante, organizzato dal malato immaginario per imparentar-
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si con un medico che l’avrebbe sempre curato.
ANTONIETTA Fate benissimo. [...] DOTTOR LA SQUACQUERA Ma poiché non avete voluto essere guarito dalle mie mani. ARGANTE Non è colpa mia. DOTTOR LA SQUACQUERA Poiché vi siete sottratto all’obbedienza che si deve al medico. 30 ANTONIETTA È una cosa che grida vendetta. DOTTOR LA SQUACQUERA Poiché vi siete dichiarato ribelle ai rimedi che vi ordinavo... ARGANTE Ma niente affatto. DOTTOR LA SQUACQUERA Devo comunicarvi che vi abbandono alla vostra cattiva complessione2, all’intemperie3 delle vostre viscere, alla cor35 ruzione del vostro sangue, all’acredine della vostra bile, alla fecciosità4 dei vostri umori. ANTONIETTA Ben fatto. ARGANTE Dio mio! DOTTOR LA SQUACQUERA E voglio vedervi cadere, fra quattro giorni, in uno stato di 40 incurabilità. ARGANTE Ah! misericordia! [...] 25
2 complessione: costituzione fisica.
3 intemperie: alterazione della costituzione naturale.
4 fecciosità: impurità.
Il falso luminare
T3c
Dopo che il dottor La Squacquera, offeso, abbandona Argante, la serva Antonietta inventa un astuto espediente per guarire Argante dall’eccessiva fiducia nei medici: veste i panni di un luminare della medicina e propone al malato immaginario cure a dir poco sconcertanti...
[...] ANTONIETTA
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ARGANTE ANTONIETTA
ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE 10 ANTONIETTA ARGANTE
Atto III Scena X Antonietta, vestita da medico; Argante Spero che non consideriate disdicevole la curiosità che ho avuto di conoscere un illustre malato come voi; la vostra reputazione, che si estende dovunque, può scusare la libertà che mi sono presa. Servitor vostro, Signore. Vedo, Signore, che mi state osservando attentamente. Quanti anni mi date? Penso che possiate avere, al più, ventisei o ventisette anni. Ah, ah, ah, ah, ah! ne ho novanta. Novanta? Sì. È un effetto della mia arte, conosco il segreto per mantenermi fresco e vigoroso. Veramente, un vegliardo d’aspetto giovanile, per i suoi novant’anni. Il teatro in Francia 2 93
ANTONIETTA Sono un medico per così dire di passo, vado di città in città, di provincia in provincia, di regno in regno, alla ricerca di casi 15 clinici illustri e degni delle mie capacità, di malati di cui valga la pena di occuparsi, in grado di valorizzare i grandi e bellissimi segreti che ho scoperto nella medicina. Non mi degno di gingillarmi con la minutaglia delle malattie comuni, con sciocchezzuole come i reumatismi, le flussioncelle1, le febbricole, i vapori2, i mal 20 di testa. Io esigo malattie di qualche portata: belle febbri continue con interessamento cerebrale, belle febbri esantematiche3, belle pestilenze, buone idropisie4 conclamate, buone pleuriti con infiammazioni broncopolmonari: è lì che mi sento appagato, è lì che trionfo; e vorrei, Signore, che voi soffriste di tutte le malat25 tie che ho elencato, che foste abbandonato da tutti i medici, in una situazione disperata, in agonia, per mostrarvi quanto siano efficaci i miei rimedi, e quanto grande il desiderio di rendervi un servigio. ARGANTE Vi sono obbligato, Signore, per tutte le gentilezze che mi dimo30 strate. ANTONIETTA Datemi il polso. Su, coraggio, qui bisogna pulsare come si deve. Ahi, vi insegno io adesso come dovete fare. Oh! ma questo polso fa i capricci: come si vede che ancora non mi conosce. Chi è il vostro medico? 35 ARGANTE Il dottor La Squacquera. ANTONIETTA Non è presente nella lista che ho compilato dei grandi medici. Secondo lui, di che cosa siete malato? ARGANTE Dice che è malato il fegato, mentre altri dicono che è la milza. ANTONIETTA Sono tutti ignoranti: malati sono i polmoni. 40 ARGANTE I polmoni? ANTONIETTA Sì. Che cosa vi sentite? ARGANTE Ogni tanto, mal di testa. ANTONIETTA Proprio così. I polmoni. ARGANTE Talvolta mi pare di avere un velo davanti agli occhi. 45 ANTONIETTA I polmoni. ARGANTE Ho talvolta dolori al cuore. ANTONIETTA I polmoni. ARGANTE Accuso anche una certa stanchezza in tutte le membra. ANTONIETTA I polmoni. 50 ARGANTE E qualche volta mi prendono dolori al ventre, come se fossero coliche. ANTONIETTA I polmoni. Mangiate con appetito? ARGANTE Sì, Signore.
1 flussioncelle: le flussioni sono infiammazioni provocate da un eccessivo afflusso di sangue in una parte del corpo. 2 vapori: esalazioni o vampate di calore.
3 esantematiche: che si manifestano con la comparsa di eruzioni cutanee (come per il morbillo o la varicella).
94 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
4 idropisie: l’idropisia è una raccolta di liquido trasudato.
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ARGANTE ANTONIETTA ARGANTE ANTONIETTA
I polmoni. Vi piace bere un po’ di vino? Sì, Signore. I polmoni. Vi prende un certo torpore dopo il pasto e vi fa piacere schiacciare un sonnellino? Sì, Signore. I polmoni, i polmoni, vi dico. Che dieta vi ha prescritto il vostro medico? Una dieta a base di minestre. Che ignorante. Di carne di pollo. Che ignorante. E di vitello. Che ignorante. Di brodi ristretti. Che ignorante. Di uova fresche. Che ignorante. E la sera prugne cotte per l’intestino. Che ignorante. E soprattutto bere sempre vino molto annacquato. Ignorantus, ignoranta, ignorantum. Il vino dev’essere puro; e per ispessire il vostro sangue, che è troppo fluido, ci vuole del buon sano manzo, del buon sano maiale, del buon formaggio olandese, avena e riso, e castagne e pasticceria fresca, a scopo amalgamante e conglutinante. Il vostro medico è un somaro. Ve ne manderò uno io, e verrò a vedervi di tempo in tempo, mentre rimarrò in questa città. Vi sono molto obbligato. E di quel braccio lì, cosa ne fate? Come? Se fossi in voi, questo braccio me lo farei tagliare immediatamente. E perché? Non vedete che trae a sé tutto il nutrimento, e che impedisce all’altro di disporne adeguatamente? Sì, ma del mio braccio io ho bisogno. Anche l’occhio destro mi farei cavare, se fossi in voi. Cavare un occhio? Non vedete che è di ostacolo all’altro e gli sottrae tutto il nutrimento? Credetemi, fatevelo cavare al più presto, vedrete assai meglio con l’occhio sinistro. Non c’è fretta. Vi saluto. Mi dispiace di lasciarvi così presto; ma devo partecipare a un importante consulto, per un uomo che è morto ieri. Per un uomo che è morto ieri? Sì, dobbiamo rifletterci sopra, e vedere che cosa si sarebbe dovuto fare per guarirlo. Arrivederci.
[...] Il teatro in Francia 2 95
Analisi del testo I motivi comici della commedia Il teatro di Molière – come ben si evidenzia nel Malato immaginario – coniuga gli elementi comici, per cui l’autore sa mettere a frutto la lezione della commedia dell’arte italiana, con un’analisi psicologica degna dei grandi moralisti francesi. Nelle scene proposte spiccano diversi motivi comici, come quello del travestimento e della parodia del medico, sfacciatamente sicuro di sé nonostante le sciocchezze che dice. Un altro motivo comico, già presente nelle commedie di Plauto e poi ripreso da tutto il teatro europeo, è quello del servo (qui della servetta) più astuto del padrone e capace di cavarsela in ogni situazione.
Un’analisi psicologica approfondita Sotto l’apparente leggerezza, l’autore francese scava nel profondo dei personaggi, come si può notare a proposito di Argante. È evidente il contrasto fra il despota in famiglia e l’uomo debole e sprovveduto nei rapporti con i medici, che sente superiori a sé: una tipologia psicologica tutt’altro che rara. Come padre, Argante è così severo che la figlia non osa esporre le proprie ragioni quando il genitore vorrebbe imporle il matrimonio con il nipote del suo medico, sebbene lei sia innamorata del giovane Cleante; solo la cameriera Antonietta, estranea alla famiglia, ha il coraggio di prendere le difese della ragazza. Ma l’atteggiamento prevaricatorio di Argante è l’altra faccia del suo egoismo, dato che il malato immaginario è troppo impegnato a pensare a sé stesso e alla sua salute per preoccuparsi degli altri. Naturalmente lo sciagurato matrimonio non andrà in porto, ma darà luogo ad altre scene godibili della commedia, come quella in cui compare il pretendente della ragazza, una caricatura dello sciocco pedante, che, per offrire uno svago alla ragazza, non trova di meglio che invitarla ad assistere a un’autopsia!
Il motivo della servetta astuta Anche la scena del falso medico è accuratamente studiata dal punto di vista psicologico: prima Antonietta conquista la simpatia di Argante mostrandogli di ritenerlo un malato eccezionale, incompreso dai comuni medici, poi, con un acume e una sensibilità psicologica notevoli, gli dà una lezione che per un po’ gli toglierà l’eccessiva fiducia nei luminari della scienza. Il motivo del servo astuto che si fa beffe del padrone è canonico nella commedia fin dai tempi di Plauto, ma Molière lo approfondisce dotandolo di nuove sfumature, perché, in accordo con la sua convinzione che la natura e la ragione insegnino più di molti libri, ama mettere in ridicolo la pedanteria libresca e l’alterigia dei potenti; perciò nelle sue commedie i servitori mostrano spesso buon senso e perspicacia ben superiori a quelli dei loro padroni.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il dialogo fra Antonietta e Argante circa il matrimonio della figlia di quest’ultimo. COMPRENSIONE 2. In che modo reagisce il dottor La Squacquera di fronte alla richiesta di quest’ultimo? Quali espressioni evidenziano maggiormente il suo disappunto? 3. In tutte le tre scene la serva Antonietta, personaggio chiave della commedia, dà prova di intelligenza e arguzia: in quali modi? In particolare, come riesce a convincere Argante di essere un luminare della scienza medica? ANALISI 4. Descrivi il diverso comportamento che Argante assume in famiglia e con i medici. STILE 5. Individua nelle tre scene gli espedienti teatrali e stilistici che fanno di quest’opera una commedia comica.
96 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
Interpretare
SCRITTURA 6. La figura del malato immaginario, “inventata” dalla straordinaria forza drammaturgica di Molière, ha avuto una godibile rivisitazione cinematografica nell’omonimo film di Tonino Cervi (1979), con Alberto Sordi nei panni di Argante, e la trasposizione delle vicende nella Roma papalina ottocentesca. Fai un confronto tra l’opera di Molière e la trasposizione cinematografica.
Alberto Sordi nei panni di Argante nel film Il malato immaginario di Tonino Cervi del 1979.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
7. Per assicurarsi un medico in casa, Argante impone a sua figlia di sposare il nipote del suo medico personale. Di fronte a questa sua decisione, Antonietta mostra tutto il suo disappunto esclamando: “Ma vostra figlia deve avere un marito suo”. Seppur nella leggerezza e comicità del passo, il tema può avviare considerazioni profonde. Il matrimonio combinato, infatti, non è una pratica appartenente al passato; ancora oggi in molti Paesi è previsto questo contratto di convenienza per “sistemare” le figlie. Sei a conoscenza di storie del genere? Hai letto sui giornali o visto in televisione testimonianze su questo problema? Pensi che si tratti di una forma di discriminazione e violenza? Come potrebbe, secondo te, essere superata?
Fissare i concetti La centralità del teatro nel Seicento 1. Quali sono le ragioni della centralità del teatro nel Seicento? 2. Qual è la funzione del teatro nel Seicento? 3. In che modo si modifica la scena teatrale?
Il teatro in Francia 1. Chi sono, nel Seicento, i maggiori rappresentanti del teatro in Francia? 2. Che cosa viene messo in luce nelle opere di Corneille? 3. A chi si ispira Racine per i suoi drammi? 4. In che cosa differiscono Corneille e Racine riguardo alla posizione dell’uomo? 5. Qual è l’intento di Molière nelle sue commedie? 6. Perché Molière riceve critiche e persecuzioni? Da chi viene difeso? Per quale motivo?
Il teatro in Francia 2 97
3 Il teatro in Spagna
Nel Seicento, il Siglo de oro, il teatro conosce un enorme sviluppo in Spagna; in particolare viene impiegato dalla Chiesa controriformista per spettacoli volti a colpire i credenti con effetti scenografici. I drammi religiosi (autos sacramentales) vengono rappresentati nelle ricorrenze dei giorni dedicati ai santi o in occasione della festa del Corpus Domini con l’intento di risvegliare il senso religioso delle folle, che a questo tipo di spettacoli partecipano molto numerose. Nell’ambito del teatro laico, rilevante è l’opera di Lope de Vega (1562-1635), fondatore del teatro nazionale spagnolo, autore molto prolifico in vari generi letterari (poemi, poemetti, liriche, drammi), che riscosse enorme successo di pubblico. Altro grande rappresentante del teatro spagnolo è Calderón de la Barca (1600-1681), le cui numerosissime opere trattano temi morali e religiosi.
1 Calderón de la Barca e La vita è sogno La biografia Nato a Madrid da nobile famiglia nel 1600, Pedro Calderón de la Barca scrisse più di duecento lavori teatrali di vario genere, un certo numero dei quali su temi religiosi, che egli aveva approfondito grazie agli studi di teologia. Dopo essersi dedicato alla carriera militare, a 51 anni si fece ordinare sacerdote, e divenne poi cappellano di corte; morì nel 1681. La vita è sogno Il suo dramma più noto è la commedia filosofica La vita è sogno (1635), considerata una delle espressioni più significative del teatro barocco. La vicenda Basilio, re di Polonia ed esperto di astrologia, è atterrito dagli spaventosi prodigi che accompagnano la nascita del figlio Sigismondo e, dall’esame del suo terribile oroscopo, trae la convinzione che questi sarebbe diventato un re crudele e scellerato. Lo fa quindi rinchiudere in una torre, in un luogo nascosto e isolato, alla sola presenza di un custode-precettore, il nobile Clotaldo. In seguito, assalito da dubbi, decide però di metterlo comunque alla prova: lo farà portare nella reggia mentre dorme, per valutarne il comportamento; se sarà quello crudele predetto dagli oroscopi, Sigismondo sarà ricondotto alla torre e gli si farà credere che abbia soltanto sognato. Così infatti avviene, ma a questo punto si verificano alcuni eventi inaspettati: Sigismondo viene liberato da una rivolta popolare e, avendo appreso la lezione della precarietà del privilegio e del potere, si comporta in modo più saggio ed equilibrato, perdonando il padre e rinunciando al dispotismo e alla violenza. Il suo libero arbitrio trionfa così sulle malvagie inclinazioni istintive e su tutte le più funeste previsioni. Il tema teologico Il tema fondamentale della Vita è sogno è il libero arbitrio. La vicenda del dramma infatti va interpretata come un’allegoria, volta a illustrare la visione cattolica, fiduciosa nella capacità dell’uomo di vincere l’innata tendenza al peccato, in contrapposizione all’idea protestante della predestinazione alla grazia: per Calderón, l’uomo può sempre scegliere il bene (secondo un punto di vista che riflette la posizione dei gesuiti, presso i quali l’autore era stato educato). Così Sigismondo, comprendendo che nella generale vanità di tutte le cose l’unica che non viene perduta è il bene compiuto, impara a non abusare del proprio potere.
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Il tema filosofico-gnoseologico Un altro tema fondamentale dell’opera è quello della conoscenza, su cui l’autore si mostra invece pessimista. Secondo la visione del tempo, Calderón considera quasi nulla la possibilità di cogliere la vera essenza della realtà. L’uomo si trova proiettato in un’esistenza terrena simile a un sogno per la sua incertezza e precarietà: solo la fede può aiutarlo a orientarsi in un mondo ambiguo e ingannevole. Il dubbio sulla consistenza della realtà e sulla possibilità di conoscerla sarà sviluppato in termini filosofici, nel Discorso sul metodo (1637) di Cartesio, di due anni posteriore al dramma.
online
Interpretazioni critiche Ermanno Caldera La vita è sogno, dramma filosofico e religioso
Il tema del rapporto fra genitore e figlio Un terzo tema dell’opera è il rapporto padre-figlio: Basilio è convinto dagli oroscopi che Sigismondo sarà violento e crudele, ma non capisce che egli stesso crea le condizioni perché lo diventi davvero, chiudendolo in una torre e isolandolo dal consorzio umano, senza permettergli di esercitare responsabilmente la sua libertà. Dalla psicologia moderna il comportamento di Basilio verrebbe definito una profezia che si autoavvera (per il fatto stesso di essere formulata e accolta, tende a tradursi in realtà in quanto un figlio tende a conformarsi al giudizio che i genitori hanno di lui). Tuttavia alla fine, pur dopo aver commesso degli errori, Sigismondo si dimostra capace di smentire ogni triste previsione paterna. Ciò non significa che l’opera affermi il diritto alla ribellione, anzi, secondo il codice gerarchico proprio dell’epoca, tende al contrario ad affermare il principio dell’autorità, sia paterna, sia regale: alla fine Sigismondo, nonostante abbia vinto il padre in battaglia, gli si sottomette, e punisce il soldato che aveva provocato la rivolta. Le immagini allegoriche La vita è sogno è percorsa da una fitta rete di allegorie che rappresentano in forma emblematica i temi dell’opera: così l’iniziale irrazionalità ferina di Sigismondo è simboleggiata dall’ippogrifo su cui, al principio del dramma, la bella Rosaura (figlia di Clotaldo) giunge presso la sua prigione; la torre in cui egli è rinchiuso allude alla caverna platonica (la configurazione mitica immaginata dal filosofo greco per gli uomini, che possono vedere solo le ombre riflesse dagli oggetti reali sulla parete di fondo, incatenati come sono al dominio dell’opinione e del divenire, non ancora emersi alla luce del vero), mentre la sontuosa reggia in cui è trasportato può essere un’allusione al paradiso. Dalla cella della sua torre, Sigismondo vede ovunque immagini della libertà di cui Dio ha dotato il mondo: il volo degli uccelli, le fiere libere in caccia, i pesci che misurano l’immensità degli abissi; egli solo, incatenato, ne è privo, ma nel corso del dramma arriverà a comprendere che la forma più alta di libertà è proprio quella che Dio riserva all’uomo, la scelta del bene. In questo senso è come se Sigismondo ripercorresse la storia cristiana dell’umanità, dal peccato originale alla redenzione.
Fissare i concetti Il teatro in Spagna 1. Qual è nel Seicento la principale funzione del teatro in Spagna? 2. Chi sono i maggiori rappresentanti nell’ambito del teatro laico? 3. Qual è il tema fondamentale del dramma La vita è sogno? 4. In che cosa consiste la visione fiduciosa di Calderón nell’uomo? E invece riguardo a che cosa mostra di avere una visione pessimista?
Il teatro in Spagna 3 99
Pedro Calderón de la Barca
Il “disinganno” e la scelta del bene
T4
LEGGERE LE EMOZIONI
La vita è sogno, atto II, scene XVIII e XIX Le scene evidenziano il cammino di maturazione di Sigismondo. Riportato dalla reggia (dove era stato messo alla prova nel suo ruolo di principe ereditario, e dove si era comportato in modo crudele e tirannico) alle catene della sua cella, quando gli viene detto che ha soltanto sognato (sebbene in realtà ciò non fosse vero), è costretto a riflettere sulla precarietà del potere e dei beni terreni, il che lo porta, come gli aveva suggerito il suo precettore Clotaldo, ad adottare per l’avvenire un comportamento più responsabile e saggio.
P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, a c. di C. Acutis, trad. di A. Gasparetti, Einaudi, Torino 1980
Il risveglio di Sigismondo
T4a
[Essendosi comportato in modo crudele, Sigismondo è narcotizzato e riportato nella torre per ordine del padre, che, avvolto in un mantello per non farsi riconoscere, viene a osservarne le reazioni al risveglio.] Scena XVIII Entra Basilio, avvolto in un mantello. BASILIO CLOTALDO BASILIO 5
CLOTALDO BASILIO
CLOTALDO BASILIO 10 SIGISMONDO CLOTALDO BASILIO CLOTALDO 15 BASILIO SIGISMONDO
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BASILIO SIGISMONDO
1 l’oppio... vigore: Sigismondo era stato fatto addormentare con un potente sonni-
Clotaldo. Signore! Vostra Maestà qui, solo? Ahimè, mi ha spinto a venir qui di nascosto l’inutile curiosità di vedere che cosa accadrà a Sigismondo, al risveglio. Guardalo, è di nuovo ridotto nel suo miserabile stato. Sventurato principe, nato sotto cattiva stella! Cerca di ridestarlo; l’oppio che ha bevuto gli ha tolto forza e vigore1. Si agita inquieto nel sonno, signore, e mormora qualche cosa. Che starà sognando? Ascoltiamo. (dormendo) Chi castiga i tiranni è un principe pietoso. Ucciderò di mia mano Clotaldo, mio padre dovrà baciarmi i piedi. Mi minaccia di morte. A me promette violenze e oltraggi. Mi vuol togliere la vita. Sogna di abbattermi ai suoi piedi. (sognando) Scenda sulla vasta piazza del gran teatro del mondo questo valore che non ha uguali; sia fatta vendetta, e gli uomini vedano il principe Sigismondo che trionfa sul proprio padre. (Si desta). Povero me! Dove sono? Non deve vedermi. (A Clotaldo) Tu sai già quel che devi fare2. Io vado di là, potrò sentire quel che dice. (Si ritira). Sono dunque io? Sono io che mi ritrovo ridotto in questo stato, imprigionato e in catene? E tu, torre, sei il mio sepolcro? Sì. Signore Iddio, quante cose ho sognato! fero, prima di riportarlo nella torre.
2 Tu sai... fare: Clotaldo deve fingere che
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Sigismondo sia sempre rimasto nella torre addormentato, e che perciò abbia sognato.
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CLOTALDO SIGISMONDO CLOTALDO
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SIGISMONDO
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CLOTALDO SIGISMONDO CLOTALDO SIGISMONDO
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(tra sé) Ora tocca a me andare a disilluderlo del tutto. È già ora di svegliarsi? Sì, è già ora di svegliarsi. Vuoi restare tutto il giorno a dormire? Da quando io seguii col tardo volo delle parole il volo dell’aquila e poi ti lasciai solo, non ti sei mai ridestato3? No; e nemmeno ora sono desto, Clotaldo; a quel che mi par di capire, sto ancora dormendo. E non credo d’ingannarmi di molto. Se è stato sognato quel che vidi chiaro e certo, dev’essere incerto quel che vedo ora. Non è dunque strano che, ridotto a questa miseria, sogni stando sveglio, dal momento che veglio dormendo. Dimmi che cosa hai sognato. Anche supponendo che sia stato un sogno, non dirò quel che ho sognato, Clotaldo, ma quel che ho veduto. Che lusinga crudele! Mi ridestai e mi vidi in un letto che per luci e colori avrebbe potuto essere un giaciglio di fiori tessuto dalla primavera. E là mille gentiluomini, chinandosi ai miei piedi, mi chiamavano loro principe e mi aiutavano a vestire abiti, gioielli e ornamenti. E tu trasformavi in felicità lo sbalordimento dei sensi, parlandomi della mia sorte: anche se ora mi vedo in questo stato, ero il principe di Polonia. Avrai ricompensato la mia cortesia. No, in verità. Per due volte tentai di ucciderti, con cuore ardito e crudele, perché eri un traditore. Tanta ira contro di me? Ero signore di tutti, e di tutti mi vendicavo. Amavo soltanto una donna. Quasi mi persuado che era tutto vero; ogni altra cosa è finita, ma questo amore non si è spento.
Il re se ne va. CLOTALDO
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(tra sé) Il re se n’è andato, intenerito... (A Sigismondo) Siccome s’era parlato di quell’aquila, una volta nel sonno hai sognato un impero. Ma anche in sogno sarebbe bene rendere onore a chi ti ha allevato con tanta devozione, Sigismondo; anche in sogno non si perde il bene che si fa. (Esce).
3 Da quando... ridestato: prima di farlo addormentare per portarlo alla reggia Clotaldo aveva parlato a Sigismondo del volo di un’aquila.
Presunto ritratto di Pedro Calderón de la Barca.
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La vittoria del libero arbitrio
T4b
Scena XIX AUDIOLETTURA
SIGISMONDO È vero. Reprimiamo dunque questa fiera inclinazione, questa furia, quest’ambizione, perché forse stiamo sognando. Faremo così, se viviamo in un mondo tanto singolare che il vivere non è che sognare. L’esperienza mi ha insegnato che l’uomo che vive sogna di essere 5 quel che è, fino a quando si desta. Il re sogna d’esser re, e così ingannato vive comandando, disponendo e governando; e l’applauso che riceve in prestito lo scrive nel vento, e la morte lo muta in cenere. Sventura immensa! È possibile che ci sia chi cerca di regnare, se sa che poi dovrà ridestarsi nel sonno della morte? Il ricco sogna 10 le sue ricchezze che gli procurano affanni; il povero sogna di soffrire la sua miserabile povertà; sogna chi comincia a prosperare; sogna chi s’affanna a correr dietro agli onori; sogna chi insulta e offende. In conclusione, tutti nel mondo sognano di essere quel che sono, anche se nessuno se ne rende conto. Io sogno d’essere qui, oppresso da 15 queste catene, e ho sognato che mi vedevo in altra condizione, ben più lusinghiera. Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione. E il più grande dei beni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni.
Analisi del testo L’uomo come essere libero Le due scene (la seconda delle quali è un monologo) rappresentano il momento di svolta di un dramma in cui gli eventi interiori sono più importanti di quelli esterni: Sigismondo (ma la sua esperienza può essere estesa a ogni essere umano) si riconosce come essere libero e capace di scelta morale, che può trionfare su qualunque condizionamento negativo. Tale scoperta è in contrasto con l’opinione del padre Basilio, convinto determinista, che, escludendo la possibilità di un mutamento del figlio verso il bene, lo fa riportare nella torre convinto di doverlo abbandonare là per sempre, perché incorreggibilmente votato al male; perciò, assistendo (senza essere visto) al risveglio di Sigismondo, lo compatisce («Sventurato principe, nato sotto cattiva stella!»).
L’esperienza filosofico-gnoseologica di Sigismondo Il principe ha superato l’istintività irriflessa grazie a una duplice esperienza “filosofica”: la presa di coscienza di quanto sia incerta – e potenzialmente ingannevole – la testimonianza dei sensi, e la constatazione di quanto possano essere effimere gloria e potenza terrene. Sigismondo non può stabilire con certezza se ha vissuto o sognato i momenti trascorsi nella reggia: la vividezza delle impressioni lo fa propendere per la loro realtà, ma Clotaldo asserisce si tratti di un sogno; d’altra parte, è solo al risveglio che ci si accorge di aver sognato, ed egli, come ogni altro giorno, si è ritrovato nella sua solita, triste cella, senza che nulla apparentemente sia cambiato. Ma se quello così vividamente impresso nella memoria era soltanto un sogno, non potrebbe essere lo stesso per ogni altro giorno della vita? Interrogativo che segna il “risveglio filosofico” di Sigismondo, rispecchiando l’incertezza gnoseologica di un secolo che aveva visto vanificarsi una delle più radicate certezze dei sensi: che sia il Sole a “sorgere” e a “tramontare” ruotando intorno alla Terra. Ma si tratta anche di un secolo ossessionato dalla vanitas, la fugacità della vita terrena, a cui riporta l’altra decisiva esperienza del giovane principe, passato in così breve tempo dal fasto regale (il letto che sembrava un «giaciglio di fiori», i gentiluomini che gli si prostravano) alla condizione più misera immaginabile, quella del prigioniero incatenato, in uno stato simile alla morte, come mostra il termine «sepolcro», con cui designa la torre della sua prigionia.
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Il paradosso della libertà Eppure, paradossalmente, proprio quando è di nuovo in catene, e dopo aver sperimentato la precarietà e i limiti della condizione umana, Sigismondo scopre la libertà. Comprende infatti come l’uomo, distinguendosi dagli animali dominati dall’istinto, possa esercitare il dominio razionale degli impulsi e la scelta morale: ammaestrato da Clotaldo, decide di reprimere la «fiera inclinazione» che lo spinge all’egoistica volontà di potenza, per meritare il premio più alto riservato a chi opera il bene.
Il messaggio dell’opera e le caratteristiche dello stile Calderón riesce a dar voce al modo di sentire degli uomini della sua epoca, e, allo stesso tempo, a drammatizzare un’esperienza universale, il cammino dell’uomo come essere morale e libero di scegliere, che passa dalla violenza istintiva a un civile e controllato modo di relazionarsi con gli altri. Allo stesso tempo Calderón ribadisce il suo messaggio cristiano: prendere coscienza della vanità della vita terrena e disporsi a meritare il premio eterno.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale effetto inaspettato scaturisce dalla messa in scena del piano ideato per mettere alla prova Sigismondo? 2. Quali temi possono essere riportati al modo di sentire del Seicento? 3. Qual è la riflessione finale di Sigismondo? LESSICO 4. Individua le occorrenze della parola sogno e del verbo sognare. Quali diversi significati assumono? Qual è il motivo della reiterazione quasi ossessiva dei due termini? 5. Individua i termini relativi al campo semantico della vanitas.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Come definiresti la visione che l’autore ha dell’uomo: ottimistica o pessimistica? Per quali ragioni? Pensi di condividerne qualche aspetto, e perché?
IMMAGINE INTERATTIVA
Antonio de Pereda, Il sogno del nobiluomo, 1670 ca. (Madrid, Museo de la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando).
Il quadro rivela fin dal titolo di ispirarsi al famoso dramma di Calderón, a cui è posteriore di circa trent’anni. Davanti al giovane addormentato sono posati gli emblemi della vita di un nobile del Seicento: vi sono infatti simboli della ricchezza e della fortuna (spada e armi da fuoco, un globo terrestre) associati a emblemi di caducità (orologio, candela, teschio), secondo la tipologia della vanitas: la vita, come nel dramma di Calderón, è quindi rappresentata come un sogno breve e fugace. È significativa anche la maschera, simbolo del divario tra essere e apparire, che si collega alla consueta metafora secentesca della vita come teatro.
Il teatro in Spagna 3 103
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Il teatro in Inghilterra 1 Il teatro elisabettiano
Frontespizio di un’edizione secentesca della Tragica storia del dottor Faust di Christopher Marlowe.
Con teatro elisabettiano si designa in genere il teatro inglese sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603) e del suo successore Giacomo I Stuart (1603-1625), un periodo di grande splendore culturale, in particolare per quanto riguarda il teatro. La sovrana incoraggia e protegge lo sviluppo del teatro e degli spettacoli, riconoscendo la figura dell’attore professionista, che si esibisce in spettacoli su tematiche non religiose nei primi veri e propri teatri. Le rappresentazioni di piazza lasciano il posto a teatri con programmi giornalieri, in cui recitano compagnie permanenti di attori che offrono un intrattenimento fondato spesso su un realismo assai pungente, per un pubblico appartenente a qualsiasi classe sociale. Le rappresentazioni teatrali si svolgevano in origine in strutture molto semplici, costituite da uno spazio aperto, di forma circolare o poligonale, circondato da gallerie poste su più piani; il palcoscenico si protendeva su tre lati in mezzo alla folla che assisteva in piedi: il pubblico parlava, mangiava, beveva e commentava ad alta voce ciò che avveniva sul palco. La vicinanza tra gli attori e il pubblico determinava la particolare importanza della parola dell’attore, ascoltata da distanza ravvicinata, mentre erano praticamente assenti le scenografie, che si svilupparono solo in un secondo tempo, quando furono edificati anche dei teatri chiusi. Oltre all’opera di Shakespeare, si annoverano in questo periodo anche quelle di altri importanti drammaturghi inglesi, fra cui Ben Jonson (1572-1637), autore dalla forte vena satirica, e Christopher Marlowe (1564-1593), spirito irrequieto, libero pensatore, morto a soli ventinove anni in una rissa, la cui opera maggiore è La tragica storia del dottor Faust, con la creazione di un personaggio destinato a grande fortuna nella cultura europea.
2 William Shakespeare Un autore al centro del canone occidentale Il critico americano Harold Bloom (1930-2019), in un celebre (e discusso) saggio, ha collocato William Shakespeare (1564-1616), insieme a Dante, al centro del “canone” della letteratura occidentale, ossia della lista di autori europei che ogni persona di cultura dovrebbe conoscere. Non solo Shakespeare è senza dubbio il più grande drammaturgo di tutti i tempi, ma è un autore sorprendentemente attuale, come dimostra il costante successo delle sue opere, non soltanto nelle messe in scena teatrali, ma anche nelle numerose trasposizioni cinematografiche. Le ragioni di tale attualità stanno in primo luogo nella ricchezza e varietà dei temi, nella capacità di Shakespeare di incon-
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trare i gusti di un pubblico variegato, sia raffinato sia popolare, ma soprattutto nella creazione di indimenticabili personaggi, alcuni dei quali, come Amleto, appartengono all’immaginario di ogni epoca.
La vita La famiglia e la formazione La figura storica di Shakespeare appare tuttora avvolta nel mistero. Possediamo tuttavia alcuni documenti che ci permettono di avere qualche informazione sicura. Nasce nel 1564 a Stratford-upon-Avon, terzo di otto figli, da una famiglia della agiata borghesia: il padre era un commerciante di pellami. Sugli studi del grande autore inglese non si ha una documentazione precisa; alla Grammar School certamente studiò il latino, come dimostra la sua approfondita conoscenza di scrittori come Plauto e Ovidio, mentre sembra accertato che non abbia frequentato nessuna università. A diciotto anni Shakespeare sposa la ventiseienne Anne Hathaway, dalla quale avrà tre figli, uno dei quali, Hamnet, morirà ancora bambino. La vita londinese e il successo teatrale Lo ritroviamo a Londra qualche anno dopo come promettente attore e autore teatrale: non sono pervenuti documenti, quali lettere, diari o memorie, in cui William parli della sua attività teatrale, tuttavia è documentato fin dal 1592 il suo crescente successo sulle scene londinesi. L’attore-autore venuto dal nulla seppe inoltre conquistarsi la stima e l’amicizia di un nobile colto e raffinato, il conte di Southampton, che diventerà il suo protettore e mecenate. Nel 1593 i teatri chiudono a causa della peste e Shakespeare si dedica intensamente alla poesia: i suoi sonetti (poi pubblicati senza la sua autorizzazione nel 1609) sono già di per sé testimonianza di un grande scrittore. Dopo la riapertura dei teatri nel 1594, Shakespeare entra a far parte della compagnia nota come i Lord Chamberlain’s Men, che ottiene grande successo mettendo in scena i suoi testi. In pochi anni il drammaturgo riesce a diventare comproprietario del Globe Theatre, il maggior teatro londinese.
Ritratto di Shakespeare (noto come “il ritratto di Chandos”) di John Taylor, 1600-1610 ca. (Londra, National Portrait Gallery).
Un periodo drammatico in cui nascono grandi capolavori Nel 1601 il conte di Essex organizza una congiura contro la regina Elisabetta in cui sono coinvolti sia il conte di Southampton, sia, indirettamente, gli attori della compagnia di Shakespeare (a essi i congiurati avevano imposto di preparare gli animi dei londinesi a un colpo di stato rappresentando il Riccardo II, dello stesso Shakespeare, incentrato sulla deposizione di un monarca incapace). La congiura è scoperta, il conte di Essex è condannato a morte e il conte di Southampton imprigionato. La difficile situazione storica e il personale coinvolgimento di Shakespeare nelle vicende suddette si riflettono nella visione pessimistica della storia e dei destini umani maturata dal drammaturgo, che caratterizzerà poi i capolavori tragici: Otello, Macbeth, Re Lear. Gli ultimi anni Nel 1603, alla morte di Elisabetta, sale sul trono d’Inghilterra Giacomo I, figlio di Maria Stuarda, designato come erede dalla regina stessa. Il nuovo Il teatro in Inghilterra 4 105
re apprezza Shakespeare e invita spesso a corte la compagnia teatrale, che il sovrano fa chiamare King’s Men, “Compagnia del re”, ufficializzandone così il ruolo. Negli ultimi anni della sua vita, pur continuando a collaborare con le compagnie teatrali londinesi, Shakespeare si ritira nella grande proprietà acquistata a Stratford-upon-Avon, dove muore nel 1616. L’autore di alcuni dei maggiori capolavori della letteratura mondiale non aveva mai provveduto a curarne personalmente l’edizione; pertanto, pochi anni dopo la sua morte, nel 1623, due amici e collaboratori del poeta pubblicarono un’importante raccolta delle opere teatrali shakespeariane, conosciuta come “primo in folio” (in folio erano chiamati i volumi di grande formato, larghi 30 e alti 38 centimetri all’incirca).
Le opere teatrali
Il Globe Theatre ai tempi di Shakespeare in un disegno acquerellato (Londra, British Museum).
Un teatro innovativo Nella sua non lunga vita Shakespeare esplora e innova tutte le forme teatrali presenti al suo tempo: dai drammi storici alle commedie e alle tragedie. Occorre precisare che Shakespeare non crea soggetti e intrecci originali, ma li trae dalla storia e dalla tradizione letteraria: per i drammi storici inglesi attinge alle cronache, per i drammi storici classici alla storia antica, per le commedie usa come fonti le commedie e soprattutto le novelle italiane, per le tragedie, oltre alla novellistica italiana, attinge alle leggende medievali e ad altre fonti Ma in ogni caso l’originalità dell’autore è evidente nel modo nuovo di trattare personaggi e situazioni, con particolare attenzione alle dinamiche psicologiche, oltre che nella rinuncia al repertorio mitologico e al rispetto delle unità aristoteliche in nome della libertà inventiva dell’autore.
I drammi storici Nei primi dieci anni della sua attività Shakespeare si dedica ampiamente al genere tipicamente inglese dei cronicle plays, tradizionale espressione dell’orgoglio e dell’identità nazionale, che mettevano in scena le vicende della monarchia inglese attraverso le figure dei sovrani. Appartengono a questo genere drammi come Riccardo III, Riccardo II, Enrico IV, Enrico V e altri. In essi Shakespeare, lontano da ogni prospettiva celebrativa e idealizzante, riflette sul tema del potere politico, delineando figure potenti di regnanti nelle loro virtù (intese soprattutto come capacità di arginare la violenza e il disordine nello stato) e nei loro vizi. Un vero eroe del male, dominato dall’ambizione del potere, è Riccardo III. Oltre che nei drammi storici relativi alla storia inglese, il tema politico assume un’importanza nodale nei drammi storici d’argomento classico, come Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano. Diversamente dagli umanisti, Shakespeare
106 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
non propone a modello i personaggi dell’antichità, ma li presenta in una prospettiva realistica e demistificante, cogliendo l’occasione per un’analisi spregiudicata e critica dei meccanismi della politica. Ne è un esempio Giulio Cesare, in cui le nobili e idealistiche ragioni del repubblicano Bruto sono vanificate dall’astuzia di Antonio, che con la sua abilità oratoria riesce a suscitare contro di lui l’odio della folla. In questa tragedia Shakespeare dà del popolo una rappresentazione negativa, in tutto simile a quella di Machiavelli (➜ PER APPROFONDIRE, Da Machiavelli a Shakespeare, PAG. 113; ➜ T5 ).
Le commedie Fin dai primissimi anni della sua attività di autore per il teatro Shakespeare scrive commedie. In esse si avverte l’influenza della novellistica italiana e della commedia italiana cinquecentesca, da cui Shakespeare ricava i soggetti e gli elementi canonici dell’intreccio, di derivazione plautina, come equivoci e scambi di persona. Tra le prime commedie, alcune privilegiano il gusto per l’intreccio, come La commedia degli equivoci, altre, come La bisbetica domata, sono invece fondate sul gustoso ritratto di un carattere. Sempre nella prima fase si colloca poi una commedia “romanzesca”, Sogno di una notte di mezza estate: in una notte incantata si susseguono incantesimi, trasformazioni, ed entrano in scena figure fiabesche come fate e folletti. Più o meno coeva al Sogno di una notte di mezza estate (1596?) è un’opera definibile secondo alcuni come “tragicommedia”: Il mercante di Venezia, in cui, all’interno di uno schema da commedia canonica, con relativo lieto fine, emerge in primo piano un sinistro personaggio, l’usuraio ebreo Shylock.
David Garrick nei panni di Riccardo III in un dipinto di William Hogarth, 1745 (Liverpool, Walker Art Gallery).
Il teatro in Inghilterra 4 107
In alcune commedie, scritte tra la fine del cinquecento e i primi anni del seicento (Tutto è bene quel che finisce bene, Misura per misura) l’atmosfera leggera dei primi testi sembra essersi del tutto diradata per l’emergere di elementi cupi, ma anche di aspetti problematici, “dissonanti” rispetto alle convenzioni del genere. Difficile catalogare questi testi, proprio per la loro natura ibrida: tragicommedie, drammi dialettici, ossia problematici?
Le tragedie
Johann Heimrich Füssli, Titania e Oberon con le orecchie d’asino, 17921793 (Zurigo, Kunsthaus).
Al primo periodo dell’attività di Shakespeare appartiene la tragedia lirica Romeo e Giulietta (1592-1594). Qualche anno dopo (1600-1602) il drammaturgo scrive Amleto, la sua opera in assoluto più celebre. Durante i primi anni del regno di Giacomo I (1603-1608) Shakespeare scrive le grandi tragedie a cui è maggiormente legata la sua fama: Otello, Macbeth, Re Lear. Nelle quattro tragedie maggiori si esprime pienamente la poetica anticlassicistica di Shakespeare, che fonda il dramma moderno in netta contrapposizione alla tragedia francese (➜ PAG. 84). Sorprendentemente moderni sono innanzitutto i protagonisti, il cui segno distintivo è una inedita complessità psicologica con la presenza di conflitti interiori indagati e rappresentati da Shakespeare con straordinaria efficacia. Romeo e Giulietta Ambientata a Verona, la tragedia è la storia dello sfortunato amore tra due giovanissimi, le cui famiglie, i Montecchi e i Capuleti, sono ferocemente rivali. Le riconcilierà solo la triste fine dei due innamorati, dovuta a un tragico equivoco: dopo varie vicissitudini Romeo, credendo morta Giulietta, mentre è solo stordita da una pozione, si uccide vicino a lei. A sua volta la giovane, risvegliatasi e trovato morto l’amato, si toglie la vita. Incentrata sul tema della travolgente forza di un amore adolescenziale, Romeo e Giulietta è una tragedia lirica, per la preminenza dei versi rispetto alla prosa e lo stile raffinato, di gusto barocco (secondo la lezione dell’eufuismo, versione inglese del concettismo ➜ C1, PAG. 67). Amleto Composto tra il 1600 e il 1601, Amleto è la tragedia più lunga e complessa di Shakespeare, ma paradossalmente è anche il suo dramma più popolare, in particolare per il celeberrimo monologo del protagonista nell’atto III. La vicenda è desunta da una cronaca medievale, ma Shakespeare varia considerevolmente la trama, ponendo nettamente in primo piano la figura del protagonista, che non ha mai smesso di affascinare il lettore di ogni tempo. Al giovane principe ereditario di Danimarca appare lo spettro del padre, che gli rivela di essere stato ucciso dal fratello Claudio, il quale ha usurpato il trono e ha sposato Gertrude, la madre di Amleto. Il principe si trova di fronte all’obbligo morale della vendetta. Si finge allora pazzo per indagare senza suscitare sospetti e poter così vendicare il padre; ma Amleto non è un eroe tragico classico, che sa che cosa deve fare e lo fa: dubbi e irresolutezza ne paralizzano la volontà. Per smascherare il re, organizza uno spettacolo teatrale a corte, il cui soggetto riproduce il delitto
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John Everett Millais, Ophelia, 1851-1852 (Londra, Tate Gallery).
(una sorta di “teatro nel teatro”), ed effettivamente Claudio mostra forte turbamento. Ma ancora Amleto esita. Con l’intento di farlo uccidere, il re lo manda in missione in Inghilterra, ma il piano fallisce. Rientrato in Danimarca, Amleto viene a sapere della morte di Ofelia, un tempo amata: respinta da Amleto, resa folle dalla morte del padre Polonio, ucciso proprio da Amleto per errore, è annegata. Il fratello Laerte, desideroso di vendicarsi, sfida a duello Amleto. Entrambi soccombono. Ma prima di morire Amleto ferisce a morte il re e lo costringe a vuotare una coppa avvelenata a lui destinata e che già ha causato la morte della regina. L’Amleto si inscrive a prima vista nel genere della “tragedia di vendetta”, che consegue a un conflitto tra i personaggi, ma il dramma shakespeariano sposta il conflitto all’interno della coscienza del protagonista, lo interiorizza. L’Amleto shakespeariano appare come un personaggio moderno, un antieroe che si interroga sul senso delle sue azioni e della vita stessa, rimanendo prigioniero di un eccesso di autocoscienza. Il rovello della ragione finisce per avere un potere distruttivo e ne fa un precursore dell’inettitudine dei personaggi novecenteschi. Specchio delle contraddizioni del suo animo è il suo linguaggio, in cui sarcasmo, ironia, tendenza al paradosso, rovesciano ogni asserzione nel suo contrario (➜ T6 ). Macbeth Il dramma è ispirato a fatti storici e a personaggi reali, come Macbeth stesso, ridisegnati liberamente, come di consueto, da Shakespeare. La tragedia si apre con l’apparizione, nella brughiera squassata da una tempesta, di tre streghe a Macbeth e Banquo, generali del re di Scozia Duncan: al primo profetizzano che sarà re, al secondo che sarà padre di re. Istigato dalla moglie, che riesce a vincere le sue remore e paure di fronte all’azione scellerata che si prepara a compiere, Macbeth uccide il re nel sonno e ne prende il posto. Fa poi uccidere anche Banquo, per cercare di sconfiggere la profezia, ma lo spettro dell’amico assassinato lo perseguita, Il teatro in Inghilterra 4 109
materializzando i suoi sensi di colpa. Intanto Malcom, figlio di Banquo, prepara una spedizione per rovesciare Macbeth, ormai preda di una follia sanguinaria, che lo porta anche a sterminare la famiglia del nobile Macduff, suo avversario. Oppressa dal peso delle sue colpe e dal sangue versato per le ambizioni sue e del marito, lady Macbeth è preda di un angoscioso delirio e poi muore. Informato della sciagura proprio mentre si prepara ad affrontare sul campo i suoi avversari, Macbeth enuncia amare considerazioni sulla vita e la morte prima dello scontro finale in cui perderà la vita. Secondo la profezia, Malcom diventerà re. La tragedia è incentrata sul contrasto tra le ragioni machiavelliche della politica, dettate dall’ambizione personale di Macbeth, che lo portano a commettere atroci delitti, e quelle della coscienza, che lo tormenta attraverso i rimorsi e che vorrebbe inutilmente tacitare (➜ T7 ). Re Lear Il tema del potere è centrale anche in Re Lear, una tragedia particolarmente cupa e sanguinosa. Il protagonista è un vecchio re che non sa comprendere chi gli è davvero fedele (l’unico nella corte a dirgli la verità è un fool, un buffone vile e disprezzato da tutti) e agisce così in modo capriccioso e dispotico: disereda e bandisce Cordelia, l’unica figlia che gli vuole bene, e nomina sue eredi le altre due figlie, malvagie e assetate di potere, credendo alle loro dichiarazioni ipocrite di amore filiale. Dopo aver rinunciato al trono in favore delle due figlie, sarà da loro cacciato (ma la sete di potere finirà per distruggerle) e vagherà quasi impazzito nella brughiera, mentre imperversa la tempesta. Re Lear morirà dalla disperazione per la morte della figlia Cordelia, con cui si era riconciliato.
I drammi romanzeschi Le ultime opere di Shakespeare (1608-1611 circa) prima del suo ritiro dal teatro sono difficilmente catalogabili: per lo più sono definite drammi romanzeschi per la presenza di elementi avventurosi e di peripezie simili a quelle dei romanzi. Sono testi teatrali ricchi di elementi magici e favolistici. Pur presentando temi affini alle altre opere, sono inoltre caratterizzati dal lieto fine e in genere da un clima rasserenato. Ne fanno parte Cimbelino, Il racconto d’inverno e La tempesta, ultimo dramma composto da Shakespeare e considerata uno dei suoi capolavori. La tempesta Il titolo allude alla prima scena dell’opera: una violenta tempesta causa il naufragio di una nave. La tempesta è provocata dalle arti magiche di Prospero, protagonista dell’opera. Dodici anni prima Prospero, duca di Milano, era stato spodestato dal malvagio fratello Antonio e abbandonato, con la piccola figlia Miranda, alla deriva su una barca. Approdato su un’isola sperduta, Prospero ne diviene il signore, aiutato dallo spirito buono Ariel, che diventa suo devoto assistente. Sull’isola vive anche il selvaggio Calibano, figlio di una strega e di un demonio, che Prospero ha ridotto in schiavitù. Naufragano sull’isola proprio Antonio, il re di Napoli Alonso, con il fratello Sebastiano e il figlio Ferdinando. Antonio e Sebastiano progettano una congiura contro il re Alonso, ma, spaventati dagli spiriti dell’isola, attivati da Ariel e da Prospero, si pentiranno. Ferdinando a sua volta, prigioniero delle magie di Prospero in un’altra parte dell’isola, dopo una serie di prove, verrà liberato e sposerà Miranda. Prospero perdona il fratello Antonio, riprende il proprio titolo di duca di Milano e abbandona la magia, lasciando il governo dell’isola a Calibano, che a sua volta aveva progettato di ribellarsi a Prospero e al suo potere. Il «mare tranquillo» che Prospero promette a tutti per il ritorno diventa così metafora della pacificazione, della riconciliazione, che sostituisce le violenze, il sangue, le vendette.
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La tempesta è un testo teatrale breve, che rispetta le unità di tempo e di luogo, ambientata su un’isola in cui regna la magia buona di Prospero e in cui si sentono musiche meravigliose. L’opera riprende in una felice sintesi temi e situazioni di altre opere: gli amori tra due giovani figli di nemici (Romeo e Giulietta), la congiura machiavellica per il potere (Macbeth), la dimensione magico-fantastica (Sogno di una notte di mezza estate), il tema del perdono e della riconciliazione (Misura per misura). Vari e complessi sono i temi dell’opera, come ad esempio il rapporto tra civilizzazione e stato di natura, che emergerà nel Settecento. Dal mondo civilizzato arrivano sull’isola solo valori negativi, incarnati dalla maggior parte dei naufraghi: corruzione, cinismo, smania di potere e di guadagno. Ma al contempo Shakespeare non esalta lo stato di natura, rappresentato dal bestiale Calibano, irriducibile a ogni tentativo di educazione da parte del saggio Prospero. I valori positivi sono incarnati da Prospero, saggio e capace di rinunciare alla vendetta per la clemenza e il perdono. Fondamentale è il riferimento alla magia, imperante nella cultura del Rinascimento italiano, ma trattato nel suo Faust (1588) anche da Marlowe. L’addio finale di Prospero alla magia è stato diversamente interpretato: potrebbe simboleggiare l’addio di Shakespeare alla magia del teatro, ma rappresentare anche la consapevolezza del grande drammaturgo che il sapere magico non sia più attuale di fronte al nuovo mondo “fuori di squadra” che la scienza stava rivelando e in cui l’uomo, secondo le parole di Amleto, non è che una «quintessenza di polvere».
Un teatro “cosmico” Un’esplorazione a tutto campo della realtà L’opera teatrale di Shakespeare è caratterizzata da una tale straordinaria complessità e varietà di temi e personaggi che «dà piuttosto l’immagine d’un cosmo che d’una singola mente» (Praz): i drammi e le commedie del drammaturgo inglese rappresentano infatti con grande originalità ogni aspetto della vita e della natura umana, dall’amore, all’etica, alla dimensione politica e sociale, esplorano le passioni più rovinose, i dilemmi più profondi. Ancora oggi psicoanalisti, filosofi, teologi considerano le sue opere (su tutte, Amleto) come una fonte inesauribile per lo studio dell’animo umano e della condizione esistenziale. Diversi drammi shakespeariani sono incentrati su aspetti della politica e su argomenti storici, con vari scenari e ambientazioni, dall’antichità (Giulio Cesare e Coriolano) all’epoca della monarchia inglese, con una galleria di re dai caratteri indimenticabili per vizi (Riccardo III) e per virtù (Enrico V). I cosiddetti “drammi politici” sono particolarmente interessanti per il rapporto con la letteratura italiana e con l’opera machiavelliana: «senza Machiavelli, il teatro tragico di Shakespeare non sarebbe stato lo stesso» (Franco Ferrucci). “Dalla terra al cielo” Ma accanto all’esplorazione dei molteplici aspetti del reale, il teatro di Shakespeare dà largo spazio anche alla dimensione del fantastico, con frequenti incursioni nel fiabesco e nel magico-ultraterreno (ne sono esempio lo spettro dell’Amleto, le streghe di Macbeth, gli elfi, le fate e il folletto Puck del Sogno d’una notte di mezza estate), gli spiriti della Tempesta (➜ T8 ). Una poetica enunciata dallo stesso Shakespeare nel Sogno d’una notte di mezza estate: «L’occhio del poeta, rapito dal suo bel delirio, passa dal paradiso alla terra e dalla terra al paradiso; e, come la fantasia riesce a dar corpo a quello che non conosce, così la penna del poeta riesce a dare a un’aerea chimera, una solida dimora e un nome definito» (trad. di P. Ojetti).
Il teatro in Inghilterra 4 111
Una straordinaria galleria di personaggi Straordinario conoscitore dell’animo umano, Shakespeare ha creato una galleria di indimenticabili personaggi, alcuni dei quali sono addirittura assurti a emblemi della natura umana: dal raziocinante Amleto, all’invidioso e malvagio Jago, al passionale Otello, alla spietata lady Macbeth. I personaggi del teatro shakespeariano non sono mai però semplici tipizzazioni: sono vivi e realistici, ma anche estremamente complessi (e proprio per questo moderni), ricchi di sfumature e di contraddizioni irrisolte, che li rendono affascinanti, ma spesso enigmatici, agli occhi del lettore. Una rappresentazione polifonica per una visione del mondo complessa e problematica Secondo il critico Alessandro Serpieri, il teatro di Shakespeare può essere definito polifonico , in quanto mette a confronto personaggi con le più diverse idee e visioni del mondo, senza che nessuno di essi appaia esplicitamente come portavoce dell’autore; la capacità del drammaturgo di adottare il punto di vista dei più disparati personaggi è tale che risulta impossibile distinguere con sicurezza le idee dei personaggi da quelle dello scrittore. Paradossalmente i più nobili discorsi, e quelli che si presume coincidano con idee dello stesso Shakespeare, sono spesso attribuiti a personaggi per nulla ammirevoli o persino negativi: è il caso del Mercante di Venezia, in cui l’ebreo Shylock, per il resto gretto e meschino, pronuncia un commovente discorso sui diritti di ciascun essere umano; o di Macbeth, spietato assassino, che alla fine della tragedia giunge a comprendere la vita guardandola come dall’esterno e, riflettendo sulla propria esperienza, esprime pensieri altissimi, ricchi di umanità e di saggezza. Significativa è poi la capacità demistificante, coincidente con una vera e propria saggezza, attribuita in vari testi al fool, il buffone di corte, che, considerato come un pazzo innocuo, può impunemente dire tutto ciò che gli passa per la mente, introducendo un punto di vista alternativo sulla realtà e mostrando l’inconsistenza delle certezze assolute. Dal complesso di queste scelte dell’autore il lettore o spettatore ricava una visione della realtà non univoca, appunto, ma complessa e problematica.
Parola chiave
La mescolanza degli stili e la mutevolezza del mondo Shakespeare supera la separazione classicistica degli stili: associa infatti in uno stesso testo il comico e il tragico, il linguaggio elevato e quello realistico e quotidiano, così da trasmettere – attraverso la mescolanza degli stili – il senso della mutevolezza e complessità del mondo. Importante è la scelta di Shakespeare di alternare, anche all’interno di una stessa opera, prosa e versi secondo criteri del tutto liberi: la prosa ha in genere a che fare con la dimensione della spontaneità o del ragionamento, mentre ai versi sono affidati pensieri elevati ed effusioni liriche. Attraverso un linguaggio estremamente duttile, Shakespeare mette in luce le più complesse sfumature del carattere dei personaggi (la nobiltà di carattere di Otello,
polifonia Il termine, derivato dal linguaggio musicale, indica un insieme di voci in cui ciascuna mantenga una propria, distinta individualità. Il critico russo Michail Bachtin applica il termine alla letteratura, analizzando in particolare un certo filone del romanzo – rappresentato soprattutto dall’opera del romanziere russo Fëdor Dostoevskij – caratterizzato dal dialogo tra personaggi che esprimono punti di vista diversi, senza che
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nessuno sia proposto come verità assoluta. Bachtin stabilisce un rapporto tra la polifonia letteraria e il moderno relativismo gnoseologico, conoscitivo; dopo di lui altri critici hanno esteso questa categoria interpretativa dal romanzo ad altri generi letterari, tra cui il teatro, come, appunto, avviene nel caso di Shakespeare.
PER APPROFONDIRE
l’astuzia insinuante di Jago, la profondità di Amleto). Altrettanto abile è nell’evocare quasi visivamente i luoghi in cui si svolgono le vicende. Tale qualità del linguaggio shakespeariano è anche da porre in rapporto con le caratteristiche del teatro elisabettiano, in cui le opere venivano solitamente rappresentate in teatri all’aperto e mancava quasi totalmente la scenografia, che doveva perciò essere evocata dall’immaginazione degli spettatori. Caratteristico dello stile shakespeariano è infine l’uso di metafore creative e spesso molto elaborate, che rimandano alla ricca gamma del concettismo barocco.
Da Machiavelli a Shakespeare Alla fine del Cinquecento, in Inghilterra, Machiavelli è famoso ma accompagnato da una fama sinistra, anche perché associato all’Italia, terra del cattolicesimo romano, avversato dai protestanti inglesi. Nell’immaginario britannico, l’Italia, «sanguinaria, fraudolenta, empia» (Praz), era un paese abitato da cinici e scellerati assassini, ideale per ambientarvi vicende di orrori, malvagità e delitti, di cui l’autore fiorentino era considerato un ispiratore, tanto che il drammaturgo Christopher Marlowe fa recitare proprio a Machiavelli il prologo dell’Ebreo di Malta (1589), un dramma infarcito di azioni crudeli e delittuose. Il Principe fornisce però alla letteratura inglese ed europea anche uno strumento di analisi politica, di cui sa avva-
lersi Shakespeare, che nelle sue opere teatrali spesso mette in scena temi machiavellici, quali la rappresentazione del popolo come mutevole e succube degli inganni dei potenti (➜ T5 ), ponendo spesso l’attenzione sul contrasto tra i successi di scelte politiche spregiudicate e la coscienza devastata dal rimorso per gli inganni, gli assassinii, i tradimenti. Nei principi e nei re, inoltre, Shakespeare vede sempre anche degli uomini, travolti dal meccanismo della storia, e nei drammi come Macbeth e Re Lear ne rappresenta i conflitti interiori, approfondendone la psicologia. Anche Amleto pone al suo centro la figura di un principe, ma l’opera va ben oltre la dimensione politica per investire aspetti più profondi di carattere filosofico e morale.
online William Shakespeare T5 Un’analisi della folla degna del Principe Giulio Cesare, atto III, scena II
DRAMMI STORICI MONARCHIA INGLESE
GLI ESORDI (1588-1594)
DRAMMI STORICI ANTICHITÀ CLASSICA
La bisbetica domata (1588-1593)
Enrico VI (1588-1592)
Riccardo III (1591-1592)
COMMEDIE
Tito Andronico (1594)
DRAMMI DIALETTICI
TRAGEDIE
DRAMMI ROMANZESCHI
Romeo e Giulietta (1594-1596)
La commedia degli equivoci (1590-1594) I due gentiluomini di Verona (1590-1596) Pene d’amor perdute (1593-1596) Sogno di una notte di mezza estate (1593-1596)
Il teatro in Inghilterra 4 113
DRAMMI STORICI MONARCHIA INGLESE
GLI ANNI DEI GRANDI CAPOLAVORI
DRAMMI STORICI ANTICHITÀ CLASSICA
COMMEDIE
DRAMMI DIALETTICI
TRAGEDIE
DRAMMI ROMANZESCHI
Riccardo II (1594-1596) Re Giovanni (1590-1597)
Il mercante di Venezia (1596)
Enrico IV (1597-1598)
Molto rumore per nulla (1598)
Enrico V (1598-1599)
Giulio Cesare (1599)
Come vi piace (15991600)
Tutto è bene quel che finisce bene (1599-1602)
Le allegre comari di Windsor (1600-1601)
Amleto (1600-1602)
La dodicesima notte o quel che volete (1601)
Troilo e Cressida (1601-1602) Misura per misura (1603-1604) Otello (1604)
GLI ULTIMI ANNI (1603-16)
Timone d’Atene (1605-1608)
Re Lear (1605-1606)
Antonio e Cleopatra (1606-1609)
Macbeth (1606)
Coriolano (1606-1609) Pericle, principe di Tiro (1607-1608)
Cimbelino, re di Britannia (1607-1610) Il racconto d’inverno (1608-1611) La tempesta (1611)
Enrico VIII (1613)
114 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
I due nobili congiunti (1613)
William Shakespeare
T6
LEGGERE LE EMOZIONI
Un eroe moderno in un mondo machiavellico Amleto atto III, scena I
W. Shakespeare, Amleto, a c. di N. D’Agostino, Garzanti, Milano 2004
AUDIOLETTURA
Questo è il terzo monologo di Amleto, forse il testo più famoso del teatro mondiale. Amleto, che si era allontanato dal regno per i suoi studi, ritorna alla corte di Danimarca, contristata da un clima di doppiezze, intrighi, crudeltà. Il padre è stato ucciso a tradimento dal fratello Claudio, zio di Amleto, e il suo spettro appare al figlio a rivelargli l’accaduto e a chiedere vendetta; la madre, presto dimentica del primo marito, ha sposato l’usurpatore. Il giovane principe, per sua natura malinconico e irresoluto, esita, incerto su come fronteggiare una situazione che richiederebbe una tempra più salda della sua, e nel monologo dà sfogo alla propria disperata irresolutezza.
AMLETO Essere, o non essere1, è questo che mi chiedo: se è più grande l’animo che sopporta i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata, o quello che si arma contro un mare di guai 5 e opponendosi li annienta2. Morire... dormire, null’altro. E con quel sonno mettere fine allo strazio del cuore e ai mille traumi che la carne eredita3: è un consummatum4 da invocare a mani giunte. Morire, dormire, – 10 dormire, sognare forse – ah, qui è l’incaglio: perché nel sonno della morte quali sogni possano venire, quando ci siamo districati da questo groviglio funesto5, è la domanda che ci ferma – ed è questo il dubbio 15 che dà una vita così lunga alla nostra sciagura. Perché, chi sopporterebbe le frustate e le ingiurie del tempo, il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo, le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge, l’insolenza delle autorità, e le umiliazioni 20 che il merito paziente riceve dagli indegni, quando, da sé, potrebbe darsi quietanza6 con un semplice colpo di punta7? Chi accetterebbe di accollarsi quelle some8, e grugnire e sudare sotto il peso della vita, 25 se non fosse il terrore di qualcosa dopo la morte, la terra sconosciuta da dove non torna mai nessuno, a paralizzarci
1 Essere, o non essere: vivere, affrontando fino in fondo i compiti della vita, o darsi la morte. 2 quello... annienta: si riferisce a colui che con il suicidio pone fine ai mali della vita. Le due metafore guerresche indicano
i tormenti dell’esistenza, con le due alternative possibili per Amleto: sopportarle o togliersi la vita. 3 traumi... eredita: sofferenze connaturate alla vita terrena. 4 un consummatum: una fine.
5 groviglio funesto: dell’anima e del corpo. 6 darsi quietanza: porre fine a tutto. La quietanza è la ricevuta di pagamento che il creditore rilascia al debitore, dopo che questi ha saldato il suo debito. 7 punta: pugnale. 8 quelle some: quei pesi.
Il teatro in Inghilterra 4 115
la volontà, e farci preferire i mali che abbiamo ad altri di cui non sappiamo niente? Così 30 la coscienza ci rende codardi, tutti, e così il colore naturale della risolutezza s’illividisce all’ombra pallida del pensiero9 e imprese di gran rilievo e momento10 per questo si sviano dal loro corso 35 e perdono il nome di azioni. [...]
9 il colore... pensiero: l’eccessiva riflessione blocca la spontaneità dell’azione.
10 momento: importanza.
Analisi del testo I dubbi di Amleto Dal confronto con il mondo spregiudicato e cinico della corte scaturisce la crisi morale di Amleto, giovane sensibile, meditativo e idealista. Anziché vendicare subito il padre, il principe è incerto, esita, tentenna, quasi paralizzato dalle sue stesse ponderazioni. Da questa situazione conflittuale nasce l’occasione del monologo, diventato uno dei più celebri del teatro d’ogni tempo, in cui Amleto soppesa le possibili alternative. La prima è quella che si sarebbe posto un antico romano, uno stoico: vendicare il padre o togliersi la vita per ribellarsi a un mondo senza giustizia. Ma per un cristiano – anche se pieno di dubbi come Amleto – le cose non sono così semplici: sia uccidere sia suicidarsi è un peccato mortale. Nonostante le tante sofferenze della vita, che Amleto passa in rassegna, il timore della morte, «la terra sconosciuta da dove non torna mai nessuno», induce gli uomini a vivere. Combattuto fra due sistemi di valori, terreni e religiosi, la riflessione non lo guida all’azione, ma lo paralizza. Amleto rappresenta l’eroe del dubbio e dell’irresolutezza, chiamato a riportare una giustizia in cui non crede, in un tempo che, egli dice, gli appare «scardinato». Attraverso le parole di Amleto, Shakespeare esprime la crisi della sua epoca, quando il firmamento, non più manifestazione visibile di un armonioso ordine cosmico, è ormai «una massa lurida e pestifera di vapori».
Interpretazioni di Amleto Un personaggio così ricco di sfumature e ambivalenze è stato, ed è tuttora, oggetto di molteplici interpretazioni. • Considerato come incarnazione del temperamento melanconico (che nell’immaginario simbolico moderno rimanda immediatamente alle raffigurazioni della Melancholia di Dürer). • Visto come il frutto del dubbio come metodo esistenziale, proposto nei Saggi di Montaigne, a cui, secondo il critico statunitense Harold Bloom (1930-2019), il personaggio pare ispirarsi. • Psicanalizzato e considerato, in una famosa pagina dell’Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud (1856-1939), incapace di vendicarsi perché lo zio Claudio ha realizzato ciò che egli stesso, per il complesso di Edipo nei confronti del padre-re, inconsciamente, aveva desiderato. Sono interpretazioni che non giungono al fondo del personaggio, ma gettano soltanto sprazzi di luce su una figura affascinante proprio per il suo mistero.
Laurence Olivier nel ruolo di Amleto in una scena tratta dall’omonimo film, diretto e interpretato dallo stesso Olivier nel 1948.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali sono i dubbi che assalgono Amleto? 2. Secondo le parole di Amleto, che cosa trattiene l’uomo dal compiere la scelta suicida? 3. Il monologo evidenzia una concezione pessimistica del mondo: quali affermazioni lo comprovano? ANALISI 4. Quali sono i mali della vita che Amleto elenca? Credi che l’elenco prenda in esame soltanto la prospettiva di un principe o che abbia una valenza universale, rispecchiando il pensiero dello stesso Shakespeare? Motiva la tua risposta. STILE 5. Sottolinea le metafore presenti nel monologo e spiegane il significato.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. In che senso si può affermare che Amleto rappresenti l’eroe tragico moderno, tormentato dai dubbi? Argomenta le tue riflessioni con opportuni riferimenti al testo (max 10 righe). 7. Amleto è stato definito “l’eroe del dubbio”, lacerato interiormente da impulsi opposti. E l’espressione “dubbio amletico” che noi oggi utilizziamo fa proprio riferimento a un dubbio che appare difficilmente risolvibile e che per questo tormenta. Ti è mai capitato di vivere una situazione, se non così estrema come quella di Amleto, almeno in parte simile? Quali dubbi sono sorti in te paralizzando qualsiasi tua scelta? Racconta in un testo scritto max 10 righe.
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T7
Il dubbio di Macbeth: “spegnere” il re Duncan o ascoltare la voce della coscienza? Macbeth atto I, scena VII
W. Shakespeare, Macbeth, trad. di U. Dèttore, in Tutto il teatro, vol. V, Newton Compton, Roma 1990
Dopo che il re legittimo Duncan è giunto al suo castello, a Macbeth, generale di Duncan, si presenta l’occasione di uccidere a tradimento il sovrano, ma è interiormente combattuto.
Atto I Scena VII MACBETH, LADY MACBETH MACBETH Se una volta compiuto fosse realmente compiuto, sarebbe bene farlo subito. Se l’assassinio potesse ingabbiare le conseguenze e, troncandone il corso, afferrare d’un tratto il successo così che questo colpo fosse tutto qui, tutto concluso quaggiù, ma quaggiù, 5 su questa labile spiaggia di tempo... balzerei allora con un salto verso il futuro. Ma in questi casi noi dobbiamo subire un giudizio anche quaggiù, perché non facciamo che dare sanguinosi insegnamenti che, una volta appresi, si ritorcono a colpire il maestro. Così la retta mano della giustizia avvicina alle nostre labbra il 10 calice avvelenato che noi stessi mescemmo1. Egli riposa qui su di una duplice fiducia: anzitutto perché io sono suo congiunto e suo soggetto2, due validi freni contro il delitto; poi perché sono 1 Così... mescemmo: Macbeth sostiene che ci sarà una giustizia e che il colpevole sarà punito con le sue stesse armi. La me-
tafora del calice avvelenato ricorda una situazione dell’Amleto, quando la madre di Amleto beve la coppa avvelenata che l’u-
surpatore Claudio aveva destinato al figlio. 2 suo congiunto e suo soggetto: suo parente e suo suddito.
Il teatro in Inghilterra 4 117
suo ospite e dovrei come tale sbarrar la porta all’omicida anzi che impugnare io stesso il pugnale. Inoltre, questo Duncan ha esercitato così mitemente i suoi poteri, è stato così illuminato nel 15 suo alto ufficio, che le sue virtù, come angeli dalle squillanti tube, invocherebbero una eterna condanna per la sua soppressione; e la pietà, come un nudo fanciullino appena nato che viene fra i nembi, o un celeste cherubino che cavalchi gli invisibili corsieri dell’aria, soffierà negli occhi di tutti l’orribile misfatto, così che 20 le lacrime soffocheranno perfino il vento. Io non ho sproni per pungere i fianchi del mio intento, ma solo un’ambizione impetuosa che minaccia di saltare oltre il segno e cadere dall’altra parte. (Entra lady Macbeth.) Ebbene? Che c’è di nuovo? 25 LADY MACBETH Ha quasi finito di cenare. Perché avete lasciato la stanza? MACBETH Ha chiesto di me? LADY MACBETH Lo sai bene. MACBETH Non andremo più oltre in questo affare: proprio adesso egli mi ha colmato di onori, e io ho acquistato presso tutti una reputazione dorata di cui devo rivestirmi ora che essa è nel suo recente 30 splendore, e non gettarla subito da parte. LADY MACBETH Era dunque una speranza ubriaca quella in cui ti eri ammantato? E si era poi addormentata per svegliarsi adesso livida e tremante dinanzi a ciò che voleva fare così baldamente? Da questo momento considero alla stessa stregua il tuo amore. Hai dunque 35 paura di essere nell’azione e nel coraggio quello stesso che sei nel desiderio? Vorresti avere quello che consideri l’ornamento della vita e vivere da vigliacco nella tua stessa stima, lasciando che il «non oso» stia al servizio del «vorrei», come il miserabile gatto del proverbio3? 40 MACBETH Taci, ti prego. Io oso fare tutto ciò che si conviene a un uomo; ma non è uomo chi osa far di più. LADY MACBETH Che essere eri, allora, quando mi confidasti questo disegno? Quando osasti farlo eri un vero uomo, e più ancora lo saresti nell’essere da più di quel che eri allora. Non ti si offrivano né 45 il tempo né il luogo, e tuttavia volevi crearli entrambi; adesso si offrono da sé, e la loro opportunità stessa ti distrugge. [...] MACBETH E se il colpo fallisse? LADY MACBETH Fallire! Inchioda il tuo coraggio su solido sostegno, e non falliremo. Quando Duncan sarà addormentato, e la fatica del viaggio 50 lo inviterà a un profondo sonno, abbrutirò talmente i suoi due ciambellani nel vino e nelle gozzoviglie, che in loro la memoria, guardiana del cervello, sarà fumo e la sede della ragione un semplice lambicco4. E quando le loro energie ubriache si abbandonino come morte in un sonno bestiale, che cosa non potremo 55 compiere noi due su Duncan indifeso? Che cosa non potremo 3 il miserabile gatto del proverbio: al-
4 lambicco: alambicco, apparecchio per
lusione al proverbio «Il gatto desidera i pesci, ma non vuol bagnarsi le zampe».
distillare. La metafora indica che, come nell’alambicco si trova il vapore, così la
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coscienza dei ciambellani ubriachi sarà evaporata, svanita.
addossare a quei suoi ufficiali fradici come spugne, che dovranno portare la colpa del nostro delitto? MACBETH Genera soltanto figli maschi, perché la tua tempra indomabile 60 non può concepire nulla che non sia maschio. Quando avremo imbrattato di sangue quei due che dormono nella sua stanza e adoprato i loro stessi pugnali, si crederà che siano stati loro? LADY MACBETH Chi oserà credere altrimenti, quando noi faremo ruggire le nostre grida di dolore sulla sua morte? 65 MACBETH Ho deciso: tendo ogni energia del mio corpo a questo terribile atto. Andiamo, e inganniamo il tempo con il più lieto aspetto: un volto falso deve nascondere quello che sa un cuore falso. (Escono.)
Analisi del testo La scelta di Macbeth Il passo presenta il conflitto interiore del protagonista, giunto a un bivio tra il bene e il male, tra la conquista del potere e la lealtà al sovrano: Macbeth è combattuto dall’incertezza se uccidere a tradimento il suo re, nel sonno, o risparmiarlo, rinunciando alle proprie ambizioni. Da una parte ci sono le ragioni del machiavellismo: l’occasione di assassinare il re che, fidente e inerme, riposa nel suo castello, e di soddisfare la sua sete di potere, subentrandogli nel regno, è irripetibile. Dall’altra parte, uccidere il re significa violare i princìpi di ospitalità e umanità, tradirne la fiducia, assassinare un sovrano buono e giusto, che lo aveva beneficato e che, tra l’altro, era suo parente. Nonostante i pro e i contro e fra mille esitazioni, spinto anche dalla moglie e dalla sua stessa sete di dominio, Macbeth decide comunque di mettere in atto il regicidio. Ne pagherà immediatamente le conseguenze: conscio che neppure tutta «l’acqua dell’immenso oceano» potrebbe lavare le sue mani impure, Macbeth si rende conto di aver perso per sempre la serenità: per lui non ci sarà più «l’innocente sonno» che scioglie gli affanni; il potere conquistato con la violenza e la frode non gli darà nessuna gioia, ma lo spingerà a una catena di delitti, finché, odiato da tutti, andrà incontro a una morte disperata.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali sono i dubbi che assalgono Macbeth di fronte alla possibilità di uccidere il re Duncan? 2. Di che cosa Lady Macbeth accusa il protagonista? Qual è il suo piano? ANALISI 3. Evidenzia gli elementi machiavellici che ricorrono nella scena del Macbeth. Confronta le tesi di Machiavelli con le riflessioni di Macbeth. STILE 4. Come è nello stile di Shakespeare, il testo è caratterizzato da metafore concettose. Individuale e indica in modo schematico il loro rapporto con i temi del dramma.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Confronta il monologo di Amleto con quello di Macbeth: quali analogie presentano? Quali differenze puoi invece individuare? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 6. Qual è il tuo giudizio sul personaggio di Macbeth, così come appare in queste pagine? Rispondi in un testo scritto di max 15 righe.
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William Shakespeare
T8
Machiavelli sbarca sull’isola La tempesta, atto II, scena I
W. Shakespeare, La tempesta, a c. e trad. di A. Lombardo, Garzanti, Milano 1984
Acquietatasi la tempesta suscitata dal mago Prospero, i naufraghi si trovano dispersi in diverse parti dell’isola. Alonso, re di Napoli, è insieme al fratello Sebastiano, ad Antonio, usurpatore del ducato di Milano, e ad altri cortigiani. A un tratto, un misterioso assopimento coglie tutti i naufraghi, salvo Antonio e Sebastiano, che vorrebbero approfittare dell’occasione per realizzare un piano machiavellico: “spegnere” il re per usurparne il potere e impadronirsi dell’isola.
SEBASTIANO ANTONIO SEBASTIANO 5 ANTONIO 10 15 20 25 SEBASTIANO ANTONIO 30 SEBASTIANO ANTONIO 35
Quale strano torpore li possiede! È la qualità del clima. Ma allora perché non abbassa le palpebre anche a noi? Io non ho sonno. Nemmeno io, i miei sensi sono svegli. Costoro sono caduti tutti insieme, come per un accordo. Sono piombati a terra Come schiantati dal fulmine. Cosa non si potrebbe, degno Sebastiano... Cosa non si potrebbe? Basta. E tuttavia mi sembra di vedere sul tuo viso ciò che dovresti essere: l’occasione ti chiama e la mia accesa fantasia vede una corona cadere sul tuo capo. [...] Immagina che il sonno che li ha presi fosse morte [...] Oh, se anche in te vivessero i miei pensieri! Che sonno sarebbe questo per la tua ascesa! Mi capisci? Credo di sì. E come gradisci la tua buona fortuna? Tu hai spodestato, ricordo, tuo fratello Prospero. È vero: e guarda come quegli abiti mi stanno bene addosso. Molto meglio di prima. Allora i servi di mio fratello erano miei uguali – ora,
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SEBASTIANO ANTONIO 40 45
appartengono a me. Ma la tua coscienza? E dove sta di casa, costei? Se fosse un gelone farebbe almeno portare le pantofole – Ma io non sento nel petto questa divinità. Anche venti coscienze messe tra me e Milano dovrebbero gelare e poi sciogliersi prima di infastidirmi. [...]
[Mentre Antonio e Sebastiano sguainano la spada per uccidere Alonso e Gonzalo, Prospero invia lo spirito buono Ariel a risvegliare con un canto il leale cortigiano Gonzalo, che sventa la congiura.]
Analisi del testo Shakespeare e Machiavelli La scena della Tempesta potrebbe essere un capitolo del Principe reso azione teatrale. Non soltanto Antonio incita Sebastiano alla slealtà e al tradimento, ma lo invita a cogliere l’«occasione», facendo suo uno dei più importanti insegnamenti machiavellici. Alla visione della politica in un’ottica machiavellica, Shakespeare contrappone spesso nei suoi drammi considerazioni che riguardano la coscienza. Nella Tempesta Antonio dice di averla messa a tacere da tempo; allo stesso modo, nel Riccardo III, un sicario, prima di compiere un delitto, dice della coscienza: «Non voglio averci a che fare; fa di un uomo un vigliacco [...]; chiunque intende vivere bene cerca di affidarsi a se stesso e di vivere senza di lei».
La vittoria del bene Ma gli scrupoli morali, messi a tacere nel momento dell’azione, fatalmente tendono a riemergere con il tempo. È quanto accade nel Macbeth, in cui le azioni sleali e crudeli del protagonista, iniziate proprio con l’uccisione a tradimento del re Duncan nel sonno (➜ T7 , in una situazione simile a quella che si prospetta nella Tempesta), dapprima hanno successo, ma poi lo trascinano alla rovina e alla disperazione. Nonostante il tema sia analogo, l’atmosfera della Tempesta è lontana dalla cupa tragicità del Macbeth: nel “mondo possibile” dell’isola – migliore di quello reale – a stornare il delitto ordito dai due malvagi cortigiani interviene Ariel, lo spirito che opera per il bene.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. In che cosa consiste l’occasione di cui parla Antonio? Quali elementi favorevoli la predispongono? ANALISI 2. Il passo mette bene in luce il perfido carattere di Antonio: come lo descriveresti?
Interpretare
SCRITTURA 3. Quali riferimenti a Machiavelli puoi cogliere nel testo (max 15-20 righe)?
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INTERPRETAZIONI CRITICHE
Erich Auerbach La tempesta, un mondo teatrale che oltrepassa la realtà visibile E. Auerbach, Il principe stanco, in Mimesis, Einaudi, Torino 1956
Nel brano riportato da Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, libro fondamentale per la critica letteraria, Erich Auerbach (1892-1957) spiega le correlazioni fra lo stile di Shakespeare (il critico parla di «mescolanza di stili») e la sua concezione del mondo, sottolineando come, a quel tempo, l’ampliamento dell’orizzonte geografico avesse fornito un quadro più vasto e complesso della società umana. Da questo allargamento di prospettiva deriva l’idea di fondo del teatro di Shakespeare, che le condizioni della vita umana possano essere infinitamente varie e collegate da innumerevoli nessi. Il saggio aiuta dunque a comprendere meglio la varietà tematica e stilistica della Tempesta e i molteplici rapporti tra diverse vicende che intessono l’opera.
A Shakespeare e a molti dei suoi contemporanei ripugna isolare dal nesso generale dell’azione una singola vicissitudine del destino di una o molte persone in un unico piano stilistico, come fecero i poeti tragici dell’antichità, superati in ciò qualche volta dai loro imitatori nei secoli XVI e XVII. Questo procedimento 5 isolante, che si spiega coi presupposti mitici e tecnici del teatro antico, è in contrasto con la visione di un mondo magico e polifonico che sorse nel Rinascimento. Il teatro di Shakespeare non rappresenta colpi del destino isolati che capitino dall’alto e le cui conseguenze colpiscano poche persone, mentre il mondo interno si riduce a poche persone, assolutamente necessarie allo svolgersi dell’azione – 10 bensì rappresenta intrecci immanenti, risultanti da determinate situazioni e dal concerto di molteplici caratteri. Anche il mondo esterno, perfino il paesaggio e gli spiriti dei defunti e altri esseri soprannaturali vi partecipano, mentre le parti dei personaggi spesso non contribuiscono affatto, o solo in misura minima, al progredire dell’azione, ma consistono in un giuoco simpatetico pro e contro su 15 diversi piani stilistici. [...]. L’economia dei drammi di Shakespeare è di una generosa prodigalità; essa dimostra la sua gioia di dar forma ai fenomeni piú svariati della vita e a sua volta si ispira alla concezione del nesso universale del mondo, cosicché ogni corda del destino umano appena toccata desta infinite voci [...]. Lo stile è di una tale 20 varietà da percorrere tutta la gamma dei sentimenti, dal sublime al farsesco e allo stolto. [...] Non è soltanto la grande quantità di fenomeni e la mescolanza in gradi sempre diversi del sublime e dell’umile, del solenne e del quotidiano, del tragico e del comico che dobbiamo mettere in evidenza, ma è la concezione, difficilmente espri25 mibile con parole chiare, di un mondo rinnovantesi di continuo e legato in tutte le sue parti, concezione che rende impossibile l’isolamento di un avvenimento solo e di un piano stilistico. [...] Con ciò è anche detto che in Shakespeare è contenuta sì la realtà terrena con le sue forme più comuni, in mille rifrazioni e combinazioni, ma che l’intenzione di 30 Shakespeare oltrepassa di molto la rappresentazione della realtà nei suoi rapporti puramente terreni; egli abbraccia la realtà e anche la supera. Prove ne sono la presenza di spiriti e streghe e lo stile caratteristicamente concreto, ma spesso non realistico, nel quale si fondono gli influssi di Seneca, del petrarchismo e di altre
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tendenze alla moda; inoltre la struttura interna degli avvenimenti che spesso e proprio nei drammi piú importanti sono realistici solo saltuariamente, e spesso hanno la tendenza a sfociare nel fiabesco o in un giuoco fantastico o nell’ultraterrenodemoniaco.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
PER APPROFONDIRE
Produzione
1. Secondo Auerbach, quale concezione del mondo è alla base della tendenza di Shakespeare a unire nello stesso testo stili diversi? 2. Che cosa significa nel testo critico l’espressione «le parti dei personaggi spesso non contribuiscono affatto, o solo in misura minima, al progredire dell’azione, ma consistono in un giuoco simpatetico pro e contro su diversi piani stilistici» (rr. 12-15)? Quale esempio di questa tendenza potresti citare nella Tempesta? 3. Secondo il critico, la visione di Shakespeare può essere definita “realistica”? Per quale ragione? Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
Dal testo alle interpretazioni teatrali e cinematografiche Mettere in scena La tempesta è sempre stata considerata una difficile sfida per la ricchezza e la complessità tematica del testo, che ha dato luogo a interpretazioni molto diverse: così, ad esempio, Eduardo De Filippo (1900-1984), che tradusse La tempesta in napoletano, ammirava «la tolleranza, la benevolenza che pervade tutta la storia» e considerava la bontà di Prospero come una lezione sempre attuale. Invece altri hanno visto nel rapporto tra Prospero e Calibano il simbolo dello sfruttamento colonialista e l’isola come un luogo niente affatto idillico: un’«Arcadia amara», secondo lo studioso di teatro Jan Kott (1914-2001). La figura di Prospero e il suo rapporto con Calibano, così variamente interpretati, ispirano scelte registiche diverse: nel suo famoso allestimento Giorgio Strehler rappresenta il mago come direttore d’orchestra e regista teatrale; il regista cinematografico Fred Wilcox, nel film Pianeta proibito del 1956, traspone la vicenda in chiave fantascientifica, raffigurandolo come lo scienziato Morbius, giunto con la figlia su un altro pianeta, grazie a una navicella spaziale. Più di recente, nel film L’ultima tempesta del 1991, il regista Peter Greenaway ha focalizzato la sua attenzione sui libri
di Prospero (il titolo originale del film è Prospero’s Books), raffigurandoli come compendio di tutto lo scibile occidentale fino al Seicento, sullo sfondo di un’isola dai caratteri strani e inquietanti. Il mondo fantastico della Tempesta ha ispirato diverse opere in cui si intrecciano realtà e fantasia, fra le quali è da annoverare Il flauto magico di Mozart, due atti in musica del 1791, ambientati in una specie di Egitto fantastico, che con l’opera shakespeariana ha in comune diversi temi, dalle prove iniziatiche cui è sottoposto un giovane principe, al valore magico della musica, al contrasto tra personaggi che rappresentano l’uomo “secondo natura” (Calibano in Shakespeare e Papageno, fedele compagno di avventura del principe Tamino, in Mozart) e quello modellato dai valori della civiltà. Sono state infine anche sottolineate le analogie fra La tempesta e il moderno genere fantasy, dato che in entrambi il contrasto tra bene e male è rappresentato in una dimensione fantastica; ricorrono anche personaggi simili, come Gollum del Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien (1892-1973), mostro informe, simbolo della malvagità istintiva, che può ricordare Calibano.
Fissare i concetti Il teatro in Inghilterra 1. Che cosa si intende per teatro elisabettiano? Quali sono le novità più importanti? 2. In che cosa consiste l’attualità dell’opera di Shakespeare? 3. Perché l’opera di Shakespeare è stata definita “cosmica”? 4. Quali sono i temi affrontati, quali le caratteristiche dei personaggi? 5. Qual è la visione della realtà che si ricava dall’opera di Shakespeare? Motiva la tua risposta. 6. Quali sono le caratteristiche dello stile di Shakespeare? 7. In che modo Shakespeare si avvale del modello di Machiavelli? 8. Qual è l’idea di re che emerge nei drammi shakespeariani?
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5 La scena teatrale in Italia 1 Il teatro tragico italiano I drammaturghi italiani del Seicento non hanno una spiccata rilevanza nell’ambito europeo, tuttavia non mancano autori relativamente interessanti come Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori, entrambi autori di tragedie, il cui motivo predominante è la proposta di modelli di comportamento esemplare. Le eroine di Federico Della Valle Federico Della Valle, nato intorno al 1560, ad Asti, visse alla corte dei Savoia e poi presso il governatore spagnolo di Milano, dove morì tra il 1628 e il 1629. Le sue opere più importanti sono: Judith (pubblicata nel 1627) in cui è rappresentata la storia di Giuditta, l’eroina biblica che con la sua straordinaria bellezza seduce Oloferne, nemico del popolo ebraico, e riesce così a ucciderlo; Esther (anch’essa edita nel 1627), la cui protagonista, moglie di un re assiro, salva il popolo ebraico dalla distruzione; La reina di Scotia (composta in prima stesura nel 1595, poi ripresa e pubblicata nel 1628), in cui è narrata la vicenda – allora davvero attuale – di Maria Stuarda, regina cattolica di Scozia, fatta giustiziare (nel 1587) da Elisabetta d’Inghilterra per alto tradimento. Protagoniste delle sue più importanti tragedie sono dunque delle donne: donne eroiche, dall’immensa forza d’animo, accomunate dalla fede, che le sostiene nell’affrontare le più terribili prove (la decapitazione per Maria Stuarda, l’uccisione di Oloferne per Judith). Accanto alla fede, il valore che emerge nella Reina di Scotia è la regalità, una dignità che, nell’epoca del potere assoluto, era considerata inscindibile da chi la possedeva: perciò, anche in carcere, Maria Stuarda resta sempre una regina e tale è considerata da quanti la circondano. La regina di Scozia rappresenta un modello di comportamento anche per la sua sottomissione all’autorità ecclesiastica. Nel momento della morte, Maria afferma la sua obbedienza alla Chiesa cattolica e al papa, e muore come una martire cristiana, moralmente vittoriosa sulla sua avversaria Elisabetta, rappresentata come crudele incarnazione della “ragion di Stato”. Anche la più famosa tragedia di Carlo de’ Dottori (1618-1680), l’Aristodemo (1657), ha come protagonista una donna, Merope, un’eroina che, secondo un mito classico, accetta di essere sacrificata per espiare le colpe della città greca di Messene. Come Della Valle, anche Carlo de’ Dottori traccia con finezza la psicologia della sua protagonista, conferendole un’ammirevole forza d’animo, «che sembra comunicare al personaggio un’anima squisitamente cristiana» (Getto). Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1599 ca. (Roma, Galleria nazionale d’Arte antica di palazzo Barberini).
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Sguardo sull’arte La miseria nell’arte del Seicento Tra la fine del Cinquecento e il Seicento la miseria è una realtà sempre più diffusa per una crisi economica e sociale, che colpisce in particolare paesi in declino come la Spagna e l’Italia. La letteratura del Seicento sembra occuparsi prevalentemente di personaggi nobili e grandi, ma nel corso del secolo emerge anche una tendenza al realismo che porta a rappresentare le classi sociali più umili, contadini, artigiani, spesso anche mendicanti ed emarginati, come avviene nel romanzo picaresco (➜ PAG. 29). E il coro della Judith è uno dei non frequenti casi in cui la letteratura del Seicento dà voce ai poveri e agli oppressi. Anche l’arte nello stesso periodo sembra scoprire i poveri,
Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, Lo storpio, 1624 (Parigi, Musée du Louvre). Il quadro rappresenta un giovane mendicante, scalzo, malvestito, con un cartello in cui chiede l’elemosina; il volto sorridente del ragazzo rivela la simpatia del pittore per un’umanità povera e derelitta, ma allegramente rassegnata alla propria misera condizione. Il rilievo dato al soggetto, che, grazie alla prospettiva dal basso verso l’alto, campeggia su uno sfondo naturale vasto e aperto, suggerisce la libertà del ragazzo e la sua spontaneità vicina alla natura, aspetti che ricordano i personaggi del romanzo picaresco.
come mostrano le opere realistiche di Caravaggio e di Velázquez, i bambini di Murillo (1618-1682) e la pittura di genere: si pensi ad esempio a opere come il Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci (1580-1590), La friggitrice di uova e L’acquaiolo di Siviglia di Diego Velázquez (15991660), Lo storpio e la Vecchia usuraia di Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto (1591-1652). La rappresentazione realistica della pittura è un’indiretta forma di denuncia perché pone davanti agli occhi esseri umani spesso rozzi e sgraziati, magari vestiti di stracci, che rappresentano un’umanità opposta a quella aristocratica dei quadri di Rubens e di Van Dyck, ma con sguardi, sorrisi, espressioni più “vere”.
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, La Madonna dei pellegrini, 1604-1606 (Roma, Basilica di Sant’Agostino). La figura sacra, avvolta dalla luce, è adorata da due pellegrini in ginocchio, un uomo e una vecchia, poveri contadini con le vesti lacere; il particolare realistico dei piedi scalzi e sporchi in primo piano, come di chi ha camminato a lungo (uno dei dettagli dell’arte caravaggesca che più volte scandalizzò i committenti, specie quelli ecclesiastici, e fece rifiutare molte tele dell’artista), aggiunge verità alla scena, in cui soprannaturale e quotidiano si sfiorano. La Madonna si affaccia sulla soglia di un’umile porta e presenta il DioBambino benedicente a chi devotamente cerca un riscatto dalla miseria nella fede più semplice.
Bartolomé Esteban Murillo , Fanciulli che giocano a dadi, 16701675 (Monaco, Alte Pinakothek). Mentre due bambini giocano a dadi, un terzo addenta un tozzo del pane che si tiene ben stretto al petto, al riparo dal cagnolino. I bei visi dei fanciulli assorti nel gioco e quello malinconico del terzo ragazzo mostrano la grazia naturale dell’infanzia anche nella miseria, e rivelano la simpatia del pittore per il soggetto.
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Federico Della Valle
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Il coro dei soldati: la parola agli oppressi
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 2
Judith, Coro F. Della Valle, Judith, in Teatro del Seicento, a c. di L. Fassò, Ricciardi, MilanoNapoli 1956
Nel passo proposto tratto dal testo teatrale Judith, il cui tema principale è il sacrificio dell’eroina biblica, l’autore presenta un diverso punto di vista: quello del coro dei soldati nemici.
CORO O guerra, guerra, in te giammai non cessa fatica per fatica, e ’l finirne una è dar principio a l’altra! Nel giro de la tua dura fortuna 5 vien ogni ora, ogni punto col peso del suo danno, o almeno del suo affanno, da cui rischio mortal raro è disgiunto. Porti indistinti i tempi 10 a le vigilie, ai sonni: sonni rotti, tremanti; vigilie piene di ferite e piaghe. Vegghiando1, fiera morte hai sempre avanti, e se dormi, ti cova in su le spalle. 15 Se poi cerchi ristoro d’incessante travaglio, stoppia o fieno non falle, o con pan torbid’acqua o putid’aglio2. Se chiami poscia premio a sangue sparso 20 e alfin ti vien poco oro, l’oro è compro sì caro ch’a minor prezzo l’have chi per trarlo dal sen d’aspra montagna va a seppellirsi vivo 25 in infernali cave3. 1 Vegghiando: vegliando, quando sei sveglio. 2 cerchi... aglio: cerchi riposo dalla fatica continua, non mancano (non falle) stop-
pie o fieno e, con il pane, acqua sporca e aglio ammuffito. 3 l’oro... cave: l’oro è guadagnato a un prezzo così caro che costa meno a chi per
ricavarlo dalle profondità di aspre montagne (cioè nelle miniere) va a seppellirsi vivo in quelle cave infernali.
Analisi del testo La critica alla società Anche in testi teatrali la cui funzione prevalente è fornire esempi di virtù e di alta moralità, con protagonisti nobili ed eroici, talvolta possono trovare spazio elementi di critica alla società del tempo: è il caso del teatro di Federico Della Valle. Egli non si limita a fornire il punto di vista dei nobili e dei potenti, ma getta uno sguardo sull’intera società, dando voce agli esclusi e agli emarginati.
126 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
La denuncia dei soldati Nel coro, costituito dai soldati assiri di Oloferne, si possono riconoscere in filigrana le milizie europee del Seicento, epoca tormentata da sanguinose guerre. Esausti, miseri, affamati, i soldati denunciano i potenti che li conducono ad affrontare fatiche disumane e rischi mortali, a causa delle loro smodate ambizioni: i soldati lamentano la loro miseria, i continui pericoli, gli scarsi guadagni.
Il paragone finale Nel paragone finale si ricordano altri poveri disperati la cui miseria e fatica appaiono intollerabili: i minatori sepolti vivi in cavità che sembrano luoghi infernali.
Stile Interessante risulta l’analisi dello stile e del lessico utilizzati dall’autore per porre in rilievo alcuni concetti: la ripetizione della parola «guerra» (v. 1) che si specchia nella ripetizione della parola «fatica» nel verso immediatamente successivo; la rima tra i sostantivi «danno» e «affanno» (vv. 6-7); l’uso degli aggettivi: «rotti, tremanti» (v. 11), «fiera» (v. 13); «incessante» (v. 16); «infernali (v. 25), che quasi sempre precedono il termine a cui si riferiscono.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il testo proposto in max 10 righe. COMPRENSIONE 2. In che modo vengono descritte le notti e i momenti di attesa («vigilie»)? STILE 3. Come mai l’autore pone in rima le parole «danno»/«affanno» (vv. 6-7)? Quale relazione vuole stabilire tra loro?
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 2
SCRITTURA 4. «O guerra, guerra, in te giammai non cessa / fatica per fatica, e’l finirne una / è da principio a l’altra»: con questa affermazione si apre il coro dei soldati. Commenta quanto viene affermato sulla guerra e soffermati a riflettere se quanto detto può essere ritenuto attuale e valido ancora oggi.
2 Due nuovi generi destinati a un travolgente successo La nascita della commedia dell’arte Il teatro, e in particolare quello italiano, a partire dal tardo Rinascimento e ancor più con il Barocco, sviluppa anche una componente edonistica e spettacolare, che incontra il gusto di un vastissimo pubblico. In Italia nascono infatti due generi nuovi, destinati a una straordinaria fortuna: la commedia dell’arte e il melodramma. Nel corso del Cinquecento comincia ad affermarsi la cosiddetta commedia dell’arte (dell’arte significa “di mestiere”), la cui fortuna durerà per circa due secoli e mezzo fino alla riforma teatrale goldoniana. La denominazione di “commedia dell’arte” si diffonde nel corso del Settecento per identificare l’attività e il tipo di spettacolo prodotto da attori professionisti, organizzati in compagnie teatrali, delle quali, in contrasto con la tradizione teatrale e suscitando la diffidenza dei moralisti, facevano parte anche donne. Queste compagnie cominciarono a costituirsi stabilmente in Italia verso il 1560 (il primo contratto ufficiale di cui abbiamo menzione è del 1545), tramandandosi di generazione in generazione un sapere teatrale ormai codificato. La scena teatrale in Italia 5 127
La novità della commedia dell’arte si lega sostanzialmente a due aspetti: la trasformazione della figura dell’attore da dilettante, qual era fino al Rinascimento, in professionista dello spettacolo e la trasformazione dell’attività teatrale da rito cortigiano, legato alle feste di corte, in prodotto commerciale che si propone di conquistare i favori di un pubblico sempre più eterogeneo. Un insieme di elementi dotti e popolari Per le esigenze dell’intrattenimento, i comici dell’arte seppero realizzare un’abile fusione di temi e forme della commedia dotta con componenti della cultura popolare, propria degli intrattenitori di piazza, eredi della tradizione giullaresca: dall’esasperazione della mimica alle abilità acrobatiche, alla gestualità, alle battute rivolte al pubblico. Inoltre la commedia dell’arte privilegia rispetto al testo scritto la recitazione improvvisata, ma occorre precisare che si tratta di un’improvvisazione relativa: l’attore poteva infatti innanzitutto contare sulla presenza di un canovaccio (ce ne sono pervenuti moltissimi), che conteneva indicativamente la trama, la divisione in atti e la traccia delle scene principali; inoltre gli attori utilizzavano, secondo la loro personale abilità e creatività, zibaldoni di materiali in cui si trovavano, già pronti per le diverse situazioni teatrali, monologhi e dialoghi, lazzi, ovvero battute marcatamente comiche, repertori di idee, rime ecc. La tipizzazione dei personaggi Dalla struttura della commedia erudita la commedia dell’arte ricavò invece soprattutto i “tipi” tradizionali dei personaggi: i vecchi, gli innamorati, i servi, che i commediografi rinascimentali avevano tratto a loro volta dalla commedia latina di Plauto e Terenzio. La commedia dell’arte utilizza la professionalità degli attori, inclini a specializzarsi in un particolare ruolo in cui distinguersi, per rendere i personaggi sempre più fissi nei gesti, nel linguaggio, nei costumi, così da essere immediatamente riconoscibili dagli spettatori, i quali finivano spesso per identificare l’attore con il “suo” personaggio.
La Compagnia dei Gelosi in un dipinto di anonimo fiammingo (1580 ca., Parigi, Museo Carnavalet).
128 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
Le maschere La tipizzazione marcata dei personaggi comportava anche l’uso della maschera, poi diventata un elemento caratteristico del carnevale. Non tutti i personaggi però usavano la maschera, ma solo quelli cui erano affidati i ruoli marcatamente comici, in particolare i servi ridicoli di campagna, gli Zanni (nome forse derivato da Giovanni, diffuso tra i contadini veneti): tra di essi Arlecchino, col suo tipico abito variamente colorato, Brighella, il napoletano Pulcinella e i loro padroni, come Pantalone (vestito come i ricchi veneziani) o il Dottor Balanzone bolognese, che si esprime in un tipico linguaggio misto di dialetto bolognese e citazioni latine. Se per i ruoli comici è usata la maschera e sono impiegati i dialetti con funzione espressiva, gli innamorati e le innamorate (di solito due coppie in una compagnia di attori) recitano invece senza maschera e in lingua, utilizzando anche forme auliche, in rapporto a situazioni lirico-sentimentali. Nella commedia dell’arte coesistono dunque per la prima volta in un originale amalgama tradizioni teatrali e specializzazioni diverse degli attori: lingua letteraria/dialetti; personaggi con maschera/senza maschera; scene sentimentali/scene farsesche; recitazione raffinata/buffonesca (in particolare, la prima degli innamorati, e la seconda degli Zanni, specializzati in una comicità bassa e nell’impiego virtuosistico delle capacità mimico-acrobatiche). Il successo della “commedia all’italiana” Il teatro dell’arte italiano, non impegnato, ma spettacolare e divertente, era molto gradito dal pubblico. Celebre in tutta Europa – dove era identificato come “commedia all’italiana” – ha il merito di aver insegnato i segreti dell’arte teatrale a grandi autori come Molière e Goldoni. Con il tempo, tuttavia, la concorrenza per conquistare il favore del pubblico induce le compagnie teatrali ad abbassare sempre più il livello degli spettacoli, a cercare il successo con mezzi sempre più facili e scontati (come oggi accade per lo più negli spettacoli televisivi): una scelta che porterà inevitabilmente alla decadenza del genere e che sarà giudicata severamente dai letterati settecenteschi che riformeranno il teatro comico, Goldoni in testa. La nascita del melodramma Dal dramma pastorale, il cui archetipo è l’Aminta di Tasso, trae origine, dalla fine del Cinquecento, un genere nuovo, destinato a una grande fortuna europea: il melodramma. I versi dei drammi pastorali, a cominciare dall’Aminta, erano dotati di una particolare musicalità, e adatti a essere cantati; inoltre era usuale, tra un atto e l’altro delle rappresentazioni cortigiane, inserire intermezzi cantati e musicati. Alla fine del Cinquecento, a Firenze, un gruppo di letterati e musicisti (fra i quali anche il padre di Galileo, Vincenzo Galilei), riuniti nella cosiddetta Camerata dei Bardi, cominciarono a pensare a un dramma tutto cantato (“recitar cantando”): li incoraggiava il fatto che nell’antica tragedia greca venissero intonati canti corali (inoltre si credeva erroneamente che nel teatro greco anche le parti recitate dai singoli attori fossero cantate). Venne così elaborata una nuova forma artistica, che avrebbe in seguito costituito un vanto per la cultura italiana: uno spettacolo in cui la bellezza delle scenografie, la poesia del testo e il fascino della musica si fondessero in un insieme armonioso. I primi melodrammi furono ispirati a temi mitologici e bucolici. Ne sono esempio la Dafne (1594) di Ottavio Rinuccini (1562-1621), musicata da Iacopo Peri (15611633), l’Euridice (1600) degli stessi Rinuccini e Peri, l’Orfeo (1607), musicato da Claudio Monteverdi (1567-1643), e l’Arianna, con testo di Rinuccini e musica di Monteverdi (1608). La scena teatrale in Italia 5 129
Scenografia di un melodramma barocco, Il pomo d’oro (1668) di Antonio Cesti.
In seguito si affermarono anche soggetti di carattere storico o tratti da opere letterarie. La struttura del melodramma si perfezionò nel tempo, assumendo la sua forma canonica. La nuova forma artistica suscitò l’entusiasmo del pubblico che accorreva non soltanto nelle corti, ma anche nei teatri pubblici, soprattutto a Venezia. Il nuovo genere sembrava realizzare in pieno l’idea della spettacolarità barocca: fusione di arte figurativa, musica e recitazione, che si realizzava attraverso la grandiosità delle scene e degli apparati, la suggestione della musica e l’abilità dei cantanti.
Due novità nel panorama teatrale del Seicento Commedia dell’arte
• costituirsi di compagnie teatrali • attori professionisti • spettacolo commerciale vero e proprio • recitazione improvvisata su un canovaccio • maschere e tipizzazione dei personaggi
Melodramma
• nasce dal dramma pastorale e dal “recitar cantando” della Camerata de’ Bardi a Firenze • azione scenica recitata e musicata su temi mitologici e bucolici • grandiosità delle scene e degli apparati
Fissare i concetti La scena teatrale in Italia 1. Chi sono gli autori di tragedie più importanti in Italia? 2. Chi sono i protagonisti delle tragedie di questi autori? Quali le loro caratteristiche? 3. Che cos’è la commedia dell’arte? Che novità propone? Per che cosa si caratterizza? 4. Che cos’è il melodramma? Da che cosa trae origine? Dove iniziò a svilupparsi?
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Seicento La scena del mondo: il teatro nel Seicento
Sintesi con audiolettura
1 Il Seicento, il secolo del teatro
La centralità del teatro nel Seicento Il Seicento è il secolo del teatro, spesso visto dagli autori del tempo come metafora della vita, In questo secolo l’arte scenica assume un ruolo culturale chiave. È usata per proporre modelli di comportamento esemplare (Corneille) o conflitti tragici (Racine), per rappresentare criticamente la società (Molière) o mettere in scena temi del dibattito filosofico del tempo (Calderón). Nel XVII secolo si verifica anche una trasformazione dello spazio scenico: la scenografia statica viene sostituita da sfondi più fantasiosi ed elaborati ispirati al gusto barocco per l’illusionismo.
2 Il teatro in Francia
L’opera di Corneille In Francia nel Seicento il teatro – finanziato e favorito dalla politica culturale della corte – acquista dignità e prestigio grazie a drammaturghi come Corneille e Racine. Nel suo teatro Corneille presenta situazioni conflittuali, in cui la volontà dei protagonisti riesce tuttavia a trionfare su ogni umana debolezza. Personaggio simbolo del teatro di Corneille è il Cid, al centro dell’omonima tragedia. Il gusto classicistico di Racine Racine pone al centro della sua produzione teatrale la lotta fra passione e ragione, interpretata alla luce del suo pessimismo e della sua formazione giansenista. Esemplare nella Fedra, tragedia ispirata a un mito classico, l’analisi sull’esperienza dirompente dell’eros, evidenziata attraverso la vicenda della protagonista, che, pur dolorosamente consapevole di cadere nel peccato, non riesce a sottrarsi alla potenza della passione e ne è sovrastata. Il teatro di Molière Nel Seicento sui palcoscenici di Francia spopolano le commedie di Molière, che denuncia i vizi della sua epoca. Il suo teatro colpisce i conformismi, le ipocrisie, la pigra assuefazione alle mode e ai ruoli sociali codificati, mettendo in scena una galleria di personaggi umani ancora di grande modernità. Spesso l’analisi di Molière parte dal microcosmo della famiglia, come ad esempio nell’Avaro o nel Malato immaginario.
3 Il teatro in Spagna
Calderón de la Barca e La vita è sogno In Spagna, nel XVII secolo, il Siglo de oro, ha la sua apoteosi il teatro, sia quello di contenuti religiosi, sia quello laico, in cui temi teologici e metafisici trovano espressione in opere di spessore filosofico, come nel capolavoro del genere, La vita è sogno di Calderón de la Barca. In quest’opera, in linea con la morale gesuitica, si sostiene l’idea del libero arbitrio, rappresentato dalla vicenda di Sigismondo, principe di Polonia. Costui, contro ogni predestinazione maligna degli influssi astrali, si rivela capace di scegliere il bene anziché il male quando comprende la vanità della vita e l’inganno delle apparenze.
Sintesi Seicento
131
4 Il teatro in Inghilterra
Il teatro elisabettiano Con teatro elisabettiano si designa il teatro inglese sotto il regno di Elisabetta I (1558-1603) e del suo successore Giacomo I Stuart (1603-1625). In questo contesto viene riconosciuta la figura dell’attore professionista che si esibisce in spettacoli su tematiche non religiose, nei primi veri e propri teatri. William Shakespeare William Shakespeare è ritenuto uno dei più importanti drammaturghi della cultura occidentale. La sua produzione è estremamente varia: poemi, sonetti e, in ambito teatrale, drammi storici, commedie e tragedie; oltre a un genere nuovo, i drammi romanzeschi, connotati da elementi fantastici e dal lieto fine. Il teatro di Shakespeare è innovativo: anche se l’autore non crea soggetti e intrecci originali, propone un modo nuovo di trattare i personaggi, dando importanza alle dinamiche psicologiche che caratterizzano il loro comportamento. Nei drammi storici Shakespeare riflette sul tema del potere politico attraverso una prospettiva realistica e demistificante; nelle commedie si avverte l’influenza della novellistica italiana e della commedia italiana del Cinquecento, in merito al tema degli equivoci e degli scambi di persona. Ma la fama di Shakespeare deriva soprattutto dalle tragedie imperniate sull’indagine dei conflitti interiori. Romeo e Giulietta, Amleto, Macbeth, Otello e Re Lear sono le più celebri. Tra i drammi romanzeschi ricordiamo, in particolare, La tempesta. La grandezza di Shakespeare risiede nella sua capacità di creare una straordinaria galleria di personaggi e di rappresentare la complessità del reale da un punto di vista alternativo e demistificante.
5 La scena teatrale in Italia
Il teatro tragico italiano I drammaturghi italiani del Seicento non hanno grande rilevanza in ambito europeo; tuttavia, non mancano autori interessanti come Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori, entrambi autori di tragedie, finalizzate a fornire un modello di comportamento esemplare. Protagoniste delle più importanti tragedie di Della Valle e Dottori sono delle donne: donne eroiche, dall’immensa forza d’animo che le sostiene nell’affrontare le più terribili prove. Due nuovi generi destinati a travolgente successo aIn Italia inizia a svilupparsi un altro genere originale di intrattenimento: la commedia dell’arte. Diffusasi verso la metà del Cinquecento, è portata in scena da compagnie di professionisti (comprendenti anche donne), con attori specializzati in un ruolo di cui assumono la maschera. La novità di questo nuovo genere risiede nella trasformazione della figura dell’attore da dilettante in professionista dello spettacolo e nella trasformazione dell’attività teatrale da rito cortigiano in prodotto commerciale. Nella commedia dell’arte manca un testo scritto, sostituito da un canovaccio, che comprende l’argomento, la divisione in atti e le scene principali. Ampio spazio è lasciato all’improvvisazione. Sempre in Italia, si avvia il melodramma, genere nuovo di dramma cantato e musicato, che muove i primi passi a fine Cinquecento a opera dei musicisti della fiorentina Camerata de’ Bardi.
132 Seicento 2 La scena del mondo: il teatro nel Seicento
Zona Competenze Sintesi
1. Costruisci una tabella per presentare sinteticamente alla classe, attraverso le opere trattate nel profilo, i caratteri e le funzioni assunti dal teatro nel corso del Seicento.
Lavoro di gruppo
2. Documentatevi in Rete riguardo ai recenti allestimenti e rappresentazioni teatrali del capolavoro di Molière Il malato immaginario: ricercate le informazioni e la documentazione ed esponete in classe i risultati. Organizzate poi un dibattito sull’opportunità, e i modi, di attualizzare i testi teatrali, sulla base anche di esperienze personali di spettacoli visti.
Testi a confronto
3. Spiega in che senso si può parlare di “machiavellismo” nel teatro di Shakespeare e illustra sinteticamente attraverso uno schema i rapporti fra il pensiero di Machiavelli e l’opera del drammaturgo.
Scrittura argomentativa
4. Scegliendo uno dei drammi antologizzati – o anche un’opera che conosci per tua esperienza personale – in un testo di max 20 righe argomenta sulla modernità del teatro shakespeariano.
Scrittura creativa
5. Immagina di scrivere una recensione della commedia di Molière che possa invogliare i tuoi compagni ad andare alla rappresentazione teatrale organizzata dalla scuola Il malato immaginario 2.0: presenta gli aspetti della commedia che ti sembrano più stimolanti, significativi e soprattutto moderni. 6. Immagina di essere un regista teatrale e di dover preparare una rappresentazione della Vita è sogno di Calderón de la Barca, scegliendo i personaggi e dando indicazioni per le scenografie, i costumi, gli effetti teatrali. 7. Sei stato testimone del dramma vissuto da Amleto: scrivi un breve testo (max 20 righe) che fornisca una cronaca o una narrazione documentaria della vicenda.
Sintesi Seicento
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Seicento Quattrocento e Cinquecento CAPITOLO
3 Galileo Galilei LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Galileo visto da sé medesimo... In una lettera scritta a Cristina di Lorena, madre del granduca di Toscana Cosimo de’ Medici, che fa parte delle Lettere copernicane, Galileo mostra tutta la sua fiducia nel fatto che la verità, vista con i suoi occhi così luminosa nel cielo, non avrebbe tardato a farsi strada e a trionfare; una verità che si schierava contro la Chiesa cattolica, la cui posizione si fondava sugli antichi e autorevoli testi di Aristotele e Tolomeo, suffragata dall’autorità delle Sacre Scritture. Ma di lì a poco una denuncia contro Galileo sarebbe stata inoltrata al Sant’Uffizio, aprendo così una lunga strada di battaglie e umiliazioni.
Se per rimuover dal mondo questa opinione e dottrina (copernicana) bastasse il serrar la bocca ad un solo, come forse si persuadono quelli che, misurando i giudizi degli altri co’l loro proprio, gli par impossibile che tal opinione abbia a sussistere e trovar seguaci, questo sarebbe facilissimo a farsi; ma il negozio cammina altramente; perché, per eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non solo il libro del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l’istessa dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d’astronomia intiera, e più, vietar a gli uomini guardare verso il cielo, acciò non vedessero Marte e Venere or vicinissimi alla terra or remotissimi con tanta differenza che questa si scorge 40 volte, e quello fa 60, maggior una volta che l’altra, ed acciò che la medesima Venere non si scorgesse or rotonda or falcata con sottilissime corna, e molte altre sensate osservazioni, che in modo alcuno non si possono adattare al sistema Tolemaico, ma son saldissimi argumenti del Copernicano. G. Galilei, Lettera a madama Cristina di Lorena, in Opere, a c. di F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953
134
Galileo ha un ruolo chiave nella storia del pensiero scientifico perché a lui si deve l’elaborazione del metodo scientifico moderno, basato sull’osservazione dei fenomeni, sulla loro analisi sistematica con l’apporto della matematica e della geometria, sulla formulazione di ipotesi razionali verificate mediante esperimenti. Con Galileo la figura stessa dello scienziato si definisce. Lasciato alle spalle il principio di autorità, riallacciandosi allo spirito razionale e critico del Rinascimento, Galileo si propone nei suoi scritti in un modo del tutto nuovo: un ricercatore inesausto della verità, spinto dalla volontà di accrescere le conquiste dell’umano sapere, mettendo in dubbio le certezze passivamente accettate per secoli, e un divulgatore appassionato delle nuove conquiste conoscitive, rese accessibili grazie alla scelta del volgare e alla chiarezza cristallina dei suoi saggi. Il conflitto drammatico con la Chiesa del tempo, la condanna e l’abiura di Galileo suscitano interrogativi ancor oggi attuali sul ruolo dello scienziato e sul rapporto tra scienza e potere.
1 Ritratto d’autore Galileo 2 scienziato-scrittore 135 135
1 Ritratto d’autore 1 Le prime fasi di una vita votata alla scienza VIDEOLEZIONE
La formazione Galileo Galilei nasce nel 1564, a Pisa, da una famiglia fiorentina che poi si trasferirà nuovamente a Firenze. Il padre Vincenzo è un commerciante, ma anche un valente musicista: fa infatti parte della Camerata de’ Bardi, a cui si riconduce il rinnovamento della musica che porta alla nascita del melodramma. Il giovane Galileo intraprende a Pisa gli studi universitari di medicina, tuttavia il suo interesse è tutto per la matematica e la fisica. Studia Aristotele, ma legge con maggiore passione Euclide e Archimede. Dotato di straordinarie capacità di osservazione, preferisce scrutare il mondo reale che apprendere le conoscenze solo dai libri: appena diciannovenne, osservando, nel duomo di Pisa, il movimento oscillatorio di una lampada, formula le leggi sull’isocronismo del pendolo, che poi utilizza in campo medico per misurare la frequenza del polso. Pochi anni dopo, applicando le leggi di Archimede, Galileo inventa una bilancia idrostatica, che descrive in una dissertazione apprezzata negli ambienti scientifici del tempo. L’insegnamento universitario La fama ben presto conseguita gli consente di accedere alla cattedra universitaria di matematica a Pisa, pur senza essere in possesso della laurea. Nel 1592, avendo ottenuto una cattedra di matematica, Galileo si trasferisce a Padova, nell’ambiente culturalmente stimolante della Repubblica veneziana, dove trascorre i «diciotto anni migliori» della sua vita, come avrebbe in seguito ricordato. I suoi interessi sono molteplici e non solo teorici. Frequenta gli artigiani dell’Arse-
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva
1616 Un decreto del Sant’Uffizio vieta di sostenere il copernicanesimo.
1560
1600
1618 Evento astronomico delle tre comete.
1610
1620
1564
Nasce a Pisa.
1609
1592
Insegna matematica presso lo Studio di Padova.
Scoperte con il cannocchiale: mostra che il presupposto aristotelico di una differenza tra la materia terrestre e celeste è infondato. 1610
Pubblica il Sidereus Nuncius. Diviene matematico di corte del granduca di Toscana. 1613-1615
Lettere copernicane: Galileo teorizza che le scoperte scientifiche non possano essere contestate se in contrasto con la Bibbia.
136 Seicento 3 Galileo Galilei
1623
Pubblica Il Saggiatore: discorso metodologico contro il principio di autorità e per il nuovo metodo scientifico. 1615
Lettera a madama Cristina di Lorena.
nale veneziano, mette a frutto le competenze acquisite nel progettare fortificazioni e strumenti ingegneristici per la Repubblica di Venezia, ed esegue esperimenti che rendono più appassionanti le sue lezioni e rappresentano una novità didattica. In breve tempo guadagna numerosi seguaci e ammiratori entusiasti, ma si crea anche parecchi nemici, che lo denunciano al tribunale dell’Inquisizione di Padova, accusandolo per l’eccessiva libertà di pensiero e per la relazione con Marina Gamba da cui, senza essere sposato, Galileo avrà tre figli, Virginia, Livia e Vincenzio. Il governo veneziano, tuttavia, lo protegge, e la denuncia non ha seguito. Le scoperte astronomiche, il Sidereus nuncius, la notorietà Nel 1608 Galileo viene a sapere che in Olanda era stato costruito uno strumento ottico che consentiva di ingrandire gli oggetti lontani. Nel 1609 ne potenzia e perfeziona la struttura, ideando il suo famoso cannocchiale e lo dona al doge di Venezia, mettendone in luce le grandi potenzialità strategiche per una grande potenza marittima come era ancora Venezia. Dal canto suo Galileo impiega il cannocchiale non per fini pratici, ma per osservare il cielo, compiendo rivoluzionarie scoperte astronomiche: il cannocchiale rivelava (a cominciare dalla superficie lunare) un cielo nuovo, del tutto diverso da quello che si era prima immaginato sulla scorta di Aristotele, mettendo in crisi la visione cosmologica sostenuta dalla Chiesa. Lo scienziato espone le sue scoperte nel Sidereus nuncius (“Avviso astronomico”) del 1610. L’opera, scritta in latino, lo rende famoso non solo in Italia, ma in tutta Europa.
1822 Il Dialogo dei massimi sistemi è rimosso dall’Indice dei libri proibiti.
Disegno delle fasi lunari da una copia del Sidereus Nuncius (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale).
1630
1640
1638
Pubblica i Discorsi.
1650
1992
Galileo è ufficialmente riabilitato da papa Giovanni Paolo II.
1990
1642
Muore ad Arcetri.
1633
Condannato per eresia è costretto alla pubblica abiura. 1632
Pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano.
Ritratto d’autore 1 137
2 La battaglia per un nuovo sapere Il difficile tentativo di dialogo con la Chiesa controriformistica La fama acquisita consente a Galileo di trasferirsi a Firenze, come matematico di corte del granduca di Toscana, a cui aveva dedicato il Sidereus Nuncius: un ruolo che non prevede l’obbligo di insegnare e gli consente di dedicarsi soltanto agli studi. Ma c’è un rovescio della medaglia: Firenze, rispetto alla repubblica di Venezia, è più strettamente controllata dall’Inquisizione. Probabilmente Galileo si illude di essere ormai abbastanza autorevole, vista la sua fama europea, da far rivedere alla Chiesa la presa di posizione netta contro il copernicanesimo: si accinge dunque con determinazione e fiducia al compito di conquistare l’adesione degli ambienti più influenti della Chiesa alle nuove teorie cosmologiche. Già nel 1611 si reca una prima volta a Roma, diventa membro dell’autorevole Accademia dei Lincei e stringe amicizia con i principali cultori di scienza: tra di essi vi è il cardinale fiorentino Maffeo Barberini, destinato a diventare papa nel 1623 con il nome di Urbano VIII. Le Lettere copernicane Tra il 1613 e il 1615 Galileo scrive quattro lettere a diversi destinatari, poi definite Lettere copernicane, in cui affronta il rapporto tra scienza e verità di fede, teorizzando la necessità di una autonomia tra i due ambiti (➜ T2 ). Le lettere, anche se diffuse solo in forma manoscritta, suscitano un dibattito tra gli intellettuali; se però Galileo sperava ne emergesse un orientamento favorevole al copernicanesimo, dovette rimanere ben presto deluso: nel febbraio 1616 il Sant’Uffizio promulgò il divieto ufficiale di sostenere il copernicanesimo e Galileo, che si trovava nuovamente a Roma, fu ammonito e diffidato dal seguire e pubblicizzare una teoria condannata dalla Chiesa come eretica. In seguito lo scienziato avrebbe adottato una strategia più prudente, evitando di pronunciarsi sul tema, particolarmente insidioso, del rapporto tra scienza e fede, sul quale le Lettere copernicane rimangono la testimonianza più significativa: proprio a esse, in tempi vicini a noi, si è riferito papa Giovanni Paolo II per accettare finalmente, dopo tanti secoli, le idee di Galileo. Il Saggiatore Galileo non rinuncia, però, a cercare conferme all’ipotesi copernicana e a difendere e diffondere le sue idee. Un’occasione gli è offerta nel 1618 da un evento astronomico: nel cielo appaiono tre comete, su cui si interrogano non soltanto gli astronomi, ma anche la gente comune, allarmata per quello che si riteneva essere un infausto presagio. Come esperto di astronomia, Galileo è chiamato in causa, e scrive sull’argomento una delle sue opere più importanti, Il Saggiatore, in cui espone e difende i princìpi del nuovo metodo scientifico. Il Saggiatore è pubblicato nel 1623, un anno che sembrava promettere una svolta positiva per Galileo, perché il cardinale Maffeo Barberini, uomo colto e aperto, che si era dichiarato suo ammiratore, era stato eletto pontefice con il nome di Urbano VIII, e a lui lo scienziato sceglie deliberatamente di dedicare l’opera. Nicolò Tornioli, Gli astronomi, sec. XVIII (Galleria Spada, Roma). Probabile raffigurazione di un confronto fra Tolomeo (a sinistra) e Copernico (al centro).
138 Seicento 3 Galileo Galilei
3 Il processo, la sconfitta, l’abiura Il Dialogo sopra i due massimi sistemi Ripresa, con l’elezione di Urbano VIII, la speranza di far accettare dalla Chiesa il sistema copernicano, Galileo inizia a elaborare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (➜ T5 ), incentrato su un confronto tra la cosmologia copernicana e quella aristotelico-tolemaica, e i due connessi sistemi di pensiero. Per ottenere il consenso del Sant’Uffizio alla pubblicazione, Galileo dichiara nel proemio di avere assunto una posizione neutrale tra i due sistemi. Naturalmente, non è questa la verità: un’attenta lettura del libro svela, senza possibilità di dubbio, la posizione dello scienziato a favore delle nuove teorie cosmologiche. Il processo e l’abiura Galileo viene convocato a Roma per essere interrogato dall’Inquisizione; accusato di eresia, è minacciato di tortura e costretto alla pubblica abiura, che avviene il 22 giugno del 1633, in un convento di Roma (➜ D1 ). Il Dialogo è inserito nell’Indice dei libri proibiti. Vista la tarda età e la fama, non gli viene imposto il carcere, ma una sorta di detenzione domiciliare, prima nella casa dell’arcivescovo di Siena, poi nella propria dimora di Arcetri, vicino a Firenze. L’inesausta passione per la scienza: le opere dell’ultimo periodo Ancora una volta, tuttavia, Galileo mostra la determinazione del suo carattere e la propria passione per la scienza; riprende i suoi studi e i contatti con i numerosi discepoli e, di nascosto dagli inquisitori, lavora al suo ultimo libro, i Discorsi (il titolo completo è Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica e i movimenti locali), opera che, pubblicata fuori dall’Italia, a Leida, nel 1638, «costituisce, dal punto di vista strettamente scientifico, il suo vero capolavoro» (Geymonat) e, sebbene risulti più tecnica e meno divulgativa, non è meno copernicana delle precedenti.
PER APPROFONDIRE
Il “caso Galileo” non è concluso con la morte dello scienziato Nel 1642, Galileo muore, a 77 anni. Ma il “caso Galileo” non si esauriva con la sua scomparsa: il Dialogo dei massimi sistemi è rimosso dall’Indice dei libri proibiti soltanto nel 1822. Per la riabilitazione completa di Galileo si dovrà attendere il pontificato di Giovanni Paolo II, che la dichiarò ufficialmente nel 1992.
Il rapporto tra Galileo e la Chiesa: gli sviluppi recenti La condanna della tesi di Galileo sul rapporto tra scienza e fede Quando la Chiesa condanna Galileo (perché le sue scoperte scientifiche sono in contrasto con un’interpretazione letterale della Bibbia) e non accetta la tesi espressa nelle Lettere copernicane dell’autonomia della scienza rispetto alla fede, si pone di fatto in contrasto con l’evoluzione della scienza e, di conseguenza, con il mondo moderno. Una questione che rimase in sospeso per più di tre secoli, durante i quali tra mondo scientifico e mondo religioso sorsero altre occasioni di contrasto (in particolare, nell’Ottocento, nel caso delle teorie di Darwin). Nel secondo Novecento la Chiesa “apre” alle tesi di Galileo Tanto più significativa, perciò, appare la svolta che si verifica nella seconda metà del Novecento, quando la questione galileiana è stata nuovamente affrontata dalla Chiesa, con un deciso ripensamento. L’occasione è rappresentata dal concilio
Vaticano II (1962-1965), indetto da Giovanni XXIII e condotto a termine da Paolo VI, volto a colmare il distacco tra la Chiesa e il mondo moderno. In tale contesto appariva necessario riprendere in esame anche il rapporto tra Chiesa e scienza, riconoscendo la necessità di superare i contrasti risalenti al tempo di Galileo e – per la prima volta – di affermare l’autonomia della scienza. Nel 1979 Giovanni Paolo II propone finalmente un riesame del “caso Galileo”, volto ad accertare le ragioni e i torti, «da qualunque parte provengano» e a rimuovere le reciproche diffidenze, per giungere alla «concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo»; due anni dopo, nel 1981, allo scopo istituisce una commissione di studio. Le ragioni del riesame sono messe in luce in un discorso del 1983, in occasione del 350° anniversario dalla pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, in cui papa Wojtyla ribadisce come la scienza e
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PER APPROFONDIRE
la tecnica, con il loro immenso potere utilizzabile per il bene dell’umanità, ma anche per la sua distruzione, non possano più essere ignorate da una Chiesa che si proponga di intrattenere un dialogo con il mondo attuale e si rivolge agli scienziati, esortandoli a usare in modo responsabile le loro capacità.
Il mondo scientifico, ormai divenuto uno dei principali settori dell’attività della società moderna, manifesta anch’esso, alla luce della riflessione e dell’esperienza, l’ampiezza e nel contempo la gravità delle sue responsabilità. La scienza moderna e la tecnica che ne deriva sono diventate un vero potere e sono l’oggetto di politiche o strategie socio-economiche, che non sono neutre per l’avvenire dell’uomo. Signore e Signori, voi che coltivate le scienze, fruite di un potere e di una responsabilità considerevoli, che possono divenire determinanti nell’orientare il mondo di domani. […] Voi sapete che è necessario uno sforzo morale, se si vuole che le risorse scientifiche e tecni-
che di cui dispone il mondo attuale, siano realmente poste al servizio dell’uomo. Cit. da A. Santini, Il caso Galilei. La lunga storia di un “errore”, SEI, Torino 1995
Un ammonimento che, pur con le dovute differenze, può ricordare il discorso attribuito dal drammaturgo tedesco Bertolt Brecht proprio al personaggio di Galileo (➜ VERSO IL NOVECENTO, PAG. 164). La riabilitazione ufficiale di Galileo Nel 1992 la commissione presenta le sue conclusioni, riabilitando completamente lo scienziato toscano. Lo stesso papa ammette gli errori dei teologi controriformisti, che avevano trasposto «indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica», e arriva ad affermare che «paradossalmente, Galileo, sincero credente», si era mostrato «su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi». È significativo che il papa citi in proposito proprio un passo della Lettera a Benedetto Castelli, manifesto galileiano dell’autonomia della scienza: «Se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti».
Sguardo sul cinema Il Galileo di Liliana Cavani Alla figura di Galileo è dedicato anche il film (del 1968) di Liliana Cavani, Galileo, in cui il grande scienziato è visto come un uomo desideroso di dialogare con la Chiesa ma sconfitto dalla rigidità delle istituzioni ecclesiastiche. La figura di Galileo, con i suoi difficili rapporti con la Chiesa, appariva nel 1968 particolarmente attuale: il concilio Vaticano II era da poco terminato e aveva messo in luce la spaccatura tra una parte del mondo ecclesiastico, arroccata sulle proprie posizioni, e un’altra aperta al rinnovamento. La regista non realizza un film puramente biografico, ma inserisce la figura di Galileo nel quadro vivo del dibattito culturale del tempo, facendolo incontrare con altri intellettuali suoi contemporanei: nel film hanno infatti una parte non marginale personaggi storici reali come Paolo Sarpi (che rappresenta la Chiesa più aperta), il filosofo Giordano Bruno, il grande artista Lorenzo Bernini, posti a confronto dialettico con lo scienziato. Inserito in questa rete di rapporti, il protagonista appare come una figura umana colta nella sua complessità, non riducibile a una sola interpretazione. Centrale è, in particolare, il confronto tra Galileo e Giordano Bruno: la coraggiosa sfida del filosofo all’Inquisizione, che lo porterà al martirio del rogo, in nome delle sue idee, e l’accettazione da parte di Galileo dell’autorità della Chiesa istituzionale per non mettere in discussione i capisaldi della fede.
La locandina del film Galileo di Liliana Cavani.
online
Per approfondire Il confronto tra Galileo e Giordano Bruno nel film Galileo di Liliana Cavani
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Una scena tratta da una rappresentazione della Vita di Galileo di Brecht andata in scena a Cleveland nel 2011.
Alceste Santini
D1
L’ultimo interrogatorio di Galileo, la sentenza di condanna e l’abiura Il caso Galilei
A. Santini, Il caso Galilei. La lunga storia di un “errore”, SEI, Torino 1995
D1a
Dopo la pubblicazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi, Galileo venne convocato a Roma per essere interrogato, dato che l’opera contravveniva al divieto di sostenere il copernicanesimo, promulgato dalla Chiesa nel 1616. Il 21 giugno 1633 ebbe luogo l’ultimo interrogatorio di Galileo, verbalizzato dagli inquisitori. Il giorno successivo, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva, fu letta a Galileo la sentenza con cui i giudici lo riconoscevano colpevole di eresia per il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi. Riportiamo uno stralcio dell’interrogatorio conclusivo, la sentenza e la formula dell’abiura.
D.: «Da quando ha sostenuto e sostiene che il sole è il centro del mondo e la terra non lo è e si muove anche di moto diurno?». R.: «Già molto tempo, cioè avanti la determinazione1 della Sacra Congregazione dell’Indice e prima che mi fusse fatto quel precetto2, io stavo indifferente et 5 havevo le due opinioni, cioè di Tolomeo e di Copernico, per disputabili3, perché o l’una o l’altra poteva esser vera in natura; ma dopo la determinazione sopradetta, assicurato dalla prudenza4 de’ superiori, cessò in me ogni ambiguità e tenni, sì come tengo ancora, per verissima ed indubitata l’opinione di Tolomeo, cioè la stabilità della terra et la mobilità del sole». 10 D.: «Dal libro, però, si presume che lei abbia tenuta l’opinione copernicana anche dopo quel tempo». R.: «Circa l’havere scritto il Dialogo già publicato, non mi son mosso perché io tenga vera l’opinione copernicana; ma solamente stimando di fare benefitio5 comune, ho esplicate le raggioni6 naturali et astronomiche che per l’una e 15 per l’altra parte si possono produrre, ingegnandomi di far manifesto come nè quelle, nè per questa opinione né per quella, havessero forza di concludere demostrativamente7, e che perciò per procedere con sicurezza si dovesse ricorrere alla determinatione di più sublimi dottrine8, sì come in molti e molti luoghi di esso Dialogo manifestamente si vede. Concludo dunque dentro di 20 me medesimo, nè tenere nè aver tenuta dopo la determinazione delli superiori la dannata opinione9». D.: «Devo insistere nel fare osservare che dal libro10 e dalle ragioni addotte per il moto della terra si presume che Ella tenga o almeno abbia tenuto l’opinione
1 avanti la determinazione: prima della deliberazione. Galileo si riferisce al decreto del 1616, in cui era stato formalmente vietato di sostenere il copernicanesimo. 2 quel precetto: sembra che Galileo fosse stato allora ammonito in forma privata. 3 per disputabili: tali da poter essere ragionevolmente sostenute entrambe. Galileo afferma che prima del decreto riteneva ugualmente possibili il sistema tolemaico e quello copernicano.
4 prudenza: saggezza. 5 benefitio: beneficio, vantaggio. 6 raggioni: ragioni. 7 demostrativamente: con una dimostrazione sicura.
8 alla… dottrine: alla certezza fornita da dottrine più elevate. Galileo si riferisce alla fede nell’onnipotenza divina, superiore a ogni legge di natura. È una tesi che Galileo era stato obbligato dalla Chiesa a inserire nel trattato, ma che contrasta con
la concezione esposta nella sua lettera a Benedetto Castelli (➜ T2 ) di una natura inderogabile e immutabile nelle sue leggi. 9 la dannata opinione: l’opinione condannata (la teoria copernicana). 10 dal libro: dal Dialogo sopra i due massimi sistemi. L’inquisitore fa notare a Galileo che il Dialogo non è neutrale come lo scienziato vorrebbe sostenere.
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di Copernico. La invito, perciò, a dire la verità, altrimenti saremo costretti, se necessario, a ricorrere anche ai mezzi previsti dalla legge, ossia alla tortura». R.: «Io non tengo nè ho tenuta questa opinione di Copernico dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla; del resto, son qua nelle loro mani, faccino quello che gli piace». D.: «Devo insistere nel ricordare ancora che se non dice la verità, occorre ricorrere alla tortura». 30 R.: «Io son qua per fare l’obedienza11; et non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto». 25
11 fare l’obedienza: obbedire.
D1b
Diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo che tu, Galileo sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo Sant’Offizio vehementemente sospetto di eresia, cioè d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture, che il Sole sia centro della Terra e che non si 5 muova da oriente ad occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo essere stata dichiarata e definita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dei sacri Canoni e altre costituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti che sii 1 2 10 assoluto , pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri maledichi e detesti li sudetti errori ed eresie e qualunque altro errore ed eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data. E acciòcchè3 questo tuo grave e pernicioso errore e trasgressione non resti del tutto impunito, e sii più cauto nell’avvenire e esempio all’altri che si astenghino da simili 15 delitti, ordiniamo che per pubblico editto sia proibito il libro de’ Dialoghi di Galileo Galilei. […]
1 siamo contenti che sii assoluto: ti concederemo l’assoluzione.
D1c
2 avanti di: davanti a. 3 acciòcchè: acciocché, affinché.
Io Galileo, figlio del q. Vinc.o1 Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, costituito personalmente in giudizio2, e inginocchiato avanti di voi Emin. e Rev.3 Cardinali, in tutta la Repubblica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori4; avendo davanti agli occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che 5 ho sempre creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene5, predica e insegna la S. Cattolica ed Apostolica Chiesa. Ma perché da questo Sant’Offizio, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso6 giuridicamente intimato che omninamente7 dovessi lasciare la falsa opinione che il sole
1 figlio… Vinc.o: figlio del fu Vincenzo. L’abbreviazione q. sta per quondam (lat. “un tempo”). 2 costituito... giudizio: presentatosi di persona al giudizio. 3 Emin. e Rev.: Eminenti e Reverendi.
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4 in tutta... Inquisitori: inquisitori generali in tutta la Repubblica cristiana contro la malvagità degli eretici. 5 tiene: crede, ritiene vero. 6 con… istesso: con un’ammonizione dallo stesso Sant’Uffizio. Il riferimento è
all’ammonizione ricevuta in forma privata anni prima da Galileo. 7 omninamente: completamente, del tutto.
sia centro del mondo e che non si muova e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere nè insegnare in qualsivoglia modo, nè in voce nè in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata8 ed apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa9, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato vehementemente 15 sospetto di eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e immobile e che la Terra non sia centro e che si muova. Pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.10 e d’ogni fedel Cristiano questa vehemente sospitione11, giustamente di me concepita con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori ed eresie […] 20 Io Galileo Galilei sodetto12 ho abiurato, giurato e promesso e mi sono obbligato come sopra; ed in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritto la presente cedola13 di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. 10
8 dannata: soggetta a un giudizio di condanna. 9 un libro… essa: il Dialogo.
10 V.: Vostre. 11 questa vehemente sospitione: questo
12 sodetto: suddetto, sopra nominato. 13 cedola: documento.
forte sospetto.
Concetti chiave Galileo rinuncia al dialogo con la Chiesa
Il verbalecc D1a ) documenta l’ultimo interrogatorio dello scienziato presso la Congregazione del Sant’Uffizio, prima che fosse emessa la condanna. L’intenzione di Galileo appare chiara: non cerca più un dialogo con gli interlocutori ecclesiastici, avendo evidentemente compreso come ogni tentativo di affermare la propria verità in quel tribunale fosse inutile. Erano ormai lontani i tempi delle Lettere copernicane, e della fiducia di poter dialogare con la Chiesa sul rapporto tra scienza e fede. L’atteggiamento di Galileo si discosta nettamente da quello del filosofo Giordano Bruno, che aveva tentato fino all’ultimo di sostenere le proprie ragioni, rifiutandosi di abiurare, e affrontando la condanna a morte. Da quel rogo erano ormai trascorsi trentatré anni, e l’inquisizione non aveva certo mitigato il proprio rigore: nessuno poteva dunque più illudersi che i giudici avrebbero potuto accettare tesi condannate come eretiche. Galileo assume dunque un atteggiamento pragmatico, ripetendo, per quanto sia contrario all’evidenza, che il suo Dialogo non è copernicano. Gli inquisitori potranno così soltanto imputargli (e farglielo pronunciare nella formula di abiura) di aver apportato «con molta efficacia» ragioni a favore della teoria copernicana.
La difficile scelta dello scienziato
Che cosa pensare della scelta di Galileo di abiurare? Fu dettata dall’amore per la scienza, e dal proposito di salvare la vita per continuare le ricerche, come poi in effetti avvenne? O da scrupoli religiosi? O dal timore della tortura (di cui fu effettivamente minacciato, come risulta dal verbale) e della condanna capitale? O da tutte queste ragioni insieme? E ancora: Galileo, che per tutta la vita combatte per una scienza libera, trova nell’abiura la sua sconfitta? La questione è centrale nel dramma Vita di Galileo dello scrittore novecentesco Bertolt Brecht (➜ VERSO IL NOVECENTO, PAG. 164), che proprio sul significato dell’abiura fonda l’attualità della figura di Galileo, da lui interpretata come emblema del complesso rapporto tra scienziato e potere. Di certo – come ricorda Alceste Santini, esperto vaticanista – «in forza di quell’atto ingiusto scaturito da un processo concepito e condotto in quell’orizzonte ristretto in cui si muoveva la Chiesa, Galileo è divenuto “un caso” della storia moderna e contemporanea».
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Durante l’interrogatorio (➜ D1a ) quale minaccia riceve Galileo? A che cosa sarebbe ricorso il tribunale se Galileo non avesse detto la verità? 2. Qual è l’accusa che si rivolge a Galileo? 3. In che modo Galileo può ottenere l’assoluzione? ANALISI 4. Che cosa vuol dire l’espressione «ordiniamo che per pubblico editto sia proibito il libro de’ Dialoghi di Galileo Galilei» (➜ D1b , rr. 15-16)?
Interpretare
COMPETENZA DIGITALE 5. Fai una ricerca sul tribunale dell’Inquisizione: quando nasce, in quale periodo opera, quali erano i suoi scopi e quali personaggi illustri subirono condanne dal medesimo tribunale.
Joseph-Nicolas RobertFleury, Galileo di fronte al Sant’Uffizio, olio su tela, 1847 (Parigi, Musée du Louvre).
4 La fiducia nella ragione e la fondazione del metodo scientifico Uno scienziato in lotta per il progresso Galileo si trovò a vivere in un’epoca molto complessa, in cui avvenne, anche grazie alla sua opera, una transizione tra un mondo, un modello di sapere secolare e nuove prospettive nell’indagine della natura e dell’universo, che non potevano non sgomentare, anche perché implicitamente mettevano in discussione l’autorità assoluta della Chiesa, che nell’età controriformistica era impegnata a ribadire con ogni mezzo il proprio ruolo nella società e nella cultura. Proprio con la Chiesa, che pure avrebbe voluto avere come alleata forte nella diffusione di un nuovo sapere scientifico, Galileo si trovò inevitabilmente in conflitto e alla fine ne fu sconfitto. Ma per la maggior parte della sua vita e della sua attività di scienziato, non mancò mai di sperare nella possibilità di conquistare, grazie alla fiducia nella ragione e nelle indiscutibili verità scientifiche che andava scoprendo, l’alleanza della Chiesa e l’adesione di essa alla causa del progresso.
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Il metodo sperimentale Di fatto quello che urtava e preoccupava le autorità culturali tradizionali erano le asserzioni di Galileo riguardo al metodo della ricerca, che scuotevano le fondamenta di tutta una tradizione secolare, fondata sul principio di autorità e sul dogmatismo. Per Galileo non esiste corretta indagine che abbia pretese di scientificità senza il ricorso all’esperienza sensibile: alla base per la nuova scienza vi è sempre l’osservazione diretta dei fenomeni naturali, che si traduce nella formulazione di ipotesi, che vanno poi verificate attraverso esperimenti finalizzati per arrivare alla definizione di leggi espresse in linguaggio matematico. Galileo credeva infatti che il “libro della natura” fosse scritto in caratteri matematici (➜ PER APPROFONDIRE Un’immagine chiave: il libro della natura, PAG. 155).
Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto, Allegoria della vista, 1615 ca. (Città del Messico, Museo Franz Mayer).
Il metodo scientifico sperimentale di Galileo individuazione di un fenomeno da studiare
osservazione diretta dei fenomeni così come li percepiscono i sensi
valutazione razionale dei dati emersi dall’osservazione e formulazione di un’ipotesi Il “nuovo” metodo si articola in: verifica sperimentale dell’ipotesi attraverso altre esperienze
rielaborazione dei dati raccolti sulla base di modelli matematici
formulazione di una teoria che spiega il fenomeno e ha validità generale
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2 Galileo scienziato-scrittore
Uno scienziato accolto nel canone letterario Galileo, fin dal periodo della sua formazione, ha interessi eclettici: non dedica il suo tempo soltanto agli studi scientifici, ma coltiva anche la musica, il disegno e la letteratura; legge e annota i classici greci e latini, e gli autori italiani, fra i quali predilige Dante e soprattutto Ariosto. Grazie a tale tirocinio, Galileo acquisisce le qualità letterarie (e le competenze retoriche) che gli permetteranno di interessare un vasto pubblico, divulgando in modo accattivante, ma anche con estrema chiarezza, le sue scoperte scientifiche e la sua innovativa visione del sapere. Proprio per la straordinaria qualità della sua scrittura, come ricorda Maria Luisa Altieri Biagi, Galileo è uno dei pochi scienziati che siano stati accolti nel canone dei maggiori autori della letteratura italiana (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Galileo, grande scrittore, PAG. 156). Non è un caso che la sua prosa abbia affascinato Giacomo Leopardi il quale, curando un’antologia della prosa italiana per l’editore milanese Stella, include ben 17 testi di Galileo e che Italo Calvino, a sua volta scrittore appassionato di scienza, abbia ammirato e considerato un modello il modo di scrivere di Galileo, che aveva definito il più grande scrittore italiano di ogni secolo.
1 Il Sidereus Nuncius La prima opera pubblicata da Galileo (1610), con cui si presenta autorevolmente alla comunità scientifica, è il Sidereus Nuncius, scritto in latino: una sorta di puntuale rendiconto in cui lo scienziato riferisce, nell’ordine sequenziale in cui le ha compiute, le importanti osservazioni astronomiche dovute all’impiego del cannocchiale. Dopo aver illustrato la costruzione del prezioso strumento tecnico, innanzitutto descrive la conformazione irregolare della superficie della Luna, in cui si rivelano monti e avvallamenti, non diversi da quelli terrestri, quindi illustra la scoperta che la Via Lattea non è una nebulosa, ma è costituita da un numero incredibile di stelle, e infine l’identificazione dei quattro satelliti di Giove, da lui ribattezzati “medicei” in onore di Cosimo II de’ Medici.
Il primo pittore che offre una rappresentazione del cielo riconducibile alla descrizione del Sidereus Nuncius è il tedesco Adam Elsheimer (15781610). Nella sua Fuga in Egitto, dipinta a Roma nel 1609 (Alte Pinakothek, Monaco), il pittore, che aveva probabilmente avuto notizia delle scoperte di Galileo nell’ambiente scientifico romano e aveva forse egli stesso effettuato osservazioni astronomiche con il cannocchiale, dipinge la Via Lattea come un agglomerato di stelle e rappresenta con precisione le macchie lunari. Adam Elsheimer, Fuga in Egitto, 1609, (Monaco, Alte Pinakothek).
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Galileo Galilei
T1
Non esiste differenza tra terra e cielo
LEGGERE LE EMOZIONI
Sidereus Nuncius G. Galilei, Sidereus Nuncius, a c. di A. Battistini, Marsilio, Venezia 1993
In questo passo Galileo esprime la sua emozione per lo spettacolo straordinario della volta celeste, che egli ha potuto contemplare per primo ma che può rivelarsi agli occhi di tutti grazie alla straordinaria invenzione del telescopio.
Grandi invero sono le cose che in questo breve trattato io propongo alla visione e alla contemplazione degli studiosi della natura. Grandi, dico, sia per l’eccellenza della materia per sé stessa, sia per la novità loro non mai udita in tutti i tempi trascorsi, sia anche per lo strumento1, in virtù del quale quelle cose medesime si 5 sono rese manifeste al senso nostro. Gran cosa è certo l’aggiungere, sopra la numerosa moltitudine delle Stelle fisse che fino ai nostri giorni si son potute scorgere con la naturale facoltà visiva, altre innumerevoli Stelle non mai scorte prima d’ora, ed esporle apertamente alla vista in numero più che dieci volte maggiore di quelle antiche e già note. 10 Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare, da noi remoto per quasi sessanta semidiametri2 terrestri, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure; sicché il suo diametro apparisca quasi trenta volte maggiore, la superficie quasi novecento, il volume poi approssimativamente ventisettemila volte più grande di quanto sia veduto ad occhio nudo: e quindi, con 15 la certezza che è data dall’esperienza sensibile3, si possa apprendere non essere affatto la Luna rivestita di superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e, allo stesso modo della faccia della Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di profonde valli e di anfratti4. Di più, l’aver rimosso le controversie riguardo alla Galassia, o Via Lattea, con l’aver 20 manifestato al senso, oltre che all’intelletto, l’essenza sua non è da ritenersi, mi pare, cosa di poco conto; come anche il mostrare direttamente essere la sostanza di quelle Stelle, che fin qui gli Astronomi hanno chiamato Nebulose, di gran lunga diversa da quel che fu creduto finora, sarà cosa molto bella e interessante. Ma quello che supera di gran lunga ogni immaginazione, e che principalmente ci 25 ha spinto a farne avvertiti tutti gli Astronomi e Filosofi5, è l’aver noi appunto scoperto quattro Stelle erranti6, da nessun altro prima di noi conosciute né osservate, le quali, a somiglianza di Venere e di Mercurio intorno al Sole, hanno lor propri periodi7 intorno a una certa Stella principale8 del numero di quelle conosciute, e ora la precedono, or la seguono, senza mai allontanarsi da essa fuor dei loro limiti 30 determinati. Le quali cose furono tutte da me ritrovate e osservate or non è molto, mediante un occhiale che io escogitai, illuminato prima dalla divina grazia. […]
1 lo strumento: il cannocchiale. 2 semidiametri: raggi. 3 la certezza… esperienza sensibile: la certezza data dall’esperienza dei sensi (la vista, potenziata dal cannocchiale).
4 anfratti: profondi affossamenti di un terreno roccioso. 5 farne...Filosofi: farle conoscere a tutti gli astronomi e i filosofi della natura.
6 Stelle erranti: astri in movimento, ovvero i satelliti di Giove.
7 lor propri periodi: le loro specifiche orbite.
8 Stella principale: Giove.
Galileo scienziato-scrittore 2 147
Analisi del testo Galileo, grande comunicatore: il lessico “della meraviglia” Il Sidereus Nuncius è scritto da Galileo in latino (ne abbiamo presentato un passo in traduzione italiana). In seguito, nelle successive opere, lo scienziato utilizzerà il toscano, con una scelta radicalmente innovativa, dettata dall’intento di comunicare le novità scientifiche a un pubblico più largo. Tuttavia, anche dal trattato latino si possono già arguire le non comuni capacità comunicative di Galileo. Prima di tutto, lo scienziato sottolinea l’importanza delle sue osservazioni, sia per l’oggetto della ricerca (l’universo), sia per le straordinarie novità scoperte, sia per l’utilizzo di uno strumento (il cannocchiale) capace di moltiplicare enormemente la potenza dello sguardo. A tal fine, Galileo impiega uno stile che da una parte richiama quello barocco, in particolare per il lessico della “meraviglia” e le espressioni volte a sottolineare l’eccezionalità dello spettacolo offerto dal cannocchiale («la novità loro non mai udita in tutti i tempi trascorsi», «innumerevoli Stelle non mai scorte prima d’ora») evidenziate da figure retoriche come l’anafora dell’aggettivo grande a introduzione delle tre frasi iniziali.
Lo stile dell’esattezza scientifica Tuttavia, per altri aspetti il linguaggio di Galileo è molto distante dallo stile barocco, perché caratterizzato da una rigorosa argomentazione e dalla precisione della descrizione degli oggetti e dei fenomeni osservati. Lo scienziato indica con chiarezza e precisione, e con l’ausilio di dati numerici, quanto la vista potenziata dal cannocchiale superi quella a occhio nudo, e fa comprendere al lettore l’importanza decisiva dello strumento per porre fine a controversie nate dall’imperfetta testimonianza dei sensi, come quella sulla natura della Via Lattea, e quella sulla materia dei corpi celesti. Il cannocchiale aveva infatti rivelato come tali corpi fossero simili alla terra, mettendo definitivamente in crisi uno dei presupposti fondamentali della teoria aristotelica: la radicale diversità della materia terrestre da quella celeste, erroneamente creduta eterna e incorruttibile, diversità considerata un presupposto certo e incontrovertibile della concezione dell’universo.
Il riferimento alla Grazia divina Seppur consapevole della portata rivoluzionaria delle proprie scoperte, Galileo mantiene un atteggiamento prudente: cerca di conquistarsi il favore della Chiesa attribuendo la scoperta a un’illuminazione della Grazia divina ed evita di sottolineare in modo esplicito come la scoperta che la Luna è di una materia affine a quella terrestre demolisca uno dei pilastri della cosmologia aristotelico-tolemaica, confermando quindi indirettamente la teoria copernicana.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Perché le osservazioni effettuate da Galileo con il cannocchiale mutarono la percezione dell’universo dei suoi contemporanei? LESSICO 2. Individua i termini relativi al lessico della meraviglia e le espressioni che, invece, mostrano la precisione scientifica dello scritto di Galileo. Quale rapporto si può istituire tra i due campi semantici?
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Spiega e commenta in un breve testo argomentativo (max 20 righe) questa affermazione di Galilei, facendo l’opportuna contestualizzazione: «Le quali cose furono tutte da me ritrovate e osservate or non è molto, mediante un occhiale che io escogitai, illuminato prima dalla divina grazia». SCRITTURA 4. Nel brano ben si coglie l’entusiasmo e lo stupore di Galileo nell’aver scoperto, grazie all’uso del suo canocchiale, nuovi mondi. Pensi che tali emozioni siano condivisibili? Considerando anche altri campi, quali scoperte degli ultimi anni secondo te possono aver suscitato lo stesso entusiasmo e lo stesso stupore? Ti è mai capitato di vivere un’esperienza simile? Se sì, per che cosa o in quale occasione? Come ti sei sentito?
148 Seicento 3 Galileo Galilei
2 Le Lettere copernicane Un manifesto per l’autonomia della scienza Tutte le opere di Galileo, che dopo il Sidereus Nuncius (➜ T1 ) adotta il volgare per rivolgersi a un più largo pubblico, sono animate da un intento comunicativo e persuasivo. Tale carattere è già evidente nelle quattro Lettere copernicane (scritte nel periodo successivo al trasferimento a Firenze, tra il 1613 e il 1615), che possono essere considerate un manifesto per l’autonomia della scienza. Sono indirizzate a diversi personaggi, ma la vera destinataria è la Chiesa, che Galileo avrebbe voluto indurre a una maggiore apertura alle novità in campo scientifico. Non è perciò un caso che tre lettere siano dirette a religiosi: la prima e la più importante, del 1613, indirizzata a padre Benedetto Castelli, discepolo e amico di Galileo, matematico all’università di Pisa, e le due successive a monsignor Pietro Dini, un ecclesiastico influente nella curia romana. L’ultima, del 1615, è diretta alla granduchessa di Toscana Cristina di Lorena e riprende le tesi già esposte nelle precedenti, ma con un carattere più ufficiale e uno stile più elaborato retoricamente. Nel periodo in cui scrive le Lettere copernicane Galileo è ormai pienamente convinto della verità dell’ipotesi copernicana. Uomo di fede sincera, era desideroso di convincerne le alte sfere della Chiesa, ma non ignorava certo le difficoltà che si frapponevano al suo progetto. Sceglie così di affidare la sua opinione su un punto nodale e molto delicato, cioè il rapporto tra verità scientifica e Sacre scritture, alla forma epistolare. Quest’ultima, dato il suo carattere privato e informale, avrebbe forse potuto eludere la censura. D’altra parte Galileo sperava che i suoi tre interlocutori, una volta convinti dalle sue argomentazioni, avrebbero divulgato tra gli uomini di cultura le sue osservazioni. Così fu: la circolazione delle lettere, agevolata dalla scelta della lingua volgare, fu molto estesa. Ma quanto all’esito, le speranze di Galileo andarono ben presto deluse. Il rapporto tra scienza e Sacre Scritture Nella Lettera a Benedetto Castelli, la prima e più importante delle Lettere copernicane, Galileo difende la teoria eliocentrica dall’accusa di essere in contrasto con la Bibbia, e più precisamente con un passo del Libro di Giosuè (10, 12) secondo cui Dio, per prolungare la durata del giorno e consentire a Giosuè di battere i suoi nemici, avrebbe fermato il sole. Secondo il testo biblico dunque, il Sole sarebbe stato in movimento, come da sempre si credeva secondo il sistema tolemaico geocentrico. Come scienziato e come credente, Galileo affronta su un piano più generale il rapporto tra Sacre Scritture e ricerca scientifica, respingendo la tesi che la Bibbia possa essere utilizzata come autorità indiscussa anche quando si affrontano temi scientifici. (➜ T2 ).
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T2
Galileo Galilei
Il rapporto tra scienza e Sacre Scritture Lettera a Benedetto Castelli
G. Galilei, Lettera a Benedetto Castelli, in Opere, a c. di F. Flora, Ricciardi, MilanoNapoli 1953
La Lettera a Benedetto Castelli, del 1613, prima delle Lettere copernicane, è incentrata sul rapporto tra verità scientifica e verità rivelata nella Bibbia. Galileo si rivolge a Benedetto Castelli, un religioso suo amico, che durante una discussione tenuta alla corte del granduca di Toscana aveva difeso la teoria copernicana contro un interlocutore che la condannava, perché in contrasto con la Bibbia. Galileo sostiene con pacate argomentazioni l’autonomia delle due sfere: le rivelazioni delle verità di fede nelle Sacre Scritture rispetto alla conoscenza dei fenomeni della natura che l’uomo può studiare e acquisire con i metodi della scienza. Galileo scienziato-scrittore 2 149
[...] I particolari che ella disse, referitimi dal signor Arrighetti1, m’hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa ’l portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali2, ed alcun’altre in particolare sopra ’l luogo di Giosuè, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del Sole3, 5 dalla Gran Duchessa Madre4, con qualche replica della Serenissima Arciduchessa5. Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto6 da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra7, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti8 d’assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, 10 potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori9, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato10 delle parole, perché così vi apparirebbono11 non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare12 a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e 15 umani13, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione14 delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso15 delle parole, hanno aspetto16 diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa17 per accomodarsi all’incapacità del vulgo18, così per quei pochi che meritano d’essere separati dalla plebe è necessario che i 20 saggi espositori produchino i veri sensi19, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti20. Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole21, mi par che nelle dispute naturali22 ella dovrebbe essere riserbata nell’ultimo luogo; 25 perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura23, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima24 esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto25; ma, all’incontro26, essendo la natura inesorabile27 e 30 immutabile e nulla curante28 che le sue recondite29 ragioni e modi d’operare sieno
1 Arrighetti: Niccolò Arrighetti, fiorentino, riferì a Galileo la discussione sulla teoria copernicana a cui Castelli aveva partecipato, tenuta alla corte del granduca di Toscana. 2 in dispute… naturali: in discussioni su questioni riguardanti la natura. 3 sopra… Sole: sul passo di Giosuè, citato come prova contraria al movimento della Terra e alla fissità del Sole. Nel passo biblico del libro di Giosuè, 10, 12-13, Giosuè chiede al Signore di far fermare il Sole finché non si fosse vendicato dei suoi nemici. Secondo il testo biblico, la richiesta fu esaudita: «E il sole si fermò in mezzo al cielo». 4 Gran Duchessa Madre: è la madre del granduca Cosimo II, la granduchessa Cristina di Lorena; poi Madama Serenissima. 5 Serenissima Arciduchessa: Maria Maddalena d’Austria. 6 prudentissimamente fusse proposto: fosse stato affermato saggiamente. 7 dalla Paternità Vostra: da don Benedet-
150 Seicento 3 Galileo Galilei
to Castelli, a cui Galileo si rivolge.
8 i suoi decreti: le sue affermazioni. 9 interpreti ed espositori: interpreti e commentatori. Galileo afferma che la Bibbia non può sbagliare, ma possono sbagliare i suoi interpreti. 10 nel puro significato: al significato letterale. 11 apparirebbono: apparirebbero. 12 dare: attribuire. 13 non meno… e umani: anche passioni legate alla natura corporea degli uomini. 14 anco… l’obblivione: anche talvolta la dimenticanza. 15 al nudo senso: al senso letterale. 16 aspetto: apparenza. 17 in cotal guisa: in tal modo. 18 per accomodarsi… vulgo: per adattarsi alla ristretta capacità di comprensione delle persone incolte. 19 produchino i veri sensi: spieghino il senso reale.
20 n’additino… profferiti: indichino le particolari ragioni per cui il senso vero sia stato celato sotto un’espressione allegorica. 21 è non solamente… parole: non solo può, ma necessariamente deve essere spiegata in modo diverso dal significato letterale. 22 naturali: sulla natura. 23 procedendo… natura: poiché la Bibbia e la natura derivano entrambe da Dio. 24 osservantissima: precisissima. 25 essendo… vero assoluto: poiché nelle Scritture, per adattarsi alla capacità di intendere della gente comune, è risultato necessario dire cose diverse dalla verità assoluta, sia nelle immagini, sia nelle parole. 26 all’incontro: al contrario. 27 inesorabile: rigidamente vincolata da leggi. 28 nulla curante: indifferente. 29 recondite: nascoste.
o non sieno esposti alla capacità de gli uomini30, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare31 che quello de gli effetti naturali32 che o la sensata esperienza33 ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio34 per luoghi 35 della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante35, poi che non ogni detto della scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto36, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati37, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare38 de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, 40 chi vorrà asseverantemente39 sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto40, nel parlare anco incidentemente41 di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto42 di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? […] Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi43, è ofizio44 de’ saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi 45 sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri45. […]
30 esposti… uomini: comprensibili agli uomini. 31 pare: appare evidente. Introduce la conclusione del ragionamento. 32 quello… naturali: quei fenomeni naturali. 33 sensata esperienza: esperienza dei sensi. 34 non debba… in dubbio: non debba in alcun conto essere messo in dubbio. 35 sembiante: significato apparente.
36 rispetto: motivo. 37 d’accomodarsi… indisciplinati: di adattarsi alla capacità di popoli rozzi e incolti. 38 d’adombrare: di esporre in modo oscuro e allusivo. 39 asseverantemente: con convinzione. 40 posto… rispetto: trascurata questa accortezza. 41 anco incidentemente: anche di passaggio. 42 eletto: scelto.
43 contrariarsi: essere in contraddizione. 44 ofizio: dovere. 45 affaticarsi… sicuri: impegnarsi per comprendere il vero senso dei passi della Scrittura, (in modo tale) che possa concordare con quelle verità della scienza di cui in precedenza l’evidenza dei sensi o la necessità delle dimostrazioni ci avessero resi del tutto sicuri.
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La tesi fondamentale della lettera è che avevano torto i teologi i quali, come prova contro la teoria copernicana, citavano il passo biblico di Giosuè in cui Dio fa fermare il Sole. Secondo Galileo, infatti, la Bibbia non ha alcun valore nei dibattiti di natura scientifica, poiché presenta alcune verità in forma semplificata e allegorica per adattarsi alla limitata cultura dell’antico popolo ebraico: ad esempio, attribuisce a Dio forma corporea, passioni umane («d’ira, di pentimento, d’odio»), e persino, in contraddizione con l’onniscienza divina, dimenticanza delle cose passate e ignoranza di quelle future. 1. Indica le eresie che secondo Galileo scaturirebbero da una lettura letterale della Bibbia. A Dio si attribuirebbero, infatti,.... Non è quindi ragionevole leggere la Sacra Scrittura come se fosse un trattato scientifico. Alla Bibbia Galileo oppone la natura, che, derivando anch’essa da Dio, opera secondo leggi certe e rigorose. Perciò, egli argomenta, se le verità della scienza possono servire a interpretare correttamente la Bibbia, non può avvenire l’inverso. D’altra parte, lo scopo delle Scritture non è fornire un’informazione scientifica, ma un insegnamento morale e religioso: come Galileo affermerà nella Lettera alla granduchessa Cristina di Lorena, la Bibbia insegna «come si vadia [vada] al cielo, e non come vadia il cielo». La lettera è un esempio di chiara ed efficace argomentazione. Come prevede la retorica classica, si apre con un breve sommario degli argomenti poi successivamente trattati, detto divisio (rr. 1-5),
Galileo scienziato-scrittore 2 151
che delinea una divisione in due parti: una prima più generale, dedicata al rapporto tra Sacre Scritture e scienza, e una seconda dedicata in modo più specifico al passo biblico di Giosuè in cui Dio ordina al sole di fermarsi. 2. Sintetizza in una frase i successivi punti dell’argomentazione: «Quanto alla prima domanda… profferiti» (rr. 6-21) «Stante, dunque, che la Scrittura…. natura» (rr. 22-36) «Anzi, se per questo solo rispetto… parole?» (rr. 36-42) «Stante questo… sicuri» (rr. 43-46) Lo stile è caratterizzato dalla chiarezza e dalla consequenzialità. Predomina l’ipotassi e lo sviluppo dell’argomentazione è rigorosamente scandito da nessi logici come nondimeno, poi che, Onde, dunque. Vengono, inoltre, spesso adottate forme verbali di significato impersonale (non poter, è necessario, non debba, è offizio) che evidenziano il carattere di rigorosa necessità del ragionamento. 3. Sottolinea i principali nessi logici, individuando i tipi di frase che ne dipendono e i rapporti che stabiliscono tra i concetti collegati. Alla chiarezza argomentativa contribuisce un’altra caratteristica dello stile di Galileo (messa in luce dalla Lessico tema/rema In linguistica con rema si intende la parte di un enunciato o di una serie di enunciati che aggiunge informazioni a ciò di cui si parla e che è già noto (tema).
studiosa Maria Luisa Altieri Biagi) (➜ PER APPROFONDIRE Galileo, grande scrittore, PAG. 156): l’abitudine a suddividere i paragrafi in due sezioni complementari, rispettivamente dedicate al tema e al rema . La prima, introdotta nel passo proposto da espressioni come stante (rr. 22, 43), o «per questo solo rispetto» (r. 37), riassume quanto è già noto al lettore (il tema), la seconda presenta gli elementi nuovi dell’argomentazione (il rema). Ad esempio:
«Anzi, se per questo solo rispetto, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, (tema) chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole?» (rema) 4. Individua nella lettera altri esempi di questo tipo di struttura argomentativa. Per quanto riguarda il lessico, nella lettera ricorrono termini che, riferiti alla natura, sottolineano come essa sia sottoposta a leggi inderogabili e precise (inesorabile, immutabile, «non trasgredisce mai»). La ricorrenza di tale campo semantico evidenzia la distanza dalla visione medievale, per la quale il miracoloso si intreccia di continuo con la realtà quotidiana; si distanzia però anche dalla concezione della magia rinascimentale nella quale il mago, con le sue capacità straordinarie, può sovvertire il normale andamento della natura. L’immagine di una natura «indifferente», caratterizzata da leggi immutabili, sarà alla base della concezione moderna ed eserciterà suggestioni profonde sul modo di pensare il mondo: basti considerare un autore come Leopardi. 5. Riporta i passi in cui emerge l’immagine di una natura «indifferente» e costante nelle sue leggi.
Interpretare
6. Galileo propone alcuni princìpi per l’interpretazione del testo biblico: quali aspetti della Bibbia mette in luce? Quali conseguenze ne fa derivare? 7. Sintetizza le differenze che, secondo Galileo, sussistono tra l’interpretazione della Bibbia e quella dei fenomeni naturali. 8. Nei casi in cui emerga una contraddizione tra le scoperte scientifiche e la Bibbia, secondo Galileo, chi può meglio capire quale sia la verità: gli scienziati o i teologi? Per quali ragioni? Perché questo risultava difficilmente accettabile per la Chiesa del tempo? 9. Indica altri casi a te noti, oltre al copernicanesimo, in cui le scoperte scientifiche si siano rivelate in contrasto con un’interpretazione letterale del testo biblico, suscitando riserve e polemiche.
152 Seicento 3 Galileo Galilei
3 Il Saggiatore Un fondamentale “discorso sul metodo” Il coraggioso tentativo delle Lettere copernicane fallisce: nel 1616 la Chiesa promulga un decreto che vieta di sostenere la teoria copernicana; di conseguenza, per un certo tempo, Galileo rinuncia alla difesa di questa posizione, ma nel frattempo attende ad altre opere importanti, come Il Saggiatore. Il Saggiatore, scritto tra il 1621 e il 1622, è pubblicato nel 1623, nell’anno in cui viene eletto papa Urbano VIII (a cui l’opera è dedicata), che aveva mostrato di apprezzare l’opera di Galileo e che rappresentava l’ala più aperta della Chiesa. L’elezione del nuovo pontefice creò dunque negli intellettuali e negli uomini di scienza un clima di fiduciosa speranza. Il Saggiatore trae spunto da una polemica di Galileo con l’astronomo gesuita Orazio Grassi. Nel 1618 erano apparse tre comete: sia Grassi, sia Galileo cercarono, con due brevi scritti, di interpretare il fenomeno. Grassi, con lo pseudonimo di Lotario Sarsi, ribadisce le sue idee nel testo Libra astronomica et philosophica, nel quale, riflettendo sulla natura delle comete, attacca la visione astronomica di Galileo. Quest’ultimo risponde con Il Saggiatore, provocatorio già nel titolo: alla Libra (che significa “bilancia”) di Grassi, di cui vengono citati ampi passi, Galileo contrappone il “saggiatore”, un bilancino di precisione utilizzato dagli orefici per “saggiare”, cioè pesare l’oro e altri metalli preziosi: nel trattato diviene simbolo del metodo scientifico, preciso e rigoroso. Nell’opera – e si tratta di una prospettiva del tutto innovativa – Galileo prospetta un ordine naturale fondato su regole matematiche e geometriche. Secondo lo scienziato, matematica e geometria rendono finalmente possibile leggere il “libro dell’universo” senza rischiare di perdersi in un oscuro labirinto; nella sua ricerca, lo scienziato è guidato non più dal rispetto dell’auctoritas ma dall’indagine sperimentale, che sola può fornirgli misure e dati quantitativi (➜ T3 ). Il fatto che sulle comete Galileo sostenga una tesi erronea (riteneva infatti si trattasse di un’illusione ottica), nulla toglie al valore fondamentale dell’opera, esemplare per chiarezza e costruzione logico-argomentativa, e in più, proprio perché intende rivolgersi a un pubblico vasto ed eterogeneo, scritta in volgare: una scelta rivoluzionaria in una trattazione scientifico-filosofica, usualmente in latino. Non solo: come avviene anche in altre opere, Galileo ricorre spesso all’uso di aneddoti e di brevi narrazioni per suscitare l’interesse del lettore: giustamente celebre è nel Saggiatore l’apologo sull’origine dei suoni (➜ T4 OL), impiegato per affermare esemplarmente il ruolo della ricerca sperimentale, ma al contempo il carattere sempre in divenire della conoscenza.
La critica del metodo tradizionale le Sacre Scritture non vanno intese alla lettera quando toccano fenomeni naturali o questioni Galileo, contro il metodo tradizionale, sostiene che
le affermazioni di Aristotele non sono da prendersi in considerazione se vanno contro l’esperienza
Galileo scienziato-scrittore 2 153
Galileo Galilei
L’universo è un libro scritto in caratteri matematici
T3
Il Saggiatore Nel passo, tratto dal Saggiatore (1623), Galileo contrappone agli scritti di Aristotele un ben diverso libro, l’universo, che può essere letto direttamente e senza intermediari da chi ne possieda il codice, fondato sulla matematica e sulla geometria.
G. Galilei, Il Saggiatore, a c. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1992
AUDIOLETTURA
Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi1 ferma credenza2, che nel filosofare3 sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro4, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, 5 come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, 10 e i caratteri5 son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi6 è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
1 Sarsi: è lo pseudonimo adottato dal gesuita Orazio Grassi, che aveva polemizzato contro Galileo con la Libra astronomica ac philosophica, a cui Galileo risponde con Il Saggiatore.
2 ferma credenza: salda certezza. 3 filosofare: ricercare la verità. 4 non… altro: non si appoggiasse al ragionamento di un altro (metafora).
5 i caratteri: gli elementi del linguaggio della natura. 6 mezi: mezzi. Matematica e geometria sono gli strumenti per comprendere le leggi della natura.
Analisi del testo Un nuovo modo di fare e pensare la scienza Lo scritto può essere considerato come un manifesto del nuovo metodo scientifico di Galileo, di un nuovo modo di indagare la natura e di pensare la scienza, in aperta polemica con quello della tradizione aristotelica. Galileo combatte l’autoritarismo degli aristotelici che, anziché applicarsi allo studio del «libro» dell’universo «che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi», si appoggiano al sapere precostituito dei libri del loro filosofo di riferimento; si oppone al loro dogmatismo in nome di una ricerca continua basata sull’applicazione della matematica alla fisica. Ed è questo che forse rappresenta, ancor più delle sue scoperte astronomiche, il contributo fondamentale dato allo sviluppo del pensiero scientifico moderno.
Lo stile Assai significativo è inoltre, come si può notare anche da questo breve passo, lo stile incisivo impiegato da Galileo per sostenere le sue opinioni, che certo i lettori del tempo potevano meglio apprezzare, perché contrapposto ai paludati passi in latino di Grassi/Sarsi, inseriti nel testo del Saggiatore e discussi puntualmente da Galileo. Lo scienziato espone le proprie idee in modo chiaro e semplice, ma utilizza anche suggestive metafore, come quella dell’«oscuro laberinto» in cui si è costretti ad aggirarsi se non si conosce il codice matematico, l’unico con cui poter interpretare il libro dell’universo.
154 Seicento 3 Galileo Galilei
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Che cosa sostiene Galileo a proposito della matematica e della geometria? 2. Che cosa rappresenta, nel testo, l’immagine del labirinto? 3. Qual è la differenza evidenziata da Galileo tra i libri di Omero e quelli di Aristotele? STILE 4 Qual è la metafora centrale del brano? Che cosa vuole sottolineare l’autore con l’uso di questa metafora?
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Per quali aspetti il testo inaugura una mentalità scientifica moderna? Motiva la tua risposta.
Studiare con l’immagine Esposizione orale 6. Osserva Il geografo (1668) del pittore olandese Jan Vermeer (1632-1675). Quale elemento del quadro suggerisce una concezione dell’esplorazione della natura che potrebbe ricordare quella del Saggiatore? IMMAGINE INTERATTIVA
Jan Vermeer, Il geografo, olio su tela, 1668 (Francoforte sul Meno, Städelsches Kunstinstitut).
online T4 Galileo Galilei
PER APPROFONDIRE
All’origine dei suoni Il Saggiatore
Un’immagine chiave: il libro della natura La metafora del “libro del mondo” Come ricorda Italo Calvino, un’immagine chiave dell’opera di Galileo è quella del libro della natura. È un’immagine che ha una lunga storia nella letteratura, poiché «raccoglie in sé, nei suoi vari sensi, il variare di una visione del mondo e del sapere» (E. Garin). Nel suo saggio La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, il filosofo tedesco Hans Blumenberg (1920-1996) evidenzia come la metafora del libro sia impiegata quando si voglia evidenziare nella natura un carattere di totalità, di unità onnicomprensiva, al di là della dispersione dei singoli fenomeni. Ma il carattere di tale unità varia nelle diverse epoche. Nel Medioevo, ad esempio, il libro della natura è specchio della realtà ultraterrena, è un’opera scritta da Dio per illuminare gli uomini sulle realtà metafisiche. Il “libro dell’universo” vs i libri autorevoli Anche per Galileo il libro della natura è scritto da Dio, ma non rimanda più a una realtà ultraterrena. Piuttosto, l’immagine assume una connotazione polemica, perché la lettura del libro del mondo è contrapposta a quella indiretta, desunta da libri che hanno il valore di auctoritates: Aristotele e la Bibbia. Dopo Galileo, l’immagine del libro del mondo ricorrerà in vari autori per
evidenziare la contrapposizione tra l’universo chiuso dei libri e quello aperto della realtà. Il codice matematico del “libro dell’universo” Un altro aspetto importante sono i caratteri in cui il libro della natura è scritto: per Galileo non sono più i simboli medievali, né i misteriosi geroglifici dei maghi e degli alchimisti, ma «triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche», ossia un sistema razionale e univoco di segni. Anche il lettore del libro del mondo è mutato: non è più, come nel Medioevo, l’uomo religioso, ma lo scienziato, il solo che ne possiede la chiave interpretativa: la matematica e la geometria, senza cui l’universo non è che un «oscuro laberinto», nel quale dunque, ci si aggira senza poterne comprendere nulla.
Testi di riferimento: E. Garin, La nuova scienza e il simbolo del “libro”, in La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1992 (ora Bompiani, Milano 2001); H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 2009; I. Calvino, Il libro della natura in Galileo, in Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1995, pp. 90-97.
Galileo scienziato-scrittore 2 155
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Maria Luisa Altieri Biagi Galileo, grande scrittore M.L. Altieri Biagi, Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo Galilei, in LIE, Le opere, II, CinquecentoSettecento, Einaudi, Torino 1993
Maria Luisa Altieri Biagi (1930-2017), importante linguista e storica della lingua, evidenzia il rapporto tra l’organizzazione del pensiero galileiano e quella del suo discorso, per mettere in luce le qualità dello stile di uno scienziato entrato nel canone dei grandi della letteratura italiana.
Galileo è uno dei pochi scienziati che abbiano costantemente attirato l’attenzione di letterati e di critici; uno dei pochissimi che – sia pure con criteri ispirati al prelievo antologico – siano stati accolti nel canone letterario e quindi entrati a far parte dell’enciclopedia mentale dell’uomo di cultura media. […] 5 L’elemento comune ai giudizi positivi e a quelli negativi che – nel corso di trecentocinquant’anni – sono stati espressi su Galileo scrittore sembra essere il rilievo di un perfetto equilibrio statico della sua prosa. Da tale equilibrio la maggioranza dei lettori ha tratto un’impressione di chiarezza, precisione, limpidezza, eleganza, copia, purità, luminosa evidenza. […] [A queste caratteristiche la studiosa aggiunge la semplificazione, di cui precisa il significato.]
A questo punto è opportuno […] chiarire che cosa esattamente si intenda per semplificazione della struttura sintattica. Il periodo di Galileo è infatti, di norma, tutt’altro che semplice. Fra le definizioni che la prosa galileiana ha prodotto, passando per i circuiti mentali dei diversi lettori nelle diverse epoche, compaiono spesso quelle di «chiarezza», di «evidenza», di «efficacia», di «eleganza», perfino 15 quella di «naturalezza»; mai – se il ricordo è esatto – di semplicità. La sintassi galileiana è fortemente ipotattica, anche se episodicamente disponibile alla coordinazione, all’accelerazione dei ritmi, perfino a quello stile “spezzato” (periodi di una sola frase, o comunque fortemente segmentati da una punteggiatura di tipo emotivo1) che pure è una delle manifestazioni caratteristiche del secolo. […] 20 Nonostante questi contro-esempi2, l’«equilibrio» della prosa galileiana si affida di solito e principalmente alla perfetta coerenza logica e coesione linguistica con cui le molte unità ospitate nel periodo sono gerarchicamente strutturate e saldate fra loro. Sicché, parlando di mezzi che producono la semplificazione, intendiamo quelli che consentono al periodo galileiano di rimanere lucido e lineare nonostante 25 la forte complessità della sua struttura. La linearità di cui si tratta è quella che emerge come nitida e ben stagliata dorsale da un complesso sistema orografico3. Come ottiene, lo scrittore, questo risultato? Si potrebbe dire che […] il ramo principale del periodo conserva la sua portata, senza depauperarsi4 in rivoli o ristagnare nelle numerose anse. È l’organizzazione gerarchica delle unità interne al periodo 10
1 di tipo emotivo: che cerca di esprimere attraverso i segni della punteggiatura anche aspetti legati a emozioni e impressioni. 2 contro-esempi: esempi che sembrano
156 Seicento 3 Galileo Galilei
smentire quanto affermato.
3 La linearità… sistema orografico: la linearità nell’articolata struttura prosastica di Galileo è paragonata dalla studiosa al crinale, alla linea di rilievo (dorsale)
delle cime di un complesso sistema montuoso (orografico). 4 depauperarsi: impoverirsi, indebolirsi.
(corrispettivo linguistico di una disciplina mentale abituata a graduare l’importanza degli argomenti, a discernere l’essenziale dall’accessorio) che consente il fluire maestoso del discorso e del pensiero. La sensazione di pesantezza che alcuni lettori hanno provato, nel leggere la prosa galileiana, dipende forse dal fatto che la straordinaria capacità di programmazione 35 sintattica del periodo, da parte dell’autore, esige un’altrettanto sviluppata capacità di attenzione e di memorizzazione da parte del lettore. La prosa di Galileo non tollera una lettura di tipo intuitivo né una ricezione frettolosa, distratta. La mediazione intellettuale – sempre indispensabile, anche per testi specificamente letterari – deve essere massima in rapporto a una scrittura tutt’altro che neutra dal punto 40 di vista emotivo, ma che filtra razionalmente, con calviniana «esattezza»5, anche le componenti affettive e passionali. […] Si può concludere che l’evidenza, la chiarezza, l’eleganza, l’efficacia della prosa galileiana sono il risultato di scelte attentamente calibrate: c’è un’“officina” linguistica che Galileo frequenta non meno di quella meccanica, anche se poi il risultato 45 non rivela fatica, e l’effetto può essere quello della «naturalezza» […]. 30
5 calviniana «esattezza»: l’esattezza è una delle caratteristiche costante-
mente ricercate anche nella scrittura di Italo Calvino (ed oggetto delle sue
riflessioni in una delle Lezioni americane, 1985).
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprendere e analizzare Produzione
1. Quale elemento comune caratterizza i giudizi espressi su Galileo scrittore? 2. Quale tipo di sintassi utilizza Galileo? 3. Che cosa nello stile di Galileo può essere ricondotto al secolo in cui vive? 4. Definisci gli aspetti che connotano lo stile di Galilei e che, a giudizio di Calvino, ne fanno «il più grande scrittore della letteratura italiana d’ogni secolo». Quale rapporto si instaura fra sintassi e organizzazione del pensiero? Sintetizza i dati raccolti in un breve testo (max 15 righe).
4 Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano
VIDEOLEZIONE
Il manifesto di una nuova ottica culturale Il capolavoro di Galileo (a causa del quale fu processato e costretto all’abiura) è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, pubblicato nel 1632. Come ricorda il filosofo della scienza Ludovico Geymonat (1908-1991), il Dialogo (una «comedia filosofica» secondo un’efficace definizione di Tommaso Campanella) non è tanto un trattato scientifico, quanto un «manifesto diretto a rinnovare la cultura», finalizzato a distruggere i pregiudizi e le abitudini mentali consolidate da una lunga tradizione di pensiero, fondata sull’aristotelismo e sull’ossequio al principio di autorità. L’opera ebbe enorme successo, ma, già pochi mesi dopo la pubblicazione, la Chiesa impone il ritiro delle copie in circolazione e Galileo viene convocato a Roma dal Sant’Uffizio. Ne seguirà il processo e l’umiliante abiura. La ripresa del dialogo umanistico e l’ambientazione veneziana In pieno Seicento, adattandolo ai temi nuovi e attuali della rivoluzione scientifica, Galileo riprende il dialogo di tipo umanistico, evidenziando così la continuità della nuova scienza con la cultura del Rinascimento e con i suoi valori: apertura, tolleranza, libero confronto. Galileo scienziato-scrittore 2 157
La discussione libera e pacata del Dialogo, serenamente rivolta alla ricerca della verità, è ambientata, secondo le consuetudini del dialogo umanistico, in un luogo reale: il palazzo di Giovanfrancesco Sagredo, affacciato sul Canal Grande a Venezia, nello stato in cui Galileo (ormai da anni a Firenze) aveva trascorso anni sereni e proficui nell’insegnamento padovano, in un clima culturale aperto e tollerante, per quanto l’epoca lo consentiva. La struttura e i temi del Dialogo Nelle quattro giornate della discussione il sistema aristotelico è attaccato dalle fondamenta, a cominciare dalla distinzione tra il mondo terrestre, corruttibile, e quello celeste, immutabile, argomento del primo libro. Il secondo e il terzo libro sono volti a confutare rispettivamente le obiezioni contro il moto di rotazione della terra intorno al proprio asse e contro il movimento annuo della terra intorno al Sole; il quarto e ultimo libro è dedicato al fenomeno delle maree, che Galileo erroneamente riteneva prova del movimento terrestre. Frequenti, e particolarmente importanti, sono gli enunciati metodologici inframezzati alla trattazione scientifica dei vari temi. Una caratterizzazione dei personaggi non neutrale Secondo una tradizione propria dei dialoghi classici e rinascimentali, Galileo fa rivivere nella sua opera personaggi reali morti da tempo, introducendo come interlocutori due suoi carissimi amici ormai non più in vita, il nobile veneziano Giovanfrancesco Sagredo (1571-1620), uomo attivo e impegnato nella politica della Repubblica, e il fiorentino Filippo Salviati (1582-1614), che era stato Accademico dei Lincei. I due personaggi, come ha osservato Calvino in una delle Lezioni americane, raffigurano «due diverse sfaccettature del temperamento di Galilei»: Salviati «è il ragionatore metodologicamente rigoroso, che procede lentamente e con prudenza» e a lui sono affidate nel Dialogo le esposizioni più “tecniche”, ma anche il “discorso sul metodo”, la distinzione tra Aristotele, grande filosofo, e gli aristotelici, suoi mediocri seguaci; Sagredo, dilettante nella scienza, rappresenta la curiosità, l’apertura mentale, lo spirito pratico: capace, grazie alla velocità del suo pensiero, di comprendere immediatamente le novità del sistema copernicano esposte da Salviati, se ne fa entusiastico sostenitore, suggerendo ingegnose nuove applicazioni. L’aristotelico Simplicio è invece un personaggio di invenzione. Il suo nome, ispirato a quello di un antico commentatore di Aristotele, denota un’intenzione ironica: Simplicio è l’interprete, erudito ma ingenuo, di una visione semplice dell’universo, opposta alla complessità che di giorno in giorno la scienza andava rivelando. Galileo ne fa impietosamente un personaggio quasi comico, perdente rispetto alla spietata razionalità degli altri due interlocutori.
Antiporta (la pagine che precede il frontespizio) della prima edizione del Dialogo sopra i due massimi sistemi.
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Per approfondire Il sistema dei personaggi come chiave di lettura del Dialogo sopra i due massimi sistemi
Il copernicanesimo del Dialogo Galileo era stato costretto dal decreto anticopernicano del 1616 a presentare il Dialogo come una disamina imparziale dei due sistemi, tolemaico e copernicano (da qui il titolo), ma già il Proemio, in cui la disposizione che proibiva la diffusione delle idee copernicana da parte della Chiesa è definita «salutifero editto» con evidente tono ironico, mostra la posizione dell’autore in merito. Il sistema dei personaggi attivi nel dialogo rivela poi, senza possibilità di dubbio, l’adesione di Galileo al copernicanesimo. A ogni lettore appare infatti evidente la superiorità dei due fautori delle teorie copernicane, Sagredo e Salviati: diversi, come si è detto, nella cultura e nel carattere, sono accomunati da quella libera ricerca della verità, senza pregiudizi di sorta, che per Galileo è propria non soltanto degli scienziati, ma di tutti gli uomini colti; esce invece sminuito dal confronto l’aristotelico Simplicio che, tentato dall’aperto «mar del vero», se ne ritrae ogni volta, atterrito dai precetti dei religiosi e dall’autorità di Aristotele. Fu proprio la caratterizzazione dei personaggi a suscitare la reazione dell’Inquisizione: in particolare era apparso provocatorio che, alla fine del Dialogo, Galileo facesse pronunciare al più limitato degli interlocutori (appunto Simplicio) la professione di superiorità della fede sulla scienza che gli era stata espressamente richiesta per consentire la pubblicazione dell’opera. Lo stile Per questa sua opera, che considerava assai importante, Galileo sceglie un linguaggio informale, a volte vicino al parlato, anche se sempre elegante, per rendere l’idea di una reale conversazione tra persone colte: una scelta motivata dal desiderio di comunicare le idee scientifiche a un nuovo pubblico, interessato alle novità della scienza, sottraendole all’ambito ristretto dei dotti e alle aule universitarie. Il prevalente ricorso, sul piano sintattico, alla subordinazione, necessario a rendere la complessità dei problemi trattati, non produce nel lettore un senso di pesantezza, perché domina la prosa galileiana la vocazione alla chiarezza e alla coerente enunciazione dei concetti.
Galileo Galilei: le opere Opere in latino
Opere in volgare
Lettere copernicane 1613-1615 Sidereus nuncius 1610 Il Saggiatore 1623 Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano 1632
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Analisi passo dopo passo
T5
Galileo Galilei
La critica dell’ipse dixit Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano
G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, a c. di L. Sosio, Einaudi, Torino 1970
In questo famoso passo, posto all’inizio della seconda giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi, Simplicio si dichiara affascinato dalle novità scientifiche emerse nel dibattito del giorno precedente; ma è restio ad accettarle, perché non osa mettere in dubbio l’autorità di Aristotele. La sua ingenua dichiarazione suscita l’ilarità di Sagredo, che ricorda un episodio analogo a cui aveva personalmente assistito, quando un aristotelico, seguace del cosiddetto ipse dixit, aveva rifiutato di accettare una dimostrazione anatomica vista coi suoi stessi occhi, perché contrastava con quanto il filosofo aveva affermato. Lo scienziato Salviati trae spunto dai due esempi per proporre un importante discorso metodologico, in cui contrappone i princìpi della ricerca scientifica sperimentale, realizzata da chi «ha gli occhi nella fronte e nella mente», al «mondo di carta» delle citazioni libresche. L’esortazione ad abbandonare i pregiudizi scolastici, per leggere i sempre nuovi e affascinanti insegnamenti del “libro della natura”, è costante nell’opera di Galileo, di cui rappresenta un vero e proprio filo conduttore.
SIMP. Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri1, e veramente trovo di molte2 belle nuove e gagliarde3 considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer4 assai più dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare...5 Voi scotete la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io 5 dicessi qualche grande esorbitanza6. SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori7, perché mi avete fatto sovvenire8 di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili 10 amici miei, i quali vi potrei ancora nominare. SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non continuasse di creder d’avervi esso mosse le risa. SAGR. Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico9 molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per 15 curiosità, convenivano10 tal volta a veder qualche taglio di notomia11 per mano di uno veramente non men dotto che
Per contestare il ricorso al principio di autorità nelle questioni scientifiche, Galileo mette in scena una situazione da commedia, orchestrando sapientemente il gioco delle parti tra i personaggi. L’aristotelico Simplicio, incerto se prestare fede a tesi che gli apparirebbero decisamente convincenti, se non fossero in contrasto con i testi di Aristotele, appare comico, e suscita perciò l’ilarità del nobile veneziano Sagredo. La scena è presentata con vivacità: mentre Simplicio sta per pronunciare il venerato nome di Aristotele, è interrotto dalla mimica di Sagredo che, impaziente per l’atteggiamento ostinato e ottuso dell’interlocutore, trattiene a stento le risa.
Prototipo del dilettante curioso in ogni ambito del sapere, Sagredo ricorda di aver assistito a una dissezione anatomica, che aveva mostrato inequivocabilmente come i nervi prendano origine dal cervello e non dal cuore, come aveva creduto Aristotele e come si ostinavano a sostenere gli aristotelici troppo rispettosi del principio dell’ipse dixit. Ai lettori secenteschi del Dialogo, il nesso tra anatomia e astronomia risultava evidente, dato che in pochi anni entrambe le discipline avevano subìto un’analoga rivoluzione metodologica: proprio nel 1543, l’anno della pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, era stato pubblicato anche il trattato De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, anatomista fiammingo che aveva insegnato a Padova, in cui si dava un’impostazione scientifica alla disciplina. 1 ruminando le cose di ieri: rimuginando, continuando a meditare le cose discusse ieri (nella prima giornata del Dialogo). 2 di molte: molte. 3 gagliarde: valide, convincenti. 4 stringer: vincolare, costringere. 5 in particolare…: Simplicio sta per cita-
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re Aristotele, ma è trattenuto dal sorriso sarcastico di Sagredo. L’ellissi del discorso di Simplicio conferisce vivacità alla scena e contribuisce a caratterizzare i due personaggi, mostrando l’abilità letteraria di Galileo. 6 esorbitanza: sciocchezza.
7 crediatemi… maggiori: credetemi (quando dico) che scoppio nello sforzarmi di trattenere maggiori risa. 8 sovvenire: ricordare. 9 in casa un medico: in casa di un medico. 10 convenivano: si radunavano. 11 taglio di notomia: dissezione anatomi-
diligente e pratico12 notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti13 ed i 20 peripatetici14; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo15 de i nervi si andava poi distendendo per la spinale16 e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe17 arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva 25 per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore18; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé19, rispose: «Voi mi avete fatto 30 veder questa cosa talmente aperta e sensata20, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario21, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera». 35 SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell’origine de i nervi non è miga così smaltita22 e decisa come forse alcuno si persuade. SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori23; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a così sensata 40 esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit24. […] SIMP. Io credo, e in parte so, che non mancano al mondo de’ cervelli molto stravaganti, le vanità25 de’ quali non dovrebbero ridondare in pregiudizio d’Aristotile26, del quale mi par che voi 45 parliate talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e ’l gran nome27 che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati, dovrebbe bastar a renderlo riguardevole28 appresso di tutti i letterati.
ca; più avanti notomista, “anatomista”. 12 non men… pratico: non meno esperto che scrupoloso e abile. 13 galenisti: seguaci del medico e filosofo greco Galeno (129-200 ca); sostenevano correttamente che il sistema nervoso ha origine dal cervello, mentre Aristotele riteneva erroneamente si sviluppasse dal cuore. 14 i peripatetici: i seguaci di Aristotele. 15 ceppo: fascio. 16 la spinale: la spina dorsale. 17 refe: filo resistente, ottenuto accoppiando due filati di lino, canapa o altra fibra.
18 s’ei… cuore: se egli era sicuro e convinto che i nervi si dipartono dal cervello e non dal cuore. 19 doppo… sopra di sé: dopo aver riflettuto alquanto. 20 aperta e sensata: chiara e percepibile con i sensi. 21 quando… contrario: se il testo di Aristotele non affermasse il contrario. 22 non è… smaltita: non è affatto così risolta. 23 Né sarà… contradditori: né lo sarà mai sicuramente, se si abbiano avversari di questo genere (che, anziché essere convinti da
Alla parte dedicata al resoconto della sensata esperienza segue un altro scambio di battute “da commedia”, in cui, con leggerezza comica, si delinea il contrasto tra la mentalità moderna di Sagredo, insofferente del medievale principio di autorità, e quella di Simplicio, vincolato dall’antichità e dalla fama al rispetto per Aristotele e incapace di andare oltre l’ipse dixit. Il dialogo evidenzia la perfetta padronanza della lingua e dello stile di Galileo: agli scambi dialogici rapidi e incisivi della prima parte succede, nel passo in cui Sagredo descrive la dissezione anatomica, un discorso articolato in periodi dalla complessa struttura ipotattica, sempre però agile e funzionale allo scopo. Il racconto, preciso e circostanziato, mantiene sospesa l’attenzione del lettore grazie a una struttura sintattica definita da Maria Luisa Altieri Biagi «a piramide rovesciata»: la reggente gli domandò, nella parte conclusiva del paragrafo, è infatti anticipata da una serie di subordinate, che forniscono le circostanze utili a illuminare ogni aspetto della situazione descritta, per consentire di trarne le dovute conclusioni.
una dimostrazione sperimentale, continuano ad anteporle l’autorità di Aristotele). 24 ipse dixit: egli stesso (Aristotele) lo ha detto. Famosa espressione con cui gli aristotelici invocavano l’autorità del maestro per risolvere ogni disputa. 25 vanità: sciocchezze. 26 non dovrebbero… Aristotile: non dovrebbero ricadere a danno di Aristotele. 27 nome: fama. Simplicio sostiene il principio dell’auctoritas: le tesi di Aristotele si dovrebbero accettare per la sua antichità e per la sua autorevolezza. 28 riguardevole: degno di rispetto.
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SALV. Il fatto non cammina così, signor Simplicio: sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi29, che danno occasione, o, per dir meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo applaudere alle loro leggereze30. E voi, ditemi in grazia, sete così semplice31 che non intendiate 55 che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor che lo voleva far autor32 del telescopio, si sarebbe molto più alterato33 contro di lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano? Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ 60 non fusse per mutar opinione34 e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine35, discacciando36 da sé quei così poveretti di cervello37 che troppo pusillanimamente s’inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, 65 sarebbe un cervello indocile38, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie39, un voler tirannico40, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide41, volesse che i suoi decreti42 fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e 70 non esso che se la sia usurpata o presa; e perché43 è più facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che ’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile44, vogliono impertinentemente45 negar quelle che veggono 75 nel cielo della natura. […] SIMPL. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta46 nella filosofia? nominate voi qualche autore. SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti47 e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di gui80 da; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente48, di quelli si ha da servire per iscorta49. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo50 il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda51 in maniera che alla cieca si sottoscriva a 50
29 pusillanimi: timorosi (della verità). 30 applaudere… leggereze: acconsentire alle loro sciocchezze.
31 sete… semplice: siete così ingenuo. 32 autor: inventore. 33 alterato: adirato. 34 e’ non fusse… opinione: non avrebbe mutato opinione.
35 per emendar… dottrine: non avrebbe corretto i suoi libri e non si sarebbe accostato a dottrine più attente alla testimonianza dei sensi. 36 discacciando: scacciando.
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37 poveretti di cervello: stolti, privi di cervello (sono gli aristotelici). 38 un cervello indocile: una mente refrattaria a ogni argomento razionale. 39 un animo... barbarie: un animo rozzo e primitivo. 40 un voler tirannico: una volontà dispotica. 41 stolide: stupide. 42 i suoi decreti: le sue affermazioni. 43 perché: dato che. 44 piú tosto… Aristotile: piuttosto che introdurre qualche variante nelle conce-
Con l’appassionato intervento di Salviati, il discorso si eleva dai casi concreti a un livello teorico. Il passaggio dal registro comico iniziale allo stile alto e solenne del monito di Salviati, reso veemente e incisivo dal succedersi delle interrogative retoriche, sottolinea l’importanza del “discorso sul metodo” che Galileo qui formula per bocca del suo portavoce. Emerge la capacità dello scienziato-scrittore di creare immagini incisive, che si imprimono con forza nella mente del lettore, come quella degli aristotelici, paragonati a «pecore stolide» che, anziché proseguire nella ricerca sulla natura, accettano in modo acritico e passivo tutte le conclusioni di Aristotele. Il monologo di Salviati si incentra sul problema del metodo: per lui (e per Galileo) essere scienziato significa essere attento osservatore della realtà, non subire il freno di un’autorità libresca, ma possedere «occhi nella fronte e nella mente». Con questa espressione Galileo sottolinea non solo l’importanza dei sensi, e in particolare della vista, per l’indagine scientifica, ma anche la necessità che le esperienze sensibili siano guidate dalla riflessione teorica e da leggi generali di interpretazione. Nel Dialogo emerge così con il contrasto fra due idee della verità: una la considera fissata per sempre negli scritti di Aristotele, l’altra la ritiene figlia del tempo; una la cerca nel mondo sensibile, l’altra in un mondo di carta.
zioni cosmologiche di Aristotele. 45 impertinentemente: in modo sfacciato, con sciocca insolenza. 46 scorta: guida. 47 incogniti: sconosciuti. 48 ha gli occhi… mente: espressiva ed efficacissima metafora, che afferma che “sa osservare con gli occhi e riflettere con la mente”. 49 si ha da servire per iscorta: si deve servire come guida. 50 laudo: lodo, apprezzo. 51 biasimo… in preda: disapprovo il fatto di farsi preda (della sua dottrina).
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ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione52, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine53 estremo, ed è che altri non si applica54 più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili55 uscir un di traverso56 con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito57, e con esso serrar58 la bocca all’avversario. Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago59 infinito, del quale in tutt’oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile60, e non sopra un mondo di carta.
52 ragione: dimostrazione. 53 disordine: modo di procedere errato. 54 altri non s’applica: alcuni non si impegnano. 55 conclusioni dimostrabili: teorie che è possibile dimostrare. 56 un di traverso: a sproposito. 57 e bene… proposito: e molto spesso scritto con tutt’altro intento. 58 serrar: chiudere. 59 pelago: mare (latinismo). 60 sensibile: esperito, testimoniato dai sensi.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza l’episodio narrato da Sagredo; spiegane il significato e il rapporto con l’intento del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano. COMPRENSIONE 2. Spiega che cosa si intende con l’espressione latina ipse dixit. 3. Quali critiche Salviati rivolge a Simplicio? ANALISI 4. Indica le caratteristiche dei personaggi del Dialogo che emergono nel passo. STILE 5. Nel testo ci sono alcune metafore riferite alla scienza. Individuale e spiegane il significato. 6. Che cosa indica la similitudine delle «pecore stolide»? A chi si riferisce?
Interpretare
SCRITTURA 7. Metti a confronto le opinioni di Simplicio, Sagredo e Salviati sul principio di autorità (max 15 righe). SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Spiega in che senso la polemica di Galileo è rivolta non contro Aristotele ma contro gli aristotelici. 9. Spiega quale idea della scienza emerge dalle parole di Salviati. TESTI A CONFRONTO 10. La figura di Simplicio viene presentata da Galileo in modo quasi caricaturale, perché riflette una visione medievale del mondo. Il suo modo di ragionare, anacronistico e ridicolo nel Seicento, sarebbe stato perfettamente legittimo qualche secolo prima. Prova a confrontare la sua visione della cultura con quella di un intellettuale medievale come Dante. LETTERATURA E NOI 11. Galileo polemizza contro chi, come Simplicio, nel discutere si affida alle citazioni autorevoli più che alla forza intrinseca dei ragionamenti. Ritieni che tale mentalità sia superata o che invece ne restino ancora tracce nel mondo attuale? Sai proporre qualche esempio?
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VERSO IL NOVECENTO
La Vita di Galileo di Bertolt Brecht Il “caso Galileo”: paradigma della responsabilità etica e del rapporto tra scienziato e potere Lo scontro di Galileo con la Chiesa mette in luce il problema del rapporto tra scienza e potere. Problema che oggi appare sempre più complesso, dati gli sviluppi della scienza precedentemente inimmaginabili (come le armi atomiche, l’ingegneria genetica o le biotecnologie). In questa prospettiva la vicenda di Galileo è sorprendentemente attuale e la sua figura, paradigmatica per il Novecento tecnologico, ha ispirato e continua tutt’oggi a ispirare opere letterarie, teatrali e cinematografiche. Il Galileo di Bertolt Brecht Una lettura fortemente “attualizzante” (e ideologicamente connotata) del personaggio dello scienziato e della sua vicenda è già stata proposta verso la fine degli anni Trenta del secolo scorso dal drammaturgo tedesco Bertolt Brecht (1898-1956) in una delle sue opere teatrali più significative: la Vita di Galileo. Del testo brechtiano esistono diverse, successive, versioni; le principali sono quella scritta durante il periodo nazista, tra il 1938 e il 1939, e quella composta negli Stati Uniti tra il 1945 e il 1947, dopo lo scoppio della bomba atomica di Hiroshima, quando emerse ancor più drammaticamente la responsabilità etica degli scienziati. Il primo Galileo: l’intellettuale oppresso da un potere tirannico In entrambe le versioni della Vita di Galileo il tema centrale è quello del rapporto tra lo scienziato e il potere. Nella prima versione dell’opera, scritta durante il periodo nazista, la scelta di Galileo di cedere all’Inquisizione e di pronunciare l’abiura è vista da Brecht positivamente, perché consente allo scienziato di sopravvivere e di portare avanti la sua ricerca: la morale del dramma – secondo lo storico della letteratura tedesca Ladislao Mittner – «potrebbe essere contenuta nell’affermazione di Andrea [Andrea Sarti, discepolo di Galileo] che è meglio avere le mani macchiate che le mani vuote». Costretto ad abbandonare la Germania per continuare in esilio la sua battaglia contro il nazismo, Brecht si identifica
con Galileo e ne trae un’indicazione di comportamento per gli intellettuali sotto un regime tirannico: evitare il “bel gesto” individuale e sacrificare qualcosa sul piano dei valori ideali per continuare a svolgere un’azione concreta e pragmatica, che contribuisca a sconfiggere l’avversario. Perciò ad Andrea che, dopo l’abiura, gli rinfaccia il cedimento (poco eroico) all’Inquisizione (scena XIII): «Sventurata la terra che non ha eroi!», Galileo ribatte: «No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi». Il secondo Galileo e la responsabilità etica degli scienziati Nell’estate del 1945 viene lanciata la prima bomba atomica su Hiroshima. Brecht annota nel suo Diario di lavoro: «La bomba atomica ha effettivamente trasformato i rapporti fra società e scienza in una questione di vita e di morte». E allora il drammaturgo ritorna al suo personaggio secondo una nuova ottica: Galileo non gli interessa più come intellettuale ma come scienziato. La sua figura acquista perciò nuove connotazioni e diviene simbolo del “peccato originale” degli scienziati, asserviti alle pressioni dei potenti; ora la sua abiura appare a Brecht come una prefigurazione dell’atteggiamento arrendevole verso il potere dei moderni scienziati atomici, della loro colpevole indifferenza morale di fronte all’uso delle loro scoperte. Brecht inserisce perciò verso la conclusione dell’opera un monologo, divenuto famoso, in cui Galileo pronuncia una severa autocritica per aver ceduto al potere tirannico dell’Inquisizione, vedendo nella sua ritrattazione una sconfitta non soltanto personale, ma della scienza. Un testo teatrale di successo La Vita di Galileo, considerata ancor oggi un testo di grande attualità, è stata spesso portata sulla scena teatrale: ricordiamo, in Italia, l’allestimento del Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler, con Tino Buazzelli; quello, del 2007, di Antonio Calenda, sempre al Teatro Strehler, con Franco Branciaroli; quello del 2015 diretto e interpretato da Gabriele Lavia. Nel 1973 dal testo di Brecht fu tratto un film, Galileo, del regista statunitense Joseph Losey.
Bertolt Brecht «Siamo come intrappolati dentro» Vita di Galileo, scena I B. Brecht, Vita di Galileo, in I capolavori, a c. di H. Riediger, vol. II, Einaudi, Torino 1998
La scena iniziale della Vita di Galileo presenta in poche battute i temi principali dell’opera: il copernicanesimo come nuova visione del mondo, la speranza in una nuova età di progresso e di libertà, la complessa figura di Galileo e il contesto sociale e culturale che lo circonda.
I. Galileo Galilei, docente di matematiche a Padova, cerca le prove del nuovo sistema cosmico di Copernico. Nell’anno milleseicentonove splendé chiara la luce della scienza da una piccola casa di Padova. Galileo Galilei accertò coi suoi calcoli che il sole sta fermo e la terra si muove.
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Stanza di lavoro, miseramente arredata, di Galileo a Padova. È il mattino. Un ragazzetto, Andrea, figlio della governante, entra recando un bicchiere di latte e un panino. GALILEO (si lava a torso nudo, sbuffando allegramente) Posa il latte sul tavolo, ma non chiudermi i libri. ANDREA La mamma ha detto che c’è da pagare il lattaio. Sennò quello, tra poco, girerà al largo della nostra casa, signor Galileo. GALILEO Di’ meglio: descriverà un cerchio intorno a noi. ANDREA Come volete. Se non paghiamo, descriverà un cerchio intorno a noi, signor Galileo. GALILEO E invece il signor Cambione, l’usciere giudiziario, viene qui dritto: dunque, che linea sceglie fra due punti? ANDREA (con un ghignetto) La piú corta. GALILEO Bravo. Ho qualcosa da mostrarti. Guarda dietro quelle mappe stellari. Da dietro le mappe Andrea tira fuori un grande modello in legno del sistema tolemaico ANDREA Cos’è? GALILEO Un astrolabio: un aggeggio che fa vedere come si muovono gli astri intorno alla terra, secondo l’opinione degli antichi. ANDREA E come? GALILEO Esaminiamolo. Cominciamo dal principio: descrizione. ANDREA In mezzo c’è un sassolino. GALILEO È la terra. ANDREA Tutt’intorno, una sopra l’altra, delle calotte. GALILEO Quante? ANDREA Otto. GALILEO Sono le sfere di cristallo. ANDREA Alle calotte sono attaccate delle palline... GALILEO Le costellazioni. ANDREA E qui ci sono dei nastri, con dipinte sopra delle parole. GALILEO Che parole? ANDREA I nomi degli astri. GALILEO Per esempio? ANDREA La pallina piú in basso è la luna; c’è scritto su. Quella sopra, il sole. GALILEO Avanti, fa’ muovere il sole. ANDREA (muove le calotte) Bello. Ma noi siamo come intrappolati dentro. GALILEO (asciugandosi) Già. Anche a me, la prima volta che lo vidi, fece lo stesso effetto. A certi, lo fa. (Getta la salvietta ad Andrea perché gli asciughi le spalle) Muri e calotte: ogni cosa immobile! Per duemila anni l’umanità ha creduto che il sole e tutte le costellazioni celesti le girassero attorno. Il Papa, i cardinali, i principi, gli scienziati e condottieri, mercanti, pescivendole e scolaretti hanno creduto di starsene immobili dentro questa calotta di cristallo. Ma ora ne stiamo uscendo fuori, Andrea, e sarà un grande viaggio. Perché l’evo antico è finito e siamo nella nuova era.
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Galileo, un eroe umano La prima apparizione del protagonista, presentato mentre si lava a torso nudo, sbuffando allegramente, dice già molto del carattere del personaggio: non un filosofo chiuso nel suo studio, ma un uomo vivo e vitale, fatto di materia e di spirito. L’elemento umano, costituito anche di debolezze, condizionerà infatti molte scelte del Galileo brechtiano, compresa l’abiura: tra le motivazioni del cedimento dello scienziato all’Inquisizione, secondo l’interpretazione di Brecht, si dovrebbe prendere in considerazione anche il timore fisico della tortura. Nel passo vengono inoltre messe in evidenza le difficoltà economiche di Galileo: questo elemento, che sarebbe stato tralasciato da molti scrittori come troppo prosaico, viene giustamente sottolineato da Brecht, dato che ebbe in effetti un peso determinante (testimoniato da lettere di Galileo) su alcune scelte dello scienziato, come quella di abbandonare Padova per Firenze. Il personaggio di Andrea Accanto ai numerosi personaggi reali del dramma, il piccolo Andrea, figlio della governante dello scienziato, è una figura di invenzione. Brecht circonda il suo Galileo di popolani, per sottolinearne l’intento di divulgare il più possibile il sapere e per evidenziare il ruolo sociale che la scienza avrebbe potuto assumere, se fosse stata rivolta al bene del popolo e dei più poveri. Nell’opera teatrale Andrea, crescendo, diverrà un allievo di Galileo e lo accompagnerà sino alla fine del dramma, quando metterà in discussione le scelte del suo maestro, assumendo il ruolo di coscienza critica. Con un’invenzione
teatrale di notevole efficacia, nella prima scena Andrea è rappresentato mentre osserva un modellino del sistema tolemaico; lo ammira per la simmetria e la bellezza, ma, con infantile intuizione, osserva: «siamo come intrappolati dentro». Lo scienziato è pienamente d’accordo e gli promette il dischiudersi di un’epoca nuova di progresso e di libertà. Sarà perciò proprio Andrea, dopo l’abiura, a rimproverare a Galileo il tradimento di quell’ideale.
L’attore Tino Buazzelli in uno storico allestimento della Vita di Galileo con la regia di Giorgio Strehler (Piccolo Teatro di Milano, stagione 1962-63).
Fissare i concetti Galileo Galilei Ritratto d’autore 1. Quali studi intraprende il giovane Galileo? Qual è il suo vero interesse? 2. Quale incarico gli viene affidato a Padova? Perché Galileo definisce il suo soggiorno a Padova «i diciotto anni migliori» della sua vita? 3. Perché l’anno 1609 segna una tappa importante nella vita di Galileo? 4. Per quale motivo Galileo viene condannato? Che cosa è costretto a fare? 5. Quale atteggiamento, nel corso della sua vita, Galileo assume nei confronti della Chiesa? Perché si sottomette all’abiura? 6. Quando e grazie a chi Galileo sarà definitivamente riabilitato? Galileo scienziato-scrittore 7. Per quale motivo Galileo adotta come lingua il volgare? 8. Chi è la vera destinataria delle Lettere? 9. Qual è l’intento delle Lettere? 10. Qual è la posizione di Galileo nei confronti della Bibbia? 11. Secondo Galileo grazie a che cosa è possibile esaminare il “libro del mondo”? 12. Qual è il significato del titolo dell’opera Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano? 13. Qual è il tema fondamentale dell’opera? 14. Da che cosa è guidato lo scienziato nella sua ricerca? 15. Con quale scopo Galileo scrive questo trattato? 16. Che cosa rappresentano i tre personaggi protagonisti del trattato? 17. Appare evidente la posizione di Galileo, oppure viene abilmente dissimulata? Motiva la tua risposta. 18. Che cosa apparve provocatorio al tribunale dell’Inquisizione?
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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Galileo Galilei
L’intelligenza umana è simile a quella divina Testo tratto da G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, a c. cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 1970
Dialogo sopra i due massimi sistemi SIMP. O io non sono un di quegli uomini che intendano1, o ’n questo vostro discorso è una manifesta contradizione. Voi tra i maggiori encomii2, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite all’uomo, fatto dalla natura, questo dell’intendere; e poco fa dicevi con Socrate3 che ’l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco la natura abbia inteso il modo 5 di fare un intelletto che intenda. SALV. Molto acutamente opponete4; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive5: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili6, che sono infiniti, l’intender umano è come 10 nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente7, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono 15 le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli8 la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore. 20 SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito. SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità9 o d’ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra10 per 25 esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione11. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente piú 30 eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito12. 1 intendano: comprendono, sono intelligenti. 2 encomii: lodi. 3 con Socrate: riferendoti a Socrate. 4 opponete: sollevate l’obiezione. 5 intensive, o vero extensive: riguardo alla profondità della comprensione (intensive) e riguardo alla sua estensione quan-
titativa, cioè all’ampiezza della conoscenza. 6 moltitudine… intelligibili: gran numero delle cose che si possono conoscere. 7 importa intensivamente: comporta di comprendere pienamente. 8 la cognizione agguagli: la conoscenza uguagli.
9 temerità: sfrontatezza. 10 pigliate ombra: vi insospettiate. 11 equivocazione: equivoco, errore. 12 discorsi… intuito: ragionamenti discorsivi, che implicano diversi passaggi logici, mentre la conoscenza divina è immediata e intuitiva.
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Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.
Comprendere e analizzare
1. Dividi il passo in sequenze, assegnando a ciascuna un titolo e sintetizzandone i contenuti. 2. Riassumi (in 3 righe) l’idea espressa da Salviati sull’intelligenza. 3. Dai un nuovo titolo al brano proposto affinché evidenzi il concetto secondo te più importante. 4. Quale distinzione viene introdotta da Salviati tra intelletto umano e divino? 5. Quale ruolo viene assegnato da Salviati alla matematica e alla geometria? 6. Ricostruisci per punti il procedere logico del ragionamento di Salviati. 7. Come le battute attribuite a Salviati e a Simplicio valgono a caratterizzare le due figure? Quale appare essere il carattere di ciascuno dei due personaggi? Eventualmente puoi fare riferimento alla caratterizzazione complessiva dei due personaggi nell’intero Dialogo.
Interpretazione
Confrontando il passo con altri testi di Galileo da te letti, spiega qual è il ruolo attribuito da Galileo alla matematica e alla geometria, e quale il rapporto fra queste due discipline, il mondo e Dio. Indica l’importanza che il passo del Dialogo assume nell’insieme delle opere di Galilei.
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da E. Garin, Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Laterza, Bari 1980
In verità, una nuova svolta si ebbe in Galileo tra il 1609 e il 1610. Fino a quel momento erano stati in lui dominanti i problemi del moto, in una teoria generale della realtà come materia, di una natura che non inganna né può essere ingannata dalle macchine, perché ha leggi rigorose ed accertabili. La 5 teoria copernicana era stata il fondamento delle nuove coordinate mentali, il suo nuovo orizzonte: aveva costituito quella «rivoluzione» teorica, senza cui a nulla giovano le tecniche, gli strumenti, i dati sperimentali. La costruzione del cannocchiale e, nel gennaio del ’10, la scoperta dei satelliti di Giove, seguita, via via, dalle osservazioni sui tre corpi di Saturno, sulle macchie solari, sulle 10 fasi di Venere, lo portarono in piena cosmologia. La veduta copernicana gli si trasformò da concetto generale in rigorosa integrazione di sensate esperienze e dimostrazioni matematiche. Fu allora, proprio nel punto in cui il copernicanesimo cessò di essere una filosofia di tipo bruniano1, presupposta all’esperienza, e divenne una teoria verificata e progressivamente verificabile, che Galileo fu e 15 si sentì flosofo in senso tutto nuovo: era un filosofo che «vedeva» che il mondo non era quello d’Aristotele, che vedeva «nuovi» cieli. Studioso del movimento, destinato da Dio, come diceva Fra’ Paolo Sarpi2, a definire le leggi universali del moto, pensava di ridurre ad esse tutto il mondo della vita e perfino i fenomeni psichici e gli atti volontari. La conoscenza del reale e le sue guise3 gli si 20 andavano precisando nella reciproca connessione di sensate esperienze e certe 1 di tipo bruninano: che si rifà a Giordano Bruno. Sostenitore delle teorie copernicane, non su basi scientifiche ma filosofiche (Galileo semplicemente “sapeva”, mentre Bruno “credeva”), Giordano Bruno pensava che l’universo fosse infinito, in quanto manifestazione di Dio, di un Dio però che non è trascendente, ma che
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è nel mondo, presente in tutto. Anche per questa sua posizione circa l’immanenza di Dio, Bruno fu considerato un eretico e, non accettando di abiurare, venne arso sul rogo. 2 Fra’ Paolo Sarpi: uomo di chiesa e teologo, si distinse per le sue capacità di studioso, sia nel settore umanistico sia in quello
scientifico. Scrisse L’Istoria del Concilio tridentino, in cui critica i risultati del concilio, colpevole di aver rafforzato l’assolutismo della curia di Roma e allo stesso tempo aver reso definitivo lo scisma tra cattolivi ce protestanti. L’opera venne subito inserita nell’Indice dei libri proibiti. 3 guise: sembianze, aspetti.
dimostrazioni; la struttura della realtà e il fondamento della validità oggettiva della matematica, i limiti e insieme il valore della scienza umana, gli apparivano chiari. Nella stessa misura gli si svelavano fino in fondo gli equivoci che la confusione peripatetica4 fra fisica e teologia aveva introdotto sul terreno reli25 gioso. La scienza umana è valida nella misura in cui si rende conto dei propri limiti, che sono i limiti della propria verificabilità. Reale, perché di cose reali, non mera ipotesi matematica per salvare i fenomeni, la visione copernicana si spoglia di tutte le sue implicanze metafisiche e mitizzanti; scrivendo al Cesi, e sbagliando, Galilei ne difende gli errori, ma proprio in nome dell’obbedienza 30 che la filosofia deve alla realtà, della sua rispondenza alle cose. Conoscenza del finito per ragioni matematiche ed esperienze, la filosofia si stacca dalla fede: due libri, due linguaggi, due modi di leggerli. Fondata su esigenze diverse, la fede si muove su altro piano – la scienza non la tocca: non la appoggia né la nega, non la sostituisce né può confermarla o smentirla. Terre35 stre, sempre limitata ma in perenne progresso, la filosofia è umana: conoscenza mondana, di cose mondane, capace di salda verità, ma anche fallibile e integrabile. Nell’orizzonte fisico non si incontrano i cieli incorruttibili, o gli eterni moti della astrale teologia aristotelica. L’ambito dell’esperienza è mondano e corruttibile; è limitato e conscio del limite. Deserta di presenze ultramondane, 40 la scienza mondana riconosce l’esistenza di un’altra esperienza: la fede; conflitto tra le due non può esserci, quando sia eliminata la confusione aristotelica fra fisica e teologia. Ed è qui, forse, che nasce il più profondo interrogativo di Galileo. Quella veduta tutta terrestre del sapere e dell’uomo, lascia davvero un margine alla fede? quel vuoto, che la religione vuol colmare, è veramente un 45 senso positivo dell’assoluto, o è solo la consapevolezza, tutta negativa, di un limite che la ricerca non ha più l’illusione di superare? Galileo trova la sua risposta in un cristianesimo sincero, riconosciuto nella sua funzione pedagogica e morale. La sua lotta contro il peripatetismo si presenta insieme come lotta per la liberazione degli uomini attraverso la verità e la fe50 condità della scienza, e come una sorta di nuova apologetica5 di un Dio molto lontano dal Dio dei filosofi. Serena la sua fede, liberatrice la sua scienza: i cieli scoperti, gli strumenti costruiti, gli danno un senso di forza, di fiducia. Proprio per questo la proclamazione della verità, a tutti, nel suo straordinario volgare, assume ai suoi occhi valore di missione. Sagredo lo implora invano di 55 non «mettere in discorso cose dimostrative» e di lasciar perdere gl’ignoranti: «Se i predicatori non muoiono dietro gli ostinati peccatori, perché ella Vuole martirizzarsi da se stessa per convertire gli ignoranti, i quali infine, non essendo predestinati o eletti, bisogna lasciarli cadere nel fuoco dell’ignoranza». Vincat veritas! risponde Galileo; alla verità è intrinseca la necessità di comunicarsi a 60 tutti e di operare per il bene di tutti. Qui l’inizio e la fondazione, non la crisi delle scienze europee. 4 peripatetica: relativa alla tradizione filosofica antica che faceva capo all’insegnamento di Aristotele.
5 apologetica: parte della teologia che ha lo scopo di difendere la verità di una data religione contro religioni diverse.
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Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte.
Comprendere e analizzare
1. In che cosa consiste la svolta a cui allude lo storico della filosofia Eugenio Garin, autore del testo, a proposito della realizzazione del cannocchiale e delle scoperte che ne seguirono? 2. Perché, nelle parole di Garin, Galileo si sente filosofo «in senso tutto nuovo» (r. 15)? Che cosa gli appare chiaro? 3. Qual è il rapporto fra fede e filosofia messo in luce nel testo? 4. Con quali aggettivi viene definita la filosofia? 5. Qual è il compito della verità? Perché la scelta del volgare?
Produzione
Galileo rappresenta l’immagine del nuovo scienziato, che combatte la cultura scientifica tradizionale (di stretta osservanza aristotelica) in nome di una verità scientifica basata su «sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». Come sostiene l’autore del testo Garin, però, non per questo egli nega l’esperienza della fede: scienza e fede non sono in conflitto perché si muovono su piani diversi, sono due diversi sguardi sul mondo, indipendenti fra loro. In questi ultimi anni la scienza ha compiuto passi da gigante, arrivando a conquiste considerate impensabili solo qualche tempo fa (pensa all’ingegneria genetica, per fare solo un esempio); ma ciò ha sollevato anche interrogativi e delicate questioni. Tu che cosa pensi a questo proposito? Ritieni che lo sviluppo della scienza possa attaccare la possibilità di una fede o, al contrario, arricchisca la sua complessità? Esprimi le tue considerazioni su questo aspetto sulla base delle tue conoscenze, sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto dal discorso di Rita Levi Montalcini tenuto il 13.2.2001 nella sala della Biblioteca di Montecitorio
«Ho speso tutta la mia vita per la libertà della scienza e non posso accettare che vengano messi dei chiavistelli al cervello: l’ingegno e la libertà di ricerca è quello che distingue l’Homo sapiens da tutte le altre specie… Solo in tempi bui la scienza è stata bloccata. Oggi più che mai bisogna affermare il principio 5 che gli scienziati hanno il diritto di partecipare alle decisioni politiche piuttosto che essere vittime di movimenti oscurantisti ed antiscientisti».
Alla luce delle parole di Rita Levi Montalcini, sviluppa il tema del difficile rapporto tra libertà di pensiero, autonomia della ricerca scientifica e potere politico. Ritieni che la rivendicazione di autonomia della scienza possa rappresentare ancora oggi una minaccia per il potere? Pensi che il dialogo tra gli scienziati, in quanto intellettuali, possa incidere sulle scelte e sul destino delle nazioni? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
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Seicento Galileo Galilei
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Le prime fasi di una vita votata alla scienza Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564 da famiglia fiorentina. Nel 1592, pur non essendo laureato (aveva interrotto gli studi di medicina, ma i suoi interessi si erano rivolti sin da subito alla matematica), ottiene la cattedra universitaria di matematica a Padova, dove, grazie alle sue opere ingegneristiche e ai suoi esprimenti, ha un vasto consenso, ma si fa anche numerosi nemici che lo denunciano al Tribunale dell’Inquisizione. Nel 1609 idea il cannocchiale con il quale osserva il cielo e compie straordinarie scoperte astronomiche, che mettono in crisi la visione cosmologica sostenuta dalla Chiesa. L’anno successivo con la pubblicazione del Sidereus nuncius raggiunge la notorietà. La battaglia per un nuovo sapere Nodo cruciale della vicenda umana e professionale di Galileo è il contrastato rapporto che egli ha con la Chiesa – acuitosi a partire dal suo arrivo a Firenze, dove svolge l’incarico di matematico di corte del granduca di Toscana – che osteggia le teorie copernicane. Nel 1611 diventa membro dell’Accademia dei Lincei; tra il 1613 e il 1615 scrive quattro lettere, poi definite Lettere copernicane,
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in cui affronta il rapporto tra scienza e verità di fede, teorizzando la necessità di una autonomia tra i due ambiti; nel 1623, anno dell’elezione al soglio pontificio con il nome di Urbano VIII di Matteo Barberini, uomo colto e aperto, Galileo espone le teorie del nuovo metodo scientifico nel Saggiatore. Il processo, la sconfitta, l’abiura Nella speranza di far accettare le teorie copernicane alla Chiesa, Galileo inizia a elaborare il Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano che verrà pubblicato nel 1632. La Chiesa reagisce convocandolo a Roma, dove egli viene accusato di eresia, torturato e costretto alla pubblica abiura nel giugno del 1633; il Dialogo viene inserito nell’Indice dei libri proibiti. Nonostante le ingiustizie subite e la successiva condanna a una sorta di detenzione domiciliare, Galileo continua a lavorare di nascosto alle sue ricerche, i cui risultati sono raccolti nei Discorsi, che vengono pubblicati fuori dall’Italia, a Leida, nel 1638. Nel 1642 Galileo muore ad Arcetri all’età di 77 anni. Nel 1822 il Dialogo viene rimosso dall’Indice dei libri proibiti e, soltanto nel 1992, la figura dello scrittore-scienziato viene pienamente riabilitata, su iniziativa di papa da papa Giovanni Paolo II. La fiducia nella ragione e la fondazione del nuovo metodo scientifico Galileo per tutta la vita spera nella possibilità di conquistare, grazie alla fiducia nella ragione e nelle indiscutibili verità della scienza, l’adesione della Chiesa alla causa del progresso. Aspirazione che si rivela irrealizzabile perché la Chiesa non accetterà mai un metodo di ricerca – fondato sull’esperienza sensibile e l’osservazione diretta - che mina alle radici il principio di autorità e il dogmatismo.
2 Galileo scienziato-scrittore
Galileo è una figura eclettica: si occupa di scienza ma anche di arte e di letteratura. Da ciò deriva la sua abilità come divulgatore chiaro e capace di interessare un vasto pubblico. La qualità letteraria delle opere di Galileo permette di ascrivere lo scrittore tra i grandi della letteratura italiana. Il Sidereus Nuncius La prima opera pubblicata di Galileo è il Sidereus Nuncius (1610), scritto in latino, nel quale egli espone i risultati delle sue osservazioni astronomiche effettuate con l’impiego del cannocchiale. Le Lettere copernicane Tutte le opere di Galileo dopo il Sidereus Nuncius sono scritte in volgare, in quanto animate da un intento comunicativo e persuasivo e dall’esigenza di rivolgersi a un ampio pubblico. Ciò si riscontra sin dalla pubblicazione delle cosiddette Lettere copernicane, quattro lettere scritte tra il 1613 e il 1615, che possono essere considerate un manifesto per l’autonomia della scienza. Sono indirizzate a diversi personaggi, ma la vera destinataria è la Chiesa. La prima è rivolta a padre Benedetto Castelli e le due successive a monsignor Pietro Dini; l’ultima è diretta alla Granduchessa di Toscana Cristina di Lorena. In esse Galileo si occupa del rapporto tra verità scientifiche e Sacre Scritture. La scelta di comunicare questi importanti argomenti attraverso la forma epistolare è forse legata al tentativo di eludere la censura, grazie al carattere informale dell’opera. Il saggiatore Nel 1616 la Chiesa vieta la diffusione e il sostegno delle teorie copernicane e Galileo indirizza i suoi studi verso altri settori. Nel 1623 pubblica Il Saggiatore, opera che trae spunto da una polemica di Galileo con l’astronomo gesuita Orazio Grassi, in merito al fenomeno dell’apparizione delle comete. Nel testo l’autore chiarisce il senso di un metodo scientifico fondato su regole matematiche e geometriche, guidato non dal rispetto dell’auctoritas ma dall’indagine sperimentale.
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Le teorie di Galileo sulla natura delle comete si rivelano infondate, ma nulla toglie al valore del Saggiatore, esemplare per chiarezza e costruzione logico-argomentativa e rivoluzionaria per l’uso del volgare in una trattazione scientifico-filosofica. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano Il capolavoro di Galileo è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano pubblicato nel 1632, che può essere definito un «manifesto diretto a rinnovare la cultura». L’opera, che intende sostenere la superiorità del copernicanesimo sul geocentrismo e sulle teorie di Aristotele, si configura come un dialogo di tipo umanistico, condotto attraverso una discussione libera e pacata che si immagina aver luogo in quattro giornate a Venezia, nel palazzo di Giovanfrancesco Sagredo, in un clima culturale aperto e tollerante. I tre interlocutori – Simplicio, Salviati e Sagredo – raffigurano rispettivamente l’intellettuale tradizionale che perpetua la visione aristotelica della realtà, lo scienziato autorevole e il dilettante entusiasta delle recenti scoperte, curioso delle novità e dotato di senso pratico. Proprio la caratterizzazione dei personaggi suscita la reazione dell’Inquisizione: in particolare, il fatto che Galileo faccia pronunciare la professione di superiorità della fede sulla scienza (richiesta per consentire la pubblicazione dell’opera) al più sciocco degli interlocutori (Simplicio, appunto). Lo stile del dialogo è caratterizzato da un linguaggio informale, a volte vicino al parlato ma pur sempre elegante.
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Zona Competenze Scrittura
1. Il nuovo metodo scientifico di Galilei: spiegane le procedure e la portata rivoluzionaria; confrontalo poi con i metodi tradizionali di studio e di ricerca tipici della mentalità medievale. 2. Il Saggiatore: esponi argomento, caratteristiche stilistiche e le ragioni che hanno portato Galileo alla scelta del titolo. Perché quest’opera diviene simbolo di un metodo scientifico preciso e rigoroso?
Lavoro di gruppo
3. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Proemio.
Al discreto lettore Si promulgò a gli anni passati in Roma un salutifero editto1, che, per ovviare a’ pericolosi scandoli dell’età presente, imponeva opportuno silenzio all’opinione Pittagorica della mobilità della Terra2. Non mancò chi temerariamente asserí, quel decreto essere stato parto non di giudizioso esame, ma di passione troppo poco informata, e si udirono querele che consultori totalmente inesperti delle osservazioni astronomiche non dovevano con proibizione repentina tarpar l’ale a gl’intelletti speculativi. Non poté tacer il mio zelo in udir la temerità di sí fatti lamenti3. Giudicai, come pienamente instrutto di quella prudentissima determinazione, comparir publicamente nel teatro del mondo4, come testimonio di sincera verità. […] A questo fine ho presa nel discorso la parte Copernicana, procedendo in pura ipotesi matematica […]. Spero che da queste considerazioni il mondo conoscerà, che se altre nazioni hanno navigato piú, noi non abbiamo speculato meno, e che il rimettersi ad asserir la fermezza della Terra, e prender il contrario solamente per capriccio matematico, non nasce da non aver contezza di quant’altri ci abbia pensato, ma, quando altro non fusse5, da quelle ragioni che la pietà, la religione, il conoscimento della divina onnipotenza, e la coscienza della debolezza dell’ingegno umano, ci somministrano».
1 salutifero editto: riferimento alla cen-
3 si udirono... lamenti: si sentirono la-
4 Giudicai... mondo: pienamente consa-
sura, operata dal Sant’Uffizio il 24 febbraio 1616, delle tesi dell’immobilità del Sole e del movimento della Terra. 2 opinione... Terra: il pitagorico Filolao (sec. V a.C.) per primo intuì il moto terrestre.
mentele secondo cui teologi del Sant’Uffizio, inesperti di osservazioni astronomiche, non avrebbero dovuto, con una decisione così drastica, tarpare le ali ai ricercatori. Non potei non dissentire su queste sconsiderate lamentele.
pevole di quella decisione molto saggia, ritenni doveroso dichiarare pubblicamente le mie convinzioni. 5 altro non fusse: non vi fosse altra ragione.
Partendo dall’analisi e dall’interpretazione di questi passi tratti dal Proemio al Dialogo, che Galileo dovette concordare con un frate domenicano per ottenere l’autorizzazione alla stampa, preparate una relazione da presentare alla classe allo scopo di ricostruire l’atteggiamento che lo scienziato sostenne nei confronti della Chiesa e le diverse forme con cui tentò di aggirarne le restrizioni e i divieti. Scrittura argomentativa
4. Il conflitto fra scienza e potere caratterizza, in maniera più o meno profonda, le società di ogni tempo, non solo quelle di epoche remote. Nelle discussioni che su questo aspetto si sono accese in anni recenti entrano naturalmente in gioco anche interessi economici, i quali condizionano qualsiasi tipo di scelta e posizione. Sapresti fare qualche esempio a questo proposito? Quale pensi che dovrebbe essere, in una società ideale, il giusto rapporto fra scienza e potere? Motiva la tua risposta in uno scritto di max 15 righe.
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Seicento CAPITOLO
4 Il rinnovamento delle forme narrative
Il periodo a cavallo tra Cinquecento e Seicento si contraddistingue per una marcata tendenza all’innovazione che si manifesta nel Manierismo e nel Barocco. Le tensioni all’innovazione, anche in ambito formale, si esplicano nella prosa di Giovan Battista Basile, che per il suo Cunto de li cunti opta per un dialetto espressivo e artisticamente elaborato. Contemporaneamente al decadere dell’epos si sviluppa il romanzo, destinato a diventare il genere della modernità. Il Don Chisciotte di Cervantes segna il confine tra due epoche. Posto a conclusione di una lunga tradizione letteraria che va dalle chansons de geste ai poemi cavallereschi, al capolavoro ariostesco, innestati sullo scenario realistico del romanzo picaresco spagnolo, il fulcro tematico del Don Chisciotte – il contrasto tra il punto di vista immaginoso ed esaltato del protagonista e la prosaica realtà che lo circonda – anticipa il relativismo conoscitivo del Novecento e lo rende il primo vero romanzo moderno. Raramente un libro ha saputo coniugare mondo popolare e mondo colto, facendo riflettere su temi universali come il rapporto tra letteratura e vita, la verità e l’illusione, la diversità dei punti di vista, il valore degli ideali che trasfigurano la vita.
fiabe, il poema 1 Le“eroicomico” e il romanzo
origini del 2 Alle romanzo moderno: il Don Chisciotte
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Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo ripresa barocca della fiaba: 1 La Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile La metamorfosi barocca e le fiabe Come si è detto, una delle principali caratteristiche dello stile barocco è il susseguirsi incalzante di immagini e di metafore, a produrre l’effetto di un continuo processo metamorfico. Ed è per questo motivo che le fiabe – da sempre animate da trasformazioni “meravigliose” e improvvise, da cambiamenti di stato e di natura inaspettati e fantastici –, tramandate in tradizioni secolari per lo più solo orali, almeno inizialmente, assumono per la prima volta nel Seicento una dignità letteraria. E non è allora un caso che il capolavoro della letteratura italiana barocca in prosa sia considerato Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile. La raccolta, la prima del genere in Europa, fu tradotta in diverse lingue e divenne modello per gli autori di fiabe europei, da Charles Perrault ai fratelli Grimm. L’autore Giovan Battista Basile nasce verso il 1570, probabilmente a Napoli, dove trascorre la prima giovinezza. Soldato nell’esercito veneziano, in seguito diventa cortigiano a Mantova e in alcune piccole corti del napoletano, dove svolge mansioni di segretario, di organizzatore di feste, di compositore di poesie e di canzoni. Ha una certa fortuna come autore in lingua, e soltanto nei suoi ultimi anni si dedica alla produzione in dialetto. Dopo la sua morte (nel 1632) fu pubblicato Lo cunto de li cunti, il suo capolavoro, in cinque volumi, editi tra il 1634 e il 1636.
Giovan Battista Basile in un’incisione del XVII secolo.
Il rovesciamento ironico del Decameron Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille (“Il racconto dei racconti ovvero l’intrattenimento dei fanciulli”) è una raccolta di fiabe, che Basile attinse dalla cultura popolare e rielaborò in forma artistica, scrivendole in dialetto napoletano, in un estroso e vivace stile barocco. Destinate a essere lette ad alta voce durante gli svaghi cortigiani, le fiabe mantengono la vivacità della narrazione orale, ma rivelano anche una notevole raffinatezza letteraria. Già la struttura del libro fonde elementi colti e popolari: riprende infatti la struttura a cornice del Decameron (e delle Mille e una notte), con dieci narratori (in questo caso narratrici), che raccontano una novella al giorno; siccome le giornate in cui si raccontano le novelle sono cinque, le fiabe sono complessivamente cinquanta, per cui il libro fu detto anche Pentamerone. Rispetto al Decameron, tuttavia, la situazione è comicamente rovesciata. Ai giovani nobili e cortesi della raccolta boccaccesca si sostituiscono vecchie popolane dall’aspetto grottesco e deforme, come indicano i loro soprannomi, che alludono a vari difetti fisici: vi sono una “nasuta”, una “gozzuta”, una “labbrona”, e così via.
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La struttura Nel racconto principale, che costituisce la cornice del libro, ne sono incastonati altri 49 (di qui il titolo Lo cunto de li cunti), con una struttura che si ispira al modello orientale delle Mille e una notte. La trama Un re è preoccupato perché la figlia, la principessa Zosa, è sempre triste, perciò fa porre davanti al palazzo una fontana d’olio, per provocare qualche scena divertente e farla ridere, e così avviene. Un dispettoso paggio di corte, infatti, con una sassata rompe l’oliera di una vecchietta intenta ad attingere l’olio; questa prorompe in epiteti così coloriti che Zosa non può trattenere le risa. Offesa, l’anziana donna le lancia una maledizione: la fanciulla potrà sposarsi soltanto con un principe che giace addormentato, svegliandolo dopo aver riempito una brocca di lacrime. Zosa sta per riuscire nel suo intento, quando, sfinita, si addormenta; allora una schiava nera, Lucia, fa credere di essere stata lei la salvatrice del principe, che, ingannato, la sposa. Zosa però non si arrende: si trasferisce in una casa vicina a quella dei due sposi e riesce a suscitare nella rivale il desiderio di ascoltare fiabe. Il principe chiama allora dieci novellatrici, ma il quinto e ultimo giorno la principessa si sostituisce a una di queste e narra tutta la sua disavventura. L’inganno è così svelato: Lucia viene condannata e Zosa può finalmente sposare il principe. La prevalenza della fortuna sulle capacità umane Anche a livello tematico Lo cunto de li cunti si contrappone al Decameron, che celebrava il trionfo di virtù borghesi come l’intelligenza e l’iniziativa personale. Le fiabe di Basile riflettono invece lo spirito di un’epoca meno fiduciosa nelle possibilità umane di dominare l’irrazionalità degli eventi: i successi dipendono perciò più dal caso che dall’iniziativa umana. Ne è un esempio il protagonista della terza fiaba della prima giornata (➜ T1 OL), Peruonto, il quale, pur essendo definito dallo stesso narratore «il più disgraziato, il più grosso stupido e il più solenne babbeo che la Natura avesse mai prodotto», alla fine è premiato con nozze principesche. Lo stile, tra barocco e folclore napoletano I racconti di Basile sono uno splendido esempio di stile barocco, in cui, con estrema originalità, il napoletano popolaresco e i dettagli realistici attinti alla vita quotidiana si fondono con citazioni colte, riferimenti letterari peregrini, metafore fantasiose. I diversi livelli stilistici si armonizzano grazie all’ironia, uno dei maggiori pregi del libro.
Lo cunto dei cunti e Decameron a confronto
Lo cunto de li cunti, un “anti-Decameron”
perché
• i narratori non sono giovani, ma donne anziane dall’aspetto grottesco • le storie narrate non sono storie realistiche, ma fiabe • prevalgono non l’ingegno e le capacità umane, ma i capricci della fortuna
online Testo
T1 Giovan Battista Basile La fiaba delle metamorfosi: Peruonto Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille, Trattenimento terzo della giornata prima
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PER APPROFONDIRE
Le metafore come micro-racconti Le favole di Basile forniscono uno degli esempi meglio riusciti della creatività inesauribile delle metafore barocche. Così ad esempio, le indicazioni delle ore del giorno in cui si svolgono le favole, e in particolare l’alba e il tramonto, assumono un volto sempre nuovo, quasi di micro-racconti inseriti nella narrazione principale, grazie a metafore tratte dai più diversi ambiti della realtà: la cavalleria, l’esercito, il tribunale, gli sbirri, la scuola, il banco dei creditori, la medicina, le fatiche dei contadini, le faccende domestiche. • «quando gli uccelli, trombettieri dell’Alba, suonano il “tutti a cavallo”, affinché le ore del giorno si mettano in sella» • «era uscita l’Alba a ungere le ruote del carro del Sole e, per la fatica di togliere con la mazza l’erba dal mozzo della ruota, s’era fatta rossa come una mela vermigliona» • «prima che il Sole prendesse a istruire i suoi cavalli a saltare per il cerchio dello zodiaco»
• «quando il Sole, giocando a dare mani con lo spadone della luce in mezzo alle stelle, grida: “indietro, canaglia!”» • «Tostoché per la visita del Sole, furono liberate tutte le ombre che erano state messe in carcere dal tribunale della Notte» • «quando le ombre della Notte, perseguitate dagli sbirri del Sole, sfrattano il paese» • «Già gli uccelli riferivano all’ambasciatore del Sole tutti gli imbrogli e le trappolerie che s’erano fatte nella notte» • «tosto che il Sole aprí banco per liberare il deposito della luce ai creditori del giorno» • «quando al mattino la Luna, maestra delle ombre, concede feria alle discepole per la festa del Sole» • «innanzi che l’Alba spandesse la coperta di Spagna rossa per scuotere le pulci alla finestra d’oriente». Esempi tratti da I. Calvino, La mappa delle metafore, Prefazione a G. Basile, Fiabe, a c. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1974
2 Il poema “eroicomico”: il rovesciamento ironico dell’epos Il poema “eroicomico” La tendenza a contaminare generi e linguaggi letterari e popolari riscontrata nei racconti di Basile è una caratteristica tipicamente barocca. Un altro esempio, anche in questo caso segnato dalla rivisitazione ironica, è l’invenzione secentesca del poema “eroicomico”, con La secchia rapita (stampata a Parigi nel 1622 e poi a Venezia nel 1630) di Alessandro Tassoni (1565-1635), in cui il genere epico è parodizzato attraverso un gioco di alternanze tra serio e comico. Da un punto di vista formale, La secchia rapita è un poema epico: è incentrato infatti su un episodio bellico, il conflitto tra i due comuni rivali di Modena e di Bologna, e presenta le principali caratteristiche del genere, dall’invocazione alle Muse agli interventi divini, alla scelta metrica dell’ottava. L’intento parodico Tuttavia l’opera ha un intento parodico e mescola dichiaratamente gli schemi propri della poesia epica con elementi propri di quella comicorealistica (così lo stesso Tassoni: «l’autore compose questo poema [...] per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme, grave e buffonesco»): la guerra, infatti, non è scatenata dal rapimento di una donna bellissima come Elena di Troia, ma da quello di una comune secchia di legno, “rapita” a un pozzo bolognese; il conflitto non coinvolge l’intera cristianità, ma è soltanto una scaramuccia fra due comuni rivali (➜ T2 ). Il protagonista stesso del poema, il conte di Culagna, non è un eroe, ma è un vile, ed è talmente inetto che riesce a sconfiggere un avversario soltanto perché un incantesimo lo aveva destinato a cedere al più codardo e inetto dei cavalieri. In questa mescolanza e di materiali e di stili consiste la novità del poema, di cui Tassoni stesso, come abbiamo visto, si vanta: «è la scoperta della relatività di tutti i linguaggi: eroico, comico, lirico, burlesco, dotto, cavalleresco» (Bàrberi Squarotti).
Il poema "eroicomico": La secchia rapita La secchia rapita, una parodia del poema epico
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• inizia dal rapimento non di una donna (come Elena di Troia), ma di una secchia di legno • il protagonista non è un eroe, ma un inetto • lo stile, spesso aulico, è infarcito di elementi comici
Alessandro Tassoni
T2
Il proemio: Elena trasformata in una secchia di legno La secchia rapita canto I, ottave 1-2
A. Tassoni, La secchia rapita, a c. di F.L. Mannucci, Utet, Torino 1928
Presentiamo le due ottave proemiali della Secchia rapita, che mettono in luce la commistione di serio e di comico che caratterizza il poema.
1 Vorrei cantar quel memorando sdegno1, ch’infiammò già ne’ fieri petti umani2, un’infelice e vil3 secchia di legno, che tolsero ai Petroni4 i Gemignani5. Febo, che mi raggiri entro lo ’ngegno6 l’orribil guerra e gli accidenti7 strani, tu, che sai poetar, servimi d’aio8 e tiemmi per le maniche del saio9. 2 E tu, nipote del rettor del mondo, del generoso Carlo ultimo figlio10, ch’in giovinetta guancia e ’n capel biondo copri canuto senno, alto consiglio11; se dagli studi tuoi di maggior pondo volgi tal or, per ricrearti, il ciglio12, vedrai s’al cantar mio porgi l’orecchia, Elena trasformarsi in una secchia13.
La metrica: Ottave di endecasillabi, con schema ABABABCC 1 memorando sdegno: ira memorabile. L’inizio del poema riprende con intento parodico il più famoso poema epico, l’Iliade, che si apre con l’ira di Achille. 2 ch’infiammò… umani: che un tempo suscitò negli spietati animi degli uomini. Il soggetto è la secchia del v. 3. 3 un’infelice e vil: un’infausta e misera. 4 ai Petroni: ai bolognesi, indicati con il nome del loro patrono, san Petronio. 5 i Gemignani: gli abitanti di Modena, il cui patrono è san Geminiano (o Gimignano, Gemignano). 6 Febo… lo ’ngegno: Apollo, tu che ispiri
alla mia mente. È l’invocazione, elemento canonico del proemio dei poemi epici. 7 accidenti: avvenimenti. 8 servimi d’aio: fammi da precettore. 9 tiemmi… saio: tienimi per le maniche della veste, ovvero chiede ad Apollo di seguirlo passo passo tenendolo per mano, come un bambino che stia imparando a camminare. Il tono elevato dei primi versi dell’ottava si abbassa bruscamente, scendendo ad un livello popolaresco, e il dio Apollo viene degradato al rango di un precettore che guida il discepolo irrequieto e svogliato. 10 E tu… figlio: il poema è dedicato al giovane Antonio Barberini, figlio di Carlo, e nipote di papa Urbano VIII.
11 ch’in giovinetta… consiglio: che sotto il viso da giovinetto e i capelli biondi celi una saggezza da uomo anziano (canuto, “dai capelli bianchi”), e una profonda sapienza. Il ragazzo era soltanto diciassettenne quando gli fu dedicato il poema. 12 dagli studi… ciglio: volgi ogni tanto, per distrarti da studi di maggior impegno, gli occhi. Lo stile è ironicamente sostenuto: pondo, “peso”, è un latinismo; ciglio è una metonimia per “occhi”. Il riferimento a studi molto impegnativi del giovane ragazzo è probabilmente ironico. 13 Elena… secchia: come Elena fu causa della guerra di Troia, così la secchia è causa del conflitto tra Modena e Bologna.
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Analisi del testo Un poema eroico ineccepibile dal punto di vista formale Le due ottave mostrano le caratteristiche dell’opera, dal punto di vista formale perfettamente in linea con il canone del poema epico. Secondo il canone del genere, il proemio è costituito da tre parti: l’esposizione dell’argomento, l’invocazione e la dedica. Spiccano i riferimenti al più antico modello epico, l’Iliade, con il tema dell’ira, provocata là, nell’opera omerica, dal rapimento di Elena, qui dalla sottrazione di un oggetto prosaico come una secchia. Anche i sentimenti eroici dei protagonisti sembrerebbero degni di un poema epico: si parla infatti di «memorando sdegno», di «fieri petti», di «orribil guerra». Tipica del poema epico è poi l’invocazione, in questo caso, ad Apollo. Anche lo stile è retoricamente elaborato e sostenuto, impreziosito da figure retoriche (ad es., il chiasmo «l’orribil guerra e gli accidenti strani» al verso 6 (ott. 1), le metonimie, la perifrasi iperbolica con cui è indicato il papa al verso 1 dell’ottava 2, con un lessico ricco di latinismi e di aggettivi che, com’è nel genere epico, sottolineano eventi e personaggi, accrescendone l’importanza: «memorando», «fieri», «orribil», «generoso Carlo».
La mescolanza di livelli stilistici contrastanti Lo stile sostenuto non è però uniforme, bensì caratterizzato da cadute parodiche nel prosastico e nel comico, che suscitano un effetto di sorpresa, tipicamente barocco, per lo scarto tonale e per gli accostamenti inaspettati, come quello fra l’ardimento dei combattenti e la viltà dell’oggetto di contesa, o fra il dio mitologico ispiratore della poesia e il prosastico precettore, o, negli ultimi due versi, la metamorfosi della bellissima Elena, causa di guerra per gli antichi greci, nella «vil» secchia. Diversamente da quanto avviene nei poemi epici, in cui il distico finale dell’ottava tende a innalzarsi di tono, nel poema di Tassoni il livello stilistico tende ad abbassarsi proprio a fine ottava, come un controcanto ironico all’eroica intonazione iniziale.
La polemica contro le vuote forme del classicismo Più che per il suo valore letterario, non eccelso, il poema è significativo per il ripudio del classicismo. In tutte le sue opere, Tassoni contesta il principio di imitazione: critica il petrarchismo nelle Considerazioni sopra le rime del Petrarca; contesta il modello linguistico di Bembo, ritenendo che la lingua debba evolversi nel tempo in piena libertà, senza costrizione di modelli del passato; sostiene la superiorità dei moderni sugli antichi. Con l’operazione parodica della Secchia rapita lo scrittore intende mostrare che le regole classicistiche costituiscono solo degli schemi formali adattabili a ogni contenuto, anche a quelli poco importanti o addirittura marginali o insignificanti. Il rischio della poetica dell’imitazione, da cui l’autore vuole mettere in guardia, è quello di considerare le forme più importanti dei contenuti e di bloccare la naturale evoluzione dei generi nel loro adattamento ai tempi
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Indica con i versi corrispondenti le tre parti in cui, secondo le regole classicistiche, il proemio può essere suddiviso e fai la sintesi di ciascuna parte. LESSICO 2. Redigi una tabella costituita da due colonne: nella prima inserisci i termini e le espressioni che appartengono al registro alto tipico della poesia epica; nella seconda quelli propri dello stile comico-prosastico.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 3. Presenta oralmente (max 3 minuti) un confronto tra la dedica della Secchia rapita e quella dell’Orlando Furioso, mettendo in luce come quella di Tassoni rappresenti una parodia quasi puntuale dei versi di Ariosto.
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3 Il nuovo genere del romanzo Dall’epos al romanzo Il genere più significativo della letteratura del Seicento nell’ambito delle forme narrative, è il romanzo in prosa, che in questo periodo comincia ad assumere quel ruolo predominante nel panorama letterario e nel costume sociale che sarebbe andato via via crescendo nel tempo fino all’epoca attuale. A differenza dell’epos, che rappresenta i valori di una collettività, ormai ben poco sentiti, il romanzo si incentra sul singolo individuo e sul suo rapporto con il mondo che lo circonda; come genere non vincolato a un sistema di regole classicistiche, perché nato nella tarda antichità, era particolarmente adatto allo spirito innovativo della letteratura barocca. E il pubblico mostrò di apprezzare particolarmente il nuovo genere, tanto da stimolare una vastissima produzione, destinata però a vita breve. Come spiega il critico Michail Bachtin (1895-1975) nel suo importante studio Estetica e romanzo, in origine due sono i tipi di romanzo: «di avventure e di prove» (di matrice ellenistica) e «di avventure e di costume» (nato in età imperiale romana). Entrambe le tipologie sono testimoniate nella cultura del XVII secolo. Il romanzo di evasione Il primo tipo di romanzo ha un carattere di intrattenimento; in genere narra le vicende di due giovani, che, separati da avverse fortune, possono incontrare i più vari ostacoli (naufragi, tempeste, rapimenti, assalti di pirati, riduzione in schiavitù, morti presunte, travestimenti, scambi di persona, rapine di briganti, tentativi di seduzione), ma alla fine si riuniscono felicemente e coronano il loro amore. In epoca barocca i romanzi di questo genere sono numerosi; in Italia il più celebre è il Calloandro fedele (1653), scritto da un ecclesiastico genovese, Giovanni Ambrogio Marini, che introduce nella sua narrazione numerosi elementi tratti dal poema cavalleresco, soprattutto dalla Gerusalemme liberata. Nella trama dominano gli equivoci, i travestimenti, gli scambi di persona, in particolare quelli tra i due protagonisti, Calloandro e Leonilda, che, nati nello stesso istante, sono quasi identici avendo ricevuto i medesimi influssi astrologici. Il romanzo come rappresentazione realistica e critica Il secondo tipo di romanzo (i cui modelli sono latini: il Satyricon di Petronio e L’asino d’oro di Apuleio) ha un intento non di evasione, ma di rappresentazione oggettiva e critica. L’ambiente sociale che circonda il protagonista assume un’importanza centrale ed è posto in rilievo dal punto di vista “straniato” dell’osservatore: nel Satyricon quello di avventurieri di dubbia moralità, nel romanzo di Apuleio quello del protagonista Lucio, che, per magia, si trasforma in asino; ritenendolo una bestia, nessuno alla sua presenza ha ritegno a comportarsi nei modi più immorali, che lo scrittore ritrae con crudo realismo. Il romanzo picaresco spagnolo Questa prospettiva di osservazione “dal basso” caratterizza anche il romanzo picaresco spagnolo, che ha per protagonista il pícaro, un popolano scaltro e privo di scrupoli, il quale per campare vive mille avventure. Il romanzo picaresco è inaugurato da un’opera di autore anonimo, Lazarillo de Tormes, pubblicata con grande successo nel 1544. Lo schema narrativo è semplice: un ragazzo poverissimo passa, come servitore, da un padrone all’altro, affinando l’arte di sopravvivere attraverso i più vari espedienti: ha così modo di conoscere diverse categorie sociali e vari ambienti della Spagna del tempo che rivelano ai suoi occhi una realtà fatta di miseria, sfruttamento, abiezione.
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Il pícaro non ha morale e perciò si adatta a tale realtà degradata. Il suo unico scopo è sopravvivere: perciò cerca di comprendere i meccanismi, spesso immorali e spietati, del mondo che lo circonda, per poterli sfruttare a proprio vantaggio, nella sua continua lotta per non soccombere (➜ T3 ). Date le misere origini, i protagonisti dei romanzi picareschi devono costantemente combattere contro la miseria e la fame, fame che è il vero filo conduttore di questi romanzi, il motore dell’azione, l’inseparabile compagna del pícaro. L’intento principale del romanzo picaresco è una critica della società, di cui l’autore non si assume la responsabilità in prima persona, ma che affida allo sguardo ingenuo, e allo stesso tempo disincantato, del protagonista.
T3
L’apprendistato dell’eroe picaresco I due testi costituiscono il primo episodio dell’apprendistato d’esperienza di Lazarillo.
T3a
L’insegnamento del cieco: «saperne una più del diavolo»... Lazarillo de Tormes
Lazarillo de Tormes, a c. di G. Greco, Garzanti, Milano 1990
Il primo episodio della vita di Lazarillo vede il protagonista al servizio di un mendicante cieco a cui la madre lo affida, come a un pedagogo...
A quel tempo venne ad alloggiare nella locanda un cieco che sembrandogli che io fossi adatto all’addestramento, mi chiese a mia madre. Lei, dopo avergli detto che ero figlio di un buon uomo, morto per il trionfo della fede nella spedizione di Gerba1, che confidava in Dio che non sarei risultato peggiore di mio padre2 e che, dal momento 5 che ero orfano, lo pregava di trattarmi bene e di prendersi cura di me, mi affidò a lui. Egli rispose che lo avrebbe certamente fatto e che mi accoglieva non come servitore ma come un figlio. [...] Dopo essere rimasti a Salamanca3 per alcuni giorni, sembrandogli che il guadagno non fosse soddisfacente, decise di andarsene da lì. 10 [...] Uscimmo da Salamanca e giungemmo al ponte al cui ingresso c’è un animale di pietra che ha quasi la forma di un toro; il cieco mi ordinò di avvicinarmi all’animale e, una volta che fui lì, mi disse: «Lázaro, avvicina l’orecchio a questo toro e vi udrai dentro un gran rumore». Io mi avvicinai ingenuamente, credendo che fosse vero. Ma appena sentì che avevo 15 la testa sulla pietra, allungò pesantemente la mano e mi fece dare una gran zuccata contro quel toro del demonio, tanto che il dolore per la cornata mi durò più di tre giorni, e mi disse: «Sciocco, impara, ché il servo del cieco deve saperne una più del diavolo». E rise molto della burla. In quell’istante mi sembrò di destarmi dall’ingenuità in cui, da bambino com’ero, ave20 vo fino ad allora dormito. Dissi tra me e me: «Dice bene costui, e farò meglio a tenere gli occhi aperti e a stare sull’avviso, perché sono solo e devo pensare a cavarmela». 1 spedizione... Gerba: spedizione contro i
2 non... padre: il padre di Lazarillo era
3 Salamanca: città della Spagna dove vi-
mori; Gerba si trova in Tunisia.
un ladro.
veva Lazarillo.
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T3b
Lazarillo mette a profitto la lezione con il prete avaro
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
Lazarillo de Tormes Lazarillo de Tormes, a c. di G. Greco, Garzanti, Milano 1990
Lazzarillo alla fine scappa dal cieco, dopo aver patito la fame e molte angherie (non prima però di essersi vendicato di lui, ricambiandogli lo scherzo della testa battuta sulla pietra). Imparata la prima lezione, è pronto per un nuovo incontro.
Il giorno successivo, poiché lì non mi sembrava di essere al sicuro, me ne andai in un posto che chiamano Maqueda, dove i miei peccati mi fecero imbattere in un prete che, quando mi avvicinai per chiedere l’elemosina, mi domandò se sapevo servire messa. Gli risposi di sì, come in effetti era, perché, malgrado mi avesse tanto 5 maltrattato, quel poveraccio del cieco mi aveva insegnato mille cose buone, tra le quali questa. Alla fine il prete mi prese al suo servizio. Fu come cadere dalla padella nella brace, perché il cieco, pur essendo l’avarizia in persona, come ho detto, paragonato a questo qui aveva la generosità di un Alessandro Magno. Non dirò altro, se non che tutta la taccagneria del mondo era 10 racchiusa in costui, e non so se l’aveva dalla nascita o se l’aveva ricevuta insieme all’abito talare1. Aveva una vecchia cassapanca che teneva chiusa con un lucchetto la cui chiave portava legata con un nastro alla tonaca. E appena il pane delle offerte arrivava dalla chiesa lo metteva lui personalmente nella cassapanca che immediatamente 15 richiudeva a chiave. [Lazarillo riesce con uno stratagemma a procurarsi una copia della chiave e a sottrarre un po’ di pane. Ma il padrone si accorge che il pane sembra diminuito e conta attentamente le pagnotte.] Ma proprio quel Dio che soccorre gli afflitti, vedendomi in così grande pericolo, mi fece venire in mente un piccolo trucco e, soppesatolo tra me e me, dissi: «Questo cassone è vecchio, grande e rotto in più punti, anche se i buchi sono piccoli. Si potrebbe pensare che ci si infilino dei topi e rosicchino questo pane. Prenderlo intero 20 non sarebbe saggio perché si accorgerebbe della mancanza chi tanto mi fa mancare. Così, invece, è credibile». E comincio a sbriciolare il pane su certe tovaglie da quattro soldi che stavano lì accanto; scegliendo a caso tra le pagnotte finii per sbriciolarne qua e là tre o quattro, poi mangiai come se fossero stati confetti e rimasi abbastanza contento. Quando il 25 mio padrone tornò per mangiare e aprì l’arca vide quel disastro e non ebbe dubbi che fossero stati i topi a combinare il guaio, perché la finzione era perfetta, e sembrava proprio che i topi fossero passati di lì. Controllò tutta la cassa da cima a fondo e vi notò certi buchi dai quali sospettava che fossero entrati. Mi chiamò e disse: «Lázaro! Guarda, guarda che gran sventura è capitata questa notte al nostro pane!». 30 Io mi finsi molto stupito e gli chiesi cosa poteva essere stato. «E cosa vuoi che sia stato!», disse lui. «Topi, che non risparmiano niente!».
1 se l’aveva…talare: se l’aveva ricevuta quando era stato ordinato sacerdote.
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Ci mettemmo a tavola e Dio volle che anche lì mi andasse bene e mi toccò più pane della miseria che era solito darmi. Perché con un coltello raschiò tutto quello che pensava fosse stato toccato dai topi dicendo: «Mangia, mangia, ché il topo è 35 un animale pulito». E così quel giorno, con l’aggiunta del lavoro delle mie mani, o meglio delle mie unghie, finimmo di mangiare, anche se a me sembrava di non aver neppure cominciato. Ma subito ebbi un altro brutto colpo quando lo vidi andare per la casa togliendo chiodi dalle pareti e cercare tavolette con cui inchiodò e turò tutti i buchi della 40 vecchia cassa. «Oh Dio mio», pensai allora, «a quante miserie e disastri e disgrazie sono sottoposti gli uomini e quanto poco durano i piaceri in questa nostra vita travagliata! Eccomi qua che pensavo di rimediare e soccorrere la mia sventura con questo povero, triste rimedio e mi sentivo così felice e contento. Ma non lo ha voluto la mia sfortuna, 45 che ha pungolato questo taccagno del mio padrone rendendolo ancora più accorto di quanto non fosse per conto suo (e già gli avari lo sono quasi sempre), e ora, chiudendo i buchi della cassa, ha chiuso la porta della mia speranza e aperto quella del mio dolore». Così mi lamentavo, mentre il mio sollecito falegname, con tutti quei chiodi e tavo50 lette, metteva fine alla sua opera dicendo: «E ora, signori topi ladroni, vi conviene cambiar aria, perché in questa casa avrete poco da rodere». Non appena uscì di casa vado a vedere la sua opera e trovo che nella vecchia e malandata cassa non aveva lasciato neppure un buchetto per cui potesse entrare un moscerino. Apro con la mia ormai inutile chiave, senza alcuna speranza di poterne 55 trarre un qualche profitto, e vedo le due o tre pagnotte cominciate, quelle che il mio padrone credeva fossero state rose dai topi, e ne taglio via una miseria, toccandole appena, come avrebbe fatto un abile spadaccino. Il bisogno è un grande maestro e io, che ne avevo sempre tanto, passavo giorni e notti a pensare in che modo potevo mantenermi in vita. E credo che nella ricerca di 60 questi poveri sotterfugi mi illuminasse la fame, perché dicono che ravviva l’ingegno, mentre con la sazietà succede il contrario; e questo era certamente il mio caso. Così, una notte che me ne stavo sveglio con questo pensiero fisso, meditando su come avrei potuto sfruttare il cassone a mio favore, mi accorsi che il mio padrone dormiva, come dimostravano il suo russare e certi sbuffi rauchi che lasciava uscire 65 nel sonno. Mi alzai pian pianino e, poiché durante il giorno avevo pensato al da farsi e avevo lasciato un coltello che stava sempre in giro in un posto sicuro, me ne andai alla maledetta cassa e la assalii con il coltello, usandolo come un trapano, lì dove avevo notato che aveva minori difese. L’antichissima cassapanca, che era vecchia di tanti anni e quindi senza forza né cuore, ma anzi tutta fradicia e tarlata, mi 70 si arrese subito e consentì un bel buco nel suo costato a mio favore. Fatto questo, apro in gran silenzio l’arca ferita e, a tentoni, col pane che trovo già tagliato faccio la stessa cosa che ho detto prima. E così, abbastanza consolato, dopo aver richiuso tornai al mio pagliericcio su cui riposai e dormii un poco. Questa era una cosa che mi riusciva difficile e ne davo la colpa al fatto di non mangiare, e proprio così do75 veva essere, perché a quel tempo non dovevano certo essere le preoccupazioni del re di Francia a togliermi il sonno. Il giorno dopo il mio signor padrone notò il danno che grazie al buco avevo fatto, tanto al pane che alla cassa, e cominciò a mandare i topi all’inferno dicendo: «Che
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razza di storia è questa? E pensare che in questa casa non s’erano mai sentiti topi prima d’ora!». E senza dubbio diceva il vero, perché se in tutto il regno doveva esserci una casa a buon titolo libera dalla loro presenza era certamente quella, perché non ci sono topi dove non c’è niente da mangiare. Ricomincia a cercare chiodi per tutta la casa e sulle pareti e pezzi di legno per tappare i buchi. Ma, giunta la notte con la sua 85 quiete, subito io ero in piedi coi miei arnesi, e quanti buchi lui tappava di giorno tanti io ne stappavo di notte. Le cose andarono in modo tale e con tanto impegno reciproco che senza dubbio da lì nacque il detto «Dove una porta si chiude se ne apre un’altra». Insomma, pareva che avessimo preso la tela di Penelope a cottimo, perché quanto lui tesseva di 90 giorno tanto io disfacevo di notte. Così in pochi giorni e notti riducemmo la povera dispensa in tali condizioni che chi dovesse definirla in modo corretto dovrebbe chiamarla «vecchia carcassa d’altri tempi» piuttosto che «cassapanca», considerando le inchiodature e le toppe che aveva su di sé. 80
Analisi del testo La rappresentazione di una realtà sociale degradata Il Lazarillo de Tormes è ambientato nella Spagna contemporanea all’autore. Nel romanzo viene descritto un ambiente sociale degradato, di miseria materiale e morale, in cui non sembra possibile coltivare alcun ideale etico. Il primo padrone di Lazarillo, un vecchio mendicante cieco, con una crudele lezione insegna al ragazzo che, essendo povero e solo al mondo, per sopravvivere deve contare solo su sé stesso e non fidarsi di nessuno. Lezione che servirà a Lazarillo per non morire di fame con il secondo padrone, ancora peggiore del primo. Il mendicante cieco, infatti, si comportava in modo crudele, ma aveva sicuramente dovuto imparare a proprie spese le lezioni di vita che impartisce a Lazarillo. Il prete, invece, fa soffrire la fame al ragazzo per pura avarizia ed egoismo. Nel tratteggiare la figura dell’ecclesiastico, l’autore del Lazarillo de Tormes, rimasto per prudenza anonimo, mette in luce un evidente anticlericalismo che farà inserire l’opera nell’Indice dei libri proibiti. Il personaggio appare odioso anche per la sua ipocrisia, evidente quando dà al ragazzo gli avanzi che ritiene intaccati dai ratti, sostenendo che il topo sia un «animale pulito».
L’astuzia del pìcaro Lazarillo non ha quindi alcuno scrupolo a ingannare il suo nuovo padrone, e fra i due si stabilisce una gara di astuzia senza esclusione di colpi, in cui Lazarillo, grazie all’ingegno aguzzato dalla fame, come è tipico del pícaro, ha temporaneamente la meglio, escogitando inesauribili stratagemmi per impadronirsi del pane chiuso a chiave in una cassapanca. Emerge il quadro di un ambiente miserabile e spietato, di aspra lotta per la sopravvivenza, che rivela l’intento di critica sociale del romanzo. Bartolomé Esteban Murillo, Ragazzi con meloni e grappoli d’uva, 1650 ca. (Monaco, Alte Pinakothek). Il mondo dei ladri, furfanti e avventurieri, tipico del romanzo picaresco, è rappresentato anche nella pittura dell’epoca.
Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 1 185
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto dei due episodi in un breve testo espositivo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Descrivi le caratteristiche del personaggio di Lazarillo. TECNICA NARRATIVA 3. Che tipo di narratore è quello del Lazarillo de Tormes? In che rapporto si pone con i fatti narrati? ANALISI 4. Il Lazarillo de Tormes può essere considerato un romanzo di formazione. Per quali aspetti nei due episodi si vede un’evoluzione del personaggio?
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
SCRITTURA 5. Nei due estratti del romanzo sono presenti vari elementi che connotano in senso realistico il testo. Individuali e scrivi un breve commento focalizzato sul degrado sociale e ambientale che emerge dalla loro presenza nella narrazione.
Fissare i concetti Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo 1. In che modo l’epoca barocca segna una svolta per il genere della fiaba? 2. In quali aspetti la raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile riprende il Decameron, il capolavoro di Giovanni Boccaccio? Quali aspetti di originalità presenta? 3. Qual è l’intento dei poemi “eroicomici”? 4. Quali caratteristiche del poema epico sono rintracciabili nel poema La secchia rapita di Alessandro Tassoni? Quali della poesia comico-realistica? 5. Quali sono i tratti caratteristici del pícaro? 6. In che modo si esprime la tendenza all’innovazione nella produzione letteraria del Seicento?
Caravaggio, I bari, 1595 (Fort Worth, Kimbell Art Museum): un giovane ingenuo sta pensando a quale carta giocare, mentre un uomo alle sue spalle sbircia il suo mazzo e fa segno con le dita quale ne sia il valore al complice, che estrae dalla cintura una delle carte preventivamente nascoste.
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Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte
Il Don Chisciotte, di Miguel de Cervantes, è sicuramente uno dei capolavori della letteratura europea. Pubblicato in due parti, la prima nel 1605, la seconda nel 1615, il romanzo è incentrato sulla figura e le avventure di un rappresentante della piccola nobiltà di provincia. Fanatico lettore di romanzi cavallereschi, a un certo punto decide di farsi cavaliere errante, per riportare nel mondo il bene e la giustizia. Don Chisciotte si immedesima a tal punto nella parte da trasfigurare la realtà, vedendola attraverso il filtro delle letture predilette, senza accorgersi che il mondo del suo tempo è ben lontano da quello idealizzato delle narrazioni cavalleresche. Dal contrasto tra la realtà del tempo di Cervantes, squallida e prosaica, del tutto aliena dagli ideali cavallereschi, e la sua trasfigurazione nell’immaginazione visionaria del protagonista scaturiscono innumerevoli situazioni umoristiche e paradossali che Presunto ritratto di Miguel de Cervantes, attribuito a Juan de Jauregui (Madrid, Reale non solo divertono, ma fanno riflettere: le vicende di Accademia spagnola della lingua). Don Chisciotte, infatti, inducono il lettore a mettere in discussione l’idea di una realtà univoca e monolitica e a comprendere che esistono tanti modi di vedere il mondo quanti sono gli uomini. Da qui la modernità dell’opera: non solo una narrazione coinvolgente, ma anche una riflessione profonda sul rapporto fra l’uomo, con gli ideali e i mondi fantastici che occupano la sua fantasia, e la realtà in cui vive. Una profondità che fa del capolavoro di Cervantes il primo, grande romanzo moderno della letteratura occidentale.
1 Una vita “da romanzo” Miguel de Cervantes nasce nel 1547 ad Alcalá de Henares da una modesta famiglia. Nella prima giovinezza fugge dalla Spagna, ricercato per aver ferito un cortigiano in duello; si reca allora in Italia, dove soggiorna a Roma e a Napoli, acquisisce un’approfondita conoscenza della letteratura italiana rinascimentale ed entra nell’esercito imperiale. Nel 1571, a ventiquattro anni, Cervantes combatte eroicamente a Lepanto, perdendo per un’archibugiata l’uso della mano sinistra; in seguito dichiarerà di essere fiero della ferita riportata in una giornata così gloriosa per la cristianità, e non interromperà la carriera militare che aveva intrapreso. Nel 1575, di ritorno in Spagna, è catturato dai pirati e venduto come schiavo ad Algeri. Dopo vari tentativi di fuga, poiché la sua famiglia è riuscita a pagare l’oneroso riscatto, può finalmente tornare in Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 187
Spagna. Continua a servire nell’esercito, ma come addetto all’approvvigionamento, incarico per cui deve viaggiare nei più sperduti villaggi della Spagna, dove entra in contatto con contadini, nobili di campagna, preti, viandanti conosciuti nelle locande in cui pernotta, giocolieri e saltimbanchi, proprio quel «mondo multicolore e vario che verrà meravigliosamente ritratto nel Chisciotte» (M. de Riquer). In questo periodo conosce anche il carcere, a causa del fallimento di una banca in cui aveva depositato le riscossioni statali; ed è probabilmente lì che concepisce il Don Chisciotte (El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha), pubblicato nel 1605. L’opera è premiata con un meritato successo e Cervantes, prima considerato nell’ambiente letterario poco più che un dilettante, raggiunta una discreta sicurezza economica, può finalmente dedicarsi solo alla scrittura; compone così la seconda parte del Don Chisciotte (pubblicata nel 1615), le Novelle esemplari (1613) e il romanzo Le peripezie di Persile e Sigismonda, pubblicato un anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1616.
2 L’intreccio e le fonti del Don Chisciotte La struttura e l’intreccio Il protagonista, Don Chisciotte, è un hidalgo, un piccolo nobile decaduto, appassionato lettore di romanzi cavallereschi, che, immerso nel suo mondo libresco, perde la ragione. Constatando la decadenza della Spagna e del mondo, si convince che solo i cavalieri erranti possano risollevare le sorti compromesse dell’umanità e decide di intraprendere egli stesso questa missione. Elegge una contadina, Aldonza Lorenzo, a nobile oggetto del suo amore, ribattezzandola con il pomposo nome di Dulcinea del Toboso, e si fa ordinare cavaliere da un oste (in realtà un furfante) in una taverna che scambia per un castello. Dà inizio così a una serie di avventure, (celeberrimo l’episodio in cui Don Chisciotte, convinto di affrontare dei giganti, si scontra contro i mulini a vento), accompagnato dal fedele scudiero Sancio Panza, un contadino analfabeta del luogo. Alle imprese di Don Chisciotte e del suo scudiero si intrecciano altri episodi, spesso narrati da personaggi incontrati lungo il cammino, e si aggiungono le beffe giocate da un gruppo di nobili che si diverte alle spalle del protagonista, fingendo di aderire alla sua follia cavalleresca, e i tentativi degli amici di Don Chisciotte (un barbiere, un curato, un vicino che si finge cavaliere) di riportarlo a casa per guarirlo dalla sua follia, cosa che avviene alla fine della prima parte. Nella seconda parte – meno felice, considerata dalla critica quasi un secondo, diverso, libro – Don Chisciotte e Sancho affrontano nuove avventure fino al definitivo ritorno a casa del protagonista, al suo ravvedimento che lo induce, prima di morire, a rinnegare gli ideali cavallereschi. Il rapporto con la tradizione letteraria Il Don Chisciotte è un libro che, con grande originalità, dialoga con la tradizione letteraria europea. In primo luogo con la letteratura italiana: tra le fonti di ispirazione del capolavoro di Cervantes – come i critici hanno ormai da tempo riconosciuto – è fondamentale l’Orlando Furioso, a riprova di quanto la letteratura italiana rinascimentale sia modello di riferimento per la letteratura europea. Cervantes, che aveva soggiornato a lungo nel nostro paese e conosceva la nostra letteratura, cita più volte nel suo romanzo il poema ariostesco e all’inizio dell’opera pone un sonetto in cui immagina che Orlando si rivolga a Don Chisciotte: «Orlando io son, Chisciotte, che perduto / da Angelica
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Gustave Doré, Ritratto di Don Chischiotte e Sancio Panza, illustrazione del 1863 per un’edizione dell’opera di Cervantes.
vagai per tanti mari», sottolineando così il rapporto di filiazione tra i due personaggi. Già Ludovico Ariosto aveva trasformato il poema cavalleresco da “favola” in moderna riflessione critica sul rapporto tra l’uomo e il mondo, e aveva posto al centro del suo poema la follia, vista come esito estremo di un mancato rapporto con la realtà (la pazzia del paladino è infatti scatenata dall’eccessiva idealizzazione della donna amata, Angelica). Un altro tema che lega l’Orlando furioso al romanzo di Cervantes è quello dell’inattualità dei valori cavallereschi nel mondo moderno: Ariosto l’aveva collegata a innovazioni tecnologiche come l’invenzione delle armi da fuoco, che, mutando radicalmente le tecniche belliche, non assicuravano la vittoria del più abile e valoroso ma, spesso, del più vile e scorretto. Non è un caso che Don Chisciotte, in un mondo in cui si utilizzano ormai comunemente le artiglierie, recuperi le arcaiche armi cavalleresche «piene di ruggine e di muffa» dei suoi antenati, «dimenticate in un cantuccio» (➜ T4 ). L’altro importante modello letterario del Don Chisciotte è il romanzo picaresco (➜ PAG. 181). La dimensione comica e spesso grottesca propria del romanzo di Cervantes deriva dall’incontro-scontro creato dall’autore tra l’ideale cavalleresco, che domina l’immaginario del protagonista, e una realtà popolaresca e degradata, ritratta con realismo, propria del romanzo picaresco. Pur in chiave ironica, il Don Chisciotte riprende dai romanzi picareschi la rappresentazione della Spagna dell’epoca che, sotto la grandezza imperiale, celava una profonda decadenza e una grave crisi sociale ed economica. Comune al genere picaresco è inoltre il motivo topico del viaggio, con le avventure e gli incontri inaspettati che ne derivano. Tra realtà concreta e fantasia romanzesca La geniale contaminazione tra due generi letterari così diversi, uno ancorato a una realtà corposa e concreta, l’altro alle creazioni leggere della fantasia, si riflette nella struttura del Don Chisciotte, che da una parte presenta allusioni a eventi della Spagna dell’epoca, come l’espulsione dei moriscos (i discendenti dei conquistatori saraceni), dall’altra abbonda di elementi del tutto fantasiosi, come i pastori arcadici, di origine tutta letteraria, che sembrerebbero popolare le campagne della Mancia, cantando i loro amori infelici, e di coincidenze romanzesche, come quelle dell’osteria in cui, a un certo punto, per i capricci della sorte, convergono innumerevoli personaggi.
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3 Le modalità narrative, i temi e i personaggi L’iterazione dello schema narrativo: un cavaliere in lotta con i suoi antagonisti La struttura del Don Chisciotte, come quella dei romanzi picareschi, si fonda su unità narrative potenzialmente ripetibili all’infinito, con uno schema costante: l’hidalgo incontra una realtà comune e prosaica, ma, interpretandola sul modello dei prediletti romanzi cavallereschi, l’affronta come avrebbero fatto i più famosi cavalieri. Combatte valorosamente contro una incredibile varietà di “nemici”: i mulini a vento, scambiati per giganti, un mulino ad acqua scambiato per un castello incantato (➜ T7 OL); assale greggi di pecore, ritenendoli smisurati eserciti nemici; libera dai devoti attoniti una statua della Madonna in processione, credendola una donzella rapita. Si scontra con persone delle più diverse tipologie sociali: frati (che crede rapitori di una donna), popolani (avventori dell’osteria, pastori, mulattieri, burattinai); nobili, a cui si aggiunge un falso cavaliere, il vicino di casa Sansone Carrasco (che più volte lo sfida per convincerlo a rinunciare alle sue follie; vinto la prima volta, la seconda sconfigge Don Chisciotte, costringendolo a rinunciare per un anno – ma sarà per sempre – alla sua missione di cavaliere errante). All’interno della trama principale si inseriscono poi molteplici digressioni, anche metaletterarie, che conferiscono al romanzo una struttura composita, che non ha precedenti nella tradizione e anticipa forme narrative moderne (si pensi anche solo ad alcuni romanzi pirandelliani). Il fallimento della missione di Don Chisciotte Sebbene non sia fisicamente molto prestante, non sempre (come si potrebbe pensare) Don Chisciotte è sconfitto in questi scontri, anzi molto spesso ne esce vittorioso. Ciò in cui invece l’illuso protagonista fallisce sempre è il tentativo di rendere il mondo più giusto e conforme ai suoi nobili ideali: così, ad esempio, ordina a un contadino di giurare che avrebbe smesso di frustare un suo giovane servo e riparte convinto che questi avrebbe lealmente tenuto fede al giuramento, ma, non appena si allontana, il contadino raddoppia la dose
Antonio Perez Rubio, Don Chisciotte attacca la processione dei penitenti, 1881 (Madrid, Museo del Prado).
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Don Chisciotte ordina a un contadino di non frustare il suo servo, illustrazione di Gustave Doré per un’edizione del Don Chisciotte del 1863.
di percosse, lasciando il ragazzo mezzo morto; oppure, avendo liberato dei galeotti incatenati, argomenta con impareggiabile eloquenza su come sia un delitto togliere agli uomini la libertà, ma i delinquenti, per nulla commossi dalla nobiltà dei suoi intenti, lo deridono e lo sbeffeggiano. Le innumerevoli delusioni, tuttavia, non distolgono Don Chisciotte dal compito assunto di cavaliere errante e dal suo fermo proposito di agire secondo il “copione” dei romanzi prediletti, ora incarnando il ruolo di vendicatore di torti, ora di difensore di fanciulle indifese, ora di uccisore di mostri e di feroci avversari. Oltre agli avversari visibili, tuttavia, Don Chisciotte è convinto di essere perseguitato da un nemico ben più insidioso e invisibile, un malvagio incantatore, che trasfigurerebbe la realtà, rendendola squallida e prosaica, e trasformerebbe i giganti in mulini a vento e le belle principesse in rozze contadine: il supposto incantatore agirebbe dunque in senso contrario alla sua immaginazione esaltata. Sarà proprio questo avversario, l’unico veramente temuto dal coraggioso Don Chisciotte, a incrinare infine la sua fiducia di poter raddrizzare i torti del mondo e in definitiva a sconfiggerlo. Don Chisciotte e Sancio Panza, due personaggi in continuo dialogo Nel romanzo intervengono numerosi personaggi, appartenenti ai più diversi strati sociali, ma i soli a tutto tondo sono quelli di Don Chisciotte e Sancio Panza. I due, che non sono tanto opposti quanto complementari, intrattengono un dialogo costante, amichevole e franco, e, nonostante la diversità di vedute, di cultura, di classe sociale, e le continue discussioni e battibecchi, riescono a comprendersi, tanto che alla fine il contadino ignorante «assorbirà l’ingegno di don Chisciotte e verrà pure contagiato dalla sua pazzia» (M. de Riquer). Il complesso rapporto tra i due ha sempre costituito una delle componenti del fascino del romanzo ed è stato perciò sempre privilegiato dai critici e dagli artisti che si sono ispirati al capolavoro di Cervantes. Lo scudiero di Don Chisciotte, tipica figura dell’astuto popolano e del servo più saggio del padrone, riesce a vedere quella realtà che il padrone interpreta attraverso il filtro della sua immaginazione esasperata, e spesso, come intermediario tra Don Chisciotte e il mondo reale, tenta di difenderlo da chi prova ad approfittare del suo idealismo e della sua generosità. Spinto da un naturale rispetto verso un padrone tanto virtuoso e colto, che gli promette favolose largizioni e persino il governo di un’isola, Sancio Panza è sempre tentato di credergli, e rimane ogni volta esterrefatto dagli esiti disastrosi delle azioni di chi è tanto saggio a parole quanto folle nella pratica. Sancio è analfabeta, ma non sciocco; ha la cultura di un popolano, costruita attraverso la sapienza secolare dei proverbi che, in ogni occasione, snocciola in abbondanza, suscitando l’irritazione di Don Chisciotte. I proverbi, infatti, sono adatti ad affrontare la realtà spicciola ma non offrono un punto di vista coerente sul mondo; tale difetto è opposto a quello della cultura libresca di Don Chisciotte, la quale si presenta come una totalità così coerente da rifiutare ogni smentita da parte della realtà. Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 191
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Interpretazioni critiche a confronto Martín de Riquer vs Francisco Rico La dialettica dei personaggi: Don Chisciotte e il suo scudiero Sancio
A differenza del suo ascetico padrone, per Sancio valgono le ragioni del corpo, e per nessun ideale accetterebbe di digiunare, di rinunciare al sonno e alle comodità né di essere malmenato (➜ T8 ). Tuttavia lo scudiero non è affatto insensibile al fascino avventuroso delle imprese in cui Don Chisciotte lo trascina, ed è sempre felice di seguirlo e di continuare a sognare il governatorato di un’isola (che alla fine otterrà, anche se non proprio di un’isola si tratta), piuttosto che tornare alla prosaica realtà di tutti i giorni: con questo Cervantes dimostra che un po’ di “donchisciottismo” è in ciascuno di noi, e non si potrebbe vivere senza.
4 Il «prospettivismo» del Don Chisciotte Non una, ma molteplici realtà Già Don Chisciotte e Sancio rappresentano due modi diversi di interpretare la realtà, mettendo in evidenza un tema fondamentale del Don Chisciotte, che il critico Leo Spitzer (1887-1960) definisce «prospettivismo»: l’idea che il mondo appaia diverso a seconda della prospettiva di chi lo guarda e vi immette la propria cultura, i propri valori, i propri criteri interpretativi, il proprio orizzonte immaginario. Domina nell’opera di Cervantes una visione aperta e relativa del mondo. A livello delle strutture narrative il molteplice rifrangersi di una realtà che nel romanzo perde ogni consistenza monolitica è evidenziato dal gioco letterario della moltiplicazione dei narratori. Riprendendo un motivo topico dei romanzi cavallereschi, Cervantes finge di avere attinto la storia di Don Chisciotte a narrazioni preesistenti e invoca per gli eventi più inverosimili l’autorità di un fantomatico Turpino. Ma a rendere più articolato e complesso il gioco narrativo, e a sottolineare quanto ogni ricostruzione della realtà sia deformata dal punto di vista soggettivo di chi la guarda, egli vi aggiunge un’immaginaria fonte araba, che riferisce il punto di vista degli “infedeli”: il libro di un fantomatico storico musulmano, più volte definito «menzognero», Cide Hamete Benengeli, inattendibile per definizione (in quanto appunto “infedele”). Don Chisciotte: il più folle o il più saggio degli uomini? In un romanzo così complesso, anche il punto di vista dell’autore nel proporre il suo eroe appare sfaccettato: intende raffigurarlo soltanto come un “folle”, con la stessa distanza critica riservata da Ariosto ad Orlando nel Furioso? O in qualche modo intende proporlo come modello positivo? Della follia di un personaggio che scambia i mulini a vento per giganti non possiamo dubitare, ma in Don Chisciotte c’è anche altro. Ad esempio, in svariate occasioni questi dà prova di una straordinaria saggezza. L’autore gli concede spesso la parola, in momenti digressivi del romanzo che si alternano alle avventure e agli episodi d’azione, e, in amichevoli conversazioni con altri personaggi, gli fa dibattere con ammirevole competenza ed equilibrio i più importanti temi della cultura del tempo, dalla letteratura alla linguistica, all’etica, all’arte della guerra, al modo di governare uno Stato. Quando non è preda degli accessi di follia perché toccato nel suo punto debole, la mania cavalleresca, Don Chisciotte è il personaggio più amabile che si possa immaginare: la sua conversazione è piacevole e affabile; le maniere misurate e gentili; è pacato, saggio, capace di dispensare avveduti consigli; è urbano e tollerante; a differenza della maggior parte dei nobili dell’epoca, è cortese e amichevole anche
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con gli appartenenti a una classe sociale inferiore e dialoga con il contadino Sancio Panza come con un suo pari. Inoltre, per realizzare i suoi nobili ideali, Don Chisciotte dà prova di un coraggio davvero eroico e non si risparmia fatiche, sacrifici e sofferenze. Ma anche quando Don Chisciotte è preda della sua “follia cavalleresca”, che lo rende ridicolo e spesso oggetto di scherno per chi lo incontra, si può davvero considerare del tutto insensato il suo comportamento? Sicuramente la più grande pazzia di Don Chisciotte è credere che nella realtà si possano realizzare i valori dei romanzi: la giustizia, la lealtà cavalleresca, la difesa dei più deboli, la vittoria del bene. Ma non è ancora più folle – sembra suggerire l’autore – chi rinuncia a tutto questo soltanto perché non potrà vederlo realizzato? E si può davvero vivere senza alcun ideale?
Don Chisciotte: nasce il romanzo moderno romanzo picaresco spagnolo
poema cavalleresco (Orlando furioso) Don Chisciotte della Mancia (1605-1615) il primo romanzo della modernità
rapporto vita-letteratura
molteplicità di punti di vista («prospettivismo»)
interazione verità-illusione
5 Le interpretazioni del romanzo La polemica-parodia nei confronti della letteratura cavalleresca Le tante sfaccettature del personaggio di Don Chisciotte sono da porre in relazione con la ricchezza e la profondità di un romanzo che non si lascia ridurre a un unico punto di vista, ma apre la strada a molteplici prospettive di significato, che hanno dato luogo, nel tempo, a interpretazioni anche alquanto difformi. All’epoca di Cervantes nel Don Chisciotte si colse soprattutto la parodia dei romanzi cavallereschi, una vera e propria mania nella Spagna dell’epoca. I contemporanei leggevano l’opera come un libro comico si divertivano a scoprire come il protagonista si ingegnasse nel seguire i modelli letterari di cavaliere, incorrendo in esilaranti disavventure: basti pensare all’episodio in cui, non distinguendo la realtà dalla finzione scenica, l’hidalgo distrugge un teatro di marionette per salvare due innamorati (in realtà due burattini) dai crudeli Mori (➜ T6 OL); o come esponga sé e il povero Sancio al rischio di essere fatto a pezzi dalle pale di un mulino scambiato per un castello fatato (➜ T7 OL); o come l’oste che lo arma cavaliere pronunci un discorso a doppio senso in cui, facendole apparire come nobili atti cavallereschi, enunci in realtà le proprie furfanterie (➜ T5 ). Oltre la comicità, l’umorismo Pur essendo davvero divertente, il capolavoro di Cervantes non si può tuttavia ridurre al solo aspetto comico, come ben vide Luigi Pirandello (1867-1936), grande ammiratore dell’opera. Nel suo saggio L’umorismo (1908), lo scrittore siciliano lo considerava come l’archetipo dell’arte umoristica, da lui stesso coltivata in romanzi, novelle e drammi, un’arte capace di veicolare, attraverso la Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 193
comicità appariscente di casi paradossali, riflessioni profonde sulla vita. Pirandello osservava che, nonostante le imprese raccontate spesso muovano al riso, il Don Chisciotte non può essere considerato «una satira» dello spirito cavalleresco, perché, se le disgrazie del personaggio «da un canto ci fanno ridere, dall’altro ci commuovono profondamente» e ce lo fanno amare, in quanto ne riconosciamo la nobiltà d’animo. Il rapporto tra letteratura e vita Sicuramente centrale nel romanzo è il tema del rapporto fra la letteratura – e più in generale fra la dimensione fittizia dell’immaginario, che, al giorno d’oggi, oltre che nei libri, si esprime nei film, nei programmi televisivi, nei video – e la vita. Per questo aspetto Don Chisciotte può essere assimilato ad altri famosi personaggi, la Francesca di Dante e Madame Bovary, eroina dell’omonimo romanzo ottocentesco di Gustave Flaubert (1821-1880), perché le letture ne condizionano la visione del mondo; anzi, nel caso di Don Chisciotte addirittura la distorcono, cosicché alla fine egli non riesce più a distinguere il suo mondo immaginario da quello reale.
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Verso il Novecento Attualità del Don Chisciotte: interpretazioni artistiche, cinematografiche, musicali
Il Don Chisciotte, romanzo filosofico Nell’Ottocento i filosofi romantici come i fratelli Schlegel, Schelling ed Hegel mostrano grande interesse per il romanzo di Cervantes, facendolo oggetto di saggi teorici e di appassionate discussioni e a cui riconoscono una natura “filosofica”: mettendo in secondo piano la componente ironica del libro, essi fanno di Don Chisciotte il rappresentante di un ideale etico assoluto, che per la sua stessa natura non può trovare riscontro nella realtà, manchevole e imperfetta. Tale linea interpretativa sarà sviluppata nel Novecento dal filosofo e scrittore spagnolo Miguel de Unamuno (1864-1936), che nel suo libro Vita di Don Chisciotte e Sancio Panza (1905) contrappone, con una certa forzatura, Don Chisciotte, cavaliere dell’ideale, al gretto materialismo di Sancio Panza. Unamuno arriva ad affermare che il personaggio di Don Chisciotte prefigurerebbe, anticipandolo di secoli, l’ideale romantico. In questa prospettiva, il cavaliere della Mancia non è uno sconfitto, ma l’unico vero vincente. E forse è proprio questa la lezione ancora attuale del romanzo: il rifiuto di venire a patti con una realtà deludente, la volontà utopica di credere in un mondo migliore di quello che la realtà ci offre, di cercare di far vivere a tutti i costi gli ideali. In una lettera inviata ai familiari, nel 1965, Ernesto Che Guevara (1928-1967) si identifica nel personaggio da lui prediletto, appunto don Chisciotte, con queste parole: «Miei cari, ancora una volta sento sotto i talloni le costole di Ronzinante; mi rimetto in cammino col mio scudo al braccio». È una prova dell’immortale vitalità di Don Chisciotte, un personaggio nato dalla fantasia di uno scrittore, ma capace a distanza di secoli di rivivere nell’immaginazione, proponendosi come, pur imperfetto, modello per chi combatte animato da un suo ideale di giustizia, e testimoniando così l’incessante dialogo tra letteratura e vita.
Fissare i concetti Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 1. Quali aspetti di modernità presenta Don Chisciotte, il romanzo capolavoro di Cervantes? 2. Quali aspetti accomunano Miguel de Cervantes e il suo personaggio più famoso? 3. Quali sono i modelli di riferimento a cui Cervantes si è ispirato per il Don Chisciotte? 4. Come è strutturato lo schema narrativo del Don Chisciotte? 5. Come potrebbe essere definito il rapporto tra Don Chisciotte e il suo scudiero Sancio Panza? Giustifica la tua risposta. 6. Perché il rapporto tra realtà e letteratura è uno dei temi cardine del romanzo capolavoro di Miguel de Cervantes?
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Miguel de Cervantes
T4
Da lettore a protagonista: Don Chisciotte decide di diventare cavaliere errante Don Chisciotte della Mancia, I, 1
M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a c. di C. Segre e D. Moro Pini, Mondadori, Milano 1985 AUDIOLETTURA
Dopo aver letto molti, o meglio troppi, libri di genere cavalleresco (di cui lo stesso Cervantes era appassionato), Don Chisciotte decide di abbandonare il ruolo passivo di lettore per diventare egli stesso cavaliere errante ed emulare le imprese dei suoi eroi.
In un borgo della Mancia, di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un gentiluomo di quelli con lancia nella rastrelliera, scudo antico, ronzino magro e can da séguito. Qualcosa in pentola, più spesso vacca che castrato, quasi tutte le sere gli avanzi del desinare in insalata, lenticchie il venerdì, un gingillo il 5 sabato, un piccioncino ogni tanto in più la domenica, consumavano tre quarti delle sue rendite; il resto se ne andava tra una casacca di castoro con calzoni e scarpe di velluto per le feste, e un vestito di fustagno1, ma del più fino, per tutti i giorni. Aveva una governante che passava i quarant’anni, una nipote che non arrivava ai venti e un garzone capace per il campo come per il mercato, buono a sellare il ron10 zino come a menar la roncola2. L’età del nostro gentiluomo rasentava la cinquantina: era di complessione robusta, asciutto di corpo, magro di viso, molto mattiniero e amante della caccia. Voglion dire che avesse il soprannome di Chisciada o Chesada (perché a questo proposito c’è qualche discrepanza tra gli autori che ne hanno scritto), ma da congetture assai verosimili si arguisce che si chiamava Chisciana. Ma 15 questo importa poco pel nostro racconto: basta che nell’esposizione dei fatti non ci si scosti una linea dalla verità. Bisogna poi sapere che questo gentiluomo, nei periodi di tempo in cui non aveva nulla da fare (cioè la maggior parte dell’anno), si dedicava alla lettura dei romanzi cavallereschi e a poco per volta ci si appassionò tanto, che dimenticò quasi del tutto 20 la caccia e anche l’amministrazione del suo patrimonio; anzi, la sua curiosità e la smania di questa lettura arrivarono a tal segno, che vendé parecchi appezzamenti di terreno, e di quello buono anche, per comprarsi dei romanzi cavallereschi. [...]. Insomma, si sprofondò tanto in quelle letture, che passava le notti dalla sera alla mattina, e i giorni dalla mattina alla sera, sempre a leggere; e così, a forza di dormir 25 poco e di legger molto, gli si prosciugò talmente il cervello, che perse la ragione. Gli si riempì la fantasia di tutto quello che leggeva nei suoi libri: incanti, litigi, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e stravaganze impossibili; e si ficcò talmente nella testa che tutto quell’arsenale di sogni e d’invenzioni lette ne’ libri fosse verità pura, che secondo lui non c’era nel mondo storia più certa. [...]. 30 E così, perso ormai del tutto il cervello, gli venne il pensiero più stravagante che sia mai venuto a un pazzo; cioè gli parve opportuno e necessario, sia per accrescere il proprio onore, sia per servire il proprio paese, di farsi cavaliere errante, e d’andar per il mondo con le sue armi e il suo cavallo a cercare avventure e a cimentarsi in tutte le imprese in cui aveva letto che si cimentavano i cavalieri erranti, combatten35 do ogni sorta di sopruso ed esponendosi a prove pericolose, da cui potesse, dopo averle condotte a termine, acquistarsi fama immortale. Il pover’uomo si figurava già 1 fustagno: tessuto morbido e robusto.
2 roncola: attrezzo per potare e tagliare i rami.
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di diventare, grazie al valore del suo braccio, per lo meno imperatore di Trebisonda3, e quindi, sospinto da così radiosi pensieri e dalla straordinaria soddisfazione che gli davano, si affrettò a mandare ad effetto il suo desiderio. 40 Anzitutto lucidò certe armi che erano appartenute ai suoi antenati, le quali da parecchi secoli se ne stavano piene di ruggine e di muffa dimenticate in un cantuccio. Le ripulì dunque, e le accomodò alla meglio, ma si accorse che vi mancava un pezzo di grande importanza; perché invece di una celata con la relativa barbozza c’era un semplice morione4. A questa mancanza rimediò ingegnandosi. Con del cartone fece 45 alla peggio una specie di barbozza, che, incastrata nel morione, gli dava l’apparenza di una celata intera. Vero è che per provare se era forte e poteva reggere al rischio di una sciabolata, tratta fuori la spada, le tirò due colpi, ma al primo disfece in un attimo il lavoro di una settimana. La facilità con cui l’aveva tribbiata5 non gli piacque tanto; perciò la rifece di nuovo, mettendoci a traverso dalla parte di dentro 50 delle sbarrette di ferro per garantirsi meglio da ogni pericolo. In questo modo rimase soddisfatto della sua solidità e non volle rifar la prova, ma senz’altro la ritenne una celata di qualità ottima. Dopo andò a fare un’ispezione al suo ronzino e sebbene avesse più guidaleschi6 che il cavallo del Gonnella7, il quale tantum pellis et ossa fuit8, gli parve che né 55 il Bucefalo9 d’Alessandro, né il Babieca del Cid10 gli potessero stare a pari. Stette quattro giorni a pensare che nome gli potesse mettere, perché, diceva lui, non era giusto che il cavallo di un cavaliere così famoso, e poi anche bravo di suo, dovesse rimanere senza un bel nome. Quindi cercava di trovargliene uno che designasse ciò che era stato prima d’entrare nella cavalleria errante, e ciò che era allora. Ed era 60 molto logico che, mutando condizione il padrone, anche il cavallo dovesse mutare il nome e prendersene uno pomposo e risonante, come era conveniente al nuovo ordine e all’uffizio nuovo che ormai assumeva. Quindi, dopo d’aver nel suo cervello inventati e poi scartati, allungati ed accorciati, disfatti e rifatti una gran quantità di nomi, finì col chiamarlo Ronzinante; nome, secondo lui, maestoso, sonoro, e che 65 significava molto bene ciò che era stato, quando era stato ronzino, di fronte a ciò che era ora, cioè un ronzino «innante11» a tutti i ronzini del mondo. Messo un nome, e un nome tanto di suo gusto, al cavallo, volle metterselo anche per sé, e stette altri otto giorni a pensarci, finché decise di chiamarsi Don Chisciotte; e di qui, come si è già detto, presero occasione gli autori di questa verissima storia 70 per affermare che si dovesse chiamar Chisciada e non Chesada, come altri invece vollero sostenere. Ma ricordandosi che il valoroso Amadigi12 non si era contentato di chiamarsi puramente Amadigi, ma aveva aggiunto l’indicazione del suo regno e della sua patria per renderla famosa, e si era dato il nome di Amadigi di Gaula, anch’egli volle da buon cavaliere aggiungere quello della patria al proprio nome e 75 chiamarsi Don Chisciotte della Mancia. Così gli parve di avere manifestato, in modo molto chiaro, lignaggio e origini, e di aver reso alla patria il dovuto onore prendendo da essa il proprio cognome. 3 Trebisonda: città sulle coste del mar Nero. 4 invece... morione: invece di un elmo che copriva tutta la testa c’era un semplice morione (un elmo medievale che non copriva per intero la testa). La barbozza è la parte dell’armatura che si aggiunge
alla celata per proteggere la parte inferiore del viso. 5 tribbiata: sfasciata. 6 guidaleschi: piaghe provocate dall’attrito dei finimenti. 7 Gonnella: famoso buffone della corte di Ferrara.
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8 tantum... fuit: era soltanto pelle e ossa. 9 Bucefalo: famoso cavallo di Alessandro Magno. 10 Cid: eroe spagnolo della reconquista. 11 innante: innanzi. 12 Amadigi: Amadigi di Gaula, protagonista di un famoso poema cavalleresco.
Analisi del testo La presentazione del protagonista Nel passo l’autore presenta il protagonista del suo libro, un anziano nobiluomo di campagna, di condizione modesta: non ricco, né giovane, né forte, non ha nessuna delle caratteristiche di un cavaliere errante, ma si è così immedesimato nelle sue letture da identificarsi con i protagonisti dei romanzi e da decidere di emularne le gesta. Il primo passo per il cambiamento di identità di Don Chisciotte è attribuire a sé e a quelli che lo circondano nuovi nomi, più nobili di quelli reali: il suo ronzino diviene così Ronzinante, ed egli stesso assume un nome adatto a un cavaliere, Don Chisciotte della Mancia; in seguito muterà il nome della contadina Aldonza Lorenzo, che sceglie come amata, nell’aulico Dulcinea del Toboso. Questo particolare evidenzia quello che sarà un tratto costante dell’atteggiamento di Don Chisciotte: imitare in ogni dettaglio i suoi prediletti eroi cavallereschi. Per dedicarsi al compito di cavaliere, Don Chisciotte rispolvera le armi, ormai in disuso, appartenute ai suoi antenati. È da notare che lancia e spada, le armi di Don Chisciotte, sono ormai del tutto superate, dato che da più di un secolo erano in uso le armi da fuoco (lo stesso Cervantes era stato archibugiere). Questo particolare evidenzia l’anacronismo della figura del cavaliere errante, e mette in luce il rapporto tra il Don Chisciotte e l’Orlando furioso, che aveva attribuito il declino dei valori cavallereschi proprio all’invenzione delle armi da fuoco, che, eliminando la necessità del corpo a corpo, consentono Don Chisciotte di vincere anche ai vili e agli inetti, se e i personaggi immaginari ben armati: con la sua povera lancia e dei suoi libri, l’armatura raffazzonata, l’hidalgo è già illustrazione di in partenza destinato alla sconfitta. Gustave Doré Nella figura di Don Chisciotte alcuni per un’edizione del Don hanno visto anche un simbolo della Chisciotte del stessa Spagna, ancora legata agli anti1863. chi valori cavallereschi, ma ormai economicamente e militarmente avviata a un malinconico declino.
Un narratore non attendibile La disquisizione sul vero nome di Don Chisciotte, infine, fa luce sul narratore del romanzo, non onnisciente, e sul suo complesso rapporto con gli eventi narrati. Nel mostrarsi solo parzialmente attendibile, il narratore costringe il lettore ad assumere un ruolo critico rispetto agli eventi narrati; anche in questo intento di straniamento l’opera di Cervantes mostra un evidente rapporto con il poema ariostesco.
La fantasia visionaria di Don Chisciotte è ben rappresentata in questa famosa illustrazione di Gustave Doré. Don Chisciotte, circondato da libri sparsi dappertutto, legge con aria esaltata, brandendo la spada; attorno a lui la stanza si popola di donzelle in pericolo, di cavalieri armati di spada, di mostri. Sul pavimento, un personaggio sembra appena uscito da un libro, mentre dalle tende spunta una testa gigantesca, e due cavalieri minuscoli combattono a cavallo di topi.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Perché Don Chisciotte è considerato pazzo? ANALISI 3. Individua nel testo gli indizi che fanno intuire al lettore che Don Chisciotte è un nobile decaduto.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 4. Spiega in un breve discorso il significato di questa frase del narratore della storia: «basta che nell’esposizione dei fatti non ci si scosti una linea dalla verità». SCRITTURA 5. Illustra in un breve testo (max 15 righe) il rapporto fra il passo letto e le illustrazioni riprodotte qui sopra e alla pagina seguente.
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Nel disegno di Francisco Goya Don Chisciotte è appoggiato su un ginocchio, in una posa instabile, con il cane e la spada al fianco e, rivolto verso l’osservatore, indica un passo del libro che sta leggendo. In alto sono sospese figure bizzarre, che si volgono verso di lui, alcune minacciose e inquietanti, altre affascinanti: un’emanazione della sua fantasia.
Don Chisciotte ossessionato da mostri, disegno di Francisco Goya.
Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da S. Battaglia, Mitografia del personaggio, Liguori, Napoli 1991
Don Chisciotte è sullo stesso piano degli eroi ariosteschi, che s’aggirano nell’incanto illusorio del castello d’Atlante o si vanificano nel vallone della luna. Ma egli non è vittima d’una magia né d’una coscienza dissennata. Quel ch’egli crede è consegnato nei libri, dentro le storie, nei miti dell’umanità, è documen5 tato da mille testimonianze letterarie. Il torto non è suo se questi simulacri non li ritrova nel mondo reale, ma è della vita che non li possiede più o non li ha mai avuti in proprio. La sua follia, che gli appartiene in assoluto, è tuttavia equidistante tra lui e l’esperienza. Se gli uomini che lo considerano fuori di senno vivono come vivono – cioè senza i suoi ideali, sogni, ambizioni, chime10 re – che senso ha per loro la vita? La sua follia è vera, e Miguel de Cervantes è scrupoloso a registrarla minutamente, senza mai scagionarla o dissimularla; ma una volta ch’essa sia stata definita come tale, non per questo la realtà e la condizione umana cessano di permanere incerte, ambigue, contraddittorie [...]. Riflettendo sulle osservazioni del critico letterario, esprimi le tue considerazioni sulla “follia” di battersi per cause e ideali irrealizzabili, ancorché nobili e alti, e di apparire per questo superati e persino ridicoli. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
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Miguel de Cervantes
T5
L’investitura cavalleresca di Don Chisciotte Don Chisciotte della Mancia, I, 3
M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a c. di C. Segre e D. Moro Pini, Mondadori, Milano 1985
Don Chisciotte non è stato ancora armato cavaliere. Preoccupato perché in questa sua condizione le sue imprese sono illegittime, prega l’oste di una locanda, che scambia per un castello, di concedergli l’investitura cavalleresca.
E quindi, tormentato da questo pensiero, si spicciò a finire quel magro pasto da taverna. Finito che ebbe, chiamò l’oste, e, serratosi con lui nella stalla, gli si buttò in ginocchio dinanzi dicendo: 5 – Non mi alzerò di qui, valoroso cavaliere, finché la vostra cortesia non mi avrà accordata la grazia che vi chiederò, la quale ridonderà a vostra lode e in prò del genere umano. L’oste, che si vide a’ piedi il suo cliente e sentì quei discorsi, stava tutto stupito a guardarlo, non sapendo che dire né che fare, e insisteva che si alzasse, ma quello 10 non ne volle sapere, finché l’altro non gli ebbe promesso di accordargli la grazia che gli avrebbe chiesta. – Non speravo meno dalla gran magnificenza vostra, signor mio – rispose Don Chisciotte – e quindi vi dico che la grazia da me richiesta e dalla vostra liberalità accordatami, si è che domattina voi mi dovete armar cavaliere. Questa notte nella 15 cappella di questo vostro castello farò la veglia d’armi e domattina, come ho detto, si compirà ciò che desidero, per poter andare, secondo è mio dovere, per tutte e quattro le parti del mondo cercando avventure, a vantaggio dei necessitosi di soccorso, come è compito della cavalleria e dei cavalieri erranti quale io mi sono, e il cui desiderio è a simili imprese rivolto. 20 L’oste, che, come si è detto, era un volpone e aveva di già qualche sospetto che al suo cliente gli mancasse qualche venerdì, ne rimase pienamente convinto, quando gli sentì fare di quei discorsi, e per poter ridere un po’ alle sue spalle, lo assecondò in quella idea stramba, e gli disse che aveva perfettamente ragione di desiderare e chiedere quel che desiderava e chiedeva, e che una tale risoluzione era propria 25 e naturale per i cavalieri di così alto grado come sembrava che fosse lui e come lo palesava il suo fiero aspetto. – Anch’io – soggiunse poi – nella mia gioventù ho fatto quell’onorevole professione, andando qua e là per diverse parti del mondo in cerca d’avventure, e non ho mancato di bazzicare le Pertiche di Malaga, le Isole di Riarán, il Compás di Sivi30 glia, il Mercatino di Segovia, l’Olivera di Valenza, la Rotonda di Granata, il Lido di Sanlúcar, la Piazza del Puledro a Cordova, le Ventillas di Toledo, e altri diversi posti, dove ho potuto esercitare la sveltezza dei miei piedi e l’agilità delle mie mani, commettendo molti soprusi, corteggiando molte vedove, distruggendo alquante vergini, imbrogliando diversi minorenni, e finalmente rendendomi famoso in quasi 35 tutti i tribunali e tutte le corti d’assise della Spagna. Ho poi finito col ritirarmi in questo castello di mia proprietà, nel quale vivo con le mie sostanze e con quelle degli altri, ricevendo tutti i cavalieri erranti di tutte le condizioni e qualità, soltanto per il grande affetto che ho per loro, e purché si contentino di dividere con me i loro denari in ricompensa delle mie buone disposizioni. Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 199
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L’oste gli disse anche che nel suo castello non c’era cappella in cui poter fare la veglia d’armi, perché era stata abbattuta per rifarne una nuova; ma sapeva che in caso di necessità la veglia si poteva fare in qualunque posto, e che quella notte egli avrebbe potuto farla in una corte del castello; e la mattina poi, a Dio piacendo, si sarebbero fatte le dovute cerimonie, in modo che egli fosse armato cavaliere, e tanto cavaliere, che più non fosse possibile.
Analisi del testo L’oste accorto e scaltro Nella cerimonia dell’investitura si evidenzia come Don Chisciotte interpreti la realtà secondo la sua fantasia esaltata, trasfigurando cose e persone: scambia l’osteria per un castello e l’oste per un nobile da cui ricevere l’investitura cavalleresca. L’oste è il primo dei tanti personaggi del romanzo che stanno al gioco. Accorto e scaltro, evidentemente abituato a ogni genere di clienti e buon conoscitore dei romanzi cavallereschi, fa un discorso da intendere in senso antifrastico (ossia volgendolo al contrario di ciò che sembra affermare): un ascoltatore meno ingenuo di Don Chisciotte si sarebbe reso conto che l’oste non era un cavaliere né mai aveva compiuto atti cavallereschi in vita sua, essendo in realtà un furfante matricolato, noto ai tribunali di tutta la Spagna. La tecnica del discorso a doppio senso, non compreso dall’ingenuo destinatario nel suo reale significato, rivela la familiarità di Cervantes con la letteratura italiana, e in particolare con il modello del Decameron di Boccaccio (si pensi, ad esempio, alla novella di frate Cipolla).
Il discorso antifrastico Tutto il discorso è strutturato in modo antifrastico: ad esempio, l’oste fa intendere a Don Chisciotte che egli usa accogliere generosamente i suoi ospiti, secondo l’antico costume cavalleresco, ma in realtà, secondo la più prosaica realtà del tempo, spiega che vuole essere pagato («purché si contentino di dividere con me i loro denari»). Soddisfatto di aver trovato quello che crede un nobile cavaliere, quindi una persona legittimata a conferirgli l’investitura, Don Chisciotte si prepara a una cerimonia solenne che sarà in realtà una farsa: non solo non diventa in tal modo cavaliere, ma si preclude anche la possibilità di diventarlo in seguito, perché una legge spagnola dell’epoca, come osserva Martín de Riquer, proibiva che potesse essere fatto cavaliere chi fosse stato in precedenza armato una volta per scherzo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali comportamenti di Don Chisciotte sono ispirati dalla convinzione che l’oste sia un nobile cavaliere? ANALISI 2. Individua nel discorso dell’oste gli elementi che fanno intuire che si tratti di un malfattore.
Interpretare
SCRITTURA 3. Descrivi in un breve testo le caratteristiche della figura dell’oste.
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T6 Miguel de Cervantes
T7 Miguel de Cervantes L’avventura del mulino ad acqua Don Chisciotte della Mancia II, 29
Analisi passo dopo passo I perseguitati vanno difesi a ogni costo... anche se sono burattini Don Chisciotte della Mancia II, 26
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Analisi passo dopo passo
Miguel de Cervantes
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Le ragioni dello spirito e quelle del corpo Don Chisciotte della Mancia, II, 68
M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, a c. di C. Segre e D. Moro Pini, Mondadori, Milano 1985
Siamo quasi alla fine del romanzo e le avventure cavalleresche di Don Chisciotte sono ormai giunte al termine, dato che egli, vinto dal suo vicino Sansone Carrasco, travestito da cavaliere, ha dovuto giurare che si sarebbe astenuto dalle avventure per un anno. L’atmosfera tranquilla della notte induce Sancio e Don Chisciotte a una delle loro conversazioni più profonde, in cui confrontano le loro diverse visioni della vita.
La notte era piuttosto scura, sebbene ci fosse la luna; la quale tuttavia rimaneva in un punto dove non poteva esser vista; perché a volte la signora Diana1 se ne va a spasso agli antipodi, e lascia i monti nell’ombra, le valli nell’oscurità. Don Chisciotte pagò il suo tributo alla natura dormendo il primo sonno, che però non fu seguìto 5 dal secondo; al contrario di Sancio che non conosceva il secondo sonno, perché dalla sera alla mattina ne faceva tutt’uno; e da questo si poteva capire la sua buona complessione2 e i suoi pochi pensieri. Quelli di Don Chisciotte lo tennero tanto sveglio, che finì con lo svegliare anche Sancio e gli disse: – Io sono stupito dell’indolenza del tuo carattere. Io credo che tu debba essere di 10 marmo o di bronzo, e che tu non abbia quindi né movimento né sentimento. Io veglio e tu dormi, io piango e tu canti, io mi svengo dalla fame e tu te ne stai come un masso, stronfiando3 per aver mangiato troppo. I buoni servitori devon partecipare alle pene dei loro padroni e dividerne i sentimenti, per educazione non foss’altro. Guarda che notte serena! Che solitudine! Tutto c’invita a interrompere il nostro 15 sonno con qualche momento di veglia. Alzati, in nome del cielo: tirati un poco in là e di buon animo con simpatica disinvoltura datti tre o quattrocento frustate in conto di quelle che ti devi dare per il disincanto di Dulcinea4. E questo te lo chiedo con le buone, perché non voglio fare alla lotta con te come l’altra volta, perché so che hai le braccia pesanti. Quando ti sarai frustato, passeremo quel che resta della 20 notte a cantare, io la lontananza della mia dama, e tu la tua costanza, dando fin d’ora principio alla vita pastorale che dobbiamo condurre nel nostro paese5. – Signor padrone – rispose Sancio – non son mica un frate da dovermi levare sul più bello del sonno e disciplinarmi! E ancora meno mi persuade che dallo spasimo delle frustate si possa passar tutto a un tratto al piacere della musica. Mi lasci dunque 25 dormire, e la faccia finita con questa storia del frustarsi, perché se no, glielo dico io, io giuro di non toccarmi neanche il pelo della giacca non che la pelle. – O anima indurita! O scudiero senza pietà! O pane male impiegato, o favori male spesi, quelli che t’ho fatto e quelli che pensavo di farti! Grazie a me ti sei visto governatore, grazie a me puoi dire d’avere fondate speranze di diventar presto conte, 30 o d’ottenere un altro titolo equivalente; né queste speranze tarderanno a realizzarsi oltre l’anno del mio ozio forzato, per ch’io post tenebras spero lucem6. 1 la signora Diana: identificata con la Luna nella mitologia. 2 buona complessione: sana costituzione. 3 stronfiando: russando rumorosamente. 4 per... Dulcinea: Don Chisciotte era convinto che Dulcinea fosse vittima di un incantesimo che la faceva apparire come una contadina, e che fossero necessari riti di
espiazione per farla tornare alla sua vera identità di gentildonna. 5 vita pastorale... paese: Don Chisciotte era stato vinto da un suo vicino travestito da cavaliere, Sansone Carrasco, e costretto a promettere di rinunciare alla cavalleria per un anno. Stava perciò meditando di trascorrere quel periodo vivendo come un
personaggio non più dei romanzi cavallereschi, ma di quelli pastorali. 6 post... lucem: dopo le tenebre, spero nella luce. È una citazione biblica (Giobbe 17, 12), che conferisce alla missione di Don Chisciotte un senso quasi religioso.
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– Questo non lo capisco – replicò Sancio – so solamente che fintanto che dormo, non sento né timori, né speranze, né fatiche, né gloria. Benedetto chi inventò il sonno! È una cappa che copre tutti i pensieri, un vitto che leva la fame, un’acqua 35 che estingue la sete, un fuoco che toglie il freddo, un fresco che tempera il caldo, e finalmente una moneta con cui si compra ogni cosa, una bilancia su cui si eguagliano il pastore col re, lo stolto col saggio. Una sola cosa brutta ha il sonno, come ho sentito dire, ed è che somiglia alla morte, perché tra un addormentato e un morto c’è poca differenza. 40 – È la prima volta che ti sento parlare con delle parole così scelte, Sancio – disse Don Chisciotte – e quindi capisco che è proprio vero il proverbio che qualche volta t’ho sentito dire: «Dimmi chi pratichi e ti dirò chi sei». – Ah perdincina, signor padrone! – replicò Sancio. – Non son io ora che infilzo proverbi! Anche a lei vengono giù dalla bocca a picce7 peggio che a me. Tra i miei 45 e i suoi ci sarà questa differenza, che i suoi calzeranno e i miei no, ma insomma son tutti proverbi. Stavano così discorrendo, quando sentirono un sordo e intenso rumore che si stendeva per tutta la vallata. Don Chisciotte si alzò e tutto turbato mise mano alla spada, mentre Sancio tremando di paura si rannicchiò sotto al ciuco, barricandosi da una 50 parte col basto8 e dall’altra con le armi. Di momento in momento andava crescendo lo strepito e avvicinandosi ai due uomini impauriti, o per lo meno uno, ché dell’altro conosciamo bene il valore. Erano dei porcari, che menavano a vendere a una fiera più di seicento porci, e li facevano camminare a quell’ore di notte. Era tale lo strepito che facevano, il grugnire e lo sbuffare, che Don Chisciotte e Sancio, assorditi, non 55 riescivano a capire che diavolo potesse essere. Arrivò in massa il branco sterminato e grugnitore, e senza portar rispetto all’autorità di Don Chisciotte né a quella di Sancio, passarono di sopra a tutti e due, spianando le trincee di Sancio, rovesciando Don Chisciotte e Ronzinante per giunta. Il gran numero, quei grugniti, la rapidità con cui arrivarono quegli animali immondi sparsero la confusione e rovesciarono 60 sottosopra basto armi ciuco Ronzinante Sancio e Don Chisciotte. Sancio, rizzatosi alla meglio, chiese al suo padrone la spada, dicendogli che voleva ammazzare una mezza dozzina di quei signori villan cornuti di porci, ché ormai li aveva visti bene che eran porci. Ma Don Chisciotte gli disse: – Lasciali stare, amico. Quest’affronto è una punizione pel mio peccato: è un giusto 65 gastigo del cielo che un cavaliere errante vinto sia divorato dai lupi, punto dalle vespe, e calpestato dai porci. – Allora deve essere un gastigo del cielo anche per gli scudieri – disse Sancio – d’esser appinzati dalle mosche, mangiati dai pidocchi e tormentati dalla fame. Se noi scudieri fossimo figli dei cavalieri a cui serviamo, o loro prossimi parenti, non 70 sarebbe tanto strano che ci toccasse a scontare le loro colpe fino alla quarta generazione. Ma che ci hanno che vedere i Panza coi Chisciotte? Basta! Torniamo a sdraiarci, e dormiamo questa po’ di notte che resta: domani qualche santo sarà. – Dormi tu, Sancio – replicò Don Chisciotte – che sei nato per dormire, mentre io son nato per vegliare.
7 a picce: in gran numero (la piccia è una filza di oggetti accoppiati insieme).
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8 basto: rozza sella di legno per asini o muli.
Analisi del testo Due personaggi complementari Semplificando il senso del romanzo, si tende a volte a vedere i due personaggi di Don Chisciotte e Sancio come opposti, Don Chisciotte idealista e Sancio grettamente materialista, mentre in realtà il loro rapporto è molto più sfaccettato e complesso.
L’evoluzione di Sancio e di Don Chisciotte Durante tutta l’opera Sancio si evolve ed entra sempre più in consonanza con il suo padrone, come nel passo proposto constata lo stesso Don Chisciotte, ammirato per l’eloquente discorso del suo ignorante scudiero: Sancio riesce infatti per la prima volta a esprimere una compiuta filosofia di vita, con parole tanto scelte da suscitare meraviglia in Don Chisciotte. La visione del mondo a cui Sancio arriva soltanto per saggezza naturale, dato che è analfabeta, si può avvicinare all’epicureismo poiché pone come principio basilare il piacere, in contrasto con l’etica di Don Chisciotte, tutta imperniata sul senso del dovere e sul perfezionamento di sé. Anche Don Chisciotte però ha imparato qualcosa da Sancio, come dimostra il fatto che adotta la saggezza popolare dei proverbi (e anzi, ricorda proprio un proverbio appreso dal suo scudiero), mentre prima lo aveva sempre rimproverato per la sua mania di citare continuamente motti popolari, come lo stesso Sancio argutamente gli fa notare.
Il tema dell’uguaglianza Nell’elogio che Sancio fa del sonno c’è poi un’idea dalle implicazioni profonde, che il sonno, a tutti necessario, accomuni poveri e ricchi, saggi e stolti. Tale idea dell’uguaglianza in nome di una comune umanità non è per niente ovvia in un’epoca ossessionata dalle gerarchie sociali e dal culto dell’onore, tanto che la maggioranza dei nobili, a differenza di Don Chisciotte, avrebbe considerato disdicevole intrattenere un colloquio amichevole con il proprio servo.
La fine della fantasia incantatrice di Don Chisciotte L’atmosfera serena del colloquio è interrotta, nel modo più brusco e prosaico che si possa immaginare, dall’irrompere di un enorme branco di porci, che però non dà luogo a un’avventura comica come quelle che in precedenza avevano caratterizzato il romanzo. Per la prima volta Don Chisciotte sembra uscire dal mondo cavalleresco creato dalla sua immaginazione e “vedere” la realtà: da un punto di vista psicologico, si può ammirare l’intuizione di Cervantes nell’immaginare che nel suo personaggio, impossibilitato ad agire per aver promesso di astenersi dalle sue imprese dopo la sconfitta nel duello con Sansone Carrasco, venga meno anche il potere trasfigurante della fantasia, che dava un impulso e un significato alle sue azioni. La realtà nel suo aspetto più prosaico, simboleggiata dal branco di porci, ha ormai preso il sopravvento, e Don Chisciotte e Sancio si preparano così, dopo tante avventure, a congedarsi dai loro lettori.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Dove è ambientato l’episodio? SINTESI 2. Sintetizza in un breve testo espositivo il contenuto del discorso di Sancio (max 5 righe). ANALISI 3. Nel suo discorso Don Chisciotte traccia due ritratti per contrapposizione di sé stesso e di Sancio. Individua e sottolinea nel testo le caratteristiche opposte dei due personaggi, secondo il punto di vista del protagonista.
Interpretare
SCRITTURA CREATIVA 4. Immagina un’avventura di Don Chisciotte nel mondo d’oggi. 5. Immagina un discorso in cui Don Chisciotte spieghi come oggi, nel XXI secolo, sia più che mai necessario e urgente ripristinare la cavalleria errante, e indichi i compiti che dovrebbe assumere.
Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte 2 203
Seicento Il rinnovamento delle forme narrative
Sintesi con audiolettura
1 Le fiabe, il poema “eroicomico” e il romanzo
La ripresa barocca della fiaba: Lo cunto de li cunti di Giovanni Battista Basile Le fiabe nei Seicento assumono per la prima volta dignità letteraria in quanto, con le loro trasformazioni “meravigliose”, ben interpretano lo spirito metamorfico del Barocco. Un esempio di questo genere è rappresentato da Lo cunto de li cunti (in cinque volumi, editi tra il 1634 e il 1636) di Giovan Battista Basile (1570-1632), raccolta di fiabe che venne tradotta in diverse lingue e che divenne modello per autori di fiabe europei come Perrault e i fratelli Grimm. L’opera si configura come un rovesciamento ironico del Decameron, in quanto i narratori non sono giovani ma donne anziane dall’aspetto grottesco; si raccontano non storie realistiche, ma fiabe; prevalgono non l’ingegno e le capacità umane, ma i capricci della fortuna. La raccolta è scritta in dialetto napoletano ed è caratterizzata da uno stile barocco estroso e vivace, improntato all’ironia. Il poema “eroicomico”: il rovesciamento ironico dell’epos Un ulteriore esempio della ricerca di innovazione della letteratura barocca è La secchia rapita (stampata a Parigi nel 1622 e poi a Venezia nel 1630) di Alessandro Tassoni (1565-1635), parodia del poema epico, perché è rapita non una donna come Elena di Troia ma una secchia di legno, sottratta a un pozzo bolognese, e il conflitto che si scatena in seguito a questo episodio è soltanto una scaramuccia tra due comuni rivali, Modena e Bologna. Lo stesso protagonista non è un eroe ma è un inetto e lo stile dell’opera si fonda sulla mescolanza di diversi registri linguistici. Il nuovo genere del romanzo Nel Seicento il genere più significativo della letteratura è il romanzo in prosa. A differenza dell’epos che rappresenta i valori di una collettività, il romanzo si incentra sul singolo individuo e sul rapporto con il mondo che lo circonda. Si affermano due tipologie del genere: il romanzo di evasione e il romanzo come rappresentazione realistica e critica. Il primo ha un carattere di intrattenimento e, in genere, racconta una storia d’amore contrastata tra due giovani, che alla fine si risolve positivamente. Il secondo tipo, che si ispira al Satyricon di Petronio e alle Metamorfosi di Apuleio, è finalizzato alla rappresentazione oggettiva e critica della realtà, nella quale l’ambiente sociale riveste grande importanza. A questa seconda tipologia, per la medesima prospettiva di osservazione “dal basso”, si può accostare il romanzo picaresco spagnolo – che ha per protagonista il pícaro (popolano scaltro e privo di scrupoli, che vive di espedienti) – inaugurato dall’opera di un autore anonimo, Lazarillo de Tormes (1544).
2 Alle origini del romanzo moderno: il Don Chisciotte
Il Don Chisciotte di Cervantes (pubblicato in due parti, la prima nel 1605 e la seconda nel 1615) può essere considerato il primo grande romanzo moderno della letteratura occidentale: la modernità del libro risiede nel fatto che esso non rappresenta soltanto una narrazione coinvolgente delle avventure di un rappresentante della piccola nobiltà, ma è anche una riflessione profonda sul rapporto tra l’uomo – con gli ideali e i mondi fantastici che occupano la sua fantasia – e la realtà in cui vive.
204 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative
Una vita “da romanzo” Miguel de Cervantes nasce nel 1547 in Spagna, ad Alcalá de Henares, da una modesta famiglia e ha una vita avventurosa. Nella prima giovinezza, ricercato per aver ferito un cortigiano in un duello, fugge dalla sua patria e si reca in Italia, dove conosce la letteratura rinascimentale e si arruola nell’esercito imperiale. Nel 1571 combatte nella Battaglia di Lepanto, nella quale perde eroicamente l’uso della mano sinistra; nel 1575, ritornato in Spagna, viene catturato dai pirati e venduto come schiavo ad Algeri; riottenuta la libertà dopo vaie peripezie, rientra in patria, dove entra in contatto con il mondo che in seguito rappresenterà nel suo capolavoro (contadini, nobili di campagna, saltimbanchi ecc.). In questo periodo viene incarcerato e in prigione, con ogni probabilità, concepisce il Don Chisciotte. Muore nel 1616. L’intreccio e le fonti del Don Chisciotte Il protagonista del Don Chisciotte è un hidalgo, un piccolo nobile decaduto, con la passione per i romanzi cavallereschi, il quale, immerso nel suo mondo libresco, perde la ragione. Di fronte alla decadenza del mondo che lo circonda, egli si convince che le sorti dell’umanità siano nelle mani dei cavalieri erranti e decide di intraprendere lui stesso questa missione: si fa ordinare cavaliere da un oste ed elegge una contadina a nobile oggetto d’amore. Dopo una serie di avventure, accompagnato dal suo fedele scudiero Sancio Panza, un contadino analfabeta, fa ritorno a casa, dove, prima di morire, si ravvede e rinnega gli ideali cavallereschi. Due sono gli antecedenti letterari del Don Chisciotte: il poema cavalleresco, in particolare l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto che, con la figura di Orlando, introduce il tema della follia e della distanza fra ideale e reale, tema fondamentale dell’opera, che mette in evidenza l’inattualità dei valori cavallereschi nel mondo moderno; e il romanzo picaresco, dal quale Cervantes deriva la dimensione comica e grottesca del suo romanzo e il motivo topico del viaggio. L’opera si presenta come una contaminazione tra generi letterari nella quale sono presenti elementi che rimandano alla realtà concreta e altri che invece sono il frutto della fantasia romanzesca. Le modalità narrative, i temi e i personaggi Il romanzo, diviso in due parti, è costituito da nuclei narrativi dallo schema costante: Don Chisciotte, ossessionato dalle sue continue ed eccessive letture, riconosce nella realtà elementi che gli ricordano le avventure cavalleresche, e si comporta come un cavaliere errante, scontrandosi ogni volta con la più prosaica realtà. All’interno della trama principale si inseriscono inoltre digressioni, anche metaletterarie, che conferiscono all’opera una struttura composita. Tema centrale è quello del fallimento: il protagonista non riesce mai a portare a compimento il tentativo di rendere il mondo più giusto e conforme ai suoi nobili ideali. Nel romanzo sono presenti numerosi personaggi delle più diverse categorie sociali, ma gli unici a tutto tondo sono quelli di Don Chisciotte e Sancio Panza. Sancio
Sintesi Seicento
205
Panza, un popolano analfabeta ma non sciocco, è complementare a Don Chisciotte nel rappresentare lo spirito pratico opposto all’idealismo, ma in realtà è anch’egli dotato di molteplici sfaccettature che non ne fanno soltanto un’antitesi comica del suo padrone, ma un confidente, un seguace e un amico. Il prospettivismo del Don Chisciotte Un aspetto fondamentale del romanzo è la presenza di una visione aperta e relativa del mondo che il critico Leo Spitzer ha definito “prospettivismo”: l’idea che il mondo appaia diverso a seconda della prospettiva di chi lo guarda. Questa visione è rispecchiata dal gioco letterario della moltiplicazione dei narratori. Allo stesso modo, anche il punto di vista dell’autore appare sfaccettato. Da un lato propone Don Chisciotte come un folle e dall’altro come un modello positivo, come un uomo che è in grado di dibattere con competenza ed equilibrio dei più importanti temi della cultura del tempo. Forse, sembra farci intendere Cervantes, è davvero folle chi rinuncia agli ideali di giustizia, soltanto perché non potrà vederli realizzati. Le interpretazioni del romanzo All’epoca di Cervantes, nel Don Chisciotte viene colta soprattutto la divertente parodia dei romanzi cavallereschi. Ma il romanzo non può essere ridotto soltanto all’aspetto comico, come ha ben sottolineato Luigi Pirandello che, nel suo Saggio sull’umorismo (1908), considera Don Chisciotte l’archetipo dell’arte umoristica, arte capace di superare la semplice comicità, per veicolare riflessioni profonde sulla vita. Sicuramente, infatti, è centrale nel romanzo una riflessione sul rapporto tra letteratura e vita. Nell’Ottocento, inoltre, i filosofi romantici riconoscono nell’opera una natura “filosofica”: essi fanno di Don Chisciotte il rappresentante di un ideale etico assoluto, che per sua stessa natura non può trovare riscontro nella realtà. Tale linea interpretativa sarà sviluppata nel Novecento dal filosofo e scrittore spagnolo Miguel de Unamuno.
Zona Competenze Scrittura creativa
1. Delinea il ritratto di un moderno picaro. Traccia le linee essenziali delle possibili avventure e situazioni paradossali e in cui potrebbe imbattersi il tuo personaggio.
Competenza digitale
2. Esponi in un PowerPoint le differenze tra il romanzo picaresco e il Don Chisciotte. In particolare prendi in esame la narrazione (tipo di narratore; realismo del romanzo; intento dell’autore e significato del romanzo) e il protagonista (estrazione sociale e cultura; valori, rapporto con la realtà, esperienze fatte, relazione con le altre persone).
Sintesi
3. Quale visione della realtà emerge dal romanzo Don Chisciotte di Miguel de Cervantes? Presentalo in sintesi in una tabella.
Esposizione orale
4. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulle interpretazioni che nel corso del tempo sono state elaborate del romanzo capolavoro di Miguel de Cervantes. Dopo averle individuate e brevemente illustrate, dedica la parte finale del tuo intervento alla tua personale interpretazione del romanzo e del suo protagonista. Hai a disposizione 10 minuti.
Scrttura argomentativa
5. Quali sono le caratteristiche del narratore del Don Chisciotte? Esprime giudizi espliciti sul protagonista? Ti sembra che nei confronti di Don Chisciotte dimostri ammirazione, simpatia o commiserazione? Motiva la tua risposta con riscontri testuali.
206 Seicento 4 Il rinnovamento delle forme narrative
Seicento CAPITOLO
5 L’Utopia: mondi (im)possibili
Con le esplorazioni geografiche, e il confronto con società fondate su regole e princìpi diversi da quelli europei, nasce nel Cinquecento l’aspirazione a prefigurare uno stato ideale e, conseguentemente, un nuovo genere letterario: l’utopia. Il termine deriva da un libro pubblicato nel 1516 da Tommaso Moro, su un paese immaginario denominato Utopia, in greco “non luogo”, il “paese che non c’è”. Con le utopie si immaginano infatti stati che non esistono, organizzati secondo princìpi diversi da quelli vigenti nella realtà storica. L’utopia ha una notevole fortuna nel Sei-Settecento, in cui assume una funzione di critica dell’organizzazione sociale e di prefigurazione di un mondo migliore: ricordiamo La Città del Sole (1623) di Tommaso Campanella e La Nuova Atlantide (1627) di Francesco Bacone. Nell’Ottocento le utopie assumeranno un carattere più razionale e scientifico. Il Novecento appare più pessimista rispetto alla società futura: nascerà infatti il genere dell’antiutopia, a cui appartengono romanzi e film accomunati da una visione negativa della società del futuro.
un mondo 1 Immaginare perfetto 207 207
1
Immaginare un mondo perfetto 1 La nascita della letteratura utopica Un nuovo genere letterario Immaginare un mondo perfetto probabilmente è una tendenza innata dell’animo umano. Tuttavia, è solo nel Cinquecento che la creazione immaginaria di una società ideale assume una forma letteraria ben precisa. Il prototipo di quello che con il tempo sarebbe divenuto un vero e proprio genere testuale, destinato a grande fortuna e ad un’influenza non soltanto letteraria, è l’Utopia di Tommaso Moro, pubblicata nel 1516. Il titolo Il termine Utopia, scelto da Moro come titolo della sua opera, significa letteralmente “non luogo” (dal suffisso privativo greco ou, “non”, e tópos, “luogo”) e allude al carattere fittizio della società ideale da lui immaginata, più giusta e felice della società reale. Le utopie hanno un antecedente nei trattati politici sulla costituzione ideale, il cui principale esempio è la Repubblica di Platone, da cui gli utopisti traggono ispirazione; essi però introducono un elemento nuovo, che segnerà la fortuna del genere: lo stato ideale è presentato come se realmente esistesse (perciò le descrizioni sono sempre, come vedremo, estremamente precise e dettagliate); spesso, inoltre, lo si presenta come se fosse stato scoperto in qualche luogo remoto e si finge sia oggetto della relazione di un immaginario viaggiatore. Il rapporto con le esplorazioni geografiche La nascita del genere appare perciò in rapporto con il contesto storico del Cinquecento, quando le esplorazioni geografiche avevano fatto scoprire terre organizzate in modo assai diverso da quelle europee (secondo un’ipotesi dell’etnologo francese Jean Servier [1918-2000], lo stesso Tommaso Moro si sarebbe ispirato per il suo trattato alle prime notizie sull’impero inca giunte in Europa). Presentare il racconto come un’immaginaria relazione di viaggio aveva un evidente vantaggio: permetteva di esercitare una critica indiretta all’organizzazione degli stati assoluti europei, che proprio nel Cinquecento si stavano consolidando. In effetti il primo dei due libri dell’Utopia di Moro denuncia le ingiustizie presenti nell’Inghilterra e, più in generale, nell’Europa, del tempo: l’ineguale ripartizione delle ricchezze e la crescente miseria di gran parte della popolazione, che spingono l’autore a immaginare, al contrario, un paese fondato su una perfetta uguaglianza sociale, conseguenza dell’abolizione della proprietà privata e di un’organizzazione comunitaria della vita.
Hans Holbein il Giovane, Ritratto di Tommaso Moro, 1527 (New York, Frick Collection).
208 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili
2 I caratteri delle opere utopiche La struttura narrativa e i personaggi Il trattato di Tommaso Moro è il capostipite di una serie di opere analoghe, caratterizzate da alcuni elementi ricorrenti. È privilegiata la forma dialogica: tra gli interlocutori compaiono in genere un viaggiatore, che si informa sullo stato ideale, e un testimone, che lo descrive nei dettagli, conoscendolo bene per esservi nato o per avervi soggiornato a lungo. Lo spazio e il tempo I luoghi utopici, in genere isole, sono separati dal resto del mondo e in questi stati ideali vige un tempo immutabile, estraneo al divenire storico. L’organizzazione sociale Nei progetti utopici è di basilare importanza la struttura sociale, che dovrebbe favorire la realizzazione di una società perfetta. In molte utopie, a cominciare da quelle di Moro e di Tommaso Campanella, la proprietà privata non esiste, e la vita si svolge in forme comunitarie, con una rigorosa uguaglianza tra i cittadini. Particolare attenzione è dedicata all’organizzazione del lavoro, alla distribuzione dei beni, al ruolo della famiglia (eliminata da alcuni utopisti, come Campanella), alle leggi, ai sistemi di elezione dei governanti e dei magistrati. Gli autori di trattati utopici descrivono con particolare cura anche l’educazione dei bambini, avendo essa il compito di formare i cittadini di una società perfetta. La vita quotidiana Ciò che differenzia gli stati utopici da quelli reali è la perfetta organizzazione del tempo. Tutti i cittadini dispongono di abbondante tempo libero, e delle occasioni di impiegarlo piacevolmente e fruttuosamente, in feste, svaghi, momenti dedicati alla cultura, attività comunitarie.
Antica pianta di Palmanova (1600 ca.), città-fortezza progettata e costruita dai veneziani nel 1593.
Immaginare un mondo perfetto 1 209
Il sistema di valori I mondi utopici sono costruiti su un sistema di valori opposto a quello delle società reali. Ad esempio, in contrapposizione alla smania di ricchezza dei suoi concittadini inglesi, che gli fa definire lo stato come «una congiura di ricchi», Tommaso Moro immagina che gli abitanti di Utopia siano del tutto indifferenti al lusso, e che anzi addirittura utilizzino l’oro e le pietre preziose come segno distintivo per i delinquenti. Inoltre, in un mondo lacerato da contrasti religiosi, gli stati immaginari, a partire dall’Utopia di Tommaso Moro (per arrivare alla rappresentazione del paese dell’Eldorado nel romanzo filosofico settecentesco Candido di Voltaire), si ispirano a un ideale di tolleranza e, per lo più ad una concezione religiosa (il deismo) fondata sulla natura e sulla ragione più che su dogmi.
3 I principali trattati utopici
Francesco Cozza, Ritratto di Tommaso Campanella, 1638 ca. (Beauvais, Museo dipartimentale dell’Oise.
L’utopia di Tommaso Moro: la piena realizzazione dei valori umanistici Il principio che guida la creazione della società immaginaria di Tommaso Moro (1478-1535), politico inglese e dotto umanista, oltre all’aspirazione a una maggiore giustizia sociale, è sicuramente la volontà di diffondere la cultura, evitando sia riservata solo a pochi privilegiati. Tommaso Moro nel 1516 pubblica la sua Utopia, in latino, in quanto rivolta agli intellettuali di tutta Europa. Nell’opera immagina che un viaggiatore, Raffaele Itlodeo (in greco, “maestro di frottole”), dopo aver criticato gli ordinamenti europei, descriva l’unica società perfetta che egli dichiara di aver conosciuto, quella di Utopia, spiegando che là tutti ripartiscono allo stesso modo il tempo del lavoro e quello dello svago: tutti lavorano sei ore al giorno, praticando a turno l’agricoltura e un’altra attività prediletta. Possono così dedicare il resto del tempo agli svaghi e alla «libertà dello spirito e della cultura», in cui trovano la felicità e la realizzazione personale (➜ T1 ). La Città del Sole: la perfetta uguaglianza dei cittadini Tra i capolavori del genere è il trattato che il filosofo Tommaso Campanella (1568-1639; ➜ P. 13) scrive in carcere, intorno al 1602, La Città del Sole, pubblicata nel 1623. Nel clima culturale della Controriforma, Campanella non crede più, come Tommaso Moro, nella naturale bontà dell’uomo, e perciò per la sua Città del Sole immagina un ordinamento più severo e rigoroso di quello di Utopia. Con Tommaso Moro condivide però l’aspirazione a una maggiore giustizia sociale, che riscatti popoli come quello della sua Calabria da una situazione di miseria, brutale fatica, e ignoranza intollerabili. L’ordinamento della Città del Sole, mirando a superare le tendenze egoistiche, connaturate agli individui, prevede misure radicali, così che all’abolizione della proprietà privata aggiunge anche la soppressione dell’istituzione familiare, secondo il modello della Repubblica platonica. Costruita per catturare i vivificanti influssi solari, la città immaginata da Campanella è formata da sette anelli concentrici disposti su una collina, sulla cui cima c’è un tempio dedicato al Sole. Sottoposta ad un rigoroso ordinamento teocratico, la città è retta da un sacerdote-mago, chiamato Sole o Metafisico, che la inscrive nell’ordine armonioso della natura, catturando i più favorevoli influssi
210 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili
astrali con l’aiuto degli astrologi. Tutti i beni e i luoghi della vita collettiva sono in comune; gli abitanti si dedicano a varie attività lavorative, scelte a seconda delle proprie inclinazioni, per quattro ore al giorno, senza distinzione fra attività nobili e mestieri considerati degradanti. L’educazione non è teorica e libresca, come è quella degli anni di Campanella, ma è pratica e attiva, e si svolge per lo più all’aria aperta: per conoscere il mondo, i fanciulli utilizzano una sorta di enciclopedia affrescata all’interno delle sette cerchie di mura, in cui sono raffigurate figure geometriche, minerali, vegetali e animali, laghi, mari e fiumi, fino alle più famose invenzioni e scoperte e ai più grandi uomini esistiti. Imparano a conoscere tutto ciò, passeggiando e dialogando con i maestri (➜ T2 ).
Un’incisione seicentesca della Nuova Atlantide.
La Nuova Atlantide di Bacone: la tecnologia al servizio dell’umanità I progressi della scienza e della tecnica nel Seicento suggeriscono al filosofo Francesco Bacone (1561-1626) il caposaldo della nuova utopia dal lui immaginata: l’utilizzo della tecnologia per migliorare la società umana. Nella Nuova Atlantide, pubblicata nel 1627, alcuni navigatori, in seguito a un naufragio, approdano al paese utopico di Bensalem e vi scoprono uno stato di tipo nuovo, avanzato grazie alla tecnologia, e con un’istituzione, la Casa di Salomone, creata per far progredire la scienza e garantirne le applicazioni per il benessere degli abitanti. Con immaginazione fantascientifica, Bacone ipotizza che gli scienziati abbiano saputo «imitare il volo degli uccelli» e costruire «imbarcazioni in grado di navigare sotto il livello delle acque e di resistere alla furia delle tempeste»: qualcosa di simile, dunque, ad aerei e sottomarini. Particolarmente significativa è l’idea prospettata dal filosofo secondo la quale è compito degli scienziati, vincolati da un giuramento, di vagliare se le loro invenzioni possano essere divulgate e proposte ai governi, o se sia più opportuno non renderle note, nel caso comportino possibili rischi: si tratta, come è evidente, di una prospettiva particolarmente attuale, quasi un monito a evitare dissennate applicazioni delle scoperte scientifiche. La Luna di Cyrano: il mondo in cui la fantasia è libera Anche Gli Stati e gli Imperi della Luna, prima parte dell’Altro mondo di Hector-Savinien Cyrano de Bergerac (1619-1655), scrittore e spadaccino famoso per i suoi duelli (e per l’enorme naso deforme) – sulla cui figura leggendaria secoli dopo lo scrittore francese Edmond Rostand (1868-1918) scrisse un brillante testo teatrale – è un racconto fantastico che può essere ricondotto al genere utopico. La Luna, su cui il protagonista giunge attraverso un marchingegno con la propulsione di razzi, si presenta infatti per molti aspetti come un mondo ideale: vi trovano posto gli ideali della cultura, della saggezza, della pace e gli ingegnosi ritrovati della tecnologia, come mettono in evidenza vari, e spesso fantasiosi, dettagli narrativi: come merce di scambio, gli abitanti utilizzano composizioni poetiche invece del denaro (mostrando di attribuire uno spiccato valore alla creatività letteraria); in caso di conflitti, alle guerre preferiscono le dispute di dotti filosofi; abitano in città mobili che si spostano su ruote o che, grazie a enormi viti, si alzano e si abbassano dal suolo; possiedono macchine avveniristiche e “libri parlanti”. Immaginare un mondo perfetto 1 211
A questi aspetti positivi e avveniristici, tuttavia, si associano nella descrizione elementi meno favorevoli, che contraddistinguono il regno della Luna come speculare alla Terra, con i medesimi difetti, quasi in una sorta di “caricatura”. Ad esempio, gli abitanti della Luna, con gli stessi pregiudizi e la stessa presunzione di superiorità dei terrestri, disprezzano chi è diverso per natura o per cultura e, dato che essi camminano a quattro zampe, si rifiutano di considerare un essere umano il protagonista che incede sui due piedi. Tuttavia la Luna per Cyrano – libero intellettuale del Seicento – è anche il regno del pensiero libero: un altro terrestre, incontrato dal protagonista sulla Luna, spiega di essersi recato lassù perché nel mondo terrestre «non aveva saputo trovare un solo paese nel quale l’immaginazione stessa fosse libera» (➜ T3 ). Gli abitanti della Luna amano filosofare ed esibiscono opinioni paradossali, come quella che i padri debbano obbedire ai figli: la legge contraria – che cioè siano i figli a dover obbedire ai genitori – a loro avviso, sarebbe nata perché «tutti quelli che hanno fatto delle leggi sono stati dei vecchi che temevano che i giovani li spossessassero».
Tommaso Moro
T1
I nobili svaghi della città di Utopia
EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
Utopia T. Moro, Utopia, a c. di T. Fiore, Laterza, Roma-Bari 1991
Tommaso Moro critica la società del suo tempo, in cui il contadino o il manovale era trattato come una «bestia da soma»: a tale condizione oppone una vita – la sola che gli sembra degna di essere vissuta – in cui ciascuno possa godere dei piaceri dello spirito, senza affannarsi in un lavoro sfiancante per assicurarsi una misera sopravvivenza.
La principale e quasi unica occupazione dei sifogranti1 è di aver cura e badare che nessuno se ne stia senza far nulla, in braccio alla pigrizia, ma attenda ognuno al suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi, come una bestia da soma, a lavorare ininterrottamente dalla mattina per tempo fino a sera tardi, ché sarebbe 5 una pena che nemmeno uno schiavo. Tale però più o meno è la vita degli operai in ogni paese, tranne che in Utopia2! Qui dividono il giorno in 24 ore eguali, compresavi la notte, e non danno più che 6 ore al lavoro, 3 prima di mezzodì, dopo le quali vanno a colazione, e quando, dopo tavola, han riposato 2 ore pomeridiane, ne danno ancora 3 altre al lavoro, chiudendo 10 col pasto principale. […] Tutto] il tempo che passa fra il lavoro e il sonno o i pasti è lasciato al piacere di ognuno, non già perché lo sciupi in lascivie o nell’infirgardaggine3, ma perché quanto è libero da lavoro manuale lo spenda bene, secondo i suoi gusti, in qualche occupazione prediletta. Questi intervalli i più li impiegano in
1 sifogranti: magistrati di Utopia. 2 Tale… Utopia!: descrivendo il mondo
212 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili
immaginario di Utopia, Tommaso Moro denuncia le condizioni disumane di lavoro del suo tempo.
3 infingardaggine: inerzia, pigrizia.
studi letterari; c’è l’uso infatti di tenere ogni giorno lezioni pubbliche, prima di far giorno, cui sono costretti a intervenire soltanto quelli espressamente prescelti per gli studi; ma vi affluiscono uomini e insieme donne di ogni condizione, in gran folla, ad udire questa e quella lezione, secondo le loro inclinazioni. […] Dopo il secondo pasto passano un’ora a svagarsi, d’estate nei giardini e d’inverno in quelle sale comuni dove mangiano, e quivi fanno musica o si distraggono 20 conversando. I dadi non sono nemmeno conosciuti e così tutti i giochi di tal fatta, insipidi e rischiosi; del resto praticano due giochi, non dissimili dai nostri scacchi: il primo è la battaglia dei numeri, in cui un numero rapisce l’altro, nel secondo le virtù contendono contro i vizi, facendo avanzar le loro truppe. 15
Analisi del testo Il confronto mondo immaginario / mondo reale Il testo evidenzia come Tommaso Moro sia mosso nell’ideazione di Utopia da un intento polemico nei confronti della società del suo tempo, nella quale la maggior parte delle persone non poteva raggiungere quello sviluppo della persona umana che era l’ideale dell’umanesimo. L’autore invece immagina una società dove tutti possano realizzare le proprie potenzialità, e – da convinto fautore del valore della razionalità e della cultura – anche acquisire una formazione culturale attraverso lezioni aperte a tutti, comprese le donne. Moro ha il merito di porre per la prima volta una questione decisamente moderna: la limitazione del numero delle ore lavorative per evitare che la vita si riduca al solo lavoro, disumanizzando l’individuo. I cittadini di Utopia possono scegliere liberamente come trascorrere il tempo libero, purché le attività svolte siano nobili ed elevate: musica, conversazioni in ameni giardini o in sale comuni, giochi matematici... D’altro canto, raccomanda di non sprecare neppure un attimo di tempo, secondo quanto consigliavano gli umanisti .
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Come è scandita la giornata lavorativa per gli abitanti di Utopia? 2. Come viene impiegato il tempo libero di ognuno? ANALISI 3. Individua l’espressione con la quale Moro, seppur indirettamente, critica in modo profondo la società del suo tempo. 4. Per quale motivo si può affermare che Tommaso Moro sostenga il valore degli ideali umanistici?
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
SCRITTURA
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
5. Nella società ideale immaginata da Tommaso Moro, tutti, uomini e donne di qualunque estrazione sociale, possono partecipare a lezioni pubbliche, secondo i propri gusti e interessi. E se per noi tutto questo può sembrare scontato, non lo era affatto nel periodo in cui Moro scriveva. Ancora oggi, del resto, in alcuni paesi del mondo l’accesso all’istruzione non è riservato a tutti. Non a caso uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 si propone di «Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti». Fai una ricerca a questo proposito, raccogliendo dati riguardo al livello di istruzione e verificando quali sono i paesi in cui c’è ancora molto da migliorare e se esiste una differenza fra bambini e bambine. Riporta poi i risultati della tua indagine in un testo scritto. Perché, secondo te, è importante garantire un’istruzione di base, gratuita, a tutti? Motiva la tua risposta.
Immaginare un mondo perfetto 1 213
Tommaso Campanella
L’educazione naturale dei «Solari»
T2
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 2
La Città del Sole Nella Città del Sole i bambini, fin dalla più tenera età, sono allevati fuori dalla famiglia ed educati in modo comunitario. Campanella immagina un programma formativo del tutto originale rispetto ai modelli educativi dell’epoca, e per certi aspetti ancora attuale dal punto di vista pedagogico.
T. Campanella, La Città del Sole, a c. di L. Firpo, Laterza, Roma-Bari 2000
[… E] s’allevan tutti in tutte l’arti. Dopo li tre anni li fanciulli imparano la lingua e l’alfabeto nelle mura1, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano e insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli2, e sempre scalzi e scapigli3, fin alli sette anni, e li conducono nell’officine dell’arti4, cositori5, pittori, orefici, ecc.; 5 e mirano l’inclinazione6. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle scienze naturali, tutti; ché son quattro lettori della medesima lezione7, e in quattro ore tutte quattro squadre si spediscono8; perché, mentre gli altri9 si esercitano il corpo, o fan li pubblici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi alli dieci tutti si mettono alle matematiche, medicine e altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e concorrenza10; 10 e quelli poi diventano offiziali di quella scienza, dove miglior profitto fanno11, o di quell’arte meccanica, perché ognuna ha il suo capo. E in campagna, nei lavori e nella pastura12 delle bestie pur vanno ad imparare; e quello è tenuto di più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa13. Onde si ridono di noi che gli artefici appellamo ignobili14, e diciamo nobili quelli, che null’arte imparano e stanno oziosi 15 e tengono in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica15. 1 imparano… mura: lungo le sette cerchia di mura della Città del Sole è affrescata una sorta di enciclopedia per immagini, con didascalie in versi, grazie a cui i bambini imparano a leggere; le immagini servono anche per l’apprendimento delle diverse scienze. 2 per rinforzarli: Campanella sottolinea la necessità di curare allo stesso modo il corpo e la mente. 3 scapigli: a capo scoperto. 4 nell’officine dell’arti: nelle officine degli artigiani. 5 cositori: sarti, cucitori. 6 mirano l’inclinazione: osservano le attitudini (dei ragazzi). Quelli che educano
i fanciulli osservano attentamente le predisposizioni di ciascuno, per poi coltivarle adeguatamente. 7 ché… lezione: perché quattro insegnanti spiegano il medesimo argomento a quattro gruppi di fanciulli, in modo che tutti apprendano le stesse cose. 8 in quattro… spediscono: dopo quattro ore tutte le quattro squadre sono congedate (perché tutti i ragazzi hanno potuto ascoltare la spiegazione). 9 gli altri: gli uni. 10 disputa… concorrenza: discussione e competizione tra loro. 11 e quelli… fanno: i migliori in ciascuna arte acquisiscono il ruolo di maestri.
12 pastura: pascolo. 13 e quello… fa: e quello che impara un maggior numero di mestieri e li pratica meglio è ritenuto più nobile. È evidente la polemica contro la mentalità del periodo, in cui soltanto le arti intellettuali erano considerate nobili. 14 gli artefici… ignobili: disprezziamo gli artigiani. 15 stanno… repubblica: viene espressa una critica contro i nobili, che non solo stanno in ozio, ma mantengono molti servitori per svolgere un lavoro improduttivo, con rovina (roina) dello stato.
Analisi del testo Un rivoluzionario modello educativo Il modello educativo proposto da Campanella ha caratteri decisamente rivoluzionari per l’epoca. Si riscontrano infatti diversi elementi innovativi. 1. All’inizio tutti i bambini ricevono la stessa educazione di base, mentre in seguito i maestri indirizzano le predisposizioni di ognuno, in modo da concedere a tutti l’opportunità di seguire le proprie inclinazioni. È l’esatto contrario della realtà dell’Italia del tempo, in cui la maggior parte della popolazione, in condizioni di estrema indigenza, era analfabeta. 2. L’istruzione rifugge da ogni carattere libresco e astratto, e si fonda, oltre che sull’osservazione diretta della realtà, sulle immagini istoriate all’interno delle mura; l’autore sottolinea
214 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili
la superiorità di tale metodo di apprendimento pratico e concreto, rispetto a quelli tradizionalmente usati: «nella città nostra s’imparano le scienze con facilità tale, come vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o quindici tra voi», afferma chi descrive la città del Sole. 3. L’educazione non privilegia la mente rispetto al corpo, ma li sviluppa insieme: i bambini non imparano nel chiuso di un’aula, ma passeggiando all’aria aperta; tutti coltivano il corpo e la mente e tutti, senza distinzione, si dedicano sia a lavori manuali (agricoltura, pastorizia, artigianato), sia alle discipline teoriche. Attraverso la sua rappresentazione utopica, Campanella mette in discussione i criteri di valore del suo tempo, e, in particolare, stigmatizza il disprezzo verso chi praticava lavori manuali. 4. Contrariamente a quanto avveniva nelle scuole dell’epoca, le scienze e lo studio della natura assumono un ruolo centrale.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. In che cosa consiste l’educazione dei bambini nella Città del Sole? 2. Quali sono i valori alla base del modello educativo proposto da Campanella? Per quali aspetti si differenziano da quelli della società del suo tempo?
Interpretare
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. Quali aspetti condividi del modello di educazione proposto da Campanella, e per quali ragioni? Quali ti sembrano invece discutibili? Argomenta la tua risposta in un testo scritto (max 15 righe). SCRITTURA
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 2
4. Il sistema educativo proposto da Campanella è un sistema estremamente libero, dove i bambini passano dall’osservazione degli affreschi sulle mura alle botteghe degli artigiani, seguendo la loro volontà e assecondando i loro desideri. Quale potrebbe essere il tuo metodo educativo ideale e quale potrebbe aiutarti a scoprire le tue inclinazioni? A quali aspetti daresti maggiormente spazio? Che cosa privilegeresti e che cosa, invece, lasceresti in secondo piano? Esponi il tuo pensiero in un testo scritto di max 20 righe. COMPETENZA DIGITALE 5. Svolgi una ricerca in internet sul metodo educativo creato da Maria Montessori, pedagogista di fama internazionale che nei primi anni del Novecento rivoluzionò l’insegnamento, sviluppando un metodo praticato ancora oggi in migliaia di scuole in tutto il mondo, che si fonda sull’indipendenza e la libertà di scelta del bambino. Illustra poi alla classe il risultato della tua ricerca con una presentazione in PowerPoint.
Cyrano de Bergerac
T3
I libri parlanti L’altro mondo o Stati e Imperi della Luna
C. di Bergerac, L’altro mondo o Stati e Imperi della Luna, trad. di F. Cuomo, in E. Rostand, Cirano di Bergerac, seguito da L’altro mondo o Stati e Imperi della Luna, Newton Compton, Roma 2006
Nel mondo della Luna immaginato da Cyrano de Bergerac esistono meravigliose invenzioni che rendono più facile la vita. Ad esempio, uno strumento per registrare la voce, «un libro prodigioso, senza fogli né caratteri» per leggere il quale occorrono le orecchie, non gli occhi.
Appena se ne fu andato, mi misi a esaminare attentamente i libri. Le scatole, cioè le copertine, mi parvero straordinariamente preziose. L’una era tagliata da un solo diamante, di splendore impareggiabile rispetto ai nostri. La seconda appariva come una gigantesca perla tagliata in due. Il mio démone1 aveva tradotto i libri nella
1 Il mio démone: riferimento all’incontro con il “demone” di Socrate che gli spiega fenomeni e fatti del mondo lunare (il fi-
losofo greco avvertiva un dáimon divino dentro di sé, che lo guidava nel suo cam-
mino di conoscenza, come una voce della coscienza verso la virtù).
Immaginare un mondo perfetto 1 215
lingua di quel mondo, ma siccome non ho ancora parlato della loro stampa, spiegherò adesso com’erano fatti i due volumi. Una volta aperta la scatola, trovai dentro qualcosa di metallico, quasi del tutto simile ai nostri orologi, zeppo di un’infinità di piccole molle e impercettibili meccanismi. A dire il vero si trattava di un libro, ma di un libro prodigioso, senza fogli né ca10 ratteri. Di un libro, insomma, per scorrere il quale non sono necessari gli occhi ma le orecchie. Quando dunque qualcuno desidera leggere, carica quella macchina con tutta una quantità di chiavi d’ogni genere, poi rivolge l’ago sul capitolo che intende ascoltare, ed ecco che ne vengono fuori come da bocca umana o da uno strumento musicale tutti i suoni distinti e differenti che servono tra la gente illustre del luogo 15 quale espressione del linguaggio. Quand’ebbi meditato su quella miracolosa tecnica di fare libri, smisi di stupirmi nel vedere che i giovani di quel paese già dall’età di sedici o diciott’anni ne sapevano più delle barbe grigie del nostro. Essendo infatti in grado di leggere come di parlare, non stanno mai senza lettura. In camera, mentre passeggiano, in città, in viaggio, 20 a piedi, a cavallo, possono tenere in tasca, o appesi all’arcione delle loro selle, una trentina di questi volumi, senza dover far altro che caricare una molla per ascoltarne un solo capitolo, o più d’una, se hanno voglia di sentire tutto un libro. Ed è come avere eternamente intorno a voi tutti i grandi uomini, morti e viventi, che vi parlano a viva voce. 25 Quel regalo mi tenne occupato per più di un’ora. Infine, dopo essermi attaccato quei libri come orecchini, me ne andai a passeggiare per la città. 5
Analisi del testo Il valore del libro L’idea dei libri parlanti di cui parla Cyrano de Bergerac anticipa con straordinaria immaginazione invenzioni successive, dal registratore agli audiolibri, all’iPod, ai tablet fino ai podcast. Di fronte a questi miracolosi oggetti che, in questo mondo ideale che è la Luna, consentono ai giovani di essere esperti nelle cose del mondo e di saperne molto di più dei vecchi che abitano sulla Terra, perché non stanno mai senza lettura, l’autore del brano manifesta tutto il suo entusiasmo e la sua ammirazione. Pur attraverso il tono fantastico che caratterizza la pagina, Cyrano de Bergerac sottolinea il valore del libro e l’importanza della lettura nella formazione dei giovani.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale effetto sulla cultura l’autore immagina avrebbero avuto i “libri parlanti”? ANALISI 2. Descrivi i libri che Cyrano trova sulla Luna e il meccanismo che li caratterizza. In che cosa anticipano le invenzioni successive? LESSICO 3. Con quali aggettivi ed espressioni Cyrano manifesta tutta la sua meraviglia per questi oggetti?
Interpretare
SCRITTURA 4. Cyrano afferma che i giovani che abitano sulla Luna «non stanno mai senza lettura», evidenziando il privilegio di cui essi godono. In effetti leggere non è soltanto un modo per trascorrere il tempo, ma molto di più. In un testo scritto fai un elenco di almeno cinque buoni motivi per cui, secondo te, è importante leggere. Confronta poi il tuo pensiero con quello dei tuoi compagni: in che cosa la pensate nello stesso modo, in che cosa invece siete molto lontani?
216 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili
VERSO IL NOVECENTO
Dall’utopia alla distopia Un genere novecentesco: l’antiutopia Nel Novecento, nell’immaginare società alternative a quella reale, si verifica una svolta, certo anche determinata dal fallimento storico delle ipotesi di ordini sociali perfetti e dall’esperienza delle dittature: la visione della società del futuro tende ad assumere contorni fortemente pessimistici, dando luogo al sottogenere novecentesco dell’antiutopia, detta più comunemente distopia (dal greco dys-topos, che significa “luogo negativo, indesiderabile”). Nei romanzi distopici non si fornisce più al futuro un modello di società ideale, ma si mostrano le possibili, nefaste conseguenze di tendenze in atto nella società attuale. A differenza delle utopie, in cui è accentuata la frattura spazio-temporale con la realtà presente (i mondi utopici, felici e razionali, sono collocati in terre sconosciute e lontanissime) le distopie si pongono in un rapporto di continuità con il presente storico, anzi di
vera e propria causalità: il mondo terribile, distopico, del prossimo futuro è conseguenza delle tendenze negative del presente. Le distopie hanno in comune con le utopie una visione negativa del mondo presente, la denuncia di un mondo oppressivo e il desiderio di porvi in qualche modo rimedio. L’obiettivo degli scrittori è in fondo il medesimo: spronare l’uomo a migliorare il mondo in cui vive, le utopie attraverso la proposta di una società ideale e perfetta a cui tendere, le distopie attraverso la rappresentazione di una società malata e deviata da cui rifuggire. L’immaginario del Novecento ha visto moltiplicarsi i mondi antiutopici, non solo nella letteratura ma anche nel cinema: da film come Metropolis (1927), in cui gli uomini sono divenuti schiavi al servizio delle macchine, a Blade Runner (1982), in cui della natura non è restato quasi più nulla, per citare due esempi celebri.
Romanzi distopici del Novecento Il prototipo del genere distopico: Il mondo nuovo di Huxley Il mondo nuovo [Brave New World] di Aldous Huxley (18941963), pubblicato nel 1932, è una delle prime e più rappresentative opere del genere distopico, in cui l’autore mostra una impressionante chiaroveggenza (l’approfondita cultura scientifica di cui disponeva gli permette di immaginare con decenni di anticipo sviluppi della scienza come la fecondazione artificiale). Il “mondo nuovo” immaginato da Huxley, per la capillare organizzazione della vita comunitaria, la pianificazione del lavoro e del divertimento, la perfezionata tecnologia, la stabilità sociale, l’assenza di miseria e di guerre, sembra realizzare i sogni degli utopisti; eppure questo mondo
senza apparente sofferenza, in cui tutti i desideri sono immediatamente soddisfatti, è mostruoso, perché vi è stata totalmente cancellata la libertà e quindi è venuta meno l’essenza stessa dell’essere umano. L’autore esprime così la fondata preoccupazione che, pur in assenza di violenza e di coercizione, la scienza e la tecnica, se usate a sostegno del potere, offrano strumenti di condizionamento tali da annullare progressivamente ogni spazio di libertà. Nella società distopica da lui prefigurata, Huxley immagina che l’organizzazione razionale del lavoro, che già ai suoi tempi aveva dato luogo alla catena di montaggio, si estenda fino a programmare gli individui (un timore non infondato, visti gli ultimi sviluppi della genetica) per adattarli
Una delle locandine create dall’artista russo Boris Bilinskij per il film Metropolis.
Una copertina del film Blade Runner, basato su un romanzo di Philip K. Dick.
Immaginare un mondo perfetto 1 217
VERSO IL NOVECENTO
a differenti compiti lavorativi; perciò nel Mondo nuovo gli embrioni, concepiti in provetta (nel romanzo, l’idea di una maternità naturale è considerata vergognosa e degradante) vengono manipolati per ottenere gruppi dalle diverse capacità, dai subumani Epsilon, adatti ai compiti più umili, agli intelligenti Alfa, gli unici dotati di capacità critica perché destinati a compiti intellettuali. Inoltre, fin dalla primissima infanzia, alla manipolazione degli embrioni si associano tecniche di condizionamento psicologico. Per sedare ansie e angosce, poi, lo stato distribuisce a tutti il soma, una droga euforizzante che cancella ogni inquietudine. Huxley introduce abilmente nel romanzo un punto di vista “estraneo”, quello di un “selvaggio”, vissuto in una riserva, e perciò ignaro della nuova realtà, che si è formato un’idea del mondo civile leggendo Shakespeare, di cui possedeva un vecchio volume. Allo sguardo del “selvaggio” il “mondo nuovo” rivela tutta la sua mostruosità. Altri romanzi distopici Uno dei più celebri romanzi distopici è 1984 (1949) di George Orwell (1903-1950). In esso Orwell rappresenta la possibilità del totale controllo delle coscienze in una raccapricciante società totalitaria, il cui avvento è immaginato a distanza di pochi decenni dall’ideazione del romanzo: ogni individuo è costantemente spiato (da teleschermi, dalla Psicopolizia, dai propri figli…), la storia è riscritta alterando la verità dei fatti, ed è persino inventata una neolingua, per impedire l’espressione di pensieri liberi e la loro stessa formulazione. In Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury (1920-2012; ➜ EDUCAZIONE CIVICA I regimi che proibiscono i libri PAG. 33) il tema centrale è il divieto della cultura, per cui è vietato il possesso di libri (i pochi superstiti vengono bruciati) e chi li possiede e li legge viene perseguitato. Per venire a esempi più recenti, un romanzo distopico di grande successo, vero e proprio bestseller, è Il racconto dell’ancella (1985) di Margaret Atwood (1939). Nel Nord America si instaura una teocrazia totalitaria, fondata sull’intolleranza, la feroce repressione di ogni libertà, il divieto di leggere (concesso solo ai membri della gerarchia che governa), ma soprattutto sul controllo e l’asservimento del corpo femminile, finalizzato esclusivamente alla pro-
creazione. Le donne non più in grado di procreare o sterili sono mandate in lontane colonie o eliminate. Le Ancelle, riconoscibili per l’abito rosso e per il copricapo bianco con ali che ne nascondono il volto, sono giovani donne sottratte alle loro famiglie, private del loro nome, che vivono in comunità chiuse, dove dovranno generare figli per le autorità del regime. Una di esse è la voce narrante del romanzo. Ispirato al libro della Atwood è un recente libro distopico “al femminile”, Vox (2018) della linguista americana Christine Dalcher. Nel romanzo è ritratta la repressione della voce femminile in una società dispotica che intende ripristinare gli antichi valori. Alle bambine non viene insegnato a leggere e a scrivere, alle donne è proibito usare più di 100 parole al giorno. Distopia ed ecologia Molti romanzi distopici, soprattutto nell’area angloamericana, danno spazio alla visione di un futuro catastrofico come conseguenza della violenza dell’uomo sull’ambiente e sono quindi (almeno alcuni di essi) ispirati a una visione ecologica, alla contestazione di uno sfruttamento rapace e insensato del pianeta. In queste opere la natura sembra quasi vendicarsi, mostrando un volto minaccioso e addirittura annientando la specie umana attraverso inspiegabili epidemie virali. Tra le molte opere citabili, ricordiamo come esempio di questa particolare tipologia distopica Cecità (1995) di José Saramago (1922-2010), ambientato in un luogo e tempo imprecisato, in cui dilaga una misteriosa epidemia che provoca la cecità, innescando una spirale di violenza e abbrutimento, il cui unico antidoto può essere la solidarietà. In Italia un recente romanzo distopico è Anna (2015) di Niccolò Ammaniti (1966). Il romanzo è ambientato in una Sicilia devastata da un virus che uccide tutti, tranne i bambini. Protagonista è un’adolescente, Anna che utilizza per sopravvivere con il fratellino gli avvertimenti lasciati morendo dalla mamma. Ai due si unisce un cane che, inizialmente feroce, decide di seguirli fedelmente. La vicenda si snoda in paesaggi desolati e privi di vita, con varie avventure, anche drammatiche, che vedono la difficile maturazione fisica e interiore di Anna.
online T4 Aldous Huxley
I bambini condizionati a odiare i libri e i fiori Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo
Fissare i concetti L’Utopia: mondi (im)possibili 1. Quali sono i caratteri fondamentali della letteratura utopica? 2. Qual è la concezione della società ideale che Tommaso Moro descrive nella sua opera? 3. Su quali principi si basa la Città del Sole di Tommaso Campanella? 4. Su che cosa può fare affidamento il mondo utopico di Francesco Bacone? 5. Per quale motivo la Luna descritta da Cyrano può essere considerata un mondo ideale? Qual è il valore fondamentale che la contraddistingue?
218 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili
Seicento L’Utopia: mondi (im)possibili
Sintesi con audiolettura
1 Immaginare un mondo perfetto
La nascita della letteratura utopica Il genere letterario dell’utopia nasce nel 1516 con l’Utopia di Tommaso Moro. Il titolo scelto dall’autore per la propria opera significa letteralmente “non luogo” e allude al carattere immaginario della società ideale da lui prefigurata. Le utopie si ispirano ai trattati politici sulla costituzione ideale, il cui principale esempio è la Repubblica di Platone, ma differenza dei loro modelli gli utopisti presentano lo stato ideale come se realmente esistesse. Sulla nascita del genere hanno influito le esplorazioni geografiche che hanno condotto alla scoperta di terre con un’organizzazione molto diversa da quelle europee. Le caratteristiche fondamentali del genere e che ne segneranno la fortuna consistono nella descrizione di uno stato immaginario giusto e perfettamente organizzato, collocato in qualche luogo remoto e presentato come se fosse l’oggetto della relazione di un immaginario viaggiatore. Quest’ultimo aspetto consentiva di criticare indirettamente l’organizzazione degli stati assoluti europei. I caratteri delle opere utopiche Gli elementi ricorrenti delle opere utopiche sono: - ambientazione in luoghi separati dal resto del mondo; - forma dialogica; - descrizione di un’immaginaria struttura sociale, espressione di una società che si poggia sull’uguaglianza, sull’abolizione della proprietà privata, sull’organizzazione in forme comunitarie nelle quali gli uomini dispongono di abbondante tempo libero; - sistema di valori opposto a quello delle società reali.
I principali trattati utopici - Utopia di Tommaso Moro, pubblicata nel 1516 in latino – in quanto rivolta agli intellettuali di tutta Europa – con il fine di promuovere una maggiore giustizia sociale e di diffondere la cultura; - La città del sole di Tommaso Campanella, pubblicata nel 1623. L’autore immagina un luogo dove ci sia l’abolizione della proprietà privata, la soppressione dell’istituzione familiare e dove l’educazione sia pratica e attiva; - Nuova Atlantide di Bacone, pubblicata nel 1627, propone come caposaldo della nuova utopia l’utilizzo della tecnologia per migliorare la società umana; - L’altro mondo o Gli Stati e gli Imperi della Luna di Hector-Savinien Cyrano de Bergerac, nel quale l’autore immagina la Luna, da un lato come un mondo ideale dove vengono ospitati il pensiero libero, gli ideali della cultura, della saggezza e della pace e ingegnosi ritrovati della tecnologia, e dall’altro come un luogo speculare alla Terra, di cui mostra i medesimi difetti.
Sintesi Seicento
219
Zona Competenze Scrittura Esposizione argomentativa orale
1 Sulla base di quanto hai letto, spiega perché, secondo il suo ideatore, ciascuno dei mondi utopici descritti sarebbe felice, ed esponi brevemente le tue opinioni in proposito.
Discussione orale
2. Sulla base dell’analisi delle diverse utopie proposte, avvia una discussione in classe su quali elementi di ciascuna di esse siano validi e sostenibili e quali invece da rifiutare o ridiscutere. Raccogli infine le riflessioni in una mappa.
Scrittura argomentativa
4. Alla luce del percorso svolto ti sembra che l’idea di immaginare una società perfetta abbia senso? Perché? Quali funzioni credi possa assolvere l’utopia? E l’antiutopia?
Scrittura creativa
5. Se tu dovessi immaginare un mondo ideale, una società perfetta, su quali valori lo fonderesti? A quali aspetti daresti più spazio e quali, invece, cancelleresti? Dove lo collocheresti geograficamente? E, per quanto riguarda il tempo, lo posizioneresti nel passato o nel futuro? Descrivi il tuo mondo ideale in un testo scritto (max 20 righe).
Scrittura argomentativa
6. Confronta il tuo mondo ideale con gli obiettivi che si propone l’Agenda 2030: quali degli obiettivi rispecchia? Pensi che gli obiettivi dell’Agenda 2030 non siano facilmente raggiungibili e quindi appartenenti a un mondo utopico, o piuttosto ritieni che con l’impegno di tutti essi possano essere raggiunti? Motiva la tua risposta.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5, 6
220 Seicento 5 L’Utopia: mondi (im)possibili
Settecento
Settecento
Scenari socio-culturali L’età dell’Illuminismo LEZIONE IN POWERPOINT
Il fenomeno culturale dominante nel Settecento è l’Illuminismo (che in Italia caratterizza in particolare la seconda metà del secolo). Nato in Inghilterra, l’Illuminismo trova le sue manifestazioni più radicali in Francia, con grandi nomi come Voltaire, Diderot, Montesquieu, Rousseau che incarnano una nuova figura di intellettuale: il philosophe, eclettico e impegnato. Caratterizza l’Illuminismo francese un’appassionata battaglia ideologica volta ad affermare, contro pregiudizi secolari e freni posti dall’oscurantismo religioso, la libera ricerca razionale in ogni campo del pensiero e della vita: dall’etica alla politica, alla società, al costume. Gli illuministi lottano per i diritti fondamentali dell’uomo (l’uguaglianza, la libertà) e, in nome di una visione laica e cosmopolita, difendono il valore fondamentale della tolleranza verso gli altri, fiduciosi che il progresso porterà a una società più giusta, una volta che i “lumi della ragione” saranno diffusi. La visione culturale degli illuministi privilegia il nuovo sapere scientifico che, con Newton, ha trasformato irrevocabilmente la visione dell’universo e dell’uomo: essi credono nella necessità di divulgare il più possibile la conoscenza e il moderno sapere. A questo fine risponde la titanica impresa dell’Encyclopédie, ideata da Diderot e d’Alembert e alla quale collaborano con importanti “voci” altri illuministi come Voltaire e Rousseau. In campo linguistico, in Italia, il «Caffè» si batte per un uso moderno e vivo della lingua, contro la dittatura del toscano letterario illustre e contro il culto del “bello stile”.
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 3 Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 4 L’evoluzione della lingua 223
Settecento Sguardo sulla storia Il secolo delle rivoluzioni Il Settecento è caratterizzato da trasformazioni radicali nell’economia, nella società, nella politica, da nuove concezioni dell’individuo e dello Stato – fondate sui principi di libertà ed eguaglianza –, dallo sviluppo delle scienze e delle tecnologie. Per l’entità di questi cambiamenti nei diversi ambiti gli storici usano il termine “rivoluzione”: la rivoluzione agricola e la rivoluzione industriale (per quanto riguarda la dimensione economica, sociale e tecnologica), la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese (per indicare gli eventi nodali della storia politica). La rivoluzione agricola e industriale Il Settecento rappresenta per tutta l’Europa, pur con differenze tra Stati e aree geografiche, un periodo di ripresa dell’economia, sostenuto dall’aumento demografico. A sua volta, questo è favorito dal miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione e dall’accresciuta disponibilità alimentare, grazie allo sfruttamento estensivo della terra (ampliamento delle superfici coltivate) e a quello intensivo (reso possibile da nuove tecnologie). All’avanguardia per le innovazioni nell’agricoltura è l’Inghilterra. A livello sociale, al rafforzamento della piccola nobiltà e della borghesia terriera corrisponde l’impoverimento dei contadini, che, estromessi dalla proprietà della terra, si trasformano in proletari urbani, pronti a soddisfare la richiesta di manodopera della nascente industria.
Cronologia interattiva
1748
Pace di Aquisgrana con il riconoscimento del diritto di successione di Maria Teresa d’Austria al trono degli Asburgo.
1715
Fine del regno del re Luigi XIV, il Re Sole.
1710
1713
Pace di Utrecht, a conclusione della guerra di successione spagnola. La Spagna cede all’Austria il Regno di Napoli, la Sardegna e il Ducato di Milano.
224 Settecento Scenari socio-culturali
1720
1730
1740
1738
Pace di Vienna, a conclusione della guerra di successione polacca. Il regno di Napoli passa ai Borbone; Francesco di Lorena ottiene il granducato di Toscana.
1750
Lessico liberismo Dottrina filosofica che promuove la libertà nella produzione e negli scambi, sia a livello nazionale sia internazionale. Secondo Adam Smith, i governi che sostengono la libera iniziativa degli individui agevolano la creazione di un sistema in cui il singolo sarà in grado di scegliere il percorso che massimizzerà i suoi benefici personali e, di conseguenza, contribuirà al bene della collettività nel suo complesso.
Con l’introduzione delle prime macchine a vapore (la filatrice e il telaio) nella produzione dei tessuti, il sistema produttivo inglese muta radicalmente, coinvolgendo altri settori, da quello metallurgico e meccanico ai trasporti. Allo sviluppo economico e dei commerci in Inghilterra concorrono molteplici fattori, tra i quali anche la politica attuata dalla monarchia di tipo costituzionale, che favorisce l’imprenditoria privata, secondo i principi del liberismo teorizzato da Adam Smith. Il ruolo della borghesia La classe sociale protagonista delle trasformazioni nell’economia è fondamentalmente la borghesia, che investe risorse, energie e idee, affiancata in alcuni casi dai settori più avanzati dell’aristocrazia, partecipi anch’essi dell’esigenza di rinnovamento. In conseguenza di questo suo apporto economico la borghesia ritiene di poter aspirare a un adeguato ruolo politico, e trova nel pensiero storico-economico e nell’ideologia dei philosophes illuministi, che dalla Francia si diffonde tra gli intellettuali europei, un sostegno in questo processo di affermazione. La fine dell’Ancien régime e il nuovo assetto politico europeo Mentre il predominio politico della Francia del Re Sole, che aveva contraddistinto gli ultimi decenni del Seicento, subisce un ridimensionamento già all’inizio del nuovo secolo, l’Inghilterra, dopo il ritorno al regime monarchico nel 1688, assume con la monarchia costituzionale, sostenitrice dell’espansione economica e del rinnovamento sociale, un’importanza sempre maggiore nella politica europea. I conflitti militari che dominano la prima metà del Settecento – le guerre per la successione dei troni di Spagna, Polonia e Austria – si concludono con nuovi rapporti di forza tra gli Stati europei. Mentre l’impero spagnolo aggiunge il decadimento politico a quello economico, la pace di Aquisgrana (1748) riconosce il nuovo prestigio dell’Austria guidata
1773
Scioglimento dell’ordine religioso dei gesuiti.
1789
Inizio della Rivoluzione francese e Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. 1794
Presa del potere della borghesia moderata con il Direttorio.
1763
Fine della guerra dei Sette anni, con la supremazia dell’Inghilterra sulla Francia e inizio dell’impero coloniale inglese.
1760
1770
1763-1789
Assolutismo illuminato, contraddistinto dalle riforme attuate dai sovrani in Austria, Prussia, Russia; e in Italia, nella Lombardia degli Asburgo, nella Toscana dei Lorena, nel regno di Napoli dei Borbone.
1776
1796
Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America.
1780
Discesa dell’armata francese, guidata dal generale Bonaparte, in Italia.
1800
1790
1792-1793
Destituzione e condanna a morte del re Luigi XVI per tradimento e periodo del Terrore.
Sguardo sulla storia 225
dall’imperatrice Maria Teresa, che si impegna negli anni del suo regno in un’intensa politica di riforme. La fine dell’egemonia della Francia a favore dell’Inghilterra è aggravata dalla perdita francese, sancita dalla pace di Parigi del 1763 a conclusione della guerra dei Sette anni, delle colonie del Canada, della Louisiana e di alcuni insediamenti in Africa, che pongono le basi dell’impero coloniale inglese. L’assolutismo illuminato Nella seconda metà del secolo XVIII in alcuni stati europei (in particolare Russia, Prussia, Austria) si afferma il governo dei “sovrani illuminati”, artefici di riforme politiche e amministrative ispirate dalle idee dei filosofi illuministi, alcuni dei quali loro consiglieri. Tra i provvedimenti, destinati a limitare i privilegi della nobiltà e del clero, vi sono anche l’abolizione di ordini religiosi, tra cui la potente Compagnia di Gesù. La stagione delle riforme in Italia Nella prima metà del Settecento la politica italiana è soggetta all’esito delle guerre di successione, che determina ogni volta cambiamenti dinastici destinati a successive modifiche. Il passaggio del Ducato di Milano dal dominio spagnolo all’Austria, stabilito dopo la guerra di successione spagnola con la pace di Utrecht e ribadito dalla pace di Aquisgrana, coincide con una fase di rinnovamento economico e politico per gli stati italiani, anche se in forme diverse. Nella Lombardia austriaca il processo riformatore è contraddistinto dalla collaborazione tra il governo e i cittadini, con provvedimenti – dalla riforma del catasto (con la conseguente tassazione della proprietà terriera) alle misure riguardanti la Chiesa e l’educazione – che mirano a colpire alcuni privilegi sociali. Anche nel Regno di Napoli, sotto la dinastia dei Borbone vengono attuate riforme di impronta illuministica; lo Stato della Chiesa si mostra subalterno alla politica delle grandi monarchie cattoliche, che impongono la soppressione della Compagnia di Gesù, a cui era assegnata fino a quel momento la formazione delle classi dirigenti, in nome della separazione dello Stato dalla Chiesa. La Rivoluzione americana All’inizio degli anni Settanta del secolo la decisione dell’Inghilterra di imporre nuove tasse alle colonie d’America – che l’avevano sostenuta nella guerra vittoriosa contro la Francia – suscita la loro ribellione. Il rifiuto della madrepatria di accogliere le richieste dei coloni, tra cui quella di avere una rappresentanza nel Parlamento inglese, determina la nascita di un agguerrito movimento autonomista, che dopo vari scontri, porta alla proclamazione nel 1776 dell’indipendenza, con la creazione degli Stati Uniti d’America. Gli ideali illuministici ispirano la Dichiarazione di indipendenza, che afferma il diritto di ogni uomo alla libertà e al «perseguimento della felicità». La Rivoluzione francese La grave crisi economica in Francia nella seconda metà del secolo spinge la borghesia – la cui importanza economica si è accresciuta con la monarchia assoluta – a denunciare con forza gli effetti negativi dei privilegi della nobiltà e del clero, ostili a ogni riforma, e a chiedere di partecipare alla vita politica del paese. La rivoluzione, iniziata nel 1789, afferma nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino gli ideali di libertà, eguaglianza e fratellanza sostenuti dagli illuministi. A determinare la fine della monarchia assoluta e l’abolizione dei privilegi feudali sarà la sollevazione del popolo di Parigi e dei contadini nelle campagne. Dopo il periodo del Terrore giacobino e la presa di potere della borghesia moderata del Direttorio, inizia la nuova fase dominata dalla figura di Napoleone Bonaparte.
226 Settecento Scenari socio-culturali
1
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 L’Illuminismo
Lessico razionalismo
PER APPROFONDIRE
In ambito filosofico, corrente, sistema o atteggiamento che considera la realtà retta da un principio razionale e quindi totalmente comprensibile attraverso le facoltà intellettive.
L’Illuminismo, una delle più stimolanti stagioni della storia culturale europea, caratterizza più di ogni altro aspetto la civiltà del Settecento, investendo anche i comportamenti e la visione del mondo. Dell’illuminismo è difficile dare una definizione unitaria, per un insieme di ragioni. • Posizioni diversificate attorno a temi-chiave Gli illuministi non produssero documenti programmatici che consentano di dare una definizione sintetica globale di questo complesso fenomeno culturale. Nella stessa cultura francese, dove si ritrovano i nomi più celebri dell’Illuminismo (Montesquieu, Diderot, Voltaire, Rousseau e altri), le posizioni assunte sono diversificate: in generale si è dato grandissimo spazio nell’idea di illuminismo alla componente razionalistica . Di certo essa è prevalente, ma va ascritto pienamente all’Illuminismo anche il pensiero di Rousseau, sebbene in una posizione isolata rispetto agli altri philosophes per la sua difesa delle componenti sentimentali e passionali dell’uomo (➜ D7b ) e la sua critica al “progresso” (➜ D12 ). • Illuminismo/illuminismi Inoltre vi furono differenze notevoli tra le varie interpretazioni che dell’Illuminismo diedero i vari paesi (Inghilterra, Francia, Italia, Germania), in rapporto alle prerogative socio-politico-culturali di ognuno di essi. L’Illuminismo nasce in Inghilterra, dove trova un contesto sociale ed economico (lo sviluppo industriale, la crescita di una dinamica classe borghese) particolarmente favorevole al suo sviluppo: le nuove idee ispirano la formazione di una moderna monarchia costituzionale e di una linea politico-economica che risponde ai bisogni di espansione della classe borghese.
La metafora della luce e il termine “Illuminismo” La parola “Illuminismo” (usata in Italia solo a partire dai primi decenni dell’Ottocento) deriva dal termine tedesco Aufklärung (letteralmente “rischiaramento”), impiegato fin dal Settecento per alludere all’azione di illuminazione delle menti grazie alla ragione, capace di disperdere le tenebre dell’ignoranza e della superstizione. La metafora della luce ricorre anche nel termine inglese Enlightenment e nel francese âge des lumières (“età dei lumi”), per designare una nuova età. Immagini metaforiche riferite alla luce sono assai diffuse negli scritti degli illuministi. Per lo più l’immagine della luce è impiegata in modo polemico dagli illuministi per alludere all’azione liberatrice dei “lumi” della ragione: ad esempio nel romanzo Bélisaire (1767) di Jean-François Marmontel (1723-1799) leggiamo: «La verità risplende della propria luce; e non si illuminano le menti con la fiamma dei roghi» (cap. XV). La luce della verità razionale sfida vittoriosamente la fiamma dei roghi, simbolo dell’oscurantismo religioso, contro cui, soprattutto in Francia, gli illuministi condussero una strenua battaglia.
La più nota definizione dell’Illuminismo è quella del filosofo Immanuel Kant (1724-1804): «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende dal difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo». Per Kant, dunque, l’Illuminismo corrisponde all’uscita della civiltà europea dalla condizione in cui si ha bisogno di “tutori”, di guide: un bisogno alimentato nei popoli dai tutori stessi, che impedendo il libero utilizzo della ragione ha mantenuto per secoli nella paura e nell’ignoranza i popoli, facendo apparire pericolosi (e peccaminosi) l’esercizio dello spirito critico e l’autonomia di pensiero.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 227
• Al contrario, le stesse idee si scontrano in Francia con un modello politico-istituzionale ancora assolutistico e fortemente accentrato, sostenuto dal clero e dalla classe nobiliare, un modello secondo il quale i diritti sono quelli del sovrano e delle classi di potere, tese a difendere secolari privilegi. Da qui il carattere battagliero e particolarmente “ideologizzato” dell’Illuminismo francese, che ha finito per essere identificato con l’Illuminismo tutto. D’altra parte, gli scritti degli illuministi francesi hanno inciso in modo più marcato sul dibattito intellettuale. Carattere moderato e riformistico ha l’Illuminismo italiano, anche in rapporto alla politica dei sovrani in Lombardia e nel regno di Napoli, aperta alla collaborazione degli intellettuali. Gli aspetti comuni D’altra parte è indubbio che ci sia stato un terreno comune che giustifica l’utilizzo del termine “illuminismo” per definire un modello di pensiero largamente condiviso, in cui sono identificabili alcuni punti fermi. Tra i principali figurano: • l’esaltazione della ragione, intesa come libero esercizio di critica razionale; • l’idea che la ragione vada liberamente impiegata per il raggiungimento del bene comune, della “felicità pubblica”; • l’orientamento antitradizionalista e l’avversione verso ogni forma di dogmatismo.
2 Dalla visione teologica alla visione razionale-scientifica del mondo
Una nuova mappa culturale: l’età della scienza Nell’età dell’Illuminismo la concezione del mondo, della natura e dell’uomo è la diretta conseguenza dell’estensione del metodo scientifico a tutti i campi del sapere: si rinuncia a ricercare l’essenza delle cose, i fini generali dei fenomeni, per indagarne, attraverso l’osservazione diretta e la verifica sperimentale, le proprietà e le relazioni. Per la prima volta, poi, le principali acquisizioni scientifiche vengono divulgate attraverso la stampa e si crea un inusitato interesse nei confronti della scienza, mitizzata anche in seguito a scoperte di grande impatto sulla vita sociale e sull’immaginario (si pensi agli esperimenti sull’elettricità di Franklin, Galvani e Volta, all’ideazione del pallone aerostatico, del parafulmine e così via). L’universo-macchina di Newton L’adozione del metodo scientifico investe anzitutto il campo fisico-astronomico, dove viene accolta ormai stabilmente non solo la visione copernicano-galileiana, ma anche una concezione meccanicistica dell’universo in quanto soggetto a leggi esprimibili in linguaggio matematico. Già negli ultimi decenni del Seicento con Isaac Newton (1642-1726; Principi matematici di filosofia naturale, 1687) la scienza aveva compiuto un grandissimo passo in avanti per svincolare l’indagine della natura dall’ottica teologica: la teoria della gravitazione universale unisce infatti finalmente mondo terrestre e mondo celeste in un organico universo-macchina, il cui funzionamento può essere conosciuto e rigorosamente descritto. Nel corso del secolo le principali formulazioni dello scienziato vengono divulgate anche tra i non addetti ai lavori: la filosofia newtoniana diventa così un elemento chiave del “codice” culturale del tempo, e Newton stesso assurge a personaggiosimbolo di una nuova era libera finalmente dalla soggezione del soprannaturale. Il problema di Dio La nuova scienza astronomica non espunge Dio dall’universo, anzi proprio nell’armonia dell’universo-macchina Newton ritrova le prove dell’esi-
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stenza di Dio, come evidenzia anche solo questo passo, tratto dai Principia mathematica (1713): «Questa elegantissima compagine del Sole e dei pianeti poté sorgere soltanto dal disegno e dal volere di un Ente intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di sistemi consimili, questi sono tutti soggetti al dominio di uno solo [...] che tutto regge non come anima del mondo, ma come signore dell’universo». Per Voltaire, il più noto filosofo illuminista, come l’orologio presuppone l’orologiaio, allo stesso modo le leggi che regolano il movimento degli astri presuppongono la presenza di un “grande geometra”. La nuova visione astronomica non nega dunque Dio, ma libera certamente l’uomo dalla paura fondata sul mistero, una paura che aveva mantenuto per secoli gli uomini in quello stato che Kant, nella sua celebre definizione dell’Illuminismo, chiama di «minorità». Tra deismo e ateismo Almeno nei primi decenni dell’età dei lumi, dunque, non è negata l’esistenza di Dio, ma piuttosto si tende a contestare il ruolo “pubblico” e “politico” della religione, riducendola sempre più a una questione di coscienza individuale, a un rapporto privato tra l’uomo e Dio.
Sguardo sull’arte Ritratti di scienziati Il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825) in un dipintodel1788ritraeloscienziatofranceseAntoine-Laurent de Lavoisier insieme alla moglie Marie-Anne Pierrette Paulze, chimica di formazione. Il personaggio centrale è Marie-Anne Pierrette: con lo sguardo diretto allo spettatore, si appoggia alla spalla del marito e posa la mano destra sul bordo del tavolo su cui, fra penne d’oca, inchiostro e fogli manoscritti, sono in bella vista vari strumenti da chimico, che richiamano gli studi e gli esperimenti. Antoine è seduto al fianco della moglie, il viso rivolto per tre quarti verso di
lei, con espressione sollecita e complice. All’estrema sinistra, in una cartella, si intravedono cartoni da disegno che ricordano come la moglie di Lavoisier, allieva dello stesso David, fosse l’autrice di vari disegni dei loro esperimenti. La tela rimanda un’immagine amabile, quasi borghese, di una coppia, accomunata anche dal lavoro di ricerca scientifica. Nel ritratto dedicato a Isaac Newton, il pittore William Blake (1757-1827) non raffigura realisticamente il grande scienziato, ma ne fa un ritratto simbolico, rappresentandolo come un eroe classico, ripiegato su se stesso e intento a tracciare figure geometriche con il compasso. IMMAGINE INTERATTIVA
Jacques-Louis David, Antoine-Laurent Lavoisier e la moglie Marie-Anne-Pierrette Paulze, 1788 (New York, Metropolitan Museum).
William Blake, Newton, 1798-1805 (Londra, Tate Britain).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 229
La concezione prevalente in campo religioso (da Voltaire a Montesquieu a Rousseau) è il deismo, una sorta di religione “naturale” e razionale, che non riconosce le religioni rivelate, considerate colpevoli di mantenere l’uomo preda di paure e superstizioni. La morale riconosciuta dai deisti non è frutto di dogmi, ma si fonda sulla tolleranza e sul riconoscimento della fratellanza universale. Concetti espressi con convinzione da Voltaire nella voce “Teista” del suo Dizionario filosofico (occorre preonline cisare che Voltaire usa qui il termine “teismo” sostanzialmente D1 Voltaire come sinonimo di “deismo”; ➜ D1 OL). Che cosa significa essere teista Dizionario filosofico, s.v. "Teista" Nella cultura illuminista francese si afferma però anche l’ateismo: esplicite dichiarazioni di materialismo e ateismo sono online presenti in particolare nell’opera del medico-filosofo Julien D2 Voltaire de La Mettrie (1709-1751; L’uomo macchina, 1748), ma anche Critica della fede nei miracoli nei gruppi intellettuali che si formarono attorno a Diderot e Dizionario filosofico, s.v. "Miracoli" al barone d’Holbach. Al Dio “geometra” di Newton, d’Holbach contrappone una natura che attraverso leggi meccaniche si autoregola e automantiene (➜ D3 ): una concezione che sarà fatta propria da Giacomo Leopardi, il cui pensiero è profondamente nutrito dal materialismo meccanicistico settecentesco. La battaglia contro la superstizione Una delle manifestazioni che hanno maggiormente inciso sulla mentalità del tempo dei lumi è il processo che i philosophes istruiscono nei confronti della religione. La cosa non stupisce se si pensa che l’Europa usciva da un’epoca tragicamente segnata da sanguinose guerre di religione e che il concetto della tolleranza religiosa non si era ancora definitivamente imposto. Gli illuministi conducono una strenua battaglia contro la superstizione, il fanatismo, l’irrazionale fede nei miracoli (➜ D2 OL) e attaccano duramente il ruolo di istituzioni religiose repressive come l’Inquisizione (un esempio può essere la lettera XXIX delle Lettere persiane di Montesquieu). Persino nel paese cattolico per eccellenza, ovvero l’Italia, esponenti del clero stesso (come Muratori e Giannone), già prima della battaglia ideologica illuminista, avevano auspicato una religione lontana da fanatismo e superstizioni.
Paul-Henry d’Holbach
D3
La visione materialisticomeccanicistica dell’universo
LEGGERE LE EMOZIONI
Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali P.-H. d’Holbach, Il buon senso, a c. di S. Timpanaro, Garzanti, Milano 1985
Il trattato Il buon senso uscì anonimo nel 1772: in questo scritto del filosofo Paul-Henry d’Holbach (1723-1789), collaboratore dell’Enciclopedia, si esprime, come si può comprendere anche dal brano che segue, una concezione ateistica e rigorosamente materialistico-meccanicistica dell’universo: la natura è regolata da leggi immutabili a cui sottostà ogni elemento, organico e inorganico; tuttavia, alcune di queste leggi non sono conosciute dall’uomo, ed è da qui che per d’Holbach derivano i dubbi e soprattutto le credenze che abdicano al cosiddetto buon senso, come quella in un Dio regolatore dell’universo.
230 Settecento Scenari socio-culturali
Gli adoratori di un Dio trovano soprattutto nell’ordine dell’universo una prova invincibile dell’esistenza di un essere intelligente e saggio che lo governa. Ma quest’ordine non è che un séguito di movimenti necessariamente prodotti da cause o da circostanze che sono talora favorevoli a noi, talaltra contrarie: noi approviamo 5 le une e ci lamentiamo delle altre. La natura segue costantemente lo stesso cammino: vale a dire che le stesse cause producono gli stessi effetti, fin tanto che la loro azione non sia modificata da altre cause che costringono le prime a produrre effetti diversi. Quando le cause delle quali noi sperimentiamo gli effetti sono modificate, nelle loro azioni o movimenti, da altre cause che, per il fatto di esserci ignote, non 10 sono meno naturali e necessarie, noi rimaniamo stupefatti, gridiamo al “miracolo”, e attribuiamo tali effetti ad una causa molto meno nota di tutte le altre che vediamo agire sotto i nostri occhi1. L’universo è sempre in ordine; per esso, non possono esserci disordini. Quando noi ci lamentiamo d’un disordine, è solo la nostra macchina che si trova in stato di 15 sofferenza2. I corpi, le cause, gli esseri contenuti in questo mondo agiscono necessariamente come li vediamo agire, sia che noi approviamo, sia che disapproviamo i loro effetti. I terremoti, i vulcani, le inondazioni, le epidemie, le carestie sono effetti altrettanto necessari – o altrettanto appartenenti all’ordine della natura – quanto la caduta dei gravi, il corso dei fiumi, i movimenti periodici dei mari, il soffiare dei 20 venti, le piogge fecondatrici, gli eventi favorevoli per i quali lodiamo la Provvidenza e la ringraziamo dei suoi benefizi. Essere meravigliati di veder regnare un determinato ordine nel mondo, significa essere sorpresi che le stesse cause producano costantemente gli stessi effetti. Rimanere turbati nel vedere del disordine, significa dimenticare che, se le cause mutano o 25 subiscono interferenze nella loro azione, gli effetti non possono più essere gli stessi.
1 Quando... occhi: anche d’Holbach attacca, come Voltaire, la fede nei miracoli ma con diverse motivazioni: i miracoli sono solo il frutto delle nostre limitate co-
noscenze scientifiche, che non sono in grado di spiegare tutti i fenomeni. 2 è solo... sofferenza: la natura procede sempre attraverso un complesso di leggi,
siamo noi a percepire come negativi determinati fenomeni perché ci provocano sofferenze (ad es. un terremoto, un maremoto e altre calamità, come scrive più avanti).
Concetti chiave Una visione rigorosamente ateistica
D’Holbach polemizza con i credenti nelle religioni, ma anche con i deisti come Voltaire. Sia gli uni sia gli altri ritrovano nell’ordine dell’universo una prova dell’esistenza di Dio: in realtà ciò che percepiamo come un ordine che rispecchia un Dio creatore non è altro che il risultato di cause naturali, alcune favorevoli e altre avverse. L’autore sottolinea che la natura segue costantemente il suo corso, con le stesse cause che producono gli stessi effetti finché non vengono alterate da altre cause naturali e necessarie, anche se sconosciute a noi. La limitatezza delle nostre conoscenze scientifiche attribuisce erroneamente a un “miracolo” gli effetti prodotti da cause non ancora comprese dall’uomo. Le calamità (come i terremoti o le epidemie) sono effetti necessari, dovuti a cause naturali, esattamente come gli eventi naturali per cui ringraziamo la Provvidenza divina. L’autore sostiene che l’universo è sempre in ordine anche quando appare in disordine: semplicemente, mutando le cause, non possono che mutare gli effetti.
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 231
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è la tesi che d’Holbach intende sostenere nel brano? 2. Quali affermazioni l’autore formula circa il “disordine” dei fenomeni naturali? LESSICO 3. La concezione che si evince dal passo è definibile come “materialistico-meccanicistica”: spiega il termine in rapporto a quanto si sostiene nel testo.
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 4. Confronta la posizione espressa da d’Holbach con quella di Voltaire (➜ D1 OL, ➜ D2 OL), evidenziando i punti di contatto e le differenze tra i due pensatori circa la concezione dell’universo e l’atteggiamento degli uomini di fronte ai fenomeni naturali.
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 5. La visione ateistica e materialistico-meccanicistica dell’universo proposta da Paul-Henry d’Holbach ha come obiettivo quello di portare ciascun essere umano all’acquisizione di responsabilità verso la propria esistenza agendo in modo diretto e deciso su ciò che percepiamo come “disordine”. Ti trovi d’accordo con la posizione dell’autore? In che modo sviluppare un pensiero critico su sé stessi e sul reale può essere la direzione da seguire per superare la sfida posta da d’Holbach?
3 Una nuova immagine del mondo naturale e dell’uomo Anche la natura è soggetta a leggi Se il cosmo diviene meno misterioso, allo stesso modo anche la concezione della natura si trasforma, una volta indagata senza più pregiudizi e preclusioni. Si fa strada l’idea che la natura, come il cosmo, sia soggetta a leggi. Ancora non esisteva un termine che distinguesse lo studio della natura (che rientrava sempre nell’ambito della “filosofia naturale”), ma già inizia a delinearsi la distinzione tra “scienze della terra” (la geologia e la mineralogia) e “scienze della vita” (botanica e zoologia). In quest’ultimo campo furono fondamentali le acquisizioni del naturalista svedese Carl von Linné (italianizzato in Carlo Linneo, 1707-1778) che sviluppano una sistematica classificazione degli esseri viventi (piante e animali), emancipando definitivamente questo campo di indagine dalle fantasiose ipotesi dei bestiari ed erbari medievali, impregnate di simbolismo religioso.
Esperimenti su animali, illustrazione tratta dalla Storia naturale (17491788) di Georges-Louis Leclerc de Buffon.
232 Settecento Scenari socio-culturali
online
Per approfondire La visione preevoluzionistica di Buffon
Anche l’uomo fa parte della realtà naturale Persino il posto privilegiato dell’uomo nel creato viene messo in discussione dalle nuove concezioni filosofiche: l’uomo non è più un essere superiore, autonomo rispetto alle altre specie, ma a sua volta appare inserito in un mondo naturale soggetto a proprie leggi. Viene abbattuto il dualismo anima-corpo e si comincia a pensare che persino le funzioni superiori dell’essere umano (quelle intellettuali e spirituali) possano dipendere da cause organiche, come prospetta la riflessione filosofica del sensismo (➜ PER APPROFONDIRE Il sensismo). Il medico Georges Cabanis (1757-1808) getta le basi della moderna fisiologia del sistema nervoso, al quale riconduce le attività psichiche. Una volta scalzata la prospettiva metafisica come parametro dominante di interpretazione, tramonta la visione della malattia e delle grandi epidemie come conseguenza del peccato, punizione di Dio; inoltre, si comincia a comprendere l’esigenza dell’igiene personale e si diffonde la preoccupazione della salute pubblica (come ci testimonia anche l’ode pariniana La salubrità dell’aria ➜ C9 T1 ).
4 Il tema della felicità e il mito del progresso
PER APPROFONDIRE
Il piacere e il diritto alla felicità Un tema chiave del pensiero illuminista, profondamente radicato nell’opinione pubblica, è la felicità, argomento di conversazione privilegiato nei salotti intellettuali e soggetto di testi letterari (come il romanzo Candido di Voltaire ➜ C8). Al tema è dedicata anche una voce dell’Enciclopedia. Non è certamente un concetto nuovo (basta pensare agli umanisti), ma nuova è la prospettiva tutta laica e terrena con cui gli illuministi intendono la felicità: l’Illuminismo non demanda all’aldilà la felicità, ma la radica nell’aldiquà e la estende dall’individuo singolo all’intera collettività (si è parlato in proposito di «socializzazione dell’ideale della felicità»). È dovere degli intellettuali battersi perché nella società venga raggiunto il massimo della felicità possibile, abbattendo ogni ostacolo che ne impedisca il conseguimento: istituzioni arcaiche e irrazionali pregiudizi ereditati dal passato. La felicità si connette al tema, centrale nella visione illuminista, del piacere. Secondo l’ottica del sensismo, gli illuministi tendono a ricollegare la dinamica della vita psichica, le scelte fondamentali dell’uomo, al piacere: per sua natura l’uomo ricerca sensazioni piacevoli e rifiuta sensazioni dolorose.
Il sensismo Nel 1754 l’abate francese Etienne Bonnot de Condillac (1714-1780) pubblica il Trattato delle sensazioni, fondamento della filosofia del sensismo in Francia che eserciterà grande influenza anche nell’ambito estetico e letterario. La riflessione di Condillac ha le sue radici nell’empirismo inglese: già Francesco Bacone (1561-1626), nella sua concezione della conoscenza, accanto alla ragione aveva dato spazio all’esperienza. Il ruolo dell’esperienza nel processo conoscitivo è ulteriormente accentuato nella seconda metà del secolo da John Locke (1632-1704), principale teorico della corrente filosofica inglese dell’empirismo, per il quale la ragione trae dall’esperienza, e più precisamente dalla sensazione, i materiali che
fanno conoscere all’uomo le cose esterne (mentre è dalla riflessione che vengono tratti i materiali che la ragione utilizza per conoscere le cose interne). Per Condillac le sensazioni fisiche sono all’origine di tutte le conoscenze e dello sviluppo delle facoltà umane, compresa la vita psichica; e le nostre conoscenze e le nostre passioni sono effetti del piacere e del dolore che accompagnano le impressioni dei sensi. Le teorie sensistiche penetrarono profondamente nella cultura e nella stessa mentalità del Settecento. Anche in Italia ci fu una consistente penetrazione di temi del sensismo, soprattutto nel dibattito sulla natura e i caratteri dell’arte (➜ PAG. 265).
La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 233
Lo scienziato francese AntoineLaurent de Lavoisier alle prese con un esperimento in una stampa d’epoca.
L’utopia del progresso Gli illuministi hanno la percezione, altrettanto forte degli umanisti, che si stesse aprendo una nuova età, caratterizzata dalla felicità, dalla fine delle ingiustizie, dall’uguaglianza: insomma, un’età più civile. La storia è quindi vista come progresso (➜ D4 OL) da un passato giudicato negativamente perché dominato dalle tenebre dell’ignoranza e dell’irrazionalità, a un futuro ottimisticamente immaginato come illuminato dalla ragione e dalla scienza, nel quale tutte le facoltà umane sarebbero state potenziate. A questa visione – come vedremo – si contrappone il filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), il quale considera “regresso” quello che è chiamato dagli altri philosophes “progresso” e sviluppa nei suoi scritti una visione negativa del divenire storico-sociale (➜ D12 ), che ha allontanato sempre di più l’uomo dai suoi reali bisogni e dalla sua “naturalità”, provocandone inevitabilmente l’infelicità.
online D4 Pietro Verri
La diffusione dei lumi e i progressi della civiltà europea Del piacere e del dolore
I temi centrali del pensiero illuminista sull’esistenza la felicità, intesa in una prospettiva totalmente laica e terrena
TEMI
il piacere, come principio che orienta le scelte degli esseri umani
Parola chiave
il progresso, in prospettiva storica come orizzonte inevitabile di un futuro dominato dalla ragione e dalla scienza
progresso Il termine progresso deriva dal verbo latino progrĕdi che significa “avanzare, procedere”. Nell’Illuminismo è particolarmente diffusa l’identificazione futuro-progresso: una volta diffusi i lumi della ragione, inequivocabilmente l’umanità conoscerà un avanzamento in ogni ambito della società e del costume. Si tratta di una visione utopistica sostenuta dall’incremento, per quei tempi considerevole, delle conoscenze scientifiche. Il mito del progresso sarà ripreso, con connotazioni espressamente scientifico-tecnologiche e in
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modo addirittura trionfalistico, dalla cultura positivistica nel secondo Ottocento. Nella società contemporanea (che reca ancora i segni del trauma del disastro atomico e che ha davanti a sé lo spettro della catastrofe ecologica) si sta verificando un'inversione di tendenza: al mito del progresso illimitato, in ogni caso da incrementare, si va sostituendo l’idea di uno sviluppo sostenibile, in cui la crescita tenga conto delle risorse del pianeta e del rispetto dell’ambiente.
5 Una nuova figura di intellettuale: il philosophe Un intellettuale battagliero, al servizio del bene comune La grande trasformazione culturale operata dall’Illuminismo non è determinata (almeno in Francia e in Italia) dall’emergere di nuove figure sociali, ma è portata avanti da un’ala progressista della stessa aristocrazia: appartengono infatti al ceto nobiliare Voltaire, d’Alembert, d’Holbach e molte altre figure di spicco dell’Illuminismo francese, come del resto sono nobili in Italia i fratelli Verri e Cesare Beccaria. Il particolare modello di intellettuale che diede vita al movimento illuminista, in particolare in Francia, corrisponde alla figura del philosophe di cui Voltaire rappresenta la perfetta incarnazione, come si può notare anche solo scorrendo i dati della sua biografia (➜ PAG. 236). Il termine francese è sostanzialmente intraducibile e solo in parte può essere reso con “filosofo”: il philosophe ingloba infatti in sé anche il letterato, ma è un letterato che non ha nulla a che fare con l’erudito e che esercita lo spirito critico in campi online socialmente utili, contribuendo alla distruzione dei pregiudizi D5 e di una mentalità superstiziosa e dogmatica (➜ D5 OL). Identikit del philosophe Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze delle arti e de’ mestieri ordinatoda Diderot e d’Alembert, s.v. "Filosofo"
Lessico pamphlet Breve scritto di carattere polemico o satirico.
Jean-Étienne Liotard, Ritratto d’uomo seduto alla scrivania, 1752 (Castello di Schönbrunn di Vienna).
La cultura deve e può cambiare la società Il modello di intellettuale cui diedero vita Voltaire, Diderot, Montesquieu, d’Alembert e altri non si isola più nei chiusi confini della speculazione filosofica ma assume un ruolo attivo e polemico, utilizzando per diffondere le proprie idee nuove forme di comunicazione come i dibattiti, i pamphlet , i giornali, e gli stessi romanzi, che assumono spesso la forma del conte philosophique, il “racconto filosofico”. Mai come nell’età dei lumi si ha fiducia che gli uomini di cultura possano cambiare il mondo (è questa una delle utopie degli illuministi) e per questo il philosophe si attribuisce il diritto-dovere di mobilitare l’opinione pubblica con clamorose prese di posizione. Ad esempio, Voltaire fa conoscere al pubblico un caso giudiziario conclusosi con una faziosa condanna a morte. Il letterato si batte per l’assoluzione e riabilitazione post mortem dell’accusato, un protestante di Tolosa, Jean Calas, torturato e poi giustiziato nel 1762 con l’accusa di aver ucciso il figlio per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. Voltaire riesce a coinvolgere l’opinione pubblica, trasformando in un “caso” la tragica vicenda, così da ottenere la riabilitazione ufficiale del povero Calas. Dalla vicenda lo scrittore trae spunto per il celebre Trattato sulla tolleranza (1763; ➜ D11 ). D’altra parte il philosophe non manca di ricercare la collaborazione dei sovrani, come tenta di fare Voltaire con Federico di Prussia, aspirando a diventarne l’illuminato consigliere, nella convinzione che l’appoggio degli intellettuali al programma di riforme sia necessario per realizzare una società più giusta. In Italia: gli intellettuali-funzionari Sull’esempio dei philosophes, in Italia l’intellettuale si occupa di ambiti diversi e assume a volte ruoli pubblici: in particolare in Lombardia, gli intellettuali mirano a inserirsi nei posti chiave dell’amministrazione pubblica, diventando funzionari governativi, per poter così contribuire concretamente alla “pubblica felicità”: ne è un esempio Pietro Verri (➜ C7), attivo per più di vent’anni nel governo asburgico, ma anche Giuseppe Parini (➜ C9). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 235
Una riunione della Società dei Pugni nel dipinto di un anonimo milanese. Sono ritratti, da sinistra, Alfonso Longo, Alessandro Verri, Giovanni Battista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto.
La “repubblica cosmopolita” degli intellettuali Nell’età dell’Illuminismo gli intellettuali ricreano su nuove basi la “repubblica dei letterati” nata con l’Umanesimo. Fondamentale strumento di questa nuova unità della società intellettuale sono i viaggi (➜ PAG. 241) grazie ai quali gli intellettuali si aprono a una dimensione europea, acquisendo conoscenza di uomini e usanze diversi. Il cosmopolitismo non è dunque solo un valore a cui gli illuministi credono fermamente, ma la reale condizione di molti di loro. Con l’Illuminismo inizia anche per la nostra cultura una fase di sprovincializzazione in cui l’influenza dei modelli stranieri diventa assai rilevante. Alessandro Verri ad esempio si reca a Parigi con Cesare Beccaria per far conoscere la rivista «Il Caffè»: il viaggio metterà in contatto la Società dei Pugni con i salotti francesi ed è su questa base che si costruirà il trionfo del libretto di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene) fuori d’Italia. Gli intellettuali sono in contatto tra di loro anche attraverso l’intensificarsi della corrispondenza epistolare, che a quei tempi era lo strumento fondamentale per le relazioni interpersonali. Quella del Settecento non è solo la “civiltà del viaggio”, ma anche quella delle lettere.
Parola chiave
Voltaire, il prototipo del philosophe La figura sicuramente più rappresentativa dell’età dei lumi è Francois-Marie Arouet, detto Voltaire (1694 1778). Nato a Parigi da un’agiata famiglia, è educato in un collegio gesuitico. Fondamentale per la sua formazione ideologica è il periodo in cui vive in Inghilterra (1726-1728) e conosce da vicino il clima di libertà che si respira in un paese moderno e tollerante. Da
cosmopolitismo Dal greco cosmos, “mondo”, e polites, “cittadino”, è la disposizione a considerare tutti gli uomini come cittadini di un’unica patria, rifiutando di conseguenza distinzioni di nazionalità e di razza; cosmopolita è chi si vede un cittadino del mondo e ritiene che il mondo intero sia la sua patria. Nell’età dei lumi il cosmopolitismo assume una valenza del tutto laica: quella illuminista è una “repubblica di spiriti li-
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beri”, che si battono per promuovere l’emancipazione dell’individuo di qualsiasi nazione. Il cosmopolita del Settecento non si rivolge più ai soli dotti, ma agli uomini senza eccezioni, in nome di valori come “tolleranza”, “ragione”, “uguaglianza”, considerati patrimonio di tutta l’umanità e subentrati a quelli cristiani.
questa esperienza trarrà le Lettere inglesi o Lettere filosofiche (1734) in cui esalta il modello inglese e si scaglia contro il fanatismo e l’intolleranza. Nei dieci anni seguenti, il suo nome diventa sempre più noto, grazie a una produzione finalizzata alla divulgazione di una nuova visione del mondo e di un nuovo sapere. Nel 1745 è nominato ufficialmente storiografo di Francia. Per tre anni (1750 1753) soggiorna presso Federico di Prussia, di cui Voltaire sperava di diventare consigliere, ma i rapporti con il sovrano furono alquanto difficili, nonostante li legasse una stima reciproca. Se il ruolo di consigliere illuminato non ebbe dunque esiti significativi, è attraverso la sua molteplice produzione e attraverso le battaglie condotte per difendere i principi della tolleranza che Voltaire poté conquistare l’opinione pubblica e una fama europea: la sua produzione è sempre brillante e corrosiva, spazia dalla storiografia (Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni), al romanzo filosofico (Zadig, Candido, Micromega, L’ingenuo), al teatro, al pamphlet, alla poesia di attualità (Poema sul disastro di Lisbona), esempio tangibile di quell’eclettismo che costituiva il nuovo modello di sapere dei philosophes. Partecipa anche alle imprese editoriali dell’Encyclopédie, scrivendo alcune voci, ma poi stenderà quasi in competizione, un suo Dizionario filosofico portatile (1764). Ritiratosi a vivere a Ferney, presso Ginevra (ma in territorio francese), continua un’instancabile attività di polemista e scrittore a favore dei diritti umani e della tolleranza. Assumendosi il ruolo di “avvocato del genere umano”, Voltaire si batte per creare un’opinione pubblica illuminata ➜ D11 ). Divenuto una celebrità, Voltaire riceve nel suo castello personaggi importanti di tutta Europa e continua a intrattenere un fitto epistolario (circa 2000 lettere) con personaggi di spicco. Voltaire muore a Parigi nel 1778, ma è sepolto fuori dalla capitale per l’opposizione del clero. Durante la Rivoluzione francese il suo corpo è traslato con tutti gli onori nel Pantheon.
Antiporta (la pagina figurata che precede il frontespizio) degli Elementi della filosofia di Newton di Voltaire (1738). Voltaire, seduto, traduce l’opera di Newton (il manoscritto sembra rischiarato da una luce che emana dallo scienziato stesso ed è riflessa da uno specchio retto da una musa).
Ritratto di Voltaire allo scrittoio, sec. XVIII (Parigi, Museo Carnavalet).
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6 Nuovi luoghi per la circolazione delle idee: salotti e caffè La cultura dell’Illuminismo è fortemente caratterizzata dalla dimensione che è stata definita della “sociabilità”. Ha la sua cifra distintiva nella circolazione e nello scambio delle idee, che continua comunque ad avvenire anche all’interno delle corti o nelle accademie, ma che predilige sempre più le occasioni di incontro informale: dai salotti ai caffè alle società di lettura. I salotti, centro della vita culturale parigina I salotti delle famiglie aristocratiche più aperte furono nel Settecento, in particolare a Parigi, i centri principali del dibattito culturale, in cui scambiarsi idee, discutere in un clima informale sulle tematiche più attuali, elaborare progetti: in questo senso diventavano per l’élite intellettuale veri e propri «luoghi di lavoro», secondo la definizione della storica americana contemporanea Dena Goodman. I salotti parigini erano sapientemente guidati dalle padrone di casa, che orientavano la conversazione cercando di armonizzare gli interventi. Il caffè, spazio per socializzare e conversare in modo nuovo Già negli ultimi decenni del Seicento, l’Inghilterra inaugura l’ambiente del caffè, le famose coffee houses, destinate a essere soppiantate verso il 1720 dai club e dalle tea houses, quando il tè, importato dall’India, diventerà la bevanda nazionale inglese. Per contro, in Francia e Italia, sull’esempio inglese, i caffè si diffondono a macchia d’olio: non è un caso che la principale rivista dell’Illuminismo italiano scelga di denominarsi «Il Caffè» (trasformando così in spazio simbolico uno spazio reale di aggregazione ➜ C7 T1 ) e che Goldoni metta in scena nel 1750 una commedia intitolata proprio La bottega del caffè. In Francia il primo caffè (il celebre Procope) nasce a Parigi addirittura nel 1702, in Italia i primi caffè nascono a Venezia già verso la fine del Seicento, in concorrenza con gli spacci di vino; il celebre caffè Florian a Venezia, ancora oggi esistente, apre i battenti nel 1720. Il caffè è un luogo diverso dal salotto, innanzitutto perché è un luogo aperto, potenzialmente disponibile ad accogliere tutte le classi sociali (in Inghilterra bastava pagare un penny d’entrata), è un luogo non governato dalle padrone di casa, come invece i salotti parigini, e proprio per questo la conversazione è ancora più libera
Charles-Gabriel Lemonnier, Una serata da Madame Geoffrin, 1812 (Rueil-Malmaison, Musée National du Château de Malmaison). Nel salotto della nobildonna è in corso la lettura di una tragedia di Voltaire, allora in esilio, e riuniti intorno al busto dell’autore ci sono, fra gli altri, Rousseau, Montesquieu, Diderot e d’Alembert.
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Per approfondire Il nettare nero che ha trasformato il costume
e informale. Nel caffè non vengono più esibiti e “consumati” saperi già conformati e stabili a cui si attribuisce indiscussa autorevolezza, ma si forma collettivamente un nuovo sapere attraverso la libera conversazione. Componente essenziale della “civiltà del caffè” è la diffusione di fogli periodici e gazzette. Lo «Spectator» (1711), il giornale inglese che fece scuola, ha la sua origine proprio nelle coffee houses e presuppone come pubblico i frequentatori dei caffè, di cui diffonde il punto di vista e riproduce le pratiche di conversazione: nei caffè, come sullo «Spectator», si parla di tutto, dal libro appena uscito agli avvenimenti politici, dagli aspetti del costume alla quotidianità. Una forma di associazione segreta: la massoneria All’“apertura” del caffè si contrappone la “segretezza” della massoneria. Oggi può sembrare sconcertante, ma nel Settecento una delle forme di aggregazione più importanti tra le persone di un certo livello sociale (non solo intellettuali) fu la massoneria, istituzione nata con fini umanitari, filantropici e fondata su valori prettamente illuministi come l’uguaglianza. La massoneria nacque nel Medioevo come associazione corporativa legata al mestiere dei muratori (masons) inglesi: originariamente la loggia (termine che poi identifica il singolo gruppo massonico) era la capanna in cui si riunivano operai e tecnici, vicina all’edificio in costruzione. Presto la massoneria accolse anche geometri, architetti, ingegneri, matematici, scienziati in qualche modo collegati al mondo delle costruzioni, per poi aprirsi ad altre categorie professionali e intellettuali, assumendo nel tempo il carattere di associazione segreta.
PER APPROFONDIRE
«The Spectator», quotidiano inglese uscito dal marzo 1711 al dicembre 1712, è considerato uno dei primi esempi di giornalismo moderno.
Il nuovo volto delle accademie Nel Settecento le accademie, tradizionali sedi di aggregazione degli intellettuali, mantengono un ruolo importante e si moltiplicano. Un aspetto nuovo della vita delle accademie nel Settecento è l’emergere di interessi più diversificati (scientifici, economici, giuridici, tecnici ecc.), in rapporto all’evoluzione più generale della società e dell’idea di sapere. Alla nuova natura interdisciplinare delle accademie settecentesche corrisponde la varietà degli adepti (nobili, possidenti, ecclesiastici, funzionari, giuristi, medici, scienziati e altro ancora). Le principali accademie italiane In ambito letterario enorme importanza ebbe l’Accademia dell’Arcadia: sorta nel 1690 a Roma nella residenza romana di Cristina di Svezia, si
diffuse a macchia d’olio in tutta Italia (➜ C6). Espressione della dinamica cultura milanese, nel momento in cui anche l’Italia si apriva a più moderne prospettive culturali, è l’Accademia dei Trasformati, riorganizzata nel 1743 da Carlo Maria Imbonati che la ospita nel suo palazzo e di cui fece parte anche Parini: caratterizza l’orientamento dell’Accademia una prudente, moderata apertura ai temi della cultura contemporanea, ma l’impronta rimane sostanzialmente classicistica. Differente fu la combattiva Società dei Pugni, che solo impropriamente può essere definita un’accademia: si trattò piuttosto di un gruppo informale, che si riuniva nella casa di Pietro Verri e che diede vita per iniziativa dello stesso alla rivista «Il Caffè».
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Per approfondire La storia della massoneria
Già nel primo Settecento la massoneria si diffonde nei centri urbani di tutta Europa: in Francia, Spagna, Olanda, Belgio, Italia, Stati tedeschi fino a Praga, Russia, Danimarca e nelle colonie. Le logge massoniche arrivano presto a contare decine di migliaia di adepti (nella sola Francia, alla vigilia della Rivoluzione c’erano 689 logge e dai 35.000 ai 50.000 affiliati).
7 I valori e i modelli di comportamento L’interpretazione laica e sociale della virtù morale La riflessione illuminista mette in discussione la prospettiva metafisica anche in campo etico. Una volta spodestato il parametro di giudizio religioso, ne consegue che non esiste più un criterio assoluto per stabilire che cosa è bene e che cosa è male. La maggior parte degli illuministi tende a identificare ciò che è bene (la virtù) con i comportamenti che perseguono il bene della collettività, e che quindi si legano alla difesa della ragione, al rispetto dei diritti umani, al pacifismo, all’umanitarismo. Se questa è la virtù, il vizio è al contrario l’egoismo, lo sfruttamento degli altri, tutto ciò che incrina e inquina l’armonia della vita civile (una prospettiva, come è facile capire, di grande attualità). In ogni caso, il concetto di virtù per gli illuministi assume sempre un online carattere esclusivamente laico, tutto terreno: con la chiarezza che D6 Voltaire La virtù come valore sociale contraddistingue il suo modo di scrivere, ce lo fa ben capire Voltaire Dizionario filosofico, s.v. "Virtù" nella voce “Virtù” del suo Dizionario filosofico (➜ D6 OL). L’esaltazione della razionalità e dell’intraprendenza Non sono più i trattati, come nelle epoche precedenti, a delineare i nuovi modelli di comportamento, ma è il romanzo, genere letterario di grande successo: modelli destinati a incidere davvero sulla società, se si considera il rilevante incremento del pubblico, l’estensione della lettura a nuovi strati sociali e anche il diffondersi di nuovi modi di leggere. Uno dei primi esempi è Robinson Crusoe, il fortunato romanzo di Daniel Defoe (1660-1731), che fin dal 1719 propone al pubblico il modello del self-made man, del borghese attivo e intraprendente. Naufragato su un’isola deserta, Robinson non si perde certo d’animo: non solo si garantisce la sopravvivenza ma, grazie a un’associazione fruttuosa tra esperienza e razionalità (➜ D7a ), ricostruisce sull’isola una condizione “civile” e addirittura agiata, sfruttando abilmente quella che considera a tutti gli effetti la sua “proprietà”. In questo senso la sua vicenda assume il valore di una parabola, volta a esaltare le qualità individuali che fanno di Robinson il prototipo, secondo alcune interpretazioni, del proto-capitalista (➜ C8). Non a caso l’Illuminismo valorizza particolarmente il modello umano del mercante, a cominciare da Voltaire, che dedica un capitolo ammirato delle sue Lettere inglesi al commercio e alla figura del mercante che aveva reso grande l’Inghilterra, facendo di questa nazione un esempio di modernità per gli altri paesi. Commerciare è considerato un fattore di civilizzazione, poiché il commercio comporta la conoscenza di nuovi popoli e lo scambio di idee. Anche il nostro Goldoni prospetta nel personaggio di Pantalone la figura del mercante saggio e onesto (➜ C10). La valorizzazione del sentimento e delle passioni Nei nuovi modelli umani però non sono presenti solo razionalità, ponderazione, intraprendenza: altri romanzi mettono in scena il diritto alle passioni e la verità del sentimento. Ad esempio il fortunato romanzo epistolare Giulia o La nuova Eloisa (Julie ou La nouvelle
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Héloïse, 1761) di Jean-Jacques Rousseau (➜ C8 T8 OL), narra la storia della passione, socialmente irrealizzabile, tra Julie e il suo precettore. È oltremodo significativa una dichiarazione fatta da Rousseau stesso a proposito dello spirito con cui aveva scritto il romanzo e dei modi con cui esso andava necessariamente letto: «Chiunque, leggendo quelle [...] lettere, non si sente ammollire e fondere il cuore nella tenerezza che me lo dettò, chiuda subito il libro: non è fatto per giudicare di cose di sentimento». La nascita dell’autobiografia moderna: Le Confessioni Proprio intorno agli anni Sessanta del resto Rousseau inizia a scrivere anche le sue Confessioni, un’opera autobiografica che avrà larga influenza sulla cultura romantica, nella quale le passioni non sono soggette al filtro della reticenza dettata dalle regole sociali, ma sono anzi considerate la più autentica espressione della personalità umana dell’autore (➜ D7b ). Con Rousseau l’autobiografia assumeva il volto moderno di uno scavo nell’interiorità profonda dell’io narrante, che si rivela attraverso i ricordi, soprattutto relativi all’età infantile. L’importanza educativa e conoscitiva del viaggio L’intellettuale ma anche il gentiluomo del Settecento ha un’intensa vita di relazione, partecipa agli eventi mondani, va a teatro, frequenta i salotti e si mostra capace di conversare su ogni argomento di attualità. Soprattutto però è un grande viaggiatore, curioso, cosmopolita, aperto al confronto con popoli e culture diverse: nella civiltà del Settecento il viaggio non ha più soltanto scopi commerciali, come il viaggio del mercante, ma diventa una tappa obbligata nella formazione dei ceti dirigenti e degli uomini di cultura, che viaggiano per educarsi attraverso il contatto con altri paesi (➜ PER APPROFONDIRE Il Grand Tour, PAG. 242).
NicolasAndré Monsiau, Luigi XVI dà disposizioni a La Pérouse, 1817 (Palazzo di Versailles).
Dal conquistatore all’esploratore Nel secolo dei lumi continua la grande avventura dell’esplorazione di nuovi mondi; tuttavia, lo spirito con cui questa esperienza viene vissuta nel Settecento è del tutto diverso da quello che aveva animato le grandi scoperte geografiche di fine Quattrocento e nel Cinquecento. Una differenza che può essere sintetizzata nella contrapposizione tra “conquistatore” ed “esploratore”: è questo secondo termine che identifica i protagonisti del XVIII secolo come Louis-Antoine de Bougainville, James Cook, von Humboldt e molti altri. Come i grandi navigatori del Cinquecento, anche gli esploratori del Settecento non si muovono certo singolarmente, ma fanno parte di una missione organizzata dallo Stato; l’obiettivo che queste missioni si propongono non è però quello della conquista, ma quello, ben diverso, della conoscenza. Certo anche nei viaggi di esplorazione settecenteschi non è assente l’obiettivo economico e utilitaristico: nuove strade commerciali verranno aperte ai mercanti e nuovi paesi potranno ospitare colonie. Ma ciò che conta per gli esploratori di questo secolo è l’ampliamento delle conoscenze: l’ottica culturale del Settecento illuminista considera infatti l’incremento di conoscenza un elemento fondamentale del progresso. Il contatto con le popolazioni primitive suscita d’altra parte negli illuministi un dibattito sul rapporto tra civiltà e “natura”, alla quale i “selvaggi” sono rimasti vicini. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 241
Lessico filantropia Disposizione d’animo, in un individuo o gruppo sociale, volta a promuovere la felicità e il benessere degli altri.
In ogni caso, la civilizzazione dei nuovi mondi non può prescindere dalla filantropia e dal pacifismo, valori basilari per la cultura illuminista e ignoti ai conquistadores, la cui azione è duramente condannata (da Voltaire a Parini).
I modelli di comportamento Valori e i modelli dell’Illuminismo coincidenza tra virtù e bene della collettività
rispetto dei diritti umani, pacifismo, umanitarismo
esaltazione della razionalità e dell’intraprendenza valorizzazione del sentimento e delle passioni
PER APPROFONDIRE
valore educativo e conoscitivo del viaggio
Il Grand Tour Già Michel de Montaigne aveva compiuto intorno al 1580 un “viaggio d’istruzione” in Italia (di cui parla nel suo Viaggio in Italia (Journal de voyage en Italie, pubblicato solo nel 1774). Negli ultimi decenni del Settecento il viaggio di formazione diventa una consuetudine obbligata per l’uomo colto, all’interno di un’epoca che trova nel viaggio il suo emblema. Il termine Grand Tour per denominare questa esperienza social-culturale diventa d’uso corrente nel corso del Settecento, identificando in generale il viaggio in Europa, ma finendo per lo più per diventare sinonimo del “viaggio in Italia”. Le tappe su cui si incentra il Grand Tour sono sempre le stesse: Venezia, Firenze, a volte Napoli (con le rovine di Ercolano e Pompei, da poco scoperte) e in particolare Roma, mentre sono appena toccate (tranne eccezioni importanti) città pur ricche di testimonianze culturali come Milano o Torino. Il Grand Tour e la visione cosmopolita Nei suoi aspetti più caratteristici, il Grand Tour è l’espressione di un modello di pensiero cosmopolita: gli illuministi pensano che, al di là delle varietà dei costumi, delle leggi, delle lingue, delle mentalità delle varie nazioni e popolazioni, esista una struttura uniforme della natura umana e una morale naturale, un comune linguaggio di riferimento. Questa visione ottimistica nella possibilità, oggi diremmo, del “dialogo interculturale” è «il vero passaporto del Grand Tour» (Brilli), in un’epoca in cui non esistevano ancora i passaporti. Dall’interesse antropologico-culturale al fascino del paesaggio Nell’età dell’Illuminismo il Grand Tour implica soprattutto l’interesse per ambienti e abitudini di vita delle varie zone d’Italia che si confrontano con i propri (ma questa è una più generale caratteristica del viaggio settecentesco); non c’è attenzione invece al paesaggio naturale e alle vibrazioni interiori che il contatto con esso produce. Intorno agli anni Ottanta del XVIII secolo, con l’appannarsi dello spirito illuminista, si afferma invece la preminenza del fascino del paesaggio, preferibilmente aspro, solitario, minaccioso (deserti, vulcani, alte montagne, cascate, baratri), un fascino che si collega alla nascente sensibilità
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romantica e trasforma profondamente lo spirito stesso del Grand Tour. Testo di riferimento: A. Brilli, Quando viaggiare era un’arte. Il romanzo del Grand Tour, Il Mulino, Bologna 1995.
Pompeo Batoni, Ritratto del barone Francis Basset, 1778 (Madrid, Museo del Prado). Il nobiluomo è ritratto nel corso del suo Grand Tour, appoggiato a un altare romano (probabilmente fittizio); alle sue spalle Castel Sant’Angelo e la basilica di San Pietro.
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo
Virtù è far del bene al prossimo Voltaire, Dizionario filosofico, trad. di M. Enoch, Newton Compton, Roma 1991
È l’ultima voce del Dizionario filosofico di Voltaire (ne riproduciamo una parte) e si può dire che ne costituisca la degna e significativa conclusione. Con la passione e insieme la coerenza razionale che contraddistinguono il suo modo di argomentare, Voltaire delinea una nuova visione di virtù.
Che cos’è la virtù? Carità verso il prossimo. Posso chiamare virtù altra cosa da ciò che mi fa del bene? Io sono indigente1, tu sei liberale2; io sono in pericolo, tu accorri in mio aiuto; mi ingannano, tu dici la verità; mi trascurano, tu mi consoli; sono ignorante, tu mi istruisci; non avrò difficoltà a chiamarti virtuoso. Ma che ne sarà delle virtù cardinali e teologali3? Qualcuna resterà nelle scuole. Che m’importa che tu sia temperante? Tu osservi un precetto di salute; starai meglio, e io mi congratulo con te. Tu hai fede e speranza, me ne congratulo ancora di più: esse ti procureranno la vita eterna. Le tue virtù teologali sono doni celesti; le tue virtù cardinali sono eccellenti qualità che servono alla tua condotta di vita; ma non sono affatto virtù nei riguardi del tuo prossimo. Il prudente si fa del bene, il virtuoso ne fa agli uomini. San Paolo ha avuto ragione nel dirti che la carità supera la fede e la speranza. Ma come! si ammetterebbero come virtù solo quelle utili al prossimo? E come posso ammetterne altre? Noi viviamo in società; non esiste dunque vero bene per noi se non ciò che fa il bene della società. Un solitario sarà sobrio, pio; sarà vestito con un cilicio4: ebbene, sarà santo; ma lo chiamerò virtuoso solo quando avrà compiuto qualche atto di virtù da cui altri uomini abbiano tratto profitto5. Fintantoché è solo, non è né benefico né malefico; per noi non è niente. Se san Bruno ha portato la pace nelle famiglie, se ha soccorso l’indigenza, è stato virtuoso; se ha digiunato, pregato in solitudine, è stato un santo. La virtù tra gli uomini è un commercio6 di buone azioni; chi non ha alcuna parte in questo commercio non deve essere contato. Se quel santo vivesse nel mondo, senza dubbio vi farebbe del bene; ma, finché non vi sarà, il mondo avrà ragione di non dargli il nome di virtuoso: sarà buono per sé, ma non per noi. [...] 1 indigente: povero, bisognoso. 2 liberale: qui nel senso di “persona generosa, che dona ciò che ha”. 3 virtù cardinali e teologali: le
virtù cristiane sono distinte in cardinali (temperanza, fortezza, saggezza e giustizia) e in teologali (fede, speranza e carità). 4 cilicio: strumento di peniten-
za (costituito per lo più da una ruvida cinghia posta a diretto contatto della pelle). 5 profitto: vantaggio. 6 commercio: scambio.
Comprensione e analisi
1. Schematizza la struttura argomentativa del brano di Voltaire, individuando la tesi, gli argomenti, le obiezioni e le relative confutazioni. 2. Quale differenza rilevante pone Voltaire tra il «santo» e il «virtuoso»? 3. Dopo aver consultato il vocabolario cartaceo oppure uno online: – cerca i principali significati associati al termine virtù e trascrivili; – rielabora una tua personale definizione di virtù legata all’umanitarismo e all’ideale filantropico del pensiero illuminista.
Produzione
Voltaire rivoluziona il concetto di virtù, come già aveva fatto Machiavelli nel Principe: in un testo coerente e coeso, illustra le differenze che intercorrono al riguardo fra i due scrittori.
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Testi In dialogo
Razionalità vs passione
LEGGERE LE EMOZIONI
Confrontiamo due testi di natura molto diversa che testimoniano in modo quasi esemplare la coesistenza di razionalità e passionalità nei modelli comportamentali prospettati dai romanzi del Settecento: il primo è tratto dal romanzo di Defoe Robinson Crusoe (1719) ed esemplifica il razionale pragmatismo del protagonista; il secondo dalle Confessioni di Rousseau, l’autobiografia nella quale per la prima volta lo scrittore si confessa davanti ai lettori («Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura: e quest’uomo sarò io»).
Daniel Defoe
D7a D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe, trad. di A. Meo e G. Sertoli, Einaudi, Torino 1998
I bilanci razionali di Robinson Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6 Ora cominciai a riflettere seriamente sulla mia condizione e sulle circostanze a cui ero ridotto, e misi sulla carta lo stato dei miei affari; non tanto per lasciarli a qualcuno che venisse dopo di me, perché era molto improbabile che avessi degli eredi, quanto per liberarmi delle idee in cui mi fissavo e dalle quali ero 5 afflitto continuamente. E siccome la mia ragione cominciava ora a dominare la mia malinconia, presi a consolarmi come meglio potevo e mettere a confronto il bene col male, per poter avere motivo di distinguere la mia sorte da una peggiore; e stabilii molto imparzialmente, come attivo e passivo in un libro contabile, le consolazioni di cui godevo contrapponendole alle afflizioni di cui soffrivo. Così: MALE Sono gettato su una orribile isola deserta, senz’alcuna speranza di salvezza.
BENE Ma sono vivo, e non annegato come tutti i compagni che avevo sulla nave.
Sono stato scelto solo io per essere separato, per così dire, da tutto il mondo 15 e condurre una vita miserevole.
Ma sono anche stato scelto, solo io di tutto l’equipaggio della nave, per essere salvo; e Colui che mi ha miracolosamente salvato dalla morte, può liberarmi da questa condizione.
Sono diviso dall’umanità, sono un solitario, al bando dal consorzio umano.
Ma non muoio di fame su un’isola sterile, che non offra alcun sostentamento.
Non ho vestiti per coprirmi.
Ma sono in un clima molto caldo, dove, se avessi vestiti, quasi non potrei portarli.
Sono privo di qualsiasi difesa o mezzo per resistere alla violenza sia d’uomo sia di bestia.
Ma sono gettato su un’isola dove non vedo bestie feroci che mi possano far del male, come ne vidi sulla costa dell’Africa. Che mi sarebbe toccato se fossi naufragato laggiù?
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Non ho anima viva a cui parlare o con cui sfogarmi.
Ma, fatto prodigioso, Dio mandò la nave abbastanza vicino a riva, e io ne ho tratto tante cose necessarie quante mi serviranno o per soddisfare i miei bisogni, o per mettermi in grado di provvedermene finché viva.
Nell’insieme, avevo qui una testimonianza indubitabile che non c’era quasi al mondo condizione così miserevole, ma c’era qualcosa di negativo o di positivo di cui essere grato al Cielo; e sia questo un insegnamento, ricavato dall’esperienza della più terribile di tutte le condizioni al mondo, che noi possiamo sempre trovare qualcosa da cui trarre conforto e, nella contabilità del bene e del male, mettere all’attivo del conto.
Jean-Jacques Rousseau
D7b J.-J. Rousseau, Le confessioni, a c. di M. Rago, Einaudi, Torino 1956
La voce della passione e del sentimento Le confessioni Due cose quasi incompatibili si uniscono in me senza che io possa precisare come: un temperamento ardentissimo, passioni vive, impetuose, e idee lente a nascere, impacciate, e che non si presentano mai che a cose fatte. Si direbbe che il mio cuore e il mio ingegno non appartengano allo stesso individuo. Il 5 sentimento, più rapido della folgore, inonda la mia anima; ma, anziché illuminarla, mi brucia e mi abbaglia. Io sento tutto e non vedo nulla. Sono impetuoso, ma stupido; mi occorre il sangue a freddo per pensare. Il piú strano è che dispongo, ciò nonostante, di tatto abbastanza sicuro, di penetrazione e persino d’intuito, purché mi si dia tempo. Se ne ho l’agio so fare ottime im10 provvisazioni, ma non ho mai né fatto né detto nulla che valga. Potrei tenere una piacevolissima conversazione per posta. [...] Questa lentezza nel pensare, unita alla vivacità del sentire, non l’ho soltanto nella conversazione, ma anche da solo, quando lavoro. Le idee si ordinano nella mia testa con la piú incredibile difficoltà: vi circolano sordamente, vi 15 fermentano sino ad agitarmi, e scaldarmi, a farmi palpitare; e, immerso in tutta questa emozione, non vedo nulla nettamente, non saprei scrivere una sola parola, bisogna che aspetti. A poco a poco, questo gran movimento si placa, il caos si dipana, ogni cosa va al suo posto, ma con lentezza, e dopo una prolungata e confusa agitazione [...]. 20 Di qui deriva anche l’estrema difficoltà cui mi scontro nello scrivere. I miei manoscritti raschiati, imbrattati, disordinati, indecifrabili, attestano la pena che mi son costati. Non ce n’è uno che non abbia dovuto trascrivere quattro o cinque volte prima di darlo alle stampe. Non ho mai saputo far niente con la penna in mano stando a un tavolino dinanzi a un foglio bianco: io scrivo 25 nel mio cervello mentre passeggio, fra le rocce e gli alberi, oppure la notte, a letto, durante le mie insonnie. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 245
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Che valore dà Robinson ai concetti di “bene” e “male” (➜ D7a )? 2. A che cosa è dovuta la lentezza nel pensare che Rousseau si riconosce nel proprio ritratto interiore (➜ D7b )? 3. Quale contraddizione avverte in sé stesso l’io narrante e protagonista del testo D7b ? ANALISI 4. Rintraccia e sottolinea in D7a le espressioni e i paragoni che rimandano al “codice” specifico del mondo mercantile. 5. Alla visione iper-razionale di Robinson si associa la fede in Dio e una visione tutto sommato “provvidenziale”. Individua in D7a i riferimenti a questa seconda componente. 6. Spiega il significato dell’affermazione «Io sento tutto e non vedo nulla» (➜ D7b , r. 6).
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 7. Nel testo D7a Defoe rappresenta il modello umano razionalistico propugnato dalla concezione illuminista. Tuttavia, come mostrato anche nel brano, approcciare l’esistenza lasciandosi guidare dalla ragione non implica l’assenza di emozioni. Individua nel testo le emozioni provate da Robinson. Qual è, a tuo avviso, lo scopo della lista redatta dal protagonista? Sintetizza il tuo punto di vista in max 10 righe. ESPOSIZIONE ORALE 8. Puoi ritrovare nel testo D7b un campionario di quello che si può definire “lessico dell’interiorità”: spiega oralmente il significato di questa espressione, poi individua e sottolinea verbi, sostantivi, aggettivi che documentano la presenza di tale linguaggio nel passo proposto.
Robinson in una incisione da una celebre edizione illustrata con tavole di Walter Paget (fine sec. XIX).
Fissare i concetti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1. Quali sono gli aspetti che accomunano le varie declinazioni del fenomeno culturale dell’Illuminismo? 2. Quali conseguenze ha l’adozione del metodo scientifico come approccio generalizzato alla conoscenza? 3. Qual è il rapporto degli illuministi con la religione? 4. Perché nella visione illuminista della natura e dell’ordine cosmico l’uomo perde la sua centralità? 5. Quali sono i temi al centro del pensiero illuminista? 6. Con quali caratteristiche si configura il philosophe, il prototipo dell’intellettuale impegnato nella società illuminista? 7. Quali sono i nuovi luoghi deputati alla circolazione delle idee? 8. Perché l’Illuminismo valorizza in particolare il modello umano del mercante? 9. Perché la dimensione del viaggio riveste un’importanza fondamentale nella vita culturale degli intellettuali illuministi?
246 Settecento Scenari socio-culturali
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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 L’educazione “illuminata” Per una formazione moderna La programmatica volontà di eliminare l’ignoranza, che gli illuministi consideravano responsabile della superstizione, del fanatismo, dello stato di “minorità” della popolazione, non poteva che esaltare il ruolo dell’azione educativa, a cui è affidato il compito di plasmare una nuova umanità, più razionale e quindi, secondo l’ottica ottimistica dell’Illuminismo, più felice. Nel prospettare la propria idea educativa l’Illuminismo ha come bersaglio polemico il modello, largamente diffuso nell’Europa cattolica, dei collegi gesuitici: si contesta il monopolio ecclesiastico dell’educazione e si rimprovera alla formazione pedagogica dei gesuiti l’elitaria onnipresenza del latino e l’astrattezza del curriculum scolastico, che, centrato quasi esclusivamente sulla cultura classica, distoglie i giovani dalla contemporaneità. Secondo gli illuministi invece la scuola deve preoccuparsi di formare individui e cittadini responsabili e preparare all’esercizio delle professioni: quindi occorre privilegiare, rispetto al latino, la lingua nazionale, limitare il peso della retorica e del sapere libresco e astratto, per dare invece spazio alle discipline storico-geografiche e soprattutto al moderno sapere scientifico. Educare è dovere dello Stato Proprio per l’importanza che attribuiscono al processo educativo, gli illuministi per primi (e si tratta di una grande novità) ritengono che la gestione dell’educazione spetti allo Stato. Se il livello di civiltà di un popolo si misura sulla quantità di conoscenze possedute, l’educazione collettiva non può essere dispersa in contraddittorie iniziative private, ma deve essere coordinata e subordinata a obiettivi generali ed estesa a tutti i cittadini, come anche in Italia sostiene il giurista Gaetano Filangieri (➜ D8a OL). Un celebre trattato pedagogico: Emilio o dell’educazione di Rousseau La posizione assunta da Rousseau in ambito educativo diverge dalle più generali tendenze illuministe. Gli illuministi valorizzano anche in questo ambito l’uso del vaglio della ragione: il programma educativo delineato dal filosofo ginevrino nel trattato Emilio o dell’educazione (Émile ou de l’éducation, 1762) distingue nettamente l’età infantile da quella adulta e limita rigorosamente l’apprendimento razionale a un’età successiva all’infanzia. Secondo Rousseau non si deve, pena il fallimento dell’azione educativa, considerare il bambino come una sorta di «adulto in miniatura» a cui inculcare precocemente idee e valori attraverso un insegnamento che faccia appello alla ragione: il bambino ha infatti un modo di vedere e pensare tutto suo (certamente una grande intuizione per quei tempi, che è poi stata fatta propria da tutti i modelli moderni dello sviluppo cognitivo e psicologico). Dunque, dalla nascita ai dodici anni vanno educati soprattutto i sensi. Occorre lasciar fiorire liberamente la personalità del bambino sotto la guida della madre, alla quale Rousseau assegna il principale ruolo educativo nei primi anni della formazione (coerentemente alla sua concezione dei compiti femminili). L’educazione del bambino deve avvenire, proprio per evitare influssi negativi, in un ambiente solitario, campestre.
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 247
Solo dopo i dodici anni si può iniziare un’educazione intellettuale, in cui le scienze devono avere un ruolo importante, ma sempre attraverso un contatto diretto con l’esperienza.
L’educazione “illuminata” concezione statale e collettiva dell’educazione Caratteri del sapere illuministico applicato al campo dell’educazione
volontà di eliminare l’ignoranza, la superstizione, il fanatismo
polemica contro il modello educativo imposto dai gesuiti
privilegiata la formazione filosofica e scientifica online D8 Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze D8a Gaetano Filangieri D8c Sebastiano Franci
I vantaggi della scuola pubblica La scienza della legislazione, libro IV
Le carenze dell’educazione femminile Difesa delle donne
D8b Jean-Jacques Rousseau Fate il contrario di ciò che è in uso Emilio, libro I
D8d J. Antoine-Nicolas Condorcet Istruzione e uguaglianza Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
«I lumi smorzati»: l’educazione femminile Nell’età dell’Illuminismo le donne sono spesso protagoniste dei romanzi e partecipano al dibattito intellettuale nello spazio tipico della cultura settecentesca, il salotto. Tuttavia la concezione educativa del tempo tende a relegare il sesso femminile a una posizione di minorità e di subordinazione. Per alludere ai limiti del progetto educativo illuminista nei confronti delle donne la studiosa francese Martine Sonnet (1955) ha usato la suggestiva espressione «i lumi smorzati». Anche a prescindere dalla posizione particolarmente tradizionalista di Rousseau (Sofia o la donna, I parte del V libro del trattato pedagogico Emilio), l’Illuminismo nel complesso ha una visione assai ristretta dell’educazione femminile: se da un lato si sostiene l’uguaglianza fra i sessi (si veda ad esempio la voce “Donna” nell’Enciclopedia), dall’altro si negano alle donne capacità razionali e autonomia di giudizio (qualità
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
fondamentali nella cultura dei lumi) e le si esclude “per natura” dalla vita politica relegandole all’ambito domestico. L’educazione della donna è volta a sancirne la complementarità, se non addirittura la dipendenza rispetto all’uomo: «Tutta l’educazione delle donne deve essere relativa agli uomini» scrive Rousseau. A Sophie, l’alter ego femminile di Emilio, bastano i rudimenti del sapere e tutto ciò che (danza, musica) può renderla un’aggraziata compagna dell’uomo, ma a nulla le servirebbero le lingue classiche o (peggio) il sapere scientifico. Una limitazione a cui si ribella verso la fine del secolo Mary Wollstonecraft (1759-1797), autrice di un libro polemico: Una difesa dei diritti della donna (1792), in cui stigmatizza l’ambiguità del discorso educativo dei philosophes, che intendevano estendere all’umanità i lumi liberatori della ragione ma davano a tale umanità un volto esclusivamente maschile.
Esercitare le competenze Spunti di riflessione
La dichiarata intenzione illuminista di promuovere l’uguaglianza e la razionalità si dimostra incoerente rispetto alla concezione dell’educazione femminile. Che cosa emerge da questa contraddizione? Perché alle donne era riservata una preparazione volta a ritagliare loro un ruolo complementare o subalterno rispetto all’uomo? Rifletti su come questi temi possano ancora essere rilevanti oggi. In che modo le questioni di genere nell’educazione e nella partecipazione intellettuale continuano a essere oggetto di dibattito e lotta? Quali lezioni possiamo trarre dalla storia illuminista per arricchire le attuali discussioni sulla parità di genere?
248 Settecento Scenari socio-culturali
#PROGETTOPARITÀ
2 Il progetto di un nuovo sapere e l’Enciclopedia
JeanBaptisteSiméon Chardin, Gli attributi delle scienze, 1731 (Parigi, Museo JacquemartAndré).
Una nuova gerarchia culturale Nell’età dell’Illuminismo entra in crisi la visione culturale umanistica ed è messo in discussione l’assetto tradizionale della conoscenza: nella gerarchia del sapere, come già si è accennato, al primo posto c’è la scienza, ma anche la tecnica, viene esaltata la filosofia (nella nuova accezione che assume nell’Illuminismo), mentre è sostanzialmente svalutata la letteratura e gli ambiti a essa connessi. L’opera che del nuovo sapere si fa portavoce e ne rappresenta la sintesi è l’Encyclopédie, l’Enciclopedia. L’Enciclopedia L’Illuminismo fa propria una concezione enciclopedica del sapere, ma essa non ha nulla a che fare con l’enciclopedismo medievale: il nuovo enciclopedismo illuminista si fonda sulla convinzione che esista una sostanziale continuità uomo-natura e che i vari campi del sapere siano collegabili in una visione organica. Un ideale tradotto concretamente nella titanica impresa dell’Enciclopedia, iniziata nel 1747 e conclusa nel 1772, tra mille ostacoli e nonostante i freni imposti dalla censura, nella quale trova piena espressione il momento propositivo dell’Illuminismo francese: nelle 72.000 voci, redatte da oltre 150 collaboratori, i responsabili del progetto (fino al 1757 Diderot e d’Alembert, poi solo Diderot) si proponevano di sintetizzare il nuovo sapere prodotto dalla rivoluzione scientifica. All’opera, oltre ai due responsabili, collaborarono i grandi nomi dell’Illuminismo (Voltaire, Rousseau, Montesquieu, d’Holbach, il naturalista Buffon), ma la maggior parte dei redattori erano medici, funzionari, insegnanti, tecnici. Lo scopo dell’opera: la ricerca della pubblica utilità Nel dar vita al loro ambizioso progetto gli enciclopedisti erano spinti dalla ricerca della pubblica utilità. Questo obiettivo, e la marcata attitudine critico-polemica propria della cultura illuminista, differenziano nettamente l’Enciclopedia dalle opere enciclopediche del Seicento, di taglio esclusivamente erudito: già il Discorso preliminare dell’opera, firmato da d’Alembert, contrappone a una concezione sterile e statica di sapere un “nuovo” sapere, sostenuto da una visione sensistico-materialista, che valorizza la scienza e conferisce nuova dignità alle scienze applicate e anche alle arti meccaniche. Un sapere capace di rendere migliore la società, secondo l’ottica culturale e il progetto educativo dell’Illuminismo. Cultura è anche il lavoro manuale La parte dell’opera che oggi è considerata più innovativa è sicuramente quella relativa alle “arti” e ai “mestieri”, cioè alle diverse professioni e lavori manuali. Gli enciclopedisti ebbero il coraggio di superare la tradizionale dicotomia tra arti liberali e arti meccaniche dando forte spazio e rilevanza – in un’opera di cultura generale – proprio alla realtà delle professioni e delle attività manuali (➜ D9 OL), illustrate con magnifiche tavole di incisioni che contribuirono non poco al successo dell’opera. Si trasformava il concetto stesso di cultura, legandosi finalmente alla realtà concreta, e il lavoro manuale – come scrive, a sua volta, con illuministico entusiasmo, il critico Giuseppe Petronio – «entrava a vele spiegate nel mondo della cultura». La formula editoriale e la fortuna La formula editoriale con cui è esposta l’amplissima materia dell’Enciclopedia è quella del dizionario, che consentiva una Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 249
online Gallery
Le tavole dell’Enciclopedia
online
Per approfondire Una tormentata storia editoriale
online Verso il Novecento Eugenio Scalfari In viaggio con Diderot
consultazione agevole e personalizzata. Il successo dell’operazione fu superiore a ogni più rosea previsione (più di 4000 abbonati in Francia e migliaia all’estero), a conferma che l’opera rispondeva a una domanda di cultura da parte di ampi strati di pubblico. Denis Diderot (1713-1784) conobbe ben presto l’azione repressiva della censura, e persino l’arresto, per alcuni scritti giovanili. Verso la metà del secolo ideò il progetto dell’Encyclopédie, che poi diresse (inizialmente con D’Alembert e poi, dopo la sua rinuncia, da solo) e che portò a termine nel 1772 con l’ultimo volume, nonostante gli ostacoli frapposti più volte dalla censura e i conflitti interni tra i collaboratori e la linea editoriale e ideologica scelta. Tuttavia l’eclettica personalità di Diderot non si esaurisce nella, pur titanica, impresa dell’Encyclopédie. Interessato al teatro, scrive due opere, tra il 1757 e il 1758, che inaugurano il dramma borghese: Il figlio naturale e Il padre di famiglia. Ma, soprattutto, si dedica al genere fortunato del romanzo, che, in quell’epoca, si prestava a farsi veicolo di messaggi attuali, in linea con le idee illuministe: da Il nipote di Rameau a La monaca, a Jacques il fatalista e il suo padrone, esempio paradigmatico di conte philosophique, tutti pubblicati postumi.
L’Enciclopedia Datazione
1747-1772
Responsabili del progetto
fino al 1757 Diderot e d’Alembert, poi solo Diderot
Collaboratori
150, trai quali figurano Voltaire, Rousseau, Montesquieu, d’Holbach, il naturalista Buffon
Scopo
ricerca della pubblica utilità, rivalutazione delle scienze applicate e delle attività meccaniche
Una tavola dell’Enciclopedia che illustra gli stabilimenti di una cartiera nella Loira; in primo piano la ruota di un mulino della stessa fabbrica.
250 Settecento Scenari socio-culturali
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
Dall’Encyclopédie all’IA Già nella cultura medievale era presente il concetto di sapere enciclopedico, ma il termine enciclopedia, che significa letteralmente “istruzione globale” (dal greco enkýklos paidéia), nasce di fatto proprio con l’impresa di Diderot e d’Alembert, fondata sul progetto di una summa del sapere moderno che avrebbe divulgato a più persone possibili una conoscenza razionale e moderna del mondo. Nella cultura italiana un progetto degno di poter essere paragonato all’Encyclopédie nasce solo negli anni Trenta del Novecento, quando fu pubblicata in 35 volumi l’Enciclopedia Treccani (ancora oggi esistente, consultabile anche online dove è costantemente aggiornata). Un altro progetto in Italia degno di nota è quello, estremamente innovativo, dell’Enciclopedia Einaudi (1977-1985), organizzata per grandi "voci" e finalizzata a delineare una visione del sapere problematica più che classificatoria. L’“Enciclopedia” dei tempi d’oggi, nata nell’era digitale come risposta ai bisogni dell’informazione attuali, ha indubbiamente il nome di Wikipedia, l’enciclopedia “libera” online: il termine Wikipedia nasce dalla combinazione tra wiki (termine hawaiano che significa “veloce”) con il suffisso -pedia (dal gr. paidéia, “formazione”). Si tratta di un ambizioso progetto globale, lanciato inizialmente (gennaio 2002) in lingua inglese e oggi (dati aggiornati a ottobre 2024) consultabile in 339 lingue (l’edizione in lingua italiana è del 2005). Wikipedia ha caratteri diversissimi rispetto a un’enciclopedia classica tradizionale e non certo solo perché è nata online (sono ormai anche online le enciclopedie classiche, nate sulla carta), ma perché non si fonda sulla selezione delle voci – i lemmi – da inserire, in base a una visione delle conoscenze che preveda rigorose gerarchie tra ciò che è rilevante e ciò che non lo è, nel quadro del sapere da fissare e da trasmettere (una nuova voce di Wikipedia è magari la recensione a un film appena uscito!). Di conseguenza, Wikipedia consta di un numero
nucleo Costituzione competenza 1, 2 nucleo Cittadinanza digitale competenza 10
incredibilmente ampio di voci (55 milioni di cui, nella sola Wikipedia in italiano, 1.891.676 voci), potenzialmente illimitato, e un numero sempre crescente di utenti (57 milioni registrati nel mondo; 2.573.218 – dati aggiornati il 17 novembre 2024 – in Italia). Caratteristica costitutiva di Wikipedia è il fatto di essere un’enciclopedia “collaborativa”, “aperta”, frutto del libero contributo della Rete, senza alcun filtro selettivo in ingresso sui collaboratori (chi collabora non è dunque necessariamente un esperto): si contribuisce volontariamente (e gratuitamente) e chiunque può inserire una voce, modificare, integrare e aggiornare quelle esistenti. Da questi caratteri derivano, come è intuibile, anche i limiti di Wikipedia, i cui lemmi hanno un differente grado di affidabilità, e richiedono quindi un attento vaglio critico da parte dell’utente. Oggi la fonte del sapere si è arricchita di un altro strumento molto conosciuto dai ragazzi: ChatGPT, che si evolve in continuazione e che elabora informazioni in tempi molto rapidi. Questa tecnologia, frutto di anni di ricerca, si distingue per la capacità di creare contenuti nuovi, andando oltre la semplice classificazione dei dati esistenti. Tale strumento presenta delle potenzialità e dei rischi, di conseguenza per affrontare questa rivoluzione serve una comprensione profonda e consapevole del fenomeno. È chiaro che la collaborazione uomo-IA, se realizzata coscientemente, potrà portare notevoli vantaggi soprattutto per attività che fanno perdere molto tempo all’uomo e che nulla hanno a che fare con la creatività umana. Dovranno, però, essere ben presenti quelli che sono i princìpi etici che dovranno guidare lo sviluppo e l’implementazione dell’intelligenza artificiale, affinché questa tecnologia rimanga sempre al servizio dell’umanità, nel pieno rispetto della dignità, della privacy e dei diritti fondamentali di ogni individuo.
online D9 Il ruolo centrale dell’educazione. Alcune testimonianze D9a Denis de Diderot D9b Denis de Diderot
La rivalutazione delle “arti meccaniche” e il ruolo degli artigiani come consulenti nell’Encyclopédie Encyclopédie, Prospectus
Le arti liberali devono contribuire a eliminare i pregiudizi verso le arti meccaniche Encyclopédie s.v. "Arte"
3 La cultura come impegno civile e battaglia ideologica Una concezione eclettica di sapere Nell’Illuminismo trova espressione un nuovo tipo di intellettuale che non aderisce ad alcuna presunta verità filosofica, ma assume di fronte al sapere un atteggiamento sostanzialmente eclettico. Nella voce “Eclettismo” dell’Enciclopedia Diderot così definisce l’eclettico: «L’eclettico è un filosofo che calpestando il pregiudizio, la tradizione e l’antichità, il consenso universale, l’autorità [...] osa pensare con la propria testa». La posizione eclettica è dunque conseguenza della più generale prospettiva illuminista, in cui il filosofare non è fine a sé stesso, ma deve essere socialmente utile. Se si scorrono anche solo Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 251
i titoli della produzione dei philosophes, è facile constatare che mai come in questo periodo gli intellettuali si occupano delle più varie tematiche, tutte però connesse ai grandi temi e problemi della società. La cultura del dibattito Imprescindibile dall’opera degli illuministi è la critica nei confronti del passato, che conferisce ai loro testi un carattere marcatamente polemico; la cultura dell’Illuminismo, in questo senso, è soprattutto una “cultura del dibattito”, come evidenziano le forme stesse della scrittura: anche quando non sono pamphlet, gli scritti degli illuministi sono animati da forte tensione, enfasi, come fossero pensati in risposta a interlocutori-oppositori, che talvolta, per vivacizzare l’esposizione delle idee, vengono iscritti nel testo come veri e propri personaggi dialoganti con l’autore: ne è esempio paradigmatico il testo tratto dal Trattato sulla tolleranza di Voltaire (➜ D11 ) Questo volto polemico e battagliero caratterizza in particolare l’Illuminismo francese: infatti a differenza dell’Inghilterra, dove le idee illuministe trovano un terreno favorevole e ispirano la linea politica di una moderna monarchia liberale, interprete dei bisogni della classe borghese, in Francia le stesse idee, come si è detto, si scontrano con un modello politico-istituzionale ancora assolutistico, sostenuto dal clero e dalla classe nobiliare, per il quale i diritti sono essenzialmente quelli del sovrano e delle classi di potere, mentre i doveri sono solo quelli dei sudditi. Contro questa situazione lottano appassionatamente i philosophes. L’attenzione al tema politico-istituzionale Proprio per questo uno dei principali temi della riflessione illuminista dei philosophes è il tema politico-istituzionale. Le posizioni in campo politico degli illuministi furono molto diverse: Montesquieu pensa a una monarchia costituzionale di stampo inglese; Voltaire a una monarchia illuminata, in cui le riforme siano guidate dai filosofi; Rousseau invece ha in mente una democrazia diretta. Comune fu, tuttavia, il nuovo linguaggio politico coniato dal “partito dei filosofi”, comune, di certo, fu l’obiettivo di rifondare i princìpi della politica in nome della ragione e della giustizia, la visione laica dello Stato e il ripudio dell’idea teocratica di una legittimazione divina del potere, come pure il rifiuto che esista un’ineguaglianza costituzionale tra gli uomini, con la conseguente battaglia per l’uguaglianza.
Lessico giusnaturalismo Corrente di pensiero filosoficogiuridica fondata sull’esistenza di un diritto naturale (conforme, cioè, alla natura dell’uomo) e la sua superiorità sul diritto positivo (il diritto prodotto dagli uomini, le leggi).
Il diritto naturale Alla base del pensiero socio-politico dell’Illuminismo sta il concetto di “stato di natura”. È necessario precisare che si tratta non tanto di una condizione reale, ma di una sorta di ipotesi concettuale, un punto di riferimento, come chiarisce lo stesso Rousseau (a cui il concetto prevalentemente è associato), nella prefazione al suo Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza degli uomini (1755). Lo stato di natura è una prospettiva da cui focalizzare innanzitutto i bisogni fondamentali, i “diritti naturali” dell’uomo: dal giusnaturalismo seicentesco l’Illuminismo eredita l’idea di un diritto naturale sovranazionale, ovvero di un insieme di norme non scritte, delle quali poi il diritto positivo deve tenere debito conto. In questa prospettiva “naturale” gli uomini sono tutti uguali, non hanno distinzioni di etnia, sesso, lingua, religione, tutti allo stesso modo hanno diritto alla vita, alla felicità. Il concetto di uguaglianza dunque si laicizza: non ha più a che fare con la visione cristiana che vede gli uomini uguali di fronte a Dio, ma con l’idea che gli uomini, in quanto tali, abbiano la stessa dignità, che esistano valori propri di tutta l’umanità. Da qui il cosmopolitismo (➜ PAROLA CHIAVE PAG. 236) che caratterizza la visione illuminista.
252 Settecento Scenari socio-culturali
Diritti imprescindibili sono la libertà, l’inviolabilità della persona e, per la maggior parte degli illuministi, la tutela della proprietà, teorizzata anche da una delle voci dell’Enciclopedia (ma Rousseau, al contrario, considera la proprietà all’origine di tutti i mali sociali ➜ D12 ). Il contratto sociale e la tutela dei diritti civili Dai diritti naturali derivano quelli civili, stabiliti dal contratto sociale che lega gli individui in società: ogni società per gli illuministi si fonda su un patto, un “contratto” (il termine, già proprio della riflessione politica seicentesca, va inteso come categoria concettuale, non in senso letterale), in base al quale la collettività riconosce determinati poteri a un sovrano o a un gruppo, rinunciando a una parte della propria libertà. In base a questo contratto il cittadino è tenuto a rispettare le leggi, il sovrano a esercitare il proprio potere in modo non assoluto e a tutelare tramite le leggi i diritti civili, cioè i diritti del cittadino: la libertà di pensiero, di parola, la sicurezza, l’uguaglianza di fronte alla legge (nella prima generazione di pensatori, tale uguaglianza non è ancora intesa come parità nell’esercizio politico e nemmeno come parità sociale, come la intenderanno poi Rousseau e altri, che ipotizzarono vere e proprie forme di comunismo). La tutela della libertà e dell’uguaglianza implica necessariamente l’esercizio della tolleranza: in questo periodo, che segue una fase della storia contraddistinta da sanguinose guerre di religione, la tolleranza si concretizza soprattutto nell’accettazione di diverse fedi religiose, principio per cui si batte appassionatamente Voltaire nel Trattato sulla tolleranza (Traité sur la tolérance) del 1763 (➜ D11 ). Per questo lo Stato non può che essere laico, l’ambito religioso deve essere nettamente distinto dalla gestione politica: gli illuministi seguono la prospettiva giurisdizionalista, sostengono cioè non solo la netta distinzione tra Stato e Chiesa, ma anche l’autorità della giurisdizione laica su quella ecclesiastica. Lo “stato di diritto” e la distinzione dei poteri D’altra parte il potere politico, come si è detto, deve essere limitato da leggi precise: contro l’assolutismo monarchico gli illuministi sostengono la necessità dello “stato di diritto”. Nella definizione delle prerogative dello “stato di diritto” occupa un posto fondamentale Lo spirito delle leggi (L’esprit des lois) (1748) di Montesquieu, che costituisce la più importante e approfondita riflessione politica dell’Illuminismo e che il suo autore deve difendere dal duro attacco delle autorità ecclesiastiche. Montesquieu fa una rigorosa analisi del rapporto fra sistema giuridico e forme di governo per concludere che, se non esiste uno Stato ideale, tuttavia sono più giusti i governi moderati, in cui il potere è limitato dalle leggi e vi è maggiore garanzia per le libertà dei cittadini. Concentrare il potere in un solo individuo o gruppo è per Montesquieu, che guardava come modello alla monarchia parlamentare inglese, una condizione passibile di degenerare in dispotismo, qualunque sia il tipo di governo. Occorre dunque (➜ D10 OL) che il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario siano affidati a organismi diversi, autonomi nel proprio ambito, ma in cui ognuno controlli gli altri, impedendo così pericolosi eccessi di potere. La distinzione dei poteri, posta con lucida chiarezza da Montesquieu, sta alla base degli Stati costituzionali. Montesquieu Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, nasce nel 1680 presso Bordeaux. A Parigi riceve una formazione giuridica e viene avviato dalla famiglia alla carriera giudiziaria. Nel 1721 pubblica le Lettere persiane, un’opera che, pur presentandosi sotto la forma di romanzo epistolare, è finalizzata alla riflessione filosofico politica. In essa Montesquieu inaugura l’uso (poi comune tra gli illumi-
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 253
nisti, in particolare Voltaire) del registro ironico e della tecnica dello straniamento: infatti vi è assunto il punto di vista di un viaggiatore persiano per criticare aspetti del costume sociale politico europeo. Il testo ottiene un grande successo. Nel 1748, come abbiamo visto, Montesquieu pubblica Lo spirito delle leggi, che dovrà difendere dall’attacco delle autorità ecclesiastiche. Muore nel 1755. L’originale posizione di Rousseau Diversa la concezione dello Stato di Rousseau, che teorizza una forma di democrazia diretta, in rapporto alla sua idea che occorra stabilire un nuovo e radicale “contratto sociale”, che elimini davvero ogni ineguaglianza e sopraffazione e sia espressione della libera volontà degli uomini. Certo Rousseau pensa non che si debba ritornare allo “stato di natura”, ma che occorra “rinaturalizzare” la società, recuperando i bisogni fondamentali dell’uomo, snaturati dal progresso cosiddetto “civile”, dalla prevalenza di interessi privati egoistici: la pienezza di sentimento, passione e ragione che fanno di un uomo un uomo. Bisogna dire però che molte posizioni di Rousseau, sempre fortemente originali, desteranno non poche perplessità tra gli illuministi e nei salotti. Non a caso le posizioni politiche di Rousseau influenzeranno le correnti più radicali della Rivoluzione francese. Rousseau Jean Jacques Rousseau nasce a Ginevra da una famiglia calvinista nel 1712. La madre muore nel darlo alla luce. Figlio di un modesto artigiano, durante l'adolescenza lavora nella bottega di un incisore. Nel 1728, appena sedicenne, abbandona Ginevra e si reca in Savoia. Ad Annecy conosce madame de Warens, dalla quale viene ospitato, da cui riceve materna protezione e che diventa poi la sua amante. Verso il 1740, incrinatosi il rapporto, Rousseau svolge vari incarichi per vivere, tra cui quello di precettore e copista di testi musicali. Nel 1744 si trasferisce a Parigi, dove convive con una modesta cucitrice, da cui ha cinque figli, tutti lasciati all’orfanotrofio, e che sposerà molti anni dopo. A Parigi inizia a frequentare gli intellettuali più noti, ma le sue prese di posizione, sempre molto originali, suscitano perplessità e polemiche: in particolare quelle espresse nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755). Ben presto Rousseau si trova isolato dal gruppo dei philosophes e in aperto contrasto con Voltaire e Diderot. Nel 1756 lascia Parigi e viene ospitato dalla scrittrice Louise d’Épinay, ma l’anno successivo va a vivere in una modesta casa di campagna. Intanto compone, nei primi anni Sessanta, le sue opere più importanti: Il romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa (1761), il romanzo pedagogico Emilio o dell’educazione (1762) e Il contratto sociale (1762). Opere che da un lato non coincidevano con le principali tesi illuministe, dall’altro incontrarono la dura condanna del potere politico e della Chiesa. Costretto a fuggire per evitare l’arresto, vaga in vari luoghi, fino a approdare in Inghilterra, ospite del filosofo Hume. Ma ovunque si sente perseguitato e la sua salute psichica va incrinandosi. Ritornato in Francia, completa Le confessioni (poi pubblicate postume) e stende le Fantasticherie del viaggiatore solitario. Muore nel 1778.
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La libertà politica non può esistere dove vi sia abuso di potere Lo spirito delle leggi, libro XI, capp. III-IV, VI
Immagini del Settecento
254 Settecento Scenari socio-culturali
Sguardo sul cinema
Sguardo sul cinema Un antieroe settecentesco: Barry Lyndon Uno dei film più noti sul Settecento è il celebre Barry Lyndon (1975) di Stanley Kubrick, considerato a buon diritto uno dei migliori del regista (statunitense ma naturalizzato britannico, 1928-1999), che costituisce una testimonianza visiva del secolo dei lumi unica nel suo genere per fedeltà e precisione dei particolari. Si narrano splendori e miserie, luci e ombre nella vita del protagonista Redmond Barry, ambizioso avventuriero irlandese che visse pericolosamente in una continua ricerca di una revanche sociale fino a diventare parte del mondo aristocratico, per poi perdere posizione e ricchezza e finire in miseria, trascinandosi tra i tavoli da gioco di mezza Europa. Tratto dal romanzo Le memorie di Barry Lyndon (1844) di William Thackeray (1811-1863), il film di Kubrick si configura come la parabola esistenziale di un antieroe cinico e amorale, l’ascesa e la caduta di un uomo qualunque a cui fa da sfondo la mirabile raffigurazione del contesto storico che il regista costruisce meticolosamente. Il film si apre in un piccolo villaggio irlandese: Redmond Barry (Ryan O’Neal), figlio unico di madre vedova, si innamora della bella cugina che però si fidanza con il capitano di reggimento John Quin, giunto nel paese per reclutare truppe per la guerra dei Sette anni. Dopo aver sfidato il capitano in duello ed averlo ferito a morte, Barry è costretto a fuggire per non essere arrestato. È l’inizio della serie di avventure-disavventure che lo vedranno protagonista per tutto il film. Lungo la strada per Dublino viene derubato del suo cavallo e delle ghinee d’oro donategli dalla madre e si trova costretto ad arruolarsi nell’esercito britannico. Giunto in territorio tedesco, viene informato dal capitano del suo battaglione che in realtà il capitano Quin è ancora vivo, avendo truccato la pistola di Barry usata nel duello, e che si è sposato con la cugina. Sempre più sfiduciato, decide di disertare l’esercito e, dopo aver rubato la divisa e i documenti a un ufficiale, parte per Brema sotto mentite spoglie. Dopo una serie di peripezie, Barry arriva ad incontrare un certo Chevalier de Balibari, raffinato giocatore d’azzardo francese, sospettato di essere in realtà una spia irlandese, che Barry deve sorvegliare per conto del generale prussiano Potzdorf. La doppiezza e l’opportunismo di Barry lo spingono a fare il doppio gioco: diventa amico del compatriota Chevalier e fugge infine con lui. La vita di Barry al seguito di Chevalier è dominata dal gioco d'azzardo e Barry barando aiuta Chevalier a vincere tutte le partite. Con ciò si chiude la prima parte del film.
Nella seconda parte assistiamo alla scalata sociale di Barry, che sposa la malinconica e affascinante aristocratica Lady Lyndon (Marisa Berenson), conosciuta al tavolo da gioco, subito dopo la morte del marito di lei, anziano e ricchissimo nobiluomo. Nonostante la nascita dì un figlio, la relazione tra i due scivola dopo pochi anni nella triste realtà di vite separate, Lady Lyndon sempre più solitaria e infelice e Barry circondato dalle sue amanti. Tra lui e il figlio di primo letto di Lady Lyndon, tra l’altro, scorre un odio profondo: Lord Bullington considera Barry un volgare arrampicatore sociale e non perde occasione di lasciarglielo in-tendere con sprezzo, finché si giunge alla scena con la quale la parabola discendente di Barry Lyndon ha inizio. Insultato pubblicamente dal figliastro durante un concerto domestico alla presenza di notabili invitati, Barry lo aggredisce picchiandolo a sangue e perde così definitivamente ogni possibilità di acquisire il titolo nobiliare che tanto agognava. Poco dopo il figlioletto muore in seguito ad una caduta da cavallo e Barry inizia a bere. Nel frattempo, Lord Bullington lo sfida a duello e Barry ne esce gravemente ferito e si rende necessaria l’amputazione della gamba. Lord Bullington arriva infine a offrirgli un vitalizio a patto che il patrigno lasci l’Inghilterra e se ne ritorni in Irlanda. Ciò che più colpisce in questa pellicola e che ne ha peraltro decretato il successo non è tanto la storia in sé di questo personaggio in fondo sgradevole, quanto la cornice in cui Kubrick inserisce la vicenda. Le tensioni emotive vengono annullate a favore dell’apparato di scenografie, costumi e fotografia che offrono allo spettatore una suggestiva galleria di immagini ispirate alle opere pittoriche dei grandi maestri del tempo, quali William Hogarth, Thomas Gainsborough, John Constable. Barry Lyndon è un film elegante ma in definitiva freddo, che offre una raffigurazione del Settecento talmente fedele da essere quasi un documentario sul XVIII secolo. È un film in cui il vero protagonista è il secolo in cui è ambientato, presente non solo come sfondo e celebrato visivamente come mai nessuno aveva fatto in precedenza: Kubrick ci fa vivere il Settecento e nel Settecento. Da segnalare la ricerca quasi maniacale di Kubrick della perfezione nel dettaglio come mezzo per una rappresentazione iperrealista del passato, che si evince nelle celebri scene a lume di candela, nelle quali il regista non ricorse a luci di scena artificiali ma utilizzò speciali lenti Zeiss in grado di cogliere la luce naturale. Il ritratto di un genio e l’affresco di un’epoca.
Due scene in esterni del film di Kubrick.
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 255
La politica e le istituzioni per gli illuministi rifondazione dei princìpi della politica in nome della ragione e della giustizia caratteri del sapere illuministico applicato al campo politicoistituzionale
visione laica dello Stato tutela dei diritti civili e battaglia per l’uguaglianza concetto di ”diritto naturale“ distinzione fra i tre poteri legislativo, esecutivo, giudiziario
Voltaire
D11
Requisitoria contro l’intolleranza
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
Trattato sulla tolleranza, XXII Voltaire, Scritti politici, a c. di R. Fubini, UtetTorino 1964
Il Trattato sulla tolleranza trae origine da una precisa, drammatica, occasione: in esso Voltaire difende post mortem l’ugonotto Jean Calas, condannato a morte dal parlamento di Tolosa e giustiziato con la falsa accusa di aver ucciso il figlio per impedirne la conversione al cattolicesimo. Il trattato attacca soprattutto l’intolleranza cristiana e il secolare, funesto, intreccio tra potere politico e potere religioso, ricostruendo il processo storico che aveva portato alle guerre di religione, e si conclude con l’appassionata requisitoria (qui parzialmente presentata) contro le dispute teologiche e l’intolleranza che ne consegue.
Non ci vuole molta abilità e neppure un’eloquenza molto raffinata per dimostrare che i cristiani devono tollerarsi a vicenda. Io vado più lontano: vi dico che bisogna considerare tutti gli uomini come nostri fratelli. Che! Mio fratello turco? mio fratello cinese, ebreo, siamese? Sì, senza dubbio. Non siamo figli dello stesso padre e 5 creature dello stesso Dio? Ma quei popoli ci disprezzano; ma ci trattano da idolatri1! Ebbene, dirò loro che hanno un gran torto. Mi sembra che potrei sconcertare per lo meno l’orgogliosa ostinazione d’un imano2, d’un monaco buddista, se parlassi press’a poco così: «Questo piccolo globo, che è soltanto un punto, ruota, come tanti altri globi, nello 10 spazio. Noi siamo sperduti in questa immensità. L’uomo, alto circa cinque piedi, è sicuramente poca cosa nella creazione. Uno di quegli esseri microscopici dice a qualcuno dei suoi vicini nell’Arabia o nella terra dei Cafri3: Ascoltatemi, perché il Dio di tutti questi mondi mi ha illuminato: vi sono novecento milioni di piccole formiche come noi sulla Terra, ma soltanto il mio formicaio è caro a Dio; tutti gli 15 altri li ha in orrore dall’eternità. Il mio soltanto sarà felice, mentre tutti gli altri saranno eternamente sventurati».
1 ci trattano da idolatri: i popoli appena nominati non ammettono la possibilità di rappresentare l’effigie della divinità. Da
256 Settecento Scenari socio-culturali
qui l’accusa di idolatria ai cristiani che invece la accettano. 2 imano: imam, colui che nella religione
musulmana dirige la preghiera comune.
3 Cafri: forma italianizzata per Kafir che significa “infedele, non musulmano”.
Allora mi prenderebbero e mi chiederebbero chi sia quel pazzo che ha detto una tale sciocchezza. Sarei costretto a rispondere: «Voi stessi». [...] Parlerei ora ai cristiani e oserei dire, per esempio, a un domenicano4 inquisitore per 20 la fede: «Fratello, voi sapete che ogni provincia d’Italia ha il suo dialetto e che non si parla a Venezia e a Bergamo come a Firenze. L’accademia della Crusca ha fissato la lingua. Il suo dizionario è una regola, dalla quale non ci si può allontanare [...] ma credete che il console dell’accademia e, in sua assenza, il Buonmattei5, avrebbero potuto in coscienza far tagliare la lingua a tutti i veneziani e a tutti i bergamaschi 25 che avessero perseverato nel loro dialetto?». L’inquisitore mi risponde: «Ma vi è una bella differenza: qui si tratta della salvezza della vostra anima. È per il vostro bene che il direttorio dell’inquisizione ordina che vi si arresti6 in seguito alla deposizione di una sola persona, sia pur essa infame e recidiva; che non abbiate avvocato per difendervi; che il nome del vostro accusatore 30 non vi sia neppure comunicato; che l’inquisitore vi prometta la grazia e poi vi condanni; che vi infligga cinque diverse torture e che poi vi faccia frustare o mettere alle galere o bruciare con tutte le cerimonie [...]». Io mi prenderei la libertà di rispondergli: «Fratello, forse avete ragione. Sono convinto del bene che volete farmi, ma non potrei essere salvato senza tutto questo?». 35 È vero che questi assurdi orrori non sporcano sempre la faccia della terra, ma sono stati frequenti e se ne metterebbe insieme facilmente un volume molto più grosso dei Vangeli che li condannano7. Non soltanto è oltremodo crudele perseguitare in questa breve vita coloro che non pensano come noi, ma non so se non sia molto arrischiato pronunciare la loro eterna dannazione. Mi sembra che non spetti agli atomi 40 di un momento, quali noi siamo, prevenire in questo modo i decreti del Creatore. Sono ben lontano dal combattere la massima: «Fuori della Chiesa nessuna salvezza». Io la rispetto come tutto ciò che essa insegna; ma in verità conosciamo tutte le vie del Signore e tutta l’estensione 45 della sua misericordia? Non è lecito sperare in Lui così come temerlo? Non è sufficiente essere fedeli alla Chiesa? Occorrerà dunque che ogni individuo usurpi i diritti della Divinità e decida prima di lei del destino eterno di tutti gli uomini?
Nella caricatura settecentesca, il clero e la nobiltà opprimono il popolo.
4 un domenicano: appartenente all’ordi-
6 ordina che vi si arresti: a questa prima
ne religioso fondato da san Domenico e preposto alla tutela dell’ortodossia. 5 il Buonmattei: Benedetto Buonmattei (1581-1648), grammatico cruscante, autore di un celebre manuale (Della lingua toscana, Venezia 1623).
asserzione segue una serie di atti praticati dai tribunali ecclesiastici quando si trattava di giudicare l’ortodossia o l’eresia di una persona accusata. Contro queste violazioni dei diritti civili si battono gli illuministi.
7 un volume... condannano: Voltaire intende qui sottolineare la contraddizione fra quanto predicato da Cristo nel Vangelo (prima di tutto la condanna della violenza e della sopraffazione) con la condotta di coloro che si sono arrogati il diritto di farsi portavoce della sua parola, di fatto ignorandola.
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 257
Concetti chiave Un'arringa appassionata
L’argomentazione di Voltaire, rigorosamente razionale e insieme appassionata, parte da una asserzione data per scontata, e cioè, la tolleranza reciproca tra cristiani (in realtà in seguito anche questo concetto sarà smentito da riferimenti alla realtà storica). Ma il filosofo propone, subito dopo, un valore etico e comportamentale che va oltre la tolleranza e cioè la fratellanza tra tutti gli esseri umani, qualunque sia la religione a cui appartengono, perché siamo figli di uno stesso Dio. La motivazione che giustifica la fratellanza universale (come Voltaire immagina di spiegare ai rappresentanti della religione buddista e musulmana) è la constatazione della insignificanza della terra e della stessa specie umana, paragonata a minuscole formiche, nell’universo. È del tutto assurdo quindi immaginare che un “gruppo di formiche” rispetto a un altro gruppo sia il prediletto da Dio. Nella seconda parte del testo lo scrittore si rivolge a una figura della religione cristiana, un domenicano che opera nell’Inquisizione, esempio paradigmatico di intolleranza. Provocato ironicamente dal filosofo, questi risponde che tutto quello che l’Inquisizione ha fatto, anche le scelte più atroci, è stato motivato dalla nobile intenzione di salvare le anime di chi sbagliava, che sarebbero altrimenti state condannate alla dannazione eterna. Oltre a condannare con aspre parole gli orrori dell’Inquisizione, il filosofo stigmatizza la presunzione di quelli che chiama “atomi di un momento” (gli uomini) di farsi portavoce di Dio e di decidere del destino ultraterreno di un uomo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. A che proposito e con quale obiettivo argomentativo viene introdotto il riferimento all’Accademia della Crusca e alla sua autorità in campo linguistico? 2. Su quali dei motivi, secondo te, è fondato nell’ultimo capoverso l’appello alla tolleranza? ANALISI 3. Nella risposta dell’autore che tipo di tono si può riconoscere? Qual è il motivo per cui lo usa? C’è un altro passaggio del testo in cui riconosci il medesimo tono? Se sì, quale? STILE 4. A quali strategie retoriche ricorre l’autore per dare particolare incisività al suo discorso?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 5. Nel passo, incentrato sul tema della tolleranza (e dell’intolleranza) si riconosce l’impronta della posizione fatta propria da Voltaire in ambito religioso. In un testo di 20 righe metti a confronto questo brano con la voce “Teista” del Dizionario filosofico (➜ D1 OL). SCRITTURA CREATIVA 6. Prova a cimentarti nella stesura di un’arringa finalizzata a valorizzare un valore civile che ti sembra oggi ancora messo in discussione, servendoti delle scelte strutturali e stilistiche per le quali ha optato Voltaire nel passo proposto. COMPTENZA DIGITALE
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
7. Dopo aver ascoltato le considerazioni espresse da noti intellettuali in merito al tema “Tolleranza, intolleranza, fanatismo” su raiplaysound.it nella puntata del podcast “La Grande Radio” di Rai Radio 3 del 28 gennaio 2024, presentate alla classe – in formato multimediale – un sunto degli interventi che vi hanno colpito maggiormente. Esprimete, poi, una vostra personale riflessione sull’argomento. Per rendere più agevole l’esercitazione – la puntata ha una durata complessiva di 1:06:42 – potete dividervi in gruppi di “ascolto” e di lavoro.
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Jean-Jacques Rousseau
D12
Alle radici della diseguaglianza e del patto sociale
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5
Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza J.-J. Rousseau, Scritti politici, trad. di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1971
Il saggio da cui sono tratti questi brani fu steso nel 1754 per partecipare a un concorso bandito dall’Accademia di Digione sul tema «Qual è l’origine della disuguaglianza e se sia consentita dalla legge naturale». Nel saggio Rousseau traccia un ampio quadro del percorso dell’uomo dallo stato di natura alla civiltà identificando nella proprietà privata l’origine della disuguaglianza. Da qui l’arricchimento di alcuni a scapito di altri, la suddivisione in padroni e schiavi, la violenza e la necessità di istituire un patto sociale che in realtà non ha fatto altro che sancire le disuguaglianze.
Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i paletti o colmando il fossato, 5 avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti”. Ma è molto probabile che allora le cose fossero già arrivate al punto di non poter durare così com’erano; infatti quest’idea di proprietà, dipendendo da parecchie idee antecedenti che non sono potute nascere se non in successione di tempo, non si 10 formò tutt’a un tratto nello spirito umano [...]. Risaliamo dunque più lontano e cerchiamo di riunire sotto un’unica visione questa lenta successione di avvenimenti e di conoscenze, nel loro ordine più naturale. Il primo sentimento1 dell’uomo fu quello della sua esistenza, la sua prima cura2 quella della sua conservazione. I prodotti della terra gli fornivano tutto ciò che gli 15 occorreva; l’istinto lo portò a farne uso [...]. Tale fu all’origine la condizione dell’uomo; tale fu la vita d’un animale inizialmente limitato alle pure sensazioni, appena capace di profittare dei doni che la natura gli offriva, lungi dal pensare a strapparle nulla. Ma non tardarono a presentarsi delle difficoltà e bisognò imparare a vincerle: l’altezza 20 degli alberi che gl’impediva di cogliere i frutti, la concorrenza degli animali che cercavano di nutrirsene, la ferocia di quelli che minacciavano la sua vita, tutto lo obbligò a dedicarsi agli esercizi fisici; bisognava acquistare agilità, velocità nella corsa, vigore nella lotta. Ben presto ebbe sotto mano le armi naturali, che sono i rami d’albero e i sassi. Imparò a superare gli ostacoli della natura, a combattere all’occorrenza gli altri 25 animali, a contendere il cibo anche agli uomini, o a cercare di compensare la perdita di ciò che gli toccava cedere al più forte. Via via che il genere umano andava crescendo, le fatiche si moltiplicavano insieme agli uomini. La differenza di suolo, di climi, di stagioni poté costringere a differenziare anche i loro modi di vita. Annate sterili, inverni lunghi e rigidi, estati torride che consumano tutto, li costrinsero a nuova operosità. 30 Sulle rive del mare e dei fiumi inventarono la lenza e l’amo diventando pescatori e mangiatori di pesce; nelle foreste si fabbricarono arco e frecce, diventando cacciatori e guerrieri; nei paesi freddi si coprirono con le pelli delle bestie uccise; il fulmine o 1 sentimento: sensazione, percezione (dovuta alle facoltà sensoriali). 2 cura: preoccupazione.
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un vulcano, o un caso fortunato li portò a conoscere il fuoco, nuova risorsa contro i rigori dell’inverno: impararono a conservare quest’elemento, poi a riprodurlo, infine 35 a usarlo per la preparazione delle carni che prima divoravano crude. [Rousseau continua la sua analisi di quella che considera una condizione felice dell’umanità.] Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o con lische di pesce, a ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca o qualche 40 rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro; da quando ci si accorse 45 che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu introdotta la proprietà, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la miseria. Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti: la metallurgia e l’a50 gricoltura. [...] Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. Non mi soffermerò a descrivere la successiva invenzione delle altre arti, il progresso delle lingue, la prova e l’impiego delle capacità, la disuguaglianza delle fortune, l’uso o l’abuso delle ricchezze, né tutti i dettagli che tengon dietro a questi e che tutti possiamo facilmente immaginare. [Allo sviluppo economico seguono inevitabilmente lo sviluppo di nuove qualità umane, acquisite rispetto a quelle naturali, l’astuzia, la simulazione per poter emergere sopra gli altri, la competizione, l’ambizione. L’uguaglianza originaria viene infranta. Da qui violenza, rapine, uno stato di guerra permanente. Da questa situazione, per tutti dannosa, secondo Rousseau derivò la necessità di istituire un patto che legasse gli uomini in società, voluto principalmente, secondo il filosofo ginevrino, dal ricco di cui immagina il discorso.] 55
“Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna sottomettendo senza 60 distinzione il potente ed il debole a doveri scambievoli. In una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un’eterna concordia”. Bastava molto meno di un discorso del genere per trascinare degli uomini grossolani, 65 facili da lusingare, che, d’altra parte, avevano troppe questioni da dirimere tra loro per poter fare a meno di arbitri, e troppa avarizia e ambizione per potere a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà; infatti avevano senno sufficiente per avvertire i vantaggi d’una costituzione politica, ma non esperienza sufficiente per prevederne i pericoli; i più capaci di fiutare in pre70 cedenza gli abusi erano proprio quelli che contavano di profittarne, e perfino i saggi videro che bisognava risolversi a sacrificare una parte della loro libertà alla conserva-
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zione dell’altra, come un ferito si fa tagliare un braccio per salvare il resto del corpo. Questa fu, almeno è probabile, l’origine della società e delle leggi, che ai poveri fruttarono nuove pastoie3 e ai ricchi nuove forze, distruggendo senza rimedio la libertà 75 naturale, fissando per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza, facendo d’una accorta usurpazione un diritto irrevocabile, e assoggettando ormai, a vantaggio di pochi ambiziosi, tutto il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria. 3 pastoie: impacci, legami.
Concetti chiave Nel saggio Rousseau traccia un ampio quadro del percorso dell’uomo dallo stato di natura alla civiltà identificando nella proprietà privata l’origine della disuguaglianza. Da qui l’arricchimento di alcuni a scapito di altri, la suddivisione in padroni e schiavi, la violenza e la necessità di istituire un patto sociale che in realtà non ha fatto altro che sancire le disuguaglianze.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Completa lo schema sintetizzando le fasi di sviluppo dell’umanità delineate da Rousseau. fasi
caratteristiche L’uomo è mosso dall’istinto animale della sopravvivenza
istituzione della società COMPRENSIONE 2. Qual è stata, secondo Rousseau, la funzione delle istituzioni civili? STILE 3. Per dare evidenza al suo discorso, Rousseau ricorre a un procedimento linguistico-retorico, basato sull’inserimento di allocuzioni dirette: identifica nel testo i discorsi diretti, indica a chi vengono attribuiti e perché; poi, spiega la loro funzione all’interno del percorso argomentativo del testo.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 4. In un intervento orale di circa 2 minuti, esponi il giudizio di Rousseau sull’evoluzione storica che ha portato all’istituzione della società. COMPETENZA DIGITALE
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5
5. Fai una ricerca in Rete e approfondisci il tema della cosiddetta “decrescita felice”. Illustra poi alla classe – in formato multimediale – i risultati della tua indagine e chiarisci gli obiettivi di questa teoria, riflettendo sui punti di contatto con il pensiero di Rousseau. Esprimi infine una tua riflessione personale su questa “utopia concreta”.
Fissare i concetti Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1. Qual era il bersaglio polemico principale degli illuministi nel campo dell’educazione? 2. Chi secondo i letterati illuministi doveva farsi carico della gestione dell’educazione? 3. Su quale principio si basa la visione enciclopedica del sapere nel Settecento? 4. Qual era lo scopo dell’opera dell’Enciclopedia? 5. Quale parte dell’Enciclopedia è tuttora considerata la sezione più innovativa? Perché? 6. In che senso gli illuministi sostengono una concezione eclettica del sapere? 7. In che cosa consiste lo “stato di natura” su cui si fonda il pensiero socio-politico degli illuministi? 8. Che cosa si intende per “contratto sociale”? 9. Quale principio fondamentale, alla base della moderna concezione di Stati costituzionali, ha formulato Montesquieu nel suo saggio Lo spirito delle leggi? 10. In che modo le posizioni politiche di Rousseau influenzarono la storia francese?
Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 2 261
3
Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 1 Un quadro delle tendenze letterarie del Settecento Tendenze della lirica Nella prima metà del Settecento la poesia italiana è dominata dall’influenza dell’Accademia dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690, che si propone di restaurare il buon gusto e la naturalezza in poesia dopo gli eccessi del Barocco. Nella poesia arcadica viene ripreso il “codice pastorale” per cantare essenzialmente l’amore, in modi semplici e musicali, ma al contempo raffinati, che rispecchiano la società galante dei salotti settecenteschi. Nel secondo Settecento l’egemonia del modello arcadico è incrinata dai mutamenti storici e ideologici: le odi illuministe di Parini e, naturalmente, lo stesso progetto del Giorno (➜ C9) testimoniano il bisogno di dar vita, anche nell’ambito poetico (per natura più conservatore), a nuove forme letterarie che ospitino temi di scottante attualità e assumano una funzione di testimonianza civile secondo i princìpi dell’Illuminismo. Negli ultimi decenni del secolo anche nella poesia italiana si insinuerà un nuovo gusto che si suole definire genericamente “preromantico”, per suggestione soprattutto della poesia inglese “notturna” e “sepolcrale”, che contribuisce a svincolare la nostra poesia dalla dittatura del repertorio e delle forme classicistico-petrarchiste. Ma nello stesso periodo si afferma contemporaneamente in Europa il gusto neoclassico che in Italia si pone, per evidenti ragioni storico-culturali, in un rapporto di particolare continuità con la tradizione del classicismo.
Pietro Domenico Oliviero, Il teatro regio di Torino nella serata inaugurale, 1740 (Torino, Palazzo Madama).
Le forme del teatro Nel Settecento il teatro costituisce una delle forme di aggregazione sociale predilette dal pubblico: anche in Italia sono particolarmente amati il melodramma e la commedia, mentre la tragedia continua ad avere scarsa fortuna. In entrambi i casi la cultura del Settecento eredita una tipologia di spettacolo che risultava ormai inadeguata alle esigenze di una società colta e raffinata: sia nel melodramma sia nella commedia (ormai rappresentata quasi esclusivamente dalla commedia dell’arte), il testo era svilito e mortificato: nel caso del melodramma dalla totale subordinazione di esso alle esigenze della musica e soprattutto dal divismo dei cantanti più famosi, nel caso della commedia dagli schemi usurati e ripetitivi della commedia dell’arte. Attraverso Pietro Metastasio (➜ C6) e Carlo Goldoni (➜ C10), il teatro italiano innova profondamente queste due forme di spettacolo teatrale, cercando di ripristi-
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narne la dignità artistica in linea con l’esigenza di buon gusto e razionalità che caratterizza la cultura settecentesca. Metastasio riforma il melodramma ridando prestigio al testo scritto (il libretto) attraverso la creazione di personaggi classicheggianti e situazioni ispirati all’ideale di naturalezza ed eleganza proprio del primo Settecento. Della riforma teatrale operata da Goldoni nell’ambito della commedia si parla ampiamente in ➜ C10. Basterà qui ricordare il significato complessivo dell’operazione realizzata dallo scrittore veneziano: mentre in tutta Europa trionfava la commedia dell’arte, in cui si esprimeva una comicità grossolana e ripetitiva, condizionata dal mestiere degli attori e dalla loro abilità nell’incarnare una specifica maschera, Goldoni, tra mille difficoltà, ripensamenti, critiche anche feroci dei detrattori, riesce a restituire dignità letteraria al testo, a traghettare la commedia verso una forma moderna e realistica, e infine a conferirle una funzione educativa conforme agli ideali illuministici. Il teatro tragico, da sempre meno seguito in Italia, trova un grande interprete in Vittorio Alfieri, capace di riqualificare e rivitalizzare il genere tragico: richiamandosi al modello del teatro classico, Alfieri utilizza uno stile alto e sceglie personaggi e tematiche (in genere conflitti dilanianti e grandi passioni) che incarnano ed enfatizzano la dimensione tragica dell’esistenza umana (➜ C12). Dal trattato alla saggistica storico-filosofica Nel primo Settecento il trattato di impianto umanistico ha ormai lasciato il posto a nuove forme di indagine, sulla scia dello spirito razionalistico che anima, anche in Italia, la cultura. Lo testimoniano in vario modo le opere di Pietro Giannone e Ludovico Antonio Muratori da un lato e la Scienza nuova di Giambattista Vico dall’altro (➜ C6). Se le scrupolose ricerche storiografiche dei primi si fondano su documenti d’archivio, la Scienza nuova (del 1744 è l’ultima edizione postuma) integra la filologia e la filosofia per tentare un’originale interpretazione del divenire storico, in cui Vico riconosce tre fasi: la prima dominata dal senso, la seconda dalla fantasia e dal mito, la terza dalla ragione. Nell’ambito della visione illuministica si colloca il trattato Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, nato all’interno del gruppo milanese del «Caffè» (17641766), fondato da Pietro Verri e destinato a grande successo nell’Europa dei Lumi. Nel trattato, animato da una grande passione civile, si condanna l’impiego della tortura e la pratica della pena di morte. Nella Francia dei philosophes il trattato è impiegato per mettere a fuoco i grandi temi del dibattito politico, civile, etico del tempo e assume quindi tratti del tutto diversi dalla trattatistica tradizionale, legata alla retorica classicistica: la passione che anima la battaglia dei philosophes per una nuova società e una nuova cultura si traduce in testi caratterizzati in vario modo da una comunicazione più diretta. La stampa periodica: verso il giornalismo moderno La cultura settecentesca è caratterizzata dalla diffusione della stampa periodica, la circolazione e la lettura della quale avveniva in genere in luoghi aperti allo scambio informale di idee come i caffè. Già nel Seicento esistevano le gazzette, che informavano periodicamente sui principali avvenimenti, ed erano in seguito nate le gazzette letterarie come il parigino «Journal des Savants» – rivolte a un pubblico più ristretto di persone di cultura. Con la diffusione delle idee illuministe i periodici divennero un importante strumento per la formazione dell’opinione pubblica, esercitando insieme ai romanzi filosofici e ai pamphlet un ruolo primario di divulgazione delle idee: si apriva la strada al giornalismo moderno. Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 3 263
In relazione ai nuovi compiti e alla nuova natura di questi periodici, mutava anche lo stile, che si avviava ad assumere i caratteri di quello che ancora oggi chiamiamo “stile giornalistico”. Modelli del periodico moderno furono il «Tatler», ma soprattutto il londinese «Spectator» di Joseph Addison e Richard Steel, fondato fin dal 1711. Allo «Spectator» si ispirarono i molti giornali italiani degli anni Sessanta, che ebbero però tutti breve vita: dall’«Osservatore veneto» (1761-1768) di Gaspare Gozzi (17131786), alla polemica e sferzante «Frusta letteraria» (1763-1765) di Giuseppe Baretti (1719-1789), che assume la maschera di Aristarco Scannabue per esprimere una dura critica alle pastorellerie arcadiche e in genere a una letteratura di pura evasione, al più celebre «Il Caffè» che, con forte consapevolezza, aderisce ai principali temi dell’Illuminismo d’oltralpe aprendo la cultura italiana a un orizzonte europeo. Contigui allo spirito e alle forme espressive del giornalismo sono i pamphlet, particolarmente presenti nella cultura illuminista francese: brevi testi fortemente polemici, in cui la scrittura è finalizzata a enfatizzare il tema proposto per coinvolgere i lettori, così da creare un movimento d’opinione favorevole alle tesi sostenute. Il boom del romanzo in Europa Il romanzo è il genere emergente nella letteratura del Settecento (➜ C8). La patria del romanzo moderno è l’Inghilterra, dove l’ascesa di una moderna classe borghese costituisce il pubblico ideale per il successo del genere: il romanzo inglese, da Robinson Crusoe (1719) di Defoe a Pamela (1742) di Richardson, per citare solo due dei molti esempi, ritrae realisticamente situazioni e personaggi comuni (anche appartenenti alle classi basse), celebra le capacità individuali e l’intraprendenza di moderni eroi in cui i lettori potevano facilmente riconoscersi. In Francia si affermano invece, in relazione all’acceso dibattito ideologico che caratterizza l’Illuminismo francese, i romanzi filosofici (contes philosophiques), tra cui spicca Candide (1759; ➜ C8) di Voltaire, nei quali la struttura narrativa è funzionale a divulgare i temi civili e morali che lo scrittore considera basilari. Il ritardo nell’affermazione del romanzo in Italia L’Italia rimane ai margini della fortuna del romanzo: occorrerà attendere i Promessi sposi (1840) di Alessandro Manzoni per avere un grande romanzo degno di confrontarsi con la letteratura europea. Le ragioni di questo ritardo nell’affermazione del genere per definizione moderno si possono ritrovare nell’ottica culturale italiana, tendenzialmente tradizionalista e classicista, e anche nell’arretratezza delle strutture socio-economiche in Italia (persino nelle zone più ricche, come la Lombardia) rispetto ai più avanzati paesi europei e, di conseguenza, nell’assenza di quel ceto borghese aperto alle novità che costituisce il pubblico elettivo del romanzo. Un certo interesse e una funzione alla lunga di stimolo suscita però in Italia la traduzione dei romanzi europei, in particolare di genere epistolare: da Pamela (1742) e Clarissa (1748) di Richardson, alla Nuova Eloisa di Rousseau (1761), al Werther di Goethe (1774), che ispirerà il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis (1798) di Foscolo. Tuttavia, nei confronti del romanzo la cultura italiana ufficiale assume a lungo un atteggiamento di «sussiegosa diffidenza» (Barenghi), quando non addirittura di esplicita condanna. L’emergere del genere autobiografico Il Settecento è ricchissimo di memorie personali, e anche in Italia l’autobiografia ha grande fortuna: già nella prima metà del secolo lasciano interessanti testimonianze della propria storia personale Pietro Giannone (Vita, 1737, pubblicata solo nel 1890) e Giambattista Vico (Autobiografia, 1728). Nella seconda metà del secolo affidano alle memorie personali la testi-
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monianza diretta della propria esistenza di avventurieri cosmopoliti e di libertini Giacomo Casanova (La storia della mia vita, 1791-1798, pubblicata postuma; ➜ C12) e Lorenzo Da Ponte, autore del libretto del Don Giovanni mozartiano (Memorie, 1829-1830; ➜ C12). Verso gli anni Sessanta Le confessioni di Rousseau si impongono come nuova forma di narrazione della vita, fortemente soggettiva, connotata come autoanalisi. Se le più significative autobiografie italiane (i Mémoires di Goldoni, 1787, e la Vita di Alfieri, 1803, pubblicata postuma nel 1804; ➜ C10 e ➜ C11) non assumono tale prospettiva intimistico-introspettiva, di certo però superano entrambe, seppur in diverso modo, il semplice resoconto delle vicende personali per fornire un’interpretazione complessiva dell’esistenza dei due autori (entrambi uomini di teatro) come rispondente a una vera e propria vocazione. È forse proprio questo taglio fortemente interpretativo che distingue la vera e propria autobiografia dalle semplici memorie personali, come sono quelle di Casanova e Da Ponte. online
Mappa interattiva I viaggi culturali degli illuministi in Europa
Lettere e letteratura di viaggio Il Settecento è il secolo degli scambi epistolari e dei viaggi che costituiscono uno degli strumenti principali per la formazione dell’uomo colto (➜ PER APPROFONDIRE, Il Grand Tour, PAG. 242): anche gli intellettuali italiani viaggiano per visitare nuovi paesi e conoscere nuove idee e costumi. Letteratura di viaggio e lettere si intersecano e a volte si sovrappongono in quest’epoca. Le lettere di viaggio sono a volte reali, come nel caso del Viaggio a Parigi e Londra di Pietro e Alessandro Verri (1766-1767), scambio epistolare scaturito dalla visita di Alessandro alle due capitali europee. Altre volte il resoconto del viaggio si struttura in forma di lettera per deliberata volontà dell’autore e per ambizioni letterarie, come nei Viaggi in Russia di Francesco Algarotti (1764), resoconto a posteriori di un viaggio che lo scrittore, già un esempio dell’intellettuale cosmopolita, aveva compiuto nel 1739. Interessante anche la Relazione del viaggio in Svizzera (1777) del grande scienziato Alessandro Volta (1745-1827) contenuta nel suo Epistolario. Oltre all’occhio scientifico, emerge anche, nella descrizione di paesaggi alpini grandiosi e “sublimi “, uno sguardo affascinato dagli spettacoli della natura. Per quanto riguarda il fenomeno culturale e di costume del ”viaggio in Italia“, tappa obbligata del Grand Tour, la testimonianza più significativa e nota è quella di Goethe, ormai alla fine del secolo.
2 Estetica del sensismo, del sublime e neoclassica: tre modelli per la letteratura e l’arte del secondo Settecento
Nella letteratura del secondo Settecento, soprattutto in ambito poetico, si avverte la presenza di suggestioni diverse e di tendenze estetiche (cioè posizioni che riguardano l’idea di bello) anche antitetiche: dal sensismo all’emergente gusto preromantico del “sublime” fino all’affermazione, verso la fine del secolo, dell’estetica “neoclassica” che ripropone, sulla scia delle suggestioni dell’arte figurativa antica, una visione dell’arte come armonia e controllo delle passioni. Preromanticismo e Neoclassicismo caratterizzeranno in vario modo, in un diverso contesto storico e culturale, la letteratura europea e italiana del primo Ottocento. L’estetica del sensismo Al dominio di una visione artistica improntata al razionalismo, subentra anche in Italia nella seconda metà del secolo la visione estetica Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 3 265
sensista, mutuata dalle posizioni più generali del sensismo (➜ PER APPROFONDIRE Il sensismo, PAG. 233). Dell’arte si mette in rilievo soprattutto la possibilità di dare piacere producendo sensazioni che colpiscano vivacemente i sensi: si tratta di una visione che àncora comunque l’arte a una dimensione concreta e che in Italia, proprio per questo, si sposa con l’esigenza, prospettata dagli illuministi, di una nuova letteratura anti-accademica e antiretorica, di “cose” e non “parole”. Letteratura dell’utile sociale e sensismo in Italia si saldano e, non a caso, le principali formulazioni dell’estetica sensista si devono proprio a uomini del «Caffè»: Cesare Beccaria, autore delle Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), e Pietro Verri, autore dei Discorsi sull’indole del piacere e del dolore (1773); mentre la realizzazione artistica dei princìpi estetici del sensismo è rappresentata dal Giorno, il capolavoro di Parini, sintesi di poetica sensista (ma anche classica) e letteratura dell’“utile” ispirata da un’esplicita volontà riformatrice dei costumi e della società.
Caspar Wolf, Il ponte sulla gola, 1774-1777 (Sion, Musée des beauxarts).
L’estetica del sublime Verso la metà del Settecento in Inghilterra si verifica una graduale trasformazione del gusto ed emerge una nuova sensibilità estetica, segnata dalla propensione per una letteratura malinconica o notturno-sepolcrale. Una trasformazione che è supportata, a livello teorico, dall’associazione fra arte e poetica del sublime, sulla scia della diffusione in Germania e Inghilterra della traduzione del trattato greco anonimo Del sublime, in cui erano contenute argomentazioni che sembravano contrapporsi alla misura e all’equilibrio propri della visione estetica classica. Nelle riflessioni tardo-settecentesche sublime non ha una connotazione stilistico-linguistica, non corrisponde cioè, come nelle poetiche classicistiche, a uno stile (lo stile più elevato), ma ha a che fare con atmosfere suggestive, manifestazioni estatiche che possono colpire il lettore, suscitandogli sensazioni molto forti. Spesso è lo spettacolo offerto dalla natura che produce questi effetti, una natura maestosa e grandiosa (come le alte montagne), o altri scenari e fenomeni che diano il senso emotivo dell’infinito e della potenza della natura, anche tempestosa o notturna o addirittura orrorosa: in ogni caso è una natura lontanissima dal modello del locus amoenus, cioè del paesaggio idillico e rasserenante proprio della tradizione classica. È l’inglese Edmund Burke (1729-1797), nella sua Inchiesta sul Bello e il Sublime (1757), che, anche sull’onda di testi di successo come i Pensieri notturni di Edward Young (1683-1765), associa al bello e al sublime emozioni forti, come la paura o addirittura il terrore; ma sublime è pure il pensiero della morte o la malattia, il dolore stesso. Si intuisce come in queste inusitate associazioni si creino i presupposti di una rivoluzione del gusto e della sensibilità estetica che si manifesterà pienamente nel Romanticismo, ma che già in opere tardo-settecentesche come il Werther di Goethe inizia a delinearsi. L’estetica neoclassica Il classicismo, nella letteratura europea e soprattutto italiana, è per secoli un “filo rosso”, ma le motivazioni del richiamo ai classici sono evidentemente diverse a seconda delle epoche e
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dei modelli culturali. Come si è visto, nel Settecento esiste un classicismo arcadico, ma è cosa diversa dal gusto (poiché si tratta soprattutto di un orientamento del gusto) e dalla moda neoclassica che si diffondono, non solo nella poesia, ma questa volta anche nell’arte, nell’oggettistica, nel costume già negli ultimi decenni del Settecento per effetto dei ritrovamenti seguiti agli scavi archeologici di Ercolano, Pompei e Paestum. Non a caso è proprio un archeologo e storico dell’arte, il tedesco Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), a codificare i princìpi fondamentali della visione neoclassica nella sua Storia dell’arte nell’antichità (1764): nell’opera, che eserciterà una vasta influenza in Europa, viene esaltata l’arte greca come esempio di bello assoluto e ideale, fondato sull’equilibrio e l’armonia, sull’allontanamento dalle passioni ed emozioni perturbanti.
Laocoonte e i suoi figli, copia romana in marmo da un originale in bronzo del II secolo a.C. (Roma, Musei Vaticani).
Tre concezioni estetiche della seconda metà del XVIII secolo SENSISMO
SUBLIME
NEOCLASSICISMO
l’arte deve stimolare sensazioni
l’arte nasce dalla suggestione di grandi spettacoli della natura o da atmosfere notturne che suscitano turbamento e/o sgomento
l’arte deve rifarsi al modello greco di bellezza e ai canoni di equibrio e armonia
Fissare i concetti Caratteri e forme della letteratura nel Settecento 1. Da quale fenomeno è caratterizzata la cultura settecentesca per quanto riguarda l’informazione? 2. Quale genere si afferma nella letteratura europea del Settecento? 3. Su quali princìpi è incentrata la visione estetica sensista? 4. In che cosa consiste la poetica del sublime formalizzata dall’inglese Edmund Burke? 5. Quale evento storico influenza la diffusione della moda neoclassica alla fine del Settecento?
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L’evoluzione della lingua 1 Il problema della lingua in Italia al tempo dell’Illuminismo Il divario tra lingua scritta e lingua parlata La lingua scritta che gli illuministi italiani, nel loro sforzo di ammodernamento e razionalizzazione della cultura e della letteratura, hanno davanti è ancora per larga parte la lingua di Boccaccio e di Petrarca, riproposti come modelli anche nel Settecento dal Vocabolario della Crusca: una lingua certamente prestigiosa ma immobile, che non corrispondeva al progresso della società e all’avanzamento di nuovi saperi (come le scienze applicate e l’economia), ma soprattutto inadeguata alla comunicazione. A differenza di altri paesi europei (come la Francia), in Italia la lingua scritta – ancorata alla tradizione del toscano trecentesco dei grandi autori, attraverso le Prose di Bembo – appariva ancora separata dalla lingua orale, espressione delle diverse realtà delle parlate regionali, in cui ancora si ricorreva ai dialetti, per gli usi comunicativi quotidiani. Il dialetto era impiegato nella lingua scritta solo con particolari funzioni espressive, in rapporto a specifici generi letterari: è il caso del dialetto veneto nelle commedie goldoniane. In alcuni ambiti permane il latino: lingua ufficiale della Chiesa e della teologia, ma in parte ancora della scienza e dell’università, dove l’insegnamento continua a essere tenuto per lo più in latino (quando a Napoli nel 1764 Antonio Genovesi decide di tenere le sue lezioni di economia in italiano, la scelta suscita ancora molto sconcerto). L’egemonia del francese, lingua dell’Europa colta In questo quadro linguistico disomogeneo e variegato si inserisce prepotentemente il francese, che va diffondendosi in tutta Europa come lingua internazionale della cultura e della comunicazione tra i ceti colti, un ruolo che in seguito gli sarebbe stato sottratto dall’inglese: tutte le persone colte, anche in Italia, conoscono il francese (si può parlare spesso di un vero e proprio bilinguismo) e lo usano non solo quando scrivono lettere, ma spesso anche per parlare. Ciò si spiega con il ruolo d’avanguardia esercitato dalla cultura francese nel Settecento e con l’attrazione esercitata dalla capitale francese sugli intellettuali di tutta Europa. Anche in Italia fra le letture predilette ci sono opere francesi, l’Enciclopedia viene stampata a Lucca e a Livorno in lingua originale (evidentemente gli editori sapevano di poter contare su un pubblico di lettori che conosceva bene il francese), Goldoni e Casanova scrivono in francese le loro memorie. L’affermazione del francese dipese anche dalla proverbiale clarté della lingua, cioè dalla sua chiarezza, dalla sua razionalità, che la rendeva adatta alla comunicazione, mentre la lingua italiana appariva al contrario artificiosa, incline a eccessi retorici, caratterizzata da una sintassi pesantemente latineggiante. Difetti che Alessandro Verri stigmatizza in una pagina assai significativa del «Caffè» (➜ D13 ). Di fronte all’influsso del francese sulla nostra lingua i letterati italiani assumono posizioni diverse: dallo sdegnoso rifiuto dei tradizionalisti, come Carlo Gozzi («Per qual necessità si sostituiscono de’ termini e delle voci francesi» egli scrive
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«a’ termini e alle voci della nostra eletta favella?»), all’apertura incondizionata in nome dei diritti dell’uso e della comunicazione, posizione assunta nel programma del «Caffè». La polemica linguistica del «Caffè» e la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca La situazione che abbiamo tratteggiato giustifica l’aspra polemica sviluppata dagli intellettuali del «Caffè» contro il culto del “bello stile” e la dittatura del toscano letterario illustre, che avevano allontanato la lingua italiana dalla realtà. Da qui anche l’attacco all’istituzione-simbolo della cristallizzazione della lingua italiana, ovvero l’Accademia della Crusca e il suo Vocabolario. In un celebre articolo del «Caffè» Alessandro Verri formula, a nome di tutti i collaboratori del periodico milanese, una sorta di manifesto delle posizioni della rivista nei riguardi alla lingua. È la Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca: redatta con lo stile ironico e paradossale caro all’Illuminismo francese e articolata in vari punti, coincide di fatto con il rifiuto di seguire obbligatoriamente la «toscana favella». Sintetizziamo il contenuto dei vari punti presenti in questo vero e proprio manifesto contro il principio di autorità linguistica per un uso vivo e moderno della lingua.
1. Se Dante, Petrarca, Boccaccio hanno avuto il diritto di inventare parole nuove, perché lo stesso diritto è negato ai moderni? 2. Non ha senso pensare che una lingua non possa migliorare e arricchirsi nel corso del tempo. 3. Nessuna legge obbliga a venerare «gli oracoli della Crusca». 4-5. Se si possono rendere meglio certe idee attraverso vocaboli stranieri adattati alla lingua italiana, lo si deve fare senza timore di presunte autorità (Giovanni Della Casa ecc.) che non hanno in realtà mai pensato di assumere il ruolo di tiranni come vorrebbero i mediocri grammatici. Se il mondo fosse regolato da loro non ci sarebbe stato alcun progresso; magari, scrive ironicamente Verri, sapremmo che “carrozza” va scritto con due erre ma andremmo ancora a piedi. Le parole devono servire alle idee e non viceversa. 6. Gli autori del «Caffè» non intendono rispettare le regole introdotte dal «capriccioso pedantismo». Si fanno un vanto dall’aver privilegiato l’acquisizione di utili conoscenze, di idee rispetto alle «secondarie cognizioni», tra le quali pongono il rispetto delle regole puristiche. 7. Gli autori del «Caffè» si ripromettono di scrivere e pensare liberamente e di usare «quella lingua che s’intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi».
L’evoluzione della lingua 4 269
Alessandro Verri
Per una lingua antiaccademica
D13
Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni Nel passo proposto Alessandro Verri stigmatizza l’inguaribile formalismo costitutivo della cultura italiana, il culto del bello stile che prende il posto del rigore e dell’originalità del pensiero. A questa tendenza lo scrittore contrappone il modello della cultura straniera contemporanea.
«Il Caffè» 1764-1766, a c. di G. Francioni e S. Romagnoli, Bollati Boringhieri, Torino 1998
Gl’inglesi pensatori scrivono con non molta cura dell’ordine. I francesi con periodi vibrati e brevi. Si curano gli autori di queste due rispettabili nazioni di seguire nella composizione le traccie de’ lor pensieri; lasciano un libero volo all’intelletto [...], non sagrificano i concetti alle voci, il genio al metodo1, la robustezza dello stile alla 5 languida sua purità2. Noi per lo contrario sembra che abbiamo nel nostro scrivere un non so che di legato, di circondotto3, di timido, d’impastato. Siamo sincerissimi nel far conoscere al lettore la fatica che abbiamo durato4 nel comporre, e piuttosto che nascondere l’arte proccuriamo di farla vedere. Nella armonia, nella vanità di scelti vocaboli, nella penosa trasposizione della sintassi poniamo tutto lo studio, pronti a 10 scieglier di due pensieri il men bello, purché più bella frase potiam5 dire. Siamo più vani che ambiziosi: vogliamo piuttosto che il lettore conosca sapere noi6 la grammatica che la logica. Qual degl’italiani che ci vengono proposti per modelli avrebbe scritto collo stile dello Spirito delle leggi7? [...]. Colla nostra servil cura del metodo, co’ nostri rotondi periodi8 è impossibile il vibrar l’intelletto nelle cose, profondarle9, 15 fuggendo dall’una all’altra rapidamente; il che parmi essere il carattere di quel sublime scrittore. Il nostro stile è troppo manifatturato10; non abbiamo il coraggio di andare a capo, ma pretendiamo che tutto sia liscio e legato e fluido, quantunque a spese del vero ordine, che debbe11 consistere nelle cose, non nelle parole. 1 il genio al metodo: lo spirito originale dell’autore ai criteri dello scrivere. 2 languida sua purità: raffinata purezza. 3 circondotto: involuto, complesso. 4 durato: sofferto. 5 potiam: possiamo.
6 conosca sapere noi: capisca che noi conosciamo. 7 Spirito delle leggi: è la celebre opera di Montesquieu. 8 rotondi periodi: proposizioni levigate sintatticamente.
9 il vibrare… profondarle: indirizzare l’intelletto nelle cose, approfondirle. 10 manifatturato: elaborato. 11 debbe: deve.
Concetti chiave Una dura critica al modo di scrivere in Italia
Alessandro Verri, figura di spicco del gruppo del «Caffè», la rivista milanese su cui è pubblicato il testo dal quale è tratto il passo proposto, sviluppa una serrata critica al modo di scrivere in Italia, contrapponendolo al modo di scrivere degli illuministi francesi (in particolare Verri cita lo stile impiegato da Montesquieu nel trattato Lo spirito delle leggi). I difetti che Verri imputa agli italiani hanno a che fare con l’ossequio al formalismo, al “bello stile”, che vincola la libera espressione intellettuale e finisce per offuscare la forza dei concetti. Nella parte del testo non riportata l’autore prosegue attaccando i modelli della trattatistica del Cinquecento, dagli Asolani di Bembo al celebre Cortegiano di Castiglione, che si leggono «mescolando la lode agli sbadigli». Quando si hanno modelli come quelli, proprio perché facilmente imitabili (o almeno così si crede), ne derivano conseguenze nefaste, come appunto quelle che l’autore stigmatizza. Se proprio si deve imitare anziché creare, allora è senz’altro meglio imitare i grandi autori stranieri moderni, come Montesquieu, Addison, Swift, Hume. Quando si scrive, continua Alessandro Verri, come nostri giudici è meglio immaginare i grandi pensatori che modesti e pedanti grammatici.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale principio innovativo è espresso nell’ultima affermazione secondo cui il «vero ordine» deve «consistere nelle cose, non nelle parole»? 2. Qual è l’atteggiamento di Verri e di molti altri illuministi italiani nei confronti degli scrittori stranieri contemporanei? STILE 3. Riformula con un linguaggio più aderente a quello attuale la frase «piuttosto che nascondere l’arte proccuriamo di farla vedere».
Interpretare
LETTERATURA E NOI 4. Credi che l’accusa di Alessandro Verri di far prevalere la forma sulla sostanza possa trovare riscontro anche in espressioni e prodotti culturali contemporanei? Esponi in 5 minuti il tuo punto di vista in un breve intervento orale destinato alla classe.
Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. Perché nel Settecento l’italiano è ancora una lingua separata dalla dimensione orale? 2. Quale lingua straniera era considerata in Italia la lingua di cultura nel XVIII secolo? 3. Qual è il bersaglio polemico contro cui si scagliano gli illuministi per denunciare la cristallizzazione della lingua italiana?
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Filosofo intento nella lettura, 1734 (Parigi, Musée du Louvre).
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Libri, lettori, lettura
I libri e la lettura nell’età dei lumi Quanto si legge e che cosa si legge Nella seconda metà del Settecento la produzione di libri aumenta enormemente, in rapporto al delinearsi, per lo meno nei paesi più evoluti, come l’Inghilterra e la Francia, di un ceto medio-basso di lettori e si manifesta una chiara linea di tendenza: diminuisce nettamente il numero di chi legge testi di contenuto religioso-edificante, in particolare in Francia, mentre cresce l’interesse per testi scientifici o resoconti di esplorazioni e viaggi. Ma soprattutto sono richiesti i romanzi, che soddisfano il nuovo bisogno, soprattutto femminile, di una lettura con fini di evasione: il romanzo epistolare La nuova Eloisa di Rousseau ha ben settanta edizioni prima dell’Ottocento. Tra i libri trionfa il piccolo formato, un tipo di libro tascabile, che la gente può portare con sé come compagno di viaggi o anche di semplici passeggiate. Costituisce un’eccezione il grande formato delle dispense dell’Enciclopedia, ma in questo caso risultò convincente il senso complessivo della proposta editoriale e soprattutto la sagace pubblicizzazione dell’opera. Non a caso però Voltaire, sempre attento a sfruttare nuove occasioni editoriali per il “commercio” delle idee, contrappose all’Enciclopedia il suo agile Dizionario filosofico portatile. Dove si legge e come si legge Il libro rimane comunque un prodotto costoso che pochi possono permettersi: con il prezzo di un romanzo, in Inghilterra o in Germania, riusciva a vivere un’intera famiglia almeno per una settimana (Rodler). In tutta Europa si moltiplicano così le possibilità di leggere senza dover comprare il libro: in particolare prendendo il libro in prestito nelle molte “società di lettura” che si diffondono in tutti i paesi civilizzati. Questa nuova possibilità non solo favorisce la formazione di una tipologia sociale di lettori più ampia ed eterogenea, ma modifica anche le abitudini di lettura: leggere diventa sempre più un’esperienza libera da ogni vincolo, soggetta a ritmi e motivazioni del tutto personali. Inoltre da esclusivamente intensiva (ovvero concentrata su pochi libri, sempre gli stessi) la lettura diventa tendenzialmente estensiva, applicata cioè a molti testi nuovi, letti con rapidità e avidità. Ci si va ormai allontanando dalla situazione arcaica della famiglia patriarcale riunita nel salotto buono di casa intorno al padre che legge ad alta voce un libro indiscutibilmente autorevole come la Bibbia, per l’edificazione morale di tutti (una situazione ritratta nostalgicamente da alcuni pittori del tardo Settecento come Jean-Baptiste Greuze). Le rappresentazioni pittoriche del tempo rappresentano nuove tipologie di lettori (artigiani, donne, anche bambini) e nuovi ambiti di lettura (si legge anche a letto o in mezzo alla natura). Jean-François de Troy, La lettura di Molière, 1728.
272 Settecento Scenari socio-culturali
La donna illuminista è una grande lettrice. Romanzi alla moda (e gli scrittori sanno bene che le donne fanno parte del loro pubblico), autori classici, trattati di educazione, riviste, libelli politici, scritti filosofici e libri di storia, nulla sfugge loro [...]. Le lettere di donne sono piene di resoconti dell’ultima opera che hanno letto, delle riflessioni che ispira. Le figlie del secolo trovano rifugio nella lettura di fronte alla malinconia ai disordini del tempo [...]. Nel secolo XVIII le rappresentazioni pittoriche della lettura solitaria mettono maggiormente in scena le lettrici, segno di una trasformazione verso il femminile (e di una privatizzazione) della lettura. Ma mentre la lettura maschile è segno di attività intellettuale, la lettrice è facilmente considerata come un’orgogliosa
pedante o un’oziosa. In entrambi i casi ciò avviene perché la donna viene meno al suo ruolo tradizionale, perché vuole accedere a un sapere maschile, perché ruba il tempo che dovrebbe dedicare alla direzione della sua casa, al marito o ai figli, perché crea tra se stessa e il libro uno spazio intimo dal quale l’uomo è escluso. La lettura femminile è pericolosa. Libro serio sul suo tavolo: la lettrice vuole diventare sapiente, vuol prendere il posto dell’uomo. Romanzo in mano o sulle ginocchia: la lettrice sta per lasciarsi andare al sogno, all’abbandono, alla lascivia. D. Godineau, La donna, in Aa. Vv., L’uomo dell’illuminismo, a c. di M. Vovelle, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 445-485
IMMAGINI INTERATTIVE
Maurice Quentin de La Tour, Madame du Châtelet alla scrivania. Fu una matematica e fisica, e contribuì alla divulgazione delle teorie di Leibniz e Newton.
Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Maria Adelaide di Francia vestita alla moda turca, 1753 (Firenze, Galleria degli Uffizi).
La rivoluzione della lettura: “leggere con gli occhi del cuore” Negli ultimi decenni del Settecento comincia a diffondersi (ed è una vera e propria rivoluzione, destinata a svilupparsi pienamente nell’età romantica) una forma di lettura empatica, che pone cioè il lettore in un rapporto di immedesimazione emotiva con quanto legge. Ciò accade in particolare per i romanzi, a volte letti e riletti varie volte da lettori (e soprattutto lettrici) che si identificano nei personaggi – arrivando a vedere la propria vita rispecchiata negli intrecci –, e si sviluppa un rapporto intimo ed esclusivo con quello che diventa il “libro del cuore”, il più amato. Un esercito di lettori e lettrici “divora” tra lacrime e sospiri romanzi sentimentali come Pamela di Richardson, La nuova Eloisa di Rousseau, si intenerisce di fronte agli amori di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre (➜ C8); alcuni addirittura arrivano a riprodurre il tragico suicidio di Werther per “simpatia” con il protagonista del celebre romanzo epistolare di Goethe, I dolori del giovane Werther. Questo modo di leggere e la predilezione stessa per il genere trionfante del romanzo suscitano la critica dei benpensanti che arrivano a vedervi i sintomi di una vera e propria malattia, che allontana dalla realtà; ma anche i filosofi razionalisti dell’Illuminismo Libri, lettori, lettura 4 273
Giornali e pamphlet: la nascita dell’opinione pubblica Il coinvolgimento del pubblico nei temi di interesse generale Nel corso del Settecento in Europa si diffonde un nuovo mezzo di comunicazione: il giornale. La diffusione dei periodici (➜ D14 OL), delle pubblicazioni locali, delle gazzette politiche e l’affermarsi di nuovi modi di leggere e conversare in nuovi spazi collettivi (come i caffè) favoriscono la nascita dell’opinione pubblica , cioè l’orientamento di una consistente parte della popolazione riguardo a problemi di pubblico interesse che fino ad allora erano conosciuti e gestiti solo dai gabinetti politici dei sovrani, dalle autorità ecclesiastiche, dalle accademie (il termine nasce proprio nel Settecento). Per le loro battaglie a favore dei diritti umani e della tolleranza, i philosophes hanno bisogno che il maggior numero di persone possibile aderisca alle loro cause. In vari modi il pubblico viene costantemente mobilitato e sollecitato a pronunciarsi su temi “caldi” del dibattito politico-sociale: un giudizio che, potendo contare su molti numeri, diventa di per sé vincolante, sinonimo di verità. Alla base dell’appello costante all’opinione pubblica sta l’utopia illuminista che tutti (o quasi: si tratta pur sempre solo della parte istruita, almeno a livello basilare, della popolazione), dispongano di una facoltà di giudizio razionale e possano far parte del «tribunale della ragione» (➜ D15 OL) in cui i philosophes si assumono il compito di «avvocati del genere umano». Proprio per questo gli illuministi credono fermamente nel ruolo dell’educazione e i loro scritti si propongono di formare un’opinione pubblica illuminata attraverso gli strumenti comunicativi ritenuti più efficaci nella società moderna: pamphlet, cioè brevi scritti polemici, voci dell’Enciclopedia, articoli di giornale, i romanzi stessi, in alcuni casi programmaticamente costruiti per immettere i temi chiave del dibattito illuminista nella più vasta circolazione. Parola chiave
Libri, lettori, lettura
condannano gli eccessi impliciti in un modo di leggere fondato su un’esuberanza di immaginazione che a loro parere distoglie da più seri e importanti obiettivi.
opinione/opinione pubblica Il termine opinione implica l’idea di un’interpretazione personale di un fenomeno, di una manifestazione, a cui si può dare relativo credito in mancanza di un criterio assoluto di giudizio: l’opinione dunque, sul piano gnoseologico, è contrapposta a “fatto certo, positivo, indiscutibile”. Esprimere un’opinione può diventare un reato nel caso dei cosiddetti “reati d’opinione”: nella società dell’ancien régime, i reati d’opinione erano lo strumento con cui lo Stato assoluto o le autorità ecclesiastiche potevano colpire con facilità le manifestazioni di pensiero critiche nei confronti dell’autorità politica e divergente dai dogmi religiosi (l’accusa comune era di eresia). Gli illuministi contestarono duramente l’esistenza stessa dei reati d’opinione nel diritto penale. La battaglia dei philosophes contro i reati d’opinione e a favore della tolleranza fu condotta facendo appello all’opinione pubblica, un concetto e un termine che nascono proprio in età illuministica. Per opinione pubblica si intende il modo di pensare, il giudizio della collettività dei cittadini, che per la prima volta i philosophes chiamano in causa: l’opinione pubblica è «quanto delle valutazioni dei singoli converge in un processo collettivo di disvelamento del vero» (Tortarolo). In questa accezione, legata a un uso strettamente politico-sociale del termine, esso perde la sua connotazione limitativa (quella cioè che l’opinione non sia verità, ma sia una credenza indimostrabile, spesso errata), assumendo il valore di rappresentazione della verità, a cui attribuire pieno credito.
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D14 Cesare Beccaria Lode dei giornali De’ fogli periodici
D15 Gaetano Filangieri Il tribunale dell’opinione pubblica La scienza della legislazione
D16 Voltaire Difesa della libertà di stampa De l’horrible danger de la lecture
274 Settecento Scenari socio-culturali
La prima metà del Settecento vede l’affermarsi delle forme movimentate e preziose del Rococò, il raffinato stile che caratterizza le corti monarchiche europee fino a quando il rigore essenziale del Neoclassicismo non lo sostituisce. Nell’ultimo quarto del Settecento, infatti, il movimento del Neoclassico definisce, attraverso il recupero dell’antico, i canoni della razionalità illuminista e diventa il linguaggio di espressione dei valori della Rivoluzione francese.
Arte nel tempo
Il Rococò
Salottino di porcellana di Maria Amalia di Sassonia, 1757-1759, porcellana dipinta e stucco (Napoli, Museo di Capodimonte).
1 Il boudoir della regina di Napoli Lo stile rococò manifesta appieno i canoni di grazia e leggerezza che lo contraddistinguono nella progettazione degli interni dei palazzi e delle residenze reali, come il boudoir dell’appartamento privato della regina di Napoli Maria Amalia di Sassonia, originariamente realizzato per il Palazzo Reale di Portici e oggi conservato nel Museo di Capodimonte. L’ambiente, a pianta rettangolare, ha le pareti rivestite da porcellane a fondo bianco decorate con applicazioni plastiche ad altorilievo e aperte da sei grandi specchiere francesi. Il soffitto è lavorato a stucchi. Le linee curve e sinuose delle decorazioni vegetali movimentano il bianco prezioso della porcellana, in un’esplosione di decorativismo raffinato e avvolgente. La decorazione rococò perde la pesantezza e la gravità barocche e ricerca un’ornamentazione bizzarra e fantastica, in cui gli spazi domestici vengono trasfigurati dalle forme naturali. Le pareti vengono alleggerite privilegiando linee vibranti e colorate alle tradizionali e più pesanti forme classiche, aprendo gli spazi attraverso l’uso di vetrate e dilatandoli grazie all’inserimento di specchi. Uno degli aspetti più interessanti degli ambienti rococò è che la progettazione
dell’arredamento viene pensata come parte integrante dell’architettura e nel suo insieme, mettendo in relazione ogni elemento con gli altri. Questa visione interdipendente degli elementi di una stanza fa del Rococò uno dei primi esempi di approccio di design nel senso contemporaneo del termine. Al cosiddetto “Salottino” lavorarono diverse maestranze della Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte, fondata da Carlo III di Borbone. Gli altorilievi del boudoir di Maria Amalia sono un esempio di chinoiserie, cioè dell’ispirazione alla tradizione cinese che la trasformava però in un esotismo da favola. La porcellana fino al Seicento non veniva prodotta in Europa ed era un materiale estremamente prezioso, chiamato oro bianco, importato esclusivamente dalla Cina. È importante quindi contestualizzare questa appropriazione culturale, e sapere che lo stesso Carlo III che incoraggiò la produzione di ceramica locale fu anche l’iniziatore degli scavi di Pompei ed Ercolano, luoghi principe nella diffusione del gusto per l’antico e di quella ripresa dei canoni classici che porteranno proprio all’abbandono dei codici rococò.
Arte nel tempo 4
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Arte nel tempo
Il vedutismo
Nel Settecento si afferma definitivamente la veduta di città, genere resosi pittoricamente autonomo dagli studi prospettici già nel Seicento grazie alla pratica dell’olandese Gaspard van Wittel. La veduta si concentra sulla rappresentazione del contesto urbano (architetture, monumenti) in modo panoramico o di scorcio, con un approccio quasi documentaristico, che rispetta, o vuole dare l’impressione di rispettare, la visione dell’occhio in modo oggettivo. La rappresentazione delle città italiane e dei loro monumenti storici ha una particolare fortuna di mercato anche per il presentarsi come metodo di riproduzione di quei luoghi che, nel contesto della moda del Grand Tour, erano meta di studio dell’antico. Venezia e Roma sono tra le città più rappresentate dal pennello dei vedutisti i quali, spesso usando il supporto tecnologico della camera ottica, riproducono piazze dense di vita o scorci archeologici, oscillando tra la ripresa oggettiva della città e l’invenzione di capricci evocanti la nostalgia per un passato in rovina.
1 Piazza San Marco di Canaletto e Francesco Guardi Tra i maggiori vedutisti, Antonio Canal (detto Canaletto) e Francesco Guardi restituiscono due diverse visioni di Venezia, dimostrando come la pretesa oggettività delle vedute nasconde scelte interpretative ed
Antonio Canal, Piazza San Marco, olio su tela, 1724 ca. (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza).
IMMAGINE INTERATTIVA
espressive: se la Venezia di Canaletto è vitale, coinvolgente, obiettiva, quella di Guardi è malinconica, definita da un lirismo che si esprime nell’espressività delle macchie di colore.
Francesco Guardi, Piazza San Marco, olio su tela, 1760 ca. (Bergamo, Accademia Carrara).
apriccio con edifici 2 Cpalladiani di Canaletto Tra il 1756 e il 1759 Canaletto dipinge una veduta dove ricolloca liberamente una serie di edifici palladiani nella città lagunare: Capriccio con edifici palladiani è un esempio di come la pratica d’invenzione del capriccio possa sovrapporsi al codice oggettivo della veduta, rappresentando una città inesistente ma possibile. Nel dipinto Canaletto inserisce la Basilica di Vicenza, capolavoro palladiano, e dipinge il progetto mai realizzato di Palladio per il Ponte di Rialto, dando un’esistenza ottica a un progetto rimasto in potenza.
276 Settecento Scenari socio-culturali
Antonio Canal, Capriccio con edifici palladiani, olio su tela, 1759 (Parma, Galleria Nazionale).
Settecento Scenari socio-culturali L’età dell’Illuminismo
Sintesi con audiolettura
1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura
L’Illuminismo L’Illuminismo nasce in Inghilterra e si diffonde in vari paesi europei. Risulta difficile dare una definizione unitaria dell’Illuminismo in quanto: 1) assume posizioni diversificate attorno a temi-chiave (ad esempio, in esso convivono componenti razionalistiche – sicuramente dominanti – e componenti sentimentali e passionali; 2) nei diversi paesi l’Illuminismo offre differenti interpretazioni, in merito alle prerogative sociopolitico-culturali dei paesi stessi. Esistono, comunque, aspetti comuni che consentono di parlare di Illuminismo: 1) esaltazione della ragione; 2) ricerca della “felicità pubblica”; 3) orientamento antitradizionalista. Dalla visione teologica alla visione razionale-scientifica del mondo L’Illuminismo è un modello culturale laico, ma questo non significa che domini la visione ateistica. Piuttosto gli illuministi, come Voltaire, rifiutano il dogmatismo e credono in una religione naturale e razionale (deismo) in cui tutti gli uomini si possano riconoscere perché fondata su valori basilari come la tolleranza. Nel corso del Settecento in ogni campo del sapere si estende il metodo scientifico, a cominciare dall’astronomia in cui si afferma la visione copernicano-galileiana e la concezione newtoniana di un universo-macchina, soggetto a leggi precise. Gli illuministi, fondandosi sul metodo scientifico, conducono una strenua battaglia contro la superstizione. Una nuova immagine del mondo naturale e dell’uomo Anche lo studio del mondo naturale comincia a catalogare metodicamente proprietà e caratteristiche di piante e animali (Carlo Linneo). L’uomo stesso è considerato parte della natura per cui i sentimenti e i fenomeni spirituali possono derivare da cause organiche. Il tema della felicità e del progresso Nell’ambito della riflessione sulla società, temi chiave dell’Illuminismo sono la felicità, a cui ogni individuo ha diritto, e il mito del progresso: gli illuministi credono fermamente, nella loro visione ottimistica e utopistica, che nel futuro si uscirà dalle tenebre dell’ignoranza e si creerà una società più giusta. Una nuova figura di intellettuale: il philosophe Nel Settecento la figura di riferimento per la cultura europea è il philosophe francese, difensore come Voltaire della libertà di pensiero, impegnato a combattere i pregiudizi e gli anacronismi. In nome di una visione cosmopolita, i philosophes considerano i valori cardine dell’uguaglianza e della tolleranza patrimonio di ogni paese. In particolare, in Lombardia, la culla dell’Illuminismo italiano, gli intellettuali hanno un ruolo chiave nel creare le condizioni che rendono possibile la formula politica del dispotismo illuminato: infatti collaborano fattivamente in qualità di funzionari con il governo asburgico (Pietro Verri).
Nuovi luoghi per la circolazione del sapere: salotti e caffè La cultura dell’Illuminismo è caratterizzata dalla dimensione della “sociabilità”. Luoghi deputati alla circolazione e allo scambio di idee sono i salotti e i caffè, che divengono i centri principali del dibattito culturale. Accanto a questi luoghi di aperta diffusione di idee, nel Settecento ha grande importanza la massoneria, un’associazione segreta nata con fini umanitari, che accoglie le istanze illuministe volte alla difesa dell’uguaglianza.
Sintesi Settecento
277
I valori e i modelli di comportamento Anche in ambito etico l’Illuminismo adotta una prospettiva laica: la virtù tende a identificarsi con il rispetto dei diritti umani e con il contributo dato dal singolo al progresso della società. La visione dinamica della società propone nuovi modelli umani, che incarnano le qualità borghesi della razionalità e dell’intraprendenza: è il caso di Robinson, personaggio-mito, di cui Daniel Defoe narra le avventure in un libro divenuto celeberrimo (Le avventure di Robinson Crusoe). Ma non manca, accanto alla ragione, la valorizzazione della passione e del sentimento, considerate espressione dell’unicità dell’individuo come nelle Confessioni di Rousseau. La civiltà del viaggio Il Settecento è il secolo dei viaggi: continua l’esplorazione di nuove terre, che stimola un vivace dibattito sul rapporto tra civiltà e natura. Il viaggio in Europa, e in particolare in Italia (il Grand Tour), è considerato uno strumento di formazione per le classi dirigenti.
2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche
L’educazione “illuminata” L’educazione è tema centrale nell’Illuminismo, proprio perché si crede che l’ignoranza sia ostacolo alla costruzione di una società più giusta. L’educazione deve essere gestita dallo Stato e deve dare spazio soprattutto al moderno sapere scientifico. Un celebre trattato pedagogico è Emilio o dell’educazione (1762) di Rousseau. Il progetto di un nuovo sapere e l’Enciclopedia Con l’Illuminismo si modificano la gerarchia del sapere e la visione della cultura: scienza e filosofia sono in primo piano, mentre sostanzialmente è svalutata la letteratura. La sintesi e insieme l’esaltazione del sapere moderno sono affidate alla monumentale opera dell’Encyclopédie, un dizionario a dispense di 72.000 voci, progettato da Diderot e d’Alembert, in cui si valorizza il sapere scientifico e per la prima volta si danno spazio e dignità alle attività manuali. Scopo dell’opera è la ricerca della pubblica utilità. La cultura come impegno civile e battaglia ideologica La cultura illuminista è soprattutto una “cultura del dibattito” ed è improntata all’eclettismo e alla critica nei confronti del passato. Soprattutto in Francia tema principale è quello politico-istituzionale. Alla base delle posizioni assunte dai filosofi illuministi al proposito, che furono molto diversificate, sta il concetto di diritto naturale: un insieme di norme non scritte (come l’uguaglianza), che devono essere fondamento imprescindibile dei diritti positivi. Assai rilevante nella riflessione politica è stato il ruolo del trattato di Montesquieu Lo spirito delle leggi, che sostiene la necessità di una distinzione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, così da impedire forme autoritarie di potere politico. Valore fondamentale dell’Illuminismo è quello della tolleranza, che si concretizza nell’accettazione delle diverse fedi religiose.
3 Caratteri e forme della letteratura nel Settecento
Un quadro delle tendenze letterarie e culturali del Settecento Nella prima metà del Settecento, la poesia italiana è influenzata dall’Accademia dell’Arcadia, che mira a ripristinare il buon gusto e la naturalezza dopo il periodo barocco. Nel secondo Settecento, il dominio arcadico è messo in discussione da cambiamenti storici e ideologici. Le odi illuministe di Parini e il progetto del Giorno cercano nuove forme letterarie per affrontare temi attuali secondo i principi dell’Illuminismo. Nel tardo Settecento, si sviluppa un gusto preromantico, influenzato dalla poesia inglese notturna e sepolcrale, liberando la poesia italiana dalle forme classiciste. Tuttavia, contemporaneamente in Europa, si afferma il gusto neoclassico, mantenendo in Italia una continuità con la tradizione classica.
278 Settecento Scenari socio-culturali
Il teatro nel Settecento è una forma di aggregazione sociale popolare, con il melodramma e la commedia preferiti, mentre la tragedia ha scarso successo. Metastasio e Goldoni innovano il melodramma e la commedia, restituendo dignità artistica a entrambe le forme. Nel teatro tragico, alla fine del secolo, Vittorio Alfieri si distingue, riqualificando il genere con uno stile alto e tematiche che enfatizzano la dimensione tragica dell’esistenza umana, richiamandosi al modello classico. Nel Settecento, la cultura si sviluppa attraverso la diffusione dei periodici nei caffè, luoghi di scambio informale di idee. Le gazzette, inizialmente informative, si evolvono nelle gazzette letterarie, come il parigino «Journal des Savants», e si rivolgono a un pubblico più colto. I periodici diventano fondamentali per la formazione dell’opinione pubblica, svolgendo un ruolo chiave insieme a romanzi filosofici e pamphlet e dando vita al giornalismo moderno. Si configura lo stile giornalistico, ispirato dal «Tatler» e soprattutto dal londinese «Spectator» di Addison e Steel. Questo stile influisce sui giornali italiani degli anni Sessanta, come l’«Osservatore veneto» di Gaspare Gozzi, la «Frusta letteraria» di Giuseppe Baretti e «Il Caffè» di Pietro Verri, che contribuiscono a un’apertura della cultura italiana all’orizzonte europeo, in linea con gli ideali illuministi. Parallelamente al giornalismo, i pamphlet, particolarmente diffusi nella cultura illuminista francese, sono brevi testi polemici che mirano a coinvolgere i lettori e a generare un movimento d’opinione favorevole alle tesi proposte. Nel primo Settecento, si osserva un cambio nella trattatistica, passando dall’approccio umanistico a nuove forme di indagine influenzate dal razionalismo, caratterizzando la cultura anche in Italia. Nel Settecento, il romanzo diventa un genere predominante, con l’Inghilterra come sua patria ideale grazie al successo tra la nuova classe borghese. Opere come Robinson Crusoe e Pamela ritraggono situazioni comuni e celebrano le capacità individuali, guadagnando popolarità. In Francia, durante l’Illuminismo, i “romanzi filosofici” come Candide di Voltaire sfruttano la narrativa per diffondere idee filosofiche e una critica alla società. Nel Settecento italiano, l’autobiografia fiorisce attraverso una varietà di memorie personali. Verso gli anni Sessanta, le Confessioni di Rousseau introducono una narrazione fortemente soggettiva e autoanalitica. Nel Settecento, lettere e viaggi sono pilastri fondamentali per la formazione intellettuale, coinvolgendo gli intellettuali italiani in esplorazioni di nuovi luoghi e culture. Il “viaggio in Italia” nel contesto del Grand Tour, documentato nelle esperienze di Goethe alla fine del secolo, sottolinea l’importanza di esplorare nuove realtà culturali e paesaggistiche per gli intellettuali del Settecento. Estetica del sensismo, del sublime e neoclassica: tre modelli per la letteratura e l’arte del secondo Settecento Nel secondo Settecento in rapporto alle idee illuministe si diffonde una visione estetica ispirata al sensismo: per produrre piacere (e il piacere è uno dei grandi temi filosofici del tempo) l’arte deve colpire i sensi, stimolare sensazioni. Ma nel corso del secolo altrettanto rilevante è l’associazione tra arte e “sublime” (il termine deriva dal trattato greco Del sublime), identificato, nel gusto del tempo, dalla suggestione generata da grandiosi spettacoli naturali (come il mare in tempesta, le alte vette...) o da atmosfere notturne, che suscitino emozioni forti, turbamento, ma anche malinconia. Infine, negli ultimi decenni del Settecento, inizia ad affermarsi il gusto neoclassico. Nel trattato dell’archeologo Johann Joachim Winckelmann Storia dell’arte nell’antichità (1764) è elaborata una visione dell’arte greca come bellezza assoluta, armonia, equilibrio, superamento delle passioni: una visione che esercita grandissima influenza sulla letteratura e sull’arte figurativa. L’evoluzione Sintesi della Settecento lingua 4 279
4 L’evoluzione della lingua
Il problema della lingua in Italia al tempo dell’Illuminismo Nel Settecento il francese si afferma in tutta Europa, compresa l’Italia, come lingua internazionale, naturalmente per i ceti colti: questo vale non solo per la lingua scritta, ma anche per la lingua della conversazione. Il fenomeno si spiega con la leadership esercitata nel continente in questo periodo dalla cultura francese e con la consuetudine dei viaggi a Parigi da parte degli intellettuali europei. In Italia la lingua scritta, modellata, secondo le direttive cruscanti, sul toscano trecentesco dei grandi autori, era nettamente separata dalla lingua parlata. E proprio sul «Caffè» Alessandro Verri attacca la dittatura linguistica dell’Accademia della Crusca e auspica un ammodernamento in senso comunicativo della lingua, uno stile di “cose” e non di “parole”.
Zona Competenze Scrittura creativa
1. Immagina e scrivi una discussione tra un personaggio che incarni il prototipo del philosophe illuminista e un rappresentante o sostenitore dell’assolutismo monarchico. 2. Voltaire ha scelto di chiudere il suo Dizionario filosofico con la voce “Virtù”, un termine particolarmente significativo e pregnante per il sistema di valori a cui si ispirava la società illuminista. Immagina di dover aggiornare l’opera di Voltaire e scegli un lemma a cui dedicare una nuova voce del Dizionario filosofico.
Discussione orale EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
3 Scegliete una o più tematiche di studio tra quelle proposte qui di seguito e avviate una discussione in classe su caratteristiche comuni e aspetti divergenti rispetto alla realtà contemporanea. Prendete nota degli interventi e tenete traccia di eventuali documenti utilizzati durante la discussione in classe. • Il ruolo dell’intellettuale nella società • Il sistema di valori della società illuminista • La concezione del sapere • Il ruolo dello Stato • Il ruolo dell’informazione nella costituzione di una società ugualitaria
Scrittura argomentativa
4 In un breve testo espositivo-argomentativo spiega il tuo punto di vista riguardo alla difesa post mortem di Jean Calas assunta da Voltaire nel Trattato sulla tolleranza (➜ D11 ).
280 Settecento Scenari socio-culturali
Settecento CAPITOLO
6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
All’inizio del Settecento, come reazione alla ricerca dell’eccesso e della “meraviglia” che ha segnato l’epoca barocca, nasce l’esigenza di ripristinare il “buon gusto”, ispirato al modello classico. A farsene portavoce è in particolare il gruppo di intellettuali e letterati dell’Accademia dell’Arcadia. Gli arcadi aspirano a creare un mondo elegante e allo stesso tempo semplice. Alla base di questo progetto si cela la politica culturale della curia romana, volta a presentare modelli ideologicamente inoffensivi in cui le questioni sociali e intellettuali restano sostanzialmente non affrontate. Il poeta più rappresentativo del primo Settecento è Pietro Metastasio, che riforma il genere del melodramma cinquecentesco, ormai decaduto, ridando dignità letteraria al testo. Nella prima metà del secolo due voci originali e rimaste isolate nel panorama letterario dominato dall’Arcadia sono quelle di Ludovico Antonio Muratori e di Giambattista Vico.
sogno regressivo 1 Ildell’Arcadia Metastasio 2 Pietro e la riforma del melodramma
grandi voci isolate: 3 Due il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico
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Il sogno regressivo dell’Arcadia 1 “Buon gusto” e ripresa del classicismo La restaurazione del “buon gusto” All’inizio del Settecento la cultura italiana è essenzialmente segnata da una reazione agli eccessi del gusto barocco. È soprattutto l’Accademia dell’Arcadia a farsi portavoce della necessità di ripristinare il “buon gusto”, come si diceva, la naturalezza, richiamandosi nuovamente al modello classico. La nuova accademia, che susciterà in Italia un vasto consenso, è fondata nel 1690 a Roma da un gruppo di letterati (tra cui Gravina, Crescimbeni e Zappi) sotto la protezione e all’interno del circolo di poeti e intellettuali vicini a Cristina di Svezia, che si era stabilita in Italia dopo aver abdicato al trono. I principali poeti dell’Arcadia sono Giovan Battista Felice Zappi, Paolo Rolli, Carlo Innocenzo Frugoni, Ludovico Savioli. Nell’Accademia dell’Arcadia entrano anche alcune poetesse, come Faustina Maratti Zappi, moglie del poeta Zappi (Aglauro Cidonia, questo il nome in codice da lei scelto), che, oltre a comporre versi alla maniera arcadica, animano spesso salotti letterari, precorrendo un costume che diventerà determinante a partire dall’Illuminismo. l recupero del codice pastorale Già il nome scelto, Arcadia, rimanda con evidenza al classicismo: Arcadia è il titolo di un romanzo quattrocentesco, scritto da Jacopo Sannazaro, nel quale si evoca la mitica regione della Grecia e un universo metareale, cioè ideale, il cui codice è il mondo pastorale. Il modello della poesia pastorale sono le Bucoliche del poeta latino Virgilio, che a sua volta si rifà al poeta greco siracusano Teocrito. I letterati iscritti all’accademia a loro volta assumono nomi grecizzanti di pastori, il luogo delle loro riunioni (un giardino romano) è denominato Bosco Parrasio, il simbolo dell’accademia è il flauto di Pan, divinità boschereccia, in ambito poetico è utilizzato massicciamente il tradizionale repertorio mitologico e la relativa onomastica (le donne si chiamano inevitabilmente Dafne o Clori, gli uomini Tirsi, e così via). Quale significato riveste l’“operazione arcadica”? Gli arcadi intendono ricreare un mondo raffinato ma al contempo semplice, che si richiama ai valori del classicismo contro l’esasperata ricerca della “meraviglia”, propria del gusto barocco. Essi accolgono la lezione del razionalismo cartesiano che si stava diffondendo in Europa, ma ne limitano l’applicazione al campo della letteratura e in particolare della poesia: l’innovazione di cui si fanno portavoce rimane così più formale che sostanziale e non comporta certo quella revisione del sapere che in Italia si verificherà solo dopo la metà del secolo. Del resto, come è stato notato, dietro il progetto arcadico sta la politica culturale della curia romana, interessata a proporre modelli ideologicamente innocui e portatori di una parvenza più che di una sostanza innovativa. Attraverso gli scritti degli arcadi, come anche attraverso il teatro di Metastasio o la pittura di Longhi e di Guardi, viene prospettata l’immagine di una società gentile, aggraziata, dove regna il decoro e nella quale le inquietudini e le problematiche sociali e intellettuali sono tenute a debita distanza e sostanzialmente esorcizzate.
282 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
2 La poesia arcadica Ordine, grazia e musicalità La poesia a cui danno vita gli arcadi è piacevolmente leggibile e predilige ritmi semplici, strofe brevi, strutture sintattiche lineari e ordinate; è una poesia spesso melodica, in particolare nel genere metrico della canzonetta, prediletto per la sua orecchiabilità. Il tema principale, secondo la tradizione lirica, è l’amore, ma gli arcadi rifiutano programmaticamente la complessità, lo scavo psicologico propri del maestro della lirica, Petrarca. L’amore a cui dà voce la poesia arcadica è il rituale galante, sono le schermaglie della ritrosia, della civetteria un po’ leziose e svenevoli proprie della mondana ed edonistica società settecentesca, in linea con il gusto artistico del Rococò. Il severo giudizio di un illuminista Quarant’anni dopo, in un clima culturale ormai ben diverso, quando anche in Italia si erano diffusi i temi del dibattito illuminista, Giuseppe Baretti (1719-1789), nemico giurato dell’Arcadia, nel primo numero della sua rivista polemica e satirica, la «Frusta letteraria» (1763-1765), scriverà questo sarcastico giudizio sulla poesia dello Zappi: «Il Zappi poi, il mio lezioso, il mio galante, il mio inzuccheratissimo Zappi, è il poeta favorito di tutte le nobili damigelle che si fanno spose, che tutte lo leggono un mese prima e un mese dopo le nozze loro. Il nome del Zappi [...] non s’affonderà sintanto che non cessa in Italia il gusto della poesia eunuca [ovvero, fuor di metafora, impotente a esprimere idee e sentimenti veri]. Oh cari que’ suoi smascolinati [effeminati] sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini!».
Joshua Reynolds, Ritratto di Giuseppe Baretti, 1773 (Londra, National Portrait Gallery).
La moda del far versi L’accademia romana dell’Arcadia sviluppa una rete capillare di colonie, come si chiamavano, fondate in molte zone dell’Italia (per esempio a Bologna e Venezia): è il primo caso di un’associazione culturale di respiro nazionale, che contribuisce a unire, anche se attraverso un sogno sostanzialmente regressivo, i letterati italiani. Grazie all’Arcadia si diffonde enormemente in Italia, anche tra i non addetti ai lavori, il gusto di far poesia, che diventa bagaglio della cultura dell’uomo colto (del resto facevano parte dell’Accademia dell’Arcadia anche giuristi e professori). Se da un lato è positivo che il far poesia non riguardi più solo un’élite, dall’altro l’Italia sarà sommersa da un vero e proprio diluvio di versi (raramente di qualità), composti per tutte le occasioni: versi per battesimi, nozze, anniversari, versi sulle lapidi commemorative, e così via.
La poesia arcadica CARATTERISTICHE
contro gli eccessi del Barocco una lirica razionale, improntata al canone del “buon gusto”
TEMI
• l’amore come rituale elegante, senza passionalità • mondo mitico-bucolico
STILE
• lessico aggraziato • facile cantabilità e musicalità rimico-metrica (canzonetta)
Il sogno regressivo dell’Arcadia 1 283
Giambattista Felice Zappi
T1
In quell’età ch’io misurar solea Rime
G.F. Zappi, Rime [VIII], in Lirici del Settecento, a c. di B. Maier, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
Il sonetto di Giambattista Felice Zappi, uno dei fondatori dell’Accademia dell’Arcadia, può essere considerato un saggio eloquente del mondo poetico e del gusto arcadici.
In quell’età ch’io misurar solea me col mio capro, e ’l capro era maggiore1, amava io Clori2, che insin da quell’ore 4 meraviglia e non donna a me parea3. Un dì le dissi: Io t’amo: e ’l disse il core, poiché tanto la lingua non sapea4: ed ella un bacio diemmi, e mi dicea: 8 Pargoletto5, ah non sai che cosa è amore. Ella d’altri s’accese6, altri di lei; io poi giunsi a l’età ch’uom s’innamora, 11 l’età degl’infelici affanni miei. Clori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora; non si ricorda del mio amor costei; 14 io mi ricordo di quel bacio ancora.
1 In quell’età... era maggiore: l’“io” lirico allude all’età infantile (In quell’età) in cui misurando la sua altezza con un capro, risultava più basso dell’animale.
2 amava io Clori: io amavo Clori, che è
4 tanto... non sapea: la parola (lingua) non
uno dei nomi femminili ricorrenti nella poesia arcadica. 3 meraviglia... parea: la bellezza straordinaria della donna è descritta secondo gli stereotipi della tradizione stilnovisticopetrarchesca.
era in grado di osare tanto. Anche l’ineffabilità è un motivo poetico convenzionale. 5 Pargoletto: bambino. 6 s’accese: si innamorò.
Analisi del testo Un’ideale iniziazione all’amore Nel sonetto il poeta rievoca il suo primo amore, celandosi dietro la figura di un pastorello, ancora bambino all’inizio della narrazione lirica. Zappi racconta di Clori, classico nome arcadico, giovane fanciulla che, accortasi dei primi spasimi d’amore del pastore, gli regala un bacio, sottolineando al contempo la sua limitata conoscenza ed esperienza d’amore. Mentre la bella Clori non serberà ricordi dell’episodio, quel primo bacio resterà impresso nella memoria di lui come momento indelebile di un’iniziazione alle gioie e alle sofferenze d’amore. Il testo è costruito sulla contrapposizione tra il differente atteggiamento del giovane pastore e della fanciulla. Pur evocando la dialettica amorosa indagata nella poesia di Petrarca, in questo caso la rappresentazione dell’amore si limita alla dimensione di gioco elegante, privo di spessore psicologico nella descrizione sia del sentimento amoroso sia delle sofferenze che da esso derivano.
284 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. In quali età della vita dell’io lirico è ambientato il sonetto? 2. Perché Clori evidenzia l’inesperienza del pastorello? ANALISI 3. Sottolinea gli indizi nel testo che ti permettono di ricondurre il sonetto al modello ideale di componimento poetico arcadico.
Interpretare
SCRITTURA 4. In che cosa consiste il tema dell’ineffabilità toccato nel sonetto? Spiegalo in un breve testo di max 10 righe.
Jacopo Vittorelli
T2
Una lirica tardo-arcadica Anacreontiche a Irene, V
J. Vittorelli, Rime [V], in Lirici del Settecento, a c. di B. Maier, Ricciardi, Milano-Napoli 1959
Il gusto arcadico sopravvive, nonostante il modificarsi profondo del clima culturale e l’irrompere di nuove tematiche filosofiche e sociali, fino anche alla seconda metà del secolo (e oltre), come nel poeta Jacopo Vittorelli (1749-1835), autore delle Anacreontiche a Irene (1784), un piccolo “canzoniere” che incontrò al tempo grande successo.
Se vedi che germoglia ne’ più silvestri dumi1 al foco de’ tuoi lumi2 o rosa o gelsomin; 5
10
se un dolce zeffiretto3 ad incontrar ti viene e gode, o bella Irene, di sventolarti il crin4; se rinverdisce un’erba lungo il sentiero, e chiede dal tuo leggiadro piede un’orma sola in don5;
sappi6, vezzosa ninfa7, che per virtù8 d’Amore 15 quel zeffiro, quel fiore e quell’erbetta io son. La metrica Odicina anacreontica di quattro quartine di settenari, l’ultimo dei quali è tronco e il secondo rima con il terzo. Le strofe sono collegate a due a due (primaseconda e terza-quarta) dalla rima dei versi tronchi finali. 1 ne’ più silvestri dumi: nei cespugli più selvatici.
2 al foco de’ tuoi lumi: alla luce de’ tuoi occhi (qui metaforicamente assimilati alla luce e al calore del sole che fanno germogliare i fiori). 3 dolce zeffiretto: leggero venticello, lieve brezza. 4 sventolarti il crin: scompigliarti i capelli. 5 se rinverdisce... in don: se un prato (un’erba) rinverdisce e chiede come dono (in don) un’orma soltanto del tuo bel piede.
6 sappi: dopo dodici versi compare il verbo della proposizione principale. 7 vezzosa ninfa: bella ninfa. La donna amata è evocata attraverso la figura mitologica della ninfa, ricorrente nell’immaginario pastorale. 8 virtù: qui nel senso di “potere”.
Il sogno regressivo dell’Arcadia 1 285
Analisi del testo Un gioco galante L’aggettivo anacreontica rimanda al modello del poeta greco Anacreonte (ca. 570-485 a.C.): nel caso di questa canzonetta, Vittorelli deriva proprio da Anacreonte il motivo dell’innamorato che vorrebbe diventare un elemento della natura per avvicinarsi di più alla donna amata (in questo caso il fiore, il venticello, l’erbetta sfiorata dal piede della donna). Inutile cercare un significato in questa poesia che è solo un gioco leggero e galante, che invita il lettore ad abbandonarsi al ritmo cantabile dei versi. La struttura della lirica unisce in un blocco compatto attraverso l’anafora («se…») le prime tre strofe. Esse hanno la funzione di preparare, creando un clima di sospensione, lo “scioglimento-rivelazione” contenuto nell’ultima (il poeta è il fiore, il venticello, l’erbetta).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Qual è la situazione rappresentata nella canzonetta? ANALISI 2. Analizza il testo dal punto di vista tematico e formale ed evidenzia gli aspetti di reazione allo stile artificioso del Barocco e gli elementi di maggiore novità caratterizzanti la poesia arcadica del “buon gusto”. LESSICO 3. Analizza il brano dal punto di vista lessicale e indica i termini che appartengono al campo semantico della natura.
Interpretare
SCRITTURA 4. Come definiresti la rappresentazione del paesaggio naturale che traspare dal componimento di Vittorelli? Scrivi un breve testo (max 10 righe) e metti in evidenza gli aspetti caratteristici della produzione lirica arcardica, facendo opportuni riferimenti alla poesia.
online T3 Paolo Rolli
Solitario bosco ombroso Ode d’argomenti amorevoli
Peter Paul Rubens, Lattaie con bestiame in un paesaggio, 1617-1618 (Londra, Pinacoteca, Buckingham Palace).
286 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
2
Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 1 Il rinnovamento del melodramma Il richiamo al decoro formale, alla verosimiglianza, alla razionalità propri del gusto arcadico si fa sentire anche nell’opera di Metastasio (Pietro Trapassi, 1698-1782), a cui si deve la riforma del melodramma, genere misto di poesia e musica, che nel corso del Seicento aveva incontrato crescente successo.
Lessico poeta cesareo Poeta ufficiale stipendiato da una corte; nel caso specifico quella di Vienna.
Lessico recitativo Parte del testo cantata e musicata in modo essenziale in cui si narra la vicenda e in cui i personaggi dialogano tra loro.
La vita Nato a Roma nel 1698 da modesta famiglia, Pietro Trapassi in giovanissima età è preso sotto la protezione di Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), uno dei fondatori e teorici dell’Arcadia, giurista e tragediografo, che gli fornisce un’adeguata educazione e gli assegna lo pseudonimo grecizzante di Metastasio; nel 1714 diventa abate. Alla morte del maestro, Metastasio eredita un cospicuo patrimonio. A Napoli si avvicina al mondo del teatro e inizia a comporre testi per musica. Il primo melodramma, la Didone abbandonata, va in scena con successo trionfale nel 1724. È l’inizio di una carriera fortunata e di una fama crescente che nel 1730 lo porta alla corte di Vienna, dove rimarrà, nel ruolo di poeta cesareo , per il resto della sua lunga esistenza. A Vienna scrive tutti i suoi melodrammi (tra gli altri ricordiamo Olimpiade, La clemenza di Tito, musicato da Mozart, Attilio Regolo). I melodrammi di Metastasio (in tutto il poeta ne compose ventisei) furono apprezzati da grandi nomi della cultura europea del Settecento, come Voltaire e Rousseau, e musicati dai più grandi musicisti del tempo (da Mozart a Vivaldi, da Pergolesi a Cimarosa e altri ancora); il testo più celebre di Metastasio, l’Olimpiade, venne musicato addirittura da una cinquantina di compositori. Forse per il mutamento del clima culturale, aperto ormai ai grandi temi dell’illuminismo, l’ispirazione di Metastasio gradualmente si spegne. Oltre ai melodrammi è autore di testi di riflessione teorica sul teatro e di testi lirici di gusto arcadico (come la celebre canzonetta La libertà). La rivalutazione del testo Metastasio interpreta l’esigenza, diffusa tra i critici e i letterati, di ridare dignità al testo teatrale, rifondando il genere del melodramma nella direzione della verisimiglianza e della coerenza strutturale: verso la fine del Seicento, infatti, il testo letterario aveva sempre più perso importanza rispetto alla musica e agli elementi spettacolari del melodramma. Dietro il progetto metastasiano sta il classicismo razionalistico, la volontà di restaurare il buon gusto propria dell’Arcadia (della quale egli stesso faceva parte fin dal 1719). Del resto, Metastasio fu educato proprio da Gravina; ma su di lui esercitò forte influenza anche la lettura del Trattato delle passioni dell’anima (1649) del filosofo francese René Descartes. La centralità e le caratteristiche del testo Con Metastasio il testo torna a occupare un ruolo portante rispetto alle altre componenti dello spettacolo, viene ridotto il numero dei personaggi, viene dato un ordine chiaro allo svolgersi delle vicende, viene accuratamente studiata l’alternanza fra i recitativi (che rappresentano il momento
Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 2 287
Bernardo Bellotto, Palazzo di Schönbrunn dal giardino, 17581761 (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
Lessico aria Costituita di una o più brevi strofe di versi, che possono essere ripetuti più volte, è la parte effusivosentimentale del melodramma, particolarmente amata e ricordata dal pubblico. Successivamente sarà denominata anche romanza.
Lessico libretto Con questo termine è designato a partire dall’Ottocento il testo letterario in versi che viene musicato e cantato nel melodramma; poteva essere dato al pubblico perché potesse meglio seguire lo svolgimento della vicenda.
razionale-riflessivo e dinamico del dramma) e le arie (in cui l’azione si ferma e a cui è affidata l’effusione lirico-sentimentale), una delle quali si colloca sempre appena prima del cambio di scena, con una funzione di conclusione e insieme di stacco (➜ T4 OL). Soggetti ben noti al pubblico colto, per lo più tratti dalla storia greco-romana, apertura alla moderna dimensione patetico-sentimentale (la sensiblerie francese) sempre però controllata dalla lucidità razionale, rappresentazione di conflitti interiori affascinanti per il pubblico (che non si risolvono mai in tragedia, ma rimangono nell’ambito del “patetico”), lessico semplice e chiaro, seppur tratto dalla tradizione letteraria (da Petrarca a Tasso), versificazione sciolta e cantabile particolarmente nelle “arie”: sono queste le principali ragioni dello straordinario successo di Metastasio. Da Metastasio a Lorenzo da Ponte La lezione di Metastasio fu raccolta da Lorenzo da Ponte (1749-1838), anch’egli poeta alla corte di Vienna, autore dei libretti di tre dei più importanti melodrammi di Mozart: le Nozze di Figaro (1786), il Don Giovanni (1787 ➜ C12), Così fan tutte (1790). Il libretto di Da Ponte delle Nozze di Figaro per la maggior parte riprende il soggetto della fortunata commedia di Beaumarchais (1732-1799) La folle giornata ovvero Il matrimonio di Figaro (1784): un testo che già i contemporanei avvertirono come rivoluzionario per la contestazione dei diritti feudali e dei valori dell’ancien régime impersonata dal personaggio moderno di Figaro. Da Ponte trasforma il soggetto di Beaumarchais in un’opera comica moderna e di vasto respiro, che la musica di Mozart consegna alla celebrità: notissima, ad esempio, è l’aria di Cherubino (➜ T7 : «Voi che sapete / che cosa è amor», atto II, scena ii).
online T4 Pietro Metastasio
Un’aria metastasiana: È la fede degli amanti Demetrio, atto II, scena III
288 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
online T5 Carlo Goldoni Regole assurde per i compositori di melodrammi Memorie, I, XXVIII
La riforma del melodramma centralità del testo (libretto) rispetto alla musica
riduzione dei personaggi
organizzazione chiara e ordinata delle vicende Il melodramma “secondo Metastasio” bilanciamento tra recitativi e arie
intreccio verosimile
conflitti interiori in chiave patetico-sentimentale
Sguardo sulla musica Il melodramma Il “recitar cantando” aveva avuto origine verso la fine del Cinquecento, quando la Camerata de’ Bardi (un gruppo di letterati e musicisti che si riunivano nel palazzo fiorentino del conte Giovanni Bardi) progetta una forma teatrale in cui non solo il testo sia accompagnato dalla musica (come avveniva abitualmente per il dramma pastorale), ma per la maggior parte sia anche cantato da voci singole. Nasce così quello che nell’Ottocento sarà chiamato melodramma (il termine, dal greco melos e drama, significa appunto “recitazione cantata”): spettacolo originariamente destinato alle occasioni della vita di corte, esso già a metà del Seicento diventa un genere di intrattenimento di grande successo. Più che dalla qualità letteraria del testo del melodramma (che verrà in seguito definito libretto d’opera), il numeroso pubblico che frequenta i tanti teatri che nascono è però richiamato dal virtuosismo dei cantanti, dai costumi di scena, dalla spettacolarità delle scenografie e dalla suggestione complessiva dell’intreccio (in cui non mancano colpi di scena e situazioni a effetto). Il melodramma diventa così via via un genere quasi di consumo in cui il testo poetico col tempo si è sempre più
subordinato alle esigenze della musica (Muratori parla di una poesia ormai «serva della musica»), ma soprattutto al divismo capriccioso dei cantanti (in particolare delle prime donne), come ci racconta vivacemente Goldoni nelle sue Memorie (I, 28 ➜ T5 OL). Il San Carlo di Napoli, fondato nel 1737, è il più antico teatro d’opera ancora attivo.
Fissare i concetti L’Arcadia e il melodramma 1. Da quali istanze culturali e politiche nasce il progetto dell’Accademia dell’Arcadia? 2. Che cosa si intende con il concetto di codice pastorale? 3. Su quali princìpi si fonda il modello arcadico in letteratura? 4. In che modo viene rappresentato l’amore dagli arcadi? 5. A quali princìpi si ispira la riforma del melodramma promossa da Metastasio e quali sono le sue principali caratteristiche? 6. Da chi fu idealmente raccolta l’eredità di Metastasio?
Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 2 289
Pietro Metastasio
T6
Il conflitto di Enea Didone abbandonata, I, xviii (vv. 526-553)
P. Metastasio, Opere, a c. di M. Fubini, Ricciardi, Milano-Napoli 1968
Didone abbandonata, da cui è tratta la scena che conclude il primo atto, è il primo melodramma scritto da Metastasio, rappresentato a Napoli nel 1724 con grande successo. Il soggetto è tratto dall’Eneide di Virgilio, in particolare dal IV libro dedicato all’infelice amore di Enea, l’eroe esule da Troia e destinato a fondare Roma, e Didone, la regina dei cartaginesi che, per volere del fato, egli sarà costretto ad abbandonare; ne seguirà il suicidio della regina.
ENEA (solo) E soffrirò che sia sì barbara mercede premio della tua fede, anima mia1! Tanto amor, tanti doni... 530 Ah! pria ch’io t’abbandoni, pèra2 l’Italia, il mondo; resti in obblio profondo la mia fama sepolta; vada in cenere Troia un’altra volta. 535 Ah che dissi3! Alle mie amorose follie gran genitor4, perdona: io n’ho rossore5. Non fu Enea che parlò, lo disse Amore. Si parta... e l’empio moro 540 stringerà il mio tesoro6? No... ma sarà frattanto al proprio genitor spergiuro il figlio? Padre, Amor, Gelosia, numi, consiglio7!
545
Se resto sul lido, se sciolgo le vele, infido, crudele mi sento chiamar. E intanto, confuso nel dubbio funesto,
La metrica Recitativi in versi settenari ed endecasillabi. L’aria (vv. 544-553) è composta di due strofe (quattro e sei quinari; l’ultimo quinario è tronco). Lo schema è: ab(a)bc deeffc. 1 E soffrirò... anima mia: Enea si rivolge idealmente nel suo monologo all’amata Didone: e dovrò sopportare che il premio del tuo amore fedele sia una così crudele (barbara) ricompensa (mercede), anima mia. La mercede a cui Enea allude è ap-
punto il fatto di doverla abbandonare per seguire la sua missione. 2 pèra: perisca. Straziato al pensiero di abbandonare la donna amata, per un momento Enea pensa di rinunciare alla missione che lo porterà in Italia. 3 Ah che dissi: subito in Enea subentra il pentimento. 4 gran genitor: il padre di Enea, Anchise, era morto durante il viaggio da Troia. La sua ombra ammonisce Enea a seguire la sua missione.
290 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
5 io n’ho rossore: cioè me ne vergogno. 6 l’empio... tesoro: un nuovo pensiero subentra a contrastare la sofferta decisione; l’empio moro è il rivale Iarba, re dei Getuli (popolazione del Maghreb nomade). 7 Padre... consiglio: in preda al conflitto, Enea chiede aiuto al padre e agli dèi (numi), ma insieme a tutto ciò che si oppone a essi, ovvero l’amore e la gelosia che lo indurrebbero a restare.
550
non parto, non resto, ma provo il martìre8, che avrei nel partire, che avrei nel restar. (parte)
8 martìre: martirio, tormento.
Analisi del testo Il conflitto tra amore e dovere La breve scena presenta in modo esemplare alcuni degli elementi fondamentali che caratterizzano il melodramma metastasiano: innanzitutto la situazione del conflitto interiore, che ricorre assai spesso nei personaggi di Metastasio e che qui viene sintetizzata (forse anche troppo) nel dilemma «partire» / «restar» che affligge Enea. Come si è già detto, situazioni potenzialmente tragiche come quella qui rappresentata, sia per la natura dell’ispirazione di Metastasio, sia per le particolari esigenze del genere della scrittura per musica, non virano alla tragedia, ma restano nell’ambito del patetico: i personaggi metastasiani sono lontani dalla dimensione dell’eroe tragico, sono espressamente concepiti per il teatro cantato, vivono solo in funzione dello spettacolo e per il tempo in cui dura lo spettacolo. Il melodramma non è fatto per lo scavo complesso di ideologie e psicologie, ma per delineare sommariamente drammi interiori che possano attrarre l’attenzione del pubblico senza però turbarlo veramente, né richiedergli eccessiva riflessione. In questo caso il conflitto di Enea è reso esplicito, nel testo del recitativo (vv. 526-543), dall’alternativa che si impone all’eroe: seguire il volere del Fato e lasciare Didone oppure rinunciare alla sua missione per abbandonarsi all’amore. Il contrasto tra amore e dovere è ulteriormente schematizzato nell’aria (vv. 544-553) proprio per enfatizzarlo.
Lo stile È facile notare anche solo da questo breve testo la direzione che ispira le scelte stilisticolinguistiche e retoriche di Metastasio: la sintassi è molto semplificata, prevalentemente paratattica, frequenti punti interrogativi ed esclamativi suggeriscono una dimensione di turbamento emotivo. Il lessico è piano, lineare, di immediata decifrazione, lontanissimo dal gusto per le metafore tipico del Barocco. La musicalità è iscritta già nel testo, così da supportare adeguatamente l’opera del musicista: in questa direzione va ad esempio l’uso insistito della rima baciata («doni» / «abbandoni»; «mondo» / «profondo» e così via). L’aria («Se resto sul lido») è costituita da due sole strofe, rispettivamente di quattro e sei senari, tutti piani tranne gli ultimi, tronchi e in rima tra di loro («chiamar» / «restar»). Nell’esecuzione teatrale la prima strofa dell’aria andava ripetuta.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. A chi o a che cosa chiede consiglio l’eroe nella difficile decisione che deve prendere? STILE 2. Individua nella drammatica confessione di Enea le figure retoriche che contribuiscono a enfatizzare il conflitto interiore tra dovere e amore. 3. Con quali scelte stilistico-linguistiche e retoriche Metastasio rappresenta nell’aria la tensione tragica? Quali analogie e differenze puoi rilevare rispetto al recitativo? Si può affermare che nell’aria la tensione tragica sembra quasi indebolirsi?
Interpretare
SCRITTURA 4. «Da questa natura idillica poteva uscire l’elegia, non la tragedia». Commenta con parole tue e opportuni riferimenti al testo l’opinione del critico De Sanctis a proposito del carattere del teatro metastasiano. (max 10 righe)
Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 2 291
Lorenzo Da Ponte
LEGGERE LE EMOZIONI
L’aria di Cherubino
T7
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Le nozze di Figaro, atto II, scena III L’aria è uno dei più celebri momenti del melodramma di da Ponte-Mozart. Ne è protagonista il giovanissimo Cherubino, paggio nella casa del conte di Almaviva, di cui sono servitori anche Figaro e Susanna, in procinto di sposarsi (da qui il titolo del melodramma). Cherubino esprime il suo turbamento per il confuso sentimento amoroso che avverte dentro di sé: il ragazzo è ammaliato da ogni donna che vive nella casa, di fatto è innamorato dell’innamoramento, che conosce per la prima volta.
L. Da Ponte, Le nozze di Figaro, in Tre libretti per Mozart, a c. di P. Lecaldano, intr. di L. Lunari, Rizzoli, Milano 1990
online
CHERUBINO
4
Voi che sapete che cosa è amor, donne, vedete s’io l’ho nel cor.
8
Quello ch’io provo vi ridirò; è per me nuovo, capir nol so.
12
Sento un affetto pien di desir ch’ora è diletto, ch’ora è martir.
16
Gelo, e poi sento l’alma avvampar, e in un momento torno a gelar.
20
Ricerco un bene fuori di me, non so chi ’l tiene, non so cos’è.
24
Sospiro e gemo senza voler, palpito e tremo senza saper,
28
non trovo pace notte né dì: ma pur mi piace languir così.
Video
L’aria da Le nozze di Figaro su YouTube.com
292 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
32
Voi che sapete che cosa è amor, donne, vedete s’io l’ho nel cor.
Un manifesto per l'opera Le nozze di Figaro di Mozart-Da Ponte.
Analisi del testo La rivisitazione del codice della poesia amorosa L’effusione lirica dell’aria di Cherubino è incentrata sul tema dello smarrimento suscitato dall’esperienza d’amore. Un tema che appartiene di per sé alla tradizione lirica illustre della poesia italiana, in particolare alla linea che dallo stilnovismo (Dante, Cavalcanti) perviene a Petrarca. L’allocuzione iniziale («Voi che sapete / che cosa è amor»), con cui Cherubino si rivolge alle donne che hanno provato l’esperienza amorosa e ne conoscono ormai la natura, rimanda all’incipit della canzone dantesca Donne ch’avete intelletto d’amore, inserita nella Vita nova. Tema chiave della celebre aria di Cherubino è l’indeterminatezza del sentimento amoroso, che Cherubino prova per la prima volta, di cui non comprende la natura e che suscita in lui contrastanti emozioni («diletto» / «martir», gelo e fuoco), sofferenza e insieme gioia («non trovo pace… ma pur mi piace»). Ma anche le modalità specifiche con cui il tema è rappresentato nell’aria rimandano espressamente alla tradizione, che da Ponte utilizza con consapevolezza, adattandola alla particolare forma di comunicazione richiesta dal genere melodramma: viene evitato ogni riferimento di taglio filosofico o particolarmente problematico a favore della piacevolezza, valorizzata dal ritmo cantabile della canzonetta. Il testo è infatti sotto il profilo metrico appunto una canzonetta: otto strofe di quinari alternativamente piani e tronchi a rima alternata.
La scena dell’aria di Cherubino in un allestimento al Metropolitan di New York (2005).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. A chi rivolge il suo sfogo Cherubino in questa celebre aria? 2. Quali stati d’animo produce nel ragazzo l’irrompere del sentimento amoroso? ANALISI 3. Identifica i passaggi in cui Cherubino descrive una sorta di fisiologia dell’innamoramento, ovvero le reazioni fisiche e sensoriali che il sentimento amoroso provoca in lui. 4. Ripetizioni, riprese, parallelismi: nell’aria di Cherubino sono numerosi gli artifici formali a cui Da Ponte fa ricorso. Individuali e spiega a tuo avviso qual è la loro funzione.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
ESPOSIZIONE ORALE 5. Il “palpitare” di Cherubino («palpito e tremo / senza saper», vv. 23-24) «accompagna una ricerca amorosa continua, che non si fissa in nessun oggetto definito, ma che si svolge in un inquieto oscillare, in un leggerissimo e turbato aprirsi alla verità del mondo» (Ferroni). Questo atteggiamento rispetto all’oggetto amoroso rappresenta una novità rispetto alla tradizione lirica che conosci: in che senso? Spiegalo in un breve intervento (max 5 minuti). SCRITTURA 6. Nell’aria di Da Ponte il paggio Cherubino si rivolge alle donne che hanno maggiore esperienza di lui in materia amorosa affinché lo aiutino a mettere in ordine i suoi pensieri e a fare chiarezza sulla grande novità che per lui è l’amore, o meglio, il sentimento di innamoramento. Credi che fare ricorso all’esperienza altrui possa davvero essere utile per indagare la propria oppure ciascuna esperienza è strettamente soggettiva? Se secondo te esistono, quali sono i limiti della condivisione del proprio vissuto e di quello degli altri?
Pietro Metastasio e la riforma del melodramma 2 293
3
Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 1 Muratori: l’erudizione al servizio di un nuovo sapere
La fiaccola della verità illumina la ricerca della storia del passato, incisione dell’antiporta (pagina figurata che precede il frontespizio) di un’edizione delle Antiquitates Italicae Medii Aevi di Muratori.
Nei primi decenni del Settecento, se il complesso della cultura e della letteratura italiana risultano dominate dall’Arcadia, non mancano figure di rilievo che con l’originalità del loro contributo movimentano il panorama letterario, anche se per ora rimangono di fatto isolate o addirittura incomprese. Una di queste è senz’altro il modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), che impiega la maggior parte della sua esistenza in una rigorosa ricerca in ambito storiografico, sostenuta da una sterminata erudizione, mai pedante e fine a sé stessa, ma sempre animata da curiosità intellettuale. Dopo aver studiato presso i gesuiti, Muratori viene ordinato sacerdote. Nel 1695 è chiamato a operare come bibliotecario nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, dove inizia la sua esplorazione di fonti e documenti storici. Nel 1700 rientra a Modena come archivista e bibliotecario di corte. A Modena rimane fino alla morte (1750). In campo storiografico Muratori fa sua una visione moderna della ricerca storica, polemicamente contrapposta alla prospettiva teologico-provvidenziale e concepita come investigazione rigorosa delle cause e degli effetti. Il suo capolavoro, di grande importanza storica, sono i 24 libri dei Rerum italicarum scriptores (Scrittori di vicende italiane), pubblicati dal 1723 al 1738, una monumentale raccolta, frutto di una sterminata erudizione, delle fonti e documenti della storia d’Italia dal VI al XVI secolo, ispirata a un attento vaglio razionale. Dal 1744 al 1749 Muratori organizza i materiali precedentemente raccolti secondo un ordinamento annalistico: negli Annali d’Italia (scritti in italiano) viene tracciato un profilo della storia d’Italia fino al 1500. Ma l’interesse di Muratori spazia anche oltre la storiografia: è autore di molti altri scritti che già prospettano i temi che saranno cari al dibattito illuminista, come ad esempio il pamphlet sui Difetti della giurisprudenza (1742), tema poi assunto al centro del celebre trattato Dei delitti e delle pene (1764) da Cesare Beccaria, o ancora Della pubblica felicità (1749), in cui avanza proposte ispirate al razionalismo e a un moderato riformismo in ambito economico, giuridico, socioculturale. Muratori anticipa lo spirito dell’Illuminismo per più di un aspetto: in campo religioso è fautore di una religiosità intima e personale, libera da superstiziose credenze, in campo eticopolitico è contrario a ogni forma di autoritarismo e sopraffazione, in campo letterario condanna gli imitatori pedestri e i «versaioli», esalta una letteratura capace di «illuminare la
294 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
verità» e prospetta un’apertura delle accademie al moderno sapere scientifico. In due scritti dei primi anni del Settecento (Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia e Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti) Muratori constata la decadenza della cultura italiana, esprimendo un giudizio non positivo anche sull’Arcadia, di cui pure era membro. Anche nel suo modo di scrivere Muratori testimonia una posizione moderna: ripudia infatti le forme pompose dell’eloquenza barocca e al contempo quelle del classicismo più retorico.
Rerum italicarum scriptores Genere
raccolta di fonti e documenti della storia d’Italia dal VI al XVI secolo
Pubblicazione
tra il 1723 e il 1738
Struttura
24 libri
2 Vico e la Scienza nuova Per ragioni molto diverse spicca nel panorama della cultura della prima metà del Settecento la figura del napoletano Giambattista Vico (1688-1744) che, per l’originalità delle sue posizioni, antitetiche a quelle razionaliste dominanti negli ambienti intellettuali del primo Settecento, rimase isolata e sostanzialmente incompresa. Per contro le sue posizioni teoriche e i suoi giudizi in campo storico ed estetico appaiono oggi anticipare per più di un aspetto lo storicismo romantico e la visione romantica dell’arte. Perciò, non a caso il pensiero di Vico avrà un ruolo assai importante nella formazione e nell’opera di Foscolo, Leopardi e Manzoni e favorirà la penetrazione della poetica romantica in Italia. Una vita nell’isolamento, votata alla filosofia Nato a Napoli nel 1668 da una famiglia modesta, dopo studi irregolari, Giambattista Vico diventa istitutore in un’importante famiglia. Alla fine del secolo riesce a ottenere una cattedra di eloquenza all’università ed entra in contatto con gli ambienti intellettuali, ma le sue idee sono antitetiche al razionalismo che andava diffondendosi. Il progetto della Scienza nuova, l’opera a cui affida il suo pensiero e a cui deve la sua fama, nasce e si sviluppa in un isolamento personale e culturale quasi completo. Pubblicato a sue spese nel 1725, il trattato lo assorbirà per il resto della sua vita. Di esso scrive infatti una seconda e infine una terza redazione in cinque libri (pubblicata postuma nel 1744,
Frontespizio della seconda edizione della Scienza nuova, 1744. La metafisica, ritratta come una donna posta su una sfera (che richiama il globo terrestre), riceve luce dalla divina provvidenza e la rifrange a illuminare il mondo degli uomini.
Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 3 295
pochi mesi dopo la morte). Vico fu anche autore di una importante Autobiografia (1728), in cui il filosofo tratteggia la sua vocazione alla ricerca filosofica e la sua inclinazione alla solitudine, anche per l’incomprensione di cui fu vittima nella sua esistenza molto travagliata. La Scienza nuova La Scienza nuova è un trattato filosofico che intende rifondare la visione della storia, illustrando i princìpi fondamentali che, secondo Vico, ne governano lo sviluppo. L’unica scienza possibile è la storia Alla base delle concezioni vichiane è la concezione della storia come «nuova scienza», l’unico campo del sapere che l’uomo può veramente conoscere, essendone l’autore, e su cui può intervenire. Anche in nome di un rigido cattolicesimo, Vico rifiuta invece il sapere scientifico di derivazione galileiana: è impossibile per l’uomo raggiungere una vera scienza della natura, che è opera di Dio e che da lui solo può essere conosciuta. Nel primo dei cinque libri che compongono l’opera, Vico delinea il campo della sua indagine e ne fissa il metodo. Nella prima parte del libro Vico espone anche i centoquattordici assiomi da lui chiamati «degnità»: una serie di “certezze” indiscutibili su cui egli fonda l’intera sua opera, che ben testimoniano il carattere asistematico del suo pensiero. Il metodo vichiano Vico intende l’indagine storica non come raccolta erudita di dati, ma come interpretazione, all’interno di specifiche categorie, del divenire umano. Nella sua grandiosa ricostruzione della storia umana, Vico fonde le prerogative e le competenze della filologia e della filosofia. La prima accerta scrupolosamente le realtà di fatto (“il certo”) attraverso l’indagine dei documenti della tradizione: lingue, leggi, costumi ecc. All’interno dei dati “certi” il filosofo raggiunge per via razionale la coscienza del “vero”. In una delle sue degnità, Vico sottolinea che filologia e filosofia vanno integrate, mentre in passato hanno errato «così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi, come i filologi che non curarono d’avverare le loro autorità con la ragion de’ filosofi» (Degnità X).
Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501 circa (Firenze, Galleria Palatina).
296 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
Le tre età della storia Nella storia dell’umanità egli vede uno schema evolutivo, non dato una volta per tutte, ma destinato a ripetersi ciclicamente, anche se non in modo uguale (i cosiddetti “ricorsi storici”): l’età degli dèi, l’età degli eroi, l’età degli uomini. A ogni fase della storia corrisponde una forma di lingua, di governo, di diritto ecc. Nella prima fase, un’umanità ancora ferina, primitiva, dominata dalla dimensione istintuale, dai sensi, scopre la dimensione del divino nella potenza dei fenomeni naturali; nella seconda fase l’umanità, dominata dalle emozioni e dalla fantasia, conosce il mondo attraverso la poesia e le favole mitologiche; nella terza approda alla civiltà, caratterizzata dalla predominanza della ragione e dalla nascita del pensiero filosofico e scientifico. Una grande civiltà, tuttavia, può entrare in crisi e si verifica così il ritorno a uno stato di barbarie, a costumi primitivi. Nella concezione di Vico, ai tre stadi dello sviluppo storico corrispondono le fasi di sviluppo della stessa vita umana: l’infanzia (in cui dominano i sensi), la fanciullezza (in cui dominano le passioni e la fantasia e ci si avvale di rappresentazioni mitiche) e la maturità (in cui domina la ragione e la ricerca della verità). La concezione della poesia Nel secondo libro, intitolato Della sapienza poetica, che costituisce da solo quasi metà dell’opera, Vico espone la sua concezione della poesia. La poesia per Vico è una forma di conoscenza, intuitiva, prelogica, che trova dunque espressione in particolare nella seconda fase dello sviluppo storico, quella eroica, considerata dal filosofo la fase propriamente “poetica” del cammino storico. La grande poesia, per Vico, è comunque sempre costituzionalmente lontana dalla ragione e dalla filosofia: su queste basi il filosofo napoletano fonda di fatto una nuova prospettiva estetica che sarà compresa e assimilata solo decenni dopo, secondo la quale la poesia è legata all’irrazionalità, alle passioni, alla fantasia, alla sensibilità, alla capacità di stupirsi, non è attività intellettuale. Un’analoga visione è ben riconoscibile nelle prime riflessioni di Leopardi sulla natura della poesia. L’interpretazione di Omero e Dante Sulla base delle sue intuizioni, Vico interpreta la poesia di Omero (ed è una prospettiva completamente diversa da quella assodata al suo tempo) non come opera di un singolo poeta, ma come espressione della fantasia mitopoietica di un intero popolo, come frutto di una spontanea creazione collettiva non soggetta a regole (➜ T8 OL). Nella stessa prospettiva, in un’epoca come il primo Settecento che sentiva la poesia dantesca come lontana e sostanzialmente estranea, Vico rivaluta la grandezza poetica della Commedia, che interpreta però come espressione di una potente fantasia creatrice di immagini, mettendo invece in secondo piano, e sostanzialmente svalutando, le componenti filosofiche e teologiche dell’opera (come in seguito farà la critica romantica). Lo stile Si è parlato spesso in passato di oscurità per lo stile di Vico. Certo quella della Scienza nuova è una prosa complessa, immaginosa, che ha tratti barocchi nel sovraccarico di particolari e che si fonda assai spesso su costrutti latineggianti. Ma è sicuramente una prosa originale nel panorama del primo Settecento, frutto di un’ardente passione intellettuale, che conferisce alla pagina del filosofo napoletano tratti di enfasi quasi profetica.
online T8 Giambattista Vico
Ma Omero è esistito veramente? La Scienza nuova, III, I
Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 3 297
Le tre età della storia per Vico TEORIA DEI “CORSI E RICORSI STORICI”
la storia dell’umanità si svolge ciclicamente secondo uno schema evolutivo
le tre età attraverso cui sono destinate a passare le nazioni
le tre età di sviluppo della vita umana
Prima età
età primitiva e divina
dominio dei sensi
infanzia
Seconda età
età poetica ed eroica
dominio della facoltà immaginativa
fanciullezza
Terza età
età civile e veramente umana
dominio della ragione e ricerca del vero
età adulta
Giambattista Vico
Alcune «degnità» vichiane
T9
La Scienza nuova, Elementi XXXV-XXXVII, l, liii Riportiamo alcuni esempi di quelle che Vico chiama «degnità», ovvero «cose degne di essere fissate dalla memoria», raccolte negli Elementi con cui si apre la Scienza nuova. Si tratta di centoquattordici postulati di immediata evidenza, partendo dai quali, secondo un metodo rigorosamente deduttivo, Vico si propone di fondare la «nuova scienza». Le «degnità» qui selezionate sono tra quelle che si riferiscono alla concezione vichiana della poesia per la quale il pensatore napoletano è considerato un precursore delle concezioni romantiche.
G.B. Vico, La Scienza nuova [secondo l’edizione del 1744], a c. di P. Rossi, Rizzoli, Milano 1963
XXXV La maraviglia è figliuola dell’ignoranza1; e quanto l’effetto ammirato è più grande, tanto più a proporzione cresce la maraviglia. XXXVI La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio2. 5
XXXVII Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione3, ed è propietà4 de’ fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica5 ne appruova6 che gli uomini del mondo fanciullo7, per natura, furono sublimi poeti.
1 La maraviglia... ignoranza: la capacità di provare stupore deriva dall’ignoranza. 2 La fantasia... il raziocinio: Vico istituisce un rapporto inversamente proporzionale tra la fantasia e la razionalità. 3 Il più sublime… senso e passione: il più alto compito della poesia è attribuire capacità di sentire e di provare sentimenti
alle cose inanimate, prive di sensibilità. 4 propietà: prerogativa. 5 Questa degnità filologico-filosofica: per Vico la conoscenza della storia umana che egli cerca di realizzare nella Scienza nuova deve assommare le prerogative della filologia e della filosofia, come appunto si può rilevare già dai fondamenti
298 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
dell’opera che sono delineati nelle degnità. 6 ne appruova: ci testimonia. 7 mondo fanciullo: secondo la concezione di Vico, all’età della fanciullezza corrisponde nel corso della storia un’età ingenua, in cui dominano le passioni, la fantasia, la poesia (l’età che egli denomina degli eroi).
L Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivida all’eccesso8 la fantasia, 10 ch’altro non è che memoria o dilatata o composta9. Questa degnità è ’l principio dell’evidenza dell’immagini poetiche che dovette formare il primo mondo fanciullo. LIII Gli uomini prima sentono senz’avvertire10, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso11, finalmente12 riflettono con mente pura13. 15 Questa degnità è il principio delle sentenze14 poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini: onde queste15 più s’appressano al vero quanto più s’innalzano agli universali16, e quelle sono più certe quanto più s’appropiano a’ particolari17. 8 all’eccesso: al massimo grado. 9 composta: frutto della composizione di elementi, sensazioni, impressioni, depositati nella memoria. 10 sentono senz’avvertire: provano sensazioni senza avvertirle.
11 con animo perturbato e commosso: con turbamento e partecipazione emotiva. 12 finalmente: alla fine. 13 mente pura: distacco razionale. 14 sentenze: espressioni. 15 onde queste: per cui queste (ovvero le
espressioni filosofiche). 16 più s’appressano... agli universali: si avvicinano alla verità innalzandosi ai concetti astratti. 17 s’appropiano a’ particolari: si appropriano, s’impadroniscono dei particolari.
Analisi del testo Il concetto di «degnità» Anche dai limitati esempi qui proposti si comprende la natura dei princìpi fondamentali che Vico prepone alla sua trattazione. Vico sceglie di usare frasi brevi, di carattere sentenzioso, a cui attribuisce valore di indiscutibile verità e che il lettore dovrà tenere presenti per seguire le argomentazioni del filosofo nel corso della sua opera. Si tratta di asserzioni incisive, destinate a imprimersi nella mente del lettore.
L’identificazione fanciullezza/poesia Tra le varie «degnità» qui riportate, sono significative quelle riferite a una concezione della poesia sicuramente innovativa al tempo di Vico: la vera poesia, quella sublime, ha a che fare con la dimensione fantastico-immaginativa, non diversa da quella propria dei bambini, che dà vita, grazie appunto alla fantasia, alle cose inanimate. Ma la poesia si nutre anche di passioni e di affetti e ben poco di raziocinio. È evidente l’influsso che le idee vichiane esercitarono sulle prime fasi della poetica leopardiana.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Riscrivi in italiano corrente la Degnità XXXVII. SINTESI 2. Sintetizza il procedimento logico-deduttivo che nella Degnità XXXVII porta ad asserire la naturale disposizione poetica del “mondo fanciullo”. 3. Sintetizza in un breve testo (max 5 righe) la concezione vichiana della poesia per la quale il pensatore napoletano è considerato un precursore delle concezioni romantiche.
Interpretare
SCRITTURA 4. Una delle più celebri «degnità» è la LIII, relativa alle fasi dello sviluppo umano e alla distinzione tra filosofia e poesia. Scrivi un commento al testo (max 20 righe).
Fissare i concetti Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 1. Quali aspetti caratterizzano l’opera storiografica di Muratori? 2. Per quale motivo, secondo Vico, l’unica scienza possibile è la storia?
Due grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre-Romanticismo di Vico 3 299
Settecento Letteratura e cultura nel primo Settecento
Sintesi con audiolettura
1 Il sogno regressivo dell’Arcadia
“Buon gusto” e ripresa del classicismo Nella prima metà del Settecento la cultura italiana è dominata dall’influenza dell’Arcadia, un’accademia che da Roma si diffonde in varie zone dell’Italia. L’Arcadia intende ripristinare nella letteratura (in particolare nella lirica) il “buon gusto”, la razionalità, contro gli eccessi del Barocco. Di fatto questa esigenza si traduce in una riproposta del classicismo, e, in particolare, del codice pastorale (cui si richiama il nome stesso) nelle situazioni e nei personaggi evocati. La poesia arcadica La poesia arcadica rinuncia programmaticamente a trattare temi impegnati, prediligendo l’amore, depurato però dagli aspetti più passionali e ridotto spesso a rituale galante, a un insieme di leziose schermaglie tra innamorati. Per la ricerca della musicalità che la contraddistingue, la lirica arcadica predilige il genere metrico della canzonetta.
300 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
2 Pietro Metastasio e la riforma del melodramma
Il rinnovamento del melodramma La figura più rappresentativa della letteratura nella prima metà del secolo è Pietro Metastasio (1698-1782): a lui si deve la riforma del melodramma, un genere teatrale nato nel Cinquecento, in cui il testo era accompagnato da musica e canto (dal greco melos, “canto”, e drama, “recitazione”). Nel tempo il testo aveva perso sempre più importanza rispetto alla musica: Metastasio ripristina la qualità letteraria del testo e restituisce verosimiglianza all’intreccio attraverso il razionale succedersi delle scene, secondo la ricerca di armonia e razionalità propria della poetica arcadica. Tipico del suo teatro è il tema del conflitto interiore, che però non si risolve mai in tragedia, rimanendo entro i confini della dimensione patetico-sentimentale, congeniale al gusto del primo Settecento. I melodrammi più noti di Metastasio sono Didone abbandonata, Olimpiade, La clemenza di Tito (musicato da Mozart). La lezione di Metastasio fu raccolta da Lorenzo da Ponte (1749-1838), autore dei libretti di tre delle più importanti opere di Mozart: Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte.
grandi voci isolate: il pre-Illuminismo di Muratori e il pre3 Due Romanticismo di Vico Muratori: l’erudizione al servizio di un nuovo sapere Nei primi decenni del Settecento Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) offre una testimonianza di grande rigore nell’ambito della ricerca storiografica, fondata su una attenta investigazione delle cause e degli effetti, e contrapposta a un’interpretazione della storia in chiave teologico-provvidenziale. Gli studi di Muratori confluirono nella monumentale opera Rerum italicarum scriptores, pubblicata in 24 libri tra il 1723 e il 1738, una raccolta di fonti e documenti della storia d’Italia dal V al XVI secolo. Muratori anticipa lo spirito dell’Illuminismo in più campi; in particolare, in ambito letterario, rifiuta le forme pompose del Barocco ed esalta una letteratura che sia in grado di “illuminare la verità”. Vico e la Scienza nuova Nella prima metà del Settecento spicca per l’originalità del suo pensiero Giambattista Vico (1668 1744), figura isolata incompresa nel suo tempo: in un’epoca di diffuso razionalismo, Vico assume una posizione del tutto originale e certo controcorrente.
Sintesi Settecento
301
In compenso anticipa alcuni aspetti della visione romantica, non a caso echi del pensiero vichiano si ritrovano in Foscolo, Leopardi e anche in Manzoni. Nel suo trattato Scienza nuova (prima edizione 1725, terza e definitiva 1744), Vico interpreta la storia, oggetto della sua speculazione filosofica, secondo uno schema evolutivo destinato a ripetersi ciclicamente nel tempo (i cosiddetti “ricorsi storici”): nella prima fase dominano i sensi, nella seconda la fantasia e le passioni, nella terza la ragione. Per Vico la poesia appartiene elettivamente alla seconda fase (a cui corrisponde nella vita umana la fanciullezza), ha a che fare con le passioni, la fantasia immaginativa, e non con la ragione.
Zona Competenze Esposizione orale
1. Prepara la scaletta di un intervento orale di circa 5 minuti sul confronto tra produzione lirica barocca e arcadica. 2. Esponi oralmente gli aspetti e le ragioni che fecero di Giambattista Vico un intellettuale isolato rispetto alla cultura del suo tempo e al contesto in cui operò (max 5 minuti).
Scrittura creativa
2. Dopo aver letto il testo Regole assurde per i compositori di melodrammi (➜ T5 OL), immagina di essere Metastasio e di dover rispondere alle accuse mosse da Carlo Goldoni in un breve testo scritto.
Discussione orale
3. L’Accademia dell’Arcadia fu un progetto culturale promosso dalla curia romana per gestire in modo controllato le istanze di rinnovamento e di razionalismo di ispirazione cartesiana, che si stavano diffondendo nelle società europee e che iniziavano a essere recepite anche in Italia. Trovi delle analogie con altri fenomeni culturali (ma non solo) più recenti? Rifletti ed elabora un tuo punto di vista personale sul tema e poi confrontati in classe con compagne e compagni e con l’insegnante.
302 Settecento 6 Letteratura e cultura nel primo Settecento
Settecento CAPITOLO
7 La svolta illuminista in Italia
Nella seconda metà del Settecento si avvia una profonda trasformazione della cultura italiana, in rapporto alle idee illuministe e alla politica di riforme intrapresa in particolare nel regno di Napoli e in Lombardia. A Milano nasce la rivista «Il Caffè», che auspica una cultura più aperta alla modernità e si batte per una lingua antiaccademica. Il saggio Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, incentrato sul diritto penale, è forse il frutto più significativo dell’Illuminismo italiano. Lo scritto di Beccaria, tradotto in varie lingue e lodato anche da Voltaire, ebbe un’immediata diffusione europea, contribuendo in modo rilevante alla riflessione sulla riforma del diritto penale. Le osservazioni di Beccaria si fondano su un principio fondamentale, a quei tempi non certo acquisito: sulla base della visione razionalistica e laica propria dell’Illuminismo, Beccaria distingue nettamente il reato, considerato una infrazione del patto sociale, dalla colpa, con la conseguente necessaria distinzione nei processi tra sfera religiosa e giustizia, cui sola compete il giudizio sui reati.
generali 1 Caratteri dell’Illuminismo italiano più celebre 2 L’opera dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria
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Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 1 Un Illuminismo riformista e moderato
Lessico riformismo Orientamento politico, opposto al conservatorismo, che promuove l’attuazione di organiche, ma graduali riforme per modificare l’ordinamento politico e sociale esistente.
Solo dopo la metà del secolo si verifica anche in Italia una vera e propria svolta che allinea la cultura italiana a quella europea, per lo meno in alcune aree geografiche (come la Lombardia e il Regno di Napoli). La relativa stabilità politica seguita alla seconda pace di Aquisgrana (1748) favorisce infatti nel nostro paese un nuovo clima politico-culturale che trova la sua piena manifestazione nell’adesione della maggior parte degli intellettuali, in particolare nei due stati sopra nominati, ai princìpi dell’Illuminismo. La prospettiva secondo cui gli illuministi italiani interpretano tali princìpi è però molto differente da quella inglese e francese: da un lato, la presenza della Chiesa, dall’altro la piena disponibilità dei sovrani, sia nella Lombardia di Maria Teresa d’Asburgo sia nella Napoli di Carlo III di Borbone, ad avviare una politica di riforme in stretta collaborazione con gli intellettuali, smorza in genere le punte più radicali del discorso ideologico dei philosophes relative all’ambito religioso e politico. L’Illuminismo italiano ha dunque caratteri prettamente riformistici : gli intellettuali di maggior rilevanza, appartenenti a un’ala progressista e aperta dell’aristocrazia, come sono a Milano i fratelli Alessandro e Pietro Verri e Cesare Beccaria, collaborano attivamente con i governi e divengono funzionari dello Stato, contribuendo così alla realizzazione concreta della formula politica del “dispotismo illuminato”. Più che avventurarsi nel campo della speculazione filosofica, gli illuministi italiani si battono perché i principali temi del dibattito ideologico del tempo promuovano uno svecchiamento delle istituzioni giuridiche e delle strutture economiche: grazie ad essi il sogno di Voltaire che i lumi della ragione potessero ispirare i sovrani sembrava realizzarsi. Il centro principale dell’Illuminismo italiano è Milano, il capoluogo della Lombardia, stato che, grazie ad amministratori intelligenti come il ministro plenipotenziario Karl G. von Firmian, governatore generale austriaco, stava conoscendo un notevole risveglio economico e sociale dopo la grave crisi socio-politica e il ristagno economico che l’occupazione spagnola aveva lasciato come pesante eredità. L’Illuminismo napoletano L’altra area in cui si espresse in Italia la cultura illuministica fu il Regno di Napoli, dove però le prospettive di riforma non riuscirono veramente a incidere sulla società, annullando i privilegi feudali e il radicato potere baronale. Questa oggettiva difficoltà, legata alla specificità della situazione sociale del Regno di Napoli, in cui era ancora inimmaginabile il costituirsi di una moderna classe borghese, orienta il dibattito illuminista soprattutto verso i temi giuridici e in particolare la difesa dei diritti dello stato contro le pretese della Chiesa, tema già appassionatamente dibattuto da Pietro Giannone nella sua Istoria civile del Regno di Napoli (1723), dove si anticipa l’orientamento che il dibattito illuminista assumerà in quest’area d’Italia. Opera di capitale importanza in tal senso è la Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri (1752-1788), pubblicata nel 1780, nella quale si sostiene la necessità di una riforma in senso antifeudale della legislazione; inoltre, vi
304 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia
è sostenuta la necessità dell’istruzione pubblica (➜ D8a OL PAG. 248). Nel 1754 a Napoli viene istituita la cattedra di economia politica, la prima in tutta Europa, affidata al caposcuola dell’Illuminismo napoletano Antonio Genovesi (1713-1769). Genovesi sceglie di tenere le sue lezioni in italiano, contro la consuetudine dell’uso del latino nelle lezioni universitarie. Dalle sue lezioni egli trae poi le Lezioni di commercio (1765-1767), in cui attacca il ruolo parassitario e dannoso per il progresso economico e sociale del clero e del ceto dei nobili proprietari dei grandi feudi. L’Illuminismo milanese e la Società dei Pugni A Milano il rinnovamento culturale è affidato prima all’Accademia dei Trasformati (di cui era membro anche Giuseppe Parini), e poi, in modo ben più incisivo e significativo, alla Società dei Pugni, un gruppo di intellettuali costituito nel 1761 dal conte Pietro Verri (1728-1797). Il nome, che finì per identificare il gruppo, ne fa intuire lo spirito: i giovani intellettuali di famiglia aristocratica che ne fanno parte si richiamano alle posizioni espresse dagli enciclopedisti e assumono un atteggiamento ideologico libero e battagliero, che non mancherà di suscitare critiche sprezzanti negli ambienti dell’aristocrazia lombarda da cui essi provenivano: Pietro Verri e il fratello Alessandro (1741-1816) erano duramente criticati anche dal loro stesso padre Gabriele, autorevole rappresentante dell’aristocrazia milanese di idee rigidamente conservatrici.
Una riunione della Società dei Pugni nel dipinto di un anonimo milanese. Sono ritratti, da sinistra, Alfonso Longo, Alessandro Verri, Giovanni Battista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto.
«Il Caffè» Tre anni dopo l’istituzione della Società dei Pugni, Pietro Verri fonda – sul modello dello «Spectator», il giornale londinese di Joseph Addison e Richard Steele nato nel 1711 – la rivista «Il Caffè», che sarà portavoce del gruppo (autori della maggior parte degli articoli sono infatti le stesse persone che ne fanno parte). Del giornale londinese «Il Caffè» riprende l’eclettismo degli interessi, alternando argomenti più impegnativi ad altri apparentemente leggeri, ma in realtà considerati dagli autori ugualmente importanti per una moderna evoluzione della mentalità e del costume, come ad esempio la necessità di superare, in nome di una moderna sociabilità, il culto affettato e formale delle “buone maniere” (➜ T2 OL) Nonostante la sua breve vita (durò due soli anni, dal 1764 al 1766), «Il Caffè» esercitò una grande funzione di stimolo: nel periodico si possono ritrovare le posizioni più significative dell’Illuminismo lombardo, ed è dalle riflessioni e discussioni tra i membri del «Caffè» che nascerà l’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (➜ PAG. 310). L’introduzione, firmata da Pietro Verri, leader indiscusso del gruppo, costituisce il manifesto del nuovo spirito che anima il giornale (➜ T1 ) a cominciare dalla scelta di immaginare un caffè – nuovo centro di aggregazione, assieme ai salotti, ma ancor più informale – come cornice da cui traggono origine gli articoli. La battaglia per una nuova cultura «Il Caffè» esprime in modo quasi programmatico le posizioni più generali e gli obiettivi polemici dell’Illuminismo italiano: la battaglia per un’apertura della cultura italiana ai modelli di pensiero europei, il che comporta l’assunzione di uno spirito laico e di un’ottica critica nell’analisi dei fenomeni socio-economici e dei comportamenti individuali e collettivi. Il gruppo
Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 1 305
del «Caffè» (i fratelli Verri, Cesare Beccaria, Paolo Frisi, Alfonso Longo, Luigi Lambertenghi e pochi altri) conduce in particolare una corrosiva e coraggiosa battaglia contro la pedanteria, il formalismo che inficiano la cultura e la letteratura italiane, contro l’ossequio acritico ai modelli. In questa prospettiva si iscrive anche l’attacco deciso contro una visione formalistica della lingua, subordinata alla logica del bello più che a obiettivi di razionale comunicazione delle idee (➜ D13 PAG. 270): «Cose, non parole» è, appunto, il motto del «Caffè». Non si ritrovano invece nella rivista italiana gli spunti egualitari, né le istanze più radicalmente polemiche in campo religioso che ricorrono nell’Illuminismo francese, e la cosa non stupisce: i Verri non sono i philosophes, il loro obiettivo non è l’attacco frontale a forme e istituzioni, ma piuttosto la formazione di una classe dirigente moderna e illuminata che, occupando i posti chiave della pubblica amministrazione, possa a sua volta illuminare i governanti. Pietro Verri stesso ricoprì per l’amministrazione asburgica importanti incarichi e scrisse articoli, saggi e relazioni su aspetti economici (Meditazioni sull’economia politica, 1771), etici (Osservazioni sulla tortura, 1777) ed estetici (Discorso sull’indole del piacere e del dolore, 1773). Coerentemente alla polemica condotta in campo linguistico-stilistico, lo stile impiegato dal «Caffè» è vivace e spigliato, senza assumere però mai i toni sferzanti e aggressivi della «Frusta letteraria» di Baretti, altro agguerrito periodico del tempo.
Illuminismo italiano moderato e riformista, appoggiato dagli intellettuali progressisti (Milano, Napoli in particolare)
per una cultura aperta e moderna
ambiti particolari: • legislazione politica • economia politica • diritto • linguistica
IMMAGINE INTERATTIVA
Jean-Étienne Liotard, Ritratto di Lord John Mount Stuart, 1763. Per ricordare il Grand Tour in Europa del figlio, il padre, Lord Bute, commissionò questo suo ritratto a Liotard, uno dei più famosi artisti del Settecento, legato al mondo dell’aristocrazia e alla società cosmopolita. Il giovane vi è raffigurato in una posa insieme disinvolta ed elegante, in apparente naturalezza, duplicato dal riflesso del profilo e del busto nello specchio alle sue spalle. La maestria di Liotard nei ritratti a pastello su pergamena, cui riesce a conferire morbidezza e luminosità, si esalta nella tonalità dominante dell’abito del gentiluomo e nei colori e decori di gusto rococò dell’arredamento della sala del camino, con tracce della moda orientalista nel paravento cinese in secondo piano.
306 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia
Pietro Verri
T1
«Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa…» «Il Caffè», Introduzione
Il Caffè, a c. di G. Francioni e S. Romagnoli, Bollati Boringhieri, Torino 1998
AUDIOLETTURA
Dopo una significativa Avvertenza al lettore, Pietro Verri, fondatore del periodico, firma l’Introduzione della rivista che ne dichiara gli scopi e i caratteri: attraverso il riferimento simbolico alla bottega del caffè in cui si immaginano avvenute le conversazioni, lo scrittore delinea il nuovo tipo di sapere a cui la rivista intende dare vita: un sapere orientato ai temi di interesse etico-civile e caratterizzato dallo scambio e dall’effettiva utilità sociale. Riproduciamo la prima parte dell’Introduzione.
Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino1 scritti questi fogli? Con ogni stile che non annoi. E sin a quando 5 fate voi conto2 di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio3. Se il pubblico si determina a4 leggerli, noi continueremo per un anno e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta; se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un 10 tal progetto? Il fine d’una aggradevole5 occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini divertendoli, come già altrove6 fecero e Steele e Swift e Addison e Pope7 ed altri. Ma perché chiamate questi fogli il Caffè? Ve lo dirò; ma andiamo a capo. Un greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia8, mal soffrendo 15 l’avvilimento e la schiavitù in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani9 hanno conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli esempi, son già tre anni che si risolvette10 d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette le scale del Levante11; egli vide le coste del Mar Rosso e molto si trattenne in Mocha12, dove cambiò parte delle 20 sue merci in caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito13 di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante e profumato col legno d’aloe14, che chiunque lo prova, 25 quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo15 della terra, bisogna che per necessità si risvegli e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida e profumata
1 eglino: essi, ovvero i fogli poi nominati (è pronome di 3a persona plurale). 2 fate voi conto: contate, avete intenzione. 3 avranno spaccio: saranno acquistati (il soggetto è sempre questi fogli). 4 si determina a: decide di. 5 aggradevole: piacevole. 6 altrove: in Inghilterra, dove furono pubblicati i periodici a cui si ispira «Il Caffè». 7 Steele e Swift e Addison e Pope: scrittori inglesi dalla prosa vivace e corrosi-
va. Joseph Addison (1672-1719) e Richard Steele (1672-1729) diedero vita allo «Spectator»; Jonathan Swift (1667-1745) è autore del celebre romanzo Viaggi di Gullliver; Alexander Pope (1688-1744) è noto per il suo poemetto satirico Il ricciolo rapito (1721), a cui si ispirò, secondo alcuni critici, Parini per Il giorno. 8 Citera… Candia: l’isola di Cerìgo, fra Peloponneso e Creta. 9 dacché gli Ottomani: da quando i turchi.
10 si risolvette: decise. 11 le scale del Levante: i porti (le scale) d’Oriente (del Levante). 12 Mocha: città sulla costa yemenita del Mar Rosso, celebre per la coltivazione del caffè. 13 prese il partito: decise. 14 legno d’aloe: legno aromatico (infatti l’aloe bruciando emana un gradevole aroma). 15 grave... plombeo: greve, rigido… plumbeo, cioè cupo, di umore tetro.
Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 1 307
che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi 30 vuol leggere trova sempre i fogli di novelle16 politiche, e quei di17 Colonia e quei di Sciaffusa e quei di Lugano e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale enciclopedico e l’Estratto della letteratura europea18 e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in 35 essa bottega v’è di più un buon atlante19, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche20; in essa bottega per fine21 si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; 40 e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li dò alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè.
16 novelle: notizie. 17 quei di: i giornali pubblicati a (nella bottega del caffè si trovano giornali provenienti da varie città europee).
18 Giornale Enciclopedico... letteratura
20 nelle nuove politiche: sulle novità del-
europea: pubblicazioni del tempo. 19 atlante: carte, grafici, rappresentazioni che forniscono le documentazioni.
21 per fine: infine.
la politica.
Il frontespizio e una pagina interna del «Caffè».
Analisi del testo Una brillante presentazione editoriale: il dialogo immaginario tra il direttore di un periodico e il suo pubblico Nella pubblicistica d’opinione era consuetudine, già al tempo del «Caffè», che la rivista si qualificasse presso il proprio pubblico potenziale esplicitando nell’esordio le finalità e i caratteri della pubblicazione. Pietro Verri (in quello che oggi sarebbe definito l’editoriale della rivista) assolve il compito attraverso uno stile accattivante ed efficaci scelte espositive. La linea che ispirerà la neonata rivista viene messa a fuoco attraverso un espediente di sicuro effetto: lo sdoppiamento (e il dialogo) tra autore e lettori. A questi ultimi è affidata l’enunciazione di una
308 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia
serie di domande a cui il direttore e i suoi collaboratori rispondono in modo diretto, a botta e risposta potremmo dire, mettendo subito in luce gli obiettivi e il carattere pragmatico della rivista nascente, e offrendo al contempo anche un saggio dello stile espositivo della rivista, colloquiale e antiaccademico. Attraverso questa scelta, il lettore è posto sullo stesso piano dell’autore, in una relazione di dialogo amichevole e paritario che è certo uno dei caratteri salienti della civiltà dei lumi. L’ultima domanda: «Ma perché chiamate questi fogli il Caffè?» riceve invece una risposta più ampia, offrendo lo spunto a una sorta di digressione narrativa.
La «bottega» del caffè, luogo-simbolo di una nuova visione della cultura La sequenza narrativa inserita nella Introduzione sembra a prima vista soltanto una testimonianza del gusto dell’“esotico” particolarmente diffuso nella società settecentesca. Si narra, con tono inizialmente favolistico-novellistico, di un greco (in seguito se ne dice il nome, Demetrio), « originario di Citera», che, dalla sua patria in un’isoletta greca, divenuta dominio turco, si era avventurato in cerca di libertà e fortuna e aveva cambiato le sue merci con quantitativi di caffè, per stabilirsi poi in ultimo in Italia. A Milano Demetrio apre una «bottega di caffè» dove è possibile bere una straordinaria qualità della bevanda (che era divenuta di moda anche in Italia; ➜ PAG. 238). Le righe seguenti del passo delineano un ambiente insieme reale e simbolico: effettivamente nei caffè inglesi si leggevano quotidiani e periodici (come lo «Spectator» di Addison e Steele a cui si ispira la pubblicazione milanese), si conversava. In Italia questo clima, anche culturale, di mutuo scambio di idee, di civile conversazione, era solo ideale: da qui la forza propositiva e la valenza ideologica e polemica di questo quadro d’ambiente delineato da Verri, nel quale (lo dice alla fine del brano) immagina sia nata la sua rivista: in realtà quella che nasceva non era tanto (o soltanto) una rivista, ma una nuova concezione di cultura, antiaccademica, moderna, cosmopolita, che si opponeva a un’idea chiusa ed elitaria di cultura. Parallelamente nasceva una nuova figura di intellettuale di cui Pietro Verri stesso costituisce un esempio lampante.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali aspetti tipici dell’Illuminismo è possibile ricavare dalla presentazione della nuova rivista? 2. Perché Verri dichiara che la rivista sarà pubblicata solo fin quando sarà acquistata? 3. Tra le finalità enunciate da Verri quali ti sembrano più importanti? Perché? ANALISI 4. L’ambiente del caffè è descritto attraverso oggetti e situazioni presentati come positivi: individuali e spiegane il significato.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 5. Ti sembra significativa la precisazione che lo stile usato non debba annoiare chi legge? Spiega il tuo punto di vista in una breve esposizione orale. Hai a disposizione 3 minuti. SCRITTURA 6. La finzione dell’autore di aver raccolto in un caffè i discorsi che presenta ha un importante valore simbolico anche come infrazione di un modo vecchio di fare cultura. Sulla base delle tue conoscenze sui nuovi luoghi di aggregazione degli intellettuali, interpreta e commenta la scelta dell’autore.
online T2 Pietro Verri
Contro la società delle “buone maniere” «Il Caffè», La buona compagnia
online
Interpretazioni critiche Dorinda Outram L’Illuminismo e l’esotico
Caratteri generali dell’Illuminismo italiano 1 309
2
L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 1 Il problema della riforma del diritto e l’opera di Cesare Beccaria Uno dei temi maggiormente dibattuti dagli illuministi (da Locke a Montesquieu) è il diritto. Anche in Italia fin dal 1742 Muratori (➜ C6) aveva denunciato la confusione della giurisprudenza vigente e l’asservimento della legge ai privilegi sociali. Vent’anni dopo, agli intellettuali lombardi che si proponevano di contribuire a modificare le istituzioni in nome degli ideali illuministi, il problema di una riforma del diritto si imponeva con particolare urgenza: di questo interesse sono espressione, tra gli altri, articoli giuridici sia di Alessandro Verri (ad esempio Sulle leggi civili) sia di Pietro Verri (Sull’interpretazione delle leggi). L’opera di Beccaria (1738-1794), Dei delitti e delle pene (il latinismo delitti significa “reati”), pubblicata nel 1764, nasce dunque in un preciso contesto operativo e ideologico, ma la prospettiva che ne decreta il trionfale successo rispetto ad altri scritti è la scelta di restringere l’analisi esclusivamente all’ambito penale del diritto: quello che evidenziava in modo più eclatante l’irrazionalità del diritto vigente e la violazione dei diritti umani così appassionatamente difesi dagli illuministi. Dei delitti e delle pene non è però, come si potrebbe pensare, l’opera di un «addetto ai lavori» (Beccaria era laureato in legge ma non era né avvocato né magistrato),
Cesare Beccaria e Alessandro Verri (Chantilly, Musée Condé). Alessandro Verri fu amico di Beccaria e lo difese nei suoi scritti dagli attacchi che gli furono rivolti.
Una citazione da Dei delitti e delle pene, in un monumento dedicato a Cesare Beccaria a Milano.
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bensì quella di «un uomo che aborre il sangue e la violenza, che tutto guarda sotto l’angolo visuale del bene collettivo, della difesa della società» (Jemolo). Vero centro del pensiero di Cesare Beccaria è il valore assoluto che egli attribuisce alla persona umana che nessuno, per nessun motivo, deve impunemente umiliare e annullare, il suo istintivo orrore per la crudeltà gratuita delle pene che egli considera un capovolgimento dei valori basilari della civiltà. È questa ispirazione profondamente umanitaria e filantropica che conferisce all’opera la sua tipicità e alla quale si deve l’interesse che ancora oggi essa suscita anche nei lettori comuni e non solo negli uomini di legge.
2 La vita Cesare Beccaria nasce da nobile famiglia a Milano nel 1738. Si laurea in legge all’Università di Pavia nel 1758. Intorno al 1762, non ancora venticinquenne, entra nella cerchia di Pietro e Alessandro Verri e si avvicina alle idee dei philosophes: legge le Lettere persiane di Montesquieu, gli scritti di Diderot, D’Alembert, Buffon, ma è soprattutto attratto dalle idee di Rousseau. Contribuisce con sette articoli alla rivista «Il Caffè», nel 1764. È in particolare Pietro Verri, animatore del gruppo, che lo stimola a dedicarsi allo studio della legislazione penale. Beccaria all’epoca è un giovane dalla personalità contraddittoria e dal carattere irresoluto, ma è anche, secondo la felice intuizione di Pietro Verri, una «testa fatta per tentar strade nuove». Nel 1764 esce a Livorno, anonimo, il trattato Dei delitti e delle pene, che suscita l’entusiastica adesione degli ambienti illuminati. Nel 1766 Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri, dove è accolto in modo trionfale, ma poco tempo dopo, inspiegabilmente ritorna a Milano. I rapporti con i Verri si incrinano, per la tendenza di Cesare ad avocare a sé ogni merito del successo dell’opera, ma anche per le ombrosità del suo carattere, dovute in realtà a una fragilità psichica. Nel 1768 gli viene affidata la cattedra di Amministrazione e scienza delle finanze (ne ricaverà gli Elementi di economia politica). Diventa un importante funzionario governativo ed è nominato membro della Giunta per la riforma del sistema giudiziario. Nel 1785 diventa nonno: suo nipote, nato dalle nozze da lui volute tra l’inquieta figlia Giulia e un maturo gentiluomo milanese, è Alessandro Manzoni. Alessandro ha solo 9 anni quando Cesare Beccaria muore nel 1794. Nel suo capolavoro, I promessi sposi, è impossibile non avvertire l’eco delle riflessioni di suo nonno.
3 Un libro “di gruppo”? Come nacque Dei delitti e delle pene Il libretto che Cesare Beccaria compone in pochi mesi (marzo 1763 - gennaio 1764), destinato a una fortuna internazionale, non sarebbe mai nato senza lo stimolo e il forte sostegno del gruppo di amici milanesi (un’amicizia poi destinata a spegnersi tra invidie e livori). Dei delitti e delle pene non nasce infatti dalla riflessione di uno studioso isolato, ma è espressione emblematica di quel “commercio di idee” che fu tipico della cultura illuminista. In una lettera del 1° novembre 1765 Pietro Verri così rievoca la nascita del libro, mettendo in luce in un certo senso la “genesi collettiva” di esso, la cui stesura fu stimolata e poi costantemente alimentata dal “gruppo”: L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 2 311
[...] L’argomento gliel’ho dato io, e la maggior parte dei pensieri è il risultato delle conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro1, Lambertenghi2 e me. [...] Ma egli nulla sapeva dei nostri metodi criminali. Alessandro, che fu il protettore dei carcerati3, gli promise assistenza. Cominciò Beccaria a scrivere su dei pezzi di carta staccati delle idee, lo secondammo con entusiasmo, lo fomentammo tanto che scrisse una gran folla d’idee, il dopo pranzo si andava al passeggio, si parlava degli errori della giurisprudenza criminale, s’entrava in dispute, in questioni, e la sera egli scriveva. [...] Ammassato che ebbe il materiale, io lo scrissi e si diede un ordine, e si formò un libro. Appendice a Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965 1 Alessandro: è il fratello minore di Pietro. 2 Lambertenghi: il milanese Luigi Lam-
all’Accademia dei Pugni, collaborò con Beccaria e scrisse sul «Caffè».
bertenghi (1739-1813), sodale dei Verri
3 fu il protettore dei carcerati: faceva parte di un’istituzione per la tutela giudiziaria degli indigenti.
Per certi aspetti, dunque, si potrebbe dire che Dei delitti e delle pene fu un “libro di gruppo”, frutto certo delle intuizioni e della passione civile di Cesare, ma alimentato dalle costanti discussioni con gli amici (del resto è stato dimostrato dagli studiosi che interi passi dell’opera di Beccaria trovano riscontro in testi di analogo argomento del «Caffè», la rivista-manifesto dell’Illuminismo lombardo in cui non mancano pagine sulla storia del diritto). Furono poi i fratelli Verri a difendere il trattato dalle accuse del monaco Facchinei (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Un libro pericoloso, PAG. 324), furono sempre loro a spingere Beccaria, alquanto restio a farlo, ad andare a Parigi per alimentare ulteriormente il successo del “loro” libro nella capitale francese. Ma Beccaria deluse tutte le loro aspettative: in preda all’ansia, fu costretto a tornare poco dopo a Milano, nonostante le insistenti lettere di Pietro Verri.
4 Il contenuto e le novità di un libro di enorme successo I temi fondamentali Beccaria sceglie di occuparsi del diritto penale perché, come spiega nell’introduzione al trattato, gli sembrava particolarmente bisognoso di una riforma: consapevole del fatto che spesso sono le disuguaglianze sociali alla base dei reati (cfr. anche l’ode pariniana Il bisogno ➜ C9 T3 OL), non per questo arriva a negare il diritto da parte dell’autorità civile di punire i colpevoli dei «delitti»: in una prospettiva prettamente laica e razionalista, Beccaria considera i reati un’infrazione del patto sociale su cui per gli illuministi si fonda la società. E chi governa (cioè il sovrano) ha l’obbligo di garantire l’ordine nella società punendo appunto i reati. Ma per regolare il rapporto fra «delitto» e pena, più in generale, per conferire al diritto penale caratteri di equità e razionalità, Beccaria prospetta alcuni princìpi basilari. Indichiamo i nuclei fondamentali della sua riflessione. • La legge deve stabilire con chiarezza ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, distinguendo ciò che è lecito da ciò che è illecito; e la giurisprudenza deve affrancarsi da norme arcaiche e irrazionali rifluite per inerzia nel corpus delle leggi. • Per rispettare le leggi il cittadino deve poterle conoscere e capire: per questo si deve estendere il più possibile l’educazione giuridica e occorre che le disposizioni
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legali possano essere comprese da chiunque (➜ T4 OL). Una prospettiva, questa, estremamente attuale e che fu forse presente a Manzoni (ricordiamo che era il nipote di Cesare Beccaria) quando nei Promessi sposi scrisse pagine memorabili sulle «grida» del Seicento e sul «latinorum» di don Abbondio. • Occorre istituire un rapporto oggettivo (cioè non arbitrario) fra gravità del delitto e gravità della pena. Nella valutazione della gravità del delitto non conta né la dignità sociale del reo né quella dell’offeso (lo scrittore contesta la visione gerarchica dei rapporti sociali del tempo assumendo, almeno in teoria, una posizione egualitaria). Non si deve tener conto neppure dell’intenzione di chi ha commesso il reato, ma – in una prospettiva tutta illuminista – occorre considerare solo il «danno recato alla società». • La colpa (e di conseguenza la punizione del delitto, cioè la pena) non ha nulla a che fare neppure con il concetto cristiano di peccato: giudicare questo spetta alla Chiesa o, meglio ancora, a Dio, mentre compito della giustizia, amministrata dallo Stato, è esclusivamente valutare l’entità del danno subìto dalla società, o dal singolo in quanto membro della società. La distinzione fra peccato e delitto, posta per la prima volta con grande chiarezza, infrange la tradizionale concezione trascendentale della colpa. Si è parlato giustamente al proposito di “desacralizzazione” del diritto: esso deve essere fondato su leggi e princìpi propri, del tutto autonomi dalla sfera religiosa. È questo l’aspetto più innovativo dell’opera di Beccaria, che ne fa la pietra miliare nella storia del diritto. • Di conseguenza la pena non deve avere come obiettivo l’espiazione morale, ma deve avere un valore puramente strumentale, costituendo un esempio deterrente per la collettività e un risarcimento del danno da essa subìto, senza per questo essere inutilmente crudele (➜ T6 ). Risultano infatti più efficaci pene moderate, ma certe, somministrate dopo processi rapidi. • La parte più celebre del trattato contiene una critica convinta della tortura (➜ T5 ), allora strumento comune per estorcere confessioni di colpa (vera o presunta), definito con indignazione «orribile crogiolo di verità», e l’attacco (certamente non scontato) contro la pena di morte (➜ T6 ). Al tempo, la pena di morte era accettata anche dalla Chiesa, praticata ovunque e in forme spesso terribil-
EDUCAZIONE CIVICA
EDUCAZIONE CIVICA
Una riflessione giuridica di sorprendente attualità Quelle sopra ricordate sono certo le più note prese di posizione di Beccaria, ma non meno importanti sono spunti apparentemente minori e meno conosciuti del trattato, che ne evidenziano ancor di più la sorprendente modernità e insieme l’importanza nella storia del diritto, e più in generale nella storia della difesa di diritti umani. Ne ricordiamo qui almeno alcuni. • È necessario prima del processo una fase preliminare di ricerca delle prove (oggi chiamata istruttoria) al termine della quale l’accusa può anche cadere e l’imputato può essere rimesso in libertà senza essere più sottoposto a processo. • La detenzione preventiva va fissata in termini chiari di legge e sottratta alla discrezionalità del giudice (i cui compiti, più in generale, Beccaria distingue nettamente da quelli del pubblico ministero).
nucleo Costituzione competenza 2
• Fino a che non si hanno prove certe di colpevolezza, l’imputato di un crimine va a tutti gli effetti considerato innocente. • Processi e sentenze devono essere pubblici. Il giudizio finale deve essere affidato, al termine dell’istruttoria, a una giuria i cui membri vanno sorteggiati. • Non devono mai essere ammesse accuse segrete e delazioni. • L e carceri non possono essere luoghi di squallore e di violenza. (Se per le condizioni disagevoli di vita e la degradante promiscuità che regnano ancora oggi in molti istituti carcerari, a causa del numero eccessivo dei detenuti, le carceri diventano scuole di criminalità anziché di rieducazione, questo testimonia in modo lampante la grande attualità del messaggio di Beccaria.)
L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 2 313
mente crudeli, con pubbliche esecuzioni, che costituivano una sorta di spettacolo offerto alle masse incolte. • Beccaria, che solo in rarissimi casi ammette la pena di morte, con grande vigore argomentativo ne mette in luce l’inutilità a scopo preventivo: non è affatto vero che la pena capitale costituisca un monito adatto a distogliere altri dal commettere gravi reati; uccidendo un individuo si dà solo un cattivo esempio. Ed è assurdo che la legge si macchi di quello stesso omicidio che intende punire. • Ben più efficace è la condanna a riparare a vita con il lavoro forzato il danno inferto dal criminale alla società. La prima circolazione e l’attacco degli ambienti ecclesiastici Dei delitti e delle pene, come si è detto, viene stampato anonimo nel luglio 1764 e già ad agosto – secondo la testimonianza di Pietro Verri (che ne era in un certo senso il padrino) – se ne erano vendute 520 copie, così da suscitare il sospetto degli inquisitori, che a Venezia si mettono subito sulle tracce del libro e ne seguono la diffusione con crescente diffidenza. Un anno dopo il monaco Ferdinando Facchinei nelle sue Note ed osservazioni sul libro intitolato “Dei delitti e delle pene” lo accusa con toni aspri, individuando nel libro la presenza di una pericolosa utopia egualitaria (Beccaria sarebbe il «Rousseau degli italiani»), ma soprattutto leggendovi un attacco alle istituzioni e alla religione. Nel 1766 il libro di Beccaria è all’Indice dei libri proibiti. La fortuna europea del trattato Tuttavia la sua fortuna cresce sempre più (come del resto accadeva in Francia a molti libri proibiti e perseguitati dalla censura) e varca prestissimo i confini d’Italia: nello stesso 1766 l’abate Morellet (1727-1819), collaboratore dell’Encyclopédie, pubblica la traduzione francese dell’opera, che immette il libretto di Beccaria nel circuito internazionale. Importante per il successo dell’opera fu poi il “battesimo” ufficiale di Beccaria come philosophe da parte di Voltaire che, entusiasta dell’opera, nello stesso 1766 pubblica un suo Commento all’opera del Beccaria. La grande fortuna del libro, tradotto nelle principali lingue europee (inglese, tedesco, olandese spagnolo), incentiva in tutta Europa il dibattito sulla riforma del diritto penale: addirittura una sovrana, Caterina di Russia, chiede a Beccaria (che però declina l’invito) di collaborare alla riforma del codice penale russo. Di fatto, però, un solo paese, la Toscana di Pietro Leopoldo, abolisce la pena di morte, ma certamente grazie al trattato era aperta la strada a un dibattito di grande rilevanza civile che arriva fino ai giorni nostri.
Dei delitti e delle pene (1764) prima
dopo
• arbitrio e irregolarità delle procedure • segretezza delle accuse e del processo • assenza di garanzie per l’imputato • pratica sistematica della tortura in fase di istruttoria • crudeltà delle pene
• distinzione netta tra colpa (e conseguente punizione del delitto = pena) e peccato • rapporto promozionale fra gravità del delitto e gravità della pena • pubblicità del procedimento giudiziario e delle sentenze • presunzione di innocenza • rifiuto della tortura • condanna della pena di morte
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Cesare Beccaria
T3
Autodifesa Dei delitti e delle pene, Premessa
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965
Nella terza edizione dell’opera (1765) Beccaria scrisse come premessa una sorta di autodifesa indirizzata «A chi legge» in risposta alle dure accuse del monaco Ferdinando Facchinei che lo aveva incolpato di empietà verso la religione e di ribellione ai prìncipi regnanti. Nell’avvertenza Beccaria presenta l’ambito della sua indagine, circoscritta al diritto penale, e riconduce lo spirito con cui è scritta alle felici condizioni politiche del governo di Maria Teresa («quella ingenua indagazione della verità, quella indipendenza dalle opinioni volgari con cui è scritta quest’opera è un effetto del dolce e illuminato governo sotto cui vive l’autore»). Ribadisce quindi in più punti la sua osservanza di buon cattolico e di suddito fedele, ma delinea anche con forza la necessità di una netta separazione tra sfera religiosa e amministrazione della giustizia.
Spetta a’ teologi lo stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, per ciò che riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto1; lo stabilire i rapporti del giusto e dell’ingiusto politico, cioè dell’utile o del danno della società, spetta al pubblicista2; né un oggetto può mai pregiudicare all’altro, poiché ognun vede quanto la virtù puramente politica 5 debba cedere alla immutabile virtù emanata da Dio3. Chiunque [...] volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci dunque dal supporre in me principii distruttori o della virtù o della religione4, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii, e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico5; non tremi ad ogni proposizione che 10 sostenga gl’interessi dell’umanità; mi convinca o della inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia vedere il vantaggio delle pratiche ricevute6. Ho dato un pubblico testimonio7 della mia religione e della sommissione al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni8; il rispondere ad ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverà con quella decenza 15 che si conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal provare i primi principii9, di qualunque carattere essi siano, troverà in me non tanto un uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della verità.
1 l’intrinseca... atto: l’essenza cattiva o buona dell’azione. 2 pubblicista: dal francese publiciste, lo studioso di diritto pubblico, delle teorie relative allo stato. 3 né un oggetto... da Dio: è una delle tante dichiarazioni di ossequio religioso che percorrono il trattato. Costantemente Beccaria vuole ribadire la sua fede cristiana e la sua osservanza ai princìpi della religione, essendo evidentemente consapevole che i contenuti del libro non avrebbero mancato, come di fatto accadde, di
dispiacere alle autorità religiose.
4 Chiunque... religione: Beccaria fa riferimento alle critiche del monaco Facchinei (cfr. nota 8). 5 procuri... politico: cerchi piuttosto di dimostrare che le mie argomentazioni non sono logiche e che come studioso di problemi della società sono uno sprovveduto. 6 il vantaggio... ricevute: il vantaggio delle norme e delle tradizioni (pratiche) ereditate dal passato (che appunto Beccaria mette in discussione nel suo trattato). 7 testimonio: testimonianza.
8 risposta alle Note ed osservazioni: riferimento al testo del monaco Facchinei, cui in realtà avevano dato risposta non Beccaria, ma Alessandro e Pietro Verri che avevano difeso il libro dell’amico, confutando punto per punto le accuse di Facchinei. 9 con quella decenza... principii: con quel decoro e senso della responsabilità che si addice alle persone per bene e con quelle argomentazioni di adeguato livello che mi dispensino dal mettere in discussione le fondamenta stesse del mio pensiero.
L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 2 315
Analisi del testo «Un pacifico amatore della verità» Nell’avvertenza Beccaria, per difendersi dalle accuse di empietà che gli erano state mosse, distingue con rigore l’ambito di giudizio che spetta ai teologi (cioè la definizione di ciò che è giusto o ingiusto) rispetto al compito del diritto pubblico (e di chi lo rappresenta), cioè valutare il danno che un determinato comportamento arreca alla società. La distinzione era tutt’altro che pacifica e mirava di fatto a prospettare, come poi avverrà nel corso della trattazione, una diversa concezione di “colpa”. Beccaria invita quindi il suo accusatore a giudicarlo nell’ambito del diritto e non in quello dei valori religiosi, che peraltro ha sempre rispettato, così come si è sempre dimostrato suddito fedele e si definisce, con una formula molto efficace quanto sintetica «un pacifico amatore della verità».
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale distinzione istituisce Beccaria tra il compito di pertinenza del teologo e quello dello studioso di diritto pubblico? Quali conseguenze comporta tale distinzione? 2. Entro quali ambiti Beccaria accetta di essere criticato e in quali lo rifiuta? Perché?
ANALISI 3. Sottolinea nel testo su quali aspetti dovrebbe basarsi, secondo Beccaria, una critica efficace al suo scritto.
Interpretare
SCRITTURA 4. Commenta e contestualizza la definizione che Beccaria dà di sé alla fine del brano (max 10 righe).
online T4 Cesare Beccaria
Contro l’oscurità delle leggi Dei delitti e delle pene, capp. V e XLI
Traduzioni d’inizio Ottocento in tedesco, greco e russo dell’opera di Beccaria Dei delitti e delle pene.
Fissare i concetti La svolta illuminista in Italia 1. Quali sono i principali poli propulsivi delle idee illuministe in Italia? 2. A quali modelli si ispira la rivista «Il Caffè»? 3. Quali sono i caratteri originali dell’Illuminismo italiano rispetto a quello francese? 4. Perché il saggio Dei delitti e delle pene può essere definito un “libro di gruppo”? 5. A quali aspetti si può ricondurre il successo immediato che l’opera riscosse sia in Italia sia a livello internazionale? 6. Da chi fu osteggiata la diffusione del trattato di Beccaria? Per quali ragioni? 7. Che cosa si intende con “desacralizzazione” del diritto? 8. La trattazione di quale tematica in particolare fu un’assoluta novità per l’epoca?
316 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia
Cesare Beccaria
La tortura è una consuetudine barbara
T5
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1, 2
Dei delitti e delle pene, cap. XVI Il capitolo XVI è uno dei più famosi del trattato: Cesare Beccaria vi affronta il tema della tortura, pratica giudiziaria assai diffusa nella fase istruttoria (ovvero preliminare) dei processi criminali. Dato che i giudici potevano condannare solo i rei confessi, lo scopo della tortura era principalmente quello di ottenere la confessione del reato commesso da parte dell’inquisito. Beccaria pronuncia parole di indignata riprovazione contro una pratica che considera inutile e dannosa come strumento inquisitoriale e lesiva dei diritti della persona umana.
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965
AUDIOLETTURA
Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici1, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia2, o finalmente3 per altri delitti 5 di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza4, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre 10 si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto: se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi5, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi6 tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch’egli7 è un voler confondere tutt’i rapporti 15 l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato8, che il dolore divenga il crociuolo della verità9, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti.
1 per la scoperta dei complici: per costringerlo a rivelare i nomi dei complici. 2 per non so quale... d’infamia: per non so quale ipotetica espiazione dell’infamia. Attraverso il dolore fisico provocato dalla tortura il reo espierebbe l’infamia della sua condotta e la confessione estorta dalla tortura sarebbe quasi un corrispettivo della confessione dei peccati. Un’analogia che la
concezione laica della colpa (e della pena) proprie di Beccaria respinge con sdegno. 3 finalmente: infine. 4 se non quello della forza: la forza è qui contrapposta al diritto, legge della ragione. 5 non gli conviene... leggi: non gli si adatta altra pena se non quella stabilita dalla legge. 6 non devesi: non si deve. 7 egli: pleonastico.
8 un uomo sia... accusato: con la tortura si ottiene l’effetto paradossale che accusato e accusatore si identifichino, poiché il torturato arriva appunto ad autoaccusarsi magari di colpe che neppure ha commesso. 9 crociuolo della verità: lo strumento per distinguere la verità. Il crogiolo (crociuolo) è propriamente il recipiente in cui si fondono i metalli, separandoli dalle scorie.
Analisi del testo Alle radici del garantismo Il tema della tortura era vivamente sentito nell’ambiente dell’Illuminismo lombardo e aveva alimentato accesi dibattiti. Per scrivere queste pagine Beccaria attinge a materiali raccolti da Pietro Verri in quegli anni e che troveranno un’esposizione più sistematica nelle sue Osservazioni sulla tortura (stese nel 1777 ma pubblicate postume nel 1804). Mentre la trattazione di Verri è caratterizzata da una disamina pacata del tema, il testo di Beccaria, come si può notare anche nello stralcio proposto, è animato da un forte pathos, dovuto alla personale partecipazione dello scrittore, al suo orrore per tutto ciò che compromette la dignità della persona umana. L’idea, che ricorre anche in altre pagine del trattato, che l’imputato debba considerarsi inno-
L’opera più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria 2 317
cente fino a che non sia dichiarato ufficialmente colpevole (è la cosiddetta “presunzione di innocenza”) è alla base del moderno garantismo . L’abolizione della tortura, attuata nei territori governati dagli Asburgo fin dal 1776, sarà ostacolata nello stato di Milano dall’opposizione dei conservatori, con a capo proprio il padre di Pietro Verri, e si realizzerà solo nel 1784 nell’ambito delle riforme attuate da Giuseppe II. Le legislazioni di tutti i paesi civili non prevedono più la tortura, ma neppure le pene corporali e agli accusati di reati viene garantito il rispetto della dignità umana: fin dal 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce che «Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento e punizione crudeli, inumani e degradanti» (art. 13). La tortura del “tratto di corda” in un celebre dipinto del 1720 di Alessandro Magnasco, Interrogatorio dell’Inquisizione (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Qual è la tesi sostenuta da Beccaria a proposito della tortura? Sintetizzala in 5 righe. ANALISI 2. Quali elementi rivelano la personale partecipazione dello scrittore e la natura tutta illuminista di questo passo?
Interpretare
SCRITTURA 3. I princìpi che ispirano il passo sono: laicismo, umanitarismo, garantismo. In un breve testo (massimo 20 righe) cerca di motivare questa asserzione. SCRITTURA ARGOMENTATIVA
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4. Nell’Articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il termine “tortura” è definito come «qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito». Svolgi una ricerca in Rete e raccogli informazioni su quali altre convenzioni sopranazionali riconoscono la libertà dalla tortura come diritto umano fondamentale.
garantismo Il garantismo è un principio fondamentale degli stati di diritto e prevede una serie di garanzie giuridiche a tutela dei diritti e delle libertà dell’individuo contro gli eccessi dei pubblici poteri, in particolare nei processi penali. Tappe fondamentali nella storia del garantismo furono la Petition of Rights (1628) e il Bill of Rights (1689) in Inghilterra, la Costituzione americana nella seconda metà del Settecento e la Dichiarazione dei
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diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Il garantismo è una conquista delle moderne democrazie, così radicata che talvolta in Italia, nel caso di crimini particolarmente efferati e di atti di terrorismo, si sente parlare di iper-garantismo, ovvero di una protezione dei diritti del singolo da parte dello Stato addirittura eccessiva.
Cesare Beccaria
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Le pene eccessivamente crudeli e la pena di morte sono disumane e inutili per prevenire i delitti
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Dei delitti e delle pene, capp. XXVII-XXVIII C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965
Il passo proposto costituisce un’ampia parte del capitolo dedicato alla pena di morte, sicuramente il più famoso dell’opera e sempre riprodotto dalle antologie scolastiche. Anche noi facciamo questa scelta per il forte impatto che questo testo ancora oggi ha sui lettori, grazie alla tensione etica che lo percorre e che si condensa nel finale del testo, in cui Beccaria affida alla ripetizione della parola «assassinio» la denuncia del paradosso della pena di morte: si vuole combattere l’assassinio con un assassinio legale.
Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse1, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione2. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione 5 che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità [...]. Questa inutile prodigalità di supplicii3, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta4 in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi5. Esse non 10 sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che 15 l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera6? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile 20 né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità7. La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione8; quando la sua esistenza possa produrre una ri1 l’infallibilità di esse: la sicurezza che le pene saranno di sicuro inflitte a chi si è reso colpevole di gravi reati. 2 dolce legislazione: leggi che prevedano pene non esageratamente crudeli. 3 prodigalità di supplicii: abbondanza di pene. 4 utile e giusta: l’analisi riguarderà dunque l’utilità sociale della pena di morte e il fondamento giuridico che può sostenerla. 5 Non certamente... leggi: non certo il diritto su cui si fonda l’esistenza dello Stato: esso nasce dalla rinuncia di ognu-
no a una piccola parte della libertà per garantire il bene di tutti. Di questa rinuncia sono espressione le leggi dello Stato. Si tratta di una concezione che risale al pensiero di John Locke espresso nel Trattato sul governo. 6 E se ciò... intera: Beccaria si chiede come si possa accordare la norma che proibisce all’uomo di uccidersi con la delega all’intera società del diritto di uccidere un uomo, e contesta, quindi, subito dopo, che la pena di morte appartenga alla sfera del diritto.
7 Ma se dimostrerò... la causa dell’umanità: dichiarazione enfaticamente solenne di carattere prettamente illuminista. Come i philosophes francesi, e in particolare Voltaire, Beccaria assume qui il ruolo di “avvocato dell’umanità”. 8 anche privo... nazione: la pena di morte può essere inflitta solo per gravissimi motivi di sicurezza dello Stato: quando un individuo, anche in prigione (privo di libertà), abbia amicizie e legami così potenti da minacciare la sicurezza della nazione.
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voluzione pericolosa nella forma di governo stabilita9. La morte di qualche cittadino 25 divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà10, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi11; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti12, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione13, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero 30 sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte14. Quando15 la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti 35 gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio [...] non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità16, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione17. 40 Non è l’intensione della pena18 che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento19. L’impero dell’abitudine20 è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l’idee morali non 45 si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse21. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato22 esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio23, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi24, io stesso sarò ridotto 50 a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza. La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violente sorprendono gli uomini, ma non per 55 lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni25 che di uomini comuni ne
9 una rivoluzione... stabilita: un sovvertimento pericoloso della forma di governo vigente. 10 quando... libertà: nei momenti di rivolgimento politico. 11 nel tempo… di leggi: il senso è: in condizioni eccezionali di ingovernabilità l’esercizio della legalità è compromesso. 12 per la quale... riuniti: attraverso la quale le aspettative e gli interessi di tutti i cittadini siano uniti. 13 dalla opinione: dal consenso dei cittadini. 14 se non quando... la pena di morte: l’ipotesi che la pena di morte possa essere uno strumento deterrente dal commettere reati verrà smentita dal seguito della trattazione. 15 Quando: se. Come i successivi quando, si deve collegare a non persuadessero (r. 37). Dopo aver ricordato che la pena
di morte (l’ultimo supplicio) non ha mai distolto i criminali dal commettere delitti, Beccaria enuncia l’esempio di Roma e dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, sovrana di Russia, che diede agli altri regnanti (padri dei popoli) un grande esempio, abolendo la pena di morte (1753). Probabilmente Beccaria non era però informato del fatto che Elisabetta era celebre per la crudeltà delle pene inflitte, forse anche peggiori della pena di morte. 16 a cui... autorità: pessimistica osservazione sulla natura umana: gli uomini si lasciano più facilmente convincere dal linguaggio dell’autorità che da quello della ragione. 17 assersione: asserzione, affermazione. 18 l’intensione della pena: l’intensità della pena (contrapposto alla durata,
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estensione, di essa). Beccaria contrappone l’ergastolo alla pena di morte, perché maggiormente “utile” come deterrente. 19 movimento: turbamento (quello, forte appunto, ma passeggero, suscitato dalla pena di morte). 20 L’impero dell’abitudine: la forza dell’abitudine. 21 durevoli ed iterate percosse: stimoli duraturi e continuati. 22 stentato: penoso. 23 bestia di servigio: animale da fatica. 24 Quell’efficace... noi medesimi: la frase subito dopo riportata in corsivo si imprimerà nella mente di ognuno ripetendola come un ritornello. 25 atte a fare quelle rivoluzioni: adatte a causare quei cambiamenti radicali.
fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni26; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più 60 l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo27 perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio più fatto per essi che per il reo28. [...]. 65 Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità29. Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, 70 che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. 26 che di uomini... Lacedemoni: che trasformano uomini comuni in eroi della storia. 27 l’ultimo: ovvero il salutare terrore. 28 Il limite... per il reo: Beccaria pensa che la durezza delle pene non debba mai
essere tale da suscitare compassione per il reo, che finirebbe per sostituirsi al terrore della pena. 29 tanto più funesto... formalità: a differenza della morte data in guerra casualmente e per necessità, quella inflitta per
disposizione legale è ricercata deliberatamente (con istudio) e inflitta con tutti i crismi dell’ufficialità, secondo un rituale preciso (con formalità). E questo la rende ancora più odiosa e deprecabile.
Analisi del testo Le motivazioni contro la pena di morte Le motivazioni che inducono Beccaria a respingere, tranne in casi eccezionali, la pena di morte sono principalmente due, l’una di carattere giuridico, l’altra di carattere utilitaristico e pragmatico. La pena di morte: 1. è illegittima perché costituisce un’infrazione del patto sociale, che non può aver delegato a nessuno il diritto di uccidere un altro uomo; 2. non è un utile deterrente per i potenziali criminali, come è dimostrato dal corso della storia. Per la prevenzione dei delitti ha più efficacia la minacciosa prospettiva di una pena costante nel tempo (l’ergastolo) che non le impressioni forti, ma transitorie, offerte dallo spettacolo di un’esecuzione capitale. Anzi, spesso la compassione prende il posto del terrore che l’esecuzione dovrebbe suscitare. A queste principali contestazioni si aggiunge l’osservazione critica secondo cui lo spettacolo di una violenza pubblica legalizzata ed eseguita con macabri rituali costituisce un esempio negativo per i cittadini, che vedono lo Stato nel ruolo di assassino proprio mentre vuole combattere gli assassinii. La violenza legalizzata non può che produrre nuova violenza.
Un frontespizio di forte evidenza simbolica suggerito dall’autore stesso
Nel dicembre 1764 Beccaria dà all’editore del suo libro, Giuseppe Aubert, indicazioni molto precise per il frontespizio dell’opera che furono pienamente seguite. È interessante che Beccaria stesso abbia dato particolare rilevanza proprio al capitolo che poi sarebbe diventato il più celebre, ovvero quello sulla pena di morte, per sintetizzare e simboleggiare lo spirito complessivo della sua opera. Beccaria chiede che venga riprodotto «un manigoldo [boia] con una mano pendente che tiene un inviluppo di corda da cui pende una taglia [...] ed una sciabola [...] abbassata, e coll’altra mano terrà per la ciocca dei capelli due o tre teste recise e grondanti, che le presenta alla Giustizia, la quale col destro braccio teso in atto quasi di respingere il manigoldo e colla sinistra mano quasi nascondendo per orrore il suo volto dal medesimo si rivolge e guarda la sua bilancia, di cui una lance [un piatto] appoggiando sopra di un sasso, l’altra posa più basso sopra un fascio di varii stromenti di lavoro, come sarebbero zappe, badili, seghe e martelli pittorescamente intralciate e avviluppate di catene con manette all’estremità».
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Nella sua analisi sulla pena di morte, Beccaria parte da un interrogativo. Quale? 2. Quali sono per Beccaria i due motivi che possono giustificare l’eccezionale ricorso alla pena di morte? ANALISI 3. Che tipo di argomentazioni Beccaria utilizza contro la pena di morte? Si tratta di argomentazioni etiche e umanitarie o di altro tipo? LESSICO 4. Individua nel testo le espressioni e i termini che evidenziano: a. il rigore logico dell’argomentazione; b. il pathos umanitario di Beccaria e l’energia delle sue convinzioni. 5. Rintraccia nel testo e trascrivi i molteplici termini e le espressioni che rimandano alla prospettiva illuminista. STILE 6. Nella prima parte del passo puoi notare la frequenza di proposizioni interrogative: quale effetto producono?
Interpretare
SCRITTURA 7. A proposito delle pene, Beccaria contrappone intensione ed estensione («Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa»): spiega il significato dei due termini in rapporto al contesto e il senso della contrapposizione, anche in relazione con la finalità dell’opera (max 10 righe). COMPETENZA DIGITALE
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8. L’articolo 27 della nostra Costituzione statuisce la non ammissione della pena di morte e in Italia e afferma che le pene devono essere finalizzate alla rieducazione del condannato; tuttavia, purtroppo, la pena di morte è ancora presente in numerosi stati del mondo. Ogni anno l’organizzazione non governativa Amnesty International pubblica un rapporto sulla pena di morte nel mondo. Svolgi una ricerca online sui dati presentati nel rapporto dell’ultimo anno e prepara una presentazione multimediale delle informazioni a tuo avviso più rilevanti che emergono da esso.
Studiare con l’immagine 9. In risposta polemica all’Allegoria della Giustizia che compariva sul frontespizio dell’opera di Beccaria (vedi immagine qui accanto), nel 1772 venne riprodotta un’altra Allegoria della Giustizia per Il diritto di punire o sia risposta al Trattato de’ Delitti e delle pene del signor marchese di Beccaria (pubblicato anonimo, ma scritto da Antonio Silla). Cercala in Rete e istituisci un confronto con l’immagine presente nel testo di Beccaria, qui riprodotta.
Allegoria della Giustizia che respinge con la mano le teste mozzate, dal frontespizio dell’edizione livornese di Dei delitti e delle pene (incisione di Giovanni Lapi, 1764).
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Il cammino verso l’abolizione della pena di morte in Italia L’Italia, la patria di Cesare Beccaria, fu il primo paese del mondo nel quale un piccolo Stato (il Granducato di Toscana) sancì l’abolizione della pena di morte (1786) proprio sull’onda del testo dello scrittore. Dopo l’unificazione, nel 1889 la pena di morte fu abolita nell’intera nazione dal Codice penale Zanardelli (dal nome del ministro di Grazia e giustizia che ne promosse l’approvazione), di orientamento liberale e ispirato a princìpi di garanzia di matrice illuministica. Fu reintrodotta durante la dittatura fascista dal nuovo Codice penale Rocco (1931), insieme al generale inasprimento delle sanzioni, per gli attentati contro il duce e il re e successivamente per gravi reati comuni. Mussolini ebbe buon gioco a utilizzare Dei delitti e delle pene, già da allora
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considerato un caposaldo del garantismo e il principale testo contro la pena di morte, appellandosi alla prima parte del capitolo XXVIII del trattato in cui si ammette in casi eccezionali la pena capitale. La Costituzione italiana, stilata nel 1948 dopo la caduta del fascismo e la fine del secondo conflitto mondiale, si riallaccia invece nuovamente allo spirito autentico del trattato del Beccaria e all’art. 27 afferma: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra» (ma nel 1994 la pena di morte è stata abolita ufficialmente anche dal codice militare).
Le immagini sono tratte da campagne di sensibilizzazione contro la tortura e la pena di morte di Amnesty International, ONG fondata nel 1961, per la difesa e promozione dei diritti umani nel mondo, Nobel per la pace nel 1977.
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INTERPRETAZIONI CRITICHE
Franco Venturi Un libro pericoloso Nel passo lo storico Franco Venturi (1914-1994) chiarisce il senso del violento attacco sferrato al libretto di Beccaria da Ferdinando Facchinei, monaco benedettino della congregazione di Vallombrosa (1725-post 1814), dopo che già l’Inquisizione a Venezia si era allertata. Facchinei aveva colto la pericolosa carica innovativa del libro e si faceva interprete dei timori degli ambienti conservatori.
F. Venturi, Introduzione a C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965
Contro il «Rousseau degli italiani», contro questo «socialista» – quest’ultima parola venne coniata e usata allora, per la prima volta, come un’arma contro Beccaria – si levarono dapprima i sospetti, le paure degli Inquisitori di stato di Venezia e le oscure, violente minacce d’un frate vallombrosano, Ferdinando Facchinei, che questi 5 timori governativi del patriziato veneto intendeva interpretare e sfruttare. Avevano temuto gli uni che l’aperta lotta di Beccaria contro i metodi inquisitoriali rinfocolasse gli scontenti e le critiche che anche a Venezia, malgrado tanta apparente immobilità, non eran mancati in quegli anni, nella stessa classe dirigente aristocratica. Aveva visto Facchinei che la volontà di riforma di Beccaria poggiava su di un 10 presupposto egualitario che rovesciava tutta la tradizione dei vecchi stati italiani e toccava le radici stesse delle società d’antico regime. Agitò quel fondo di paura che era emerso in non pochi lettori di fronte al pensiero e le conseguenze ultime delle riforme chieste e volute da Beccaria. Sostenne la tortura, la pena di morte, l’Inquisizione, dicendo che sarebbe bastato toccare uno soltanto di quei pilastri della società 15 perché questa tutta intera crollasse. L’idea di uomini liberi e uguali era una utopia. Proprio verso di essa guardava e tendeva il libro Dei delitti e delle pene. Tutto ciò non era soltanto un errore, ma una colpa. Separare tanto nettamente, come Beccaria aveva fatto, il delitto dal peccato, volere una giustizia tutta umana, tutta fondata sul calcolo del danno portato alla società da chi aveva violato le leggi, 20 era sconsacrare l’umana convivenza, era non soltanto eliminare l’influenza della Chiesa nelle umane vicende, ma negare l’orrore religioso del delitto e della colpa. Nelle pagine di Facchinei, pur cosí pesanti e scolastiche, stava una reazione rivelatrice. Là si esprimeva la paura di abbandonare le vecchie protezioni, le antiche consolazioni per trovarsi soli e nudi di fronte al problema della disuguaglianza e 25 della ingiustizia.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
1. Ricostruisci la struttura del passo di Venturi e commenta con parole tue gli snodi fondamentali dell’argomentazione. 2. Spiega il senso degli epiteti rivolti a Beccaria. 3. Sintetizza in 5 righe gli elementi di pericolosità che Facchinei vedeva nel testo di Beccaria. 4. Spiega il significato dell’ultimo capoverso del testo («Nelle pagine di Facchinei… della disuguaglianza e della ingiustizia», rr. 22-25).
Produzione
5. Come sottolinea Venturi, l’opuscolo di Beccaria aveva una potente carica eversiva che suscitò le reazioni preoccupate degli ambienti ecclesiastici e in generale conservatori, ma fu anche all’origine dell’interesse e del successo immediato riscosso in tutta Europa e ancora vivo oggi. Sulla base delle tue conoscenze di studio e confrontandoti con quanto sostenuto nel testo, discuti la grande novità dell’opera di Beccaria e le ragioni della sua attualità. Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.
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Settecento La svolta illuminista in Italia
Sintesi con audiolettura
1 I caratteri generali dell’Illuminismo italiano
Un Illuminismo riformista e moderato Nella seconda nella seconda metà del Settecento nella Lombardia di Maria Teresa d’Austria e nella Napoli di Carlo III di Borbone ha inizio una politica di riforme, con il supporto attivo della classe intellettuale più progressista, e si afferma una visione culturale ispirata ai princìpi dell’Illuminismo. Centro principale dell’Illuminismo italiano è Milano, in cui operano i fratelli Verri, fondatori della rivista «Il Caffè» (1764-1766) e Cesare Beccaria autore del trattato Dei delitti e delle pene. In sintonia con le più generali posizioni dell’illuminismo francese, anche «Il Caffè» si batte per una cultura più aperta e moderna, ma gli illuministi italiani sono lontani dal raccogliere le istanze più radicali dei philophes francesi. L’Illuminismo italiano ha, dunque, caratteri riformistici ed è improntato alla moderazione.
più celebre dell’Illuminismo italiano: Dei delitti e delle pene di 2 L’opera Cesare Beccaria Il problema della riforma del diritto e l’opera di Cesare Beccaria Cesare Beccaria appartiene al gruppo degli intellettuali lombardi della rivista «Il Caffè» che si proponevano di modificare le istituzioni e di riformare il diritto sulla base degli ideali illuministi ed è in questo contesto che nasce l’ispirazione che porta alla stesura nel 1764 di Dei delitti e delle pene (il latinismo «delitti» significa “reati”). Il saggio ebbe grande successo grazie alla scelta dell’autore di restringere il campo dell’analisi all’ambito penale del diritto. Elementi costitutivi del pensiero di Beccaria sono il valore assoluto della persona umana e l’orrore per la crudeltà gratuita delle pene. La vita Cesare Beccaria nasce da una nobile famiglia milanese nel 1738, nel 1758 si laurea in legge all’Università di Pavia e ancora giovane entra nella cerchia di Pietro e Alessandro Verri, avvicinandosi alle idee dei philosophes. Nel 1764 pubblica Dei delitti e delle pene. Nel 1768 diventa un importante funzionario governativo ed è nominato membro della Giunta per la riforma del sistema giudiziario. Nel 1785 diventa nonno: suo nipote è Alessandro Manzoni, nato dalle nozze della figlia Giulia con un maturo gentiluomo milanese. Muore a Milano nel 1794. Un libro di “gruppo”? Come nacque Dei delitti e delle pene Il libretto di Beccaria ha una genesi collettiva: nasce grazie a un commercio di idee maturate del gruppo degli intellettuali milanesi. Il contenuto e le novità di un libro di enorme successo Beccaria considera i reati un’infrazione del patto sociale. Tema centrale del saggio è l’equo rapporto tra il delitto e la pena, che secondo Beccaria deve essere regolato da princìpi basilari. - La legge deve stabilire con chiarezza ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, senza possibilità di interpretazioni arbitrarie e senza difesa di privilegi sociali. - Deve essere istituito un rapporto oggettivo tra la gravità del delitto e la gravità della pena. Sintesi Settecento
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- La colpa deve essere distinta dal concetto cristiano di peccato. Si è parlato a questo proposito di desacralizzazione del diritto. - La pena, di conseguenza, non deve avere come obiettivo l’espiazione morale, ma deve costituire un deterrente per la collettività e un risarcimento per il danno da essa subito. Le enunciazioni più celebri del trattato sono il rifiuto della tortura (allora comunemente praticata per estorcere le confessioni di colpa vera o presunta) e l’attacco alla pena di morte, di cui viene argomentata l’inutilità a scopo preventivo. L’opera di Beccaria fu attaccata dagli ambienti ecclesiastici e venne inserita nell’Indice dei libri proibiti nel 1766. Fuori d’Italia il trattato – tradotto nelle principali lingue europee – ebbe un grande successo e incentivò il dibattito sulla pena di morte.
Zona Competenze Sintesi
1. Attraverso uno schema sintetizza le caratteristiche dell’Illuminismo italiano in base all’area geografica di riferimento.
Esposizione orale
2. Illustra in un breve intervento orale (max 5 minuti) i motivi per cui Dei delitti e delle pene conserva una carica polemica tuttora valida. Ricorda di inserire nel tuo discorso sia opportuni riferimenti all’opera sia esempi tratti dall’attualità.
Scrittura creativa
3. Immagina e trascrivi una conversazione tra letterati e intellettuali illuministi italiani, appartenenti al gruppo della rivista «Il Caffè». La conversazione può avere come spunto di avvio un evento d’attualità dell’epoca e poi vertere sulla discussione di alcuni tra i temi cardine del fenomeno culturale dell’Illuminismo.
326 Settecento 7 La svolta illuminista in Italia
Settecento CAPITOLO
8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
L’affermazione del romanzo in Inghilterra e in Francia nel Settecento coincide con le trasformazioni economiche che portano alla ribalta la classe borghese, e con le nuove concezioni filosofiche proprie dell’Illuminismo. I protagonisti appartengono prevalentemente alla piccola e media borghesia e sono rappresentati con criteri realistici, che caratterizzano anche ambienti e situazioni, pur avventurose, come nel celeberrimo Robinson Crusoe di Defoe. Il romanzo europeo si articola in molteplici tipologie, tra cui il romanzo di viaggi e quello epistolare, diffuso anche in Germania e in Italia. In Francia esso è impiegato soprattutto per divulgare i temi chiave del dibattito illuminista: il più celebre conte philosophique (racconto filosofico) è Candido di Voltaire, in cui si danno appuntamento i princìpi fondamentali della battaglia illuminista per una nuova società e una nuova cultura. In Inghilterra nel Tristram Shandy di Laurence Sterne il genere è oggetto di parodia attraverso la dissoluzione delle strutture convenzionali.
nascita del 1 Laromanzo borghese 2 Ile irealismo nuovi personaggi del romanzo settecentesco
3 Ledeltipologie romanzo
settecentesco
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La nascita del romanzo borghese La nuova fortuna di un genere metamorfico Il romanzo non è certo nato nel Settecento, ma è in questo secolo che si impone come genere egemone e assume le connotazioni che siamo soliti associare al termine: gli elementi di novità che caratterizzano il romanzo settecentesco, innanzitutto inglese, sono infatti più rilevanti degli elementi di continuità rispetto alle forme antiche di narrazione lunga (il romanzo greco e quello cavalleresco medievale), e anche a testimonianze più recenti, come il Don Chisciotte di Cervantes (➜ C4). Le vistose trasformazioni del genere in quest’epoca si devono al carattere costituzionalmente proteiforme del romanzo, che non era compreso fra i generi codificati dalla poetica classicistica e quindi non era vincolato da leggi e modelli. Il trionfo del romanzo nel Settecento, e le caratteristiche che assume in quest’epoca e che ne determinano la modernità (in particolare la nuova tipologia dei personaggi e il realismo rappresentativo) rispondono a nuovi bisogni di lettura e al gusto di un nuovo pubblico, identificabile con la classe borghese nelle sue diverse componenti. Gli autori stessi non corrispondono più alla tipologia del letterato tradizionale di formazione classicistica, ma operano con vari ruoli nella società e conoscono da vicino il mercato editoriale.
Joseph Highmore, La famiglia Harlowe, 1745 ca.
328 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
Il battesimo di Tristram Shandy, tavola di William Hogarth per il frontespizio del terzo volume del romanzo di Sterne.
Lessico tiratura Numero di copie che si stampano di un certo prodotto editoriale, per esempio un libro.
L’Inghilterra, patria elettiva del romanzo Lo sviluppo e lo straordinario successo del romanzo nel Settecento è un fenomeno che nei suoi tratti più tipici ha origine in Inghilterra, per il particolare contesto che caratterizzava questo paese rispetto agli altri Stati europei. Le vicende politiche del secolo precedente (in particolare la cosiddetta “prima rivoluzione” del 1642-1660) e lo sviluppo economico nato dalla rivoluzione industriale contribuiscono infatti a creare una situazione sociale in evoluzione, diversificata, e favoriscono la formazione di un pubblico di lettori sufficientemente numeroso e aperto a nuovi stimoli culturali. Proprio in Inghilterra, del resto, all’inizio del Settecento, con l’esperienza dello «Spectator» (1711-1712) era nato il giornale, nell’accezione vicina a quella moderna. Per la maggior parte il pubblico è costituito dai ceti borghesi, ma anche dai ceti popolari (negozianti, artigiani, camerieri). Alla diffusione della lettura, in particolare dei romanzi, contribuirono le biblioteche circolanti, spesso organizzate dagli editori stessi, che dal 1742 iniziarono a distribuire testi in prestito, consentendo di accedere alla produzione libraria anche a quegli strati sociali che non potevano permettersi di acquistare libri. Tra i lettori spicca la presenza numerosa delle donne, di diversa estrazione e cultura, che mostrano subito una netta predilezione per il genere del romanzo. Non a caso, nel dibattito settecentesco intorno al nuovo genere ci sono recensori che rifiutano al romanzo dignità letteraria e lo qualificano come un passatempo “femminile”, denunciando il potenziale effetto negativo dei suoi contenuti sentimentali sulle lettrici. Lo sviluppo del romanzo fu sostenuto in modo modernamente imprenditoriale da librai-editori che arrivavano a commissionare le opere sulla base dei gusti del pubblico, come avvenne per Pamela o la virtù ricompensata (Pamela or Virtue Rewarded) di Samuel Richardson (➜ T5 ). La produzione, molto varia nelle tipologie e con molti titoli (anche perché generalmente la tiratura era di 500-700 copie), non fu di livello qualitativo costante: le opere potevano avere successo a prescindere dalla loro qualità, e quelle che lo raggiungevano trovavano spesso imitatori di livello inferiore, come avvenne per La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di Daniel Defoe (➜ T1 e ➜ T2 OL). Quanto ai romanzieri, la maggior parte (almeno nella prima fase) erano facoltosi possidenti, ma si annoveravano anche parroci o capitani di marina. Soprattutto nella seconda metà del secolo furono numerose le scrittrici (che spesso preferivano mantenere l’anonimato), attirate alla nuova attività, in alcuni casi, nella speranza di risolvere i loro problemi economici. La nascita del romanzo borghese 1 329
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Interpretazioni critiche Ian Watt L’«orientamento individualista e innovatore» del novel
Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco La narrazione di vicende realistiche o verosimili Il tratto principale che contraddistingue il romanzo inglese del Settecento è il realismo. Non a caso proprio in Inghilterra, alla fine del secolo, è teorizzata la distinzione tra novel e romance: il novel è il racconto di storie realistiche, o quanto meno verosimili (cioè non necessariamente accadute ma che potrebbero accadere nella realtà); il romance è la narrazione di vicende in cui compaiono elementi fantastici ed eventi soprannaturali o magici. È nella prima tipologia che si iscrive il romanzo inglese del Settecento. Sono gli scrittori più consapevoli a fare del realismo un vero e proprio canone letterario: come vedremo, Defoe, nel suo celebre Robinson Crusoe, fonda la storia di Robinson su una vicenda realmente accaduta e fa raccontare ai personaggi dei suoi romanzi le loro avventure in prima persona, una modalità narrativa finalizzata ad avvalorarne la veridicità agli occhi del lettore; anche l’espediente della struttura epistolare, che ha largo seguito a partire dalla Pamela di Samuel Richardson fino alla Nuova Eloisa (➜ T8 ) di Jean-Jacques Rousseau, ha lo scopo di conferire verosimiglianza al racconto e suscitare il coinvolgimento del lettore. L’approccio realistico nel novel riguarda gli elementi fondamentali della narrazione: oltre ai personaggi (individui appartenenti a uno specifico status sociale, con determinate caratteristiche fisiche e una precisa identità anche psicologica), i luoghi e il tempo delle storie narrate. Le storie si svolgono in luoghi reali, indicati nei nomi e descritti nelle caratteristiche ambientali, e in circostanze temporali ben determinate: è significativo il fatto che una delle prime preoccupazioni di Robin-
Pierre Alexandre Wille, Les étrennes de Julie.
330 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
son Crusoe sia quella di fissare la data del suo naufragio e di calcolare lo scorrere, giorno per giorno, un anno dopo l’altro, del suo soggiorno nell’isola disabitata dove si è ritrovato. Una nuova tipologia di personaggi La grande novità introdotta dal romanzo del Settecento, una sorta di rivoluzione rispetto alle varie forme di narrazione precedenti, è costituita dallo statuto sociale dei suoi protagonisti, che non sono più gli eroi-guerrieri dei poemi epici o i cavalieri dei romanzi e dei poemi cavallereschi, ma appartengono spesso a quei ceti sociali considerati inferiori che tradizionalmente avevano avuto ruoli marginali nelle opere letterarie ed erano stati soprattutto fonte di comicità. A inaugurare il nuovo canone del personaggio moderno è lo scrittore inglese Daniel Defoe con Robinson Crusoe (1719; ➜ T1 e T2 OL): all’inizio della vicenda, il personaggio dichiara la sua appartenenza alla middle class, che viene definita come «la condizione migliore». Il marinaio-mercante protagonista rappresenta un self-made man , l’uomo che si fa da sé grazie al suo lavoro e alla sua ingegnosità, valori in cui la nuova borghesia si riconosceva. L’eroina del romanzo successivo di Defoe, Moll Flanders (➜ T3 OL, ➜ T4 OL), è addirittura figlia di una ladra e diventerà lei stessa ladra, arrestata e deportata per i suoi furti. Pamela, la protagonista dell’omonimo romanzo di Samuel Richardson, è una giovane cameriera (➜ T5 ) dotata di saldi principi morali: non si lascia affascinare dal corteggiamento del nobile al cui servizio lavora, rimane indifferente alle promesse di regali e di favori e solo per amore è disposta a rinunciare alla sua castità, senza pretendere nulla in cambio. Infine un altro romanzo di grande successo tra il pubblico dell’epoca, Le avventure di Tom Jones di Henry Fielding, è incentrato sulle vicende di un trovatello, Tom Jones appunto che, nel corso delle sue picaresche avventure, si dimostra generoso verso i deboli, ma è anche dedito ai piaceri amorosi e a quelli della tavola (➜ T6 OL). Come si può cogliere da questi cenni, la peculiarità di questi personaggi rispetto a quelli della tradizione narrativa consiste nella loro “normalità”: sono individui, non tipi, contrassegnati da una precisa origine sociale (che li avvicina al ceto di “nuovi” lettori) e da nomi comuni (Tom, Pamela ecc.). Anche le loro virtù e i loro vizi sono realistici: l’ingegnosità con cui affrontano le diverse situazioni, la disponibilità ad amare,
Parola chiave
Joseph Highmore, Il Signor B. trova Pamela che scrive, 1744.
self-made man Il termine inglese self-made man si usa in riferimento a una persona di umili origini che ha raggiunto il successo e la prosperità economica attraverso il proprio impegno, il talento e l’auto-miglioramento, piuttosto che attraverso eredità, privilegi o favori.
Quello dell’uomo che “si è fatto da sé” è, in particolare, un archetipo della cultura statunitense, frutto della convinzione che chiunque possa raggiungere il successo a patto di avere una determinazione incrollabile e una predisposizione alla costanza e al duro lavoro.
Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 331
e anche la debolezza morale. Le loro storie, pur avventurose, capaci di catturare l’interesse del pubblico (come evidenzia il titolo stesso del principale romanzo di Daniel Defoe, La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe) sono comunque sempre verosimili e rinunciano a sfruttare il “meraviglioso” che aveva caratterizzato la narrativa del Seicento e che rimarrà esclusivo appannaggio del romance.
Nuovi “eroi” borghesi Robinson Crusoe
Moll Flanders
Pamela
Tom Jones
il marinaio-mercante self-made man: perde tutto in un naufragio ed è capace di ricostruire tutto grazie all’intelligenza e alle sue capacità fattive
la donna che, in condizioni di estremo disagio, fa leva sulle sue sole forze e riesce, con ogni mezzo, anche illecito, a sopravvivere
la donna che, in nome dei propri princìpi e della morale puritana, vede premiata la virtù con l’ascesa sociale del matrimonio
il trovatello che con la propria vitalità, simpatia e intelligenza riconquista ciò che gli spetta, contro tutti i pregiudizi
Robinson Crusoe di Daniel Defoe
Ritratto di Daniel Defoe di Godfrey Kneller (16601731, Londra, National Maritime Museum).
Robinson Crusoe, pubblicato nel 1719, è l’opera che apre la grande stagione del romanzo settecentesco. Come abbiamo visto, ne è autore il londinese Daniel Defoe (1660-1731). In contrasto con il padre (un fabbricante di candele seguace della Chiesa puritana) che voleva avviarlo alla carriera ecclesiastica, Daniel sceglie di viaggiare e di dedicarsi al commercio (nel 1681 apre un’azienda di mercerie all’ingrosso). Impegnato nelle lotte politiche del suo tempo, finisce per trascurare la sua attività economica, che fallisce. Si dedica allora attivamente al giornalismo e fonda la rivista «The Review». Infine, ormai quasi sessantenne, si mette a scrivere romanzi per poter saldare i numerosi debiti. Nel 1719 esce, con grande successo, La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe (The life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe of York, Mariner), a cui seguono poco dopo Moll Flanders (The Fortunes and Misfortunes of the Famous Moll Flanders, 1722) e Lady Roxana (1724). Una storia vera Il romanzo di Daniel Defoe, presto destinato a diventare un “classico”, è ispirato a un fatto realmente accaduto poco prima della sua composizione e che aveva suscitato scalpore e interesse: nel 1705, un marinaio scozzese, un certo Alexander Selkirk, era stato abbandonato dai compagni su una piccola isola al largo della costa cilena, dove era vissuto per quattro anni finché una nave di passaggio non l’aveva ricondotto a casa. Allo scopo di far credere che l’opera sia l’autentico memoriale di un’esperienza reale l’autore sceglie di pubblicarla anonima. La trama Nella finzione letteraria la vicenda è trasposta in un’epoca antecedente (il protagonista, Robinson Crusoe, dichiara infatti all’inizio di essere nato nel 1632). All’età di diciotto anni, nonostante l’opposizione dei genitori, Robinson decide di prendere il mare per vedere il mondo. La nave su cui si è imbarcato fa naufragio: catturato da un pirata, riesce a liberarsi e ad arrivare in Brasile, dove diventa piantatore. Desideroso di conoscere altri luoghi, si imbarca
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di nuovo, diretto verso la Guinea, ma anche questa volta la nave fa naufragio e si ritrova su un’isola deserta, alla foce del fiume Orinoco. Grazie ai materiali rinvenuti sul relitto della nave e al suo ingegno, riesce a procurarsi di che nutrirsi e a costruire anche un’abitazione. Dopo lunghi anni trascorsi in completa solitudine, salva un indigeno dall’assalto di alcuni cannibali: in ricordo del giorno in cui gli ha salvato la vita, lo chiama Venerdì. Si dedica quindi alla sua educazione secondo il modello europeo, facendo di lui un fedele servitore e compagno. Trascorsi tre anni dall’incontro, avvista una nave di passaggio che lo riporta in Inghilterra con Venerdì. Recatosi a Lisbona, Robinson scopre di essere diventato ricco grazie al suo socio della piantagione brasiliana. Alla fine del romanzo ritornerà sull’isola del naufragio, che popolerà con coloni brasiliani. La narrazione è condotta in prima persona dal protagonista anni dopo le sue avventure: Robinson non si limita a raccontare le sue peripezie, ma dà spazio alle emozioni provate, commenta i propri comportamenti, riflette sulle scelte fatte, interrogandosi sul loro significato. Un eroe borghese Il romanzo riflette il processo economico e sociale in atto in Inghilterra tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, che comporta l’emergere di una nuova figura, il borghese rivolto a imprese commerciali ardite e avventurose: dei valori e delle qualità di quel ceto Robinson è nello stesso tempo espressione e simbolo. Se il significato emblematico del personaggio si delinea già attraverso le prime fasi della vicenda, dalla ribellione iniziale nei confronti degli insegnamenti paterni alla successiva ricerca di nuove imprese e di maggiori ricchezze, è il nucleo centrale del romanzo, cioè la vicenda del naufragio sull’isola deserta, a decretarne la fama letteraria. Costretto dalla necessità a convertirsi al lavoro manuale, il protagonista, grazie alla sua intraprendenza e ingegnosità, riesce a procurarsi tutto ciò di cui ha bisogno e a controllare, valorizzandone le risorse, l’ambiente selvaggio che diventerà il suo “regno”. Per affrontare la sua nuova vita Robinson può contare solo sugli strumenti salvati dal relitto della nave (una sorta di eredità materiale, e soprattutto ideologica,
Illustrazione di Walter Paget, dal libro di Defoe La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe pubblicato nel 1896.
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PER APPROFONDIRE
del mondo da cui proviene) e sulla razionalità di cui fa esplicita professione (➜ T1 ). Non manca nell’opera di Defoe la dimensione spirituale: la ricorrenza di motivi biblici, la valutazione che Robinson, dopo qualche anno di solitudine sull’isola, fa della propria esperienza come “provvidenziale” allontanamento dal mondo e dai suoi falsi valori (➜ T2 OL), conferiscono alla sua storia anche i caratteri di una vicenda di formazione spirituale-religiosa. Non a caso il rapporto di Robinson con il denaro è ambivalente: da una parte è sostenitore della concezione calvinista che vede nel successo economico un segno della benevolenza divina, dall’altra appare critico nei confronti della “bontà” del progresso economico e del culto del denaro. Nel conflitto tra valori economici e visione religiosa del protagonista le più recenti interpretazioni critiche individuano una spia di quello vissuto da Defoe stesso.
Il mito di Robinson Il protagonista del romanzo di Defoe ha dato vita, nel Settecento e nell’Ottocento, a un vero e proprio mito, capace di reincarnarsi in contesti e prospettive diversi, non solo in opere narrative, a partire dalle innumerevoli imitazioni settecentesche, ma anche nelle interpretazioni in chiave filosofica ed economica. L’interpretazione più celebre è stata elaborata dal filosofo Jean-Jacques Rousseau, che ne ha fatto il simbolo della vita solitaria e del ritorno allo stato di natura. Nel romanzo pedagogico Émile (1762 ➜ PAG. 247) Rousseau vede nella solitudine e nel rapporto di Robinson con la natura la condizione per la rigenerazione morale dell’uomo, degradato dalla società. Nel suo programma educativo, la vicenda del naufrago esemplifica il valore formativo del lavoro e rappresenta un modello dell’operosità e semplicità, che possono garantire la sopravvivenza, e quindi l’autosufficienza del singolo individuo. Alla fine del Settecento per il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) Robinson impersona l’uomo moderno che guarda all’età in cui gli uomini vivevano in condizione di uguaglianza e in pace, dediti al lavoro senza aspirare alla ricchezza, con la consapevolezza di costruire un progresso destinato a negare questo mito di innocenza. Nell’Ottocento anche Karl Marx (1818-1883) prende in considerazione il personaggio in un’ottica economica: la vita e le azioni di Robinson sono raccontate in relazione all’organizzazione del tempo, al lavoro, alle operazioni necessarie per la produzione, e quindi la figura di Robinson è ricondotta ai processi economici e al sistema di valori del capitalismo. La vitalità del mito è confermata dai romanzi d’avventura dell’Ottocento (in particolare di Jules Verne e di Emilio Salgari), in chiave anche pedagogica, e dalle rivisitazioni del personaggio in particolare nella seconda metà del Novecento. L’opera più significativa a questo proposito è Venerdì o il limbo del Pacifico (Vendredi, ou les limbes du Pacifique, 1967) dello scrittore francese Michel Tournier (1924-2016), ambientata un secolo dopo (cioè nel Settecento) ma densa di riferimenti al problematico rapporto dell’uomo contemporaneo con la natura e con la civiltà a cui appartiene e, insieme, alla questione dell’incontro tra culture diverse.
Il Robinson del romanzo di Tournier è un ventiduenne sposato e con due figli, appartenente al gruppo religioso dei Quaccheri; dopo il naufragio instaura con l’isola un rapporto d’amore che lo porta, in alcuni momenti, a una sorta di simbiosi (al contrario dunque del dominio sulla natura stabilito dal Robinson di Defoe). Anche qui il naufrago salva un indigeno destinato a un sacrificio e lo chiama Venerdì, ma in questo caso il rapporto è rovesciato (e infatti non a caso è l’indigeno a denominare il titolo del libro): solo all’inizio Venerdì è lo schiavo fedele che si sottomette al padrone, ma ben presto si sottrae al suo progetto educativo, rifiutando la razionalità e il rapporto di dominio sulla natura propri della cultura occidentale. Sarà lui a educare Robinson a una vita selvaggia, in armonia con la natura. Anche la conclusione è parzialmente rovesciata: quando arriva all’isola una goletta inglese, Venerdì si imbarca di nascosto, mentre Robinson resta sull’isola, insieme a un giovane mozzo della nave (sarà chiamato Giovedì), stanco dei maltrattamenti dei suoi superiori. Mentre l’incontro tra il Robinson e il Venerdì di Defoe rappresenta il rapporto del colonizzatore con le culture considerate primitive, come si è storicamente realizzato, Venerdì o il limbo del Pacifico indica per il “diverso” la possibilità di sottrarsi all’egemonia culturale della civiltà che si considera superiore.
Fotogramma del film Cast Away di Robert Zemeckis (2000), ispirato al romanzo di Defoe, con Tom Hanks nel ruolo di Robinson.
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Daniel Defoe
Robinson modello dell’intraprendenza borghese
T1
Le avventure di Robinson Crusoe Una nuova visione della vita si affaccia nel romanzo di Defoe che, con grande realismo, interpreta lo spirito borghese dell’epoca, legato ai valori dell’intraprendenza e dell’iniziativa individuale.
«Questa estrema necessità mi spronò al lavoro»
T1a D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe. Le ulteriori avventure. Serie riflessioni, trad. di A. Meo, a c. di G. Sertoli, Einaudi, Torino 1998
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1
Dopo il naufragio, sulle prime Robinson è angosciato dal pensiero delle difficoltà da affrontare, ma non si lascia sopraffare dalla disperazione e comincia, con prontezza di spirito, a cercare le soluzioni pratiche per la sua sopravvivenza, scoprendo in sé doti di intraprendenza stimolate dalla necessità in cui si viene a trovare.
Gettai gli occhi alla nave arenata in un momento in cui i marosi1 e gli spruzzi del mare erano così alti, che quasi non riuscivo a scorgerla, tanto appariva lontana, e riflettei: «Oh, Signore! Com’è possibile che io sia riuscito a raggiungere la riva?» Dopo essermi appagato lo spirito con la parte consolante della mia situazione2, co5 minciai a guardarmi attorno per vedere in che luogo mi trovassi e che dovessi fare per prima cosa, e subito sentii che la mia consolazione diminuiva e, in una parola, che la mia era una salvezza tremenda; perché ero bagnato, non avevo vestiti per cambiarmi, niente da mangiare o da bere per ristorarmi, né avevo davanti altra prospettiva che quella di morire di fame o di essere divorato dalle bestie feroci; e la cosa 10 che mi riusciva particolarmente sconfortante3 era che non avevo un’arma per dar la caccia a qualche animale e ucciderlo per nutrirmene, né per difendermi da altre creature che volessero uccidere me per loro nutrimento. In una parola, non avevo addosso nient’altro che un coltello, una pipa e una scatola con un po’ di tabacco. A tanto poco si riducevano le mie provviste; e questo mi gettò in un’angoscia cosí 15 terribile che per un po’ corsi in qua e in là come un pazzo. Siccome sopraggiungeva la notte, cominciai con cuore grave a considerare quale sarebbe stata la mia sorte se in quel paese vi fossero state bestie fameliche4, visto che di solito è di notte ch’esse escono a predare. L’unico rimedio che mi si presentò alla mente allora fu di salire su di un albero, 20 una specie di abete, folto e fronzuto5 ma spinoso, che cresceva lì vicino; e lì decisi di passare la notte, e meditare di quale morte sarei morto il giorno dopo, perché ancora non vedevo alcuna possibilità di sopravvivere. Mi allontanai dalla spiaggia per circa duecento iarde6 per cercare dell’acqua da bere, e con mia grande gioia la trovai; e dopo aver bevuto ed essermi messo in bocca un po’ di tabacco per ingan25 nare la fame, andai all’albero e vi salii, e cercai di mettermi in una posizione da cui non potessi cadere se mi fossi addormentato; e, dopo essermi tagliato una mazza, una specie di corto bastone, per difendermi, presi alloggio tra i rami dell’albero, ed essendo estremamente affaticato, caddi in un sonno profondo, e dormii tanto
1 i marosi: le ondate del mare in burrasca. 2 Dopo... situazione: Robinson trae conforto inizialmente dal fatto di essersi salvato, unico di tutto l’equipaggio della nave.
3 che mi riusciva... sconfortante: che mi toglieva fiducia e speranza. 4 fameliche: affamate. 5 fronzuto: ricco di rami e di foglie.
6 duecento iarde: 180 metri circa; la iarda è un’unità di misura di lunghezza d’uso anglosassone (corrisponde a circa 0,90 metri).
Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 335
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comodamente come, credo, pochi avrebbero saputo fare nella mia condizione; e ne fui più ristorato di quanto non fossi mai stato, credo, in una tale situazione7. [Fattosi giorno, Robinson scorge dall’alto del suo rifugio la nave, che la corrente aveva trasportato fin quasi a riva, e decide di raggiungerla per recuperare ciò che gli può servire. Arrivato a nuoto sotto la nave, non sa però come salire a bordo. Gira due volte intorno ad essa finché scorge una fune e, aggrappatosi a questa, riesce a salire sulla nave e si dà da fare per accertare che cosa era recuperabile. Le provviste sembravano intatte: mangiato del biscotto e bevuta una gran sorsata di rum per farsi coraggio, Robinson pensa di portare a terra ciò che gli serve per sopravvivere.]
Era inutile stare con le mani in mano e sognare di avere ciò che non si poteva avere8, e questa estrema necessità mi spronò al lavoro. Nella nave avevamo parecchi pennoni9 di riserva, due o tre alberetti di legno e un albero di gabbia10. Decisi di cominciare da questi, e ne gettai molti in mare come meglio potei, dato il loro pe35 so, legandoli uno per uno con una fune perché non andassero via con la corrente. Fatto questo, mi calai lungo il fianco della nave e, tirandoli a me, li legai insieme alle estremità quanto più forte potei e ne feci una specie di zattera; poi, dopo averla coperta con due o tre tavoloni da fasciame11 messi di traverso, provai a camminarci sopra e vidi che mi reggeva benissimo, ma che non poteva sopportare un grande 40 peso perché i legni erano troppo leggeri. Così mi misi al lavoro, e con la sega da carpentiere12 tagliai un albero di gabbia in tre pezzi e li aggiunsi alla mia zattera con gran travaglio13; ma la speranza di provvedermi di cose necessarie mi stimolò a fare più di quanto non avrei avuto la forza di fare in altra circostanza. 7 in una tale situazione: in una situazione paragonabile a questa per scomodità. 8 Era... avere: desiderio di Robinson è un’imbarcazione con cui trasportare dalla nave naufragata, prima che affondi, ciò che gli potrebbe servire.
T1b D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe. Le ulteriori avventure. Serie riflessioni, trad. di A. Meo, a c. di G. Sertoli, Einaudi, Torino 1998
1 ingegnosità: capacità di inventare o trovare soluzioni a problemi di varia natura.
9 pennoni: le antenne orizzontali per il lato superiore delle vele quadrate. 10 albero di gabbia: nei velieri è il secondo tronco dell’albero che regge la vela maestra.
11 fasciame: rivestimento. 12 carpentiere: operaio addetto alle costruzioni nei cantieri edili e navali. 13 travaglio: fatica.
Un’esaltazione della ragione Arrivato all’isola da alcuni giorni ormai, Robinson decide di costruirsi alcuni oggetti che rendano più sopportabile la sua condizione sull’isola, innanzitutto una sedia e un tavolo. L’operazione materiale, che mette alla prova le sue abilità manuali, mai prima sperimentate, è l’occasione per una riflessione sul fondamento razionale delle attività tecniche (di «qualsiasi arte meccanica») e, più in generale, per elogiare la ragione.
E ora cominciai a farmi quelle cose necessarie di cui trovai che avevo più urgente bisogno, in particolare una sedia e un tavolo; perché senza di essi non potevo godere delle poche comodità che avevo al mondo. Senza un tavolo non potevo né scrivere né mangiare, né fare altro con un certo piacere. 5 Così mi misi al lavoro; e qui devo necessariamente osservare che, siccome la ragione è la sostanza e la sorgente prima delle matematiche, così col fissare e squadrare tutto per mezzo della ragione, e col fare il giudizio più razionale delle cose, ogni uomo può col tempo divenire padrone di ogni arte meccanica. Non avevo mai maneggiato un attrezzo in vita mia; eppure col tempo, col lavoro, con l’applicazione e 10 l’ingegnosità1 trovai alla fine che non c’era cosa, tra quelle che mi mancavano, che non mi sarei potuto costruire da me, specialmente se avessi avuto gli attrezzi adatti.
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Analisi del testo Spirito pratico e calcolo razionale: le doti “borghesi” di Robinson Il racconto dei primi tempi della vita sull’isola dopo il naufragio evidenzia la presenza nel protagonista di uno spirito pratico e di un’ottica progettuale, che gli consentono di affrontare i problemi, individuando di volta in volta le soluzioni più idonee: così per trasportare dalla nave a terra gli oggetti che gli interessano si fabbrica una rudimentale zattera. Le azioni di Robinson sono sempre guidate dal calcolo razionale, dalla valutazione del rapporto fra rischi o costi e vantaggi di ciò che si accinge a intraprendere: ad esempio (in un passo qui non riportato) rinuncia a recuperare la barca con cui è arrivato sull’isola perché è troppo lontana e torna a nuoto sulla nave, che è invece più vicina; poi, per trasportare ciò che vi ritrova, si mette a costruire una zattera, consapevole dell’utilità che gliene deriverà.
Un nuovo modello di “eroe” Robinson appare ben diverso dai protagonisti/eroi della tradizione narrativa: le sue avventure, per quanto strane (il naufragio su un’isola deserta non è certo un’esperienza abituale), sono incentrate, come si vede nei due passi, sui bisogni elementari della sopravvivenza (procurarsi il cibo) e di una vita normale (avere un tavolo e una sedia); le sue “virtù” non sono quelle cavalleresche, ma le qualità e le abilità che i lettori potevano riconoscere (o desiderare) come proprie. È lo stesso Robinson, attraverso alcune espressioni («Era inutile stare con le mani in mano»; «col lavoro, con l’applicazione e l’ingegnosità trovai alla fine che non c’era cosa, tra quelle che mi mancavano, che non mi sarei potuto costruire da me»), a indicare le virtù dell’“eroe” moderno, prima tra tutte la razionalità, sottolineando le nuove concezioni filosofiche che si stavano affermando in Inghilterra già dalla fine del secolo XVII e che culmineranno nell’Illuminismo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in massimo 10 righe il contenuto dei due brani. Inserisci gli opportuni raccordi tra i differenti momenti narrati nei due testi. COMPRENSIONE 2. Da quali dettagli si può capire che Robinson si sforzi di adattarsi al nuovo contesto? 3. Dalla frase finale del secondo testo traspare una nuova consapevolezza di Robinson. Quale? ANALISI 4. Robinson parla con precisione della sua situazione e descrive i propri comportamenti dopo il naufragio: individua alcuni esempi di questa sua autorappresentazione e spiegane la funzione, tenendo conto dell’obiettivo dello scrittore di far credere che si tratti di un resoconto “vero”.
Interpretare
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
ESPOSIZIONE ORALE 5. Spiega la frase: «col fissare e squadrare tutto per mezzo della ragione, e col fare il giudizio più razionale delle cose, ogni uomo può col tempo divenire padrone di ogni arte meccanica». Sei d’accordo con questa affermazione? Se sì, perché? Hai a disposizione 2 minuti. 6. Rifletti sul significato educativo che la storia del naufrago Robinson rappresenta. Quale valore formativo, secondo te, viene attribuito al lavoro? Che cosa può garantire la sopravvivenza e l’autosufficienza dell’individuo quando l’esistenza e l’ordine prestabilito sono travolti dalle bufere della vita? Rifletti anche sulla base della tua esperienza. SCRITTURA 7. Quello di Defoe è stato definito uno stile spoglio, diaristico, documentario: commenta questo giudizio critico in relazione ai due testi presentati.
online T2 Daniel Defoe
Robinson medita sui veri valori dell’esistenza Le avventure di Robinson Crusoe
Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 337
Moll Flanders di Daniel Defoe In Moll Flanders (1722), il romanzo più noto di Defoe dopo Robinson Crusoe, si immagina che la protagonista (ispirata a una celebre ladra, vissuta realmente un secolo prima), ormai in età matura e pentita della sua vita sregolata e viziosa, racconti in prima persona le proprie vicende. Nella prefazione al romanzo, lo scrittore – utilizzando un espediente ricorrente nella tradizione narrativa – finge di aver trovato il manoscritto della storia di una donna dalla vita avventurosa, con «le sue azioni perverse» e il suo ravvedimento finale. Per Defoe, pubblicare il memoriale «della parte viziosa di questa vita» ha una finalità educativa, perché il lettore potrà trarne un insegnamento e migliorare sé stesso. La trama La protagonista, Moll Flanders, nasce in prigione, figlia di una ladra che viene poi deportata in Virginia. Assunta a servizio in casa di una ricca famiglia, viene sedotta da uno dei due figli della padrona. La fine della relazione segna l’inizio della vita dissoluta di Moll. Grazie alla sua intraprendenza e spregiudicatezza, riuscirà a farsi mantenere da molti uomini e anche a farsi sposare per ben cinque volte. Il quarto marito è un avventuriero irlandese, con cui vive di furti e di inganni (anche reciproci) finché costui la lascia; dopo aver partorito un figlio (affidato a una famiglia di contadini), per assicurarsi di che vivere accetta la proposta di matrimonio di un antico ammiratore, un onest’uomo all’oscuro di tutto. La morte dell’ultimo marito la costringe a rubare per vivere. Scoperta, è arrestata e condannata a morte; alla fine è graziata e deportata in Virginia; pentita, comincia il suo riscatto morale. Ritorna in Inghilterra ormai anziana e si mette a scrivere le sue memorie. Un personaggio-simbolo della società protocapitalista… Moll Flanders è un personaggio dalle molteplici sfaccettature: pur presentandola nella Prefazione come una donna moralmente perduta, lo scrittore evita di farne un ritratto stereotipato ed è attento invece a delineare la complessa gamma dei suoi sentimenti attraverso l’autoanalisi che la protagonista stessa compie in alcuni momenti cruciali del racconto-memoriale della sua complicata esistenza. Nello stesso tempo Defoe fa di Moll un personaggio-simbolo, come già Robinson Crusoe, della società protocapitalistica: nello sfruttamento della propria bellezza Moll Flanders dimostra infatti
William Hogarth, Scena di un bordello, dalla serie A Rake’s Progress (1732-1735, Londra, Sir John Soane’s Museum).
338 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
non solo spregiudicatezza, ma anche una notevole capacità, diciamo, “imprenditoriale”, così come nelle diverse traversie (le sue «sfortune») riesce sempre a trovare pragmaticamente una soluzione. … ma anche una vittima della società Non manca nello scrittore anche un obiettivo di denuncia sociale: se Defoe attribuisce alla propria eroina la responsabilità del suo traviamento morale, al contempo presenta le sue colpe come conseguenza della degradazione morale della società in cui vive, facendone in qualche modo una vittima. Questa prospettiva è già evidente all’inizio del suo racconto, quando Moll racconta la seduzione da parte del giovane aristocratico (➜ T3 OL): orgoglio, vanità e avidità inducono la ragazza a farsi complice del proprio seduttore, ma la sua responsabilità morale appare comunque inferiore a quella di chi l’ha spinta alla colpa approfittando della sua condizione di inferiorità sociale e della sua ingenuità. Una prospettiva riconducibile all’impegno sociale e alla visione filantropica dell’autore. online
online
T3 Daniel Defoe Un episodio cruciale nella vita di Moll Flanders Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders
T4 Daniel Defoe Moll Flanders diventa una ladra Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders
Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson Pamela o la virtù ricompensata, scritto da Samuel Richardson (1689-1761), stampatore di professione, pubblicato nel 1740, inaugura con successo una nuova modalità narrativa (che diventerà un sottogenere), destinata a larga fortuna nella tradizione del romanzo europeo moderno: quella del romanzo epistolare (➜ PAG. 345), in cui la narrazione dei fatti e le riflessioni e i sentimenti dei personaggi che a essi si intrecciano sono comunicati al lettore attraverso le lettere. In Pamela il romanzo è costituito dalle lettere che la protagonista, una giovane cameriera, scrive ai propri genitori per informarli dei tentativi di seduzione del suo nobile padrone. La trama Pamela Andrews, figlia di poveri e onesti agricoltori, è a servizio presso una nobildonna. La storia comincia con la morte della padrona, che affida la sua cameriera quindicenne al figlio scapolo, il conte di Belfart, un superficiale libertino. Quando il nobile manifesta a Pamela la sua passione, cercando – inutilmente – di convincerla, anche con offerte di doni e di denaro, a diventare la sua amante, la ragazza respinge le sue avances, di cui parla diffusamente nelle sue lettere ai genitori. Decisa a sottrarsi alle mire del padrone, sdegnato per l’inaspettato rifiuto del suo amore, se ne torna a casa, ma viene fatta rapire dal conte e affidata a una carceriera per indurla a cedergli. Alla fine la rettitudine di Pamela induce il nobile a lasciarla libera: in una lettera, che la raggiunge in viaggio verso la casa paterna, il conte le esprime il suo pentimento, dichiarandole i suoi sentimenti. La ragazza, rendendosi conto di esserne a sua volta innamorata, ritorna da lui, che decide di sposarla nonostante le differenze sociali. La virtù viene così alla fine premiata (come già suggerisce il titolo del romanzo). La “virtù insidiata”: un tema di grande fortuna nel tempo Il tema della seduzione di un aristocratico nei confronti di una fanciulla indifesa e di rango sociale inferiore avrà un largo seguito nella narrativa (basti pensare ai Promessi sposi). Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 339
Le ragioni della fortuna di questo tema sono molteplici. Innanzitutto il contrasto fra la volontà sopraffattrice del seduttore e la resistenza opposta dalla fanciulla genera di per sé nel racconto una situazione drammatica, capace di garantire il coinvolgimento emotivo soprattutto nel pubblico femminile. Inoltre, sulla base dell’inevitabile solidarietà dei lettori nei confronti dell’eroina soggetta a violenza fisica e psicologica da parte del suo persecutore, il romanzo diventa strumento di polemico attacco all’arroganza dei nobili, abituati, nel contesto in cui è ambientata la vicenda (che è poi lo stesso dei lettori/lettrici), a imporre e soddisfare ogni loro capriccio e desiderio erotico. La rappresentazione della virtù insidiata in Pamela è funzionale all’affermazione della morale puritana. Facendosene portavoce, Richardson opta per una soluzione positiva ed edificante della vicenda: l’innamoramento del seduttore, e poi la sua decisione di lasciare libera Pamela, segnano il trionfo della virtù sul vizio. Il confronto con la salda moralità di Pamela diventa inoltre per il suo padrone l’occasione e lo stimolo per cambiare vita: Pamela inaugura così il motivo della “conversione”, che altri celebri personaggi della letteratura (come l’Innominato manzoniano) incarneranno. Il successo di Pamela indusse Richardson a scrivere un nuovo romanzo, Clarissa (1748), che presenta una trama simile al precedente (una giovane virtuosa insidiata da un libertino), ma con un finale drammatico, e sviluppa con maggior profondità l’analisi psicologica della protagonista.
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
Samuel Richardson
T5
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Una cameriera virtuosa (ma anche battagliera) Pamela o la virtù ricompensata, Lettera XVI
S. Richardson, Pamela o la virtù ricompensata, trad. di M. D’Amico, Frassinelli, Roma 1995
Il padrone, dopo aver scoperto che Pamela ha rivelato ai suoi genitori e alla governante, la signora Jervis, i suoi tentativi di seduzione, l’accusa davanti a questa di aver distorto il suo comportamento e di averlo infamato. Pamela sostiene con coraggio le proprie ragioni.
LETTERA XVI So, miei cari genitori, che non vedevate l’ora di avere mie notizie; e ve le ho mandate appena ho potuto. Bene! potete immaginare l’imbarazzo in cui ho passato il tempo fino all’arrivo dell’ora fissata da lui1. Ogni minuto, via via che si avvicinava, i miei terrori aumen5 tavano; e a volte avevo molto coraggio, e a volte non ne avevo affatto; e pensavo che sarei svenuta, quando fosse giunto il momento della fine della cena2 del mio padrone. Non potevo mangiare né bere; e malgrado tutti i miei sforzi, avevo gli occhi gonfi di pianto. 1 potete... lui: Pamela aspetta con preoccupazione (imbarazzo) il colloquio con il padrone, da lui fissato alla presenza della governante, dopo che l’ultimo tentativo
di seduzione si è concluso con lo svenimento della ragazza, terrorizzata dalle sue profferte amorose.
340 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
2 il momento... cena: è l’ora fissata per il colloquio.
Da ultimo egli è salito nello stanzino che era stato il vestibolo della mia buona signora; una camera che una volta avevo amato, ma poi temuto3. Non vi fa male il cuore per me? Io sono certa che il mio svolazzava4 qua e là come un uccellino appena rinchiuso nella gabbia. O Pamela, mi dicevo, perché hai tanta paura? Non hai fatto niente di male! Ma se temi un giudice ingiusto quando sei innocente, che cosa faresti davanti a uno giusto, se fossi colpevole? Fatti coraggio, 15 Pamela, tu conosci il peggio! E quanto è più felice la scelta della povertà con onestà, che quella dell’abbondanza con perfidia! Così mí rianimavo; ma lo stesso il mio povero cuore sprofondava, e i miei spiriti erano del tutto fiaccati5. Qualunque cosa si muoveva, mi sembrava che fosse per chiamarmi al mio rendiconto6. Lo temevo, e tuttavia desideravo che venisse. 20 Ebbene, alla fine egli ha suonato il campanello; oh, ho pensato, ecco, il campanello del mio funerale! La signora Jervis è andata su, col cuore abbastanza gonfio, povera buona donna! Lui ha detto: «Dov’è Pamela? Che salga, e voi salite con lei». Lei è venuta da me; coi piedi io ero pronta ad andare, ma il mio cuore era con 25 i miei cari padre e madre, desideroso di condividere la vostra povertà e la vostra contentezza. Nondimeno, sono salita. Oh, come fanno gli uomini malvagi ad apparire così fermi e superiori mentre hanno il cuore così nero, e i poveri innocenti gli stanno davanti in piedi come malfattori! Lui aveva un aspetto così severo che il cuore mi è venuto meno, e avrei voluto 30 trovarmi dovunque salvo che lì, anche se in precedenza avevo chiamato a raccolta tutto il mio coraggio. Buon Dio, mi sono detta, dammi il coraggio di affrontare questo cattivo padrone! Oh, addolcisci lui, o indurisci me! «Entra, sciocca», ha detto lui, con stizza7, non appena mi ha vista (e mi ha afferrata la mano con uno strattone), «fai bene a vergognarti di vedermi, dopo tutto il 35 tuo chiasso8 e le tue sciocchezze, e dopo avermi messo in mostra come hai fatto.» Io vergognarmi di vedere voi! ho pensato: buona questa!9 Ma non ho detto nulla. «Signora Jervis10», ha detto, «eccovi qui tutte e due: voi sedetevi; ma che lei stia in piedi, se vuole» (sì, ho pensato io, se posso; perché i ginocchi mi battevano uno contro l’altro). «Non avete pensato, quando avete visto la ragazza nello stato in 40 cui l’avete trovata, che le avevo dato il più grave motivo di rimostranza che donna possa ricevere; e anzi, che l’avessi autenticamente rovinata, secondo quanto lei dice? Ditemi, avete potuto pensare a qualcosa di meno?» «Per la verità», ha detto lei, «questo ho temuto a prima vista11.» «Vi ha raccontato quello che le ho fatto, e tutto12 quello che le ho fatto, così da dare occasione a quella follia, grazie alla quale la mia 10
3 il vestibolo... temuto: nel guardaroba il padrone aveva fatto delle avances a Pamela. 4 svolazzava: batteva irregolarmente per effetto della paura. 5 i miei... fiaccati: le mie forze erano indebolite. 6 rendiconto: la resa dei conti con il padrone. 7 stizza: rabbia, suscitata dal comportamento ribelle di Pamela.
8 chiasso: il giorno precedente Pamela, spaventata, aveva reagito con urla e svenimenti ai baci e agli abbracci del padrone. 9 Io... questa!: i punti esclamativi e l’espressione colloquiale esprimono lo stupore per il ribaltamento dei ruoli: è il padrone, secondo Pamela, a doversi vergognare, non lei. 10 Signora Jervis: è la governante, addetta a sovrintendere al personale di servizio.
11 a prima vista: la governante conferma che lo svenimento di Pamela l’aveva indotta a pensare che fosse stata violentata dal padrone. 12 tutto: il termine, evidenziato dal corsivo, ha valore antifrastico (vale “nulla”: secondo il padrone, i suoi approcci erotici non erano tali da meritare la reazione sproporzionata di Pamela).
Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 341
45 reputazione avrebbe potuto essere danneggiata nell’opinione vostra, e in quella di
tutta la famiglia? Informatemi, che cosa vi ha raccontato?» Lei si è spaventata un po’ troppo, come ha ammesso in seguito, davanti al suo piglio severo; e ha detto: «Veramente mi ha raccontato che voi ve l’eravate soltanto13 tirata sulle ginocchia, e l’avevate baciata». 50 A quel punto io ho chiamato un po’ a raccolta i miei spiriti. «Soltanto! Signora Jervis», ho detto, «e questo non era sufficiente a mostrarmi che cosa avevo da temere? Quando un padrone del rango di sua eccellenza si abbassa a prendersi delle libertà simili14 con una povera serva come me, che cosa non si deve temere? E la vostra eccellenza è andata oltre; e ha parlato di Lucrezia15, e del suo triste destino. Vostra 55 eccellenza16 sa di essersi spinta troppo avanti per un padrone con una serva, o anche con una pari grado; e», scoppiando in lacrime, «io non lo sopporto.» La signora Jervis si è messa a chiedere scusa per me, e a pregarlo di compatire una povera fanciulla, che attribuiva tanto valore alla sua reputazione. Lui ha detto: «Io glielo dico in faccia, la trovo graziosa, e la credevo umile, e tale da non farsi mon60 tare la testa dai miei favori, o dall’attenzione che le prestavo; ma aborro17 l’idea di costringerla a fare alcunché. So anche troppo bene che cos’è che mi si addice18; ma ero stato stregato19 da lei, credo, fino a prendermi delle libertà superiori a quanto mi si sarebbe confatto20; anche se non avevo intenzione di spingere oltre lo scherzo». Che miseria è stato tutto questo, mia cara madre, da parte di un uomo della sua 65 intelligenza! Ma guardate fino a che punto una cattiva causa, e cattive azioni, confondono i maggiori cervelli21! A me ha dato un po’ più di coraggio, allora; poiché, come ho visto, l’innocenza in una fortuna modesta, e non l’intelletto robusto, ha molti vantaggi sulla colpa, con tutte le sue ricchezze e la sua saggezza22. «La vostra eccellenza», ho detto, «può chiamarlo scherzo o passatempo, o quello che 70 le piace; ma certo, signore, non è uno scherzo adatto alla distanza fra un padrone e una serva.» «Sentite, signora Jervis?» ha detto lui, «sentite l’impertinenza23 di questa creatura? Di cose di questo tenore ne ho ascoltate un bel po’ nel padiglione24, non più tardi di ieri, il che mi ha reso più scorbutico25 con lei di quanto forse diversamente sarei stato.» 75 «Pamela, non essere impertinente con sua eccellenza», ha detto la signora Jervis, «dovresti saper mantenere le distanze; lo vedi che sua eccellenza scherzava soltanto.» «Oh, cara signora Jervis», ho detto io, «non biasimatemi anche voi26. È molto
13 soltanto: l’uso del corsivo sottolinea la volontà di circoscrivere la gravità dell’accaduto. 14 simili: in questo caso il corsivo conferisce enfasi all’aggettivo, esprimendo la protesta di Pamela, convinta della gravità dell’accaduto nonostante il tentativo di ridimensionamento dei suoi interlocutori. 15 Lucrezia: è la patrizia romana violentata, secondo la leggenda, dall’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo; il fatto che il padrone l’avesse citata aveva spaventato Pamela, facendole pensare di avere la stessa sorte. 16 Vostra eccellenza: è la formula di rispetto usata dai servitori e dai ceti inferiori con i nobili.
17 aborro: rifiuto, odio. 18 che cos’è... addice: quale comportamento è consono alla mia condizione. 19 stregato: sedotto, ammaliato. Il termine conferisce a Pamela i poteri di una strega, togliendo così all’aristocratico ogni responsabilità per il suo comportamento. 20 a quanto... confatto: a quanto sarebbe stato adeguato al mio rango. 21 i maggiori cervelli: le persone più intelligenti. 22 innocenza... saggezza: la frase riprende il concetto appena espresso, affermando la forza superiore dell’innocenza sulle strategie dell’intelligenza nel caso di una colpa come queste.
342 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
23 impertinenza: sfacciataggine, perché la ragazza si è permessa di ricordargli il suo dovere. 24 padiglione: è l’altro luogo della casa dove sono avvenuti i tentativi di seduzione. 25 scorbutico: intrattabile, in realtà prepotente. 26 voi: il corsivo vuole evidenziare la forza con cui Pamela lo pronuncia, sentendosi rimproverata e quindi abbandonata dalla sua unica alleata.
difficile per una serva mantenere le distanze dal suo padrone, quando il suo padrone abbandona la sua dignità con lei.» 80 «Avete visto, di nuovo?» ha detto lui, «lo avreste potuto credere questo da parte della giovane sfacciata, se non lo aveste sentito?» [Davanti alle proteste del padrone, la governante cerca di giustificare Pamela, attribuendo il suo comportamento alla giovane età e al desiderio di difendere la sua onestà. Gli assicura che la cameriera non gli mancherà più di rispetto, se lui non la molesterà. Il padrone tuttavia dichiara di aver deciso di rimandarla a casa, sostenendo che Pamela è un’ipocrita e che lo diffama con le sue lettere, facendolo sembrare un malvagio mentre lui voleva solo essere gentile. La giovane, alla notizia di essere libera di tornare dai suoi genitori, si getta in ginocchio ringraziandolo.]
Analisi del testo L’autodifesa di Pamela Nel colloquio con il giovane aristocratico alla presenza della governante, Pamela, decisa a difendere la propria onestà, non esita a infrangere la sottomissione al suo padrone prevista dal codice di comportamento di un’epoca ancora dominata dai privilegi aristocratici. La protagonista è consapevole della sua inferiorità sociale, sottolineata dall’uso costante del termine «padrone», ma non per questo rinuncia ad affermare anche verbalmente, come ha già fatto con il suo comportamento, la sua dignità di persona e i suoi princìpi morali, ed è anzi lei a richiamare il nobile ai doveri della sua condizione, con l’orgoglio e la veemenza di chi sa di aver ragione. Considerato tradizionalmente espressione della morale puritana, Pamela è in realtà soprattutto un’opera portavoce di una nuova coscienza sociale, critica nei confronti di un’autorità che viene meno al suo ruolo. Nell’autodifesa della giovane emergono già i princìpi dei filosofi illuministi, che non a caso apprezzeranno il romanzo e il personaggio.
La fuga d’amore: Pamela vola verso la carrozza, mentre Lady Danvers manda due dei suoi valletti a fermarla (illustrazione di Francis Hayman).
Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 2 343
La tecnica narrativa Il testo crea nel lettore una forte empatia, risultato, oltre che della difficile situazione evocata (il conflitto con il «padrone»), del sapiente uso delle tecniche narrative impiegate da Richardson nel romanzo. «La decisione di presentare i fatti dal solo punto di vista di Pamela aumenta l’interesse dell’azione nel suo insieme e quello dei numerosi episodi che la compongono. Una delle grandi scoperte di Pamela è l’arte di evocare l’immediatezza temporale del vissuto, l’intimo gioco dell’anticipazione, dell’angoscia e della speranza. Il realismo descrittivo di Richardson non ha dunque solo una funzione testimoniale, come se il lettore fosse il membro di una giuria che passa in rassegna tutti i fatti disponibili alla ricerca di prove decisive: ha anche, e soprattutto, la funzione di rivelatore psicologico, perché immerge il lettore nel mondo fittizio così come appare al personaggio, contribuendo alla rappresentazione indiretta ma straordinariamente efficace dei suoi stati d’animo. [...] Invece di andar dritto all’essenza di ogni evento, come avrebbero fatto i suoi predecessori, Richardson sceglie di presentare al lettore non ciò che è pertinente alla comprensione del racconto, ma ciò che l’eroina percepisce qui e ora» (Thomas Pavel). Pur nella cornice epistolare che struttura il romanzo, il racconto procede qui essenzialmente attraverso l’uso del dialogo, l’incalzare incessante delle battute, che riproducono la viva voce dei personaggi (il nobile, Pamela, la governante). Una scelta narrativa che conferisce evidenza “drammatica” al tema trattato. Alla riproduzione del dialogo tra i personaggi si affianca la rievocazione dei pensieri e delle considerazioni della protagonista, ma anche dei discorsi che la ragazza ha rivolto a sé stessa, degli squarci di soliloquio. Sono infine presenti, indicate dalle parentesi, quasi delle didascalie teatrali. Un insieme di scelte che conferisce al testo un andamento particolarmente “mosso” e una straordinaria qualità realistica. Citazione da T. Pavel, Il romanzo alla ricerca di sé stesso. Saggio di morfologia storica, in F. Moretti (a c. di), Il romanzo, vol. II, Le forme, Einaudi, Torino 2002.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Come spieghi la reazione di Pamela alle parole della signora Jervis? SINTESI 2. Sintetizza il contenuto del brano in breve testo espositivo (max 10 righe). ANALISI 3. Individua i passaggi nel brano in cui Pamela, pur tra mille incertezze e tentennamenti, esprime la consapevolezza di essere nel giusto. TECNICA NARRATIVA 4. Individua nel brano i passaggi in cui Richardson utilizza la tecnica del soliloquio.
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
SCRITTURA
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Costituzione
competenza 3
5. Si può dire che il conte in questo colloquio attui un’ulteriore violenza nei confronti di Pamela? Se sì, perché e in quali forme? Motiva la tua risposta in un testo argomentativo (max 20 righe). ESPOSIZIONE ORALE 6. La fermezza di Pamela e la sua orgogliosa integrità morale ben rappresentano le aspirazioni di ascesa sociale delle classi medie. Argomenta, mettendo in relazione l’aspra critica della società di Richardson con l’enorme successo che ebbe il romanzo. Hai a disposizione 3 minuti.
online T6 Henry Fielding
Un elogio dei diritti del corpo: la grande abbuffata di Tom Jones Tom Jones, vol. 1, ix, v
344 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
3
Le tipologie del romanzo settecentesco Dall’Inghilterra il romanzo moderno si diffonde lungo il secolo in tutta Europa, ispirando – in particolare in Francia e in Germania – una vasta produzione che sviluppa ed elabora i modelli inglesi in relazione ai diversi contesti sociali e culturali. Delle forme e tipologie che si affermano alcune sono del tutto nuove, altre innovano profondamente generi già consolidati nella storia della letteratura. Occorre precisare che, proprio la mancanza di una rigida codificazione del genere romanzo comporta la proliferazione di vari “sottogeneri” e la compresenza, nella maggior parte dei casi, di diverse tipologie. Lo schema qui sotto proposto ha quindi un carattere solo indicativo. • I romanzi di viaggi e d’avventura Tra i generi predominanti e particolarmente apprezzati dal pubblico, si annoverano i romanzi incentrati sul tema-schema del viaggio, in relazione alla centralità che l’esperienza del viaggio, anche di esplorazione, ebbe nella società settecentesca (➜ PAG. 241). Questo genere, inaugurato dal Robinson Crusoe di Defoe, ebbe molti seguaci. Un uso particolare del temaschema del viaggio d’avventura è proposto pochi anni dopo da Jonathan Swift, che nei Viaggi di Gulliver (1726) affida alle peregrinazioni del protagonista in mondi fantastici la satira impietosa nei confronti delle molteplici storture della società del suo tempo (ed è quindi, a suo modo, una sorta di “racconto filosofico” ➜ T7 ). Lo stesso vale per un romanzo dichiaratamente “filosofico” come Candido (1759) di Voltaire (➜ PAG. 355). La dimensione dell’avventura è presente in quasi tutti i romanzi settecenteschi, anche indipendentemente dalla presenza del viaggio: l’avventura, lo scontro con ambienti ostili, mette alla prova le qualità individuali dei protagonisti, come avviene in Tom Jones (1749) di Fielding (➜ T6 OL). • Il romanzo sentimentale ed epistolare Nella cultura settecentesca il valore cardine è la razionalità, ma al contempo, per la prima volta viene valorizzata la dimensione dell’interiorità, la positività dei sentimenti e delle passioni, sulle quali si fonda propriamente la personalità dell’individuo. Spesso la “verità” dei sentimenti dei protagonisti si scontra con le convenzioni retrive della tradizione e con le leggi comportamentali vigenti: un tipico romanzo patetico-sentimentale è Paolo e Virginia (Paul et Virginie) (1788) di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre (➜ T9 OL). La valorizzazione della dimensione interiore e sentimentale è spesso associata dagli autori alla tipologia del romanzo epistolare che, sulla scìa del successo dei romanzi di Richardson (Pamela e Clarissa; ➜ T5 ), nella narrativa del Settecento conquista una vera e propria egemonia. Nel romanzo francese, la struttura epistolare è utilizzata in Giulia o la nuova Eloisa (Julie ou La nouvelle Héloïse, 1761) di Jean-Jacques Rousseau (➜ T8 ), un romanzo di straordinario successo, che sfrutta al massimo grado le potenzialità del genere per sviluppare l’analisi dei sentimenti dei personaggi, in particolare della protagonista, facendo della lettera uno strumento di introspezione. In forma di lettere scambiate tra due libertini è strutturato anche il romanzo Le relazioni pericolose (Les liaisons dangereuses, 1782) di Pierre-A.-F. Choderlos de Laclos (1741-1803; ➜ C12). Dopo La nuova Eloisa, il più celebre romanzo epistolare, accomunato a quello di Rousseau
Le tipologie del romanzo settecentesco
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dal tema dell’amore contrastato, è I dolori del giovane Werther (1774) del grande autore tedesco Johann Wolfgang Goethe a cui guarda Ugo Foscolo come modello per Le ultime lettere di Jacopo Ortis: la prima edizione dell’Ortis (1798) esce proprio a conclusione del secolo e segna la prima apparizione del romanzo moderno in Italia, in grande ritardo rispetto agli altri paesi europei. • Il romanzo filosofico Nella seconda metà del Settecento in Francia, in concomitanza con l’affermazione dell’Illuminismo, si sviluppa particolarmente il romanzo filosofico, il conte philosophique, una forma di narrazione che può assumere diverse tipologie narrative: Candido (Candide, 1759) di Voltaire (➜ PAG 000) ha un andamento avventuroso e segue lo schema del romanzo di formazione, Jacques il fatalista (Jacques le fataliste) di Denis Diderot (1713-1784) si presenta come il racconto di un viaggio, mentre Paolo e Virginia (Paul et Virginie) è, come si è detto, un romanzo sentimentale (➜ T9 OL). La prerogativa che accomuna romanzi tanto diversi è quella di utilizzare le vicende narrate per proporre i grandi temi del dibattito ideologico del tempo e per dare voce alle teorie dei filosofi illuministi, magari già espresse in forma di saggio, così da renderle accessibili a un pubblico più ampio. • L’“antiromanzo” A distanza di alcuni decenni dalla sua nascita il romanzo moderno, che aveva nel frattempo vissuto l’intensa stagione caratterizzata dal proliferare degli autori e dei generi di cui si è detto, trova uno sviluppo inedito nella Vita e opinioni di Tristram Shandy (The life and opinions of Tristram Shandy, gentleman, 1760-1767) dello scrittore inglese Laurence Sterne, che attua una vera e propria distruzione delle forme narrative ormai consolidate (compresa la dissoluzione dell’identità del personaggio) fino a creare una sorta di “antiromanzo”, che anticipa gli sviluppi che questo genere letterario avrà nel Novecento. Nell’opera di Sterne è espressa compiutamente la consapevolezza, già preannunciata da Fielding, che il romanzo è una costruzione del suo autore, il quale può disporre i meccanismi narrativi secondo le regole codificate dall’uso o infrangerle. Sterne non solo sceglie la seconda soluzione, ma attua con il Tristram, secondo la definizione di un famoso critico russo, Victor Sklowskij, la «messa a nudo dell’artificio del romanzo» (➜ T15 ). • Il romanzo gotico o nero L’ultimo decennio del secolo XVIII vede l’affermazione del romanzo gotico o nero che soppianta nei favori del pubblico il romanzo epistolare: creato da Horace Walpole (1717-1797) con Il castello d’Otranto (The Castle of Otranto, 1764), viene ripreso da Ann Radcliffe (1764-1823) e da Matthew Lewis (1775-1818), le cui opere ebbero grande successo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Il romanzo gotico contrappone l’immaginazione, gli effetti propri del “romanzesco”, al realismo propugnato dagli scrittori che avevano iniziato la nuova stagione della narrazione.
“La dannazione di Abdia”, dalla Vita e opinioni di Tristram Shandy in un’acquaforte di Henry William Bunbury, 1772 ca. (Graphic Arts Collection).
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Le tipologie del romanzo nel Settecento DI VIAGGIO E D’AVVENTURA
I viaggi di Gulliver di Swift
EPISTOLARE
Giulia o la nuova Eloisa di Rousseau
FILOSOFICO
Candido di Voltaire
“ANTIROMANZO”
Tristram Shandy di Sterne
GOTICO
Il castello d’Otranto di Walpole
I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift
Illustrazione da un’edizione tedesca dei Viaggi di Gulliver (Lipsia 1810).
Strutturato come un racconto di viaggi, sul modello inaugurato dal Robinson di Defoe, I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels), del 1726, di Jonathan Swift rinnova il genere grazie alla presenza della componente fantastica, in realtà impiegata come strumento per una dura satira nei confronti della politica e della società del tempo. L’ispirazione satirica costituisce del resto una costante nella vita e nella produzione dell’autore del romanzo, Jonathan Swift (1667-1745). Nato a Dublino da genitori inglesi, Swift vive a lungo in Inghilterra dove, per mantenersi, prende gli ordini religiosi e dove svolge una vivace attività di polemista politico. Traferitosi a Dublino, difende i diritti degli irlandesi contro il dominio inglese nello scritto satirico Una modesta proposta (1729), pubblicato tre anni dopo l’uscita del suo capolavoro, I viaggi di Gulliver, pubblicato anonimo. La trama dell’opera Il romanzo è diviso in quattro parti. Nella prima parte il protagonista, un medico di bordo di nome Lemuel Gulliver, in seguito a un naufragio, approda nell’isola di Lilliput, abitata da minuscoli abitanti. Quando risulta evidente che non ha intenzioni ostili, è accolto dall’imperatore alla sua corte. La società lillipuziana sembra funzionare, ma non mancano le lotte interne tra le opposte fazioni: ad esempio tra i sostenitori di diversi modi per rompere le uova (➜ T7 ), con la perdurante minaccia dell’invasione del regno di Blefuscu, che appoggia una delle fazioni. Oggetto della trasfigurazione satirica di Swift sono in questo caso le guerre di religione, condotte dagli uomini per cause pretestuose. Nella seconda parte il protagonista giunge a Brobdingnag, il paese dei giganti (dodici volte più grandi del normale), dove diventa il giocattolo di una bambina di nove anni. Il re del paese gli chiede di illustrargli le istituzioni politiche e civili inglesi e, nonostante Gulliver difenda la sua patria, dichiara di aver capito che «tutto è macchiato e contaminato dal vizio». La terza parte, in cui il bersaglio satirico sono filosofi, storici e inventori, è ambientata nell’isola volante di Laputa: i lapuziani,
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immersi nelle loro meditazioni, si dimenticano di quello che stanno facendo e devono essere sempre richiamati alla realtà dai loro servitori; qui i sarti confezionano al nuovo arrivato strani vestiti dopo avergli preso complicate misure. Nella sottostante capitale del regno di terraferma, Lagado, le case in cui gli abitanti vivono sono sbilenche e storte perché la geometria viene disprezzata mentre sono praticate le ricerche teoriche più inverosimili: costruire case partendo dal tetto, estrarre raggi di sole dalle zucche, produrre ghiaccio dalla polvere da sparo. La satira di Swift investe qui lo spreco delle risorse per ricerche scientifiche inutili, fini a sé stesse. La tappa successiva porta Gulliver nel paese dei cavalli, gli Houyhnhnm (il nome significa “la perfezione della natura”), che si rivelano saggi e virtuosi, in opposizione alla brutalità dei loro servitori, gli Yahoo, bestioni dalle sembianze umane. L’opera si conclude così con l’esplicita enunciazione di una concezione pessimistica nei confronti della natura umana. La critica alla società Nell’opera il protagonista arriva in luoghi dove gli abitanti e le condizioni di vita sono a prima vista alieni rispetto al mondo da cui proviene e sono tipici di una dimensione fantastica. Ogni viaggio, raccontato da Gulliver in prima persona, è il pretesto per lo scrittore per esprimere la sua visione critica dell’epoca in cui vive e dell’umanità stessa: i temi presi in esame vanno dalle guerre fatte per futili motivi, con gravi costi umani ed economici, al desiderio di potere che domina la politica, alle mode femminili che corrompono la società, alle ricerche scientifiche svolte per ambizione, che, invece di migliorare, peggiorano la vita dei popoli. La tecnica dello straniamento La condanna morale non è svolta esplicitamente ma indirettamente attraverso la tecnica dello straniamento, per cui la realtà nota al lettore viene rappresentata da una prospettiva insolita, in modo da fargliela sembrare apparentemente estranea, come se la vedesse per la prima volta, inducendolo così a notarne le assurdità e a riderne, grazie anche alla sproporzione tra la causa e l’effetto, all’esagerazione, al paradosso; nello stesso tempo i riferimenti ai problemi del mondo che conosce lo fanno riflettere e lo stimolano ad assumere un atteggiamento critico rispetto a ciò che legge.
Jonathan Swift
T7
Una guerra per stabilire da che parte si rompono le uova
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1, 2
I viaggi di Gulliver, I, iv J. Swift, I viaggi di Gulliver, a c. di M. D’Amico, Mondadori, Milano 1983
Durante la visita al palazzo reale di Lilliput, Gulliver riceve le confidenze di un alto dignitario di corte: il regno è sotto la minaccia di invasione da parte dell’imperatore di Blefuscu, che sostiene il partito dei «puntalarghisti», cioè di coloro che sostengono che le uova debbano essere rotte dalla parte larga, contro la fazione della «punta stretta».
Orbene, mentre ci si dibatte in questi torbidi interni1, siamo minacciati dall’invasione dei nostri nemici, gli abitanti, cioè, dell’isola di Blefuscu, la quale è l’altro grande impero dell’universo, quasi altrettanto ampio e potente quanto questo di Sua Maestà. Poiché i nostri savi hanno i maggiori dubbi circa quanto vi abbiamo udito 1 si dibatte... interni: l’importante personaggio con cui Gulliver si intrattiene,
nella parte di conversazione omessa, si è dilungato sul conflitto interno tra i partiti
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dei Tacchi Bassi e dei Tacchi Alti.
affermare, che, cioè, esistano altri regni e stati nel mondo popolati da esseri umani grossi come voi, e preferiscono credere che voi siate caduto giù dalla luna o da qualche altro astro; e certo è che cento uomini della vostra mole distruggerebbero in breve spazio di tempo tutti i frutti e il bestiame di questi dominii di Sua Maestà. Oltre a ciò, le nostre cronache di seimila lune2 non menzionano altre regioni 10 che non siano quelle dei due imperii di Lilliput e Blefuscu. Queste due gagliarde potenze, come appunto stavo per dirvi, guerreggiano ostinatamente fra loro dalla bellezza di trentasei lune. La lite cominciò nel seguente modo. È ammesso da tutti che il sistema più antico di rompere le uova prima di mangiarle è quello di farne saltare l’estremità più grossa: sennonché il nonno di Sua Maestà regnante, volendo 15 mangiare un uovo, e rompendolo secondo l’antico sistema, si tagliò per caso un dito. L’Imperatore suo padre non volle altro, e subito pubblicò un editto3 inteso ad imporre a tutti i suoi sudditi, sotto minaccia di gravi pene, di rompere le uova non altrimenti che con lo spiccarne l’estremità più piccola. Il popolo si sentì talmente offeso da questa legge che, a voler credere alle nostre cronache, ben sei ribellioni 20 scoppiarono, durante le quali un Imperatore perdette la vita, e un altro la corona. Questi torbidi interni furono costantemente fomentati4 dai monarchi di Blefuscu; e quando si riuscì a sedarli, gli esiliati cercarono sempre rifugio in quell’impero. Da un computo fatto risulta che non meno di undicimila persone, nel corso delle varie ribellioni, preferirono d’essere giustiziate, piuttosto che sottomettersi a rompere le 25 uova dall’estremità più piccola. Centinaia di grossi volumi sono stati pubblicati su questa controversia: ma i libri dei Rompidallapartegrossa sono stati da lungo tempo proibiti e gli aderenti al partito dichiarati in massa interdetti dai pubblici uffici. Durante questi torbidi, gl’Imperatori di Blefuscu inviarono di frequente ambasciatori a protestare, accusandoci di essere autori d’uno scisma5 col fare onta da una dottrina 30 fondamentale del nostro grande profeta Lustrog, contenuta nel cinquantaquattresimo capitolo del Brundecral6, il loro Corano. Ma si tratta, evidentemente, d’una interpretazione forzata del testo, perché questo suona: tutti i veri fedeli romperanno le uova dalla estremità conveniente: e quale sia l’estremità conveniente sembra, secondo il mio modesto parere, doversi lasciare ai dettami della coscienza d’ogni 35 singolo uomo, o, almeno, al responso della suprema magistratura. Frattanto gli esiliati Rompidallapartegrossa hanno trovato tale credito alla corte dell’Imperatore di Blefuscu e tanto appoggio ed incoraggiamento presso i correligionari rimasti qui in patria, che fra i due imperi una guerra sanguinosa è infierita per lo spazio di trentasei lune col continuo alternarsi di vittorie e sconfitte: noi abbiamo perduto quaranta 40 vascelli di linea, un numero anche maggiore di navi più piccole, oltre a trentamila marinai e soldati fra i migliori che avevamo; e il nemico ha patito un danno che si vuole alquanto maggiore del nostro. Ciò nonostante esso ha ora allestito una flotta numerosa, e appunto si prepara ad invaderci; e Sua Maestà l’Imperatore, riponendo massima fiducia nel vostro valore e nella vostra forza, mi ha ordinato di esporvi 45 questo stato di cose. 5
2 seimila lune: il computo del tempo avviene sull’unità di tempo base della lunazione (circa 29 giorni: è il tempo che la Luna impiega nel suo moto di rotazione intorno alla Terra). Più avanti (r. 12) si parla di trentasei lune.
3 pubblicò un editto: emanò una legge. 4 fomentati: istigati. 5 scisma: scissione, divisione in gruppi
6 da una... Brundecral: Lustrog e Brundecral sono nomi di fantasia per indicare il profeta e il testo sacro di Lilliput.
contrapposti all’interno di una comunità religiosa.
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Pregai il Segretario di voler presentare il mio umile omaggio all’Imperatore, e di fargli sapere che non credevo si addicesse a me, semplice forestiero, d’ingerirmi nelle lotte dei partiti, ma che ero pronto, a rischio anche della vita, a difendere la sua persona e il suo stato contro qualsivoglia invasore.
Analisi del testo Il linguaggio della satira Il racconto dei conflitti interni, delle guerre passate e di una imminente fatto dall’alto dignitario rappresenta, attraverso il filtro satirico, uno spaccato della politica inglese ed europea del tempo. Oggetto della satira dello scrittore sono le guerre scatenate per motivi religiosi: motivate spesso da divergenze di interpretazione, sono in realtà un pretesto per aggredire e dominare altri territori e popoli. L’intento satirico è realizzato attraverso la sproporzione tra la causa e l’effetto e il paradosso: le guerre tra il regno di Lilliput e quello di Blefuscu, causate dai due partiti dei “puntastretta” e dei “puntalarga”, divisi sulla parte dove rompere le uova, fanno ridere il lettore per la loro assurdità e nello stesso tempo gli fanno capire che altrettanto assurde e dannose sono quelle del mondo in cui vive. Non mancano infatti nel testo riferimenti riconducibili a una precisa interpretazione storica: la legge con cui gli appartenenti al partito dei puntalarghisti sono esclusi dai pubblici uffici allude al Test Act del 1673, legge inglese che stabiliva quella misura nei confronti dei non aderenti alla Chiesa anglicana.
Una soluzione “illuministica” per i conflitti Al primo segretario agli interni, interlocutore del protagonista nell’episodio, lo scrittore affida non solo la denuncia del problema ma anche la possibile soluzione: sempre attraverso la metafora della parte da cui rompere le uova, l’importante personaggio, ben diverso dai politici «funamboli» già incontrati da Gulliver a corte, sostiene che il testo sacro a cui i contendenti si appellano non stabilisce la parte giusta («si tratta, evidentemente, d’una interpretazione forzata del testo, perché questo suona: tutti i veri fedeli romperanno le uova dalla estremità conveniente»); pertanto è la coscienza individuale o il ricorso a un’autorità super partes a dover stabilire l’«estremità conveniente», secondo quei principi della libertà di coscienza e dell’autonomia della politica dalla religione che saranno propri dell’Illuminismo.
Gulliver prigioniero dei lillipuziani, scena dal film I fantastici viaggi di Gulliver del 2010, di Rob Letterman.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Dov’è ambientato l’episodio del brano proposto? 2. Quale significato ha il riferimento al Corano? LESSICO 3. In che modo l’intento satirico dell’opera si traduce nelle scelte lessicali dell’autore? Osserva con particolare attenzione nomi propri e toponimi.
Interpretare
SCRITTURA CREATIVA 4. Immagina di arrivare in un luogo in cui gli abitanti sono molto diversi da te: descrivi questo mondo immaginario e fanne il pretesto per una satira nei confronti di aspetti della nostra società che non condividi. ESPOSIZIONE ORALE
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1
5. Nella parte finale del brano proposto il primo segretario degli interni del regno di Lilliput esprime un punto di vista molto moderno su chi dovrebbe pronunciarsi sulle questioni legate al credo religioso. Perché, a tuo avviso, l’alto dignitario prende in considerazione anche la magistratura oltre alla coscienza individuale? Credi che le istituzioni giochino un ruolo importante nella creazione di società pacifiche? Motiva la tua risposta in un intervento orale di circa 5 minuti. COMPETENZA DIGITALE
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 2
6. La libertà religiosa è tutelata da molte Carte costituzionali e dichiarazioni internazionali, ma purtroppo non è garantita in tutto il mondo. Fai una ricerca in Rete in merito ai paesi che non rispettano la libertà di professare il proprio credo religioso ed esponi il risultato del tuo lavoro alla classe in forma multimediale. Illustra altresì gli articoli della Costituzione italiana che sanciscono il diritto alla libertà religiosa.
Giulia o La nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau Il romanzo di Jean-Jacques Rousseau, Giulia o La nuova Eloisa (Julie ou La nouvelle Héloïse), fu un vero e proprio best-seller (dopo la prima edizione del 1761 si contano alla fine del secolo ben 72 ristampe!). Diviso in sei parti, ha una struttura epistolare: la prima parte è incentrata sullo scambio di lettere tra Giulia e il suo precettore e amante, nella seconda, e soprattutto nelle ultime tre, la corrispondenza avviene anche tra personaggi diversi dai due protagonisti. La trama dell’opera La vicenda inizia a Clarens, sul lago Lemano, nella Svizzera francese, dove il giovane Saint-Preux, di grandi qualità interiori ma di origine borghese, si innamora della nobile Giulia d’Etanges, di cui è precettore. L’amore è osteggiato dal padre di Giulia a causa della differenza sociale: i due innamorati sono costretti a separarsi. Dopo il ritorno di Saint-Preux a Clarens, diventano amanti, ma Giulia si rifiuta di fuggire con lui per non opporsi alla volontà del padre. La nuova separazione non pone fine alla loro corrispondenza, fino a quando Giulia accetta di sposare un uomo scelto per lei dal padre, rinunciando a Saint-Preux. Questi, dopo aver meditato il suicidio, sceglie di imbarcarsi per una destinazione lontana. Dopo quattro anni il marito di Giulia, ormai madre di due figli, invita Saint-Preux a Clarens, nella speranza che l’antica passione si trasformi in un amore spirituale; il progetto però fallisce e i due amanti rivivono l’antico sentimento con la stessa intensità, pur non cedendo al desiderio. Giulia, divisa tra la fedeltà coniugale e la passione, vede come unica soluzione al suo conflitto la morte: il suo desiderio si avvera quando, per salvare uno dei figli caduto nel lago, si ammala e muore, dopo aver affidato a Saint-Preux l’educazione dei figli.
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La genesi del romanzo: tra dimensione autobiografica e suggestioni letterarie Rousseau scrive il romanzo tra il 1756 e il 1758, dopo aver lasciato Parigi ed essersi ritirato a vivere in campagna in solitudine, a contatto diretto con la natura: una condizione che favorisce particolarmente l’introspezione, l’autoanalisi di cui il romanzo stesso si può considerare il frutto. Nel libro IX delle Confessioni Rousseau delinea il contesto da cui il romanzo trasse origine, insieme ambientale (la campagna appunto, che nel libro è significativamente contrapposta alla città) e psicologico-esistenziale (una condizione malinconica e al contempo aperta alla passione amorosa che pare l’autore vivesse veramente proprio nel periodo della stesura del romanzo). Il romanzo ha dunque un risvolto autobiografico, che Rousseau stesso sottolineò, dichiarando di aver dato al protagonista «le virtù e i difetti che sentivo miei». D’altra parte, il titolo scelto da Rousseau per la sua opera rivela anche il modello letterario a cui si ispira, e cioè la drammatica storia d’amore tra il filosofo medievale Pietro Abelardo (1079-1142) ed Eloisa, sua allieva e poi moglie segreta. Tra Abelardo, fattosi monaco, ed Eloisa, ritiratasi in convento, si svolse un lungo carteggio su aspetti etici e filosofici, in un processo graduale di elevazione spirituale del sentimento amoroso. Il tema La vicenda narrata, la passione tra Giulia e Saint-Preux e la rinuncia vissuta dai due protagonisti, e in particolare da Giulia, a vivere fino in fondo la loro storia d’amore traspone sul piano del privato il grande tema rousseauiano del conflitto tra natura e civiltà: alla “naturalità” della passione, a cui i due giovani (appena ventenni) in un primo tempo cedono, si contrappongono infatti le convenzioni sociali che impediscono la loro unione. Ma Giulia non è ancora un personaggio modernamente trasgressivo: ella crede fermamente nella necessità della virtù, accetta fino in fondo i doveri sociali e le regole del mondo a cui appartiene, pur avvertendoli in contraddizione con gli impulsi del suo cuore. Il romanzo ha quindi al centro un conflitto irrisolvibile, che l’autore intende riprodurre con autenticità, infrangendo per deliberata scelta (come si vede dalla seconda prefazione all’opera) l’artificiosità delle convenzioni letterarie. Del resto, l’opera venne letta dai lettori suoi contemporanei proprio come se lo scambio epistolare fosse reale e costituisce un esempio della nuova modalità di lettura “con il cuore”, di cui abbiamo parlato (➜ PAG. 240).
Charles Edouard Crespy Le Prince, Julie e Saint-Preux sul lago di Ginevra, 1824.
352 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
Jean-Jacques Rousseau
Il pentimento di Giulia
T8
Giulia o la nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
In questa lettera (scritta in risposta a una di Saint-Preux), di cui riproduciamo un passo tratto dalla parte iniziale, Giulia esprime il suo pentimento per aver ceduto alla passione e per non aver difeso la virtù, fondamento, a suo avviso, di un autentico amore.
J.-J. Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1996
[...] Credimi, credi al tenero cuore della tua Giulia; il mio rammarico non è tanto di aver accordato troppo all’amore, ma bensì di averlo privato della sua massima seduzione. Quel dolce incanto della virtù è svanito come un sogno: i nostri fuochi1 han perduto quel divino ardore2 che li animava purificandoli; abbiamo cercato il 5 piacere e la felicità ci ha abbandonati. Ricordati di quei deliziosi momenti che3 i nostri cuori s’univano tanto più quanto più ci rispettavamo, che la passione ricavava dal suo stesso eccesso la forza di vincersi, che l’innocenza ci consolava della costrizione4, che gli omaggi resi all’onore ridondavano a profitto dell’amore. Paragona così piacevole stato con la nostra situazione attuale: quante agitazioni! quanti spaventi! 10 quante mortali angosce5! quanti sentimenti hanno ormai perduta la loro primitiva dolcezza! Cos’è diventato quello zelo6 di saggezza e d’onestà con cui l’amore animava tutte le azioni della nostra vita, e che a sua volta faceva più delizioso l’amore? Le nostre gioie erano placide e durevoli; non ci restano che trasporti7: quest’insensata felicità che somiglia ad accessi di furore piuttosto che a tenere carezze. Un puro e 15 sacro fuoco ardeva i nostri cuori; abbandonati agli errori dei sensi, non siamo ormai più che volgari amanti; troppo felici se l’amore geloso si degna ancora di presiedere a8 piaceri che il più vile dei mortali riesce a gustare senza di lui. Ecco, amico, le perdite che abbiam fatto, e che rimpiango per te non meno che per me. Non aggiungo parola sulle mie, il tuo cuore è fatto per sentirle. Vedi la 20 mia vergogna e gemi, se sai amare. La mia colpa è irreparabile, le mie lagrime non asciugheranno mai. O tu che le fai scorrere, bada di non attentare a così giusti dolori; tutta la mia speranza è di renderli eterni; il peggiore dei miei mali sarebbe di consolarmene, e l’estremo grado dell’abbiezione9 è di perdere insieme all’innocenza il sentimento che ce la fa amare.
1 i nostri fuochi: l’amore è paragonato a un fuoco per esprimerne l’intensità. 2 quel divino ardore: l’intensità profonda, paragonabile a un sentimento sovraumano. 3 che: in cui (come i successivi).
4 costrizione: repressione della passione. 5 quante mortali angosce: Giulia allude alla preoccupazione di essere scoperti e al suo pentimento. 6 zelo: sollecitudine.
7 trasporti: espressioni del desiderio erotico. 8 presiedere a: reggere e guidare. 9 abbiezione: bassezza morale, perdizione.
Analisi del testo La difesa della virtù Per interpretare correttamente il testo occorre tener presente che con la storia di Giulia e Saint-Preux Rousseau si proponeva nei confronti del lettore un obiettivo pedagogico, che sarebbe stato più difficile da raggiungere con un’esposizione teorica: la protagonista funge qui da portavoce della concezione dell’amore dell’autore, per cui la virtù è più importante della passione; per conquistarla è però necessario sperimentare direttamente la colpa.
Le tipologie del romanzo settecentesco
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Nella lettera Giulia prende le difese della virtù che lei stessa ha tradito per compiacere l’amante. Il suo pentimento, che, precisa, non deve essere frainteso, corrisponde alla consapevolezza di aver tolto all’amore una parte della sua stessa forza vitale: ne deriva il rimpianto per il tempo dell’amore innocente e puro, contrapposto a quello dell’«insensata felicità»; solo la condanna del proprio errore («La mia colpa è irreparabile») e il dolore possono rappresentare un conforto, e non le parole consolatrici dell’amante. Nella parte non antologizzata del testo Giulia scrive che da questo momento, a causa dell’immagine negativa che ha maturato di sé, l’unico sollievo può venirle dalla speranza di spingere con il suo pentimento l’amato verso la perfezione morale.
Lo stile dell’interiorità Nella lettera domina un tono appassionato, in sintonia con l’intensità delle emozioni espresse. Lo stile è caratterizzato dal contrasto nelle scelte lessicali, corrispondenti alle due fasi della vicenda d’amore: nell’intento di convincere l’amante, che sente dubbioso, della giustezza del suo pentimento, la protagonista ne difende la forza morale attraverso un lessico fortemente improntato alla severa condanna della sua colpa («errori dei sensi», «volgari amanti»); alla situazione attuale, dominata da tormenti e sensi di colpa, contrappone con numerose espressioni di tenerezza il tempo in cui l’amore era sostenuto «dal dolce incanto della virtù» e i «deliziosi momenti» vissuti. Anche l’uso della punteggiatura (i punti esclamativi) e le ripetizioni sono funzionali a rappresentare il dramma interiore vissuto dalla protagonista, sollecitando l’adesione emotiva e l’immedesimazione del lettore.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Spiega la frase: «i nostri fuochi han perduto quel divino ardore che li animava purificandoli». Quale concezione dell’amore esprime? ANALISI 2. Sottolinea nella lettera le espressioni di rimpianto per il passato: quali aspetti dell’amore, secondo Giulia, sono andati persi decidendo di assecondare la passione? 3. Individua nel testo gli argomenti che Giulia utilizza per convincere Saint-Preux del loro errore. LESSICO 4. Ti sembra che le scelte lessicali (così come sono rese nella traduzione) siano adeguate allo scopo che il filosofo si propone nei confronti del lettore?
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA CREATIVA 5. Come sai, il brano è tratto da un romanzo epistolare. Immagina e scrivi la risposta di Saint-Preux a questa lettera. ESPOSIZIONE ORALE 6. Nella parte conclusiva del brano Giulia scrive a Saint-Preux: «Non aggiungo parola sulle mie, il tuo cuore è fatto per sentirle». La capacità di “sintonizzarsi” sulle frequenze emotive di un’altra persona, di saperla leggere e interpretare, spesso senza la necessità di fare riscorso alle parole, si definisce empatia. Non è una prerogativa di una relazione amorosa, ma di tutti i legami fondati sulla complicità e su un’intesa profonda. Credi che sia possibile stringere un rapporto emotivo di tale intensità con un’altra persona oppure credi che si tratti semplicemente di una dinamica romanzesca?
online T9 Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre
Un’appassionata esaltazione dello stato di natura Paolo e Virginia
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Candido di Voltaire
Candido sul campo di battaglia, illustrazione di Adrien Moreau per un’edizione di Candido (Parigi, 1893).
Il migliore dei mondi possibili? Candido o l’ottimismo, scritto nel 1759 da Voltaire, è il più celebre dei “romanzi filosofici” francesi. All’inizio del Settecento si era attivato un vivace dibattito filosofico se fosse possibile conciliare la presenza della sofferenza e del male nel mondo con la bontà e l’onnipotenza di Dio. Grande successo aveva riscosso la posizione del filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716). Secondo Leibniz, se Dio esiste è necessariamente perfetto, e se è perfetto anche il mondo da lui creato è necessariamente perfetto: è «il migliore dei mondi possibili». Anche Voltaire era stato inizialmente sensibile all’idea leibniziana secondo la quale i singoli mali potessero produrre il bene generale. Quando scrive Candido, però, nel 1759, il filosofo si è ormai allontanato da questa posizione, maturando un sostanziale scetticismo: l’uomo è inserito in un ciclo meccanico di eventi di cui non possiede la chiave interpretativa e che sembrano privi di senso. Una riflessione che trovava proprio allora drammatica conferma negli eventi della storia contemporanea – era in corso la sanguinosa guerra dei Sette anni (17561763), nella quale si scontrarono i principali paesi europei – ma anche in una terribile catastrofe naturale: nel 1755 uno spaventoso terremoto aveva sterminato a Lisbona 30.000 persone. L’opera nasce quindi dalla critica e dalla presa di distanza di Voltaire rispetto alla posizione di Leibniz e all’ottimismo, incarnato dalla figura del protagonista. La trama dell’opera Candido vive felice in un castello in Vestfalia (una regione della Germania) ed è educato dal verboso filosofo Pangloss secondo i princìpi di un ottimismo incondizionato ispirato alla concezione del filosofo tedesco Leibniz. Una volta costretto a lasciare il castello perché ha osato baciare Cunegonda, la giovane figlia del barone, Candido vive una serie di disavventure e di peripezie che lo allontanano progressivamente dall’ottimismo predicato dal maestro: la storia e la stessa vita umana si rivelano a Candido inquinate dalla sofferenza e dall’irrazionalità, che si concretizzano nella serie di mali che egli incontra nel suo itinerario. Alla fine del suo difficile cammino Candido arriverà a sviluppare una personale visione del mondo: se all’inizio è un giovane ingenuo che letteralmente pende dalle labbra di Pangloss, dopo le dure smentite alla sua filosofia cui ha personalmente assistito, nell’ultimo, risolutivo, capitolo del romanzo arriva addirittura garbatamente a togliergli la parola per dire la sua. Il cammino di formazione di Candido sfocia così nella rinuncia a ogni prospettiva interpretativa globale, innanzitutto metafisica, ma anche rigidamente ideologica. Il male del mondo non è eliminabile né spiegabile razionalmente, occorre lavorare umilmente per contribuire, ognuno nel proprio ambito, a realizzare “qui e ora” una vita civile. Sembra essere questo il senso della celebre metafora «coltivare il proprio giardino» che chiude l’opera (➜ T14 ). Un romanzo a tesi A prima vista (ed è godibile anche a questo primo livello di lettura) Candido potrebbe apparire come un romanzo d’avventura, tante sono le peripezie che coinvolgono il protagonista e i suoi compagni nelle più varie parti del mondo, dall’Europa all’America latina. Voltaire adotta il tradizionale schema
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narrativo del viaggio, che si svolge in questo caso all’interno di uno spazio geografico vastissimo. All’inizio siamo in Germania (nel castello in Vestfalia), uno spazio chiuso, arcaico, ancora feudale, che il protagonista dovrà abbandonare per sperimentare gli spazi aperti e, in parallelo, le molteplici esperienze del mondo: l’azione si sposta in Olanda, in Portogallo, quindi in America latina (Buenos Aires, Paraguay e Suriname), quindi in Francia, Inghilterra e Italia (a Venezia); ancora in Turchia, a Costantinopoli, e infine sulle rive dell’odierno mar di Marmara dove si conclude il peregrinare di Candido. Non manca un’incursione nel favoloso Eldorado, paese edenico di un’utopica felicità antitetica a quanto succede nel mondo (➜ T12 OL). A uno sguardo più attento appare chiaro però che le avventure sono montate ad hoc dall’autore in una sorta di “catalogo” finalizzato alla dimostrazione di una tesi: la presenza ineliminabile del male nel mondo, l’assurdità irrazionale della storia. Da qui il carattere antirealistico del romanzo, che, per non fraintenderne il senso, si deve leggere come una sorta di allegoria della condizione umana. Pur nella leggerezza ironica che lo contraddistingue, il romanzo, conformemente alle posizioni assunte da Voltaire nel dibattito illuminista, costituisce una ferma denuncia contro l’assurdità della guerra (➜ T11 ), contro ogni forma di intolleranza, in particolare quella religiosa, e una vibrante protesta, in nome degli ideali di uguaglianza, contro la disumana prospettiva schiavista e colonialista che aveva ispirato la conquista del Nuovo Mondo (➜ T13 OL).
Frontespizio e prima pagina del primo capitolo di una delle prime traduzioni inglesi (1762) di Candido.
La commistione di generi e di modelli Candido, romanzo breve (o racconto lungo) in 30 capitoletti, presenta una struttura narrativa composita. L’opera è senz’altro debitrice nei confronti di forme narrative precedenti e coeve, talvolta forse parodizzate: l’intreccio si conforma complessivamente allo schema del romanzo di formazione, ma le avventure di Candido richiamano anche il modello del romanzo picaresco (➜ C4). Le paradossali vicende delle donne (capp. XI-XII) che si svolgono per mare e prevedono una serie interminabile e paradossale di stupri, di scambi, di passaggi di mano, rimandano al Decameron di Boccaccio (e in particolare forse alla novella della bella Alatiel: Decameron II, 7). Il costante movimento che anima il romanzo, i continui colpi di scena, i cambiamenti che ribaltano più volte la condizione dei personaggi, sono forse memori della lezione dell’Orlando furioso, di cui Voltaire fu un grande ammiratore. L’amore struggente e devoto di Candido per Cunegonda sembra a prima vista tratto da un romanzo sentimentale, forma narrativa di successo al tempo di Voltaire, ma la figura rosea e paffuta della fanciulla non si confà certo a tale modello e soprattutto, alla fine del romanzo, essa subisce un’evidente deformazione grottesca. Quanto all’ampio inserto centrale sull’Eldorado (capp. XVII e XVIII) ha la sua fonte nella letteratura dell’utopia, dall’Utopia di Tommaso Moro alla Nuova Atlantide di Bacone (➜ C5).
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Personaggi-funzione I personaggi del romanzo non hanno un carattere realistico, ma sono funzioni simboliche di un tema, come testimonia in alcuni casi già la scelta dei loro nomi: in particolare Pangloss (nome grecizzante che significa “tuttolingua”) è il nome ironico scelto da Voltaire per il filosofo-teologo esperto in metafisica, seguace di Leibniz, che sostiene contro ogni evidenza che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili perché «tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine». Candido stesso non è propriamente un personaggio: egli è infatti del tutto privo, come gli altri personaggi, di spessore psicologico, è quasi addirittura solo un “punto di vista“: quello di un individuo totalmente ingenuo, “candido”, appunto, il cui sapere inizialmente si fonda sulla fiducia incondizionata nel verbo di Pangloss e che si aprirà invece, attraverso l’esperienza, a una visione del mondo più critica e consapevole (come è invitato a fare il lettore stesso).
Voltaire
T10
Come Candide fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato
LEGGERE LE EMOZIONI
Candido, I Voltaire, Candido, trad. di P. Bianconi, intr. di I. Calvino, Rizzoli, Milano 1987
Il primo capitolo di Candido, che riproduciamo per intero, non solo costituisce il punto di partenza dell’azione narrativa, ma introduce già la tematica principale del romanzo, tratteggia la figura del suo protagonista e stabilisce le coordinate narrative che domineranno nell’intera opera.
C’era in Vestfalia1, nel castello del signor barone di Thunder-ten-tronckh2, un giovinetto che la natura aveva dotato di costumi assai mansueti. Gli si leggeva l’anima sul volto. Aveva il giudizio abbastanza retto, con uno spirito grandemente semplice; perciò credo lo chiamavano Candide. I vecchi servi del castello sospettavano che 5 fosse figlio della sorella del signor barone e d’un buono e onesto gentiluomo dei dintorni, che codesta damigella non volle mai sposare siccome non aveva potuto provare che settantun quarti3: le ingiurie del tempo avevan distrutto il resto del suo albero genealogico. Il signor barone era uno dei più potenti signori della Vestfalia, perché il suo castello 10 aveva porta e finestre. Il salone era addirittura ornato di arazzi. Con tutti i cani dei suoi cortili si poteva all’occorrenza mettere insieme una muta; i palafrenieri gli facevano da bracchieri, il vicario del villaggio da gran cappellano4. Tutti lo chiamavan monsignore e ridevano quando raccontava barzellette.
1 Vestfalia: regione nord occidentale della Germania. 2 Thunder-ten-tronckh: si tratta evidentemente di un nome di fantasia che Voltaire sceglie per ridicolizzare la durezza della lingua tedesca (pare che non la amasse affatto). 3 settantun quarti: sottinteso “di nobiltà”.
In tutto il passo Voltaire ironizza sull’orgoglio nobiliare, in particolare dei tedeschi: in realtà, come si deduce dalle precisazioni successive, ci troviamo in una regione poverissima, dove è un segno evidente di potere e ricchezza il fatto che i castelli, come quello appunto del barone di Thunder-ten-tronckh, abbiamo porte e finestre,
ed è considerata una rarità pregevole il fatto che abbiano degli arazzi (comunemente presenti in un castello). 4 il vicario... cappellano: continua la rappresentazione ironica del mondo del barone, il cui cappellano è il vicario del villaggio rurale, il sostituto del curato.
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La signora baronessa, che pesava sulle trecentocinquanta libbre, era per ciò stesso assai considerata, e faceva gli onori di casa con una dignità che la rendeva ancora più rispettabile. La figlia Cunégonde, di diciassette anni, aveva vivi colori, era fresca, paffuta, appetitosa. Il figlio del barone pareva in tutto degno del padre. Il precettore Pangloss5 era l’oracolo di casa, il piccolo Candide ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede della sua età e del suo carattere. 20 Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmoscemologia6. Dimostrava in modo mirabile che non c’è effetto senza causa, e che, in questo che è il migliore dei mondi possibili, il castello di monsignore era il più bello dei castelli e la signora la migliore delle baronesse possibili. «È dimostrato» diceva «che le cose non possono essere in altro modo: perché, sicco25 me tutto è creato per un fine, tutto è necessariamente per il migliore dei fini. Notate che i nasi son stati fatti per portar gli occhiali, infatti ci sono gli occhiali. Le gambe sono evidentemente istituite per esser calzate, ed ecco che ci sono i calzoni. Le pietre sono state formate per esser squadrate, e per farne castelli, infatti monsignore ha un bellissimo castello; il massimo barone della provincia dev’essere il meglio 30 alloggiato; e siccome i maiali son fatti per esser mangiati, mangiamo maiale tutto l’anno; quelli che hanno affermato che tutto va bene hanno quindi affermato una sciocchezza: bisognava dire che tutto va nel migliore dei modi7.» Candide ascoltava attentamente e innocentemente credeva; perché trovava bellissima madamigella Cunégonde, anche se non si pigliava mai la licenza8 di dirglielo. 35 Concludeva che dopo la felicità di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era di esser madamigella Cunégonde; il terzo, di vederla ogni giorno; e il quarto, di ascoltar mastro Pangloss, il massimo filosofo della provincia, quindi della terra intera. Un giorno Cunégonde, andando a spasso nei 40 pressi del castello, nel boschetto che chiamavano parco, vide tra i cespugli il dottor Pangloss che impartiva una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua mamma, piccola brunetta assai carina e docilissima9. 15
5 Pangloss: il filosofo che fa da precet-
7 Dimostrava... migliore dei modi: nel
tore ai figli del barone e di Candido ha il nome, già di per sé ironico, di Pangloss (“Tutto-lingua”), con allusione a quelle che per l’autore erano, più che enunciazioni filosofiche autorevoli, solo chiacchiere a ruota libera. In modo apertamente sarcastico, più avanti Pangloss è definito «il massimo filosofo della provincia, quindi della terra intera». 6 metafisico-teologo-cosmoscemologia: il termine composito ironizza sugli studiosi di metafisica (ramo della filosofia volto a indagare i principi primi della conoscenza e le cause dell’universo) e sugli studiosi delle questioni religiose (i teologi).
brano c’è un gustoso saggio, deformato dal registro ironico, della filosofia leibniziana e delle sue rielaborazioni (e banalizzazioni); ad esempio, quella del poeta inglese Alexander Pope (16881744), cui propriamente si deve l’affermazione «Tutto ciò che è, è bene». Qui viene ridicolizzata l’idea delle “cause finali” e la prospettiva ottimista che in chiave provvidenzialistica riporta ad esse ogni effetto possibile. 8 la licenza: il permesso. 9 impartiva... docilissima: ancora una volta una frase da intendersi in senso ironico.
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Candido è cacciato dal castello (illustrazione di Daniel-Nicolas Chodowiecki per un’edizione di Candido, Berlino, 1778).
Siccome madamigella Cunégonde aveva spiccate disposizioni per le scienze, osservò senza batter ciglio le reiterate esperienze di cui fu testimone; vide chiaramente la ragion sufficiente10 del dottore, gli effetti e le cause, e tornò tutta sconvolta, tutta pensosa, tutta piena d’una gran voglia d’esser erudita, pensando che lei poteva ben essere la ragion sufficiente del giovane Candide, il quale poteva d’altronde 50 esser la sua. S’imbatté in Candide tornando al castello, e arrossì; anche Candide arrossì; lei gli diede il buongiorno con voce rotta, e Candide le parlò senza sapere cosa dicesse. L’indomani, dopo il pranzo, uscendo di tavola Cunégonde e Candide si trovaron dietro un paravento; Cunégonde lasciò cadere il fazzoletto, Candide glielo raccattò, 55 lei gli prese innocentemente la mano, innocentemente il giovane baciò la mano della giovinetta con una vivacità, una sensibilità, una grazia particolarissima; le bocche si incontrarono, gli occhi si accesero, le ginocchia tremarono, le mani si smarrirono. Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò accanto al paravento e, vedendo quella causa e quell’effetto11, cacciò Candide dal castello a grandi pedate nel sedere; 60 Cunégonde svenne; appena tornata in sé la signora baronessa la schiaffeggiò; e tutto fu desolazione nel più bello e più piacevole dei castelli possibili. 45
10 la ragion sufficiente: il «principio di ragion sufficiente» di origine leibniziana, è qui impiegato per alludere alle buone
ragioni (ovvero alla pulsione sessuale) di Pangloss verso la giovane cameriera. 11 quella causa e quell’effetto: la termi-
nologia filosofica, impiegata in riferimento all’attrazione dei due giovani, produce un effetto umoristico.
Analisi del testo Un castello in Germania... un giovane onesto e sprovveduto che ha molto da imparare L’incipit del romanzo mima gli inizi delle favole (“C’era una volta...”) per attrarre il lettore nella narrazione con un espediente di sicura presa, ma anche per sottolineare fin dall’inizio la natura antirealistica della storia che lo scrittore si accinge a narrare. È evocato prima di tutto il luogo in cui sembra che si svolgerà la vicenda: in realtà il castello esce subito di scena proprio alla fine del primo capitolo per ricomparire in seguito solo nel ricordo nostalgico di Candido. Per Candido il castello dove vive «è il più bello dei castelli», una sorta di paradiso terrestre, custodito dalle figure autorevoli del barone e della baronessa, un mondo sicuro e protetto, in cui è possibile solo essere felici, come assicura l’altrettanto autorevole filosofo Pangloss, soprattutto se si è innamorati, come Candido, di una bella fanciulla. Ma la felicità dura poco: dal castello-eden Candido viene cacciato perché ne ha infranto le leggi non scritte: ha osato baciare la figlia del barone, lui che, per quanto accolto e allevato nel castello, è un figlio illegittimo. L’episodio del bacio tra Cunegonda e Candido, seguito dall’ira del barone e dalla cacciata del giovane, è narrato con estrema rapidità: una serie incalzante di verbi al passato remoto costruisce con efficace essenzialità il quadro di una moderna riedizione del peccato di Adamo ed Eva, fino alla triste chiusa del capitolo «e tutto fu desolazione nel più bello e più piacevole dei castelli possibili». Tuttavia il narratore, attraverso i molteplici smorzamenti ironici, ha già trasmesso al lettore, cui chiede adesione e complicità intellettuale, l’idea che la visione che Candido ha del castello e dei suoi abitanti non corrisponda alla realtà: di fatto il bellissimo maniero è solo un castellaccio in una regione povera e selvaggia, l’autorevolezza della baronessa è fondata esclusivamente sulla sua mole imponente, il barone non è un padre benevolo e saggio, ma un ottuso signorotto ferocemente attaccato a tradizioni feudali, il grande filosofo Pangloss si mostra custode di un sapere grossolano e limitato. Il castello stesso è uno spazio chiuso e arcaico che, pur proteggendo Candido dai mali della vita, ne ostacola la crescita: il giovane dovrà uscirne dolorosamente e affrontare le brutture del mondo per poter diventare un individuo adulto, capace di pensare criticamente.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Dividi il testo nelle principali sequenze, dando a ciascuna un titolo, poi riassumi l’episodio (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Qual è la tesi sostenuta da Pangloss? ANALISI 4. Presenta brevemente i personaggi introdotti nel capitolo. STILE 5. Questo primo capitolo utilizza fondamentalmente due tempi verbali: l’imperfetto per la prima parte, il passato remoto per la seconda (a partire da «Un giorno Cunégonde...», r. 39): ti sembra un fatto casuale oppure c’è una ragione precisa nella scelta dell’autore?
Interpretare LEGGERE LEGGERE LE EMOZIONI LE EMOZIONI
T11
SCRITTURA 6. Se inteso in chiave metaforica il castello del barone di Thunder-ten-tronckh può essere interpretato come una sorta di nido da cui il giovane Candido deve allontanarsi per diventare un uomo adulto in grado di compiere le sue scelte con consapevolezza. Nonostante la tua giovane età, hai già vissuto un’esperienza simile? Scrivi le tue riflessioni in un testo di max 15 righe.
Voltaire
EDUCAZIONE CIVICA
Un eroico macello
nucleo Costituzione competenza 1
Candido, III Voltaire, Candido, trad. di P. Bianconi, intr. di I. Calvino, Rizzoli, Milano 1987
Arruolato a forza da militari bulgari (nella finzione narrativa, ai bulgari corrispondono i prussiani, agli àvari i francesi, cap. II), Candido incontra la tragica realtà della guerra, la prima dura lezione impartitagli dall’esperienza dopo la cacciata dall’eden del castello.
Non c’era nulla di così bello, di così agile, di così brillante, di così ben ordinato come i due eserciti. Le trombe, i pifferi, gli oboe, i tamburi, i cannoni formavano un’armonia che la simile non fu mai nemmeno all’inferno. Dapprima i cannoni rovesciarono circa seimila uomini per parte; poi la fucileria tolse dal migliore dei 5 mondi1 da nove a diecimila farabutti che ne insozzavano la superficie. Anche la baionetta fu la ragion sufficiente della morte di alcune migliaia di uomini. Il totale poteva aggirarsi sulle trentamila anime. Candide, che tremava come un filosofo, si nascose il meglio che poté durante codesto eroico macello. Finalmente, intanto che i due re facevano cantare dei Te Deum2 ciascuno nel proprio 10 accampamento, Candide risolvette di andare altrove a ragionar sulle cause e sugli effetti. Scavalcò mucchi di morti e morenti, e prima raggiunse un villaggio vicino, ridotto in cenere: era un villaggio àvaro3 che i bulgari avevano incendiato secondo le leggi del diritto pubblico. Qui vecchi crivellati di ferite guardavan morir sgozzate le loro donne coi bambini alla sanguinante mammella; là ragazze, sventrate dopo 15 d’aver saziato i naturali bisogni di alcuni eroi, esalavan l’estremo respiro; altre, mezzo bruciacchiate, imploravano che finissero di ammazzarle. Cervelli erano sparsi per terra, accanto a braccia e gambe tagliate. Candide fuggì al più presto in un altro villaggio: apparteneva ai bulgari e gli eroi àvari l’avevan trattato allo stesso modo. 1 tolse dal migliore dei mondi: ripresa la terminologia filosofica leibniziana (come anche poco sotto: «la ragion sufficiente» o «ragionar sulle cause e sugli effetti») ricorrente in tutto il romanzo per tenere desta l’attenzione del lettore sul caratte-
re esemplare degli eventi narrati, che si delinea proprio in rapporto all’ottimismo leibniziano. 2 Te Deum: è il Te Deum laudamus (Ti lodiamo Signore), cantato nelle solenni cerimonie religiose di ringraziamento.
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3 un villaggio àvaro: si ricordi che i due schieramenti sono i bulgari (che simboleggiano i prussiani) e gli àvari (che simboleggiano l’esercito francese).
Analisi del testo Una dura denuncia contro la guerra Questo passo introduce uno dei temi più cari a Voltaire, la denuncia dell’irrazionalità e degli orrori della guerra, e può utilmente essere messo a confronto con la voce “Guerra” del Dizionario filosofico composto da Voltaire nel 1764. Nella prima parte del testo la ferma critica di Voltaire non è affidata a un’enfatizzazione patetica della rappresentazione, anzi qui Voltaire ricorre al registro ironico per mostrare l’assurdità della guerra (sintetizzata nell’ossimoro eroico macello). Ognuno dei due schieramenti crede di essere nel giusto, così che entrambi celebrano messe di ringraziamento per le stragi compiute. La nuda evidenza del numero dei morti basta da sola a rendere conto dell’atrocità della guerra. Nella seconda parte, però, è come se l’indignazione dello scrittore rompesse gli argini della sua narrazione controllata: è enfatizzato l’orrore della guerra attraverso immagini di atrocità che suscitano la deprecazione del lettore (madri sgozzate con i lattanti attaccati al seno insanguinato, ragazze violentate e sventrate, membra e cervella sparse). Solitamente contrario a sollecitare emotivamente il lettore, qui Voltaire gli chiede un’aperta immedesimazione.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Come si comporta Candido durante «l’eroico macello»? 2. Spiega il significato della frase «Candide risolvette di andare altrove a ragionar sulle cause e sugli effetti» inserita nel contesto della guerra.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di circa 3 minuti spiega perché, secondo te, Voltaire non fa alcun riferimento alle cause del conflitto tra bulgari e àvari e chiarisci il motivo per cui i contendenti si comportano esattamente nello stesso modo.
EDUCAZIONE CIVICA
4. Dopo la lettura di questo brano è inevitabile pensare al tragico conflitto israelopalestinese scoppiato nel 2023, ma anche a tutti gli altri conflitti sempre in atto, spesso poco considerati dall’attenzione mediatica. Trovi dei punti di contatto tra l’amara riflessione formulata da Voltaire e i recenti fatti di attualità? Motiva la tua risposta in un testo di massimo 20 righe.
SCRITTURA nucleo
Costituzione
competenza 1
TESTI A CONFRONTO 5. Dopo aver letto il testo che segue, tratto dal Dizionario filosofico di Voltaire, sintetizza le argomentazioni dell’autore contro la guerra e poi confrontale con il testo di Candido appena letto (ricorda che il romanzo precede di cinque anni il Dizionario filosofico).
La carestia, la peste e la guerra sono i tre ingredienti più famosi di questo basso mondo. Nella classe della carestia si possono schierare tutti i pessimi alimenti cui la penuria1 ci costringe a ricorrere per abbreviare la nostra vita nella speranza di sostentarla. 5 Nella peste si comprendono tutte le malattie contagiose, che ammontano a due o tremila. Questi due doni ci vengono dalla Provvidenza2. Ma la guerra, che li riunisce tutti, ci viene dall’immaginazione di tre o quattrocento persone sparse sulla superficie di questo globo sotto il nome di principi o di ministri; e forse per questa ragione in parecchie dediche essi vengono chiamati le im10 magini viventi della Divinità3. [...] 1 penuria: estrema povertà. 2 Questi… Provvidenza: la peste e le malattie sono riconosciute ironicamente come “doni” della provvidenza.
3 Ma la guerra… Divinità: un’altra ironica spiegazione: la guerra nasce dalla fantasia dei pochi uomini di potere che nelle dediche delle loro opere
letterati, eruditi, filosofi ecc. riconoscono come immagini viventi della Divinità.
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La cosa più sorprendente di questa impresa infernale, è che ogni capo di questi assassini fa benedire le sue insegne e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il suo prossimo. Se un capo ha avuto solo la fortuna di far scannare due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando gli 15 sterminati col ferro e col fuoco raggiungono i diecimila e, per colmo di grazia, qualche città è stata distrutta da cima a fondo, allora si canta a quattro parti una canzone abbastanza lunga, composta in una lingua sconosciuta a tutti quelli che hanno combattuto, e per giunta farcita di barbarismi4. La stessa canzone serve per i matrimoni e per le nascite, come per gli omicidi: cosa 20 imperdonabile, soprattutto nella nazione più rinomata per le canzoni nuove. La religione naturale5 ha impedito mille volte ai cittadini di commettere crimini. Un’anima bennata non ne ha la volontà; un’anima tenera ne è inorridita; essa si figura un Dio giusto e vendicatore. Ma la religione artificiale6 incoraggia a tutte le crudeltà collettive, congiure, sedizioni, brigantaggi, imboscate, 25 scorrerie cittadine, saccheggi, omicidi. Ciascuno marcia allegramente verso il delitto sotto il vessillo del suo santo. [...] Filosofi moralisti, bruciate tutti i vostri libri. Finché il capriccio di pochi uomini farà legalmente sgozzare migliaia di nostri fratelli, la parte del genere umano consacrata all’eroismo sarà quanto c’è di più spaventoso nella natura intera. 30 Che cosa ne sarà e che m’importa dell’umanità, della beneficenza, della modestia, della temperanza, della dolcezza, della saggezza, della pietà7, quando una mezza libbra di piombo tirata da seicento passi mi fracassa il corpo, ed io muoio a vent’anni in tormenti inesprimibili, in mezzo a cinque o seimila moribondi, quando i miei occhi, che si aprono per l’ultima volta, vedono la 35 città in cui sono nato distrutta dal ferro e dal fuoco, e gli ultimi suoni che odono le mie orecchie sono le grida delle donne e dei bambini che spirano sotto le rovine, il tutto per i pretesi interessi di un uomo che non conosciamo? 4 barbarismi: parole e forme espressive errate rispetto alla norma di una lingua o estranea all’uso di questa, introdotte, in genere, da una lingua straniera. 5 La religione naturale: per i filosofi deisti come Voltaire, il divino è un principio ordinatore, che non si identifica in nessun credo o dogma, ma che
online T12 Voltaire
«il paese dove tutto va bene» Candido
è riconoscibile nei princìpi di una morale naturale, ispirata ai valori universali di tolleranza e razionalità, condivisibili da ogni civiltà degna di questo nome. 6 la religione artificiale: si allude alle varie religioni storiche che Voltaire, e chi aderiva alle posizioni deiste, rifiutava. 7 umanità... pietà: sono elencati
online T13 Voltaire
Gli orrori dello schiavismo Candido
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i valori fondamentali per Voltaire e che ogni filosofo che abbia trattato di etica nei suoi scritti non può non aver considerato. Questi valori, e le stesse dissertazioni dei filosofi moralisti (a cui Voltaire consiglia di bruciare i loro libri perché inutili), a nulla valgono finché nel mondo continueranno a esistere le guerre.
Voltaire
T14
«Bisogna coltivare il nostro giardino»: il finale aperto e problematico del romanzo Candido, XXX
Voltaire, Candido, a c. di G. Iotti, Einaudi, Torino 2006
AUDIOLETTURA
Il capitolo conclusivo del romanzo è forse quello che ha fatto maggiormente discutere, considerando che si tratta dell’epilogo dell’opera. Quello che è certo è che la chiusa del romanzo si sottrae allo schema di un banale lieto fine e sollecita ancora una volta la riflessione critica del lettore.
Era del tutto naturale immaginare che dopo tanti disastri Candido, sposato con la sua amata e in compagnia del filosofo Pangloss, del filosofo Martin, del prudente Cacambo e della vecchia, con inoltre tutti i diamanti riportati dalla patria degli antichi Incas, potesse condurre la vita più piacevole del mondo. Ma fu talmente raggirato 5 dagli Ebrei che gli rimase soltanto la piccola fattoria. Sua moglie, ogni giorno più brutta, diventò bisbetica e insopportabile. La vecchia era inferma e si fece d’umore anche peggiore di Cunegonda. Cacambo, che lavorava il giardino, e che andava a vendere i legumi a Costantinopoli, era oberato di lavoro e malediceva la sua sorte. Pangloss era disperato di non brillare in qualche università tedesca. Quanto a Mar10 tin, era fermamente persuaso che si stia male dovunque, e pazientava. Candido, Martin e Pangloss disputavano talvolta di metafisica e di morale. Sotto le finestre della fattoria si vedevano spesso passare battelli carichi di effendi, di pascià, di cadì1 spediti in esilio a Lemno, a Mitilene, a Erzerum. Si vedevano venire altri cadì, altri pascià, altri effendi, che prendevano il posto degli espulsi e che erano espulsi a loro 15 volta. Si vedevano delle teste debitamente impagliate destinate ad essere presentate alla Sublime Porta2. A tali spettacoli le dissertazioni raddoppiavano, e quando non c’erano dispute la noia era talmente eccessiva che un giorno la vecchia osò dire: «Vorrei sapere che cosa è peggio: se essere violentata cento volte da pirati negri, farsi tagliare una natica3, passare sotto le verghe dei Bulgari, essere frustato e impiccato 20 in un autodafé, essere sezionato4, remare sulle galere, subire insomma tutte le miserie attraverso le quali siamo passati, oppure restare qui senza far nulla?» «Grande questione», disse Candido. Questo discorso fece nascere nuove riflessioni, e Martin in particolare concluse che l’uomo era nato per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della 25 noia. Candido non ne conveniva, ma non affermava nulla. Pangloss ammetteva che aveva sempre sofferto orribilmente, ma avendo sostenuto una volta che tutto andava a meraviglia, continuava a sostenerlo, pur senza crederci. [...]. Nelle vicinanze c’era un derviscio5 famosissimo, che passava per il miglior filosofo della Turchia. Andarono a consultarlo, e Pangloss prese la parola dicendo: «Maestro, 30 veniamo a pregarvi di dirci perché sia stato formato un animale così strano come l’uomo». «Di che t’impicci? – disse il derviscio – è forse affar tuo?» «Ma, reverendo padre – disse Candido – c’è un’orrenda quantità di male sulla terra». «Che importa
1 effendi… cadì: dignitari e alti personag-
3 farsi tagliare una natica: era quanto
gi dell’Impero ottomano. 2 Sublime Porta: il governo dell’Impero ottomano.
successo alla vecchia durante la sua vita avventurosa. 4 essere sezionato: essere sottoposto a
dissezione, qui nel senso di essere tagliato (quello che era successo allo schiavo nero del Suriname). 5 derviscio: religioso di fede musulmana.
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– disse il derviscio – che ci sia del male o del bene? Quando Sua Altezza6 invia una nave in Egitto, si preoccupa forse se i topi della nave stanno o non stanno 35 comodi?» «Che cosa bisogna fare?», disse Pangloss. «Devi stare zitto», disse il derviscio. «M’illudevo – disse Pangloss – di ragionare un po’ con voi degli effetti e delle cause, del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita7». A tali parole il derviscio sbatté loro la porta in faccia. Durante questa conversazione s’era sparsa la notizia che a Costantinopoli erano 40 stati strangolati due visir del banco e il muftì8, e che molti dei loro amici erano stati impalati. Per qualche ora, una simile catastrofe solleva dappertutto un gran clamore. Pangloss, Candido e Martin, di ritorno alla piccola fattoria, incontrarono un buon vecchio che prendeva il fresco sulla soglia di casa, sotto un pergolato d’aranci. Pangloss, curioso quanto ragionatore, gli chiese come si chiamasse il muftì appena strangolato. 45 «Non lo so – rispose il buon uomo – e non ho mai saputo il nome di alcun muftì né di alcun visir. Ignoro assolutamente il caso di cui parlate. Presumo che in generale coloro che si occupano degli affari pubblici periscano a volte miseramente, e che lo meritino; ma non m’informo mai di quel che avviene a Costantinopoli, mi accontento di mandare a vendere laggiù la frutta del giardino che coltivo». Dette queste parole, 50 fece entrare in casa gli stranieri: le due figlie e i due figli offrirono sorbetti di varie qualità fatti da loro stessi, kaimac9 punteggiato di scorze di cedro candito, arance, limoni, ananas, pistacchi, caffè di Moka non mescolato col cattivo caffè di Batavia e delle isole10. Dopo di che le due figlie del buon musulmano profumarono le barbe di Candido, di Pangloss e di Martin. 55 «Di certo – disse Candido al turco – avrete una vasta e magnifica terra». «Solo venti arpenti11 – rispose il turco – che coltivo con i miei figli. Il lavoro tien lontani da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno». Tornando alla fattoria Candido fece profonde riflessioni sul discorso del turco. Disse a Pangloss e a Martin: «Mi pare che quel buon vecchio si sia dato una sorte 60 preferibile di molto a quella dei sei re con cui abbiamo avuto l’onore di cenare12». «Le grandezze – disse Pangloss – sono assai pericolose, secondo quanto riportano tutti i filosofi: [...] perché, insomma, Eglon, re dei Moabiti, fu assassinato ad Aod; Assalonne fu impiccato per i capelli e trafitto da tre dardi13; il re Nadab, figlio di Geroboamo, fu ucciso da Baasa; il re Ela, da Zamri; Ocozia, da Ieu; Atalia, da Joad; 65 i re Gioacchino, Ieconia, Sedecia, furono schiavi. Sapete come perirono Creso, Astiage, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Iugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d’Inghilterra, Edoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia, l’imperatore Enrico IV14? Sapete...» «So anche – disse Candido – che bisogna coltivare il nostro 70 giardino». «Avete ragione – disse Pangloss – poiché quando l’uomo fu posto nel giardino dell’Eden, vi fu posto ut operaretur eum15, affinché lavorasse. Il che prova 6 Sua Altezza: il sultano. 7 M’illudevo... prestabilita: ancora una volta Pangloss rimane vincolato alle questioni filosofiche ultime, riproponendo i termini fondamentali della filosofia di Leibniz. 8 visir del banco... muftì: ministri (visir) ammessi al gran consiglio del sultano e il capo religioso (muftì) autorizzato a interpretare il Corano.
9 kaimac: una specie di yogurt. 10 Batavia... isole: Giacarta... Antille. 11 arpenti: l’arpento è un’antica misura di superficie francese.
12 sei re... cenare: nel cap. XXVI si narra di una cena a Venezia durante la quale Candido ha l’occasione di incontrare sei re. 13 dardi: frecce.
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14 perché, insomma... Enrico IV: rassegna di sovrani spodestati o uccisi, tratti dalla Bibbia, dalla storia antica, medievale e moderna, (qui poco importa l’identificazione, il senso è tutto nella lunga elencazione). 15 ut operaretur eum: in latino, “perché lo lavorasse” (Genesi 2, 15).
che l’uomo non è nato per la quiete». «Lavoriamo senza ragionare – disse Martin – è il solo modo per rendere la vita sopportabile». Tutta la piccola comitiva condivise questo lodevole progetto, e ognuno si mi75 se a esercitare i propri talenti. Cunegonda era invero bruttissima, ma diventò un’eccellente pasticciera; Paquette si diede al ricamo; la vecchia ebbe cura della biancheria. Anche frate Giroflée si rese utile; fu un ottimo falegname e diventò perfino galantuomo. E Pangloss diceva ogni tanto a Candido: «Tutti gli eventi formano una catena nel migliore dei mondi possibili. Giacché, dopo tutto, se non 80 foste stato scacciato da un bel castello a calcioni nel sedere per amore della signorina Cunegonda, se non foste stato sottoposto all’Inquisizione, se non aveste percorso l’America a piedi, se non aveste dato un gran colpo di spada al barone, se non aveste perduto tutti i montoni del buon paese d’Eldorado, non sareste qui a mangiare cedri canditi e pistacchi». «Ben detto – rispose Candido – ma bisogna 85 coltivare il nostro giardino».
Analisi del testo L’epilogo di Candido: qual è il fabula docet, cioè la morale del romanzo?
In questo dipinto di Jean Huber è ritratto un anziano Voltaire che nel parco di Ferney pianta degli alberi, 1750-1775, (San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage).
Se il romanzo di Voltaire, come si è detto, intende esemplificare una “tesi”, è assai probabile che l’autore abbia voluto sintetizzare nell’ultimo capitolo del romanzo il “sugo della storia” proponendo una soluzione al problema della felicità che percorre l’intera opera. Il capitolo si apre con un quadro che rovescia il classico lieto fine: tutti sono scontenti, le disquisizioni teoriche continuano fra i personaggi senza approdare a nulla; quando queste tacciono, subentra la noia che, come osserva la vecchia, risulta ancora più insopportabile dei mali e delle sofferenze. Situazione di stallo, dunque, che offre lo spunto alla lapidaria conclusione di Martin, ispirata al suo radicale pessimismo («Martin concluse che l’uomo è fatto per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia»). È questa condizione di impasse che spinge Pangloss, Martin e Candido a consultare un famosissimo saggio musulmano. Il suo responso è che occorre rinunciare a porsi interrogativi a cui non è dato trovare risposta e che bisogna imparare a tacere. Un responso che va integrato con la umile lezione di vita offerta subito dopo dal vecchio turco, il cui pratico, minimale, sapere assume il ruolo della principale verità enunciata dal romanzo, proprio prima che esso si chiuda. Non bisogna ragionare, né occuparsi di come va il mondo, ma lavorare, limitarsi a «coltivare il proprio giardino», come sottolinea due volte Candido, interrompendo le pur sempre cerebrali riflessioni di Pangloss. Un finale enigmatico che ha suscitato molti interrogativi e di cui si sono date varie interpretazioni: si tratta di una proiezione autobiografica? Effettivamente Voltaire stesso a partire dal 1758 (fino al 1778) si ritira nella tenuta di Ferney, dove vive in serenità coltivando personalmente la terra e creando una fiorente azienda. Nel 1757 aveva scritto parole che potrebbero servire da diretto commento al testo di Candido: «Che cosa si deve fare? Niente: tacere, vivere in pace, mangiare il proprio pane all’ombra del proprio fico, lasciar che il mondo vada per la sua strada». Queste parole, e il finale di Candido, implicano allora una rinuncia all’impegno
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attivo nella storia, un ripiegamento nella dimensione del privato? Non sembrerebbe certo così, se si pensa che proprio a partire dal ritiro a Ferney iniziano le più celebri battaglie ideologiche di Voltaire. Il finale del Candido sembra prospettare la necessità di occuparsi di problemi concreti, dei problemi del mondo reale (sarebbe questo il senso della metafora del giardino), rinunciando alle astratte questioni della metafisica e contribuire alla creazione di una società civile esercitando con responsabilità e dignità di uomini «i propri talenti», come dice la chiusa del romanzo. È quanto i vari personaggi sembrano fare, trovando finalmente serenità e realizzazione.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo in massimo 10 righe, poi individua il tema centrale e le parole chiave. COMPRENSIONE 2. Quale significato assume la noia nelle parole della vecchia? 3. Che cosa intende dire Martin affermando che «l’uomo era nato per vivere nelle convulsioni dell’inquietudine o nel letargo della noia»? Come giudichi questa riflessione? 4. Perché Pangloss, Martin e Candido decidono di consultare un famosissimo saggio musulmano?
Interpretare
SCRITTURA 6. Commenta le parole di Italo Calvino (tratte dalla sua Prefazione a un’edizione dell’opera) a proposito della celebre conclusione del romanzo (max 15 righe).
VERSO IL NOVECENTO
Oggi l’esortazione Il faut cultiver notre jardin suona ai nostri orecchi carica di connotazioni egoistiche e borghesi: quanto mai stonata se confrontata alle nostre preoccupazioni e angosce. Non è un caso che essa sia enunciata nell’ultima pagina, quasi già fuori da questo libro in cui il lavoro appare solo come dannazione e in cui i giardini vengono regolarmente devastati: è un’utopia anch’essa, non meno del regno degli Incas; la voce della ragione nel Candide è tutta utopica. […] E di lì derivano tanto una morale del lavoro strettamente produttivistica nel senso capitalistico della parola, quanto una morale dell’impegno pratico responsabile concreto senza il quale non ci sono problemi generali che possano risolversi. Le vere scelte dell’uomo d’oggi, insomma, partono di lì.
Leonardo Sciascia Il Candido di Sciascia L. Sciascia, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Adelphi, Milano 1990
Nel 1977 lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia (1921-1989) pubblica Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, romanzo breve, ispirato fin dal titolo al celebre scritto filosofico di Voltaire. Il romanzo inizia nel 1943, con il crollo del fascismo, e delinea, attraverso le vicende del protagonista Candido Munafò, un quadro dai tratti ironici e impietosi dell’Italia, dalla caduta del regime agli anni Sessanta. La vicenda prende le mosse proprio nella notte dello sbarco degli alleati in Sicilia (9-10 luglio 1943), quando nasce Candido Munafò. Leggiamo l’incipit del romanzo in cui è evidente la ripresa dello stile ironico dell’opera settecentesca. Candido nasce in una grotta (come Gesù), in un cielo illuminato a giorno, ma non c’è nulla di provvidenziale e fatidico in quella nascita: nella notte di guerra, i genitori sono sfollati in campagna, nel cielo non si profila la cometa dei Vangeli, ma scoppiano i razzi illuminanti che preparano lo sbarco.
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Del luogo e della notte in cui nacque Candido Munafò; e della ragione per cui si ebbe il nome di Candido. Candido Munafò nacque in una grotta, che si apriva vasta e profonda al piede di una collina di olivi, nella notte dal 9 al 10 luglio del 1943. Niente di più facile che nascere in una grotta o in una stalla, in quell’estate e specialmente in quella notte: nella Sicilia guerreggiata dalla settima armata americana del generale Patton, dall’ottava 5 britannica del generale Montgomery, dalla divisione tedesca Hermann Goering, da qualche sparuto, quasi sparito, reggimento italiano. E proprio quella notte, illuminato sinistramente il cielo dell’isola di bengala1 multicolori, arate le città di bombe2, le armate di Patton e Montgomery sbarcavano. Nessun segno soprannaturale e premonitore, dunque, nella nascita di Candido Muna10 fò dentro una grotta; né nel fatto che quella grotta fosse nel territorio di Serradifalco, la montagna del falco, un luogo da cui spiccar volo, e volo rapace; e ancor meno nel fatto che per tutta quella notte il cielo si illuminasse di razzi ora rosseggianti ora candenti3 e risuonasse di un vasto frinire4 metallico, ma come se di metallo fosse la volta notturna e non gli aerei che l’attraversavano e la cui invisibile traiettoria finiva 15 in grappoli di esplosioni più o meno lontane. Indicato dal destino – e cioè dagli avvenimenti che da quella sera corsero in Sicilia e in Italia – fu invece il nome che gli misero; e carico di destino anche. Fosse nato dodici ore prima, nella città fino a quel momento mai bombardata, il suo nome sarebbe stato Bruno: quello del figlio di Mussolini che da aviatore era morto e che viveva nel cuore di tutti gli italiani 20 come l’avvocato Munafò e sua moglie, Maria Grazia Munafò nata Cressi, figlia del generale della milizia fascista Arturo Cressi, eroe delle guerre di Etiopia e di Spagna e un po’ meno, per sopravvenuti reumatismi, di quella in corso. Nato dopo il primo e terribile bombardamento della città in cui risiedevano, i genitori gli scelsero invece il nome di Candido: dal padre trovato automaticamente, quasi surrealmente; dalla 25 signora Maria Grazia accettato per ragioni non del tutto nobili, come quello che era talmente opposto al Bruno prima scelto da cancellarne persino l’intenzione. Come una pagina bianca, il nome Candido: sulla quale, cancellato il fascismo, bisognava imprendere a scrivere vita nuova. L’esistenza di un libro intitolato a quel nome, di un personaggio che vagava nelle guerre tra àvari e bulgari, tra gesuiti e regno di Spagna, 30 era perfettamente ignota all’avvocato Francesco Maria Munafò; nonché l’esistenza di Francesco Maria Arouet5, che di quel personaggio era stato creatore. Ed anche alla signora, che qualche libro lo leggeva; a differenza del marito che non uno ne aveva mai letto se non per ragioni di scuola e di professione. Come poi entrambi avessero attraversato ginnasio, liceo e università senza mai sentire parlare di Voltaire e di 35 Candido, non è da stupirsene: capita ancora.
1 bengala: razzi illuminanti, ma non esplodenti, utilizzati in ambito militare e civile per segnalare o illuminare la posizione di luoghi o persone. 2 arate... di bombe: le città, rase al suolo dai bombardamenti, sono paragonate a campi arati.
3 candenti: candidi, splendenti. 4 frinire: è propriamente il suono prodotto dalle cicale. 5 Francesco Maria Arouet: François-Marie Arouet è il nome di Voltaire.
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Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne Un romanzo anticonformista Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo è un lungo romanzo (9 volumi) dello scrittore Laurence Sterne (1713-1768), un pastore anglicano noto per l’estrosità dei suoi sermoni. Fin dalla pubblicazione dei primi due volumi (1759), il romanzo desta l’interesse degli ambienti colti londinesi, ma suscita anche nella critica accademica non poche perplessità per l’anticonformismo, la licenziosità dell’opera e l’ostentata destrutturazione dell’impianto narrativo. Nella produzione dello scrittore spicca anche il Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia, frutto di una reale esperienza di Sterne, che si richiama al fortunato genere della letteratura di viaggio, ma con l’originalità che contraddistingue la sua personalità. Il Viaggio sentimentale fu conosciuto in Italia attraverso la traduzione d’autore di Foscolo (uscita nel 1813).
Frontespizio del primo volume di Tristram Shandy in un’incisione di William Hogarth del 1759.
La smobilitazione del personaggio protagonista Il fatto che Tristram Shandy, il protagonista del romanzo Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1759-1767), narri in prima persona la sua vita, sembra iscrivere l’opera di Sterne nel genere biografico, di moda nel secolo (come Moll Flanders ad esempio); ma è subito evidente, fin dalla prima pagina, che il romanzo di Sterne segue tutt’altra, inesplorata, strada: invece che dalla nascita del protagonista, il racconto inizia dal momento del suo concepimento e delle singolari circostanze in cui avvenne, occasione per la presentazione del padre e della madre. L’episodio successivo, il parto, è continuamente interrotto da divagazioni e digressioni del narratore che mette in scena nuovi personaggi (lo zio Toby con il suo servitore Trim, il parroco Yorick, il dottor Slop che assiste la madre, la cameriera Susanna) con i loro ritratti e le loro storie, a loro volta interrotte da molte divagazioni, per cui il personaggio Tristram vede la luce solo nel terzo volume. Questo schema narrativo, che dà spazio soprattutto alle digressioni, permane fino alla fine dell’opera, per cui della vita del protagonista il lettore finisce per avere pochissime informazioni, e non tutte rilevanti. Il protagonista, dunque, è scalzato dal posto di primo piano che gli era stato assegnato dal romanzo settecentesco, viene meno il suo ruolo di “eroe” della storia, ma assume essenzialmente la funzione di narratore con una spiccata vocazione commentativa, mentre la storia si sviluppa intorno agli altri personaggi, in particolare il padre, Walter Shandy, lo zio Toby e il parroco Yorick e, soprattutto, ai loro discorsi. La destrutturazione della forma romanzo Nel Tristram ci sono diverse dichiarazioni di principio che illuminano la concezione e le intenzioni dell’autore, innanzitutto l’impossibilità di seguire una linea continua nella narrazione. La narrazione procede nel romanzo in modo non lineare (non c’è neppure una vera e propria trama), apparentemente casuale e caotico, soprattutto perché il narratore riproduce i pensieri dei personaggi, che si susseguono secondo la teoria delle libere associazioni del pensiero, che Sterne aveva appreso dal filosofo inglese John Locke
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(1632-1704). Il racconto che traspone sulla pagina tutto ciò non solo si distacca dalla consequenzialità cronologica, ma attua non di rado addirittura un ribaltamento dei meccanismi logici. L’operazione rivoluzionaria attuata dallo scrittore riguarda anche la tradizionale disposizione delle parti: la dedica, generalmente disposta all’inizio dell’opera, è collocata dopo alcune pagine e la prefazione si trova addirittura nel XX capitolo del III volume; nel IX volume i capitoli XVIII e XIX sono posposti al capitolo XXV. Alla pluralità dei contenuti, dei temi e delle situazioni dell’opera corrispondono svariati stili, a seconda anche delle diverse voci narranti: lingue tecniche (ad esempio quella militare dello zio Toby per le ricorrenti digressioni sulle fortificazioni), gerghi, parodie di altri stili (ad esempio delle opere letterarie e filosofiche che vengono citate con intento ironico). Compaiono inoltre segni tipografici particolari: ad esempio gli asterischi che sostituiscono le parole, pagine bianche, pagine nere, segni e simboli grafici attraverso cui il protagonista, portavoce dell’autore, rappresenta il filo tortuoso del suo racconto. Il romanzo attua una rottura anche rispetto al tradizionale rapporto con il pubblico (➜ T15 ): gli appelli spesso ironici rivolti ora ai lettori, ora alle lettrici hanno la funzione, insieme agli asterischi e agli spazi bianchi da interpretare o da riempire, di coinvolgere il lettore in prima persona, sollecitandone un ruolo attivo e addirittura creativo. Il realismo portato alle estreme conseguenze La rivoluzione attuata da Sterne nei confronti dei canoni narrativi non vuole essere fine a sé stessa, quasi espressione di uno spirito maligno e distruttivo, o puramente formale, ma è il risultato della sua concezione del rapporto tra il romanzo e la realtà. Per questo si può parlare di un realismo portato alle estreme conseguenze: la mancanza di una “linea retta” nel racconto riproduce le caratteristiche della vita e del pensiero, in cui gli elementi si affastellano in un continuum senza interruzione e senza ordine. Attraverso questo procedimento l’autore rivela le sue opinioni, la sua concezione amara e disincantata della vita e degli uomini.
Le due pagine, tratte da un’edizione inglese primottocentesca del Tristram Shandy, mostrano alcune invenzioni grafiche presenti nel romanzo.
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Laurence Sterne
LEGGERE LE EMOZIONI
Un esempio di metanarrazione
T15
La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI
L. Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, ed. critica a c. di L. Conetti, Mondadori, Milano 1992
Il capitolo VI rappresenta il primo intervento metanarrativo del protagonista, che giustifica il suo modo di procedere rivolgendosi direttamente al lettore, a cui chiede di avere pazienza e a cui promette un rapporto di familiarità con il personaggio attraverso la conoscenza delle sue opinioni, importanti quanto la storia della sua vita.
All’inizio dell’ultimo capitolo vi ho messo perfettamente al corrente di quando sia nato1; – ma non vi ho detto, come. No; questo particolare lo riservavo a un capitolo tutto per lui; – inoltre, signore2, dal momento che voi e io siamo in un certo senso perfettamente estranei, sarebbe stato sconveniente mettervi a parte di troppe circostanze 5 che mi riguardassero tutte in una volta. – Dovete avere un po’ di pazienza. Ho intrapreso a narrare non solo la mia vita, ma anche le mie opinioni3; nella speranza e nella presunzione che la conoscenza del mio carattere e di che tipo4 di uomo io sia, da una parte, vi permettesse di gustare meglio l’altra. Procedendo ulteriormente insieme a me, la conoscenza superficiale che nasce adesso fra noi, diventerà familiarità; e questa, a 10 meno che uno di noi sia in torto5, si trasformerà in amicizia. – O diem praeclarum6! – niente allora di quanto mi riguarda sembrerà insignificante in se stesso o tedioso7 nella sua narrazione. Pertanto, mio caro amico e compagno, se dovessi sembrarvi un po’ avaro nella relazione della mia prima apparizione sulla scena, – abbiate pazienza, – e lasciatemi proseguire, e raccontare la mia storia a modo mio: – o se dovesse sembrarvi 15 di tanto in tanto che io mi perda in frivolezze, – o che indossi talvolta un berretto da giullare con un campanellino, per qualche attimo mentre procediamo, – non prendete la fuga, – ma fatemi cortesemente credito piuttosto di un po’ più di saggezza di quanta ne appaia all’esterno; – e mentre continuiamo a marciare, ridete con me o di me, o in breve fate quel che vi pare, – purché non perdiate la calma.
1 quando sia nato: nel capitolo precedente Tristram ha indicato la sua data di nascita: il 5 novembre 1718. 2 signore: il lettore, qui chiamato in modo formale. 3 opinioni: come indica espressamente il titolo.
4 tipo: allude alla diversità che il protagonista narratore imputa, nel primo capitolo, alle particolari circostanze del suo concepimento. 5 uno di… in torto: cioè, venga meno al rapporto che si instaura tra il protagonista e il lettore.
6 O diem praeclarum: o giorno illustre. L’espressione, di carattere religioso, è qui usata in senso ironico per alludere all’eccezionalità dell’avvenimento. 7 tedioso: noioso.
Analisi del testo Il lettore dentro il romanzo Fin dall’inizio del romanzo il protagonista narratore instaura un colloquio con il lettore. Dopo le informazioni preliminari sulla sua vita (il suo concepimento e quando è nato, ma non ancora come), Tristram (portavoce dello scrittore) fa dell’immaginario colloquio il tema d’un intero capitolo, anche se breve, proponendo ai lettori una specie di patto: se avranno pazienza e proseguiranno con lui nel racconto («Procedendo ulteriormente insieme a me») otterranno sempre maggiori informazioni e un rapporto sempre più intenso, da «conoscenza superficiale»
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a «familiarità» a vera e propria «amicizia». Tristram si rivolge al lettore ora al plurale, ora al singolare: lo chiama dentro al racconto, come se fosse davanti a lui, immaginandone le domande e le osservazioni, gli risponde e, più avanti, in alcuni momenti, gli chiederà addirittura di completare il suo discorso in alcune frasi lasciate volutamente mancanti di qualche parola. Il procedimento introdotto da Sterne, che trae spunto dalle strutture della narrazione orale, sarà il modello per altri scrittori (si pensi ai «venticinque lettori» di Manzoni) e, soprattutto, per le sperimentazioni del romanzo del Novecento: il colloquio con il lettore contraddistingue in particolare un romanzo come Uno, nessuno e centomila (1926) di Pirandello, che nel saggio L’umorismo (1908) cita Sterne come esempio dell’arte umoristica, fondamento della sua opera.
Tristram spiega al lettore le novità dell’opera L’intervento di Tristram si configura in realtà come una risposta alle presumibili critiche del lettore-tipo per la parzialità delle informazioni finora fornitegli sul personaggio e soprattutto, per il modo sconclusionato di procedere della storia. Con il pretesto di rassicurarlo, la voce narrante esplicita la concezione che l’autore ha della propria opera: la narrazione non deve riguardare solo i fatti di una vita, ma anche le opinioni (cioè la visione della vita e le convinzioni filosofiche), altrettanto importanti (queste nel Tristram in realtà sono preponderanti). Quindi il testo teorizza un nuovo tipo di romanzo-biografia sia per quanto riguarda il contenuto sia per le modalità del racconto, per cui alla consequenzialità cronologica si sostituisce il procedimento digressivo. Importante è infine il riferimento nell’ultima parte del testo alla componente ludica e burlesca del romanzo, apparentemente sminuita, in realtà rivendicata dal narratore come costitutiva di un’opera portatrice, al di là delle apparenze, di una “saggezza” che il lettore deve imparare a cogliere tra le righe. Non solo la struttura sperimentale del romanzo, come si è visto, ma anche il tema del legame tra saggezza e riso avrà ampia risonanza nella letteratura del Novecento, in particolare in Pirandello, che intitola una sua opera teatrale Il berretto a sonagli, usando questa immagine per indicare come l’apparente comicità può nascondere la dimensione della tragedia.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in 10 righe la concezione che l’autore ha della sua opera. COMPRENSIONE 2. Come giustifica Tristram al lettore la scelta di non rivelargli subito dei dettagli su come sia venuto al mondo? 3. Quali fasi configura Tristram nel rapporto tra il protagonista di un romanzo e il lettore? ANALISI 4. In questo capitolo il narratore-protagonista non si limita a delineare le modalità della narrazione, ma ne definisce l’oggetto principale: indicalo e spiega come Tristram motiva la sua scelta.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 5. Tristram sollecita da parte del lettore nei suoi confronti «credito […] di un po’ più di saggezza», ma poi lo invita a ridere («ridete con me o di me»). Le due affermazioni ti sembrano in contraddizione? In base alla tua esperienza spiega se il lasciarsi andare al buonumore può essere interpretato inequivocabilmente come segnale di frivolezza oppure può essere letto come una strategia per evitare, almeno temporaneamente, di soffermarsi su angosce e preoccupazioni.
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Giuseppe Sertoli Tristram: un «io che vive fra le “cose” della mente»
L’eredità del romanzo settecentesco
Interpretazioni critiche
Verso il Novecento
Le tipologie del romanzo settecentesco
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Fissare i concetti Il boom del romanzo, specchio della società borghese La nascita del romanzo borghese 1. Perché il romanzo settecentesco è diventato un paradigma di questo genere letterario? 2. Quali fattori socioeconomici hanno alimentato il successo e il conseguente sviluppo del romanzo nell’Inghilterra del Settecento? Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco 3. Perché nella produzione letteraria inglese si usano due termini distinti (novel e romance) per fare riferimento al genere letterario del romanzo? 4. Quali elementi nei romanzi inglesi sono indizio della ricerca del realismo nella narrazione? 5. Da quali aspetti originali sono caratterizzati i personaggi dei romanzi settecenteschi? 6. Quale processo socioeconomico dell’Inghilterra tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento è rappresentato nel romanzo Robinson Crusoe? 7. Che rapporto ha Robinson con il denaro? 8. Da quale punto di vista Defoe ha impostato la narrazione del romanzo Moll Flanders? Che effetto suscita nel lettore? 9. In che senso Daniel Defoe utilizza le sue opere come strumento di denuncia sociale? 10. Il romanzo Pamela di Richardson è incentrato su un tema che avrà ampio successo anche nella narrativa successiva. Quale? Le tipologie del romanzo settecentesco 11. Quali tipologie di romanzo si affermano in Europa nel corso del Settecento? In quali aspetti risultano innovative rispetto agli esempi già diffusi nella storia della letteratura? 12. Perché il romanzo I viaggi di Gulliver si può considerare una critica alla società dell’epoca? 13. Quale dei temi della filosofia di Rousseau è rappresentato Giulia o la nuova Eloisa? 14. Come può essere definita la struttura del romanzo Candido di Voltaire? 15. Il romanzo Candido ha l’obiettivo di criticare una specifica visione filosofica del Settecento. Quale? 16. Perché Candido può essere considerato un romanzo a tesi? 17. Com’è impostata la narrazione nel romanzo Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo? In che senso può essere considerato un romanzo “destrutturato”?
La dannazione di Abdia, acquaforte di Henry William Bunbury, 1772 ca. (Graphic Arts Collection), tratto dalla Vita e opinioni di Tristam Shandy.
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Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo I. Calvino, Robinson Crusoe, il giornale delle virtù mercantili, in Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991
Lo scrittore Italo Calvino (1923-1985), nelle pagine da lui dedicate al Robinson Crusoe – tratte dalla raccolta postuma (1991) di saggi intitolata Perché leggere i classici – evidenzia lo stile essenziale del romanzo, a cui corrisponde lo spirito pratico che guida il protagonista (e, secondo lui, pure dei personaggi chiave delle opere successive dello stesso autore.
Altrettanto lontano dal turgore secentesco1 quanto dalla coloritura patetica2 che prenderà la narrativa inglese nel Settecento, il linguaggio di Defoe (e qui la prima persona del marinaio-mercante3, capace di mettere in colonna come in un libro mastro4 anche il «male» e il «bene» della sua situazione5, e di tenere 5 una contabilità aritmetica6 dei cannibali uccisi, si rivela un espediente poetico, prima ancora che pratico) è d’una sobrietà, d’una economia7 che, a somiglianza dello stile «da codice civile» di Stendhal8, potremo definire «da relazione d’affari». Come una relazione d’affari o un catalogo di merci e utensili, la prosa di Defoe è nuda e nello stesso tempo dettagliata fino allo scrupolo. L’accumulo 10 di particolare mira a persuadere il lettore della verità del racconto, ma anche esprime come meglio non si potrebbe il senso dell’importanza d’ogni oggetto, d’ogni operazione, d’ogni gesto nella condizione del naufrago (così come in Moll Flanders e nel Colonnello Jack9 dagli elenchi d’oggetti rubati s’esprimerà l’ansia e la gioia del possesso). 15 Minuziose sino allo scrupolo sono le descrizioni delle operazioni manuali di Robinson: come egli si scava la casa nella roccia, la cinge con una palizzata, si costruisce una barca che poi non riesce a trasportare fino al mare, impara a modellare e cuocere vasi e mattoni. Per questo suo impegno e piacere nel riferire le tecniche di Robinson, Defoe è giunto fino a noi come il poeta della 20 paziente lotta dell’uomo con la materia, dell’umiltà e difficoltà e grandezza del fare, della gioia di vedere nascere le cose dalle nostre mani. Da Rousseau10 fino ad Hemingway11, tutti coloro che ci hanno indicato come prove del valore umano il misurarsi, il riuscire, il fallire nel «fare» una cosa, piccola o grande, possono riconoscere in Defoe il primo maestro. 1 turgore secentesco: lo stile enfatico e ridondante della letteratura del Seicento. 2 coloritura patetica: la sottolineatura dei sentimenti. 3 prima... mercante: il Robinson Crusoe, come già si è detto, è scritto in prima persona dal protagonista, che racconta le sue avventure, prima e dopo il naufragio. 4 libro mastro: registro contabile delle entrate e delle uscite relative a un’attività economica. 5 il «male» ... situazione: nel suo diario Robinson Crusoe registra gli aspetti negativi e quel-
li positivi della sua situazione.
6 una contabilità aritmetica: un calcolo esatto.
7 economia: qui nel significato di “tendenza a una scrittura senza eccessi”. 8 a somiglianza... Stendhal: lo scrittore francese Stendhal (1783-1842), autore di celebri romanzi (fra tutti, Il rosso e il nero e La certosa di Parma), paragonò lo stile antilirico e naturale della sua prosa all’esattezza impersonale del Codice civile. 9 Colonnello Jack: romanzo di Defoe del 1722. 10 Rousseau: Jean-Jacques
Rousseau, autore fra l’altro del romanzo pedagogico Emilio (➜ PAG. 247), in cui teorizza il contatto con la natura come essenziale per la crescita fisica e l’educazione morale del bambino e dell’adolescente. 11 Hemingway: Ernest Hemingway. Scrittore statunitense (1899-1961), premio Nobel per la letteratura nel 1954. I protagonisti dei suoi romanzi (fra i più famosi, Addio alle armi, Per chi suonala campana, Il vecchio e il mare) si confrontano in condizioni di difficoltà con la morte e la violenza.
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Il Robinson Crusoe è indubbiamente libro da rileggere riga per riga, facendo sempre scoperte nuove. Quel suo sbrigarsi in poche battute, nei momenti cruciali, da ogni sovrappiù d’autocompatimento o di esultanza per passare alle questioni pratiche (come quando, appena si è reso conto d’essere l’unico scampato di tutto l’equipaggio – «infatti, di loro, non vidi più alcuna traccia, 30 tranne tre cappelli, un berretto e due scarpe scompagnate» –, dopo un rapidissimo ringraziamento a Dio passa a guardarsi intorno e a studiare la sua situazione), può parere in contrasto col tono d’omelia12 di certe sue pagine più innanzi, dopo che una malattia l’ha ricondotto al pensiero della religione. Ma la condotta di Defoe13 è nel Crusoe e nei romanzi posteriori assai simile a 35 quella dell’uomo d’affari rispettoso delle norme, che all’ora della funzione va in chiesa e si batte il petto14, e poi si affretta a uscire per non perdere tempo sul lavoro. Ipocrisia?15 È troppo scoperto e vitale per attirare una tale accusa; conserva anche nelle sue brusche alternative un fondo di salute e sincerità che è il suo inconfondibile sapore. Quando trova nella nave semisommersa le mone40 te d’oro e d’argento non ci risparmia un piccolo monologo «ad alta voce» sulla vanità del denaro; ma appena chiuse le virgolette del monologo: «comunque, ripensandoci, lo portai via». 25
12 tono d’omelia: tono predicatorio. 13 la condotta di Defoe: il critico attribuisce all’autore il comportamento dei suoi per-
Comprensione e analisi
Produzione
sonaggi.
14 si batte il petto: in segno di pentimento per le proprie colpe. 15 Ipocrisia?: Calvino si chiede
se il pentimento espresso nei modi indicati sia espressione di falsità.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Da quali stili letterari si differenzia, secondo Italo Calvino, il linguaggio di Defoe e quali caratteri lo contraddistinguono? A quali aspetti dello stile di Defoe egli allude con l’espressione «da relazione d’affari»? 2. Quale finalità ha, secondo l’autore del saggio, l’accumulo di particolari nella prosa di Defoe? 3. Quali elementi hanno fatto di Defoe «il poeta della paziente lotta dell’uomo» (rr. 19-20)? 4. Per quali aspetti e per quali autori Defoe è diventato un modello? 5. Nel passo viene evidenziato un contrasto tra la propensione di Robinson Crusoe a superare i momenti cruciali affrontando le questioni pratiche, senza concedere troppo all’«autocompatimento» o all’«esultanza», e il «tono d’omelia» suscitato dalla malattia: quale dei due aspetti prevale, secondo Calvino? Attraverso quale similitudine l’autore lo enuncia? La tendenza di Robinson Crusoe a pentirsi ma a dedicarsi subito dopo alle cose pratiche viene estesa anche ad altre opere di Defoe: verifica nei passi antologizzati da Moll Flanders questa affermazione.
374 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
Settecento Il boom del romanzo, specchio della società borghese
Sintesi con audiolettura
1 La nascita del romanzo borghese
La fortuna del genere metamorfico Nel Settecento il romanzo in prosa acquista un ruolo dominante nel sistema dei generi letterari, assumendo da quel momento la funzione di portavoce della modernità, per la quale tende a sua volta a diventare una sorta di modello ispiratore, attraverso la varietà e complessità di forme e temi elaborati nel tempo. L’Inghilterra, patria elettiva del romanzo È in Inghilterra che nasce il romanzo come narrazione dei profondi cambiamenti che, a partire dall’economia, coinvolgono nel secolo XVIII tutti gli aspetti della società inglese. Sono i nuovi ceti emergenti – la borghesia commerciale e la piccola borghesia nelle sue diverse componenti – il pubblico a cui il genere si rivolge. Di quel vasto e vario mondo rappresenta i valori e le aspirazioni insieme alla messa in discussione dei tradizionali rapporti sociali, con il conflitto nei confronti della nobiltà, ancora detentrice del potere e del controllo sociale. Tra il pubblico spicca anche la presenza numerosa delle donne, di diversa estrazione sociale e culturale.
2 Il realismo e i nuovi personaggi del romanzo settecentesco
La narrazione di vicende realistiche o verosimili Il canone stilistico del romanzo del Settecento è il realismo. Il termine novel, non romance, con cui il genere è denominato in Inghilterra, indica programmaticamente la sua aderenza alla realtà. Alla rappresentazione realistica contribuiscono molteplici elementi, tra i quali spiccano lo statuto sociale dei personaggi e la determinazione di precise circostanze di luogo e di tempo sulle quali si innestano le storie narrate. Una nuova tipologia di personaggi I protagonisti del romanzo settecentesco sono l’espressione dei ceti subalterni, relegati a ruoli marginali nella tradizione letteraria precedente, e ora interpreti della nuova realtà sociale. Le “imprese” in cui questi personaggi moderni sono coinvolti non sono imprese mirabolanti (come nella narrazione epico-cortese e negli intrecci secenteschi), ma i casi e le necessità della vita. Le stesse caratteristiche psicologiche dei personaggi corrispondono alle qualità di individui normali: mettono in atto ingegnosità e calcolo razionale per superare le difficoltà, sia che si tratti di sopravvivere in un’isola deserta (Robinson Crusoe) che di amministrare la propria bellezza per non finire in miseria (Moll Flanders). Anche i sentimenti e le emozioni sono rappresentati realisticamente e virtù e vizi tendono, se non in casi eccezionali, a coesistere come avviene nella maggior parte degli individui. Robinson Crusoe di Daniel Defoe Il protagonista de La vita e le strane avventure di Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe (1660-1731) è marinaio e mercante: la sua vicenda (narrata in prima persona), ispirata a un fatto realmente accaduto, delinea una sorta di modello ideale del borghese, il self-made man, di cui Robinson incarna le abilità e i valori.
Sintesi
Settecento 375
Moll Flanders di Daniel Defoe Moll Flanders, nel successivo romanzo Fortune e sfortune di Moll Flanders (1722) di Daniel Defoe, è figlia di una ladra, e diventerà a sua volta una ladra: pur risultando un personaggio negativo per i suoi comportamenti criminali, rappresenta la condizione di chi deve contare solo sulle proprie forze e ricorrere a ogni espediente per sopravvivere, configurandosi come un personaggio-simbolo della società protocapitalistica – grazie alla capacità di sfruttare la propria bellezza –, ma anche come una vittima della degradazione morale della società in cui vive. Pamela o la virtù ricompensata di Samuel Richardson Il romanzo di Samuel Richardson (1689-1761), Pamela o della virtù ricompensata (1740), inaugura la modalità narrativa del romanzo epistolare che avrà larga fortuna nella tradizione del romanzo europeo moderno. La giovane eroina del romanzo è una semplice cameriera che, per difendere i propri princìpi, si ribella al tentativo del padrone di sedurla. La sua ribellione rispecchia la visione del mondo borghese, ormai insofferente nei confronti della prepotenza nobiliare, e la morale puritana, per la quale il rispetto dei valori morali è premiato con l’ascesa sociale (come avverte il sottotitolo del romanzo).
3 Le tipologie del romanzo settecentesco
Tra le molteplici forme del romanzo del Settecento, diffusosi dall’Inghilterra a tutta Europa (in particolare Francia e Germania), emergono i romanzi di viaggi e di avventura, il genere sentimentale ed epistolare, il romanzo filosofico, il cosiddetto “antiromanzo” e il romanzo gotico o nero. Queste differenti tipologie di romanzo sono accomunate dalla prerogativa di utilizzare le vicende narrate per rendere accessibili a un pubblico più vasto i grandi temi del dibattito ideologico del tempo. I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift (1667-1745), attraverso la tecnica dello straniamento, danno voce in chiave paradossale a una visione ironica e critica della società del tempo. Giulia o La nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau Il romanzo (1761) di Rousseau (1712-1778) presenta una struttura epistolare ed è incentrato sul tema del conflitto tra natura e civiltà e sul ruolo dell’amore come strumento di elevazione spirituale. Candido di Voltaire Nel romanzo filosofico Candido, Voltaire esprime il suo scetticismo nei confronti della visione del filosofo e scienziato tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, secondo cui questo è «il migliore dei mondi possibili». Attraverso le vicende spesso paradossali del protagonista e il tono ironico con cui vengono narrate, il romanzo prende in esame i problemi reali del tempo, dalla violenza della guerra alla diseguaglianza, alle molteplici forme di intolleranza religiosa, allo schiavismo, di cui appare evidente tutta la disumanità. Nella struttura del romanzo Candido sono compresenti elementi di vari generi, in alcuni casi in forma di parodia: dal romanzo di formazione al romanzo picaresco, dal romanzo sentimentale alla letteratura utopistica (nell’inserto sull’Eldorado) e a quella di viaggio.
376 Settecento 8 Il boom del romanzo, specchio della società borghese
Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne Il Tristram Shandy (1759-1767) di Laurence Sterne (1713-1768) compie una vera e propria destrutturazione del genere romanzo, sovvertendo i principi cardine che questo nella sua recente costituzione aveva fissato: innanzitutto il filo logico del racconto, che fin dalle prime pagine risulta spezzato da divagazioni e riflessioni di vario genere, per cui risulta difficile individuare una trama coerente. La narrazione della vita del protagonista si risolve in realtà nel racconto del suo concepimento, della nascita e del battesimo, collocati a grande distanza fra loro, addirittura in libri diversi. Principio costitutivo-strutturale del Tristram Shandy è l’associazione delle idee: il narratore interrompe continuamente il filo del racconto con le sue divagazioni; la loro apparente incoerenza vuole rappresentare una realtà frammentaria, in cui l’unico elemento unitario è costituito dal pensiero soggettivo. Il romanzo di Sterne offre una visione amara e desolata dell’esistenza, temperata dal tono ironico e leggero della voce narrante. Nuove sono anche le modalità enunciative: il dialogo continuo con il lettore; l’invito a collaborare alla scrittura del romanzo; la scelta di introdurre altre forme grafiche oltre alla parola (pagine nere e pagine macchiate...), che mettono in evidenza l’inadeguatezza di quest’ultima a rappresentare la realtà.
Zona Competenze Esposizione orale
1. In questo capitolo hai avuto modo di incontrare numerosi personaggi. Ciascuno di loro presenta aspetti di grande modernità. Qual è, a tuo avviso, il personaggio più in linea con i valori della società attuale? Rispondi in un intervento orale di circa 3 minuti. 2. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulle specificità di ciascuna delle forme di romanzo che hai incontrato in questo capitolo. Dopo averle individuate e brevemente illustrate, cita per ciascuna caratteristica degli esempi tratti dai brani analizzati, aiutandoti – se lo ritieni utile – con uno schema grafico. Hai a disposizione 10 minuti.
Scrittura
3. In un breve testo argomentativo esponi le ragioni per cui il romanzo di avventura e di viaggio si è affermato in particolare nell’Inghilterra del Settecento.
Sintesi
Settecento 377
SettecentoQuattrocento e Cinquecento CAPITOLO
9 Giuseppe Parini LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Parini visto da sé medesimo... Nell’ode Alla Musa (1795), una sorta di ideale testamento, Parini esalta la sua idea di poesia e di poeta. Egli contrappone a chi cerca il successo un’immagine in cui si autorappresenta: un uomo onesto, che ricerca la bellezza e la verità. Te il mercadante, che con ciglio asciutto fugge i figli e la moglie ovunque il chiama dura avarizia, nel remoto flutto, Musa, non ama. 5 Nè quei, cui l’alma ambizïosa rode fulgida cura; onde salir più agogna; e la molto fra il dì temuta frode torbido sogna. Né giovane, che pari a tauro irrompa 10 ove a la cieca più Venere piace: né donna, che d’amanti osi gran pompa spiegar procace. Sai tu, vergine dea, chi la parola modulata da te gusta od imita; 15 onde ingenuo piacer sgorga, e consola l’umana vita? Colui, cui diede il ciel placido senso e puri affetti e semplice costume; che di sè pago e dell’avito censo 20 più non presume. Che spesso al faticoso ozio de’ grandi e all’urbano clamor s’invola, e vive ove spande natura influssi blandiscon o in colli o in rive. 25 E in stuol d’amici numerato e casto, tra parco e delicato al desco asside; e la splendida turba e il vano fasto lieto deride. Che a i buoni, ovunque sia, dona favore; 30 e cerca il vero; e il bello ama innocente; e passa l’età sua tranquilla, il core sano e la mente.
O Musa, non ti ama il mercante che con insensibilità abbandona i figli e la moglie, ovunque lo chiami in paesi remoti la dura avidità. Né colui che è tormentato dall’ambizioso desiderio che lo spinge a bramare l’ascesa sociale e che sogna turbato la frode di cui per tutto il giorno ha timore. Né il giovane che come un toro si avventa dove lo spinge la cieca lussuria; né la donna che osa ostentare spudoratamente il numero dei suoi amanti. Sai tu, vergine dea, chi apprezza o sa emulare la parola che tu moduli; dalla quale deriva ingenuo piacere e che consola la vita umana? Colui al quale il cielo chiede sentimenti misurati e sentimenti puri e costumi di vita semplici; che soddisfatto di sé e del patrimonio avito, non chiede di più. Colui che spesso si sottrae alla vita faticosamente ignava dei potenti, e al clamore cittadino, e vive dove la natura spande benefici influssi sui colli o sulle rive. E in un piccolo gruppo di amici onesti siede a una mensa parca ma raffinata; e nella sua serenità deride la massa dei potenti e l’inutile sfoggio di ricchezze. Che, dovunque si trovi, favorisce le persone oneste; e cerca la verità; e ama la bellezza pura; e passa serenamente la vita, con il cuore e la mente integri.
G. Parini, Le Odi, ed. critica a c. di D. Isella, Ricciardi, Milano 1975
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Giuseppe Parini scrive le sue opere più rappresentative – le Odi “civili” e Il giorno – nella Milano di Maria Teresa d’Austria. Lo caratterizzano come intellettuale una concezione operativa della cultura e l’apertura ai grandi temi del dibattito illuminista europeo e lombardo. Sceglie di affidare il proprio messaggio alla poesia, convinto che questa possa contribuire al rinnovamento sociale e costituire una testimonianza morale. Nelle prime Odi egli tratta in modo diretto problemi morali e civili della società, coniugando i princìpi dell’estetica sensista con la tradizione classicistica; nel poemetto Il giorno, il suo capolavoro, attraverso la satira e l’ironia condanna la decadenza morale e l’inerzia della nobiltà.
1 Ritratto d’autore 2 Il libro delle Odi 3 Il giorno morale di Parini: 4 Laun figura mito per le generazioni future
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1 Ritratto d’autore 1 Una vita tutta milanese VIDEOLEZIONE
Da Bosisio a Milano Giuseppe Parini nasce il 23 maggio 1729 a Bosisio, un piccolo paese della Brianza sul lago di Pusiano, da una famiglia di modeste condizioni. A nove anni si trasferisce a Milano e inizia studi poco brillanti presso le scuole dei Barnabiti, con l’aiuto finanziario di una prozia che gli lascia, morendo, una modesta rendita purché egli diventi sacerdote. Nel 1752, appena ventiquattrenne, Parini suscita l’interesse dell’ambiente letterario con la pubblicazione di Alcune poesie di Ripano Eupilino: una raccolta di 95 poesie di impronta arcadica e tradizionale, firmata dal giovane poeta con uno pseudonimo di gusto anch’esso arcadico (anagramma del vero cognome del poeta Parino – che in seguito decise di cambiare in Parini –, associato al nome latino del lago di Pusiano, Eupilis lacus). Le qualità promettenti di questa prima prova poetica (ma anche l’appoggio di alcuni autorevoli ecclesiastici) gli aprono le porte dell’Accademia dei Trasformati, che accoglieva allora il meglio degli intellettuali milanesi. Da qui inizia la sua vicenda umana e letteraria. Parini abate e precettore Nel 1754 Giuseppe Parini viene ordinato sacerdote, diventando uno dei tanti abati della società del tempo: una scelta comune nel Settecento ad altri intellettuali, come lui di modeste origini, che potevano trovare nella carriera ecclesiastica un ruolo sociale decoroso compatibile con l’attività letteraria. Nello stesso anno entra come precettore in casa di una famiglia milanese dell’alta nobiltà: i duchi Serbelloni, rappresentanti dell’aristocrazia milanese più moderna
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva 1740 Sale al trono Maria Teresa d’Austria, principale punto di riferimento, insieme a Federico II di Prussia, della formula politica del “dispotismo illuminato”.
1720
1730
1740
1750
1760
1752-1753
1729
Nasce a Bosisio (in Brianza), da una modesta famiglia.
1739
Si trasferisce a Milano.
Pubblica Alcune poesie di Ripano Eupilino. Entra a far parte dell’Accademia dei Trasformati. 1754
Viene ordinato sacerdote. Entra al servizio del duca Gabrio Serbelloni come precettore. 1757-1761
Scrive il Dialogo sopra la nobiltà; compone la prima ode La vita rustica (1758), poi La salubrità dell’aria (1759) e il Discorso sopra la poesia.
380 Settecento 9 Giuseppe Parini
e colta, aperta ad accogliere alcune istanze dei filosofi illuministi europei. Milano vive in quegli anni un clima di fervore e di vivacità culturale: si diffondono le novità d’Oltralpe e si progettano riforme nella vita economica e sociale. Parini polemista Parini si lascia coinvolgere nelle molte discussioni e iniziative dell’Accademia dei Trasformati: in particolare assume una posizione fortemente polemica nelle questioni relative alla lingua letteraria, schierandosi apertamente contro lo sterile attaccamento al passato in campo linguistico (difende anche l’uso del dialetto). Negli stessi anni scrive le prime odi civili, il Dialogo sulla nobiltà e il Discorso sulla poesia, e affronta in poesia temi sociali e ideologici che costituivano da tempo i bersagli preferiti della critica illuminista: l’intolleranza religiosa (Autodafé, del 1761, in cui condanna l’Inquisizione spagnola) e la guerra (Sopra la guerra, 1758). In quest’ultimo scritto poetico Parini esprime le sue convinzioni cristiane e umanitarie su un tema di stretta attualità (la Guerra dei sette anni tra Maria Teresa d’Austria e Federico II di Prussia) assumendo una decisa posizione pacifista, comune allora tra gli intellettuali illuministi italiani e stranieri (si pensi in particolare a Voltaire ➜ C8 T11 ). Nel 1762 Parini lascia casa Serbelloni in seguito a un increscioso episodio: in un contrasto tra la duchessa e la figlia del maestro di musica Sammartini, lo scrittore aveva assunto le difese della seconda. L’anno successivo prende contatto con un’altra famiglia della nobiltà: è assunto come precettore di Carlo Imbonati, per il quale compone l’ode L’educazione.
Pietro Longhi, Visita al Lord, 1746 (New York, Metropolitan Museum).
Un intellettuale militante nella Milano di Maria Teresa Nel frattempo Parini avvia la composizione di un poemetto satirico, Il giorno, di cui nel 1763 pubblica (senza firmarli) Il mattino e due anni dopo Il mezzogiorno. Anche se anonimi, i due
1764-1766 A Milano esce la rivista «Il Caffè».
1780 Giuseppe II succede a Maria Teresa d’Austria.
1789 La rivoluzione francese. 1796 Napoleone Bonaparte entra a Milano.
1764 Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene.
1770
1763-68
Diventa precettore di Carlo Maria Imbonati, a cui dedica l’ode L’educazione (1764). 1763-1765
1780
1768-75
Dirige la «Gazzetta di Milano». Ricopre la cattedra di eloquenza nelle Scuole Palatine e diventa professore di Belle Lettere a Brera.
1797 Nasce la Repubblica Cisalpina. Trattato di Campoformio. 1799 Gli Austriaci tornano a Milano.
1790
1785-1795
La caduta apre una serie di nuove odi ispirate soprattutto da temi privati.
1800
1791
È nominato sovrintendente delle Scuole di Brera.
1796
Entra a far parte per un breve periodo della municipalità repubblicana.
1799
Muore nella sua casa di Brera.
Pubblica senza firmarli Il mattino e Il mezzogiorno.
Ritratto d’autore 1 381
Bernardo Bellotto, Veduta di Milano con il palazzo dei Giureconsulti, 1744 ca. (Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco).
testi gli sono subito attribuiti e suscitano largo consenso negli ambienti intellettuali milanesi. Attirano inoltre sull’autore l’interesse dell’amministrazione austriaca che, secondo le direttive dell’imperatrice Maria Teresa, tendeva a offrire agli intellettuali più aperti incarichi di responsabilità. Negli anni immediatamente successivi vengono affidati a Parini incarichi importanti, che segnano una svolta nella sua vita: nel 1768 il ministro plenipotenziario conte Carlo Firmian, governatore di Milano, gli conferisce l’incarico di redigere la settimanale «Gazzetta di Milano» (svolgerà questo incarico per tutto il 1769). Contemporaneamente è nominato poeta del teatro Ducale: con questo incarico realizza importanti collaborazioni poetiche e compone la serenata teatrale Ascanio in Alba, musicata da Mozart, in occasione delle nozze dell’arciduca Ferdinando, fratello di Giuseppe II, e di Maria Beatrice d’Este, celebrate in Duomo a Milano nell’ottobre del 1771. Nel 1769 gli viene assegnata la cattedra di Belle Lettere nelle Scuole Palatine, le scuole pubbliche istituite da Maria Teresa. Oltre all’insegnamento, svolge il ruolo di consulente nella stesura dei nuovi programmi di studio e di testi scolastici. Nel 1773 le Scuole si trasferirono nel Palazzo di Brera e si trasformarono in Regio Ginnasio, a cui nel 1776 si aggregò l’Accademia di Belle Arti. Parini si trova così a insegnare in entrambe le istituzioni ed entra quindi in contatto con il pittore Andrea Appiani e l’architetto Francesco Piermarini, che seguivano l’estetica neoclassica, secondo i princìpi enunciati in quegli anni dallo storico dell’arte antica Johann Joachim Winckelmann (➜ PAG. 267). Dal gusto neoclassico Parini viene profondamente influenzato, come dimostrano in particolare le ultime odi. Gli ultimi, difficili, anni in uno scenario politico che cambia Alla morte di Maria Teresa (1780), Parini, come molti altri intellettuali moderati, vive con profondo disagio il nuovo corso imposto dal suo successore, Giuseppe II, poco propenso a tener conto delle realtà locali e del parere degli intellettuali e intenzionato invece a organizzare dall’alto, con direttive autoritarie, la cultura stessa (promuovendo tra l’altro le discipline scientifiche a tutto scapito di quelle umanistiche). Parini riduce così sempre più la sua attività di intellettuale militante, ma continua tuttavia a svolgere il suo incarico pubblico con cura e impegno. Scoppiata la Rivoluzione francese (1789), Parini all’inizio vi vede l’affermazione dei princìpi illuministici di uguaglianza e di libertà, ma dopo gli eccessi del Terrore ne prende nettamente le distanze. Con l’ingresso dei francesi a Milano nel 1796, viene chiamato a far parte della Municipalità per le sue competenze nell’ambito dell’istruzione; ben presto, però, viene emarginato e abbandona quindi ogni collaborazione. Nel 1799 gli austriaci tornano a Milano e iniziano le persecuzioni nei confronti di coloro che risultavano compromessi con il governo rivoluzionario. Il poeta viene però risparmiato, probabilmente per la sua notorietà. Il 15 agosto del 1799 Giuseppe Parini muore nel suo alloggio di Brera. È sepolto nel cimitero milanese di Porta Comasina, ma i suoi resti andranno dispersi: di lì a qualche anno celebri versi dei Sepolcri foscoliani deploreranno l’indifferenza della città di Milano per un figlio adottivo che con la sua poesia l’aveva onorata.
382 Settecento 9 Giuseppe Parini
2 L’ideologia: un illuminista moderato Il rifiuto del materialismo ateistico La formazione culturale e letteraria di Parini è profondamente radicata nella tradizione classica; ma a questo patrimonio, per lui irrinunciabile, egli associa l’interesse per la cultura europea del tempo, assimilata attraverso letture filosofiche e letterarie, e l’attiva partecipazione alla vita culturale e pubblica di quella che divenne la “sua” città: Milano. Dell’Illuminismo Parini accoglie il rifiuto del dogmatismo, dell’oscurantismo e di ogni forma di pregiudizio, ma altrettanto nettamente, da uomo di fede sincera, respinge il materialismo e l’ateismo propri di alcuni pensatori francesi: è convinto, infatti, che la religione abbia un ruolo fondamentale nel disciplinare le passioni umane e che fornisca all’uomo le risposte alle domande fondamentali dell’esistenza.
JeanFrançois de Troy, La dichiarazione d’amore, 1724 ca. (New York, Metropolitan Museum of Art).
La visione sociale: il ruolo della nobiltà Per quanto riguarda la concezione della società, Parini appoggia senza esitazione le tesi ugualitarie e condivide le istanze umanitarie proprie del movimento illuminista, ma non per questo abbraccia una visione rivoluzionaria o rifiuta le gerarchie sociali: non auspica l’eliminazione della nobiltà dallo scenario sociale, ma critica aspramente (come si nota in particolare nel Giorno) l’altezzosità dei nobili, la vita dissipata e oziosa di molti di loro e la diffusione di costumi sociali immorali e ipocriti come la moda del cicisbeismo (cioè l’abitudine, pienamente accettata dalla società, delle donne nobili di accompagnarsi, nelle occasioni mondane, a un cavalier servente che garantiva alla dama i suoi servizi e la sua compagnia). A questa nobiltà parassitaria, Parini non contrappone però l’affermazione della classe borghese (e tanto meno l’ascesa delle classi popolari), ma l’ideale modello di una classe nobiliare che sappia assumere un ruolo sociale positivo, contribuendo alla realizzazione del bene comune. La satira delle abitudini di vita della nobiltà che Parini sviluppa nel Giorno, dunque, vuole avere una funzione non distruttiva, ma al contrario educativa: l’intellettuale, il letterato hanno il compito doveroso di svolgere un’opera di rieducazione dei nobili che il corso dei tempi rende ormai urgente e necessaria. A quest’ottica corrisponde già il Dialogo sopra la nobiltà (1757), un testo polemico che prelude al Giorno (➜ D1 ). In esso Parini immagina un dialogo tra un nobile altezzoso e un poeta dopo la morte: il nobile è costretto, dalle incalzanti argomentazioni del poeta e dalla situazione stessa di grottesca uguaglianza creata dalla morte, a riconoscere la vanità dei titoli nobiliari e delle pretese di superiorità a essi collegate. La visione economica Anche in campo economico, Parini assume una posizione moderata, se non addirittura conservatrice: condanna i mali di un’economia che ruotava quasi esclusivamente attorno ai consumi Ritratto d’autore 1 383
dell’aristocrazia, vittima dei capricci della moda, ma non pensa certo a una radicale conversione delle dinamiche produttive: rifiuta infatti drasticamente l’esaltazione del commercio e dell’industria, propria della maggior parte degli intellettuali del «Caffè», condividendo invece le tesi della fisiocrazia , una dottrina economica che valorizza al massimo l’agricoltura come fonte primaria di ricchezza e al contempo di sanità morale (come si nota nell’ode La vita rustica).
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Interpretazioni critiche Giuseppe Petronio Un cauto riformatore
Il ruolo dell’intellettuale: un mediatore tra modernità e tradizione Parini condivide con il gruppo del «Caffè», la principale rivista dell’Illuminismo italiano (➜ PAGG. 266; 268-269), la convinzione del ruolo centrale che l’intellettuale deve svolgere in una società che cambia e la necessità di contribuire al benessere della collettività. D’altra parte, però, non pochi aspetti lo separano dagli intellettuali del «Caffè»: oltre a rifiutare il mercantilismo (per lui una civiltà fondata sul commercio avrebbe inevitabilmente prodotto la corruzione dei costumi), Parini non è favorevole all’apertura indiscriminata alla cultura francese e non condivide la supremazia che la rivista assegnava al sapere scientifico nell’istruzione e nella vita civile. Il punto fondamentale di dissenso tra Parini e gli intellettuali del «Caffè» è però un altro: mentre questi conducevano una dichiarata battaglia al classicismo e tendevano a svalutare il ruolo della poesia, Parini crede fermamente nella necessità di conciliare tradizione classica e modernità e pensa che sia possibile affidare proprio a un genere alto come la poesia il compito di comunicare le novità sociali e ideologiche.
3 La sfida di Parini: una poesia “alta” per la modernità
Parola chiave
La convergenza con i princìpi oraziani Parini sviluppa ben presto una riflessione teorica sulla letteratura, le cui principali acquisizioni sono espresse nel Discorso sopra la poesia (1761), scritto quando il poeta è poco più che trentenne e letto dinanzi all’Accademia dei Trasformati. Princìpi poi ripresi e approfonditi nelle lezioni tenute a Brera tra il 1773 e il 1775 (De’ principi fondamentali e generali delle belle lettere applicati alle belle arti) pubblicate postume. Nella poetica pariniana, la convinzione illuministica che la letteratura debba trattare temi d’attualità si lega sempre alla rivendicazione del valore anche formale della poesia, della sua intrinseca bellezza: Parini riprende, conferendole però un moderno significato, la poetica oraziana del miscere utile dulci (“unire l’utilità al diletto”), come indica la strofa finale dell’ode La salubrità dell’aria, che si può considerare una sintetica dichiarazione di poetica: «Va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasìa, / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto» (➜ T1 ).
fisiocrazia La fisiocrazia è una teoria economica formulata da François Quesnay (1694-1774), che si diffonde nella seconda metà del Settecento innanzitutto in Francia, ma che incontra consensi anche nel resto d’Europa. Tale dottrina valorizza, sulla base di precise osservazioni economiche, la promozione dell’agricoltura come attività
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“naturale” (il francese physiocratie deriva dal greco physis, “natura”, e kràtos, “predominio”) e capace di produrre stabile benessere nella società. La visione fisiocratica si contrappone al mercantilismo, che intendeva invece favorire lo sviluppo del commercio e l’esportazione, considerati una moderna fonte di ricchezza.
L’adesione all’estetica del sensismo Quello che più conta, però, nel Discorso è la dichiarata adesione ai princìpi dell’estetica sensistica (➜ PAG. 233). Centrale appare nel testo pariniano la definizione “sensistica”, appunto, della poesia: «Io credo [...] esser la poesia l’arte di imitare e dipingere in versi le cose in modo che ne sien mossi gli affetti [le emozioni] di chi legge o chi ascolta, acciocché ne nasca diletto» (in un altro punto del testo definito con più precisione «un vero, reale e fisico diletto»). Il piacere prodotto dalla poesia è, perciò, strettamente collegato alla capacità di colpire il lettore attraverso la stimolazione della sfera sensoriale, suscitando in lui le stesse emozioni, le stesse passioni che l’arte riproduce: l’arte deve “toccare” e “muovere” attraverso immagini vivide, forti, che generino sensazioni di piacere e dolore. Il valore educativo e civile della poesia D’altra parte è essenziale riuscire anche a realizzare un compito di utilità sociale, che per l’illuminista (e per il cristiano) Parini è imprescindibile dall’arte. Se la poesia non si pone un compito sociale ed educativo diventa un’attività sterile e frivola: «è certo che la poesia», scrive il poeta nel Discorso, «movendo in noi le passioni, può valere [servire] a farci prendere aborrimento al vizio [aborrire il vizio], dipingendocene la turpezza, e a farci amar la virtù, imitandone la beltà». Il neoclassicismo pariniano: una svolta di poetica? Per le ultime odi si è parlato spesso, soprattutto in passato, di “neoclassicismo”: la contemplazione della bellezza, l’armonia classica delle forme poetiche presenti in questi testi preluderebbero al gusto poi dominante in Italia nel primo Ottocento (ne sono esempio le odi foscoliane). La critica moderna non mostra in genere di aderire a questa prospettiva interpretativa, cogliendo più gli elementi di continuità che di frattura tra l’ultima produzione poetica di Parini e la precedente. Il classicismo non è una dimensione nuova nella poesia di Parini, ma è una costante di tutta la sua opera: impiegato in modi diversi e con diverse funzioni a seconda del carattere e dei contenuti dei testi, il classicismo corrisponde alla volontà di Parini di affermare il valore della tradizione letteraria di fronte all’avanzata di una cultura d’avanguardia, cosmopolita, che sembrava voler escludere l’eredità del passato.
Il cortile del palazzo di Brera a Milano (incisione, seconda metà sec. XVIII).
Ritratto d’autore 1 385
Giuseppe Parini
Un nobile e un poeta si confrontano dopo la morte
D1
Dialogo sopra la nobiltà, Conclusione G. Parini, Opere, a c. di E. Bonora, Mursia, Milano 1979
Il Dialogo sopra la nobiltà (scritto nel 1757 e pubblicato postumo nel 1801) in genere è considerato un’anticipazione del Giorno sia per il tema trattato (la critica dei privilegi nobiliari) sia per la forma satirica adottata, qui però incline più al sarcasmo che all’ironia. Nell’operetta, Parini immagina che un nobile e un poeta povero e di umili origini si trovino a essere sepolti insieme; all’arroganza del nobile il poeta contrappone l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla morte e gli rinfaccia la condotta parassitaria del suo ceto. L’aggressività polemica si attenua nella seconda parte, che assume un tono più pacato: il nobile riconosce di essere sempre stato preda di pregiudizi e il poeta d’altra parte salva dal suo giudizio negativo coloro che, nati aristocratici, sanno unire le virtù alle ricchezze. Proponiamo la conclusione del Dialogo.
NOBILE Io non posso oggimai più dir motto1, conciossiaché2 i miei polmoni cominciano a sdrucirsi3, e la lingua a corrompersi. Rispondimi a questo ancora. Credi tu che la nobiltà possa giovar qualche cosa, spogliata della virtù, della ricchezza e de’ talenti4? 5 POETA Voi non vedeste mai il più meschino uomo, né il più miserabile, d’un uomo spogliato in sola nobiltà. [...] Conculcato da’ ricchi che in mezzo agli agi possono comperarsi i titoli5, quando vogliono, e si ridono della sterile nobiltà di lui; disdegnato da’ sapienti, che compiangono in lui l’ignoranza, accompagnata colla miseria e colla superbia; sfuggito 10 dagli artigiani, alla cui bottega egli non s’arrischia d’impiegare le mani; odiato dalle persone dabbene, che abbominano6 il suo ozio e la sua inettitudine. Finalmente congedato7 da coloro ch’erano una volta suoi pari, i quali non soffrono d’ammetterlo nelle loro assemblee8 così gretto e meschino, senz’oro, senza cocchi, senza servi, e cose altre simili che 15 sono il sostegno e l’unico splendore della nobiltà, vien ridotto ad abitar tutto il giorno un caffè di scioperati, che il mostrano a dito e fannolo scopo9 de’ loro motteggi e delle loro derisioni. Così il vano fasto della sua nobiltà è cangiato per lui in infamia; e per colmo della sua miseria e del suo ridicolo, gli restano tuttavia in mente e sulle labbra i nomi 20 de’ suoi antenati. A questa condizione si accosta10 qualunque nobile famiglia che decade dalla sua prima ricchezza e insieme dalla sua prima virtù; se la modestia o la filosofia non la sostiene.
1 dir motto: pronunciare parola. 2 conciossiaché: poiché. 3 sdrucirsi: disfarsi. 4 Credi tu... talenti?: la domanda del nobile è cruciale: ormai accettato il dialogo con il poeta, gli chiede se la nobiltà possa avere un qualche valore in sé, senza che sia accompagnata da virtù, ricchezze e capacità
386 Settecento 9 Giuseppe Parini
(talenti). La risposta del poeta è perentoria: un uomo ridotto alla sua sola nobiltà di sangue (più sotto: spogliato in sola nobiltà) è l’essere più meschino e miserabile. 5 Conculcato... titoli: oppresso dai ricchi, che, fra i loro privilegi, possono comperarsi i titoli nobiliari (come vediamo nella Locandiera di Goldoni ➜ C10).
6 abbominano: hanno in odio. 7 congedato: allontanato. 8 non soffrono … assemblee: non vogliono accoglierlo nelle loro riunioni.
9 fannolo scopo: lo fanno oggetto. 10 A questa... si accosta: a questo stato si riduce.
NOBILE Oimè! che in cotesta condizione io ho lasciato i miei figliuoli colassù11; e tutto ciò per colpa... 25 POETA Egli non può più parlare; la lingua gli si è infracidita. Riposatevi, Eccellenza, sul vostro letame. La lingua de’ Poeti è sempre l’ultima a guastarsi12. Beato voi, se colassù aveste trovato uno sì coraggioso che avesse ardito di trattarvi una sola volta da sciocco! Se io avessi a risuscitare, io per me, prima d’ogni altra cosa, desidererei d’esser uomo dabbene, in 30 secondo luogo d’esser uomo sano, dipoi d’esser uomo d’ingegno, quindi d’esser uomo ricco, e finalmente, quando non mi restasse più nulla a desiderare, e mi fosse pur forza di desiderare alcuna cosa, potrebbe darsi che per istanchezza io mi gettassi13 a desiderar d’esser uomo nobile, in quel senso che questa voce è accettata presso la moltitudine.
11 colassù: sulla terra. La situazione che il
12 La lingua... guastarsi: l’espressione va
poeta ha appena descritto è proprio quella del nobile che è vicino a lui.
qui evidentemente intesa in senso simbolico: alla poesia spetta l’ultima parola.
13 mi gettassi: mi riducessi.
Concetti chiave Criticare per educare
In questo dialogo, che documenta una fase particolarmente polemica della produzione pariniana, quando lo scrittore è fortemente convinto che l’intellettuale debba intervenire nelle questioni pubbliche ed esercitare nella società il ruolo di coscienza critica, Parini confuta il pregiudizio della superiorità della nobiltà, in nome di quella uguale dignità dell’uomo la cui difesa ricorre in moltissimi interventi degli illuministi. Il dialogo, d’altra parte, testimonia anche la moderazione dell’ideologia pariniana: la nobiltà non va certo eliminata, ma educata a riprendere con dignità il primario ruolo sociale che le spetta. Chi può svolgere questo ruolo educativo è proprio il Poeta.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto informativo del testo in max 10 righe. COMPRENSIONE 2. Dove si svolge la vicenda narrata? Chi sono gli interlocutori? Qual è il motivo del dialogo? 3. In che modo il Poeta risponde alla domanda sollevata dal Nobile? ANALISI 4. Commenta l’espressione usata da Parini: «La lingua de’ Poeti è sempre l’ultima a guastarsi» (rr. 26-27).
Interpretare
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Jacopone da Todi Quando t’aliegre, omo d’altura
SCRITTURA 5. Nell’ultima parte il poeta enuncia una gerarchia delle qualità che un uomo potrebbe desiderare. Ti sembra che rispecchi la visione dello stesso Parini? Rintraccia le espressioni che giustificano la tua risposta (max 10 righe). TESTI A CONFRONTO 6. Fai un confronto tra il testo letto e la lauda di Jacopone da Todi incentrata su un dialogo tra un vivo ed un morto Quando t’aliegre, omo d’altura. Quali somiglianze o differenze rilevi tra i due testi?
Ritratto d’autore 1 387
2 Il libro delle Odi
1 Un genere poetico antico per una poesia moderna
Charles Meynier, Studio per la musa Calliope, 1798.
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Per approfondire L’allestimento del libro delle Odi
Le Odi Oltre a un gran numero di poesie d’occasione, Parini scrisse 25 odi in un arco di tempo molto ampio: dal 1757 (La vita rustica) al 1795 (Alla Musa). Alle più note di esse, insieme al Giorno, è legata la sua fama. Già all’inizio degli anni Novanta, Parini volle organizzare i testi in una raccolta (l’edizione definitiva è del 1795), affidandone la cura a un allievo fidato, evidentemente perché credeva che le Odi potessero rappresentare degnamente la sua poesia. L’ode è un testo poetico nato nell’antichità classica (Pindaro e Orazio), nella quale era utilizzato per messaggi importanti, di alto significato morale e civile. La scelta da parte di Parini di questa forma poetica (e la lunga fedeltà nell’adottarla) si spiega con la sua aspirazione a creare, come si è detto, una poesia che trattasse argomenti innovativi e di stringente attualità (in particolare nelle odi della prima fase) senza tagliare i ponti con la tradizione letteraria, capace di assicurare dignità formale ai nuovi contenuti. Dopo Parini scrissero odi anche Foscolo, Manzoni e in seguito, tra Ottocento e Novecento, Carducci e d’Annunzio. Le principali fasi di composizione delle Odi All’interno della produzione delle Odi si possono individuare due principali fasi compositive, intervallate da una lunga interruzione (più di dieci anni) entro la quale si colloca qualche testo d’occasione meno rappresentativo. • La prima fase (1757-1769 circa): Parini affronta temi sociali e civili di stretta attualità e problematiche centrali nel dibattito illuminista (come la funzione sociale della cultura e l’educazione). • La seconda fase (1784-1795 circa): Parini privilegia invece temi personali e la dimensione dell’interiorità. La sua poesia si allontana dalla polemica civile e anche lo stile si fa più alto e armonico.
2 La prima fase: la poesia al servizio dell’impegno civile La prima fase Le prime sette odi, scritte tra il 1757 e il 1770 (La vita rustica, 1757; La salubrità dell’aria, 1759; L’impostura, 1761; La musica, 1769; L’educazione, 1764; L’innesto del vaiolo, 1765; Il bisogno, 1766), sono caratterizzate dalla decisa volontà del poeta di confrontarsi con i temi sociali e culturali emergenti nel dibattito illuminista del tempo, alcuni dei quali sono discussi sulle pagine del «Caffè». In questi stessi anni, del resto, Parini componeva anche le prime due parti del Giorno (1763 e 1765): sia nel poemetto che gli darà la fama sia nelle odi scritte in questo periodo la poesia è posta al servizio del progresso della società, secondo il
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programma di poetica che Parini stesso enuncia incisivamente nei versi conclusivi dell’ode La salubrità dell’aria (➜ T1 ). La vita rustica e La salubrità dell’aria: un’interpretazione moderna del contrasto tra città e campagna Queste odi sono incentrate su un confronto polemico tra città e campagna e sull’esaltazione incondizionata della vita in campagna. Il tema è fra i più ricorrenti nella tradizione classica e, in particolare nella prima delle due odi, persistono motivi idillico-arcadici. Tuttavia compare per la prima volta un riferimento all’utilità e alla produttività del lavoro agricolo: Parini loda il contadino che, sviluppando nuove tecniche, saprà far rendere di più la terra che lavora (dietro la composizione dell’ode si intravede l’adesione di Parini alle moderne teorie fisiocratiche; ➜ PAROLA CHIAVE fisiocrazia, PAG. 384). Nella Salubrità dell’aria, Parini ripropone una rappresentazione molto positiva della campagna, in questo caso in rapporto al problema dell’inquinamento di Milano, frutto dell’indifferenza di chi antepone alla salute pubblica l’avidità di guadagno e della scarsa coscienza civica della popolazione cittadina, che ingenerano condizioni igieniche inammissibili in una società civile.
JeanBaptisteSiméon Chardin, Bambino con la trottola, 1738 (Parigi, Musée du Louvre).
L’educazione: educare l’individuo per cambiare la società L’educazione, dedicata al discepolo di Parini Carlo Imbonati, ha come tema il ruolo dell’educazione nella formazione dell’individuo, nella prospettiva di un generale rinnovamento della società: si tratta, come si è visto, di uno dei temi chiave della cultura illuminista (due anni prima, nel 1762, era stato pubblicato il fondamentale trattato di Jean-Jacques Rousseau, Émile ou De l’éducation [Emilio o dell’educazione]). Parini si rivolge in particolare alla nobiltà, nei confronti della quale si pone nel ruolo di educatore, ispiratore di modelli di comportamento che le avrebbero consentito di esercitare nuovamente il ruolo di ceto dirigente. I princìpi educativi (non certo originali) che ispirano la sua pedagogia sono enunciati nell’ultima parte del testo: il rispetto della religione, che non deve però essere esteriore formalismo, ma convincimento interiore; la generosità verso il prossimo e l’umanitarismo, il controllo della ragione su affetti e sentimenti. L’innesto del vaiuolo: l’esaltazione del progresso della ricerca scientifica È significativo che Parini collochi in apertura della raccolta delle sue odi proprio un testo come L’innesto del vaiuolo (già pubblicata nel 1765 in appendice al volumetto del dottor Gianmaria Bicetti Osservazioni su alcuni innesti del vaiuolo). Molto probabilmente l’ode appariva al poeta, dato l’argomento, un esempio evidente di una poesia che ha il coraggio di affrontare contenuti inusitati in favore del progresso civile e sociale (il risultato artistico dell’operazione è però, come in parecchi altri casi, discutibile). Parini prende posizione a favore delle pratiche di immunizzazione dalla terribile malattia ed esalta il progresso della scienza contro ogni forma di ignoranza e oscurantismo. Il bisogno: la prevenzione della piaga sociale della delinquenza Anche nell’ode Il bisogno (➜ T3 OL) Parini si mostra in piena sintonia con le istanze contemporanee, Il libro delle Odi 2 389
che reclamavano la riforma del sistema giudiziario, e concorda pienamente con le posizioni espresse da Cesare Beccaria sul rapporto delinquenza-miseria e sulla necessità della prevenzione sociale dei reati (il saggio Dei delitti e delle pene era uscito due anni prima). Ispira l’ode una prospettiva umanitaria e filantropica. La musica: contro un costume sociale vergognoso Nell’ode Contro l’evirazione o La musica (1769) Parini attacca il malcostume, diffuso nella società settecentesca, di evirare i giovanissimi cantori per ottenere una voce dal timbro particolare (nei Sepolcri, Foscolo parlerà di Milano come della città «d’evirati cantori allettatrice»): una pratica incivile che, in nome del profitto, lede la dignità di un essere umano. Giacomo Ceruti, Sera nella piazza, 1730 ca. (Torino, Museo civico d’arte antica).
3 Le odi della seconda fase Dalle tematiche sociali al ripiegamento sul privato La frattura con i temi fino ad allora trattati è anticipata nell’ode La tempesta (1786), un testo particolarmente complesso, che, attraverso una serie di metafore e immagini mitologiche, rappresenta lo sconvolgimento (la “tempesta” appunto) provocato nella vita civile e intellettuale dalla linea politica di Giuseppe II. Il mutato clima politico e ideologico che si era venuto a creare nei primi anni Ottanta del secolo produce tra gli intellettuali un senso generale di disorientamento e delusione verso la politica riformatrice, che può in parte spiegare il diverso orientamento assunto dalla poesia di Parini. Nella seconda parte della raccolta si trovano odi che testimoniano in vario modo il ripiegamento del poeta nella dimensione del privato e nell’ascolto dell’interiorità, ma anche odi legate a motivi occasionali e la disposizione a celebrare il fascino della bellezza femminile, con toni e immagini che si iscrivono – secondo una tradizionale interpretazione critica non da tutti condivisa – nel nascente gusto neoclassico o comunque mostrano consonanza con esso.
Giacomo Ceruti, Ritratto di gentildonna con cagnolino, XVIII secolo (Collezione privata).
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Un “filo rosso”: la predilezione per la dimensione etica Questa svolta dell’ispirazione pariniana non esclude certo la presenza di una severa dimensione etica che si può considerare il vero e proprio “filo rosso” che percorre tutta l’opera di Parini, come è evidente nella più nota tra le odi composte in questa fase e che in un certo senso la apre: La caduta (1785) (➜ T2 ), in cui lo spunto biografico offre al poeta l’occasione per una esaltazione dell’indipendenza e della moralità che il poeta associa alla figura dell’intellettuale. Lo stesso si può dire dell’ode Alla Musa (➜ PAG. 378), composta dieci anni dopo (1795), che chiude il “libro delle Odi” con un testamento insieme poetico e morale. Rivolgendosi a un suo discepolo, il marchese Febo d’Adda, Parini celebra la funzione dell’arte come custode di valori perenni, in contrapposizione a tutto ciò che è volgare e fuggevole.
Le odi “galanti” e il fascino della bellezza femminile Soggetto delle odi denominate “galanti” da alcuni critici è la contemplazione insieme ammirata e malinconica della bellezza femminile, incarnata in alcune dame dell’aristocrazia. Il pericolo (1787) allude al fascino pericoloso esercitato sull’anziano poeta dalla gentildonna veneziana Cecilia Tron, a cui l’ode è dedicata. In un’altra ode, Il dono (1790), Parini ringrazia la marchesa Paola Castiglioni che gli aveva donato un’edizione delle tragedie di Alfieri. Infine, Il messaggio (1793) esprime la gratitudine del poeta per la contessa Maria Castelbarco, che si era informata della sua salute. In quest’ultima ode è interessante l’anticipazione di un tema che ritroveremo in Foscolo: il ruolo consolatore della bellezza davanti al tramontare della vita e all’immagine della morte.
Le odi pariniane Contenuto ➜ 25 odi prima fase (1756-1769 ca.)
temi culturali e sociali di attualità, centrali nel dibattito illuminista
seconda fase (1784-1795 ca.)
temi personali: • riflessione sul mondo interiore • contemplazione della bellezza femminile (odi “galanti”)
Fasi compositive
Ideologia
Poetica
illuminismo
• polemica antinobiliare • egualitarismo e umanitarismo • professione delle lettere come impegno civile • fiducia nel progresso scientifico
cristianesimo
• concezione tradizionale della religione (e scelta del sacerdozio) • rifiuto degli atteggiamenti antireligiosi dell’illuminismo francese
fisiocrazia
valorizzazione delle risorse dell’economia agricola
classicismo
• culto dei modelli classici • cura estrema del decoro formale • rifiuto dell’idea utilitaristica della letteratura
sensismo
ricerca di un lessico preciso per suscitare l’immagine “sensoriale” dell’oggetto
“neo-classicismo”
• contemplazione della bellezza e ripiegamento sull’interiorità • compostezza espressiva, lessico uniforme, sorvegliato e rarefatto
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4 Lo stile delle Odi: tra sensismo e (neo)classicismo Quali parole per una poesia di “cose”? Nelle odi dell’impegno civile, l’adesione alla poetica del sensismo (➜ PAG. 265) suggerisce al poeta la scelta di espressioni del tutto nuove, lontane dalla vaghezza arcadica e classicistica: termini concreti, precisi e capaci di coinvolgere suscitando impressioni visive, foniche, olfattive, tattili. Ad esempio, nella Salubrità dell’aria: «polmon capace», «triste oziose acque», «fetido limo», «crescente pane», «sali malvagi» (➜ T1 ). L’inserzione di un lessico realistico, di per sé impoetico, viene però compensata dalla presenza costante di elementi aulici quali personificazioni, perifrasi, similitudini classicheggianti e dalla struttura sintattica complessa, latineggiante per la presenza costante di inversioni e dislocazioni. Il classicismo delle ultime odi: una nuova poetica? Il classicismo è connaturato all’immaginario pariniano e la sua presenza è dunque una costante nella sua opera poetica. È corretto allora parlare – come sempre è stato fatto – di una “svolta”, anche in senso stilistico, testimoniata dalle ultime odi? Di certo Parini abbandona la riflessione sul presente e la polemica sociale: scompare di conseguenza il lessico realistico e icastico e rimane il classicismo; un classicismo più sorvegliato e rarefatto, che si esprime in un lessico colto e raffinato, una metrica più fluida e armonica. La ricercatezza formale e gli elementi del “codice” classico esercitano la funzione di filtro che controlla l’urgenza autobiografica e nobilita il dato occasionale, così come, con risultati ben più alti, avverrà per le odi e i sonetti foscoliani (collocabili pochi anni dopo l’ultima ode di Parini, datata 1795). In questo senso, effettivamente le ultime odi pariniane, molto più delle odi “civili”, offrono un modello per le generazioni appena successive ed è forse questo aspetto che si dovrebbe (come non si fa abbastanza) sottolineare.
PER APPROFONDIRE
La poetica pariniana Sensismo
ricerca di un lessico concreto, vivacemente realistico, capace di suscitare impressioni visive, olfattive, foniche, tattili
Classicismo
presenza di elementi aulici e di una struttura sintattica complessa
Neoclassicismo (classicismo delle ultime Odi)
ricerca di un lessico colto e raffinato, di equilibrio e armonia espressive
Il neoclassicismo pariniano: un problema critico Sulla “svolta neoclassica” delle odi pariniane diverse sono state le posizioni della critica negli ultimi decenni: se Giuseppe Petronio legge in questa stagione poetica il frutto della delusione per la politica di Giuseppe II e la fuga in un mondo di forme ideali, Walter Binni riconosce l’esito di un percorso di interiore maturazione, il raggiungimento di un equilibrio che porta il poeta a contemplare la realtà con pacatezza e serenità, un naturale accordo con l’estetica neoclassica. Più recentemente, lo studioso del Settecento letterario italiano Norbert Jonard contesta invece l’esistenza del
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cosiddetto “neoclassicismo” pariniano: le odi finali, che egli definisce semplicemente «odi erotico-galanti», a suo parere non vanno ricondotte a un «avanzamento» verso nuove dimensioni poetiche ma, al contrario, a una sorta di regressione a forme e tendenze già presenti nelle prime poesie di Ripano Eupilino. Secondo il critico, non esistono elementi probanti per associare gli ultimi componimenti alla nuova «metafisica del bello» neoclassica, che egli considera espressione di un cambiamento della visione estetica del poeta.
Giuseppe Parini
T1
La salubrità dell’aria Odi, II
G. Parini, Le Odi, a c. di D. Isella, Ricciardi, Milano-Napoli 1975
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 6
La salubrità dell’aria, tra le più note composizioni di Parini, fu recitata nel 1759 all’Accademia dei Trasformati. L’ode ripropone il tema classico della contrapposizione città-campagna, ma con nuove, polemiche e realistiche motivazioni: della campagna Parini non esalta infatti solo la bellezza ma anche la salubrità dell’aria, appunto, la vita sana di cui può godere chi vive lontano dalla città. Analogamente, anche l’immagine negativa della città che domina nell’ode non ha nulla a che vedere con le stereotipate rappresentazioni tradizionali, ma acquista il volto specifico della Milano preindustriale e precapitalistica dei tempi di Parini, preda di un inquinamento determinato dall’incuria, dall’indifferenza dei cittadini e soprattutto dagli interessi economici privati che prevaricano il bene della collettività.
O beato terreno del vago Èupili mio, ecco al fin nel tuo seno m’accogli; e del natìo 5 aere mi circondi; e il petto avido inondi1. Già nel polmon capace urta sé stesso e scende quest’etere vivace, 10 che gli egri spirti accende, e le forze rintegra, e l’animo rallegra2. Però ch’austro scortese qui suoi vapor non mena: 15 e guarda il bel paese alta di monti schiena, cui sormontar non vale borea con rigid’ale3. né qui giaccion paludi, 20 che dall’impuro letto mandino ai capi ignudi nuvol di morbi infetto: La metrica: Strofe di sei settenari piani; schema delle rime: ABABCC. 1 O beato... inondi: l’ode si apre con il saluto alla terra felice (beato) che circonda il bel (vago) lago di Pusiano (di cui Èupili è il nome latino; mio perché presso quel lago sorge Bosisio, il paese natale del poeta, vv. 4-5 natìo / aere). Parini immagina di tornare al suo paese, che lo fa sentire amato (nel
tuo seno m’accogli): “(sottinteso tu: è il paese personificato) mi circondi dell’aria nativa e riempi (inondi) di quest’aria il mio petto desideroso (avido di respirare aria pura)”. 2 Già... rallegra: finalmente (già) quest’aria (etere) vivificante (vivace), che stimola (accende) gli animi infiacchiti (egri) (dalla vita cittadina) e rinnova (rintegra) le forze e rallegra l’animo, si comprime (urta sé stesso) e scende nei (miei) polmoni che si
dilatano (in un profondo respiro, polmon capace). 3 Però ch’austro... rigid’ale: infatti il fastidioso (scortese) vento di scirocco (austro, nome latino) non porta la sua umidità (vapor) in questi luoghi: e un’alta catena (schiena) di monti, che la tramontana (borea) con il suo soffio gelido (con rigid’ale) non riesce (vale) a superare, protegge (guarda) il bel paese.
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e il meriggio a’ bei colli asciuga i dorsi molli4. Pèra colui che primo a le triste ozïose acque e al fetido limo la mia cittade espose; e per lucro ebbe a vile 30 la salute civile5. […] 25
[Il poeta invita quindi gli abitanti della città a temere il diffondersi della malaria, che affligge i contadini che lavorano nelle risaie, pericolosamente vicine alla città. Al lavoro malsano nelle risaie è contrapposta la condizione dei contadini in campagna, dove ancora si coltiva il grano: il lavoro è pesante, ma grazie al clima salubre (Parini allude in particolare ai luoghi della sua Brianza), i contadini sono sani e robusti. Il poeta si immagina nel ruolo di cantore di un mondo campestre ancora incontaminato. E così continua…] Ben larga ancor natura fu a la città superba di cielo e d’aria pura: 70 ma chi i bei doni or serba fra il lusso e l’avarizia e la stolta pigrizia6? Ahi, non bastò che intorno putridi stagni avesse; 75 anzi a turbarne il giorno sotto a le mura stesse trasse gli scelerati rivi a marcir sui prati7: e la comun salute 80 sagrificossi al pasto d’ambizïose mute, che poi con crudo fasto
4 né qui... dorsi molli: e qui (in Brianza) non ristagnano (giacciono) paludi che dal fondo (letto) putrido (impuro) mandino alle persone (capi ignudi è una sineddoche) indifese un’aria infettata (nuvol… infetto) di malattie (la malaria era endemica nelle zone paludose); e il sole meridiano (qui) asciuga i pendii (dorsi) bagnati dalla rugiada del mattino (molli) ai bei colli (volti a sud). 5 Pèra... civile: muoia (pèra congiuntivo di perire; è un tradizionale esordio d’im-
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precazione) colui che per primo espose la mia città (Milano) alle nocive (triste) acque stagnanti (ozïose) e al fango (limo) maleodorante (fetido) e per guadagno (lucro) disprezzò (ebbe a vile) la salute dei cittadini (civile). 6 Ben... pigrizia?: la natura è stata assai generosa (larga) anche nei confronti di Milano (concedendole) un bel cielo e un’aria pura: ma chi conserva ora i bei doni in mezzo al lusso, all’avidità di gua-
dagno (avarizia) e alla stupida inettitudine (stolta pigrizia)? 7 Ahi, non... sui prati: ahimè, non bastò che Milano fosse circondata dalle risaie (putridi stagni); in aggiunta (anzi), a inquinare l’aria della città (turbarne il giorno; il soggetto è ancora Milano) deviò (trasse) fin sotto le mura i canali nocivi (scelerati) per inondare i prati imputridendoli (cioè creò le marcite).
calchin per l’ampie strade il popolo che cade8. A voi il timo e il croco e la menta selvaggia l’aere per ogni loco de’ vari atomi irraggia, che con soavi e cari 90 sensi pungon le nari9. 85
Ma al piè de’ gran palagi là il fimo alto fermenta; e di sali malvagi ammorba l’aria lenta, 95 che a stagnar si rimase tra le sublimi case10. Quivi i lari plebei da le spregiate crete d’umor fracidi e rei 100 versan fonti indiscrete; onde il vapor s’aggira; e col fiato s’inspira11. Spenti animai, ridotti per le frequenti vie, 105 de gli aliti corrotti empion l’estivo die: spettacolo deforme del cittadin su l’orme!12 Né a pena cadde il sole 110 che vaganti latrine
8 la comun... che cade: la salute pubblica (comun) fu sacrificata (sacrificossi) al (desiderio di procurare) foraggio (pasto) a prestigiose (ambiziose, cioè “che alimentano l’ambizione” dei possessori) pariglie di cavalli (mute), che poi con crudele ostentazione di ricchezza (crudo fasto) calpestino (calchin) lungo le ampie strade il popolo che cade (travolto sotto le ruote delle carrozze). 9 A voi... le nari: a voi (contadini della Brianza), il timo e lo zafferano (croco) e la menta selvatica (selvaggia) da ogni parte impregnano l’aria delle loro particelle (atomi), che stimolano (pungon) le narici (nari) con sensazioni olfattive (sensi) dolci
e piacevoli (soavi e cari). 10 Ma al piè... sublimi case: invece là ai piedi dei grandi palazzi (dei nobili) fermenta il letame ammucchiato (fimo alto) e impregna (ammorba) di malefiche esalazioni (sali malvagi) l’aria opprimente (lenta, “senza vento”) che ristagna tra le alte (sublimi) case (le quali impediscono il ricambio dell’aria). 11 Quivi... s’inspira: qui (a Milano) le case popolari (plebei lari; i Lari presso gli antichi Romani erano gli dèi protettori della casa) rovesciano (in strada) dai disprezzati vasi da notte (spregiate crete, “vasi di terracotta”; perifrasi eufemistica con sineddoche) getti (fonti) senza riguardo per i
passanti (indiscrete) di liquidi maleodoranti (fracidi per fradici) e dannosi (rei), dai quali (onde) si diffonde (s’aggira) la puzza (vapor) che viene respirata con l’aria. 12 Spenti animai... su l’orme!: animali morti (spenti), abbandonati (ridotti) per le vie affollate (frequenti), riempiono l’aria specialmente nei giorni caldi estivi (die, singolare, latinismo) (quando le epidemie si diffondono più facilmente) col fetore (aliti, che emanano i loro corpi putrefatti): spettacolo ripugnante (deforme) che si offre alla vista del cittadino che passa (su l’orme)! L’usanza di abbandonare carogne di animali per strada era inutilmente contrastata dalle leggi.
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con spalancate gole lustran ogni confine de la città, che desta beve l’aura molesta13. Gridan le leggi è vero; e Temi bieco guata: ma sol di sé pensiero ha l’inerzia privata. Stolto! E mirar non vuoi 120 ne’ comun danni i tuoi?14» 115
Ma dove ahi corro e vago lontano da le belle colline e dal bel lago e dalle villanelle, 125 a cui sì vivo e schietto aere ondeggiar fa il petto?15 Va per negletta via ognor l’util cercando la calda fantasìa, 130 che sol felice è quando l’utile unir può al vanto di lusinghevol canto16. 13 Né a pena... molesta: non appena il sole è tramontato (cadde), i carri stercorari (vaganti latrine), con i coperchi aperti (spalancate gole, contrariamente alle disposizioni vigenti) percorrono (lustran) ogni zona (confine) della città, che svegliandosi (desta) respira (beve) l’aria nociva (molesta). Le vaganti latrine si riferiscono alle navazze stercorarie, adibite al trasporto dei liquami fuori città. 14 Gridan... i tuoi?: le leggi minacciano
(sanzioni), è vero; e la giustizia (Temi, la dea della giustizia) guarda (guata) minacciosamente (bieco, con valore avverbiale), ma i privati cittadini, indifferenti al bene pubblico (inerzia privata), si preoccupano solo del proprio interesse. Stolto (cittadino)! Non vuoi capire che i danni collettivi sono anche i tuoi stessi danni? 15 Ma dove... il petto?: dove vado divagando (corro e vago, endiadi) lontano dalle belle colline e dal lago e dalle con-
tadinelle (villanelle) cui un’aria (aere) così pura e frizzante (schietto) gonfia i polmoni? 16 Va per... canto: la mia appassionata (calda) ispirazione poetica (fantasia) va lungo strade trascurate dagli altri (negletta) sempre (ognor) cercando l’utile (sociale), la quale ispirazione è felice solamente quando può unire l’utilità al merito (vanto) di una poesia piacevole (lusinghevol canto).
Analisi del testo Oltre il topos classico della vita agreste e della contrapposizione città/campagna Proprio per gli obiettivi polemici che la ispirano, l’ode rifiuta (o almeno tenta di farlo) l’immagine letteraria convenzionale della campagna come locus amoenus, paesaggio arcadico sottratto al divenire del tempo, privo di connotati realistici, abitato da ninfe e pastori; e crea invece la realistica rappresentazione di un ambiente sano, la cui positività è sperimentabile attraverso i sensi. Questo ambiente è contrapposto alla città, ma anche per quest’ultima Parini rinuncia agli stereotipi dei modelli letterari (si pensi alla satira oraziana del “topo di campagna e di città” certo ben nota a Parini) per delineare un ambiente cittadino ben preciso: la Milano del suo tempo, che viveva seri problemi di igiene pubblica e di inquinamento.
396 Settecento 9 Giuseppe Parini
Unire «utile» e «lusinghevol canto»: un programma riuscito? Come osserva il critico Jonard, fino alla La vita rustica Parini aveva solo sfiorato la sua contemporaneità, mentre con quest’ode l’attualità irrompe con forza nel testo attraverso una forma poetica che tenta strade nuove (la «negletta via» di cui parlano gli ultimi versi, ovvero un modo di far poesia trascurato fino a quel momento), abbandonando la cantabilità e i temi evasivi della lirica arcadica. Parini cerca veramente di fare cosa “utile”: non si limita, infatti, a un discorso estetico (città “brutta” vs campagna “bella”) né genericamente moralistico, ma individua delle precise responsabilità nel degrado ambientale: la coltivazione del riso è frutto della logica del profitto, l’estensione delle risaie e delle marcite fino alle porte della città disprezza la salute pubblica in nome dell’utile di pochi, infrangendo quel “patto sociale” che per gli illuministi è alla base della convivenza civile. L’adesione a una poetica dell’utile non esclude però il «lusinghevol canto», ovvero la piacevolezza della poesia. Nel caso di questa ode, la piacevolezza può corrispondere a un duplice significato: in primo luogo Parini allude alla competenza letteraria che ha le sue radici nella tradizione cara al poeta; ma si può ipotizzare un significato più attuale di questa “piacevolezza”, che deriva invece dalla moderna estetica del sensismo a cui il poeta aderiva: essa, come si è detto, implicava il produrre piacere in chi legge suscitando “sensazioni”. Effettivamente La salubrità dell’aria costituisce quasi il “manifesto” di una poetica sensistica, talmente numerosi sono i riferimenti a impressioni visive e olfattive che conferiscono concretezza al discorso del poeta (producendo sensazioni che sono propriamente “piacevoli”, beninteso, solo quando ci si riferisce al polo positivo dell’ode, ovvero alla lode della campagna operosa: «L’aere per ogni loco / de’ vari atomi irraggia, / che con soavi e cari / sensi pungon le nari», vv. 86-90). Leggendo La salubrità dell’aria rimane però nel lettore l’impressione che la tradizione abbia frenato l’innovazione, così che il risultato finale risulta ben poco convincente proprio perché si tratta di un testo decisamente ibrido; al complessivo realismo si contrappone infatti la sopravvivenza di immagini del repertorio arcadico, come quella del poeta che, novello Titiro virgiliano (Bucolica I), «con la mente sgombra, / di pure linfe asterso [purificato], / sotto ad una fresc’ombra», si prepara a cantare in versi non i pastori dell’Arcadia ma gli altrettanto inverosimili e idealizzati (seppure con un’idealizzazione di segno opposto) «villan vispi e sciolti / sparsi per li ricolti» (vv. 49-54, non riportati). Non mancano formule e stilemi tipici della poesia classica, come la formula deprecatoria, cara a Parini «Pèra colui che primo...» (v. 25 e sgg.). A nostro parere la volontà polemica risulta smorzata da questi debiti alla tradizione classicistica, alla quale Parini non intende però rinunciare.
Giandomenico Tiepolo, La passeggiata, 1791 (Venezia, Ca’ Rezzonico).
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi dei primi trenta versi dell’ode. COMPRENSIONE 2. Qual è l’obiettivo dell’ode? 3. Alla fine del testo è contenuta una dichiarazione di poetica: in che cosa consiste? ANALISI 4. Indica gli aspetti che, per il poeta, caratterizzano l’ambiente rurale e quello cittadino. 5. I versi 115-120 sono tra quelli che maggiormente esprimono una visione illuminista: spiega perché. LESSICO 6. Sempre nei primi trenta versi, individua i termini che appartengono al registro letterario classicistico e quelli di matrice sensistica; poi fanne una schedatura. STILE 7. Nelle due strofe dei versi 85-96 è particolarmente evidente la presenza dell’antitesi: che cosa riguarda? Individua e scheda tutte le espressioni antitetiche che riesci a ritrovare nel testo.
Interpretare
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
PER APPROFONDIRE
competenza 5, 6
SCRITTURA 8. In che misura l’ode pariniana mette a fuoco problemi reali di igiene pubblica della Milano settecentesca? Rispondi dopo aver letto la scheda I problemi igenico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento (➜ PER APPROFONDIRE). 9. L’ode La salubrità dell’aria, benché sia stata scritta nella seconda metà del secolo, rivela aspetti di assoluta attualità che sono oggetto di discussione anche ai giorni nostri: il testo, infatti, sembra anticipare istanze presenti nell’Obiettivo 11 dell’Agenda 2030. Partendo ovviamente da un diverso approccio scientifico al problema, rifletti sul tema della difesa dell’ambiente, del contrasto tra città e campagna, del desiderio di profitto a scapito della salute pubblica. Quale ruolo svolgono, a tuo giudizio, l’avidità di guadagno e la scarsa coscienza civica della popolazione cittadina nella difesa dell’ambiente? Quale ruolo potrebbe avere un ragazzo della tua età nel processo di formazione di una più profonda e consapevole coscienza ambientale (max 20 righe)?
I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento Il problema della salubrità dell’aria e dell’inquinamento cittadino divenne oggetto di dibattito a partire dal XVIII secolo, quando i primi igienisti, in seguito allo sviluppo delle scienze mediche e biologiche, iniziarono a rivolgere l’attenzione alle condizioni igienico-sanitarie delle città medie e grandi (come Milano e Parigi) in cui si ammassava una popolazione sempre più numerosa, che produceva una gran quantità di scarti e di rifiuti. La necessità di provvedimenti sanitari Le condizioni della vita cittadina rendevano necessaria l’introduzione di misure sanitarie per evitare l’insorgere di malattie causate dal sudiciume e dall’immondizia. La necessità più urgente risultava essere la raccolta e il trasporto fuori città dei rifiuti e delle acque reflue, in mancanza di fogne; ma già a quei tempi, ben lontani dalla sensibilità ecologica moderna, si avvertiva anche l’esigenza di creare zone di verde urbano (viali e giardini) per purificare l’aria. Anche a Milano il problema era all’ordine del giorno quando Parini scrisse l’ode, sviluppando il tema dell’aria proposto dall’Accademia dei Trasformati; infatti un decreto del magistrato della sanità del 1756 aveva tentato, ancora una volta, di «togliere quegli abusi o inconvenienti che potessero nocere alla salubrità dell’aria».
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La difficile gestione dei rifiuti urbani Le «vaganti latrine» che Parini descrive inorridito erano realmente presenti nella Milano del suo tempo e ancora per molto tempo lo saranno: infatti, dato che fin dal Seicento vigeva il divieto di versare il contenuto dei pozzi neri nelle strade e nei corsi d’acqua, operai preposti estraevano i rifiuti dai pozzi (i cisternari), altri (i navazzari) li caricavano su carri (le navazze stercorarie) e li trasportavano in campagna. Dato che questi ultimi tendevano a operare fuori degli orari stabiliti, già dal primo Seicento le ordinanze delle autorità sanitarie cercano di disciplinarne l’attività. Verso la fine del Seicento i navazzari dovevano avere una vera e propria licenza per svolgere il loro compito. L’affermarsi della risicoltura e i riflessi negativi sul clima La specificità della situazione milanese consisteva nel fatto che, alle cause d’inquinamento interne alla città, si aggiungeva la vicinanza delle risaie, in un periodo in cui si affermava in Lombardia la risicoltura; attività che, insieme all’allevamento dei bovini, risultava più produttiva mentre veniva abbandonata, perché poco redditizia, la coltivazione dei cereali. Già nella prima metà del Seicento (1619), alcuni provvedimenti del governo cittadino vietavano di coltivare il riso a meno di quattro chilometri dalla città per limitare l’inquinamento urbano; ma, a quanto ci dice Parini nell’ode, non erano sempre rispettati.
Giuseppe Parini
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La caduta
LEGGERE LE EMOZIONI
Odi, XV G. Parini, Le Odi, a c. di D. Isella, Ricciardi, Milano-Napoli 1975
AUDIOLETTURA
Composta nel 1785, l’ode La caduta prende spunto da un episodio autobiografico, non sappiamo se reale o immaginato. In una sera d’inverno Parini cammina nel centro di Milano: malfermo sulle gambe, scivola sulla strada bagnata e cade. Un passante, riconosciutolo, lo aiuta a rialzarsi. Stupito del fatto che il poeta non disponga di una propria carrozza, gli consiglia di mettere la sua arte al servizio del potere e di usarla per arricchirsi. La sdegnata risposta del Parini ribadisce la dignità morale della vera poesia, che non deve abbassarsi al servilismo e ai compromessi.
Quando Orïon dal cielo declinando imperversa, e pioggia e nevi e gelo sopra la terra ottenebrata versa1, 5 me spinto ne la iniqua stagione, infermo il piede, tra il fango e tra l’obliqua furia de’ carri la città gir vede2; e per avverso sasso 10 mal fra gli altri sorgente, o per lubrico passo lungo il cammino stramazzar sovente3. Ride il fanciullo; e gli occhi tosto gonfia commosso, 15 ché il cubito o i ginocchi me scorge o il mento dal cader percosso4. Altri accorre; e: «Oh infelice e di men crudo fato degno vate!» mi dice5; 20 e seguendo il parlar, cinge il mio lato con la pietosa mano; e di terra mi toglie;
La metrica: L’ode è composta da 24 quar-
2 me spinto... gir vede: la città (cioè i
tine di tre settenari e un endecasillabo finale con schema ABAB.
milanesi, per metonimia) mi vede (me è complemento oggetto di la città gir vede, v. 8) costretto a uscire con il maltempo, con piede zoppicante (infermo il piede è un accusativo di relazione alla greca), in mezzo al fango e alla corsa delle carrozze che mi sfiorano nella loro corsa disordinata (obliqua furia). 3 e per avverso... sovente: e (mi vede) spesso cadere in modo rovinoso (stramazzare) lungo il cammino a causa di un sasso insidioso (avverso) che sporge (sorgente) malamente fra gli altri, o a
1 Quando... versa: quando la costellazione di Orione tramontando (declinando) infuria dal cielo e versa sopra la terra, oscurata dalle nubi (ottenebrata), pioggia neve e gelo (cioè, porta l’inverno). Orione, mitico cacciatore amato da Aurora e ucciso da Diana, fu trasformato, appunto, nella costellazione che da lui prese nome; secondo la tradizione poetica, indica sia la stagione (l’inverno) sia l’ora (la sera).
causa di un passaggio scivoloso (passo lubrico). 4 Ride... percosso: un ragazzo (che mi vede cadere) si mette a ridere, ma poi gli occhi gli si riempiono di lacrime non appena (tosto... che) vede che cadendo mi sono ferito al gomito (cubito) o ai ginocchi o al mento. 5 Altri... dice: uno (altri) accorre; e mi dice: «Oh infelice poeta (vate) degno di un destino meno crudele!».
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e il cappel lordo e il vano baston dispersi ne la via raccoglie6: «Te ricca di comune censo la patria loda; te sublime, te immune cigno da tempo che il tuo nome roda chiama gridando intorno7; 30 E te molesta incìta di poner fine al Giorno, per cui cercato a lo stranier ti addita8. Ed ecco il debil fianco per anni e per natura 35 vai nel suolo pur anco fra il danno strascinando e la paura9: nè il sì lodato verso vile cocchio ti appresta, che te salvi a traverso 40 de’ trivi dal furor de la tempesta10. 25
Sdegnosa anima! prendi, prendi novo consiglio, se il già canuto intendi capo sottrarre a più fatal periglio11. 45 Congiunti tu non hai, non amiche, non ville, che te far possan mai nell’urna del favor preporre a mille12. Dunque per l’erte scale 50 arrampica qual puoi; e fa gli atri e le sale ogni giorno ulular de’ pianti tuoi13. O non cessar di pórte fra lo stuol de’ clienti, 6 seguendo... raccoglie: continuando (seguendo) a parlare, circonda il mio fianco (lato) con mano compassionevole e mi solleva (toglie) da terra; e raccoglie il cappello sporco (lordo) e il bastone, che mi è stato inutile (vano) per evitare la caduta, sparsi per strada. 7 Te... intorno: Milano la tua patria, ricca per il denaro pubblico (comune censo) delle sue entrate, ti loda; e ti proclama a gran voce (gridando intorno) sublime poeta (cigno) e immune dai danni che il tempo potrebbe arrecare (roda) alla tua fama. Il cigno, sacro ad Apollo, è il simbolo del poeta. 8 molesta... addita: (la tua città) ti esorta con fastidiosa insistenza (molesta) a con-
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cludere Il giorno, opera per la quale ti indica al visitatore forestiero che cerca di te (cercato è participio predicativo); in quanto Parini era famoso anche fuori Milano. 9 ecco... paura: ecco trascini ancora (pur anco) per strada il tuo corpo (fianco) debole per età e per costituzione tra i danni (provocati dalle cadute) e la paura (di essere travolto). 10 il sì lodato... tempesta: i tuoi versi tanto lodati non ti procurano neppure una misera carrozza (vile cocchio) che ti salvi dall’infuriare del maltempo (furor de la tempesta) in mezzo agli incroci (a traverso de’ trivii). 11 Sdegnosa... periglio: animo orgoglioso! cambia atteggiamento (consiglio) se hai intenzione di sottrarti (letteralmente:
“sottrarre la tua testa già bianca [canuto] per l’età”) a pericoli che potrebbero avere conseguenze anche più gravi (fatal). 12 Congiunti... mille: tu non hai parenti, amanti, possedimenti che ti possano anteporre a mille altri là dove si dispensano i favori del destino (urna del favor); in altre parole, che possano far volgere a tuo vantaggio il gioco indecifrabile della sorte. 13 per l’erte... tuoi: arrampicati dunque come puoi per le ripide (erte), e quindi penose a salirsi, scale dei (palazzi dei) potenti e fai risuonare ogni giorno tutto il palazzo (atri e sale) dei tuoi lamenti. Il passante che lo ha soccorso consiglia al poeta di frequentare i palazzi degli aristocratici per dolersi della propria condizione.
abbracciando le porte degl’imi, che comandano ai potenti14; e lor mercé penètra ne’ recessi de’ grandi; e sopra la lor tetra 60 noia le facezie e le novelle spandi15. O, se tu sai, più astuto i cupi sentier trova colà dove nel muto aere il destin de’ popoli si cova16; 65 e, fingendo nova esca al pubblico guadagno, l’onda sommovi, e pesca insidioso nel turbato stagno17. 55
Ma chi giammai potrìa 70 guarir tua mente illusa, o trar per altra via te ostinato amator de la tua Musa?18 Lasciala: o, pari a vile mima, il pudore insulti, 75 dilettando scurrile i bassi genii dietro al fasto occulti19». Mia bile, al fin costretta, già troppo, dal profondo petto rompendo, getta 80 impetuosa gli argini20; e rispondo: «Chi sei tu, che sostenti a me questo vetusto pondo, e l’animo tenti prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto21.
14 non cessar... potenti: non smettere di collocarti nella schiera dei parassiti (lo stuol de’ clienti), implorando l’aiuto (abbracciando le porte, secondo un gesto rituale) delle persone di basso rango (imi) che sono in grado di influenzare i potenti. Nell’antica Roma, i clientes, i clienti, appunto, servivano in vari modi un protettore (o patrono) ottenendo uno stato sociale riconosciuto; qui il termine ha senso spregiativo. 15 lor mercé... spandi: grazie ad essi, penetra nelle stanze private (recessi, cioè nell’intimità) dei potenti; e riempi (spandi sopra) la loro cupa (tetra) noia di spiritosaggini e di storielle. 16 se tu… si cova: oppure, se sei capace, trova con più astuzia le vie torbide (cupi sentier) che portano là dove in segreto (nel muto
aere) si decide (si cova) il destino dei popoli. L’espressione allude al potere politico. 17 e fingendo... stagno: e facendo balenare la prospettiva di nuove risorse (esca, latinismo) per arricchire le casse dello Stato (pubblico guadagno) provoca confusione (l’onda sommovi, “smuovi le acque”) e imbrogliando (insidioso) cerca di ottenere un profitto personale pescando nel torbido (pesca nel turbato stagno). 18 Ma chi... Musa?: ma chi potrebbe (potrìa) guarire la tua mente piena di illusioni (illusa) e convincerti a cambiare stile di vita (trar per altra via) dal momento che sei testardamente fedele alla tua vocazione di poeta (amator de la tua Musa), a un alto ideale di poesia? 19 Lasciala... occulti: abbandonala (riferito a Musa), o (almeno la tua Musa, cioè
la tua poesia), come una volgare attricetta (vile mima), si pieghi a offendere il pudore compiacendo (dilettando) in modo spudorato (scurrile) i bassi istinti (genj) nascosti (occulti) dietro il lusso (fasto) dei ricchi. Parini allude alla poesia e alla narrativa erotiche di moda nel Settecento. 20 Mia bile... argini: la mia rabbia (bile) trattenuta già da troppo tempo, sgorgando dal profondo dell’animo, rompe con violenza (impetuosa) ogni ritegno (argini in senso metaforico per indicare l’autocontrollo). 21 Chi sei... non giusto: chi sei tu, che sorreggi (sostenti) il mio vecchio (vetusto) corpo (pondo, peso, latinismo) e cerchi di umiliare il mio animo? Sei compassionevole (umano), ma non giusto.
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Buon cittadino, al segno dove natura e i primi casi ordinàr, lo ingegno guida così, che lui la patria estimi22.
Quando poi d’età carco 90 il bisogno lo stringe, chiede opportuno e parco con fronte liberal, che l’alma pinge23. E se i duri mortali a lui voltano il tergo, 95 ei si fa, contro ai mali, della costanza sua scudo ed usbergo24. Né si abbassa per duolo, né s’alza per orgoglio». E, ciò dicendo, solo 100 lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio25. Così, grato ai soccorsi, ho il consiglio a dispetto; e privo di rimorsi, col dubitante piè torno al mio tetto26. 22 Buon cittadino... estimi: un buon cittadino rivolge le proprie inclinazioni verso quel punto dove lo indirizzarono (ordinar) la sua indole naturale (natura) e le prime esperienze formative (casi) della vita, in modo che i suoi concittadini (la patria) lo stimino. 23 Quando.... pinge: quando poi, divenuto anziano (d’età carco), è costretto dal bisogno, fa richieste (chiede) con discre-
zione e senso della misura (opportuno e parco), a testa alta (fronte liberal), con atteggiamento dignitoso che esprime (pinge) la nobiltà dell’animo. 24 se i duri... usbergo: se gli uomini insensibili gli voltano le spalle (tergo), egli fa della sua costanza scudo e corazza (usbergo), cioè protezione contro i disagi (che patisce). 25 Né si abbassa... toglio: non si abbatte per il dolore (duolo) né si esalta per orgo-
glio. E dicendo ciò, lascio da solo il mio sostegno (cioè chi mi aveva sorretto) e mi allontano (toglio) di lì con sguardo irato (bieco). 26 Così... tetto: così, riconoscente per l’aiuto ricevuto, rifiuto sdegnosamente (ho a dispetto) il consiglio e, privo di rimorsi, torno con passo esitante (col dubitante piè) a casa mia.
Analisi del testo La dignitosa povertà del poeta L’ode si apre con la rappresentazione, attraverso una narrazione vivacemente evocativa, dell’incidente da cui trae poi spunto la tematica dell’ode. Il complesso dei suggerimenti che ne derivano presuppone l’abdicazione della coscienza morale, per seguire la legge del vantaggio personale. Il poeta, in risposta ai consigli del soccorritore, respinge con pacata fermezza tutte le proposte, che giudica indegne, e delinea un severo modello umano, in cui lui stesso si rispecchia, antitetico al cinico pragmatismo prospettato come “normale e opportuno” dal soccorritore.
La sceneggiatura di un conflitto interiore? Il significato della struttura oppositiva dell’ode Il dialogo tra Parini e il passante ha l’evidente funzione di “mettere in scena” la contrapposizione tra due mentalità e si potrebbe ipotizzare (come da più parti è stato fatto) che trovi le sue radici profonde in un dilemma interiore vissuto (e superato) dal poeta stesso: mantenere a ogni costo gli alti princìpi di moralità nella vita e nell’arte in cui credeva o
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abbandonarsi a qualche compromesso, come suggerivano le dure necessità del quotidiano? In questa prospettiva interpretativa ben si spiega la struttura marcatamente oppositiva dell’ode, legata ai due personaggi che parlano, ovvero il soccorritore e il poeta, che potrebbero dunque essere nient’altro che due voci che discutono all’interno del poeta stesso: essi hanno il ruolo di incarnare i due poli del dilemma, tra di loro assolutamente inconciliabili (come segnala nel testo l’assenza di comunicazione tra il soccorritore e il poeta: di fatto si tratta di due monologhi, non di un dialogo). La stesura stessa dell’ode, con la risposta sdegnata e severa del poeta al suo soccorritore, può allora essere vista come la soluzione di quel dilemma: Parini rimane sordo alle “sirene” del facile successo e della ricchezza, nella salda conferma delle proprie convinzioni.
Uno stile classicheggiante Le scelte stilistiche dell’ode sono ispirate al classicismo: sul piano lessicale sono assai frequenti i latinismi («iniqua», v. 5; «obliqua», v. 7; «trivi», v. 40; «consiglio», v. 42; «imi», v. 56; «pondo», v. 83, «dispetto», v. 102 ecc.). Latineggiante è in modo costante la sintassi: aggettivo quasi sempre anteposto al nome, inversione della serie soggetto-predicato-complemento, con la quasi costante anticipazione del complemento oggetto e la collocazione del verbo alla fine («me... la città gir vede»; «il debil fianco... vai... strascinando»), uso dell’accusativo di relazione o alla greca («infermo il piede», v. 6). Più in generale è evidente la propensione per un uso aulico del linguaggio che, anche quando si parla di aspetti concreti, sceglie le forme più letterarie e consacrate dalla tradizione. Classico è infine il repertorio di immagini a cui il poeta attinge: ad esempio, l’immagine del poeta-cigno immortale (vv. 27-28) rimanda alla poesia classica e in particolare a quella oraziana.
Un’immagine del corso di Porta della Riconoscenza a Milano (come veniva chiamato in epoca napoleonica l’attuale corso di Porta Venezia) con la chiesa di San Babila.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto dell’ode e indicane il tema principale. COMPRENSIONE 2. Dove si svolge la vicenda narrata e chi sono i personaggi dell’ode? ANALISI 3. I personaggi dell’ode rappresentano due diverse mentalità, due modelli di umanità. Inserisci in una tabella organizzata in due colonne le argomentazioni del soccorritore a confronto con la risentita risposta del poeta. LESSICO 4. Lo schema antitetico che contrappone il soccorritore al poeta si rispecchia anche nell’aggettivazione: nel primo caso per prospettare le vie del successo e della ricchezza, nel secondo per difendere una scelta di vita moderata e coerente. Scheda in una tabella gli aggettivi di segno negativo e quelli di segno positivo e indicane il significato in rapporto al contesto. 5. Seguendo le proposte suggerite dall’Analisi del testo, individua nel brano esempi di strutturazione sintattica e di scelte lessicali classicheggianti.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 6. Quale significato ti sembra rivesta, per l’interpretazione complessiva dell’ode, il giudizio «Umano sei, non giusto» (v. 84) che il poeta rivolge al soccorritore? Argomenta in un breve intervento orale (max 2 minuti). SCRITTURA 7. In quest’ode Parini traccia un compiuto ritratto di sé stesso, come uomo e come intellettuale. Individua nel testo le espressioni che descrivono questa nuova figura di intellettuale. Quali caratteristiche deve possedere? Quale ruolo riveste? Quali analogie e differenze presenta rispetto ai philosophes? Sintetizza i dati raccolti in una breve testo descrittivo (max 15 righe). LETTERATURA E NOI 8. L’ode presenta un quadro marcatamente pessimistico della società del tempo. Se lo stile della composizione risulta ormai inevitabilmente lontano da noi, e in alcuni punti rende difficoltosa la comprensione del messaggio dell’autore, d’altra parte il ritratto della condizione dell’intellettuale che se ne può ricavare si presta a non poche riflessioni di attualità. Prova a individuare una possibile attualizzazione dell’ode pariniana.
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 9. Nell’ode il poeta decide di rimanere sordo alle “sirene” del facile successo e della ricchezza, nella salda conferma delle proprie convinzioni. Che cosa pensi di una scelta del genere? È giusto secondo te abbandonarsi a qualche compromesso o è bene mantenere la propria dignità e seguire i propri princìpi? Ti è mai capitato di dover scendere a compromessi rinunciando ad alcune tue convinzioni?
online T3 Giuseppe Parini
La delinquenza è figlia della povertà Odi, IV – Il bisogno
Bernardo Bellotto, Veduta del castello Sforzesco di Milano, 1750.
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Il giorno 1 Un poemetto satirico Il capolavoro di Parini, Il giorno, è un poemetto in endecasillabi sciolti rimasto incompiuto e frammentario nelle ultime due sezioni (Il vespro e La notte). Le prime due parti, Il mattino e Il mezzogiorno, pubblicate rispettivamente nel 1763 e nel 1765, sono cronologicamente coeve alle odi illuministiche e sono quindi il frutto della fase più impegnata della produzione pariniana, coerente alle linee che ispiravano il riformismo asburgico in quegli stessi anni. La terza parte (originariamente denominata La sera e in seguito divisa in Il vespro e La notte) rimase invece incompiuta e inedita (➜ PER APPROFONDIRE La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica, PAG. 409). Nel Giorno Parini, fingendosi «precettore di amabil rito», insegna a un «giovin signore» come vivere nel modo più piacevole le occupazioni che scandiscono la sua giornata: da qui il titolo (Il giorno, appunto) con cui l’opera è passata alla storia ed è tuttora letta, ricavato da un verso della celebre ode autobiografica La caduta (➜ T2 ). In realtà la veste didascalica del poemetto (presente soprattutto nelle prime due sezioni dell’opera) è funzionale al ritratto satirico della vita frivola e oziosa della nobiltà contemporanea.
2 L’articolazione dei contenuti
PER APPROFONDIRE
Il mattino Il poemetto si apre con la descrizione dell’alba, quando gli umili lavoratori (il contadino, il fabbro) si avviano alle quotidiane attività. Il «giovin signore» invece, che si è coricato all’alba dopo una notte di divertimenti, si sveglia quando
All’incrocio di diversi generi Il giorno è un’opera unica non solo nel panorama settecentesco ma anche nell’intera tradizione letteraria: nel Giorno rifluiscono diverse suggestioni letterarie e l’opera si colloca all’incrocio di vari generi letterari senza poter essere di fatto classificata in nessuno di essi. La finzione assunta dal «precettore», che dà consigli di comportamento al «giovin signore», riconduce l’opera ai celebri manuali di comportamento della tradizione letteraria italiana, dal Galateo di monsignor Della Casa al Cortegiano di Castiglione. Si tratta però di opere in prosa, mentre la scelta dei versi (e in particolare l’uso dell’endecasillabo sciolto) rimanda piuttosto al genere del poema didascalico (un genere molto amato da Parini, diffuso soprattutto nel Cinquecento, ma che aveva conosciuto nuova fortuna nel Settecento). Nel Giorno è però centrale la prospettiva satirica e parodistica, che richiama la tradizione satirico-burlesca (documentata nel Cinquecento da Berni e, per certi versi, dalle Satire di Ariosto e ripresa poi nei sermoni in versi settecenteschi,
che affrontavano in vario modo il tema della critica morale e di costume). Soprattutto però è importante il modello del poema eroicomico (un noto esempio del genere nel Seicento è La secchia rapita di Alessandro Tassoni), che innalza una materia bassa e prosaica utilizzando le strutture e i “codici” del poema epico per farne la parodia. Tuttavia, a differenza del poema eroicomico, Parini non intende parodiare il poema epico, ma si serve del codice epico per una satira sociale e di costume. Come scrive felicemente il critico Jonard, nel Giorno non siamo di fronte alla «derisione dell’epopea» ma all’«epopea del derisorio». Accanto ai modelli della tradizione si colloca l’influenza delle letture moderne (Parini era un lettore aggiornato e curioso): in particolare già Giuseppe Baretti indicò tra le fonti settecentesche dell’opera, Il ricciolo rapito [The Rape of the Lock], un poemetto satirico del 1712 (tradotto in italiano nel 1756), opera dello scrittore inglese Alexander Pope (1688-1744).
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Lessico cicisbeo Il cicisbeo o cavalier servente nel XVIII secolo aveva il compito di accompagnare e servire in ogni momento della giornata una dama sposata. In alcune occasioni, lo stesso contratto matrimoniale prevedeva la presenza di uno più cicisbei. Il nome ha un’etimologia incerta: si tratterebbe di un termine formato onomatopeicamente per esprimere il chiacchericcio.
il sole è ormai alto nel cielo. Appena sveglio, deve affrontare il “dilemma” se bere il caffè o la cioccolata. Alla colazione seguono le lezioni di ballo, di canto, di musica e di lingua francese, secondo la moda del tempo. Quindi il «giovin signore» si sottopone al rito della vestizione (moderna caricatura della vestizione delle armi propria degli eroi epici) e della toeletta. Intanto manda a chiedere notizie sulla salute della sua dama, di cui è il cicisbeo , cioè il cavalier servente. Per spiegare l’origine di una consuetudine sociale che condanna severamente (appunto la presenza nelle famiglie aristocratiche dei cicisbei), l’autore introduce la favola di Amore e Imene, la prima delle favole mitologiche del poemetto. Inizia a questo punto il complicato rituale dell’acconciatura, durante il quale il «giovin signore» può sfogliare libretti alla moda, provenienti dalla Francia (Parini ne approfitta per condannare l’esterofilia in campo culturale). Ricevuto il mercante, che offre a caro prezzo merce esotica, e il miniaturista, incaricato di fare al «giovin signore» il ritratto, finalmente la lunghissima operazione della sistemazione dell’acconciatura si conclude con un abbondante spargimento di cipria, commentato da una nuova digressione mitologica. Cinto il fianco di una spada imponente (ormai ridotta a puro accessorio ornamentale), il «giovin signore» attraversa i corridoi del palazzo sulle cui pareti campeggiano i ritratti dei suoi gloriosi e fieri antenati. Una volta in carrozza, la vettura parte velocemente senza badare ai pedoni che si trovino accidentalmente sul suo cammino. Il mezzogiorno (poi denominato Il meriggio) Nella seconda sezione del poemetto (la più estesa), la scena si sposta in casa della dama: essa sta procedendo all’elaborata toilette mentre attende il giovane, che è il suo cavalier servente con la complicità del marito. Sarà il «giovin signore» a offrire il proprio braccio alla dama aprendo il corteo degli invitati, disposti secondo una rigida gerarchia, verso la sala da pranzo. Dopo aver narrato la favola mitologica del Piacere per giustificare ironicamente la disuguaglianza tra gli uomini (in realtà per condannarla), il precettore-narratore indugia nella descrizione dei vari commensali. Tra di essi spiccano un mangiatore formidabile e un vegetariano che inorridisce di fronte alle carni servite. Sulla scia della reazione emotiva sollevata dal discorso patetico del vegetariano, la padrona di casa rievoca il ricordo penoso dell’offesa subita dalla sua cagnolina (la «vergine cuccia delle Grazie alunna», come ironicamente è definita dal narratore) ad opera di un servo che aveva osato darle un calcio. Naturalmente l’autore di tale “sacrilegio” è stato subito licenziato e gettato sul lastrico con tutta la famiglia. Mentre il pranzo volge al termine, i convitati fanno a gara per esibire la propria
Giandomenico Tiepolo, Minuetto in villa, 1791 (Venezia, Ca’ Rezzonico).
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cultura. Terminato il pranzo, viene servito il caffè; segue l’appassionante gioco del tric-trac, di cui Parini ricorda l’origine attraverso una nuova favoletta mitologica. Il vespro Questo lungo frammento di circa 350 versi, rimasto inedito (e nella cui parte iniziale rifluiscono versi espunti dalla seconda redazione del Mezzogiorno), si apre con la descrizione del tramonto e la contrapposizione tra chi lavora duramente e si prepara a lasciare le proprie faticose attività e il «giovin signore» che si prepara a compiere, con la dama, le visite imposte dai doveri sociali. Prima si recherà a trovare un’amica della dama che è stata colta da una violenta crisi di convulsioni. Dopo essersi calorosamente salutate, le due amiche si scambiano infiniti pettegolezzi che però degenerano presto in un alterco: il narratore le rappresenta mentre “duellano” come paladine medievali agitando i loro ventagli. Ma il «giovin signore» sollecita un’altra visita doverosa nella dimora dove è nato il figlio primogenito di una famiglia di antica nobiltà: il suo primo vagito è stato salutato da un coro di voci esultanti alle quali si unisce anche la voce ironica del narratore-precettore: «Tu sarai simìle / al tuo gran genitore». Si interrompe qui la sezione più breve del Giorno. La notte Anche questa sezione è rimasta allo stato manoscritto ed è costituita da un lungo frammento (circa 700 versi), più alcuni altri gruppi di versi isolati. La notte, se suscitava immagini paurose negli antenati del «giovin signore», per i nobili moderni è sinonimo di occasioni festose nei palazzi sfavillanti di luci: il «giovin signore» e la dama si recano a un ricevimento in un palazzo patrizio la cui splendida illuminazione contrasta con il buio intorno. Gli ospiti attraversano le sale sontuose, animate da aristocratici che vivono delle chiacchiere maldicenti e dell’esibizione degli oggetti di lusso che possiedono (ventagli, tabacchiere, gioielli…). Segue la descrizione di alcuni ospiti al ricevimento: ognuno di essi si distingue per un passatempo bizzarro e maniacale con il quale inganna la noia di un’esistenza vuota. Dopo vari trastulli di società e chiacchiere amene, la padrona di casa invita a passare nel salone da gioco, dove si formano vari gruppetti di giocatori. Sulla descrizione delle cartelle usate per il gioco della cavagnola (una specie di tombola), che raffigurano maschere o animali, il poemetto s’interrompe.
3 Le modalità narrative La voce narrante e la finzione ironica del “precettore” Nei primi versi della prima versione del Mattino (1763, ➜ T4 OL) il narratore presenta espressamente sé stesso come precettore (cioè maestro, educatore) del «giovin signore», protagonista dell’opera: «me Precettor d’amabil Rito ascolta» (v. 7); e, più avanti, «io debbo [...] co’ precetti miei / te ad alte imprese ammaestrar cantando» (vv. 98-100). L’insegnamento del precettore riguarderà appunto i rituali di comportamento in società (l’«amabil rito») del suo discepolo, a cui egli suggerirà via via gesti e atteggiamenti consoni alle diverse situazioni mondane in cui si verrà a trovare nel corso della sua giornata. Il poemetto sembra dunque configurarsi a prima vista come una ripresa del genere didascalico; in realtà l’intento didattico viene da subito scardinato dalla corrosiva ironia dell’autore che si cela dietro la figura del narratore-precettore. L’ammaestramento del «giovin signore» è solo una finzione per evidenziare i vizi e i difetti della categoria sociale di cui egli è l’emblema: quella parte della nobiltà vacua, inattiva Il libro delle Odi 3 407
e improduttiva, che vive nel lusso e del lusso e rimane sorda ai bisogni della società. In alcuni casi, però, la veste ironica è abbandonata dall’autore per lasciare il posto a un amaro sarcasmo o addirittura alla vera e propria sdegnata deprecazione: autore e narratore-precettore in tali circostanze si avvicinano e, in modo diretto, è sollecitata l’adesione anche emotiva del lettore. Il ruolo “cooperante” del lettore Apparentemente il narratore assume il punto di vista del protagonista e approva entusiasticamente tutto ciò che fa parte del suo mondo dorato, anzi amplifica con espressioni e immagini epiche le sue futili occupazioni, a partire dall’espressione che le definisce, all’inizio dell’opera, nel loro complesso («alte imprese»: ➜ T5 al v. 68). Il lettore però – a cui è richiesta un’attenzione vigile e una cooperazione attiva nella ricostruzione del senso globale del messaggio – non può non accorgersi dell’evidente sproporzione tra la realtà rappresentata e l’enfatizzazione epica con cui è ritratta. Impara, così, ben presto a far sua la prospettiva ironica scelta dall’autore e a rovesciare nel suo contrario quanto viene detto dal narratore: ciò che è magnifico è in realtà banale, ciò che è eroico è in realtà meschino, ciò che viene esaltato va in realtà denigrato.
I personaggi Due protagonisti senza nome Il protagonista indiscusso dell’opera, in particolare nelle prime due sezioni, come si è detto, è il «giovin signore», che per le sue «gloriose imprese» (il ruolo di cavalier servente, la dedizione ai piaceri e al gioco) è stato accostato dalla critica al personaggio di Don Giovanni, che conosce particolare fortuna nel Settecento libertino (➜ C12). La sua degna partner è la dama, «l’altrui fida sposa», del tutto speculare al «giovin signore» nel culto dell’apparenza e per le futili occupazioni quotidiane. Dei protagonisti il lettore ignora significativamente i nomi: «in breve carta», cioè sul biglietto da visita del «giovin signore», splende «di nuda maestade» il «gran nome» (Il vespro, vv. 149-151); ma questo nome illustre rimane di fatto sconosciuto al lettore e non è
Parola chiave
Joshua Reynolds, Thomas e Martha Neate con il loro precettore, 1748 (New York, Metropolitan Museum of Art).
ironia L’ironia è una figura retorica che consiste nell’affermare qualcosa intendendo dire il suo opposto. Attraverso l’ironia, lo scrittore afferma le proprie opinioni in modo indiretto: le idee che combatte sono enunciate in modo insostenibile e quindi, di fatto, sono contraddette. I procedimenti ironici sono ricorrenti negli scritti della cultura illuminista, certamente in rapporto all’intento critico che ispira il movimento verso strutture socio-politiche
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e tradizioni che si considerano tramontate: l’assolutismo, i privilegi dell’aristocrazia, ma anche la metafisica e le concezioni provvidenzialistiche, come quelle prese di mira nel Candide di Voltaire (➜ C8). Nella cultura francese, in particolare, i contes philosophique (forme di narrazione riservate alla divulgazione delle idee illuministe) sono pervasi dall’ironia.
certo un caso: i due protagonisti, infatti, non vengono caratterizzati psicologicamente e addirittura non hanno un’identità, sono totalmente assorbiti nel ruolo che recitano sulla scena del Giorno, ovvero quello di «giovin signore», di cavalier servente e di dama.
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Per approfondire Un mondo di automi
Il mondo dell’aristocrazia: i rituali di una vita inutile Attorno alla coppia gravitano figure dell’aristocrazia, via via evocate e tratteggiate dalla penna satirica del poeta. Innanzitutto il marito della dama, «il placido marito», che «queto sorride» agli scherzi e alle allusioni che riguardano la moglie e mantiene senza lamentarsi carrozza e cavalli per l’«alma sposa» e per il «suo fido cavalier», con il quale si mostra sempre d’accordo. Parini stigmatizza più volte nell’opera la crisi della coppia nella società nobiliare, la scomparsa del pudore e del sentimento della gelosia, segno evidente dell’involuzione dei rapporti tra i coniugi, ormai ridotti a mera finzione formalistica. I nobili sono rappresentati impietosamente: costantemente inclini al pettegolezzo, dediti soltanto ai piaceri, vittime di stravaganti manie (➜ T11 ). La loro giornata si snoda in una lunga serie di gesti stereotipati e di ripetitivi rituali sociali, di cui essi più che attori sono strumenti (ne può essere emblema la totale passività con cui il «giovin signore» si affida ai camerieri durante il rito della toeletta). Quella del «giovin signore» e dei suoi simili è una vita solo in apparenza piena di impegni; in realtà è angosciosamente (e colpevolmente) vuota, preda costante della noia: in un solo verso nel Vespro (v. 25) il narratore-precettore stigmatizza con un severo, lapidario giudizio morale la figura del nobile: «colui […] che da tutti servito a nullo serve».
Il modello spazio-temporale
PER APPROFONDIRE
La prevalenza degli spazi chiusi L’universo spaziale del Giorno si identifica per la maggior parte con il palazzo nobiliare, un ambiente che Parini conosceva per diretta esperienza: la successione degli spazi via via evocati coincide con la struttura narrativa dell’opera (dalla camera da letto del risveglio alle stanze del palazzo della Notte).
La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica La vicenda testuale del capolavoro pariniano è estremamente complessa a causa della sua lunghissima elaborazione (circa quarant’anni), della compresenza di parti pubblicate da Parini e di parti rimaste invece durante la sua vita allo stadio di manoscritti inediti (e poi pubblicate postume con interventi arbitrari).
L’edizione critica curata dal filologo Dante Isella (1969) ha reso disponibile una stampa dell’opera che ne testimonia il processo elaborativo attraverso vari stadi. Risulta ormai accertato che la volontà di Parini nei riguardi del poema mutò nel tempo, traducendosi in due progetti diversi. In una prima fase, negli anni Sessanta, il poeta pensava a tre poemetti intitolati Il mattino, Il mezzogiorno e La sera: pubblicò solo i primi due rispettivamente nel 1763 e 1765, mentre La sera non fu mai pubblicata. Nel corso degli anni Settanta, Parini iniziò a lavorare a un progetto unitario di poema, suddiviso in quattro parti, da intitolarsi Il giorno. La prima attestazione
del titolo, adottato poi dagli editori postumi, si trova nell’ode La caduta del 1785 («[la patria] te molesta incìta di poner fine al Giorno»). Questa seconda opera, in cui Il mattino e Il mezzogiorno (ribattezzato Il meriggio) si sarebbero completati in una più vasta unità con Il vespro e La notte, finché il poeta visse rimase affidata solo alle carte autografe. Per realizzare il nuovo progetto, Parini sottopose a profonda revisione le prime due parti già pubblicate, con aggiunte e soppressioni (nel Mattino viene cassata la dedica alla Moda e i primi 32 versi, nel Meriggio [ex Mezzogiorno] viene abolita la scena della sfilata dei cocchi) e varie modificazioni stilistiche. Venticinque versi del Mezzogiorno (vv. 1195-1219) diventano l’esordio del Vespro, rimasto poi costituito da un solo lungo frammento di 350 versi, come del resto rimase incompiuta La notte. L’edizione critica di Isella presenta distinte le due versioni del progetto pariniano: da una parte Il mattino (1763) e Il mezzogiorno (1765), dall’altra le quattro parti (di cui due incompiute) del nuovo poema Il giorno e l’apparato di varianti che documenta il lungo, incontentabile lavoro del poeta sul testo.
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Lo spazio in cui si svolge la giornata del «giovin signore» è per lo più chiuso: l’assoluta preminenza di questo modello spaziale acquista un preciso significato simbolico, rimandando indirettamente alla “chiusura” del mondo nobiliare di fronte alla vita reale che si svolge fuori dal palazzo. Lo stesso spostamento dei due protagonisti fuori dal palazzo non è presentato come una vera e propria “uscita” verso gli spazi esterni, ma come temporaneo tragitto da uno spazio chiuso a un altro. Anche la carrozza, il mezzo di trasporto con cui la coppia aristocratica si sposta da una dimora nobiliare all’altra o percorre il corso per il passeggio, è di fatto uno spazio chiuso, quasi claustrofobico e sinistramente lugubre («a la marmorea tomba simìl», Il meriggio, v. 1077). L’assenza della Storia, la circolarità del tempo, il rovesciamento degli indicatori temporali notte/giorno Molto indicativo è anche il modello temporale che domina nel poemetto: Parini decide di annullare qualsiasi riferimento al divenire del tempo storico, come qualsiasi rimando a eventi politico-sociali. Il mondo della Storia non può entrare nella vita della nobiltà, che è ormai fuori dalla Storia; non a caso, dunque, Parini fa riferimento esclusivamente agli eventi cosmici (l’alba, la notte ecc.) che aprono tutte e quattro le sezioni del poemetto scandendo il corso della giornata che l’autore ha deciso di descrivere. Non si tratta di una giornata particolare o databile, bensì di una giornata-tipo, proprio perché le giornate dell’aristocrazia sono sempre identiche, ognuna la ripetizione delle precedenti e l’anticipazione delle successive: il «giovin signore» (e con lui tutta la classe nobiliare) ripete, giorno dopo giorno, quelle che non sono vere e proprie azioni, ma riti cristallizzati dall’abitudine e irrimediabilmente monotoni. In questo senso domina nel Giorno la circolarità del tempo, o addirittura una dimensione atemporale, proprio perché nel poemetto non c’è vera e propria azione (e non è un caso che nel Giorno prevalga la descrizione piuttosto che la narrazione). La vita dei nobili, per di più, è dominata dall’inversione dei comuni indicatori temporali e del ritmo naturale: il «giovin signore», e con lui i suoi simili, non condivide con i comuni mortali l’inizio della giornata al sorgere del sole, che per lui segna, al contrario, la fine della giornata precedente («e a te soavemente i lumi chiuse / il gallo che li suole aprire altrui» ➜ T5 , VV. 56-57). Allo stesso modo, nel buio che avvolge la città e il sonno dei lavoratori, il «giovin signore» partecipa invece a un ricevimento che durerà tutta la notte. L’inversione notte-giorno, collegandosi ad altre antitesi fondamentali (lavoro vs gioco, utile vs superfluo), mette soprattutto in evidenza l’innaturalità della vita dei nobili, simboleggiata dalla luce artificiale che illumina le loro notti.
Jean-Antoine Watteu, I piaceri del ballo, 17151717 (Londra, Dulwich Picture Gallery).
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4 Le caratteristiche stilistiche e metriche
PER APPROFONDIRE
Ironia e classicismo Come si è già detto, è prevalente nel Giorno il registro ironico. Strumento principale della deformazione ironica è l’uso costante di espressioni amplificatorie ed elogiative, ascrivibili per lo più al codice epico, grazie alle quali viene innalzato smisuratamente ciò che nella realtà è basso, banale, inconsistente: l’aristocrazia parassitaria e (in particolare) il suo nobile esponente sono elevati al rango di eroi («gemma degli eroi» è definito il «giovin signore», «concilio almo di semidei» sono definiti i nobili); gli oggetti stessi e gli ambienti che li circondano sono in un certo senso sacralizzati. L’“eroicizzazione” ironica del mondo nobiliare è realizzata su vari piani: • la sintassi latineggiante, con frequenti inversioni (in particolare le anticipazioni del complemento oggetto e di quello di specificazione: ad esempio, «la nascente del sol luce rifrange», oltre alla posizione dell’aggettivo molto spesso preposto al nome, come «l’umil volgo», «il fuggitivo giovane», che ne accentua l’effetto esornativo); • il lessico aulico e prezioso («aureo cocchio», «vezzose membra», «eburnei denti», «patetico gioco», «concilio almo», «inclita stirpe» e così via); • l’uso, sul piano più propriamente retorico, di iperboli e similitudini che associano gesti e oggetti quotidiani a situazioni epiche e immagini del repertorio mitologico; • le ampie perifrasi, che costituiscono uno dei tratti stilistico-rappresentativi più tipici del poema: un termine moderno viene reso con eleganti giri di parole; ad esempio, il caffè è «la nettarea bevanda ove abbronzato / arde e fumica il grano a te d’Aleppo / giunto e da Moca…».
Perché Il giorno non fu terminato? Alle radici di una crisi di ispirazione Già nell’ode La caduta (➜ T2 ) del 1785, Parini allude in modo esplicito alle continue pressioni che riceveva da varie parti perché terminasse Il giorno. Un decennio dopo, in una lettera all’amico Pompilio Pozzetti, Parini motiva la mancata pubblicazione degli ultimi due poemetti (Il vespro e La notte) con la sua riserva a irridere gli esponenti di una classe di cui era ormai manifesta la totale decadenza: gli sembrava, cioè, un atto di viltà infierire su chi, a suo dire, era ormai morto (il poeta usa l’espressione latina insaevire in mortuos). Ed effettivamente, dopo la Rivoluzione francese e gli eccessi tragici del Terrore, pubblicare una satira della nobiltà rischiava di essere inattuale se non addirittura privo di senso. Uno scetticismo progressivo Al di là di questa giustificazione, la crisi di ispirazione che condanna Il giorno a rimanere un’opera incompiuta era di lunga data. Le radici di essa vanno comunque ricercate nell’evoluzione storica: dopo la composizione e pubblicazione dei primi due poemetti (Il mattino e Il mezzogiorno), nati negli anni Sessanta dal fervore polemico conseguente all’adesione agli ideali illuministi, Parini perde progressivamente la speranza che la classe nobiliare (a cui primariamente, non bisogna dimenticarlo, Il giorno si rivolge) possa invertire la rotta che l’ha portata alla decadenza e che possa correggersi. La crisi di questa classe sociale appare ormai al poeta irreversibile e il progressivo scetticismo nella possibilità di un
cambiamento corrode le basi ideologiche stesse su cui si fondava la prospettiva satirica, ma insieme anche pedagogica, dell’opera. La permanenza di un giudizio negativo sulla nobiltà Ciò non significa che si alleggerisca la severità di giudizio sul contegno della nobiltà, come ha sostenuto il critico Giuseppe Petronio, che ha visto, in particolare nella Notte, un ammorbidimento del giudizio negativo sulla classe nobiliare. La critica propende oggi, al contrario, a vedere nella parte finale dell’opera pariniana una radicalizzazione della visione negativa del poeta: smessi i panni ironici del precettore, Parini assume il ruolo di un disincantato testimone. Non rappresenta più il «giovin signore» e la sua dama, ma gruppi di nobili osservati con sguardo impietoso (➜ T11 ); non contrappone più la nobiltà al popolo, ma si limita a registrare l’insignificanza sociale o addirittura la disumanizzazione di un’intera classe. Dalla polemica al compiacimento descrittivo A questa disposizione, diversa rispetto alla prospettiva animatamente polemica degli anni Sessanta, corrisponde, sul piano espressivo, la tendenza a uno stile più armonico, raffinato e cesellato (anche se non è corretto parlare di una vera e propria “svolta”) e la tendenza a indulgere a compiacimenti descrittivi, con un’attenzione quasi miniaturistica ai particolari preziosi, che tendono a sfaldare l’impianto narrativo.
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Le scelte indicate rispondono per lo più all’obiettivo ironico del poeta; e d’altra parte il culto di uno stile elaborato e insieme nitido, derivato dalla lezione dei classici, costituisce, come detto, la vera costante della poesia di Parini, al di là delle diverse fasi che essa attraversa. E del resto la sua poetica perseguiva un’eleganza espressiva che non rinunciasse a trattare contenuti moderni. Un’eleganza che nella Notte, come nelle ultime odi, si fa indubbiamente più compiaciuta, mentre si diradano le espressioni corposamente realistiche, ascrivibili alla polemica illuminista e alla poetica sensista. La scelta metrica Parini sceglie per il suo poemetto l’endecasillabo sciolto (cioè non organizzato in strofe e non vincolato da rime fisse). Metro della poesia didascalica e satirica, ma usato anche da Annibal Caro nella sua traduzione dell’Eneide (1563-66) come verso capace di rendere l’esametro latino, sarà ripreso con molta fortuna (basti pensare, ad esempio, ai Sepolcri foscoliani). Parini ne fa uno strumento duttile, grazie alla variabile disposizione di cesure e accenti e all’uso assai frequente dell’enjambement.
Il giorno
COMPOSIZIONE E PUBBLICAZIONE
• 1763 Il mattino • 1765 Il mezzogiorno (poi Il meriggio) • 1 801 (postumo) Il giorno, con aggiunta di Il vespro e La notte, incompiuti
NARRAZIONE
• Il mattino: risveglio del «giovin signore» e varie digressioni • I l mezzogiorno: arrivo e banchetto presso la dama; disgressioni, tra cui l’episodio della «vergine cuccia» e la favola del Piacere • I l vespro: preparativi, uscita e impegni sociali della dama e del «giovin signore» • La notte: ricevimento notturno
TEMI
ASPETTI STILISTICOFORMALI
RAPPORTI CON LA TRADIZIONE
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• vacuità della vita dei nobili • moda e culto dell’effimero • impegno etico del poeta
• i ronia e codice epico (antifrasi, parodie, iperboli, perifrasi, inversioni, lessico aulico, effetti stranianti) • prevalenza di toni descrittivi • endecasillabo sciolto
• poemi didascalici (a cominciare da Virgilio) • opere secentesche di temi affini • letteratura epica ed eroicomica
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Dante Isella Parini e l’eredità del classicismo D. Isella, Diagramma pariniano, in I Lombardi in rivolta, Einaudi, Torino 1984
La pagina qui proposta è tratta da un saggio del filologo Dante Isella (1922-2007), a cui si deve l’importante edizione critica del Giorno (1969): lo studioso sottolinea come l’opera di Parini si fondi soprattutto sul legame con la tradizione letteraria e sul rigore della cura formale. In contrapposizione ai giovani intellettuali del «Caffè» e alla loro idea di una letteratura di “cose” che svalutava la poesia rispetto alla prosa, Parini crede ancora nel ruolo di una poesia capace di educare ai più alti valori morali e civili: moderna nei contenuti (nel suo caso, satirici), ma anche elegante nella forma secondo la lezione dei classici.
Era veramente finita la tradizione classica, come pretendevano i propugnatori della nuova cultura scientifica e tecnica, esauriti i valori che aveva espresso nella sua gloriosa storia secolare? E lo scrivere versi, che senso poteva avere piú? Significava davvero, per un giovane, mettersi fuori gioco, sbagliare in partenza le proprie 5 scelte? Se illuminismo è innanzi tutto svalutazione di qualsiasi verità o strumento di indagine non fondati sulla ragione [...], l’incontro con quelle idee, la loro forza di contestazione radicale, non potevano non imporre la necessità preliminare di un riesame delle decisioni già prese. Era del resto il problema di fondo dibattuto dalla cultura europea fin dalla prima polemica, sull’ultimo scorcio del Seicento, 10 tra Francia e Italia: tesi razionalistiche dei francesi, che la poesia umiliavano al ruolo di amabile divulgatrice dei sommi veri1 della scienza, e opposizione tenace delle prime generazioni arcadiche [...] sorrette da un vivo senso della parola, da un’antica educazione retorica. [...] Il lavoro del Parini, dopo Ripano Eupilino2 [...], è la ricerca di una risposta sul 15 piano poetico al nodo di questi problemi. Non si sente il polso del suo classicismo se non se ne intende lo spirito agonistico. Nel momento in cui i campioni della cultura dei «lumi» sembrano impazienti di sbarazzarsi dell’ingombro di tutto il passato, il Parini dice: la bellezza della poesia, nella sublime serenità delle sue forme, è l’espressione eternatrice dei massimi valori della civiltà. Non nella tradizione 20 classica è spenta la vita ma negli uomini d’oggi che non hanno la forza morale di ricreare quell’ardua bellezza, l’energia d’animo necessaria per colmarla di sé, per riviverla. Poesia come moralità: la risposta, che si traduce in una sfida, matura, vittoriosa, nei dieci anni che precedono il Mattino. Bisognava naturalmente partire, innanzi tutto, da un’attenta rimeditazione della 25 propria fede classicistica: istituire con la tradizione un rapporto sciolto, non di soggezione ma di dialogo, ispirato da un senso partecipe del presente, non da gusto archeologico o da culto feticistico del passato. Combattere, dunque, l’idea divulgata di una classicità grammaticalizzata3, disseccata in canoni e modelli retorici senza nessuna relazione con la vita, passibile solo di essere imitata, vincolante, esosa4. 30 Bisognava insomma fare propria la giusta accusa di formalismo che la nuova cul1 dei sommi veri: delle più alte verità. 2 Ripano Eupilino: riferimento alla raccolta Alcune poesie di Ripano Eupilino, pubblicate nel 1752.
3 grammaticalizzata: ridotta a precettismo, a un codice rigido. 4 passibile… esosa: che può solo proporre un’imitazione dei modelli, costringere
a norme vincolanti, richiedere un pesante tributo (il sogg. è sempre classicità).
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tura muoveva alla vecchia, ma deviarla: non la classicità vuoto formalismo, ma formalistico il rapporto intrattenuto con essa. [...] Sono momenti essenziali di questa rimeditazione le polemiche con i maestri: nel ’56 con il Bandiera, quattro anni dopo con il Branda5. Polemiche che vanno viste 35 al di sopra delle motivazioni immediate e dei risentimenti personali, come affermazioni pubbliche di indipendenza dal classicismo accademico. [...] Il Parini parla con il Branda, si intende però che il suo discorso è ormai rivolto ad altri, avversari ben piú importanti: giovani sui trent’anni, della sua medesima generazione, gli scrittori della cerchia del Verri e amici suoi, che nella Milano ancora 40 tanto municipale dei loro padri si sentivano portatori di una cultura d’avanguardia, anticlassicistica, europea. A costoro, che sono i suoi veri interlocutori, il termine a cui si rapporta, in un impegnatissimo confronto, la sua poesia, il Parini contende il vanto di sentirsi gli alfieri della civiltà6, per cui chi è con loro è per il progresso, chi non è con loro sta arroccato su posizioni ritardatarie7 e provinciali. Non ne contesta, no, la 45 premessa, che reclama anzi non meno per sua8; nega che alla premessa consegua, come sola necessaria, la deduzione che essi hanno avuto premura di tirarne, dichiarando, in nome delle idee di Francia, guerra senza quartiere alla grande tradizione classica: non piú nostra che dell’intera Europa, patrimonio di tutta l’umanità civile.
[...] 5 Bandiera... Branda: riferimento alle due polemiche, nell’ambito della questione della lingua, che Parini sostenne rispettivamente con padre Alessandro Bandiera (sostenitore di un modello lin-
guistico toscaneggiante) e contro padre Onofrio Branda (che difendeva ad oltranza la lingua toscana e avversava l’uso del dialetto milanese). 6 gli alfieri della civiltà: gli antesignani
delle ideologie e della cultura più innovative e progressiste. 7 ritardatarie: arretrate. 8 che reclama... per sua: che anzi accoglie incondizionatamente.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. A quali problemi, importanti per un poeta in Italia nel Settecento, Parini cerca di dare risposta? 2. Spiega, in rapporto al contesto, l’affermazione: «Non si sente il polso del suo classicismo se non se ne intende lo spirito agonistico». In che senso è usato l’aggettivo «agonistico» (r. 16)? 3. Chi sono gli interlocutori tra gli intellettuali del tempo a cui Parini si contrappone? Per quali aspetti avviene la contrapposizione? 4. Quale ruolo ritieni si possa attribuire alla poesia oggi? La parola poetica possiede ancora, secondo te, la forza di trasmettere valori morali e civili? Motiva la tua risposta, mettendo in evidenza la tua tesi e le argomentazioni che la sostengono.
online T4 Giuseppe Parini
Il prologo del Giorno nella prima redazione Il mattino, I vv. 1-30
414 Settecento 9 Giuseppe Parini
Giuseppe Parini
T5
Il «giovin signore» si risveglia Il mattino, II vv. 1-91
G. Parini, Il giorno, ed. critica a cura di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996
La seconda redazione presenta l’inizio della giornata del protagonista eliminando il Proemio (➜ T4 OL). Al mattino ricomincia la vita operosa di chi lavora, ma la giornata del «giovin signore» ha ben altro avvio. Dopo un sonno favorito da ogni comodità, è giusto che il risveglio avvenga nel massimo agio.
Sorge il mattino in compagnia dell’alba dinanzi al sol che di poi grande appare su l’estremo orizzonte a render lieti gli animali e le piante e i campi e l’onde1. 5 Allora il buon villan sorge dal caro letto cui la fedel moglie e i minori suoi figlioletti intiepidìr la notte: poi sul dorso portando i sacri arnesi che prima ritrovò Cerere o Pale 10 move seguendo i lenti bovi, e scote lungo il picciol sentier da i curvi rami fresca rugiada che di gemme al paro la nascente del sol luce rifrange2. Allora sorge il fabbro, e la sonante officina riapre, e all’opre torna l’altro dì non perfette; o se di chiave ardua e ferrati ingegni all’inquieto ricco l’arche assecura; o se d’argento e d’oro incider vuol gioielli e vasi 20 per ornamento a nova sposa o a mense3. 15
Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo qual istrice pungente irti i capelli al suon di mie parole? Ah il tuo mattino signor questo non è4. Tu col cadente
La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 Sorge... l’onde: il mattino sorge insieme all’alba, prima (dinanzi) del sole, che subito dopo appare grande sul più lontano (estremo) orizzonte per allietare gli animali, le piante, i campi e le acque. Da notare l’incipit piano e il polisindeto al v. 4 e... e... e. 2 Allora... rifrange: l’onesto contadino si alza dal caro letto che la notte è stato riscaldato (intiepidìr) dalla fedele moglie e dai figli più piccoli (infatti, era consuetudine nelle famiglie povere dormire nello stesso letto, che è detto caro perché custodisce
tutti gli affetti); poi si carica sulle spalle (dorso) gli attrezzi da lavoro, sacri, perché furono inventati (prima ritrovò) da Cerere (dea dell’agricoltura) e da Pale (dea della pastorizia), spinge davanti a sé (move seguendo) i lenti buoi e (camminando) lungo lo stretto sentiero scuote dai rami la fresca rugiada che come gemma (di gemme al paro) rifrange i raggi del sole nascente. 3 Allora... a mense: si alza anche il fabbro e riapre l’officina sonante (cioè, che risuona dei colpi rumorosi del martello) e torna ai lavori che non aveva terminato (non perfette) il giorno precedente (l’altro
dì), sia che renda impenetrabili (assecura) con una serratura difficile da aprire (chiave ardua) e con congegni di ferro (ferrati ingegni) i forzieri (arche) del ricco, preoccupato per il timore dei furti (inquieto); sia che voglia incidere gioielli e vasi d’argento e d’oro, destinati a ornare (per ornamento) la tavola o come dono di nozze (a nova sposa). 4 Ma che?... non è: forse che tu (è il giovin signore, cui si rivolge il precettore) provi orrore al suono delle mie parole e mostri i capelli dritti (irti) sul capo come gli aculei dell’istrice? Non è questo il tuo mattino.
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sol non sedesti a parca cena, e al lume dell’incerto crepuscolo non gisti ieri a posar qual ne’ tugurj suoi entro a rigide coltri il vulgo vile5. A voi celeste prole a voi concilio 30 almo di semidei altro concesse Giove benigno: e con altr’arti e leggi per novo calle a me guidarvi è d’uopo6. 25
Tu tra le veglie e le canore scene e il patetico gioco oltre più assai 35 producesti la notte: e stanco alfine in aureo cocchio col fragor di calde precipitose rote e il calpestio di volanti corsier lunge agitasti il queto aere notturno7; e le tenèbre 40 con fiaccole superbe intorno apristi siccome allor che il Siculo terreno da l’uno a l’altro mar rimbombar fèo Pluto col carro a cui splendeano innanzi le tede de le Furie anguicrinite8. 45 Tal ritornasti a i gran palagi: e quivi cari conforti a te porgea la mensa cui ricoprien prurigginosi cibi e licor lieti di Francesi colli e d’Ispani e di Toschi o l’Ungarese 50 bottiglia a cui di verdi ellere Bromio concedette corona, e disse: or siedi de le mense reina9. Alfine il Sonno ti sprimacciò di propria man le còltrici molle cedenti, ove te accolto il fido 55 servo calò le ombrifere cortine: e a te soavemente i lumi chiuse
5 Tu... vile: tu al tramonto (cadente sol) non ti sei seduto davanti a una cena frugale (parca cena), e ieri non sei andato (gisti) a coricarti (posar) all’incerta luce del crepuscolo come fa la gente umile (vile) nelle sue misere case (tugurj), sotto ruvide coperte (rigide coltri). 6 A voi... d’uopo: Giove benignamente concesse ben altro a voi che siete figli di dèi (celeste prole), a voi nobile consesso (concilio almo) di uomini quasi divini: conviene (è d’uopo) che io vi guidi per una strada diversa e insolita (novo calle) con altri mezzi (arti) e altre regole (leggi). 7 Tu… notturno: tu hai protratto la notte ben oltre (il calar delle tenebre) tra le feste, il teatro dell’opera (canore scene) e il gioco
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che regala emozioni (patetico gioco): e, finalmente stanco, con la carrozza dorata (aureo cocchio) turbasti per largo tratto (lunge) la silenziosa atmosfera (queto aere) notturna con il fragore delle ruote rese calde dalla corsa (calde precipitose) e con il calpestio di cavalli lanciati a grande velocità (volanti). 8 e le tenèbre… anguicrinite: e intorno a te rompesti il buio della notte con fiaccole levate in alto (superbe) come quando Plutone fece (fèo) tremare l’isola di Sicilia dall’uno all’altro mare (dallo Jonio al Tirreno) con il carro preceduto dalle fiaccole (tede) delle Furie dai capelli di serpente (anguicrinite). Parini rievoca il mito del rapimento di Proserpina da parte di Plu-
tone, dio degli Inferi. Al tempo, le fiaccole erano portate a mano dai lacché, servitori, che precedevano di corsa la carrozza, per segnalarne l’avvicinarsi. 9 Tal ritornasti… reina: così ritornasti nel tuo gran palazzo: e qui ti offriva un gradito ristoro (cari conforti) la mensa ricoperta di cibi stuzzicanti (prurigginosi) e di vini che rendono allegri (lieti), provenienti dai colli di Francia, di Spagna e di Toscana, o la bottiglia di Tokai proveniente dall’Ungheria (Ungarese) alla quale Bacco (Bromio, che è uno dei nomi del dio del vino) concedette la corona di verdi edere (ellere) dicendo: “ora occupa il posto di regina delle mense”.
il gallo che li suole aprire altrui10. Dritto è però che a te gli stanchi sensi da i tenaci papaveri Morfèo 60 prima non solva che già grande il giorno fra gli spiragli penetrar contenda de le dorate imposte; e la parete pingano a stento in alcun lato i rai del sol ch’eccelso a te pende sul capo11. 65 Or qui principio le leggiadre cure denno aver del tuo giorno: e quindi io deggio sciorre il mio legno, e co’ precetti miei te ad alte imprese ammaestrar cantando12. Già i valetti gentili udìr lo squillo 70 de’ penduli metalli a cui da lunge moto improvviso la tua destra impresse; e corser pronti a spalancar gli opposti schermi a la luce; e rigidi osservàro che con tua pena non osasse Febo 75 entrar diretto a saettarte i lumi13. Ergi dunque il bel fianco, e sì ti appoggia alli origlier che lenti degradando all’omero ti fan molle sostegno; e coll’indice destro lieve lieve 80 sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua quel che riman de la Cimmeria nebbia; poi de’ labbri formando un picciol arco dolce a vedersi tacito sbadiglia14. Ahi se te in sì vezzoso atto mirasse 85 il duro capitan quando tra l’arme
10 Alfine... altrui: infine il Sonno con le sue stesse mani ti accomodò il letto (letteralmente: “le coltri”) morbido e soffice (molle cedenti; molle è usato come avverbio), sul quale (ove), dopo che ti fosti coricato (accolto), il servo fidato fece scendere le tende di seta (cortine: sono i corteggi del letto a baldacchino) che fanno ombra (ombrifere); e il canto del gallo, che di solito fa svegliare gli altri (altrui), ti fece dolcemente chiudere gli occhi. 11 Dritto… sul capo: è giusto perciò (però) che Morfeo (dio del sonno) non sciolga dal profondo sonno (tenaci papaveri: dai papaveri si ricava l’oppio che ha effetto soporifero) i tuoi sensi stanchi prima che il giorno già avanzato (grande) cerchi (contenda) di penetrare tra gli spiragli delle imposte dorate, e (prima) che i raggi del sole, che incombe alto (eccelso) sulla
tua testa, illuminino (pingano) appena (a stento) qualche punto (in alcun lato) della parete. 12 Or qui... cantando: ora a questo punto devono (denno) iniziare le leggiadre occupazioni (cure) della tua giornata e da qui (quindi) devo salpare con la mia navicella (sciorre il mio legno, “sciogliere [dall’ancora] la mia navicella”, con metonimia) ed educarti ad alte imprese con i miei insegnamenti attraverso il mio canto. La metafora dell’imbarcazione per intendere la poesia ha una lunga tradizione. 13 Già i valetti… lumi: già i premurosi camerieri (valletti gentili) udirono lo squillo dei campanelli (penduli metalli) scossi all’improvviso da lontano dalla tua mano destra; e accorsero prontamente a spalancare le imposte che ostacolano (opposti) l’ingresso della luce e fecero attenzione
scrupolosamente (rigidi) a che il sole (Febo) non osasse colpirti direttamente gli occhi coi suoi raggi provocandoti fastidio (con tua pena). 14 Ergi... sbadiglia: sollevati dunque (letterlamente: “solleva il corpo”; fianco è una sineddoche) e appòggiati bene ai cuscini (origlier), che disposti l’uno sull’altro (degradando) pian piano (lenti) ti sostengono delicatamente (molle) le spalle (omero); e passa (trascorri) piano piano l’indice della mano destra sopra gli occhi e togli (dilegua) le ultime tracce di sonno (Cimmeria nebbia); poi formando con le labbra un piccolo arco, grazioso a vedersi, sbadiglia in silenzio (tacito). Gli antichi avevano immaginato che il Sonno abitasse nel paese dei Cimmerii (sulle rive del mar d’Azov), in una zona che si credeva sempre immersa nella nebbia.
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sgangherando la bocca un grido innalza lacerator di ben costrutti orecchi, s’ei te mirasse allor, certo vergogna avria di sè più che Minerva il giorno 90 che di flauto sonando al fonte scorse il turpe aspetto de le guance enfiate15. 15 Ahi se... enfiate: ah, se ti potesse vedere in un atteggiamento così vezzoso il rozzo comandante quando in mezzo alla battaglia, aprendo esageratamente la bocca (sgangherando), lancia un grido che potrebbe lacerare orecchie ben
fatte (come quelle del giovin signore); se ti osservasse allora, certo proverebbe più vergogna di quanta ne provò Minerva il giorno in cui, suonando il flauto, vide riflesso nell’acqua l’orribile aspetto delle sue guance rigonfie (enfiate). Parini fa qui
riferimento a un mito narrato dal poeta latino Ovidio (Fasti VI, 697-702), secondo cui la dea Minerva, mentre suonava il flauto, si specchiò in una fonte e, vistasi brutta, gettò via lo strumento.
Analisi del testo L’esordio dell’opera. La proposta del tema Nella versione più tarda, qui proposta, Il mattino si apre con una serena immagine insieme paesaggistica e temporale: il sole sta sorgendo e riporta la vita e la gioia nel mondo (vv. 1-4). Segue (vv. 5-20) la descrizione del risveglio di chi lavora, qui rappresentato dal contadino (vv. 5-13) che lascia la casa per avviarsi nei campi con i suoi strumenti agricoli in spalla e seguendo i buoi; e dal fabbro (vv. 14-20) che riapre la sua officina e riprende i lavori interrotti il giorno prima. Al risveglio operoso dei lavoratori l’autore contrappone, attraverso la voce del precettorenarratore, il risveglio del «giovin signore», direttamente interpellato al v. 21 e immaginato nell’atto di inorridire di fronte ad attività svolte di primo mattino («Ma che? Tu inorridisci...»): il «giovin signore» appartiene a un lignaggio superiore («celeste prole... concilio almo di semidei», vv. 29-30) e perciò non segue certo i ritmi naturali come il resto dell’umanità. Anche il narratore-precettore dovrà tenerne conto e guidare la sua giornata «con altr’arti e leggi». Il seguito del passo (vv. 33-57) è dedicato a rievocare la vita notturna del giovane nobile fino al momento in cui finalmente si corica e si addormenta, quando gli altri si svegliano («E a te soavemente i lumi chiuse / il gallo che lo suole aprire altrui», vv. 56-57). Inizia quindi (vv. 65-92) la vera e propria descrizione della giornata del «giovin signore», che costituirà l’argomento dell’opera, a cominciare dal suo risveglio quando il sole è già alto e dallo squillo del campanello con cui il protagonista chiama nelle sue stanze i servi. La giornata improduttiva del giovane nobile si apre emblematicamente con uno sbadiglio.
Dal punto di vista dell’autore al punto di vista del «giovin signore» La prima parte della rappresentazione (vv. 1-20), anche se l’enunciazione viene già attribuita alla voce del narratore-precettore, appare frutto della prospettiva culturale e insieme valutativa dell’autore: lo testimonia l’idillica e classicheggiante rappresentazione paesaggistica dei primi quattro versi e soprattutto l’idealizzazione della vita campestre, nobilitata dal riferimento mitologico ai «sacri arnesi» del lavoro agricolo portati in spalla dal contadino e dalla fitta presenza di un’aggettivazione di segno positivo impiegata per designare la vita del contadino, povera ma santificata dai sicuri affetti familiari («buon», «caro», «fedel»). A partire dalla domanda retorica («Ma che?»), che spezza bruscamente la pacata rappresentazione del mondo dei lavoratori, si insinua una diversa prospettiva che allontana (all’inizio impercettibilmente) il narratore dall’autore, avvicinandolo invece a colui che sarà il protagonista dell’opera, il «giovin signore»: lo stesso mondo popolare è “guardato” con un occhio diverso rispetto ai primi versi, tendenzialmente spregiativo («tugurj», «rigide coltri», «vulgo vile»). È già subentrato il punto di vista che Parini assumerà come dominante nell’opera per poter realizzare l’obiettivo critico e satirico che si propone: un punto di vista che finge di condividere, ma che in realtà è opposto alle sue convinzioni etiche e culturali.
Uno “pseudo-galateo” settecentesco: gli strumenti dell’ironia I celebri versi che descrivono il risveglio del «giovin signore» già imboccano la scelta del registro ironico che caratterizzerà il poemetto nel suo complesso e che farà dell’opera una
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sorta di “pseudo-galateo” settecentesco. L’ironia si realizza essenzialmente, come si è detto, attraverso l’utilizzo di riferimenti propri del repertorio epico e in genere classicheggiante, amplificati da un linguaggio magniloquente e solenne, usati per descrivere prosaiche attività private (come la toeletta personale), banali occupazioni, futili rituali di società: l’applicazione del “codice epico” per una categoria sociale la cui vita non ha proprio nulla di epico e il cui campione è un cicisbeo nullafacente crea indubbiamente un forte effetto ironico. Gli espedienti che saranno utilizzati nel poemetto a fini ironici sono già largamente anticipati nell’inizio di esso. 1. Le personificazioni classicheggianti (Bromio, Morfèo, il Sonno, Febo) e i paragoni mitologici come quello (vv. 39-44) tra il «giovin signore» che corre con la sua carrozza illuminata dalle fiaccole nella notte e il dio degli inferi Plutone che rapisce Proserpina sul suo carro illuminato dalle fiaccole delle Furie. 2. L’uso di uno stile e di un linguaggio sostenuti e classicheggianti di cui ricordiamo solo le scelte più ricorrenti: – impiego in genere di un periodare ampio e complesso, con costruzioni sintattiche latineggianti, come l’ablativo assoluto («ove te accolto...», v. 54); posposizione del nome all’aggettivo («il buon villan», «celeste prole», «novo calle», «le canore scene» ecc.); uso assai frequente dell’inversione sintattica (anticipazione del complemento oggetto, anticipazione del complemento di specificazione («or siedi / de le mense reina», vv. 51-52), e dell’iperbato («o se d’argento / e d’oro incider vuol gioielli e vasi», vv. 18-19). – lessico latineggiante: ad es. «l’arche» (v. 18); l’aggettivo composto di gusto omerico «anguicrinite» (v. 44); «all’opre torna / l’altro dì non perfette», vv. 15-16 (dal latino perfectum, dal verbo perficere, “portare a compimento”), «producesti la notte», v. 35 (dal latino producere “protrarre”). – varianti e usi della lingua poetica letteraria: a livello fonetico prevalgono le forme non dittongate («move», «nova», «rote») e le forme apocopate («sol», «fedel», «signor», «fragor», «corsier» ecc.); a livello morfologico, imperfetti come «porgea» per “porgeva”, 3a persona del passato remoto come «udìr» per “udirono”; il pronome relativo cui in funzione di complemento oggetto: «il buon villan sorge dal caro / letto cui la fedel moglie e i minori / suoi figlioletti intiepidìr la notte».
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Individua le principali sequenze del testo e attribuisci a ognuna un titolo; poi sintetizza le vicende narrate. ANALISI 2 Il flashback relativo alla notte del «giovin signore» dei versi 35-37 ha una funzione puramente informativa? Motiva la tua risposta. 3. Il risveglio del «giovin signore» è rappresentato in antitesi a quello di chi lavora: quali categorie di lavoratori sceglie Parini? Indica i principali aspetti su cui è costruita l’antitesi. 4. A partire dai primi versi la personalità del «giovin signore» è ben delineata: tratteggiane un ritratto utilizzando le possibili informazioni che ritrovi nel testo. STILE 5. Individua nel testo espressioni, immagini e paragoni mitologici e illustrane la funzione ironica in rapporto al contesto. 6. Parini attribuisce all’aggettivazione un valore segnaletico, non puramente ornamentale: scegli un gruppo abbastanza ampio di versi, scheda gli aggettivi presenti e indica l’effetto che l’autore vuole conseguire.
Interpretare
SCRITTURA 7. La parte iniziale del Giorno già rivela il severo giudizio di Parini sulla classe nobiliare e la prospettiva ironica che ispira l’opera. Scrivi un breve testo (max 10 righe) facendo alcuni esempi delle modalità e degli strumenti espressivi con cui lo scrittore traduce tale prospettiva. 8. Il narratore si autorappresenta in due punti del testo (vv. 31-32 e 65-68). Spiega e commenta i due gruppi di versi indicando la finalità che l’autore attribuisce a questi due riferimenti.
Il libro delle Odi 3 419
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Caffè o cioccolata? Il mattino, II vv. 92-124
G. Parini, Il giorno, ed. critica a c. di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996 AUDIOLETTURA
ANALISI INTERATTIVA
Giunge per il «giovin signore» il momento di compiere la prima scelta della giornata. Si tratta di un dilemma davvero assillante: bere una tazza di cioccolata o di caffè? L’ironia dello scrittore è evidente già nel tema.
Ma il damigel ben pettinato i crini ecco s’innoltra; e con sommessi accenti chiede qual più de le bevande usate 95 sorbir tu goda in preziosa tazza1. Indiche merci son tazza e bevande: scegli qual più desii2. S’oggi a te giova porger dolci a lo stomaco fomenti onde con legge il natural calore 100 v’arda temprato, e al digerir ti vaglia, tu il cioccolatte eleggi, onde tributo ti diè il Guatimalese e il Caribeo che di barbare penne avvolto ha il crine3: ma se noiosa ipocondria ti opprime, 105 o troppo intorno a le divine membra adipe cresce, de’ tuoi labbri onora la nettarea bevanda ove abbronzato arde e fumica il grano a te d’Aleppo giunto e da Moca che di mille navi 110 popolata mai sempre insuperbisce4. Certo fu d’uopo che da i prischi seggi uscisse un regno, e con audaci vele fra straniere procelle e novi mostri e teme e rischi ed inumane fami 115 superasse i confin per tanta etade inviolati ancora5: e ben fu dritto se Pizzarro e Cortese umano sangue più non stimàr quel ch’oltre l’Oceàno
La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 Ma il damigel... preziosa tazza: ma ecco entra in camera (s’innoltra) il servitore dai capelli ben pettinati (ben pettinato i crini; è un accusativo alla greca o di relazione) e chiede a voce bassa (con sommessi accenti) quale tra le consuete (usate) bevande tu preferisca gustare (sorbir) nella preziosa tazza. 2 Indiche... desii: sia le tazze sia le bevande sono merci venute dalle Indie (Indiche, s’intende sia l’Oriente sia le Indie occidentali, cioè le Americhe): scegli quella che preferisci. 3 S’oggi… crine: se oggi ti piace (giova) offrire allo stomaco bevande che lo riscaldino con dolcezza (dolci fomenti) cosicché il calore naturale bruci (arda) in modo regolato
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(temprato) nella giusta misura (con legge) e ti aiuti (vaglia, “valga”) a digerire, scegli (eleggi) la cioccolata di cui ti fecero dono (tributo) gli abitanti del Guatemala (Guatimalese) e dei Caraibi (Caribeo) che si ornano i capelli (crine) di piume secondo l’uso dei selvaggi (barbare penne è un’ipàllage). 4 ma se noiosa... insuperbisce: se invece ti senti annoiato e depresso (opprime noiosa ipocondria) o intorno al tuo corpo che pure ha origine divina (divine membra) si accumula troppo grasso (adipe), concedi l’onore delle tue labbra alla (cioè bevi la) bevanda dal sapore celestiale (nettarea) calda e fumante (ove arde e fumica) fatta con i chicchi torrefatti (abbronzato il grano) di caffè che arrivano per te dai porti orientali di Aleppo (Siria)
Pietro Longhi, La cioccolata del mattino, 1775-1780 (Venezia, Ca’ Rezzonico). e di Moka (Yemen), il cui porto è sempre più affollato di navi; è un onore per la bevanda esotica essere sorbita da un signore (onora la nettarea bevanda); la qualità arabica del caffè è tra le più pregiate; mai è rafforzativo di sempre. 5 Certo fu… inviolati ancora: certo fu necessario che un regno (la Spagna) uscisse dai propri antichi confini (prischi seggi) e con coraggiose spedizioni navali (audaci vele, sineddoche) e in mezzo alle tempeste in mari sconosciuti (straniere procelle) e tra fenomeni mai visti prima (novi mostri) e terrori (teme) e pericoli e privazioni disumane (inumane fami) superasse le colonne d’Ercole, i confini del mondo fino ad allora mai oltrepassati da lunghissimo tempo (tanta etade).
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scorrea le umane membra; e se tonando e fulminando alfin spietatamente balzaron giù da i grandi aviti troni re Messicani e generosi Incassi, poi che nuove così venner delizie o gemma de gli eroi al tuo palato6.
6 ben fu... al tuo palato: fu veramente giusto che Pizarro e Cortés (i conquistadores spagnoli) non considerassero umano il sangue che scorreva nelle membra
degli uomini d’oltreoceano; e che con gli scoppi e i lampi delle armi da fuoco (tonando e fulminando) deponessero con la forza dai grandi troni ereditati dagli avi
(aviti) i re del Messico e i nobili Incas poiché così, o splendore (gemma) degli eroi, nuove delizie giunsero al tuo palato.
Analisi del testo Il dilemma della prima colazione In un clima di raffinatezza, Parini rappresenta il rito della prima colazione del «giovin signore», impegnato nella difficile scelta fra la cioccolata oppure il caffè, bevande esotiche entrate nell’uso europeo già nella seconda metà del Seicento. La sapiente evocazione di aromi e sapori rimanda all’estetica sensistica; ma Parini va oltre, indicando con precisione persino le qualità terapeutiche delle due bevande. L’ampia perifrasi per designare le località di provenienza del caffè (vv. 107-110) mima i modi celebrativi dei luoghi propri dell’epica («di mille navi popolata... insuperbisce») e prepara la rievocazione delle conquiste coloniali dei versi subito seguenti.
La condanna delle conquiste coloniali Con un’affermazione perentoria («Certo fu d’uopo», v. 111) ribadita poco dopo («e ben fu dritto…», v. 116) il narratore-precettore affronta il tema delle conquiste coloniali nelle Americhe, assai dibattuto dagli illuministi francesi e italiani. Il narratore-precettore assume una posizione contraria a quella della contemporanea cultura progressista, celebrando con tono epico le conquiste coloniali. In realtà il passo va letto in chiave ironica: l’avventura coloniale viene giustificata dalla possibilità che ha offerto ai nobili di gustare nuove bevande. La sproporzione evidente tra la misera pochezza dell’effetto e la tragica grandezza della causa rivela al lettore la reale posizione dell’autore: Parini evidentemente condivide la polemica anticoloniale e condanna le stragi che portarono alla distruzione delle antiche civiltà dell’America centrale e meridionale. Leggendo con attenzione il passo è possibile anche intravedere, attraverso qualche “spia” lessicale, l’infrazione dell’ironia propria del precettore-narratore e l’affiorare della vera e propria deprecazione che appartiene invece all’autore: in particolare l’avverbio «spietatamente» (v. 120) e l’aggettivo «generosi» riferito agli Incas (v. 122) esprimono in forma diretta (e quindi non ironica) il duro giudizio dell’autore.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Individua e titola le principali sequenze del testo, poi sintetizza i temi affrontati. COMPRENSIONE 2. Celebrando come un fatto di straordinaria importanza la scelta della bevanda da bere al risveglio del «giovin signore», che cosa in realtà il poeta vuole sottolineare? ANALISI 3. Sai individuare nel testo qualche esempio riconducibile all’estetica del sensismo (➜ PAG. 233)? STILE 4. Esamina il brano dal punto di vista stilistico (aspetto lessicale, sintattico e ritmico, uso di figure retoriche): a. evidenzia gli accorgimenti che, operando a vari livelli del testo, danno vita a uno stile sostenuto e classicheggiante; b. sottolinea, con opportuni riferimenti testuali, l’intento ironico di Parini.
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 5. La riflessione ironica di Parini sulle bevande esotiche è debitrice della visione illuminista: quale concezione ti sembra rifletta? Rispondi in un intervento orale di max 2 minuti.
Il libro delle Odi 3 421
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Sergio Antonielli Il «giovin signore» «cavaliere inesistente» S. Antonielli, Giuseppe Parini, La Nuova Italia, Firenze 1973
Nei brani che seguono, stralciati da una sezione del saggio del narratore e studioso Sergio Antonielli (1920-1982) dedicata alla figura del «giovin signore» quale emblema della decadenza nobiliare, il critico fa riferimento alla diagnosi impietosa della decadenza della nobiltà sviluppata da Parini nel Giorno. Essa ha il suo fulcro sulla rappresentazione del «giovin signore» come involucro, corpo senza anima.
Il Giovin Signore e i suoi simili sono dei nobili decaduti. Il Parini non si fa illusioni circa le origini della nobiltà, sa che potenza e ricchezza non si acquistano senza prezzo morale [...], ma sa altrettanto bene che i giovani eroi del bel mondo non sanno fare altro se non spendere quanto rimane delle rendite avite. 5 Alle loro campagne sono incapaci di pensare [...]. Alla città, non concedono che lo spettacolo delle loro persone, dei loro servi, dei loro cocchi. Al momento del discorso al Giovin Signore, le rocche un tempo abitate dai feroci avi vanno in rovina. Tornano in squallida funzione giusto se si tratta di annunciare al mondo la nascita di un primogenito [...]. Scoppia il tuono dei rugginosi ferri1 per la 10 nascita di uno che sarà come lui [il Giovin Signore] e scoppia eroicomicamente nel vuoto storico di tutta la nobiltà. [...] [Quello di Parini] è prima di tutto un giudizio storico. Lavorando [...] su un insieme di dati indiscutibili, largamente perspicui, il poeta costruisce una decadenza tipo e porta il lettore a concludere che la nobilità è morta [...]. Ammesso che una sua 15 sostanza l’abbia avuta, ora è certo che non l’ha più. Ovviamente la nobiltà che non ha più senso è quella del sangue e dei compri onori2. Non è morta la nobiltà di spirito, ossia la gentilezza, la civiltà, quella di cui il poeta stesso si sente partecipe, in nome della quale fa la sua elegante e beffarda lezione. Ma il Giovin Signore è il modello della nobiltà di sangue e di denaro. [...] In lui, di spiritualmente nobile, 20 non c’è nulla. È un corpo senza anima. Un abbigliatissimo involucro, precisamente, dentro il quale è morta l’anima storica della nobiltà. Trattato con pietà, dotato di vere passioni, il Giovin Signore sarebbe stato una specie di don Chisciotte: un patetico relitto di altri tempi. Ma la pietà del Parini va tutta ai mortali che costituiscono l’umana plebe, al volgo che vive secondo natura 25 e che segna del suo sangue le strade battute dai cocchi signorili. Il Giovin Signore non può essere oggetto di pietà perché lo è di un’aggressione continua, oculata, mai indebolita dal fatto che viene esercitata come gli si addice, ossia signorilmente. È il nemico. [...] Il Giovin Signore non ha neanche un nome. Consiste nei suoi panni e negli atteggiamenti che assume. È, per così dire, un «cavaliere inesistente» 30 [...]. Per il Parini, morto il nobile sei-settecentesco, seguitano a muoversi i suoi panni, seguita ad avere apparenza di vita tutto ciò che attiene alla esteriorità nobiliare. Chi crede ancora viva la nobiltà, lo prende per vivo. Ma l’acuto moralista, diffusore dei lumi, smascheratore del falso3, sa come stanno le cose e lo dice. [...]
1 Scoppia... ferri: riferimento a versi (Il giorno, Il vespro, vv. 304-326) in cui sono descritti i colpi sparati da cannoni ormai vetusti e in abbandono (per
422 Settecento 9 Giuseppe Parini
celebrare la nascita di un primogenito, come detto). 2 dei compri onori: degli onori comprati, con riferimento ai titoli del casato
acquistati (➜ T4 OL). 3 l’acuto… del falso: è Parini stesso.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
Collabora all’analisi
T7
1. Cerca di spiegare perché, per il colpo del cannone che saluta la nascita di un nuovo nobile, il critico usa l’espressione «scoppia eroicomicamente nel vuoto storico di tutta la nobiltà». 2. In nome di che cosa il poeta, secondo Antonielli, fa la sua «elegante e beffarda lezione»? 3. Perché il «giovin signore» non può essere un don Chisciotte? 4. Sintetizza la tesi fondamentale del passo. 5. Spiega perché il critico usi l’espressione «cavaliere inesistente» per il «giovin signore» (ti ricordiamo che si tratta del titolo del celebre romanzo breve di Italo Calvino Il cavaliere inesistente [1959])?
Giuseppe Parini
Un mondo di oggetti e di status symbol Il mattino, II vv. 909-927; 933-972
G. Parini, Il giorno, ed. critica a c. di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996
ANALISI INTERATTIVA
Il «giovin signore» è circondato da una quantità di oggetti preziosi e superflui ai quali, in un certo senso, è affidata la sua immagine, addirittura la sua identità personale: una sorta di tirannia consumistica ante litteram. Al momento di uscire di casa per raggiungere la dama di cui è il cavalier servente, deve selezionare (ed è davvero un’impresa “epica”) le cose veramente “necessarie”. Per parecchi versi (vv. 865-984) Parini si dilunga a descrivere il corredo di oggetti che appartengono al «giovin signore», affidando a questa sorta di “catalogo” la propria riprovazione per un ceto improduttivo che alimenta un mercato consumistico di prodotti lussuosi. Quella che segue è l’ultima parte del catalogo.
[…] A te la lente 910 nel giorno assista; e de gli sguardi tuoi economa presieda; e sì li parta, che il mirato da te vada superbo, nè i mal visti accusarte osin giammai1. La lente ancor su l’occhio tuo sedendo 915 irrefragabil giudice condanni o approvi di Palladio i muri e gli archi o di Tizian le tele: essa a le vesti a i libri a i volti feminili applauda severa o li dispregi: e chi del senso
La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 A te... giammai: durante il giorno ti assista la lente e ti faccia risparmiare gli occhi
(de gli sguardi tuoi / economa presieda); e distribuisca (parta) i tuoi sguardi in modo che chi è osservato (mirato) da te si senta lusingato (vada superbo) e coloro che
sono guardati di traverso (mal visti) non osino mostrare apertamente il loro risentimento (accusarte).
Il libro delle Odi 3 423
comun sì privo fia che insorger osi contro al sentenziar de la tua lente?2 Non per questa però sdegna o signore giunto a lo speglio in Gallico sermone il vezzoso giornal, non le notate 925 eburnee tavolette a guardar preste tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce doman tra i belli spirti3; [...] 920
Ma dove ahi dove inonorato e solo lasci ’l coltello a cui l’oro e l’acciaro 935 donàr gemina lama, e a cui la madre de la gemma più bella d’Anfitrite diè manico elegante, onde il colore con dolce variar l’iride imìta?4 Verrà il tempo verrà che ne’ superbi 940 convivj ognaltro avanzerai per fama d’esimio trinciatore; e i plausi e i gridi de’ tuoi gran pari ecciterai qualora, pollo o fagian con le forcine in alto sospeso, a un colpo il priverai dell’anca 945 mirabilmente5. Or qual più resta omai onde colmar tue tasche inclito ingombro? Ecco a molti colori oro distinto, ecco nobil testuggine su cui voluttuose imagini lo sguardo 950 invitan de gli eroi6. Copia squisita di fumido rapè quivi è serbata e di spagna oleoso, onde lontana pur come suol fastidioso insetto da te fugga la noia7. Ecco che smaglia 955 cupido a te di circondar le dita
2 La lente... la tua lente?: la lente appoggiandosi (sedendo) all’occhio condanni o approvi come un giudice inappellabile (irrefragabil) un edificio (i muri e gli archi) di Palladio o i quadri (tele) di Tiziano; lodi con sicurezza (severa) o disprezzi gli abiti, i libri, i volti delle donne; chi ci sarà (fia) che, privo di buon senso, osi ribellarsi ai giudizi della tua lente? Si citano l’architetto Andrea Palladio (1508-1580) e il pittore Tiziano Vecellio (1488/90-1576). 3 Non per questa... spirti: non trascurare però, o signore, a favore della lente (per questa), un bel (vezzoso) giornale in francese (gallico sermone) e neppure i taccuini rilegati in avorio (eburnee tavolette) contenenti delle note (notate), pronti a fissare (a guardar preste) le tue straordina-
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rie idee da comunicare (abbian luce) (per una sicura approvazione) domani ai tuoi simili (tra i belli spirti). 4 Ma dove... imìta?: ma dove lasci, ahimé, solo e trascurato (inonorato) il coltello dalla doppia (gemina) lama d’oro e d’acciaio a cui la madreperla (la madre della più bella gemma del mare, di cui era regina la nereide Anfitrite, moglie del dio Nettuno) ha fornito un manico elegante dal colore dolcemente cangiante come l’arcobaleno (l’iride imìta)? 5 Verrà... mirabilmente: verrà il tempo (profetizza il precettore, con la solennità dell’iterazione) in cui tu, nei banchetti importanti, supererai tutti per fama di eccellente (esimio) trinciatore; e provocherai grida di ammirazione e applausi fra i tuoi
pari quando con un colpo solo preciso e mirabile taglierai la coscia (anca) di un pollo o di un fagiano sospeso in alto con le forchette (forcine). 6 Or qual... degli eroi: quale altro illustre ingombro ti resta per riempire le tue tasche? Ecco oro variegato (distinto) di molti colori, ecco una nobile tartaruga (cioè un oggetto in tartaruga, testuggine), ornato di immagini piacevoli (voluttuose) che attirano lo sguardo degli eroi (gli altri nobili). 7 Copia... la noia: abbondanza ricercata (copia squisita) di tabacco da fiuto (fumido rapè) è contenuta nella tabacchiera, e anche di oleoso spagna (altra qualità di tabacco), grazie al quale (onde) la noia, come di solito (suol) fa un insetto fastidioso, fugga lontana da te.
vivo splendor di preziose anella8. Ami la pietra ove si stanno ignude sculte le Grazie9, e che il Giudeo ti fece creder opra d’Argivi allor ch’ei chiese 960 tanto tesoro, e d’erudito il nome ti compartì prostrandosi a’ tuoi piedi10? Vuoi tu i lieti11 rubini? O più t’aggrada sceglier quest’oggi l’Indico adamante là dove il lusso incantator costrinse 965 la fatica e il sudor di cento buoi che pria vagando per le tue campagne facean sotto a i lor piè nascere i beni12? Prendi o tutti o qual vuoi; ma l’aureo cerchio che sculto intorno è d’amorosi motti 970 ognor teco si vegga, e il minor dito premati alquanto, e sovvenir ti faccia dell’altrui fida sposa a cui se’ caro13.
8 Ecco... anella: ecco che il vivo splendore di anelli preziosi (soggetto) brilla (smaglia) desideroso (cupido) di circondarti le dita. 9 Ami la pietra… le Grazie: ami un cammeo in cui sono incise le Grazie nella loro nudità. 10 che il Giudeo… piedi: che il mercante ebreo ti fece credere fosse un antico manufatto greco quando ti chiese una somma ingente (tanto tesoro) e, inginocchiatosi davanti a te, ti apostrofò solennemente co-
me un grande intenditore (erudito). 11 i lieti: che allietano. 12 O più t’aggrada… nascere i beni: oppure ti piace di più scegliere un diamante orientale dove le meraviglie del lusso (incantator è prodigioso e insieme seducente) concentrarono lo sforzo che costa sudore (la fatica e il sudor, endiadi) di cento buoi, che prima andando avanti e indietro (vagando) per i tuoi campi, lavoravano per dare i prodotti (beni) dell’agricoltura. Il sen-
so è che nella pietra preziosa è racchiusa la ricchezza equivalente al lavoro di cento buoi nei campi. 13 Prendi... se’ caro: indossali tutti o scegli qualcuno (degli anelli), ma porta sempre con te (ognor teco si vegga) il cerchio d’oro con l’incisione di frasi d’amore (amorosi motti), ti stringa il mignolo (il minor dito premati) e ti ricordi (sovvenir ti faccia) la fedele sposa di un altro che ti ama.
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
Nella rassegna degli oggetti che il «giovin signore» ha l’abitudine di portare con sé, Parini elenca innanzitutto (nei versi che precedono quelli riportati) il cannocchiale, che il protagonista utilizza a teatro soprattutto per curiosare nei palchi altrui, così da trovare nuovo alimento a pettegolezzi e maldicenze; poi la bottiglietta di profumi e il portapastiglie, che contiene sostanze eccitanti e qualche oppiaceo. Nel passo qui proposto continua il catalogo: il narratore dedica ampio spazio al riferimento all’occhialino («la lente»), di gran moda nel Settecento (vv. 909-921); quindi nomina il giornale, naturalmente in francese (vv. 922-924); il taccuino, rilegato in avorio, dove il «giovin signore» potrà annotare i suoi «sublimi pensier» (vv. 924-927), e il coltello dal manico in madreperla, destinato a essere utilizzato durante il banchetto (vv. 933-945); non manca la preziosa tabacchiera per contenere un tabacco di pregiata qualità (vv. 947-954). E infine anelli preziosi di ogni foggia, soprattutto l’anello portato al mignolo entro cui sono incise parole amorose per la dama a cui è legato (vv. 954-972). La rassegna si chiude con il riferimento (qui non riportato) agli orologi, ornati di minuscoli ciondoli, e al medaglione che contiene una ciocca dei capelli dell’amata o il suo ritratto.
Il libro delle Odi 3 425
1. L’ampio riferimento alla lente è finalizzato soprattutto a esaltare il senso estetico del giovane nobile: in quali ambiti si applica? 2. Per quale funzione viene impiegato il magnifico coltello che fa parte del corredo di oggetti imprescindibili, di cui non si può fare a meno (oggi diremmo che sono dei must)? 3. A quale costume sociale allude ironicamente la definizione relativa alla dama: «l’altrui fida sposa a cui se’ caro» (v. 972)? 4. Ai versi 957-961, attraverso una perifrasi, si fa riferimento a un cammeo acquistato dal «giovin signore»: quale atteggiamento è sottolineato nei riferimenti al Giudeo? Ne traspare una mentalità segnata storicamente? 5. Gli oggetti descritti vengono nobilitati a fini ironici secondo i consueti procedimenti usati da Parini nel Giorno. Individua la presenza di aggettivi aulici, perifrasi solenni, riferimenti mitologici, inversioni sintattiche. 6. Evidenzia come, attraverso la descrizione degli oggetti (e per mezzo di espressioni e stilemi particolari), Parini voglia rappresentare una classe sociale schiava del culto dell’apparenza per coprire la propria inutilità e il vuoto di valori.
Interpretare
Il tema del lusso è uno dei grandi argomenti del dibattito illuministico. Dall’Inghilterra alla Francia, da Voltaire a Rousseau, da Condillac a Diderot, al lusso sono dedicati molteplici interventi nella saggistica, in letteratura e nell’Encyclopédie. Il dibattito si estende dalla Francia all’Italia e coinvolge gli illuministi napoletani e milanesi: anche «Il Caffè» tratta il tema con interventi molto articolati, nei quali viene in genere distinto il piano economico da quello morale. Sul piano economico esso è considerato con favore: secondo Pietro Verri (Considerazioni sul lusso) dà lavoro agli artigiani ed è un mezzo di distribuzione della ricchezza, ma diventa «pernicioso» quando rovina i patrimoni. Non solo questi versi del Giorno appena letti, ma anche altri passi dell’opera, riecheggiano da vicino il dibattito cui si è fatto riferimento. La posizione di Parini si differenzia però nettamente da quella assunta dagli intellettuali del «Caffè» configurandosi come una netta condanna: per Parini il lusso è innanzitutto una provocatoria esaltazione della disuguaglianza sociale; ma lo scrittore (che, come si è visto, aderiva alle teorie fisiocratiche) contesta anche l’idea mercantilistica dell’utilità e della benefica ricaduta economica di tale settore, che gli sembra solo uno spreco intollerabile di risorse. 7. L’intero catalogo degli oggetti condanna indirettamente il lusso, ma in alcuni versi la condanna si fa più esplicita: identifica i versi in questione. Quale tipo di società e di economia è contrapposta da Parini alla civiltà del lusso?
Il possesso di oggetti di lusso è sempre stato, in tutte le epoche e in tutte le culture, un elemento distintivo di pochi, dei potenti o dei maggiorenti, ai vertici della società. Ma in tempi relativamente recenti, grazie a un marketing sempre più incisivo, si è verificata una sorta di “democratizzazione” del lusso che ha reso «consumo straordinario di persone ordinarie» ciò che in passato era «consumo ordinario di persone straordinarie». La citazione è tratta da A. Tartaglia e G. Marinozzi, Introd. a Il lusso... Magia e marketing. Presente e futuro del superfluo indispensabile, Franco Angeli, Milano 2006.
8. Rifletti su queste affermazioni e prova a immaginare un catalogo degli oggetti o delle abitudini di vita (ad esempio i viaggi o gli oggetti high-tech) che possano costituire anche oggi degli status symbol.
online T8 Giuseppe Parini
La favola del Piacere Il meriggio, vv. 250-338
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Giuseppe Parini
T9
La vergine cuccia Il meriggio, vv. 659-697
G. Parini, Il giorno, ed. critica a cura di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996
L’episodio, forse il più celebre del poema, è inserito all’interno del banchetto che si svolge nel palazzo della dama. Mentre gustano squisite vivande, i nobili convitati conversano su argomenti di moda. Un vegetariano magro, che siede accanto a un uomo sovrappeso, un divoratore di carne, esprime il proprio disprezzo verso i carnivori e la sua compassione per gli animali sacrificati fra sofferenze inaudite. Alle parole del vegetariano, la dama si commuove e rievoca la brutta avventura capitata alla «vergine cuccia», la sua cagnolina, presa a calci da un servo, a cui l’animale aveva dato un morso; ma l’«atroce delitto» era stato subito e debitamente punito.
[…] Or le sovvien del giorno, 660 ahi fero giorno! allor che la sua bella vergine cuccia de le Grazie alunna, giovanilmente vezzeggiando, il piede villan del servo con gli eburnei denti segnò di lieve nota1: e questi audace 665 col sacrilego piè lanciolla: ed ella tre volte rotolò; tre volte scosse lo scompigliato pelo, e da le vaghe nari soffiò la polvere rodente2: indi i gemiti alzando, aita aita 670 parea dicesse; e da le aurate volte a lei la impietosita eco rispose; e dall’infime chiostre i mesti servi asceser tutti; e da le somme stanze le damigelle pallide tremanti 675 precipitàro3. Accorse ognuno: il volto fu d’essenze spruzzato a la tua dama: ella rinvenne al fine. Ira e dolore l’agitavano ancor: fulminei sguardi gettò sul servo; e con languida voce 680 chiamò tre volte la sua cuccia: e questa al sen le corse; in suo tenor vendetta chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 Or le sovvien... nota: (la dama) si ricorda (sovvien) del giorno, ah che giorno terribile! (fero, “crudele”), in cui (allor che) la sua cagnolina, così bella da sembrare che sia stata allevata dalle Grazie in persona (vergine cuccia de le Grazie alunna), scherzando (vezzeggiando) come fanno i cuccioli (giovanilmente), con i denti d’avorio (eburnei) lasciò un leggero segno (segnò di lieve nota) sul piede volgare (villan) del servo.
2 questi... rodente: questi (il servo) con audacia riprovevole la colpì con un calcio, facendola ruzzolare lontano (lanciolla), commettendo un sacrilegio (perché la cagnetta è sacra alle Grazie); e quella rotolò tre volte, agitò (scosse) tre volte i peli scompigliati e dalle delicate narici (vaghe nari) soffiò la polvere irritante (rodente). Da notare il parallelismo e questi... ed ella che scandisce il ritmo veloce dell’azione, la scelta lessicale iperbolica ed enfatica di sacrilego e lo stilema epico tre volte... tre volte.
3 indi... precipitàro: quindi, levando alti i suoi lamenti, sembrava che dicesse “aiuto! aiuto!”, e dalle volte dorate (ornate di stucchi dorati: aurate volte) dei soffitti le rispose l’eco impietosita (moltiplicando i guaiti che muovono a pietà); e i servi mesti (perché consapevoli della gravità dell’incidente) salirono tutti dalle stanze dei piani inferiori (infime chiostre); e le cameriere pallide e tremanti (anch’esse dunque emotivamente partecipi) accorsero scendendo (precipitàro) dalle stanze dell’ultimo piano (somme).
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vergine cuccia de le Grazie alunna4. L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo 685 udì la sua condanna. A lui non valse merito quadrilustre: a lui non valse zelo d’arcani ufici. Ei nudo andonne de le assise spogliato onde pur dianzi era insigne a la plebe: e in van novello 690 signor sperò; chè le pietose dame inorridìro; e del misfatto atroce odiàr l’autore5. Il perfido si giacque con la squallida prole e con la nuda consorte a lato su la via spargendo 695 al passeggero inutili lamenti: e tu vergine cuccia, idol placato da le vittime umane, isti superba6.
4 Accorse... alunna: tutti accorsero; alla dama (che era svenuta) fu spruzzato il volto con essenze aromatiche e alla fine rinvenne. Era ancora in preda all’ira e al dolore: gettò sul servo sguardi fulminanti (fulminei) e chiamò tre volte con voce debole e intenerita (languida) la sua cagnetta: e questa le corse in braccio (al sen); a suo modo (in suo tenor) sembrò chiedere vendetta: e tu avesti vendetta, cagnetta allevata (alunna) dalle Grazie. 5 L’empio... autore: il servitore empio (perché aveva profanato qualcosa di sa-
cro) tremò e ascoltò con gli occhi a terra. Non gli furono d’aiuto (valse) i meriti acquisiti in vent’anni di servizio (merito quadrilustre), non bastò l’impegno (zelo) profuso in incarichi segreti (arcani ufici), delicati. Egli se ne andò (andonne) senza ricevere un soldo (nudo) e privato (spogliato) della livrea (assise), grazie alla quale (onde) solo poco tempo prima (pur dianzi) era rispettabile (era insigne) agli occhi del popolo (plebe): e invano sperò di trovare lavoro presso un nuovo (novello) padrone, perché le dame (amiche della padrona)
s’impietosirono (per la cagnetta) e inorridirono (al racconto del comportamento del servo); e odiarono (odiàr) chi aveva commesso (l’autore) l’atroce misfatto. 6 Il perfido... superba: il malvagio (perfido) si ritrovò sulla strada, con a fianco i figli denutriti (squallida prole) e la moglie priva di tutto, a rivolgere inutilmente ai passanti i suoi lamenti (inutili lamenti) chiedendo l’elemosina, e tu cagnolina te ne andasti (isti) superba come una divinità (idol) placata da vittime umane.
Analisi del testo Una questione di punti di vista L’episodio è narrato sempre dalla voce del precettore, che riferisce il racconto della dama e gli eventi che seguirono. Pur nella sua brevità, si può dividere in due parti, che hanno differenti protagonisti e a cui corrispondono due diversi punti di vista.
La prima parte I versi 659-683 vedono in primo piano la cagnolina (e, sullo sfondo, la sua padrona). Il punto di vista attraverso cui è narrata la vicenda è quello della dama. Proprio grazie a questa scelta narrativa, un episodio del tutto banale (la cagnolina, verosimilmente viziata, ha morsicato il piede del servo e questi, per reazione, le ha sferrato un calcio) assume i tratti di un evento memorabile (un «fero giorno»). La voce narrante prima minimizza le “responsabilità” della cagnolina nell’aver morsicato un piede che, tanto, è solo quello «villan» di un servo, sottolineando la sua grazia, la sua giovane età («giovenilmente vezzeggiando», «eburneo dente», «lieve nota»). In seguito la voce del narratore, portatrice del giudizio e del punto di vista della dama, enfatizza la portata del gesto del servo (definito addirittura «sacrilego») e rappresenta la scena della cagnolina scagliata via dal calcio del servo con i toni di un’epica tragedia (il lettore si ritrova quasi nella reggia di Priamo mentre Troia è messa a ferro e fuoco dagli Achei); anche la ripetizione («tre volte... tre volte») mima il linguaggio di uno scontro epico. La prospettiva con cui il lettore è invitato a leggere l’episodio è evidentemente ironica.
428 Settecento 9 Giuseppe Parini
La seconda parte Dopo lo svenimento (anch’esso eccessivo) della dama, il suo rinvenimento (vv. 675-683) e la richiesta implicita di vendetta da parte della cagnolina, si apre la seconda parte, con la breve sequenza narrativa (poco più di una decina di versi) che vede protagonista il servo (vv. 684697). Qui il punto di vista della dama (e il conseguente registro ironico) sopravvive solo in alcune espressioni («empio», «misfatto atroce», «perfido»). Ma il lettore accorto non può non avvertire un mutamento di tono: la dura evidenza dei fatti, il secco resoconto dell’inesorabile licenziamento del servo e dell’infelice sorte toccatagli per l’insensibilità di un mondo vacuo e privo di valori esprimono una condanna diretta, in cui si avverte l’emergere del punto di vista dell’autore stesso, che affida alla drammatica chiusa, di forte impatto emotivo, il suo severo giudizio morale («E tu vergine cuccia, idol placato / da le vittime umane, isti superba»). Il narratore, prima “alleato” con la dama, diventa qui la voce dell’autore.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi l’episodio. ANALISI 2. Indica in un breve testo (max 5 righe) il tema dell’episodio e il messaggio polemico che l’autore vuole comunicare. 3. La cagnolina presenta evidenti tratti umanizzati: riconosci nel testo gli elementi che lo comprovano. STILE 4. Individua le ripetizioni e le antitesi del passo e la loro funzione. 5. Quale figura retorica è utilizzata nel verso «il piede villan del servo con gli eburnei denti» (vv. 662-663)? Spiega la sua funzione rispetto al contesto. 6. Analizza il brano sul piano formale (linguistico e stilistico) e strutturale e rispondi ai seguenti punti: a. presenza di simmetrie sul piano sintattico e riprese di termini: quale effetto conferiscono? b. presenza di enjambements: a quali termini fanno riferimento? Quale effetto producono? c. scelte formali: in che modo concorrono a delineare l’ironia pariniana? d. termini di stile alto e classicheggiante: in che modo possono essere messi in rapporto al tema fondamentale del brano e all’atmosfera satirica in esso dominante? 7. La prima parte dell’episodio nasce dal punto di vista della dama: da qui deriva l’enfatizzazione drammatica e l’epicizzazione del fatto accaduto. A quali elementi retorici e/o linguistici viene affidata?
Interpretare
TESTI A CONFRONTO 8. La conclusione dell’episodio della colazione, dove si fa riferimento alle conquiste coloniali (➜ T6 ), e la seconda parte dell’episodio della «vergine cuccia» presentano delle analogie: per quale ragione? LETTERATURA E NOI 9. Nella seconda parte del brano il tono si fa più serio e l’ironia di Parini diventa satira indignata. Rifletti sull’intento moralistico del Giorno e sulla sua funzione didascalica: spiega perché possiamo definire quest’opera una satira antinobiliare ed evidenzia le caratteristiche dell’aristocrazia aspramente criticate dall’autore. Secondo te, ancora oggi la satira può fungere da strumento di denuncia delle contraddizioni proprie del nostro tempo? Argomenta.
online T10 Due interventi metaletterari:
il congedo dal personaggio e quello dal precettore-narratore
T10a Giuseppe Parini Il congedo del protagonista La notte, vv. 70-77 T10b Giuseppe Parini ... e quello del narratore-precettore La notte, vv. 248-259
Il libro delle Odi 3 429
Giuseppe Parini
T11
La parodia della sfilata degli eroi epici La notte, vv. 351-382; 440-455
G. Parini, Il giorno, ed. critica a cura di D. Isella, Fondazione Pietro Bembo, Guanda, Milano 1996
Nell’ultima parte del poemetto (rimasta incompiuta) l’arte di Parini si affina e conosce, secondo la critica più recente, le sue prove qualitativamente migliori. D’altra parte è anche evidente un affievolirsi dell’ottica combattiva propria delle prime parti dell’opera (sostenuta dalla fiducia di poter contribuire a un cambiamento positivo della società). Essa lascia il posto a un atteggiamento sostanzialmente pessimistico, che non corrisponde però alla rinuncia a un giudizio critico sulla nobiltà. Lo dimostra il celebre passo qui proposto, noto come la “sfilata degli imbecilli”, in cui l’autore presenta, attraverso una serie di ritratti umani (parodia del corteo degli eroi del poema epico), l’irreversibile decadenza del ceto aristocratico.
Quanta folla d’eroi1! Tu, che modello d’ogni nobil virtù, d’ogn’atto eccelso, esser dei fra’ tuoi pari, i pari tuoi a conoscere apprendi; e in te raccogli 355 quanto di bello e glorioso e grande sparse in cento di loro arte o natura2. Altri di lor ne la carriera illustre stampa i primi vestigi; altri gran parte di via già corse; altri a la meta è giunto3. 360 In vano il vulgo temerario a gli uni di fanciulli dà nome; e quelli adulti, questi già vegli di chiamare ardisce: tutti son pari4. Ognun folleggia e scherza; ognun giudica e libra; ognun del pari 365 l’altro abbraccia e vezzeggia: in ciò sol tanto non simili tra lor, che ognun sua cura ha diletta fra l’altre onde più brilli5. Questi è l’almo garzon, che con maestri da la scutica sua moti di braccio 370 desta sibili egregi; e l’ore illustra l’aere agitando de le sale immense,
La metrica: Endecasillabi sciolti. 1 Quanta folla d’eroi: l’analitica rappresentazione dei nobili che segue, aperta dall’ironica esclamazione (quelli che vengono evocati sono tutt’altro che eroi), è immaginata di notte, nel palazzo illuminato di un’amica del «giovin signore». 2 Tu, che modello… natura: il narratore si rivolge al giovin signore: “Tu, che devi essere (esser dei) modello tra i tuoi pari di ogni nobile virtù, di ogni atto eccelso, impara (apprendi) a conoscere i tuoi pari; e raccogli in te quanto di bello, glorioso e
430 Settecento 9 Giuseppe Parini
grande l’educazione (arte) o l’indole (natura) sparse in cento di essi”. 3 Altri... è giunto: qualcuno di essi (altri di lor; costrutto latineggiante: alii... alii) segna le prime orme, cioè muove i primi passi (stampa i primi vestigi) dell’illustre carriera (nella vita di società); qualcun altro ha percorso già parte del cammino, cioè è già maturo ed esperto (altri gran parte di via già corse), qualcun altro ancora ha raggiunto la meta (altri a la meta è giunto). 4 In vano… son pari: invano il popolo, in modo azzardato e superficiale (temerario), dà il nome di fanciulli ai primi, di adulti
agli altri e ha l’ardire di chiamare questi ultimi vecchi (vegli): sono tutti uguali. 5 Ognun… brilli: ognuno folleggia e scherza, ognuno dà giudizi e soppesa (libra, latinismo), ognuno abbraccia e adula allo stesso modo (del pari) l’altro; dissimili tra di loro soltanto in ciò, cioè che ognuno di essi ha scelto (ha diletta, latinismo da eligere, “scegliere”) il suo passatempo (sua cura) tra gli altri in modo da distinguersi maggiormente (onde più brilli).
onde i prischi trofei pendono e gli avi6. L’altro è l’eroe, che da la guancia enfiata e dal torto oricalco a i trivj annuncia 375 suo talento immortal, qualor dall’alto de’ famosi palagi emula il suono di messagger, che frettoloso arrive7. Quanto è vago a mirarlo allor che in veste Cinto spedita, e con le gambe assorte 380 In amplo cuoio, cavalcando a i campi Rapisce il cocchio, ove la dama è assisa E il marito e l’ancella e il figlio e il cane!8 […] Or vedi l’altro, di cui più diligente o più costante Non fu mai damigella o a tesser nodi O d’aurei drappi a separar lo stame9. A lui turgide ancora ambe le tasche 445 son d’ascose materie10. Eran già queste prezioso tapeto, in cui distinti d’oro e lucide lane i casi apparvero d’Ilio infelice: e il cavalier, sedendo nel gabinetto de la dama, ormai 450 con ostinata man tutte divise in fili minutissimi le genti d’Argo e di Frigia11. Un fianco solo avanza de la bella rapita; e poi l’eroe, pur giunto al fin di sua decenne impresa, 455 andrà superbo al par d’ambo gli Atridi12. 440
6 Questi è l’almo... gli avi: inizia il catalogo degli “eroi” e dei loro singolari passatempi: il primo di essi, un giovane (l’almo garzon) ha come hobby quello di produrre mirabili sibili (sibili egregi) scuotendo con movimenti magistrali (maestri… moti) del braccio la sua frusta (scutica); e nobilita le ore (l’ore illustra) agitando l’aria delle sale immense, dalle pareti delle quali (onde) pendono gli antichi (prischi) trofei e i ritratti degli antenati. 7 L’altro è l’eroe... arrive: l’altro è l’eroe dalla guancia gonfiata e dalla tromba ricurva (dal torto oricalco; era lo strumento dei postiglioni, sulle carrozze di posta) che annuncia il suo talento immortale (detto ovviamente in senso ironico) agli incroci delle strade (a i trivj), imitando il suono di un messaggero che arrivi di gran carriera. Il secondo “eroe” ha come hobby quello di suonare la tromba. 8 Quanto è vago... e il cane: quanto è bello (vago) a vedersi quando, rivestito (cinto) di
una veste succinta (veste... spedita), e con le gambe avvolte (assorte, letteralmente “assorbite, tutte calzate”) da alti stivali (amplo cuoio, metonimia), montato su uno dei cavalli, si impadronisce (rapisce) e si mette alla guida, attraverso la campagna, della carrozza (il cocchio) dove si trovano tutti quanti insieme, la sua dama, il marito di lei, l’ancella, il figlio e il cane! 9 Or vedi l’altro… lo stame: ora vedi l’altro del quale nessuna damigella fu più diligente e paziente nell’intrecciare nodi (per le reticelle) o nello sfilacciare (separar lo stame) tessuti pregiati, arazzi. Un hobby più che strano, addirittura inquietante, quello di questo nobile, che appare più “imbecille” rispetto agli altri. Nella schiera degli eroi ci sono stati in precedenza: l’estimatore appassionato di carrozze, che non fa che comprare nuovi modelli di veicoli; e l’amante di cavalli, che non parla che di razze e genealogie equine. 10 A lui... materie: lo strambo personag-
gio tiene sempre le tasche piene (turgide) di materiale nascosto (cioè il filo degli arazzi disfatti). 11 Eran già queste... e di Frigia: un tempo quei fili dorati e quelle lane rilucenti erano un arazzo che raffigurava le tristi vicende di Troia (Ilio infelice): e il cavaliere, nella saletta privata (gabinetto) della dama, con una tenace opera manuale (ostinata man), aveva sfilacciato ormai le parti di tessuto che raffiguravano i guerrieri (le genti) dei greci (Argo) e dei troiani (Frigia). 12 Un fianco solo… Atridi: avanza solo un fianco di Elena, la bella rapita (per la quale si scatenò la guerra di Troia); e poi l’eroe, arrivato a completare la sua impresa decennale (decenne impresa: la sfilacciatura dell’arazzo è dunque durata dieci anni, come la guerra omerica!) ne andrà fiero allo stesso modo di Agamennone e Menelao (ambo gli Atridi).
Il libro delle Odi 3 431
Analisi del testo Una grottesca galleria In questa galleria di personaggi, presentati ironicamente come modelli al «giovin signore», che a sua volta deve essere modello di ogni qualità, Parini esprime forse il culmine del suo giudizio negativo sulla nobiltà, in una prospettiva che appare senz’altro più cupa rispetto alle prime sezioni dell’opera, in quanto ormai si è allontanata la speranza che le cose possano cambiare. «Sul poemetto pariniano», scrive il critico Lanfranco Caretti a proposito del nuovo clima ideologico che si respira nella Notte, «calano così le prime ombre notturne, s’incupiscono i colori, e le figure si muovono da ultimo, perduti addirittura di vista la dama e il giovin signore, come fantasmi o tetre caricature, sopra fondali artificiosi già consunti dal tempo ed avviati a dissoluzione». Questa condizione psicologica e intellettuale, motivata dalle circostanze storiche e dalla crisi del ruolo dell’intellettuale nella Lombardia post-teresiana, induce lo scrittore, ormai disilluso e disincantato, a concepire questa allucinata sequenza che quanto meno è realistica, tanto più è ammonitrice. Per la nobiltà non c’è riscatto possibile: ripiegata su sé stessa, preda della noia, immersa nella vacuità, essa si rifugia in quelli che appaiono al lettore moderno, più che passatempi curiosi, veri e propri riti nevrotici, fissazioni maniacali.
L’eroe moderno e la distruzione dell’epica antica Il personaggio più sconcertante nella sfilata è certamente quello che si dedica a distruggere gli arazzi antichi. Si tratta di un personaggio a cui l’autore affida un ruolo simbolico, quello della liquidazione della tradizione epica, improponibile ormai nella società moderna, in cui gli “eroi” sono il «giovin signore» e i suoi simili: una liquidazione simboleggiata dalla sfilacciatura, filo dopo filo, dell’arazzo su cui, non a caso, è effigiata la vicenda di Troia. Secondo il critico Bàrberi Squarotti, addirittura, «l’intero poema pariniano viene illuminato dalla presentazione di questo personaggio. […] L’eroe moderno distrugge a poco a poco l’epica antica, quella più illustre dell’Iliade. La disfà a poco a poco, per tutti i dieci anni speculari del tempo dell’assedio e della presa di Troia». Il personaggio «non butta via e cancella i materiali dell’epica, ma se ne riempie le tasche, come ricordi di un passato improponibile e neppure più contemplabile seriamente nella finzione del racconto che ne ha fissato le vicende». La seconda citazione è tratta da: G. Bàrberi Squarotti, Il vero Ettorre: l’eroe del Giorno, in AA. VV., Interpretazioni e letture del Giorno, a c. di G. Barbarisi ed E. Esposito, Cisalpino, Milano 1998, pp. 11-60.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
ANALISI 1. Individua e presenta con parole tue i personaggi che compaiono nella rassegna e i loro relativi passatempi. 2. Elenca le caratteristiche della nobiltà aspramente criticate da Parini. LESSICO 3. Analizza il brano dal punto di vista lessicale: individua parole e sintagmi appartenenti al lessico eroico. STILE 4. Esamina il brano dal punto di vista stilistico-retorico sottolineando, con opportuni riferimenti ai due testi, l’intento ironico di Parini (max 15 righe).
Interpretare
SCRITTURA 5. Rileggi attentamente i versi dedicati allo “sfilacciatore di arazzi” e quindi sintetizza e commenta, con riferimenti diretti al testo pariniano, il giudizio critico di Bàrberi Squarotti proposto nell’Analisi del testo (max 15 righe). 6. Cerca di collegare il brano alla nuova posizione assunta da Parini nei confronti della nobiltà e alla questione più generale dell’interruzione del progetto satirico del Giorno (puoi aiutarti con la lettura di ➜ PER APPROFONDIRE, PAG. 409).
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4
La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future “Il filo rosso” degli autoritratti Già nella prima delle sue odi, La vita rustica (1757), Parini aveva tracciato un profilo di sé con tratti fortemente idealizzati in senso morale (vv. 25-32): «Me non nato a percotere / le dure illustri porte / nudo accorrà, ma libero / il regno de la morte. / No, ricchezza né onore / con frode o con viltà / il secol venditore / mercar non mi vedrà» (“Il regno della morte mi accoglierà in povertà (nudo) ma libero. Io non sono nato per bussare alle porte dei potenti, sorde di fronte a chi chiede (dure). No, questo secolo gretto e volgare non mi vedrà mercanteggiare ricchezze e onori con inganno e con viltà”). Dello stesso anno è il Dialogo sulla nobiltà (➜ D1 ): anche in questo testo, critico nei confronti dell’orgoglio nobiliare, è possibile ritrovare tra le righe un’immagine del poeta in cui si rispecchia Parini stesso: in un’ideale gerarchia, il poeta mette al primo posto il desiderio di essere «uomo dabbene», quindi “sano”, poi dotato di ingegno e, solo dopo queste qualità, ricco. Quasi trent’anni dopo, con La caduta (➜ T2 ) (1785), Parini delinea un autoritratto analogo a quello della Vita rustica, dipingendosi come poeta coerente a un ideale di integrità morale. Un’immagine di sé (e al contempo del ruolo del poeta) particolarmente cara a Parini, dato che torna ancora una volta a ribadirla poco prima della morte nell’ultima ode, Alla Musa, 1795 (➜ PAG. 378). Sarà proprio questa, del resto, l’immagine di Parini, o meglio sarebbe forse dire “il mito” di Parini, che sarà fatto proprio (come il poeta avrebbe certo voluto) dalle giovani generazioni di letterati che aprivano l’età romantica, da Foscolo a Manzoni. Il Parini foscoliano / Il Foscolo pariniano Ugo Foscolo, che ebbe occasione di conoscere Parini nel 1797 a Milano, non considerava il poeta di Bosisio un grande poeta: il suo gli sembrava uno stile «intieramente formato sui libri», che non di rado degenera «in pedantesco», ma era significativamente affascinato dall’uomo Parini. Nel romanzo epistolare autobiografico Ultime lettere di Jacopo Ortis immagina un significativo colloquio tra Parini e Jacopo, il personaggio in cui Foscolo si autoritrae, confermando la percezione che la Milano di fine secolo aveva del vecchio poeta come punto di riferimento morale. Nella lettera datata «Milano, 4 dicembre» (nella seconda parte del romanzo), l’incontro tra Jacopo e il poeta, «sotto un boschetto di tigli» di Porta Orientale, si anima di un veemente fervore libertario: l’abiezione dei tempi rende impossibile qualsiasi gesto eroico; «le lettere prostituite» non lasciano speranza a un «giovine dritto e bollente di cuore» come Jacopo di affermarsi con onore nella sua patria, su cui incombe il pericolo di nuove tirannidi. Le parole che Foscolo attribuisce a Parini nell’Ortis costituiscono un documento eloquente del ruolo di modello umano (più che poetico) che l’autore del Giorno (e della Caduta) veniva assumendo per le giovani generazioni. A conferma di questa importanza, nella prima parte del carme Dei sepolcri Foscolo riproporrà in un ampio passo (vv. 54-90) la figura di Parini, in modo forse più verisimile: il poeta è qui ritratto in termini che ne richiamano l’austera moralità (la casa di Parini è un «povero tetto») e la lunga fedeltà alla poesia. Parini è La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future 4 433
presentato come autore del Giorno, indicato con la celebre perifrasi che ne sottolinea il carattere satirico contro le dissipatezze del «giovin signore» («i canti / che il lombardo pungean Sardanapalo [...] beato d’ozi e di vivande»). Foscolo esprime quindi in un passo polemico, sostenuto dai modi della poesia “notturna” e “sepolcrale” di moda, lo sdegno per la dimenticanza colpevole della città di Milano verso il grande poeta, per il quale non è stata predisposta una degna sepoltura. Ma anche il ritratto idealizzato di sé che Foscolo introduce nei Sepolcri (vv. 145150) è forse debitore dei versi della Caduta: «A noi / morte apparecchi riposato albergo [prepari un tranquillo approdo] / ove una volta la fortuna cessi / dalle vendette, e l’amistà [l’amicizia] raccolga / non di tesori eredità, ma caldi sensi e di liberal [ispiratrice di libertà] carme l’esempio»: un Foscolo “pariniano”, dunque, che immagina sé stesso come autore di una poesia libera, non asservita ai potenti, che certo, come già è avvenuto a Parini, non gli consentirà di accumulare ricchezze. La lezione pariniana nel giovane Manzoni Quando Manzoni, appena ventenne, compone (1805-1806) il Carme in morte di Carlo Imbonati rende insieme omaggio a due uomini che sono idealmente importanti nella sua vita: Carlo Imbonati, il compagno di Giulia Beccaria, sua madre, morto nel marzo 1805 a Parigi, e il maestro di lui ragazzo Giuseppe Parini. Nelle parole del carme attribuite (nella finzione poetica) a Carlo Imbonati, che delineano il programma insieme etico e poetico di Manzoni, si avverte chiarissima l’eco dei versi pariniani dell’ode Alla Musa: «Sentir [..] e meditar: di poco / esser contento: da la meta mai / non torcer gli occhi, conservar la mano / pura e la mente: de le umane cose / tanto sperimentar, quanto ti basti / per non curarle: non ti far mai servo: / non far tregua
Angelo Monticelli, Bozzetto per il secondo sipario del Teatro alla Scala (su testo ispiratore di Giuseppe Parini), prima metà del XIX secolo (Milano, Teatro alla Scala).
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coi vili; il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida». Leopardi e Parini Anche Leopardi, che pure non considerava l’autore del Giorno un vero grande poeta, è affascinato dalla figura morale di Parini e sotto l’influsso del ritratto foscoliano nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (lettera del 4 dicembre) presenta il poeta milanese in una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria (1824), come intellettuale di incorrotta moralità che avverte un giovane «d’indole e di ardore incredibile ai buoni studi» del prezzo enorme che si deve pagare per conseguire la gloria delle lettere. Echi pariniani serpeggiano anche negli autoritratti leopardiani della Ginestra, testamento ideale del poeta di Recanati, anche se il tema della dignità personale del poeta si lega poi alla particolare ideologia leopardiana. Il Parini di De Sanctis Foscolo, Leopardi e anche Manzoni, dunque, concordano nel riconoscere il valore morale della lezione di intellettuale e di poeta di Parini: una visione poi sintetizzata e consacrata dal padre della critica letteraria italiana ottocentesca, Francesco De Sanctis, che nei Saggi critici scrive: «Rinasce l’uomo. Parini è il primo poeta della nuova letteratura, che sia un uomo, cioè che abbia dentro di sé un contenuto vivace e appassionato, religioso, politico e morale». Per De Sanctis la stessa ironia, operante nel Giorno, è l’espressione della rinascita del senso morale, che il grande critico di età romantica considerava necessaria premessa alla rinascita politica dell’Italia. Peraltro De Sanctis considerava l’uomo Parini superiore al Parini poeta, ancora legato all’imitazione dei classici e sospeso (a differenza dell’uomo Parini) tra vecchio e nuovo.
Fissare i concetti Giuseppe Parini La biografia 1. In che modo Parini inizia la sua vicenda letteraria? 2. Con quale ambiente Parini entra in contatto a Milano? 3. Quali incarichi gli vengono affidati? 4. Perché Parini può essere definito un «illuminista moderato»? 5. Qual è, secondo Parini, il ruolo dell’intellettuale? E il compito della poesia? Le Odi 6. Quali sono i temi trattati nelle Odi della prima fase? 7. Quali sono le caratteristiche delle Odi della seconda fase? 8. In che senso si può dire che ci sia una svolta stilistica fra le Odi della prima fase e quelle della seconda fase? Il giorno 9. Quale struttura presenta l’opera? 10. A che cosa si deve il titolo? 11. Con quale scopo Parini scrive Il giorno? In realtà qual è il vero intento? 12. Quali spazi vengono privilegiati nel poemetto? Per quale motivo? 13. Per quale motivo non ci sono riferimenti al divenire del tempo storico? 14. Quali antitesi caratterizzano la vita della nobiltà? 15. Quali scelte stilistiche compie Parini nel Giorno? Che cosa testimoniano?
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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Giuseppe Parini
Le letture alla moda Il meriggio, vv. 970-990 Nella conversazione che segue il pranzo, per apparire ancora più affascinante alla sua dama, il «giovin signore» dovrà dimostrare di conoscere i libri alla moda, cioè gli scritti dei philosophes, ma dovrà essere capace di selezionare il buono e l’utile in quei libri famosi da ciò che non può che essere malefico e dannoso.
Ma guardati o signor guardati oh Dio dal tossico1 mortal che fuora esala da i volumi famosi2: e occulto poi sa per le luci penetrato all’alma gir serpendo ne’ cori3; e con fallace 975 lusinghevole stil corromper tenta il generoso de le stirpi orgoglio, che ti scevra dal vulgo4. Udrai da quelli che ciascun de’mortali all’altro è pari; e caro a la natura e caro al cielo 980 è non manco5 di te colui che regge i tuoi destrieri e quel ch’ara i tuoi campi; e che la tua pietade o il tuo rispetto devrien fino a costor scender vilmente6. Folli sogni d’infermo! Intatti lascia 985 così strani consigli7: e solo attigni8 ciò che la dolce voluttà9 rinfranca, ciò che scioglie i desiri e ciò che nudre la libertà magnanima10. Tu questo reca solo a la mensa; e sol da questo 990 plauso cerca ed onor11. [...] 970
1 tossico: veleno mortale. 2 i volumi famosi: i testi degli enciclopedisti e dei filosofi francesi, assai conosciuti anche in Italia. 3 sa... ne’ cori: costruisci così: sa, dopo essere penetrato nell’anima attraverso gli occhi (luci), insinuarsi (gir serpendo) nei cuori. 4 il generoso... dal vulgo: il magnanimo orgoglio delle tue illu-
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stri origini (stirpi) che ti distingue (scevra) dal volgo. 5 non manco: non meno. 6 devrien... vilmente: dovrebbero abbassarsi (scender vilmente) fino a costoro. 7 Intatti... consigli: non toccare nemmeno consigli così assurdi. 8 attigni: attingi. 9 la dolce voluttà: il piacere.
10 ciò che... magnanima: ciò che lascia corso ai desideri e nutre la licenza propria degli spiriti nobili (libertà magnanima). 11 Tu questo... onor: porta con te quando vai a pranzo solo il secondo tipo di consigli e ricerca consensi e lodi solo da questi.
Comprensione e analisi
Interpretare
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il tema generale di questi versi (max 5 righe). 3. A chi sono rivolti questi consigli? Chi li pronuncia? 4. Quali sono gli insegnamenti che la voce narrante giudica negativi? 5. Quali, invece, invita a seguire? 6. Indica lo schema metrico. 7. Attraverso quali espressioni nei versi 970-975 il narratore rappresenta il potere subdolo e corruttore dei «volumi famosi»? 8. Con quale figura retorica l’autore indica la pericolosità di alcune dottrine filosofiche? Identificala e commentala. Il testo proposto costituisce un esempio particolarmente evidente del procedimento ironico che caratterizza Il giorno: ricorderai che nell’opera il narratore finge di raccomandare ciò che in realtà condanna. Come si realizza in questi versi il procedimento ironico? Che cosa pensa il narratore e che cosa invece pensa l’autore? Commenta il passo facendo più ampi riferimenti al procedimento antifrastico (ironico) nel Giorno. Esemplifica le tue osservazioni con riferimento ai testi letti e, più in generale, al rapporto tra Parini e l’Illuminismo. Per quanto riguarda il tema del piacere e il successo della letteratura libertina a cui Parini qui allude, puoi far riferimento anche al C12.
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Seicento Giuseppe Parini
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Una vita tutta milanese Giuseppe Parini nasce nel 1729 da una famiglia brianzola di modeste condizioni. Trasferitosi a Milano, nel 1754 diventa sacerdote e inizia anche l’attività di precettore privato. Già nel 1752, però, pubblica Alcune poesie di Ripano Eupilino, che suscitano un certo interesse letterario e gli aprono le porte dell’Accademia dei Trasformati. Nel fervente clima culturale milanese, Parini partecipa alle discussioni accademiche e scrive le prime odi civili contro intolleranza religiosa e guerra. Nel 1763 inizia a comporre Il giorno, un poemetto satirico che pubblicherà anonimamente nel 1763 e 1765. Gli scritti attirano l’attenzione dell’amministrazione austriaca, portando a Parini incarichi importanti: dal 1768 egli diventa, infatti, redattore della “Gazzetta di Milano” e poeta del Teatro Ducale; nel 1769, inoltre, gli viene assegnata la cattedra di Belle Lettere nelle Scuole Palatine; qui e all’Accademia di Belle Arti il poeta entra in contatto con il Neoclassicismo, che influenza la sua produzione tarda. Alla morte dell’imperatrice Maria Teresa, Parini vive con disagio il corso politico del successore Giuseppe II e riduce l’attività di intellettuale militante. Nel 1789 osserva con favore la Rivoluzione francese, ma successivamente se ne distanzia per gli eccessi del Terrore. Con l’arrivo dei francesi a Milano, nel 1796, Parini partecipa brevemente alla Municipalità nel settore dell’istruzione e nel 1799, quando gli austriaci tornano a Milano, nonostante ciò, viene risparmiato dalle persecuzioni che seguono, forse per la notorietà. Muore nel 1799 a Milano, circondato da un’indifferenza che tanto sdegno provocherà nei posteri, tra i quali Foscolo.
L’ideologia: un illuminista moderato La formazione culturale di Parini, radicata nella tradizione classica, si arricchisce dell’interesse per la cultura europea del tempo. Egli assimila le idee illuministe, ma si distanzia da materialismo e ateismo, in quanto convinto della funzione positiva della religione. L’autore è un moderato: pur favorevole a un maggior egualitarismo nella società, non teorizza l’abolizione delle classi sociali; tuttavia critica l’arroganza nobiliare, la vita dissipata e il cicisbeismo. La sua satira educativa, come quella del Giorno, mira a riformare la nobiltà cercando di orientarla al bene comune. Anche in campo economico Parini assume una posizione moderata: condanna sia un’economia centrata sui consumi delle classi dominanti sia l’esaltazione del commercio e dell’industria, e condivide invece le tesi della fisiocrazia. Queste idee lo allontanano dal gruppo che ruota intorno al giornale «Il caffè», con i quali pur condivide il ruolo centrale dell’intellettuale nella società in cambiamento. La divergenza di opinioni diviene massima, però, quando si parla di poesia: Parini crede nella necessità di coniugare tradizione classica e modernità, affidando alla poesia il compito di comunicare le novità sociali e ideologiche. La sfida di Parini: una poesia “alta” per la modernità Già a trent’anni, Parini sviluppa una riflessione sulla letteratura espressa nel Discorso sopra la poesia (1761): i princìpi in esso contenuti saranno poi approfonditi tra il 1773 e il 1775, e pubblicati
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postumi come De’ principi fondamentali e generali delle belle lettere applicati alle belle arti. Nella sua poetica è centrale l’idea, oraziana e poi illuministica, che la letteratura debba trattare temi attuali utilizzando una poesia formalmente curata, impostata su modelli classici (spesso, poi, interpretati come neoclassici). A ciò si associa l’adesione ai princìpi dell’estetica sensistica: la poesia deve stimolare la sfera sensoriale e provocare emozioni simili a quelle rappresentate. Per Parini, inoltre, è essenziale realizzare un’arte che abbia un’utilità sociale e che inducaa far amare la virtù e odiare il vizio.
2 Il libro delle Odi
Un genere poetico antico per una poesia moderna Le 25 Odi, composte negli anni 17571795 in due fasi principali, rappresentano l’opera più conosciuta di Parini insieme a Il giorno. Forma letteraria di tradizione classica, l’ode permette al poeta di trattare, come nell’antichità, temi alti e attuali, associati a una forma particolarmente curata. La prima fase: la poesia al servizio dell’impegno civile In una prima fase (1757-1766), Parini dà voce ai grandi temi sociali e culturali del dibattito illuminista: dall’educazione e dalla sua capacità di cambiare la società (L’educazione) alla salute pubblica coniugata con progresso e civismo (La salubrità dell’aria; L’innesto del vaiolo), alla giustizia umanitaria e filantropica (Il bisogno) e alla dignità umana sacrificata al profitto (La musica). Le odi della seconda fase A una seconda fase appartengono le odi composte a partire dal 1786 (in questo anno esce La tempesta), quando la politica autoritaria dell’imperatore Giuseppe II, assai differente da quella della madre Maria Teresa, delude gli intellettuali e spinge Parini a ripiegare verso la trattazione della dimensione privata e interiore, mai disgiunta da una profonda tensione morale e civile (La caduta; Alla Musa). A questa fase appartengono anche le cosiddette “odi galanti”, incentrate sulla contemplazione della bellezza femminile (Il pericolo; Il dono; Il Messaggio). Lo stile delle Odi: tra sensismo e (neo)classicismo Nelle odi pariniane di impegno civile, il sensismo spinge all’utilizzo di un lessico concreto, preciso e realistico, associato comunque a elementi aulici (connaturati all’opera dell’autore) come personificazioni, perifrasi e similitudini. La struttura sintattica complessa, con frequenti inversioni e dislocazioni, conferisce un tono latineggiante all’insieme. Nelle ultime odi, il lessico realistico cede il passo a un classicismo più raffinato, con un linguaggio colto e una metrica fluida. La ricercatezza formale e l’onnipresente “codice” classico nobilitano il dato autobiografico. Proprio questi lavori tardi, spesso associati dalla critica al Neoclassicismo, offrono un modello per le generazioni successive, influenzando anche le opere di poeti come Ugo Foscolo.
3 Il giorno
Un poemetto satirico Il giorno, il capolavoro di Parini, è un poemetto in endecasillabi sciolti che, sotto una veste didascalica, nasconde un intento satirico verso la vita frivola dell’aristocrazia. Il lavoro è diviso in quattro parti: le prime due (Il mattino e Il mezzogiorno) vengono pubblicate nel 1763 e nel 1765, e sono quindi uno dei risultati della fase impegnata della produzione pariniana; le altre (Il vespro e La notte) sono rimaste incompiute. L’articolazione dei contenuti L’opera racconta un giorno-tipo, diviso in più momenti Sintesi Settecento
439
(mattino, meriggio, vespro e notte), di un esponente della nobiltà lombarda, guidato dal suo precettore in ognuna delle numerose occasioni sociali che deve affrontare. Le modalità narrative Come già detto, il lavoro pariniano vede il narratore presentarsi come maestro, «precettore d’amabil rito, di un giovin signore»; dunque una figura didascalica, incaricata di insegnare una corretta condotta sociale, il cui intento è, però, presto sovvertito dall’ironia corrosiva di Parini. Il giovane signore diventa un emblema dell’aristocrazia oziosa, lussuosa e indifferente ai bisogni della società; l’ironia serve a mettere in luce i vizi e i difetti di questo ceto, creando un contrasto tra l’apparenza epica e magniloquente delle occupazioni del giovane e la loro reale banalità. Il narratore, a volte sarcastico a volte indignato, coinvolge il lettore, chiedendogli di aderire alla prospettiva ironica. Sia il protagonista sia la dama e gli altri personaggi non hanno nomi, una precisa psicologia e nemmeno un’identità: rappresentano figure completamente assorbite nei ruoli sociali che recitano. La nobiltà è ritratta in modo impietoso: dedita ai piaceri, vittima di stravaganti manie che occupano giornate scandite da gesti stereotipati e rituali sociali; una parte della società impegnata solo in apparenza, in realtà preda di un’insuperabile noia. Nell’opera prevalgono gli spazi chiusi, evidentemente associati a un significato simbolico: essi sono il simbolo della “chiusura” del mondo nobiliare di fronte alla vita reale. Anche il modello temporale che domina nel poemetto è certamente peculiare: Parini decide di eliminare qualsiasi riferimento al divenire del tempo storico, così come qualsiasi rimando a eventi politico-sociali; il contesto è fuori dalla storia esattamente come lo sono gli aristocratici. I protagonisti, dunque, vivono in una realtà atemporale, oltretutto caratterizzata anche dall’assenza di azione e dall’inversione dei comuni indicatori cronologici (ad esempio quello tra notte e giorno): un mondo, insomma, anche innaturale, come innaturale è la vita dei nobili. Le caratteristiche stilistiche e metriche Nel Giorno prevale il registro ironico, che si serve di espressioni amplificatorie ed elogiative, tipiche del codice epico, per nobilitare il banale. Una tale “eroicizzazione” parodica si realizza grazie a una sintassi latineggiante, un lessico aulico, l’alta frequenza di iperboli e similitudini di origine mitica e ampie perifrasi, inserite sempre all’interno di un endecasillabo sciolto ricco di enjambement con uno stile elaborato e insieme nitido, costante nella poesia di Parini.
4 La figura morale di Parini: un mito per le generazioni future
In più opere e per tutta la vita, Parini dipinge un autoritratto idealizzato in senso etico e morale. Egli esprime il proprio distacco dai valori materiali e l’aspirazione a una vita onorevole e libera dalla corruzione. Questa rappresentazione di Parini come poeta integro e moralmente saldo diventa un “mito” associato al suo nome, adottato dalle generazioni successive di scrittori come Foscolo e Manzoni, contribuendo così a plasmare il suo lascito nella letteratura italiana. Foscolo, ad esempio, non considera Parini un grande poeta, ritenendolo troppo pedante e libresco; ma è significativamente affascinato dall’uomo Parini, tanto da farne un personaggio del proprio romanzo epistolare autobiografico Ultime lettere di Jacopo Ortis e un punto di riferimento morale, ricordato anche nel carme Dei Sepolcri. Anche Manzoni, nel Carme in morte di Carlo Imbonati, rende omaggio al poeta brianzolo, che in giovinezza fu precettore del dedicatario dell’opera. La statura morale pariniana affascina, poi, Giacomo Leopardi, che lo presenta in una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria (1824), come intellettuale di incorrotta
440 Settecento 9 Giusepp Parini
moralità; ma echi pariniani serpeggiano anche negli autoritratti leopardiani della Ginestra, testamento ideale del poeta di Recanati. Il valore morale della lezione del Parini è sintetizzata e consacrata dal critico letterario Francesco De Sanctis, che vi vede non tanto un grande poeta quanto il punto d’inizio della rinascita del senso morale della classe intellettuale italiana, necessaria premessa alla rinascita politica del paese.
Zona Competenze Scrittura
1. Presenta in un testo scritto (max 15 righe) la struttura e le modalità narrative adottate da Parini per il poemetto Il giorno, evidenziando in particolare la loro funzionalità rispetto agli intenti perseguiti dall’autore.
Competenza digitale
2. Polemica civile e polemica sociale in Parini: prepara un PowerPoint da presentare alla classa sulla compresenza di questi due aspetti, facendo riferimento ai testi letti ed esaminati. 3. Realizza una mappa interattiva che metta in relazione gli avvenimenti storici, che fanno da sfondo alla vita e all’opera di Parini, con la sua produzione letteraria.
Scrittura creativa
4. Immagina di essere un cronista dell’epoca e di dover intervistare Giuseppe Parini su un problema ambientale che riguarda le condizioni igienico-sanitarie di Milano. Prendendo spunto dall’ode La salubrità dell’aria e dalla scheda I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento (➜ PER APPROFONDIRE, PAG. 398), predisponi una lista di domande da sottoporre al poeta. 5. Costruisci un dialogo in prosa in cui si confrontino due intellettuali di oggi che possano in qualche modo incarnare le due tipologie proposte nella Caduta di Parini, adattando il contenuto dell’ode pariniana a una situazione moderna. 6. Presenta in chiave moderna una tua personale riscrittura dell’episodio della «vergine cuccia» (➜ T9 ), inserendola in un contesto narrativo contemporaneo.
Sintesi Settecento
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SettecentoQuattrocento e Cinquecento CAPITOLO
10 Carlo Goldoni LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Goldoni visto da sé medesimo... Nell’esistenza di Goldoni i fili conduttori e le costanti sono da un lato la passione per il teatro e dall’altro la centralità di Venezia, la città dove egli nacque e operò e a cui il suo immaginario artistico risulta indissolubilmente legato. Lo evidenzia questo breve passo dei suoi Mémoires (I, xxxv): lo scrittore, ormai anziano, rivive le emozioni che aveva provato cinquant’anni prima rivedendo, dopo una lunga assenza, la sua città. Anche nel ritratto di Venezia Goldoni privilegia la componente della vitalità, dell’allegria.
[...] feci il giro del ponte di Rialto e della piazza di San Marco e mi godetti l’incantevole spettacolo di questa città anche più mirabile di notte che di giorno. Ancora non avevo visto Parigi, ma avevo visto parecchie città dove la sera si passeggia al buio. Mi parve che i lampioni di Venezia formassero una decorazione utile e gradevole, tanto più che non sono a carico dei privati, perché un’estrazione supplementare della lotteria è destinata ogni anno a coprirne le spese. Oltre codesta illuminazione generale, c’è quella delle botteghe che in ogni stagione sono aperte fino alle dieci di sera, e una gran parte non chiudono che a mezzanotte e altre parecchie non chiudono affatto. A Venezia si trovano, a mezzanotte come in pieno giorno, commestibili esposti, tutte le osterie aperte, e cene pronte negli alberghi e nelle trattorie; i pranzi e le cene di società non sono frequenti a Venezia, ma gli spuntini e le allegre riunioni raccolgono la gente con maggior libertà e allegria. D’estate, piazza San Marco e i dintorni sono frequentati di notte come di giorno. I caffè sono pieni di bella gente, uomini e donne di ogni specie. Cantano sulle piazze, per le strade e nei canali. I venditori cantano smerciando la loro mercanzia, cantano gli operai lasciando il lavoro, i gondolieri cantano aspettando i padroni. Il carattere fondamentale di quella nazione è l’allegria, quello della lingua veneziana è la scherzosità. C. Goldoni, Memorie, trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1985
442
Le commedie di Carlo Goldoni sono ancora oggi rappresentate con grande successo, a riprova dell’attualità del suo messaggio e dell’efficacia delle sue soluzioni teatrali, che non indulgono mai a una comicità facile e grossolana. In linea con i princìpi dell’Illuminismo, il commediografo crede in un teatro che si proponga fini educativi ispirati a un’innata fiducia nella razionalità come guida dei comportamenti umani e alla critica verso ogni forma di autoritarismo classista e generazionale. Goldoni abbandona gradualmente gli stereotipi della commedia dell’arte e le maschere, conferendo al teatro comico dignità letteraria e realismo, attraverso la creazione di personaggi veri e unici per carattere e psicologia, che portano sulla scena situazioni dell’attualità quotidiana fino a quel momento mai rappresentate a teatro. Punto di riferimento fondamentale nel mondo poetico e artistico di Goldoni è Venezia, l’amata città natale, i cui ambienti, costumi di vita, categorie sociali, tipi umani, egli traspone realisticamente sulla scena.
1 Ritratto d’autore 2 I Mémoires riforma del teatro 3 Lacomico l’ideologia, 4 Ilatemi, lingua 5 La locandiera 443 443
1
Ritratto d’autore 1 Una vita per il teatro
VIDEOLEZIONE
Un’esistenza ricca di multiformi esperienze Quella di Carlo Goldoni fu un’esistenza assai lunga, soprattutto per i tempi (visse ben 86 anni), e ricca di esperienze eterogenee: una vita trascorsa a contatto di ambienti sociali e professionali diversi (il mondo dell’avvocatura da un lato, quello del teatro dall’altro), intersecata da viaggi, roventi polemiche letterarie, clamorosi successi, ma anche cocenti delusioni, contrassegnata da vari amori, dal gusto per i piaceri della tavola e dalla passione per il gioco, che spesso mise Goldoni in difficoltà per i debiti contratti. Esperienze personali tanto varie hanno sicuramente alimentato la creatività del commediografo, espressa in una produzione teatrale davvero imponente (più di cento commedie). Un adolescente inquieto Carlo Goldoni nasce a Venezia il 25 febbraio 1707. Seguendo il padre, che era medico, nei suoi spostamenti in varie città, frequenta a Perugia corsi di grammatica e di retorica presso il collegio dei gesuiti; quindi a Rimini studia filosofia presso i domenicani. Mentre le lezioni di filosofia risultano per lui noiose, Carlo «nutriva il suo spirito» (secondo quanto ricorderà nella sua autobiografia, i Mémoires) con le piacevoli letture dei grandi commediografi antichi Plauto, Terenzio e Aristofane e frequentava il teatro locale. A questo periodo risale il celebre episodio della fuga da Rimini a Chioggia, per riabbracciare la madre, trasferitasi là per motivi Anonimo, Carlo Goldoni, XIX secolo (Collezione privata).
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva
1710
1707
Nasce a Venezia.
1720
1715-1731
Studia a Perugia, a Rimini, a Pavia; si laurea in giurisprudenza a Padova; diventa coadiutore del tribunale a Chioggia e a Feltre.
444 Settecento 10 Carlo Goldoni
1754 Nasce Luigi XVI, dal 1774 re di Francia.
1730
1734-1738
Si sposa; inizia a collaborare con la compagnia Imer; al Teatro San Samuele mette in scena Momolo cortesan, la prima commedia con la parte del protagonista scritta, prima tappa della “riforma”.
1740
1742
Compone La donna di garbo, prima commedia interamente scritta.
1745-1748
Esercita l’avvocatura a Pisa, ma continua a scrivere.
1750
1748-1753
Abbandona l’avvocatura e torna a Venezia dove lavora al Teatro Sant’Angelo per l’impresario Medebach. Nella stagione 1750-51 produce sedici commedie. 1752
Scrive La locandiera.
di salute: venuto a sapere che una compagnia di commedianti stava per salpare per Chioggia, abbandona senza esitazione le lezioni di filosofia e s’imbarca con i comici (➜ D1 ). Studente e avvocato Nel 1723 Goldoni entra nell’illustre collegio Ghislieri di Pavia come studente di legge; dopo tre anni ne viene però espulso per aver composto una feroce satira contro le ragazze della città (il testo della satira, intitolata Il Colosso, è andato perduto). Riprende allora a seguire il padre nei suoi spostamenti continuando gli studi di diritto, senza rinunciare però a divertimenti e avventure galanti, spesso burrascose. E inizia a scrivere testi teatrali. Nel 1731 Carlo si laurea finalmente in giurisprudenza a Padova e, tornato a Venezia, esercita la professione di avvocato. Intanto si manifesta sempre più la sua vocazione teatrale (che, nei Mémoires, Goldoni fa addirittura risalire all’età di nove anni, quando avrebbe composto la sua prima pièce), ma l’attività drammaturgica rimane a lungo saltuaria, subordinata all’attività professionale intrapresa. Il matrimonio, le prime commedie Nel 1734 Goldoni incontra a Verona il capocomico Giuseppe Imer, che lo ingaggia per scrivere testi per il Teatro San Samuele a Venezia. Inizia così ufficialmente la sua carriera nel mondo del teatro. Nella tournée di primavera con la compagnia Imer, conosce a Genova Nicoletta Connio che, due anni dopo, sarebbe diventata sua moglie: fu un matrimonio solido, durato ben cinquantasette anni e vissuto come approdo sicuro da un uomo fino a quel momento sentimentalmente instabile e particolarmente sensibile al fascino femminile. Nel 1738, al Teatro San Samuele, la compagnia Imer rappresenta la prima commedia di Goldoni: Momolo cortesan, un copione “a soggetto” (cioè affidato all’improvvisazione degli abili professionisti quali erano gli attori della commedia dell’arte). La parte del protagonista (studiata appositamente per Francesco Golinetti, il Pantalone della compagnia) era però integralmente scritta. Qualche anno dopo, con La donna di garbo (1743), Goldoni produce la sua prima commedia integralmente scritta. Seguirono alcuni anni in cui Goldoni alterna agli impegni legati alla professione di avvocato i contatti con il mondo del teatro, scrivendo testi per i più famosi attori del tempo: per il Pantalone Cesare D’Arbes I due gemelli veneziani, mentre per il 1764-1766
a Milano è pubblicata la rivista «Il Caffè».
1765
1783 Fine della guerra di indipendenza americana.
Parini pubblica Il mezzogiorno.
1760
1787-1789 A Parigi sono stampate le tragedie di Alfieri. 1789 Inizia la rivoluzione francese.
1770
1780
1790
1793 Esecuzione capitale di Luigi XVI.
1800
1771
Scrive in francese Le bourrou bienfaisant. 1759-62
Produce i capolavori della maturità.
1753-1762
Lavora per il Teatro San Luca con la parentesi di un anno romano.
1765
Insegna italiano alla corte di Versailles.
1784-1787
Scrive i Mémoires.
1788
Avvio presso l’editore Zatta di Venezia della pubblicazione completa delle opere teatrali che si concluderà nel 1795.
1793
Goldoni muore a Parigi.
1762
Abbandona l’Italia per trasferirsi a Parigi a dirigere la Comédie-Italienne.
Ritratto d’autore 1 445
più famoso Arlecchino dell’epoca, Antonio Sacchi, Il servitore di due padroni, rappresentato al San Samuele nel 1745 (allora gli attori più noti erano identificati dal pubblico e dagli impresari nella maschera che li aveva resi celebri). Proprio D’Arbes gli presenta il capocomico Girolamo Medebach che lo ingaggia come scrittore stabile del Teatro Sant’Angelo con un contratto quadriennale. L’addio all’avvocatura. Goldoni commediografo nella sua Venezia Nel 1748, ormai quarantenne, Goldoni lascia definitivamente la professione legale e decide di seguire unicamente la vocazione teatrale, radicandosi nella sua Venezia. Qui Goldoni rimarrà per quattordici anni, i più intensi della sua attività artistica: i primi cinque al Sant’Angelo con la compagnia Medebach, gli altri nove al San Luca. Tra il 1748 e il 1753 Goldoni scrive una serie di commedie in cui, distaccandosi dai modelli della commedia dell’arte, incomincia ad attuare i princìpi della cosiddetta riforma del teatro (➜ PAG. 453) e si afferma come commediografo di successo. Contemporaneamente, però, la novità del suo teatro suscita non poche polemiche: particolarmente accesa è l’ostilità dell’abate Pietro Chiari, subentrato a Goldoni come autore del Teatro San Samuele e sostenuto dagli appassionati della commedia dell’arte. Goldoni risponde lanciando una singolare sfida a sé stesso e al pubblico: avrebbe composto ben sedici commedie nuove per la stagione successiva. Con uno straordinario impegno di lavoro, Goldoni mantiene la promessa e fa rappresentare tutte le commedie, tra le quali Il teatro comico, manifesto di poetica teatrale, e La bottega del caffè. La collaborazione con Medebach continua con altre commedie come La serva amorosa, in cui si rivela il talento dell’attrice Maddalena Marliani, per la quale Goldoni scrive nel 1752 la sua commedia forse più celebre, La locandiera (➜ PAG. 476). Alla fatica delle sedici commedie seguono momenti di stanchezza psicofisica e anche conflitti dovuti a questioni economiche: in seguito a questi, Goldoni rompe col Medebach e nel 1753 assume un nuovo impegno con il Teatro San Luca, di proprietà del nobile Antonio Vendramin. Incomincia un altro periodo travagliato e difficile. L’attività teatrale stessa assume direzioni diverse e meno innovative, optando per soluzioni di gradimento più immediato da parte del pubblico. All’interno di una produzione nel complesso minore spicca il celebre Il campiello, rappresentato nel carnevale del 1756. Goldoni è ormai una celebrità e della sua riforma si parla anche al di fuori di Venezia: tra il 1758 e il 1759 è invitato a Roma dal cardinale Carlo Rezzonico, ma non si può dire che dall’esperienza romana egli abbia ricavato grandi soddisfazioni. Tornato a Venezia, nella stagione 1759-60 Goldoni raggiunge alcuni dei suoi massimi risultati artistici con Gl’innamorati (in lingua) e con I rusteghi (in dialetto).
Festa del giovedì grasso in piazza San Marco a Venezia in un dipinto di Gabriele Bella (Venezia, Pinacoteca Querini Stampalia).
446 Settecento 10 Carlo Goldoni
Illusioni e delusioni: le ultime commedie e il periodo parigino Mentre si infittivano le polemiche e gli attacchi soprattutto da parte del commediografo rivale Carlo Gozzi, nell’estate del 1761 Goldoni fu invitato a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie-Italienne con un impegno biennale. Il commediografo concluse allora l’attività veneziana nella stagione 1761-62 con la Trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura); nei giorni conclusivi del carnevale fece rappresentare Sior Tòdero brontolon, Le baruffe chiozzotte e infine Una delle ultime sere di carnovale, che suggeriva una trasparente allusione alla sua imminente partenza. Il caloroso applauso del pubblico fu accompagnato dall’acclamazione «Buon viaggio! Tornate presto», che Goldoni conservò nella memoria e nel cuore per annotarla nelle sue Memorie. Quando, nell’agosto del 1762, Goldoni giunse nella capitale francese con la moglie e il nipote Antonio, era un autore di teatro affermato e coltivava ancora grandi progetti. Fu accolto a corte e incontrò gli illuministi più illustri, Diderot, Voltaire, Rousseau, ma il contratto con la Comédie-Italienne, che nel frattempo si era unita all’Opéra-Comique, gli impose un lavoro deludente, quello di elaborare canovacci e scenari nelle forme tipiche della commedia dell’arte che aveva abbandonato da anni. Nonostante ciò, riuscì a comporre ancora opere significative come Il ventaglio (1765) e si confrontò direttamente con Molière con Le bourru bienfaisant [Il burbero benefico], composto in occasione del matrimonio tra il Delfino di Francia e Maria Antonietta: la prima rappresentazione nel novembre del 1771 alla ComédieFrançaise fu un trionfo. Nel 1775 Goldoni fu nominato maestro di lingua italiana per le sorelle di Luigi XVI alla corte di Versailles, dove rimase per quattro anni. Ottenuta dal re una pensione, ritornò a Parigi, dove certo il clima culturale era per lui più congeniale: frequentava i salotti intellettuali e partecipava alla vita civilissima della città prima della rivoluzione. Nel 1784 incominciò a scrivere i Mémoires, che pubblicò nel 1787. Nel 1792, ormai scoppiata la rivoluzione, il commediografo, anziano e malato, si vide revocare dall’Assemblea costituente la pensione di corte e si ridusse addirittura in povertà. La delibera che gli avrebbe restituito la pensione arrivò il giorno dopo la sua morte: assistito dalla fedele compagna della sua vita, si spense il 6 febbraio 1793.
Una scena dell’allestimento del 2007 della Trilogia della villeggiatura con l’attore e regista dello spettacolo Toni Servillo (fotografia di Fabio Esposito).
Ritratto d’autore 1 447
PER APPROFONDIRE
Venezia nel Settecento: la capitale dell’editoria e dello spettacolo Nel Settecento la Repubblica di Venezia manifestava segni evidenti di una crisi economica, da quando le grandi rotte commerciali dell’Atlantico avevano ridotto i vantaggi dei rapporti commerciali privilegiati della città con l’Oriente; per di più lo spirito conservatore che caratterizzava l’oligarchia al potere tendeva a isolare la Repubblica, anche a scapito degli interessi e dei traffici commerciali. Ma al conservatorismo politico non corrispondeva un’analoga situazione di stallo sul piano culturale, e per un insieme di ragioni. Innanzitutto la presenza sempre numerosa nella città di visitatori stranieri conferiva a Venezia un volto cosmopolita. Inoltre la città continuava a essere il più attivo centro editoriale italiano e il mercato librario vi si mantenne sempre molto vivace: l’editoria veneziana smerciava la sua produzione in Italia e all’estero, importava libri stranieri, stampava le traduzioni dei libri del pensiero illuminista e le faceva circolare. Infine, numerose riviste e gazzette diffondevano e alimentavano i dibattiti culturali. Nei confronti dell’illuminismo gli intellettuali veneziani manifestarono curiosità e interesse, anche se furono poi refrattari ad assimilarne la carica innovativa. Soprattutto però Venezia continuò a rappresentare per tutta Europa la città dello spettacolo, patria del carnevale e del divertimento, animata dalle feste che si svolgevano nei suoi campi (cioè piazze), nelle sue calli, nei palazzi aristocratici e dagli spettacoli teatrali. La concentrazione di teatri in una città di proporzioni tutto sommato modeste era straordinaria. Venezia contava ben sette
teatri principali, tutti nel tratto finale del Canal Grande: San Giovanni Grisostomo, San Benedetto, San Samuele, San Luca, Sant’Angelo, San Cassiano, San Moisè, così denominati dal nome del santo titolare della rispettiva parrocchia di appartenenza e specializzati in uno specifico repertorio: due per l’opera seria, due per l’opera buffa e tre per le commedie. Goldoni si troverà a lavorare con tutti e tre (prima al San Samuele, poi al Sant’Angelo e infine al San Luca). Molti teatri erano di proprietà di famiglie aristocratiche, ma con il tempo ai nobili proprietari si affiancò la categoria degli affittuari, borghesi danarosi che affittavano le sale per un certo periodo, creando una notevole mobilità: tanti teatri aprivano e chiudevano a ritmo incessante per motivi esclusivamente imprenditoriali. Gli impresari assunsero un ruolo sempre più importante: orientavano le scelte dei proprietari, esercitavano un’influenza sensibile sulla produzione degli autori e sull’attività delle compagnie di attori. Il pubblico era alquanto eterogeneo: nobili, borghesi e popolani di Venezia, ma anche viaggiatori italiani e stranieri. Dalle cronache veneziane dell’epoca risulta che il rito collettivo dell’andare a teatro esercitava sui veneziani una forte attrattiva, anche superiore all’interesse per la rappresentazione. A quei tempi non c’era il rispetto per lo spettacolo che per noi moderni è scontato: nei palchi ci si ritrovava tra amici, si chiacchierava anche rumorosamente, si mangiava, si amoreggiava, si giocava d’azzardo, attività consentite dalla consuetudine di tenere accese le luci nel corso dello spettacolo.
Il Teatro San Samuele a Venezia, in un dipinto di Gabriel Bella.
448 Settecento 10 Carlo Goldoni
2 I Mémoires 1 Goldoni racconta Goldoni
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Per approfondire Il modello narrativo dei Mémoires: tra autobiografia, romanzo e teatro
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Per approfondire Autobiografia in scena: Goldoni rappresenta Goldoni
Il racconto di una lunga vita A quasi ottant’anni Goldoni scrive, in francese, la propria autobiografia, i Mémoires [Memorie], completandola in tre anni (1783-86). I Mémoires si iscrivono nel genere dell’autobiografia, di grande fortuna nel Settecento: tra gli esempi in Italia ricordiamo l’Histoire de ma vie (Storia della mia vita) di Giacomo Casanova (➜ C12), anch’essa scritta in francese, e la Vita di Vittorio Alfieri (➜ C11). Per stendere le sue memorie Goldoni utilizza sia appunti e note personali che aveva preso nel corso della sua vita in occasione di avvenimenti e incontri importanti, sia parti del giornale di viaggio tenuto dal nipote Antonio in occasione del trasferimento da Venezia a Parigi. Attinge inoltre alle prefazioni delle edizioni delle proprie commedie (le cosiddette Memorie italiane), che già contenevano notizie, ricordi e riflessioni autobiografiche. L’opera è divisa dall’autore in tre parti e narra l’intera vita di Goldoni fino al 1786. La prima parte (56 capitoli) rievoca l’infanzia, la giovinezza, l’esperienza di avvocato e la permanenza a Milano; la seconda (46 capitoli) ricostruisce la vita teatrale veneziana, le vicende della riforma e presenta le commedie con il resoconto dei successi delle prime. La terza parte (40 capitoli) è dedicata al periodo francese, alla descrizione degli ambienti culturali e teatrali parigini e della corte di Versailles. L’autobiografia di Goldoni presenta caratteri molto diversi rispetto a quello che, a partire dagli anni Ottanta del Settecento, diventa il modello di autobiografia, ovvero le Confessioni di Rousseau. Al paesaggio della campagna, prevalentemente solitario, che costituisce lo sfondo ideale per l’esplicitarsi della dimensione introspettiva, Goldoni preferisce l’ambientazione rumorosa, affollata, della città, in cui fervono le attività e ci si diverte. Nelle sue pagine non c’è posto per lo scavo interiore, l’analisi dei sentimenti, la dimensione patetico-sentimentale, ma piuttosto per la vivace rievocazione (anche attraverso l’inserimento di dialoghi) dei molti incontri avvenuti in una vita ricca di esperienze. Una rilettura “orientata” degli eventi Come accade anche nella Vita di Alfieri, i Mémoires non sono un fedele resoconto, ma il frutto di una selezione e di una rilettura “orientata” dei dati biografici (lo evidenzia il confronto con le lettere che si riferiscono ai fatti narrati). Innanzitutto Goldoni costruisce un’immagine di sé (come di un temperamento «pacifico» e ottimista) finalizzata a suggerire una coerenza tra l’uomo Goldoni e la visione equilibrata, morale e sostanzialmente serena della vita che traspare dal complesso della sua opera. Lo scrittore evita perciò deliberatamente di rievocare l’amarezza di tante delusioni e di dare spazio alla malinconia dei rimpianti (che pure dovevano essere ben presenti nella sua memoria) e privilegia invece i ricordi felici: racconta i suoi anni giovanili come un succedersi di trasferimenti, viaggi, riunioni di famiglia e separazioni, innamoramenti, intrighi o equivoci, dovuti a debiti di gioco e a spese eccessive, incontri casuali, destinati poi a rivelarsi decisivi, con attori o con autorità cittadine. Ma, quello che è più importante, i dati biografici sono trasfigurati a posteriori da Goldoni in una sorta di “romanzo di formazione” che al centro ha la vocazione teatrale, a cui ogni esperienza risulta subordinata e finalizzata. Nella rievocazione dell’anziano commediografo, I Mémoires 2 449
volta a costruire l’immagine di sé come votato alla causa del teatro, riappaiono in veste di coprotagonisti gli attori, i capocomici, il pubblico, i padroni dei teatri incontrati nella sua lunga vita, rivivono le prove in palcoscenico, le discussioni con gli attori, le prime rappresentazioni delle sue commedie entro un racconto sempre vivo e coinvolgente. La sua carriera di commediografo è presentata nei Mémoires secondo un disegno progressivo che fa della riforma teatrale un percorso sicuro e lineare (mentre di certo non mancarono incertezze e vere e proprie regressioni).
Carlo Goldoni
D1
Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Memorie I, iv-v C. Goldoni, Memorie, trad. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1985
L’episodio qui rievocato è tra i più celebri della vita di Goldoni e appartiene alla prima parte dell’opera, considerata unanimemente quella più riuscita. L’autore rievoca il suo precoce interesse (era appena tredicenne) per il mondo del teatro, che esercita su di lui un’irresistibile attrattiva, soprattutto al confronto con le noiosissime lezioni di filosofia frequentate a Rimini per volontà del padre. Racconta quindi del suo imbarco sulla barca dei comici, in viaggio verso Chioggia, dove può riabbracciare la mamma.
Avevo grandissimo bisogno, per alleviare la noia che mi opprimeva1, di procurarmi qualche gradevole distrazione: ne trovai l’occasione e ne approfittai. Penso che forse non dispiacerà passare con me dai circoli della filosofia a quelli d’una compagnia di comici2. 5 Ce n’era una a Rimini che mi parve deliziosa; era la prima volta che vedevo donne sulla scena, e mi sembrò che la ornassero in maniera più piccante. [...] I primi giorni andai alla commedia modestamente, in platea, ma vedevo giovani come me tra le quinte; cercai di andarci anch’io e non incontrai difficoltà; guardavo con la coda dell’occhio quelle donzelle3, che mi fissavano arditamente. A poco a po10 co mi ammansii4; di discorso in discorso, di domanda in domanda seppero che ero veneziano. Erano tutte mie compaesane, mi fecero infinite carezze e gentilezze [...]. Gli impegni degli attori stavano per scadere, dovevano partire: la loro partenza davvero mi affliggeva. Un venerdì, giorno di riposo per tutta l’Italia, salvo Venezia, facemmo una scampagnata; c’era tutta la compagnia, il direttore annunciò la par15 tenza fra otto giorni; aveva fissata la barca che doveva portarli a Chioggia... – A Chioggia! – dissi, con un grido di meraviglia. – Sissignore; dobbiamo andare a Venezia, ma ci tratterremo quindici o venti giorni a Chioggia per qualche rappresentazione. – Ah, Dio mio! mia madre è a Chioggia, come la rivedrei volentieri. 20 – Venite con noi; sì, sì (tutti si misero a gridare), con noi, con noi, nella nostra barca; vi troverete bene, non spenderete niente; si giuoca, si canta, si ride, ci si diverte ecc. 1 per alleviare... opprimeva: l’autore allude alla noia suscitata in lui dalle lezioni di filosofia scolastica di padre Candini, alle quali egli preferiva «una filosofia più utile e dilettevole», cioè la lettura dei grandi
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commediografi classici (Plauto, Terenzio, Aristofane, Menandro). 2 Penso... comici: Goldoni si rivolge direttamente ai lettori dei suoi Mémoires. 3 quelle donzelle: sono le attrici della
compagnia. 4 mi ammansii: acquistai familiarità con loro.
Come resistere a tante seduzioni? perché perdere così bella occasione? Accetto, mi impegno, faccio i miei preparativi. Comincio col parlarne al mio ospite, che si oppone assai vivacemente; insisto, lui 25 ne informa il conte Rinalducci5; tutti mi sono contrari. Fingo di cedere, sto quieto; il giorno stabilito per la partenza metto due camicie e un berretto da notte in tasca; vado al porto, entro nella barca per primo, mi nascondo ben bene sotto la prua. [...] Arrivano gli attori. «Dov’è il signor Goldoni?». Ecco Goldoni che esce dal suo nascondiglio; tutti si mettono a ridere; mi fanno festa, mi carezzano, si fa vela; addio Rimini. [Sulla barca dei comici la vita è allegra e spensierata...] Dopo la colazione fu proposta una partita, aspettando il pranzo. Giuocavo abbastanza bene a tressette, era il giuoco preferito di mia madre che me l’aveva insegnato. Si stava per cominciare un tressette e un picchetto, ma una tavola di faraone6 impiantata sul ponte attirò tutti; la banca prometteva divertimento piuttosto che interesse7, il direttore non l’avrebbe altrimenti tollerata. Si giuocava, si rideva, si 35 scherzava, si facevan burle; la campana annuncia il pranzo, ci andiamo. Maccheroni! tutti ci si buttan sopra, ne divoriamo tre zuppiere; umido di bue, pollo freddo, lombo di vitello, dessert e ottimo vino; ah, che buon pranzo! il miglior condimento è l’appetito. Restammo a tavola quattro ore; suonammo vari strumenti, cantammo molto; la servetta 40 cantava incantevolmente, la guardavo con attenzione, mi faceva uno strano effetto [...]. Il vento non era favorevole, restammo tre giorni in mare; sempre gli stessi divertimenti, gli stessi piaceri, lo stesso appetito; arrivammo a Chioggia il quarto giorno. Non avevo l’indirizzo dell’alloggio di mia madre, ma non dovetti cercare a lungo. Madama Goldoni e sua sorella portavano una cuffia, eran della classe dei ricchi, 45 tutti le conoscevano. Pregai il direttore di accompagnarmi a casa; ci si piegò di buona grazia; arrivati, si fece annunciare, io rimasi in anticamera. – Signora, – disse a mia madre, – vengo da Rimini, ho da darle notizie di suo figlio. – Come sta mio figlio? 50 – Benissimo, signora. – È contento della sua posizione? – Non molto, signora; soffre molto. – Di che? – D’esser lontano dalla sua tenera mamma. 55 – Poverino! quanto lo vorrei avere con me. (Io sentivo tutto, il cuore mi batteva). – Signora, – proseguì l’attore, gli avevo proposto di portarlo con me. – E perché, signore, non l’avete fatto? – L’avreste approvato? – Certamente. 60 – Ma i suoi studi? – I suoi studi! non poteva forse tornarci? D’altronde ci son maestri dappertutto. 30
5 il conte Rinalducci: una conoscenza del
6 tressette... picchetto... faraone: giochi
padre di Goldoni che può collocare il giovane presso una famiglia stimata di Rimini e suggerire le rinomate lezioni del professore sopra citato.
di carte, l’ultimo dei quali d’azzardo; da ricordare che Goldoni amò anche troppo il gioco, indebitandosi frequentemente. 7 divertimento... interesse: Goldoni pre-
cisa che si giocava per divertimento e non per guadagno: la banca è il banco del gioco.
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– Insomma lo vedreste con piacere? – Con la massima gioia. – Signora, eccolo. 65 Apre la porta, entro; mi butto ai piedi di mia madre; lei mi abbraccia, le lagrime ci impediscono di parlare.
Concetti chiave Il punto di vista del ragazzo Goldoni
Queste pagine sono state scritte da Goldoni ottantenne, ma è notevolissima la capacità dell’anziano scrittore di recuperare nella memoria non tanto l’avventura in sé della fuga da Rimini sulla barca dei comici, quanto il “punto di vista”, le emozioni e le sensazioni del ragazzo Goldoni, dal contatto fascinatore con il mondo del teatro all’allegro viaggio per mare con i comici, fino all’incontro commovente con la mamma. Del ragazzo Goldoni, indirettamente, la narrazione fornisce un ritratto assai significativo. Attraverso le parole affettuose e indulgenti di Carlo ottantenne riemerge Carlo tredicenne, annoiato da studi pedanti che gli sembrano inutili, poco disposto alla fatica e all’impegno, e attirato invece dal mondo libero e allegro del teatro (e anche, assai precocemente, dalle bellezze femminili). Un mondo in cui l’esperienza di vita appare, nella rievocazione di Goldoni, in rapporto di continuità con la finzione teatrale: i lazzi, l’allegria, le mangiate della compagnia sulla barca in rotta per Chioggia fanno parte del repertorio stesso dei comici dell’arte.
Tra narrazione e teatro
La critica ha sempre sottolineato la sostanziale teatralità di molte parti dei Mémoires. Una prerogativa dell’autobiografia goldoniana che risulta evidente anche da questi celebri passi: la narrazione procede assai rapida, con una netta propensione alla paratassi o addirittura alla rapida evocazione dell’azione attraverso la semplice successione di verbi. A Goldoni interessa recuperare, quasi visivamente, la vivacità realistica della “scena”, persino con qualche “didascalia” (come «tutti si misero a gridare») e a questo obiettivo è certo finalizzata la scelta diffusa di verbi al presente. Contribuisce alla sostanziale “teatralità” della narrazione goldoniana anche l’uso frequentissimo del dialogo. In questo passo, la scena dell’impresario che parla con la mamma di Goldoni (mentre quest’ultimo funge da “pubblico”) è una vera e propria scena teatrale nell’alternarsi rapido delle battute e nel colpo di scena finale della porta che si apre, rivelando alla mamma la presenza di Carlo.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Il testo è ambientato in tre luoghi diversi: indica quali parti di testo vi corrispondono. 2. Nel testo, a un certo punto, Goldoni parla dei comici usando espressamente il termine «seduzioni». L’autore riesce a farci capire, dal complesso del racconto, in che cosa consistono queste seduzioni? ANALISI 3. Delinea l’autoritratto giovanile che Goldoni intende dare di sé al lettore: quali aspetti della sua personalità, quali i suoi interessi sono sottolineati dall’autore ormai ottantenne? STILE 4. Fai qualche esempio dell’attualizzazione di esperienze di più di cinquant’anni prima, che compie Goldoni attraverso la lingua (interiezioni, verbi al presente in rapida successione ecc.). 5. Rintraccia nel testo gli aspetti di “teatralità”. Quali sono gli accorgimenti stilistici più evidenti?
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 6. Nel brano sono evidenti l’entusiasmo e la gioia del giovane Goldoni nell’unirsi a una compagnia di comici alla volta di Venezia, abbandonando certi studi un po’ noiosi. Sei mai stato coinvolto in un’iniziativa divertente che ti abbia sottratto da occupazioni più impegnative e dure? Quali emozioni hai vissuto? Che cosa hai provato? Sensi di colpa o libertà infinita? Racconta la tua esperienza in un testo scritto (max 15 righe).
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La riforma del teatro comico 1 Motivazioni, caratteri e storia della riforma goldoniana Un processo graduale Goldoni attua il rinnovamento teatrale che egli stesso definisce «riforma» non secondo un organico programma teorico (come tende a far credere a posteriori nei Mémoires), ma via via nella pratica quotidiana. Il che significava per Goldoni confrontarsi con molteplici aspetti del teatro del tempo: • le esigenze degli impresari, mossi da interessi quasi esclusivamente economici; • i gusti del pubblico, ormai abituato a spettacoli grossolani e triviali («sconce arlecchinate», «laidi e scandalosi amoreggiamenti» li definisce Goldoni), condizionato a ridere a comando alle solite battute e alle solite scene; • le competenze (e resistenze) degli attori, specializzati in ruoli fissi (proprio questa specializzazione, del resto, assicurava la fama ai migliori attori) e ben poco disponibili a variare il loro repertorio e a modificare il loro modo di recitare; • la suscettibilità della nobiltà più conservatrice, inevitabilmente prevenuta nei confronti di un teatro “realistico” in cui, non di rado, vengono criticati i costumi nobiliari. Proprio per questo la riforma teatrale compiuta da Goldoni è un processo graduale e prudente, come egli stesso dichiara nel testo “metateatrale” Il teatro comico, prima delle sedici commedie composte per il Medebac (➜ D2a OL), non senza alcuni momenti di cedimento e regressione, come si è già accennato. La riforma nasce da due esigenze: da una parte, quella di mantenere il ritmo e la forza comica della commedia dell’arte, eliminando però la volgarità delle battute e la ripetitività dei ruoli, così da conferire alla commedia maggiore realismo e dignità; dall’altra, quella di sottrarre l’opera teatrale alla sofisticata letterarietà che aveva acquisito nei secoli precedenti, dal Rinascimento al Barocco, riconducendola alla naturalezza della vita. La priorità del testo scritto Si è visto come nella Commedia dell’arte gli attori non seguissero un testo scritto d’autore, ma improvvisassero le loro battute (e in questo si manifestava appunto la loro bravura professionale) sulla base di un soggetto fissato da un canovaccio, ovvero una traccia, uno schema dell’azione scenica. La libertà di improvvisazione dell’attore comico all’interno del canovaccio richiedeva grande abilità e una sicura padronanza della scena, ma per contro concedeva all’attore di imporre la sua personalità anche a costo di stravolgere l’intreccio e di eclissare le altre figure teatrali. In armonia con gli ideali estetici di buon gusto e razionalità propri della cultura arcadica e illuministica, Goldoni rivendica innanzitutto la priorità del testo scritto d’autore, proponendosi di eliminare l’inevitabile approssimazione che derivava dalla libera improvvisazione degli attori. Dalle maschere ai caratteri: per un teatro verisimile e moderno Una volta ristabilita la centralità del testo, Goldoni sceglie di attingere personaggi, situazioni, ambienti dalla vita reale: rinunciando al facile effetto del “meraviglioso”, fa muovere i personaggi in luoghi reali, come la casa, la strada, la piazza, le botteghe e le locande in cui essi possono essere colti in una dimensione naturale e spontanea. La riforma del teatro comico 3 453
Goldoni non elimina ma trasforma gradualmente (➜ D2a OL) le figure tradizionali, le cosiddette maschere, ereditate della Commedia dell’arte, in personaggi realistici, ricchi di nuove sfaccettature e di un ben definito status sociale: Arlecchino non è più allora lo stereotipato servo sciocco campagnolo, ma acquisisce connotazioni cittadine e una più sottile psicologia, che lo allontana definitivamente dalla fisionomia buffonesca della maschera; Pantalone, da vecchio avaro e vizioso, si trasforma nel mercante onesto e dignitoso che incarna i valori del buon senso e della laboriosità borghese(➜ T2 ); la servetta Colombina, attraverso una serie di tappe, assumerà i tratti di un personaggio di straordinario spessore psicologico, come Mirandolina della Locandiera. Nelle commedie degli ultimi anni in cui vive a Venezia e opera per il Teatro San Luca, Goldoni (da Il campiello, 1756, a I rusteghi, 1760, La bottega del caffè, La trilogia della villeggiatura, Le baruffe chiozzotte e altre) realizza pienamente gli obiettivi realistici della sua riforma. Un tempo la critica distingueva tra “commedie di carattere” e “commedie di ambiente”, ma si tratta di una distinzione astratta ormai abbandonata: nelle più riuscite commedie, infatti, il ritratto dei personaggi è strettamente collegato a un determinato ambiente sociale, di cui rappresenta emblematicamente la mentalità e magari i pregiudizi e i condizionamenti. In nome del realismo rappresentativo, a un certo punto Goldoni elimina dal costume di scena la maschera che copriva parte del volto degli attori (conservandola solo per Arlecchino). Per Goldoni la maschera non è infatti un semplice accessorio del costume teatrale, ma una componente fondamentale di un modo di far teatro che egli rifiuta: la maschera non consente, infatti, di manifestare le diverse espressioni del volto, in rapporto ai diversi caratteri dei personaggi e alla variabilità delle situazioni in cui l’individuo (e l’attore che lo impersona) si viene a trovare e contribuisce, quindi, in modo rilevante all’inautentica fissità dei personaggi teatrali. La volontà di cambiamento si concilia d’altra parte, proprio per non sconcertare il pubblico, con il mantenimento delle tecniche teatrali più collaudate e amate dal pubblico (➜ T1 ), con il rispetto del mondo dei teatranti e delle sue leggi. In particolare Goldoni ha l’accortezza di modellare alcune figure femminili sulle attrici di successo che avrebbero interpretato la parte: per Maddalena Marliani, l’attrice giovane della compagnia Medebach, scrive La serva amorosa e La locandiera.
Pietro Longhi, Il ridotto, 1760 (Bergamo, Accademia Carrara). La scena è ambientata nel ridotto di Ca’ Giustinian a San Marco, l’unica casa da gioco autorizzata dal governo veneziano e aperta solo nel periodo del carnevale.
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«Mondo» e «teatro» La riforma comportò anche il superamento della tradizione classica, che Goldoni conosceva non certo in modo profondo, ma da esperto di teatro: per creare uno spettacolo piacevole per un pubblico vasto ed eterogeneo era necessario abbandonare le regole dei generi teatrali, formulate nel Cinquecento. Nella prefazione alla prima edizione delle sue commedie (1750), attraverso una celebre metafora Goldoni
esprime con chiarezza la sua concezione dell’arte drammatica, indicando nel «mondo» e nel «teatro» i suoi maestri. Il «libro del Mondo» e il «libro del Teatro» Il «libro del Mondo» è l’osservazione attenta e razionale della realtà: nelle sue commedie Goldoni rappresenta – attraverso l’osservatorio della sua Venezia – nobili, borghesi e popolo nelle attività giornaliere, nelle abitudini di vita, negli ambienti consueti, indagando i loro comportamenti e le loro passioni. Da qui deriva la componente realistica che caratterizza il teatro goldoniano e gli conferisce un’impronta fortemente innovativa. Il «libro del Teatro» offre d’altra parte al commediografo la ricchezza e varietà dei mezzi tecnici, nonché un repertorio di espedienti ed effetti teatrali con cui valorizzare le vicende rappresentate rendendole capaci di attrarre il pubblico. Il valore educativo del teatro Fermamente convinto che lo scrittore debba cooperare al buon vivere in società, Goldoni coltiva l’idea di un teatro che eserciti anche una funzione educativa (➜ D2b OL). La rappresentazione deve diventare per il pubblico occasione di conoscenza, di riflessione critica, non solo di divertimento e di evasione. Da qui l’analisi critica del costume sociale presente soprattutto nelle opere della maturità. Il riferimento ai valori morali in genere non viene affidato a espliciti interventi dell’autore, ma traspare dalla vicenda (magari negli “a parte”), è spesso richiamato nelle battute conclusive delle commedie o espresso già nell’introduzione a ciascuna commedia («L’autore a chi legge»). In ogni caso, Goldoni non propone lezioni moralistiche, ma prospetta una visione equilibrata e bonaria: vede gli errori dei singoli e i limiti dei gruppi sociali, li critica, li deride (o, più spesso, ne sorride), ma evidenzia anche il bene possibile, il potenziale di felicità che in ogni caso la vita riserva e che trova la sua radice soprattutto nei vincoli naturali di socialità della vita collettiva.
Tappe della riforma goldoniana 1738-1748
• affermazione del testo scritto • l’improvvisazione ha sempre meno spazio
1748-1753
• la “commedia di carattere”: la psicologia dei personaggi oltre i “tipi” • tematiche varie: la famiglia, la critica alla nobiltà, il ruolo della borghesia
1753-1758
gli anni della crisi artistica (la concorrenza di Gozzi e Chiari) e psicologica (personaggi misantropi, toni satirici, scene corali)
1759-1762: La maturità veneziana
• rappresentazione realistica • la borghesia fra pregi (laboriosità, intraprendenza) e difetti (arrivismo, mode) • il popolo naturale, spontaneo
1762-1771: La stagione parigina
• commedie riuscite, con buoni intrecci • toni misurati e sobri, vicini al gusto del pubblico francese
La riforma del teatro comico 3 455
La struttura drammaturgica: potenziali conflitti... e lieto fine Le situazioni che Goldoni privilegia sono i momenti in cui i rapporti fra l’individuo e il gruppo sociale entrano in crisi: un trasferimento, una partenza, l’irruzione di un elemento nuovo e destabilizzante in una situazione statica e tradizionale. Il conflitto (ad esempio tra generazioni) e l’aggressività vengono fatti esplodere per poi ricondurre tutto e tutti a una misura di accomodante (secondo alcuni anche troppo accomodante) equilibrio. Non a caso la commedia goldoniana si chiude per lo più con un lieto fine: una struttura in cui si riflette pienamente l’ideologia, la visione del mondo dell’autore, il quale crede veramente che sia possibile (e giusto) ripristinare l’armonia, risolvere pacificamente i conflitti. D’altra parte, alcune conclusioni di commedie, che a prima vista sembrano rispondere alla tipologia del lieto fine, rivelano a un’osservazione più attenta una dimensione problematica e ambigua (si veda ad esempio il finale della Locandiera ➜ T6 ) che suggerisce di non generalizzare troppo e non identificare la visione della vita di Goldoni con il ritratto più vulgato di essa. Una nuova idea di comicità Nella Commedia dell’arte il divertimento e la risata erano provocati dalla rapidità acrobatica dei gesti e dagli effetti a sorpresa dell’intreccio, oppure da battute triviali e grossolane. Nella prefazione alla prima edizione (1750) delle sue commedie Goldoni valuta in modo decisamente negativo la comicità della commedia dell’arte che la sua riforma teatrale intendeva superare: «Non correvano sulle pubbliche scene se non sconce arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi, favole mal inventate, e peggio condotte, senza costume, senz’ordine, le quali anziché correggere il vizio, come pur è il primario, antico e più nobile oggetto della commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene». Nella commedia goldoniana l’effetto comico è invece più sottile e indiretto: è provocato dall’azione o dalla reazione del personaggio, dal manifestarsi di qualche sua mania, dal ripetersi di un tic gestuale o verbale (un esempio può essere l’intercalare «figurarse» o «vegnimo a dir el merito» nei Rusteghi). Suscitano ilarità anche i duetti, con scambi di frasi brevi e spezzate, con cui due personaggi rafforzano reciprocamente le idee comuni (➜ T3 ), oppure si contrastano accrescendo a ogni battuta il proprio disaccordo, come accade per il marchese di Forlipopoli e il conte di Albafiorita nella prima scena della Locandiera (➜ T4a ): in questi casi è il ritmo veloce del dialogo, enfatizzato dal tono di voce, a produrre l’effetto comico. In altre situazioni sono una frase ambigua o un commento malizioso a suscitare un sorriso complice nel pubblico. In ogni caso Goldoni si allontana consapevolmente da un modo elementare, divenuto ormai canonico, di comicità, per sperimentare una comicità moderna, che si evolverà in mille forme fino alla commedia “leggera” novecentesca.
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D2 Il Teatro comico: una commedia sul nuovo modo di fare teatro
D3 Carlo Goldoni I primi passi della riforma nel ricordo di Goldoni Memorie I, XL
D2a Carlo Goldoni D2a Bisogna innovare con gradualità Il teatro comico II, X D2b Carlo Goldoni Da cosa deriva il successo della commedia di carattere Il teatro comico II, I
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PER APPROFONDIRE
Cronistoria della commedia goldoniana La produzione teatrale di Goldoni è costituita da un imponente numero di testi: non solo commedie, ma anche tragicommedie, libretti di melodrammi giocosi e seri, scenari, intermezzi. Limitandoci a quelli che acquistano significato in rapporto all’esperienza decisiva della riforma, si possono individuare varie fasi nell’opera goldoniana. • 1738-1748 I primi passi della riforma Dopo un periodo di apprendistato teatrale, in cui accetta le strutture tradizionali e produce testi destinati al teatro musicale, Goldoni realizza la prima fondamentale tappa della riforma, affermando il primato del testo scritto: nel 1738 l’autore scrive tutta la parte del protagonista del Momolo cortesan e nel 1742 l’intero testo della Donna di garbo. Lascia ancora spazio all’improvvisazione ai servi (Arlecchino e Brighella) nella prima stesura di Il servitore di due padroni (1745) e I due gemelli veneziani (1747); in seguito, a riforma ormai avviata, scriverà il testo completo. • 1748-1753 La focalizzazione del “carattere” e delle fisionomie sociali Nel 1748 Goldoni realizza con la compagnia di Medebach la prima commedia di “carattere”: La vedova scaltra, che trionfa al Teatro Sant’Angelo. Superati gli stereotipi delle maschere, al centro dell’azione scenica è posto il carattere del personaggio: non solo la protagonista Rosaura è delineata nella sua specifica personalità, ma anche i quattro pretendenti (un inglese, un francese, uno spagnolo, un «geloso conte» italiano) non sono i prevedibili esempi umani del paese d’origine e mostrano invece una propria individualità. Un altro carattere femminile finemente delineato è quello di Bettina nella Putta onorata (1748-1749). In pochi anni, caratterizzati da grande vigore inventivo, Goldoni sperimenta la sua riforma sviluppando vari temi: con Il cavaliere e la dama (1749) satireggia la moda del cicisbeismo e critica l’inoperosità e la dissipazione dei nobili. Alla nobiltà è contrapposto il mondo del Padre di famiglia e della Famiglia dell’antiquario (1750), in cui Pantalone, che ha acquisito le virtù borghesi e una schietta umanità, salva generosamente dal dissesto l’inetto conte Anselmo. In questo periodo si colloca la sfida delle 16 commedie nuove (1750-1751), aperta da una commedia programmatica, Il teatro comico (➜ D2 OL): in essa, attraverso il meccanismo del “teatro nel teatro”, Goldoni presenta al pubblico la «poetica della riforma». I risultati più convincenti di questa stagione sono Le femmine puntigliose, I pettegolezzi delle donne e La bottega del caffè. In quest’ultima spicca la figura del gestore Ridolfo, esempio di una piccola borghesia operosa, capace di farsi portavoce, rispetto ai ceti più alti, di valori morali. Al termine della collaborazione con il Sant’Angelo Goldoni, nel gennaio del 1753, presenta La locandiera, forse la più celebre commedia goldoniana, scritta per l’attrice Maddalena Marliani, già protagonista di altre commedie di Goldoni, tra cui La serva amorosa. • 1753-1758 La crisi di identità professionale Con il passaggio al Teatro San Luca si apre per Goldoni una fase di crisi e di faticosi tentativi per portare avanti il modello ormai definito della commedia riformata. Da un lato egli risente dei contrasti e delle tensioni che si erano acuiti a Venezia per le pressioni dell’oligarchia dominante e che minacciavano di causare un’involuzione anche a livello culturale, dall’altro è costretto a far fronte agli attacchi o alla concorrenza dei suoi antagonisti sulla scena teatrale: Pietro Chiari e Carlo Gozzi. Pietro Chiari propone
commedie esotiche e avventurose e Goldoni, per confrontarsi con lui sul suo stesso terreno, scrive tragicommedie a effetto e commedie d’ambientazione esotica, come La sposa persiana, una chiara concessione alle leggi del mercato premiata dal pubblico, che con 34 repliche fu il maggior successo teatrale del secolo (Pieri). Dal canto suo, Carlo Gozzi contrappone al realismo goldoniano il “meraviglioso” fiabesco e la ripresa della commedia dell’arte. Animatore della vita letteraria veneziana, è fieramente ostile al teatro di Goldoni soprattutto per ragioni socio-politiche: la critica della nobiltà e la simpatia per il popolo avrebbero potuto destabilizzare le basi conservatrici su cui si fondava il potere dell’oligarchia veneziana. In questo periodo dunque Goldoni sembra smarrire la via maestra del suo teatro e viene attratto dalle bizzarrie, dalle manie di personaggi asociali e misantropi che rappresenta con durezza satirica in numerose commedie mediocri dai titoli eloquenti: Il vecchio bizzarro, L’impostore, I puntigli domestici, La donna bizzarra, Il geloso avaro. Tuttavia produce anche alcune felici commedie corali, in cui manifesta la sua simpatia per il popolo: Le massère (1755), Le donne de casa soa (1755), Le morbinose (1758) e soprattutto il celebre Il campiello (1756), che riscuote grande successo. La crisi psicologica (e artistica) di Goldoni si risolve solo nel 1758 dopo il viaggio a Roma e l’esperienza teatrale romana. • 1759-1762 Il definitivo approdo al realismo rappresentativo L’interesse e la curiosità per l’Europa contemporanea, espressi in commedie come Il filosofo inglese e Il medico olandese, non lo distoglie dall’osservare la vita della sua città, in cui percepisce rischi di crisi e di involuzione che coinvolgono più recentemente soprattutto i borghesi. Da qui una serie di commedie che criticano la borghesia, mettendone in luce difetti e responsabilità, pur senza cancellare le qualità che Goldoni considera intrinseche a questa classe e che vanno secondo lui riscoperte e valorizzate: negli ultimi anni della permanenza a Venezia, nascono alcune tra le più originali e felici commedie di Goldoni: Gl’innamorati, I rusteghi, La casa nova, La trilogia della villeggiatura, Sior Todero brontolon e Le baruffe chiozzotte. In esse Goldoni mette in evidenza l’arrivismo e le manie sociali dei borghesi, cui contrappone la sanità naturale e la schiettezza dei popolani. La fase della maturità veneziana si conclude con Una delle ultime sere di carnovale in cui l’autore, celandosi nel personaggio di Anzoletto, si congeda da Venezia. • 1762-1771 Gli anni parigini: un commediografo alla ricerca di sé Nella fase del lungo periodo francese Goldoni propone nelle opere più riuscite un’azione ben congegnata, ma priva di calore: in Il ventaglio (1765) l’innocente accessorio dell’abbigliamento femminile prima scatena gelosie e litigi, poi, passando di mano in mano, permette la riconciliazione di due innamorati; nella Trilogia di Zelinda e Lindoro tenta una sperimentazione meno innovativa associando schemi della commedia dell’arte al teatro patetico-sentimentale settecentesco. L’ultima occasione per il vecchio commediografo veneziano viene da Il burbero benefico (1771), commedia misurata e sobria, scritta per il pubblico francese, di cui Goldoni aveva imparato a conoscere i gusti: è imperniata su un piccolo dramma familiare, attraverso il quale tuttavia è possibile rappresentare l’etica borghese e indurre il pubblico alla riflessione. Con l’unico grande riconoscimento da parte del teatro francese incomincia anche l’addio alla scrittura teatrale di Goldoni.
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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Carlo Goldoni
Il «Mondo» e il «Teatro» in Goldoni C. Goldoni, Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Nella prefazione alla prima edizione delle sue commedie (1750), attraverso una celebre metafora, Goldoni espone la propria concezione dell’arte drammatica, indicando nel «Mondo» e nel «Teatro» i suoi maestri.
[Dirò1] con ingenuità, che sebbene non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri autori, da’ quali come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. 5 Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’istruisce de’ difetti che son più comuni del 10 nostro secolo e della nostra nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi coi quali la virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da 15 chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debbano rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti che nel libro del Mondo si leggono: come si debba ombreggiarli per dar loro il maggior rilievo, e quali sieno quelle tinte, che più 20 li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo insomma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico dell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ’l ridicolo che trovasi 25 in chi continuamente si pratica.
1 Dirò: chi scrive è Goldoni.
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Comprensione e analisi
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Quali sono i due libri su cui, metaforicamente, Goldoni dichiara di aver meditato? 2. Goldoni attribuisce lo stesso peso nella sua formazione di commediografo alla lettura degli autori classici? 3. Riassumi con le tue parole il ruolo che Goldoni attribuisce rispettivamente ai due “libri” e spiega il rapporto che li lega. 4. A quali campi metaforici attinge il passo per presentare i concetti? Individua e trascrivi le espressioni che vi si riferiscono. 5. Ti sembra rilevante l’espressione «me li dipinge così al naturale»? A quale tipo di testo, che invece non attinge al naturale, pensa Goldoni? 6. Rintraccia le espressioni che usa Goldoni per descrivere il suo pubblico ideale. 7. È possibile individuare dal passo relativo al «libro del Mondo» la funzione che Goldoni assegna al teatro? 8. Nel passo relativo al «libro del Teatro» individua gli aspetti che secondo Goldoni il pubblico può apprezzare in una commedia.
Interpretazione
Facendo riferimento ai passi letti, giudica in che misura Goldoni abbia applicato nel suo teatro i princìpi di poetica qui enunciati. Sulla base dei testi letti e di quel che sai, spiega in una breve trattazione perché la commedia goldoniana può essere definita “commedia di carattere” e insieme “commedia di ambiente”.
La riforma del teatro comico 3 459
4 I temi, l’ideologia, la lingua 1 La radiografia delle classi sociali La borghesia mercantile Nel momento cruciale della riforma Goldoni concentra la sua attenzione sul ceto borghese mercantile – la categoria sociale più tipica di Venezia – che egli sceglie come punto di osservazione privilegiato dell’intera società e ne ritrae attività, relazioni familiari e interpersonali, mentalità, abitudini; al contempo, il ceto borghese è anche il pubblico a cui elettivamente Goldoni pensa quando compone le sue commedie. Come scrive il critico Franco Fido, «i borghesi veneziani costituirono la condizione necessaria della riforma del Goldoni assolvendo il duplice ufficio di ispiratori e di destinatari, di protagonisti e pubblico». Goldoni definisce i mercanti «il profitto e il decoro delle nazioni», ne apprezza l’operosità e la capacità imprenditoriale e li considera depositari di valori quali la concretezza, l’attaccamento alla famiglia, il senso dell’onore e del dovere. Qualità di cui diventa prototipo Pantalone, l’antica maschera del vecchio ricco e avaro della Commedia dell’arte (➜ T2 ). Se Goldoni, soprattutto nella prima fase della riforma, esalta il ruolo attivo e la sanità morale della borghesia, sa però anche cogliere i segni di un’involuzione della classe borghese: da un lato la tendenza a imitare i difetti nobiliari seguendo un tenore di vita dispendioso, incline all’esibizione del lusso (la Trilogia della villeggiatura), dall’altro l’opposta tendenza al ripiegamento, alla grettezza meschina, al rifiuto pregiudiziale di ogni elemento di novità e di apertura (I rusteghi e Sior Todero brontolon). L’aristocrazia La rappresentazione da parte di Goldoni del mondo degli aristocratici, in particolare veneziani, evidenzia soprattutto la decadenza di questa classe sociale, la perdita di una sua attiva funzione nella società moderna. Anche Goldoni – come fa Parini in un diverso e più evoluto ambiente socio-culturale (la Milano illuminista) – condanna l’improduttività e l’ozio della classe nobiliare, ma anche l’immotivata arroganza e lo sterile orgoglio di classe. I titoli nobiliari ormai non garantiscono neppure un tenore di vita decoroso («I titoli no i dà da magnar», in La putta onorata I, xi), come ben dimostra il marchese di Forlipopoli della Locandiera, costretto a elemosinare qualche soldo da chi ne ha). Il popolo La rappresentazione del mondo popolare è varia e ricca: dai servi agli artigiani, ai bottegai, ai gondolieri e così via. Nei confronti del popolo, elevato addirittura al rango di protagonista nelle commedie “corali” Il campiello e Le baruffe chiozzotte, Goldoni mostra evidente simpatia, attribuendo costantemente alla gente del popolo caratteri positivi: l’istintiva saggezza, la tenacia nel lavoro, il vitalismo e la capacità di godere delle gioie della vita, la dignità e l’onestà verso i propri padroni (che non esclude giudizi critici sul loro operato). È una rappresentazione sicuramente innovativa, questa di Goldoni: il popolo, infatti, tradizionalmente era ritratto o attraverso la stilizzazione arcadico bucolica oppure in rapporto a una deformazione grottesco-caricaturale impiegata a fini comico-parodici. Un illuminismo moderato Le idee illuministe penetrano anche a Venezia sia attraverso le traduzioni di opere straniere (la città lagunare era tuttora la capitale
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PER APPROFONDIRE
dell’editoria) e il dibattito sollevato dal gran numero di periodici presente nella città, sia grazie ai rapporti commerciali e diplomatici che facevano della Serenissima una città cosmopolita. Certamente anche Goldoni – come testimonia la sua produzione teatrale – entra in contatto con le novità culturali del tempo e per certi aspetti le condivide: il suo è però un illuminismo moderato, che si esprime in forme concrete e prudenti. Goldoni non ha nulla in comune non solo con i philosophes (anche se la sua opera sarà molto apprezzata da Voltaire), ma neppure con l’impegno degli intellettuali milanesi del «Caffè» e dello stesso Parini. Tuttavia è indubbio che nella sua opera circoli l’influenza dei lumi: all’interno di una concezione sostanzialmente laica della vita (testimoniata anche dai Mémoi-
La famiglia, i giovani, le donne: una visione progressista? Nella maggior parte delle commedie goldoniane è in scena la famiglia, a volte in primo piano – come nella Famiglia dell’antiquario – talvolta moltiplicata – come nei Rusteghi, in cui si alternano sulla scena, che è la casa di uno di loro, quattro mercanti e le rispettive famiglie. Nel nucleo familiare si distinguono spesso le due generazioni di “vecchi” e “giovani”, padri e figli, con le caratteristiche proprie dell’età e delle abitudini di vita, a cui si aggiunge la specifica caratterizzazione individuale: ad esempio la figura del padre può concretizzarsi in personaggi molto diversi, a seconda che prevalga la saggezza e la moderazione oppure un attaccamento ostinato (se non addirittura nevrotico) alla proprietà o alle tradizioni. I giovani appaiono talora insofferenti alla rigida autorità dei padri o nei confronti di norme di vita e di comportamento anacronistiche e irrazionali, ma alla fine sono sempre disposti ad accettare di buon grado le gerarchie interne alla famiglia. Quanto alle donne, nelle commedie di Goldoni se ne presenta una variegata galleria che accoglie personaggi diversi, inconfondibili (come la celebre Mirandolina) non solo per il fascino, ma per la determinazione con cui impongono la loro volontà
e la loro visione delle cose. Non di rado le donne appaiono schierate dalla parte dei giovani, a difesa del progresso, della modernità, della razionalità contro modi di vedere anacronistici sul piano sociale ed etico-comportamentale. Se da un lato Goldoni condivide e appoggia l’emancipazione femminile (che poteva constatare anche nella sua Venezia) e rifiuta recisamente ogni atteggiamento misogino, dall’altro non solo non riesce a concepire un ruolo della donna al di fuori dell’ambito familiare (come del resto molti illuministi, anche francesi), ma neppure un sovvertimento dei tradizionali rapporti interni ad esso. L’anticonformismo di cui si fanno portavoce alcuni suoi personaggi femminili non si traduce mai dunque in contestazione aperta, in rifiuto dell’istituto familiare e matrimoniale, neppure quando questo è governato da aristocratici fossilizzati nelle proprie posizioni e da gretti borghesi arroccati alle tradizioni (come nel caso paradigmatico dei Rusteghi ➜ T3 ). La donna insomma, nell’universo teatrale goldoniano, porta sì una ventata di novità nella famiglia ma, così come i figli, non mette mai in discussione l’istituzione, anzi piuttosto contribuisce con la sua ragionevolezza a consolidarla.
Pietro Longhi, Ritratto di famiglia veneziana, 1760-1765 ca.
I temi, l’ideologia, la lingua 4 461
res), Goldoni valorizza soprattutto il tema dell’uguaglianza: egli è fermamente convinto dell’uguale dignità di tutti gli uomini, a qualsiasi classe sociale appartengano, ma questa convinzione non nasce in lui dall’adesione a un’ideologia astrattamente egualitaria, ma piuttosto da un innato senso morale, e di certo non assume mai i caratteri di una contestazione rivoluzionaria. Comune all’Illuminismo europeo e lombardo è la critica sviluppata nelle commedie goldoniane nei confronti della nobiltà, di cui, come si è già detto, l’autore condanna la boria, il tradizionalismo, l’inattività (per contro sottolineando, per lo meno in una prima fase della sua produzione, l’operosità della classe borghese). Ma Goldoni oltre non va: le classi sociali sono per lui “naturali” e questa visione esclude di per sé qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale o di sovvertimento. Tipicamente illuminista si può considerare l’idea che ogni individuo, in quanto parte del consorzio sociale, ha il dovere di contribuire alla felicità comune, favorendo la civile convivenza, e vincendo ogni atteggiamento negativo che la può incrinare: la tendenza all’egoismo, ma soprattutto l’irrazionalità. Dovere di tutti è comporre i conflitti ed esercitare la ragione, che Goldoni intende soprattutto come “buon senso” e moderata “apertura al nuovo”. Dal complesso delle sue commedie si deduce una visione relativamente ottimistica: pur senza ignorare gli aspetti negativi, Goldoni è fiducioso che sia possibile l’esistenza di una società in cui regni il benessere materiale e l’armonia. A questo risultato possono e devono contribuire anche gli intellettuali: nel caso specifico il teatro deve avere una funzione educativa, inducendo gli spettatori a una riflessione critica, che possa costituire il presupposto per migliorare la società a partire dagli individui. Anche l’ideale cosmopolita, così tipico dell’Illuminismo, non è estraneo a Goldoni: il trasferimento a Parigi, in questo senso, è la prova di una vocazione europea che si esprime (come documentano lettere e memorie) nella curiosità per il mondo culturale parigino e nei contatti frequenti con gli intellettuali francesi.
2 Le lingue di Goldoni L’esperienza artistica di Goldoni si sviluppa all’insegna del plurilinguismo: il dialetto veneziano, l’italiano, e il francese che egli utilizza nella sua autobiografia in modo disinvolto. La critica ha ormai superato una visione rigidamente antitetica della produzione goldoniana: da un lato ci sarebbe il dialetto tutto immediatezza e vita vissuta, dall’altro l’italiano, più formale e composto. Infatti, anche il dialetto in realtà è frutto di una meditata conquista stilistica da parte dell’autore, e le due lingue non sono così distanti tra loro nella commedia goldoniana e spesso interagiscono, come del resto avveniva nella realtà a Venezia. Il dialetto Per tradizione secolare, infatti, a Venezia il dialetto era il mezzo linguistico che per la sua flessibilità e la sua apertura a contaminarsi con il lessico toscano era impiegato non solo nelle occasioni quotidiane, a tutti i livelli sociali, ma anche nella conversazione dotta, nell’amministrazione e nella burocrazia della Repubblica, essendo «il solo dei dialetti italiani totalmente immune, nell’uso parlato anche colto, da squalifica culturale» (Folena). Quindi il ricorso al dialetto veneziano da parte di Goldoni non comporta il riversarsi sulla scena della parlata di strada o della conversazione privata o informale, ma è l’impiego teatrale di uno strumento
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linguistico molto duttile e di grande forza espressiva (e non a caso Franco Brevini parla di «realismo dialettale»). L’italiano A sua volta l’italiano dei personaggi delle commedie non è una lingua libresca e letteraria, ma una lingua media della conversazione, creata dallo scrittore, «che ha spesso la vivezza del parlato ma si alimenta piuttosto all’uso scritto non letterario, accogliendo […] venetismi, regionalismi “lombardi” e francesismi» (Folena): cioè, su una base toscana s’innestano termini, espressioni, giri di frase veneziani, delle parlate settentrionali e anche francesi. La fortunata e particolare situazione linguistica in cui opera Goldoni, che non conosce rigidi confini tra lingua e dialetto, tra uso parlato e uso scritto, consente allo scrittore di muoversi agevolmente tra questi due poli e di sfruttare tutte le gradazioni che intercorrono fra il dialetto plebeo (come il vernacolo di Chioggia nelle Baruffe chiozzotte) e la lingua colta e letteraria. Giandomenico Tiepolo, Il teatrino dei saltimbanchi, 1797 ca. (Venezia, Museo Ca’ Rezzonico). Gli attori si mescolano agli spettatori in piedi.
Uno «stile naturale» Da qui l’esito convincente delle scelte goldoniane anche in campo linguistico. Il commediografo realizza l’ideale di “naturalezza” che è il presupposto espressivo della sua riforma: «Lo stile», scrive nella prefazione all’edizione delle sue commedie del 1750, «l’ho voluto qual si conviene alla commedia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od elevato». Quindi: rifiuta la lingua aulica e letteraria, ricerca la multiforme dimensione del parlato, ma alla lingua rozza del teatro “all’improvviso” della commedia dell’arte sostituisce un italiano o un dialetto che hanno dignità di parola scritta.
Commedia dell’arte e commedia “riformata” a confronto Commedia dell’arte
Commedia “riformata” di Goldoni
i personaggi sono “maschere” e hanno caratteri stereotipati o fissi
personaggi e ambienti sono “reali”, lontani da stereotipi, volgarità, ripetitività
manca un testo scritto o un copione: si parte dal canovaccio (indicazioni generali sull’intreccio)
priorità del testo scritto (il copione) cui gli attori devono attenersi
l’effetto drammaturgico si basa sulla capacità di improvvisare e sul talento degli attori
uso di una lingua – un italiano medio o il dialetto veneziano – antiletteraria, viva e vivace
il teatro è un luogo di pura evasione e occasione solo di svago
il teatro come luogo di svago, ma anche come strumento educativo, adatto a modernizzare la società (visione illuminista)
I temi, l’ideologia, la lingua 4 463
Carlo Goldoni
T1
Un tributo alla commedia dell’arte: Arlecchino diventa “armeno” La famiglia dell’antiquario I, xvi-xvii
C. Goldoni, La famiglia dell’antiquario, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
La famiglia dell’antiquario fu rappresentata per la prima volta nel carnevale del 1750. Il testo si presentava interamente in forma scritta, tranne nelle parti delle “maschere” di Brighella e di Arlecchino: un evidente tributo alla Commedia dell’arte, per soddisfare le aspettative del pubblico. Due anni dopo, Goldoni scrisse anche le parti di Brighella e di Arlecchino, ma mantenendo comunque uno stretto rapporto con gli espedienti della Commedia dell’arte. Le due scene riportate hanno come premessa la tendenza rovinosa del conte Anselmo a sperperare il suo denaro per acquistare pezzi d’antiquariato. Dopo aver inutilmente tentato di aprire gli occhi al padrone, il servo Brighella decide a sua volta di sfruttarne l’ingenuità e l’incompetenza: traveste così l’amico Arlecchino da mercante armeno e lo presenta al conte per offrirgli un pezzo di antiquariato (in realtà si tratta di anticaglie di nessun valore).
Scena sedicesima Salotto nell’appartamento del conte Anselmo. Brighella ed Arlecchino vestito all’armena, con barba finta. BRIGHELLA Cussì1, come ve diseva, el me padron l’è impazzido per le antichità; el tol2 tutto, el crede tutto, el butta via i so denari in cosse ridicole, in cosse che no val niente. ARLECCHINO Cossa avì intenzion? Che el me toga mi per un’antigaia3? V’ho vestido con sti abiti, e v’ho fatto metter sta barba, per con5 BRIGHELLA durve dal me padron; dargh da intender che si, un antiquario, e farghe comprar tutte quelle strazzarie che v’ho dà4. E po i denari li spartirem metà per uno. ARLECCHINO Ma se el sior cont me scovre, e inveze de denari el me favorisse delle bastonade, le spartiremo metà per un?5 10 BRIGHELLA Nol v’ha mai visto; nol ve cognosse. E po, co sta barba e co sti abiti parì6 un armeno d’Armenia. ARLECCHINO Ma se d’Armenia no so parlar? BRIGHELLA Ghe vol tanto a finzer di esser armeno? Gnanca lu nol l’intende7 quel linguaggio; basta terminar le parole in ira, in ara, e el ve crede 15 un armeno italianà8. ARLECCHINO Volira, vedira, comprara; dighia ben9?
1 Cussì: così. 2 el tol: compra. 3 Cossa… un’antigaia?: che cosa avete in mente? Che comperi me come se fossi un oggetto antico? 4 dargh da… v’ho dà: dargli a intendere che siate un antiquario, e fargli compra-
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re tutti questi oggetti di nessun valore che vi ho dato (e che Brighella pensava, grazie al travestimento dell’amico, di vendere a caro prezzo al suo padrone). 5 Ma se el sior… metà per un?: ma se il signor conte mi scopre, e invece di denari mi regala delle bastonate, faremo metà per uno?
6 parì: sembrate. 7 Gnanca lu nol l’intende: neanche lui lo capisce. 8 italianà: italianizzato. 9 dighia ben: dico bene.
BRIGHELLA Benissimo. Arecordev10 i nomi che v’ho dito per vendergh le rarità, e faremo polito11! 20 ARLECCHINO Un gran ben che ghe volì al voster padron! BRIGHELLA Ve dirò. Ho procurà de illuminarlo, de disingannarlo: ma nol vol12. El butta via i so denari con questo e con quello; za che la ca’ se brusa, me vôi scaldar anca mi13. ARLECCHINO Bravissim. Tutt sta che me recorda tutto. 25 BRIGHELLA Vardè no fallar14... Oh! eccolo che el vien. Scena diciassettesima Il conte Anselmo, e detti. BRIGHELLA Signor padron, l’è qua l’Armeno dalle antigaggie15. ANSELMO Oh bravo! ha delle cose buone? BRIGHELLA Cose belle; cose stupende! ANSELMO Amico, vi saluto. (ad Arlecchino) 30 ARLECCHINO Saludara, patrugna cara16. (Dighia ben?) (a Brighella) BRIGHELLA Pulito. ANSELMO Che avete di bello da mostrarmi? ARLECCHINO (fa vedere un lume da olio, ad uso di cucina) Questo stara17... stara... (cossa stara18?) (piano a Brighella) 35 BRIGHELLA (Lume eterno.) (piano ad Arlecchino) ARLECCHINO Stara luma lanterna, trovata in palamida de getto, in sepolcro Bartolomeo19. ANSELMO Cosa diavolo dice? Io non l’intendo. BRIGHELLA L’aspetta; mi intendo un pochetto l’armeno. Aracapi, nicoscopi, 40 ramarcatà. (finge parlare armeno) ARLECCHINO La racaracà; taratapatà, baracacà, curocù, caracà. (finge risponder armeno a Brighella) BRIGHELLA Vedela? Ho inteso tutto. El dis20 che l’è un lume eterno trovà nelle Piramidi d’Egitto, nel sepolcro de Tolomeo. 45 ARLECCHINO Stara, stara. ANSELMO Ho inteso, ho inteso. (Oh che cosa rara! Se lo posso avere, non mi scappa dalle mani.) (da sé) Quanto ne volete? ARLECCHINO Vinta zecchina. ANSELMO Oh! è troppo. Se me lo deste per dieci, ancor ancora lo prenderei. 50 ARLECCHINO No podira21, no podira.
10 Arecordev: ricordatevi. 11 faremo polito: faremo bene (otterremo il nostro scopo).
12 Ho procurà... ma nol vol: ho cercato di chiarirgli le idee, di disingannarlo, ma non vuole saperne (la persona di cui si parla è appunto il conte). Il servo Brighella a questo punto, cinicamente, decide di sfruttare la situazione a suo vantaggio, come spiega subito dopo.
13 za che la ca’… scaldar anca mi: già che la casa brucia (cioè va in rovina), mi voglio scaldare anch’io. 14 Vardè no fallar: state attento a non sbagliare. 15 antigaggie: oggetti antichi. 16 Saludara, patrugna cara: vi saluto caro padrone; è il primo esempio del finto armeno inventato da Arlecchino per ingannare l’ingenuo Anselmo.
17 stara: è. 18 cossa stara: che cos’è. 19 Stara... Bartolomeo: Arlecchino fa un discorso del tutto confuso, riportando malamente quanto gli aveva detto Brighella riguardo all’oggetto in questione (il lume antico). Sarà poi Brighella a spiegare meglio. 20 El dis: dice. 21 No podira: non posso.
I temi, l’ideologia, la lingua 4 465
ANSELMO Finalmente22... non è una gran rarità. (Oh! lo voglio assolutamente.) (da sé) BRIGHELLA Volela, che l’aggiusta mi23? ANSELMO Sì, vedi se lo desse con dodici. (gli fa cenno con le mani, che gli 55 offerisca dodici zecchini) BRIGHELLA Lamacà, volenich, calabà? ARLECCHINO Salamin, salamun, salamà. BRIGHELLA Curich, maradas, chiribara? ARLECCHINO Sarich, micon, tiribio. 60 ANSELMO (Che linguaggio curioso! E Brighella l’intende!) (da sé) BRIGHELLA Sior padron, l’è aggiustada. ANSELMO Sì, quanto? BRIGHELLA Quattordese zecchini. ANSELMO Non vi è male. Son contento. Galantuomo, quattordici zecchini? 65 ARLECCHINO Stara, stara. ANSELMO Sì; stara, stara. Ecco i vostri denari. (glie li conta) ARLECCHINO Obbligara24, obbligara. [...]
22 Finalmente: alla fin fine. 23 Volela, che l’aggiusta mi: vuole che sistemi io la contrattazione. 24 Obbligara: la ringrazio, le sono obbligato.
Analisi del testo Equivoci e comicità linguistica Arlecchino e Brighella sono due “maschere” della commedia dell’arte, ben conosciute dal pubblico, a cui però nella sua nuova commedia Goldoni assegna un testo scritto interamente. La situazione rappresentata è anch’essa, come le “maschere”, debitrice della commedia tradizionale, a cominciare dal personaggio del servo, più saggio del padrone, che prima cerca di farlo ravvedere e poi si approfitta della sua ingenuità. La comicità della scena è legata in particolare all’uso del linguaggio, in parte totalmente inventato, in parte frutto della divertente storpiatura “armena” del dialetto veneziano. Goldoni utilizza qui gli espedienti canonici della commedia classica che suscitavano il divertimento scontato del pubblico.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale inganno viene ordito alle spalle del conte? Su quale caratteristica caratteriale del conte e su quale sua debolezza si gioca tutto l’inganno? LESSICO 2. Spiega perché la scena si può considerare un esempio di “comicità linguistica”.
Interpretare
SCRITTURA 3. Giustifica in un testo scritto il titolo che abbiamo dato alla scena proposta: Un tributo alla commedia dell’arte. Tale tributo non ti sembra contradditorio con la riforma che Goldoni stava portando avanti? Per rispondere leggi (o rileggi) le dichiarazioni in ➜ D2a OL.
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Carlo Goldoni
T2
Oltre la commedia dell’arte: il nuovo volto di Pantalone
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 8
La famiglia dell’antiquario I, xviii; II, xi C. Goldoni, La famiglia dell’antiquario, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. II, Garzanti, Milano 1994
Nessuno riesce a ridurre alla ragione il conte. La moglie Isabella a sua volta è troppo occupata a spendere denari in abiti eleganti e a litigare con la giovane nuora Doralice, figlia di Pantalone che, in quanto figlia di un mercante, considera indegna della sua famiglia. La casa del conte Anselmo rischierebbe la povertà e la rovina se non intervenisse con autorevolezza il vecchio e assennato mercante Pantalone: riuscirà a ristabilire una tregua e a salvare la situazione finanziaria di Anselmo divenendo amministratore della casa.
Atto I Scena diciottesima Il conte Anselmo, poi Pantalone. ANSELMO Gran fortuna è stata la mia! Questa sorta d’antichità non si trova cosi facilmente. Gran Brighella per trovare i mercanti d’antichità1! Questo lume eterno l’ho tanto desiderato: e poi trovarlo sì raro! Di quei d’Egitto? Quello di Tolomeo? Voglio farlo legare in oro, come una gemma. 5 PANTALONE Con grazia, se pol vegnir2? (di dentro) ANSELMO È il signor Pantalone? Venga, venga. PANTALONE Servitor umilissimo, sior Conte. ANSELMO Buon giorno, il mio caro amico. Voi che siete mercante, uomo di mondo, e intendente di cose rare, stimatemi questa bella antichità. 10 PANTALONE La me ha ben in concetto de un bravo mercante, a farme stimar una luse da oggio3! ANSELMO Povero signor Pantalone, non sapete niente. Questo è il lume eterno del sepolcro di Tolomeo. PANTALONE (ride.) 15 ANSELMO Sì, di Tolomeo, ritrovato in una delle Piramidi d’Egitto. PANTALONE (ride.) ANSELMO Ridete, perché non ve n’intendete. PANTALONE Benissimo, mi son ignorante, ella xe vertuoso4, e non vôi catar bega5 su questo. Ghe digo ben che tutta la città se fa maraveggia6 che un 20 cavalier della so sorte7 perda el so tempo, e sacrifica i so bezzi8 in sta sorte de minchionerie. ANSELMO L’invidia fa parlare i malevoli; e quei stessi che mi condannano in pubblico, mi applaudiscono in privato. PANTALONE No gh’è nissun che gh’abbia invidia della so galleria, che consiste 25 in t’un capital de strazze9. No gh’è nissun che ghe pensa un bezzo10
1 Gran Brighella... d’antichità: il senso è: “come è bravo Brighella a trovare i mercanti di cose antiche” (come appunto il mercante armeno di cui ha assunto le vesti Arlecchino nella scena precedente). 2 Con grazia, se pol vegnir: di grazia, si
può entrare. 3 La me ha ben… luse da oggio: mi reputa davvero un bravo mercante per farmi stimare un lume a olio. 4 vertuoso: in questo caso, colto. 5 catar bega: attaccare briga, litigare.
6 se fa maraveggia: si meraviglia. 7 so sorte: sua condizione. 8 bezzi: soldi. 9 un capital de strazze: un capitale di stracci, dunque di cose di nessun valore.
10 che ghe pensa un bezzo: che ci badi.
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de vederlo un’altra volta andar in malora; ma mi che gh’ho, in sta casa, mia fia11; mi che gh’ho dà el mio sangue; non posso far de manco de no sentir con della passion le pasquinade12 che se fa della so mala condotta. ANSELMO Ognuno a questo mondo ha qualche divertimento. Chi giuoca, chi va all’osteria; io ho il divertimento delle antichità. 30 PANTALONE Me despiase de mia fia, daresto no ghe penso un figo. ANSELMO Vostra figlia sta bene, e non le manca niente. PANTALONE No ghe manca gnente! ma no la gh’ha gnanca un strazzo de abito d’andar fora de casa. Sentite, amico; io in queste cose non me ne voglio impicciare. 35 ANSELMO PANTALONE Ma qua bisogna trovarghe remedio assolutamente. ANSELMO Andate da mia moglie, parlate con lei, intendetevi con lei, non mi rompete il capo. PANTALONE E se no la ghe remedierà ella, ghe remedierò mi. 40 ANSELMO Lasciatemi in pace; ho da badare alle mie medaglie, al mio museo, al mio museo. PANTALONE Perché mia fia la xe fia de un galantomo, e la pol star al pari de chi se sia. ANSELMO Io non so che cosa vi dite. So che questo lume eterno è una gioja. Signor Pantalone, vi riverisco. (parte) 45 Atto II Scena undicesima Pantalone solo. PANTALONE Vardè, che bell’omo13! Vardè in che bella casa che ho messo la mia povera fia! Un de sti dì, co ste medaggie, nol gh’ha più un soldo, e quel che xè pezo14, el lassa che vaga in desordene la casa, senza abbadarghe15. Ma se nol ghe bada lu, ghe baderò mi. No gh’ho altro a sto mondo, che sta unica fia; se posso no vôi16 morir col ramarico 50 de vederla malamente sagrificada. Oh quanto meggio che giera, che l’avesse maridada con uno da par mio17! Anca a mi me xè vegnù el catarro della nobiltà18. Ho spesso vintimille scudi. Ma cossa oggio fatto? Ho buttà i bezzi in canal, e ho negà la putta19.
11 mia fia: mia figlia, appunto la nuora del conte Anselmo, che aveva accondisceso al matrimonio anche per assestare la sua difficile situazione economica. 12 non posso... pasquinade: non posso fare a meno di sentire con turbamento i commenti ironici. 13 Vardè, che bell’omo:guardate, che bel tipo.
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14 xè pezo: è peggio. 15 el lassa che… senza abbadarghe: lascia che vada in malora la casa, senza badarci. 16 no vôi: non voglio. 17 Oh quanto meggio... con uno da par mio: oh, quanto meglio sarebbe stato se avessi maritato mia figlia con un mio pari (cioè un mercante, un borghese). 18 Anca a mi… della nobiltà: anche a me
sono venute le smanie (el catarro) della nobiltà. 19 Ho buttà... la putta: ho buttato i soldi a mare (letteralmente, “nei canali”) e ho annegato mia figlia (intendi, “insieme ai soldi ho buttato a mare anche mia figlia”, dato che nella nuova famiglia ella è infelice e si sente disprezzata, soprattutto dalla boriosa suocera Isabella).
Analisi del testo Un rinnovamento “dall’interno” delle convenzioni teatrali Scrive lo studioso di teatro Ludovico Zorzi a proposito del rapporto che esiste in Goldoni tra la tradizione teatrale preesistente e la riforma: «si dovrà riconoscere che i tanto discussi (e fraintesi) princìpi della “riforma” si traducono principalmente in un’azione di progressiva modifica dall’interno delle strutture drammatiche ricevute dalla tradizione, le quali vengono assunte nell’apparente rispetto dei loro istituti formali per essere gradualmente ma sostanzialmente rinnovate». Giustamente il critico invita a una valutazione più analitica, caso per caso, che possa rendere ragione, al di là di approssimazioni e luoghi comuni, dell’operazione effettivamente compiuta da Goldoni: «Il salto qualitativo può misurarsi sul divario che si manifesta di caso in caso tra i materiali di origine e la loro rielaborazione terminale».
Pantalone: dalla maschera al carattere Nel caso di questa commedia, come si è visto nel passo precedente, Goldoni non esita, per suscitare l’applauso del pubblico, a riproporre i lazzi e i giochi linguistici che erano costitutivi della commedia dell’arte. D’altra parte, opera una significativa trasformazione della maschera di Pantalone, che ricopriva nella commedia dell’arte il ruolo del vecchio ricco e avaro. Innanzitutto viene qui utilizzato come unico personaggio razionale in una casa dove tutti o quasi “sragionano”, preda di passioni irrazionali che distruggono la civile convivenza che tanto sta a cuore a Goldoni: Pantalone è colui che invita a ragionare sia il consuocero, pronto a dissipare del tutto i suoi beni per una sciocca mania, sia la figlia, che egli invita, nella scena successiva a quella dell’incontro con il conte Anselmo (qui non riportata), a moderarsi, a rispettare la suocera, la nuova famiglia di cui è entrata a far parte. Ma il “nuovo” Pantalone è soprattutto impiegato da Goldoni come esempio concreto della figura attiva e operosa del mercante che ha fatto da sé la sua fortuna. Da buon mercante Pantalone conosce il valore del denaro e per questo rimprovera il conte Anselmo di sacrificare «i so bezzi» per delle stupidaggini. Nella scena undicesima del secondo atto, nel significativo “a solo”, Pantalone rimprovera pure a sé stesso di aver buttato i «bezzi in canal» (la cospicua dote data alla figlia) per il desiderio di salire la scala sociale imparentandosi con una famiglia della nobiltà. Ma soprattutto si dispiace di aver maritato malamente sua figlia, per la quale nutre sincero amore paterno. In questo senso la commedia si riconduce al tema, diffuso nella cultura illuminista (si veda Il giorno di Parini), della polemica che contrappone la classe borghese a una nobiltà parassitaria e dissipata, che ha abdicato alla sua funzione nella società ed è ormai preda della noia o di passatempi maniacali (come i nevrotici personaggi della Notte pariniana), succube delle leggi dell’apparenza e di vuoti riti sociali.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Che cosa rimprovera Pantalone ad Anselmo? Qual è la sua unica, vera preoccupazione? ANALISI 2. Il riferimento ai «bezzi» ricorre nelle parole di Pantalone. Identifica i punti dei due testi proposti in cui si fa riferimento al denaro e il significato che di volta in volta riveste tale riferimento. È casuale oppure ha a che fare con la nuova connotazione sociologica di Pantalone? LESSICO 3. L’opposizione tra Pantalone e Anselmo è efficacemente enfatizzata anche dai modi linguistici usati dai due personaggi. Cerca di motivare quest’asserzione facendo qualche esempio dal testo.
Interpretare
SCRITTURA 4. In che modo si manifesta nel testo la contrapposizione fra borghesia e nobiltà? Quale giudizio dell’autore puoi ricavare dai testi proposti? Motiva la tua risposta in un testo scritto di max 10 righe. LETTERATURA E NOI
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 8
5. La capacità di riconoscere il valore del denaro presenta aspetti positivi e negativi: da un lato spinge ad amministrare con oculatezza il proprio patrimonio e allena alla parsimonia e alla lotta agli sprechi; dall’altro induce a finalizzare la propria esistenza al perseguimento della ricchezza, ingenerando grettezza e avarizia. Tu come ti poni nei confronti del denaro? Ti sembra che nella nostra società consumistica la sottomissione al “dio denaro” o rischi di compromettere i rapporti umani?
I temi, l’ideologia, la lingua 4 469
Collabora all’analisi
T3
Carlo Goldoni
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
Lo studio del “carattere” entro una categoria sociale: due «rusteghi»
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
I rusteghi, II, v C. Goldoni, I rusteghi, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. II, Garzanti, Milano 1994
I rusteghi (1760) è la più famosa tra le commedie in dialetto, per la felice caratterizzazione del mercante veneziano, replicato in quattro personaggi: Lunardo, Canciano, Simon e Maurizio. Tutti e quattro sono commercianti, ma tutti e quattro sono anche «rusteghi», cioè conservatori e tradizionalisti, severi custodi, nelle proprie case, delle antiche norme di comportamento. Nella scena qui riprodotta Simon e Lunardo si confidano ed esprimono il loro disappunto sui tempi che si trovano a vivere: i giovani non ubbidiscono più come una volta e le donne non sanno più stare al loro posto.
SIMON Marideve, che gh’avarè de sti gusti. LUNARDO Ve recordeu de la prima muggier? Quela giera una bona creatura; ma questa la xe un muschietto1! (a Simon) SIMON Ma mi, mato bestia, che le donne no le ho mai podeste soffrir, e po 5 son andà a ingambararme co sto diavolo descaenà2. LUNARDO Al dì d’ancuo no se se pol più maridar. SIMON Se se vol tegnir la muggier in dover, se xe salvadeghi3; se la se lassa far se xe alocchi. LUNARDO Se no giera per quela puta che gh’ho, ve protesto da galantomo, 10 vegnimo a dir el merito, che no m’intrigava con altre donne. SIMON Me xe sta dito, che la maridè: xe vero? LUNARDO Chi ve l’ha dito? (con isdegno) SIMON Mia muggier. LUNARDO Come l’ala savesto? (con isdegno) 15 SIMON Credo che ghe l’abia dito so nevodo. LUNARDO Felippetto4? SIMON Sì, Felippetto. LUNARDO Frascon, petegolo, babuin! So pare ghe l’ha confidà, e lu subito el lo xe andà a squaquarar? Conosso che nol xe quel puto che credeva 20 che el fusse. Son squasi pentìo d’averla promessa, e ghe mancherave poco, vegnimo a dir el merito, che no strazzasse el contrato. SIMON Ve n’aveu per mal, perché el ghe l’ha dito a so àmia? LUNARDO Sior sì: chi no sa tàser, no gh’ha prudenza, e chi no gh’ha prudenza, no xe omo da maridar. 25 SIMON Gh’avè rason, caro vecchio; ma al dì d’ancuo, no ghe ne xe più de quei zoveni del nostro tempo. V’arecordeu? No se fava né più né manco de quel che voleva nostro sior pare.
1 Ve recordeu... muschietto: Lunardo ricorda all’amico la prima moglie da cui ha avuto la figlia Lucietta. Si era poi risposato con Margarita, che ha un caratteraccio (muschietto). 2 sto diavolo descaenà: a sua volta Si-
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mon definisce “un diavolo scatenato” la moglie Marina. 3 salvadeghi: persone selvatiche, eccessivamente schive (il termine è sinonimo di rusteghi). 4 Felippetto: Lunardo intende maritare
Lucietta con Filippetto, nipote di Marina, figlio di Maurizio, un altro rustego, ma la cosa, secondo il rigido codice del tempo, non si deve venire a sapere, finché non lo decideranno i padri dei due promessi sposi.
LUNARDO Mi gh’aveva do sorele maridae: no credo averle viste diese volte in tempo de vita mia. 30 SIMON Mi no parlava squasi mai gnanca co mia siora mare. LUNARDO Mi al dì d’ancuo non so cossa che sia un’opera, una comedia. SIMON Mi i m’ha menà una sera per forza a l’opera, e ho sempre dormio. LUNARDO Mio pare, co giera zovene, el me diseva: Vustu véder el Mondo niovo5? o vusto che te daga do soldi? Mi me taccava ai do soldi. 35 SIMON E mi? sunava le boneman6, e qualche soldeto che ghe bruscava, e ho fato cento ducati, e i ho investii al quatro per cento, e gh’ho quatro ducati de più d’intrada; e co i scuodo7, gh’ho un gusto cussì grando, che no ve posso fenir de dir. No miga per l’avarizia dei quatro ducati, ma gh’ho gusto de poder dir: tolè; questi me li ho vadagnai da putelo. 40 LUNARDO Trovèghene uno ancuo, che fazza cussì. I li buta via, vegnimo a dir el merito8, a palae. SIMON E pazenzia i bezzi che i butta via. Xe che i se precipita in cento maniere. LUNARDO E tuto xe causa la libertà. 45 SIMON Sior sì, co i se sa meter le braghesse da so posta, subito i scomenza a praticar. LUNARDO E saveu chi ghe insegna? So mare. SIMON No me disè altro: ho sentìo cosse, che me fa drezzar i cavei. LUNARDO Sior sì; cussì le dise: Povero putelo! che el se deverta, povereto! voleu 50 che el mora da malinconia? Co vien zente, le lo chiama: Vien qua, fio mio; la varda, siora Lugrezia, ste care raìse9, no falo voggia? Se le savesse co spiritoso che el xe! Cànteghe quela canzoneta: dighe quela bela scena de Truffaldin. No digo per dir, ma el sa far de tuto: el bala, el zoga a le carte, el fa dei soneti: el gh’ha la morosa, sala? 55 El dise, che el se vol maridar. El xe un poco insolente, ma pazienza, el xe ancora putelo, el farà giudizio. Caro colù; vien qua, vita mia; daghe un baso a siora Lugrezia...Via, sporchezzi; vergogna; donne senza giudizio. SIMON Cossa ghe pagherave, che ghe fusse qua a sentirve sete o oto de quele 60 donne che cognosso mi. LUNARDO Cospeto de diana! le me sgrafarave i occhi. SIMON Ho paura de sì; e cussì, diseme: aveu serà el contrato10 co sior Maurizio? LUNARDO Vegnì in mezzà11 da mi, che ve conterò tuto. SIMON Mia muggier sarà de là co la vostra. 65 LUNARDO No voleu?
5 el Mondo niovo: dispositivo ottico, simile alla lanterna magica, in cui le immagini, anziché essere proiettate da una scatola verso l’esterno, erano visibili guardando dentro la scatola. Sono macchine simili ai proiettori di diapositive, diffuse nelle feste di paese, dove gli ambulanti allestivano spettacolini a pagamento. 6 sunava le boneman: raccoglieva le
mance. 7 e co i scuodo: e quando li riscuoto. 8 vegnimo a dir el merito: diciamo la verità: è il tipico intecalare di Lunardo. 9 care raìse: letteralmente “care radici”, espressione tipica del dialetto veneto per alludere al legame stretto tra figli e genitori. 10 contrato: si allude al contratto matrimoniale con il signor Maurizio.
11 mezzà: «in Venezia dicesi di quella stanza in cui si fanno le maggiori faccende; mezzà è lo studio degli avvocati, dei ministri, dei legali, dei mercadanti; dicesi anche mezzà ad una o più stanze, che sono ad un primo piano al di sotto del piano nobile, ed alcune ve ne sono anche a terreno» (Goldoni).
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SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO 70 SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON 75 LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO 80 SIMON LUNARDO SIMON
No ghe sarà nissun, m’imagino. In casa mia? no vien nissun senza che mi lo sapia. Se savessi! da mi stamatina12... basta, no digo altro. Contème... cosse xe stà? Andémo, andémo; ve conterò. Donne, donne, e po donne. Chi dise donna, vegnimo a dir el merito, dise danno. Bravo da galantomo. (ridendo ed abbracciando Lunardo) E pur, se ho da dir la verità, no le m’ha despiasso. Gnanca a mi veramente. Ma in casa. E soli. E co le porte serrae. E co i balconi inchiodai. E tegnirle basse. E farle far a nostro modo. E chi xe omeni, ha da far cussì. (parte) E chi no fa cussì, no xe omeni. (parte)
Versione in italiano
SIMON Sposatevi e avrete questi piaceri. LUNARDO Vi ricordate la mia prima moglie? Quella era una buona creatura; ma questa è un caratteraccio! 85 SIMON E io, matto bestia, che le donne non le ho mai potute soffrire; e poi sono andato a inciampare in questo diavolo scatenato. LUNARDO Al giorno d’oggi non ci si può più sposare. SIMON Se si vuole tenere a bada la moglie, si è degli orsi; se la si lascia fare, si è degli stupidi. 90 LUNARDO Se non era per quella figlia che ho, vi giuro, parola di galantuomo, diciamo la verità, che non m’impegolavo con altre donne. SIMON Mi è stato detto che la sposate; è vero? LUNARDO Chi ve l’ha detto? Mia moglie. 95 SIMON LUNARDO Come l’ha saputo? SIMON Credo che glielo abbia detto suo nipote. LUNARDO Filippetto? SIMON Sì, Filippetto. Sciocco, pettegolo, babbuino! Suo padre glielo ha confidato, e lui 100 LUNARDO subito è andato a spiattellarlo? Capisco che non è quel ragazzo che credevo che fosse. Sono quasi pentito di averla promessa e ci mancherebbe poco, diciamo la verità, che non stracciassi il contratto nuziale. 12 Se savessi! da mi stamatina: Simon aveva sorpreso in casa sua Filippetto a parlare con la zia Marina.
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SIMON Vi siete risentito perché l’ha detto a sua zia? LUNARDO Signorsì: chi non sa tacere, non ha prudenza, e chi non ha prudenza non è uomo da sposarsi. SIMON Avete ragione, caro vecchio; ma al giorno d’oggi non ci sono più quei giovani del nostro tempo. Vi ricordate? Non si faceva né più né meno che quello che voleva il nostro signor padre. 110 LUNARDO Io avevo due sorelle maritate: non credo di averle viste dieci volte in vita mia. SIMON Io non parlavo quasi neanche con la mia signora madre. LUNARDO Io ancora oggi non so cosa sia un’opera, una commedia. 115 SIMON A me mi hanno portato una sera, per forza, all’opera, e ho sempre dormito. LUNARDO Mio padre, quando era giovane, mi diceva: vuoi vedere il Mondo nuovo? o vuoi che ti dia due soldi? Io mi attaccavo ai due soldi. SIMON E io? Mettevo da parte le mance e qualche soldino che gli toglievo di mano, e ho raggranellato cento ducati e li ho investiti al quattro 120 per cento, e ho quattro ducati in più di entrata; e quando li riscuoto, ho un gusto così grande che non posso finir di dirlo. Non per l’avarizia dei quattro ducati, ma ho gusto di poter dire: Ecco, questi li ho guadagnati da bambino. 125 LUNARDO Trovatene uno oggi che faccia così. Li buttano via, diciamo la verità, a palate. SIMON E pazienza i soldi che buttano via. Il fatto è che si rovinano in cento modi. LUNARDO E la causa di tutto è la libertà. Signorsì, quando sanno mettersi da soli i pantaloni, subito comin130 SIMON ciano a darsi da fare. LUNARDO E sapete chi glielo insegna? La loro madre. SIMON Non dite altro: ho sentito cose che mi fanno drizzare i capelli. LUNARDO Signorsì, dicono così: Povero ragazzo! Che si diverta, poveretto! volete che muoia di tristezza? Quando viene gente lo si chiama: Vieni 135 qua, figlio mio; guardi, signora Lucrezia, queste care radici, non fa venir voglia di abbracciarlo? Se sapesse come è spiritoso! Càntale quella canzonetta: dille quella bella scena di Truffaldino. Non dico tanto per parlare, ma sa fare di tutto: balla, gioca a carte, fa sonetti: ha la morosa, lo sa? Dice che si vuol sposare. È un po’ insolente, 140 ma pazienza, è ancora ragazzo, metterà giudizio. Caro lui! vieni qua, vita mia; dai un bacio alla signora Lucrezia... Via, porcherie; vergogna; donne senza giudizio. SIMON Cosa pagherei che ci fossero qua a sentire sette o otto di quelle donne che so io. 145 LUNARDO Accidenti! Mi graffierebbero gli occhi. SIMON Ho paura di sì; e così, ditemi, avete concluso il contratto con il signor Maurizio? LUNARDO Venite da me nello studio, che vi racconterò tutto. Mia moglie sarà di là con la vostra. 150 SIMON LUNARDO Non volete? 105
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SIMON LUNARDO SIMON 155 LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO 160 SIMON LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON 165 LUNARDO SIMON LUNARDO SIMON
Non ci sarà nessuno, immagino. In casa mia? Non viene nessuno senza che io lo sappia. Se sapeste! da me stamattina... basta, non dico altro. Raccontatemi... cosa è successo? Andiamo, andiamo; vi racconterò. Donne, donne e poi ancora donne. Chi dice donna, diciamo la verità, dice danno. Bravo, ben detto. Eppure, se devo dire la verità, non mi sono dispiaciute. Neanche a me veramente. Ma in casa. E soli. E con le porte chiuse. E con i balconi serrati. E tenerle sotto. E farle fare a modo nostro. E quelli che sono uomini, devono fare così. E quelli che non fanno così, non sono uomini.
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La scena che mette a confronto i due «rusteghi» Lunardo e Simon è anticipata, per il divertente botta e risposta finale dei due personaggi, dalla scena v dell’atto I, in cui Lunardo dialoga con Maurizio, un altro «rustego». Evidentemente Goldoni aveva intuito l’efficacia teatrale della formula usata per la prima scena e decide di ripetere il copione con un altro interlocutore, anche per ribadire il messaggio che intende trasmettere. Nella premessa alla commedia Goldoni spiega il significato della parola «rusteghi» e allude alla difficoltà di tratteggiare quattro caratteri affini: «I Rusteghi in lingua veneziana non è lo stesso che I Rustici in lingua toscana. Noi intendiamo in Venezia per uomo rustego un uomo aspro, zotico, nemico della civiltà, della cultura, e del conversare. Si scorge dal titolo della commedia non essere un solo il protagonista, ma vari insieme, e infatti sono eglino [essi] quattro, tutti dello stesso carattere, ma con varie tinte delineati, cosa per dire il vero difficilissima, sembrando che più caratteri eguali in una stessa commedia possano più annoiare che dilettare. Questa volta mi è riuscito tutto il contrario: il pubblico si è moltissimo divertito e posso dire quest’opera una delle mie più fortunate; perché non solo in Venezia riuscì gradita, ma da per tutto, dove finora fu dai comici rappresentata. Ciò vuol dire che il costume ridicolo delle persone è conosciuto da tutti, e poco scapita [ci rimette] la commedia per il linguaggio particolare». 1. Su che cosa verte il dialogo tra Lunardo e Simon? 2. Nel dialogo fra i due «rusteghi» sono evocati altri personaggi della commedia. Indicali. 3. Per quale informazione fornita da Simon si adira Lunardo? 4. A un certo punto Lunardo minaccia di stracciare il contratto: di quale contratto si tratta e a quale consuetudine sociale rimanda? Nella parte principale del dialogo, Simon e Lunardo fanno riferimento nostalgicamente alla loro giovinezza, contrapponendo polemicamente le loro scelte di vita a quelle delle nuove generazioni. La condivisione dei comportamenti e l’identità di vedute dei due «rusteghi» ne rende sovrapponibili le figure e conferisce al dialogo quasi le caratteristiche di un monologo. 5. Sintetizza il quadro della loro austera giovinezza tratteggiato da Lunardo e Simon. A quale causa è attribuita la decadenza dei costumi dei giovani e chi ne è considerato responsabile? Se nella figura rinnovata di Pantalone (➜ T2 ) Goldoni aveva rappresentato gli aspetti positivi della classe borghese mercantile di Venezia (concretezza, razionalità, laboriosità, attenzione ai
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propri interessi economici, congiunta però alla parsimonia), nelle figure dei «rusteghi» egli mostra il pericolo di un’involuzione di quella stessa classe, che la renderebbe inadeguata ad affrontare il confronto con una società in evoluzione e a mantenere un ruolo sociale egemone. Il «rustego» è lo sviluppo in negativo del mercante veneziano impersonificato da Pantalone; le qualità di Pantalone si trasformano qui infatti in fissazioni maniacali, che l’autore rappresenta in veste comica: la riservatezza diventa chiusura degli orizzonti mentali e culturali, la parsimonia gretta avarizia, la tutela dei valori della famiglia ottusa difesa dell’autorità patriarcale, l’onestà culto formale della reputazione. Attraverso il dialogo fra i «rusteghi» viene enunciata una visione del mondo fondata sulla gelosa tutela di un piccolo mondo chiuso che rischia di scomparire travolto dal progresso. Progresso di cui si fanno timidi portavoce i giovani, ma soprattutto le donne, come appare indirettamente anche in questo testo dalle parole dei due «rusteghi». Non di rado, nelle commedie goldoniane in cui si profila un conflitto generazionale, le donne si schierano apertamente con i giovani. In questa commedia è Felice, la più libera di esse (osa portare in casa del marito addirittura un forestiero amico del fratello), a organizzare la ribellione delle donne e dei giovani all’assurdo divieto degli uomini-mariti-padri, uniti in un fronte compatto dalla loro “rustichezza”. 6. Individua all’interno del testo il riferimento ai valori sopra citati, difesi dai due «rusteghi», che per Goldoni erano diventati disvalori. 7. Il progresso è uno dei miti illuministici: come viene presentato in questo passo, attraverso quale punto di vista e in quali comportamenti si concretizza? 8. Ora che hai letto il testo, spiega il significato del termine «rustego» che dà il titolo alla commedia. 9. Cerca di spiegare perché Lunardo e Simon sono due personaggi comici, e da che cosa deriva la scelta dell’autore di trasformare il mercante in personaggio comico. La chiusura dei «rusteghi» nei confronti di ciò che va cambiando è riflessa anche nel loro linguaggio, a cui Goldoni dedica in questa commedia particolare attenzione. Il modo di esprimersi dei «rusteghi» si condensa in brevi battute, in frasi sentenziose che riflettono la tendenza a giudizi lapidari, frasi fatte e proverbi usurati. 10. Analizza il testo sotto questo punto di vista, raccogliendo esempi significativi al proposito e quindi commenta.
Interpretare
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
11. Secondo te perché Goldoni ha scelto di rappresentare lo stesso tipo di personaggio in quattro figure? Per rispondere, riconduci la scelta dell’autore alle più generali finalità della riforma del teatro portata avanti da Goldoni. 12. Sviluppa un confronto critico che evidenzi le differenze fra il Pantalone della Famiglia dell’antiquario e i quattro «rusteghi». Puoi anche utilizzare il documento critico di Franco Fido proposto online.
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
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13. “Chi dice donna dice danno”: è così che si esprime Lunardo con l’approvazione completa di Simon. Il giudizio sulle donne, e in particolare sulle mogli dei due protagonisti, testimonia la mentalità dell’epoca che non lasciava spazio all’interno della famiglia, e più in generale nella società, alla libertà di pensiero e azione delle donne. Da allora molta strada è stata fatta, ma ancora oggi resistono pregiudizi e stereotipi riguardo alle donne e al loro ruolo nella società. Traccia una riflessione su questo argomento, tenendo anche presente che uno degli obiettivi dell’agenda 2030 recita proprio: «Porre fine, ovunque, a ogni forma di discriminazione nei confronti di donne e ragazze».
online
Interpretazioni critiche Franco Fido Le commedie del biennio 1760-62 e la proposta di una morale borghese più moderna
I temi, l’ideologia, la lingua 4 475
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La locandiera La locandiera è la commedia più nota e rappresentata di Goldoni, per la felice caratterizzazione dei personaggi, l’efficace affresco sociale, ma soprattutto per l’affascinante ritratto della protagonista, Mirandolina, una delle figure femminili più celebri della letteratura italiana. L’azione si svolge in una locanda di Firenze, dove s’incontrano, e si scontrano, vari personaggi con i loro particolari caratteri e le loro differenze sociali. La commedia, in tre atti, fu rappresentata con grande successo al Teatro Sant’Angelo nel gennaio 1753 con l’attrice Maddalena Marliani nel ruolo della protagonista, Mirandolina.
1 La locandiera e la nuova commedia VIDEOLEZIONE
La locandiera, che chiude la fase della collaborazione di Goldoni con il Teatro Sant’Angelo e la compagnia di Medebach (1748-1752), si inserisce pienamente nella prospettiva della riforma del teatro comico già avviata da tempo e ne costituisce anzi in assoluto una delle espressioni più convincenti. Come si è detto, Goldoni mira a realizzare un nuovo tipo di teatro comico, che non si affidi a forme grossolane e stereotipate di comicità, per quanto riguarda sia le battute (che vengono create ex novo e definite da un testo scritto) sia l’intreccio, che segue rigorosamente il principio della verosimiglianza e rifiuta facili soluzioni a effetto. L’obiettivo dell’autore è rispettare in ogni ambito della realizzazione drammaturgica il realismo, in particolare nella strutturazione dei personaggi, che rispecchiano reali tipologie sociali e “caratteri” individuali, finalmente liberi dalla dittatura delle maschere della commedia dell’arte e svincolati dall’impersonare “tipi” fissi. Tuttavia, come si è detto, Goldoni non rifiuta in blocco gli espedienti, di sicura presa sul pubblico, della tradizione teatrale della commedia dell’arte; piuttosto li rivitalizza, li adatta a nuove funzioni, assegnandovi una specifica funzione strutturale all’interno della nuova commedia (ne è un esempio la scena dello svenimento di Mirandolina, che apparteneva a un tradizionale repertorio di situazioni). Allo stesso modo Goldoni rinnova dall’interno le maschere e le figure che il pubblico amava riconoscere quando andava a teatro. Tutti gli aspetti indicati sono presenti nella LocandieJean-Etienne Liotard, La cioccolataia, 1744 (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister). ra, di cui Goldoni era molto soddisfatto e che
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ebbe grande successo. Goldoni ricorda nelle sue Memorie: «Forse in Italia mi hanno lusingato, ma mi hanno fatto credere che niente avevo scritto di più naturale e di meglio condotto e che trovavano l’azione sostenuta alla perfezione e compiuta».
2 La vicenda e i personaggi La vicenda Mirandolina gestisce una locanda con l’aiuto del cameriere Fabrizio; intorno a lei ruotano due galanti corteggiatori, da tempo ospiti della locanda, che rappresentano uno spaccato della società del tempo: il conte d’Albafiorita e il marchese di Forlipopoli. Il primo (di nobiltà recente e assai ricco) tenta di conquistare Mirandolina con doni costosi, il secondo (altezzoso e spiantato) ha da offrirle solo la sua protezione e il suo prestigio sociale. Grazie al gioco smaliziato di Mirandolina, che si destreggia abilmente senza concedersi a nessuno, si crea tra i due personaggi una situazione di sostanziale equilibrio, animato da innocui battibecchi. L’arrivo di un altro cliente, il cavaliere di Ripafratta, inevitabilmente modifica il triangolo che si è creato: scontroso e fieramente misogino, il cavaliere disprezza le donne sebbene non le conosca veramente, e schernisce come «poveri gonzi» il marchese e il conte perché non sanno smascherare l’interessata civetteria della locandiera. Il cavaliere ostenta a tal punto il suo atteggiamento di disprezzo che Mirandolina, risentita, decide di umiliare il suo ospite e «di far altrui vedere come si innamorano gli uomini». Nel duello con il supponente cavaliere di Ripafratta, Mirandolina userà arti particolarmente sofisticate; ma la strategia vincente sarà soprattutto quella di fingere di condividere il disprezzo del cavaliere per le debolezze e le malizie femminili. Disorientato, il cavaliere comincia a essere affascinato dall’astuta locandiera che lo colma di straordinarie premure, facendogli credere che sono destinate a lui solo. Alla fine il cavaliere cede e si innamora perdutamente della locandiera. Mirandolina gode per poco della sua vittoria: si accorge infatti di essersi spinta troppo oltre nel suo gioco seduttivo con il cavaliere, rischiando di perdere la sua reputazione e il controllo della situazione. Abbandona allora la finzione e congeda con decisione i suoi ospiti, dopo aver annunciato pubblicamente la sua decisione di sposare il fedele cameriere Fabrizio. L’ambientazione La commedia è ambientata a Firenze, ma si tratta di un accorgimento prudenziale per evitare le polemiche che inevitabilmente il testo è destinato a suscitare negli ambienti tradizionalisti della società e della cultura veneziana. In realtà la scena potrebbe benissimo essere spostata a Venezia. L’azione si svolge esclusivamente in un interno, ovvero una locanda, dove soggiornano per periodi più o meno lunghi dei clienti. L’ambientazione della commedia corrisponde quindi a un luogo del tutto reale, come del tutto realistiche sono le occupazioni quotidiane di chi gestisce la locanda: cambiare la biancheria, cucinare, servire il pranzo, stirare, preparare i conti a chi si dispone a lasciare la locanda. I personaggi Il numero dei personaggi è piuttosto limitato e questa scelta ne consente una maggior caratterizzazione. A parte le due attrici Dejanira e Ortensia, che non appaiono individualmente definite nella loro personalità proprio perché devono rappresentare in un certo senso le “maschere” della vecchia commedia e i La locandiera 5 477
loro stereotipi linguistici, i personaggi principali, tutti tratteggiati con grande attenzione, sono cinque. Due di essi appartengono stabilmente al microcosmo della locanda in quanto la gestiscono: la locandiera Mirandolina e il cameriere Fabrizio. Gli altri tre sono gli ospiti della locanda, tutti appartenenti al ceto nobiliare e tutti e tre, prima o poi, innamorati della bella locandiera. Per quanto riguarda questi ultimi, Goldoni anticipa per certi versi nella Locandiera la sottile analisi di un’intera categoria sociale (in questo caso la nobiltà) realizzata attraverso diversi campioni rappresentativi, che culminerà qualche anno dopo nella splendida rappresentazione dei quattro rusteghi (in questo caso, la borghesia mercantile ➜ T3 ). Il ritratto negativo della nobiltà Della nobiltà viene fornito nella Locandiera un ritratto complessivamente negativo: i tre nobili mostrano in modo diverso un contegno comunque arrogante, si esprimono in un linguaggio innaturale e altisonante, credono nell’assoluta superiorità della loro classe e trattano con sufficienza e supponenza chi considerano subalterno. Tutti vivono una vita che si intuisce oziosa, contrapposta alle attività di chi lavora per servirli. Dei tre, Goldoni analizza poi finemente le differenze comportamentali: il marchese rappresenta il nobile decaduto e impoverito, attaccato pateticamente ai suoi antichi privilegi; il conte un esempio di nobiltà acquisita e sostenuta grazie a una ricchezza volgarmente ostentata; il cavaliere è un orgoglioso misogino che si ritiene superiore a tutti e che finirà crudelmente beffato da Mirandolina. Fabrizio, un servo “rivisitato” I personaggi in cui maggiormente si misura la portata della riforma goldoniana, proprio perché derivano da figure della tradizione teatrale, sono Fabrizio e soprattutto Mirandolina. Fabrizio deriva dal tradizionale personaggio del servo, ma è di fatto un personaggio costruito ex novo: non ha nulla di comico, vive all’ombra di Mirandolina, che spera prima o poi di sposare (come il padre di lei, morendo, aveva chiesto). Ne è affascinato, ma è anche succube dei suoi capricci, dei suoi sbalzi di umore, è preda di una costante incertezza. Peraltro non manca in Fabrizio una componente pragmatica e un’ottica utilitaristica che lo accomuna alla sua padrona: «Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tempo di vita mia. Ah! Bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche cosa» (atto I, scena x). Mirandolina, un personaggio moderno Anche Mirandolina deriva da un personaggio tradizionale, quello della servetta della commedia dell’arte, chiamata Smeraldina o Colombina (Maddalena Marliani che la impersonificò era appunto specializzata in questo ruolo e presumibilmente, come fece in altre occasioni, Goldoni ideò il personaggio secondo le competenze e l’abilità dell’attrice). Ma gli spettatori che si fossero aspettati le moine della maschera di certo saranno rimasti sconcertati: Mirandolina è infatti uno dei personaggi più moderni e complessi creati da Goldoni, e sono tuttora aperte le interpretazioni critiche sulla reale natura di questo straordinario personaggio femminile (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO, PAG. 510). Mirandolina è caratterizzata da una visione sempre concreta e razionale, tutela soprattutto i suoi interessi (vera rappresentante in questo dell’ottica borghese, contrapposta alla dissipata e inconcludente nobiltà), non indulge a cedimenti sentimentali, sembra addirittura refrattaria all’amore, nonostante professi di voler bene a Fabrizio e alla fine decida di sposarlo. Per vendetta e per una sorta di bisogno narcisistico seduce il cavaliere misogino, umilia in lui la tracotanza nobiliare e poi rivela spietatamente il suo gioco.
478 Settecento 10 Carlo Goldoni
3 La struttura drammaturgica Il ruolo dei tre atti La locandiera è divisa in tre atti di ampiezza pressoché uguale, ben equilibrati nel loro rapporto: il ruolo del primo atto è quello di preparare il clima e il contesto della vicenda, presentare i personaggi, che compaiono già tutti in scena, e proporre il tema centrale, che ruota sul rapporto conflittuale tra Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta e sulla sfida messa in atto dalla locandiera nei suoi confronti. Il secondo atto sviluppa propriamente l’azione, portando a compimento il tema della seduzione del cavaliere da parte di Mirandolina. Il terzo vede il ritorno della locandiera, almeno in apparenza, alla sua posizione iniziale: ottenuta la vittoria sul cavaliere, non è più interessata a lui e vorrebbe riprendere come niente fosse la sua attività. Ma la passione del cavaliere la mette in difficoltà e la costringe a ripiegare, per ragioni di sicurezza e di opportunità, sul “tranquillo” matrimonio con Fabrizio: un finale solo in apparenza lieto, in realtà ambiguo come è ambiguo il personaggio di Mirandolina. Gli “a parte” e i monologhi In questa commedia è molto sapiente l’alternanza fra scene dialogate e monologhi o battute “a parte”. All’evoluzione della vicenda affidata ai dialoghi, si associano le informazioni supplementari, in questo caso molto ricche, fornite dagli “a parte” che ospitano a volte una verità diversa da quella enunciata nei dialoghi, o delle sottili notazioni psicologiche che arricchiscono la caratterizzazione dei personaggi (➜ T5b ). Ai monologhi infine, spesso collocati in una posizione strategica all’interno dell’atto (➜ T4c - T6b ), Goldoni affida la funzione di un commento rivelatore sulle reali dinamiche che ispirano le azioni dei personaggi (in particolare ciò vale per i monologhi di Mirandolina, che ne svelano la natura di personaggio complesso). La prefazione alla commedia e il significato dell’opera per Goldoni Nella prefazione Goldoni, forse consapevole della novità del testo e della possibilità (tutt’altro che remota) d’essere accusato di immoralità dal pubblico e dai commediografi più tradizionalisti, si premura di attribuire alla sua commedia una finalità particolarmente educativa: «Fra tutte le Commedie da me composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva». Poi sintetizza l’intreccio, mettendo in primo piano l’azione seduttiva della locandiera verso il cavaliere, ed esibisce i meccanismi della composizione del testo quando confessa le difficoltà (poi risolte) incontrate nell’ideazione del terzo atto: «Io non sapea quasi cosa mi fare nel terzo, ma venutomi in mente che sogliono coteste lusinghiere donne, quando vedono ne’ loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene...». Dunque Goldoni cerca di orientare in una certa direzione la lettura del testo presentando in una luce negativa il personaggio di Mirandolina, concepito, a suo dire, per stigmatizzare certi comportamenti femminili.
Un’edizione della Locandiera.
La locandiera 5 479
T4
La locandiera, atto I Nel primo atto sono già introdotti tutti i personaggi della commedia ed esposti i temi che troveranno sviluppo nel corso di essa: innanzitutto lo scontro costante tra il conte d’Albafiorita e il marchese di Forlipopoli per conquistare il cuore della bella Mirandolina, di cui entrambi sono invaghiti. Il marchese, che non può esibire ricchezze, è ridotto ormai quasi alla povertà (tutto quello che riesce a regalare alla giovane è un fazzolettino), mentre il conte, un ricco parvenu che ha comprato il titolo nobiliare, cerca di accattivarsi i favori della locandiera con doni preziosi che la donna accetta con sufficienza. I due vengono derisi dal cavaliere di Ripafratta, che dichiara di essere insensibile al fascino femminile e di disprezzare le donne. Il carattere deciso e indipendente, lo spirito pragmatico e calcolatore di Mirandolina già si delinea in varie scene del primo atto, in relazione sia ai due pretendenti, sia a Fabrizio. Nella scena xv inizia la manovra seduttiva nei confronti del cavaliere superbo e arrogante, nella quale già emerge il volto di abilissima attrice di Mirandolina.
Personaggi Il cavaliere di Ripafratta Il marchese di Forlipopoli Il conte d’Albafiorita Mirandolina, locandiera Ortensia, Dejanira, comiche Fabrizio, cameriere di locanda Servitore del cavaliere Servitore del conte
Carlo Goldoni
T4a
Il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita a confronto
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5, 8
La locandiera I, i C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
La commedia si apre senza preamboli sul diverbio fra i due aristocratici, ospiti della locanda: lo spiantato marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita, la cui nobiltà recente è compensata da un cospicuo patrimonio. I due litigano a proposito di Mirandolina, la padrona della locanda, manifestando punti di vista diversi che appartengono, più che al singolo individuo, all’ottica della categoria sociale di cui sono portavoce.
Scena prima Sala di locanda. Il marchese di Forlipopoli ed il conte d’Albafiorita. MARCHESE Fra voi e me vi è qualche differenza. CONTE Sulla locanda1 tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio. MARCHESE Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni2, mi si convengono3 più che a voi. 1 Sulla locanda: dentro la locanda.
480 Settecento 10 Carlo Goldoni
2 distinzioni: cortesie particolari.
3 mi si convengono: mi si addicono.
5 CONTE
Per qual ragione? MARCHESE Io sono il marchese di Forlipopoli. CONTE Ed io sono il conte d’Albafiorita. MARCHESE Sì, conte! Contea comprata. CONTE Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato. 10 MARCHESE Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto. CONTE Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando... MARCHESE Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me. 15 CONTE Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? Perché credete ch’io sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda? MARCHESE Oh bene. Voi non farete niente. CONTE Io no, e voi sì? 20 MARCHESE Io sì, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione. CONTE Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione. MARCHESE Denari?... non ne mancano. CONTE Io spendo uno zecchino4 il giorno, signor marchese, e la regalo5 25 continuamente. MARCHESE Ed io quel che fo non lo dico. CONTE Voi non lo dite, ma già si sa. MARCHESE Non si sa tutto. CONTE Sì, caro signor marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti6 30 il giorno. MARCHESE A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio. CONTE Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono 35 sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi7. MARCHESE Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò. 40 CONTE Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno. MARCHESE Quel ch’io faccio, lo faccio segretamente8, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (chiama) CONTE (Spiantato! Povero e superbo!) (da sé)
4 zecchino: moneta d’oro in uso a Venezia. 5 la regalo: le faccio dei regali. 6 paoletti: il paolo era una moneta d’ar-
gento (fatta coniare da papa Paolo III, da cui il nome) che valeva molto meno dello zecchino.
7 scudi: moneta veneziana che valeva circa quattro volte il paolo. 8 segretamente: con riservatezza.
La locandiera 5 481
Scena ii Si presenta il cameriere Fabrizio, che assiste Mirandolina nella conduzione della locanda; nutre la speranza di poterla prima o poi sposare, ma deve fare i conti con i progetti e i capricci della bella padrona, che lo tiene sulla corda con vaghe promesse. Scene iii-iv Dopo un breve dialogo fra il conte e il marchese, fa il suo ingresso l’ultimo personaggio maschile della commedia, a cui è affidato il ruolo principale per la conflittuale relazione che istituirà con la protagonista: si tratta del cavaliere di Ripafratta. Sprezzatore delle donne e delle loro moine, il cavaliere demitizza e ridicolizza le smanie amorose dei due ospiti: Mirandolina è per lui una donna come tutte le altre e non merita nessuna particolare attenzione.
Carlo Goldoni
T4b
L’entrata in scena della protagonista La locandiera I, v
C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Entra finalmente in scena la protagonista, ma lo spettatore (e il lettore) sa già qualcosa di lei dagli altri personaggi. Fin dall’inizio Mirandolina mostra la sua capacità professionale nel destreggiarsi abilmente tra i suoi clienti: accetta solo per cortesia un paio di preziosi orecchini di diamanti che le vengono offerti dal conte e tiene al suo posto il marchese. Solo il cavaliere le si rivolge con disprezzo e arroganza, chiedendole una biancheria più fine, adatta al suo stato.
Scena quinta Mirandolina e detti. MIRANDOLINA M’inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori? MARCHESE Io vi domando, ma non qui. MIRANDOLINA Dove mi vuole, Eccellenza? MARCHESE Nella mia camera. 5 MIRANDOLINA Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa, verrà il cameriere a servirla. MARCHESE (Che dite di quel contegno?) (al cavaliere) CAVALIERE (Quello che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità1, impertinenza.) (al marchese) 10 CONTE Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l’incomodo di venire nella mia camera. Osservate questi orecchini. Vi piacciono? MIRANDOLINA Belli. CONTE Sono diamanti, sapete? MIRANDOLINA Oh, li conosco. Me ne intendo anch’io dei diamanti. 15 CONTE E sono al vostro comando2. CAVALIERE (Caro amico, voi li buttate via.) (piano al conte) MIRANDOLINA Perché mi vuol ella donare quegli orecchini? MARCHESE Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de’ più belli al doppio. CONTE Questi sono legati alla moda3. Vi prego riceverli per amor mio. 1 temerità: avventatezza, ardimento eccessivo.
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2 sono al vostro comando: sono vostri. 3 legati alla moda: incastonati come vuo-
le la moda.
CAVALIERE (Oh che pazzo!) (da sé) MIRANDOLINA No, davvero, signore... CONTE Se non li prendete, mi disgustate4. MIRANDOLINA Non so che dire... mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il signor conte, li prenderò. (Oh che forca5!) (da sé) 25 CAVALIERE CONTE (Che dite di quella prontezza di spirito?) (al cavaliere) CAVALIERE (Bella prontezza! Ve li mangia, e non vi ringrazia nemmeno.) (al conte) MARCHESE Veramente, signor conte, vi siete acquistato un gran merito. Regalare una donna in pubblico6, per vanità! Mirandolina, vi ho da 30 parlare a quattr’occhi, fra voi e me: son cavaliere. MIRANDOLINA (Che arsura7! Non gliene cascano.) (da sé) Se altro non mi comandano, io me n’anderò. CAVALIERE Ehi! padrona. La biancheria che mi avete dato, non mi gusta8. Se non ne avete di meglio, mi provvederò9. (con disprezzo) 35 MIRANDOLINA Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza. CAVALIERE Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti. CONTE Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. (a Mirandolina) Eh, che non ho bisogno d’essere da lei compatito. 40 CAVALIERE MIRANDOLINA Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor cavaliere? CAVALIERE Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender pel10 servitore. Amici, vi sono schiavo11. (parte) 45 20
Scene vi-viii In una serie di brevissime scene intermedie si ripropongono le vivaci schermaglie tra il conte e il marchese.
Pietro Longhi, La polenta (particolare), olio su tela, 1740 (Venezia, Museo Ca’ Rezzonico). 4 mi disgustate: mi fate un’offesa personale. 5 che forca: che malandrina. 6 Regalare una donna in pubblico: fare un regalo a una donna davanti agli altri (il marchese nota il cattivo gusto del suo
ricco rivale). 7 Che arsura: che taccagneria. 8 non mi gusta: non mi piace. 9 mi provvederò: me ne procurerò (a mie spese).
10 pel: dal. 11 vi sono schiavo: formula di cortese saluto.
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Carlo Goldoni
T4c
Il primo monologo di Mirandolina
EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
La locandiera I, ix C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
AUDIOLETTURA
In un celebre monologo, una delle scene più note dell’opera, Mirandolina enuncia con chiarezza la sua disincantata, se non addirittura cinica, visione del mondo.
Scena nona Mirandolina sola. MIRANDOLINA Uh, che mai ha detto1! L’eccellentissimo signor marchese Arsura2 mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, 5 oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono3 di sposarmi a dirittura. E questo signor cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto pia10 cere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con 15 questi per l’appunto mi ci metto di picca4. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non 20 ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare5 quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior 25 cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.
François Boucher, Donna in piedi vista di spalle, 1742, incisione.
484 Settecento 10 Carlo Goldoni
1 che mai ha detto: nella scena precedente (qui non riportata) il marchese aveva dichiarato che se avesse avuto dei denari come il conte avrebbe sposato la locandiera. 2 marchese Arsura: marchese Taccagneria. Il termine arsura era già stato usato da Mirandolina in riferimento all’avarizia del marchese. 3 mi esibiscono: si offrono. 4 di picca: di puntiglio. 5 conquassare: scuotere violentemente, fracassare.
T4d
Carlo Goldoni
LEGGERE LE EMOZIONI
Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri
La locandiera I, x C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
Mirandolina ha con Fabrizio un vivace scambio di idee, che serve a delineare ancor più la complessa, sfaccettata personalità della protagonista.
Scena decima Fabrizio e detta. AUDIOLETTURA
FABRIZIO Ehi Padrona. MIRANDOLINA Che cosa c’è? FABRIZIO Quel forestiere che è alloggiato nella camera di mezzo, grida della biancheria; dice che è ordinaria, e che non la vuole. 5 MIRANDOLINA Lo so, lo so. Lo ha detto anche a me, e lo voglio servire. FABRIZIO Benissimo. Venitemi dunque a metter fuori la roba, che gliela possa portare. MIRANDOLINA Andate, andate, gliela porterò io. FABRIZIO Voi gliela volete portare? 10 MIRANDOLINA Sì, io. FABRIZIO Bisogna che vi prema molto questo forestiere. MIRANDOLINA Tutti mi premono. Badate a voi. FABRIZIO (Già me n’avvedo. Non faremo niente. Ella mi lusinga; ma non faremo niente.) (da sé) 15 MIRANDOLINA (Povero sciocco! Ha delle pretensioni1. Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedeltà.) (da sé) FABRIZIO Si è sempre costumato2, che i forestieri li serva io. MIRANDOLINA Voi con i forestieri siete un poco troppo ruvido. FABRIZIO E voi siete un poco troppo gentile. 20 MIRANDOLINA So quel che fo, non ho bisogno di correttori. FABRIZIO Bene, bene. Provvedetevi di cameriere. MIRANDOLINA Perché, signor Fabrizio? è disgustato di me? FABRIZIO Vi ricordate voi che cosa ha detto a noi due vostro padre, prima ch’egli morisse? 25 MIRANDOLINA Sì; quando mi vorrò maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio padre. FABRIZIO Ma io son delicato di pelle3, certe cose non le posso soffrire. MIRANDOLINA Ma che credi tu ch’io mi sia? Una frasca4? Una civetta5? Una pazza? Mi maraviglio di te. Che voglio fare io dei forestieri che vanno e 30 vengono? Se li tratto bene, lo fo per mio interesse, per tener in credito la mia locanda. De’ regali non ne ho bisogno. Per far all’amore6? Uno mi basta: e questo non mi manca; e so chi merita, e so quello che mi conviene. E quando vorrò maritarmi... mi ricor-
1 pretensioni: pretese. 2 Si è sempre costumato: c’è sempre stata
4 frasca: donna leggera. 5 civetta: donna vanitosa che cerca di attira-
l’abitudine. 3 delicato di pelle: suscettibile.
6 far all’amore: fino all’inizio del Nove-
re l’attenzione e l’ammirazione degli uomini.
cento circa l’espressione non ha il significato odierno, ma significa più o meno “far la corte (a qualcuno), corteggiarsi”.
La locandiera 5 485
derò di mio padre. E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito... Ma io non son conosciuta. Basta, Fabrizio, intendetemi, se potete. (parte) FABRIZIO Chi può intenderla, è bravo davvero. Ora pare che la mi voglia, ora che la non mi voglia. Dice che non è una frasca, ma vuol far a suo modo. Non so che dire. Staremo a vedere. Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tem40 po di vita mia. Ah! bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche cosa. Finalmente7 i forestieri vanno e vengono. Io resto sempre. Il meglio sarà sempre per me. (parte) 35
Scene xii-xiv La scena si sposta alla stanza del cavaliere di Ripafratta. Lo spiantato marchese si fa prestare dei soldi dal cavaliere. 7 Finalmente: alla fin fine.
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T4e
L’inizio della sfida di Mirandolina al cavaliere misogino La locandiera I, xv-xvi
C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Si verifica il primo vero confronto tra Mirandolina e il cavaliere. La locandiera mette in atto le sue prime strategie per conquistare il nobiluomo: gli fornisce della biancheria di pregio, protesta la sua sincerità, enuncia il suo compatimento per le debolezze, ben poco virili, dei suoi due pretendenti, elogia il cavaliere per essere un vero uomo, che «non è effeminato, [...] non è di quelli che s’innamorano». Alla scena segue il breve “a solo” del cavaliere, che già mostra qualche segno di debolezza. Mirandolina gli appare di certo diversa dalle altre: magari potrebbe anche divertirsi con lei, ma non innamorarsi.
Scena quindicesima Mirandolina colla biancheria, e detto. MIRANDOLINA Permette, illustrissimo? (entrando con qualche soggezione) CAVALIERE Che cosa volete? (con asprezza) MIRANDOLINA Ecco qui della biancheria migliore. (s’avanza un poco) CAVALIERE Bene. Mettetela lì. (accenna il tavolino) 5 MIRANDOLINA La supplico almeno degnarsi vedere se è di suo genio1. CAVALIERE Che roba è? MIRANDOLINA Le lenzuola sono di rensa2. (s’avanza ancor più) CAVALIERE Rensa? MIRANDOLINA Sì signore, di dieci paoli al braccio. Osservi. 10 CAVALIERE Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato. 1 genio: gradimento; più sotto (r. 37), vale “gradimento”. 2 rensa: tessuto di lino, bianco e pregiato.
486 Settecento 10 Carlo Goldoni
MIRANDOLINA Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei. Per esser lei! Solito complimento. 15 CAVALIERE MIRANDOLINA Osservi il servizio di tavola. CAVALIERE Oh! Queste tele di Fiandra, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me. MIRANDOLINA Per un cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima. 20 CAVALIERE (Non si può però negare, che costei non sia una donna obbligante). (da sé) MIRANDOLINA (Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne). (da sé) CAVALIERE Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v’incomodiate per questo. 25 MIRANDOLINA Oh, io non m’incomodo mai, quando servo cavaliere di sì alto merito. CAVALIERE Bene, bene, non occorr’altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così). (da sé) MIRANDOLINA La metterò nell’arcova3. Sì, dove volete. (con serietà) 30 CAVALIERE MIRANDOLINA (Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente). (da sé; va a riporre la biancheria) CAVALIERE (I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano). (da sé) 35 MIRANDOLINA A pranzo, che cosa comanda? (ritornando senza la biancheria) CAVALIERE Mangerò quello che vi sarà. MIRANDOLINA Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell’altra, lo dica con libertà. CAVALIERE Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere. 40 MIRANDOLINA Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazienza che abbiamo noi donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me. CAVALIERE Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col conte e col marchese. Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla lo45 MIRANDOLINA canda per alloggiare, e pretendono poi di voler far all’amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza. 50 CAVALIERE Brava! Mi piace la vostra sincerità. MIRANDOLINA Oh! non ho altro di buono, che la sincerità. CAVALIERE Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere. MIRANDOLINA Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati4 per me, se ho mai dato loro un segno 55 d’affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero 3 arcova: luogo della camera chiuso da tendaggi dove si trovava il letto. 4 spasimati: spasimanti.
La locandiera 5 487
lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne, che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non 60 son bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà. CAVALIERE Oh sì, la libertà è un gran tesoro. MIRANDOLINA E tanti la perdono scioccamente. So ben io quel che faccio. Alla larga. 65 CAVALIERE MIRANDOLINA Ha moglie V. S. illustrissima? CAVALIERE Il cielo me ne liberi. Non voglio donne. MIRANDOLINA Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore... Basta, a me non tocca a dirne male. Voi siete per altro la prima donna, ch’io senta parlar così. 70 CAVALIERE MIRANDOLINA Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini che hanno paura del nostro sesso. CAVALIERE (È curiosa costei). (da sé) MIRANDOLINA Con permissione di V. S. illustrissima. (finge voler partire) Avete premura di partire? 75 CAVALIERE MIRANDOLINA Non vorrei esserle importuna. CAVALIERE No, mi fate piacere; mi divertite. MIRANDOLINA Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono... Se la m’intende, e’ mi fanno i cascamorti. 80 CAVALIERE Questo accade, perché avete buona maniera. MIRANDOLINA Troppa bontà, illustrissimo. (con una riverenza) CAVALIERE Ed essi s’innamorano. MIRANDOLINA Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna! Questa io non l’ho mai potuta capire. 85 CAVALIERE MIRANDOLINA Bella fortezza! Bella virilità! CAVALIERE Debolezze! Miserie umane! MIRANDOLINA Questo è il vero pensare degli uomini. Signor cavaliere, mi porga la mano. Perché volete ch’io vi porga la mano? 90 CAVALIERE MIRANDOLINA Favorisca; si degni; osservi, sono pulita. CAVALIERE Ecco la mano. MIRANDOLINA Questa è la prima volta, che ho l’onore d’aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo. Via, basta così. (ritira la mano) 95 CAVALIERE MIRANDOLINA Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que’ due signori sguaiati5, avrebbe tosto creduto ch’io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio6. Non darei loro una semplice libertà, per tutto l’oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole sciocche100 rie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, 5 sguaiati: senza decoro. 6 deliquio: perdita dei sensi.
488 Settecento 10 Carlo Goldoni
mi comandi con autorità, e avrò per lei quell’attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo. CAVALIERE Per quale motivo avete tanta parzialità per me? Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno 105 MIRANDOLINA sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate. (Che diavolo ha costei di stravagante, ch’io non capisco!). (da sé) 110 CAVALIERE MIRANDOLINA (Il satiro7 si anderà a poco a poco addomesticando). (da sé) CAVALIERE Orsù, se avete da badare alle cose vostre, non restate per me. MIRANDOLINA Sì signore, vado ad attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere. 115 CAVALIERE Bene... Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri. MIRANDOLINA Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta. CAVALIERE Da me... Perché? Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo. 120 MIRANDOLINA CAVALIERE Vi piaccio io? MIRANDOLINA Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s’innamorano. (Mi caschi il naso, se avanti domani non l’innamoro). (da sé, parte) Scena sedicesima Il cavaliere solo. CAVALIERE Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non so che di estraordinario; ma non per questo mi lascierei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con 130 un’altra. Ma per far all’amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s’innamorano delle donne. (parte) 125
7 il satiro: nella mitologia classica il satiro è un essere mezzo umano e mezzo caprone, che vive nelle selve. Qui è sinonimo di “selvatico”.
Scene xvii-xxiii L’atmosfera della locanda si movimenta con l’arrivo di due attrici in cerca d’avventure, Ortensia e Dejanira, che si fingono nobildonne. L’occhio esperto di Mirandolina riconosce facilmente in loro delle maldestre commedianti che cercano di approfittare degli ospiti della locanda. L’interazione fra la locandiera e le attrici assume tratti metateatrali: le due modeste attrici rappresentano le tradizionali “amorose” della Commedia dell’arte, che si trovano davanti una “servetta” (ma Mirandolina conserva ormai solo pochissimi tratti del personaggio della Commedia dell’arte da cui deriva). Si svolge così una sorta di recita-competizione, che decreta il declassamento delle prime da parte della seconda, vera prima attrice che ha in mano l’andamento della rappresentazione grazie alla nuova tipologia di personaggio che l’autore ha creato: Mirandolina non è più una “servetta” particolarmente riuscita, ma un moderno personaggio dalla psicologia complessa e ricca di sfumature. La locandiera 5 489
Analisi del testo Lo spazio scenico: la locanda Goldoni sceglie, per ragioni di prudenza, di ambientare la vicenda a Firenze e non a Venezia (ma i tratti dei personaggi rimandano alla stratificazione sociale della sua città). Il luogo in cui si svolge l’intera vicenda non è un interno familiare (come in altre sue commedie), ma uno spazio pubblico, ovvero una locanda che, per i suoi caratteri costituitivi di spazio “aperto” alle più diverse frequentazioni, si propone come osservatorio privilegiato delle dinamiche sociali e comportamentali che a Goldoni interessa mettere a fuoco nella sua commedia riformata. Per la saggezza e capacità imprenditoriale con cui la conduce Mirandolina, la locanda è anche il luogo-simbolo dei valori borghesi di concretezza, attivismo, razionale gestione delle risorse (in questo caso costituite dai clienti): così la vede appunto Mirandolina, mentre per i tre nobili, legati a una visione antiquata, la locanda è il luogo ideale per incontri d’amore licenziosi e non impegnativi a cui dovrebbe prestarsi la bella locandiera, per “natura” e per la sua inferiorità sociale. Da quanto asseriscono nella prima scena il conte di Albafiorita e il marchese di Forlipopoli, essi permangono nella locanda non per ragioni connesse a impegni o a qualche attività, ma esclusivamente per conquistare la donna.
Il ritratto critico della classe nobiliare in tre varianti
Pino Micol e Carla Gravina nella Locandiera diretta nel 1979 da Giancarlo Cobelli.
Già nel primo atto viene attivato il “sistema dei personaggi” che rimarrà stabile fino alla fine. Esso vede da una parte la classe nobiliare, presentata qui in tre significative varianti: innanzitutto il marchese di Forlipopoli, ormai rovinato (tanto che cerca di spillare al cavaliere del denaro), ma in compenso attaccato tenacemente all’orgoglio di casta nel proporsi altezzosamente come protettore della giovane, come si addice al ruolo tradizionale, feudale, del cavaliere nei confronti dei deboli e delle donne. Il marchese è il rappresentante per eccellenza della decadenza della classe nobiliare, inattiva, priva ormai di un ruolo sociale e ripiegata su sé stessa nella patetica difesa dei propri antichi privilegi. L’antagonista del marchese, il conte di Albafiorita, è un esempio della nobiltà recente, acquisita; è un parvenu, ed è quindi identificato come personaggio dalla costante esibizione del denaro e della ricchezza (i gioielli preziosi), con cui crede di poter comprare i favori della bella donna. La sua caratteristica distintiva è il cattivo gusto, l’ostentazione, che lo spiantato marchese non manca di sottolineare. Entrambi sono pronti a favorire il matrimonio della ragazza con Fabrizio (fine della prima scena), naturalmente con la sottintesa intenzione di frequentarla anche dopo le nozze (ricordiamo che questa è l’epoca del libertinismo e del cicisbeismo). Il terzo personaggio, che inizialmente si inserisce tra i due smorzandone ironicamente l’antagonismo, diventerà poi a sua volta antagonista di entrambi, una volta innamoratosi di Mirandolina. Il cavaliere di Ripafratta si distingue dagli altri due per tratti caratteriali e di classe particolarmente antipatici: è supponente, autoritario e altezzoso allo stesso modo con il suo servo e con Mirandolina, considerata alla pari del servo una subalterna, almeno fino a quando essa non lo attira nella sua trappola seduttiva (scena xv). Allora la sua arroganza si smorza e si vede costretto a corrispondere alla gentilezza particolare di Mirandolina verso di lui. Nei confronti dei tre personaggi, Goldoni manifesta una critica che, senza essere aspramente polemica, assume tuttavia i tratti di una corrosiva diagnosi sociale secondo i caratteri e le finalità della commedia goldoniana: il divertimento dello spettatore non esclude la riflessione su un modello comportamentale, quello della nobiltà, ormai colpevolmente anacronistico.
Mirandolina: un inedito personaggio femminile Dall’altra parte, all’interno di relazioni dinamiche con i tre personaggi nominati, emerge fin dal primo atto la figura di Mirandolina, una delle più analiticamente caratterizzate da Goldoni, nei suoi atteggiamenti e nella sua psicologia. Mirandolina è la padrona della locanda, che essa sa gestire con decisione e accortezza, attirando i clienti con il suo fascino, ma senza concedersi mai a nessuno. Il suo potenziale seduttivo è per la ragazza una sorta di “capitale”, da amministrare con
490 Settecento 10 Carlo Goldoni
la stessa sagacia con cui amministra l’altro suo capitale, ossia la locanda che il padre le ha lasciato in eredità. Le spiccate doti di razionalità e concretezza che la contraddistinguono fanno di Mirandolina un’interprete delle qualità proprie della classe borghese, che si contrappongono alle vane pretese dei tre nobili nei suoi confronti: Mirandolina non è più infatti un labile oggetto di desiderio, come vorrebbero i tre nobili, ma è la vera regista dell’azione, che muove come burattini i suoi spasimanti, tenendoli sulla corda, lusingandoli e poi respingendoli (la cosa vale anche per il cameriere Fabrizio) per i suoi esclusivi interessi. Regista dell’azione, dunque, ma soprattutto regista del proprio destino, Mirandolina è certamente, come lo spettatore e il lettore del testo colgono già dal primo atto, un personaggio femminile inedito, senza precedenti e di grande modernità per il tempo in cui la commedia è stata scritta: a nessuno Mirandolina permette di comandarla, a nessuno soprattutto intende delegare la gestione della sua vita, come enuncia con franchezza nella scena del colloquio con Fabrizio («quando vorrò maritarmi»). Se la scena v e soprattutto la xv, a tu per tu con il cavaliere, rivelano in Mirandolina l’abile seduttrice che sa usare le strategie opportune alla situazione, il celebre monologo della scena ix (completato dal dialogo con Fabrizio della scena x) mette a nudo gli aspetti più importanti (e inquietanti) del personaggio.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Individua e sintetizza i principali nuclei tematici presenti nel primo atto. 2 Secondo te quali sono le ragioni della misoginia del cavaliere? 3. Quali strategie utilizza Mirandolina nella scena xv per infrangere le difese del cavaliere (➜ T4e )? 4. Qual è il rapporto tra Mirandolina e Fabrizio? ANALISI 5. Presenta i personaggi del primo atto. Da quali espressioni intuiamo il carattere dei personaggi? Rintracciale nel testo. 6. Quali fondamentali aspetti distinguono il marchese dal conte? Quali elementi invece li uniscono? 7. Mirandolina, offesa dal comportamento del cavaliere, decide di conquistarlo: in che modo? Individua nel testo i punti e le battute in cui è possibile intravedere la strategia della locandiera.
Interpretare
SCRITTURA 8. Le parole chiave del confronto tra il marchese e il conte in rapporto a Mirandolina sono «denari» e «protezione» (➜ T4a ). Spiega in un testo scritto a quale situazione sociologica corrisponde questa contrapposizione (max. 10 righe).
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 5, 8 LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo
#PROGETTOPARITÀ
Costituzione
competenza 3
9. La complessa personalità di Mirandolina è delineata, nell’atto I, in particolare dal monologo ( T4c , scena ix) e dal colloquio con Fabrizio che lo segue (➜ T4d , scena x). Da che cosa ti sembra sia dettato il comportamento di Mirandolina verso i suoi corteggiatori? Credi che la giovane donna possa essere considerata un personaggio rivoluzionario, una protofemminista che rivendica la propria autonomia e che si oppone a un mondo al maschile, nel quale gli uomini tentano di imporre le loro scelte o – al contrario – una cinica seduttrice, ferita nell’orgoglio? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe. LETTERATURA E NOI
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
10. In uno scritto di 15 righe spiega per quali motivi Mirandolina viene considerata una figura femminile moderna e sorprendentemente attuale.
La locandiera 5 491
T5
La locandiera, atto II Il secondo atto si svolge interamente nella stanza del cavaliere di Ripafratta. Mirandolina attua il suo piano di seduzione nei confronti del cavaliere, usando come armi una speciale gentilezza verso l’ospite, l’abilità di cuoca, persino la condivisione delle idee dello scorbutico gentiluomo nei confronti delle donne, fino allo scacco finale realizzato grazie a un finto svenimento inscenato in occasione dell’imminente partenza del cavaliere, che lo fa definitivamente capitolare. Mentre la seduzione di Mirandolina, consumata attrice, riesce perfettamente, falliscono i paralleli tentativi delle due attrici, troppo grossolane per realizzare il loro piano di ottenere qualche compenso dal facoltoso cavaliere. Il motivo conduttore del secondo atto è il rapporto Mirandolina-cavaliere, cui si associa la ripresa della caratterizzazione degli altri personaggi, in particolare del marchese. Scene i-iii La scena si apre nella camera del cavaliere, a cui Mirandolina invia prelibate vivande e che ha disposto sia servito per primo. Il cavaliere ammira le qualità di perfetta padrona di casa della locandiera e la sua apprezzabile sincerità (che in realtà è deliberata finzione) e comincia a mostrare segni di cedimento psicologico («Per bacco! Costei incanta tutti. Sarebbe da ridere che incantasse anche me. Orsù, domani vado a Livorno. S’ingegni per oggi, se può, ma si assicuri che non sono sì debole. Avanti ch’io superi l’avversion per le donne, ci vuol altro»). Nella terza scena il cavaliere viene messo al corrente che il conte sta pranzando con le due nuove ospiti della locanda e commenta: «A tavola con due dame! Oh che bella compagnia! Colle loro smorfie mi farebbero passar l’appetito».
Carlo Goldoni
T5a
La tattica psicologica di Mirandolina: abbattere le difese del Cavaliere La locandiera II, iv
C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Mirandolina, che pure non ha l’abitudine di entrare «nelle camere dei forestieri», si reca personalmente dal cavaliere per servirgli una pietanza particolarmente prelibata che ha preparato apposta per lui. Il cavaliere la riceve con gentilezza, la fa sedere addirittura a tavola con lui e le offre da bere. Tutta la scena è un capolavoro di tattica psicologica messa in atto da Mirandolina per far capitolare il cavaliere.
Scena quarta Mirandolina con un tondo1 in mano, ed il servitore, e detto. MIRANDOLINA È permesso? CAVALIERE Chi è di là? SERVITORE Comandi. CAVALIERE Leva là quel tondo di mano. 5 MIRANDOLINA Perdoni. Lasci ch’io abbia l’onore di metterlo in tavola colle mie mani. (mette in tavola la vivanda) 1 tondo: piatto.
492 Settecento 10 Carlo Goldoni
CAVALIERE Questo non è offizio2 vostro. MIRANDOLINA Oh signore, chi son io? Una qualche signora? Sono una serva di chi favorisce venire alla mia locanda. CAVALIERE (Che umiltà!). (da sé) 10 MIRANDOLINA In verità, non avrei difficoltà di servire in tavola tutti, ma non lo faccio per certi riguardi: non so s’ella mi capisca. Da lei vengo senza scrupoli, con franchezza. CAVALIERE Vi ringrazio. Che vivanda è questa? MIRANDOLINA Egli è3 un intingoletto fatto colle mie mani. 15 CAVALIERE Sarà buono. Quando4 lo avete fatto voi, sarà buono. MIRANDOLINA Oh! troppa bontà, signore. Io non so far niente di bene; ma bramerei saper fare, per dar nel genio ad un cavalier sì compìto5. CAVALIERE (Domani a Livorno). (da sé) Se avete che fare, non istate a disagio per me. 20 MIRANDOLINA Niente, signore: la casa è ben provveduta di cuochi e servitori. Avrei piacere di sentire, se quel piatto le dà nel genio6. CAVALIERE Volentieri, subito. (lo assaggia) Buono, prezioso. Oh che sapore! Non conosco che cosa sia. MIRANDOLINA Eh, io, signore, ho de’ secreti particolari. Queste mani sanno far 25 delle belle cose! CAVALIERE Dammi da bere. (al servitore, con qualche passione) MIRANDOLINA Dietro7 questo piatto, signore, bisogna beverlo buono. CAVALIERE Dammi del vino di Borgogna. (al servitore). MIRANDOLINA Il vino di Borgogna è prezioso. Secondo me, per pasteggiare è il 30 miglior vino che si possa bere. (il servitore presenta la bottiglia in tavola, con un bicchiere) CAVALIERE Voi siete di buon gusto in tutto. MIRANDOLINA In verità, che poche volte m’inganno. CAVALIERE Eppure questa volta voi v’ingannate. 35 MIRANDOLINA In che, signore? CAVALIERE In credere ch’io meriti d’essere da voi distinto8. MIRANDOLINA Eh, signor cavaliere... (sospirando) CAVALIERE Che cosa c’è? Che cosa sono questi sospiri? (alterato) MIRANDOLINA Le dirò: delle attenzioni ne uso a tutti, e mi rattristo quando penso 40 che non vi sono che ingrati. CAVALIERE Io non vi sarò ingrato. (con placidezza) MIRANDOLINA Con lei non pretendo di acquistar merito, facendo unicamente il mio dovere. CAVALIERE No, no, conosco benissimo... Non sono cotanto rozzo quanto voi 45 mi credete. Di me non avrete a dolervi. (versa il vino nel bicchiere) MIRANDOLINA Ma... signore... io non l’intendo. CAVALIERE Alla vostra salute. (beve) 2 offizio: compito. 3 Egli è: è (egli è pleonastico). 4 Quando: dal momento che. 5 per dar… compìto: per compiacere un
cavaliere così cortese, di buone maniere.
6 le dà nel genio: le piace, incontra il suo gusto.
8 In credere... distinto: nel credere che io meriti di ricevere da voi un trattamento speciale.
7 Dietro: dopo.
La locandiera 5 493
MIRANDOLINA Obbligatissima; mi onora troppo. CAVALIERE Questo vino è prezioso. 50 MIRANDOLINA Il Borgogna è la mia passione. CAVALIERE Se volete, siete padrona. (le offerisce il vino) MIRANDOLINA Oh! Grazie, signore. CAVALIERE Avete pranzato? MIRANDOLINA Illustrissimo sì. Ne volete un bicchierino? 55 CAVALIERE MIRANDOLINA Io non merito queste grazie9. CAVALIERE Davvero, ve lo do volentieri. MIRANDOLINA Non so che dire. Riceverò le sue finezze. CAVALIERE Porta un bicchiere. (al servitore) 60 MIRANDOLINA No, no, se mi permette; prenderò questo. (prende il bicchiere del cavaliere) CAVALIERE Oibò. Me ne sono servito io. MIRANDOLINA Beverò10 le sue bellezze. (ridendo) (il servitore mette l’altro bicchiere nella sottocoppa) 65
CAVALIERE MIRANDOLINA CAVALIERE MIRANDOLINA CAVALIERE
70
(Mirandolina col bicchiere in una mano, e nell’altra il pane, mostra di stare in disagio, e non saper come fare la zuppa)
Eh galeotta11! (versa il vino) Ma è qualche tempo che ho mangiato: ho timore che mi faccia male. Non vi è pericolo. Se mi favorisse un bocconcino di pane... Volentieri. Tenete. (le dà un pezzo di pane)
CAVALIERE Voi state in disagio. Volete sedere? MIRANDOLINA Oh! Non son degna di tanto, signore. CAVALIERE Via, via, siamo soli. Portale una sedia. (al servitore) 75 SERVITORE (Il mio padrone vuol morire: non ha mai fatto altrettanto.) (da sé; va a prendere la sedia) MIRANDOLINA Se lo sapessero il signor conte ed il signor marchese, povera me! CAVALIERE Perché? MIRANDOLINA Cento volte mi hanno voluto obbligare a bere qualche cosa, o a mangiare, e non ho mai voluto farlo. 80 CAVALIERE Via, accomodatevi. MIRANDOLINA Per obbedirla. (siede, e fa la zuppa nel vino) CAVALIERE Senti. (al servitore, piano) (Non lo dire a nessuno, che la padrona sia stata a sedere alla mia tavola). (Non dubiti). (piano) (Questa novità mi sorprende). (da sé) 85 SERVITORE MIRANDOLINA Alla salute di tutto quello che dà piacere al signor cavaliere. CAVALIERE Vi ringrazio, padroncina garbata. MIRANDOLINA Di questo brindisi alle donne non ne tocca. CAVALIERE No? perché? 90 MIRANDOLINA Perché so che le donne non le può vedere. 9 grazie: gentilezze. CAVALIERE È vero, non le ho mai potute vedere. 10 beverò: berrò. MIRANDOLINA Si conservi sempre così. 11 galeotta: ammaliatrice, seduttrice. CAVALIERE Non vorrei... (si guarda dal servitore)
494 Settecento 10 Carlo Goldoni
MIRANDOLINA Che cosa, signore? CAVALIERE Sentite. (le parla nell’orecchio) (Non vorrei che voi mi faceste mutar natura). MIRANDOLINA Io, signore? Come? CAVALIERE Va via. (al servitore) SERVITORE Comanda in tavola? Fammi cucinare due uova, e quando son cotte, portale. 100 CAVALIERE SERVITORE Come le comanda le uova? CAVALIERE Come vuoi, spicciati. SERVITORE Ho inteso. (Il padrone si va riscaldando). (da sé, parte) CAVALIERE Mirandolina, voi siete una garbata giovine. 105 MIRANDOLINA Oh signore, mi burla. CAVALIERE Sentite. Voglio dirvi una cosa vera, verissima, che ritornerà in vostra gloria. MIRANDOLINA La sentirò volentieri. CAVALIERE Voi siete la prima donna di questo mondo, con cui ho avuto la sofferenza12 di trattar con piacere. 110 MIRANDOLINA Le dirò, signor cavaliere: non già ch’io meriti niente, ma alle volte si danno questi sangui che s’incontrano13. Questa simpatia, questo genio14, si dà anche fra persone che non si conoscono. Anch’io provo per lei quello che non ho sentito per alcun altro. Ho paura che voi mi vogliate far perdere la mia quiete. 115 CAVALIERE MIRANDOLINA Oh via, signor cavaliere, se è un uomo savio, operi da suo pari. Non dia nelle15 debolezze degli altri. In verità, se me n’accorgo, qui non ci vengo più. Anch’io mi sento un non so che di dentro, che non ho più sentito; ma non voglio impazzire per uomini, e molto meno per uno che ha in odio le donne; e che forse forse per 120 provarmi, e poi burlarsi di me, viene ora con un discorso nuovo a tentarmi. Signor cavaliere, mi favorisca un altro poco di Borgogna. CAVALIERE Eh! Basta... (versa il vino in un bicchiere) MIRANDOLINA (Sta lì lì per cadere). (da sé) Tenete. (le dà il bicchiere col vino) 125 CAVALIERE MIRANDOLINA Obbligatissima. Ma ella non beve? CAVALIERE Sì, beverò. (Sarebbe meglio che io mi ubbriacassi. Un diavolo scaccerebbe l’altro). (da sé, versa il vino nel suo bicchiere) MIRANDOLINA Signor cavaliere. (con vezzo) Che c’è? 130 CAVALIERE MIRANDOLINA Tocchi. (gli fa toccare il bicchiere col suo) Che vivano i buoni amici. CAVALIERE Che vivano. (un poco languente) MIRANDOLINA Viva... chi si vuol bene... senza malizia tocchi! CAVALIERE Evviva.. 95
135
Scena v Mentre i due brindano, entra nella stanza il marchese e chiede di assaggiare, da intenditore qual è, il Borgogna.
12 ho avuto la sofferenza: ho tollerato. 13 si danno… che s’incontrano: succede
che queste indoli s’incontrino.
14 genio: reciproco piacere.
15 Non dia nelle: non incorra nelle.
La locandiera 5 495
Carlo Goldoni
Il gioco degli “a parte”
T5b
La locandiera II, vi La sesta scena sembra incentrata sul registro satirico e sul rilievo dato alla figura del marchese, che con ridicola parsimonia fa assaggiare una sua bottiglietta di «prezioso» vino di Cipro, conquistandosi i sarcastici commenti della locandiera. In realtà è più importante la schermaglia sotterranea, affidata essenzialmente agli “a parte”, alle battute messe nel testo tra parentesi, che si svolgono tra Mirandolina e il cavaliere, ormai caduto innamorato.
C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Scena sesta Il servitore colle ova1, e detti. CAVALIERE Un bicchierino al marchese. (al servitore) MARCHESE Non tanto piccolo il bicchierino. Il Borgogna non è liquore. Per giudicarne bisogna beverne a sufficienza. SERVITORE Ecco le ova (vuol metterle in tavola). 5 CAVALIERE Non voglio altro. MARCHESE Che vivanda è quella? CAVALIERE Ova. MARCHESE Non mi piacciono (il servitore le porta via). MIRANDOLINA Signor marchese, con licenza2 del signor cavaliere, senta quell’in10 tingoletto fatto colle mie mani. MARCHESE Oh sì. Ehi. Una sedia (il servitore gli reca una sedia e mette il bicchiere sulla sottocoppa). Una forchetta. CAVALIERE Via, recagli una posata (il servitore la va a prendere). MIRANDOLINA Signor cavaliere, ora sto meglio. Me n’anderò (s’alza). 15 MARCHESE Fatemi il piacere, restate ancora un poco. MIRANDOLINA Ma signore, ho da attendere a’ fatti miei3; e poi il signor cavaliere... MARCHESE Vi contentate ch’ella resti ancora un poco? (al cavaliere). CAVALIERE Che volete da lei? MARCHESE Voglio farvi sentire un bicchierino di vin di Cipro, che, da che 20 siete al mondo, non avrete sentito il compagno4. E ho piacere che Mirandolina lo senta5, e dica il suo parere. CAVALIERE Via, per compiacere il signor marchese, restate (a Mirandolina). MIRANDOLINA Il signor marchese mi dispenserà. MARCHESE Non volete sentirlo? 25 MIRANDOLINA Un’altra volta, Eccellenza. CAVALIERE Via, restate. MIRANDOLINA Me lo comanda? (al cavaliere). CAVALIERE Vi dico che restiate. MIRANDOLINA Obbedisco (siede). 30 CAVALIERE (Mi obbliga sempre più) (da sé). MARCHESE Oh che roba! Oh che intingolo! Oh che odore! Oh che sapore! (mangiando). 1 colle ova: con le uova. 2 licenza: permesso.
496 Settecento 10 Carlo Goldoni
3 ho da attendere a’ fatti miei: devo badare alle mie occupazioni.
4 il compagno: uno simile. 5 lo senta: lo provi, lo assaggi.
CAVALIERE (Il marchese avrà gelosia che siate vicina a me) (piano a Mirandolina). 35 MIRANDOLINA (Non m’importa di lui né poco, né molto) (piano al cavaliere). CAVALIERE (Siete anche voi nemica degli uomini?) (piano a Mirandolina). MIRANDOLINA (Come ella lo è delle donne) (come sopra). CAVALIERE (Queste mie nemiche si vanno vendicando di me) (come sopra). MIRANDOLINA (Come, signore?) (come sopra). 40 CAVALIERE (Eh! furba! Voi vedrete benissimo...) (come sopra). MARCHESE Amico, alla vostra salute (beve il vino di Borgogna). CAVALIERE Ebbene? Come vi pare? MARCHESE Con vostra buona grazia, non val niente. Sentite il mio vin di Cipro. CAVALIERE Ma dov’è questo vino di Cipro? 45 MARCHESE L’ho qui, l’ho portato con me, voglio che ce lo godiamo: ma! È di quello. Eccolo (tira fuori una bottiglia assai piccola). MIRANDOLINA Per quel che vedo, signor marchese, non vuole che il suo vino ci vada alla testa. MARCHESE Questo? Si beve a gocce, come lo spirito di melissa6. Ehi? Li bic50 chierini. (apre la bottiglia) SERVITORE (Porta dei bicchierini da vino di Cipro). MARCHESE Eh, son troppo grandi. Non ne avete di più piccoli? (copre la bottiglia colla mano) CAVALIERE Porta quei da rosolio7. (al servitore) 55 MIRANDOLINA Io credo che basterebbe odorarlo. MARCHESE Uh caro! Ha un odor che consola (lo annasa). SERVITORE (Porta tre bicchierini sulla sottocoppa) MARCHESE (Versa pian piano, e non empie li bicchierini, poi lo dispensa al cavaliere, a Mirandolina, e l’altro per sé, turando bene la bottiglia) 60 Che nettare! Che ambrosia! Che manna distillata! (bevendo) CAVALIERE (Che vi pare di questa porcheria?) (a Mirandolina, piano) MIRANDOLINA (Lavature di fiaschi) (al cavaliere, piano) MARCHESE Ah! Che dite? (al cavaliere) CAVALIERE Buono, prezioso. 65 MARCHESE Ah! Mirandolina, vi piace? MIRANDOLINA Per me, signore, non posso dissimulare; non mi piace, lo trovo cattivo, e non posso dir che sia buono. Lodo chi sa fingere. Ma chi sa fingere in una cosa, saprà fingere nell’altre ancora. CAVALIERE (Costei mi dà un rimprovero; non capisco il perché.) (da sé) 70 MARCHESE Mirandolina, voi di questa sorta8 di vini non ve ne intendete. Vi compatisco. Veramente il fazzoletto che vi ho donato, l’avete conosciuto9 e vi è piaciuto, ma il vin di Cipro non lo conoscete. (finisce di bere) MIRANDOLINA (Sente come si vanta?) (al cavaliere, piano) 75 CAVALIERE (Io non farei così) (a Mirandolina, piano) MIRANDOLINA (Il di lei vanto sta nel disprezzare le donne) (come sopra) 6 lo spirito di melissa: l’essenza di melis-
7 quei da rosolio: bicchierini in cui si ser-
sa, pianta dalle proprietà efficaci contro gli svenimenti.
ve il rosolio, vino dolce liquoroso, ricavato dai petali di rosa.
8 sorta: tipo. 9 conosciuto: apprezzato.
La locandiera 5 497
CAVALIERE (E il vostro nel vincere tutti gli uomini) (come sopra). MIRANDOLINA (Tutti no) (con vezzo al cavaliere, piano). CAVALIERE (Tutti sì) (con qualche passione, piano a Mirandolina). Ehi? Tre bicchierini politi (al servitore, il quale glieli porta sopra 80 MARCHESE una sottocoppa). MIRANDOLINA Per me non ne voglio più. MARCHESE No, no, non dubitate: non faccio per voi (mette del vino di Cipro nei tre bicchierini). Galantuomo, con licenza del vostro padrone, andate dal conte d’Albafiorita, e ditegli per parte mia, forte, che tutti 85 sentano, che lo prego di assaggiare un poco del mio vino di Cipro. SERVITORE Sarà servita. (Questo non li ubbriaca certo) (da sé; parte). CAVALIERE Marchese, voi siete assai generoso. MARCHESE Io? Domandatelo a Mirandolina. 90 MIRANDOLINA Oh certamente! MARCHESE L’ha veduto il fazzoletto il cavaliere? (a Mirandolina). MIRANDOLINA Non lo ha ancora veduto. MARCHESE Lo vedrete (al cavaliere). Questo poco di balsamo me lo salvo per questa sera (ripone la bottiglia con un dito di vino avanzato). 95 MIRANDOLINA Badi che non gli faccia male, signor marchese. MARCHESE Eh! Sapete che cosa mi fa male? (a Mirandolina). MIRANDOLINA Che cosa? MARCHESE I vostri begli occhi. MIRANDOLINA Davvero? Cavaliere mio, io sono innamorato di costei perdutamente. 100 MARCHESE CAVALIERE Me ne dispiace. MARCHESE Voi non avete mai provato amor per le donne. Oh, se lo provaste, compatireste ancora me. CAVALIERE Si, vi compatisco. 105 MARCHESE E son geloso come una bestia. La lascio stare vicino a voi, perché so chi siete; per altro non lo soffrirei10 per centomila doppie11. CAVALIERE (Costui principia12 a seccarmi) (da sé). Scene vii-ix Il cavaliere è sempre più turbato e medita di lasciare la locanda al più presto («Costei non la voglio più rivedere. Che non mi venga più tra i piedi. Maledettissime donne! Dove vi sono donne, lo giuro, non ci andere mai più»). Scene x-xvi Le due attrici, Ortensia e Dejanira, spinte dal conte che ne ha vantato la ricchezza, cercano di circuire il cavaliere, ma ne restano deluse: non solo egli rimane freddo davanti alle loro lusinghe, ma le smaschera con straordinaria durezza come commedianti abituate a fingere, e donne volgari, imitando il loro stesso linguaggio gergale. Pur con dispiacere, decide di lasciare la locanda e manda il suo servo a chiedere a Fabrizio il conto. Scopre con ammirazione che i conti li fa sempre personalmente Mirandolina. «Scrive e sa far di conto meglio di qualunque giovane di negozio», spiega Fabrizio. Ancora padrone di sé, il cavaliere tenta di sottrarsi «a questa incognita forza» (II, xvi). Ma l’attende l’assalto decisivo. 10 per altro non lo soffrirei: per un altro uomo non lo sopporterei.
498 Settecento 10 Carlo Goldoni
11 doppie: la doppia è un’antica moneta d’oro.
12 principia: inizia.
Carlo Goldoni
Lo svenimento di Mirandolina: un magistrale colpo di mano
T5c
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
La locandiera II, xvii C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Le strategie seduttive di Mirandolina raggiungono l’apice con una straordinaria scena teatrale: dalle lacrime per la partenza imminente del cavaliere al finto svenimento, che abbatte del tutto le oramai limitate resistenze del cavaliere.
Scena diciassettesima Mirandolina con un foglio in mano, e detto.
MIRANDOLINA Signore (mestamente). CAVALIERE Che c’è, Mirandolina? MIRANDOLINA Perdoni (stando indietro). CAVALIERE Venite avanti. MIRANDOLINA Ha domandato il suo conto; l’ho servita (mestamente). 5 CAVALIERE Date qui. MIRANDOLINA Eccolo (si asciuga gli occhi col grembiale, nel dargli il conto). CAVALIERE Che avete? Piangete? MIRANDOLINA Niente, signore, mi è andato del fumo negli occhi. 10 CAVALIERE Del fumo negli occhi? Eh! basta... quanto importa il conto? (legge). Venti paoli? In quattro giorni un trattamento sì generoso: venti paoli? MIRANDOLINA Quello è il suo conto. CAVALIERE E i due piatti particolari che mi avete dato questa mattina, non ci sono nel conto? MIRANDOLINA Perdoni. Quel ch’io dono, non lo metto in conto. 15 CAVALIERE Me li avete voi regalati? MIRANDOLINA Perdoni la libertà. Gradisca per un atto di... (si copre, mostrando di piangere). CAVALIERE Ma che avete? 20 MIRANDOLINA Non so se sia il fumo, o qualche flussione di occhi1. CAVALIERE Non vorrei che aveste patito2, cucinando per me quelle due preziose vivande. MIRANDOLINA Se fosse per questo, lo soffrirei3... volentieri... (mostra trattenersi di piangere). CAVALIERE (Eh, se non vado via!) (da sé). Orsù, tenete. Queste sono due 25 doppie. Godetele per amor mio... e compatitemi... (s’imbroglia). MIRANDOLINA (senza parlare, cade come svenuta sopra una sedia). CAVALIERE Mirandolina. Ahimè! Mirandolina. È svenuta. Che fosse innamorata di me? Ma così presto? E perché no? Non sono io innamorato di lei? Cara Mirandolina... Cara? Io cara ad una donna? Ma se è 30 svenuta per me. Oh, come tu sei bella! Avessi qualche cosa per farla rinvenire. Io che non pratico donne, non ho spiriti, non ho ampolle. Chi è di là? Vi è nessuno? Presto... Anderò io. Poverina! 1 flussione di occhi: lacrimazione per un’infiammazione agli occhi.
2 aveste patito: vi foste stancata. 3 soffrirei: sopporterei.
La locandiera 5 499
Che tu sia benedetta! (parte, e poi ritorna). MIRANDOLINA Ora poi è caduto affatto4. Molte sono le nostre armi, colle quali si vincono gli uomini. Ma quando sono ostinati, il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento. Torna, torna (si mette come sopra). CAVALIERE (torna con un vaso d’acqua) Eccomi, eccomi. E non è ancor rinvenuta. Ah, certamente costei mi ama (la spruzza, ed ella si va movendo). Animo, animo. Son qui, cara. Non partirò più per ora. 40 35
Scene xviii-xix Le ultime due scene mostrano l’incapacità di controllarsi del cavaliere, preda di un forte turbamento in seguito allo svenimento di Mirandolina: minaccia il servitore perché s’intromette («Va’, che ti spacco la testa»), maledice il marchese e il conte che vogliono intervenire («Andate al diavolo quanti siete») e alla fine getta a terra il vaso con l’acqua usata per tentare di farla rinvenire. Le parole di commento della situazione di Mirandolina chiudono l’atto: «Il di lui cuore è in fuoco, in fiamma, in cenere. Restami solo, per compiere la mia vittoria, che si renda in pubblico il mio trionfo a scorno degli uomini presuntuosi, e ad onore del nostro sesso». 4 affatto: completamente, del tutto.
Analisi del testo Scene di una seduzione programmata: la «recita magistrale» di Mirandolina Le scene iv, vi e xvii che abbiamo scelto dal secondo atto, in aggiunta alla xv del primo atto, sono finalizzate a documentare il grande tema della seduzione che domina nell’intera commedia e che qui campeggia, portando in primo piano la figura del cavaliere e relegando al ruolo di comparse gli altri due spasimanti e (per ora) lo stesso Fabrizio. La trappola seduttiva che irretisce, come una ragnatela, il cavaliere si sviluppa progressivamente, secondo varie tappe (rispettivamente dalla scena xv del primo atto alle tre scene qui presentate) che possono corrispondere nel loro complesso a una sorta di recita interna al testo, la recita di Mirandolina, spettacolo nello spettacolo, saggio di perfetta recitazione offerto al pubblico da un’attrice consumata. Ricostruiamo qui alcune significative tappe del processo di seduzione del cavaliere messo in atto dalla locandiera. • Atto I, scena xv Mirandolina, dopo essere stata apostrofata in modo rude dal cavaliere, gli porta personalmente della biancheria di pregio, adulandolo («questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito»; «un cavaliere della sua qualità»; «cavaliere di sì alto merito»). Nella prima parte della scena non si può dire però che Mirandolina sortisca l’effetto desiderato: il cavaliere è infatti sulle difensive e tende a interpretare negativamente tutte le frasi di Mirandolina. Ella adotta allora una strategia che si rivelerà anche in seguito vincente, che consiste nel condividere il punto di vista del cavaliere sulle donne e condannare la debolezza umana del marchese e del conte, contrapponendo la dignità e virilità del cavaliere («Bella fortezza! Bella virilità!»). Soprattutto induce astutamente il cavaliere a ritenerla sincera («Brava! Mi piace la vostra sincerità»): su questa fondamentale acquisizione da parte del cavaliere, Mirandolina costruirà il suo attacco. • Atto II, scena iv Entrata per la prima volta nella stanza del cavaliere con il pretesto di portargli un piatto speciale, Mirandolina alterna una strategia gestuale-comportamentale, fatta di ritrosie e di avances (di fatto accorcia sempre più le distanze, fino a farsi invitare alla sua stessa tavola, a bere con lui e addirittura dal suo stesso bicchiere, fino al galeotto brindisi finale), a un’accorta strategia verbale: parole ispirate a un attento studio della psicologia del cavaliere, per batterlo sul suo stesso terreno. Mirandolina finge di accettare
500 Settecento 10 Carlo Goldoni
e condividere la sua visione misogina, critica il comportamento degli altri due corteggiatori, professa umiltà, modestia, sottomissione, come si addice a una donna, per di più di condizione sociale modesta. • Atto II, scena vi Tra il cavaliere e Mirandolina si è creata ormai una situazione di complicità: l’avvicinamento tra i due, stimolato dalle abili parole della donna, è siglato dal fitto dialogo “a parte”, mentre in primo piano si svolge la scena comica del vino di Cipro. Una sorta di doppia “partitura” di grande suggestione teatrale. • Atto II, scena xvii Ma la scena in cui il cavaliere capitola è quella dello svenimento, una situazione tipica della commedia dell’arte, come la stessa Mirandolina sembra spiegare al pubblico («il colpo di riserva sicurissimo è uno svenimento»). In questa scena Mirandolina, di solito alquanto loquace, usa l’arma del silenzio e dell’eloquenza dei gesti. Gli ingredienti della seduzione sono qui prettamente “femminili”, usati però con la consapevolezza della finzione: le lacrime per l’imminente partenza del cavaliere e, appunto, lo svenimento. Il cavaliere è ormai preso al laccio («Son qui, cara. Non partirò più per ora»).
Mirandolina “libertina”? Il tema della seduzione percorre ampiamente la letteratura settecentesca, anche in rapporto alla decadenza dei costumi morali (testimoniata nelle classi nobiliari dalla moda del cicisbeismo): si pensi alla Clarissa di Richardson (1748), ma soprattutto al filone della letteratura libertina (➜ C12). La programmazione freddamente razionale della seduzione, l’autocontrollo esercitato su di sé in ogni mossa seduttiva, ma soprattutto il gusto della conquista apparentano a nostro parere Mirandolina alla “libertina” marchesa di Merteuil delle Relazioni pericolose di Laclos (1782; ➜ C12). Del resto anche la critica ha sottolineato la componente libertina di Mirandolina, definendola «Don Giovanni in gonnella». Mirandolina non mira affatto a far suo il cavaliere, conosce benissimo le barriere di classe che separano la sua condizione sociale da quella del nobile signore, non è minimamente attratta da lui, come non è attratta da nessun altro dei suoi corteggiatori: esercita la sensualità come freddo strumento di potere, di autoaffermazione. Proprio l’abbinamento seduzionepotere-consapevolezza razionale può avvicinare l’eroina goldoniana alla perversa marchesa del romanzo libertino citato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi la trama del secondo atto in 10 righe e indica i principali nuclei tematici. COMPRENSIONE 2. Quali sono le armi che Mirandolina mette in gioco per irretire il cavaliere? 3. Di quale finzione ben congegnata si serve Mirandolina per sedurre definitivamente il cavaliere? In che modo reagisce quest’ultimo? ANALISI 4. Descrivi brevemente i personaggi che compaiono nel II atto. 5. Analizza il gioco di grande effetto teatrale che si istituisce nella vi scena nel rapporto dialettico tra il concertato (il termine deriva dal melodramma) a tre voci marchese-Mirandolina-cavaliere, che ruota attorno all’assaggio del prezioso vino di Cipro, e il duetto sostenuto dagli “a parte” tra il cavaliere e Mirandolina.
Interpretare
SCRITTURA 6. Traccia un profilo sociologico e psicologico del cavaliere (max 15 righe). TESTI A CONFRONTO
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
7. Solitamente il libertinaggio è giudicato un fenomeno di tipo maschile; quando il libertinismo è femminile, questo fatto suscita molto clamore. Sviluppa il confronto suggerito dall’Analisi del testo (“Mirandolina ‘libertina’?”). Utilizza il ➜ C12, in particolare ➜ T3 .
La locandiera 5 501
La locandiera, atto III
T6
La prima parte del terzo atto si svolge nella stireria in cui Mirandolina lavora, assistita da Fabrizio. Il cavaliere manda a Mirandolina un regalo prezioso, ma la donna lo rifiuta sdegnosamente. Il cavaliere, in preda alla passione, è geloso della cortesia con cui la locandiera tratta Fabrizio e le dichiara il suo amore. A questo punto Mirandolina si accorge di aver passato il segno: di fronte al contegno minaccioso del cavaliere, che sfida a duello il conte e potrebbe arrivare addirittura a usarle violenza, rivela davanti a tutti il gioco seduttivo con il cavaliere e si impegna a sposare Fabrizio. Scene i-v Mentre Mirandolina sta stirando, il servitore del cavaliere le consegna una preziosa boccetta d’oro contenente spirito di melissa (utile in caso di svenimenti), ma la locandiera la rifiuta, dimostrando così che la seduzione del cavaliere da parte sua non aveva secondi fini. Mirandolina riserva molte attenzioni a Fabrizio, che l’assiste portandole il ferro da stiro a scaldare, ma invece si mostra sprezzante verso il cavaliere, una volta ottenuta la sua vittoria. Alla preghiera del cavaliere di accettare per amor suo la boccettina, la scaglia con disprezzo nel cesto della biancheria.
Carlo Goldoni
Il cavaliere innamorato
T6a
La locandiera III, vi
C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Scena sesta Il cavaliere e Mirandolina. CAVALIERE Gran finezze1, signora, al suo cameriere! MIRANDOLINA E per questo, che cosa vorrebbe dire? CAVALIERE Si vede che ne siete invaghita. MIRANDOLINA Io innamorata di un cameriere? Mi fa un bel complimento, signore; 5 non sono di sì cattivo gusto io. Quando volessi amare, non getterei il mio tempo sì malamente. (stirando) CAVALIERE Voi meritereste l’amore di un re. MIRANDOLINA Del re di spade, o del re di coppe2? (stirando) CAVALIERE Parliamo sul serio, Mirandolina, e lasciamo gli scherzi. 10 MIRANDOLINA Parli pure, che io l’ascolto. (stirando) CAVALIERE Non potreste per un poco lasciar di stirare? MIRANDOLINA Oh perdoni! Mi preme allestire questa biancheria per domani. CAVALIERE Vi preme dunque quella biancheria più di me? MIRANDOLINA Sicuro. (stirando) 15 CAVALIERE E ancora lo confermate? MIRANDOLINA Certo. Perché di questa biancheria me ne ho da servire, e di lei non posso far capitale di niente3. (stirando) CAVALIERE Anzi potete dispor di me con autorità.
1 finezze: gentilezze.
2 Del re… di coppe: figure delle carte da gioco. Mirandolina schernisce il cavaliere.
502 Settecento 10 Carlo Goldoni
3 non posso… niente: non posso farci un conto.
MIRANDOLINA Eh, che ella non può vedere le donne. CAVALIERE Non mi tormentate più. Vi siete vendicata abbastanza. Stimo voi, stimo le donne che sono della vostra sorte4, se pur ve ne sono. Vi stimo, vi amo, e vi domando pietà. MIRANDOLINA Sì signore, glielo diremo5. (stirando in fretta, si fa cadere un manicotto6) (leva di terra il manicotto, e glielo dà) Credetemi... 25 CAVALIERE MIRANDOLINA Non s’incomodi. CAVALIERE Voi meritate di esser servita. MIRANDOLINA Ah, ah, ah. (ride forte) CAVALIERE Ridete? 30 MIRANDOLINA Rido, perché mi burla. CAVALIERE Mirandolina, non posso più. MIRANDOLINA Le vien male7? CAVALIERE Sì, mi sento mancare. MIRANDOLINA Tenga il suo spirito di melissa. (gli getta con disprezzo la boccetta) 35 CAVALIERE Non mi trattate con tanta asprezza. Credetemi, vi amo, ve lo giuro. (vuol prenderle la mano, ed ella col ferro lo scotta) Aimè! MIRANDOLINA Perdoni: non l’ho fatto apposta. CAVALIERE Pazienza! Questo è niente. Mi avete fatto una scottatura più grande. MIRANDOLINA Dove, signore? Nel cuore. 40 CAVALIERE MIRANDOLINA Fabrizio. (chiama ridendo) CAVALIERE Per carità, non chiamate colui. MIRANDOLINA Ma se ho bisogno dell’altro ferro. CAVALIERE Aspettate... (ma no...) chiamerò il mio servitore. 45 MIRANDOLINA Eh! Fabrizio... (vuol chiamare Fabrizio) CAVALIERE Giuro al cielo, se viene colui, gli spacco la testa. MIRANDOLINA Oh, questa è bella! Non mi potrò servire della mia gente8? CAVALIERE Chiamate un altro; colui non lo posso vedere. MIRANDOLINA Mi pare ch’ella si avanzi un poco troppo9, signor cavaliere. (si scosta dal tavolino col ferro in mano) 50 CAVALIERE Compatitemi... son fuori di me. MIRANDOLINA Anderò io in cucina, e sarà contento. CAVALIERE No, cara, fermatevi. MIRANDOLINA È una cosa curiosa questa. (passeggiando) Compatitemi. (le va dietro) 55 CAVALIERE MIRANDOLINA Non posso chiamar chi voglio? (passeggia) CAVALIERE Lo confesso. Ho gelosia di colui. (le va dietro) MIRANDOLINA (Mi vien dietro come un cagnolino). (da sé, passeggiando) CAVALIERE Questa è la prima volta ch’io provo che cosa sia amore. 60 MIRANDOLINA Nessuno mi ha mai comandato. (camminando) CAVALIERE Non intendo di comandarvi: vi prego. (la segue) 20
4 della vostra sorte: simili a voi. 5 glielo diremo: lo diremo alle donne. 6 manicotto: polsino. Cilindro in tessuto ricamato o pelliccia aperto ai lati per
infilare le mani, spesso fornito di tasche interne. 7 Le vien male: si sente male. 8 della mia gente: di chi è al mio servizio.
9 si avanzi un poco troppo: stia esagerando con le sue pretese.
La locandiera 5 503
10 abbado: bado.
MIRANDOLINA Ma che cosa vuole da me? (voltandosi con alterezza) CAVALIERE Amore, compassione, pietà. MIRANDOLINA Un uomo che stamattina non poteva vedere le donne, oggi chiede amore e pietà? Non gli abbado10, non può essere, non gli credo. 65 (Crepa, schiatta, impara a disprezzar le donne). (da sé, parte) Scene vii-xii Il marchese si lamenta con il cavaliere perché scagliando a terra il vaso con l’acqua (fine dell’atto secondo) gli ha macchiato l’abito e lo accusa di essersi innamorato della locandiera e di vergognarsi ad ammetterlo. Trova intanto nel cesto della biancheria la boccetta d’oro donata dal cavaliere a Mirandolina e, pensando si tratti di oggetto di similoro, ne fa omaggio a Dejanira, una delle due attrici. Intanto Mirandolina ha mandato il servitore del cavaliere a riprendere la boccettina, che però è scomparsa. Anche il conte è venuto a sapere del dono prezioso fatto dal cavaliere a Mirandolina e ne confida al marchese il valore (dodici zecchini). Disperato, quest’ultimo pensa di pagarla a Mirandolina, ma non dispone di denaro sufficiente. Per sua fortuna il conte, indignato per il contegno di Mirandolina (che mostra di preferire a loro lo scorbutico cavaliere) propone al marchese di trovarsi un nuovo alloggio con lui. Il marchese allora gli chiede in prestito esattamente dodici zecchini che asserisce di dovere alla locandiera per la pigione e viene accontentato.
Carlo Goldoni
T6b
Le pragmatiche riflessioni di Mirandolina La locandiera III, xiii
C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Il monologo di Mirandolina che occupa la scena xiii è speculare a quello del primo atto (scena ix): là la locandiera si mostrava sicura di sé, qui ha un ripensamento e teme di aver spinto le cose con il cavaliere troppo avanti, mettendo a rischio la sua reputazione e addirittura in pericolo la sua incolumità. Pensa allora che l’unico che le possa dare aiuto sia il buon Fabrizio.
Scena tredicesima Camera con tre porte. Mirandolina sola MIRANDOLINA Oh meschina me! Sono nel brutto impegno1! Se il cavaliere mi arriva, sto fresca. Si è indiavolato maledettamente. Non vorrei che il diavolo lo tentasse di venir qui. Voglio chiudere questa porta. (Serra la porta da dove è venuta) Ora principio quasi a pentirmi di quel che ho fatto. È vero che mi sono assai divertita nel farmi cor5 rer dietro a tal segno un superbo, un disprezzator delle donne; ma ora che il satiro2 è sulle furie, vedo in pericolo la mia riputazione e la mia vita medesima. Qui mi convien risolvere quelche cosa di 1 nel brutto impegno: in un brutto guaio.
504 Settecento 10 Carlo Goldoni
2 satiro: vedi nota 7, pag. 489.
grande3. Son sola, non ho nessuno dal cuore che mi difenda. Non ci sarebbe altri che quel buon uomo di Fabrizio, che in tal caso mi potesse giovare. Gli prometterò di sposarlo... Ma... prometti, prometti, si stancherà di credermi... Sarebbe quasi meglio ch’io lo sposassi davvero. Finalmente4 con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto5 il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà6.
10
15
Scene xiv-xvii Mirandolina si chiude a chiave, mentre il cavaliere bussa alla porta e le impone di andare da lui; Mirandolina fa capire a Fabrizio di temere che il cavaliere voglia addirittura usarle violenza. Accorrono anche il marchese e il conte e quest’ultimo rinfaccia al cavaliere di aver cercato di sottrargli Mirandolina. Ne nasce un diverbio e il cavaliere si avventa verso il conte con la spada (peraltro rotta) del marchese. 3 risolvere quelche cosa di grande: prendere una importante decisione. 4 Finalmente: alla fin fine. 5 mettere al coperto: salvare. 6 senza pregiudicare alla mia libertà: senza compromettere la mia libertà.
Una rappresentazione della Locandiera, diretta e interpretata da Elena Bucci (Barberino del Mugello, Teatro Corsini, stagione 2007).
Carlo Goldoni
T6c C. Goldoni, La locandiera, in Commedie, a c. di G. Davico Bonino, vol. I, Garzanti, Milano 1976
Le carte si scoprono... e il cavaliere è sconfitto
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 8
La locandiera III, xviii Scena diciottesima Mirandolina, Fabrizio e detti. FABRIZIO MIRANDOLINA CAVALIERE MIRANDOLINA 5 MARCHESE MIRANDOLINA CONTE CAVALIERE
Alto1, alto, padroni. Alto, signori miei, alto. (Ah maledetta!). (vedendo Mirandolina) Povera me! Colle spade? Vedete? Per causa vostra. Come per causa mia? Eccolo lì il signor cavaliere. È innamorato di voi. Io innamorato? Non è vero; mentite.
1 Alto: alt, fermi.
La locandiera 5 505
MIRANDOLINA Il signor cavaliere innamorato di me? Oh no, signor conte, ella s’inganna. Posso assicurarla, che certamente s’inganna. CONTE Eh, che siete voi pur d’accordo... MIRANDOLINA Si sa, si vede... Che si sa? Che si vede? (alterato, verso il marchese) 10 CAVALIERE MARCHESE Dico, che quando è, si sa... Quando non è, non si vede. MIRANDOLINA Il signor cavaliere innamorato di me? Egli lo nega, e negandolo in presenza mia, mi mortifica, mi avvilisce, e mi fa conoscere la sua costanza e la mia debolezza2. Confesso il vero, che se riuscito mi fosse d’innamorarlo, avrei creduto di fare la maggior prodezza del 15 mondo. Un uomo che non può vedere le donne, che le disprezza, che le ha in mal concetto3, non si può sperare d’innamorarlo. Signori miei, io sono una donna schietta e sincera: quando devo dir, dico, e non posso celare la verità. Ho tentato d’innamorare il signor cavaliere, ma non ho fatto niente. (al cavaliere) 20 CAVALIERE (Ah! Non posso parlare). (da sé) CONTE Lo vedete? Si confonde. (a Mirandolina) MARCHESE Non ha coraggio di dir di no. (a Mirandolina) CAVALIERE Voi non sapete quel che vi dite. (al marchese, irato) E sempre l’avete con me. (al cavaliere, dolcemente) 25 MARCHESE MIRANDOLINA Oh, il signor cavaliere non s’innamora. Conosce l’arte4. Sa la furberia delle donne: alle parole non crede; delle lagrime non si fida. Degli svenimenti poi se ne ride. CAVALIERE Sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti? 30 MIRANDOLINA Come! Non lo sa, o finge di non saperlo? CAVALIERE Giuro al cielo! Una tal finzione meriterebbe uno stile5 nel cuore. MIRANDOLINA Signor cavaliere, non si riscaldi, perché questi signori diranno ch’è innamorato davvero. Sì, lo è, non lo può nascondere. 35 CONTE MARCHESE Si vede negli occhi. CAVALIERE No, non lo sono. (irato al marchese) MARCHESE E sempre con me. MIRANDOLINA No signore, non è innamorato. Lo dico, lo sostengo, e son pronta a provarlo. 40 CAVALIERE (Non posso più). (da sé) Conte, ad altro tempo mi troverete provveduto di spada. (getta via la mezza spada del marchese) MARCHESE Ehi! la guardia6 costa denari. (la prende di terra) MIRANDOLINA Si fermi, signor cavaliere, qui ci va della sua riputazione. Questi signori credono ch’ella sia innamorato; bisogna disingannarli. 45 CAVALIERE Non vi è questo bisogno. MIRANDOLINA Oh sì, signore. Si trattenga un momento. CAVALIERE (Che far intende costei?). (da sé) MIRANDOLINA Signori, il più certo segno d’amore è quello della gelosia, e chi 2 la sua costanza e la mia debolezza: la sua fermezza nel disprezzare le donne e la mia incapacità (di conquistarlo).
506 Settecento 10 Carlo Goldoni
3 mal concetto: cattiva considerazione. 4 l’arte: le astuzie femminili. 5 uno stile: un pugnale.
6 la guardia: parte dell’elsa in cui si mette la mano per impugnare la spada.
non sente la gelosia, certamente non ama. Se il signor cavaliere mi amasse, non potrebbe soffrire7 ch’io fossi d’un altro, ma egli lo soffrirà, e vedranno... CAVALIERE Di chi volete voi essere? MIRANDOLINA Di quello a cui mi ha destinato mio padre. Parlate forse di me? (a Mirandolina) 55 FABRIZIO MIRANDOLINA Sì, caro Fabrizio, a voi in presenza di questi cavalieri vo’8 dar la mano di sposa. CAVALIERE (Oimè! Con colui? non ho cuor di soffrirlo). (da sé, smaniando) CONTE (Se sposa Fabrizio, non ama il cavaliere). (da sé) Sì, sposatevi, e vi prometto trecento scudi. 60 MARCHESE Mirandolina, è meglio un uovo oggi, che una gallina domani. Sposatevi ora, e vi do subito dodici zecchini. MIRANDOLINA Grazie, signori, non ho bisogno di dote. Sono una povera donna senza grazia, senza brio, incapace d’innamorar persone di merito. Ma Fabrizio mi vuol bene, ed io in questo punto alla presenza 65 loro lo sposo... CAVALIERE Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m’ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d’avermi avvilito, e vedo sin dove vuoi cimentare9 la mia tolleranza. Meriteresti che io pagassi gli inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch’io ti strappassi il 70 cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto potere abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio10 imparare, che per vincerlo 75 non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo. (parte) 50
Scene xix-xx La commedia si chiude con la decisione di Mirandolina di sposare Fabrizio. Una decisione presa da sola, senza minimamente consultare il suo partner, che infatti resta sorpreso di tanta fretta e vorrebbe prima fissare dei patti. Ma è duramente apostrofato da Mirandolina: «Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese». Mirandolina giura di non divertirsi più alle spalle delle persone e congeda i due spasimanti che vorrebbero omaggiarla come prima anche dopo sposata. «Cambiando stato [condizione], voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della locandiera». Con queste parole termina la commedia.
7 soffrire: sopportare. 8 vo’: voglio.
9 cimentare: mettere alla prova. 10 a costo mio: a mie spese.
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Analisi del testo La “commedia degli oggetti”: gioielli, fazzoletti, boccette, ferri da stiro
Valeria Moriconi nella parte di Mirandolina, per la regia di Franco Enriquez, nel 1965, al Teatro Carignano di Torino (ph. Ferruzzi).
Nella Locandiera gli oggetti hanno un ruolo particolarmente importante (sia nello sviluppo dell’azione, sia a livello simbolico). Spiccano da una parte gli oggetti donati alla locandiera dai suoi tre nobili spasimanti: i gioielli alla moda del conte, il fazzoletto ricamato del marchese e, infine, la preziosa boccettina d’oro con la melissa donata a Mirandolina dal cavaliere innamorato, che il marchese scambia per un oggetto di poco valore e dona all’attrice. Questi oggetti non entrano in scena casualmente, ma si caricano di un significato simbolico: ai gioielli corrisponde un personaggio (il conte) che fa della ricchezza la sua carta d’identità, servendosene ostentatamente per conquistare la locandiera. Il fazzoletto ricamato donato dal marchese a Mirandolina è il simbolo di una ben diversa, raffinata nobiltà, che però è ormai priva di disponibilità economica ed esce dunque umiliata e sconfitta dalla competizione con la nuova nobiltà di cui il conte (che ha comprato la contea) è l’esempio: «Voi credete di soverchiarmi con i regali, ma non farete niente. Il mio grado val più di tutte le vostre monete» dice il marchese. Per tutta risposta il conte precisa: «Io non apprezzo quel che vale, ma quello che si può spendere» (I, iii). Addirittura comica è poi la scena in cui il marchese fa assaggiare con estrema parsimonia (riservandosi il fondo) un (secondo lui) prezioso vino di Cipro contenuto in una minuscola bottiglietta, a cui si contrappone in modo schiacciante il superbo Borgogna offerto dal cavaliere. Quanto alla boccetta d’oro donata dal cavaliere a Mirandolina, ne testimonia le possibilità economiche superiori ai suoi due rivali, ma soprattutto ha la funzione di allineare il superbo cavaliere a essi nella comune condizione di innamorato in cui egli si ritrova, contro ogni sua aspettativa. Oggetto con particolare valenza simbolica è poi la spada rotta del marchese che viene sfoderata, con un effetto inevitabilmente grottesco, ai limiti della parodia, dal cavaliere infuriato che vuole duellare con il conte rivale: evidente allusione alla decadenza irreversibile della classe nobiliare. A questi oggetti, che connotano la pretenziosa vacuità del mondo nobiliare nella commedia, si contrappone il mondo delle “cose” che ruota attorno alla figura concreta e pragmatica di Mirandolina: le tovaglie e le lenzuola, i piatti prelibati preparati con le sue mani, ma soprattutto il ferro da stiro, in primo piano nelle prime sei scene del terzo atto. Mentre Fabrizio le parla, mentre il cavaliere le dichiara il suo amore, Mirandolina continua ostentatamente a stirare: il ferro da stiro da un lato è l’emblema del suo mondo, della sua vita concreta e operosa, lontana dalle smancerie dei tre nobili; dall’altro Mirandolina usa il ferro come oggetto metaforico allusivo al fuoco d’amore, stuzzicando maliziosamente il povero cameriere (che deve continuamente andare a scaldarlo) e scottando poi deliberatamente la mano al cavaliere, un gesto denso di significato, che smorza e abbassa a una dimensione prosaica l’amore cortese del nobiluomo.
Il processo al cavaliere Nella scena xviii viene rappresentato un vero e proprio processo pubblico (seppur nel “teatro” della locanda) nei confronti del cavaliere, accusato dal conte e dal marchese di essersi innamorato di Mirandolina. I due vogliono indurre l’accusato ad ammettere l’evidenza delle prove e a dichiararsi colpevole, ovvero a dichiarare davanti a tutti il suo amore per la locandiera. Ma l’orgoglio di classe, la necessità di mostrare coerenza con le sue precedenti posizioni misogine (e forse anche qualche superstite dubbio di fronte alla freddezza con cui lo tratta la locandiera dopo averlo conquistato) inducono l’accusato a negare ostinatamente. Gli fa da avvocato difensore (negando che il cavaliere sia innamorato) la stessa Mirandolina: in realtà ella ben sa come sono andate le cose, ha ricevuto di persona le dichiarazioni d’amore del cavaliere e ammette di averlo provocato per ottenerle, eppure lo sfida di nuovo, sostenendo
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perfidamente la tesi della sua innocenza, ovvero che il cavaliere non sia affatto innamorato. A riprova porta il fatto che non sia geloso, annunciando a sorpresa la sua decisione di sposare il buon Fabrizio. A questo punto il cavaliere esce di scena furibondo, maledicendo la sua seduttrice e le «femmine ingannatrici» e riassumendo il proprio abito misogino.
Un finale ambiguo per un personaggio complesso Il finale della commedia è solo apparentemente semplice: non siamo affatto convinti che Mirandolina scelga, con la decisione di sposare Fabrizio, l’amore vero e onesto, rispetto alla finzione, la tranquilla vita di sposa accanto all’uomo destinatole da sempre dal padre, di cui rispetterebbe la volontà. La commedia, insomma, non si chiude a nostro parere con un pacifico lieto fine, in cui vincono la solidità dei valori morali e familiari e l’ideale di una tranquilla vita borghese. Anzi, il finale getta un’ulteriore luce ambigua su un personaggio complesso, che ancora alimenta la riflessione della critica. La scelta di sposare Fabrizio è compiuta ancora una volta da Mirandolina per ragioni esclusivamente utilitaristiche e in nome di pragmatica saggezza: Mirandolina in realtà non conosce l’amore, si serve dell’amore per ottenere, avere, conquistare, sedurre. Ma con il cavaliere ha compreso di avere osato troppo, ha capito di aver rischiato di perdere il proprio onore e soprattutto di recare danno all’onorabilità della sua locanda. Comprende allora di doversi appoggiare stabilmente a qualcuno che la tuteli e la difenda, un marito appunto, e sa di poter contare su Fabrizio (sempre tenuto “in caldo”, come il ferro da stiro…) che meno di altri limiterà la sua indipendenza. È ancora una volta protagonista, negando a Fabrizio ogni possibilità di scelta e imponendogli con durezza la propria volontà. Le parole d’amore che rivolge al promesso sposo suonano false e opportunistiche, mentre l’“a parte” («Anche questa è fatta») rivela le sue vere intenzioni e lo spirito con cui si accosta al matrimonio. Il finale si riconduce, dunque, alle più tipiche caratteristiche di questo personaggio: Mirandolina non conosce la dimensione dei sentimenti, ma solo quella della ragione, che utilizza come lucido strumento di autoaffermazione. In questo senso è una vera “figlia del secolo”, così come la concretezza, il pragmatismo, l’utilitarismo ne fanno l’espressione della mentalità borghesemercantile, spesso esaltata da Goldoni, ma di cui lo scrittore sa anche cogliere, come in questo caso, i limiti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza in 20 righe max il contenuto degli episodi antologizzati del terzo atto. COMPRENSIONE 2. Quali cambiamenti noti nel personaggio di Mirandolina nel corso del terzo atto rispetto al secondo? 3. Qual è la reazione del cavaliere dopo la dichiarazione di Mirandolina di voler sposare Fabrizio? ANALISI 4. Descrivi brevemente i personaggi che compaiono nel terzo atto. 5. Rintraccia nel testo i punti in cui Mirandolina mostra indifferenza e ironico disprezzo. LESSICO 6. Analizza il linguaggio d’amore del cavaliere: quali termini e strutture ricorrono? Si tratta di una lingua elaborata o vicina all’uso quotidiano?
Interpretare
SCRITTURA 7. Nella scena finale sarà proprio Mirandolina a pronunciare la morale della commedia rivolgendosi direttamente al pubblico: qual è il messaggio? Commenta la battuta di Mirandolina e mettila in relazione con il significato complessivo dell’opera. Sei d’accordo con la scelta di Mirandolina? Ti saresti comportato allo stesso modo o avresti fatto una scelta diversa (max 20 righe)?
EDUCAZIONE CIVICA
8. Quale ritratto della classe nobiliare emerge dalle pagine della Locandiera? E quale immagine della nuova classe borghese a cui Mirandolina appartiene (max 15 righe)?
nucleo Sviluppo economico e sostenibilità
competenza 8
SCRITTURA CREATIVA 9. Presenta in chiave moderna una tua personale riscrittura dei passi fondamentali della commedia, inserendola in un contesto narrativo contemporaneo.
La locandiera 5 509
INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
AA. VV., Dizionario letterario delle opere e dei personaggi, vol. VIII, Bompiani, Milano 1963
Ugo Dèttore «Mirandolina è forse il più decisamente femminile dei personaggi goldoniani» La voce relativa a Mirandolina nel Dizionario letterario Bompiani – di mano del critico Ugo Dèttore – esprime il giudizio più tradizionale su questa figura letteraria.
È forse il più decisamente femminile dei personaggi goldoniani e quello che meglio resistette al passar del tempo: onesta e tuttavia civetta, sempre dotata di senso pratico, essa rappresenta l’eterna vittoria del sesso debole e della sua naturale elementarità sul complesso mondo maschile in cui miserie e generosità si alleano 5 o si contrastano. Nel pacato clima della seconda metà del Settecento, rivive in lei l’epica figura della bella Angelica, e, al pari di Angelica, che fugge l’esasperata passione dei paladini per concedersi a uno stalliere, Mirandolina, con buon senso infinito quanto irriverente per ogni forma di idealità, preferisce al cuore di tre gentiluomini il più semplice amore di un cameriere.
Roberto Alonge Il ruolo maschile di Mirandolina R. Alonge, Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese, Garzanti, Milano 2004
Un’ottica opposta ispira il giudizio che sul personaggio di Mirandolina (visto in chiave decisamente negativa) formula Roberto Alonge. Secondo il critico è soprattutto nel rapporto con Fabrizio che meglio si possono cogliere i tratti più specifici della personalità della locandiera.
[... Ci] sembra indubbio che Mirandolina tende a giocare, anche in questo dominio particolare dell’esistenza, un ruolo per così dire maschile, attivo, decisionale e decisionista. È assai probabile che abbia un partner sessuale, che è ovviamente Fabrizio, ma la scelta non è casuale. L’amante è anche il dipendente della bottega, 5 è cioè un suo sottoposto. Mirandolina dà del tu a Fabrizio, ma Fabrizio dà sempre del voi a Mirandolina. Nemmeno la familiarità dei corpi riesce a piegare ciò che sta più a cuore a Mirandolina, il gusto delle gerarchie, il piacere del potere, del comando sociale. E qui ci torna utile appunto il dialogo di I, 10 fra Mirandolina e Fabrizio. In I, 9 Mirandolina ha appena finito di assicurarci che non ha nessuna 10 intenzione di sposarsi. In I, 10, a fronte delle sollecitazioni di Fabrizio in questo senso, si guarda bene dal contraddirsi, sebbene sfumi diplomaticamente il suo diniego: «Sì, quando mi vorrò maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio padre»; «E quando vorrò maritarmi... mi ricorderò di mio padre. E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito...» [...]. 15 Notate che Mirandolina utilizza sempre il verbo di volontà («quando mi vorrò maritare», «quando vorrò maritarmi»). Ciò che le preme ribadire è il suo potere, il suo volere. E il tempo verbale è brutalmente al futuro («vorrò»). In realtà Mirandolina fa con Fabrizio sostanzialmente come fa con i suoi clienti aristocratici. C’è lo stesso sapiente cinismo, il medesimo gusto sottile di vendersi, di dare il 20 proprio corpo (o anche solo il sogno, la speranza, del proprio corpo) in cambio di denaro e di utile. Con i clienti titolati avviene tutto sul piano fantasmatico, delle illusioni e dei vagheggiamenti. Con Fabrizio avviene invece a un livello reale. Con i primi risparmia soldi sul servizio e guadagna credibilità per la propria locanda.
510 Settecento 10 Carlo Goldoni
Con Fabrizio risparmia probabilmente sulla paga (che terrà moderatamente bassa) e ottiene assoluta fedeltà lavorativa, cioè impegno in ore e in efficacia. Nel dialogo diretto («E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito...») la lusinga è evidentissima e sfacciatamente scoperto è il calcolo, il ricatto che pretende disciplina ed efficienza di dipendente in nome di una incerta promessa di futuro matrimonio. Ma nell’a parte il cinismo di Mirandolina è di30 sgustosamente confesso: «Povero sciocco! Ha delle pretensioni. Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedeltà» [...]. «Povero sciocco» è un sintagma che contrassegna sistematicamente il disgraziato Fabrizio. Si veda in III, 2: «Povero sciocco! Mi ha da servire a suo marcio dispetto. Mi par di ridere a far che gli uomini facciano a modo mio» [...]. In I, 10 Mirandolina conta di tenere sulla corda 35 il «povero sciocco» perché la «serva con fedeltà». In III, 2 il «povero sciocco» deve comunque servire, con le buone o con le cattive, «a suo marcio dispetto». 25
Guido Davico Bonino Una piccolo-borghese in cerca d’identità G. Davico Bonino, Introduzione a La locandiera, Mondadori, Milano 1983
Nella pagina che segue, Guido Davico Bonino fonda la sua interpretazione non solo di Mirandolina, ma dei nobili che la attorniano, su una dinamica psicologico-sociale incentrata sulla ricerca di identità. Nel caso della piccolo-borghese Mirandolina tale ricerca si concretizza nel gioco seduttivo. Il critico si sofferma inoltre sull’audacia del testo e sul rapporto – ambiguo – che dovette legare Mirandolina al suo ideatore.
La commedia non è l’apologia di una “regina di cuori”. [... È,] semmai, l’impietosa (nonostante il ben noto “tono medio” goldoniano) radiografia di quattro esistenze alla ricerca di una loro identità. L’uno, un nobile decaduto e spiantato, un certo Forlipopoli, la cerca nella stizzosa difesa di un “decoro” ridotto a pura espressio5 ne verbale; l’altro, un tal Albafiorita, crede di trovarla nel potere portentoso del denaro, da aristocratico dell’ultim’ora, da parvenu straricco; un terzo, Ripafratta, si ostina a riconoscerla nella sua altezzosa misantropia, nella sua sdegnata salvatichezza; la quarta, Mirandolina, se la attribuisce, quasi per scommessa, come impareggiabile seduttrice. Ma quel gran dispendio di egoismo, quella caparbia 10 esibizione egotica non soddisfa nessuno. Usciti di scena, Albafiorita, Forlipopoli, Ripafratta entreranno in un’altra locanda per architettare un’analoga “fiera delle vanità”; rimasta sola in scena, Mirandolina, con quel suo marito-servo d’accatto, non ha altro compenso, per la sua funambolica esibizione, che una bella dose di sgomento, un’ombra di rimorso, l’assillo dell’amarezza. 15 E qui tocchiamo lo strato più fondo della commedia, quello che non dovette piacere affatto ai contemporanei di Goldoni, che forse infastidì, addirittura, i più conservatori (si pensi a uno spettatore-tipo come il conte Gozzi). Come il titolo recita, nella sua polemica nudità, il motore di tutta questa ridicola e patetica giostra di identità insoddisfatte è, dopotutto, una proprietaria di locanda. Non c’è bisogno, anche qui, 20 di scomodare gli storici [...] per sapere che siamo davanti ad una piccolo-borghese: rappresentante di quella classe mercantile, onesta ed alacre, che è certo la spina dorsale della Repubblica, ma al suo livello più modesto, al livello appunto di quegli albergatori, caffettieri ed osti, che, a Venezia come nell’entroterra, avevano l’obbligo di garantire vitto e alloggio decoroso ai “forestieri nobili e civili”.
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INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO
25 Ora questa piccolo-borghese, sia pure nello spazio di una dichiarata finzione scenica
(anzi, di una “finzione nella finzione”, giacché “recita”, all’interno della commedia, la parte, esibita, della seduttrice), tiene a bada due nobili e mortifica un “cittadino”: e lo fa con parole, accenti e toni di una certa qual spregiudicata franchezza, a tratti sembra sfogare chissà quale sopito livore, in altri istanti s’abbandona ad un’ira che 30 ha tutta l’aria di non essere finta, di essere, insomma, poco “recitata”. Non appariva, tutto questo, ad occhi indiscreti o ad orecchie prevenute un poco troppo audace? Non rischiava di far credere ad uno spettatore giunto (poniamo) da paesi lontani che quella Firenze-Venezia fosse una città uscita dai cardini, se i suoi equilibri di classe risultavano, almeno a teatro, così sbilanciati? Sono domande che 35 dovette porsi anche Goldoni nel corso della stesura: e questo spiega la fondamentale ambiguità del suo rapporto con Mirandolina, quel misto di attrazione-repulsione, di fascino-fastidio di cui sono permeate, almeno nei primi due atti, tante battute della locandiera o che la riguardano: mentre nel terzo atto le ragioni della prudenza goldoniana sembrano addirittura prevalere, e la scrittura del drammaturgo, persino 40 [...] nelle scelte lessicali, pare voler marcare una certa presa di distanza dagli esiti ultimi del suo comportamento.
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
Produzione
1. Sai dire qual è il senso dell’espressione «rivive in lei l’epica figura della bella Angelica»? Ricordi chi era Angelica? Che cosa può avvicinare le due eroine? 2. Che cosa significa, secondo te, l’espressione «irriverente per ogni forma di idealità»? 3. Alonge formula un giudizio negativo sul personaggio di Mirandolina. Riassumi le motivazioni che sostengono tale giudizio. 4. Che cosa significa l’espressione «la commedia non è l’apologia di una “regina di cuori”»? 5. Spiega l’espressione usata per definire il comportamento di Mirandolina: «caparbia esibizione egotica» (puoi controllare sul vocabolario il significato del termine egotismo). 6. Perché, secondo il critico, la commedia poteva apparire troppo audace per i tempi? 7. Quale rapporto vede il critico tra Goldoni e il suo personaggio? 8. Metti a confronto le diverse interpretazioni del personaggio di Mirandolina qui presentate. 9. Quale delle tre interpretazioni di Mirandolina ti senti di condividere? Argomenta il tuo giudizio in un testo coerente e coeso.
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Fissare i concetti Carlo Goldoni Ritrratto d’autore 1. In che modo Goldoni inizia la sua carriera nel mondo teatrale? 2. Da parte di chi riceve polemiche Goldoni per le sue prime commedie? Per quale motivo? 3. Quali incarichi gli vengono affidati a Parigi? Con quale ambiente entra in contatto? 4. Qual è la sua posizione alla corte di Versailles? I Mémoires 5. Quale immagine di Goldoni emerge dai Mémoires? La riforma del teatro comico. I temi. L’ideologia. La lingua 6. Da quali esigenze nasce la riforma? 7. In che cosa la riforma si allontana dalla Commedia dell’arte? Quale priorità rivendica? 8. Per che cosa si caratterizzano le commedie di Goldoni? 9. Con quale spirito Goldoni osserva e descrive la vita? 10. Per quale motivo i personaggi delle commedie di Goldoni non indossano più la maschera? 11. In che modo le due espressioni “commedia di carattere” e “commedia di ambiente” sono strettamente legate? 12. Qual è la funzione del teatro secondo Goldoni? 13. In che cosa si differenzia la comicità goldoniana da quella della Commedia dell’arte? 14. Per quali aspetti Goldoni è influenzato dalla cultura illuminista? 15. In che senso si può affermare che la lingua utilizzata da Goldoni rifletta uno “stile naturale”? La locandiera 16. Come è strutturata questa commedia? 17. Chi sono i protagonisti? A quali classi sociali appartengono? 18. Dove si svolge la vicenda? 19. Quale immagine della nobiltà emerge dalla commedia? 20. A quali tecniche narrative ricorre Goldoni per rivelare verità e dinamiche meno evidenti, ma più rispondenti alla realtà dei personaggi?
Sebastiaen Vrancx, Una scena della Commedia dell’arte con Pantalone e uno Zanni, prima metà del XVII secolo (Collezione privata).
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Settecento Carlo Goldoni
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Una vita per il teatro Carlo Goldoni (1707-1793) è stato uno dei maggiori scrittori di teatro italiani. La vocazione dell’autore veneziano per la scena è presente sin dall’età giovanile e viene coltivata parallelamente agli studi di diritto; la carriera in questo mondo, tuttavia, inizia solo nel 1734, quando Goldoni entra in contatto con la compagnia Imer, per la quale realizza copioni prima solo “a soggetto” e poi, a partire dal 1743, con La donna di garbo, interamente scritti. Nel 1748 lascia la sua altra professione, quella di avvocato, e si dedica al teatro nella sua Venezia a tempo pieno; da quel momento, si afferma scrivendo commedie che si distaccano dal consueto modello della Commedia dell’arte (la più celebre è La locandiera, del 1752; seguono poi Gl’innamorati e I rusteghi nella stagione 1759-60 ): una scelta che gli conferisce grande fama, ma gli attira anche critiche dal pubblico e da altri commediografi. Nella stagione 1761-62 conclude la sua attività veneziana con la Trilogia della villeggiatura; Sior Tòdero brontolon; Le baruffe chiozzotte e infine Una delle ultime sere di carnovale. Nel 1762 la vita di Goldoni conosce una svolta grazie all’invito a recarsi a Parigi per dirigere la Comédie-Italienne: nella capitale francese, viene accolto a corte, conosce i maggiori intellettuali illuministi e, sebbene debba tornare a lavorare secondo i dettami – da tempo abbandonati – della Commedia dell’arte, riesce ancora a comporre opere significative, cui si aggiunge anche un libro di memorie (Mémoires, 1787). Nel 1792, però, la pensione e i titoli conferitigli dalla monarchia vengono revocati e, nel 1793, il commediografo muore in povertà.
2 I Mémoires
Goldoni racconta Goldoni Tra il 1783 e il 1786 Goldoni scrive (in francese) la propria autobiografia, utilizzando appunti personali o dei famigliari e le prefazioni delle edizioni delle sue commedie, ricche di ricordi e riflessioni. La sua vita è raccontata in tre parti (la giovinezza, la vita di teatro a Venezia e il soggiorno francese): il tono è vivace; l’ambientazione principale è quella urbana, vitale, sullo sfondo della quale vengono rievocate molteplici esperienze felici e formative per un individuo che, a suo dire, già dall’infanzia si vede uomo di teatro. Un’opera, però, di episodi selezionati per trasmettere l’immagine di una carriera lineare e di una personalità equilibrata e serena, che dunque sorvola sulle tante delusioni, sui rimpianti e sulla malinconia che sicuramente l’autore doveva provare a quasi ottant’anni.
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3 La riforma del teatro comico
Motivazioni, caratteri e storia della riforma Goldoni si propone, alla luce degli ideali di buon gusto e razionalità prima arcadici e poi illuministi, di rinnovare la commedia, salvaguardandone però gli aspetti che potevano divertire il pubblico e confrontandosi con le esigenze degli impresari e degli attori e con la suscettibilità della nobiltà. L’autore vuole quindi mantenere il ritmo e la forza comica della Commedia dell’arte, ma eliminare volgarità e ripetitività dei ruoli in favore di personaggi e ambientazioni tratti dalla vita reale. La riforma procede in modo non rettilineo per le resistenze dell’ambiente teatrale e sociale veneziano. Tuttavia, con gradualità, viene abbandonato il canovaccio, sul quale improvvisavano gli attori comici, e si afferma il testo scritto d’autore; le tradizionali e stereotipate maschere si trasformano in personaggi moderni e psicologicamente sfaccettati;; si valorizza l’espressività dei volti eliminando le maschere che li coprivano. Goldoni, inoltre, pensa che il teatro, anche quando diverte, non debba avere come scopo esclusivo l’evasione ma anche una funzione educativa, una spinta alla riflessione: obiettivo in cui si avverte l’impronta di una visione illuminista. Ciò non si traduce in lezioni moralistiche, ma in una visione del mondo equilibrata, che traspare dalle introduzioni delle opere o dagli intrecci stessi, e che prevede di sorridere dei limiti e dei difetti dei singoli e dei gruppi sociali riuscendo, contemporaneamente, a vedere il bene potenziale che la vita riserva. La struttura drammaturgica dei lavori goldoniani si compone, non a caso, di una crisi che si conclude con un lieto fine, in grado di riportare la situazione in equilibrio; anche se, a volte, questo finale felice mostra caratteri di ambiguità. La comicità emerge non da colpi di scena o battute triviali, ma da manie e tic dei personaggi o da scambi veloci di battute, a volte anche ambigue, in cui due o più attori rafforzano progressivamente il proprio accordo o disaccordo.
4 I temi, l’ideologia, la lingua
La radiografia delle classi sociali La riforma goldoniana del teatro innalza a protagonista la classe borghese, rappresentata in particolare dal mondo mercantile della sua Venezia, della quale esalta laboriosità, concretezza, parsimonia. Non manca, però, di ritrarne anche la possibile degenerazione, di cui sono segnali il culto delle apparenze e la dissipazione, tipicamente aristocratiche, oppure la chiusura autoreferenziale, nella custodia gelosa di tradizioni ormai anacronistiche. Della nobiltà Goldoni contesta la supponenza, la chiusura in rituali arcaici di comportamento, l’oziosità e l’improduttività, oltre che l’inclinazione allo sperpero. Immune dai difetti dell’una e dell’altra classe, nella sua allegra e vitale spontaneità, appare il popolo, ritratto innovativamente con simpatia in alcune celebri commedie “corali”, dal Campiello alle più tarde Baruffe chiozzotte. L’atteggiamento generale di Goldoni è quello di un illuminista moderato: nelle sue opere emerge uno spirito laico, la tensione all’eguaglianza, il richiamo alla razionalità e all’“utile sociale”, un ottimismo di fondo; mediante ciò si deve modernizzare la società, ma senza scardinare le gerarchie sociali, che per l’autore rimangono elementi naturali, insostituibili. Le lingue di Goldoni Le opere di Goldoni sono improntate al plurilinguismo. Nel proprio lavoro, l’autore utilizza italiano, veneziano e francese. Al perseguito realismo della rappresentazione corrisponde la scelta di una lingua – sia essa la lingua italiana di tono medio; sia, ancor più, il dialetto veneziano, spesso contaminata dalla prima – antiletteraria e funzionale a ritrarre dal vivo ambienti, situazioni, personaggi, senza però scadere nella rozzezza del parlato della Commedia dell’arte.
Sintesi Settecento
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5 La locandiera
La locandiera e la nuova commedia La locandiera (1753) è la commedia goldoniana più nota e rappresentata e costituisce uno degli esempi più convincenti della riforma del teatro. Il lavoro rifiuta la comicità stereotipata e grossolana, perseguendo invece la verosimiglianza dell’intreccio, definito in un testo scritto, e accogliendo comunque alcuni espedienti della tradizione, che vengono rivitalizzati, così come accade alle maschere, rinnovate dall’interno. La vicenda è ambientata in una locanda fiorentina gestita da Mirandolina, la titolare, aiutata dal cameriere Fabrizio, che di lei è innamorato e succube. La donna – uno dei personaggi femminili più moderni e complessi di Goldoni – attira le attenzioni di due ospiti, il ricco conte di Albafiorita e l’altezzoso e spiantato marchese di Forlimpopoli, tra i quali riesce però a destreggiarsi senza concedersi ad alcuno; ad essi si aggiunge il misogino cavaliere di Ripafratta, che Mirandolina decide di umiliare facendolo innamorare. Ma quando lo scontroso nobile inizia a provare veramente dei sentimenti verso la donna, la protagonista capisce di essersi spinta troppo oltre: interrompe il suo gioco seduttivo e dichiara pubblicamente di voler sposare Fabrizio. Emerge nella vicenda il ritratto negativo che Goldoni realizza della nobiltà: i tre rappresentanti del ceto sono arroganti, supponenti, altezzosi e oziosi, anche se ciascuno di essi è caratterizzato da un comportamento differente. La vera innovazione risiede però nel personaggio di Mirandolina: al contrario del personaggio della Commedia dell’arte cui si ispira, la donna è qui una personalità profondamente concreta e razionale, una tipica esponente della borghesia dell’epoca. La struttura drammaturgica La commedia è divisa in tre atti, simili per ampiezza: essi propongono rispettivamente la situazione generale e il tema centrale (il rapporto tra Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta), lo sviluppo di quest’ultimo (l’opera di seduzione) e il ritorno alla vicenda iniziale (l’abbandono del cavaliere da parte della protagonista e la scelta del matrimonio con Fabrizio). La vicenda evolve attraverso dialoghi, monologhi o “a parte”, cioè battute poste tra parentesi che, come i monologhi, esplicitano una verità diversa da quella che emerge dai dialoghi e aiutano a caratterizzare i personaggi. La conclusione è solo apparentemente lieta, poiché vi rimane ambigua la natura del sentimento tra titolare e cameriere; Goldoni, infatti, si premura di chiarire nella Prefazione al testo la finalità educativa del proprio lavoro e la negatività del personaggio di Mirandolina.
Illustrazione di Antonio Baratti e Pietro Antonio Novelli di una scena della Locandiera, XVIII secolo.
516 Settecento 10 Carlo Goldoni
Zona Competenze Sintesi
1. Sintetizza le fasi principali della riforma del teatro operata da Goldoni. 2. Utilizza i testi letti per tratteggiare il ruolo e i caratteri della comicità nel teatro goldoniano.
Testi a confronto
3. Costruisci uno schema di confronto tra l’ideologia di Goldoni e le contemporanee posizioni dei philosophes in merito ai principali temi del dibattito illuminista, quali l’uguaglianza degli uomini, il ruolo del singolo nella società, il ruolo della ragione, la funzione dell’arte, l’assetto politico-sociale, la lingua letteraria. 4. Per la commedia goldoniana si parla di “commedia borghese” in rapporto alla caratterizzazione individuale e sociale del personaggio e per la valorizzazione delle qualità proprie della borghesia. Istituisci un confronto con il romanzo borghese del Settecento, individuando le analogie nella scelta dei personaggi, delle situazioni, le modalità rappresentative impiegate.
Esposizione orale
5. Prepara un intervento orale da sostenere di fronte alla classe, mettendo in luce il rapporto fra «Mondo» e «Teatro» nella poetica e nelle opere di Goldoni.
Scrittura creativa
6. Prova a ideare un altro finale plausibile per La locandiera. Come pensi che potrebbe evolvere il personaggio di Mirandolina dopo le nozze con Fabrizio? Scrivi un breve testo narrativo.
Competenza 7. Svolgete una ricerca in Rete relativa agli allestimenti e alle rappresentazioni teatrali digitale novecenteschi della Locandiera: raccogliete le informazioni e la documentazione ed esponete in classe con l’aiuto di supporti multimediali (PowerPoint, video, podcast ecc.).
Sintesi Settecento
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SettecentoQuattrocento e Cinquecento CAPITOLO
11 Vittorio Alfieri LEZIONE IN POWERPOINT
L’uomo Alfieri visto da sé medesimo... Nella Vita, libro autobiografico in cui delinea il proprio percorso esistenziale, Alfieri così descrive il suo carattere impulsivo e contraddittorio, che si era già manifestato nell’infanzia e nella prima giovinezza:
L’indole, che io andava intanto manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrari; ostinato e restío contro la forza; pieghevolissimo agli avvisi amorevoli1; rattenuto più che da nessun’altra cosa dal timore d’essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all’eccesso, e inflessibile se io veniva preso a ritroso2. Vita, Epoca prima, cap. IV 1 pieghevolissimo… amorevoli: docilissimo nell’accogliere i suggerimenti dati in modo affettuoso.
2 se io veniva preso a ritroso: se ero rimproverato ingiustamente.
Il carattere indipendente del futuro scrittore lo porta gradualmente a rifiutare l’ambiente dell’aristocrazia, fatuo e ancorato a un passato al tramonto. Alfieri giunge a detestare la sua condizione apparentemente invidiabile di nobile ricco e ozioso, immersa in continui svaghi, amori, divertimenti, ma priva di un compito e di uno scopo.
Intanto per allora la divagazione1 somma e continua, la libertà totale, le donne, i miei ventiquattro anni, e i cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e più, tutti questi ostacoli potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od assopivano in me ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque così in questa vita giovenile oziosissima, non avendo mai un istante quasi di mio, né mai aprendo più un libro di sorte nessuna2, incappai (come ben dovea essere) di bel nuovo in un tristo amore3; dal quale poi dopo infinite angosce, vergogne, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e del fare, il quale d’allora in poi non mi abbandonò mai più; e che, se non altro, mi ha una volta4 sottratto dagli orrori della noia, della sazietà, e dell’ozio; e dirò più, dalla disperazione; verso la quale a poco a poco io mi sentiva strascinare talmente, che se non mi fossi ingolfato5 poi in una continua e caldissima6 occupazione di mente, non v’era certamente per me nessun altro compenso7 che mi potesse impedire prima dei trent’anni dall’impazzire o affogarmi. Vita, Epoca terza, cap. XIII 1 divagazione: svago. 2 di sorte nessuna: di nessun tipo. 3 di bel nuovo… amore: nuovamente in un rapporto amoroso spregevole.
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4 una volta: una volta per tutte. 5 ingolfato: impegnato, assorbito. 6 caldissima: appassionata. 7 compenso: compensazione, rimedio, conforto.
Il pensiero di Alfieri, incentrato sull’idea di libertà, trae le sue radici dall’Illuminismo, ma anticipa la visione del mondo romantica per molti aspetti: la valorizzazione delle passioni, il forte individualismo, la ribellione a tutto ciò che limita la libera espressione dell’io, esasperata in una forma di titanismo, la predilezione per una natura grandiosa e sublime esercitano profonda suggestione sulle giovani generazioni di scrittori che aprono l’età romantica (in particolare Foscolo). La modernità dello scrittore, peraltro, va oltre il romanticismo, per la capacità di cogliere aspetti profondi dell’interiorità, come nella Vita e nelle maggiori tragedie. Il genere tragico è quello in cui lo scrittore ripone maggiori ambizioni, rinnovandolo profondamente, e incentrando la maggior parte delle tragedie sul contrasto fra “tiranno” e uomo libero. In due drammi, il Saul e la Mirra, il conflitto tragico è spostato all’interno dell’io, di cui emerge un volto oscuro, sconosciuto alla civiltà dei lumi.
1 Ritratto d’autore visione del mondo. 2 LaL’immagine del poeta e il ruolo della poesia
e le generazioni 3 Alfieri successive 519 519
1 Ritratto d’autore 1 Una vita “contro” VIDEOLEZIONE
L’infanzia e la prima giovinezza Vittorio Alfieri nasce ad Asti, il 16 gennaio 1749, da una nobile e ricca famiglia. Il padre muore quando lui ha appena un anno, la madre si risposa e, di fatto, non si occuperà molto di Vittorio e di sua sorella, Giulia. A nove anni il ragazzo è mandato a studiare all’Accademia Reale di Torino, dove non si appassiona agli studi, ritenuti «pedanteschi e mal fatti», né, tanto meno, alla disciplina militare, alla cui «catena di dipendenze gradate» dichiara di non essersi mai voluto adattare.
La frenesia del viaggiare A quattordici anni entra in possesso della ricchissima eredità paterna; a partire dai diciassette anni (dal 1766 al 1772), esce dal Piemonte per una serie di frenetici viaggi, prima in Italia, poi in Europa (Francia, Inghilterra, Olanda, Germania, Svezia, Danimarca, Austria, Germania, Russia, Finlandia, Spagna, Portogallo). Inquieto, impaziente, e spesso annoiato, non è in grado, a causa degli studi mal fatti e della scarsa preparazione, come egli stesso racconta nella Vita, di online trarre un sufficiente frutto culturale da quei viaggi, che pure D1 Vittorio Alfieri gli «allargano le idee». Torna quindi in Italia e si stabilisce a L’autoritratto di un aristocratico viziato e prepotente Torino, dove conduce una vita oziosa, disperdendosi fra monVita, Epoca terza, cap. XII danità e futili amori (➜ D1 OL). La “conversione” letteraria: dall’aristocratico annoiato nasce uno scrittore Come narra nella sua autobiografia, Alfieri non gode affatto della sua vita di nobile ozioso e dissipato, anzi, a un certo punto è colto da una disperazione tale che gli
CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI
Cronologia interattiva 1751 Nasce l’Encyclopédie.
1740
1759 Esce Candido di Voltaire.
1750
1749
Nasce ad Asti il 16 gennaio.
1765 Riforme illuministiche del granduca di Toscana.
1760
1750
1774 Luigi XVI, re di Francia.
1770
1766
Muore il padre.
Primo viaggio in Italia. 1758
Entra all’Accademia militare di Torino.
1767-1772
Viaggia in Europa.
520 Settecento 11 Vittorio Alfieri
1774
Scrive la Cleopatra.
sembra di non poter giungere ai trent’anni senza «impazzire o affogarsi». Solo dopo aver raggiunto una consapevolezza delle proprie aspirazioni e desideri, in contrasto con le aspettative del proprio ambiente, riuscirà a dare un significato alla propria esistenza, divenendo ciò a cui si sentiva chiamato: uno scrittore. La svolta avviene nel 1774: mentre assiste un’amante malata, osservando degli arazzi in casa di lei, con le immagini di Antonio e Cleopatra, è ispirato a scrivere una tragedia su quell’amore lussurioso, che gli ricorda il proprio, e l’anno successivo, nel 1775, la fa rappresentare al teatro Carignano di Torino. Pur imperfetta, la Cleopatra ha successo e gli fa capire di essere nato per scrivere. A tale vocazione si dedica allora completamente, cambiando stile di vita: per la prima volta si applica a studi sistematici, in particolare di letteratura italiana, e apprende il volgare toscano, che parlava imperfettamente, dato che in Piemonte si usava il dialetto o il francese. In pochi anni di attività frenetica compone 19 tragedie, trattati, rime, satire, commedie, e la Vita, in cui racconta le vicende della propria esistenza e della propria «conversione letteraria». Dopo una serie di relazioni passionali con donne sposate, trova finalmente anche un «degno amore» in Luisa Stolberg, contessa d’Albany, moglie dell’anziano pretendente al trono d’Inghilterra Carlo Edoardo Stuart, un’intellettuale libera, dallo spirito vivace e appassionato. Luisa abbandona il marito e intreccia una relazione con il poeta, che durerà fino alla morte di Alfieri. La «spiemontesizzazione» Nel 1778, Alfieri decide di «spiemontesizzarsi», ossia di rinunciare alla posizione di nobile piemontese (per non dover sottostare ai vincoli feudali che imponevano di chiedere il permesso del sovrano quando viaggiava all’estero e di sottoporre alla censura del governo i suoi scritti); per ottenerlo deve rinunciare a buona parte della propria eredità, a favore della sorella Giulia, che in cambio gli concede una relativamente modesta rendita annuale. Si priva così dell’agiatezza e del lusso, propri della sua condizione nobiliare, per godere di una maggiore libertà.
1775-1781 1776
Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura.
1778 Nasce Ugo Foscolo.
Guerra delle colonie del Nord America contro l’Inghilterra.
1789-1794
Rivoluzione francese e “Terrore”.
1796 Inizia la campagna d’Italia di Napoleone.
1802 Napoleone console.
1793
Goldoni muore a Parigi.
1780
1790
1800
1810
1786
In compagnia della contessa d’Albany va a vivere a Parigi.
1777
Scrive il trattato Della tirannide. A Firenze conosce la contessa d’Albany.
Scrive le prime tragedie: Filippo, Polinice, Antigone.
1790
Inizia a comporre la Vita. 1778
1775-76
1795 1792
Deve abbandonare Parigi; va a vivere a Firenze.
Conclusione, presso l’editore Zatta di Venezia, della pubblicazione completa delle opere teatrali, iniziata nel 1788.
1803 Muore l’8 ottobre, a 54 anni.
Si “spiemontesizza” cedendo alla sorella i propri diritti ereditari in cambio di un vitalizio.
Ritratto d’autore 1 521
Da Parigi a Firenze Nel 1786 con la contessa d’Albany si stabilisce a Parigi. Pochi anni dopo scoppia la Rivoluzione francese: in un primo momento Alfieri la accoglie con entusiasmo, esaltandola nell’ode Parigi sbastigliato, ma in seguito ne condanna gli sviluppi sempre più disordinati e le manifestazioni di violenza. Testimonianza di questo cambiamento è il Misogallo (1793-1798), un’opera che sin dal titolo, che significa “odiatore dei francesi” (dal greco misein, “odiare”, e dal latino Gallus, in riferimento ai francesi in quanto discendenti degli antichi Galli), denuncia l’aspra critica di Alfieri nei confronti della Rivoluzione che non ha condotto la Francia alla vera libertà perché non ha rispettato né i diritti dei cittadini, né le leggi. La situazione politica spinge così lo scrittore a lasciare Parigi, perdendo anche una parte dei suoi beni, e, sempre con Luisa Stolberg, nel 1792 torna in Italia per ritirarsi
Sguardo sull’arte Il ritratto nel Settecento Il quadro appartiene a una tipologia diffusa nel Settecento, il ritratto di intellettuale, che subentra al tipo di ritratto più diffuso nel periodo barocco, il quale tendeva piuttosto a esibire i segni di fasto, ricchezza e potere. Alfieri è ritratto con la contessa d’Albany, mentre per un momento interrompe la lettura e, con atteggiamento riflessivo e malinconico, contempla intensamente la donna, quasi a trarne sostegno e ispirazione. Il quadro traduce così in immagine quanto Alfieri scrive della donna amata nella Vita: «invece di ritrovare in essa, come in tutte le volgari donne, un ostacolo alla gloria letteraria, un disturbo alle utili occupazioni, ed un rimpicciolimento direi di pensieri, io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell’opera», e anche: «in lei si innalza, addolcisce, e migliórasi di giorno in giorno il mio animo». Il poeta e la donna sono in biblioteca, a scrivere e a leggere, evidenziando il comune amore per la cultura. Sul lato sinistro dello scrittoio sono appoggiati dei libri, fra cui si riconoscono i Saggi di Montaigne, prediletto da ambedue. La contessa, esempio della nuova figura femminile che si afferma nel Settecento, la donna intellettuale e colta, è vestita
semplicemente, quasi modestamente, con i capelli raccolti in un copricapo in modo sobrio. Dietro una cortina sollevata, appare una veduta di Firenze, in cui si riconoscono il campanile di Giotto e la cupola di Santa Maria del Fiore. A sottolineare il rapporto dello scrittore con la Toscana, la regione dove si sono formate la lingua e la cultura italiana, l’anello di Alfieri, posto in evidenza, reca l’effigie di Dante. Il libro aperto, su cui Alfieri poggia la mano, è il poema Raggione felice, dell’abate Tommaso Valperga di Caluso, letterato e filosofo piemontese, a cui il quadro era dedicato, che, come Alfieri racconta nella Vita, lo aveva incoraggiato a dedicarsi alla letteratura (Epoca terza, cap. XII) ed era a lui legato da profonda amicizia. Anche la lettera, che l’Albany tiene in mano, contiene versi di Alfieri rivolti a Caluso. Il materiale scrittorio (calamaio, penne, fogli) disseminato sulla tavola evoca la dedizione alla scrittura e l’assiduità degli scambi epistolari, la dimensione di compartecipazione della cultura, così importante nel secolo dei lumi, che lega il poeta, la sua donna e l’amico lontano.
IMMAGINE INTERATTIVA
François-Xavier Fabre, Alfieri e la contessa d’Albany, olio su tela, 1796 (Torino, Museo civico).
522 Settecento 11 Vittorio Alfieri
in una casa sul Lungarno, a Firenze, dove vive chiuso in una sdegnosa solitudine. Negli ultimi anni Alfieri dà voce soprattutto a una vena critica e satirica. Dal 1800 al 1803 compone quattro commedie politiche (L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto), in cui mette in risalto i difetti di vari regimi, da quello monarchico non costituzionale, a quello oligarchico a quello democratico, proponendo come antidoto una costituzione mista. Un analogo atteggiamento critico emerge nelle 17 Satire, scritte in terzine dantesche tra il 1786 e il 1797, che affrontano temi politici, sociali e di costume. Alfieri muore a Firenze nel 1803 a soli cinquantaquattro anni. La sua salma viene traslata nella chiesa di Santa Croce e al grande scultore Antonio Canova è commissionato da Luisa Stolberg il monumento funebre che ne accoglie le spoglie.
Vittorio Alfieri
La “conversione” alla letteratura
D2
Vita, Epoca terza, cap. XV Questo passo della Vita testimonia l’impegno appassionato con cui Alfieri, una volta riconosciuta la propria vocazione, scopre l’«amore del sapere e del fare», incanalando le sue energie nell’attività di scrittore teatrale.
V. Alfieri, Vita, a c. di G. Cattaneo, Garzanti, Milano 1981
AUDIOLETTURA
E in questa guisa, null’altro desiderando io allora che imparare, e tentare, se mi poteva riuscire quella pericolosissima e temeraria impresa, la mia casa si andava a poco a poco trasformando in una semiaccademia di letterati. Ma essendo io in quelle date circostanze bramoso d’imparare, e arrendevole, per accidente1; ma per natura, 5 ed attesa l’incrostata ignoranza2, essendo ad un tempo stesso agli ammaestramenti recalcitrante ed indocile; disperavami3, annoiava altrui e me stesso, e quasiché nulla venivami a profitto4. Era tuttavia sommo il guadagno dell’andarmi con questo nuovo impulso cancellando dal cuore quella non degna fiamma, e di andare ad oncia ad oncia5 riacquistando il mio già sì lungamente alloppiato intelletto6. Non mi trovava 10 almeno piú nella dura e risibile necessità di farmi legare su la mia seggiola, come avea praticato più volte fin allora, per impedire in tal modo me stesso dal poter fuggir di casa, e ritornare al mio carcere. Questo era anche uno dei tanti compensi ch’io aveva ritrovati per rinsavirmi a viva forza. Stavano i miei legami nascosti sotto il mantellone in cui mi avviluppava, ed avendo libere le mani per leggere, o scrivere, 15 o picchiarmi la testa, chiunque veniva a vedermi non s’accorgeva punto che io fossi attaccato della persona7 alla seggiola. E così ci passava dell’ore non poche. Il solo Elia, che era il legatore, era a parte di questo segreto; e mi scioglieva egli poi, quando io sentendomi passato quell’accesso di furiosa imbecillità8, sicuro di me, e riassodato il proponimento9, gli accennava di sciogliermi. Ed in tante e sì diverse maniere mi aiutai 20 da codesti fierissimi assalti, che alla fine pure scampai dal ricadere in quel baratro10.
1 per accidente: in quel caso particolare. 2 attesa… ignoranza: considerata la mia consolidata ignoranza.
3 disperavami: mi disperavo. 4 annoiava… profitto: era molesto agli altri e a me stesso, e non riuscivo a concludere pressoché niente. 5 ad oncia ad oncia: a poco a poco.
6 il mio… intelletto: il mio intelletto reso ottuso (per la mancanza di studio) come se fosse da tempo sotto l’azione dell’oppio (alloppiato). 7 attaccato della persona: legato con il corpo. 8 imbecillità: debolezza, mancanza di carattere, di forza di volontà.
9 riassodato il proponimento: rinsaldatosi, rafforzatosi di nuovo il proposito. 10 in tante… baratro: in tanti e così diversi modi mi difesi da questi vivissimi assalti della tentazione di ricadere in quel baratro (della passione per una donna indegna e di una vita oziosa e dissoluta).
Ritratto d’autore 1 523
Concetti chiave Il ritratto dello scrittore Al nobile viziato, ozioso e insoddisfatto, che ricorda il ritratto del «giovin signore» pariniano, si oppone in questo testo lo scrittore del «volli, e volli sempre, e fortissimamente volli» (Lettera responsiva a Ranieri de’ Calzabigi), che, già adulto, a venticinque anni riprende lo studio. Da allora Alfieri si dedicherà a un intenso lavoro letterario, imponendosi, anche con un drastico stratagemma, l’abitudine a un’applicazione disciplinata e metodica.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quali ragioni incoraggiano Alfieri a portare avanti il lavoro letterario intrapreso? Quali ostacoli incontra nello svolgimento di tale attività? 2. In più punti del breve testo l’autore allude a una passione che lo tenta e a cui vuole sottrarsi anche attraverso lo studio. Di quale passione si tratta? ANALISI 3. Alfieri tende nella propria autobiografia a descrivere in modo critico l’io del passato. Individua nel testo le espressioni più significative a tal proposito.
Interpretare
SCRITTURA 4. Alfieri è in genere considerato un esempio di un carattere fermo e volitivo. Ti sembra o no che il testo qui proposto evidenzi tale aspetto della sua personalità? Motiva la tua risposta in un testo scritto (max 10 righe).
Alcuni nobili inglesi a Roma, tappa del loro Grand Tour, in un dipinto del 1760 (Yale, Paul Mellon Collection).
524 Settecento 11 Vittorio Alfieri
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La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 1 Un filo rosso tra le opere: il tema chiave della libertà Filo conduttore dell’opera di Alfieri – dai trattati alle tragedie, alla Vita – è il tema della libertà. L’esaltazione della libertà che percorre gli scritti principali dell’autore astigiano si articola in varie forme e ambiti, dalla sfera politica (Della tirannide, significativamente dedicato proprio Alla Libertà) al rapporto tra intellettuale e potere (Del principe e delle lettere), all’ambito individuale, in cui la libertà si fonda sul rifiuto di tutto ciò che limita l’autodeterminazione (la Vita). Lo Stato e la libertà Dal punto di vista politico, ispirandosi alla lettura di illuministi come Voltaire, Rousseau, Helvétius, Montesquieu, in nome della libertà lo scrittore contesta radicalmente la società dell’ancien régime, basata sul volere assoluto del sovrano, ma non approva neppure l’assolutismo illuminato, perché il sovrano non è comunque soggetto alle leggi, come invece gli altri uomini. In un certo senso anche questo tipo di Stato per Alfieri è “tirannico”, pur se il sovrano dichiara di agire nell’interesse del popolo. La libertà dell’intellettuale Ma, qualunque sia la situazione politica, ad Alfieri sta soprattutto a cuore la libertà intellettuale, la possibilità di esercitare il pensiero critico: primo dovere dell’uomo di cultura è infatti per Alfieri mantenere la propria indipendenza di pensiero, perché ha il compito di risvegliare le coscienze e conquistarle alla causa della libertà. Proprio per questo l’uomo di cultura dovrebbe evitare di trarre guadagni o vantaggi dalla propria attività di scrittore, il che inevitabilmente limiterebbe la possibilità di un giudizio indipendente. Alfieri rifiuta quindi la figura del letterato cortigiano, ma anche quella più moderna dello scrittore che vive dei proventi delle proprie opere Le tragedie e la libertà Per ispirare valori libertari Alfieri si affida come autore soprattutto alle tragedie, che incentra, per la maggior parte, proprio sul conflitto fra un “tiranno” e un “uomo libero”: spesso quest’ultimo soccombe, ma è vittorioso sul piano morale. Con sensibilità moderna, Alfieri mostra però come gli ostacoli alla libertà possano essere anche interiori: nelle due tragedie più riuscite, il Saul e la Mirra, infatti, mette in scena protagonisti tiranneggiati dalle proprie smisurate passioni. Nell’analisi dei conflitti interni alla psiche, Alfieri supera i limiti della cultura dei lumi, approdando alla scoperta di un volto oscuro dell’io, che precorre persino, per alcune intuizioni, la psicoanalisi novecentesca. La libertà nella Vita Il tema della libertà interiore è centrale anche nella Vita, in cui Alfieri descrive il proprio percorso esistenziale come lotta contro ogni forma di limite, di condizionamento e di costrizione, alla scoperta del nucleo più autentico della propria personalità e delle proprie vocazioni. Se il tema della libertà, individuale e socio-politica ha le sue radici nel pensiero illuministico, d’altra parte Alfieri lo sviluppa in una prospettiva nuova, che ha tratti già romantici, mostrando come alla libertà si aspiri perché spinti da sentimenti, passioni, stati d’animo. La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 525
2 Un nuovo modello umano e una nuova idea di poesia Un personaggio eroico Alfieri vuole essere un modello di uomo e scrittore del tutto nuovo, che interpreta in modo originale la transizione tra cultura illuminista e nascente sensibilità romantica. Il poeta astigiano si rappresenta come un personaggio “eroico”, contraddistinto da alti ideali e forti passioni, che si pone in un atteggiamento di costante conflitto con il mondo, con il potere e più in generale con la mediocrità dei tempi. Lo spiccato individualismo lo induce a ricercare costantemente l’affermazione di sé, non senza conflitti e lacerazioni interiori, e a lottare contro le costrittive convenzioni sociali. Alfieri sfida la società e le sue regole, ma sfida anche le pulsioni dispersive e distruttive interiori che lo limitano, alla ricerca spasmodica di un “centro”: lo troverà nel culto della letteratura e nella vocazione di drammaturgo, a cui si dedicherà in modo totalizzante. A lungo Alfieri è stato un “uomo in viaggio”, ma anche il suo modo di viaggiare è diverso da quello di tanti viaggiatori colti del Settecento, frutto di una smania frenetica di oltrepassare confini sempre diversi, alla costante ricerca del nuovo, ma soprattutto alla costante ricerca di sé.
Parola chiave
Il ruolo della poesia Anche la visione che Alfieri ha del ruolo e dei caratteri della poesia è nuova, come è nuovo il suo modo di scrivere (e anche di leggere), motivato da una sorta di “furore”, ben lontano dall’equilibrio e dal razionalismo arcadico, ma Peter Paul anche dall’impegno illuministico. Alfieri attribuisce alla poesia un ruolo importanRubens, La caduta tissimo, ma si tratta di un ruolo alternativo sia al piacevole intrattenimento dell’Ardei Titani, 16371638 (Royal cadia, sia alla prosaica utilità sociale propria dell’Illuminismo: la poesia per Alfieri Museum of Fine è quasi una missione sacra, che deve risvegliare le passioni e gli ideali, parlare al Arts of Belgium, Bruxelles). cuore e insieme alla mente dei lettori, spronandoli a lottare contro ogni forma di oppressione. Le sue opere hanno tutte, in diverso modo, carattere autobiografico e, in particolare alcune tragedie, rispecchiano l’esasperata dimensione agonistica che caratterizza la visione del mondo di Alfieri stesso: la frattura inevitabile tra l’individuo eccezionale e una società al contempo mediocre e tirannica (che anticipa il Romanticismo) si traduce in una lotta titanica contro ogni limite, pur nella consapevolezza che sarà destinata alla sconfitta.
titanismo Il termine deriva dal mito greco: i Titani, giganti dall’immensa forza, figli di Urano e Gea, antiche divinità, avevano osato ribellarsi a Zeus cercando si impadronirsi dell’Olimpo, dimora degli dèi, ma erano stati sconfitti. La figura più nota fra i Titani è quella di Prometeo, che aveva osato sfidare Zeus per donare il fuoco ai mortali, ed era stato perciò incatenato a una rupe sul Caucaso, con un’aquila che gli dilaniava il fegato. Il termine “titanismo” designa un atteggiamento di ribellione estrema e di sfida a ogni forma di oppressione che limiti la libertà umana. Gli atteggiamenti titanici trovano già
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espressione nella figura di Satana del Paradiso perduto (1667) di John Milton (1608-1674), ma anche della Gerusalemme liberata di Tasso. Il titanismo, tuttavia, sarà propriamente tipico del movimento preromantico dello Sturm und Drang, che valorizza figure di eroici ribelli, come Karl Moor (nei Masnadieri di Schiller si schiera contro le leggi di una società ingiusta), o il Prometeo di Goethe (1773), per poi manifestarsi pienamente nel romanticismo: l’eroe romantico tenta sfide impossibili, e la sua grandezza sta nell’averle concepite, anche se viene sconfitto.
3 Un autoritratto in versi: le Rime Una poesia autobiografica Oltre alle opere in prosa (i trattati, la Vita) e alle tragedie, Alfieri scrisse versi per tutta la vita, nei quali si evidenzia particolarmente la tendenza all’autobiografismo e all’autoanalisi tipica dello scrittore. La raccolta delle Rime è costituita di due parti: la prima comprende rime stampate a Parigi nel 1789, la seconda poesie scritte successivamente, e pubblicate a Firenze nel 1804, dopo la morte di Alfieri. Per lo più si tratta di sonetti, che – come una sorta di diario – sono accompagnati dall’indicazione del luogo e della data in cui sono stati composti, collegando le poesie alla biografia del poeta. L’intento di delineare un ritratto di sé attraverso le rime culmina in un celebre autoritratto (➜ T1 ), con cui Alfieri inaugura una tradizione poi seguita, tra gli altri, da Foscolo e Manzoni. Una sensibilità proto-romantica La poesia di Alfieri riprende il modello petrarchesco con una sensibilità nuova, divenendo, a sua volta, un modello per autori come Foscolo e i romantici: mentre nella poesia petrarchesca i contrasti sono smorzati e composti in forme armoniche ed equilibrate, la lirica di Alfieri enfatizza le passioni, il dissidio tra l’io e il mondo e, più in generale, gli stati d’animo tormentati e malinconici. Tale sentire già proto-romantico si riflette anche nello stile, che, rispetto al modello petrarchesco, diviene più aspro, duro, corposo, come scolpito dall’intensità delle passioni (anche per l’influsso di Dante, ammirato da Alfieri, nelle cui rime si riscontrano di frequente echi delle rime “petrose” e della Commedia); inoltre, per la concisione, l’energia, la durezza espressiva, il linguaggio lirico di Alfieri è affine a quello delle sue tragedie. I temi della raccolta corrispondono a quelli presenti nelle altre opere alfieriane: accanto al motivo amoroso, tipico della tradizione lirica, emergono il tema politico e il motivo della libertà, interpretato come sfida titanica (in chiave proto-romantica). Anche la visione della natura, in cui si manifesta una predilezione per gli aspetti selvaggi, orridi, “sublimi”, anticipa la sensibilità romantica (➜ T2 ).
Rime STRUTTURA
prima parte pubblicata nel 1789; seconda parte pubblicata nel 1804
FORMA
per lo più sonetti
MODELLI
poesia petrarchesca
ELEMENTI DI NOVITÀ
accentuazione degli stati d’animo conflittuali
STILE
aspro, duro, conciso
TEMI
tema amoroso, politico, della libertà, visione proto-romantica della natura
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 527
Vittorio Alfieri
T1
Sublime specchio di veraci detti
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Rime V. Alfieri, Opere, a c. di V. Branca, Mursia, Milano 1965
Datato 9 giugno 1786, il sonetto venne trascritto sul retro di un ritratto di Alfieri dipinto dal pittore François-Xavier Fabre (1766-1837). La poesia delinea i tratti fisici e psicologici dell’autore, inaugurando un genere che sarebbe stato poi ripreso da diversi poeti successivi, fra i quali Foscolo e Manzoni.
Sublime specchio di veraci detti1, mostrami in corpo e in anima qual sono: capelli, or radi in fronte, e rossi pretti2; 4 lunga statura, e capo a terra prono3; sottil persona in su due stinchi schietti4; bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono; giusto5 naso, bel labro, e denti eletti6; 8 pallido in volto, più che un re sul trono7: or duro, acerbo8, ora pieghevol9, mite; irato sempre, e non maligno mai; 11 la mente e il cor meco in perpetua lite10: per lo più mesto, e talor lieto assai, or stimandomi Achille, ed or Tersite11: 14 uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.
Un foglio manoscritto delle Rime di Vittorio Alfieri. La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD.
1 Sublime… detti: con un’apostrofe, l’autore si rivolge al sonetto, definito sublime perché rivela la verità più profonda del suo animo. 2 rossi pretti: di un rosso intenso. 3 prono: chinato. 4 stinchi schietti: gambe diritte.
528 Settecento 11 Vittorio Alfieri
5 giusto: proporzionato. 6 eletti: bianchi e regolari. 7 più che un re… trono: la similitudine suggerisce che il pallore sia un segno di inquietudine, paragonabile allo stato d’animo dei tiranni descritti nelle tragedie alfieriane. Tale elemento si collega perciò alle caratteristiche spirituali dell’autoritratto, analizzate dal poeta nel-
le terzine.
8 acerbo: aspro. 9 pieghevol: accondiscendente. 10 la mente… lite: il sentimento e la ragione (sono) in continuo contrasto.
11 Achille… Tersite: nell’Iliade, Achille è descritto da Omero come l’eroe greco più nobile e valoroso, Tersite come il più meschino e vigliacco.
Analisi del testo La struttura Più volte rivisto e modificato da Alfieri lungo tutta la sua vita, seguendo i mutamenti dell’immagine di sé, il sonetto può essere suddiviso in due parti: la prima parte, corrispondente alle quartine, è dedicata alle caratteristiche fisiche; il v. 8 («pallido in volto, più che un re sul trono») mette in rilievo la corrispondenza tra l’aspetto fisico e lo stato d’animo del poeta, di ansia e inquietudine, fungendo da raccordo con la seconda parte, dedicata alle caratteristiche psicologiche, in cui si delinea un contrasto già romantico tra cuore e ragione.
La scrittura come specchio Il sonetto è espressione della volontà di autoanalisi del poeta. Come nell’introduzione alla Vita, lo scrittore sottolinea la propria sincerità, definendo «veraci detti» le parole del sonetto e utilizzando per la scrittura la metafora dello specchio, in cui riflettere qualità e difetti. Anche nella Vita (Epoca quarta, cap. II), Alfieri utilizza la stessa immagine, raccontando di aver scritto un diario per riconoscere e quindi correggere le proprie manchevolezze («per vedere, se in così appannato specchio mirandomi, il migliorare d’alquanto mi venisse poi a riuscire»).
Un’indagine su di sé mai definitiva La conoscenza di sé per Alfieri non è comunque mai definitiva: nel sonetto sono messi in luce stati d’animo contraddittori (come nel v. 9, costituito da due coppie di aggettivi di segno opposto), che evidenziano l’incertezza del giudizio dell’autore su di sé, oscillante tra autoesaltazione («or stimandomi Achille») e autodenigrazione («ed or Tersite»): il poeta è infatti incerto se paragonarsi al più coraggioso o al più vile degli eroi omerici. Oscillazione nella stima di sé che si riscontra anche nella Vita, in cui si alternano toni ora eroici e autocelebrativi, ora riduttivi e autoironici. Questa incertezza è ribadita nell’ultimo verso del sonetto, in cui il poeta afferma che soltanto la morte (e quindi il giudizio dei posteri) saprà dare una risposta definitiva sul suo valore. Così nella Vita (Epoca terza, cap. XIV) osserva: «Bisogna veramente che l’uomo muoia, perché altri possa appurare, ed ei stesso, il di lui giusto valore». Anche da questi pochi elementi si può notare come la Vita e le Rime siano collegate da una medesima volontà di autoanalisi, messa in luce da una fitta rete di corrispondenze e richiami testuali.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del sonetto. COMPRENSIONE 2. Che cosa significa l’espressione «sublime specchio»? Quali caratteristiche del sonetto mette in luce? 3. Quali contrasti sono individuati dal poeta nel proprio carattere? ANALISI 4. Individua i versi in cui vengono delineate le caratteristiche fisiche e psicologiche di Alfieri. Presenta poi in sintesi l’autoritratto alfieriano (max 5 righe). 5. Quali versi rivelano la volontà dell’autore di essere sincero nel suo autoritratto? LESSICO 6. Il sonetto è caratterizzato dal ricorso a vocaboli ed espressioni appartenenti a un registro alto: rintracciali nel testo.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 7. In che senso il sonetto evidenzia un modo di sentire proto-romantico? Quali espressioni lo mettono in luce? Motiva la tua risposta in un testo di massimo 10 righe. 8. Nella presentazione di se stesso Alfieri oscilla tra l’autocelebrazione e l’autodenigrazione. Se tu dovessi fare un processo di autoanalisi ti sentiresti adeguato al contesto in cui vivi o ti sentiresti insoddisfatto? Motiva la tua risposta in un testo di circa 15 righe.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 529
Vittorio Alfieri
T2
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Tacito orror di solitaria selva Rime
V. Alfieri, Opere, a c. di V. Branca, Mursia, Milano 1965
ANALISI INTERATTIVA
Il sonetto si incentra su un tema petrarchesco, la ricerca di solitudine nella natura, espresso in particolare nel celeberrimo Solo et pensoso del Canzoniere. A ispirare la fuga dal mondo nel sonetto alfieriano non è però l’amore, come per Petrarca, ma il rifiuto sdegnoso della società del tempo.
Tacito orror1 di solitaria selva2 di sì dolce tristezza il cor mi bea3, che in essa al par di me non si ricrea 4 tra’ figli suoi nessuna orrida belva4. E quanto addentro più il mio piè s’inselva5, tanto più calma e gioja in me si crea; onde membrando com’io là godea, 8 spesso mia mente poscia si rinselva6. Non ch’io gli uomini abborra7, e che in me stesso mende8 non vegga, e più che in altri assai; 11 né ch’io mi creda al buon sentier più appresso9: ma, non mi piacque il vil mio secol mai10: e dal pesante regal giogo oppresso11, 14 sol nei deserti tacciono i miei guai12.
La metrica Sonetto con schema metrico ABBA ABBA CDC DCD.
1 Tacito orror: cupo silenzio in un luogo spaventevole.
2 solitaria selva: l’allitterazione sottolinea le caratteristiche dell’ambiente solitario e selvaggio; c’è forse anche un ricordo dei primi versi dell’Inferno della Commedia. 3 di sì dolce… mi bea: rallegra il mio cuore con una sensazione di tristezza così dolce; dolce tristezza è un ossimoro, che sottolinea il sentimento di affinità tra lo stato
d’animo cupo e malinconico del poeta e la natura orrida. 4 non si ricrea… belva: non si ristora, insieme ai suoi figli, nessuna belva feroce sentendosi nel suo ambiente. Il poeta sente l’ambiente selvaggio in sintonia con il proprio stato d’animo. 5 quanto… s’inselva: quanto più i miei passi si addentrano nella selva. È da notare il raro verbo inselvarsi, derivato da selva, e sottolineato dalla rima ricca con il v. 1. 6 onde… si rinselva: cosicché, ricordando come là dentro io ero appagato, spesso poi
la mia mente si rifugia nella sensazione suscitata da quel luogo selvaggio e solitario. 7 abborra: aborrisca, detesti. 8 mende: difetti. 9 al buon sentier… appresso: più vicino a una condotta di vita giusta. 10 non mi… mai: non mi è mai piaciuta la mia epoca vile. 11 dal pesante… oppresso: angosciato per la mancanza di libertà dei regimi assoluti. 12 guai: lamenti.
Analisi del testo Il rapporto con il modello petrarchesco Il sonetto testimonia la novità della poesia alfieriana rispetto alla tradizione petrarchesca, mettendo in luce il già sottolineato sentire proto-romantico dell’autore. Ispirato a un famoso testo del Canzoniere (XXXV), Solo et pensoso i più deserti campi, a cui è accomunato dalla ricerca di solitudine nella natura, il sonetto alfieriano, in contrapposizione con la malinconia pacata del modello trecentesco, è dominato da passioni vibranti e intense, in violento contrasto: da una parte la disperazione che troverebbe sfogo in pianti e lamenti (guai) se il rifugio della natura non donasse conforto, dall’altra una gioia sempre più profonda e intensa nel riconoscere nella natura uno specchio della propria angosciosa inquietudine: uno stato d’animo complesso e ambivalente sintetizzato dall’ossimoro «dolce tristezza».
530 Settecento 11 Vittorio Alfieri
Il tema del sublime La predilezione per un paesaggio cupo, orrido e selvaggio, per la sua consonanza con uno stato d’animo turbato e oppresso, evoca il tema proto-romantico del sublime. A questo proposito appare evidente l’affinità con lo scrittore inglese Edmund Burke (1729-1797 ➜ PAG. 266), che caratterizza il sublime come delightful horror, “piacevole orrore”: «orror» del v. 1 è infatti parola chiave del sonetto alfieriano, ripresa nell’aggettivo «orrida» del v. 4.
La struttura La struttura del sonetto è bipartita: nelle quartine prevale la descrizione, nelle terzine l’autoritratto psicologico; i vv. 7-8 fungono da transizione, segnando il passaggio dal presente alla dimensione memoriale («membrando com’io là godea»). Il conforto, infatti, non è limitato al momento del contatto con la natura selvaggia, ma si rinnova attraverso il ricordo: la mente «si rinselva» anche quando il poeta si trova in società, proiettandolo con l’immaginazione lontano da una realtà non amata, soprattutto per la mancanza di libertà politica, come si evince dalle terzine («dal pesante regal giogo oppresso»), un tema tipicamente alfieriano.
Le scelte stilistiche e retoriche La tessitura fonosimbolica del sonetto è accurata, soprattutto nelle quartine, in cui prevalgono suoni aspri e dissonanti: l’allitterazione di «solitaria selva» evoca il silenzio della foresta, ulteriormente rimarcato dall’aggettivo «tacito», in posizione di rilievo in apertura del sonetto; i suoni aspri e duri delle parole in rima (selva : belva : s’inselva : rinselva) richiamano la poesia dantesca (le rime “petrose” e l’Inferno), mentre l’incontro vocalico delle parole in rima bea : ricrea : crea : godea produce un effetto ritmico di rallentamento, che evoca una dimensione interiore raccolta e meditativa. L’io si rasserena e si ritempra a contatto (anche attraverso il ricordo) con la natura: una situazione che può ricordare alcune celebri pagine della Vita.
Caspar David Friedrich, L’albero dei corvi, 1822 (Parigi, Musée du Louvre).
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Riassumi il contenuto del sonetto (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Spiega perché il poeta predilige la natura solitaria. Quale effetto ha la natura sul poeta? ANALISI 3. Rintraccia nel testo le espressioni che Alfieri utilizza per esprimere il suo giudizio sul suo tempo. 4. Indica i diversi piani temporali presenti nel sonetto. LESSICO 5. Indica i termini che possono essere ricondotti al campo semantico della solitudine.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 6. Dopo aver individuato i riferimenti politici presenti nel sonetto, utilizza le seguenti domande per scrivere una breve trattazione (max 20 righe) sul difficile rapporto del poeta con il suo tempo. Per quali ragioni Alfieri ritenne «vile» il suo secolo? Quali accuse Alfieri rivolse alla sua società? Quale funzione a tal proposito assume la solitudine? Ti sembra che nel sonetto sia presente il tema della libertà? Può essere messo in rapporto con altre opere dell’autore? 7. In questo sonetto Alfieri stabilisce una stretta corrispondenza fra il suo animo tormentato e il paesaggio solitario e orrido della natura. È capitato anche a te di rispecchiare il tuo stato d’animo di fronte a particolari spettacoli della natura? Quali emozioni, sentimenti hai provato? TESTI A CONFRONTO 8. Quale autoritratto dell’autore emerge dal sonetto? Qual è il suo rapporto con il mondo in cui vive? Paragonalo all’immagine dell’autore che emerge nel sonetto d’autoritratto (➜ T1 ).
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 531
4 I trattati politici: il tema del potere e della libertà Della Tirannide Il trattato Della tirannide, in due libri, fu scritto da Alfieri nel 1777, in concomitanza con le prime tragedie, con cui presenta vari punti di contatto. Il primo libro è dedicato all’analisi dei regimi politici illiberali, il secondo al comportamento di chi, pur vivendo in tali stati, voglia essere, almeno interiormente, libero. La terminologia politica di Alfieri: repubblica vs tirannide Per comprendere le posizioni espresse da Alfieri nel trattato è importante avere chiaro il significato della terminologia utilizzata dallo scrittore: egli definisce repubblica uno Stato libero, che può essere anche monarchico, come l’Inghilterra, ma in cui tutti, compresi i governanti, rispettino rigorosamente la legge. Solo a questa condizione uno Stato, secondo l’etimologia latina, può essere chiamato res publica, perché appartiene a tutti i cittadini, mentre si deve definire tirannide qualunque regime, anche apparentemente democratico, in cui chi ha il potere possa a proprio piacere e volere alterare, modificare o infrangere le leggi dello Stato (➜ T3 ).
François Bosio, Ritratto del conte Vittorio Alfieri (New York, Metropolitan Museum of Art).
Il rifiuto del dispotismo illuminato Riprendendo in modo rigoroso l’idea di Montesquieu della separazione dei poteri, Alfieri arriva a rifiutare – e lo considera a tutti gli effetti una “tirannide” mascherata – anche il modello del dispotismo illuminato e riformatore. Anzi, per Alfieri, anche se può sembrare paradossale, un regime manifestamente duro e crudele è preferibile al dispotismo illuminato e riformatore, perché, essendo il bisogno di libertà un sentimento non ugualmente avvertito da tutti, per indurre un gran numero di cittadini a una ribellione, è necessario che una “tirannide” mostri apertamente il suo volto intollerabile «coll’eccedere ogni ragionevole modo». Lo scrittore analizza poi i pilastri su cui si regge uno Stato “tirannico”, sotto l’aspetto sia istituzionale (l’appoggio della nobiltà, l’esercito, l’alleanza con la Chiesa), sia psicologico (il timore, su cui sempre fanno affidamento i regimi dispotici). Il compito dell’uomo libero in un regime privo di libertà Se il primo libro è dedicato allo Stato, il secondo si incentra sul “liber’uomo”, l’uomo che non si arrende al potere. Per chi ha la sensibilità e lo spirito critico per rendersi conto dell’assenza di libertà – anche nei casi in cui sia celata dall’abile politica dei governanti – restano, secondo l’autore, tre alternative: isolarsi (evitando compromissioni con un potere ingiusto); uccidere il tiranno; uccidersi. Perciò lo scrittore precisa: «Questo libricciuolo non è scritto per codardi», e teorizza il valore di «sublime esempio» del suicidio, atto nobile di autoaffermazione e di protesta contro la mancanza di libertà. Il rapporto con le tragedie alfieriane Il trattato alfieriano non è finalizzato a proporre un ben definito assetto istituzionale di uno Stato libero e non ha quindi assolutamente il carattere di una proposta politica in senso proprio. Tiranno e tirannide hanno di fatto un significato metastorico e soprattutto rimandano al risvolto esistenziale e psicologico proprio dell’autore, che motiva la trattazione: appare perciò evidente il rapporto con le tragedie, in cui ricorrono le stesse problematiche e situazioni, trasposte sul piano teatrale.
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Vittorio Alfieri
La definizione di tirannide
T3
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 1, 2
Della tirannide I, II V. Alfieri, Della tirannide, Del principe e delle lettere, La virtù sconosciuta, a c. di E. Falcomer, Rizzoli, Milano 1996
Nel breve testo si ritrova la distinzione, fondamentale per Alfieri, fra la “tirannide” e un governo giusto e libero.
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe1 ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi2, può farle, distruggerle, infrangerle3, interpretarle4, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle5, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; 5 buono, o tristo6; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. [… I] pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure quanto sia più onorevole, più importante, e più gloriosa dignità il presiedere con le leggi ad un libero popolo 10 d’uomini, che il malmenare a capriccio un vile branco di pecore.
1 appellare si debbe: si deve chiamare. 2 alla esecuzion… leggi: al potere esecutivo. 3 infrangerle: violarle. 4 interpretarle: stravolgerne il senso at-
traverso interpretazioni strumentali.
5 deluderle: eluderle. 6 tristo: malvagio.
Analisi del testo La vera libertà si fonda sul rispetto della legge Il breve testo è fondamentale per comprendere il pensiero politico di Alfieri, e non perde di attualità, se viene ben interpretata la terminologia utilizzata dallo scrittore. Solitamente noi riferiamo il termine tirannide alla storia antica, mentre Alfieri lo utilizza in un’accezione molto più estesa, attribuendolo a qualunque tipo di Stato violi i princìpi essenziali della libertà. Princìpi, come si è detto, basati sul rispetto assoluto della legge, che nessun potere può permettersi di violare a proprio arbitrio, in nessun modo e per nessuna ragione: ove questo avvenga, sarebbe sempre legittimo per lo scrittore parlare di «tirannide». Non conta se chi è al potere sia «buono, o tristo», affermazione che toglie di mezzo l’ideale settecentesco dell’assolutismo illuminato, né se abbia usurpato il potere, lo abbia ereditato o sia stato democraticamente eletto. Alla luce di tale rigorosa distinzione Alfieri considera illiberali (tirannici) tutti gli Stati del suo tempo, esclusa l’Inghilterra, ma anche molti regimi odierni non reggerebbero alla prova.
Jeanne-Louise Vallain, La libertà, 1793-1794 (Vizille, Musée de la Révolution française).
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 533
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale deve essere il rapporto tra potere e legge in uno Stato davvero libero, secondo Alfieri? 2. Che cos’è la «tirannide», secondo lo scrittore?
Interpretare
LETTERATURA E NOI 3. Ascolta la lettura del passo recitata in televisione dall’attore Paolo Rossi (la trovi in Rete), e poi scrivi una breve recensione e spiega quali aspetti attuali, a tuo avviso, metta in luce nel testo (max 10 righe). SCRITTURA 4. Cerca il significato della parola “tirannide” prima sul vocabolario cartaceo e poi su quello online (es. www.treccani.it/vocabolario). Confronta le definizioni e rielabora a parole tue quella che ritieni la più pregnante. Istituisci infine un confronto con la definizione di Alfieri (max 15 righe).
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 1, 2
5. Come ogni anno il settimanale britannico «The Economist» ha svolto una indagine sul grado di democrazia di 167 paesi nel mondo: dall’indagine è emerso che più di un terzo della popolazione mondiale vive in regimi autoritari, dove le violazioni su ogni forma di libertà sono continue. Svolgi una ricerca su uno di questi paesi in cui vigono dittature assolute, considerando quali abusi e violazioni dei diritti civili siano quotidianamente perpetrati. Alla luce di quanto emerso ti sembrano sempre attuali le parole di Alfieri? Motiva la tua risposta.
Del principe e delle lettere La condanna della collaborazione fra letterato e potere politico Il trattato Del principe e delle lettere, in tre libri, completato nel 1786, è incentrato sul rapporto fra letterato e potere: un rapporto che per Alfieri deve escludere per principio ogni collaborazione, che si tradurrebbe (cosa che nella storia si è verificata più volte) in un’inevitabile serie di compromessi. Il principe-mecenate che protegge gli artisti non può infatti che limitarne la libertà, spegnendo in loro la voce dello sdegno e della protesta. Alfieri condanna dunque il mecenatismo, teorizzando la superiorità, sul piano etico, degli scrittori “liberi” (come i tragici greci, Omero e Dante) sui poeti “cortigiani” come Orazio, Virgilio, Ariosto o Tasso.
PER APPROFONDIRE
Il ruolo del letterato Alfieri, come si è detto, concepisce la letteratura come una delle più alte espressioni dello spirito umano. Compito, e vera e propria missione, dello scrittore è ispirare la passione della libertà e le virtù civili, non solo ai propri contemporanei, ma anche, e forse soprattutto, alle generazioni future: un’idea della letteratura che avrebbe avuto un’influenza determinante sugli scrittori successivi, a cominciare dal Foscolo.
Gobetti e Alfieri L’idea di rifiutare il dispotismo riformatore fu ripresa in un drammatico momento storico da Piero Gobetti (1901-1926), un grande intellettuale antifascista, morto giovanissimo per le conseguenze di una violenta aggressione squadrista. Ispirandosi proprio ad Alfieri (un autore centrale nella riflessione gobettiana sul Risorgimento, su cui aveva scritto la sua tesi di laurea e poi nel 1923 il saggio La filosofia politica di V. Alfieri),
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Gobetti pubblicò (1922) sul periodico da lui fondato «Rivoluzione liberale» un provocatorio Elogio della ghigliottina, in cui auspicava che il fascismo (allora non ancora dichiaratamente un “regime”) mostrasse apertamente il suo volto disumano per far comprendere ai cittadini italiani, che ancora non se ne rendevano conto, come la nascente dittatura li stesse a poco a poco privando della libertà.
Nel penultimo capitolo, con un’«Esortazione a liberar la Italia dai barbari», memore del Principe di Machiavelli, Alfieri auspica un rinnovamento degli intellettuali italiani che, a suo giudizio, avrebbero potuto contribuire, nel futuro, a creare le condizioni per la libertà politica del nostro paese: un auspicio profetico, se si pensa al ruolo assunto nel Risorgimento dalle opere di scrittori come Foscolo, appunto, e poi Manzoni. Un altro aspetto importante è la convinzione di Alfieri che la poesia non appartenga alla sfera del contingente, né si esaurisca entro i confini del presente, ma abbia il dono di tramandare il ricordo dei grandi uomini e delle loro azioni, rendendoli eterni. Poco tempo dopo, il centro poetico nei Sepolcri di Foscolo sarà proprio il mito della “poesia eternatrice”.
Jean-Louis-Ernest Meissonier, Il lettore in bianco, 1857 (Parigi, Musée d’Orsay).
Il tema della libertà TRATTATI
Della tirannide
Del principe e delle lettere
rapporto uomo libero-tiranno
rapporto letterato-potere
tre possibilità di azione per l’uomo libero in un regime dispotico: isolarsi, uccidere il tiranno, uccidersi
compito del letterato: ispirare passione per la libertà
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 535
Vittorio Alfieri
T4
Il potere e la cultura hanno fini opposti Del principe e delle lettere I, IV; III, X
V. Alfieri, Della tirannide, Del principe e delle lettere, La virtù sconosciuta, a c. di E. Falcomer, Rizzoli, Milano 1996
5
10
In questo brano tratto da Del principe e delle lettere, Alfieri sottolinea come l’opera dell’intellettuale in genere debba essere mantenuta separata dal potere, perché letteratura e potere hanno fini opposti.
Il “principe” vuole che i suoi sudditi siano ignoranti… Vuole, e dee1 volere il principe, che siano ciechi, ignoranti, avviliti, ingannati ed oppressi i suoi sudditi; perchè, se altro essi fossero, immediatamente cesserebbe egli di esistere. Vuole il letterato, o dee volere, che i suoi scritti arrechino al più degli uomini luce, verità, e diletto. Direttamente dunque opposte sono le loro mire2. … perciò gli scrittori sono i “tribuni” dei popoli Gli arditi e veraci scrittori3 son dunque gli onorati, naturali, e sublimi tribuni4 dei non liberi popoli. Eletti a così alto incarico dalla sola forza del natural loro impulso5, sotto mille forme diverse, ma tutte calde convincenti ed energiche, appresentano e scolpiscono6 nel cuor di quei popoli l’amor del vero, del grande, dell’utile, del retto, e della libertà, che necessariamente da questi tutti deriva7. Il teatro, la storia, i poemi, l’eloquenza oratoria, le lettere tutte in somma, e sotto gli aspetti tutti8, una vivissima scuola divengono di virtù, e di libertà. Proibiti, vero, e impediti, e perseguitati verranno tai libri; ma quindi9 letti saranno, e meditati, e giovevoli10.
1 dee: deve. 2 mire: fini, obiettivi. 3 Gli arditi… scrittori: gli scrittori coraggiosi e veritieri.
4 tribuni: difensori, come a Roma i tribuni della plebe difendevano i diritti del popolo.
5 Eletti… impulso: chiamati a un compito così grande da nessun altro se non dalla for-
za di un loro impulso naturale. Anticipando un’idea romantica dello scrittore, Alfieri sottolinea l’importanza dell’ispirazione. 6 appresentano e scolpiscono: rappresentano all’immaginazione e incidono nella mente. I due verbi costituiscono una sorta di climax. 7 che… deriva: l’amore per la libertà deriva
da quello del vero, del grande, dell’utile, del giusto. Il senso è che più i sentimenti dei cittadini divengono elevati, più la libertà è sentita da essi come indispensabile. 8 sotto gli aspetti tutti: sotto tutti gli aspetti. 9 quindi: perciò, proprio perché sono proibiti. 10 giovevoli: utili (per la causa della libertà).
Analisi del testo Lo scopo della letteratura Con la consueta chiarezza concettuale, Alfieri evidenzia come i fini della letteratura siano opposti a quelli del potere, poiché, mentre la letteratura illumina le menti e le rende consapevoli, il potere preferisce avere a che fare con un popolo ignorante e privo di spirito critico. Perciò, secondo Alfieri, i grandi scrittori sono i «tribuni» dei popoli, i paladini della libertà: una funzione che in effetti è stata molto spesso esercitata dai grandi autori della letteratura, e lo è (o dovrebbe esserlo) ancora ai giorni nostri.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Perché, secondo Alfieri, i fini dello scrittore e quelli di chi è al potere sono opposti? 2. Quale dovrebbe essere il compito dello scrittore per Alfieri?
Interpretare
SCRITTURA 3. Da che cosa deriva l’amore per la libertà, secondo Alfieri? Spiega se concordi o no con tale opinione, e per quali ragioni (max 15 righe). LETTERATURA E NOI 4. Ritieni che il tipo di scrittore auspicato da Alfieri abbia avuto riscontro nella storia recente? Potresti citare qualche esempio in proposito?
536 Settecento 11 Vittorio Alfieri
5 Un’opera affascinante e attuale: la Vita L’autobiografia alfieriana Tutte le opere di Alfieri hanno al centro, come si è visto, la riflessione sulla libertà. Non fa eccezione la Vita (Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso), in cui il tema è declinato nei suoi molteplici aspetti, politici, ma soprattutto esistenziali. La Vita, che il critico Ezio Raimondi definisce «la più grande autobiografia italiana del Settecento, e forse non solo del Settecento», è sicuramente l’opera più attuale (e oggi più letta) di Alfieri. Lo scrittore inizia a scriverla nel 1790, dopo la pubblicazione delle tragedie; in seguito vi aggiunge una seconda parte, più breve, comprendente gli avvenimenti posteriori a tale data. L’intera opera poi fu stampata in edizione definitiva soltanto dopo la morte di Alfieri, nel 1806 (ma con la datazione 1804). La scoperta di una vocazione L’intento di Alfieri nel tracciare la propria biografia non è la rievocazione, magari nostalgica, del passato, come testimoniano anche le scelte linguistiche, ma quello di mettere in luce – in pagine di sorprendente attualità – il percorso che lo ha condotto a definire la propria identità, per costruire una vita dotata di senso e di scopo, liberandosi dai condizionamenti esterni e riconoscendo la propria più autentica vocazione (la letteratura). La libertà coincide nella Vita con la conoscenza di sé, con la ricerca del nucleo più autentico della propria personalità, dei desideri più profondi, delle possibilità di autorealizzazione prima tradite. E la Vita focalizza perciò come suo nucleo centrale il passaggio da una vita dissipata, in cui il futuro poeta è ignoto a sé stesso, alla scoperta della vocazione letteraria: «Io viveva frattanto in tutto e per tutto ignoto a me stesso; non mi credendo vera capacità per nessuna cosa al mondo; non avendo nessunissimo impulso deciso, altro che alla continua malinconia, non ritrovando mai pace né requie, e non sapendo pur mai quello che io mi desiderassi. Obbedendo ciecamente alla natura mia, con tutto ciò io non la conosceva né studiava per niente; e soltanto molti anni dopo mi avvidi, che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch’era in me di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente da un qualche nobile lavoro» (Epoca terza, cap. II). Un percorso di formazione A sottolineare tale svolta, l’autore pone una netta cesura tra le prime fasi della sua vita e l’età adulta (la Vita è divisa dall’autore in quattro parti: Puerizia, cioè infanzia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità). Le tre prime fasi della vita sono giudicate negativamente: Alfieri definisce la puerizia come «nove anni di vegetazione», l’adolescenza come «otto anni d’ineducazione», la giovinezza come «circa dieci anni di viaggi, e dissolutezze», contrapponendo ad esse la virilità, l’unica epoca pienamente positiva, costituita da «trenta e più anni di composizioni, traduzioni, e studi diversi». Uno schema costruito su un contrasto, dal negativo al positivo, che può ricordare una conversione, in questo caso la conversione alle lettere e al lavoro operoso e costruttivo. La Vita è stata perciò paragonata a un romanzo di formazione, che delinea la trasformazione dell’autore da dissipato aristocratico dell’ancien régime in intellettuale impegnato, e il suo progresso verso la libertà e la consapevolezza. L’importanza dei viaggi e delle letture L’autore evidenzia come la sua maturazione sia avvenuta grazie ai soggiorni in quasi tutti i paesi europei, a letture illuminanti, a incontri con intellettuali generosi e amichevoli, e a una costante riflessione e autoanalisi. Un’importante parte del libro è dedicata ai viaggi, esperienza formatiLa visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 537
va per eccellenza nella cultura settecentesca. Intrapresi dall’autore fin dalla prima giovinezza, consentono al giovane aristocratico del piccolo Piemonte di entrare in rapporto con l’orizzonte europeo, acquisendo gradualmente una coscienza politica, a cominciare dal primo viaggio, in cui confronta la Francia, ancora soggetta a una monarchia assoluta, con la più evoluta e libera Inghilterra, «fortunato e libero paese». Nel viaggio di ritorno, come racconta, acquista a Ginevra i libri degli illuministi (Rousseau, Montesquieu, Voltaire, Helvétius), insieme ai quali, fermatosi qualche mese a Torino dalla sorella, legge con entusiasmo le Vite di Plutarco, da cui trae un modello di comportamento libero ed eroico (➜ T5 ). L’influsso di tali letture è evidente nel successivo viaggio in Europa, nel 1769, all’età di vent’anni: non soltanto i suoi giudizi politici divengono più netti e precisi, ma egli stesso trova il coraggio di mostrarsi apertamente ostile all’autoritarismo monarchico (➜ T6 ). L’amore per la libertà si esprime nei viaggi anche nell’attrazione per paesaggi sconfinati, come i campi innevati della Svezia (➜ T7 ) e le pianure dell’entroterra spagnolo, in cui lo spirito inquieto dell’autore può sentirsi libero dai limiti. I caratteri stilistici La Vita di Alfieri è la sua opera più “moderna” anche sotto il profilo linguistico. Lo scrittore adotta uno stile fluido, spontaneo ed espressivo, caratterizzato da un uso frequente di nomi alterati, aggettivi superlativi e neologismi, che conferiscono una connotazione emotiva e personale al discorso, pur sempre sorvegliato, nel solco della tradizione prosastica letteraria. «Quanto poi allo stile», scrive nell’Introduzione, «io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza, con cui ho scritto questa opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno».
La Vita DATAZIONE
prima stesura 1790; edizione definitiva postuma 1806 (ma datata 1804)
GENERE
autobiografia
STRUTTURA
suddivisione in quattro parti: Puerizia (infanzia), Adolescenza, Giovinezza, Virilità
FINALITÀ
scoperta della propria vocazione letteraria e della propria identità
TEMI
autoanalisi attraverso un percorso di formazione; ruolo formativo dei viaggi e della lettura delle opere degli illuministi e di Plutarco, libertà intellettuale
STILE
fluido, spontaneo ed espressivo
538 Settecento 11 Vittorio Alfieri
Vittorio Alfieri
La lettura di Plutarco, «il libro dei libri»
T5
LEGGERE LE EMOZIONI
Vita, Epoca terza, cap. VII Nel capitolo della Vita da cui il brano è tratto, Alfieri, dopo aver ricordato la passione con cui si era immerso negli scritti degli illuministi, rievoca il trasporto con cui, nello stesso periodo, si era accostato alle Vite parallele di Plutarco.
V. Alfieri, Vita, a c. di G. Cattaneo, Garzanti, Milano 1981
Ma il libro dei libri per me, e che in quell’inverno mi fece veramente trascorrere dell’ore di rapimento e beate, fu Plutarco1, le vite dei veri grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, 5 che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato2. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa3 non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare4. 1 Plutarco: scrittore greco di Cheronea (ca. 45-125). Alfieri si riferisce alle Vite parallele, biografie di personaggi greci e ro-
mani a confronto, caratterizzate in chiave psicologico-morale. 2 tenuto per impazzato: considerato pazzo. 3 niuna alta cosa: nessuna cosa grande.
4 inutilmente… pensare: si poteva forse appena sentire e pensare, ma senza poterla realizzare.
Analisi del testo L’incontro con Plutarco Il passo testimonia in modo emblematico un nuovo modo di leggere, emotivo e passionale, che anticipa quello dei romantici e al tempo stesso testimonia l’ammirazione di Alfieri per Plutarco, lo storico greco vissuto tra il I e il II secolo d.C., che nelle sue Vite parallele mette a confronto i più grandi eroi della storia greca e romana.
Plutarco, un mito per il Settecento Più che a narrare gli eventi storici, le Vite di Plutarco sono rivolte a mostrare il carattere di personaggi famosi della storia antica, facendolo emergere, con scene spesso di stampo teatrale, da gesti esemplari, ma anche da aneddoti, battute, frasi celebri; perciò, già per i tragediografi dei secoli precedenti, a cominciare da Shakespeare, Plutarco era stata una fonte primaria di ispirazione. Ma con il Settecento nasce un vero e proprio culto di Plutarco: leggerlo significa ora guardare non al passato, ma al futuro, come se l’antico autore greco avesse prefigurato quel mondo libero ed eroico che l’Illuminismo e le rivoluzioni avrebbero cercato di costruire. Le Vite parallele divengono una scuola di comportamento per i nuovi, liberi cittadini: Rousseau nelle Confessioni, dirà di aver formato il suo spirito «libero e repubblicano» attraverso Plutarco; Alfieri definirà le Vite il «libro dei libri» nel leggere il quale urlava e piangeva, non accettando di vivere in tempi così diversi da quelli degli antichi eroi.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Quale rapporto avverte Alfieri tra il mondo descritto nei libri di Plutarco e la propria esperienza di suddito piemontese? LESSICO 2. Come lettore Alfieri assume un atteggiamento passionale: indica le espressioni che lo rivelano nel passo.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 3. Ti è mai capitato di provare emozioni forti durante la lettura di un libro? Racconta la tua esperienza di lettore appassionato in un testo di massimo 15 righe.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 539
Vittorio Alfieri
Alfieri, uomo libero di fronte ai sovrani assoluti
T6
Vita, Epoca terza, cap. VIII V. Alfieri, Vita, a c. di G. Cattaneo, Garzanti, Milano 1981
Nel secondo viaggio in Europa, compiuto dopo la lettura degli illuministi e di Plutarco, Alfieri, ormai convinto sostenitore dei princìpi libertari, è deciso a farli valere anche di fronte a potenti come i ministri di Federico II, e lo stesso re di Prussia; per mantenersi coerente alla sua contestazione dell’assolutismo illuminato, rifiuta anche di incontrare Metastasio, poeta di corte presso Maria Teresa d’Austria.
Per la via di Milano e Venezia, due città ch’io volli rivedere; poi per Trento, Inspruck1, Augusta, e Monaco, mi rendei2 a Vienna […]. Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio3, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro4, il degnissimo conte di Canale, passava di 5 molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente5 alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell’ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava6, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose più volte d’introdurmivi. Ma io, oltre all’essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde 10 quell’adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn7 nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando8, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia 15 né familiarità con una Musa appigionata9 o venduta all’autorità despotica da me sì caldamente abborrita10. In tal guisa11 io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore12; e queste disparate13 accoppiandosi poi con le passioni naturali all’età di vent’anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile. 20 Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All’entrare negli stati del gran Federico14, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia15, mi sentii raddoppiare e triplicare l’orrore per quell’infame mestier militare, infamissima e sola base dell’autorità arbitraria16, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di 25 assoldati satelliti17. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d’indegnazione bensì e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante 1 Inspruck: Innsbruck. 2 mi rendei: mi recai. 3 Metastasio: è lo pseudonimo con cui divenne celeberrimo nel suo tempo Pietro Trapassi (1698-1782), poeta e autore di melodrammi, accolto a Vienna come poeta di corte. 4 il nostro ministro: il ministro del regno piemontese. 5 seralmente: di sera. 6 mi affezionava: m’era affezionato. 7 Schoenbrunn: il castello di Schönbrunn, presso Vienna, sede della corte imperiale. 8 io giovanilmente plutarchizzando: io, imitando gli ideali eroici e libertari di Plu-
540 Settecento 11 Vittorio Alfieri
tarco con estremismo giovanile. È da notare l’efficace e autoironico neologismo. 9 una Musa appigionata: un letterato al servizio di potenti. Musa è metonimia a indicare l’autore di un’opera letteraria; appigionata letteralmente “data in affitto, prestata per denaro”. 10 sì caldamente abborrita: così tanto detestata. 11 guisa: modo. 12 salvatico pensatore: filosofo sprezzante dell’umanità. 13 disparate: singolari; riferito a passioni. 14 gran Federico: Federico II di Hohenzollern, detto il Grande (1712-1786), sovra-
no di Prussia, esponente dell’assolutismo illuminato. 15 la continuazione… di guardia: un’unica caserma senza soluzione di continuità. Alfieri contesta il militarismo del sovrano, che, dopo aver rafforzato l’esercito, inserì la Prussia tra le grandi potenze grazie a un’intensa ed efficace attività militare. 16 base… arbitraria: fondamento del potere assoluto. 17 assoldati satelliti: milizie mercenarie; letteralmente i satelliti sono le guardie del corpo di un principe o di un potente.
diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere18. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi 30 presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l’uniforme. Risposigli: “Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza19”. Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l’osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal 35 caserma prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava. 18 essendo false… vere: Alfieri si riferisce qui alla fama di Federico di sovrano illuminato, amico di filosofi come Voltaire, secondo lui usurpata perché il militarismo
dello stato prussiano ne rivelava il carattere dispotico. 19 ve ne fossero… abbastanza: ci fossero già abbastanza uniformi (cioè militari). Al-
fieri mostra così apertamente al ministro la sua opinione critica riguardo al militarismo prussiano.
Analisi del testo L’avversione al potere assoluto La Vita delinea un percorso di crescente consapevolezza dell’autore riguardo al valore della libertà. A far maturare l’avversione istintiva al potere assoluto in un vero e proprio giudizio politico è decisiva la lettura degli illuministi, che Alfieri si procura a Ginevra, al ritorno dal primo viaggio, e che gli aprono orizzonti sconosciuti al Piemonte bigotto e reazionario. La lettura dello storico greco Plutarco gli indica poi un modello di comportamento libero ed eroico (➜ T5 ).
Il rifiuto dell’assolutismo illuminato Durante il secondo viaggio europeo, intrapreso dopo tali letture, Alfieri assume un nuovo modo di rapportarsi alla realtà del suo tempo. Non più disposto a subire passivamente gli arbitri del potere assoluto, esibisce apertamente la sua dignità di uomo libero, sfidando il potere, come appare negli episodi narrati, sia quando osa guardare negli occhi, da uomo a uomo, Federico II, sia quando esprime al ministro prussiano un’opinione critica sul militarismo, sia quando rifiuta di incontrare il poeta Metastasio, pur ammirandone l’opera, perché ne disapprova il ruolo di intellettuale cortigiano. Tali comportamenti indicano come Alfieri – diversamente, ad esempio, da Beccaria e Parini, fiduciosi nell’assolutismo illuminato – rifiuti tale principio politico, in nome di un ideale di libertà più rispettoso dei diritti e dell’indipendenza dell’individuo.
L’originalità dello stile Nel passo proposto, il pensiero dello scrittore è espresso in uno stile sintetico ed efficace, con formule pregnanti, rese ancora più incisive da neologismi, che ricorrono in particolare quando l’autore vuole trasmettere la sua visione anticonformistica: così, a manifestare la propria avversione al militarismo, lo scrittore, che per nascita e educazione, come nobile piemontese, sarebbe stato destinato a una carriera nell’esercito, stigmatizza il regno di Federico II come l’«universal caserma prussiana», ed esprime icasticamente in un diminutivo (la «genuflessioncella di uso» di Metastasio), il disprezzo per il ruolo asservito (la «Musa appigionata») del poeta cortigiano. Ma lo scrittore sa volgere la propria ironia anche verso di sé, rappresentando la propria giovanile infatuazione per Plutarco con un neologismo, (giovenilmente) «plutarchizzando», che coglie quanto ancora di libresco e astratto c’era nella sua idea di libertà e quanto di infantilmente assoluto nei suoi atteggiamenti giovanili sprezzanti e anticonformisti.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Con quale atteggiamento Alfieri si confronta con Federico II? ANALISI 2. Quali espressioni evidenziano la critica di Alfieri verso il militarismo prussiano?
Interpretare
SCRITTURA 3. Quale ritratto dell’autore emerge dal passo proposto? Che idea di libertà ne viene fuori? Elabora uno scritto di circa 15 righe.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 541
Vittorio Alfieri
La libertà dello spirito nella natura selvaggia della Svezia invernale
T7
LEGGERE LE EMOZIONI
Vita, Epoca terza, capp. VIII-IX V. Alfieri, Vita, a c. di G. Cattaneo, Garzanti, Milano 1981
Promana da questo breve testo il fascino esercitato su Alfieri da una natura incontaminata: paesaggi selvaggi, ostili all’uomo, come le distese dei laghi scandinavi ghiacciati o i dirupi innevati, sono però anche l’espressione di una bellezza grandiosa e sublime, ed emblema di una sconfinata libertà.
Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania1 libera dalla neve; tosto ch’ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo2 un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi3, a segno che non potendo più proseguire colle ruote, 5 fui costretto di smontare il legno4 e adattarlo come ivi s’usa sopra due slitte; e così arrivai a Stockolm5. La novità di quello spettacolo, e la greggia6 maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano7; e benché non avessi mai letto l’Ossian8, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite9, e quali le ritrovai poi descritte allorché più anni dopo le lessi studiando i 10 ben architettati versi del celebre Cesarotti. […] Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo. 1 Scania: regione della Svezia meridionale. 2 di bel nuovo: nuovamente. 3 ritrovai… rappresi: ritrovai di nuovo un inverno rigidissimo, e tanti metri di neve, e tutti i laghi ghiacciati; il braccio era un’antica unità di misura, pari a circa 60 cm. 4 il legno: la carrozza. 5 Stockolm: Stoccolma.
6 greggia: grezza, incontaminata. 7 mi trasportavano: suscitavano in me emozioni. 8 l’Ossian: i Canti di Ossian, poema celebrato nel Settecento, hanno come sfondo una natura nordica e selvaggia. Attribuiti a un bardo gaelico del III d.C., sono in gran parte un falso dello scozzese James
Macpherson (1736-1796), che li pubblicò tra il 1762 e il 1763; in Italia furono tradotti da Melchiorre Cesarotti (1730-1808). 9 molte… scolpite: la natura nordica suscita alla fantasia dello scrittore immagini del tutto simili a quelle, di spirito preromantico, dei Canti di Ossian, sebbene Alfieri in quel tempo non li avesse ancora letti.
Analisi del testo Natura e “sublime” Il passo esemplifica un tema fondamentale della Vita di Alfieri, la visione della natura. L’insofferenza dei limiti e delle costrizioni porta lo scrittore, con uno spirito già romantico, a ricercare nei suoi viaggi spazi vasti e illimitati, affascinanti per la sensazione di libertà che suscitano. Il più suggestivo è forse quello della Svezia invernale, che evoca uno stato d’animo sublime per la grandiosità della natura incontaminata («la greggia maestosa natura di quelle immense selve»), e per il fascino romantico dell’«indefinibile silenzio», che suscita l’impressione di essere fuori dal mondo, in una solitudine assoluta ed eroica.
La scoperta di sé nella natura Al contatto con una natura selvaggia è legata nella Vita alfieriana la scoperta di un “io” più vero e profondo, come si riscontra anche nel passo qui proposto: nel paesaggio solitario della Svezia il futuro scrittore scopre in sé sentimenti e stati d’animo “poetici”, che, una volta intrapresi gli studi letterari, avrebbe poi riscoperto nella lettura di un testo esemplare della sensibilità proto-romantica, i Canti di Ossian.
542 Settecento 11 Vittorio Alfieri
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Perché lo scrittore dichiara di prediligere paesaggi aspri, selvaggi, solitari? ANALISI 2. Individua le espressioni in cui, secondo te, meglio si evidenzia l’idea di una natura “sublime”. LESSICO 3. Quali campi semantici prevalgono nella descrizione? A quali temi sono collegati?
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA 4. In un testo di circa 15 righe descrivi un’esperienza di immersione in un paesaggio naturale sconfinato e selvaggio e le emozioni che hai provato.
Studiare con l’immagine 5. Esamina gli elementi del paesaggio che compaiono nel dipinto di Caspar Wolf (1735-1783) e svolgi le seguenti richieste: a. Che tipo di paesaggio viene descritto? b. Spiega il motivo per il quale il pittore ha scelto di rappresentare le figure umane in piccole dimensioni. b. Pensi che la posizione di Wolf nei confronti della natura rappresentata sia vicina a quella assunta da Alfieri di fronte agli sconfinati paesaggi della Svezia?
PER APPROFONDIRE
Caspar Wolf, Paesaggio invernale con cascata (Kunstmuseum, Berna).
Il registro ironico come espressione del distanziamento critico dal passato Attraverso il linguaggio, Alfieri mette efficacemente in rilievo la distanza tra le due opposte fasi della sua vita. Come osserva il critico Jean Starobinski (1920-2019), nelle autobiografie il rapporto fra l’io presente e l’io del passato è rivelato dal linguaggio: se l’io di un tempo è rievocato con rimpianto, il linguaggio diviene sentimentale e nostalgico, se invece è giudicato negativamente, compaiono segnali linguistici come l’ironia e il lessico spregiativo. Questo è il caso della Vita di Alfieri, il cui ritmo sostenuto e incalzante, lontano da ogni abbandono nostalgico, cadenza i passi compiuti in avanti nella consapevolezza e verso la libertà. La
distanza critica dell’autore rispetto al proprio passato è invece evidenziata da frequenti forme linguistiche di significato svalutativo, spesso dense di ironia: basti pensare all’uso di vegetando, con cui Alfieri definisce, con forza espressiva, la sua esistenza oziosa e inutile, prima della “conversione letteraria”; e al neologismo autoironico, «giovenilmente plutarchizzando» con cui stigmatizza il suo zelo da neofita (suggestionato da Plutarco) per cui, dopo la “conversione” alle idee illuministiche, si rifiuta di incontrare il poeta Metastasio, perché, come poeta cortigiano, si era inchinato a Maria Teresa d’Austria.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 543
Sguardo sul cinema La Vita di Alfieri e il film Into the Wild di Sean Penn: un possibile confronto? Alcune pagine della Vita alfieriana, in particolare quelle dedicate ai viaggi negli anni giovanili e alla natura, specie quella selvaggia, descritta nella vastità dei deserti o nell’ostile solitudine dei paesaggi ghiacciati, si impongono con forza come una testimonianza dei viaggi nelle terre estreme che caratterizzano l’avventuroso Grand Tour alfieriano. Un confronto attuale e suggestivo può esser fatto con Into the Wild, un film di Sean Penn (1960), uscito nel 2007, ispirato a una vicenda reale ricostruita dal giornalista Jon Krakauer (1954) nel suo libro Nelle terre estreme (1998). Anche se l’autobiografia di Alfieri non ha ovviamente nessun rapporto diretto con il film, tuttavia, nonostante la diversità delle circostanze storiche e del contesto culturale, il fascino dei paesaggi sconfinati è il medesimo e dettato da un’analoga esigenza: scoprire il proprio io profondo a contatto con la natura, fuori dai condizionamenti della società. Il protagonista del film, Chris McCandless, ha qualcosa in
comune con Alfieri: anch’egli apprezza più di ogni cosa la libertà e, per sfuggire alle limitazioni di una società di cui non accetta i valori, si inoltra in un viaggio nella natura selvaggia; anch’egli è alla ricerca di una propria identità e del senso vero dell’esistenza. Nelle sue annotazioni, Chris scriveva infatti di essere alla ricerca del «massimo della libertà […] per uccidere l’essere falso dentro di lui». Anche la costruzione del film, proprio perché si tratta di un percorso simile, di maturazione e di ricerca di un’identità al di fuori dei condizionamenti della società e dell’educazione, presenta singolari analogie con la Vita, perché anche il regista americano Sean Penn, come Alfieri, sceglie di evidenziare il percorso esistenziale del protagonista suddividendolo in tappe (cinque nel film) che scandiscono l’emergere nel protagonista del suo “io” più autentico e profondo: La mia nascita, L’adolescenza, La maturità, La famiglia, La conquista della saggezza.
Fotogrammi dal film Into the Wild.
6 Le tragedie La scelta del genere tragico e la riforma della tragedia VIDEOLEZIONE
Un’affinità elettiva Alle tematiche libertarie prospettate nei trattati si collegano in vario modo anche le tragedie, a cominciare dalla prima di esse, il Filippo. Il genere della tragedia, il più illustre nel sistema letterario italiano, per le sue potenzialità drammatiche, la presenza di personaggi eroici, lontani dalla comune umanità, di grandi conflitti, era certamente l’ambito in cui l’ispirazione e la personale visione del mondo di Alfieri potevano meglio esprimersi: non a caso, dunque, la sua “conversione letteraria” si identifica con la scelta, che diventerà quasi una missione, di diventare tragediografo. Però non si deve pensare a opere teatrali destinate a un largo pubblico, bensì a un uditorio ristretto ed elitario. I caratteri della tragedia alfieriana In Italia la tragedia era andata da tempo incontro a una progressiva decadenza, anche per l’assenza di autori di rilievo, e nel favore del pubblico era stata di fatto soppiantata dalla commedia e dal fortunato genere del melodramma. Alfieri si propone di rivitalizzare la tragedia riportandola ad alti livelli letterari e conferendole l’impronta della propria inconfondibile personalità umana e letteraria.
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Da un lato lo scrittore rispetta dunque alcune caratteristiche tipiche nel genere, come la divisione in cinque atti o le unità di tempo, luogo e azione; dall’altro conferisce al testo tragico nuove caratteristiche, che lui stesso sintetizza nella Vita (➜ D3 OL) e in una lettera del 1783 (Lettera responsiva a Ranieri de’ Calzabigi). • Condensazione del nucleo drammatico Alfieri pone l’attenzione non tanto sulle peripezie e sui colpi di scena della trama, quanto sulle ragioni profonde del conflitto tragico, e per questo ricerca l’essenzialità, limitando al massimo gli episodi accessori. • Numero ridotto dei personaggi A tale essenzialità si correla la riduzione del numero dei personaggi. Già nel Filippo (la prima tragedia) i personaggi sono soltanto sei, molto pochi rispetto alle tragedie tradizionali (in altri drammi Alfieri li ridurrà ulteriormente, fino ad arrivare al record di soli quattro personaggi sulla scena). • Essenzialità dello stile La concentrazione della struttura drammatica alfieriana ha un corrispettivo nelle scelte stilistiche: i dialoghi sono brevissimi e incalzanti, il linguaggio, sebbene aulico, è essenziale e conciso, tanto che in un solo verso possono anche inscriversi diverse battute. Ne è un esempio, sempre nel Filippo, il dialogo, tutto concentrato in un verso, tra Filippo e il cortigiano Gomez, invitato dal re a spiare se la moglie Isabella e il figlio Carlo si amassero: FILIPPO Udisti? GOMEZ Udii. FILIPPO Vedesti? GOMEZ Io vidi. FILIPPO Oh rabbia! Uno scambio dialogico altrettanto conciso, e ancora più drammatico, si trova in un’altra tragedia, Antigone, tra l’eroina decisa a morire e il tiranno Creonte, che le propone la salvezza se avesse accettato di sposare suo figlio Emone: CREONTE Scegliesti? ANTIGONE Ho scelto. CREONTE Emon? ANTIGONE Morte. CREONTE L’avrai.
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Una lingua difficile, ma efficace sulla scena La lingua delle tragedie alfieriane è sempre letterariamente sostenuta, lontana dal parlato, soprattutto per la disposizione delle parole, con ardite trasposizioni rispetto all’ordine naturale (Alfieri parla di una «non comune collocazione delle parole»). Queste caratteristiche rendono i drammi alfieriani talvolta di difficile lettura, ma ne accrescono l’efficacia rappresentativa, perché evitano la monotonia della cadenza dei versi, facendo convergere l’attenzione sulle parole chiave, che sottolineano i nuclei drammatici della tragedia. Ad esempio, il grande attore Vittorio Gassman (1922-2000), più volte interprete dell’Oreste di Alfieri, sosteneva di apprezzare la «passione selvaggia» del linguaggio alfieriano, con «quei versi assurdi, incatenati, che sul palcoscenico si scioglievano in modo dolcissimo».
D3 Vittorio Alfieri Come Alfieri scriveva i testi tragici Vita, Epoca quarta, cap. IV
Il metodo di scrittura delle tragedie Il metodo seguito da Alfieri nella composizione delle tragedie è ben descritto dall’autore stesso in un famoso passo della Vita (Epoca quarLa visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 545
ta, cap. IV) che presentiamo (➜ D3 OL). Tre sono le fasi («tre respiri») che lo scrittore individua: «ideare, stendere, verseggiare». L’ideazione corrisponde all’abbozzo, all’individuazione del soggetto e alla sua distribuzione negli atti e nelle scene, la stesura allo scrivere in prosa l’intero testo, la versificazione alla sua trasposizione in versi (nel caso di Alfieri di tratta di endecasillabi sciolti), a cui segue il necessario “lavoro di lima”. Nella stesura delle tragedie è per Alfieri fondamentale la spontaneità del processo creativo, l’entusiasmo, che non si deve mai spegnere, ma, al contempo, è necessaria la disciplina formale, il controllo razionale, aspetti costitutivi della poetica classica.
Il corpus delle tragedie: dal conflitto tiranno-uomo libero al conflitto interiore La produzione tragica di Alfieri comprende diciannove testi, scritti tra il 1775 e il 1787. Lo scrittore ne cura personalmente l’edizione definitiva, pubblicata a Parigi tra il 1787 e il 1789. Rispetto alla tradizione, le tragedie di Alfieri si distinguono, oltre che per gli aspetti già indicati, per la tendenza a polarizzare le vicende rappresentate intorno al fondamentale conflitto drammatico libertà-tirannide, incarnandolo in personaggi dalla fisionomia forte, che si contrappongono con forte evidenza, anche perché Alfieri limita al massimo la presenza di personaggi secondari. Una prerogativa già evidente nella prima tragedia, Filippo, dove compare nella sua prima figurazione tragica il tiranno, incarnazione di un potere
Fulchran-Jean Harriet, Edipo e Antigone, 1798 (Cleveland, Museum of Art).
Le tragedie alfieriane contrasto uomo libero-tiranno
conflitto fra bene e male e coraggio contro viltà Temi di fondo delle tragedie suicidio come prova estrema di grandezza
lotta contro le passioni interiori insanabili
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oppressivo ed espressione di un individualismo a tutto disposto pur di affermarsi. Segue un gruppo di tragedie che attingono al mito classico (Antigone, Agamennone, Oreste). Fra il 1777 e il 1781 si collocano le cosiddette “tragedie della libertà”, coeve alla composizione del trattato Della tirannide, in cui le libertà conculcate dai tiranni sono libertà civili, che gli antagonisti dei tiranni cercano disperatamente di difendere, come nel Timoleone (il protagonista, per difendere la libertà, si oppone al fratello Timofane, tiranno di Sparta), in Virginia, ambientata nell’antica repubblica romana, e Congiura de’ Pazzi, ambientata invece nella Firenze di Lorenzo de’ Medici, presentato qui non come illuminato mecenate ma come tiranno. I due esiti possibili del conflitto tiranno-uomo libero sono quelli descritti nel trattato Della tirannide: l’uomo libero uccide il tiranno o, più spesso, soccombe, ma è a volte vittorioso sul piano morale. Nel caso delle due tragedie più note e considerate unanimemente i capolavori del teatro alfieriano, Saul e Mirra, il conflitto non è più tra due antagonisti, ma diviene interno ai personaggi stessi, assumendo caratteri di più inquietante modernità.
Il Filippo, archetipo delle tragedie alfieriane “di libertà” La prima, di fatto il prototipo a cui si sarebbero ispirate le cosiddette “tragedie di libertà” alfieriane in cui l’eroe si contrappone al potere tirannico, è Filippo, dedicata alla vicenda di don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna, fatto incarcerare dal padre e morto in prigione. La tragedia – composta nel 1775-1776 e in seguito rivista più volte – fu collocata dall’autore al primo posto della sua raccolta. La vicenda Alfieri rappresenta Filippo come un tiranno sanguinario, assetato di potere e incapace dei normali sentimenti umani come l’amore per Isabella, la giovane moglie e l’affetto per il figlio Carlo. Spalleggiato dal perfido consigliere Gomez, che fa credere a Isabella di poter far fuggire Carlo dal carcere in cui è rinchiuso, Filippo sorprende i due giovani a colloquio nella prigione e li accusa di adulterio, condannando il figlio a morte. Isabella, che, pur innamorata di Carlo, aveva sempre respinto la tentazione del tradimento, messa di fronte alla disumana crudeltà del marito, si dà la morte insieme a Carlo. Filippo, ottenuta «piena orrida vendetta», è abbandonato alla sua solitudine disumana.
Filippo GENERE
tragedia, prototipo delle cosiddette “tragedie di libertà”
DATAZIONE
1775-1776
TEMA
opposizione al potere tirannico; conflitto padre-figlio
ARGOMENTO
vicenda di don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna
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Vittorio Alfieri
T8
Il conflitto fra il tiranno Filippo e l’uomo libero Carlo Filippo, atto V, scene III-IV
Vittorio Alfieri, Saul e Filippo, a c. di Vittore Branca, Rizzoli, Milano 1980
Presentiamo le scene conclusive della tragedia, in cui si rivela il contrasto tra la nobiltà d’animo di Carlo, che, rassegnato a una morte ingiusta, tenta di salvare l’innocente Isabella, e la subdola crudeltà di Filippo, incarnazione di una perfida “ragion di stato”, ostile a tutto ciò che si sottragga al dispotico potere regale.
Atto V, scena III FILIPPO, ISABELLA, CARLO. CARLO
[…] Saziati, su, nel sangue mio; disbrama1 la rabbia in me del tuo geloso orgoglio: 185 ma lei risparmia; ella innocente appieno...
Ella? in ardir, non in fallir, ti cede2. – Taci, o donna, a tua posta3; anche lo stesso tuo tacer ti convince4: in sen tu pure (né val che il nieghi5) ardi d’orribil foco: 190 ben mel dicesti; assai, troppo il dicesti, quand’io parlava di costui poc’anzi teco ad arte: membrando a che mi andavi6, ch’ei m’era figlio? che tuo amante egli era, perfida, dir tu non l’osavi. In cuore 195 men di lui forse il tuo dover tradisti, l’onor, le leggi?
FILIPPO
ISABELLA ... In me il silenzio nasce, di timor no; stupore alto m’ingombra del non credibil tuo doppio, feroce, rabido cor7. – Ripiglio al fin, ripiglio 200 gli attoniti miei spirti8... Il grave fallo d’esserti moglie, è al fin dover ch’io ammendi9. – Io finor non ti offesi: al cielo in faccia, in faccia al prence10, io non son rea: nel mio petto bensì... La metrica Endecasillabi sciolti. 1 disbrama: sfoga, sazia. 2 in ardir… cede: ti è inferiore nel coraggio, non nella colpa. 3 a tua posta: a tua volta. 4 ti convince: ti dimostra colpevole. 5 il nieghi: lo neghi.
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6 membrando a che mi andavi: perché mi rammentavi. 7 In me il silenzio… cor: il mio silenzio non nasce dal timore; sono stupefatta per il tuo animo incredibilmente falso, crudele, rabbioso (rabido). Per la prima volta Isabella ha compreso la natura malvagia dell’animo del marito Filippo.
8 Ripiglio… spirti: riprendo il mio animo sconvolto. 9 fallo… ammendi: è mio dovere espiare la colpa (fallo) di essere tua moglie. Compresa la malvagità di Filippo, Isabella non si sente più colpevole di amare Carlo, ma si pente di aver sposato un uomo crudele. 10 prence: principe, sovrano.
CARLO
Pietà di me fallace muove i suoi detti: ah! non udirla11... ISABELLA Indarno salvarmi tenti: ogni tuo dire è punta, che in lui più innaspra la superba piaga12. Tempo non è, non più, di scuse; omai è da sfuggir l’aspetto suo, cui nullo 210 tormento agguaglia13. – Ove al tiranno fosse dato il sentir pur mai di amor la forza14, re, ti direi, che tu fra noi stringevi nodi d’amore: io ti direi, che volto ogni pensiero a lui fin da’ primi anni 215 avea; che in lui posta ogni speme, io seco trar disegnato avea miei dì felici15. Virtude m’era, e tuo comando a un tempo, l’amarlo allor: chi ’l fea delitto poscia?16 Tu, col disciorre i nodi santi, il festi17. 220 Sciorgli era lieve ad assoluta voglia; ma il cor, così si cangia?18 Addentro in core forte ei mi stava: ma non pria tua sposa fui, che repressa in me tal fiamma tacque. Agli anni poscia19, a mia virtude, e forse 225 a te spettava lo estirparla20... FILIPPO Io dunque, quanto non fer, né tua virtú, né gli anni, ben io il farò21: sì, nel tuo sangue infido io spegnerò la impura fiamma22... ISABELLA Ognora sangue versare, e ognor versar più sangue23, 230 è il sol tuo pregio; ma, fia pregio, ond’io il mio amore a lui tolto a te mai dessi?24 A te, dissimil dal tuo figlio, quanto 205
11 Pietà… udirla: la compassione di me
16 Virtude m’era… poscia?: allora amare
muove Isabella a dire parole non vere. Carlo interrompe Isabella, che stava per confessare il suo amore per lui, per evitare che anche lei subisca la vendetta di Filippo. 12 Indarno… piaga: invano tenti di salvarmi: ogni tua parola è un colpo che inasprisce maggiormente la ferita al suo superbo orgoglio. Isabella ha compreso che la virtù accresce l’ira invidiosa e vendicativa del tiranno. 13 l’aspetto… agguaglia: la sua vista, peggiore di ogni tormento. 14 Ove al tiranno…forza: se il tiranno potesse mai sentire qual è la forza dell’amore. 15 io seco… felici: io avevo progettato di vivere con lui (con Carlo) giorni felici. Isabella si riferisce al periodo in cui Filippo l’aveva promessa in isposa a Carlo.
Carlo era virtù, ed era il tuo comando; chi lo ha reso poi un delitto? Isabella accusa Filippo di avere annullato, con volere dispotico, il suo progetto di nozze con Carlo, che lei aveva iniziato ad amare dopo la promessa di matrimonio. 17 col disciorre… festi: lo hai fatto, con il disciogliere i santi nodi del promesso matrimonio. 18 Sciorgli… cangia?: sciogliere il matrimonio promesso era facile per un re assoluto; ma è altrettanto facile cambiare i sentimenti? 19 poscia: poi. 20 lo estirparla: estinguerla, volgendo l’amore per Carlo in un sentimento verso di te. 21 quanto… il farò: quanto non fecero (fer) né la tua virtù né gli anni io lo farò.
22 spegnerò la impura fiamma: con crudele ironia, a Isabella che gli aveva detto che a lui sarebbe toccato farsi amare, per farle dimenticare la passione per Carlo, il precedente promesso sposo, Filippo risponde che avrebbe spento la impura fiamma, uccidendola. 23 Ognora… sangue: il solo vanto di Filippo è versare sangue. Il chiasmo (Ognora / sangue versare, e ognor versar più sangue) sottolinea la violenza sanguinaria del tiranno, che, con un circolo vizioso, alimenta sempre nuovo odio, che viene ogni volta spento nel sangue. 24 ma, fia pregio… dessi?: ma sarebbe una qualità per cui io dovrei togliere il mio amore a Carlo e darlo a te? Le parole di Isabella sono crudelmente ironiche verso Filippo.
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dalla virtude è il vizio. – Uso a vedermi tremar tu sei25; ma, più non tremo; io tacqui 235 finor la iniqua passïon, che tale la riputava in me: palese or sia, or ch’io te scorgo assai più ch’essa iniquo. FILIPPO Degno è di te costui; di lui tu degna. – Resta a veder, se nel morir voi sete 240 forti, quanto in parlar...
Atto V, scena IV GOMEZ, FILIPPO, ISABELLA, CARLO. FILIPPO Gomez; compiuti mie cenni hai tu? Quant’io t’ho imposto arrechi?26 GOMEZ Perez trafitto muore: ecco l’acciaro27, che gronda ancor del suo sangue fumante. CARLO Oh vista! FILIPPO In lui dei traditor la schiatta 245 spenta pur non è tutta... Ma tu, intanto, mira qual merto a’ tuoi fedeli io serbo28. CARLO Quante (oimè!) quante morti veder deggio, pria di morir? Perez, tu pure?... Oh rabbia! Già già ti seguo. Ov’è, dov’è quel ferro, 250 che spetta a me? via, mi s’arrechi. Oh! possa mio sangue sol spegner la sete ardente di questo tigre29! ISABELLA Oh! sazïar io sola potessi, io sola, il suo furor malnato! FILIPPO Cessi la infame gara. Eccovi, a scelta 255 quel pugnale, o quel nappo30. O tu, di morte dispregiator, scegli tu primo. CARLO Oh ferro!... Te caldo ancora d’innocente sangue, liberator te scelgo. – O tu, infelice donna, troppo dicesti: a te null’altro 260 riman, che morte: ma il velen deh! scegli; men dolorosa fia... D’amore infausto quest’è il consiglio estremo: in te raccogli tutto il coraggio tuo: – mirami... Io moro31... Segui il mio esempio. – Il fatal nappo afferra... 265 Non indugiare...
25 Uso… sei: sei abituato a vedermi tremare. 26 compiuti… arrechi?: hai eseguito i miei ordini (mie cenni)? Porti ciò che ti ho ordinato di portare? Filippo aveva or-
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dinato a Gomez di uccidere Perez, l’amico che aveva osato difendere Carlo. 27 l’acciaro: la spada (metonimia). 28 mira… serbo: guarda quale ricompensa riservo a coloro che ti sono fedeli.
29 questo tigre: nella lingua letteraria il nome era anche usato al maschile. 30 nappo: coppa (in questo caso, di veleno). 31 mirami… moro: guardami, muoio. Carlo si trafigge con la spada.
ISABELLA Ah! sì; ti seguo. O morte, tu mi sei gioja; in te... FILIPPO Vivrai tu dunque; mal tuo grado vivrai32. ISABELLA Lasciami... Oh reo supplizio! ei muore; ed io?... FILIPPO Da lui disgiunta, sì, tu vivrai; giorni vivrai di pianto: 270 mi fia sollievo33 il tuo lungo dolore. Quando poi, scevra34 dell’amor tuo infame, viver vorrai, darotti35 allora io morte. ISABELLA Viverti al fianco?... io sopportar tua vista?... Non fia mai, no... Morir vogl’io... Supplisca 275 al tolto nappo... il tuo pugnal36... FILIPPO T’arresta... ISABELLA Io moro... FILIPPO Oh ciel! che veggio? ISABELLA ... Morir vedi... La sposa,... e il figlio,... ambo innocenti,... ed ambo per mano tua... – Ti sieguo, amato Carlo... FILIPPO Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio37... 280 Ecco, piena vendetta orrida ottengo;... Ma, felice son io?... – Gomez, si asconda38 l’atroce caso a ogni uomo. – A me la fama, a te, se il taci, salverai la vita39.
32 mal tuo grado… vivrai: vivrai anche se non lo vuoi. La crudeltà di Filippo si spinge al punto di voler impedire a Isabella di morire, perché la vede felice di seguire l’uomo amato nella morte. 33 mi fia sollievo: mi sarà di sollievo.
34 scevra: liberata. 35 darotti: ti darò. 36 Supplisca… pugnal: si sostituisca alla
37 rio: fiume. 38 si asconda: si nasconda, si taccia. 39 A me… vita: se taci, salverai a me la
coppa di veleno che mi hai tolto il tuo pugnale. Isabella afferra la spada di Filippo e se ne trafigge.
fama, a te la vita.
Analisi del testo Il tiranno come figura centrale del dramma La conclusione del Filippo fa emergere in piena luce il contrasto tra i due giovani, Carlo e Isabella, innocenti e di animo nobile e generoso, e Filippo, crudele e sanguinario tiranno. La sua ira nasce non tanto dal fatto che la giovane moglie gli abbia preferito il figlio, quanto che questa sia venuta meno al “dover”, all’“onor”, ossia che abbia osato sfidare il suo potere assoluto. Più del tema amoroso, nella vicenda interessa ad Alfieri quello politico, e, non a caso, la tragedia si conclude con una battuta di Filippo, che ne sottolinea in tal modo la centralità della figura. Dopo aver causato la morte di tutti quanti si opponevano al suo volere assoluto, Filippo sembra per un istante percepire l’orrore delle sue azioni («vendetta orrida ottengo») e si chiede: «Ma, felice son io?», domanda retorica dalla risposta evidentemente negativa, che mostra come, nonostante l’apparente vittoria, in realtà, sul piano umano, sia il vero sconfitto.
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Gli effetti nefasti del terrore Il significato politico della tragedia è legato soprattutto alla denuncia degli effetti nefasti del terrore, inscindibilmente legato ai regimi dispotici. Nel trattato Della tirannide – in accordo con l’idea di Machiavelli che il timore e non l’amore dei sudditi renda saldo il potere del principe assoluto – Alfieri spiega come nelle corti il sospetto e la paura regnino sovrani: «I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell’uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le assegnavano sacerdoti, e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me pajono una viva immagine di questo culto antico, benché per tutt’altro fine instituite».
La reggia-prigione Nel Filippo, emblema del clima delle corti è l’immagine della prigione nel cuore della reggia, in cui è richiuso Carlo e dove si svolge l’ultima scena della tragedia, quasi che il buio carcere fosse «lo svelamento dell’essenza occulta della reggia alfieriana» (Di Benedetto). Più ancora delle sue vittime, il terrore domina il tiranno, consapevole dell’odio che suscita (nel trattato Della tirannide: il tiranno sa «quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti»). Carlo e Isabella, infatti, uniti dall’amore, vincono la paura (e in questo senso sono più liberi di Filippo) e accettano serenamente la morte; mentre il re, sospettoso di ogni sentimento libero e disinteressato, temendo che mini le basi del suo potere assoluto, decreta la fine di Carlo, del suo amico Perez, e infine di Isabella, in un circolo vizioso distruttivo, e autodistruttivo, per cui alla fine non gli rimane più nulla.
Isabella, il personaggio dinamico della tragedia La regina Isabella è il personaggio dinamico della tragedia. Giunta dalla Francia nella Spagna, roccaforte della Controriforma e dell’assolutismo monarchico, all’inizio la giovane, non sospettando fino a che punto arrivino la crudeltà e la falsità del suo sposo, è decisa a restargli fedele nonostante l’attrazione che prova per Carlo. Quando le si rivela quanto il re sia disumano e spietato, in lei avviene un mutamento profondo: vince il timore di Filippo («Uso a vedermi tremar tu sei; ma, più non tremo»), e, per la prima volta, ammette apertamente il suo amore per Carlo, rivendicando la legittimità di tale sentimento verso l’unico che lo meriti; è infine lei a pronunciare la condanna più dura e senza appello del potere sanguinario del re assoluto.
La vittoria morale del figlio contro il padre Dopo che amore, libertà e amicizia sono stati spenti nel sangue, a legare Filippo ad altri esseri umani non resta che il vincolo della paura, come mostra l’ultima scena, in cui il re si affida al ministro Gomez, minacciandolo di morte se avesse riferito i fatti a cui aveva assistito. Così nello scontro tra i due antagonisti, il “tiranno” Filippo e l’“uomo libero” Carlo, quest’ultimo soccombe, ma in realtà è moralmente vittorioso, avendo suscitato sentimenti puri e disinteressati: l’amore di Isabella e l’amicizia di Perez, che giungono a morire per lui; invece Filippo ha potuto suscitare soltanto l’odio della moglie, la ribellione del figlio e l’obbedienza intimorita di Gomez, pagando un prezzo atroce per la sua smania di potere. La tragedia di Alfieri su don Carlos diviene così un atto d’accusa contro il potere assoluto, che distrugge ogni sentimento nobile e virtuoso.
Illustrazione della tragedia Filippo, incisione tratta da un'edizione milanese del 1822.
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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. Perché Isabella sceglie di morire trafitta dalla spada di Filippo? ANALISI 3. I personaggi di Carlo e di Filippo sono messi a confronto: quali tratti del carattere li contraddistinguono? Quali battute fanno meglio emergere le differenze tra le due figure? STILE 4. Una caratteristica tipica dello stile delle tragedie alfieriane è la disposizione delle parole diversa dal loro ordine usuale nel discorso, con le figure dell’iperbato e dell’anastrofe (inversione tra le parole), per mettere in rilievo i termini chiave; indica nel testo due o tre esempi, a tuo parere significativi di tale struttura sintattico-retorica, indicandone nei diversi casi la funzione espressiva.
PER APPROFONDIRE
Interpretare
SCRITTURA 5. In questa nota, Alfieri così sintetizza i caratteri dei personaggi del Filippo: «Filippo, finto, crudele, superbo, geloso della moglie senza amarla; invidioso del figlio, nemico d’ogni virtù, non ama nessuno. // Carlo, innamorato, ardente, fiero, abborre il padre perché lo conosce, ma lo rispetta. // Isabella innamorata, onesta, buona, semplice da principio, poi risoluta, ed ardita». Indica i passi in cui, a tuo giudizio, Alfieri abbia fatto emergere tali caratteristiche dei personaggi. Ritieni che l’autore, attraverso i suoi personaggi, sia riuscito a rappresentare il conflitto drammatico libertà-tirannide? Motiva la tua risposta.
Il Filippo: un re “tiranno” e il conflitto padre-figlio L’oscura vicenda del principe nemico di suo padre Il Filippo è ispirato a un oscuro fatto storico dell’epoca della Controriforma, la fine di don Carlos (Carlo nella tragedia alfieriana), primogenito ed erede al trono di Filippo II, re di Spagna, fatto arrestare dal padre con l’accusa di ribellione, eresia e tentato parricidio, e morto in prigione, nel 1568, quando aveva soltanto ventitré anni. A conferire alla vicenda un alone leggendario e romantico si aggiunse il sospetto (in realtà mai comprovato), che il giovane amasse Elisabetta di Valois (Isabella nel dramma alfieriano), moglie di Filippo ma sua coetanea, e a lui in precedenza promessa in sposa; e il fatto che la giovane fosse morta (sembra per una gravidanza travagliata) pochi mesi dopo Carlo. Tali fosche e drammatiche vicende ispirarono (con la mediazione di un romanzo secentesco) diverse opere oltre a quella di Alfieri, in particolare di stampo romantico, tra le quali il Don Carlos di Friedrich Schiller (1787) e l’omonima opera lirica di Verdi (1867), a sua volta tratta dal dramma schilleriano.
Juan Pantoja de la Cruz, Ritratto della regina Elisabetta di Valois, 1605 ca. (Madrid, Museo del Prado).
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Saul e il conflitto interiore del tiranno Nonostante sia la figura più negativa dei drammi di Alfieri, il tiranno è anche quella di maggior interesse e complessità, essendo, non solo carnefice, ma anche vittima dell’odio da lui suscitato. Questo tema è già presente nel Filippo, ma viene ulteriormente sviluppato nel Saul, considerato uno dei capolavori di Alfieri, composto nel 1782. La tragedia è ispirata alla vicenda biblica del vecchio re Saul, abbandonato dalla protezione divina, che ora sostiene David (Libro dei Re 12-31), destinato a succedergli. La vicenda Il vecchio Saul è stato in passato un eletto di Dio, che lo ha prescelto come re degli ebrei nonostante le sue umili origini. Ora però la sua gloria è al tramonto e Dio ha destinato a succedergli David, eroico combattente e sposo di Micol, sua figlia. Il vecchio re non accetta di trarsi in disparte e ammettere la propria decadenza: perciò perseguita David costringendolo alla fuga. È però interiormente diviso: in cuor suo sa che solo David potrebbe scongiurare la minaccia incombente dei Filistei, e sa anche che gli è fedele e affezionato, ma d’altra parte non riesce ad accettare di cedere il potere, ammettendo i propri limiti. Nel giorno della battaglia decisiva contro i Filistei, in cui si svolge la tragedia, David torna per difendere il suo popolo, anche a costo di essere nuovamente vittima dell’ira ingiusta del suo persecutore. In balìa di opposte passioni, diviso tra l’affetto e l’invidia, Saul reagisce ancora una volta in modo irrazionale e tirannico, arrivando a far uccidere il sacerdote Achimelech, colpevole di aver aiutato David. Inorridito dal sacrilegio, e consapevole dell’ira divina contro Saul, David si allontana dal campo. Saul rimane dunque solo davanti al nemico, e subisce una terribile disfatta, in cui muore anche il figlio Gionata. Il vecchio re si getta sulla propria spada, riscattando con una morte eroica le proprie colpe. Un personaggio complesso Lo scontro che oppone il vecchio re Saul al giovane prode David potrebbe apparire una ripresa del “copione” tragico presente già nel Filippo e nelle altre tragedie incentrate sul conflitto tra tiranno e uomo libero. Nel Saul, però, la figura del tiranno, pur presentando alcuni caratteri costanti in questa tipologia di personaggio alfieriano (come l’insofferenza per i limiti e la brama di dominio ➜ T9 ), è estremamente più complessa. Alfieri poi aveva una predilezione per questo personaggio («era il mio personaggio più caro, perché in esso vi è di tutto, di tutto assolutamente»), che aveva anche personalmente interpretato, come ricorda nella Vita. Solo apparentemente il conflitto è quello tra il vecchio sovrano e David: in realtà è tutto interno alla coscienza di Saul, che Alfieri presenta combattuto fra opposti sentimenti e pulsioni, preda di una progressiva deriva dalla razionalità del giudizio che lo porterà alla follia. Nel Parere sul Saul Alfieri asserisce di aver sviluppato nella tragedia «quella perplessità del cuore umano», per cui un uomo, diviso fra contrastanti passioni, «vuole e disvuole una cosa stessa». Una tragedia sorprendentemente moderna La modernità della tragedia è proprio nella trasformazione del conflitto tragico in conflitto interiore: Saul è un “dramma della coscienza” o forse, ancor più, il dramma del contrasto tra sentimenti positivi (l’amore per i figli, l’ammirazione e l’affetto per David) e zone “buie” dell’io, il cui prevalere produce pulsioni aggressive (verso David, ma anche contro i sacerdoti che lo sostengono e che rimproverano a Saul le sue colpe) e autodistruttive (una tragica solitudine prima e il suicidio infine). È nel lato “oscuro” della mente di Saul che si annidano le cause delle sue ossessioni e manie, che lo portano a perseguitare il giovane genero. Non è infatti David il vero
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antagonista di Saul, ma ciò che l’affermazione di David rappresenta per il vecchio re: il fantasma della vecchiaia e del declino, la perdita del potere, a cui Saul si ribella orgogliosamente, affermando oltre ogni limite e a ogni costo la propria volontà di dominio. La sfida titanica di Saul La sfida di Saul ha tratti quasi titanici perché egli sfida non solo David e chi lo sostiene, ma anche la volontà di Dio, che si rifiuta di accettare: un tempo l’eletto di Dio era lui, ora Dio ha scelto David, ma Saul si ribella a un disegno già scritto e preferisce la catastrofe del suo popolo (sconfitto dai Filistei) e della sua famiglia (il figlio Gionata muore in battaglia) alla resa di fronte a ciò che contrasta con la sua volontà. Il suicidio stesso di Saul non è da considerarsi una resa, ma l’estrema affermazione, in una prospettiva già romantica, della propria superiore statura umana, insofferente di ogni limite.
Saul GENERE
tragedia
DATAZIONE
1782
ARGOMENTO
vicenda biblica del vecchio re Saul
TEMA
conflitto interiore di un tiranno; contrasto tra sentimenti positivi e zone “buie” dell’io; titanismo
Vittorio Alfieri
T9
Il sogno e la follia di Saul Saul, atto II, scena I
V. Alfieri, Saul e Filippo, a c. di Vittore Branca, Rizzoli, Milano 1980
A colloquio con Saul, il perfido consigliere Abner cerca di mettere in cattiva luce David, e i sacerdoti che lo proteggono. Saul prova verso il genero sentimenti contrastanti, di odio ma anche di affetto, come emerge dal suo racconto di un sogno rivelatore e profetico, in cui si manifesta la volontà divina che egli ceda il potere a David. La scena onirica rivela la profondità psicologica di Alfieri, che sembra precorrere la moderna psicanalisi nel mostrare il contrasto fra una verità profonda (in termini moderni si direbbe che inconsciamente Saul sa di dover cedere il potere) e la volontà cosciente del re, che tale necessità nega e rifiuta.
SAUL
90
Atto II, scena I […] David?... Io l’odio... Ma, la propria figlia gli ho pur data in consorte1… Ah! tu non sai. La voce stessa, la sovrana voce2, che giovanetto mi chiamò più notti, quand’io, privato, oscuro, e lungi tanto stava dal trono e da ogni suo pensiero3;
La metrica Endecasillabi sciolti. 1 la propria… consorte: eppure gli ho dato mia figlia in sposa.
2 la sovrana voce: la voce di Dio. 3 lungi… pensiero: stavo tanto lontano dal trono e da ogni pensiero di regnare.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 555
or, da più notti, quella voce istessa fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona in suon di tempestosa onda mugghiante4: 95
100
105
110
115
«Esci5, Saùl; esci, Saulle»... Il sacro venerabile aspetto del profeta6, che in sogno io vidi già, pria ch’ei mi avesse manifestato che voleami Dio re d’Israèl; quel Samuèle, in sogno, ora in tutt’altro aspetto io lo riveggo. Io, da profonda cupa orribil valle, lui su raggiante monte assiso miro7: sta genuflesso8 Davide a’ suoi piedi: il santo veglio9 sul capo gli spande l’unguento del Signor10; con l’altra mano, che lunga lunga ben cento gran cubiti11 fino al mio capo estendesi, ei mi strappa la corona dal crine12, e al crin di David cingerla vuol: ma, il crederesti? David pietoso in atto a lui si prostra, e niega riceverla13; ed accenna14, e piange, e grida, che a me sul capo ei la riponga... – Oh vista! Oh David mio! Tu dunque obbedïente ancor mi sei? Genero ancora? E figlio? E mio suddito fido? e amico?... Oh rabbia15! Tormi16 dal capo la corona mia? Tu che tant’osi, iniquo vecchio17, trema... Chi sei?... Chi n’ebbe anco il pensiero, pera18... Ahi lasso me! ch’io già vaneggio!...
ABNER 120
Pera, David sol pera: e svaniran con esso, sogni, sventure, visïon, terrori.
4 mugghiante: rumoreggiante durante la tempesta. 5 Esci: abbandona il potere regale. 6 profeta: Samuele. 7 su raggiante… miro: lo vedo seduto su un monte illuminato dal sole. 8 genuflesso: inginocchiato. 9 il santo veglio: il santo vecchio (perché interprete della volontà di Dio), Samuele. 10 l’unguento del Signor: l’unguento che indica la consacrazione regale.
556 Settecento 11 Vittorio Alfieri
11 cento gran cubiti: il cubito è un’unità di misura corrispondente a 44,4 centimetri; la lunghezza del braccio di Samuele nel sogno è di circa 45 metri. 12 dal crine: dai capelli (dal capo). 13 niega riceverla: rifiuta di riceverla. Nel sogno David appare leale verso Saul, e rifiuta di subentrargli come re. 14 accenna: indica. 15 Oh rabbia: la battuta segna il subentrare nell’animo di Saul di sentimenti oppo-
sti ai precedenti: rifiuto di abbandonare il potere, odio e sentimenti di vendetta verso David e verso il sacerdote Samuele, prima venerato come interprete della volontà di Dio. 16 Tormi: togliermi. 17 iniquo vecchio: vecchio ingiusto (si riferisce a Samuele). 18 Chi n’ebbe… pera: chi ebbe anche soltanto il pensiero di detronizzarmi, perisca.
Analisi del testo Le passioni contrastanti in Saul I due versi, in cui Saul confida i propri sentimenti al perfido consigliere Abner, evidenziano il contrasto tra l’odio e l’affetto nell’animo di Saul: invidia e odia David, ma ha saputo in passato apprezzarlo, tanto da averlo scelto come genero. Uno stilema tipico del Saul sono i puntini di sospensione, che, indicando una lunga pausa, segnalano l’emergere di una componente irrazionale e indicibile (la «perplessità del cuore umano» di cui parla l’autore a proposito di questa tragedia).
Il sogno e la sua simbologia Nel sogno assume rilievo la simbologia spaziale, con la contrapposizione tra Saul, relegato in una valle cupa e infossata (i tre aggettivi «profonda cupa orribil» ne sottolineano l’oscurità), e il sacerdote, circonfuso di luce, su una montagna, con David inginocchiato ai suoi piedi. Il sacerdote Samuele, interprete della volontà di Dio, un tempo aveva designato Saul re, ma ora, nel sogno, gli toglie la corona per porla in capo a David. Frutto della deformazione onirica è il particolare del braccio del sacerdote, che si protende ad un’immensa distanza, angosciosa simbolizzazione di come la volontà divina possa raggiungere ovunque gli uomini, anche se potenti come Saul.
La “rivelazione” dell’inconscio È il momento di più forte intensità emotiva della scena. Mentre Saul riferisce il sogno ad Abner, le immagini oniriche gli si presentano alla mente, suscitando una violenta reazione emotiva, sottolineata dalla fitta serie di interrogative. Emerge quello che oggi chiameremmo l’inconscio, che si manifesta in questa tragedia attraverso sogni, visioni, e vere e proprie allucinazioni del protagonista, in preda alla follia.
Le minacce di Saul Saul non accetta che gli sia tolto il potere, perciò, dopo aver rievocato il sogno quasi in stato di trance, quando si rende conto che questo designa profeticamente a succedergli David, come nuovo re di Israele, cade in preda a passioni violente, minacciando chiunque si attenti a detronizzarlo. All’angoscioso tormento di Saul si contrappone la fredda perfidia machiavellica del ministro Abner, che ne esaspera ad arte la crudeltà tirannica contro David.
La «sovrana voce» L’allitterazione («tuona in suon di tempestosa») e la metafora dell’onda tempestosa evidenziano il rilievo dato al suono della «voce» (parola chiave) del profeta, che un tempo aveva chiamato Saul al trono, e ora lo respinge.
William Turner, Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, 1812 (Londra, Tate Britain).
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 557
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Il sogno mostra come nel profondo Saul senta di dover cedere la corona a David. Che cosa lo suggerisce? 2. Quali sono gli elementi più significativi del sogno e che cosa indicano? ANALISI 4. I puntini di sospensione contrassegnano una forte pausa. Prendi in esame le battute di Saul in cui ricorrono e spiega quali cambiamenti segnalano nello stato interiore del protagonista. 5. Nel discorso sono ripetute le parole «voce» e «sogno». Per quale ragione? LESSICO 6. Perché il sacerdote Samuele è chiamato al v. 104 «veglio» e al v. 117 «vecchio»?
Interpretare
ESPOSIZIONE ORALE 7. In un intervento orale di massimo tre minuti, spiega perché Saul assume le caratteristiche del tiranno, figura tipica del teatro di Alfieri, ma è anche un personaggio più complesso. TESTI A CONFRONTO 8. Nella tragedia, come si evidenzia anche nella scena riportata, Alfieri presenta un personaggio che a tratti cade nella follia. Quali altre opere letterarie ricordi incentrate sul tema della follia? Quali analogie e differenze riscontri tra le motivazioni della pazzia presenti in tali opere e quelle del Saul?
Vittorio Alfieri
T10
LEGGERE LE EMOZIONI
La fine di Saul
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
Saul, atto V, scene III-V, vv. 117-225 V. Alfieri, Saul e Filippo, a c. di Vittore Branca, Rizzoli, Milano 1980
Sono le ultime scene della tragedia. Saul si dà la morte con la propria spada.
Atto V, scena III SAUL, MICOL. SAUL 120
Ombra adirata1, e tremenda, deh! cessa: lasciami, deh!... Vedi: a’ tuoi piè mi prostro... Ahi! dove fuggo?... – ove mi ascondo? O fera2 ombra terribil, placati... Ma è sorda ai miei preghi; e m’incalza3?... Apriti, o terra, vivo m’inghiotti4... Ah! pur che il truce sguardo non mi saetti della orribil ombra5...
MICOL Da chi fuggir? niun ti persegue. O padre, 125 me tu non vedi? me più non conosci?
La metrica Endecasillabi sciolti. 1 Ombra adirata: è l’ombra del sacerdote Samuele che era stato fatto uccidere da Saul.
558 Settecento 11 Vittorio Alfieri
2 fera: crudele. 3 m’incalza: mi perseguita. 4 m’inghiotti: inghiottimi (imperativo). 5 pur che… ombra: purché non mi colpisca lo sguardo minaccioso della orribile
ombra. Piuttosto che essere vittima del terribile fantasma di Samuele, Saul preferirebbe essere sepolto vivo.
SAUL 130 135
O sommo, o santo sacerdote, or vuoi ch’io qui mi arresti? o Samuél, già vero padre mio, tu l’imponi6? ecco, mi atterro7 al tuo sovran comando. A questo capo già di tua man tu la corona hai cinta; tu il fregiasti8; ogni fregio or tu gli spoglia; calcalo9 or tu. Ma,... la infuocata spada d’Iddio tremenda, che già già mi veggo pender sul ciglio,... o tu che il puoi, la svolgi10 non da me, no, ma da’ miei figli. I figli, del mio fallir sono innocenti...
MICOL Oh stato, cui non fu il pari mai11! – Dal ver disgiunto, padre, è il tuo sguardo12: a me ti volgi... SAUL Oh gioja! Pace hai sul volto? O fero veglio13, alquanto 140 miei preghi accetti? io da’ tuoi piè non sorgo14, se tu i miei figli alla crudel vendetta pria non togli. – Che parli?... Oh voce! «T’era David pur figlio; e il perseguisti15, e morto pur lo volevi». Oh! che mi apponi16?... Arresta... 145 sospendi or, deh!... Davidde ov’è? si cerchi: ei rieda17; a posta sua18 mi uccida, e regni: sol che19 a’ miei figli usi pietade, ei regni... – Ma, inesorabil20 stai? Di sangue hai l’occhio; foco il brando e la man; dalle ampie nari 150 torbida fiamma spiri, e in me l’avventi.21.. Giá tocco m’ha; giá m’arde: ahi! dove fuggo?... Per questa parte io scamperò. MICOL Né fia, ch’io rattener ti possa, né ritrarti al vero?22 Ah! m’odi23: or sei... SAUL Ma no; che il passo 155 di là mi serra24 un gran fiume di sangue. Oh vista atroce! sovra ambe le rive, di recenti cadaveri gran fasci 6 l’imponi: lo comandi. 7 mi atterro: mi prostro. 8 il fregiasti: lo adornasti. 9 calcalo: schiaccialo. 10 la svolgi: allontanala (imperativo). 11 Oh… mai: oh condizione di dolore a cui nessuna fu mai eguagliabile.
12 Dal ver… sguardo: Micol ha compreso che il padre sta delirando perché il suo
sguardo è dal ver disgiunto.
20 inesorabil: irremovibile (dal latino
13 fero veglio: vecchio terribile. Si riferi-
inexorabilis, “chi non si lascia muovere dalle preghiere”). 21 L’avventi: la dirigi. 22 Né… vero: e non è possibile che io possa trattenerti, né ricondurti alla realtà. 23 m’odi: ascoltami (imperativo). 24 il passo… serra: mi impedisce il cammino.
sce a Samuele. 14 sorgo: mi alzo dai tuoi piedi. 15 il perseguisti: lo perseguitasti. 16 che mi apponi: di che mi accusi. 17 rieda: ritorni. 18 a posta sua: a suo piacere. 19 sol che: purché.
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160 165 170 175
ammonticati stanno: ah! tutto è morte colà: qui dunque io fuggirò... Che veggo? Chi sete or voi? – D’Achimeléch25 siam figli. «Achimeléch son io. Muori, Saulle, muori». – Quai grida? Ah! lo ravviso26: ei gronda di fresco sangue, e il mio sangue ei si beve. Ma chi da tergo, oh! chi pel crin mi afferra? Tu, Samuél? – Che disse? che in brev’ora seco27 tutti saremo? Io solo, io solo teco28 sarò; ma i figli... – Ove son io? – Tutte spariro ad un istante l’ombre. Che dissi? Ove son io? Che fo? Chi sei? Qual fragor odo? ah! di battaglia parmi: pur non aggiorna29 ancor: sì, di battaglia fragore egli è. L’elmo, lo scudo, l’asta, tosto or via, mi si rechi: or tosto l’arme, l’arme del re. Morir vogl’io, ma in campo.
MICOL Padre, che fai? Ti acqueta30... Alla tua figlia...
SAUL
L’armi vogl’io; che figlia? Or, mi obbedisci. L’asta, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli.
MICOL Io non ti lascio, ah! no...
SAUL Squillan più forte le trombe? Ivi si vada: a me il mio brando 180 basta solo. – Tu, scostati, mi lascia; obbedisci. Là corro: ivi si alberga31 morte, ch’io cerco. SCENA QUARTA SAUL, MICOL, ABNER con pochi soldati fuggitivi. ABNER Oh re infelice!... Or dove, deh! dove corri? Orribil notte è questa. SAUL
Ma, perché la battaglia...?
ABNER Di repente32, 185 il nemico ci assale: appien33 sconfitti siam noi... 25 Alchimeléch: il sommo sacerdote fatto uccidere da Saul, assieme ai suoi figli. 26 lo ravviso: lo riconosco. 27 seco: con lui, nell’aldilà.
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28 teco: con te. 29 aggiorna: fa. 30 Ti acqueta: calmati (imperativo).
31 si alberga: si trova. 32 Di repente: improvvisamente. 33 appien: completamente.
SAUL
Sconfitti? E tu fellon34, tu vivi?
ABNER Io? per salvarti vivo. Or or qui forse Filiste inonda35: il fero impeto primo forza è schivare36: aggiornerà37 frattanto. 190 Te più all’erta38 quassù, fra i pochi miei, trarrò... SAUL
Ch’io viva, ove39 il mio popol cade?
MICOL Deh! vieni... Oimè! cresce il fragor: s’inoltra40... SAUL
Gionata,... e i figli miei,... fuggono anch’essi? Mi abbandonano?...
ABNER Oh cielo!... I figli tuoi,... no, non fuggiro... Ahi miseri!...
195
SAUL
T’intendo: morti or cadono tutti...
MICOL Oimè!... I fratelli?... ABNER Ah! più figli non hai. SAUL 200
– Ch’altro mi avanza? ... Tu sola omai, ma non a me41, rimani. – Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo: e giunta è l’ora. – Abner, l’estremo è questo de’ miei comandi. Or la mia figlia scorgi42 in securtà.
MICOL No, padre; a te dintorno mi avvinghierò: contro a donzella il ferro non vibrerà il nemico. SAUL 205
34 fellon: traditore. 35 Filiste inonda: i Filistei stanno per riversarsi. 36 il fero… schivare: si deve evitare la forza terribile del primo feroce assalto.
Oh figlia!... Or, taci: non far, ch’io pianga. Vinto re non piange. Abner, salvala, va: ma, se pur mai ella cadesse infra nemiche mani,
37 aggiornerà frattanto: nel frattempo si farà giorno. 38 più all’erta: più in alto, al sicuro. 39 ove: quando. 40 s’inoltra: s’avanza.
41 non a me: bensì allo sposo, David, che egli considera suo nemico.
42 scorgi: scorta, guida in un luogo sicuro.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 561
210
deh! non dir, no, che di Saulle è figlia; tosto di’ lor, ch’ella è di David sposa; rispetteranla. Va; vola...
ABNER S’io nulla valgo, fia salva43, il giuro; ma ad un tempo te pur... MICOL Deh!... padre... Io non ti vo’, non voglio lasciarti... SAUL 215
Io voglio: e ancora il re son io. Ma già si appressan l’armi: Abner, deh! vola: teco, anco a forza, s’è mestier, la traggi44.
MICOL Padre!... e per sempre?...
SCENA QUINTA SAUL SAUL Oh figli miei!... – Fui padre. – Eccoti solo, o re; non un ti resta dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga, d’inesorabil Dio terribil ira? – 220 Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo, fido ministro45, or vieni. – Ecco già gli urli dell’insolente vincitor: sul ciglio46 già lor fiaccole ardenti balenarmi veggo, e le spade a mille... – Empia Filiste47, me troverai, ma almen da re, qui... morto. –
43 S’io… salva: per quanto io possa valere, sarà salva. 44 Teco… traggi: portala con te (traggi è
imperativo), anche con la forza, se è necessario. 45 all’ultim uopo… ministro: per l’ultima
necessità, strumento fedele.
46 sul ciglio: davanti agli occhi. 47 empia Filiste: crudeli Filistei.
Analisi del testo Il delirio di Saul Saul, in preda al delirio, ha la mente affollata da presenze inquietanti: gli spettri del profeta Samuele e del sommo sacerdote Alchimeléch, che lui stesso aveva fatto uccidere. Ridestatosi dallo stato allucinatorio, il sovrano vorrebbe per sé le armi per combattere un’ultima volta e morire sul campo eroicamente. Ma venuto a sapere che il suo regno ormai è sconfitto, che i suoi figli sono morti e che tutto è perduto, decide di porre fine alla sua vita con la spada, dopo aver affidato la figlia Micol, che invano aveva tentato di far tornare in sé il padre, ad Abner per consegnarla a David.
562 Settecento 11 Vittorio Alfieri
Un dramma della coscienza Le ultime scene della tragedia sono essenziali per comprendere sino in fondo la modernità della figura di Saul, che ospita dentro di sé un “dramma della coscienza”, espressione di un contrasto tra sentimenti positivi e zone oscure dell’io.
Le scelte stilistiche La frammentazione dei versi, caratteristica delle tragedie alfieriane, risulta un efficace strumento per amplificare la forza drammatica delle scene, assieme al ricorso a un lessico solenne ed elevato.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
TECNICA NARRATIVA 1. Suddividi il testo in sequenze e assegna un titolo a ciascuna di esse. SINTESI 2. Sintetizza il contenuto del testo in circa 8 righe. COMPRENSIONE 3. Nella V scena a chi rivolge Saul le sue invocazioni? 4. Saul è attanagliato dal senso di colpa. Verso chi? ANALISI 5. Come viene presentata la figura di Micol? STILE 6. Nelle scene presentate Alfieri ricorre a frasi interrogative, esclamative e imperative. Individuale e spiega quale effetto produce il loro utilizzo da parte dell’autore.
Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI
EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
SCRITTURA 7. Come interpreti il rapporto padre-figlia nel Saul? Ti sembra che le passioni estremizzate della tragedia alfieriana siano lontane dalla tua sensibilità? Come vivi il rapporto con la figura paterna (max 15-20 righe)?
La Mirra e il tormento interiore della passione illecita Il tema del conflitto tra passione e ragione è sviluppato anche in Mirra, considerata uno dei capolavori del teatro tragico alfieriano. Il dramma, in questa tragedia, non è più incentrato su un personaggio eroico, ma su una giovane donna, che lotta, senza riuscirvi, per vincere l’amore incestuoso per il proprio padre: una tragedia dunque tutta interiore, la più moderna sul piano della psicologia e del linguaggio. La vicenda Mirra, figlia di Ciniro, re di Cipro, è oppressa da un’estrema malinconia. In realtà la giovane è vittima di una vendetta di Venere, che, per punire sua madre Cecri, che aveva vantato la bellezza della figlia paragonandola a quella della dea, l’aveva fatta innamorare del proprio padre Ciniro. Fra i molti che ne chiedono la mano, la principessa sceglie il giovane Pereo; ma, proprio durante la cerimonia nuziale, in delirio, Mirra svela la sua avversione per lo sposo, che non regge al rifiuto, e si toglie la vita. Ciniro la affronta duramente, obbligandola a rivelare i motivi della sua condotta. Per l’orrore suscitato dalla rivelazione, Mirra è pronta a trafiggersi con la spada del padre. Sconvolto, Ciniro la lascia sola a morire; resta al suo fianco soltanto la nutrice Euriclea. La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 563
Il mito di Mirra dalle Metamorfosi di Ovidio alla tragedia alfieriana Alfieri trae la vicenda dalle Metamorfosi del poeta latino Ovidio (X, 298-518). L’amore per il padre, e la gelosia verso la madre, di cui Mirra si sente non figlia ma rivale, è al centro della tragedia di Alfieri: l’impulso amoroso pone Mirra al di fuori della normalità dei rapporti familiari e, di conseguenza, della convivenza sociale, fondata, come Freud avrebbe in seguito dimostrato, sulla repressione degli istinti e sui tabù. I mutamenti apportati al mito ovidiano A differenza del poema ovidiano, in cui la fanciulla confida alla nutrice il proprio sentimento amoroso, e, con l’aiuto di questa, celando la propria identità, diviene amante del padre, con cui concepisce il figlio Adone, nella tragedia alfieriana Mirra tenta fino alla fine di combattere contro la propria passione, e, quando infine cede e, per quanto velatamente, la rivela, è subito pronta a darsi la morte, rimpiangendo di non averlo fatto quando ancora era da tutti considerata innocente. Mirra appare così non come colpevole, ma come vittima di una passione impossibile da dominare. La tragedia del “ritorno del rimosso” La Mirra, come il Saul, si incentra dunque su un conflitto psicologico; in termini psicoanalitici potrebbe essere definita la tragedia del “ritorno del rimosso”, in quanto si concentra sul non detto, sugli impulsi profondi della psiche che riemergono, a dispetto di tutto, dopo essere stati censurati e negati, mostrando così la loro potenza incoercibile. In tutta la tragedia, infatti, Mirra tenta di celare, anche a sé stessa, i suoi veri sentimenti, ben sapendo che susciterebbero il ribrezzo di tutti. Ma, come Alfieri mostra con modernissima intuizione, precorritrice della psicoanalisi, ciò che è represso deve in qualche modo manifestarsi, con conseguenze distruttive. La modernità del linguaggio e dello stile Altrettanto moderno è il linguaggio della Mirra, che sonda i limiti di quanto è possibile esprimere con la parola. Mirra è una delle eroine teatrali più silenziose che si possano immaginare: durante la prima parte della tragedia tutti si interrogano sulle cause che la rendono preda di una «muta […] malinconia mortale», ma la fanciulla si ostina a non rivelare le ragioni. Quando poi lascia trapelare la verità, è come se in lei emergesse una forza estranea. Mirra infatti vaneggia come in trance durante la cerimonia nuziale (➜ T9 OL), rivelando di non amare l’uomo che avrebbe dovuto sposare, mentre nell’ultimo colloquio con il padre si lascia sfuggire il suo segreto con poche e ambigue parole (➜ T10 ). Per l’eroina di online questa tragedia, per la prima volta nel teatro italiano, i silenzi T11 Vittorio Alfieri contano più delle parole: lo dimostra la presenza insistita dei La forza incoercibile dell’eros e il matrimonio incompiuto puntini di sospensione tra le sue battute, a significare l’aprirsi Mirra, atto IV, scena III sull’abisso insondabile dei desideri inconsci.
Mirra GENERE
tragedia
DATAZIONE
scritta tra il 1784 4 il 1786
TEMI
conflitto tra passione e ragione; amore incestuoso
MODELLI
Metamorfosi di Ovidio
564 Settecento 11 Vittorio Alfieri
Collabora all’analisi
T12
Vittorio Alfieri
La confessione di Mirra Mirra atto V, scene II e IV
V. Alfieri, Mirra, a c. di A. Momigliano, Mursia, Milano 1985
In seguito alle parole deliranti di Mirra durante il matrimonio, il suo promesso sposo Pereo si uccide. A questo punto Ciniro, addolorato e adirato, affronta la figlia, esigendo di conoscere le ragioni del suo comportamento. Incalzata dal padre, Mirra ammette di essere tormentata dalla passione amorosa, ma vorrebbe che qui la sua confessione si fermasse.
Atto V, scena II MIRRA, CINIRO. CINIRO 150 155 MIRRA 160 CINIRO 165 MIRRA CINIRO MIRRA 170 CINIRO 1 Stolto orgoglio… petto: Ciniro spiega alla figlia di sentirsi prima padre che sovrano, e perciò di essere disposto ad accettare una scelta che ferirebbe lo stolto orgoglio di un re che pensasse più alle esigenze del trono che a quelle della famiglia. Ciniro appare così un padre affettuoso e di aperte, quasi moderne, vedute, ma proprio la sua generosità farà sentire Mirra ancora più colpevole.
[…] Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo. Stolto orgoglio di re strappar non puote il vero amor di padre dal mio petto1. Il tuo amor, la tua destra, il regno mio, cangiar ben ponno2 ogni persona umìle in alta e grande: e, ancor che umìl3, son certo, che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami. Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva, ad ogni costo mio4. Salva?... Che pensi?... Questo stesso tuo dir mia morte affretta... Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto da te... per sempre... il piè... ritragga... O figlia unica amata; oh! che di’ tu5? Deh! vieni fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto di forsennata or mi respingi? Il padre dunque abborrisci? e di sì vile fiamma6 ardi, che temi... Ah! non è vile;... è iniqua7 la mia fiamma; né mai... Che parli? Iniqua, ove primiero8 il genitor tuo stesso non la condanna, ella non fia9: la svela10. Raccapricciar d’orror vedresti il padre, Se la sapesse... Ciniro... Che ascolto! 2 cangiar ben ponno: possono certamente cambiare. 3 ancor che umìl: per quanto sia di umile condizione. 4 io ti vo’… mio: ti voglio salva, per quanto mi possa costare. 5 che di’ tu: che cosa dici. Ciniro non si capacita che dopo le sue generose e affettuose parole, la figlia voglia fuggire da lui.
6 di sì vile fiamma: di un amore così spregevole.
7 iniqua: immorale. 8 primiero: per primo. 9 non fia: non sarà. 10 la svela: rivelala.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 565
MIRRA Che dico?... ahi lassa!... non so quel ch’io dica... Non provo amor... Non creder, no... Deh! lascia, te ne scongiuro per l’ultima volta, lasciami il piè ritrarre11. CINIRO Ingrata: omai 175 col disperarmi co’ tuoi modi, e farti del mio dolore gioco, omai per sempre perduto hai tu l’amor del padre. MIRRA Oh dura, fera12 orribil minaccia!... Or, nel mio estremo sospir, che già si appressa13,... alle tante altre 180 Furie14 mie l’odio crudo aggiungerassi15 del genitor?... Da te morire io lungi?... Oh madre mia felice!... almen concesso a lei sarà... di morire... al tuo fianco... CINIRO Che vuoi tu dirmi?... Oh! qual terribil lampo16, da questi accenti!... Empia, tu forse?... 185 MIRRA Oh cielo! Che dissi io mai?... Me misera!... Ove sono? Ove mi ascondo?... Ove morir? – Ma il brando tuo mi varrà17... (Rapidissimamente avventasi al brando del padre, se ne trafigge). CINIRO Figlia... Oh! che festi? il ferro... MIRRA Ecco,... or... tel rendo... Almen la destra io ratta ebbi al par che la lingua18. 190 CINIRO ... Io... di spavento,... e d’orror pieno, e d’ira,... e di pietade, immobil resto. MIRRA Oh Ciniro!... Mi vedi... Presso al morire... Io vendicarti... seppi,... E punir me... Tu stesso, a viva forza, 195 l’orrido arcano19... dal cor... mi strappasti... Ma, poiché sol colla mia vita... egli esce... Dal labro mio,... men rea... mi moro20... CINIRO Oh giorno! Oh delitto!... Oh dolore! – A chi il mio pianto21?... MIRRA Deh! più non pianger;... ch’io nol merto22... Ah! sfuggi 200 mia vista infame;... e a Cecri... ognor... nascondi...
11 lasciami… ritrarre: lasciami andare via. 12 fera: crudele. 13 nel mio… appressa: ai miei estremi sospiri della morte, che già si avvicina. 14 Furie: qui metonimia per “angosce”. 15 l’odio… aggiungerassi: si aggiungerà l’odio crudele. 16 lampo: rivelazione. L’invidia di Mirra per la madre fa intuire a Ciniro la verità.
566 Settecento 11 Vittorio Alfieri
17 il brando tuo… varrà: la tua spada mi servirà. 18 la destra… lingua: ho avuto la mano veloce quanto la parola. Dopo aver rivelato la propria colpa, Mirra è stata pronta a colpirsi mortalmente. 19 l’orrido arcano: l’orrendo segreto. 20 poiché… mi moro: poiché il mio segreto esce dalle mie labbra soltanto insieme alla vita, muoio meno colpevole.
21 A chi il mio pianto: chi devo piangere. Nel momento in cui muore, Mirra si è rivelata al padre diversa dalla figlia che egli aveva amato, ed egli si chiede chi egli debba ora piangere, la figlia o la donna scellerata che si è rivelata attraverso le sue ultime parole. 22 nol merto: non lo merito.
CINIRO
Padre infelice!... E ad ingojarmi il suolo non si spalanca?... Alla morente iniqua donna appressarmi io non ardisco; ... eppure, abbandonar la svenata mia figlia non posso...
[Nella scena terza, Cecri accorre, ma Ciniro la fa allontanare rivelandole l’«infame orrendo amore» della figlia.] scena IV MIRRA, EURICLÉA. MIRRA 220
Quand’io... tel... chiesi,... Darmi... allora,... Euricléa, dovevi il ferro... io moriva... innocente;... empia... ora... muojo…
Collabora all’analisi Comprendere e analizzare
Nelle ultime scene della tragedia Mirra, incalzata dal padre, giunge a rivelargli la sua colpevole passione. Ma la traumatica rivelazione avviene per gradi: sebbene nel discorso di Mirra se ne colgano alcuni indizi, solo alla fine il padre intuisce la verità. 1. Individua gli indizi attraverso i quali si svela progressivamente ciò che tormenta Mirra. 2. Quali sono le parole di Mirra che fanno comprendere al padre il suo segreto? 3. Mirra non vuole parlare perché consapevole di quelli che sarebbero stati i tremendi effetti della sua rivelazione. Quali suoi presentimenti saranno confermati? Nell’ultimo verso della tragedia, la figura retorica del chiasmo («io moriva... innocente;... empia... ora... muojo») sottolinea il rimpianto di Mirra per non essersi data la morte quando ancora era innocente. La colpa di Mirra è dunque non essere riuscita a mantenere il suo silenzio, rivelando la sua passione colpevole. 4. In quali momenti della scena Mirra si lascia sfuggire più di quello che avrebbe voluto confessare?
Interpretare
Il linguaggio di Mirra infrange le norme consuete, ad esempio quando chiama il padre con il nome Ciniro, quasi a dissociarlo da una figura genitoriale. Diversamente da oggi, all’epoca di Alfieri questo appariva come una forte trasgressione, come se negasse il legame parentale. L’identità scissa di Mirra, che non può essere insieme figlia e amante di Ciniro, dissolve i rapporti della famiglia: Ciniro si chiede chi debba piangere, la figlia amata o la donna colpevole, e allontanandosi con Cecri, lasciando Mirra a morire, non la definisce “figlia” ma «morente iniqua donna». L’empia passione di Mirra mette dunque radicalmente in crisi il linguaggio, che non è fatto per esprimere ciò che viola un tabù su cui la civiltà è fondata (l’incesto). Più delle parole, nell’ultima scena sono perciò importanti i silenzi, le reticenze, le frasi sospese sul punto di rivelare la verità. 5. Individua i momenti essenziali del crescendo drammatico. 6. Individua le espressioni con cui Ciniro si riferisce a Mirra, distinguendo quelle in cui la vede come figlia amata e come donna scellerata e colpevole. 7. Nelle ultime scene della tragedia ricorre l’uso dei puntini di sospensione. Scegli i passaggi in cui questo uso ti sembra più significativo, spiegando i motivi per cui il discorso si interrompe. 8. Mirra è colpevole, ma è anche un personaggio positivo e degno di compassione. Prova a spiegarne le ragioni. 9. Nel testo si riscontra una sorta di ironia tragica che avvicina la tragedia a modelli classici come Edipo re. Ciniro crede infatti di poter aiutare la figlia mostrandosi padre affettuoso e disponibile, ma proprio tale atteggiamento fa precipitare la situazione. Indica i momenti in cui questo aspetto della tragedia è più evidente.
La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 2 567
INTERPRETAZIONI CRITICHE
Ezio Raimondi Alfieri, fra i lumi e «le ombre sull’abisso» E. Raimondi, Le ombre sull’abisso, in I sentieri del lettore, Dal Seicento all’Ottocento, Il Mulino, Bologna 1994
Uno degli aspetti di Alfieri che oggi più affascinano è il “personaggio Alfieri”. Presentiamo in proposito alcuni passi di un saggio critico di Ezio Raimondi (19242014), che mette in luce la complessità e la modernità della figura di Alfieri, sostenendo come sia spesso passata inavvertita per una critica che ha «troppe volte cancellato in funzione dello statuario ciò che è pittoresco».
Il “personaggio Alfieri” Se esiste un personaggio problematico, che bisogna sottrarre ad una specie di museo dove si è troppe volte cancellato in funzione dello statuario ciò che è pittoresco, ciò che è ombra, ciò che è elemento drammatico e contraddittorio, questi è sicuramente l’Alfieri. In un secolo come il Settecento, [...] 5 pronto a riconoscere la luce della ragione, ma già disposto anche a percorrere la notte di ciò che è il contrario della ragione, l’Alfieri, non soltanto all’interno della nostra tradizione, ma addirittura sul piano europeo, è sicuramente una delle figure più singolari. […] Non a caso verso la fine della sua esistenza egli licenzierà quella che è la più grande autobiografia italiana del Settecento, e forse non solo del Set10 tecento, la sua Vita, che è la costruzione di uno straordinario personaggio a metà tra un’Italia morta e un’Europa viva, dove dalla prima all’ultima pagina, parlando di teatro, egli si costruisce in termini profondamente drammatici. Ma drammatico in questo caso vuol dire anche romanzesco nel senso più pieno della parola, tanto è vero che noi potremmo rileggere la sua vita come il primo grande esempio di 15 romanzo italiano, dentro un secolo e in una tradizione che è decisamente in arretrato rispetto a ciò che accade in Europa proprio sul piano del romanzesco. […] Far letteratura con la propria vita Il romanzo settecentesco, forse per la prima volta nella nostra storia occidentale, non è più soltanto un fatto letterario, è la costruzione di modelli di comportamento che si appellano soprattutto alla giovi20 nezza come dimensione che si viene a poco a poco scoprendo e che poi porterà a livello antropologico fino a certi comportamenti della rivoluzione francese, la prima esplosione di una generazione giovane la quale farà in parte la rivoluzione e ne sarà nello stesso tempo la vittima. Non è un caso che, quando l’Alfieri morì, chi del vecchio ambiente piemontese conosceva bene queste cose, anche se dalla 25 retroguardia, osservava che l’Alfieri era diventato a modo suo un rivoluzionario o sicuramente un anarchico perché aveva letto da giovane troppi romanzi. La cosa è abbastanza importante perché indica subito che la letteratura è per l’Alfieri un modo di costruirsi vitalmente, non più sul piano della contemplazione disinteressata, ma dell’azione interessata: fare letteratura ha qualcosa a che vedere con 30 la costruzione del proprio Io, con il dubbio sul proprio Io, con la scoperta delle malattie, dei vuoti, delle carenze che, a mano a mano che la coscienza riflette su se stessa, vengono fatalmente alla luce. […] Il «razionalismo parziale» dell’Alfieri Razionalista per un verso (la «scienza dell’uomo» indica una costruzione razionale, una volontà di penetrazione delle 35 cose che si appella ragione moderna), egli ha nello stesso tempo, come molti altri illuministi che si muovono su terre complementari in forme abbastanza ambigue (ma questa è la ricchezza del Settecento), il senso preciso delle passioni, dei vuoti, delle insoddisfazioni, di ciò che dentro la ragione è duramente carnale e antirazionale. È inutile contrapporre ancora razionalità e irrazionalità nell’Alfieri, come se
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egli, uomo del Settecento, guardasse ad altro. L’Alfieri è un tipico personaggio del Settecento se nel Settecento riconosciamo che, accanto alla razionalità, esistono altri interessi e che non esiste soltanto un razionalismo esasperato, ma, come dicono oggi certi studiosi, un razionalismo parziale attraverso il quale poi la stessa ragione va alla ricerca di ciò che è il suo contrario e la luce del giorno si scontra 45 immediatamente con le ombre della notte. 40
Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi
1. Per quali aspetti Raimondi definisce Alfieri «un tipico personaggio del Settecento»? 2. Come viene definita la Vita di Alfieri dal critico? 3. Secondo il critico qual è il rapporto che si stabilisce fra Alfieri e la letteratura?
Produzione
3
4. Qual è il ritratto di Alfieri che emerge da questa pagina di critica? Riassumilo in un testo scritto.
Alfieri e le generazioni successive L’influenza di Alfieri sulle generazioni successive Alfieri è uno degli autori che hanno esercitato una maggiore influenza sulle generazioni immediatamente successive, per le quali rappresenta un grande modello di intellettuale: lo dimostra il caso di Foscolo, che lo ammira presentandolo nei Sepolcri (vv. 188-197) come ispiratore di un sentimento patriottico negli italiani. Esercita forte suggestione sulle generazioni successive anche lo spirito libertario alfieriano: Leopardi, nella Canzone ad Angelo Mai (vv. 159-160), ne ricorda la critica verso i tiranni («in su la scena / mosse guerra a’ tiranni»). In seguito, il critico ottocentesco De Sanctis, nella Storia della letteratura italiana (1870), gli riconosce il merito di aver educato generazioni di italiani alla libertà. Le critiche all’idea alfieriana di libertà… In epoca più recente, invece, furono forse più evidenziati i limiti del pensiero politico alfieriano, spesso giudicato troppo astratto. Come osserva il critico Arnaldo Di Benedetto, mentre Alfieri «trovava parole acute e pittoresche per descrivere l’incombere della tirannide – che degrada tutti: i sudditi come il despota –, molto meno esplicito e incisivo diventava il suo discorso allorché accennava al proprio ideale politico. Di qui quel tanto di indeterminato che effettivamente caratterizza i suoi scritti politici». In effetti l’indeterminatezza dell’ideologia politica alfieriana, per quanto riguarda la pars construens (gli aspetti propositivi), è un dato di fatto, che ha determinato interpretazioni molto diverse del suo pensiero: per alcuni lo scrittore può essere considerato un giacobino, per altri un anarchico e un libertario, per altri ancora addirittura un reazionario, date le sue posizioni ostili alla rivoluzione francese. Le critiche all’astrattezza dell’idea di libertà di Alfieri sono però soprattutto legate al periodo successivo alla Seconda guerra mondiale e alla Resistenza, quando l’idea di libertà sembrava inscindibile da una visione politica “progressista”: allora un critico come Natalino Sapegno, in un saggio del 1949, poteva giungere a definire la dialettica di libertà e tirannide alfieriana «astratta fino all’assurdo». Alfieri e le generazioni successive 3 569
… e il valore attuale di tale idea Ma tale astrattezza può essere anche intesa come un valore, come si constata in un periodo di crisi delle ideologie come quello attuale, in cui il pensiero di Alfieri viene rivalutato proprio perché rifugge da un preciso progetto politico, che, se da una parte renderebbe più concreta l’idea di libertà, dall’altra la impoverirebbe e limiterebbe. È poi da considerare che la forza di Alfieri è soprattutto nel definire la mancanza di libertà, perciò le sue idee politiche trovarono sintonia soprattutto nei momenti vissuti sotto regimi autoritari, come accadde durante il fascismo, quando l’opera di Alfieri divenne una fonte di ispirazione per lo scrittore e politico antifascista della Rivoluzione liberale, Piero Gobetti (1901-1926), e per il critico Giacomo Debenedetti, che nel 1943, nascosto per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche, scriveva:
[…] non potrebbe darsi che per gente come noi, così malcapitata sul pianeta, in un’era così soffocante, il primo invito dell’Alfieri, e il più decisivo, emani da quella parola “libertà” che romba, tuona e vola nelle sue pagine? Basta provarsi a rileggerle, con quest’aria che tira, e il primo istinto è di andare a chiudere le finestre, di smorzare gli accenti stentorei a cui la lettura, per invito più di una volta dello stesso poeta, vorrebbe salire. Ma poi subito un’allegrezza spavalda ci avverte che, anzi, quei toni stentorei si possono, si debbono amplificare: e non c’è barba di censore o di poliziotto che valga a “prendere provvedimenti”. Signor commissario, che andate cercando? Questo è Vittorio Alfieri, poeta d’altro secolo e ce l’aveva col re, coi preti e coi francesi.
Fissare i concetti Vittorio Alfieri Ritratto d’autore 1. A quale ambiente Alfieri appartiene? Si riconosce in tale ambiente? 2. Che tipo di formazione riceve? 3. Qual è il principale interesse di Alfieri negli anni dell’adolescenza? Che cosa ricava da questo suo interesse? 4. In che cosa consiste la svolta di Alfieri? E, poi, la sua “spiemontizzazione”? 5. Testimone della Rivoluzione francese, Alfieri come la giudica? 6. Dove si stabilisce negli ultimi anni della sua vita? Che tipo di esistenza conduce? La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia 7. Qual è l’intento delle Rime? 8. Quale modello riprende Alfieri? Con quali novità? 9. Per che cosa si caratterizza lo stile delle Rime? 10. Quali sono i temi affrontati? 11. Qual è il significato che Alfieri attribuisce al termine repubblica e quale a tirannide? 12. Per quale motivo condanna il dispotismo illuminato? 13. Quali alternative ha l’uomo libero in un regime privo di libertà? 14. Qual è il rapporto fra scrittore e potere secondo Alfieri? 15. Qual è il vero compito dello scrittore? 16. Quando Alfieri inizia a scrivere la Vita? 17. Qual è lo scopo di Alfieri nello scrivere la Vita? 18. In quali fasi Alfieri suddivide la sua vita? Come giudica ciascuna di queste fasi? 19. Secondo Alfieri, che cosa ha contribuito alla sua maturazione? 20. Qual è la particolarità dello stile adottato da Alfieri nella Vita? Le tragedie 21. Quali sono i caratteri della tragedia alfieriana? 22. Quali sono i temi ricorrenti nelle tragedie alfieriane? 23. Qual è l’archetipo delle tragedie alfieriane? 24. In che cosa consiste la modernità del Saul? E la complessità del personaggio? 25. Qual è il tragico destino di Mirra? Come si conclude la tragedia?
570 Settecento 11 Vittorio Alfieri
Settecento Vittorio Alfieri
Sintesi con audiolettura
1 Ritratto d’autore
Una vita “contro” Vittorio Alfieri nasce ad Asti nel 1749 da una famiglia piemontese nobile e agiata. Rimane orfano di padre all’età di un anno e la madre si risposa presto, disinteressandosi dei figli. A quattordici anni, entrato in possesso dell’eredità del padre, Alfieri inizia una serie di viaggi (dal 1766 al 1772) in Italia e in Europa. Trasferitosi poi a Torino, conduce una vita mondana e dissoluta fino a un momento di svolta della sua esistenza. Come lo stesso Alfieri racconta nella sua autobiografia, nel 1774 avviene infatti la cosiddetta «conversione letteraria» che lo spinge a dedicarsi completamente alla vocazione di scrittore. Impegnatosi in studi sistematici, in pochi anni comporrà tragedie, trattati, poesie, satire, commedie e la Vita (la sua autobiografia). Nel 1778 Alfieri decide di rinunciare al titolo di nobile piemontese («spiemontesizzarsi») e dunque alla propria eredità, per godere di maggiore libertà. Trasferitosi prima a Parigi con la propria amante, la contessa d’Albany (Luisa Stolberg), deluso dalle derive violente della Rivoluzione francese, si sposta poi a Firenze, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita fino alla morte nel 1803.
2 La visione del mondo. L’immagine del poeta e il ruolo della poesia
Un filo rosso tra le opere: il tema chiave della libertà Al centro dell’ideologia alfieriana è il tema della libertà. Dal punto di vista politico lo scrittore si rifà agli illuministi (in particolare a Montesquieu) e pone il rispetto delle leggi come baluardo della libertà. Per Alfieri uno Stato può essere definito libero soltanto quando nessuno, neppure il sovrano, può alterarne, modificarne o infrangerne le leggi. Secondo tale principio, a differenza della maggior parte degli illuministi, lo scrittore rifiuta anche l’assolutismo illuminato e riformatore. Alfieri assegna agli intellettuali il ruolo di difensori della libertà contro il potere. Questo tema è sviluppato nei trattati, nelle tragedie e anche nella Vita. Lo scrittore va oltre gli illuministi e conferisce alla libertà anche un carattere protoromantico, di ribellione dell’individuo contro tutti gli ostacoli che ne limitino l’indipendenza e la realizzazione personale. Un nuovo modello umano e una nuova idea di poesia Alfieri desidera presentarsi come un nuovo modello di uomo e di scrittore, come un personaggio “eroico” che sfida i tempi e si ribella alla sua epoca, e per realizzare il suo obiettivo assegna un ruolo importante alla poesia, che diviene depositaria di una missione sacra: deve risvegliare le passioni e gli ideali, parlare al cuore e alla mente dei lettori e lottare contro ogni forma di oppressione.
Un autoritratto in versi: le Rime La raccolta delle Rime, pubblicata a Firenze nel 1804, dopo la morte dell’autore, evidenzia la tendenza di Alfieri all’autobiografismo e all’autoanalisi. Le Rime riprendono il modello petrarchesco, connotandolo, tuttavia, di una passionalità proto-romantica.
Sintesi Settecento
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I trattati politici: il tema del potere e della libertà Il trattato Della tirannide (1777), in un due libri, è incentrato sul tema dell’assolutismo politico e sulle possibilità di azione dell’uomo libero in un regime dispotico, possibilità che si concretizzano in tre alternative: isolarsi, uccidere il tiranno o uccidersi. Del principe e delle lettere (1786) è un trattato in tre libri, incentrato sul rapporto tra letterato e potere. Compito dell’intellettuale è per Alfieri è quello di non cedere ai compromessi e di ispirare la passione della libertà e delle virtù civili. Un’opera affascinante e attuale: la Vita La Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso (1806) è un’autobiografia di sorprendente modernità, incentrata sulla realizzazione delle potenzialità dell’autore come individuo libero e capace di costruirsi una vita degna. È suddivisa in quattro parti: Puerizia, Adolescenza, Giovinezza, Virilità. Le prime tre età sono negative perché lo scrittore, insofferente della sua condizione di nobile piemontese, legato al re da vincoli feudali, vive una vita dissipata, priva di senso e di scopo; nell’ultima, con la scoperta della vocazione letteraria, lo scrittore riesce finalmente a esaudire la sua più vera e profonda vocazione. Lo stile dell’opera è fluido ed espressivo.
Le tragedie La scelta del genere tragico e la riforma della tragedia La conversione letteraria che determinò una svolta nella vita di Alfieri si identifica con la scelta di diventare tragediografo. Alfieri rispetta caratteristiche tipiche del genere, come la divisione in cinque atti e le unità di luogo, di tempo e di azione, ma apporta delle innovazioni: condensazione del nucleo drammatico; numero ridotto di personaggi; essenzialità dello stile, con dialoghi brevi e incalzanti; lingua letterariamente sostenuta. Il metodo seguito da Alfieri nella composizione delle tragedie è condensato in tre fasi «ideare, stendere, verseggiare». Il corpus delle tragedie: dal conflitto tiranno-uomo al conflitto interiore Alfieri scrisse 19 tragedie tra il 1775 e il 1787, pubblicate a Parigi tra il 1787 e il 1789 in edizione definitiva, incentrate su una netta polarizzazione tra libertà e tirannide. La prima fu il Filippo, seguita poi dalle altre cosiddette “tragedie della libertà”, in cui gli antagonisti dei tiranni cercano disperatamente di opporsi alla privazione delle libertà civili come nel Timoleone, in Virginia e nella Congiura de’ Pazzi. Gli esiti della lotta tiranno-uomo libero sono gli stessi presenti nel coevo trattato Della tirannide: l’uomo libero uccide il tiranno o soccombe. Le due più conosciute tragedie alfieriane, Saul e Mirra, si distinguono dalle altre poiché il conflitto non è più tra due antagonisti, ma diviene interno ai personaggi stessi. Il Filippo, archetipo delle tragedie alfieriane “di libertà” La prima tragedia alfieriana, archetipo delle “tragedie di libertà”, è Filippo (1775-76), dedicata alla vicenda di don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna. Saul e il conflitto interiore del tiranno Il Saul, considerato uno dei capolavori di Alfieri, fu composto nel 1782. La tragedia è ispirata alla vicenda biblica del vecchio Saul, incapace di accettare la sua decadenza e la successione legittima del genero David, da lui osteggiato in tutti i modi. La novità del Saul risiede nel fatto che in questa tragedia il conflitto è solo apparentemente quello tra il vecchio sovrano e David: in realtà, è tutto interno alla coscienza di Saul, nella quale si svolge un autentico dramma interiore. La Mirra e il tormento interiore della passione illecita L’atro capolavoro alfieriano è la Mirra, incentrata non su un personaggio eroico ma su una giovane donna, soggiogata da una passione inconfessabile per il proprio padre. Anche in questo caso, come nel Saul, il dramma si svolge all’interno della coscienza della protagonista che cerca in tutti i modi di sconfiggere il suo amore incestuoso, senza tuttavia riuscirvi.
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3 Alfieri e le generazioni successive
L’influenza di Alfieri sulle generazioni successive Alfieri è uno degli autori che hanno esercitato una maggiore influenza sulle generazioni immediatamente successive, per le quali rappresenta un grande modello di intellettuale: lo dimostra il caso di Foscolo, che lo ammira presentandolo nei Sepolcri come ispiratore di un sentimento patriottico negli italiani; Leopardi, nella Canzone ad Angelo, ne ricorda la critica verso i tiranni, e De Sanctis, nella Storia della letteratura italiana (1870), gli riconosce il merito di aver educato generazioni di italiani alla libertà. Le critiche all’idea alfieriana di libertà… In epoca più recente, invece, sono stati forse più evidenziati i limiti del pensiero politico alfieriano, spesso giudicato troppo astratto. In effetti l’indeterminatezza dell’ideologia politica alfieriana, per quanto riguarda gli aspetti propositivi, è un dato di fatto, che ha determinato interpretazioni molto diverse del suo pensiero. Le critiche all’astrattezza dell’idea di libertà di Alfieri sono però soprattutto legate al periodo successivo alla Seconda guerra mondiale e alla Resistenza, quando l’idea di libertà sembrava inscindibile da una visione politica “progressista”. … e il valore attuale di tale idea Ma tale astrattezza può essere anche intesa come un valore, come si constata in un periodo di crisi delle ideologie come quello attuale, in cui il pensiero di Alfieri viene rivalutato proprio perché rifugge da un preciso progetto politico, che, se, da una parte, renderebbe più concreta l’idea di libertà, dall’altra la limiterebbe. Inoltre, poiché la forza di Alfieri è soprattutto nel definire la mancanza di libertà, le sue idee politiche hanno trovato sintonia soprattutto nei momenti vissuti sotto regimi autoritari, come durante il fascismo, quando l’opera di Alfieri è divenuta una fonte di ispirazione per lo scrittore e politico antifascista Piero Gobetti e per il critico Giacomo Debenedetti.
Zona Competenze Scrittura
1. Scrivi un testo espositivo-argomentativo in cui evidenzi come il tema della libertà costituisca un filo conduttore in tutta l’opera di Alfieri.
Esposizione orale
2. Illustra il significato del suicidio nelle tragedie alfieriane, collegandolo con i temi fondamentali della visione politica ed esistenziale dell’autore (intervento orale di circa 5 minuti).
Scrittura creativa
3. Scrivi una tua breve memoria autobiografica, imperniandola, come quella di Alfieri, su un cambiamento per te cruciale.
Scrittura argomentativa
4. Alfieri e Parini incarnano due modelli di intellettuale che hanno avuto grande influenza sulle generazioni successive, assumendo quasi i tratti del mito: in un testo espositivoargomentativo rintraccia le ragioni di questo fenomeno, mettendo in luce anche le profonde differenze che intercorrono fra i due autori sul piano umano e del pensiero. 5. Spiega questa dichiarazione di poetica di Alfieri: «Vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori tutti che non possono essi mai ottenere gloria verace con fama intatta e durevole, né quindi mai cagionare utilità vera e massima nei loro lettori, se il loro scrivere non riesce alto, veridico, libero ed interamente sciolto da ogni secondo meschino fine».
Sintesi Settecento
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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
Vittorio Alfieri
Virginia Virginia, II, I V. Alfieri, Tragedie di Vittorio Alfieri, a c. di G. Zuradelli, Utet, Torino 1973
Nella tragedia Virginia, ideata e stesa nel 1777, e successivamente versificata, emerge l’idealizzazione settecentesca delle virtù della Roma antica. A Roma, il tiranno Appio Claudio esercita un potere dispotico, e insidia Virginia, promessa al tribuno della plebe Icilio. Manipolando a proprio vantaggio le leggi, Appio Claudio fa riconoscere falsamente Virginia come una sua schiava, e se la fa consegnare, cosicché, per sottrarla al disonore, il padre Virginio la uccide. Ma una sollevazione del popolo ristabilirà la libertà, abbattendo il tiranno. Nei versi da analizzare è delineata la figura del tiranno attraverso un suo monologo.
ATTO II scena I APPIO Appio, che fai? D’amor tu insano?... All’alto desio di regno ignobil voglia accoppi di donzella plebea1?... Sì; poi ch’ell’osa non s’arrendere ai preghi, a forza trarla 5 ai voler miei, parte or mi fia di regno2. Ma il popol può... Che temo? Delle leggi la plebe stolta, oltre ogni creder, trema: s’io delle leggi all’ombra a tanto crebbi, anch’oggi schermo elle mi fieno3; io posso, 10 e so crearle, struggerle, spiegarle4. Molt’arte vuolsi a impor perfetto il giogo5; ma, men ch’io n’ho. Più lieve erami assai conquider voi, feri patrizj, in cui sol forza ha l’oro, e pria vien manco l’oro, 15 che in voi l’avara sete6: io v’ho frattanto, se non satolli, pieni: hovvi strumenti fatti all’eccidio popolar7, per ora:
1 Appio… plebea: il tiranno Appio Claudio si chiede come possa accoppiare all’ambizione del regno il basso desiderio di una fanciulla plebea. 2 poi… regno: poiché lei osa non arrendersi alle mie preghiere, per me è parte dell’esercizio del mio
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potere regale condurla con la forza a soddisfare i miei desideri. 3 schermo... fieno: (le leggi) potranno difendermi. 4 spiegarle: interpretarle. 5 Molt’arte… giogo: molta abilità è necessaria per imporre il potere assoluto.
6 Più lieve… sete: la cosa più facile è stata vincere voi, fieri nobili, su cui ha potere solo la ricchezza, e viene meno prima l’oro, che la vostra avidità. 7 hovvi… popolar: vi considero come strumenti per annientare il popolo.
spegnervi8 poscia, il dì verrà; poca opra a chi v’ha oppressi, ed avviliti, e compri9. – 20 Ma già Virginia al tribunal si appressa; seco è la madre, e Icilio, e immenso stuolo? – Fero corteggio10; e spaventevol forse, ad uom ch’Appio non fosse: ma, chi nato si sente al regno, e regno vuole, o morte, 25 temer non sa, né sa cangiar sue voglie. 8 spegnervi: eliminarvi. 9 compri: corrotti. 10 Fero corteggio: inquietante corteo.
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda la risposta a tutte le domande proposte.
Comprensione e analisi
1. Fai la parafrasi dei primi 10 versi. 2. Appio Claudio espone alcuni dubbi sull’azione scellerata intrapresa per conquistare la fanciulla. Quali? Per quali ragioni, nonostante tutto ciò, non rinuncia al suo proposito? 3. Appio Claudio racconta come ha conquistato il potere assoluto: in che modo ha realizzato il suo progetto? Ha completato il suo piano? 4. Nel monologo di Appio Claudio emergono tre protagonisti: il tiranno, i nobili e il popolo. Rintraccia nel testo le espressioni e i termini che li descrivono: quale giudizio emerge su ciascuna delle tre componenti dello Stato? 5. Analizzando il testo, si può affermare che Appio Claudio ami Virginia? Per quali ragioni? 6. Quali elementi caratterizzano Appio Claudio come “tiranno”? Quali sono i suoi sentimenti verso il popolo?
Interpretare
Partendo dal passo proposto e facendo riferimenti ad altre tragedie di Alfieri da te lette, spiega il modo con il quale l’autore delinea i personaggi femminili.
Verso l’esame di Stato 575
Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo
La Vita di Alfieri M. Fubini, Ritratto dell’Alfieri, in Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 14-18.
La Vita s’è preparata lentamente nella mente dell’Alfieri: ad essa tendeva il poeta che aveva cercato di impossessarsi per mezzo dell’arte di sé medesimo, di chiarire i propri sentimenti nella precisa parola, nel quadro chiuso dei sonetti, ma che non poteva appagarsi di quel «sublime specchio di veraci detti». 5 Questa preparazione della Vita riconosciamo nei Pareri1 sulle tragedie, nei quali l’autore si pone di fronte all’opera propria e raffronta una per una le tragedie, uno per uno i personaggi all’idea che gli sta nella mente; la riconosciamo nella risposta al Calzabigi2, nella quale tra le affermazioni recise del credo estetico e morale dello scrittore, si fa sentire a un certo punto una voce più intima di 10 confessione: «Ciò che mi mosse a scrivere dapprima, fu la noia, e il tedio d’ogni cosa, misto a bollor di gioventù, desiderio di gloria, e necessità di occuparmi in qualche maniera che fosse più confacente alla mia inclinazione»; ma soprattutto di questo ripiegarsi dell’Alfieri su sé medesimo per dare un giudizio di quello che egli ha fatto e su quello che egli è, ci è testimonianza il dialogo 15 La virtù sconosciuta3, la più intima delle operette alfieriane, che è insieme una celebrazione dell’amico unico e un esame di coscienza che Vittorio fa di sé medesimo, ed è pur, con quel che di classicheggiante e letterario permane nel suo stile, il precedente più vicino all’autobiografia. Così maturatasi a poco a poco, questa gli sgorgherà dalla penna in uno dei momenti se non più felici, 20 meno infelici della sua esistenza, nel 1790, nel primo anno della Rivoluzione francese, quando nonostante le riserve egli pure si sentì commosso in mezzo alla generale commozione e non fu estraneo, come parrebbe da quel che si dice, al fervore di vita che era intorno a lui. In questo momento, egli poté con maggiore serenità guardare indietro al cammino percorso e narrare quello che 25 egli aveva fatto, sicuro ormai che qualcosa della sua vita non sarebbe stato vano. La felicità di questa prosa viene appunto dalla certezza che è nell’animo dell’autore, e la freschezza e la spontaneità dell’opera ci è testimoniata anche da quel primo getto che ci rende quasi sensibile nella fitta pagina priva pressoché di pentimenti e di correzioni, l’abbandono col quale il poeta delle 30 tragedie si è dato a narrare se stesso. Non delle «confessioni» egli scrive però alla maniera di Rousseau (del quale sembra prendere di mira in qualche parola dell’Introduzione l’ostentata sincerità) bensì una vita plutarchianamente costruita, che senza nascondere le sue manchevolezze illustrasse l’ideale a cui aveva tentato di conformarsi e a cui nonostante incertezze, erramenti, debo-
1 Pareri: nel Parere sulle tragedie, Alfieri commentò sé stesso. 2 Calzabigi: Ranieri de’ Calzabigi (1714-1795), poeta e librettista italiano, aveva indirizzato ad Alfieri
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una Lettera poetica sulle tragedie, nella quale aveva fuso critiche ed elogi nei riguardi del poeta. 3 La virtù sconosciuta: operetta composta in Alsazia nel 1786 ma
pubblicata nel 1788, nella quale il poeta immagina un dialogo tra sé e l’amico Francesco Gori.
lezze, sentiva di essersi sostanzialmente conformato. […]. Perciò pure i nomi rimangono le persone stesse da lui più amate, non soltanto per aristocratico riserbo, ma perché estranee al soggetto dell’opera sua, a quel raffronto esplicito ora sottinteso ma continuo tra l’ideale del libero scrittore e la sua condotta nei diversi momenti della vita. Anche i ricordi della sua vita intima non possono 40 risorgere nella sua pagina con l’immediatezza con la quale il Rousseau rivive gli ineffabili momenti della sua vita interiore, ma sono per così dire contenuti dal fine che l’autore ha dinanzi, da quel giudizio che gli impone un distacco dalla sua materia. […] e la coerenza dell’uomo che guarda con uno sguardo fermo e sicuro il proprio passato, si riflette nell’unità dello stile, che si libera da quanto 45 di accademico serbava ancora nei trattati politici e ben rende l’atteggiamento dello scrittore che viene scrutando e giudicando sé medesimo ora orgoglioso dell’opera compiuta, ora sorridente per le proprie tollerabili debolezze, ora irosamente sprezzante per la propria o altrui pusillanimità […]. 35
Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda la risposta a tutte le domande proposte.
Comprensione e analisi
1. Sintetizza il contenuto del passo critico in circa 5 righe. 2. Quali sono le opere che preparano Alfieri alla stesura della sua autobiografia? Quali caratteristiche presentano? 3. Che cosa inizialmente spinse Alfieri a guardare dentro sé stesso? 4. Perché le persone amate da Alfieri restano, nella Vita, puri nomi? 5. Che cosa intende dire Fubini quando scrive «Non delle “confessioni” egli scrive però alla maniera di Rousseau (del quale sembra prendere di mira in qualche parola dell’Introduzione l’ostentata sincerità) bensì una vita plutarchianamente costruita» (rr. 30-34).
Produzione
Sulla base del testo proposto e delle tue conoscenze, esponi le tue riflessioni sul valore letterario ed etico della Vita di Alfieri.
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Verso l’esame di Stato Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Edmund Burke, Il bello e il sublime, a c. di C. Bianco
Il tema del terrore, quale componente ineliminabile del piacere prodotto dall’idea del sublime, assente dal trattato dello Pseudo-Longino [...], diventa un elemento centrale nella concezione burkiana del sublime, secondo la quale tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime, il quale produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Ma quindi cos’è il sublime? Per Burke è un’idea capace di provocare una sensazione di diletto e sentimenti come lo stupore, l’ammirazione, la riverenza e il rispetto, e il presupposto perché si possa parlare di sublime è la distanza intercorrente tra il soggetto che prova tali sentimenti ed il pericolo, distanza che deve perciò essere tale da non mettere a repentaglio la sua incolumità. Perché possa essere considerato tale, il sublime deve quindi essere contemplato come uno spettacolo da un soggetto posto a una certa distanza ma capace di lasciarsi coinvolgere empaticamente nello spettacolo osservato: come osserva Burke, noi proviamo un certo diletto, e non piccolo, nelle reali disgrazie e nei dolori degli altri. www.filosofico.net/esteticaburke.htm
La categoria estetica e filosofica del sublime, affermatasi nell’ultimo scorcio del Settecento, introduce una nuova concezione rispetto al bello classico, tradizionalmente associato a rasserenanti sensazioni di armonia e compostezza. Il sublime è infatti un’esperienza che suscita emozioni violente, di smarrimento, solitudine, angoscia, legate alla coscienza della finitezza e fragilità umana rispetto alla potenza smisurata della natura e all’infinità del cosmo, ma nello stesso tempo comporta la sconcertante scoperta del sottile piacere che si può accompagnare all’orrore di fronte a spettacoli naturali terribili e misteriosi. Simili esperienze interiori ed estetiche possono trovare ancora spazio nel nostro mondo meccanizzato, ipertecnologico e in cui l’uomo è sempre più tentato dalla presunzione della propria onnipotenza? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue conoscenze ed esperienze. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.
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Settecento CAPITOLO
12 Libertini e letteratura libertina
Nell’arte, nella letteratura, nella musica del Settecento ci si imbatte frequentemente in una particolare figura trasgressiva e spregiudicata, soprattutto nell’ambito delle relazioni amorose: il libertino. Gli esempi più eclatanti sono rappresentati dall’avventuriero veneziano Giacomo Casanova e dal personaggio d’invenzione Don Giovanni. Il libertino ha in comune con il philosophe l’abito intellettuale del libero pensatore, il gusto della dissacrazione, la polemica contro la religione, l’uso frequente dell’ironia. Ma la sua ricerca del piacere è estremamente individualistica e lo porta a calpestare – a volte anche crudelmente – le esigenze e i sentimenti degli altri, allontanandolo di molto dalle teorizzazioni e dai comportamenti degli uomini di cultura illuministi.
1 Ladelfigura libertino filone libertino 2 Ildella letteratura settecentesca
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1 La figura del libertino 1 Un nuovo protagonista del dibattito culturale Philosophes e libertini Accostandosi al Settecento si pensa subito al philosophe, quale protagonista del dibattito culturale, impegnato nella vita sociale e nella difesa dei valori della ragione, del progresso civile, dei diritti umani. Se questo è di certo il volto preminente della cultura illuministica, non bisogna dimenticare che in quello stesso periodo, accanto al philosophe, compare anche un’altra figura, inquietante per più di un aspetto: quella del libertino; la frequente presenza di personaggi libertini e di tematiche connesse al libertinismo nell’arte, nella letteratura, nella musica del Settecento ne testimonia di per sé la rilevanza nella cultura e nella società del tempo.
Lessico antimetafisica Corrente di pensiero che nega la validità di una ricerca che vada al di là dei confini dell’esperienza e di quanto trascende il mondo fisico.
online
Gallery Hogarth, La carriera di un libertino
Dal libertinismo come modello filosofico al libertinismo come scelta di vita Il libertinismo nasce come indirizzo di pensiero: sviluppatosi in particolare nel Seicento, a partire dalla Francia, è caratterizzato da un orientamento filosofico laico e antimetafisico (che ha le sue radici nel naturalismo rinascimentale), dalla contestazione del dogmatismo religioso, che lo pone in un rapporto conflittuale con la Chiesa, dal riconoscimento della sovranità assoluta della natura non solo per quanto riguarda i fenomeni fisici, ma anche nel campo dell’etica. Nel Settecento, il libertinismo tende a diventare, più che un orientamento filosofico, una tendenza del comportamento: da “libero pensatore” – critico verso ogni dogmatismo e ogni censura, paladino della libertà assoluta nella ricerca intellettuale – il libertino diventa soprattutto il sostenitore della libertà dei costumi sessuali (da qui l’accezione usuale del termine). I libertini esibiscono scelte di vita spregiudicate, ispirate al diritto dell’uomo a godere del piacere dei sensi a dispetto non solo delle convenzioni sociali, ma dello stesso codice etico. All’esplorazione dell’eros, alla trasgressione delle norme morali viene attribuito in un certo senso un valore conoscitivo, considerando questo tipo di esperienze come strumento per l’affermazione incondizionata di sé, una sorta di sfida dei limiti imposti all’uomo. Libertinismo e Illuminismo Al movimento illuminista il libertinismo è accomunato dalla polemica verso l’oscurantismo religioso, dal gusto per l’irriverenza e la dissacrazione, dall’ironia corrosiva; inoltre, la ricerca del piacere e della felicità è certamente un tema tipicamente illuminista. Per contro, l’individualismo sfrenato, il disinteresse per il bene comune e addirittura il disprezzo per l’“altro”, ridotto a mero oggetto di piacere, fanno del libertino settecentesco l’antitesi del modello del philosophe che si è tratteggiato (➜ PAG. 235), l’espressione in un certo senso del “lato oscuro” del secolo dei lumi. Un “lato oscuro” che ha il suo esito estremo e sinistro nella personalità e negli scritti del marchese de Sade (➜ PAG. 595), che ancora oggi non mancano di creare sconcerto.
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2 Giacomo Casanova: vita di un libertino Il seduttore per antonomasia Il veneziano Giacomo Casanova (1725-1798) è figura così celebre che il suo cognome nel tempo è diventato un nome comune, per indicare per antonomasia il seduttore, almeno quanto quello del personaggio letterario di Don Giovanni. La sua vita può costituire di per sé una sorta di ritratto del libertino, un avventuriero cinico e spregiudicato, sempre a caccia di personali affermazioni e di nuove e più stimolanti esperienze amorose. Nato a Venezia nel 1725 da due attori della commedia dell’arte, Giacomo Casanova intraprende la carriera ecclesiastica, ma l’abbandona ben presto per dedicarsi alla vita mondana, ai viaggi, al gioco d’azzardo e soprattutto alle avventure amorose, sia con nobildonne sia con ragazze del popolo (nella sua autobiografia si contano ben 147 vicende narrate di seduzioni). Sempre alla ricerca di appoggi e relazioni che gli consentano una vita brillante, vive tra Parigi, Dresda, Vienna e Venezia. Qui nel 1755 è arrestato per stregoneria e incarcerato ai Piombi; tre mesi dopo evade con una fuga rocambolesca. A Parigi (e poi di nuovo a Venezia per conto dell’Inquisizione) si dedica a missioni segrete e nelle diverse capitali europee fa attività di spionaggio. Passa gli ultimi anni come bibliotecario nel castello di Dux, in Boemia, dove stende le sue memorie e dove muore, nel 1798. L’autobiografia Casanova stesso ci narra le “imprese”, soprattutto erotiche appunto, della sua vita in una delle più significative autobiografie del tempo: Storia della mia vita (Historie de ma vie, ➜ D1 ). Scritta in francese, a quel tempo lingua della società mondana e della cultura europea, l’autobiografia copre gli anni della vita di Casanova dalla nascita al 1774. Viene stesa negli ultimi anni di vita (tra il 1791 e il 1798), quando Casanova è ormai anziano, e sarà pubblicata postuma. Il problema dell’attendibilità dell’autobiografia di Casanova è complesso e non ancora risolto; quello che è certo è che si tratta di un documento di storia del costume di grandissimo interesse, una testimonianza diretta (non si avverte infatti, leggendo il testo, il filtro di una rielaborazione letteraria delle esperienze), sulla vita delle corti e dei salotti eleganti, ambienti nei quali l’autore si muove nei panni di cinico avventuriero e spregiudicato libertino: con estrema disinvoltura egli passa dalle carceri più dure alle conversazioni con Voltaire o con Caterina II, imperatrice di Russia, mantenendo sempre una visione ottimistica della vita e la capacità di cogliere al volo le occasioni favorevoli che il caso gli propone, spinto e stimolato da una prorompente energia vitale. Presunto ritratto di Giacomo Casanova, attribuito a Francesco Narici e in passato anche al fratello di Giacomo, Giovan Battista Casanova.
La figura del libertino 1 581
Giacomo Casanova
«Coltivare il piacere dei sensi»
D1
LEGGERE LE EMOZIONI
Storia della mia vita G. Casanova, Storia della mia vita, a c. di P. Chiara, vol. I, Mondadori, Milano 1983
Nella prefazione alla sua autobiografia Casanova così si presenta ai lettori.
Il temperamento sanguigno mi rese molto sensibile a tutti gli allettamenti della voluttà, sempre allegro e impaziente di passare da un godimento all’altro, e ingegnoso nell’inventarne. Da là nacque la mia inclinazione a fare conoscenze nuove, come pure la mia facilità a troncarle, per quanto sempre con conoscenza di causa e mai 5 per leggerezza. I difetti del temperamento sono incorreggibili, perché il temperamento stesso non dipende dalle nostre forze. [...]. Coltivare il piacere dei sensi fu per tutta la mia vita la mia principale occupazione, e non ne ebbi mai altra più importante. Sentendomi nato per il sesso diverso dal mio, lo amai sempre, e me ne feci amare per quanto possibile. Amai anche con trasporto la 10 buona tavola, e appassionatamente tutti gli oggetti fatti per eccitare la curiosità. [...]. Che gusto depravato! Che vergogna ammetterlo senza rossore! Una critica di questo genere mi fa ridere. Grazie ai miei gusti grossolani, ho abbastanza faccia tosta per credermi più felice di un altro, una volta che mi sono formata la convinzione che i miei gusti mi permettono di provare più piacere. Felici coloro che senza nuocere 15 a nessuno sanno procacciarsi il piacere, e insensati gli altri che si immaginano che l’Essere Supremo possa rallegrarsi dei dolori, delle pene e delle astinenze ch’essi gli offrono in sacrificio, e che abbia cari soltanto gli stravaganti che se le procurano.
Analisi del testo «La mia principale occupazione» Casanova delinea il suo volto di individuo curioso di ogni esperienza, vitale, attratto per natura dal piacere dei sensi, che elogia contro le critiche dei benpensanti e dei bigotti e contro l’innaturalità di una vita ascetica.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Dal testo si può dedurre la visione di Casanova nei confronti di Dio e della religione? Qual è? ANALISI 2. Che cosa intende dire Casanova con l’espressione «sempre con conoscenza di causa e mai per leggerezza»? Quale atteggiamento della sua personalità è evidenziato? 3. La passione più nota di Casanova è quella per le donne, ma non è l’unica, perché rientra in un atteggiamento più generale nei confronti della vita. Rintraccia nel testo che cos’altro attrae e appassiona Casanova e definisci la filosofia di vita che sta alla base delle sue azioni e dei suoi pensieri.
Interpretare
LEGGERE LE EMOZIONI
SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. Leggendo il testo, ti sembra che l’autobiografia da cui esso è tratto sia il resoconto sincero di una vita vissuta intensamente, o piuttosto la provocazione di un presuntuoso e bugiardo anticonformista? Giustifica la tua risposta. SCRITTURA 5. Nella frase «Grazie ai miei gusti grossolani, ho abbastanza faccia tosta per credermi più felice di un altro», Casanova ammette di aver trovato la chiave per essere felici, ovvero assecondare i propri desideri più profondi liberandosi dal giogo delle convenzioni sociali. Sei d’accordo con le affermazioni di Casanova? Secondo te in che cosa consiste la felicità? Commenta questa affermazione dal tuo punto di vista in un breve testo (max 20 righe).
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Sguardo sul cinema Giacomo Casanova secondo Fellini Un autore che ha contribuito a scolpire nell’immaginario collettivo la figura del libertino Giacomo Casanova attraverso il linguaggio cinematografico è stato Federico Fellini nel film Il Casanova di Federico Fellini, del 1976. La vita avventurosa di Casanova viene ripresa da Fellini in alcuni momenti chiave ispirandosi alle opere autobiografiche in francese del protagonista, Histoire de ma vie e Histoire de ma fuite (in cui egli narra la propria evasione dai Piombi, il carcere veneziano). Il ruolo del protagonista, dopo varie indecisioni, fu affidato all’attore britannico Donald Sutherland, che Fellini aveva incontrato in Italia e che a suo parere era il più adatto: «un attore dalla faccia cancellata, vaga, acquatica, che fa venire in mente Venezia. Con quegli occhi celestini da neonato, Sutherland esprime bene l’idea di un Casanova incapace di riconoscere il valore delle cose e che esiste soltanto nelle immagini di sé riflesse nelle varie circostanze». Il film procede per blocchi narrativi e si apre a Venezia durante il carnevale, nel momento di massima “gloria” di Casanova-seduttore, che fa la sua comparsa in scena mentre si reca su un isolotto disabitato per un incontro galante con una monaca. Ma già in questa prima scena Fellini ci mostra il lato grottesco del suo personaggio, simile a una marionetta durante l’amplesso con la sua amante, sulle note metalliche di un carillon che Casanova porta
sempre con sé e che usa per scandire, con un’inquietante musichetta, le sue performance erotiche. Nel corso del film, che segue piuttosto fedelmente gli spostamenti di Casanova da Venezia a Parigi, a Parma, a Londra, a Dresda e infine in Boemia, assistiamo alla vita avventurosa del protagonista, dalla sua fuga dai Piombi dove viene incarcerato, al suo girovagare per l’Europa tra una conquista amorosa e l’altra, fino al declino della vecchiaia. Il Casanova di Federico Fellini, considerato dalla critica l’ultimo capolavoro del regista, è un film cupo e funereo di grande fascino, nel quale le geniali invenzioni registiche trascinano lo spettatore in un universo surreale in cui Fellini attua una progressiva demolizione del personaggio storico e del suo mito. Casanova ci viene presentato infatti quasi come un automa, intrappolato nella coazione a ripetere, alla ricerca continua di conquiste amorose, che insegue la Vita attraverso una sessualità che ha la valenza di un atto “ginnico” freddo e meccanico. Il film si chiude con una scena di grande suggestione in cui il vecchio Casanova, ridottosi a fare da bibliotecario in un castello in Boemia e a subire lo scherno volgare dei soldati e dei domestici, sogna di tornare giovane alla sua Venezia. Sulle acque ghiacciate lo vediamo danzare con il manichino della donna e trasformarsi dunque lui stesso in eterna marionetta.
Donald Sutherland nei panni di Casanova.
Fellini sul set con Sutherland.
La figura del libertino 1 583
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Il filone libertino della letteratura settecentesca 1 La letteratura libertina Un filone, differenti generi Con “letteratura libertina” non si designa un genere specifico: sotto questa denominazione possono infatti essere collocate opere di diversa impostazione e scritte con scopi differenti – autobiografie, testi teatrali e per musica, romanzi, lettere – accomunate però dalla presenza di protagonisti spregiudicati e anticonformisti, spesso anche nella sfera sessuale, che in vario modo si richiamano alla figura del libertino. • Nell’ambito delle autobiografie il testo più celebre è certamente Historie de ma vie (Storia della mia vita) di Giacomo Casanova, in cui l’autore narra la propria storia di impenitente libertino. Come si è detto, l’opera è scritta durante la vecchiaia per testimoniare le avventure di una vita vissuta con entusiasmo e spregiudicatezza e riviverle nel ricordo. • Anche Lorenzo Da Ponte, autore del libretto del Don Giovanni di Mozart, e la cui vita è a sua volta caratterizzata da comportamenti avventurosi e “scandalosi”, scrive delle Memorie (pubblicate nel 1823-1827 a New York, dove era emigrato), ma, al contrario di Casanova, il suo obiettivo è quello di difendersi dalle accuse di aver trascorso una gioventù dissoluta. • Il romanzo, soprattutto quello epistolare, ben si presta alla descrizione della psicologia e delle trame messe in atto da personaggi di tal genere: libertini sono Lovelace, il protagonista della Clarissa di Samuel Richardson (1748), e il visconte de Valmont – ma forse ancora di più la sua ex amante marchesa di Merteuil – delle Relazioni pericolose (1782) di Pierre Choderlos de Laclos (➜ T3 ). In entrambi i casi vengono esercitati i più machiavellici sotterfugi per far cadere nella trappola di una condotta dissoluta giovani virtuose e ingenue, solo per soddisfare il gusto della sfida e della conquista. Nell’ottica libertina, la razionalità è freddamente impiegata come strumento al servizio del piacere, della trasgressione e del dominio assoluto sull’altro. Un connubio, quello tra razionalità e trasgressione, che trova la sua manifestazione estrema nei personaggi creati dalla fantasia allucinata del marchese de Sade (➜ PAG. 595). • Attraverso il dialogo filosofico, un genere particolarmente congeniale agli autori illuministi, sono spesso delineate figure di libertini. È il caso di Denis Diderot che nel suo Il nipote di Rameau prende in esame da un punto di vista teorico il tema del libertinismo, di cui denuncia l’immoralità. In quest’opera, scritta tra il 1761 e il 1774 ma pubblicata postuma, si confrontano un filosofo, in cui si può ravvisare Diderot stesso, e Rameau, un cortigiano estroso e anticonformista, «uno dei più bizzarri personaggi di questo paese [...] composto di fierezza e abbiezione, di buonsenso e disragione» (A. Frassineti). Rameau si vanta della propria abilità nell’approfittare della benevolenza dei ricchi, che sa amabilmente intrattenere, e afferma la supremazia del proprio immoralismo contro il tradizionalismo del narratore. Mentre il filosofo sostiene che la felicità consiste nell’aiutare chi ne ha bisogno, il suo interlocutore afferma che solo chi
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è disonesto è felice e che la realtà non fa che mostrare persone oneste infelici. Con questo dialogo Diderot intende mostrare il decadimento morale di tutta una società: da una parte egli concorda con il libertino nel criticare l’ipocrisia di molti benpensanti, ma non ne accetta l’immoralità dei costumi e l’indifferenza nei confronti del prossimo. • Infine,s in opere teatrali e melodrammi è più volte riproposta nel corso del secolo la figura del seduttore senza scrupoli, che ha la sua massima rappresentazione in Don Giovanni (➜ T1 , T2 ), personaggio spregiudicato e ossessionato dal desiderio della conquista femminile. Il tema della seduzione riscuote in questo periodo un grande successo sulle scene e si ritrova ad esempio anche in diverse commedie di Beaumarchais (1732-1799) come Il barbiere di Siviglia (1755, da cui trassero un’opera lirica Rossini e Paisiello) e Le nozze di Figaro (1784, messa in musica da Mozart). • A sua volta il personaggio di Mirandolina della Locandiera di Carlo Goldoni (➜ C10) si può considerare una specie di “Dongiovanni in gonnella”: dopo essere stata corteggiata con insistenza dagli ospiti della locanda, assume intenzionalmente il ruolo della seduttrice esercitandolo con le arti più sofisticate e con un certo cinismo.
2 Il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte Un capolavoro assoluto Nel clima dissacratorio e libertino che fa da sfondo al secolo dei lumi, la figura di Don Giovanni trova alla corte di Vienna due interpreti eccezionali nel librettista italiano Lorenzo Da Ponte (1749-1838) e nel compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), artefici del dramma giocoso Il Dissoluto punito o sia Don Giovanni, una delle opere più affascinanti della storia del melodramma, rappresentata per la prima volta a Praga il 29 ottobre 1787 con la direzione dello stesso Mozart. La trama La trama del libretto, in due atti, riprende da vicino quella dell’opera secentesca di Tirso de Molina (1579-1648), la prima in cui appare il nome del personaggio protagonista. L’ Atto I si apre con Don Giovanni, seduttore impenitente e sprezzante di ogni legge morale umana e divina, che cerca di approfittare di Donna Anna fingendo di essere il suo promesso sposo Don Ottavio. Smascherato e sfidato a duello dal padre della ragazza, lo uccide. Nella notte, vagabondando per strada in cerca di avventure, s’imbatte in una delle tante donne da lui illuse e abbandonate, Elvira, che lo insegue. La dama è sempre innamorata di lui: appena lo riconosce, gli rinfaccia la sua ingratitudine e lo supplica di pentirsi, ma il seduttore riesce ad allontanarsi chiedendo al servo Leporello di prendere il suo posto. Il giorno dopo Don Giovanni partecipa a una festa di paese per le nozze di due contadini, Zerlina e Manetto, e per corteggiare la promessa sposa invita tutti al suo palazzo. Riesce quasi a ottenere i favori di Zerlina, ma l’intervento di Elvira mostra alla giovane chi egli sia veramente. La sera, durante la festa in maschera da lui organizzata, si presentano Donna Anna, Don Ottavio ed Elvira che lo accusano di immoralità e omicidio e vorrebbero farlo arrestare. L’Atto II inizia il giorno successivo con un nuovo scambio di persona tra Don Giovanni e Leporello, che deve distrarre Donna Elvira mentre il padrone corteggia la
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sua cameriera. Questa volta interviene Masetto con un gruppo di amici armati che vorrebbero uccidere il seduttore, ma sono ingannati dal travestimento e alla fine è il giovane a essere bastonato da Don Giovanni. Intanto l’identità di Leporello è scoperta da Donna Elvira, che si dispera per l’ennesimo tradimento. La notte Don Giovanni vaga in un cimitero e si imbatte nella statua funebre del padre di Anna, il Commendatore, il cui spirito invoca vendetta; il libertino non ne è per nulla impressionato, anzi, scherzando provocatoriamente, invita lo spirito al proprio palazzo. E questo si presenta puntuale all’ora di cena, quando il rimbombo dei pesanti passi della statua di marmo spaventano a morte Leporello, ma non Don Giovanni, il quale, invitato inutilmente per un’ultima volta a pentirsi, si rifiuta e, avvolto dalle fiamme, sprofonda all’inferno. Tragedia e commedia La vicenda del Don Giovanni di Da Ponte è percorsa da motivi sia tragici (l’atmosfera notturna, il fascino tenebroso del protagonista, la morte e il trascorrere ineluttabile del tempo, impersonati dalla statua del Commendatore) sia comici (lo scambio di persona tra Don Giovanni e Leporello e le bastonate prese a un certo punto dal povero Masetto). Il fascino di un eroe negativo Don Giovanni è un eroe negativo, ossessionato dalla conquista, cinico, ingannatore, interessato solo al proprio piacere, noncurante delle conseguenze che il suo comportamento dissoluto ha per gli altri (➜ T2 ). Tutti gli altri personaggi vivono in funzione del grande seduttore: da Donna Elvira, che lo ama perdutamente e vorrebbe riconquistarlo, alla contadina Zerlina (che ne subisce il fascino ma, scoperto l’inganno, lo odia), al geloso Masetto, a Donna Anna (da lui insidiata, vuole vendicarsi per questo e per l’uccisione del padre), al servo Leporello che nel padrone si rispecchia, provando per lui un misto di timore e ammirazione (➜ T1 ). Nella versione di Mozart-Da Ponte ne viene però accentuata l’istintiva e insaziabile vitalità, l’energia elementare, che l’interpretazione del grande musicista valorizza pienamente.
Parola chiave
Un personaggio “naturale” Come ha osservato Giovanni Macchia, «I Don Giovanni che l’avevano preceduto ragionavano troppo; quello di Molière ostentava i suoi atteggiamenti; faceva troppi discorsi sull’ipocrisia, e su quella specie di religione a rovescio, che è l’ateismo [...]. Don Giovanni di Mozart è una pura espressione musicale, senza sovrapposizioni e pretenziose ricerche. Ancor più del vecchio Burlador è tutto sangue, fuoco, gioia di vivere, e non ragiona per nulla».
dongiovannismo Dal nome del personaggio letterario di Don Giovanni è derivato il termine dongiovannismo per designare il comportamento di chi vive l’amore come impresa di seduzione priva di passione e ha continuamente necessità di cambiare il proprio oggetto del desiderio, privilegiando l’intensità del momento a una profondità di rapporto. Dal punto di vista psicanalitico sembra essere l’espressione di una personalità che necessita di continue dimostrazioni di successi erotici per contrastare un sentimento di inferiorità. Don Giovanni (e chi ne segue il modello comportamentale) non
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sarebbe realmente interessato alla donna, ma la utilizzerebbe per soddisfare i propri bisogni narcisistici, forse anche per contrastare tendenze omosessuali inconsce. Oggi il termine ha perso le connotazioni trasgressive, legate alla figura del seduttore ateo e fuorilegge, e tende a essere più che altro caricaturale. In questo senso è esemplare il protagonista del romanzo di Vitaliano Brancati, Don Giovanni in Sicilia (1942), che trascorre pigramente le giornate insieme agli amici a guardare le donne che passano per strada o a descrivere nei minimi particolari seduzioni solo fantasticate, avventure mai vissute realmente.
PER APPROFONDIRE
Don Giovanni: dal personaggio al mito Secondo la maggior parte degli studiosi, l’archetipo del personaggio che assumerà il nome di Don Giovanni va riconosciuto nella figura di un certo conte Leonzio, protagonista di una leggenda diffusa tra il XVI e il XVII secolo (rappresentata in un’azione teatrale dal titolo Storia del Conte Leonzio che, corrotto dal Machiavelli, ebbe una fine terribile). “Corrotto” dalla dottrina di Machiavelli, ateo e materialista, Leonzio, infatti, dopo aver vissuto una vita dedita solo al soddisfacimento del proprio piacere, negando ostentatamente l’esistenza di Dio e ogni trascendenza, invita a un banchetto uno scheletro, trovato in un cimitero, e da questo viene trascinato all’inferno. «L’idea del Don Giovanni appartiene al cristianesimo» ha scritto il filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) in Don Giovanni. La musica di Mozart e l’eros (1843): in effetti, alla base della storia del personaggio, più che l’amoralità nei costumi sessuali o l’impulso al soddisfacimento erotico, c’è la contrapposizione tra un ossequio alle leggi morali e religiose e le ragioni puramente terrene ed egoistiche. A questo proposito, il saggista Giovanni Macchia ha sottolineato come il comportamento di Don Giovanni nei confronti delle donne – secondo la più diffusa immagine del personaggio – sembra seguire gli stessi precetti che Machiavelli suggeriva al principe per la conquista del potere, per cui il raggiungimento dello scopo prefissato è indipendente da qualsiasi scrupolo morale. Il vero e proprio personaggio di Don Giovanni, come poi si è imposto nell’immaginario culturale, prende vita per la prima volta nell’opera dello scrittore spagnolo Tirso de Molina L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra (El burlador de Sevilla y Convidado de piedra) del 1630. Si tratta di una commedia scritta nel clima della Controriforma con l’intento edificante di mostrare come una terribile punizione divina colpisca un personaggio di irriducibile iniquità: il protagonista è un assassino privo di ogni scrupolo morale, che seduce le proprie vittime, siano esse nobili o popolane, attraverso l’inganno (el burlador). Al termine della commedia, con un artificio scenografico tipicamente barocco, per stupire gli spettatori Tirso porta sul palcoscenico una statua funebre che cammina (il “convitato di pietra” appunto) e trascina l’impenitente peccatore nelle fiamme dell’inferno tra lo sbigottimento generale. Da questo momento in poi Don Giovanni sarà protagonista di innumerevoli opere, che ne riprenderanno la vicenda con alcune varianti. Anche la commedia dell’arte italiana inserisce nel suo vasto repertorio la fascinosa storia di Don Giovanni: senza modificare il nucleo portante della vicenda né dimenticare il suo significato moraleggiante, introduce situazioni tipiche del suo repertorio e accentua gli aspetti spettacolari e comici, legati soprattutto alla figura del servo Arlecchino. Una delle versioni più note e riuscite della storia di Don Giovanni rimane quella di Molière (1622-1673), Don Giovanni o il convito di pietra (1665), che ne fa un libertino il cui ateismo è sostenuto da una logica intellettuale che osserva le incongruenze all’interno della società e della religione. In questo senso Don Giovanni è uno dei tanti strumenti di cui si serve il drammaturgo per smascherare l’ipocrisia, ovunque essa si trovi. Nonostante ciò, egli sarà punito per il suo ostinato
rifiuto di ogni morale e la vicenda avrà lo stesso esito delle precedenti versioni. Le diverse interpretazioni del mito Le interpretazioni successive della vicenda di don Giovanni – oltre a quella di Mozart-Da Ponte – sono numerosissime ed è impossibile qui anche solo elencarle. Una fortuna così duratura nel tempo è probabilmente dovuta alla natura universale del personaggio, alla sua capacità di incarnare potenzialmente gli istinti originari di ogni uomo (e di ogni donna), a cui non si oppongono scrupoli etici, di matrice religiosa o di carattere sociale, che essi siano. Dalle diverse letture e interpretazioni di quello che è tuttora uno dei miti della modernità si possono trarre, con estrema schematizzazione, alcune varianti psicologiche. • Ingannatore e assassino, incarnazione del male senza alcuna consapevolezza, agisce istintivamente e ripetutamente contro ogni regola cristiana (Tirso de Molina). • Eroe razionale, ateo e irriverente, denuncia la corruzione e le ipocrisie della società di cui egli è specchio (Molière). • Rappresentante del libero arbitrio, rivendica la propria autonomia spirituale, assumendosi le sue responsabilità con il rifiuto di pentirsi anche di fronte alla morte: è il Don Juan dell’omonimo poema in versi di George Byron (1824); e anche di una lirica dei Fiori del male (XV), Don Giovanni all’inferno di Charles Baudelaire, che lo rappresenta immobile indifferente a tutto, sulla barca che lo traghetta all’inferno: «l’eroe era raccolto, calmo, sulla spada / e fissando la scia non degnava altro vedere» (trad. G. Raboni). • Personaggio negativo, tronfio ed egoista, ma che alla fine – con un totale ribaltamento da parte di alcuni autori – è toccato dall’intervento salvifico di una delle sue vittime: Donna Anna nella rilettura cupa e romantica fatta da Aleksander Puškin per il suo Convitato di pietra (1830); o una creatura celeste che per stargli vicino rinuncia alla beatitudine nel romanzo di Alexandre Dumas padre, Don Juan de Marana, o la caduta di un angelo (1836). O Zerlina nel libretto dello scrittore portoghese novecentesco José Saramago, che fin dal titolo, Don Giovanni o il dissoluto assolto, propone un’assoluzione del personaggio.
Scenografia di Helmut Jürgens per un allestimento del Don Giovanni di Mozart (Monaco, 1949).
Il filone libertino della letteratura settecentesca 2 587
Lorenzo Da Ponte
T1
EDUCAZIONE CIVICA
Il catalogo del seduttore
PARITÀ DI GENERE equilibri
nucleo Costituzione competenza 3
#PROGETTOPARITÀ
Don Giovanni, I, v L. Da Ponte, Memorie e libretti mozartiani, Garzanti, Milano 1976
Compare sulla scena Donna Elvira, nobildonna di Burgos, che cerca Don Giovanni da cui è stata abbandonata dopo soli tre giorni di matrimonio, ma di cui è ancora innamorata. Inizialmente il seduttore non la riconosce e tenta di corteggiarla, ma non appena si accorge dell’equivoco delega al servo l’incombenza di dare delle spiegazioni alla donna e si allontana mentre lei non se ne avvede. Leporello, rimasto solo con Elvira, le fa l’elenco delle conquiste femminili del suo padrone.
Atto I, scena V Aria, Madamina. Archi, 2 Flauti, 2 Oboi, 2 Fagotti, 2 Corni in re. Allegro LEPORELLO
5
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Madamina, il catalogo è questo delle belle che amò il padron mio; un catalogo egli è che ho fatt’io: osservate, leggete con me. In Italia seicento e quaranta, in Lamagna1 duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, ma in Ispagna son già mille e tre. V’han fra queste contadine, cameriere, cittadine, v’han contesse, baronesse, marchesine, principesse, e v’han donne d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età.
Andante con moto 15 Nella bionda egli ha l’usanza di lodar la gentilezza; nella bruna, la costanza; nella bianca, la dolcezza. Vuol d’inverno la grassotta, 20 vuol d’estate la magrotta; è la grande maestosa, la piccina è ognor vezzosa2.
25
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588 Settecento 12 Libertini e letteratura libertina
Delle vecchie fa conquista pel piacer di porle in lista: ma passion predominante è la giovin principiante. Non si picca3 se sia ricca, se sia brutta, se sia bella: purché porti la gonnella, voi sapete quel che fa.
1 Lamagna: Germania. 2 vezzosa: graziosa, leggiadra. 3 Non si picca: non gli importa.
Analisi del testo Le conquiste di Don Giovanni attraverso gli occhi di Leporello Questo famoso catalogo del I atto serve di presentazione del personaggio di Don Giovanni e rivela l’ambiguo sentimento che il servo Leporello nutre verso il padrone, la cui potenza fascinatoria è evocata con eccezionale efficacia attraverso la musica. L’aria – prima allegro e poi andante – presenta il seduttore in modo accattivante, visto attraverso gli occhi del servo che ne elenca le conquiste con la pignoleria di un contabile, indugiando sulle diverse caratteristiche femminili e arrivando alla fine ad ammiccare a Elvira con un riferimento di cattivo gusto («voi sapete quel che fa»). Il motivo deriva dalla commedia dell’arte e serve a Mozart e Da Ponte per chiarire ulteriormente le personalità di Don Giovanni e di Leporello. Non è a Don Giovanni che interessa sciorinare l’elenco delle sue conquiste, ma è il suo servo che, vantando la foga amatoria del padrone, la trasferisce in qualche modo su sé stesso e se ne fa vanto. In effetti è Leporello il depositario del ricordo delle qualità delle donne sedotte, mentre a Don Giovanni non importa ciò che è passato, essendo rivolto a sempre nuove conquiste. La totale mancanza di preferenze rispetto alle donne da conquistare (nobili o contadine, giovani o vecchie, grasse o magre, bionde o more che siano) mette in risalto come l’interesse narcisistico del protagonista sia rivolto esclusivamente all’atto della seduzione. Parallelamente attraverso la presentazione del suo catalogo Leporello non manca di condividere la misoginia del suo padrone. Il servo gode nell’umiliare apertamente Donna Elvira mettendola davanti all’evidenza di essere caduta nel tranello di un seduttore seriale, ma anche nel farla riflettere sul fatto che il comportamento di Don Giovanni sia il risultato di una fredda strategia che si ripete sempre identica con tutte le sue vittime («voi sapete quel che fa»), scevra quindi di qualsiasi sentimento o emozione.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
PARITÀ DI GENERE
nucleo
Costituzione
competenza 3
COMPRENSIONE 1. Su quali aspetti si sofferma Leporello nel presentare il catalogo delle conquiste amorose del suo padrone a Donna Elvira? 2. Che cosa si deduce dall’elenco di Leporello? Da che tipo di donna è attratto Don Giovanni? 3. Perché, secondo te, Leporello tiene traccia in modo così puntiglioso delle donne sedotte da Don Giovanni? SCRITTURA 4. All’inizio del suo discorso Leporello si rivolge a Donna Elvira apostrofandola con il termine «Madamina». Con che tono immagini si rivolga il servo alla donna? Con che accezione viene utilizzato questo termine (max 10 righe)?
online
Video Aria cantata da Leporello, «Madamina, il catalogo è questo» su YouTube
online
Verso il novecento Il dissoluto assolto di Saramago
Un momento dell’opera Don Giovanni di Mozart, messa in scena dal regista Roland Schwab Berlino, 2010.
Il filone libertino della letteratura settecentesca 2 589
Lorenzo Da Ponte
T2
L’etica di Don Giovanni Don Giovanni, II, I
L. Da Ponte, Memorie e libretti mozartiani, Garzanti, Milano 1976
Leporello, dopo il disastro del ballo in maschera con cui si è concluso il I atto, vuole abbandonare il suo padrone. Don Giovanni lo convince a restare dandogli del denaro e pretenderà poi dal servo di scambiarsi gli abiti per tentare di sedurre la cameriera di Donna Elvira.
Atto II, scena I Duetto Eh, via, buffone. Archi, 2 Oboi, 2 Corni in sol Allegro assai LEPORELLO Oh! sentite: per questa volta la cerimonia accetto. Ma non vi ci avvezzate1; non credete di sedurre i miei pari, 5 come le donne, a forza di danari. DON GIOVANNI Non parliam più di ciò! Ti basta l’animo di far quel ch’io ti dico? LEPORELLO Purché lasciam le donne. 10 DON GIOVANNI Lasciar le donne? Pazzo! Lasciar le donne? Sai ch’elle per me son necessarie più del pan che mangio, più dell’aria che spiro2! LEPORELLO E avete core d’ingannarle poi tutte? 15 DON GIOVANNI È tutto amore: chi a una sola è fedele verso l’altre è crudele. Io, che in me sento sì esteso sentimento, 20 vo’ bene a tutte quante. Le donne, poi che calcolar non sanno, il mio buon natural3 chiamano inganno. LEPORELLO Non ho veduto mai naturale più vasto e più benigno4. 25 1 non vi ci avvezzate: non abituatevici. 2 spiro: respiro.
3 il mio buon natural: la mia disposizione naturale. 4 più… benigno: più disponibile (con tutte) e più benevolo.
Analisi del testo La natura “benigna” di Don Giovanni L’egoismo di Don Giovanni gli consente di crearsi un’etica tutta sua: alle proteste di Leporello, egli risponde proponendo una particolare visione della propria natura, definendola “benigna” nei confronti delle donne.
590 Settecento 12 Libertini e letteratura libertina
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
SINTESI 1. Sintetizza il contenuto del testo in 5 righe. COMPRENSIONE 2. Come giustifica Don Giovanni il suo comportamento verso l’altro sesso? 3. Ti sembra sincero nel condividere il suo punto vista sull’amore? 4. Come giudichi l’atteggiamento di Leporello nei suoi confronti?
Interpretare
SCRITTURA 5. II punto di vista dal quale Don Giovanni presenta i fatti ne “ribalta” la lettura in suo favore. In che modo questo atteggiamento si può ricondurre ai princìpi che ispiravano l’Illuminismo?
al femminile: la marchesa di Merteuil 3 Libertinismo e Le relazioni pericolose Una coppia di libertini Le relazioni pericolose, romanzo epistolare pubblicato da Pierre Choderlos de Laclos (1741-1803) nel 1782, è considerato uno dei testi esemplari della letteratura libertina. Il romanzo, che appena uscito suscitò molto clamore, si compone principalmente delle lettere con cui i due aristocratici protagonisti, la marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont, si scambiano informazioni e consigli (questi soprattutto della nobildonna all’aristocratico) per proseguire nella loro carriera di libertinaggio sfrenato. Il visconte è però sostanzialmente guidato e manipolato dalla marchesa, sua antica amante, che lo porta a conquistare sia la casta Madame de Tourvel sia la giovane e timida Cécile de Volanges. Laclos si serve con abilità del genere epistolare per mostrare al lettore il punto di vista dei due libertini; in questo modo il lettore può seguire “dall’interno” l’ideazione dei piani malvagi dei due protagonisti ed entrare nella loro psicologia. Sottotitolo del romanzo è Lettere raccolte in una società e pubblicate per istruirne altre, con cui Laclos rivendica il suo intento morale di denuncia del cinismo e della corruzione della nobiltà. Ed effettivamente le trame della marchesa alla fine vengono scoperte, il visconte è ucciso in un duello, mentre la marchesa, butterata dal vaiolo, lascia la Francia, ormai ridotta in povertà: i malvagi sono sconfitti e la giustizia sembra trionfare. Un punto di vista femminile Ciò che rende questo libro particolarmente interessante è il fatto che l’autore esplora a fondo i meccanismi della seduzione, il nesso fra ricerca edonistica e desiderio di dominio, che comporta il piacere di soggiogare l’altro, infliggendogli crudeltà di tipo psicologico, soprattutto attraverso le parole di una donna (che da alcuni è stata addirittura vista come portavoce di una rivalsa femminile nei confronti del più radicato libertinaggio maschile). È la marchesa che guida e dirige i passi di Valmont, lo comanda e a volte addirittura lo umilia. Tra i due è lei “l’anima nera”, capace di usare la sua diabolica intelligenza per avere in pugno la volontà delle persone o per esercitare un potere psicologico su di esse. Una delle lettere più significative per comprendere il carattere di questo straordinario personaggio femminile è quella in cui la donna descrive la propria adolescenza solitaria, impegnata a ottenere da sé stessa un autocontrollo estremo e una capacità di simulazione tale da assumere un volto gioioso mentre si procura volontariamente un dolore fisico.
Il filone libertino della letteratura settecentesca 2 591
Pierre Choderlos de Laclos
T3
La formazione di una libertina
EDUCAZIONE CIVICA
nucleo Costituzione competenza 3
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
Le relazioni pericolose P. Choderlos de Laclos, Le amicizie pericolose, Einaudi, Torino 1989
In questa lettera (di cui riproduciamo una parte) la marchesa di Merteuil rievoca la propria formazione, estremamente razionale e volitiva, per rivendicare il diritto a un comportamento libero e spregiudicato, senza dover incorrere nei giudizi e nella gelosia del visconte di Valmont.
Lettera LXXXI La marchesa di Merteuil al visconte di Valmont. […] Sono entrata nel bel mondo ch’ero appena una ragazza, e poiché per la mia troppo tenera età ero condannata al silenzio e all’inazione ne ho approfittato per osservare e riflettere. Gli altri mi credevano stordita e distratta, perché io infatti ascoltavo poco i discorsi che mi facevano con tanta premura, tutta assorta com’ero 5 a carpire i discorsi che cercavano di nascondermi. Questa utile curiosità, mentre serviva a istruirmi, m’insegnò anche a dissimulare. Costretta com’ero a non far capire a coloro che m’erano attorno che stavo origliando, imparai di buon’ora a manovrare i miei occhi come volevo e a fingere così quello sguardo distratto che voi tante volte mi avete lodato. Incoraggiata da questo primo risultato, cercai di 10 padroneggiare nello stesso modo i vari movimenti del viso, studiandomi, quando avevo qualche dispiacere, di mostrarmi serena e magari ilare. Giunsi anzi a tanto zelo, da patire delle sofferenze volontarie per esercitarmi ad assumere in quei momenti l’espressione della gioia. Con la stessa cura e con sforzi anche maggiori ho cercato di reprimere i sintomi d’una gioia improvvisa. A questo modo ho potuto 15 farmi quella padronanza della mia fisionomia, di cui vi siete mille volte stupito. Ero allora giovanissima e quindi disinteressata; ma sentivo già che il pensiero era l’unico bene che possedevo, e m’indignava pertanto l’idea che altri potesse carpirmelo e sorprenderlo contro la mia volontà. Appena ebbi a mia disposizione queste mie prime armi, cercai di farne uso; e, non contenta d’essere diventata ormai impe20 netrabile, mi divertii a mostrarmi sotto i più svariati aspetti. E quando fui sicura dei miei gesti mi misi a osservare i miei discorsi, regolando gli uni e gli altri secondo le circostanze o magari secondo i miei capricci. Da questo istante il mio modo di pensare fu una cosa veramente mia, e, del mio pensiero, manifestavo soltanto quel che m’era utile lasciar trapelare. 25 Questo lavorìo che avevo compiuto dentro di me m’aveva offerto l’occasione d’esaminare le espressioni dei visi e la natura delle varie fisionomie negli altri: ne guadagnai un occhio sicuro e penetrante che poche volte mi ha ingannato di poi, sebbene l’esperienza mi abbia insegnato a non fidarmene alla cieca. Avevo appena quindici anni e possedevo già tutte le arti dei più famosi uomini politici; eppure ero 30 ancora all’abbiccì della scienza che volevo apprendere. Come tutte le ragazze, cercavo anch’io d’indovinare che cosa fossero l’amore e i suoi piaceri; ma, poiché non ero stata mai nei monasteri, e non avevo nessuna amica intima, ed ero sorvegliata da una madre austera e vigilante, ne avevo soltanto idee vaghe che non riuscivo in nessun modo a precisare. La stessa natura, di cui più 35 tardi ho avuto sempre da lodarmi, non me ne dava allora il menomo indizio, come
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se stesse lavorando in sordina per perfezionare l’opera sua. La mia testa invece era tutta in subbuglio: non m’importava di godere, mi bastava sapere. E il desiderio d’imparare era tanto che mi suggerì un espediente. Capii che il solo uomo, col quale avrei potuto parlare di queste cose senza compro40 mettermi, era il confessore. Detto fatto: vincendo quel po’ di vergogna che potevo sentire, mi feci bella d’un peccato che non avevo commesso e mi accusai d’aver fatto quel che fanno tutte le donne. Tali le mie testuali parole; ma che cosa intendessi poi dire non lo sapevo davvero. La mia speranza non fu soddisfatta del tutto, ma neppure delusa: la paura di tradirmi m’impedì di chiedere maggiori chiarimenti; 45 ma siccome il buon prete si dava un gran da fare per persuadermi che si trattava d’un peccato gravissimo, ne arguii che il piacere doveva essere immenso, e così la curiosità si cambiò in bramosia di goderlo. Con un desiderio simile, chissà dove diamine sarei potuta arrivare, e forse, inesperta com’ero, mi potevo affogare alla prima occasione; senonché, per fortuna, mia ma50 dre pochi giorni dopo venne ad annunziarmi che mi dava marito: la certezza che ormai avrei saputo tutto calmò le mie impazienze, e pertanto arrivai vergine tra le braccia del signor di Merteuil. Anzi ero tanto tranquilla, nel momento di sapere ciò che doveva accadere, che mi ci volle una buona dose di riflessione per fingere l’imbarazzo e la paura. 55 La famosa prima notte, di cui le donne si fanno di solito un’idea troppo dolce o troppo crudele, per me non fu altro che un’occasione d’esperienza, e osservai ogni cosa, dolore e piacere, freddamente, con precisione, come se si trattasse di fatti da raccogliere e da meditare. Questo genere di studi cominciò presto a piacermi; ma, fedele ai miei princìpi e 60 sentendo forse per istinto che non dovevo mai essere sincera con nessuno e specialmente con mio marito, mi feci vedere con lui addirittura impassibile, e ciò solo
Una scena del film Le relazioni pericolose (1988), diretto da Stephen Frears, e con Glenn Glose nella parte della della marchesa di Merteuil.
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perché ero invece molto portata per quelle faccende. La mia apparente freddezza fu il fondamento incrollabile della sua cieca fiducia; e avendo io preso, a seguito d’una più profonda riflessione, l’aria d’una ragazza sventata, che si addiceva bene 65 alla mia età, egli mi giudicò poi sempre ingenua come una bambina, soprattutto quando gliene facevo di tutti i colori. Ciò nonostante, lo confesso, mi lasciai trascinare dapprima dal turbine della vita mondana, dedicandomi tutta ai suoi futili divertimenti; ma dopo qualche mese, avendomi Merteuil portata nella sua malinconica campagna, la paura della noia 70 fece rinascere in me la passione d’osservare; e, siccome ero attorniata da persone che per l’umiltà dei natali mi tenevano al coperto da ogni sospetto, potei allargare il campo delle mie esperienze, riuscendo così ad assodare che l’amore, che è tanto decantato come la causa dei nostri piaceri, ne è tutt’al più un pretesto. La malattia di Merteuil venne a interrompere queste mie care occupazioni, e bisognò 75 tornare in città per farlo curare. Morì, come sapete, poco tempo dopo; e, sebbene in fondo non avessi a lamentarmi di lui, sentii tuttavia vivamente il valore della libertà che la mia vedovanza stava per darmi, e mi ripromisi d’approfittarne.
Analisi del testo Una fredda calcolatrice In questo testo la marchesa di Merteuil racconta la parabola dell’educazione “sentimentale” che si è auto-impartita per riuscire a destreggiarsi nella società della sua epoca, conservando l’immagine pubblica della donna virtuosa, senza tuttavia rinunciare ai piaceri della carne. Per far questo è costretta in un paradosso: condurre una vita dominata dalla fredda razionalità e dal calcolo sistematico per poter gioire degli spazi di libertà, conquistati grazie alle queste macchinazioni, e godere del controllo esercitato sull’esistenza altrui.
Esercitare le competenze Comprendere e analizzare
COMPRENSIONE 1. Ordina i seguenti elementi dal più importante al meno importante, secondo la visione che la marchesa di Merteuil ha del piacere: ........... sesso ........... libertà ........... dominio ........... conquista ........... trasgressione 2. Quali giudizi esprime la marchesa a proposito dell’amore, del matrimonio, della religione, della società in cui vive? 3. La marchesa di Merteuil racconta di essersi abituata a nascondere dentro di sé pensieri ed emozioni: perché decide di dedicarsi all’esercizio della dissimulazione? ANALISI 4. Individua e indica le modalità attraverso cui la marchesa educa sé stessa. 5. Indica i punti del testo che, a tuo parere, manifestano in modo più chiaro l’introspezione razionale della marchesa. 6. Analizza nel testo il rapporto fra “io narrante” e “io personaggio”. Quale effetto provoca nel lettore il punto di vista della narrazione?
Interpretare EDUCAZIONE CIVICA
nucleo
Costituzione
competenza 3
SCRITTURA
PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
7. Prova a individuare nei ragionamenti espressi dalla marchesa di Merteuil tracce del pensiero illuminista. Raccogli le tue riflessioni in una breve trattazione (max 15-20 righe). 8. Nella parte conclusiva dell’estratto della lettera riportato, la marchesa di Merteuil scrive in modo molto cinico: «sebbene in fondo non avessi a lamentarmi di lui, sentii tuttavia vivamente il valore della libertà che la mia vedovanza stava per darmi, e mi ripromisi d’approfittarne». Secondo te, quale immagine della donna dell’epoca emerge da questa riflessione?
594 Settecento 12 Libertini e letteratura libertina
4 Dal cinismo alla perversione: il marchese de Sade Il lato “oscuro” dell’Illuminismo Una degenerazione estrema del carattere cinico, tipico del libertinismo settecentesco, privato della sua componente più vitale e spensierata, si ritrova nelle opere del marchese Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), che rappresenta, più di ogni altro autore, il lato “oscuro” dell’Illuminismo, nel senso che, se non si può negare che la formazione di questo autore sia frutto del secolo dei Lumi, egli tuttavia se ne allontana servendosi di una forma di razionalità puramente astratta, privata da ogni legame con princìpi etici fondamentali per i pensatori del XVIII secolo. Ritratto giovanile del marchese de Sade (disegno di Charles Amédée Philippe van Loo, 1760-1762, collezione privata).
Dalla Bastiglia all’ospedale di Charenton Nato a Parigi, de Sade segue inizialmente la carriera militare, ma molto presto la sua vita dissoluta lo porta a entrare e uscire più volte dalle carceri francesi. È arrestato una prima volta nel 1763 sotto accusa di libertinaggio aggravato e ateismo; liberato dalla Bastiglia con lo scoppio della Rivoluzione, rischia poi la ghigliottina per le sue posizioni politiche antirivoluzionarie. Nel 1801 ritorna in prigione con l’accusa di pornografia e successivamente è rinchiuso in un ospedale psichiatrico di Charenton, dove trascorre l’ultima parte della sua vita. Qui organizza spettacoli teatrali (quasi moderni psicodrammi) interpretati dai ricoverati che lui stesso dirige e che attirano spettatori anche dal bel mondo parigino. Radicalmente ateo e materialista, considera fondamentale obiettivo dell’uomo la ricerca del piacere, che egli spinge però oltre ogni limite, infrangendo il tabù, proprio di ogni consesso civile, che vieta di infliggere sofferenza ad altri esseri per realizzarlo (sadismo ).
Parola chiave
Gli esiti letterari di una fredda razionalità Nei suoi romanzi più noti (Le 120 giornate di Sodoma, 1785, e Justine, ovvero le disavventure della virtù, 1791), de Sade non arretra di fronte all’analitica descrizione delle pratiche sessuali più scabrose e alle torture più efferate. In entrambi i romanzi non è assente, anche se può a prima vista apparire paradossale, la dimensione filosofico-razionale, che si manifesta nella fredda analisi (che non può oggi non far inorridire) di una casistica in cui si sommano piacere, sopraffazione e crudeltà. È una ragione ben lontana dall’ottimismo propositivo e dalla difesa appassionata dei diritti umani proclamati da
sadismo Il termine sadismo, che trae origine dal nome del marchese de Sade, indica una perversione sessuale in cui il soddisfacimento è legato alla sofferenza o all’umiliazione inflitta ad altri. Esso apparve per la prima volta nell’opera Psychopathia sexualis di Richard von Krafft-Ebing (1885), insieme a masochismo, che al contrario si riferisce al piacere legato alla sofferenza o all’umiliazione subita dal soggetto stesso. In seguito, i due fenomeni sono stati ripresi da Freud nei Tre saggi sulla sessualità (1905), dove vengono trattati come due aspetti della stessa perversione. Secondo la definizione del padre della psicanalisi il sadismo è una «componente aggressiva dell’istinto sessuale»
rintracciabile anche nell’uomo normale, che però, «diventata indipendente ed esasperata», prende il sopravvento. La psicanalisi, tuttavia, non limita il concetto al solo ambito sessuale, riconoscendone «numerose manifestazioni più larvate e facendone una delle componenti fondamentali della vita pulsionale», ovvero la spinta che fa tendere l’organismo verso una meta. Anche nell’uso corrente, d’altronde, il termine non ha necessariamente implicazioni di carattere sessuale, e viene associato a ogni forma di piacere derivato dall’esercizio della violenza. Cit. da J. Laplanche e J.-B. Pontalis (a c. di), Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari 2005.
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buona parte degli autori illuministi, che anzi sembra smentire la possibilità stessa di una convivenza civile nella società umana. Una società dominata dal vizio e dalla crudeltà Nella società descritta nelle opere di de Sade, la malvagità e il vizio trionfano e agli innocenti non resta che soccombere ai crudeli giochi di potere dei più forti. Il romanzo Le 120 giornate di Sodoma è emblematico di questa concezione amorale della società. La storia si svolge interamente in un castello a Silling, su un monte inaccessibile al centro della Foresta Nera. Qui il 29 ottobre di un anno non precisato agli inizi del Settecento, quattro libertini, tra gli uomini più ricchi e potenti della Francia, di età tra i quarantacinque e i sessant’anni, decidono di sfogare per quattro mesi tutti i loro più turpi desideri. I quattro si rinchiudono nella fortezza, distruggendo l’unico ponte che vi permette l’accesso, insieme a quarantadue uomini e donne di età diverse che saranno gli oggetti della loro lussuria e di ogni tortura immaginabile. Nell’isolamento più completo si realizza un crescendo di perversioni calcolate con fredda razionalità scientifica, e descritte in un modo così monotono e ossessivo da risultare nauseante. In Justine Sade racconta le disavventure di una giovane orfana che, pur costretta ad attraversare le più orribili esperienze, continua ad avere fiducia nella bontà divina online e nella provvidenza. La purezza della ragazza non fa altro che T4 Donatien-Alphonse-François de Sade risvegliare le perversioni dei suoi aguzzini. Una fredda teorizzazione del piacere Justine
Un precursore dell’orrore moderno? Recenti interpretazioni hanno visto in de Sade un profeta di Auschwitz e dei gulag, luoghi dove l’esercizio arbitrario del potere e l’umiliazione della dignità umana hanno raggiunto il massimo grado. Un’interpretazione vicina a quella che Pier Paolo Pasolini (1922-1975) rappresenta nel suo ultimo film Salò (1975), ispirato a Le 120 giornate di Sodoma, metafora della violenza del potere.
online
Sguardo sul cinema Il Settecento: un secolo di libertini
La letteratura libertina Opere afferenti a vari generi letterari che hanno in comune la presenza di protagonisti spregiudicati e anticonformisti
l’autobiografia
Historie de ma vie (1791-1798) di Giacomo Casanova
il romanzo
• Le relazioni pericolose (1782) di Choderlos de Laclos • Le 120 giornate di Sodoma (1785) e Justine, ovvero le disavventure della virtù (1791) del marchese de Sade
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il dialogo filosofico
le opere teatrali e i melodrammi
Il nipote di Rameau (1761-1764) di Denis Diderot
Il Dissoluto punito o sia Don Giovanni (1787) di W. Amadeus Mozart e Lorenzo Da Ponte
Il bacio furtivo di Jean-Honoré Fragonard, 1787 (San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage).
Fissare i concetti Libertini e letteratura libertina 1. Quali sono i tratti che il libertinismo ha in comune con l’Illuminismo? Quali i tratti originali? 2. Perché Storia della mia vita, l’autobiografia di Giacomo Casanova, rappresenta un importante documento per la storia del costume del XVIII secolo? 3. Qual è l’aspetto che accomuna le opere del filone della letteratura libertina? 4. Che rapporto lega razionalità e trasgressione nell’ottica libertina? 5. Perché Don Giovanni è un eroe negativo? 6. Qual è l’aspetto più originale e interessante che fa sì che il romanzo epistolare Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos emerga nella produzione letteraria del filone libertino del XVIII secolo? 7. Con quale obiettivo Laclos scrive Le relazioni pericolose? Rifletti sul sottotitolo del romanzo (Lettere raccolte in una società e pubblicate per istruirne altre). 8. In che senso e perché la produzione letteraria del marchese de Sade può essere considerata il frutto “oscuro” del movimento culturale dell’Illuminismo? 9. Quale visione della società emerge dalle opere di de Sade?
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Settecento Libertini e letteratura libertina
Sintesi con audiolettura
1 La figura del libertino
Un nuovo protagonista del dibattito culturale Nel Settecento accanto alla figura del philosophe, impegnato nella vita sociale e nella difesa dei valori della ragione, si afferma, quella del libertino. Il libertinismo, nato come indirizzo di pensiero che si caratterizza per l’orientamento filosofico laico e antimetafisico, per la contestazione del dogmatismo religioso e per il riconoscimento della sovranità assoluta della natura, anche in campo etico, nel Settecento diventa una tendenza del comportamento. Il libertino diviene così, in primo luogo, il sostenitore della libertà dei costumi sessuali. Il libertinismo può essere accomunato all’Illuminismo, per la condivisa polemica verso l’oscurantismo religioso, il gusto per la dissacrazione e l’ironia.
Giacomo Casanova: vita di un libertino La vita rocambolesca di Giacomo Casanova (1725-1798) ben rappresenta il modo di essere libertino. Nella sua autobiografia, Storia della mia vita, l’avventuriero veneziano si mostra curioso verso ogni esperienza, incline a seguire il piacere dei sensi e critico nei confronti del moralismo dei benpensanti. La sua autobiografia è anche una vivace testimonianza della società e dei costumi settecenteschi. Il cognome Casanova è diventato con il tempo un nome comune per indicare il seduttore per antonomasia.
2 Il filone libertino della letteratura settecentesca
La letteratura libertina Nella letteratura libertina si annoverano opere di generi diversi, accomunate dalla presenza di protagonisti aperti all’esercizio del libero pensiero e spregiudicati nella sfera delle relazioni amorose: autobiografie, testi teatrali e per musica, romanzi, lettere, dialoghi filosofici. Nell’ambito delle autobiografie il testo sicuramente più noto è la già citata Storia della mia vita di Casanova, ma anche le Memorie di Lorenzo Da Ponte, autore del libretto del Don Giovanni di Mozart, ben rappresentano la vita-tipo del libertino. Il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte Il personaggio dell’irresistibile seduttore, Don Giovanni, ha una lunga storia: ispirato a una leggenda diffusa tra il XVI e il XVII secolo, fa la sua prima comparsa nel 1630 in una commedia di Tirso de Molina. Nel Settecento la sua fama raggiunge l’apice con il dramma giocoso Il Dissoluto punito o sia Don Giovanni (1787), libretto di Lorenzo Da Ponte (1749-1838) e musica di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791). Si tratta di un eroe negativo, ingannatore, interessato solo al proprio piacere, noncurante delle conseguenze che questo comportamento può causare agli altri, e che, coerente con le proprie idee, rifiuta di pentirsi anche di fronte alla morte. Libertinismo al femminile: la marchesa di Merteuil e Le relazioni pericolose Choderlos de Laclos (1741-1803) con il romanzo epistolare Le relazioni pericolose (1782) mostra una significativa interpretazione del libertinismo al femminile. Nelle lettere della protagonista, la marchesa di Merteuil, indirizzate al visconte di Valmont, i meccanismi della seduzione si
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intrecciano con il piacere di dominare l’altro. Il libro è reso particolarmente interessante dal fatto che l’autore esplora tali meccanismi soprattutto attraverso le parole di una donna: a governare le “relazioni pericolose” è infatti la marchesa, è lei l’“anima nera”, dotata di una diabolica intelligenza. Dal cinismo alla perversione: il marchese de Sade Un’estremizzazione del cinismo tipico del libertino si trova nelle opere del marchese de Sade (1740-1814), che si configura come il lato “oscuro” dell’Illuminismo. La ragione è da lui separata da qualsiasi principio etico e resa funzionale alla ricerca di un piacere strettamente legato alla sopraffazione e all’esercizio della crudeltà. Nel romanzo Le 120 giornate di Sodoma (1785), ambientato in un castello a Silling, nella Foresta Nera, viene rappresentato il trionfo del vizio, della malvagità e della perversione messi in atto da quattro libertini; al centro di Justine, ovvero le disavventure della virtù (1791), sono, invece, le terribili esperienze affrontate da una giovane orfana. Il marchese de Sade, secondo recenti interpretazioni critiche, può essere considerato un profeta dell’esercizio arbitrario del potere.
Zona Competenze Scrittura creativa
1. Immagina e scrivi un dialogo tra una libertina e un philosophe illuminista.
Esposizione orale
2. Prepara un intervento riepilogativo destinato alla classe sulla figura del libertino mettendo in evidenza le contraddizioni e gli aspetti comuni dei personaggi incontrati in questo capitolo. Per il tuo intervento avrai a disposizione 10 minuti. Se può esserti d’aiuto, prepara uno schema a supporto della tua esposizione.
Sintesi Settecento
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Indice dei nomi A Abelardo, Pietro, 352 Abriani, Paolo, 51 Accetto, Torquato, 9-11, 29 Achillini, Claudio, 51, 55 Addison, Joseph, 264, 270, 279, 305, 307, 309 Agostino d’Ipponia, (sant’Agostino), 67, 71, 72, 86 Alessandro Verri, Pietro Verri, 265 Alfieri, Vittorio, 263, 265, 279, 391, 445, 449, 518-578 Algarotti, Francesco, 265 Alonge, Roberto, 510 Altieri Biagi, Maria Luisa, 146, 152, 156, 161 Ammaniti, Niccolò, 218 Anacreonte, 66, 286 Antonielli, Sergio, 422 Appiani, Andrea, 382 Apuleio, 181, 204 Archimede, 136 Arendt, Hannah, 33 Ariosto, Ludovico, 146, 180, 189, 192, 205, 534 Aristofane, 444, 450 Aristotele, 19, 22, 25, 26, 136, 137, 155, 158, 160, 161, 162, 169 Artale, Giuseppe, 51 Atwood, Margaret, 218 Auerbach, Erich, 122
B Bachtin, Michail, 112 Bacone, Francesco, 207, 211, 218, 219, 356 Bandiera, Alessandro, 414 Barenghi, Mario, 264 Baretti, Giuseppe, 264, 279, 283, 306 Basile, Giovan Battista, 29, 30, 175-178, 204 Baudelaire, Charles, 75 Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de, 288 Beccaria, Cesare, 235, 236, 263, 266, 274, 294, 303-306, 310-326, 541 Bembo, Pietro, 30, 268, 270 Benedetto Castelli, 149 Bernini, Gian Lorenzo, 8, 9, 15, 35, 83, 140 Binni, Walter, 392 Blake, William, 229 Bloom, Harold, 104 Blumenberg, Hans, 155 Boccaccio, Giovanni, 30, 186, 200, 268, 269, 356 Boileau, Nicolas, 66 Borges, Jorge Luis, 28, 75, 77, 78 Borromini, Francesco, 35, 36 Bradbury, Ray, 33, 218 Branda, Onofrio, 414 Brandt, Reinhard, 65 Brecht, Bertolt, 33, 140, 143, 164, 166 Brilli, Attilio, 242 Bruno, Giordano, 7, 12-14, 23, 32, 39, 140, 143, 168 Buffon, Georges-Louis Leclerc de, 232, 233, 249, 250 Buonmattei, Benedetto, 257 Burke, Edmund, 266, 267
C Calabrese, Omar, 28 Calcaterra, Carlo, 42 Calderón de la Barca, Pedro, 29, 82, 98,-101, 103, 131, 133 Calenda, Antonio, 164 Calvino, Italo, 28, 146, 155, 157, 158, 357, 360, 366, 373, 374 Campanella, Tommaso, 12-15, 23, 32, 39, 157, 207, 209-211, 214, 215, 218, 219 Canal, Antonio (detto Canaletto), 276 Canova, Antonio, 523 Caravaggio, Michelangelo Merisi detto, 34, 58, 125
600
Indice dei nomi
Carducci, Giosuè, 66, 388 Caretti, Lanfranco, 432 Caro, Annibal, 412 Carracci, Annibale, 125 Cartesio, 21, 23 Casanova, Giacomo, 265, 268, 449 Castelli, Bendetto, 150 Castiglione, Baldassarre, 270 Cavalcanti, Guido, 293 Cavani, Liliana, 13, 140 Cervantes, Miguel de, 29, 175, 187-189, 191195, 197-199, 200, 201, 203-206, 328 Cesarotti, Melchiorre, 542 Chapelain, Jean, 46 Che Guevara, Ernesto, 194 Chiabrera, Gabriello, 66, 80 Chiari, Pietro, 446, 455, 457 Cimarosa, Domenico, 287 Condillac, Etienne Bonnot de, 233, 426 Constable, John, 255 Copernico, Niccolò, 6, 12, 23, 31, 38, 160 Corneille, Pierre, 10, 29, 82, 84,-86, 89, 90, 97, 131 Cortona, Pietro, 35 Crescimbeni, Giovanni Mario, 282 Cristina di Svezia, 282 Croce, Benedetto, 11 Cusano, Niccolò, 7
D d’Alembert Jean Baptiste Le Rond, 223, 235, 249, 250, 251, 278, 311 d’Annunzio, Gabriele, 47, 388 Da Ponte, Lorenzo, 265, 288, 292, 293, 301 Dalcher, Christine, 218 Dalí, Salvador, 60 Dante, 8, 13, 56, 104, 146, 194, 269, 293, 297, 522, 534 Darwin, Charles, 139 Davico Bonino, Guido, 458, 464, 467, 470, 480, 482, 484-486, 492, 496, 499, 502, 504, 505, 511 David, Jacques-Louis, 229 d’Épinay, Louise, 254 d’Holbach, Paul-Henry, 230,-232, 235, 249, 250 de Bergerac, Hector-Savinien Cyrano, 211, 215, 216, 219 De Filippo, Eduardo, 123 de La Mettrie, Julien Offray, 230 de Lavoisier, Antoine-Laurent, 229, 234 de Molina, Tirso, 91 de Ribera, Jusepe detto lo Spagnoletto, 125 de Saint-Pierre, Bernardin, 273 de Saint-Pierre, Jacques-Henri Bernardin, 345, 354 De Sanctis, Francesco, 569, 573 de Secondat, Charles-Louis, 253 de Unamuno, Miguel, 194, 206 de’ Calzabigi, Ranieiri, 524, 545, 576 Debenedetti, Giacomo, 570, 573 Defoe, Daniel, 240, 244, 246, 264, 278, 327, 329-339, 345, 347, 372-376 Della Casa, Giovanni, 269 Della Valle, Federico, 124, 126, 132 Descartes, René, 21, 287 Dèttore, Ugo, 510 Di Benedetto, Arnaldo, 552, 569 Diderot, Denis, 223, 227, 230, 235, 249, 250, 251, 254, 278, 311, 426, 447 Donne, John, 28, 41, 68, 80 Dostoevskij, Fëdor, 112 Dottori, Carlo de’, 124, 132
E Einstein, Albert, 33 Elsheimer Adam, 146 Epicuro, 7 Escher, Mauritis Cornelis, 65 Euclide, 136 Euripide, 85
F Fabre, François-Xavier, 522, 528 Facchinei, Ferdinando, 312, 314, 315, 324 Ferroni, Giulio, 46 Ferrucci, Franco, 111 Fielding, Henry, 331, 344-346 Filangieri, Gaetano, 247, 248, 274, 304 Filolao, 174 Flaubert, Gustave, 194 Foscolo, Ugo, 66, 264, 295, 302, 346, 368, 388, 390, 391, 433-435, 438-440, 519, 521, 527, 528, 534, 535, 569, 573 Foucault, Michel, 65 Freud, Sigmund, 33, 116 Frisi, Paolo, 306 Frugoni, Carlo Innocenzo, 282 Füssli, Johann Heinrich, 557
G Gadda, Carlo Emilio, 28 Gainsborough, Thomas, 255 Galeno, 161 Galilei, Galileo, 3, 6, 12, 13, 20-22, 31, 38-40, 45, 46, 50, 129, 134-174 Galilei, Vincenzo, 129 Garin, Eugenio, 155 Gaudiosi, Tommaso, 51 Gaulli, Giovan Battista, 37 Genovesi, Antonio, 268, 305 Getto, Giovanni, 50, 52, 53, 57, 61-64, 124 Geymonat, Ludovico, 139, 157 Giannone, Pietro, 230, 263, 264, 304 Giansenio, Cornelio, 86 Gobetti, Pietro, 534, 570, 573 Goethe, Johann Wolfgang, 264-266, 273, 279, 346, 526 Goldoni, Carlo, 238, 240, 262, 263, 265, 268, 279, 288, 289, 302, 442-517 Góngora, Luis de, 28, 41, 67, 68, 69, 74, 80 Goodman, Dena, 238 Gori, Francesco, 576 Gozzi, Carlo, 447, 455, 457, 511 Gozzi, Gaspare, 264, 268, 279 Grassi, Orazio, 154 Gravina, Roggiano, 282, 287 Greenaway, Peter, 123 Greuze, Jean-Baptiste, 272 Grimm, fratelli, 176, 204 Guardi, Francesco, 276, 282 Gumpp, Johannes, 65
H Hegel, Georg Wilhelm Friederich, 194 Helvétius, Claude-Adrien, 525, 538 Hemingway, Ernest, 373 Hogarth, William, 255 Hume, David, 254, 270 Huxley, Aldous, 217, 218
I Isella, Dante, 409, 413
J Jemolo, Arturo Carlo, 311 Jonard, Norbert, 392, 397, 405 Jonson, Ben, 104 Jori, Giacomo, 57 Joyce, James, 28
K Kafka, Franz, 8 Kant, Immanuel, 227, 229, 334 Keplero, Giovanni, 21, 23
Kottm Jan, 123 Krakauer, Jon, 544 Kubrick, Stanley, 255
L La Bruyère, Jean de, 91 La Rochefoucauld, François de, 91 Laclos, F. Choderlos de, 345 Laclos, Pierre Ambroise-Francois Chordelos de, 501 Lambertenghi, Luigi, 305, 306, 312 Lavia, Gabriele, 164 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 355, 357, 364, 376 Leopardi, Giacomo, 66, 146, 152, 230, 295, 297, 302, 435, 441, 569, 573 Lewis, Matthew, 346 Linneo, Carlo, 232, 277 Locke, John, 310, 319, 368 London, Jack, 33 Longhi, Pietro, 282 Longo, Alfonso, 305, 306 Lope de Vega, Felix, 29, 98 Losey, Joseph, 164 Lubrano, Giacomo, 51, 57, 59
M Machiavelli, Niccolò, 11, 113, 107 Macpherson, Jean, 542 Magalotti, Lorenzo, 20 Maggi, Carlo Maria, 30 Malpighi, Marcello, 20 Mann, Thomas, 33 Manzoni, Alessandro, 10, 66, 264, 295, 302, 311, 313, 325, 371, 388, 433-435, 440, 527, 528, 535 Maravall, José A., 24 Marini, Giovanni Ambrogio, 181 Marino, Giambattista, 6, 12, 24, 25, 28, 39, 41, 42, 44-48, 50-55, 58, 59, 63, 74 Marlowe, Christopher, 23, 104, 111, 113 Marmontel, Jean-François, 227 Marx, Karl, 334 Menandro, 450 Metastasio, Pietro, 262, 263, 279, 281, 287291, 301, 302, 540, 541, 543 Milton, John, 33, 526 Mittner, Ladislao, 164 Molière, (pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin), 9, 29, 82, 84, 90, 91, 96, 97, 129, 131, 133 Montaigne, Michel de, 242, 522 Montesquieu, Charles de, 223, 227, 230, 235, 249, 250, 252-254, 261, 270, 278, 310, 311, 525, 532, 538, 571 Monteverdi, Claudio, 129 Morellet, André, 314 Moro, Tommaso, 207, 208, 209, 210, 212, 213, 218, 219, 356 Mozart, Wolfgang Amadeus, 123, 287, 288, 292, 301, Muratori, Ludovico Antonio, 230, 263, 281, 289, 294, 295, 299, 301, 310 Murillo, Bartolomé Esteban, 125 Murtola, Gaspare, 44
N Narducci, Anton Maria, 51, 54, 55 Newton, Isaac, 6, 21, 23, 223, 228-230, 243,
O Omero, 297, 528, 534 Orazio, 66, 388, 534 Orwell, George, 218 Ovidio, 8, 46, 105, 418, 564
P Palladio, Andrea, 424 Paracelso, 23 Parini, Giuseppe, 235, 239, 242, 262, 266, 278, 305, 307, 378-441, 573
Pascal, Blaise, 7, 10 Paulze, Pierrette, 229 Pavel, Thomas, 344 Penn, Sean, 544 Pergolesi, Giovan Battista, 287 Peri, Iacopo, 129 Perrault, Charles, 176, 204 Peterzano, Simone, 34 Petrarca, Francesco, 28, 30, 56, 67, 268, 269, 283, 284, 288, 293, 530 Petronio, 179, 181, 204 Petronio, Giuseppe, 249, 384, 392, 411 Piermarini, Francesco, 382 Pindaro, 388 Pirandello, Luigi, 193, 194, 206, 371 Piranesi, Giovanni Battista, 557 Platone, 208, 219 Plauto, 96, 105, 105, 128 Plutarco, 538, 539-541, 543 Pope, Alexander, 307, 358 Poquelin, Jean-Baptiste, 90 Porta, Carlo, 30 Pozzetti, Pompilio, 411 Pozzi, Giovanni, 44, 45 Pozzo, Andrea, 37 Praz, Mario, 60, 111, 113 Proust, Marcel, 33 Pucci, Francesco, 14
Q Quesnay, François, 384 Quevedo, Francisco de, 28, 41, 67, 68, 71, 72, 80
R Racine, Jean, 82, 84, 85, 89, 131 Radcliffe, Ann, 346 Raimondi, Ezio, 537, 568, 569 Redi, Francesco, 20, 31 Remarque, Erich Maria, 33 Ricci, Berto, 15, 18, 29 Richardson, Samuel, 264, 273, 329-331, 339, 340, 344, 345, 372, 376 Rinuccini, Ottavio, 129 Riquer, Martin de, 188, 191, 192, 200 Ronsard, Pierre de, 66 Rodler, Lucia, 272 Rolli, Paolo, 282, 286 Rostand, Edmond, 211, 215 Rousseau, Jean-Jacques, 223, 227, 230, 234, 241, 244-250, 252-254, 259-261, 264, 265, 272, 273, 278, 279, 287, 311, 314, 324, 330, 334, 345, 347, 351-353, 372, 373, 376, 389, 447, 449, 525, 538, 539, 576, 577 Rousset, Jean, 50 Rubens, Peter Paul, 125
S Sagredo, Giovanfrancesco, 158, 159-161 Salgari, Emilio, 334 Salviati, Filippo, 158, 159, 160-162 Sannazaro, Jacopo, 282 Santini, Alceste, 143 Sapegno, Natalino, 569 Saramago, José, 218 Sarpi, Paolo, 12, 16, 17, 19, 39, 140 Savioli, Ludovico, 282 Schelling, Friedrich, 194 Schiller, Friedrich, 526, 553 Schlegel, fratelli, 194 Sciascia, Leonardo, 366 Sempronio, Giovan Leone, 51, 57, 61, 62 Seneca, 67, 72, 85 Serpieri, Alessandro, 112 Servier, Savier, 208 Shakespeare, William, 28, 29, 41, 68, 73, 78, 80, 82, 83, 104-13, 115-117, 119-123, 132, 133, 115 Sklowskij, Victor, 346 Smith, Adam, 225 Sonnet, Martine, 248 Spitzer, Leo, 192, 206 Squarotti, Bàrberi, 178, 432 Starobinski, Jean, 543 Steele, Richard, 264, 279, 305, 307, 309
Stendhal, (pseudonimo di Marie-Henri Beyle), 373 Sterne, Laurence, 327, 329, 346, 347, 368371, 377 Stevenson, Robert Louis, 8 Strehler, Giorgio, 123 Swift, Jonathan, 270, 307, 345, 347, 348, 376
T Tasso, Torquato, 28, 129, 288, 534 Tassoni, Alessandro, 28, 178, 179, 180, 186, 204 Telesio, 13 Terenzio, 128 Tesauro, Emanuele, 25-27, 29, 39, 48, 50, 60 Testi, Fulvio, 66 Thackeray, William, 255 Tolkien, John Ronald Reuel, 123 Tortarolo, Edoardo, 274 Tournier, Michel, 334 Trapassi, Pietro, 287, 540 Truffaut, François, 33
U Unamuno, Miguel de, 194, 206 Ungaretti, Giuseppe, 75, 76, 89 Urbano VIII, papa, 13, 138, 139, 153
V Valperga di Caluso, Tommaso, 522 Van Dyck, Antoon, 125 Van Wittel, Gaspard, 276 Vecellio, Tiziano, 424 Velázquez, Diego, 65, 125 Verdi, Giuseppe, 553 Verne, Jules, 334 Verri, Alessandro, 235, 236, 265, 268-271, 280, 304, 305, 310-312, 315, 318, 325 Verri, Pietro, 234, 235, 239, 263, 266, 277, 279, 304-315, 317, 318, 325, 414, 426 Vesalio, Andrea, 160 Vico, Giambattista, 263, 264, 281, 294,-299, 301, 302 Virgilio, 282, 290, 534 Vittorelli, Jacopo, 285, 286 Vivaldi, Antonio, 287 Volta, Alessandro, 228, 265 Voltaire, (pseudonimo di François-Marie Arouet), 210, 223, 227, 229-233, 235-237, 240, 242, 243, 249-254, 256-258, 264, 272, 277, 279, 280, 287, 303, 304, 314, 319, 327, 345-347, 355-357, 360-363, 365-367, 372, 376, 381, 408, 426, 447, 461, 520, 525, 541
W Walpole, Horace, 346 Wilcox, Fred, 123 Winckelmann, Johann Joachim, 267, 279, 382 Wölfflin, Heinrich, 28 Wollstonecraft, Mary, 248
Y Young, Edward, 266
Z Zanardelli, Giuseppe, 323, Zappi, Giovan Battista Felice, 282-284 Zola, Emile, 33 Zorzi, Ludovico, 469
Indice dei nomi
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Glossario A Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine.
Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”) La
formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri). Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”. Agnizione Riconoscimento (specialmente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio. Alessandrino Verso della tradizione poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese). Allegoria Figura retorica tramite la quale il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo. Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive. Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII).
Allocuzione ➜ Apostrofe Anacoluto Costrutto in cui la seconda
parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI). Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi). Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, all’inizio di un verso o di una sua parte, eccedente la normale misura metrica. Anadiplòsi Figura retorica che consiste nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66). Anàfora Ripetizione di una o più parole all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3). Analessi (anche ➜ flashback) In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi. Analogia Procedimento stilistico che isti-
602
Glossario
tuisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee semanticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti). Anàstrofe (o inversione) Figura retorica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate, / venite a noi parlar» (If V 8081); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11). Anfibologìa Espressione che può prestarsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semantico o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola).
Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia inten-
dere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra). Antonimìa Figura retorica che consiste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134). Antonomàsia Sostituzione del nome proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indicare Dante, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne. Antropomorfismo Tendenza ad assegnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie. Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”. Apografo Manoscritto che è copia diretta di un testo originale. Apologo Racconto allegorico di gusto favolistico e con fini didattico-morali. Apostrofe Consiste nel rivolgersi direttamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76). Asindeto Forma di coordinazione realizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso). Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt). Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco. Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica) Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella
cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime. Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.
B Ballata Forma metrica, destinata in origine
al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedute da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari. Bestiario Trattato medievale in cui venivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici.
Bildungsroman ➜ Romanzo di formazione Bisticcio ➜ Paronomasia Bozzetto Racconto breve che rappresenta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana.
Bucolica ➜ Egloga
C Campo semantico Insieme delle parole
i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base. Canone L’insieme degli autori e delle opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Pertanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via. Cantare Poema composto per lo più in ➜ ottave, di materia epico-cavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV. Canzone Forma metrica caratterizzata dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa.
Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in ➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di Pe-
trarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comico-satirici. Catarsi Secondo Aristotele, la liberazione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni. Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso.
Chiasmo Figura retorica che consiste nel
contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134). Chiave (o concatenatio) In una ➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico.
Chiosa ➜ Glossa Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di un periodo.
Climax Enumerazione di termini dal significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera). Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva. Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente. Collazione Confronto sistematico dei ➜ testimoni di un testo, allo scopo di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione.
Commiato ➜ Canzone Concordanze Repertori alfabetici di tutte
le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono. Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato secondario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo. Consonanza Sorta di rima in cui si ripetono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa. Contaminazione Nella critica testuale l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria. Contrasto Componimento poetico che rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva. Coppia sinonimica (o dittologia sinonimica) Coppia di parole dal significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba
e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo. Corpus L’insieme delle opere di un singolo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema. Correlativo oggettivo Concetto poetico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza necessitare di alcun commento da parte del poeta. Cronòtopo Il termine, introdotto nella critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spazio-temporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto. Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).
D Dedicatoria Lettera o epigrafe anteposta
a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata. Deittico Elemento linguistico che indica la collocazione spazio-temporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani). Denotazione Indica il significato primario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione. Deverbale Sostantivo ricavato da un verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”. Diacronia Indica la valutazione dei fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia). Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74). Diegesi Modalità di racconto narrativo indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi). Dieresi In metrica ➜ iato tra due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13). Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi.
Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica
E Edizione critica (lat. editio) Edizione che si
propone di presentare un testo nella forma più possibile conforme alla volontà ultima
dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa. Egloga Nella letteratura classica componimento poetico di argomento bucolicopastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale. Elegia Nella letteratura classica componimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico. Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”. Elzeviro Articolo di fondo della pagina culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo). Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla ➜ cesura. Enclisi Fenomeno linguistico per cui una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami. Endecasillabo È il verso di undici sillabe, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non vengono raggruppati in strofe e non sono rimati. Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77). Enjambement (o inarcatura) Procedimento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito). Entrelacement È la tecnica di costruzione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes. Enumerazione Figura retorica che consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141). Epanadiplòsi Figura retorica che consiste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria). Epanalèssi (o geminatio) Figura retorica che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10). Epifonema Sentenza o esclamazione che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale»
Glossario
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(Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143). Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75). Epigramma Breve componimento in versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale. Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58). Epiteto Sostantivo, aggettivo o locuzione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce. Epìtome Riassunto, compendio di un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico. Esegesi Interpretazione critica di un testo. Etimologia Disciplina che studia l’origine e la storia delle parole. Eufemismo Figura retorica che consiste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo religioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”. Excursus (o digressione) Divagazione dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale. Exemplum Breve racconto a scopo didattico-religioso.
F Fabula La successione logico-temporale
degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio. Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento. Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio). Filologia (dal greco “amore della parola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale.
Flashback ➜ Analessi Flusso di coscienza Tecnica narrativa
caratteristica del romanzo del Novecento, dall’inglese stream of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore. Fonema La più piccola unità di suono che, da sola o con altre, ha la capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”.
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Glossario
Fonetica Indica sia la branca della lingui-
stica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua. Fonosimbolismo Espediente stilisticoretorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea. Fonte Ogni tipo di documento o testo dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera.
Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.
G Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi Glossa Annotazione esplicativa o interpre-
tativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe. Gradazione ➜ Climax Grado zero In senso generale, indica il livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.
H
Hàpax legòmenon (dal greco “detto una
sola volta”) Indica una parola che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore. Hýsteron pròteron Figura retorica per cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).
I Iato Fenomeno per cui due vocali contigue
non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: pa-ese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe.
Ictus ➜ Accento ritmico Idillio Presso i greci, breve componimento,
di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri. Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua. Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro.
Inquadramento ➜ Epanadiplosi Intreccio La successione degli eventi così
come sono presentati dall’autore e non necessariamente seguendo l’ordine logicotemporale (come la ➜ fabula).
Inversione ➜ Anastrofe Ipàllage Figura retorica che consiste nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diver-
so da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”. Ipèrbato Figura retorica che consiste nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iperbato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro). Iperbole Figura retorica che consiste nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”. Ipèrmetro Verso con un numero eccessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro.
Ipòmetro ➜ Ipermetro Ipostasi ➜ Personificazione Ipotassi Costruzione del periodo fondata
sulla subordinazione di una o più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi. Ipotipòsi Figura retorica che consiste nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66). Iterazione Ripetizione di una o più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.
K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.
L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo.
Lassa Strofa caratteristica degli antichi
poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi. Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera. Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia. Lessema Il minimo elemento linguistico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni. Lezione (lat. lectio) La forma in cui una parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile. Litote Figura retorica che consiste nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non
brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”. Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.
M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista.
Martelliano ➜ Alessandrino Memorialistica Genere letterario di carat-
tere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume. Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”. Metanarrativo Aggettivo riferito ai procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa rifletta su se stessa. Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa. Metaromanzo Romanzo che riflette sull’operazione stessa dello scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo. Metateatro Testo in cui la finzione drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”. Metàtesi Spostamento di fonemi all’interno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”. Metonìmia Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”. Mimesi Secondo la concezione estetica classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica, volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi. Monologo interiore Rappresentazione dei pensieri di un personaggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.
N Neologismo Parola introdotta di recente
nella lingua, oppure nuova accezione di un vocabolo già esistente. Nominale (stile nominale) Particolare organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.
O Omofonia Indica l’identità di suono tra parole differenti.
Onomatopea Figura d’imitazione volta a
imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera). Ossimoro Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio). Ottava Strofa di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.
P Palinodia Componimento poetico che ritratta opinioni espresse in precedenza.
Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi.
Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron). Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintatticogrammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc. Paratassi Costruzione del periodo fondata sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi. Parodia Imitazione di un autore, di un testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico. Paronomàsia (o bisticcio o annominazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata). Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia. Perifrasi Figura retorica che consiste nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte. Personificazione (o prosopopea) Figura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare ani-
mali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata). Piede Nella metrica classica la più piccola unità ritmica di un verso, formata di due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone. Pleonasmo Elemento linguistico superfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi). Plurilinguismo L’uso in un testo letterario di diversi registri linguistici ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda. Pluristilismo La compresenza in un testo letterario di diversi livelli di stile. Poliptòto Figura retorica che consiste nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25). Polisemia La compresenza di due o più significati all’interno di una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.). Polisindeto: forma di coordinazione realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso). Prolessi Anticipazione di un elemento del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze).
Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in cui l’autore espone l’argomento dell’opera.
Q Quartina È la strofa composta di quattro
versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.
R Rapportatio Tecnica compositiva artificiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali.
Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere, il
livello espressivo proprio di una particolare situazione comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari
Glossario
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tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere.
Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste nel
troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi). Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore.
Ripresa ➜ Ballata Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio). Ritornello o refrain Verso o gruppo di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa. Romanzo di formazione Romanzo nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità. Rubrica Nei codici medievali il breve riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.
S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fittizio
con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca. Sestina Componimento lirico con sei strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca. Settenario È il verso composto da sette sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata. Significante / Significato Il significante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno. Sillogismo Tipo di ragionamento, codificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione). Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia. Similitudine Figura retorica che consiste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando
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Glossario
avverbi e vari connettivi (“come”, “tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie). Sinalèfe In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Movesi il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca). Sincope Caduta di una vocale all’interno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”. Sincronia Indica lo stato di una lingua in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia). Sinèddoche Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”. Sinèresi In metrica, il computo come una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46). Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera). Sintagma Unità sintattica di varia complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc.
Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didattico-morale o di ispirazione celebrativa. Sonetto Forma poetica (forse “inventato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi, suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni. Spannung (ted. “tensione”) termine che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione.
Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un
autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico. Straniamento Procedimento con cui lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa. Strofa (o strofe o stanza) All’interno di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A
seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine. Summa Termine con cui nel medioevo si indicavano le trattazioni sistematiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).
T Tenzone Termine derivante dal provenzale che indica un dibattito tra poeti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso. Terza rima ➜ Terzina a rime incatenate. Terzina a rime incatenate È il metro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”. Testimone In filologia ogni libro antico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale. Tmesi Divisione di una parola composta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio). Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica. Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ovvero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricorrente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature). Traslato Espressione o parola il cui significato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc.
Tropo ➜ Traslato
V Variante In filologia, ciascuna delle ➜ lezioni che differiscono dal testo originale
ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc. Variatio (o variazione) Artificio retorico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi. Variazione ➜ Variatio
Z Zèugma Figura retorica che consiste nel
far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.
PAROLA CHIAVE
LESSICO
Indice delle rubriche tema/rema 152 liberismo 225 razionalismo 227 pamphlet 235 filantropia 242 giusnaturalismo 252 poeta cesareo 287
recitativo 287 aria 288 libretto 288 riformismo 304 tiratura 329 cicisbeo 406 antimetafisica 580
onore 10 metateatro 83 polifonia 112 progresso 234 cosmopolitismo 236 opinione/opinione pubblica 274 garantismo 318
self-made man 331 fisiocrazia 384 ironia 408 titanismo 526 dongiovannismo 586 sadismo 595
PER APPROFONDIRE
Il tema delle metamorfosi e il gusto barocco
8
online Una frattura epocale nel sistema del sapere: dalla somiglianza alla differenza
Scienziati e maghi
23
online La crisi dell’antropocentrismo nelle testimonianze letterarie
Da Machiavelli a Shakespeare Dal testo alle interpretazioni teatrali e cinematografiche Il rapporto tra Galileo e la Chiesa: gli sviluppi recenti
113 123 139
online Il confronto tra Galileo e Giordano Bruno nel film Galileo di Liliana Cavani
Un’immagine chiave: il libro della natura
155
online Il sistema dei personaggi come chiave di lettura del Dialogo sopra i due massimi sistemi
Le metafore come micro-racconti La metafora della luce e il termine “Illuminismo”
178 227
online La visione preevoluzionistica di Buffon
Il sensismo
233
online Il nettare nero che ha trasformato il costume
Il nuovo volto delle accademie
239
online La storia della massoneria
Il Grand Tour 242 online Una tormentata storia editoriale
Il mito di Robinson
334
online L’allestimento del libro delle Odi
Il neoclassicismo pariniano: un problema critico I problemi igienico-sanitari (o ecologici) di Milano nel Settecento All’incrocio di diversi generi
392 398 405
online Un mondo di automi
La composizione del Giorno: un’intricata questione filologica Perché Il giorno non fu terminato? Alle radici di una crisi di ispirazione Venezia nel Settecento: la capitale dell’editoria e dello spettacolo
409 411 448
online Il modello narrativo dei Mémoires: tra autobiografia, romanzo e teatro online Autobiografia in scena: Goldoni rappresenta Goldoni
Cronistoria della commedia goldoniana La famiglia, i giovani, le donne: una visione progressista?
457 461
Indice delle rubriche
607
VERSO IL NOVECENTO
Gobetti e Alfieri Il registro ironico come espressione del distanziamento critico dal passato Il Filippo: un re “tiranno” e il conflitto padre-figlio Don Giovanni: dal personaggio al mito
534 543 553 587
Dalla condanna all’attualità del Barocco Emblemi barocchi nella poesia moderna: l’orologio, la clessidra, lo specchio
28 75 75 76 77 164 164
Charles Baudelaire, L’orologio Giuseppe Ungaretti, Variazioni su nulla Jorge Luis Borges, Gli specchi
La Vita di Galileo di Bertolt Brecht Bertolt Brecht, «Siamo come intrappolati dentro»
online Attualità del Don Chisciotte: interpretazioni artistiche, cinematografiche, musicali
Dall’utopia alla distopia Romanzi distopici del Novecento online Eugenio Scalfari, In viaggio con Diderot Leonardo Sciascia, Il Candido di Sciascia online L’eredità del romanzo settecentesco online Il dissoluto assolto di Saramago
EDUCAZIONE CIVICA
NUCLEO CONCETTUALE Costituzione I regimi che proibiscono i libri Moliere T3a Il miglior genero? Un medico! Il malato immaginario, atto I, scena V Federico Della Valle T9 Il coro dei soldati: la parola agli oppressi Judith, Coro T3b Lazarillo mette a profitto la lezione con il prete avaro Lazarillo de Tormes Tommaso Moro T1 I nobili svaghi della città di Utopia Utopia Tommaso Campanella T2 L’educazione naturale dei «Solari» secondo le La Città del Sole NUOVE Linee guida «I lumi smorzati»: l’educazione femminile Dall’Encyclopédie all’IA
217 217 366
33 PARITÀ DI GENERE equilibri
91
#PROGETTOPARITÀ
126 183
PARITÀ DI GENERE equilibri
212
#PROGETTOPARITÀ
214 PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ
248 251
Voltaire
D11 Requisitoria contro l’intolleranza
T5 T6
T1a T5
256 Trattato sulla tolleranza, XXII ZONA COMPETENZE 280 Una riflessione giuridica di sorprendente attualità 313 Cesare Beccaria La tortura è una consuetudine barbara 317 Dei delitti e delle pene, cap. XVI Cesare Beccaria Le pene eccessivamente crudeli e la pena di morte sono disumane e inutili per prevenire i delitti 319 Dei delitti e delle pene, capp. XXVII-XXVIII Il cammino verso l’abolizione della pena di morte in Italia 323 Daniel Defoe «Questa estrema necessità mi spronò al lavoro» 335 Le avventure di Robinson Crusoe Samuel Richardson PARITÀ Una cameriera virtuosa (ma anche battagliera) 340 DI GENERE Pamela o la virtù ricompensata, Lettera XVI equilibri
#PROGETTOPARITÀ
608
T7 T11 T3 T4c T4d T5c T3 T1 T3
Jonathan Swift Una guerra per stabilire da che parte si rompono le uova I viaggi di Gulliver, I, iv Voltaire Un eroico macello Candido, III Carlo Goldoni Lo studio del “carattere” entro una categoria sociale: due «rusteghi» I rusteghi, II, v Carlo Goldoni Il primo monologo di Mirandolina La locandiera I, ix Carlo Goldoni Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina La locandiera I, x Carlo Goldoni Lo svenimento di Mirandolina: un magistrale colpo di mano La locandiera II, xvii Vittorio Alfieri La definizione di tirannide Della tirannide I, II Lorenzo Da Ponte Il catalogo del seduttore Don Giovanni, I, v Pierre Choderlos de Laclos La formazione di una libertina Le relazioni pericolose
348
360
PARITÀ DI GENERE equilibri
470
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
484
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
485
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
499
#PROGETTOPARITÀ
533
PARITÀ DI GENERE equilibri
588
#PROGETTOPARITÀ
PARITÀ DI GENERE equilibri
592
#PROGETTOPARITÀ
NUCLEO CONCETTUALE Sviluppo economico e sostenibilità ZONA COMPETENZE 220 Jean-Jacques Rousseau D12 Alle radici della diseguaglianza e del patto sociale 259 Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza Giuseppe Parini T1 La salubrità dell’aria 393 Odi, II Carlo Goldoni T2 Oltre la commedia dell’arte: il nuovo volto di Pantalone 467 La famiglia dell’antiquario I, xviii; II, xi T4a Il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita a confronto 480 La locandiera I, i T6c Le carte si scoprono...e il cavaliere è sconfitto 505 La locandiera III, xviii
LEGGERE LE EMOZIONI
NUCLEO CONCETTUALE Cittadinanza digitale Dall’Encyclopédie all’IA Torquato Accetto
D1 Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione”
251 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI
10 Della dissimulazione onesta Ciro di Pers T3a Orologio da rote 59 Giovan Leone Sempronio T4 Quid est homo? La selva poetica 62 Francisco de Quevedo T7b Ehi, della vita! Nessuno risponde? Sonetti amorosi e morali 71 Jean Racine T2 La confessione di Fedra e la potenza incoercibile della passione 86 Fedra, atto I, scena III
Indice delle rubriche
609
LEGGERE LE EMOZIONI 610
Pedro Calderón de la Barca Il “disinganno” e la scelta del bene 100 La vita è sogno, atto II, scene XVIII e XIX William Shakespeare T6 Un eroe moderno in un mondo machiavellico 115 Amleto atto III, scena I Galileo Galilei T1 Non esiste differenza tra terra e cielo 147 Sidereus Nuncius Paul-Henry d’Holbach D3 La visione materialistico-meccanicistica dell’universo 230 Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali Daniel Defoe D7a I bilanci razionali di Robinson 244 Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6 Jean-Jacques Rousseau D7b La voce della passione e del sentimento 245 Le confessioni Lorenzo Da Ponte EDUCAZIONE T7 L’aria di Cherubino ALLE RELAZIONI 292 Le nozze di Figaro, atto II, scena III Jean-Jacques Rousseau T8 Il pentimento di Giulia 353 EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI Giulia o la nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta Voltaire T10 Come Candide fu allevato in un bel castello e come ne fu cacciato 357 Candido, I Laurence Sterne T15 Un esempio di metanarrazione 370 La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI Giuseppe Parini T2 La caduta 399 Odi, XV Carlo Goldoni EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI D1 Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma 450 Memorie I, iv-v Carlo Goldoni T4d Il confronto tra Fabrizio e Mirandolina 485 La locandiera I, x EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI Vittorio Alfieri T1 Sublime specchio di veraci detti 528 Rime Vittorio Alfieri T2 Tacito orror di solitaria selva 530 Rime Vittorio Alfieri T5 La lettura di Plutarco, «il libro dei libri» 539 Vita, Epoca terza, cap. VII Vittorio Alfieri T7 La libertà dello spirito nella natura selvaggia della Svezia invernale 542 Vita, Epoca terza, capp. VIII-IX Vittorio Alfieri EDUCAZIONE T10 La fine di Saul ALLE RELAZIONI 558 Saul, atto V, scene III-V, vv. 117-225 Giacomo Casanova D1 «Coltivare il piacere dei sensi» 582 Storia della mia vita
T4
SGUARDO
Sull’arte Due esempi dell’immaginario manieristico e barocco L’orologio “barocco” di Dalí Immagini allo specchio La miseria nell’arte del Seicento Ritratti di scienziati Il ritratto nel Settecento
43 60 65 125 229 522
Sulla filosofia Il giansenismo
86
Sul cinema Giordano Bruno, il film Il Galileo di Liliana Cavani online Immagini del Settecento Un antieroe settecentesco: Barry Lyndon Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione La Vita di Alfieri e il film Into the Wild di Sean Penn: un possibile confronto? Giacomo Casanova secondo Fellini online Il Settecento: un secolo di libertini
13 140 254 255 526 544 583 597
Sulla musica
ORIENTARE E ORIENTARSI
Il melodramma
289
Torquato Accetto
D1 Una “legittima difesa” da un potere dispotico: l’“onesta dissimulazione”
10
Della dissimulazione onesta Ciro di Pers T3a Orologio da rote Giovan Leone Sempronio T4 Quid est homo? La selva poetica Francisco de Quevedo T7b Ehi, della vita! Nessuno risponde? Sonetti amorosi e morali Jean Racine T2 La confessione di Fedra e a potenza incoercibile della passionea Fedra, atto I, scena III Moliere T3a Il miglior genero? Un medico! Il malato immaginario, atto I, scena V Pedro Calderón de la Barca T4 Il “disinganno” e la scelta del bene La vita è sogno, atto II, scene xviii e xix William Shakespeare T6 Un eroe moderno in un mondo machiavellico Amleto atto III, scena I Galileo Galilei T1 Non esiste differenza tra terra e cielo Sidereus Nuncius Paul-Henry d’Holbach D3 La visione materialistico-meccanicistica dell’universo Il buon senso o idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali Daniel Defoe D7a I bilanci razionali di Robinson Le avventure di Robinson Crusoe, cap. 6
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Indice delle rubriche
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ORIENTARE E ORIENTARSI 612
Jean-Jacques Rousseau
D7b La voce della passione e del sentimento
Le confessioni Jean-Jacques Rousseau T8 Il pentimento di Giulia Giulia o la nuova Eloisa, Lettera XXXII, risposta Voltaire T10 Come Candide fu allevato in un belcastello e come ne fu cacciato Candido, I Laurence Sterne T15 Un esempio di metanarrazione La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, VI Giuseppe Parini T2 La caduta Odi, XV Carlo Goldoni D1 Il viaggio da Rimini a Chioggia. L’incontro con la mamma Memorie I, iv-v Vittorio Alfieri T1 Sublime specchio di veraci detti Rime Vittorio Alfieri T2 Tacito orror di solitaria selva Rime Vittorio Alfieri T4 Il potere e la cultura hanno fini opposti Del principe e delle lettere I, IV; III, X Giacomo Casanova D1 «Coltivare il piacere dei sensi» Storia della mia vita
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