L'amorosa inchiesta_2B

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ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita,

Edizione azzurra

per rispondere agli interrogativi

N. Gazich M. Lori

appassionata che la letteratura da sempre

con la collaborazione di

L’amorosa inchiesta allude alla ricerca

F. La Porta

L’amorosa inchiesta

Novella Gazich Manuela Lori con la collaborazione di

Filippo La Porta

che l’umanità di ogni tempo si pone.

Novella Gazich è stata per molti anni docente di

Manuela Lori è dottoranda di ricerca in Letteratura italiana all’Università di Macerata. Consulente editoriale, è autrice di libri scolastici per la secondaria di primo e di secondo grado. È stata docente di Lettere nei licei e formatrice in ambito disciplinare ed in preparazione al nuovo esame di Stato.

Filippo La Porta è critico e saggista, scrive regolarmente su “La Repubblica”, “Il Riformista”, il periodico “Left” e collabora all’“Unità”. Insegna alla Scuola Holden e in altre scuole di scrittura. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo La nuova narrativa italiana (Bollati Boringhieri 1995), Pasolini (Il Mulino 2012), Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Bompiani 2018), L’impossibile “cura” della vita. Cechov, Céline e Carlo Levi, medici-scrittori coscienziosi e senza illusioni (Castelvecchi 2021), Splendori e miserie dell’impegno. L’impegno civile degli scrittori, da Manzoni a Michela Murgia (Castelvecchi 2023).

LIBRO DIGITALE Versione interattiva del libro di testo con tantissime risorse e la possibilità di trasformare i testi in alta leggibilità.

Nel VOLUME • Struttura chiara, ordinata, non dispersiva • Profilo completo scritto con un linguaggio piacevole • Centralità dei testi il progetto attribuisce un ruolo centrale alla lettura e all’interpretazione dei testi letterari • Scrittura femminile presente in tutte le epoche • Educazione civica vengono proposte attività per la formazione del cittadino consapevole, sensibile ai grandi temi socio-politici • Orientamento, educazione alle emozioni e alle relazioni vengono proposti spunti per la didattica orientativa e per l’educazione alla gestione delle emozioni e delle relazioni • Numerose rubriche, supporti allo studio e attività per consolidare le competenze di comprensione, analisi ed interpretazione di testi • Esame di Stato sono presenti prove in preparazione alla prova scritta dell’esame di Stato

Nel LIBRO DIGITALE • Contenuti digitali integrativi sono proposti numerosi testi, rubriche, contributi audio e video integrati alla scelta su carta • Videolezioni sulle biografie e sulle opere maggiori • Lezioni in Power Point • Analisi del testo interattive • Audioletture dei brani e delle sintesi • Immagini interattive • Carte dei luoghi interattive • Cronologie interattive • Mappe tematiche interattive

APP LIBRARSI

2b L’amorosa inchiesta Edizione azzurra

Lettere nei licei. In ambito critico si è occupata in particolare di Pirandello narratore, un interesse documentato da varie pubblicazioni. Ha insegnato nella scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario presso l’Università degli Studi di Pavia. Da anni si dedica all’editoria scolastica. Ha progettato e diretto il manuale di letteratura italiana per i trienni Lo sguardo della letteratura (2016) e successivamente Il senso e la bellezza (2019).

2

Edizione azzurra

L’amorosa b inchiesta Ottocento

EDUCAZIONE CIVICA

equilibri

PARITÀ DI GENERE #PROGETTOPARITÀ

EquiLibri

Consente di accedere subito a tutti gli audio e i video del corso direttamente con smartphone o tablet. Disponibile per dispositivi iOS e Android.

secondo le NUOVE Linee guida

ORIENTAMENTO

Progetto del Gruppo Editoriale ELi per la promozione dei valori di giustizia sociale ed uguaglianza, per favorire una cultura dell’inclusione.

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Sistema Digitale Accessibile RA UR ZZ 04 A A 06 EST O 7 S0 HI ENT 252 PA INC OC 165 A TT 4 OS O 888 OR 97 M L’A

Questo volume sprovvisto del talloncino è da considerarsi CAMPIONE GRATUITO fuori campo IVA (Art. 2, c. 3, I.d, DPR 633/1972 e Art. 4, n.6, DPR 627/1978)

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€ 24,90 L’AMOROSA INCHIESTA AZZURRA OTTOCENTO

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

19/12/24 10:16


Novella Gazich Manuela Lori

L’amorosa inchiesta 2b

con la collaborazione di

Filippo La Porta

Edizione azzurra

Gruppo Editoriale ELi

Il piacere di apprendere

Ottocento


secondo le NUOVE Linee guida

L’insegnamento dell’Educazione civica attraverso le nuove Linee guida e la valorizzazione delle soft skills

Le nuove Linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica introducono significativi cambiamenti e importanti integrazioni: i nuclei tematici attorno ai quali si articolano le competenze e gli obiettivi di apprendimento, Costituzione, Sviluppo economico e sostenibilità e Cittadinanza digitale, sono stati aggiornati e ampliati. Le Linee guida sono ispirate ai diritti, doveri e valori costituenti il patrimonio democratico della Costituzione italiana, considerata il riferimento assoluto per promuovere la crescita individuale e la partecipazione politica, economica e sociale di ciascuno, all’interno del nostro Paese e dell’Unione europea. Il Gruppo Editoriale ELi promuove nei suoi volumi, attraverso testi, attività, video, immagini, l’educazione e il rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona, valorizzando solidarietà, responsabilità individuale, uguaglianza, libertà, lavoro, lotta alla mafia e all’illegalità e consapevolezza dell’appartenenza a una comunità. L’attenzione alle competenze, cognitive e non cognitive (soft skills), completa l’impegno dell’Editore nella formazione di cittadine e cittadini consapevoli e responsabili.

equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il nostro impegno per l’inclusione, le diversità e la parità di genere

La parità di genere è il quinto dei diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 e mira a ottenere la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, l’eliminazione di tutte le forme di violenza nei confronti di donne e ragazze e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione. Il Gruppo Editoriale ELi in collaborazione con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata ha creato un programma di ricerca costante mirato all’eliminazione degli stereotipi di genere all’interno delle proprie pubblicazioni. L’obiettivo è di ispirare e ampliare gli scenari delle studentesse e degli studenti, del corpo docente e delle famiglie fornendo esempi aderenti ai valori di giustizia sociale e rispetto delle differenze, favorendo una cultura dell’inclusione. Ci impegniamo a operare per una sempre più puntuale qualificazione dei libri attraverso: CONTENUTI

attenzione ai contenuti al fine di promuovere una maggiore consapevolezza verso uno scenario più equilibrato da un punto di vista sociale e culturale;

IMMAGINI

valutazione iconografica ragionata per sensibilizzare a una cultura di parità attraverso il linguaggio visivo;

LINGUAGGIO utilizzo di un linguaggio testuale inclusivo, puntuale e idoneo a qualificare i generi oltre ogni stereotipo.


L’amorosa inchiesta Dentro la letteratura Il significato di un titolo Nessuno sa creare affascinanti metafore come Ludovico Ariosto. Per questa letteratura abbiamo così scelto come titolo proprio un’espressione ariostesca, densa di possibili significati metaforici: “l’amorosa inchiesta”. Nell’Orlando furioso l’”amorosa inchiesta” è la ricerca della perduta Angelica da parte del paladino Orlando, motivata dall’amore che prova per lei. Ma forse anche noi oggi (chi opera nella scuola, chi scrive libri per la scuola) abbiamo perduto qualcosa di importante e vogliamo tentare, come Orlando, di ritrovarlo: il senso della letteratura o meglio il senso della letteratura a scuola, spesso marginalizzata da una visione pragmatica della formazione scolastica, che privilegia saperi immediatamente fruibili nella vita pratica e professionale, sminuendo tutto ciò che è passato. L’ ”amorosa inchiesta” è allora per noi innanzitutto allusivo alla ricerca appassionata che la letteratura da sempre ha compiuto, attraverso le tante voci che la popolano, per trovare un senso alla vita, per rispondere agli interrogativi che l’umanità di ogni tempo si pone. L’ ”amorosa inchiesta” vuole riferirsi anche all’atteggiamento che vorremmo che le ragazze e i ragazzi, come moderni “cavalieri erranti”, assumessero, entrando nell’universo labirintico della grande letteratura: non la passiva assunzione di dati, ma un atteggiamento interrogativo, curioso, esigente, per scoprire, insieme ai loro insegnanti, attraverso i testi letterari, piste da percorrere in un cammino che non è solo culturale, ma può e deve essere anche esistenziale e di orientamento per elaborare un progetto di vita e sostenere le relative scelte. L’ ”amorosa inchiesta”, infine, è la prospettiva che ha ispirato la progettazione di questa opera e ne ha motivato le scelte: il tentativo, forse utopistico, di suscitare curiosità, emozioni, interesse verso un patrimonio culturale, quello della secolare storia della letteratura, che ha ancora tanto da dire, così da ridare un senso centrale nella scuola di oggi alla lettura e interpretazione dei testi letterari.

La letteratura come “atlante delle emozioni” Recentemente è emerso nella riflessione didattica un volto della letteratura a lungo misconosciuto e a cui abbiamo cercato di dare spazio: quello di strumento chiave per attivare la conoscenza di sé e per sviluppare nella classe l’ “intelligenza emotiva”, cioè la capacità di riconoscere e descrivere in modo appropriato le emozioni proprie e altrui, così da saperle poi gestire e da assumere verso gli altri un atteggiamento di empatia.

IV


Senza la competenza emotiva si è facilmente vittime delle pulsioni, mentre saper identificare la paura, l’ansia, la frustrazione porta a ottimizzare le proprie risorse interiori, porta a saper gestire le situazioni problematiche che di certo non mancano nella fase adolescenziale. Ma la letteratura cosa ha a che fare con ciò? Attraverso i testi, i personaggi dei romanzi e le biografie stesse delle autrici e degli autori, la letteratura si presenta come la più straordinaria galleria delle emozioni che esista, a cominciare da Orlando che, da ingessato eroe al servizio della “guerra santa”, in nome di un amore malato, sperimenta via via nella sua “inchiesta” la delusione, l’autoinganno, la disperazione, la rabbia incontrollata e infine la degradazione della follia. Nelle emozioni rappresentate dalla letteratura di ogni tempo la classe, attraverso processi di identificazione, può riconoscere le proprie, può vivere altre vite da un osservatorio privilegiato e protetto e acquisire così gradualmente una competenza emotiva oggi riconosciuta sempre più importante. Perché questo avvenga, occorre però favorire l’incontro tra giovani lettori e testi letterari, respingendo una visione della letteratura come immutabile museo delle cere, interrogando i testi, come abbiamo cercato di fare, anche sotto il profilo emozionale e presentando le biografie delle autrici e degli autori, grandi e meno grandi, non come freddo insieme di nozioni da imparare, ma come racconti di vite vissute, con gioie, dolori, passioni, ma anche limiti e debolezze, come è la vita per ogni essere umano.

La letteratura come lettura del mondo Accanto alla competenza emotiva, alla conoscenza di sé, non è certo meno importante la capacità che gli studenti devono acquisire di interpretare il proprio tempo, i miti e i modelli di comportamento che lo governano. Anche in questo ambito la letteratura può e deve avere un ruolo fondamentale. La letteratura vive infatti nel mondo e il mondo rappresenta attraverso i testi e la personale interpretazione, il personale sguardo, di chi scirve. Perché la letteratura possa diventare strumento chiave di interpretazione critica del presente va costantemente ricercata e proposta, come abbiamo cercato di fare, l’interazione tra tendenze letterarie e visione del mondo, modelli comportamentali, nuclei dell’immaginario presenti nelle varie epoche. Questa visione coesa del sapere oltre tutto risulta, a nostro parere, molto più motivante per gli studenti e le studentesse di oggi che non lo studio asettico di autori e correnti a se stanti.

La letteratura come educazione ai valori civili I grandi temi socio-politici, le dinamiche del potere, la disuguaglianza, i rapporti tra le generazioni, la condizione femminile, l’ambiente, il valore dell’istruzione, non sono certo estranei alla letteratura e sono ben presenti sia nelle scelte testuali, sia nelle parti esercitative di questa opera: essa non si propone di formare specialisti in campo letterario, ma cittadini e cittadine consapevoli, sensibili ai valori civili e ai diritti dell’umanità. Gli autori

V


Attraverso il libro

L’amorosa inchiesta

Struttura del testo Questa nuova storia e antologia della letteratura italiana prevede una struttura composta da Scenari socio-culturali e Capitoli. Gli Scenari analizzano l’interazione della letteratura con la cultura, con la società e con i grandi temi e sono suddivisi in quattro sezioni: 1. La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2. I modelli del sapere e le tendenze filosofico-scientifiche 3. I caratteri e le forme della letteratura (nelle diverse epoche); il dibattito culturale 4. L’evoluzione della lingua La trattazione degli Scenari è anticipata da una sezione, Sguardo sulla storia, dedicata a ricostruire il contesto storico con immagini e cronologia interattiva. Gli Scenari si chiudono con un percorso intitolato Libri, lettori, lettura ed uno spazio rivolto all’Arte, presentato con schede informative di inquadramento del periodo e letture iconologiche di opere esemplari per i vari periodi cronologici. I capitoli sono dedicati a generi, autori o temi ed i materiali sono organizzati in modo da creare una forte interazione tra profilo e testi. Sono presenti sia testi (T) sia documenti (D), entrambi con numerazione progressiva indipendente. I testi sono commentati mediante l’Analisi del testo, mentre per i documenti sono messi in evidenza solo i Concetti chiave. • Nei testi o nei documenti che presentino tematiche riconducibili a temi

di EDUCAZIONE CIVICA questo aspetto è messo in evidenza. Nella parte degli esercizi relativi al brano c’è almeno un’attività finale che chiede di lavorare su quest’aspetto.

Le rubriche Il testo è corredato da numerose rubriche: • Parola chiave : definisce in sintesi le idee guida, i motivi di un’epoca, di un genere o

dell’universo tematico di un autore. • PER APPROFONDIRE : schede che consentono al docente o allo studente di

approfondire maggiormente un aspetto della trattazione, senza creare eccessive digressioni nel profilo. Gli approfondimenti sono sempre posizionati vicino alla parte del profilo da cui scaturiscono. • VERSO IL NOVECENTO : ai testi del passato si accostano testi del Novecento e oltre, scelti

per l’affinità dei temi trattati o a volte anche per contrasto, per evidenziare come certe esperienze o sensazioni ritornino nel tempo o si trasformino, assumendo nuovi significati in un’ottica di intertestualità;

VI ATTRAVERSO IL LIBRO


• EDUCAZIONE CIVICA secondo le Nuove Linee Guida / PARITÀ DI GENERE : l’attenzione a quest’aspetto

è stata tradotta in due direzioni. Tutti i testi antologizzati che presentino tematiche riconducibili ai tre nuclei: Costituzione, Sviluppo economico e Sostenibilità e Cittadinanza digitale e le relative competenze contenute nelle Nuove Linee Guida per l’insegnamento dell’educazione civica o ai Global Goals (17 obiettivi) dell’Agenda 2030, sono segnalati con evidenza. Questa indicazione è completata nella parte degli esercizi relativi al brano con almeno un’attività finale che chieda di lavorare su questi aspetti. Inoltre sono state realizzate schede di educazione civica su temi di interesse collettivo come la diversità, la parità di genere, la guerra, seguite da spunti di riflessione o attività didattiche; • LEGGERE LE EMOZIONI / EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI : questa rubrica intende stimolare nei

giovani la competenza emozionale e relazionale, in modo che la riflessione su loro stessi, sul loro vissuto personale e sulla realtà che li circonda li aiuti a crescere con maggiore consapevolezza; • Sguardo su… : è fondamentale comunicare l’idea che il sapere non sia isolato, ma

che dialoghi in continuazione anche con ambiti diversi. Nel manuale vengono dunque istituite numerose connessioni tra la letteratura e altre discipline come Storia, Filosofia, Arte, Letterature straniere, Musica, Teatro e Cinema; • Testi in dialogo : a numerosi testi vengono accostati brani di altri autori; questo

perché si ritiene che il confronto sia prezioso, per sviluppare capacità critiche e riflessive che servono per orientarsi meglio nelle scelte di vita; • INTERPRETAZIONI CRITICHE/INTERPRETAZIONI CRITICHE A CONFRONTO : il testo propone

numerosi passi critici legati alla trattazione o ai testi, scelti in base a una reale accessibilità di lettura e comprensione per gli studenti. I passi scelti vengono presentati sotto due forme: o un passo di un solo critico (Interpretazioni critiche) o passi di due critici messi a confronto sul medesimo tema (Interpretazioni critiche a confronto); la parte esercitativa di entrambe è stata concepita come tipologia B dell’esame di Stato, per far esercitare sull’analisi e la produzione di un testo argomentativo; • I LUOGHI DELLA CULTURA : mette in evidenza i luoghi-simbolo del periodo di

riferimento a seconda dei secoli analizzati sia attraverso la descrizione dei luoghi (monastero, castello, corte ecc.) sia attraverso le immagini.

Apparato didattico • Esercitare le competenze : i testi antologizzati sono corredati da un apparato

suddiviso in due parti: “Comprendere e analizzare” e “Interpretare”. Nel “Comprendere e analizzare” sono stati inseriti esercizi di parafrasi, sintesi, comprensione, tecnica narrativa, analisi, lessico e stile; nell’”Interpretare” esercizi di scrittura, scrittura creativa, scrittura argomentativa, esposizione orale, testi a confronto e competenza digitale. Le attività proposte sono volte al consolidamento delle competenze di lettura, di scrittura e di analisi testuale. • Verso l’esame di Stato : vengono proposte, sia in itinere sia in alcune zone di ciascun

volume, prove simili a quelle previste per la prima prova dell’esame di Stato secondo le tre tipologie A, B e C; • Zona competenze : al termine degli Scenari e di ciascun capitolo sono proposte attività

che attivano competenze trasversali, disciplinari e interdisciplinari in situazione nuove e per compiti svolti in autonomia, in forma individuale o di gruppo. ATTRAVERSO IL LIBRO VII


Nell’opera è offerta inoltre una serie di supporti allo studio per favorire un apprendimento consapevole e duraturo. • Fissare i concetti : al termine di parti significative di profilo negli Scenari e nei

capitoli di genere/tema e al termine di ciascun autore vengono proposte domande che servono allo studente per individuare i punti chiave della trattazione, per ripassare i passaggi più significativi e per esercitarsi nell’esposizione orale. • Analisi passo dopo passo : annotazioni esplicativo-critiche, a lato del testo, che ne

accompagnano la lettura e aiutano a visualizzarne i principali elementi tematicostilistici. • Collabora all’analisi : consiste in un coinvolgimento diretto del giovane lettore nel

processo interpretativo: l’analisi, che segue le tradizionali partizioni (Comprendere e analizzare e Interpretare), “dialoga” attraverso specifiche richieste con lo studente, in modo tale che lo stesso studente dia il proprio contributo attivo al lavoro sul testo. • Lessico : sono stati inseriti nel corso della trattazione dei riquadri laterali di

definizioni in cui si spiegano i concetti più complessi o si definiscono termini specialistici o disciplinari. • Sintesi : alla fine di ogni capitolo sono state poste le sintesi, anche in formato audio,

che riassumono i contenuti principali della trattazione. Esse rappresentano un utile contributo per lo studio, la memorizzazione e il ripasso. • Studiare con l’immagine : pitture, sculture, fotografie corredate di didascalie ricche

e interessanti consentono la percezione immediata, visiva, di alcuni aspetti della letteratura e del suo contesto storico: attraverso l’immagine si riflette per comprendere meglio l’autore, l’opera o il contesto storico-sociale di riferimento. • Schemi: sistematica presenza di schemi e visualizzazioni che semplificano

l’apprendimento.

La didattica orientativa La didattica orientativa è un approccio educativo e formativo che ha come finalità quella di aiutare gli studenti a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie attitudini e delle proprie capacità; può essere svolta in classe grazie all’aiuto della rubrica Leggere le emozioni e a tutti i numerosi spunti, come ad esempio le attività contemplate nell’Interpretare e nella Zona Competenze, e grazie ai testi segnalati, utili per svolgere attività di orientamento. Esse risultano disseminate in tutto il manuale al fine di sviluppare competenze di auto-orientamento e supportare l’assunzione di decisioni consapevoli riguardo a sé e alle proprie scelte professionali future. Aiutare lo studente a conoscere meglio se stesso, le sue inclinazioni, le sue attitudini, i suoi interessi e le sue aspirazioni farà sì che con più facilità sia orientato a una comunicazione efficace, a realizzare relazioni rispettose, a prendere decisioni e a sviluppare pensiero critico, pensiero creativo, empatia. Ogni volta che insieme a obiettivi di natura disciplinare si perseguono anche obiettivi di tipo orientativo si può parlare di didattica orientativa.

VIII ATTRAVERSO IL LIBRO


La didattica multimediale Nelle pagine sono inserite icone che indicano la presenza e il tipo di contenuti digitali disponibili sul libro. I contenuti digitali sono fruibili sul sito www.gruppoeli.it , sull’eBook+ e con l’App librARsi.

Contenuti digitali integrativi • Testi aggiuntivi integrati alla scelta su carta • Per approfondire

• Interpretazioni critiche

• Contributi Audio e Video

• Verso il Novecento

• Verso l’esame di Stato

• Sguardo su…

• Gallery gallerie di immagini

Attivazioni operative • Videolezioni mirano al racconto della biografia degli autori maggiori, ripercorrendone in maniera dinamica i momenti salienti e a fornire un quadro esaustivo delle opere principali dei medesimi autori, attraverso una narrazione accattivante. • Lezioni in PowerPoint percorsi didattici semplici e intuitivi che coincidono con l’accesso a dei Power Point modificabili e relativi ai principali contesti culturali in cui vengono concepite le opere della nostra letteratura e anche ai loro principali autori, di cui si riassumono i tratti biografici, la produzione e le opere maggiori. • Immagini interattive • Audioletture di alcuni testi scelti • Carte dei luoghi interattive consentono una lettura interattiva e agile della biografia dei classici della nostra letteratura. In particolare, le carte geografiche permettono di percorrere diacronicamente e collocare visivamente gli autori nei luoghi che ne hanno scandito la vita, dalla formazione alla nascita delle opere di maggior rilievo, dando accesso a dei contenuti multimediali come link, immagini, audio e video. • Mappe interattive e interdisciplinari incentrate sui temi più rilevanti, individuati all’interno delle opere e dei periodi letterari di maggior spessore consentono di svolgere un percorso interattivo e un’analisi trasversale di tematiche che dal passato affiorano fino ai giorni nostri, per mezzo di collegamenti para-testuali, garantiti dalla presenza di contenuti multimediali di vario tipo. • Cronologie interattive • Analisi interattive • Classe capovolta Sistema Digitale Accessibile

Il Sistema Digitale Accessibile soddisfa pienamente le esigenze della didattica inclusiva con queste funzionalità di base:

• carattere specifico ad alta leggibilità e alto contrasto • sintesi vocale dei contenuti testuali (audiolibro) • pagine “liquide” con possibilità d’ingrandimento

IX IX


Indice

Scenari socio-culturali Neoclassicismo e Romanticismo

3

Sguardo sulla storia 4 L’età napoleonica 4 L’Italia 5 La Restaurazione in Europa 5 Il Quarantotto 6 Il Risorgimento italiano e l’Unità 7

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 8 1 Un trauma storico 8 2 Un nuovo immaginario e un nuovo universo tematico 9 L’eroe romantico 9 François-René de Chateaubriand D1 Le inquietudini di René, prototipo dell’eroe romantico 10 La scoperta del lato “notturno” dell’io 12 online D2 Il linguaggio del sogno La simbolica del sogno

Una nuova visione della natura 13 Il mito del paradiso perduto e il “male del desiderio” 14 TESTI IN DIALOGO • La comunione Io-natura e il “male del desiderio”

15

Johann Wolfgang Goethe D3a La vita sacra della natura e l’aspirazione dell’uomo all’infinito 15 I dolori del giovane Werther, lettera del 18 agosto

Friedrich Hölderlin D3b Alla natura 16 La rinascita dell’interesse per la dimensione spirituale e trascendente 18 Novalis online D4 Erano belli i tempi in cui l’Europa era una terra cristiana La cristianità ovvero l’Europa

X

INDICE


La riscoperta della storia e l’emergere dell’idea di nazione 19 Johann Gottlieb Fichte online D5 Popolo e patria Discorsi alla nazione tedesca, discorso VIII

Giuseppe Mazzini

online D6 La “religione della Patria” e il nuovo linguaggio politico Dei doveri dell’uomo INTERPRETAZIONI CRITICHE

Federico Chabod Romanticismo e concetto di nazione

21

3 I valori e i modelli di comportamento 22 Una rivoluzione antropologica 22 Il modello borghese della famiglia 23 L’amore-passione 24 Niccolò Tommaseo D7 Amore e morte 26 Fede e bellezza

Francesco Maria Piave

online D8 «Piangi, o misera!»: l’etica borghese e l’amore romantico La Traviata, atto II, scena V

4 La fisionomia e la condizione degli intellettuali 27 Alessandro Manzoni

online D9 Un autore-editore di fronte al problema delle edizioni pirata Lettere

PER APPROFONDIRE Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici 29 Due poli culturali a confronto: Roma e Milano 31

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 32 1 Il divorzio tra filosofia e scienza e l’inizio della separazione tra le “due culture” 32 2 Il ruolo egemone della filosofia tedesca 33 Giacomo Leopardi

online D10 I limiti della conoscenza delle leggi di natura Zibaldone [4189-4190]

F. W. J. von Schelling

online D11 La superiorità dell’arte come mezzo di conoscenza Sistema dell’Idealismo trascendentale

3 Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento 35 1 Il panorama dei generi letterari 35 2 La lirica 35 3 Il romanzo 37 INDICE

XI


4 L’evoluzione della lingua 40 1 Il problema della lingua nel primo Ottocento 40 LIBRI, LETTORI, LETTURA

Nuovi libri, nuovi modi di leggere 42 Honoré de Balzac

online D12 Un cinico libraio-editore Illusioni perdute

Giacomo Leopardi

online D13 La vita effimera dei libri d’oggi Zibaldone [4269-4270] ARTE NEL TEMPO

Il Neoclassicismo Tra mito ed etica 44 Amore e Psiche di Antonio Canova: la creazione del canone di perfezione 44 Il Romanticismo in Europa Immaginazione e sentimento 45 L’incendio delle camere dei Lord di William Turner 45 La nascita della fotografia Tra realismo e messa in scena 46 Autoritratto come annegato di Hippolyte Bayard 46 Sintesi con audiolettura 47 Zona Competenze 49 VERSO L’ESAME DI STATO

online

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

Lezione in PowerPoint Cronologia interattiva Audio Un Notturno di Fryderyk Chopin Al chiaro di Luna di Beethoven Chopin, La caduta di Varsavia Dalla Traviata di Verdi: Pura siccome un angelo

50

Per approfondire Il problema del diritto d’autore Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia Mappa interattiva Rivolte napoleoniche e flussi letterari Immagini interattive

1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

51

1 Il Neoclassicismo 52 Johann Joachim Winckelmann D1 L’Apollo del Belvedere 53 Storia dell’arte nell’antichità

SGUARDO SULL’ARTE Il mito della romanità e gli usi politici del Neoclassicismo 55

2 Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 56 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Ugo Foscolo Un giudizio severo sulla figura di Monti

58

Vincenzo Monti T1 La traduzione dell’Iliade: protasi del poema 59 L’Iliade di Omero, vv. 1-41

T2

XII

INDICE

Prosopopea di Pericle 61


3 Il Preromanticismo 64 1 In Germania: il gruppo dello Sturm und Drang Friedrich Schiller T3 Il credo ribellistico degli Stürmer

64

65

2 In Inghilterra: la poesia sepolcrale e i Canti di Ossian

66

LEGGERE LE EMOZIONI

I masnadieri, II scena

TESTI IN DIALOGO • Due esempi della poesia preromantica inglese

68

Thomas Gray T4a Elegia scritta in un cimitero campestre

68

James Macpherson T4b La notte 69 Canti di Ossian

4 Goethe, un genio poliedrico 70 1 Una vita in multiforme e instancabile attività 70 2 I dolori del giovane Werther: il manifesto della sensibilità preromantica

71

PER APPROFONDIRE Un segno di protesta generazionale 73 Johann Wolfgang Goethe T5 Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro di due opposte visioni del mondo

LEGGERE LE EMOZIONI

74

I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto

3 Dall’autodistruzione di Werther alla formazione di Wilhelm Meister

78

PER APPROFONDIRE Le caratteristiche dei romanzi di formazione 79 Johann Wolfgang Goethe

online T6 Gli ideali educativi della «Società della Torre» Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato VIII, V

4 Faust, una moderna “Commedia” 80 La trama 80 PER APPROFONDIRE L’attualità del Faust 83 Johann Wolfgang Goethe T7 Il carcere dei libri e l’ansia della conoscenza 84 Faust, Parte prima, Notte

T8

Il patto tra Faust e Mefistofele

LEGGERE LE EMOZIONI

87

Faust, Parte prima, Studio [II] online T9 L’utopia di Faust Faust, Parte seconda, atto quinto

5 Natura e civiltà: il romanzo alchemico delle Affinità elettive

89

Sintesi con audiolettura 91 Zona Competenze 93

INDICE

XIII


VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi del testo

Johann Wolfgang Goethe Due visioni del mondo 94 I dolori del giovane Werther, lettera del 29 giugno

online

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

95

Immagini interattive

Gallery Lo “stile neoclassico”

Audiolettura

Per approfondire Massoneria e Bildungsroman

2 Ugo Foscolo

96

1 Ritratto d’autore 98 1 Una vita inquieta, pienamente vissuta 98 2 Le lettere 103 Ugo Foscolo

online T1 «La nostra salute sta nelle mani di un conquistatore» Scritti letterari e politici: testi dal 1796 al 1808, Lettera dedicatoria dell’“Ode a Bonaparte Liberatore”

PER APPROFONDIRE Foscolo critico 103 Ugo Foscolo T2 Il linguaggio della passione Lettera ad Antonietta Fagnani Arese

T3

LEGGERE LE EMOZIONI

Foscolo motiva la dolorosa scelta dell’esilio

Epistolario

104 EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

106

online T4 Il caro prezzo della libertà Epistolario

3 La visione del mondo e il ruolo dell’intellettuale 107 4 La funzione e i caratteri della poesia 108 T5

La parola, formatrice dell’animo umano 109

Ugo Foscolo T5a La responsabilità degli «uomini letterati» 109 Lettera apologetica

T5b Il valore formativo dei racconti poetici sui «cuori palpitanti» dei giovani 109 Dell’origine e dell’ufficio della letteratura

T5c La poesia rivelatrice di una «universale secreta armonia» 110 Principi di critica poetica

2 La letteratura come autoritratto 112 1 Le Ultime lettere di Jacopo Ortis: i caratteri generali, la trama, la storia editoriale 112 2 I modelli letterari 114 3 La sovrapposizione autore/personaggio e l’intreccio amore/politica 114 4 Lo stile appassionato di un romanzo imperfetto 115

XIV

INDICE


EDUCAZIONE CIVICA

L’Ortis come libro di educazione patriottica

secondo le NUOVE Linee guida

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

116

#PROGETTOPARITÀ

Il successo tra il pubblico femminile

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

116

#PROGETTOPARITÀ

Ugo Foscolo T6 L’apertura drammatica del romanzo

EDUCAZIONE CIVICA

Ultime lettere di Jacopo Ortis

T7

secondo le NUOVE Linee guida

117

La passeggiata ad Arquà: l’affinità romantica tra Jacopo e Teresa 119

Ultime lettere di Jacopo Ortis

T8

Il Giovine Eroe si mostra per quello che è: «un animo basso e crudele» 121

Ultime lettere di Jacopo Ortis, lettera del 17 marzo 1798

T9

Dopo quel bacio... il tema delle illusioni

LEGGERE LE EMOZIONI

123

Ultime lettere di Jacopo Ortis

T10 La visita alle tombe di Santa Croce e i fantasmi di Montaperti 125 Ultime lettere di Jacopo Ortis

T11 Il colloquio fra Jacopo e Parini

EDUCAZIONE CIVICA

Ultime lettere di Jacopo Ortis

secondo le NUOVE Linee guida

128

T12 La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: LEGGERE la lettera da Ventimiglia LE EMOZIONI 132 Ultime lettere di Jacopo Ortis online T13 Il quadro dipinto da Teresa e l’amore oltre la morte Ultime lettere di Jacopo Ortis

5 Autobiografia foscoliana in versi: le Odi e i Sonetti Ugo Foscolo T14 All’amica risanata

LEGGERE LE EMOZIONI

Odi

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

137

139

T14 Alla sera 145 Sonetti

T15 A Zacinto 148 Sonetti

T17 In morte del fratello Giovanni 152 Sonetti INTERPRETAZIONI CRITICHE

Carlo Dionisotti Foscolo esule

154

3 Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie

156

1 Dei sepolcri: la genesi e la tipologia testuale 156 2 La visione filosofica e i temi: tra Illuminismo e proto-Romanticismo 158 VERSO IL NOVECENTO Erri De Luca Il tema dei valori nella poesia del Duemila

160

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giovanni Getto Il tema del tempo nei Sepolcri

160

3 Lo stile e la struttura 162 Ugo Foscolo T18 Dei Sepolcri

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

164

PER APPROFONDIRE Il dibattito europeo sulle sepolture e l’editto di Saint-Cloud 164

INDICE

XV


4 Un alter ego ironico e disincantato: Didimo Chierico 182 T19 Didimo, un Ortis «più disingannato che rinsavito» Notizia intorno a Didimo Chierico VII; XI-XIII

LEGGERE LE EMOZIONI

183

5 Le Grazie: alla ricerca di un’«universale secreta armonia»

185

SGUARDO SULL’ARTE Le Grazie nel mito e nell’arte 188 PER APPROFONDIRE Il fascino misterioso dell’«isola non trovata» da Foscolo a Guccini 188 Ugo Foscolo T20 Proemio e dedica a Canova 189 Le Grazie, vv. 1-26

T21 L’apparizione delle Grazie 191 Le Grazie, Inno I, vv. 65-86 online T22 Inno II Le Grazie, vv. 111-125

T23 Il velo delle Grazie 193 Le Grazie, Inno III, vv. 31-85

6 Foscolo ieri e oggi 196 PER APPROFONDIRE Gadda contro Foscolo 198 Sintesi con audiolettura 199 Zona Competenze 202 VERSO L’ESAME DI STATO

online

Tipologia A Analisi del testo Ugo Foscolo Non son chi fui, perì di noi gran parte 203 204 Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo 206 Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita Le ultime lettere di Jacopo Ortis Odi e Sonetti Cronologia interattiva Carta interattiva dei luoghi

3 Romanticismo/romanticismi

Per approfondire Alter ego ed eteronimi: da Foscolo a Pessoa Analisi interattiva Immagini interattive Audioletture

207

1 Un fenomeno complesso 208 2 La concezione estetica del Romanticismo 210 PER APPROFONDIRE Chi sono i moderni per i romantici? Tutta l’arte moderna è romantica? 212 Novalis D1 Il poeta veggente 213 Frammenti di letteratura

D2

La contrapposizione antichi/moderni 215

Friedrich Schiller D2a La poesia moderna nasce dal sentimento 215 Sulla poesia ingenua e sentimentale

XVI

INDICE


August Wilhelm Schlegel D2b La poesia moderna è frutto della visione cristiana 218 Corso di letteratura drammatica

Victor Hugo

online D3 Poesia romantica e grottesco Cromwell

Sintesi con audiolettura 220 Zona Competenze 220

4 La rivoluzione della poesia in Europa

221

1 Una nuova sensibilità poetica 222 2 La poesia romantica in Germania 223 1 Novalis: la poesia come esperienza esoterica 223 Novalis T1 Primo inno alla notte

LEGGERE LE EMOZIONI

224

Inni alla notte, I

PER APPROFONDIRE Dal mito illuminista della luce alla predilezione romantica per la notte 227

2 La poesia di Hölderlin: tra “assenza” e “rifondazione” 228 Friedrich Hölderlin T2 Quand’ero fanciullo online T3 La struggente aspirazione al divino

230

Canto del destino di Iperione

3 La poesia romantica in Inghilterra 232 1 La prima generazione romantica 232 Samuel Coleridge T4 La ballata del vecchio marinaio I, vv. 51-82; II, vv. 107-142

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

233

2 La seconda generazione romantica 237 George Byron T5 Il pellegrinaggio del giovane Aroldo 240 John Keats T6 Ode su un’urna greca 241 Percy Bysshe Shelley online T7 Un inno all’amore universale Filosofia dell’amore

T8

Inno alla Bellezza intellettuale 245

Vv. 1-26; 54-85

Sintesi con audiolettura 248 Zona Competenze 248

INDICE

XVII


5 Il romanzo europeo

249

1 Il successo del genere romanzo 250 2 Il romanzo storico e realista 252 1 Il romanzo storico 252 Walter Scott T1 L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe

LEGGERE LE EMOZIONI

255

Ivanhoe, XII

Victor Hugo online T2 Il gobbo di Notre-Dame: la storia si tinge di gusto dell’orrido Notre-Dame de Paris I, 5; XI, 4

2 Il romanzo a impianto realista 258 Jane Austen T3 L’orizzonte esistenziale di un’anziana coppia di borghesi campagnoli Orgoglio e pregiudizio, I

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

265

#PROGETTOPARITÀ

online T4 Lo scontro tra Lizzy e Lady Catherine Orgoglio e pregiudizio, III, LVI

Stendhal T5 Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone

LEGGERE LE EMOZIONI

268

Il rosso e il nero, cap. V

Honoré de Balzac T6 La costruzione di un ambiente e di un microcosmo sociale: la pensione Vauquer 270 Papà Goriot, I online T7 La costruzione di un personaggio: il signor Grandet Eugénie Grandet, I

3 Verso il Naturalismo: Madame Bovary

274

1 Gustave Flaubert 274 2 Madame Bovary: uno scandaloso romanzo di successo 274 EDUCAZIONE CIVICA

La condizione di impotenza della donna e il fenomeno secondo le NUOVE CIVICA del “bovarismo” EDUCAZIONE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

279

#PROGETTOPARITÀ

PER APPROFONDIRE Un realismo venato di simbolismo 280 Gustave Flaubert T8 Una distorta educazione sentimentale

280

Madame Bovary, parte I, cap. VI

T9

Le delusioni di un matrimonio piccolo-borghese

EDUCAZIONE CIVICA

Madame Bovary, parte I, cap. VII

secondo le NUOVE Linee guida

PARITÀ DI GENERE equilibri

285

#PROGETTOPARITÀ

SGUARDO SUL CINEMA Madame Bovary, un “soggetto” di successo 289 online T10 La scintillante chimera dell’“altrove”: il ballo al castello Madame Bovary, parte I, cap. VIII online T11 L’ebbrezza dell’amore adultero: Emma e Rodolphe Madame Bovary, parte II, cap. IX

XVIII INDICE


online T12 La morte di Emma Madame Bovary, parte III, cap. VIII

Sintesi con audiolettura 290

online

Zona Competenze 292 Per approfondire Eugénie Grandet

6 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

293

1 L’emergere della narrativa di carattere fantastico 294 1 Alle origini del genere “fantastico” 294 2 Il romanzo gotico 295 PER APPROFONDIRE Le strategie della narrazione fantastica 295

3 Il maestro del terrore e dell’orrore: Edgar Allan Poe 297 PER APPROFONDIRE Il piacere di aver paura 298 Edgar Allan Poe T1 La rivisitazione del codice gotico 299 Il ritratto ovale online T2 La poetica dell’effetto e dell’eccesso La maschera della Morte Rossa

Ann Radcliffe

online D1 Un castello misterioso I misteri di Udolpho

4 Il fantastico visionario di Hoffmann 303 Ernst Theodor Amadeus Hoffmann T3 L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà

LEGGERE LE EMOZIONI

305

L’Orco Insabbia

5 Il tema del vampiro 311 Théophile Gautier

online T4 Il mistero di Clarimonda si svela La morta innamorata

6 Frankenstein: la modernità come mostro 311 Mary Shelley T5 La creazione dell’uomo artificiale Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

314

SGUARDO SUL CINEMA Il mito di Frankenstein 317 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Silvia Albertazzi Significato dell’irrompere del fantastico sulla scena letteraria

318

Sintesi con audiolettura 320 Zona Competenze 321 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

322

INDICE

XIX


online

Per approfondire La fortuna del mito di Prometeo Ottocento al nero: suggestioni gotiche e fantastiche

7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

323

1 Il dibattito sul Romanticismo in Italia 324 1 Un nuovo movimento 324 PER APPROFONDIRE La «Biblioteca italiana» (1816-1840) 324 Altre due importanti riviste: «L’Antologia» e «Il Politecnico» 328 D1 La polemica classico-romantica 329 Pietro Giordani

online D1a “Un italiano” risponde al discorso della de Staël «Biblioteca italiana», aprile 1816

Arnaldo

online D1b Una parodia dei seguaci del Romanticismo Parodia dello statuto d’una immaginaria Accademia romantica

Pietro Borsieri

online D1c Elogio del romanzo Avventure letterarie di un giorno

Giovanni Berchet D1d Il nuovo pubblico della letteratura romantica

LEGGERE LE EMOZIONI

329

Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

2 Il genere egemone del Romanticismo italiano: il romanzo storico 333

2 Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 335 1 L’autore 335 2 Il romanzo 335 Ippolito Nievo

online T1 L’esordio del romanzo Le confessioni di un italiano, cap. I

T2

Il conte di Fratta, emblema della società feudale 338

Le confessioni di un italiano, cap. I

T3

Carlo Altoviti incontra un Napoleone molto diverso dal mito 339

Le confessioni di un italiano, cap. X

T4

La bufera della storia e la fine di un mondo

LEGGERE LE EMOZIONI

343

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

Le confessioni di un italiano, cap. XVIII

T5

La Pisana, una figura femminile fuori dagli stereotipi

Le confessioni di un italiano, cap. VIII

PARITÀ DI GENERE equilibri

345

#PROGETTOPARITÀ

3 Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 349 1 Il problema dell’identità: «fare gli italiani» 349 PER APPROFONDIRE Il dibattito sul carattere dei popoli 350

XX

INDICE


2 Andare al passato per costruire il futuro: le memorie dei patrioti 351 Luigi Settembrini T6 Una conversazione tra compagni di cella 353 Ricordanze della mia vita, Tre giorni in cappella, 1

Giuseppe Cesare Abba T7 «Cavalcava un baio da gran Visir»: l’apparizione dell’eroe 355 Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille

3 Il best seller del Risorgimento: Le mie prigioni di Silvio Pellico 357 Silvio Pellico T8 La comune umanità di carcerati e carcerieri

LEGGERE LE EMOZIONI

358

Le mie prigioni, LXII online T9 «Ho io a cessare d’esser uomo per quella canaglia di chiavi?»: il carceriere Schiller Le mie prigioni, LXVIII

4 La celebrazione epica del Risorgimento: la lirica patriottica 361 Goffredo Mameli D2 Il canto degli italiani

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

363

PER APPROFONDIRE Gli ideali in musica: il melodramma ottocentesco 365 Giuseppe Verdi (librettista Temistocle Solera)

online T10 Va’, pensiero, sull’ali dorate: il canto struggente di un popolo in prigionia Coro del terzo atto del Nabucco

SGUARDO SUL CINEMA Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione 366 VERSO IL NOVECENTO Il Risorgimento fallito: l’amara visione di tre scrittori siciliani

367

Federico De Roberto

online T11 Il Risorgimento da farsa degli Uzeda I Viceré I, 8

Sintesi con audiolettura 368 Zona Competenze 370 VERSO L’ESAME DI STATO

online

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

Verso il Novecento Il Risorgimento rivisitato di Luciano Bianciardi

8 La poesia dialettale

371

Per approfondire Il Risorgimento al cinema I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

373

1 La poesia in dialetto, lingua del “vero” 374 2 I poeti dialettali 375 1 Carlo Porta, un testimone della storia milanese 375 PER APPROFONDIRE La “linea lombarda”: realismo, moralità, sperimentazione linguistica 377

INDICE

XXI


T1

Due momenti della storia nella poesia di Porta 378

Carlo Porta

online T1a Paracarr che scappee de Lombardia Poesie, 22

T1b La preghiera

EDUCAZIONE CIVICA

secondo le NUOVE Linee guida

378

2 Giuseppe Gioachino Belli e la voce del popolo di Roma 384 Giuseppe Gioachino Belli T2 Il programma di Belli: un ritratto fedele del popolo romano 386 Introduzione ai Sonetti

T3

La vita da cane 389

Sonetti, 515

T4 La Roma dei papi: una città violenta 391 secondo le EDUCAZIONE NUOVE T4a L’aducazzione 391 CIVICA Linee guida Sonetti, 2

online T4b Chi ccerca trova Sonetti, 399 online T5

La miseria del popolo di Roma

online T5a La bbona famijja Sonetti, 47 online T5b La famijja poverella Sonetti, 413

T6 La filosofia e la teologia dei popolani 393 LEGGERE T6a Er caffettiere fisolofo LE EMOZIONI 393 Sonetti, 180

T6b La creazzione der monno 395 Sonetti, 20 INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giuseppe Petronio Roma e il mondo nello specchio deformante dell’ottica popolare

398

Sintesi con audiolettura 400 Zona Competenze 401 VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Giuseppe Gioachino Belli Er giorno der giudizzio

401

Sonetti, 37

online

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

402

Verso il Novecento La poesia dialettale nel Novecento

9 Alessandro Manzoni

404

1 Ritratto d’autore 406 1 Una vita schiva e riservata 406 PER APPROFONDIRE La ricerca di figure paterne sostitutive 408 SGUARDO SULL’ARTE La “scena di conversazione” 411

XXII INDICE


2 La visione politica, storica e religiosa 412 Alessandro Manzoni D1 «Un utopista e un irresoluto»: una spietata autoanalisi

EDUCAZIONE CIVICA

Lettera a Giorgio Briano

D2

secondo le NUOVE Linee guida

LEGGERE LE EMOZIONI

413

Una religiosità problematica e tormentata 414

Lettera a Diodata Saluzzo di Roero online D3 Un Dio implacabile Il Natale del 1833

3 Il rapporto con il Romanticismo e la poetica del vero 415 TESTI IN DIALOGO • La poetica del vero: una letteratura al servizio dell’etica

418

Alessandro Manzoni D4a «Sentir e meditar» 418 Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 202-215

D4b Il vero dello storico e il vero del poeta 419 Lettre à Monsieur Chauvet

D4c «L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo» 420 Lettera sul Romanticismo

D5

Contro lo «spirito romanzesco» 422

Lettera a Claude Fauriel del 29 maggio 1822

2 Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 423 1 Il progetto di una nuova epica cristiana: gli Inni sacri Alessandro Manzoni secondo le NUOVE T1 La Pentecoste EDUCAZIONE CIVICA Linee guida

423 425

Inni sacri

2 La poesia civile 430 Alessandro Manzoni secondo le NUOVE T2 Marzo 1821 EDUCAZIONE CIVICA Linee guida T3

Il cinque maggio

432

436

3 La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi

441

1 Il dibattito sul paradigma classico e i caratteri della tragedia manzoniana

441

2 Il conte di Carmagnola

443

LEGGERE LE EMOZIONI

Alessandro Manzoni

online T4 «S’ode a destra uno squillo di tromba» Il conte di Carmagnola, coro del II atto, vv. 1-32; 121-128 online T5 Il monologo di Marco: il dramma dell’amicizia sconfitta Il conte di Carmagnola, atto IV, scena II, vv. 270-350

3 Adelchi

445

PER APPROFONDIRE L’opposizione tra personaggi del “fare” e personaggi del “sentire” 447 INDICE XXIII


Alessandro Manzoni T6 «Dagli atrii muscosi…»

EDUCAZIONE CIVICA

Adelchi, coro del III atto

T7

«Sparsa le trecce morbide…»

Adelchi, coro del IV atto

T8

secondo le NUOVE Linee guida

EDUCAZIONE CIVICA

448 secondo le NUOVE Linee guida

Il testamento spirituale di Adelchi

PARITÀ DI GENERE equilibri

452

#PROGETTOPARITÀ

EDUCAZIONE CIVICA

Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362

secondo le NUOVE Linee guida

4 I promessi sposi

457

460

1 La scelta del romanzo come “letteratura del vero” 460 2 Le fonti e i modelli letterari 461 3 Una storia redazionale lunga e tormentata 463 4 L’espediente dell’anonimo e lo statuto del narratore 466 5 La trama, gli itinerari della narrazione, il rapporto tra macrostoria e microstoria 467 PER APPROFONDIRE Tempo del narrato e tempo della narrazione 470

6 Il sistema dei personaggi e la raffigurazione della società secentesca 471 7 L’ideologia del romanzo 472 8 La Storia della colonna infame: tra responsabilità individuali e silenzio della provvidenza 475 9 Le scelte linguistiche e stilistiche 478 PER APPROFONDIRE Una riflessione mai esaurita 480 T9

La voce narrante nei Promessi sposi 481

Alessandro Manzoni T9a «Quel ramo del lago di Como»: lo sguardo onnisciente del narratore 481 I promessi sposi, I INTERPRETAZIONI CRITICHE

Umberto Eco Manzoni, narratore che crea un mondo

484

T9b Il narratore esibisce il proprio ruolo registico 486 I promessi sposi, XI online T9c Il rapporto narratore-anonimo I promessi sposi, XXVII; XXXVIII online T9c1 La “scienza” di don Ferrante, erudito del Seicento I promessi sposi, XXVII online T9c2 Il sipario del romanzo si chiude I promessi sposi, XXXVIII

T10 I luoghi del romanzo e la rappresentazione dello spazio 487 LEGGERE T10a L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...» LE EMOZIONI 487 I promessi sposi, VIII

online T10b La natura “umanizzata” (o la natura specchio): la fuga di Renzo I promessi sposi, XVII

T10c La valle e il castello dell’Innominato: un esempio di cronotopo 491 I promessi sposi, XX

XXIV INDICE


online T10d La natura senza idillio I promessi sposi, IV; XXXIII

I segni della carestia online T10d1 I promessi sposi, IV La vigna di Renzo: una raffigurazione dichiaratamente simbolica online T10d2 I promessi sposi, XXXIII T11 Gli inganni della parola e il potere sociale della lingua 494 T11a Renzo e don Abbondio: la subdola violenza del latinorum

EDUCAZIONE CIVICA

I promessi sposi, II

secondo le NUOVE Linee guida

494

online T11b Renzo e l’Azzeccagarbugli I promessi sposi, III

PER APPROFONDIRE Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi 498 T12 La logica oppositiva dei personaggi 499 T12a Fra Cristoforo affronta don Rodrigo 499 I promessi sposi, V-VI

T12b «Come un pulcino negli artigli del falco»: don Abbondio e il cardinale Federigo 504 I promessi sposi, XXV online T13 Le “voci” della folla in rivolta e il giudizio del narratore I promessi sposi, XII-XIII

T14 Il volto problematico della provvidenza e il «sugo di tutta la storia» 508 T14a Il filo inaspettato (ma illusorio) della provvidenza: il vecchio servitore di don Rodrigo 508 I promessi sposi, VI

T14b Una provvidenza dall’inaspettato volto turpe: Renzo e i monatti

511

I promessi sposi, XXXIV

VERSO IL NOVECENTO La “lettura con la lente” di uno scrittore: Primo Levi 515 T14c La “peste-provvidenza” di don Abbondio 516 I promessi sposi, XXXVIII INTERPRETAZIONI CRITICHE

Ezio Raimondi Sul concetto di provvidenza nei Promessi sposi

517

T14d Il «sugo» della storia 518 I promessi sposi, XXXVIII online T15 Una scena “gotica”. La cavalcata infernale di don Rodrigo Fermo e Lucia, IV; IX INTERPRETAZIONI CRITICHE

Lanfranco Caretti La portata innovativa del romanzo manzoniano

5 La ricezione dei Promessi sposi

520

522

1 Un romanzo destinato a colpire l’immaginario collettivo 522 2 Il sacro e il profano: il romanzo tra riprese, trascrizioni, parodie e appropriazioni indebite 522 3 Manzoni e il Novecento: alcuni esempi 526 Sintesi con audiolettura 529 Zona Competenze 533

INDICE

XXV


VERSO L’ESAME DI STATO

Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano Alessandro Manzoni Una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta

534

I promessi sposi, IX

online

Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo

XXVI INDICE

Lezione in PowerPoint Videolezioni La vita La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi I Promessi sposi Cronologia interattiva Carta interattiva dei luoghi Gallery Iconografia manzoniana Verso il novecento Marguerite Yourcenar, Un imperatore di fronte alla morte: Adriano

535 La letteratura dell’ordine opposta al caos del mondo Audio e Video Brani video degli sceneggiati televisivi di Vittorio Gassman (1961) con lo stesso Gassman e di Orazio Costa (1974) con Gabriele Lavia Mappa interattiva Vite a confronto delle figure femminili nei Promessi sposi I promessi sposi: i personaggi Analisi interattiva Immagini interattive Audioletture


Ottocento


2


Ottocento

Scenari socio-culturali Neoclassicismo e Romanticismo

LEZIONE IN POWERPOINT

Tra la visione del mondo che si afferma nell’età romantica, tra fine Settecento e primo Ottocento, e la visione illuminista esiste più frattura che continuità. In rapporto ai traumatici mutamenti storici e sociali (la rivoluzione industriale) emerge nell’immaginario romantico il tema centrale del conflitto tra individuo e società. L’eroe romantico, che soprattutto i romanzi propongono alle giovani generazioni come nuovo modello umano, si ribella alle convenzioni sociali, aspira a un mondo ideale diverso da una realtà prosaica e meschina, ama in modo totale e passionale ed è preda dei conflitti e dell’infelicità: ma proprio questo lo rende diverso e superiore. Alla visione materialistico-meccanicistica dell’Illuminismo si contrappone lo spiritualismo romantico, la tensione a superare i limiti della realtà fenomenica per raggiungere l’Assoluto, l’Infinito, la visione di una natura pervasa dallo Spirito, in cui l’Io si rispecchia. Nel Romanticismo, inoltre, nasce l’idea di nazione, fondata sulle qualità specifiche di un popolo, il suo spirito, le sue tradizioni. La fisionomia e la condizione degli intellettuali cambiano e inizia a profilarsi un nuovo pubblico di massa.

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche e forme della letteratura nella prima metà 3 Caratteri dell’Ottocento 4 L’evoluzione della lingua 3


Neoclassicismo e Romanticismo Sguardo sulla storia L’età napoleonica L’ascesa di Bonaparte Il Settecento si chiude e l’Ottocento si apre nel nome di Napoleone Bonaparte. La sua straordinaria ascesa politica inizia al comando dell’Armata d’Italia contro la coalizione antifrancese (1796-1797). Dopo il colpo di stato del 18 brumaio egli è uno dei tre consoli con i pieni poteri. Designato “Primo console” e poi “Console a vita” da un plebiscito (1802), nel 1804 è proclamato imperatore dei francesi, incoronato dal papa nella chiesa di Notre Dame. L’impero Grazie alle sue vittorie contro le coalizioni degli stati europei, l’Europa fino alla Polonia è sotto il dominio o il controllo di Napoleone. Solo Austria e Prussia, ridotte territorialmente, conservano l’indipendenza. Il regime napoleonico Messe a tacere l’opposizione e la stampa, delle conquiste della Rivoluzione restano l’abolizione dei diritti feudali, il principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la libertà di iniziativa economica. A questi principi si ispirano il Codice civile (del 1804, progressivamente esteso a tutti i paesi annessi o controllati dalla Francia) e il Codice penale (1810), che fanno dello stato napoleonico un modello per la modernizzazione della società europea. La fine La campagna di Russia contro lo zar Alessandro I si rivela un disastro nonostante l’enorme impiego di uomini. Sconfitto a Lipsia (1813), l’anno successivo Napoleone è relegato all’isola d’Elba. La fuga e il tentativo di riprendere il potere si concludono a Waterloo e con l’esilio definitivo nella sperduta isola di Sant’Elena.

Cronologia interattiva 1790 1796

Il generale Bonaparte, al comando dell’armata francese, scende in Italia.

1800

1810

1820 1820-21

1802

Bonaparte è proclamato console a vita.

Moti liberali in Europa e Italia. 1804

Napoleone è proclamato imperatore.

1812

Spedizione di Napoleone in Russia.

1805

Sconfitta di Napoleone a Trafalgar a opera dell’ammiraglio Nelson.

4 Ottocento Scenari socio-culturali

1830

1815

Battaglia di Waterloo. 1815

Conclusione del congresso di Vienna.

1830

Con la rivoluzione di luglio, a Parigi sale al trono Luigi Filippo d’Orléans. 1831

Mazzini fonda la Giovane Italia.


L’Italia Le repubbliche giacobine La discesa in Italia nel 1796 del generale Bonaparte segna l’avvio del “triennio rivoluzionario”, con la formazione delle cosiddette “repubbliche giacobine”. Le speranze di indipendenza riposte nell’intervento militare francese sono però deluse dal trattato di Campoformio (1797), che cede all’Austria la Repubblica di Venezia in cambio del riconoscimento austriaco della Cisalpina. Nel 1799 la seconda coalizione antifrancese, appoggiata dalle sollevazioni dei contadini, pone fine alle repubbliche giacobine, con un esito particolarmente cruento a Napoli. L’Italia napoleonica Dopo la proclamazione di Napoleone a imperatore, nella penisola sono costituiti nuovi regni, governati da suoi familiari o da generali fedeli. Le riforme introdotte (l’eliminazione dei privilegi feudali e le nuove legislazioni nel diritto civile, penale e commerciale) creano le premesse per una società più moderna.

La Restaurazione in Europa Il congresso di Vienna L’obiettivo di riportare l’Europa alla situazione politica e sociale precedente la rivoluzione francese ispira le decisioni del congresso di Vienna (1814-1815) a cui partecipano i rappresentanti delle potenze vincitrici contro Napoleone (Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria). La monarchia assoluta è riconosciuta come la forma legittima di governo e dagli stati devono essere banditi i residui istituzionali e ideologici rivoluzionari e napoleonici. Solo l’Inghilterra e la Francia hanno un regime costituzionale. La Santa Alleanza A garantire la stabilità del nuovo ordine viene costituita la Santa Alleanza fra Russia, Austria e Prussia, aperta anche alla Francia. Ispirata, per volontà dello zar Alessandro I, a una visione religiosa, s’impegna alla solidarietà nei confronti dei sovrani assoluti per il mantenimento del loro potere, contro ogni forma di cambiamento.

1840

1850

1860

1848

Il Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. 1848

1851

Colpo di stato di Napoleone III.

1852

In Piemonte primo governo Cavour.

Prima guerra di indipendenza.

1870

1861

1858

1860

Incontro di Plombières tra Napoleone III e Cavour.

Spedizione dei Mille e fine del Regno delle due Sicilie.

Proclamazione del Regno d’Italia.

1856

Guerra di Crimea a cui partecipa un contingente piemontese. 1859

Seconda guerra d’indipendenza.

Sguardo sulla storia  5


Le società segrete e i moti liberali In questo clima repressivo si diffondono associazioni segrete a carattere cospirativo. I loro programmi – l’Unità nazionale, le libertà politiche, la costituzione – variano a seconda delle diverse realtà. La prima offensiva contro l’assolutismo nel 1820-21 (in Spagna, Portogallo e Italia meridionale) è repressa dall’intervento militare delle forze della Santa Alleanza, che annulla le conquiste attuate. Nel decennio successivo l’opinione pubblica europea appoggia i movimenti di liberazione nazionali, di cui la Grecia diventa emblema. Nel 1830 a Parigi una sollevazione popolare di impronta liberale moderata pone fine alle politiche liberticide di Carlo X e porta sul trono Luigi Filippo d’Orléans.

Il Quarantotto Le rivolte Nella difficile congiuntura economica della fine anni Quaranta, a Parigi, nel febbraio del 1848, una rivolta popolare proclama la repubblica democratica con il suffragio universale. La protesta si propaga a Vienna, Berlino, Milano, Praga fino a diventare una rivoluzione europea. Mentre in Francia l’obiettivo è la democrazia politica e sociale, in Germania è l’unificazione e nell’impero austro-ungarico l’indipendenza politica dei popoli sottomessi. La fase rivoluzionaria a Parigi si conclude nel giugno del 1848 con la repressione violenta del proletariato parigino. Nell’impero austro-ungarico il ritorno al potere della monarchia asburgica con la forza è favorito dall’eterogeneità etnica e politica delle nazionalità insorte e dal loro isolamento sociale. L’Europa dopo la seconda Restaurazione La repressione delle rivoluzioni del ’48 riporta al potere i sovrani assoluti e le forze conservatrici. In Francia la borghesia appoggia il regime autoritario di Luigi Bonaparte, che nel 1852 diventa imperatore col nome di Napoleone III.

Horace Vernet, Barricate in Rue Soufflot, Parigi, 25 giugno 1848, 1848-1849 (Berlino, Deutsches Historisches Museum).

6 Ottocento Scenari socio-culturali


Il Risorgimento italiano e l’Unità La Giovane Italia Dopo il fallimento dei moti carbonari del 1820-21 e del 1830-31, la Giovane Italia di Giuseppe Mazzini propugna l’Unità d’Italia e la repubblica, da perseguire con la partecipazione popolare. Di orientamento democratico e repubblicano è anche il progetto di Carlo Cattaneo, sostenitore di una federazione di stati. Il biennio riformatore Negli anni Quaranta il movimento di indipendenza nazionale trova sostenitori tra i moderati. I cattolici neoguelfi, con Vincenzo Gioberti, individuano in papa Pio IX la guida di una confederazione degli stati italiani, mentre i liberali di Cesare Balbo aspirano a una direzione da parte del regno sabaudo. Tra il 1846 e il 1848 i sovrani italiani concedono una moderata libertà di stampa e organi rappresentativi con potere solo consultivo. La prima guerra di indipendenza Nel gennaio 1848, dopo il re di Napoli, anche Carlo Alberto di Savoia, il granduca di Toscana e il papa concedono la costituzione. La sollevazione popolare a Milano durante le Cinque giornate (18-23 marzo) in cui vengono scacciati gli austriaci, convince Carlo Alberto a dichiarare guerra all’Austria, con l’iniziale appoggio di truppe e volontari del papa e degli altri stati italiani. La sconfitta militare spinge i democratici a riprendere l’iniziativa, dando vita alle repubbliche di Roma e Venezia, entrambe represse dopo una lunga resistenza, la prima all’esercito francese, la seconda a quello austriaco. Il Piemonte di Cavour Dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, il re Vittorio Emanuele II mantiene lo statuto albertino, facendo dello stato sabaudo il punto di riferimento per i liberali. Il primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, artefice della modernizzazione economica e giuridica del Piemonte, ottiene la partecipazione alla guerra di Crimea (1855) contro la Russia a fianco di Francia e Inghilterra e pone al congresso di Parigi la questione dell’indipendenza dell’Italia. La seconda guerra d’indipendenza L’alleanza difensiva stipulata da Cavour con Napoleone III induce l’Austria all’intervento che dà inizio alla seconda guerra d’indipendenza (1859). In seguito alla vittoria franco-piemontese, l’armistizio di Villafranca riconosce la cessione della Lombardia al Piemonte, a cui si annettono anche la Toscana e l’Emilia con i plebisciti del 1860. La spedizione dei Mille e il regno d’Italia Il partito d’Azione, fondato da Mazzini nel 1853, si fa promotore della spedizione dei Mille in Sicilia sotto la guida di Garibaldi. Vinto l’esercito borbonico, le regioni del Sud vengono consegnate a Vittorio Emanuele, che nel frattempo aveva liberato le terre dello Stato pontificio. Nel marzo 1861 viene proclamato il regno d’Italia.

Ritratto fotografico di Giuseppe Garibaldi realizzato a Napoli nel 1861 (Washington, Biblioteca del Congresso).

Sguardo sulla storia  7


1

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 Un trauma storico Un’epoca di rapidi rivolgimenti politici Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento viene meno la fiducia che sia possibile comprendere il presente attraverso i modelli conoscitivi e i parametri interpretativi del passato: la nuova epoca è infatti caratterizzata dalla diffusa percezione di una traumatica discontinuità e di conseguenza è caratterizzata dalla distinzione (o addirittura dal rovesciamento) rispetto al modello culturale dell’Illuminismo, dominante nel Settecento. Una percezione ben spiegabile se si pensa al rapido e violento mutare dello scenario storico-politico in un arco di tempo breve: passa solo una trentina d’anni tra la rivoluzione francese (1789), la rapida ascesa e l’altrettanto rapido declino di Napoleone, l’avvento della Restaurazione (1815) e i primi movimenti rivoluzionari (in Italia nel 1821). Un periodo così denso di radicali rivolgimenti storico-politici non poteva non lasciare tracce rilevanti nell’immaginario del tempo. Una trasformazione epocale: la rivoluzione industriale Agli sconvolgimenti politici si aggiunge e si sovrappone un mutamento epocale anche in ambito economico-sociale: già a partire dai primi decenni dell’Ottocento l’Europa vive il fenomeno, in breve tempo dirompente, della rivoluzione industriale. Primo dei paesi europei ad avviare l’industrializzazione, nell’ultimo ventennio del XVIII secolo, è l’Inghilterra (in particolare nel settore della filatura e della tessitura), seguita a breve da Belgio e Francia, quindi verso la metà dell’Ottocento da Germania e Stati Uniti; l’Italia entrerà nel processo solo a partire dagli ultimi due decenni del XIX secolo. La rivoluzione industriale produce cambiamenti così radicali nel modo di vivere che il “nuovo” che si profila all’orizzonte non può non suscitare sgomento, incertezza, addirittura paura. Il nuovo volto del lavoro e la metamorfosi del paesaggio Nei primi decenni del secolo si trasformano infatti, in un modo che non può non risultare inquietante, le modalità del lavoro e muta il volto stesso del paesaggio. Con la diffusione e la concentrazione delle fabbriche, parte delle masse contadine lascia infatti le campagne, si inurba (si trasferisce a vivere nelle città) e si proletarizza (vende cioè il proprio lavoro ai proprietari delle fabbriche ricevendone in cambio un salario). Chi lavora nelle industrie, soprattutto in Inghilterra, si concentra nei quartieri operai, che si formano o in prossimità delle fabbriche o nelle zone più degradate delle grandi città: migliaia di individui, compresi donne e bambini – a loro volta sfruttati come mano d’opera a basso costo – convivono in condizioni di promiscuità in case malsane, prive d’acqua e di servizi igienici. Nell’immaginario del tempo la città industriale – come la Coketown poi ritratta da Charles Dickens nel suo romanzo Tempi difficili (1854) – e le zone operaie delle grandi città si configurano come luoghi infernali, contrapposti al familiare e rassicurante paesaggio agreste.

8 Ottocento Scenari socio-culturali


2 Un nuovo immaginario e un nuovo universo tematico Una premessa necessaria Di questi complessi mutamenti socio-antropologici, a cui abbiamo qui solo accennato, oltre che naturalmente di quelli politici, occorre tenere conto per comprendere i grandi temi del primo Romanticismo (quello tedesco e inglese), ma anche alcuni motivi del Neoclassicismo, come la nostalgia di un’armonia passata ormai perduta, che caratterizzano la cultura europea tra la fine del Settecento e il primo quindicennio dell’Ottocento, cioè l’età napoleonica (che, in Germania in particolare, è al contempo già età romantica). Nell’ambito dei modelli di comportamento, dei nuclei dell’immaginario a cui faremo riferimento in questa prima parte, il modello egemone è il Romanticismo, preparato per alcuni aspetti e alcune singole opere da autori come Goethe e Foscolo e da tendenze che si suole definire “preromantiche” (➜ C1). Intendiamo qui il concetto di “Romanticismo” in senso lato: prima ancora che un movimento letterario, con una sua poetica (a cui facciamo specifico riferimento al ➜ C3), esso è infatti una nuova sensibilità, un nuovo modo di vedere l’uomo, la realtà, la vita, la storia, che si contrappone nettamente all’Illuminismo. Una nuova sensibilità e una nuova visione che si concretizzano in nuovi temi, che si possono ritrovare anche in autori e opere che non appartengono ancora al Romanticismo vero e proprio (come Foscolo) e che interagiscono con il gusto e la visione del Neoclassicismo.

L’eroe romantico

Parola chiave

L’emergere dell’“io” All’esaltazione illuminista della dimensione razionale, capace di accomunare gli uomini persino di diversi paesi, si contrappone l’interesse romantico per ciò che distingue un individuo da un altro, facendone un’entità unica e irripetibile: quell’insieme di qualità spirituali che i romantici chiamano genio e che sono enfatizzate in alcuni individui superiori alla comune umanità (gli eroi). L’individuo romantico ha caratteristiche inconfondibili: vive nella condizione dell’inappagamento, della tensione, ha una sensibilità iperacuta, è costantemente in balìa del conflitto interiore, percepito come costitutivo del suo spirito (non a caso il personaggio shakespeariano di Amleto diventa per i romantici quasi l’emblema della loro condizione interiore). Esemplare in tal senso è il romanzo René (1802 ➜ D1 ) di François-Auguste-René de Chateaubriand (1768-1848). Il racconto è condotto in prima persona dal protagonista: uno spirito inquieto, votato all’infelicità, che rievoca il proprio tormentato

genio Nella mitologia classica il termine genio significa “nume tutelare”, uno spirito buono che assiste l’uomo dalla nascita alla morte; nelle fiabe è il nome generico con cui si designano spiriti dotati di potere magico che abitano l’aria e la terra (simili a gnomi e folletti). In un’accezione completamente diversa, genio si riferisce all’indole, anche al talento di una persona, alla sua attitudine specifica (con le quali qualcosa o qualcuno si può o meno accordare: da qui l’espressione andare a genio). Tra Sette e Ottocento l’uso del termine definisce lo spirito distintivo, le

qualità specifiche di una persona o anche di un popolo, di una nazione, o persino di una religione (come nel caso del Genio del Cristianesimo di Chateaubriand, del 1802). L’uso oggi prevalente del termine è quello che ne fa un sinonimo di “genialità”, una nozione ereditata dall’età romantica, in rapporto, come detto, alla valorizzazione dell’individuo e delle sue qualità: il termine genio allude alle doti eccezionali di un individuo in campo letterario, artistico, scientifico ecc. (da qui espressioni come “il genio di Dante” o “Machiavelli fu un genio della politica”).

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 9


itinerario esistenziale che lo induce, dopo un lungo peregrinare, a cercare pace e serenità in una colonia indiana della Louisiana (dove poi incontra una morte violenta). Il culto degli eroi L’emergere dell’io viene enfatizzato nel culto degli eroi, personaggi di statura umana superiore, teorizzato dal filosofo-poeta inglese Thomas Carlyle (Degli eroi, del culto degli eroi e dell’eroico nella storia, 1841), ed effettivamente presente nella stessa realtà storica: eroe è infatti Napoleone agli occhi dei contemporanei, che ne seguono la straordinaria avventura politica; eroe sarà per molti italiani Garibaldi; eroe romantico per antonomasia è il poeta inglese Byron (1788-1824), figura-mito in cui si identificano le giovani generazioni per la sua vita ribelle alle convenzioni. Ma Byron traspone nelle sue stesse opere la figura dell’eroe ribelle, solitario e insofferente dei vincoli sociali: ne sono esempio il personaggio di Harold (Pellegrinaggio del giovane Aroldo, 1812 la prima parte) e quello di Manfred, protagonista della omonima tragedia (1816-1817). La presenza di una dimensione eroica accomuna molti personaggi letterari del tempo, fino al capitano Achab, protagonista del celebre romanzo di Melville Moby Dick (1851). Gli eroi sono personaggi caratterizzati da forti passioni, spesso in lotta contro le convenzioni sociali e le regole della politica, impegnati in una sfida titanica contro tutto ciò che può risultare limitante, fino alla ricerca della morte grandiosa o alla scelta estrema del suicidio, concepito non come fuga ma come estrema autoaffermazione contro la mediocrità del vivere e l’angustia delle convenzioni. Non a caso l’eroe della mitologia greca Prometeo, che ha osato sfidare Zeus, è una delle figure di riferimento del primo Ottocento e ispira molte composizioni letterarie, artistiche e musicali. Il mito della giovinezza Spesso gli eroi mitizzati dalla letteratura romantica sono giovani: è stato osservato che per la prima volta nella storia si può parlare di vero e proprio conflitto generazionale, poiché si verifica una netta frattura tra il sapere, le idee, i rigidi modelli di comportamento dei padri e l’anticonformismo, i generosi ideali dei figli. Nasce in questo periodo il mito della giovinezza.

François-René de Chateaubriand

D1 F.-R. de Chateaubriand, René, a cura di A.M. Scaiola, Marsilio, Venezia 2001

Le inquietudini di René, prototipo dell’eroe romantico Il racconto lungo René delinea il prototipo del giovane eroe infelice preda dell’inquietudine e di una logorante insoddisfazione, destinato a larga fortuna nella letteratura romantica e capace di influenzare, contrariamente alle intenzioni dell’autore, i comportamenti stessi delle giovani generazioni.

«Quella vita, che all’inizio mi aveva affascinato1, mi diventò presto insopportabile. Mi stancai della ripetizione delle stesse scene e delle stesse idee. Cominciai a scandagliare il mio cuore, a domandarmi quel che desideravo. Non lo sapevo; ma credetti all’improvviso che avrei trovato i boschi molto gradevoli. Eccomi subito risoluto a 5 concludere, in un esilio campestre, un cammino di vita appena iniziato, e nel quale avevo già divorato secoli. 1 Quella vita... affascinato: il continuo viaggiare, che si rivela ben presto inef-

10 Ottocento Scenari socio-culturali

ficace come terapia al tedio esistenziale di René.


«Intrapresi quel progetto con l’entusiasmo che metto in tutti i miei propositi; partii precipitosamente per seppellirmi in una casa di campagna, come un tempo ero partito per fare il giro del mondo. 10 «Mi accusano di avere gusti incostanti, di non poter accontentarmi a lungo della stessa chimera2, d’essere in balìa di un’immaginazione che si affretta a consumare fino in fondo i piaceri, come se fosse oppressa dalla loro durata3; mi accusano di oltrepassare sempre l’obiettivo che posso raggiungere: ahimé! cerco soltanto, sollecitato dall’istinto, un bene sconosciuto. È colpa mia, se trovo ovunque limiti, se 15 quel che è finito non ha per me alcun valore? Tuttavia sento che la monotonia dei sentimenti della vita mi piace, e se fossi ancora tanto pazzo da credere nella felicità4, la cercherei nell’abitudine. «La solitudine assoluta, lo spettacolo della natura, mi gettarono ben presto in uno stato quasi indescrivibile. Senza parenti, senza amici, per così dire solo sulla terra, 20 non avendo ancora amato, ero oppresso da una esuberanza di vita. A volte arrossivo all’improvviso, e sentivo colare nel mio cuore come rivoli di una lava ardente; a volte gridavo involontariamente, e la notte era in egual misura turbata dai sogni e dalle veglie. Mi mancava qualcosa per riempire l’abisso della mia esistenza: scendevo a valle, salivo in montagna, invocando con tutta la forza dei miei desideri 25 l’ideale oggetto di una fiamma futura; l’abbracciavo nei venti; credevo di sentirlo nei gemiti del fiume: tutto era quel fantasma immaginario, gli astri nei cieli, e il principio stesso della vita nell’universo». 2 chimera: illusione. 3 Mi accusano... dalla loro durata: René è effettivamente quello che oggi definiremmo un nevrotico, sempre oscillante

fra opposte pulsioni (l’autore usa spesso aggettivi in coppia antitetica per descriverne la psicologia) e alla fine comunque insoddisfatto, “mancante” (costante è l’uso

dell’avverbio senza per definirne le qualità interiori). 4 e se... nella felicità: il mito dell’infelicità è tipico della sensibilità romantica.

Concetti chiave Una riflessione sul romanzo

René fu pubblicato nel 1802, all’interno del Genio del Cristianesimo, l’opera che Chateaubriand scrive per esaltare questa religione: nelle intenzioni dell’autore, la vicenda del protagonista avrebbe dovuto costituire una sorta di apologo in negativo, a sostegno indiretto del valore della fede, che per Chateaubriand è l’unico rimedio a un’inquietudine considerata sterile. Il personaggio di René divenne, invece, un prototipo dell’eroe romantico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Di che cosa si sente accusato René? ANALISI 2. Individua le espressioni che rappresentano lo stato d’animo di perenne insoddisfazione e inquietudine di René.

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di circa 10 righe commenta le parole di René, «ero oppresso da una esuberanza di vita» (r. 20), a proposito della sua esperienza.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 11


La scoperta del lato “notturno” dell’io L’intuizione dell’inconscio Nel Romanticismo l’attenzione all’Io, ma anche il desiderio di evadere dai limiti costrittivi della realtà fenomenica porta già a intuire, molto tempo prima delle fondamentali scoperte di Freud (L’interpretazione dei sogni è del 1900), la dimensione dell’inconscio, la “parte notturna” di ognuno di noi: una parte sconosciuta, che suscita inquietudine ma che, per i romantici, ci mette in comunicazione con l’essenza di noi stessi e della realtà. «Dentro di noi, o in nessun altro luogo, stanno i segni dell’eternità, il passato e il futuro» scrive il poeta-filosofo tedesco Novalis (➜ C4 T1 ). Per i romantici l’inconscio ci mette in contatto con l’anima, con la parte eterna di noi che è in comunione con il Tutto; si tratta dunque di una concezione dell’inconscio comunque ben diversa da quella freudiana. Anche l’obiettivo del “viaggio interiore” dei romantici è lontanissimo da quello della “psicologia del profondo” successiva: mentre per quest’ultima i contenuti rimossi vanno riportati alla luce della coscienza, per i romantici, al contrario, la coscienza deve in qualche modo annullarsi di fronte a una dimensione misteriosa ma rivelatrice di verità. Alla natura profonda del nostro Io ci ricongiungono il sogno, l’estasi, gli stati ipnotici, ma anche la poesia, così come la intendono i romantici tedeschi: ogni vero artista possiede infatti un «senso interiore» che lo rende veggente, «mago» (Novalis). Il linguaggio del sogno Grande influenza esercitò in questo senso un testo di G.H. von Schubert, La simbolica del sogno (1814 ➜ D2 OL). Lettore appassionato dei poeti romantici Novalis e Tieck, discepolo spirituale del filosofo Schelling, studioso del pensiero mistico, Schubert mette in luce le capacità rivelatrici del sogno e sostiene quindi la necessità di apprenderne il misterioso linguaggio. Nella sua opera Schubert offre già un catalogo delle immagini ricorrenti dei sogni e alcune chiavi interpretative di esse, mostrando piena consapevolezza del legame inquietante tra il sogno e il nostro lato oscuro. Al tema del sogno attinge assai spesso la letteratura fantastica, che trova grande sviluppo nella cultura europea durante il Romanticismo (➜ C6). È soprattutto lo scrittore tedesco Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822), singolare personaggio vicino agli ambienti romantici, interessato ai fenomeni del magnetismo e dell’ipnosi – assai in voga in quegli anni – lettore di testi mistici e magici, a introdurre nei suoi racconti figure di sognatori e visionari, che possiedono un “sesto senso” in grado di portarli a scoprire nella realtà usuale strani segni e inusitate corrispondenze.

online D2 G.H. von Schubert

Il linguaggio del sogno La simbolica del sogno

12 Ottocento Scenari socio-culturali

Johann Heinrich Füssli, L’incubo, 1781 (Detroit, Institute of Arts).


Una nuova visione della natura Dalla natura “macchina” alla natura pervasa dal divino La concezione romantica della natura è opposta a quella illuministica: alla visione di una natura e di un universo soggetti a inesorabili leggi meccanicistiche, che solo il metodo impersonale della scienza può indagare, si contrappone la considerazione della natura come organismo vivo, in cui si riflette la vita universale dello Spirito, della quale l’individuo stesso è parte: una concezione sostanzialmente panteista (Goethe stesso si definiva tale e considerava la natura «veste vivente della divinità» (➜ C1). Non lo scienziato, ma il poeta – e più ancora il musicista – può pienamente decifrare il mistero della natura e cogliere l’infinito che si manifesta nelle sue forme. La visione newtoniana del cosmo, adottata dagli illuministi, non è stata capace di rispondere alle domande fondamentali dell’uomo, che si ripropongono con nuova forza in un periodo storico traumatico. Sono molti i testi che danno voce a questa profonda insoddisfazione: dal Faust di Goethe (1808 ➜ C1) ai Canti leopardiani (quasi una “messa in scena” lirica di questa insoddisfazione si ritrova nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, uno dei più suggestivi testi del poeta di Recanati. Le domande che il pastore-Leopardi rivolge alla luna-natura e che rimangono senza risposta traducono l’angoscia romantica di fronte al cosmo illuministico retto, attraverso leggi immutabili, da un impersonale dio-orologiaio. La natura come specchio dell’Io Allo studio scientifico dei fenomeni fisici si sostituisce ora l’attenzione ai riflessi che la contemplazione della natura suscita nell’interiorità del soggetto. Anche per influenza della filosofia idealistica, la natura è percepita e ritratta dagli scrittori e artisti romantici come specchio degli stati d’animo del soggetto: essa può essere una natura amica, confidente, rasserenante (comunque lontana dagli scenari idillici della tradizione letteraria), oppure, e forse più spesso, paesaggio cupo, inquietante, misterioso, “sublime”, che traduce le inquietudini dell’io romantico.

Parola chiave

L’angoscia per l’avanzare della civiltà industriale La visione soggettiva e animata della natura, oltre che una ribellione alla dittatura della scienza, può essere anche considerata come una reazione all’angoscia che la rivoluzione industriale crea negli spiriti più sensibili: l’avanzare dell’industrializzazione snatura e sconvolge il volto del paesaggio, incrinando l’atavica familiarità tra uomo e natura. Il tema può allora colorarsi di nostalgico rimpianto per un bene perduto, per un mondo lontano di bellezza e armonia, come nella lirica di Hölderlin Alla natura (➜ D3b ). In questo senso anche la contemplazione della natura (come la mitizzazione del mondo antico) può essere inserita nel tema più generale della Sehnsucht romantica.

Sehnsucht Vera parola chiave della sensibilità romantica, significa “male del desiderio”: identifica appunto il senso di lacerante inappagamento che caratterizza l’uomo romantico, il senso struggente della privazione, dell’“assenza” e il conseguente desiderio di qualcosa che non c’è. La Sehnsucht può assumere

il volto dell’amata lontana o scomparsa, oppure di una patria che ancora non esiste storicamente, dell’ideale calpestato dal pragmatismo politico (come in Foscolo), del divino e dell’Assoluto di cui i moderni si sentono orfani; ma in ogni caso il “male del desiderio” è destinato a non essere mai appagato.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 13


Il mito del paradiso perduto e il “male del desiderio” La frattura tra passato e presente, tra antichi e moderni Soprattutto nel Romanticismo tedesco è diffusa la dolorosa percezione di una frattura tra un tempo passato idealizzato e il presente, il mito di un’armonia con la natura, di una pienezza di vita che l’uomo moderno ha inesorabilmente perduto. Fin dal 1800 Schiller, nell’importante saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, formula quella distinzione fra antichi e moderni che sarà più volte ripresa dai romantici e identifica la condizione dell’uomo moderno come infelice, conflittuale, inappagata. Una condizione sintetizzata dalla parola tedesca Sehnsucht. Da questo senso di inappagamento, che connota in particolare la sensibilità romantica, deriva poi la fuga nello spazio (l’esotismo, il culto dell’Oriente) e nel tempo (la mitizzata Grecia antica, il Medioevo, ma anche il passato personale, cioè l’infanzia). Proprio perché il presente delude o addirittura angoscia, la poesia romantica è infatti spesso poesia del ricordo o del presentimento. La felicità esiste solo nel passato o nel futuro: un tema centrale anche nella poesia leopardiana. Il contrasto tra finito e infinito Ma la ricerca di armonia è destinata a essere sempre frustrata perché il vero contrasto che tormenta lo spirito romantico è quello tra la dimensione del finito, in cui si sente imprigionato, e quella dell’infinito, dell’Assoluto a cui la sua anima tende. Proprio questa aspirazione identifica la «coscienza infelice» dell’uomo moderno, secondo la celebre espressione hegeliana (anche a questa aspirazione dà voce Leopardi nella sua più celebre lirica, L’infinito). Solo nell’arte, e in particolare nella musica, la forma artistica più amata dai romantici, ogni contraddizione si compone e lo spirito è veramente libero dai vincoli terreni. Solo l’arte supera davvero il tempo e lo spazio. online

online

Un Notturno di Fryderyk Chopin

Al chiaro di Luna di Beethoven

Audio

Audio

IMMAGINE INTERATTIVA

Caspar David Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna, olio su tela, 1818 (Berlino, Alte Nationalgalerie). In questo dipinto le figure umane sono ritratte di spalle, in ombra, e sembrano quasi delle sagome di elementi naturali che si confondono nel paesaggio circostante. L’uomo e la donna contemplano la luna, emblema dell’ignoto spirito della Natura.

14 Ottocento Scenari socio-culturali


Testi In dialogo

La comunione Io-natura e il “male del desiderio” I testi proposti permettono di evidenziare come la nascente sensibilità romantica investisse di nuovi significati la natura, istituendo profonde e inusitate sintonie tra il soggetto e gli elementi naturali. I due passi sono fondati su un analogo tema: la rievocazione struggente e nostalgica di un rapporto di sintonia tra Io e natura - che al tempo della scrittura appare a entrambi gli autori ormai perduto - e l’intuizione di un’unione profonda di tutti gli esseri nell’universo, in cui si manifesta la presenza dello spirito divino. Una concezione spiritualistica in un certo senso panteistica assai diffusa, in particolare, nel Romanticismo tedesco

Johann Wolfgang Goethe

D3a

La vita sacra della natura e l’aspirazione dell’uomo all’infinito I dolori del giovane Werther, lettera del 18 agosto

J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

Il passo è tratto da I dolori del giovane Werther (1774 ➜ C1), romanzo di Goethe che viene considerato il manifesto della sensibilità preromantica.

18 agosto1 [...] Un tempo, quando contemplavo dalla rupe la fertile vallata fino alle colline oltre il fiume, e vedevo tutto germogliare e zampillare intorno a me [...], quando osservavo quei monti rivestiti di alberi alti e folti dal piede alla vetta, quelle valli dai variegati 5 profili, ombreggiate da amenissimi boschi, e vedevo il fiume scorrere placido tra il fruscìo dei canneti e rispecchiare le amate nuvole, che il venticello della sera cullava nel cielo [...]. Quando udivo intorno a me gli uccelli animare il bosco e vedevo miriadi di moscerini danzare frenetici nell’ultimo roseo raggio di sole il cui estremo guizzo di luce liberava lo scarabeo ronzante dall’involucro d’erba, e tutto quel brulichìo di 10 vita intorno a me richiamava la mia attenzione alla terra; e il muschio che trae il nutrimento dalla dura roccia, e la ginestra che prospera sulle aride colline sabbiose mi rivelavano l’intima, ardente, sacra vita della natura: come assorbivo tutto questo nel mio caldo cuore; mi sentivo come divinizzato in quella straripante pienezza, mentre le splendide forme del mondo infinito pulsavano vivificanti nella mia anima. 15 Enormi montagne mi attorniavano, abissi mi si spalancavano davanti, torrenti precipitavano a valle, fiumi scorrevano sotto di me, e bosco e montagna ne risuonavano. E tutte quelle insondabili forze io le vedevo agire e creare l’una insieme con l’altra nella profondità della terra; e sopra la terra e sotto il cielo ecco brulicare esemplari dei più svariati esseri. Tutto, tutto, popolato di mille forme differenti. E gli uomini 20 intanto si ritirano al sicuro nelle loro casette, vi si annidano e da lì signoreggiano – secondo loro – nel vasto mondo. Povero stolto sei tu, che giudichi infima ogni cosa solo perché sei tanto piccolo. Dalle inaccessibili montagne al deserto che nessun piede ha calpestato fino all’estremità dell’oceano inesplorato, alita lo spirito dell’eterno creatore, che gioisce d’ogni granello di polvere che lo accoglie e vive. Oh, quante 25 volte allora ho desiderato di librarmi sulle ali della gru che mi stava sorvolando, fino alla riva del mare sconfinato, di bere al calice spumeggiante dell’infinito quell’esaltante ebbrezza del vivere e di provare, soltanto un attimo, nello spazio angusto del mio petto, una stilla di beatitudine di quell’Essere che tutto crea in sé e da sé. […] 1 18 agosto: la lettera di Werther è all’amico Wilhelm.

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Friedrich Hölderlin

D3b F. Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993

Alla natura Nella poesia di Hölderlin (1770-1843), uno dei più grandi poeti tedeschi del primo Ottocento (➜ C4), è ricorrente il tema dell’assenza del sacro e del bello nella storia e anche nel tempo della vita di ogni uomo. In questa composizione il poeta lega il tema della privazione alla natura, che nelle sue ispirate parole assume l’aspetto di un universo pervaso dal divino e dall’infinito, a cui l’anima dell’uomo moderno si rivolge con struggente desiderio.

Quando ancora giocavo col tuo velo1 e in te mi radicavo come un fiore, e sentivo il tuo cuore in ogni suono battere delicato con il mio2, 5 ed ero come te ricco di fede e di richiami – guardavo la tua immagine, trovavo ancora un luogo per le lagrime, ancora un mondo per il mio amore; e quando ancora mi volgevo al sole 10 come se ricevesse la mia voce, e le stelle chiamavo mie sorelle, la primavera musica di Dio; e un vento che muoveva appena il bosco il tuo spirito era e la tua gioia 15 che muoveva le calme onde del cuore, – mi avvolsero davvero giorni d’oro3. Nella valle ove fresca era la fonte ed il giovane verde dei cespugli giocava al fianco delle calme rocce 20 e l’Etere4 tra i rami traluceva, e quando intorno i fiori traboccavano ed ebbro5 ne bevevo il calmo alito, e dall’alto scendevano su me circonfuse di luce nubi d’oro: e quando mi allontanavo per la landa6, dove nella penombra degli abissi cantava il fiume un canto di titani7, 25

1 Quando... tuo velo: il “tu” a cui il poeta si rivolge è lo Spirito della natura. Già questa scelta allocutiva, che ricorre in tutta la lirica, suggerisce un’intimità tutta particolare tra l’Io lirico e la natura. 2 e sentivo... con il mio: il riferimento ai due cuori, del poeta e della natura, che battono all’unisono; si allude alla piena armonia tra uomo e natura. 3 mi avvolsero... giorni d’oro: è questa la proposizione principale,

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anticipata dalle due subordinate temporali (v. 1 «Quando ancora»; v. 9 «e quando ancora»). Il poeta fa uso di suggestive immagini metaforiche («le calme onde del cuore», «mi avvolsero», «giorni d’oro») per rappresentare la pienezza di vita che caratterizzava il passato e la cui descrizioneesaltazione occupa quasi tutta la lirica. Solo le ultime due strofe, aperte dall’antitetica notazione temporale Ora (v. 49) sono incen-

trate sul presente.

4 l’Etere: l’aria (ma la maiuscola, personalizzandola, ne fa un’entità benefica). 5 ebbro: la bellezza della natura produce un effetto inebriante nell’Io lirico. 6 landa: in questa strofa la natura ha un volto diverso, in rapporto a un paesaggio aspro e deserto, non più idillico ma sublime. 7 cantava... di titani: nella mitologia greca i titani si ribellarono a


e una notte di nubi mi chiudeva, e la bufera con i suoi marosi 30 tempestosi viaggiava alla montagna, e le fiamme del cielo mi avvolgevano: anima della Natura, mi apparisti. Spesso ebbro di lagrime e d’amore8 come i fiumi che hanno errato a lungo 35 sentono il desiderio dell’Oceano, io mi perdetti nella tua pienezza, o bellezza del mondo! e insieme a tutti gli esseri, via dalla solitudine del tempo, pellegrino che torna nella casa 40 paterna, mi gettai nell’Infinito9. Voi benedetti, sogni dell’infanzia, che celaste la povertà del vivere10: nutriste i buoni germi del mio cuore e ciò che non conquisterò, donaste11. 45 Nella tua luce e nella tua bellezza Natura, senza pena né violenza, simile ad un arcadico12 raccolto, crebbe il frutto regale dell’amore. Ora quel mondo della giovinezza, 50 che mi allevò e mi placò, è morto; e questo petto che colmava un cielo è come un campo arido di stoppie. La primavera canta alle mie pene amica come allora e consolante 55 ma l’alba della vita è dileguata, primavera del cuore è già sfiorita. Sempre dovrà il più amato amore intristire. Ed è ombra ciò che amiamo13. Poiché i giovani sogni sono morti, 60 morta è per me quella Natura amica. Questo nei giorni lieti non provasti, come la patria tua ti è lontana, né mai, povero cuore, ne saprai, se non ti basterà vederla in sogno. Zeus, il padre degli dei; la suggestiva espressione metaforica, usata qui da Hölderlin, allude dunque al volto rabbioso e violento della natura. 8 ebbro di lagrime e d’amore: l’espressione identifica l’eroe romantico, preda delle passioni e delle emozioni. 9 pellegrino... nell’Infinito: è vi-

vo nella cultura romantica tedesca il senso della vita come esilio e pellegrinaggio, nell’idea che l’Assoluto, l’infinito siano la vera patria, l’approdo. 10 che celaste la povertà del vivere: le illusioni, i sogni dell’età infantile sono stati capaci di nascondere il vuoto, l’assenza della bellezza e la perdita del divino.

11 e ciò... donaste: i sogni e le illusioni della prima età hanno donato al poeta (illusoriamente) ciò che non riuscirà a possedere veramente. 12 arcadico: qui vale “idillico, sereno”. 13 Ed è ombra ciò che amiamo: quello che amiamo è destinato a sfiorire, a morire.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nel testo di Goethe (➜ D3a ), quale rapporto esiste fra il sentirsi «divinizzato» del protagonista (r. 13) e il desiderio espresso nell’immagine finale? ANALISI 2. Spiega il significato dell’espressione «mi rivelavano l’intima, ardente, sacra vita della natura» (rr. 11-12 ➜ D3a ) 3. Nella lirica di Hölderlin (➜ D3b ) l’elemento costante è la comunione Io-natura; nelle prime tre strofe però è rappresentata una natura diversa – se non addirittura opposta – a quella presentata nella quarta strofa. Spiega, sulla base degli elementi testuali, questa differenza. 4. Nelle due strofe finali del testo di Hölderlin (➜ D3b ) ricorrono insistentemente immagini negative, legate all’area semantica della morte e dell’aridità dello spirito: identificale e spiegale in rapporto al contesto e al significato complessivo della lirica.

Interpretare

SCRITTURA 5. In un testo di circa 15 righe, spiega in che modo viene rappresentata e percepita la natura da Goethe e da Hölderlin.

La rinascita dell’interesse per la dimensione spirituale e trascendente La sfiducia nei Lumi e la svalutazione del materialismo Il Romanticismo è un modello culturale originato, come si è detto, dalle ferite della storia: la violenza e il terrore scatenati durante la rivoluzione francese e le sanguinose guerre napoleoniche creano i presupposti di una sfiducia nei Lumi della ragione propagandati in tutta Europa dagli illuministi e di una nuova apertura alla dimensione del trascendente. Se l’Illuminismo è stato per eccellenza un modello di pensiero laico, immanentistico, materialistico, in alcuni casi apertamente ateistico, il movimento romantico è invece caratterizzato da una riscoperta della dimensione religiosa. Un nuovo bisogno di fede «Liberate la Religione, e un’umanità nuova avrà principio»: così scrive già nel 1798 Friedrich Schlegel, uno dei padri del Romanticismo, in uno dei Frammenti pubblicati su «Athenaeum». Un anno dopo, nello scritto La cristianità ovvero l’Europa (1799) il poeta tedesco Novalis, tra i primi grandi romantici, auspica una riconversione dell’Europa che la riporti alla religiosità che era stata propria del Medioevo (➜ D4 OL). Del 1802 è il testo celebrativo della fede Il genio del Cristianesimo di René de Chateaubriand. Le diverse manifestazioni dello spiritualismo romantico Comune alle diverse culture romantiche è la nostalgia dell’Assoluto e del divino, di cui l’uomo romantico si sente “orfano”. Da tale condizione psicologica e spirituale però possono nascere tendenze diverse, anche in rapporto alle particolari caratteristiche che il Romanticismo assume nei vari contesti europei: da un lato uno spiritualismo misticheggiante, diffuso soprattutto in Germania, ma presente anche in Inghilterra; dall’altro un’aperta adesione alle religioni positive: è il caso del nostro maggiore romanziere, Alessandro Manzoni che, ritrovata la fede cattolica, vi dedicherà la propria attività di scrittore. In lui l’adesione al Cattolicesimo si associa a convinte idee liberali, critiche verso ogni forma di dogmatismo e verso il potere temporale della Chiesa, mentre in altri scrittori la difesa della religione cristiana è associata a visioni politiche conservatrici, che sostengono il connubio trono-altare, pilastro ideologico della Restaura-

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zione. Anticipa questa tendenza fin dal 1802 il già citato Genio del Cristianesimo di Chateaubriand, ma il testo più indicativo a questo proposito è Del papa (1819) di De Maistre, che conferisce alla riscoperta della religione tratti dichiaratamente reazionari. online D4 Novalis

Erano belli i tempi in cui l’Europa era una terra cristiana La cristianità ovvero l’Europa

La riscoperta della storia e l’emergere dell’idea di nazione Culto del passato e storicismo romantico I romantici hanno un vero e proprio culto del passato, che costituisce uno dei più vistosi elementi di contrapposizione rispetto all’Illuminismo. Gli illuministi tendevano a cogliere nel passato (in particolare in epoche come il Medioevo) soprattutto l’irrazionalità, l’oscurantismo, l’inciviltà. In ogni caso, la storia passata era considerata espressione di una civiltà ancora imperfetta e quindi sostanzialmente svalutata, mentre era mitizzato il futuro, in nome dell’avanzata vittoriosa della ragione e dei diritti dell’uomo. L’atteggiamento dei romantici verso la storia è diverso e per certi aspetti addirittura opposto: essi scoprono, infatti, il senso del divenire storico, che rende ogni epoca diversa da un’altra e perciò non interpretabile attraverso rigidi e astratti parametri, gettando così le basi dello storicismo moderno. Il fascino del “primitivo” e il mito romantico del Medioevo I romantici avvertono poi particolarmente il fascino del “primitivo”: amano le saghe, le leggende popolari, che sono riscoperte e studiate come patrimonio mitico specifico delle singole nazioni, nel quale si rispecchia lo Spirito (il particolare e già citato genio) dei popoli. Viene riscoperto specialmente il Medioevo, esaltato sia in quanto epoca cristiana per eccellenza, sia in quanto momento in cui si sono formate le nazioni europee, differenziandosi anche linguisticamente dalla comune matrice latina: nasce il mito romantico del Medioevo come “primavera dei popoli” e grande età poetica. In Italia il recupero del Medioevo si colorerà di componenti patriottiche: nel nostro paese il Medioevo sarà visto soprattutto come l’età dei comuni, la cui lotta contro l’Impero poteva avere evidenti riscontri con il presente del popolo italiano, in lotta contro lo straniero.

Parola chiave

Romanticismo e identità nazionale Al cosmopolitismo illuministico i romantici contrappongono l’identità delle singole nazioni , che si fonda non su norme astratte né su confini geografici convenzionali, ma sullo Spirito del popolo

nazione Il termine nazione deriva dal verbo latino nasci, “nascere”; perciò la radice prima di nazione richiama il concetto di origine, luogo di nascita (proprio in questo senso il termine è usato da Dante nella celebre profezia del veltro, quando il poeta allude al luogo di origine del misterioso salvatore dell’Italia: «e sua nazion sarà tra feltro e feltro», If I 105). Nel periodo del Romanticismo, in particolare in Germania, si rafforza un’idea di nazione come insieme di specifici caratteri etnici, culturali, storici e linguistici. È quello che i romantici

chiamano Volksgeist, “genio della nazione”. Nell’uso che si afferma a partire soprattutto dall’Ottocento e che è tuttora vigente, la nazione diventa sinonimo di unità politica: è l’insieme di cittadini, governo e istituzioni di un paese. Rispetto a patria e anche a popolo, nazione ha un significato più politico che culturale e/o sentimentale-affettivo. La nazione fa anche riferimento a una serie di simboli distintivi della comunità nazionale, primo tra tutti la bandiera o l’inno nazionale.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 19


online Audio

Chopin, La caduta di Varsavia

(Volksgeist in tedesco). Ogni popolo-nazione ha specifiche, originali, caratteristiche di razza, di istituzioni, di lingua, cultura, religione: «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor», dirà, con immagine felicemente sintetica Manzoni riferendosi all’Italia nell’ode patriottica Marzo 1821 (➜ C9 T2 ). Scrittori, filosofi e uomini politici cercano di definire la specifica identità della nazione. Di «Spirito della nazione» parla fin dal 1808 il filosofo dell’Idealismo tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) nei Discorsi alla nazione tedesca (➜ D5 OL), scritti con l’obiettivo di stimolare l’orgoglio del popolo tedesco contro l’occupazione napoleonica. Per Foscolo, che in tanti temi anticipa lo spirito romantico, l’identità di un popolo è nelle memorie, nell’eredità lasciata dai grandi uomini del passato (➜ C3); il poeta dei Sepolcri è tra i primi a dar voce in Italia al senso della patria , ideale che fruttifica nel primo Ottocento e ispira i movimenti insurrezionali in Europa.

Dallo stato alla patria Allo stato, entità enfatizzata dall’Illuminismo, alla richiesta di concrete riforme per renderlo più moderno e giusto, si sostituisce la patria: «concetto-mito» (Puppo) che nulla ha a che fare con il Contrattualismo e il Pragmatismo settecentesco. Che stato e patria siano cose ben diverse lo dimostra in modo lampante anche il diverso uso del linguaggio in ambito online politico presente in età romantica: riferendosi alla patria il diD5 Johann Gottlieb Fichte Popolo e patria scorso politico si fa appassionato, animandosi di componenti Discorsi alla nazione tedesca, discorso VIII emotive, come si può notare nel passo di Mazzini (➜ D6 OL). Amare la patria, lottare per essa diventa quasi una “religione”, online D6 Giuseppe Mazzini che ispira pagine appassionate anche ai musicisti (ad esemLa “religione della Patria” e il nuovo pio Chopin): come la religione ha avuto i suoi martiri, così la linguaggio politico Dei doveri dell’uomo patria chiede ai suoi figli, a volte, il sacrificio della vita stessa.

Immaginario e mentalità Sconvolgimenti storici e rivoluzione industriale e sociale

Parola chiave

•v alorizzazione dell’individuo • l ’eroe romantico e il titanismo • s coperta del lato “notturno” e viaggio nell’interiorità •n uova visione della Natura: specchio dell’Io e organismo vivente pervaso dallo Spirito • “ male del desiderio” e anelito all’infinito •v isione antimaterialistica • s toricismo e idea di nazione •a mor di patria

patria Il termine patria deriva dall’aggettivo latino patrius, che letteralmente significa “paterno”, ma anche “relativo alla terra degli avi”. La patria è il paese al quale si sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia, tradizioni, ideali. Rappresenta certamente anche una realtà territoriale, ma sempre vista con una connotazione ideale: quando si usa il termine patria si sottolinea un sentimento di appartenenza affettiva più che geografica.

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In Italia, per le circostanze storiche specifiche del nostro paese che ne ostacolarono a lungo l’unificazione, per secoli la patria è un mito o, ancor più, un topos letterario, un ideale ricorrente costruito dalla letteratura e nutrito da componenti letterarie e retoriche (ne è esempio la celebre Canzone all’Italia di Petrarca). Con l’inizio dei moti risorgimentali, che porteranno all’unificazione del paese, la patria diventa un valore per cui lottare in ambito politico e per cui dare anche la vita.


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Federico Chabod Romanticismo e concetto di nazione F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, Bari 1979

Federico Chabod (1901-1960), grande studioso di storia della politica, ritiene che il nuovo «principio di nazione» sia da ricondurre alle idee generali che ispirano la rivoluzione romantica.

Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica. Si giunge al principio di nazione in quanto si giunge ad affermare il principio di individualità, cioè ad affermare, contro tendenze generalizzatrici ed universalizzanti, il principio del particolare, del singolo. Per questo, l’idea di nazione sorge e trionfa con il sor5 gere e il trionfare di quel grandioso movimento di cultura europeo, che ha nome Romanticismo: affondando le sue prime radici già nel secolo XVIII, appunto nei primi precorrimenti del modo di sentire e pensare romantico, trionfando in pieno con il secolo XIX, quando il senso dell’individuale domina il pensiero europeo. L’imporsi del senso della «nazione» non è che un particolare aspetto di un movi10 mento generale il quale, contro la «ragione» cara agli illuministi, rivendica i diritti della fantasia e del sentimento, contro il buon senso equilibrato e contenuto proclama i diritti della passione, contro le tendenze a livellare tutto, sotto l’insegna della filosofia, e contro le tendenze anti-eroe del Settecento, esalta precisamente l’eroe, il genio, l’uomo che spezza le catene del vivere comune, le norme tradizionali care 15 ai filistei borghesi, e si lancia nell’avventura. [...] Ma sul terreno politico fantasia e sentimento, speranze e tradizioni non potevano avere che un nome: nazione. La reazione contro le tendenze universalizzanti dell’Illuminismo (in politica, l’assolutismo illuminato), che aveva cercato leggi valide per ogni governo, in qualsivoglia parte del mondo si fosse, sotto qualunque clima e con tradizioni diversissime, e 20 aveva proclamato uguali le norme per l’uomo saggio, a Pechino come a Parigi; questa reazione non poteva che mettere in luce il particolare, l’individuale, cioè la nazione singola. [...]. Ora, con-tro le tendenze cosmopolitiche, universali, tendenti a dettar leggi astratte, valide per tutti i popoli, la «nazione» significa senso della singolarità di ogni popolo, rispetto per le sue proprie tradizioni, custodia gelosa delle 25 particolarità del suo carattere nazionale. [...] Il secolo XIX conosce, insomma, quel che il Settecento ignorava: le passioni nazionali. E la politica, che nel Settecento era apparsa come un’arte, tutta calcolo, ponderazione, equilibrio, sapienza, tutta razionalità e niente passione, diviene con l’Ottocento assai più tumultuosa, torbida, passionale; acquista, l’impeto, starei per dire il fuoco delle grandi passioni; diviene 30 passione trascinante e fanatizzante com’erano state, un tempo, le passioni religiose.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Qual è il nesso esistente tra Romanticismo e idea di nazione? 2. Come avviene il passaggio dal sentimento alla volontà di nazione? 3. Perché lo storico presenta l’emergere del concetto di nazione come necessaria conseguenza sul piano politico della contrapposizione, propria del movimento romantico, alla concezione illuministica? 4. Ti sembra che le osservazioni di Chabod, soprattutto nell’ultima parte del passo critico, siano applicabili al linguaggio politico usato da Mazzini in ➜ D6 OL?

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3 I valori e i modelli di comportamento Una rivoluzione antropologica Una nuova mentalità Più ancora che una rivoluzione letteraria e filosofica, il Romanticismo fu una rivoluzione nella mentalità, che trasformò i modi di sentire e la percezione del sé, generando nuovi modelli di comportamento. Una rivoluzione messa in atto anche da alcuni reali protagonisti della scena storico-culturale del tempo: è il caso di lord Byron, i cui atteggiamenti, sempre estremi ed esibiti, si impongono all’ammirazione e all’imitazione delle giovani generazioni.

Joseph Severn, Ritratto di John Keats, olio su tela, 1821- 1823 (Londra, National Portrait Gallery).

Dall’autocontrollo all’esibizione dell’interiorità Il Romanticismo segna un vero e proprio spartiacque nel modo con cui l’individuo si rappresenta e comunica l’immagine di sé. Il soggetto si propone in pubblico senza filtri e remore: non è casuale che il termine “confessione” ricorra anche nei titoli delle opere letterarie, dalle Confessioni di Rousseau (1781), testo chiave della sensibilità preromantica, alle Confessioni d’un italiano (1857-58) di Nievo. Per secoli l’autocontrollo e la reticenza su particolari intimi della propria vita erano stati considerati valori comportamentali essenziali; dai romantici, invece, sono respinti come indice di mediocrità e ipocrisia. È indicativa al proposito la dicotomia (ripresa anche nell’Ortis di Foscolo) tra Werther, il protagonista del romanzo di Goethe, passionale ed “eccessivo” in tutte le sue manifestazioni, e il saggio, razionale, equilibrato Albert (➜ C1). L’irrompere dell’interiorità nella rappresentazione letteraria determina il proliferare di forme di “scrittura dell’Io”: dalle vere e proprie autobiografie ai romanzi autobiografici (come il Werther, l’Ortis, Obermann di Sénancourt, Adolphe di Constant ecc.), in cui sono utilizzate forme espressive enfatiche e sentimentali. Forme espressive presenti anche nelle lettere personali, che si sottraggono definitivamente agli schemi convenzionali e letterari della tradizione per farsi spesso confessione diretta dei propri stati d’animo, com’è evidente in molte lettere foscoliane (➜ C2). Dal diritto alla felicità al “privilegio” dell’infelicità L’Illuminismo aveva sostenuto con forza il diritto del singolo e della collettività alla felicità. Al contrario, la cultura romantica propone come modelli umani e comportamentali personaggi irrealizzati, tormentati, preda della malinconia e della sofferenza, che arrivano a “corteggiare” la morte (da Goethe a Foscolo, da Novalis a Keats e Leopardi) e a volte la incontrano davvero nella scelta estrema del suicidio. C’è nei romantici quasi il compiacimento del dolore, considerato indice di nobiltà di spirito rispetto al conformismo e alla prosaicità della massa («Soffri e sii grande» dice l’amico Anfrido ad Adelchi, il più romantico dei personaggi manzoniani). Dalla “sociabilità” alla solitudine Proprio perché si sentono diversi e incompresi, i romantici amano la solitudine, il contatto con la natura,

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come abbiamo visto nel passo del Werther (➜ D3a ); una condizione esemplarmente rappresentata in un celeberrimo dipinto di Caspar David Friedrich (Viandante sul mare di nebbia, 1818, NELLA PAGINA DI APERTURA DI QUESTO CAPITOLO). Anche in questo caso si manifesta l’opposizione a un valore prettamente illuminista: la “sociabilità”.

Il modello borghese della famiglia Il ruolo del padre Già nei primi decenni dell’Ottocento, soprattutto nella classe borghese, la famiglia assume un ruolo etico e simbolico molto forte, segnalato dal diffondersi della consuetudine del ritratto di famiglia. Sconfitto in ambito politico, il potere assolutistico si ripropone all’interno della famiglia, della quale è enfatizzato il ruolo sia nel controllo autoritario dei comportamenti sia nella trasmissione dei valori fondamentali della società borghese: il rispetto della morale e delle tradizioni, che è compito dei genitori, e in particolare del padre, custodire contro ogni infrazione e devianza. Della famiglia il padre è il capo indiscusso e indiscutibile: solo il padre gode dei diritti politici, possiede e gestisce i beni, e solo a lui spetta la sorveglianza dei membri della famiglia: la disobbedienza e la devianza dalle regole non sono ammesse e devono essere corrette a ogni costo. Ai figli minorenni è di fatto equiparata la moglie (ad esempio il marito ha diritto di ispezionare la posta della moglie senza che nessuno lo giudichi illegale). Il contegno dei figli e della moglie non deve in alcun modo dare scandalo, offendendo l’onore della famiglia: per l’immagine della famiglia borghese l’onore e la rispettabilità, infatti, sono un capitale simbolico altrettanto importante del capitale reale. Sposa e madre esemplare/donna perduta: i due volti della figura femminile Nel corso dell’Ottocento la donna assume soprattutto il volto della “padrona di casa”, dedita all’educazione dei figli e all’attenta gestione dell’immagine della famiglia

La colazione in un palazzo italiano in un dipinto di autore sconosciuto del 1807. Se il “cuore” simbolico della casa-focolare è il camino, attorno a cui la famiglia si riunisce, vero centro della vita familiare e dei nuovi rituali sociali della borghesia ottocentesca è la sala da pranzo, che acquista un’importanza sempre maggiore nelle case borghesi: è a pranzo che si sbrigano gli affari e si combinano i matrimoni. Il pasto stesso diventa un rito, a cui la padrona di casa, custode dell’immagine della famiglia, dedica molta attenzione, curando l’apparecchiamento e il menu.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 23


attraverso i riti che ne scandiscono la vita sociale. Le attività intellettuali autonome che portino la donna fuori dall’universo familiare sono ostacolate e di fatto ben poco praticate; ma sono viste con diffidenza, o addirittura condannate, dai benpensanti anche le letture (in particolare di romanzi) che possono distrarre la donna dalle funzioni canoniche di sposa e madre. Questo non impedisce ad alcune donne di talento di scrivere romanzi a volte anche arditi (da Mary Shelley a Jane Austen alle sorelle Brönte), ma è significativo che alcune di loro nascondano la loro reale identità femminile dietro pseudonimi maschili, come nel caso di Aurore Lucile Dupin (George Sand) e Mary Ann Evans (George Eliot). Alla sposa e madre esemplare si contrappongono l’adultera e la donna perduta che minaccia i sacri valori della famiglia. La contrapposizione si riflette anche nelle tipologie femminili ricorrenti nei romanzi popolari (una forma letteraria di grande successo nata verso il 1840), nei quali le donne si dividono sempre in due categorie, senza vie di mezzo: da una parte la donna virtuosa, spesso vittima di malvagi persecutori, mentre dall’altra quella viziosa e ammaliatrice, portatrice di scandalo e disordine entro la compagine della onesta famiglia borghese.

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Dalla Traviata di Verdi: Pura siccome un angelo

Una messa in scena del conflitto tra valori borghesi e amore In una scena della Traviata (1853), notissimo melodramma di Giuseppe Verdi tratto dal romanzo di Alexandre Dumas La dama delle camelie (1848), è sceneggiato in modo esemplare il conflitto tra morale, valori della famiglia (di cui non a caso si fa portavoce un padre) e peccato, impersonato da Violetta, la donna perduta (“la Traviata”, appunto) della quale si innamora perdutamente il giovane Alfredo (➜ D8 OL). Vincerà l’etica della famiglia: Violetta si immolerà sull’altare del perbenismo borghese e morirà di tubercolosi proprio quando l’amato Alfredo tornerà a lei.

Valori e modelli di comportamento Il Romanticismo comporta una rivoluzione nella mentalità che consiste in

•e sibizione della propria emotività e dei turbamenti interiori •a more come esperienza totalizzante e travolgente •c ompiacimento della condizione di infelicità, anche come scelta esistenziale •c onflitto tra etica borghese e amore-passione

L’amore-passione Una nuova visione dell’amore Proprio quando la famiglia assume un ruolo conservatore e tradizionalista, che tende a negare in particolare ai giovani e alle donne autonomia di scelta, la letteratura si fa portavoce dei diritti dell’individuo: si impongono nei romanzi il modello del giovane anticonformista, ribelle alle regole anguste della società e della famiglia, e il tema dell’amore romantico e passionale, che non conosce vincoli e freni. Nel nuovo modello culturale-comportamentale del Romanticismo l’amore è uno dei temi chiave, presente in moltissime opere letterarie, ma anche nel melodramma. È un amore che nulla ha a che fare con i rituali galanti della società

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settecentesca, ma che si caratterizza come estasi, fusione d’anime, passione totalizzante e che proprio in quanto tale è destinato a entrare in conflitto con le convenzioni sociali (come nel Werther e nell’Ortis), con le stesse regole morali. Proprio perché concepito come esperienza altissima, l’amore romantico non può certo realizzarsi nel matrimonio, in quell’epoca per lo più combinato, rigidamente istituzionalizzato (da qui il proliferare degli amori adulteri in letteratura); più in generale raramente assume connotati realistici, ma vive piuttosto nella dimensione del sogno e addirittura della morte, concepita come vita superiore in cui gli spiriti degli amanti possono davvero fondersi. Grazie alla mediazione del romanzo popolare e del linguaggio del melodramma l’amore-passione informerà l’immaginario del tempo e penetrerà profondamente nel costume, attraversando le barriere delle classi sociali. Un caso italiano Di Niccolò Tommaseo (1802-1874), originario di Sebenico, sulla costa dalmata, da una famiglia dell’agiata borghesia si ricorda oggi anche l’attività lessicografica, specie per l’importante Dizionario della lingua italiana (1859-1879). Il suo Fede e bellezza (➜ D7 ) esce nel 1840 e imbocca la strada di un moderno romanzo realistico e psicologico, in linea con le tendenze della narrativa europea coeva. I protagonisti sono Giovanni e Maria, le cui difficili esistenze a un certo punto si incontrano. Quando conosce Giovanni in Bretagna, Maria ha alle spalle esperienze amorose e di vita fallimentari. A sua volta Giovanni proviene da una vita dissipata in cui la tendenza alla sensualità contrasta con aspirazioni a elevarsi. I due stringono un complesso legame amoroso che tra fughe, ricongiungimenti e prove varie approda al matrimonio. Ma la tisi, da cui Maria si scopre affetta, proietta un’ombra di morte sulla loro unione. La donna morirà tra le braccia dell’amato. Sebbene l’opera non possa considerarsi riuscita, ha più di un motivo di interesse per la modernità del tema e della struttura, in cui si alternano parti descrittive, diari, lettere, narrazione in terza e in prima persona.

Henry Wallis, La morte di Chatterton, olio su tela, 1856 (Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery).

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Niccolò Tommaseo

D7

Amore e morte Fede e bellezza

N. Tommaseo, Fede e Bellezza, in Opere, a cura di M. Puppo, Sansoni, Firenze 1968

Questo brano – tratto dal romanzo Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo e in cui viene drammaticamente svelata la grave malattia della protagonista femminile Maria –è significativo perché consente di cogliere la presenza di un motivo ricorrente nell’immaginario romantico: il binomio amore-morte, a cui Tommaseo conferisce un’impronta particolare, dovuta alla sua personale formazione e cultura.

Una notte di dicembre1 fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria pregata2, non voleva smettere prima di finire il lavoro3. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto suo più pallido e più soavemente mesto che 5 mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritira in fretta la pezzuola che aveva sul grembiule; egli trepidando glie la prende, la trova intrisa di sangue, e mette un grido4. «Non è nulla». «Da quando?». «Dall’altr’ieri. Oh per carità non vi spaventate». 10 Egli cadeva abbattuto sopra una seggiola5; e Maria l’abbracciava sollecita come fa madre a figliuol pericolante6. Solevano (tale fin dal primo7 era il patto) dormire divisi: che da questo reciproco rispetto, conducevole insieme a virtù e a libertà, a sanità e a pulizia, credevano giovarsi l’amore8. Ma quella sera sì ghiaccia9, ed egli sì intimorito10, e sì diffidente11 del 15 silenzio di lei, che pregò di posarlesi accanto12. E nell’impeto del dolore innamorato congiunsero labbro a labbro; e con ardore più abbandonato ma con anima monda13 riprovarono nuove le gioie note: ed egli le disse parole d’amore quali ella non aveva sentite, misera, mai; ed ella gli disse parole d’amore quali egli non aveva sentite, misero, mai. Un’imagine or lontana or presente, velata dalla speranza, ma pur terri20 bile14, gli stava dinanzi; e avvelenava la dolcezza, e la faceva correre più veemente, penetrar più profonda. Parevagli d’abbracciare una donna condannata a morire, e la stringeva a sé come per rattenere15 l’angelo suo fuggente. Ma dell’affannarla col tremito dell’amore sentiva rimorso, e ristava a un tratto16; ed essa con dolce voce lo chiamava confortando, e parlava degli anni avvenire. Così passarono tutta la notte: 25 e mentr’ella s’addormentava, semi aperte le labbra rosseggianti, e con sul pallido

1 Una notte di dicembre: l’atmosfera in cui avviene la brusca e drammatica scoperta della malattia di Maria anticipa e prepara la fredda notte invernale in cui avverrà la morte della donna. 2 pregata: per quanto Giovanni la pregasse. 3 il lavoro: è la trascrizione dei lavori letterari di Giovanni, di cui Maria si fa carico e che di solito svolgeva fino a tarda notte. 4 mette un grido: emette un grido. 5 Egli cadeva... seggiola: la reazione disperata di Giovanni trova spiegazione

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nell’effettiva gravità del sintomo di Maria, visto che lo sbocco di sangue equivaleva alla diagnosi sicura di tubercolosi e a una prognosi infausta. 6 pericolante: in pericolo. 7 dal primo: dall’inizio del loro matrimonio. 8 che... l’amore: perché credevano che l’amore avrebbe tratto giovamento da questo reciproco rispetto, che comportava (conducevole… a) libertà, virtù, effetti salutari (suona molto strana questa dichiarazione del narratore, che appare in realtà

motivata da una forte autorepressione). 9 sì ghiaccia: così fredda. 10 intimorito: spaventato. 11 diffidente: preoccupato. 12 posarlesi accanto: distendersi vicino a lei. 13 monda: pura. 14 Un’imagine... terribile: quella della morte. 15 rattenere: trattenere (nella vita). 16 ristava a un tratto: e si fermava all’improvviso.


viso la pace di persona consolata; Giovanni pensava: «Dio buono! difficil cosa anco i puri affetti esercitare con animo puro17. Quante memorie vietate, fin ne’ concessi abbracciamenti18! Perdono, o terribile Iddio dell’amore severo! Non mi punite: non togliete a me questa ch’è ormai conglutinata19 con l’anima mia!».

17 difficil cosa... animo puro: è difficile vivere persino i sentimenti più puri (come quello provato da Giovanni per Maria) con animo onesto. La tortuosa considerazione

manifesta gli scrupoli religiosi di Tommaseo nei confronti dell’amore. 18 Quante... abbracciamenti: quanti ricordi proibiti (le avventure peccaminose

vissute da Giovanni prima di incontrare Maria) affiorano anche negli amori leciti, legittimi. 19 conglutinata: fusa.

Concetti chiave L’amore-passione coniugato alla morte

Giovanni scopre la mortale malattia di Maria. I due coniugi si abbandonano alla passione di un amplesso reso più eccitante dal fantasma della morte incombente sulla giovane donna (la tubercolosi, da cui era affetta Maria, a quel tempo non lasciava scampo). Domina la prima parte del passo una torbida sensualità, ulteriormente complicata dall’affiorare nella mente di Giovanni del ricordo di relazioni peccaminose intrattenute in passato. Un “groviglio” di pulsioni di cui Giovanni chiede perdono a Dio, nel timore di essere punito con la perdita della donna amata. Il passo non si può certo considerare convincente sul piano artistico, ma testimonia l’irrompere dell’amore passionale in una cultura, come quella italiana, dominata dalla visione cattolica e dal senso del peccato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1 Che cosa scopre Giovanni? 2. Individua due elementi dell’atmosfera descritta che preludono alla scoperta.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di max 3 minuti spiega perché Giovanni si pente di essersi abbandonato alla passione e indica quali ricordi gli affiorano alla mente.

online D8 Francesco Maria Piave

«Piangi, o misera!»: l’etica borghese e l’amore romantico La Traviata, atto II, scena V

4 La fisionomia e la condizione degli intellettuali Nuovi scenari per una difficile “professione” Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, anche in rapporto agli incalzanti eventi storico-politici, l’identità e la condizione sociale di chi scrive si fanno insicure e precarie: lo testimoniano emblematicamente le scelte di vita e i problemi incontrati da scrittori importanti di questo periodo, come Monti, Foscolo, Leopardi, Manzoni (➜ PER APPROFONDIRE Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici, PAG. 29). La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 27


Innanzitutto decade definitivamente la corte, principale centro di attrazione dei letterati, e tramonta il costume sociale del mecenatismo che ne assicurava il sostentamento. Inoltre anche la Chiesa è ormai incapace di attrarre gli intellettuali, offrendo loro occasioni di promozione sociale, come avveniva ancora nel Settecento. L’emergere del letterato d’estrazione borghese Tra gli scrittori figurano ancora membri della classe nobiliare (come Manzoni e Leopardi), ma aumenta sempre più il numero dei letterati di origine borghese: non potendo contare su una rendita legata al patrimonio familiare, essi devono cercare di guadagnarsi da vivere con la propria attività, con le inevitabili difficoltà che ciò comporta. Non pochi sono obbligati ad accettare incarichi subalterni presso famiglie altolocate: ad esempio Silvio Pellico, che in seguito diventerà celeberrimo (ma non certo ricco!) per Le mie prigioni (➜ C7) si adatta a essere per qualche tempo il segretario di un aristocratico di rilievo (Luigi Porro Lambertenghi) e il precettore dei suoi figli. Un panorama in evoluzione Anche in Italia inizia a svilupparsi l’editoria (sono fondate case editrici ancora oggi attive, come Utet a Torino e Le Monnier a Firenze), ma l’arretratezza economico-sociale del paese, la difficoltà dei trasporti e soprattutto la divisione politica della penisola ostacolano la circolazione dei libri e la formazione di un pubblico ampio come quello dei paesi europei più avanzati su cui contare. Del resto, anche per gli autori che operano nelle città dell’editoria del tempo, come Milano o Torino, è difficile trarre un reddito dalla pubblicazione delle proprie opere, anche perché mancano in Italia norme comuni che tutelino il diritto d’autore: da qui il fenomeno delle edizioni pirata , cioè non autorizzate né dall’autore né dall’editore. Anche collaborare a giornali e riviste non rappresenta certo una soluzione: di solito, infatti, il compenso è irrisorio, per il persistente pregiudizio che quello letterario non sia un “lavoro” vero e proprio, ma soprattutto per la sovrabbondanza di letterati che cercano collaborazioni per vivere.

Parola chiave

Un’identità per gli intellettuali italiani: la diffusione dell’ideale di patria Una volta iniziata l’epopea risorgimentale, gli intellettuali italiani troveranno un’identità forte almeno sul piano ideologico: saranno infatti protagonisti nella missione

pirateria Nell’accezione propria e tradizionale del termine, la pirateria è un esercizio della navigazione a scopo di rapina, praticata soprattutto nel Medioevo (compare in più novelle del Decameron) da briganti (i pirati appunto, chiamati in età moderna “filibustieri” o “bucanieri”) che percorrono il mare assalendo le navi o le zone costiere e depredandole di ogni merce e di bene prezioso. Al tempo di Foscolo e Manzoni la pirateria ha a che fare con l’emergente mercato del libro: la mancata protezione del diritto d’autore consente impunemente iniziative editoriali illecite (“edizioni pirata”) da parte di personaggi senza scrupoli che si impadroniscono dell’opera altrui pubblicandola senza l’autorizzazione dell’autore, come succede appunto all’Ortis di Foscolo e ai Promessi sposi. Oggi il cosiddetto diritto d’autore (Legge n. 633 del 22 aprile 1941, “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, integrata da vari decreti europei del 2014, 2017 e 2019) consente all’autore

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di poter disporre in maniera esclusiva delle proprie opere, di rivendicarne la paternità e di decidere se e quando pubblicarle. Con i nuovi mezzi di comunicazione (Internet), si parla oggi di pirateria informatica, ovvero riproduzione illegale di programmi, in seguito all’accesso ad archivi di dati informatici, o deliberata alterazione e danneggiamento di dati (come nel caso degli attacchi di hackers). Pirateria è anche definita la riproduzione di film e brani musicali scaricati illegalmente dalla Rete: pratica purtroppo sempre più diffusa nonostante i controlli delle autorità e le campagne di stampa. L’ultima analisi dell’istituto di Ricerca IPSOS per AIE (Associazione Italiana Editori) – svolta nell’ottobre 2023 – sulla pirateria nell’editoria libraria ha evidenziato come quest’ultima sottragga agli editori più di un quarto del valore complessivo del mercato: il 31% della popolazione sopra i 15 anni, infatti, utilizza libri, ebook e audiolibri in maniera illegale.


online

Per approfondire Il problema del diritto d’autore

di propagandare l’“etica del dovere” e il senso della patria (➜ C7). Una missione entusiasmante che, almeno temporaneamente, riesce a mascherare i problemi di collocazione socio-economica della maggior parte di essi.

PER APPROFONDIRE

Verso un nuovo pubblico di massa, amante dei romanzi In Europa già nel primo Ottocento il pubblico inizia a configurarsi come “pubblico di massa”: la definizione non allude tanto alla quantità (ancora di fatto minima rispetto alla totalità della poonline polazione), quanto alla diversa fisionomia dei nuovi lettori D9 Alessandro Manzoni rispetto al pubblico tradizionale, sia nei gusti letterari sia per Un autore-editore di fronte al problema delle edizioni pirata la funzione attribuita alla lettura. Si tratta di un pubblico che Lettere predilige il romanzo, che ama gli intrecci avvincenti e le trame

Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici Monti e la nuova versione del poeta cortigiano La politica del regime napoleonico ripropone la figura del poeta-cortigiano nelle vesti di docile portavoce dell’ideologia imperiale. Gli intellettuali sono perciò obbligati a fare precise scelte di campo: l’acquiescenza o addirittura la celebrazione del regime e del suo “eroe” in cambio di prestigio e remunerazione economica, oppure il dissenso, più o meno esplicito, con le incertezze che ne derivano. Nel primo gruppo spicca Vincenzo Monti (1754-1828). Dopo essersi autocandidato a poeta vate già con il poemetto Prometeo (1797), consolida con successive composizioni il proprio ruolo di poeta-cortigiano. Nel 1806 ottiene 2000 zecchini per Il Bardo della Selva Nera, pubblicato a spese del governo (Cerruti): una gratificazione economica non da poco, che gli consente di assestarsi stabilmente come “poeta del governo” (il titolo gli viene ufficialmente conferito nel 1804). Si tratta di un ruolo particolarmente congeniale a Monti; non a caso, conclusa l’avventura napoleonica, egli sarà nuovamente chiamato (questa volta dal governo austriaco, proprio per la sua comprovata “disponibilità” nei confronti del potere) a dirigere la «Biblioteca italiana», la prestigiosa rivista con cui, dopo la Restaurazione, il governo austriaco cerca di cooptare gli intellettuali. Foscolo: un liber’uomo in cerca di sistemazione La biografia foscoliana documenta in modo esemplare (➜ C2) le difficoltà di scelta che si pongono a un intellettuale non benestante e al contempo non “allineato”: la formazione da liber’uomo alfieriano impedisce a Foscolo di porsi servilmente al servizio del regime napoleonico come fa Monti, ma d’altra parte egli non è un nobile ricco come Alfieri. Così, pur di ricevere un salario, milita nell’esercito durante le campagne napoleoniche. Ripone poi grandi speranze nella carriera di insegnante: nominato a ricoprire la cattedra d’eloquenza di Pavia (che era stata per due anni del Monti), vi pronuncia il 22 gennaio 1809 la celebre orazione inaugurale. Sfortunatamente, però, la riforma universitaria napoleonica sopprime la cattedra di eloquenza e Foscolo si ritrova in difficoltà. Invitato dal governo austriaco, dopo la fine di Napoleone, a dirigere la «Biblioteca italiana», egli si rifiuta di prestare fedeltà all’Austria e abbandona per sempre l’Italia. In Inghilterra è costretto per vivere a tenere conferenze divulgative e a dare lezioni private. Finisce i suoi giorni in una condizione vicina alla povertà.

Leopardi: i dilemmi di un intellettuale sradicato di provincia Giacomo Leopardi (1798-1837), l’altro grande poeta italiano del primo Ottocento, vive con lucida consapevolezza i problemi della sua collocazione come scrittore e intellettuale in un’area periferica come lo Stato Pontificio (di cui faceva parte Recanati). Appartenente a una casata di un certo prestigio ma economicamente dissestata, il giovane poeta avrebbe potuto vivere comunque nell’agio nel palazzo di famiglia. Deciderà invece di lasciare Recanati, ma vivere fuori dalla cittadina natale non sarà affatto facile, anche perché la condizione di aristocratico gli impedisce di accettare ogni tipo di impiego. Persino l’attività editoriale intrapresa per vivere dal giovane poeta (commentare testi classici, allestire edizioni, antologie) è considerata dal padre di Leopardi, Monaldo, umiliante per un gentiluomo. Leopardi vive anche il dilemma se farsi ecclesiastico, ma questa scelta avrebbe comportato un inaccettabile compromesso, data anche la posizione dello scrittore in materia di religione. Rinuncerà e dovrà allora vivere da piccolo-borghese spiantato, con la minaccia sempre incombente di regredire alla vita inerte di Recanati, nel ruolo odiato di gentiluomo nullafacente di provincia. Manzoni: un aristocratico milanese, autore (e audace editore) di un best seller Assai significativi per la ricostruzione dell’identikit dell’intellettuale nella prima metà dell’Ottocento sono anche alcuni dati della biografia manzoniana. Nipote di Cesare Beccaria (autore di Dei delitti e delle pene), Alessandro Manzoni appartiene all’aristocrazia milanese illuminata. Nobile e benestante, egli vive di rendita ma si dimostra inaspettatamente abile nel far fruttare la sua proprietà di Brusuglio, mostrando doti di intraprendenza borghese. Addirittura è capace di avventurarsi in una rischiosa impresa commerciale, finalizzata a impedire, o almeno limitare, le molte edizioni pirata dei Promessi sposi (➜ D9 OL), favorite dall’assenza, fino all’Unità d’Italia, di una legge comune ai vari stati italiani che protegga il diritto d’autore. Manzoni intuisce le possibilità di un mercato che possa economicamente premiare l’autore di un romanzo di successo, quale si stavano dimostrando “I promessi sposi”. Pensa così di fare un’edizione illustrata preziosa che possa scoraggiare le imitazioni. L’alto costo delle incisioni, unito alle vendite limitate rispetto alle previsioni, determina l’insuccesso dell’operazione, che si risolve così in un disastro economico per Manzoni.

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 29


sentimentali e che attribuisce alla lettura una funzione prevalentemente evasiva. Di questo nuovo pubblico sono parte rilevante le lettrici: anche se l’istruzione femminile continua a essere penalizzata, non poche donne, anche di modesta condizione sociale, sanno comunque leggere, forse anche in rapporto a nuove occasioni d’impiego (cameriere, governanti o commesse). Anche in Italia il pubblico comincia lentamente ad ampliarsi. Non è certo ancora un pubblico di massa, ma non è neppure più un pubblico esclusivamente di élite: va identificandosi, almeno per alcuni generi, con quello che Giovanni Berchet (1783-1851) chiama popolo (di fatto si tratta del ceto medio) in un celebre scritto per la rivista «Il Conciliatore» (a cui collabora assiduamente): la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo del 1816 (➜ C7 D1d ). L’emergere di questo tipo di pubblico decreta anche in Italia la crisi dei generi letterari “alti”, come il poema epico e la stessa tragedia, e per contro il successo del romanzo storico e della novella sentimentale in versi. Ma nell’Ottocento italiano è soprattutto il melodramma a entusiasmare ampi strati sociali, così da configurarsi come il vero nazional-popolare (➜ C7). L’opera letteraria come prodotto commerciabile È proprio per la necessità di conquistare questo tipo di pubblico che l’editoria acquisisce un volto imprenditoriale e, di conseguenza, l’opera letteraria tende a mercificarsi, cioè a configurarsi come un prodotto che deve vendere; tendenza che Leopardi, come altri poeti del Romanticismo, già intuisce (e condanna) (➜ D13 OL). D’altra parte ci sono anche scrittori che si rivolgono consapevolmente al mercato e che hanno grande successo: ne è esempio in Francia Alexandre Dumas padre, autore dei fortunatissimi romanzi d’avventura I tre moschettieri (1844) e Il conte di Montecristo (1844-45). I centri dello scambio intellettuale: dai luoghi di aggregazione tradizionali ai nuovi ambienti Nel primo Ottocento, sotto la spinta delle rapide trasformazioni storiche, tendono a tramontare le accademie, da secoli sedi ufficiali di aggregazione e promozione sociale dei letterati, forse proprio per la loro natura di istituzioni costituzionalmente separate dalla società. Mantengono invece ancora il loro ruolo i salotti, che erano stati emblema della “sociabilità” illuminista e nei quali primariamente si era svolto il dibattito culturale; non sono però più salotti solo aristocratici, ma anche borghesi. A Milano i salotti principali erano gestiti da nobildonne colte (come Teresa Casati Confalonieri o Clara Maffei) ed erano caratterizzati da un’impronta patriottica. Scrittori e intellettuali si incontrano però sempre più in ambienti diversi, come le librerie e i “gabinetti di lettura”: Frequentati da un pubblico maschile di condi-

La condizione dell’intellettuale CONDIZIONE DI INCERTEZZA

• emergere del letterato borghese, che deve guadagnarsi da vivere • precarietà in ambito sociale ed economico

EVOLUZIONE DEL PANORAMA EDITORIALE

• primo sviluppo di un’editoria moderna (a Milano e Torino) • assenza di normative precise, soprattutto a tutela del diritto d’autore

30 Ottocento Scenari socio-culturali


PER APPROFONDIRE

zione sociale elevata, i gabinetti di lettura sono ambienti confortevoli, con sale da musica e di lettura, in cui è possibile accedere a una vasta produzione libraria, anche scientifica, e dove si discute sulle novità editoriali. Particolarmente importante diventerà come centro culturale il Gabinetto Vieusseux a Firenze. Luoghi di scambio intellettuale sono anche le sedi delle principali riviste: «Il Conciliatore» (1818-1819) e «Il Politecnico» (in due serie: 1839-1844; 1859-1868) a Milano, «L’Antologia» (1821-1833) a Firenze. Ma punto di riferimento fondamentale per gli scrittori diventano soprattutto le case editrici, in particolare in città come Milano, dove si afferma la nascente industria editoriale.

Due poli culturali a confronto: Roma e Milano La Roma del Neoclassicismo archeologico Durante il pontificato di papa Pio VI (1775-1799), a Roma viene avviata una massiccia campagna di scavi archeologici che contribuiscono a fare della città nel primo Ottocento il centro nel “Neoclassicismo archeologico”, anche grazie alla presenza nella città eterna dello storico dell’arte tedesco Winckelmann (➜ C1), destinato a diventare il principale teorico di tale corrente. A Roma continuano a giungere, sulla scia del Grand Tour, artisti e intellettuali da tutta Europa: dal pittore JacquesLouis David a Madame de Staël, da Goethe ai grandi poeti del Romanticismo inglese; vivono a lungo a Roma Byron, Keats, Shelley. Ma il ruolo attrattivo di Roma per gli intellettuali e gli scrittori tramonterà ben presto, a favore delle moderne capitali europee e, in Italia, di Milano. Nell’ambiente culturale romano, controllato dal clero e da una nobiltà estremamente conservatrice, regna il culto dell’erudizione e dell’antiquaria, che può essere considerato quasi un baluardo contro la ventata di novità che investe tutta l’Europa e scardinerà presto le tradizionali gerarchie culturali. Non è un caso che Giacomo Leopardi, approdato a Roma nel 1822 con grandi aspettative, resti molto deluso dalla vita culturale cittadina. Così scrive al padre parlando dei letterati di Roma: «Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e pare un gioco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di asse appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa».

La Milano moderna dell’editoria e del dibattito romantico Fra età napoleonica e Restaurazione la città che emerge nel panorama italiano è Milano, anche se le sue dimensioni sono ancora ben lontane da quelle delle metropoli europee (solo nel 1861 la popolazione arriverà vicino ai 200.000 abitanti). La crescente importanza di Milano si deve innanzitutto alla modernizzazione impressa dal regime napoleonico: durante il periodo in cui è capitale del Regno d’Italia, Milano conosce un grande sviluppo urbanistico e culturale. La progressiva laicizzazione della scuola, la traduzione e l’immissione nel circuito culturale delle opere di punta della cultura illuminista francese, l’impulso dato allo studio delle discipline scientifiche e, più in generale, le direttive della politica culturale napoleonica modernizzano il volto della città e favoriscono lo sviluppo dell’industria editoriale. Nell’età della Restaurazione Milano diventa la patria dell’editoria e il cuore del Romanticismo italiano, come già era stata al centro del dibattito illuminista con l’esperienza del «Caffè». Si spiega così il fatto che intellettuali come Leopardi, provenienti da aree periferiche e culturalmente svantaggiate come lo Stato pontificio, guardino a Milano come al luogo in cui trovare un’occupazione adeguata alla propria posizione socio-culturale e in cui poter pubblicare le proprie opere. Come poli d’attrazione altre città italiane, un tempo centrali nella vita culturale, appaiono ormai al tramonto: ad esempio risulta marginalizzata Venezia e la stessa Firenze, nonostante la pubblicazione di riviste prestigiose come l’«Antologia» di Vieusseux, ha ormai assunto un volto provinciale.

Fissare i concetti La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1. Quali sono i cambiamenti che si verificano a cavallo tra Settecento e Ottocento? 2. Quali sono le caratteristiche dell’eroe romantico? Come si pone esso di fronte alla vita reale? 3. Come si caratterizza la nuova concezione della natura proposta dal Romanticismo? 4. Che cosa si intende con l’espressione “male del desiderio”? 5. Quali sono le differenze nella visione della storia tra Illuminismo e Romanticismo? 6. Perché si può dire che con il Romanticismo si assiste a una vera e propria rivoluzione antropologica? 7. Come è vissuta l’esperienza dell’amore dai romantici? 8. Perché quella del letterato diventa una “difficile professione”? 9. Quale diversa fisionomia assumono i nuovi lettori rispetto al pubblico tradizionale? 10. Quali sono i centri dello scambio intellettuale?

La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura 1 31


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Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1 Il divorzio tra filosofia e scienza e l’inizio della separazione tra le “due culture”

La tendenza alla specializzazione della scienza Nel Settecento sia la scienza sia la filosofia erano state coinvolte nella fondazione di un nuovo sapere, ispirato da una visione razionalistica del mondo e da un progetto culturale di vasto respiro, entrambi fortemente condivisi dagli uomini di scienza e di cultura. Di questo sforzo comune è insieme emblema e risultato più alto l’Encyclopédie. Nel primo Ottocento questa visione unitaria si incrina: il campo di interesse e d’azione di scienziati e filosofi si diversifica e inizia un processo che nel tempo avrà grande importanza: il divorzio tra scienza da una parte e riflessione filosofica e letteraria dall’altra (le “due culture” di cui parlerà un celebre saggio dello scienziato inglese Charles Snow, al centro di un vivace dibattito negli anni Sessanta del Novecento). La figura dello scienziato, in particolare in campo fisico, chimico, naturalistico, comincia a differenziarsi da quella del filosofo, a professionalizzarsi e istituzionalizzarsi: gli scienziati si inseriscono stabilmente nella carriera universitaria e diffondono le loro scoperte e le loro acquisizioni attraverso pubblicazioni accreditate sempre più distinte da quelle di argomento filosofico e letterario. Tendono così a scomparire scienziati con interessi filosofici globali: gli uomini di scienza rinunciano ad assumere un ruolo-guida nel campo culturale ed etico, concentrandosi esclusivamente su circoscritti argomenti di ricerca; inizia la “specializzazione” della scienza, che di per sé fu necessaria per il progresso delle sue conoscenze. Parallelamente tale ambito comincia a essere considerato un sapere “neutrale”, una tendenza potenzialmente pericolosa, che nel tempo produrrà conseguenze storiche di grandissima rilevanza.

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Per approfondire Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia

La medicina, superstite ponte tra filosofia e scienza Nel primo Ottocento la medicina costituisce ancora un terreno “ponte” tra i due saperi: non pochi medici condividono la visione vitalistico-spiritualistica dei filosofi romantici, assumendo anche posizioni antiscientifiche o, in alcuni casi, addirittura oscurantistiche, e si appassionano a saperi alternativi come il Mesmerismo (➜ PER APPROFONDIRE OL Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia). Tuttavia, anche in campo medico le conoscenze fisico-chimiche avanzano inesorabilmente: già nel 1785 Lavoisier, considera la respirazione come un fenomeno biochimico; il sistema nervoso e circolatorio cominciano a essere indagati sotto il profilo chimico-fisico (Galliani, 1802); Alessandro Volta (1745-1827) scopre i fenomeni elettrici nei tessuti viventi e il potenziamento delle conoscenze in campo ottico consente ingrandimenti microscopici che aprono la strada allo studio scientifico moderno dei tessuti e delle cellule.

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2 Il ruolo egemone della filosofia tedesca La situazione della filosofia Il sapere filosofico a sua volta si frammenta nei vari paesi: in Francia Auguste Comte (1798-1857) prepara il Positivismo, in Inghilterra si sviluppa essenzialmente il pensiero economico (Stuart Mill) e il tema dell’Utilitarismo morale (Jeremy Bentham). Nel panorama filosofico del tempo il ruolo egemone è svolto sicuramente dalla Germania, dove si sviluppa la corrente filosofica dell’Idealismo e della Naturphilosophie (filosofia della natura), strettamente connessa alla cultura romantica. L’Idealismo tedesco si pone in un rapporto di contestazione con il Materialismo, il Razionalismo settecenteschi, l’ottica stessa con cui nel periodo illuminista si studia la natura indagandone con metodo scientifico le leggi. Il distacco dal razionalismo materialistico settecentesco Sul movimento romantico influiscono in particolare due filosofi: Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e soprattutto Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854), che nel 1799 succede a Fichte alla cattedra nell’università di Jena, diventando punto di riferimento dei primi romantici (i fratelli Schlegel e Novalis). Sia Fichte sia Schelling assegnano alla filosofia il compito di conoscere l’Assoluto, entrambi si distaccano dal razionalismo e, alla fine del loro itinerario umano e intellettuale, approderanno a una visione più religiosa che filosofica. Fichte Nel pensiero di Fichte il mondo non ha una consistenza propria, ma è un prodotto dell’attività creatrice dell’Io. Nella concezione del filosofo tedesco l’Io non va confuso con l’Io empirico di questa o quella persona: l’Io di cui parla Fichte è un principio spirituale, infinito e assoluto, costantemente proiettato verso la conquista di una libertà sempre più alta da ogni limite costituito dal mondo esterno, dalla natura (il “non Io”).

Daniel Huntington, Filosofia e arte cristiana, olio su tela, 1868 (County Museum of Art, Los Angeles).

Schelling Nel Sistema dell’Idealismo trascendentale (1800) Schelling va oltre le posizioni di Fichte, prospettando una visione unitaria, a fondamento spiritualistico, di Io e natura: la nostra percezione dei fenomeni naturali è resa possibile dall’identità dello Spirito in noi e fuori di noi, ovvero nella natura. Primo grado di manifestazione dello Spirito, la Natura è essa stessa Spirito, ma «in letargo», «pietrificato», Spirito ancora in moto verso la coscienza. Persino tra mondo inorganico e organico non c’è frattura, poiché tutto il reale rappresenta gradi diversi di manifestazione dello Spirito. Per Schelling solo l’arte è in grado di cogliere l’Assoluto (➜ D11 OL), l’armonia originaria di natura e Spirito, mentre la conoscenza scientifica si ferma alla superficie dei fenomeni, è una conoscenza limitata e addirittura erronea quando pretende di essere completa. Schelling rifiuta drasticamente le leggi della meccanica e lo stesso metodo matematico-sperimentale, che pretende di iscrivere la ricchezza del reale in categorie determinate arbitrariamente: l’universo non è una macchina, ma «un poema». Hegel e lo storicismo idealistico Attraverso i suoi scritti principali (Fenomenologia dello Spirito, 1807 e Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817) Georg Wilhelm Friedrich

Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

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Hegel (1770-1831), uno dei più grandi pensatori della tradizione occidentale, prende le distanze dall’irrazionalismo romantico e ridà un’impronta razionalistica e sistematica al pensiero filosofico, ricreando un poderoso edificio concettuale che si contrappone, o per lo meno oltrepassa, le posizioni dei romantici e di Schelling: quello di Hegel è l’ultimo, grandioso, tentativo della filosofia di fornire un’interpretazione globale della realtà. Ad esso facciamo qui solo un accenno. Per Hegel ciò che governa il reale, l’essenza della realtà, in cui si rivela l’Assoluto, lo Spirito infinito, si identifica nella ragione, che si manifesta in gradi successivi, attraverso un processo dinamico e dialettico di tesi, antitesi, sintesi. Non è l’arte, come pensa Schelling, a poter conoscere l’intrinseca razionalità del reale, e neppure possono farlo le scienze, che operano attraverso astratte definizioni, bensì la filosofia, mediante l’adozione di un metodo dialettico di interpretazione che rispecchia il principio dialettico su cui, secondo Hegel, si regge il pensiero e si struttura il reale: ogni momento, nel divenire storico, è infatti sintesi dei momenti precedenti ed è a sua volta destinato a essere superato e insieme compreso in una sintesi superiore, orientata verso una progressiva conquista di razionalità. Nella Fenomenologia viene delineato, come in una sorta di grandioso Bildungsroman (“romanzo di formazione”), il percorso storico dello Spirito umano e dello Spirito dei popoli dalla schiavitù (“il non-sapere”) alla progressiva conquista della libertà, che si identifica nella consapevolezza razionale propria della filosofia, e in particolare della filosofia idealistica. Lo storicismo hegeliano avrà un’influenza grandissima. online

online D11 F. W. J. von Schelling

D10 Giacomo Leopardi

I limiti della conoscenza delle leggi di natura Zibaldone [4189-4190]

La superiorità dell’arte come mezzo di conoscenza Sistema dell’Idealismo trascendentale

Il sapere nel primo Ottocento SVILUPPO DEL DIVARIO TRA DUE CULTURE

Scienza

Filosofia

• la scienza si specializza: gli studiosi non hanno più interessi culturali generali • molti scienziati intraprendono la carriera universitaria • la ricerca si istituzionalizza • le scoperte sono diffuse su riviste specializzate • la medicina rimane unico ponte tra scienza e filosofia

• anche la filosofia si frammenta, ma l’Idealismo tedesco ha un ruolo guida • Fichte e Schelling contestano il metodo scientifico • Hegel contrasta tale irrazionalismo romantico con il proprio onnicomprensivo sistema

Fissare i concetti Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche 1. Come si configura il rapporto tra scienza e filosofia dopo l’Illuminismo? 2. Che cos’è la filosofia della Natura? 3. Come si configura il rapporto tra razionalismo materialistico illuminista e visione spiritualistica romantica?

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Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento 1 Il panorama dei generi letterari

online

Mappa interattiva Rivolte napoleoniche e flussi letterari

Una visione d’insieme sulla letteratura italiana della prima metà dell’Ottocento Durante l’età napoleonica l’Italia vede il tramonto dei generi letterari più tradizionali, come l’epica, ma non conosce la vitale sperimentazione di nuove forme letterarie che caratterizza altri paesi europei, in particolare la Germania e l’Inghilterra: rispetto al periodo illuministico sembrano spegnersi i fermenti più innovativi e il nostro paese perde il prestigio che aveva contraddistinto in particolare l’età rinascimentale. Domina in ambito letterario il Neoclassicismo, in sostanziale continuità con il tradizionale ossequio al Classicismo proprio della nostra cultura e con la persistenza radicata del repertorio mitologico, ma esso non produce risultati di particolare rilievo. Fa eccezione l’opera di Foscolo, che interpreta il Classicismo in modo del tutto personale. Con le sue opere principali – l’Ortis (1802), modellato sul fortunato romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774) e poi con il carme Dei Sepolcri (1806) – Foscolo dà voce poetica a suggestioni e temi già romantici. Anche quando, con notevole ritardo, si afferma anche in Italia il Romanticismo (a partire dal 1816), non si può dire che la produzione letteraria spicchi per originalità e qualità nel coevo panorama europeo. I nostri letterati sono impegnati a tutto campo nel sostenere la lotta risorgimentale e si propongono più l’efficacia nel coinvolgere gli italiani che la qualità artistica dei testi. Anche in questo periodo emergono però grandi, singole voci: nell’ambito poetico Leopardi, la cui grandezza rimase a quel tempo sostanzialmente misconosciuta; nell’ambito narrativo, invece, Manzoni produce, con i suoi Promessi Sposi, un romanzo di straordinario spessore, degno certamente di collocarsi a fianco della grande narrativa europea.

2 La lirica La centralità della lirica, genere romantico per eccellenza Un elemento di vistosa trasformazione nel panorama dei generi letterari dell’Ottocento è la rapida decadenza dei generi poetici della tradizione, in particolare del poema, ormai sentiti come anacronistici nel nuovo clima romantico e troppo legati alla poetica classicistica. Per contro, l’emergere dell’individualità, il culto romantico delle passioni, l’esplorazione dell’interiorità portano in tutta Europa al trionfo del genere lirico. Se per i romantici è la musica la forma d’arte per eccellenza, la lirica viene valorizzata proprio in quanto forma letteraria più vicina alla musica. Nel Romanticismo la poesia è identificata con tale genere: la visione estetica dei romantici enfatizza l’autonomia dell’arte da ogni finalità pratica o educativa e per-

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ciò la lirica, proprio in quanto espressione pura dell’Io, è considerata l’unica vera forma di poesia. Si tratta evidentemente di una lirica ormai del tutto svincolata dalla visione classicistica del labor limae, della “perfezione” frutto di un lungo e faticoso lavoro, e nella quale è in primo piano la spontaneità creativa dell’ispirazione che può realizzarsi solo in testi brevi, frutto di un momentaneo, irripetibile stato d’animo. Sulla base di questa concezione il Romanticismo produce in Europa altissime voci poetiche (da Novalis a Hölderlin in Germania, da Shelley a Keats in Inghilterra): nell’insieme di questa ricca produzione si realizza una vera e propria rivoluzione dei contenuti e delle forme poetiche, che anticipa il linguaggio evocativo e simbolico della poesia moderna. La poesia in Italia: un panorama deludente In Italia, a parte i casi isolati di Foscolo e Leopardi, la poesia del primo Ottocento non raggiunge grandi risultati artistici e non accede al codice della modernità fondato dalla lirica europea In Italia si afferma soprattutto la poesia patriottica, che accompagna i momenti salienti del movimento risorgimentale e che è finalizzata a propagandarne ideologia e valori (➜ C7). Si tratta di una poesia militante, che sacrifica quasi sempre la qualità al mito della popolarità: da qui la presenza di toni enfatici ed esortatori e l’adozione di forme metriche particolarmente orecchiabili (come i versi parisillabi fortemente ritmati). Quanto al linguaggio, esso rimane tutto sommato ancorato a forme aulico-classicheggianti ed è chiaro che ciò costituisce un limite, proprio per le finalità fortemente comunicative che gli autori si propongono. L’esigenza della popolarità induce per lo più gli scrittori di versi a rinunciare alla tradizionale presenza dell’“Io lirico” di tipo petrarchesco (con l’autorevole eccezione di Leopardi), affidando l’enunciazione a personaggi diversi da chi scrive e movimentando la scena della poesia “teatralizzandola”, costruendo cioè una sorta di cornice scenica dietro le effusioni patetico-sentimentali di fanciulle perseguitate, esuli malinconici e così via. Più piana e tutto sommato accessibile appare la lingua delle Romanze (1822-24) e delle Fantasie (1829) di Giovanni Berchet (1783-1851) che, nella Lettera semiseria, uno dei testi chiave del dibattito romantico in Italia, identifica con chiarezza il pubblico a cui la nuova letteratura deve rivolgersi (➜ C7 D1d ). Nelle Fantasie risulta sicuramente coinvolgente l’idea di affidare alla figura di un esule, uno dei protagonisti dell’immaginario romantico, la rievocazione, in forma di sogno o immaginazione, dei momenti “eroici” ed esemplari della storia italiana, come il giuramento di Pontida (1167) con cui i comuni italiani si alleano contro il Barbarossa. Nelle Romanze la volontà di agganciare un vasto pubblico sollecitandone l’adesione emotiva induce Berchet a intrecciare ai motivi patriottici temi amorosi e atmosfere patetico-sentimentali, il tutto con ritmi quasi cantabili e scelte linguistiche volutamente “facili”, ispirate al melodramma. Per la stessa ragione si afferma in Italia anche la tendenza a dare alla poesia una vera e propria forma narrativa. Sono assai diffuse e incontrano largo successo le ballate (che danno a volte spazio anche al tema del macabro e dell’orrido, sul modello della Leonora di Bürger a cui fa riferimento la Lettera semiseria) e le vere e proprie novelle in versi: lo sfondo della vicenda è in genere storico, dal Medioevo di maniera dell’Ildegonda (1820) di Tommaso Grossi alle guerre napoleoniche della Fuggitiva (1816) dello stesso Grossi. Nell’Edmenegarda (1841) di Giovanni Prati

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la vicenda è invece ispirata a un fatto di cronaca recentissimo. In ogni caso sono rappresentate difficili vicende sentimentali, protagoniste delle quali sono eroine spesso in conflitto con la morale tradizionale. Dopo l’Unità d’Italia, tramontato l’interesse per il tema storico-patriottico, si accentua nella poesia – i cui nomi principali sono quelli di Aleardo Aleardi (1812-78) e di Giovanni Prati (1814-84) – il gusto per la descrizione paesaggistica e abbondano i toni sentimentali o addirittura lacrimevoli (si è parlato di “Arcadia romantica”). A questa sostanziale degenerazione del gusto romantico si opporranno negli ultimi decenni dell’Ottocento da una parte gli scapigliati e dall’altra, in modo diverso, Carducci. Unica testimonianza di grande livello In un panorama decisamente modesto spicca la poesia dialettale (➜ C8). All’accentuato tradizionalismo e alla convenzionalità del linguaggio poetico dominante, due grandi scrittori oppongono l’uso del dialetto: il milanese con Carlo Porta (1775-1821), il romano con Gioacchino Belli (1791-1863). Uno strumento consapevolmente assunto e magistralmente utilizzato in funzione di una poetica realistica, volta a dar voce a figure sociali e ad aspetti della realtà che la poesia del tempo ignorava e di una visione “dal basso” assunta come punto di vista dominante della rappresentazione.

3 Il romanzo Il trionfo del romanzo in Europa Fra Sette e Ottocento svaniscono il poema epico e i generi parodici ad esso connessi (come il poema eroicomico), a cui seguirà dalla metà dell’Ottocento la tragedia di impianto classico. Al contempo la poetica romantica mette radicalmente in discussione la nozione stessa di genere. Questo fatto, di capitale importanza, tende a creare confini molto fluidi tra ciò che è letteratura e ciò che di per sé non lo è: memorie, diari, lettere tendono a invadere il campo del letterario, anche per la forte propensione di questa età alla confessione, all’“espansione” dell’io (non è un caso che si affermino i romanzi epistolari, sul modello della Nouvelle Héloïse di Rousseau e del Werther di Goethe). La contestazione dei princìpi della poetica classicistica, unitamente a un insieme di circostanze socio-culturali (il consolidarsi del ruolo economico e politico della borghesia, l’ampliamento numerico e sociale del pubblico, la creazione di un forte mercato editoriale), favorisce la straordinaria affermazione, già preparata dal Settecento, del romanzo, destinato appunto a prendere il posto del poema e di altri sottogeneri: l’Ottocento è stato definito «il secolo del romanzo». Unica forma letteraria che non è stata soggetta alla precettistica classica, il romanzo contribuisce in modo determinante sul piano tematico a estendere i confini di ciò che può essere rappresentato in ambito letterario e, dal punto di vista formale, alla mescolanza degli stili e dei “modi” del discorso che infrangerà definitivamente la gerarchia degli stili stabilita dalla poetica classica. Le tipologie di romanzo che si affermano sono varie: • romanzi di impronta autobiografica che hanno il loro modello di riferimento nel Werther di Goethe (1774) (➜ C1), come René di Chateaubriand (1802) (➜ D1 ), Adolphe di Constant (1816), Obermann (1804) di Sénancour. In questo filone può iscriversi il primo romanzo moderno italiano: Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, ispirato al Werther;

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• il romanzo gotico o “nero”, che si sviluppa soprattutto in Inghilterra, e il romanzo fantastico come Frankenstein di Mary Shelley (➜ C6); • il romanzo storico (molto apprezzato in Italia) a cominciare da Walter Scott, che inaugura la moda con lo straordinario successo di Ivanhoe (1819) (➜ C5 T1 ); • il romanzo realista, in cui spicca il contributo della letteratura francese: da Il rosso e il nero e La certosa di Parma di Stendhal alla Commedia umana di Balzac e infine a Madame Bovary di Flaubert, che per la modernità delle tecniche narrative costituirà un modello per il romanzo naturalista del secondo Ottocento (➜ C5); • il romanzo popolare, spesso pubblicato a puntate in appendice ai giornali (il feuilleton), che si articola in un universo sfaccettato ma che è sempre contraddistinto dalla volontà di attirare il più largo consenso dei lettori grazie a trame avvincenti e avventurose, all’uso della suspense e alla creazione di personaggi in cui il pubblico di massa potesse facilmente identificarsi. Spiccano in questa produzione il fortunatissimo I misteri di Parigi di Eugène Sue (1842-43) e i romanzi di Alexandre Dumas padre I tre moschettieri (1844) e Il conte di Montecristo (1845). Il romanzo storico in Italia A parte rari esempi di romanzo introspettivo, come Fede e bellezza (1830 ➜ D7 ) di Niccolò Tommaseo, in cui si dà spazio all’analisi di complesse dinamiche psicologiche, gli scrittori italiani si orientano nettamente verso il sottogenere del romanzo storico, il cui atto di nascita sono proprio i Promessi sposi di Manzoni (1827), a cui seguiranno innumerevoli romanzi storici tra il 1827 e il 1840. L’esperienza del romanzo storico non produce risultati di rilievo, soprattutto per la tendenza a un’imitazione superficiale del grande modello manzoniano: la ricchezza delle soluzioni narrative dei Promessi sposi viene ridotta a formule ripetitive (fanciulle virtuose perseguitate, amori contrastati ecc.), la problematica visione manzoniana della vita è schematicamente trasformata in una contrapposizione obbligata tra buoni e cattivi (dove i cattivi sono inevitabilmente i potenti), la severa riflessione morale di Manzoni si ritrova traslata in moralistico sentimentalismo. Così accade ad esempio nel romanzo Marco Visconti (1834) di Tommaso Grossi. Ancora più difficile risulta imitare il sapiente rapporto tra macrostoria e microstoria, che costituisce il grande fascino del romanzo manzoniano. Nel fitto panorama dei romanzi storici risultano interessanti, come documenti di un genuino patriottismo, i romanzi di Massimo d’Azeglio, Ettore Fieramosca (1833) e Niccolò de’ Lapi (1841), e L’assedio di Firenze (1836) e la Battaglia di Benevento di Guerrazzi. I romanzi di Guerrazzi non seguono il modello manzoniano né quello scottiano, ma risentono piuttosto della suggestione del romanzo nero inglese e del titanismo byroniano. A partire dal 1840 l’interesse dei lettori e degli scrittori si sposta dalla storia passata alla realtà contemporanea e alla dimensione sociale, e il genere del romanzo storico conosce un rapido declino. Emergeranno nuovi filoni narrativi, come la narrativa campagnola (o “rusticale”), in cui è rappresentato il mondo contadino come depositario di valori positivi, in contrapposizione al mondo cittadino, amorale e senza scrupoli. Un primo, fortunato esempio di romanzo “rusticale” è Angiola Maria di Giulio Carcano (1839). La memorialistica In rapporto alla lotta risorgimentale si moltiplicano gli scritti di chi ad essa partecipò, con l’obiettivo di condividere ricordi personali e ideali patriottici con il popolo di una nazione che stava nascendo e andava formata: da I miei ricordi di Massimo d’Azeglio a Le ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (➜ C7 T6 ).

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L’esempi più celebre della scrittura di memorie è Le mie prigioni di Silvio Pellico, in cui il patriota piemontese, che aveva aderito alla Carboneria, rievoca gli anni trascorsi nella prigione dello Spielberg (➜ C7 T8 , T9 OL). Nella seconda metà del secolo, in un clima ideologico e politico ormai diverso, si collocano gli iscritti memorialisti che rievocano il clima eroico ed entusiasta delle imprese garibaldine, come Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, di Giuseppe Cesare Abba. Il teatro: la fortuna del melodramma Nel primo Ottocento l’unico esempio di letteratura drammatica di un certo interesse in Italia sono le due tragedie manzoniane, Il conte di Carmagnola (1820) e Adelchi (1822), che mettono in discussione, secondo le prospettive dei teorici romantici tedeschi, le unità pseudo-aristoteliche. Nel complesso, tragedia e commedia non incontrano più il gusto del pubblico, attratto invece dal genere del melodramma: nei melodrammi ottocenteschi il rapporto fra testo e musica tende decisamente a privilegiare la seconda rispetto alla qualità della scrittura del libretto. Importanti i melodrammi verdiani, in cui rifluiscono anche spunti patriottici facilmente riconosciuti dal pubblico.

La letteratura nella prima metà dell’Ottocento

POESIA

• decadenza dei generi tradizionali • trionfo della lirica, rivoluzionata nei contenuti e nelle forme • panorama deludente in Italia: prevalgono lirica patriottica, ballate e novelle in versi • uniche eccezioni: Foscolo e Leopardi, ma anche Porta e Belli

ROMANZO

• sostituisce molti generi in via di estinzione • innovativo per forme e temi, estende i confini della letteratura • diverse tipologie: storico, popolare, autobiografico, gotico, realista • in Italia si affermano il romanzo storico (Manzoni) e la memorialistica risorgimentale

TEATRO

• in Italia scarso interesse verso tragedia e commedia • successo del melodramma (Verdi)

Fissare i concetti Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento 1. Quali sono le ragioni del successo del genere lirico nel primo Ottocento? 2. Quali sono le caratteristiche della poesia patriottica italiana? 3. Quali sono le tipologie di romanzo che hanno più successo in Italia nel primo Ottocento?

Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento

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L’evoluzione della lingua 1 Il problema della lingua nel primo Ottocento Contro l’egemonia del francese Durante il periodo napoleonico l’istituzione di stati che dipendevano direttamente dalla Francia, l’annessione diretta alla Francia di ampie zone dell’Italia e la presenza massiccia di soldati francesi nel nostro paese comportano una forte influenza del francese, già infiltratosi nell’italiano durante l’Illuminismo, come lingua di prestigio culturale. A questa diffusione del francese, particolarmente evidente nell’ambito politico e amministrativo in seguito alle riforme napoleoniche della pubblica amministrazione, si contrappone la difesa e valorizzazione del patrimonio culturale e linguistico italiano. Essa è rappresentata soprattutto dai cosiddetti puristi (il termine allude appunto alla difesa della purezza della lingua italiana da ogni tipo di imbarbarimento), il cui maggiore rappresentante è Antonio Cesari. I puristi e i classicisti Tra il 1806 e il 1811 l’abate veronese Antonio Cesari (17601828) ristampa il Vocabolario della Crusca con l’aggiunta di circa 50.000 vocaboli trecenteschi caduti in disuso (Giunte veronesi). Se Pietro Bembo, nell’ambito della questione cinquecentesca della lingua, aveva proposto come modelli linguistici in prosa e in poesia i grandi autori del Trecento (in particolare Boccaccio e Petrarca), Cesari guarda piuttosto ai testi del Trecento minore come modelli dello “scrivere bene”, a cui ispirarsi: «tutti [...] in quel benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene», afferma egli nella sua Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (1810); anche i mercanti e i bottegai, a suo parere, in quello che Cesari considera il secolo d’oro della lingua toscana, possedevano «un certo natural candore [...] una grazia di schiette maniere». Cesari propone quindi l’imitazione anche degli autori minori (specie appartenenti alla letteratura devozionale) o del linguaggio delle arti e non solo, come sosteneva il Bembo, dei grandi letterati. Anche Vincenzo Monti (1754-1828), lo scrittore più noto dell’età napoleonica e rappresentante della poesia neoclassica, ripropone l’autorità del Vocabolario della Crusca e rifiuta la penetrazione del francese, ma dissente dal restringere il modello linguistico a un solo secolo (il Trecento) e a una sola regione (la Toscana), suggerendo come modelli anche autori moderni, da Parini ad Alfieri. Inoltre propone aggiornamenti e correzioni che aprano la lingua al lessico scientifico e tecnico e ai neologismi (Proposta di alcune correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca, 1817-1826). Simile è la posizione di un altro classicista, Pietro Giordani, che condivide con Monti l’idea che l’imprescindibile modello di chi scrive debba essere la tradizione letteraria. Si tratta sempre di una prospettiva linguistica fondamentalmente elitaria, che dà per assodata la diversità tra lingua scritta e lingua parlata. I romantici Coerentemente con le loro idee in campo estetico, i romantici oppongono in campo linguistico al principio di imitazione il principio della naturalezza, della spontaneità, rifiutando una lingua scritta libresca, antiquata, lontana da quella parlata. La lingua dev’essere moderna e popolare, espressione della nazione e compresa dal maggior numero possibile di lettori.

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Nel concreto, però, questo obiettivo non viene realizzato (tranne che da Manzoni): gli autori di romanzi storici, il genere più popolare, sono incapaci di liberarsi da una sintassi contorta e da un lessico aulico. Riguardo poi alla lingua poetica, essa rimane ancora più artificiosa e aulica della prosa. Il fondamentale contributo di Manzoni Anche a prescindere dai Promessi sposi, Manzoni, muovendo da una visione della lingua opposta a quella dei puristi e dei classicisti, offre il contributo principale e più autorevole alla questione della lingua del suo tempo (una questione che attraversa i secoli e che era stata aperta da Dante con il De vulgari eloquentia). Certamente Manzoni è indotto a riflettere sulla questione della lingua dai problemi contingenti e concreti incontrati come romanziere nella stesura dei Promessi sposi, ma si rivela poi in grado di porre la questione della comunicazione in termini generali, che non riguardino cioè solo la comunità degli scrittori (e la lingua letteraria), ma l’intero corpo dei parlanti e scriventi della nazione. Nelle lettere all’amico Claude Fauriel (storico e linguista francese) Manzoni si mostra ben consapevole dei problemi della situazione italiana: non esiste una lingua scritta viva, moderna, comune, adatta alle occasioni della comunicazione sociale media, perciò si usa una lingua accademica, lontana dalle esigenze della quotidianità, segnata da un forte divario rispetto alla lingua parlata, a sua volta frammentata nei diversi dialetti della penisola. La soluzione linguistica adottata nei Promessi sposi, cioè il fiorentino moderno parlato dalle persone colte, appare a Manzoni anche la soluzione più valida al problema della lingua in Italia, capace di imporsi a livello nazionale e di vincere le divisioni linguistiche proprie del nostro paese. Alla base dell’idea di Manzoni stanno da un lato la convinzione dell’indiscussa centralità avuta da Firenze nella storia della lingua e dall’altro l’idea che sia l’uso dei parlanti a costituire l’unica norma in campo linguistico. La proposta di Manzoni è accolta dal neonato stato italiano, che ne fa il perno della formazione di base degli italiani. Ma l’effettiva unificazione linguistica del paese avverrà almeno un secolo dopo e seguirà strade molto diverse da quella prospettata da Manzoni.

La situazione della lingua nell’Ottocento La situazione in italia

Il dibattito sulla lingua

• italiano scritto di matrice letteraria, appannaggio di pochi, inadatto ai generi della modernità e alla pronta comunicazione • italiano parlato da una minoranza fra una maggioranza di dialettofoni

Nella prima metà del secolo si contrappongono: • puristi e classicisti (a favore della tradizione letteraria e contro l’uso di francese e francesismi) • romantici (a favore di una lingua moderna e popolare)

Manzoni nei Promessi sposi sceglie il fiorentino parlato dalle persone colte, offrendo una soluzione alla questione della lingua

Fissare i concetti L’evoluzione della lingua 1. Quale obiettivo si propone il gruppo dei cosiddetti “puristi”? 2. Quali sono le posizioni di Cesari, Monti e Giordani relativamente alla questione della lingua? 3. Qual è, invece, la posizione dei romantici? 4. Illustra il ruolo di Manzoni nella questione della lingua.

L’evoluzione della lingua 4 41


Libri, lettori, lettura

Nuovi libri, nuovi modi di leggere Lo sviluppo dell’editoria In Europa, già nel primo Ottocento il mercato del libro inizia ad ampliarsi, grazie alla crescita di un pubblico medio e piccolo borghese, soprattutto in rapporto alla straordinaria fortuna del romanzo. La trasformazione della produzione di libri in impresa commerciale di vasta portata dipende però innanzitutto da fondamentali innovazioni nella tecnica di produzione del libro, come la graduale sostituzione dei torchi in legno con rotative meccaniche e in seguito la meccanizzazione della composizione tipografica. Dal libraio all’editore L’editore, soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania, tende ad assumere una fisionomia separata e un’importanza sempre più rilevante rispetto al libraio: quest’ultimo cura la distribuzione del libro, ma è l’editore a decidere quali libri pubblicare, sia in rapporto alla sua personale visione culturale, sia (e soprattutto) in rapporto alle richieste del mercato. Avviandosi ad assumere tratti capitalistici, per gli autori l’editoria può allora diventare un mondo spietato: ne è consapevole lo scrittore francese Honoré de Balzac, tra i primi a raffigurare la dura realtà di chi cerca di affermarsi nel na-

Johannes Jelgerhuis, La bottega del libraio Pieter Meijer Warnars sulla Vijgendam ad Amsterdam, olio su tela, 1820 (Amsterdam, Rijksmuseum).

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scente mercato editoriale nel romanzo Le illusioni perdute (1837-1843), come vediamo in un passo che presentiamo (➜ D12 OL), in cui un giovane di belle speranze si presenta da un libraio-editore per pubblicare un suo romanzo e ne ricava una dura lezione. In relazione ai fenomeni più generali dello sviluppo dell’editoria e del consolidarsi di un nuovo pubblico, ovunque in Europa (anche in Italia) la produzione di libri aumenta considerevolmente e si diversifica. In particolare la tiratura dei romanzi cresce in modo esponenziale: dalle 1000-1500 copie all’inizio dell’Ottocento alle 5000 copie verso il 1840, per arrivare alle 30.000 realizzate dai romanzi fantascientifici di Verne. Un nuovo mercato è aperto dalla serializzazione del romanzo, cioè l’edizione in fascicoli periodici a basso costo (addirittura Il capitale di Karl Marx viene letto dai francesi per la prima volta in dispense settimanali). La lettura è favorita dalla diffusione delle biblioteche circolanti che, già largamente presenti nella seconda metà del Settecento, raggiungono in Inghilterra il migliaio all’inizio dell’Ottocento. Malviste, considerate dai benpensanti fonti di corruzione morale (negli stati tedeschi sono addirittura vietate), riescono tuttavia ad affermarsi, creando nuove occasioni e nuovi modi di lettura soprattutto per l’emergente pubblico femminile. Dal libro “autorevole” al libro d’evasione Fino al primo Settecento il libro era ancora considerato uno strumento accreditato, gestito e controllato dalle autorità (secolari ed ecclesiastiche) per garantire la moralità e la disciplina sociale. Già nella seconda metà del XVIII secolo era iniziata però una trasformazione (o per lo meno una diversificazione) della sua funzione. L’evoluzione dei modi di vita, il diffondersi di una mentalità sempre più laica e l’estendersi della lettura a nuove categorie sociali fanno sì che l’at-


tività della lettura si leghi alla soggettività dell’individuo e al piacere di leggere. Si tratta di un processo che nel primo Ottocento muove i primi passi e che anche nei paesi più progrediti come l’Inghilterra coinvolge ancora una parte minima della popolazione, ma che è destinato a crescere in modo rapido negli ultimi decenni del XIX secolo, parallelamente all’affermazione del romanzo. La lettura empatica e il trionfo del romanzo Già verso gli ultimi decenni del Settecento, in contrapposizione alla visione illuministica della lettura educativa e utile, si diffonde dunque una visione e una modalità di leggere “emotiva”, fondata sull’immedesimazione del lettore nei personaggi. Tale tendenza nel primo Ottocento cresce ancora di più. La lettura «narcotica», come la definisce con riprovazione il filosofo tedesco Fichte, è giudicata negativamente dai difensori dell’etica borghese, ma nessuna sconfessione riesce a fermarla, così come nessun pregiudizio riesce a ostacolare il trionfo del romanzo (a cui tale lettura soprattutto si applica) nei gusti di un pubblico che va facendosi sempre più eterogeneo. Considerato dai moralisti un genere pericolosamente distraente, soprattutto per le donne, chiamate dalla famiglia borghese a svolgere nuovi compiti, il romanzo si lega a ritmi personali e a situazioni informali di lettura: come evidenziano anche le rappresentazioni pittoriche, si legge a contatto della natura o in luoghi privati (come la camera da letto), che di per sé vanificano ogni controllo e censura. Le donne e il romanzo Se in passato le donne leggevano testi religiosi, ora scelgono romanzi, riviste femminili, libri di cucina. La donna è comunque vista dagli editori soprattutto come potenziale consumatrice di romanzi, in particolare nella provincia francese. L’associazione romanzo-pubblico femminile è frutto di radicati pregiudizi sull’intelligenza femminile: esseri dalla limitata razionalità, le donne

erano considerate creature emotive, il cui regno elettivo era l’immaginazione. Inoltre il romanzo, all’opposto della lettura istruttiva e utile, era considerato il genere adatto a chi aveva tempo a disposizione. Mentre i quotidiani, in cui si riferivano gli avvenimenti pubblici, erano considerati di competenza maschile e gli uomini li commentavano in luoghi di ritrovo come i pub o i cabaret, i romanzi, che davano spazio alla vita interiore, facevano riferimento alla sfera privata in cui ancora le donne erano relegate. Proprio per questi presupposti i mariti e i padri borghesi temevano i possibili effetti negativi dei romanzi, che potevano stimolare nelle donne sogni d’evasione e suggestioni erotiche (anche per lo spazio sempre maggiore dato in essi al tema dell’adulterio femminile, da Emma Bovary ad Anna Karenina). Ogni cautela e remora risultò però impotente a contrastare il desiderio di lettura delle donne, anche delle classi medio-basse, destinate a diventare clienti abituali delle biblioteche popolari circolanti, che prestavano libri a basso prezzo.

Franz Eybl, Ragazza che legge, olio su tela, 1850 (Vienna, Österreichische Galerie Belvedere).

online D12 Honoré de Balzac Un cinico libraio-editore Illusioni perdute

D13 Giacomo Leopardi La vita effimera dei libri d’oggi Zibaldone [4269-4270]

Libri, lettori, lettura

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Arte nel tempo

Il Neoclassicismo Tra mito ed etica

Antonio Canova, Amore e Psiche, bozzetto, terracotta, 1787 (Venezia, Museo Correr).

Nell’ultimo quarto del Settecento la Rivoluzione industriale e il pensiero illuminista portano la produzione artistica a confrontarsi con i cambiamenti sociali. Il pensiero razionale trova la sua via di espressione visuale nei canoni neoclassici, che idealizzano il reale rappresentandone l’essenza e recuperano l’antico privo degli eccessi barocchi, come esempio di verità etica e di razionalità estetica.

IMMAGINE INTERATTIVA

Antonio Canova, Amore e Psiche, marmo, 1787-1793 (Parigi, Museo del Louvre).

Amore e Psiche di Antonio Canova: la creazione del canone di perfezione Antonio Canova (1757-1822), di base a Roma ma chiamato per importanti committenze in tutta Europa, fa della sua pratica scultorea uno strumento di rievocazione dell’antico anelando a un’ideale di bellezza e di perfezione che muove dalla ripresa dei canoni della scultura classica secondo l’interpretazione di Winckelmann, per il quale l’unica via per l’arte deve essere quella di interpretare l’arte greca, massimo esempio secondo lo storico di «quieta grandezza» e «nobile semplicità». La grazia quasi astratta che caratterizza le opere della maturità di Canova emerge in modo esemplare nel gruppo scultoreo Amore e Psiche, a cui lo scultore lavora tra il 1787 e il 1793, realizzando due copie, oggi conservate al Louvre e all’Ermitage. Se si osservano i bozzetti in cui lo scultore inizia a immaginare l’interazione tra i due personaggi, si nota come Canova progressivamente ridefinisce le forme rendendole essenziali ed equilibra i movimenti in modo che i corpi esprimano una perfezione astratta e impalpabile. Nella scultura definitiva Amore coglie Psiche al risveglio abbracciandola alle spalle e volgendosi verso di

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lei. Scegliendo dal mito di Apuleio il momento del ricongiungimento, Canova rappresenta le due figure nell’istante sospeso appena prima del bacio. Lo spazio vuoto tra i volti è il centro del moto a spirale che idealmente segna la posizione delle braccia. Il corpo semisdraiato di Psiche disegna una linea curva che smussa la diagonale che parte dall’ala di Amore. Da qualunque prospettiva lo si osservi, il gruppo scultoreo appare racchiuso da una forma piramidale che ne ordina e bilancia movimenti e direzioni. Un marmo levigatissimo e di un bianco puro dà forma a due corpi completamente privi di quella carnalità e di quel pathos fondamentali nell’estetica barocca: la grazia delle anatomie e la leggerezza dei movimenti rendono le due figure quasi impalpabili, di una grazia assoluta e concettuale. Nell’Amore e Psiche di Canova l’evocazione della perfezione ideale della Grecia classica diventa una reinterpretazione a tutti gli effetti, che non ha nessun residuo di copia, ma che rilegge in una composizione inedita il mito greco, facendolo vivere di un’estetica tutta settecentesca.


Il Romanticismo in Europa Immaginazione e sentimento

La prima metà dell’Ottocento vede diffondersi in tutta Europa il movimento culturale del Romanticismo, che in seguito alla crisi dei valori illuministi afferma il valore della forza immaginativa e sentimentale dell’individuo. Il Congresso di Vienna, in cui vengono ristabilite le sovranità e i confini del periodo prenapoleonico, inaugura un secolo in cui l’Europa, trasformata dalla rivoluzione industriale, dall’urbanizzazione e dall’emergere di nuove classi sociali come la borghesia e il proletariato, viene attraversata da moti rivoluzionari e indipendentisti. A questi profondi cambiamenti storici si accompagnano quelli culturali, come la nascita del romanzo e la codifica di nuovi linguaggi visuali. Nelle arti figurative vediamo l’affermarsi di un sistema in cui l’artista vuole essere più autonomo dalla committenza, “libero” di sperimentare e di produrre opere che sono personale espressione del suo punto di vista e che vengono acquistate da collezionisti e intenditori d’arte.

L’incendio delle camere dei Lord di William Turner Nella pittura di paesaggio dell’inglese William Turner (1755-1851) il mutamento profondo dei soggetti e delle forme che caratterizza la pittura romantica rispetto a quella di tradizione accademica, ancora legata ai canoni neoclassici, emerge con evidenza. Il paesaggio, privo di riferimenti alla classicità, non è più quello ideale delle vedute archeologiche; lo sguardo sulla città supera quello preciso e distante, “da camera ottica”, dei vedutisti. La concezione turneriana del paesaggio deriva dal concetto di natura come manifestazione dell’infinito, come forza a tratti terribile ed eterna che sopravvive all’uomo e lo pone di fronte alla sua finitezza, suscitando il sentimento del Sublime. Questa visione interseca poi l’ambiente trasformato dalla rivoluzione industriale attraverso la rappresentazione del treno, di vedute urbane e industriali. Turner traduce questa visione della natura con una pittura di puro colore in cui il disegno e la composi-

zione prospettica vengono meno per lasciare il posto ad ampie superfici di colore che creano spazi immensi, e se da un lato richiamano il colorismo dell’ultimo Tiziano, dall’altro sembrano anticipare l’astrattismo novecentesco. Questi aspetti si ritrovano nell’opera L’incendio delle camere dei Lord e dei Comuni, in cui il pittore rappresenta l’incendio, davvero avvenuto, osservandolo dal Tamigi. Pur es-

sendo una veduta urbana, in questo dipinto il soggetto è la natura: in primo piano la superficie acquea del fiume riflette l’arancione del fuoco che divampa nel cielo, rendendo impossibile percepire in modo distinto il parlamento inglese, inghiottito dalle fiamme. La forza della natura appare incontrastabile e all’uomo non resta che osservare impotente e rapito, come i due gruppi di persone ai lati del dipinto.

William Turner, L’incendio delle camere dei Lord, olio su tela, 1834 (Cleveland, Cleveland Museum of Art).

Arte nel tempo

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Arte nel tempo

La nascita della fotografia

Tra realismo e messa in scena

L’Ottocento vede la nascita e l’affermazione di un linguaggio visuale che trasformerà radicalmente la produzione e la fruizione delle immagini: la fotografia. La data canonica a cui si fa risalire la sua origine è il 1839, anno in cui sia Louis Daguerre che Henri Fox Talbot illustrano i loro procedimenti fotografici davanti alle Accademie di Francia e di Londra. In realtà quelli di Daguerre, il dagherrotipo, e di Fox Talbot, la calotipia, erano solo due dei procedimenti fotosensibili messi a punto in quegli anni. Hippolyte Bayard, per esempio, aveva esposto nello stesso 1839 alcune prove fotografiche su carta in una mostra allestita a Parigi in cui dava prova del suo procedimento di stampa positiva diretta utilizzando la carta immersa in cloruro d’argento. Convinto dallo scienziato Arago, amico di Daguerre, ad aspettare a rendere nota la sua scoperta, pur essendo arrivato insieme a quest’ultimo alla messa a punto di un procedimento chimicamente e tecnologicamente valido, egli non lo rese pubblico fino all’inizio del 1840.

Autoritratto come annegato di Hippolyte Bayard Considerato uno dei pionieri dimenticati della storia della fotografia, Hippolyte Bayard (1801-1887) fu l’autore di una delle prime messe in scena fotografiche della storia. Il 18 ottobre 1840 realizzò un autoritratto a torso nudo con gli occhi chiusi intitolando l’immagine Autoritratto come annegato e corredandola di questa didascalia: «Questo che vedete è il cadavere di M. Bayard, inventore del procedimento che avete appena conosciuto. Per quel che so, questo infaticabile ricercatore è stato occupato per circa tre anni con la sua scoperta. Il governo, che è stato fin troppo generoso con il signor Daguerre, ha detto di non poter far nulla per il signor

Hippolyte Bayard, Autoritratto come annegato, 1840, positivo diretto ai sali d’argento.

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Bayard, che si è gettato in acqua per la disperazione […]». L’Autoritratto come annegato non solo rappresenta una delle prime forme di indagine sulle potenzialità manipolatorie dell’immagine fotografica e sul legame tra realtà e finzione: allestendo questa fotografia in modo da inscenare la sua morte, Bayard intuiva che la fotografia, oltre a catturare un frammento di realtà, avrebbe potuto rendere credibile una messa in scena. Ma è anche una testimonianza del dibattito e del fervore che si erano accesi attorno alla nascita di questo linguaggio, e della molteplicità di tecniche e procedimenti scoperti per la messa a punto di immagini tecnologiche e riproducibili.


Ottocento Scenari socio-culturali Neoclassicismo e Romanticismo

Sintesi con audiolettura

1 La visione del mondo. Figure, luoghi e centri della cultura

Un trauma storico Tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento si susseguono in Europa rivolgimenti storici radicali e si avvia la rivoluzione industriale, che sconvolge secolari modi di vivere e lavorare. Ne deriva un senso di precarietà e insicurezza che influenza la visione del mondo e l’immaginario, determinando un universo tematico contrapposto a quello illuminista. In questo nuovo contesto mutano anche le modalità del lavoro e il paesaggio subisce una metamorfosi: sorgono i quartieri industriali e quelli operai, che cambiano il volto delle città. Un nuovo immaginario e un nuovo universo tematico Riferendosi al “Romanticismo” in senso lato e non a un preciso movimento con una sua poetica, si può identificare tale corrente con un nuovo modo di vedere l’uomo, la realtà e la storia che si contrappone a quello del razionalismo illuminista. La cultura romantica valorizza le qualità che distinguono un soggetto da un altro ed esalta gli individui superiori (gli eroi). La personalità romantica è particolarmente sensibile: è inappagata, ribelle alle convenzioni della società, ma è anche preda di conflitti interiori. Comune è l’aspirazione al superamento dei limiti della razionalità: si esplora così, per la prima volta (anche se in senso diverso da quello freudiano), il lato “notturno” e misterioso dell’Io, l’inconscio; esso è il tramite dell’artista con l’essenza, con l’anima. Mediatori verso il viaggio interiore sono l’estasi, la poesia e il sogno, di cui si inizia studiare il linguaggio. Nel mondo esterno, invece, i romantici non vedono, come gli illuministi, solo un insieme di fenomeni fisici, soggetti a leggi meccanicistiche ma, panteisticamente, un organismo vivente pervaso dallo Spirito infinito, il cui mistero può essere compreso dal poeta più che dallo scienziato. La condizione dell’uomo moderno, a cui dà voce la poesia romantica, è caratterizzata dalla nostalgia di una perduta armonia con la natura, dal “male del desiderio” (Sehnsucht in tedesco), cioè dalla brama inappagata di certezze, di ideali, di una bellezza non più presente; e anche da un’aspirazione all’infinito, in opposizione alla realtà limitata di cui l’uomo è prigioniero e da cui può liberarsi solo attraverso l’arte. Il Romanticismo, insomma, si contrappone nettamente alla visione laica e materialistica dell’Illuminismo e riscopre la dimensione del trascendente, del divino: un’operazione cui non è estranea l’esperienza delle brutalità della storia coeva, che spinge a rinnegare la fiducia verso il progresso. I romantici, infatti, riscoprono il senso del divenire storico, che rende un’epoca diversa da un’altra e non valutabile sulla base di parametri astratti. Si afferma il culto del passato, in particolare del Medioevo, visto come l’età cristiana per eccellenza in cui si sono anche formate le nazioni europee. Si abbandona anche il cosmopolitismo illuminista: nel Romanticismo nascono l’idea di nazione – espressione dello Spirito di un popolo, del suo “genio”, delle sue tradizioni – e l’ideale della patria, che accomuna gli abitanti di una nazione. I valori e i modelli di comportamento L’assoluta centralità dell’Io si associa a nuovi modelli di comportamento: l’esibizione dell’emotività e dei turbamenti interiori caratterizza personaggi come Werther e Ortis, nuovi modelli umani. Mentre per gli illuministi la ricerca della felicità costituiva il valore fondamentale a cui tendere, gli eroi romantici quasi si

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compiacciono dell’infelicità, considerata condizione esistenziale elettiva per distinguersi dalla massa. Anche l’amore, esperienza chiave, è concepito come passione totalizzante. Già dai primi anni dell’Ottocento, soprattutto nella classe borghese, quello famigliare conquista un posto centrale. La famiglia – di cui il padre è il capo indiscusso – assume un decisivo ruolo etico nel controllo autoritario dei comportamenti e della trasmissione dei valori, negando autonomia di scelta ai giovani e alle donne. La fisionomia e la condizione degli intellettuali Con il tramonto della corte e della Chiesa come principali centri di aggregazione degli intellettuali, questi ultimi stentano a trovare un’adeguata collocazione sociale e vivono una condizione di insicurezza e precarietà. Aumenta il numero dei letterati di origine borghese che devono cercare di guadagnarsi da vivere con la propria attività ma, sebbene anche in Italia inizi a svilupparsi l’editoria, manca ancora, per chi pubblica delle opere, una normativa legale che tuteli il diritto d’autore: si diffonde, quindi, il fenomeno delle edizioni pirata. Gli intellettuali troveranno un’identità forte e riconosciuta, almeno sul piano ideologico, solo con l’età risorgimentale, divenendo gli artefici della diffusione del sentimento patriottico. Nel primo Ottocento il pubblico dei lettori va ampliandosi, anche in Italia come nei paesi europei più evoluti. La nuova letteratura, frutto delle idee romantiche, guarda ormai anche (e forse soprattutto) ai ceti medi. È soprattutto il genere del romanzo (e in Italia il romanzo storico) ad attrarre lettori e lettrici, mentre tramontano inesorabilmente i generi della letteratura classicistica come l’epica e la tragedia. Nella penisola è soprattutto il melodramma ad attrarre e ad attestarsi come il vero genere nazional-popolare.

2 Modelli del sapere e tendenze filosofico-scientifiche

Il divorzio tra filosofia e scienza e l’inizio della separazione tra le “due culture” Nei primi anni dell’Ottocento scienza e filosofia, che nell’età dei Lumi erano accomunate dall’obiettivo di creare un nuovo sapere, laico e moderno, tendono a separarsi e diversificarsi. La scienza si specializza, sceglie specifici campi di ricerca e accantona i grandi problemi di tipo filosofico, rinunciando però così a esercitare un ruolo guida di tipo culturale nella società. Il ruolo egemone della filosofia tedesca In campo filosofico, come per il Romanticismo letterario, il paese egemone è la Germania, dove si affermano l’Idealismo di Fichte, Schelling ed Hegel e la cosiddetta filosofia della Natura (a cui aderisce anche Goethe). Entrambi gli indirizzi si contrappongono al Razionalismo materialistico e allo Scientismo illuminista; rifiutano il metodo sperimentale e il linguaggio matematico, in nome di una visione spiritualistica.

3 Caratteri e forme della letteratura nella prima metà dell’Ottocento

Il panorama dei generi letterari Durante l’età napoleonica in Italia si assiste al tramonto dei generi letterari più tradizionali. In ambito letterario domina il Neoclassicismo senza produrre risultati di grande rilievo, a eccezione delle opere di Foscolo, che danno voce poetica a suggestioni e temi già romantici, e a quelle di Leopardi e Manzoni. La lirica È il genere lirico a trionfare in questo periodo: il Romanticismo, infatti, identifica la poesia con la lirica. Si tratta di una lirica improntata alla spontaneità creativa dell’ispirazione. In Italia, a parte i casi Leopardi e di Foscolo, essa non raggiunge grandi risultati artistici. Si afferma, in particolare, la poesia patriottica e militante: aulica e teatralizzata, a volte declinata nella forma della ballata o, dopo l’Unità, in componimenti di tono sentimentalistico; in genere, comunque, lavori che sacrificano la qualità al mito della popolarità. Il maggiore dei poeti patriottici è Giovanni Berchet. Unica testimonianza di

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poesia di grande livello è la poesia dialettale, i cui più alti rappresentanti sono Carlo Porta a Milano e Gioacchino Belli a Roma, capaci di dare voce agli strati della società più umili e ignorati dalla letteratura “alta”. Il romanzo La poetica romantica mette in discussione la nozione stessa di genere, con il superamento della precettistica classica. In questo clima, favorevole all’esaltazione dell’“Io”, il romanzo si afferma prepotentemente contribuendo, sul piano tematico, a estendere i confini di ciò che può essere rappresentato in ambito letterario e, dal punto di vita formale, alla mescolanza degli stili e dei “modi” del discorso. In Italia gli scrittori si orientano verso il sottogenere del romanzo storico, il cui atto di nascita è costituito dai Promessi sposi di Manzoni, verso la memorialistica risorgimentale e verso il genere del melodramma.

4 L’evoluzione della lingua

Il problema della lingua nel primo Ottocento Durante l’età napoleonica si diffondono ulteriormente i prestiti dal francese e l’uso di questa lingua come idioma della conversazione dei ceti colti. A quello che considerano un imbarbarimento si oppongono i puristi e i classicisti che, con varie posizioni difendono il prestigio della lingua italiana e l’autorità della tradizione letteraria, a cui ci si deve in ogni caso conformare. I romantici si battono, invece, per una lingua moderna e popolare, che sia comprensibile al maggior numero di persone possibile. Anche Manzoni si riconosce in questa posizione: le scelte linguistiche dei Promessi sposi (l’uso del fiorentino parlato dalle persone colte) vanno in questa direzione.

Zona Competenze Competenza digitale

1. Dopo esservi divisi in piccoli gruppi, svolgete una ricerca sullo sviluppo dell’editoria nell’Ottocento e analizzate uno dei seguenti aspetti: la nuova figura dell’editore; il nuovo rapporto tra editori e autori; il legame con il nascente capitalismo; i rapporti tra editoria e giornalismo. Infine, presentate l’argomento alla classe con una presentazione multimediale.

Esposizione orale

2. L’avvento del Romanticismo è preceduto da alcuni movimenti e tendenze che ne anticipano temi, sensibilità, modalità espressive. Individuali e presentali in un intervento orale di max 8 minuti evidenziando in particolare gli elementi che caratterizzeranno l’estetica romantica. 3. Realizza una presentazione orale di max 5 minuti sul tema del modello umano romantico, delineandone le caratteristiche fondamentali.

Scrittura

4. Traccia un confronto tra Illuminismo e Romanticismo che ne evidenzi le differenze per quanto riguarda la funzione dell’arte, il ruolo dell’intellettuale, la visione della realtà, la concezione della storia e la dimensione politica.

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da Friedrich Schiller, Della poesia ingenua e sentimentale (1796)

Vi sono istanti nella nostra vita in cui dedichiamo una sorta di amore di commosso rispetto alla natura nelle piante, nei minerali, negli animali, nei paesaggi, così come alla natura umana nei bambini, nei costumi del popolo contadino e del mondo primitivo, e non perché essa ristora i nostri sensi, e neppure perché 5 appaghi il nostro intelletto o il nostro gusto (anzi spesso può accadere il contrario dell’una e dell’altra cosa), ma unicamente perché essa è natura. Ogni uomo che sia minimamente raffinato e non difetti totalmente di sensibilità può farne esperienza passeggiando l’aperto, vivendo in campagna o indugiando presso i monumenti dei tempi antichi; in breve, quando in condizioni e situa10 zioni di artificio rimane stupito dalla visione della natura nella sua semplicità. […] Anche oggi la natura rimane l’unico fuoco di cui si nutre lo spirito poetico; solo da essa attinge tutta la sua forza, solo attraverso di essa parla anche nell’uomo artificioso che vive nel processo della cultura.

La sensibilità romantica assegna alla natura – e soprattutto al rapporto del soggetto con la natura, alle risonanze che essa produce nell’animo umano – un posto privilegiato, anche quale fonte di ispirazione poetica. E, soprattutto per i romantici tedeschi, ciò è legato alla sua “autenticità” e “spontaneità”, contrapposte all’artificio della cultura. Ritieni che un simile sentimento della natura possa ancora sopravvivere? Sono analoghe le esperienze che cerchiamo nei pochi “paradisi naturali” rimasti sulla nostra Terra? O invece il processo di civilizzazione ne ha definitivamente compromesso la possibilità, intaccando la natura stessa così come la nostra sensibilità? Sviluppa sul tema una riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio.

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Ottocento CAPITOLO

1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

Già nella seconda metà del Settecento il recupero di modelli classici, che, soprattutto nell’età napoleonica, assume i tratti del “Neoclassicismo”, coesiste con l’emergere di una nuova sensibilità, un nuovo gusto, un nuovo immaginario a cui viene dato il nome convenzionale di “Preromanticismo”. Soprattutto nella cultura europea le due tendenze, e in particolare in alcuni autori di essa, di fatto si sovrappongono. Ma anche nella letteratura italiana non mancano testimonianze della compresenza di Neoclassicismo e spunti preromantici: ne è un esempio l’opera di Ugo Foscolo. Solo quindi per una schematizzazione scolastica presentiamo distinte le due “correnti”.

1 Il Neoclassicismo Monti: 2 Vincenzo la fedeltà al classicismo 3 Il Preromanticismo un genio 4 Goethe: poliedrico 5151


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Il Neoclassicismo Il gusto neoclassico Dalla seconda metà del Settecento e in particolare durante l’età napoleonica si diffonde in Europa un vero e proprio culto dell’antichità classica, tradizionalmente definito Neoclassicismo per distinguerlo dal classicismo umanistico rinascimentale. Più che un vero e proprio movimento di pensiero e letterario (come fu propriamente il classicismo rinascimentale), il Neoclassicismo è un orientamento del gusto, favorito in Francia e in Italia dalla politica culturale del regime napoleonico): iniziato in ambito artistico-figurativo, in seguito coinvolge la letteratura, l’architettura, l’urbanistica e influenza l’arredamento, l’oggettistica, persino l’abbigliamento e le acconciature femminili, che si ispirano alla Roma imperiale, costituendo un vero e proprio fenomeno di costume. Il diffondersi del gusto dell’antico risente inizialmente dell’entusiasmo suscitato negli uomini di cultura europei dagli scavi archeologici di Ercolano, Pompei e Tivoli, iniziati nella prima metà del XVIII secolo, e dalla politica culturale dei papi (da Clemente XIV a Pio VI) che valorizza le scoperte archeologiche, lo studio e la tutela del patrimonio artistico antico di Roma, cercando di ripristinare il clima del mecenatismo rinascimentale. Roma, centro del Neoclassicismo “archeologico” La prima patria del Neoclassicismo è infatti proprio Roma, la città eterna, che continua, con nuove motivazioni, a essere meta del Grand Tour e ad attirare artisti e scrittori. Si ritrovano a Roma, tra gli altri, due figure chiave del Neoclassicismo italiano: Antonio Canova (che nei musei capitolini studia le figure della statuaria classica) e Vincenzo Monti, che nell’ode Prosopopea di Pericle, composta in occasione del ritrovamento di un busto di Pericle, celebra appunto l’età di Pio VI (➜ T2 ). A Roma vive a lungo anche l’archeologo tedesco Joachim Winckelmann (1717-1768). La visione estetica di Winckelmann Nel 1779 viene tradotta la Storia dell’arte nell’antichità (1764) di Winkelmann, fondamentale per l’affermazione del gusto neoclassico. Lo studioso tedesco considera l’arte statuaria della Grecia classica un modello assoluto di perfezione, che l’artista moderno può solo cercare di imitare. Nella visione di Winckelmann il concetto di “bello” ha a che fare con la compostezza, la serenità, il dominio delle passioni, quella «quieta grandezza» che egli ravvisa nell’Apollo del Belvedere (➜ D1 ) e nel celebre gruppo marmoreo del Laocoonte (in realtà entrambe le opere sono copie di età romana). Per Winckelmann l’artista moderno deve imitare gli scultori della Grecia classica, cercando di rappresentare la bellezza ideale e universale, che è armonia, assenza di connotazioni realistiche e di elementi caratterizzanti. L’opera di Winckelmann si diffonde ben oltre la cerchia degli studiosi d’arte, gettando le basi della visione neoclassica anche nella letteratura e imponendo il mito della grecità nella cultura romantica europea (Hölderlin, Shelley, Keats ➜ C4). In ambito letterario l’ideale estetico neoclassico si traduce in generale nella predilezione per soggetti e immagini mitologiche, in particolare in Italia, e nell’impiego di uno stile classicheggiante: lo evidenzia chiaramente l’opera di Vincenzo Monti, il principale rappresentante del Neoclassicismo. Si tratta di una tendenza che nel nostro paese domina pressoché incontrastata nell’età napoleonica, mentre occorrerà attendere l’età della Restaurazione perché attecchiscano le istanze romantiche, già presenti in altri paesi da almeno quindici anni.

52 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Johann Joachim Winckelmann

D1

L’Apollo del Belvedere Storia dell’arte nell’antichità

J.J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, trad. di L. Pampaloni, Boringhieri, Torino 1961

In questo celebre passo, tratto dalla Storia dell’arte nell’antichità (1764), l’archeologo Johann Joachim Winckelmann descrive la statua nota come Apollo del Belvedere (il suo nome deriva dal cortile dei palazzi Vaticani dove si trova ancora oggi). Winckelmann ritiene la statua originaria della classicità greca, ma si tratta in realtà di una copia romana (dell’età di Adriano) di un bronzo greco del IV secolo a.C.

La statua di Apollo rappresenta il più alto ideale artistico fra tutte le opere dell’antichità sfuggite alla distruzione. L’artista ha creato questa opera assolutamente secondo l’ideale, servendosi della materia solo per quel tanto che gli era necessario a realizzare e rendere visibile il suo proposito. [...] Il suo corpo si eleva al di sopra 5 di quello umano e la sua posa rivela la grandezza che lo pervade. Una primavera perenne, come nel beato Elisio1, riveste di amabile giovinezza la sua matura affascinante virilità e aleggia con grazia delicata sulla superba struttura delle sue membra. Penetra con il tuo spirito2 nel regno delle bellezze incorporee e cerca di farti creatore di una natura celeste, perché il tuo spirito possa inebriarsi di bellezze superiori alla 10 natura umana: là, o lettore, nulla vi è che sia mortale o schiavo dei bisogni umani. Non una vena, non un nervo, eccitano ed agitano questo corpo, ma uno spirito celestiale che vi si riversa come un fiume tranquillo quasi ricolma tutta la superficie di questa figura. Egli ha inseguito Pitone3 contro il quale per primo ha teso l’arco ed ora con il suo passo potente l’ha raggiunto e ucciso. Dall’alto del 15 suo spirito soddisfatto il suo sguardo va al di là e al di sopra della sua vittoria, verso l’infinito: disprezzo c’è nelle sue labbra e l’ira ch’egli trattiene tende le sue narici e sale fino alla fronte altera. Ma qui, la pace che vi aleggia beata e quieta non ne viene turbata e il suo sguardo è colmo di dolcezza, 20 come tra le Muse che si protendono per avvolgerlo nel loro abbraccio. [...] Al cospetto di questa meravigliosa opera d’arte dimentico ogni altra cosa e mi elevo al di sopra di me stesso per contemplarla come le si conviene. Il mio 25 petto sembra tendersi e sollevarsi di venerazione come quello che vedo tendersi ricolmo dello spirito di vaticinio4, e mi sento come trasportato a Delo e nei sacri boschetti della Licia5, in quei luoghi che Apollo rendeva sacri con la sua presenza: ché questa mia immagine sembra ricevere vita e movimento 30 come la bellezza di Pigmalione6, come è mai possibile ritrarla e descriverla? L’Apollo del Belvedere.

1 Elisio: la zona dell’oltretomba pagano in cui si immaginava che dimorassero per l’eternità gli eroi, i sapienti, i poeti. 2 Penetra con il tuo spirito: l’invito è rivolto al lettore, in seguito apertamente evocato perché possa elevarsi, entrando anche lui nella dimensione di perfezione

e armonia sovrumana di cui la statua è partecipe. 3 Pitone: il mostruoso serpente che infestava la regione greca della Focide e che, secondo il mito, fu ucciso da Apollo. 4 spirito di vaticinio: spirito profetico. Apollo era il dio dei responsi oracolari.

5 Delo... Licia: l’isola di Delo e la Licia (in Asia Minore) erano luoghi sacri ad Apollo.

6 Pigmalione: mitico re di Cipro. Scolpita una figura femminile, se ne innamorò e chiese alla dea Afrodite di infonderle la vita.

Il Neoclassicismo 1 53


Concetti chiave La bellezza ideale

La descrizione entusiastica dell’Apollo del Belvedere da parte di Winckelmann costituisce indirettamente un documento chiave dell’estetica neoclassica di cui vengono enunciati i princìpi fondamentali: creando la statua di Apollo (che Winckelmann ritiene un’opera originale greca) l’artista ha cercato di rappresentare la bellezza ideale. La materia, cioè il marmo in cui è scolpita la figura di Apollo, è solo il mezzo necessario per rendere visibile a tutti la bellezza incorporea. Imponenza, fascino aggraziato, giovinezza perenne caratterizzano la rappresentazione scultorea del dio, che secondo lo studioso tedesco non è paragonabile, quanto al risultato artistico, a nessun’altra rappresentazione successiva di Apollo. La bellezza del dio ritratto trova la sua essenza nel superamento delle passioni terrene, sacrificate a un’armoniosa superiorità. Assai significativo nel testo è l’invito a chi legge ad allontanarsi dalla dimensione terrena e umana, a entrare nel regno della bellezza incorporea.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali parti della statua, nelle parole di Winckelmann, testimoniano in particolare il superamento delle passioni terrene? 2. Qual è l’atteggiamento di Winckelmann al cospetto della statua?

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 3. Dopo aver svolto una ricerca sull’argomento, realizza una presentazione multimediale sull’Apollo del Belvedere, arricchendola con immagini e video.

online

Gallery Lo “stile neoclassico”

Neoclassicismo e sensibilità romantica Riconducibile in parte al Neoclassicismo è anche l’opera poetica di Ugo Foscolo (1778-1827 ➜ C2). La sua concezione del ruolo della poesia è infatti essenzialmente neoclassica: a ispirare l’itinerario foscoliano è la ricerca dell’armonia, del bello, di una poesia che con la sua altezza e perfezione possa non solo superare i traumi della storia, ma anche sconfiggere il destino mortale dell’uomo («e l’armonia / vince di mille secoli il silenzio», Dei sepolcri, vv. 233-234 (➜ C2 T18 ). Per Foscolo il poeta è interprete dei grandi valori di una civiltà, cantore dei grandi uomini, così come Omero, il sommo poeta, ha reso eterne le vicende di Troia e degli eroi antichi. D’altra parte la tempestosa vita interiore («quello spirto guerrier ch’entro mi rugge», Alla sera, v. 14 (➜ C2 T15 ), le passioni civili e amorose di Foscolo appartengono sicuramente alla nascente sensibilità romantica. Anche l’uso del repertorio mitologico avvicina Foscolo al Neoclassicismo, ma il mito è reinterpretato attraverso una moderna sensibilità. In ambito europeo, in cui Neoclassicismo e Romanticismo coesistono cronologicamente e si sovrappongono, il mito della Grecia si connota come “paradiso perduto”, mondo di bellezza e armonia lontano e irraggiungibile, a cui i moderni guardano nostalgicamente, come è evidente nella celebre lirica di Keats Ode su un’urna greca (➜ C4 T6 ). I romantici avvertono la distanza tra i moderni e gli antichi, considerati più grandi e irrimediabilmente lontani. Introdotto espressamente da Schiller (➜ D2a ), il tema della frattura passato-presente, antichi-moderni è ricorrente nella letteratura tedesca, soprattutto in Hölderlin, in cui assume tratti espressamente romantici, connotandosi come “male del desiderio” (Sehnsucht).

54 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Sguardo sull'arte Il mito della romanità e gli usi politici del Neoclassicismo Al Neoclassicismo idealistico dei poeti tedeschi e inglesi, incentrato sul mito nostalgico della Grecia, si contrappone la mitizzazione di Roma antica, che non assume una funzione evasiva, come invece il mito della Grecia, ma si lega all’esaltazione di valori civili e politici da riportare in auge. Lo testimonia soprattutto la pittura: nel Giuramento degli Orazi (1784), una delle opere-manifesto del Neoclassicismo, Jacques-Louis David (17481825) intende rappresentare, alcuni anni prima della rivoluzione, i valori eroici della prima Repubblica romana a cui la società deve ispirarsi. Non molti anni dopo David celebrerà Napoleone, anche nel ruolo di ritrattista ufficiale: in questo caso il repertorio iconografico classicheggiante di cui si serve non si riconnette più alla Roma repubblicana, ma, significativamente, alla Roma imperiale, come nell’Incoronazione di Napoleone (1805-1807) in linea con il cosiddetto “neoclassicismo cesareo”. In Italia dopo la Repubblica Cisalpina il centro del Neoclassicismo diventa Milano, dal 1804 capitale del Regno d’Italia: artisti, architetti e poeti (come Monti) vengono cooptati per celebrare la gloria del nuovo Impero. Andrea Appiani (1754-1817) celebra le imprese di Napoleone nel ciclo di affreschi a Palazzo Reale. Lo scultore

Antonio Canova (1757-1822) ritrae Napoleone e la sua famiglia come dèi della mitologia classica: Paolina Bonaparte Borghese è rappresentata come Venere, senza alcun riferimento alla reale fisionomia della donna, Napoleone come Marte pacificatore, una figura maschile nuda, imponente, ma al tempo stesso portatrice di quella pacificazione a cui si aspira dopo il sangue versato nella rivoluzione. È Napoleone stesso in Francia e in Italia a dare impulso al gusto neoclassico, presentandosi come continuatore della Roma imperiale: il mito della romanità diventa funzionale alla propaganda di regime che utilizza, con un preciso significato ideologico,

strutture architettoniche scenografiche come l’arco di trionfo e indirizza l’urbanistica a funzioni celebrative. All’inizio dell’Ottocento risale il progetto di foro Bonaparte a Milano, secondo cui all’interno di una struttura circolare avrebbero dovuto collocarsi i luoghi fondamentali della vita sociale, culturale ed economica, come nel modello del foro romano: dal teatro alla Borsa, ispirata al Pantheon. Due secoli dopo anche il fascismo riproporrà, in una nuova versione del classicismo monumentale, miti, immagini e strutture della Roma imperiale funzionali all’autorappresentazione del regime come continuazione della Roma imperiale.

IMMAGINE INTERATTIVA

Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, olio su tela, 1784 (Museo del Louvre, Parigi).

Foro Bonaparte a Milano, progetto di Giovanni Antonio Antolini (incisione, 1800 ca.).

Il Neoclassicismo 1 55


2

Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo Il periodo romano Vincenzo Monti (1754-1828) nasce ad Alfonsine, presso Ravenna; trasferitosi a Ferrara, è ammesso nel 1775 nell’Arcadia. Tre anni dopo va a Roma, dove fa una rapida carriera grazie a una copiosa produzione di gusto neoclassico, in linea con la politica culturale del papato in quel periodo (Prosopopea di Pericle, 1779; La bellezza dell’Universo, 1781). A questa seguono molte altre opere, anche encomiastiche, per lo più ispirate alla poetica neoclassica (Ode al signor di Montgolfier, 1784; Feroniade, 1787). Allo stesso periodo appartengono anche i Pensieri d’amore e gli Sciolti al principe Sigismondo Chigi, entrambi del 1783, che testimoniano la suggestione esercitata su Monti dal gusto preromantico e dal modello del Werther di Goethe. Chiude il periodo romano la Bassvilliana (1793). Nel poemetto, ispirato da un fatto di cronaca (l’uccisione di Ugo di Bassville, delegato di Francia a Roma, in un tumulto popolare antifrancese), Monti depreca gli orrori della rivoluzione francese, allineandosi al conservatorismo politico della Chiesa di Roma. Dall’adesione agli ideali rivoluzionari alla celebrazione del regime napoleonico Nel 1797 Monti abbandona Roma e si trasferisce a Milano, dove aderisce agli ideali rivoluzionari (scrive le odi Il fanatismo, La superstizione, Il pericolo, 1789). In seguito diventa il poeta del regime napoleonico (già nel 1797 aveva dedicato a Napoleone Il Prometeo); seguiranno vari testi poetici di carattere celebrativo, come la tragedia Caio Gracco (1801) e Il Bardo della Selva nera (1806). Nel frattempo era divenuto professore di eloquenza all’università di Pavia (cattedra che tiene fino al 1804). Nel 1810 porta a termine quello che è considerato il suo capolavoro: la traduzione dell’Iliade.

Andrea Appiani, Ritratto di Vincenzo Monti, 1809 (Milano, Pinacoteca di Brera).

L’esaltazione del ritorno degli austriaci Negli anni della Restaurazione cerca di conquistare la benevolenza dei nuovi dominatori, il cui avvento al potere, terminata l’epopea napoleonica, è salutato con composizioni encomiastiche (Il mistico omaggio, 1815; Il ritorno d’Astrea, 1816). Collabora anche alla «Biblioteca italiana», il periodico di alto profilo fondato dal governo austriaco. La vita e l’esperienza poetica di Monti sono caratterizzate dal continuo, e spesso anche troppo disinvolto, adattamento ai tempi, che indurranno Foscolo a formulare sulla sua figura di intellettuale un giudizio estremamente severo (➜ INTERPRETAZIONI CRITICHE Un giudizio severo sulla figura di Monti). Monti passa dalla celebrazione della Roma papalina all’entusiasmo per la rivoluzione, dall’esaltazione di Napoleone a quella, infine, degli austriaci ritornati al governo, dedicando a ogni fase politica versi magniloquenti, nel ruolo di «segretario dell’opinione dominante» come lo ebbe a definire impietosamente il grande critico Francesco De Sanctis.

56 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


JacquesLouis David, Il dolore e il pianto di Andromaca sul corpo di Ettore, olio su tela, 1783 (Parigi, Museo del Louvre).

La fedeltà al classicismo e la difesa della mitologia In una produzione multiforme come quella di Monti la costante è la fedeltà al classicismo: essa si traduce nella scelta di un linguaggio alto e classicheggiante, nell’uso di un repertorio mitologico, attraverso cui nobilitare la realtà. Monti è un convinto sostenitore dell’uso della mitologia, grazie alla quale la poesia può superare la dimensione del contingente: anche avvenimenti e personaggi della contemporaneità vengono trasfigurati miticamente da Monti: è il caso, ad esempio, dell’ode Al signor di Montgolfier (1784), in cui il volo del primo pallone aerostatico viene paragonato con toni epici alla mitica impresa degli Argonauti. A breve, però, la vincente cultura romantica non può che segnare il declino della stella di Monti: la malinconica difesa della mitologia presente nel Sermone sulla mitologia (1825), composto tre anni prima della morte (1828), appare quasi uno sconfortato testamento in un’epoca che segna ormai inesorabilmente il tramonto delle “belle favole” del classicismo. Oggi il vero capolavoro di Monti è considerato la traduzione dell’Iliade, in endecasillabi sciolti, pubblicata nel 1811 (➜ T1 ): è in questa versione che fino a pochi decenni fa le giovani generazioni leggevano a scuola il poema di Omero, a testimonianza del grande successo dell’operazione montiana. L’ambizione del poeta, pienamente realizzata, è non tanto quella di tradurre fedelmente il testo omerico, ma di ricrearlo, nell’intento di ridargli nuova vita in una diversa lingua letteraria, considerata da Monti, per la tradizione illustre da cui deriva, altrettanto nobile del greco di Omero.

Il Neoclassicismo Neoclassicismo più che una corrente, un orientamento del gusto nato come evasione dalla realtà contemporanea e vagheggiamento di un’arte di armonia classica arte

letteratura

• scoperte da scavi archeologici • visione estetica di Winckelmann (Storia dell’arte nell’antichità tradotta nel 1779): attraverso lo studio della statuaria della Grecia antica ambisce a rappresentare la bellezza ideale • il concetto di Bello rimanda alla compostezza, all’equilibrio, al dominio delle passioni

• mito della grecità • stile classicheggiante e immagini mitologiche

IN ITALIA • Vincenzo Monti (1754-1828) riveste di forme classiche temi della modernità e trasfigura miticamente fatti e personaggi del suo tempo • Ugo Foscolo (1778-1827): concepisce il ruolo della poesia come ricerca del bello e dell’armonia, baluardo contro i traumi della storia e il destino degli umani, mostrando, tuttavia, anche una nuova sensibilità romantica

Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 2 57


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Ugo Foscolo Un giudizio severo sulla figura di Monti U. Foscolo, Storia della letteratura italiana per saggi, a cura di M.A. Manacorda, Einaudi, Torino 1979

Dalla sua Storia della letteratura italiana per saggi leggiamo un passo in cui Foscolo esprime un severo giudizio critico sul Monti, il più celebre poeta del tempo.

Questo poeta [...] ha per lo più trattato d’argomenti popolari e d’occasione; sempre cogliendo gli eventi più interessanti del giorno, sostenendo l’opinione della maggioranza e invariabilmente promovendo gli interessi dei successivi governi al potere. Con tali vantaggi non è meraviglia che trovasse numerosi, volonterosi e 5 avidi lettori; e neppure che i vari governi abbiano continuato, uno dopo l’altro, a tenerlo in conto di loro partigiano1. Qualche maggior sorpresa può recare l’avvertire l’aria, nonché d’entusiasmo, di sincerità, con la quale pronunciò i suoi panegirici2 contraddittorî e con mirabile destrezza assunse piuttosto apparenza d’uomo pentito che non mutevole, convertendo così i dettati dell’interesse in un caso di coscienza3. 10 A vicenda adulando ed irritando ciascun partito, non ha soltanto eccitate le passioni de’ suoi contemporanei, ma le ha dirette su di sé stesso. I suoi meriti reali e i vantaggi che dalla sua potente penna derivavano alla fazione trionfante l’hanno protetto dall’esser trascurato; e quel suo prostituire l’ingegno, che l’avrebbe fatto odioso o ridicolo in Inghilterra, riuscì meno spregevole in un paese dove le azioni 15 politiche si guardano con maggiore indifferenza e con intelligenza minore. [...] 1. a tenerlo in conto di partigiano: a considerarlo un sostenitore 2. panegirici: discorsi volti a esaltare qualcuno

3. convertendo … coscienza: trasformando scelte dettate dall’interesse personale in scelte interiori.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Su quali atteggiamenti di Monti Foscolo fonda il suo giudizio negativo sul personaggio? 2. Nell’ultima parte del brano il giudizio su Monti si intreccia con quello sull’Italia: su quale base? 3. Partendo dal passo di Foscolo e facendo riferimento alle tue conoscenze personali, esprimi un tuo giudizio sul Neoclassicismo e sull’opera di Monti.

58 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Vincenzo Monti

T1

La traduzione dell’Iliade: protasi del poema L’Iliade di Omero, vv. 1-41

V. Monti, L’Iliade di Omero, introduzione e commento di M. Mari, 2 voll., Rizzoli, Milano 1990

AUDIOLETTURA

Non è un caso che la traduzione dell’Iliade, realizzata da Monti nel 1810, sia oggi considerata la sua opera maggiore: in questa impresa Monti abbandona ogni filtro, ogni opportunistica celebrazione dei vari potenti della terra, per mettere la sua penna magistrale al servizio esclusivo dell’amata antichità classica. Proponiamo la protasi del poema, uno dei passi più celebri della traduzione montiana.

Cantami, o Diva1, del Pelìde2 Achille l’ira funesta, che infiniti addusse3 lutti agli Achei4, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi5, 5 e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò6 (così di Giove l’alto consiglio s’adempìa7), da quando primamente disgiunse aspra contesa8 il re de’ prodi Atride9 e il divo Achille10. 10 E qual de’ numi inimicolli11? Il figlio di Latona e di Giove. Irato al Sire, destò quel Dio nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa d’Atride, che fece a Crise sacerdote oltraggio12. 15 Degli Achivi era Crise alle veloci prore venuto, a riscattar la figlia con molto prezzo. In man le bende avea, e l’aureo scettro dell’arciero Apollo; e agli Achei tutti supplicando, e in prima 20 ai due supremi condottieri Atridi13: O Atridi, ei disse, o coturnati14 Achei, gl’immortali del cielo abitatori concedanvi espugnar la Prïameia cittade15, e salvi al patrio suol tornarvi.

La metrica Endecasillabi sciolti 1 Cantami, o Diva: il poeta si rivolge, quasi ne fosse solo uno strumento, alla musa della poesia epica, chiedendole di narrare tramite la sua poesia (Cantami) le vicende degli eroi antichi. 2 Pelìde: Achille è di Peleo, re della Tessaglia. Nella poesia epica sono frequenti i patronimici. 3 addusse: provocò. 4 Achei: Greci. 5 molte... d’eroi: trascinò nell’oltretomba (Orco) prima del tempo molte generose anime (alme) di eroi. 6 di cani... abbandonò: abbandonò i loro cadaveri orribilmente in pasto a cani e uccelli.

7 di Giove… s’adempìa: si realizzava la suprema decisione di Giove. 8 da quando... contesa: da quel primo momento in cui un’aspra rivalità divise. 9 il re de’ prodi Atride: il re dei valorosi, Agamennone (della stirpe dei figli di Atreo), comandante delle armate greche. 10 il divo Achille: il divino Achille (perché figlio della dea Teti). 11 qual... inimicolli: chi degli dei li rese nemici? 12 Il figlio... oltraggio: Apollo, figlio di Giove e Latona. Quel dio scatenò una terribile pestilenza (feral morbo) nel campo acheo perché adirato contro Agamennone (il Sire), e la gente moriva; colpa di Agamennone, che aveva oltraggiato Crise, sacerdote di Apollo. Conquistata Tebe, al-

leata di Troia, gli Achei avevano preso come schiave le donne. Ad Agamennone era toccata la più bella, Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo che, come si dice ai vv. 15-17, si era recato alle navi (prore) achee per riscattare la figlia. 13 In man... Atridi: nelle mani aveva le bende sacerdotali e lo scettro dorato di Apollo, munito d’arco (bende e scettro sono ornamenti della veste sacerdotale). I due supremi condottieri a cui rivolge la supplica per riavere la figlia sono Agamennone e Menelao. 14 coturnati: i coturni erano le calzature dei greci. 15 Prïameia cittade: la città di Priamo, cioè Troia.

Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 2 59


Deh! mi sciogliete16 la diletta figlia, ricevetene il prezzo, e il saettante Figlio di Giove rispettate17. – Al prego tutti acclamâr18: doversi19 il sacerdote riverire, e accettar le ricche offerte. 30 Ma la proposta al cor d’Agamennóne non talentando, in guise aspre il superbo accomiatollo, e minaccioso aggiunse20: Vecchio, non far che presso a queste navi ned or né poscia21 più ti colga io mai; 35 ché forse nulla ti varrà22 lo scettro né l’infula23 del Dio. Franca non fia costei, se lungi dalla patria, in Argo, nella nostra magion pria non la sfiori vecchiezza, all’opra delle spole intenta24... 40 e a parte assunta del regal mio letto25. Or va, né m’irritar, se salvo ir brami26. 25

[Crise, adirato, pregherà Apollo di vendicarlo. Il dio seminerà una terribile pestilenza tra le armate dei greci. Un indovino ne spiegherà la ragione. Agamennone allora sarà costretto a restituire Criseide; in cambio si prenderà la schiava di Achille, Briseide. L’eroe deciderà allora, per protesta, di ritirarsi dalla guerra, sottraendo alla sua gente la sua forza prodigiosa in battaglia (è questa l’ira funesta di Achille a cui si riferisce l’incipit del poema).] 16 mi sciogliete: liberate per me. 17 ricevetene... rispettate: ricevete per lei il riscatto e rispettate il figlio di Giove munito d’arco (Apollo arciero, v. 18). 18 acclamâr: acclamarono. 19 doversi: si doveva. 20 Ma la proposta... aggiunse: ma non piacendo (talentando) la proposta al cuore di Agamennone, superbo, lo congedò in

modo (in guise) aspro e aggiunse minaccioso. 21 ned or né poscia: né ora né in seguito. 22 ti varrà: ti servirà. 23 l’infula: la sacra benda. L’infula era la benda che i sacerdoti avvolgevano intorno al capo come segno della loro consacrazione agli dei. 24 costei... intenta: costei (si riferisce al-

la figlia del sacerdote, Criseide) non sarà libera (franca non fia), prima che in Argo, nella nostra casa, lontano dalla patria non la raggiunga la vecchiaia, mentre sarà intenta a tessere (all’opra delle spole). 25 a parte… letto: da me presa come concubina. 26 se salvo ir brami: se desideri andartene incolume.

Analisi del testo «Gran traduttor de’ traduttor di Omero» La traduzione dell’Iliade di Monti, assieme al parallelo tentativo di Foscolo (Esperimenti di traduzione dell’Iliade) e alla traduzione dell’Odissea di Pindemonte, si inquadra nel culto di Omero che si diffonde nel primo Ottocento in Europa. L’obiettivo di Monti non è quello di mantenere la fedeltà filologica al testo di Omero, ma di “ricrearlo” per i moderni e in una lingua (quella della tradizione letteraria italiana) che ben può gareggiare con l’illustre modello. Con la sua traduzione Monti riesce veramente a ridare vita all’antico, grazie alla sua profonda conoscenza della letteratura antica, all’abilità di versificatore e alla raffinata competenza linguistica. L’operazione montiana, aspramente criticata da Foscolo, convince invece Madame de Staël, per la quale difficilmente l’Iliade sarebbe stata letta in altre traduzioni. E il giudizio della de Staël è davvero profetico perché, come detto, la traduzione montiana si imporrà nel tempo, esercitando una grande suggestione.

60 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è l’argomento dell’Iliade, enunciato nell’invocazione alla Musa? 2. Quale divinità semina la morte nell’accampamento degli Achei e per quale ragione? LESSICO 3. Individua esempi del lessico aulico (in particolare latinismi) a cui Monti ricorre per costruire il tono epico alto e sostenuto che caratterizza la sua traduzione e fanne una schedatura, aiutandoti con il vocabolario. STILE 4. Individua e sottolinea le molte anastrofi che rendono complesso l’andamento sintattico.

Interpretare

SCRITTURA 5. Riscrivi il testo in una versione moderna e poi spiega, in una breve trattazione al massimo di 15 righe, la modalità con cui hai operato e le difficoltà (lessicali, morfologiche e sintattiche) incontrate.

Vincenzo Monti

T2 V. Monti, Opere, a cura di M. Valgimigli e C. Muscetta, Ricciardi, Milano-Napoli 1953

Prosopopea di Pericle L’occasione della composizione di quest’ode (di cui proponiamo alcuni versi dalla prima parte) è il ritrovamento, nell’estate del 1799, di un busto del grande uomo politico ateniese Pericle, negli scavi di Tivoli, da parte dell’archeologo Ennio Quirino Visconti. L’ode ha carattere encomiastico: dedicata a papa Pio VI, ne celebra la capacità di far rivivere i fasti dell’Atene del V secolo a.C. L’elogio è messo in bocca a Pericle stesso, di cui l’erma tornata alla luce costituisce una sorta di personificazione (è questo, appunto, il significato del termine prosopopea).

Io de’ forti Cecropidi nell’inclita famiglia d’Atene un dì non ultimo 4 splendor e maraviglia,1 a riveder io Pericle ritorno il ciel latino, trïonfator de’ barbari2, 8 del tempo e del destino. In grembo al suol di Catilo (funesta rimembranza!) mi seppellì del Vandalo 12 la rabbia e l’ignoranza3. Ne ricercaro i posteri gelosi il loco e l’orme, e il fato incerto piansero 16 di mie perdute forme4. [...] La metrica Ode in forma di canzonetta, in quartine di settenari con schema ABCB

1 Io... maraviglia: la costruzione dei primi quattro versi è: “Io, un dì non ultimo splendor e maraviglia d’Atene nell’inclita famiglia de’ forti Cecropidi”. Io, che un tempo (un dì non ultimo) ero splendore

e meraviglia di Atene tra i discendenti di Cecrope (il mitico fondatore della città). Per bocca del busto ritrovato sta parlando Pericle stesso. 2 barbari: le popolazioni barbariche che conquistarono Roma e provocarono la fine dell’Impero romano. 3 In grembo... l’ignoranza: la rabbia e l’in-

cultura dei vandali (una delle popolazioni barbariche che saccheggiarono Roma) mi seppellirono a Tivoli (il mitico fondatore dell’antica Tibur, oggi Tivoli, fu Catilo). 4 Ne ricercaro... forme: i posteri, desiderosi di riavermi, cercarono il luogo della mia scomparsa e le mie tracce e lamentarono la mia sorte incerta.

Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 2 61


Ed aspettai benefica etade in cui sicuro levar la fronte, e l’etere 36 fruir tranquillo e puro5. Al mio desir propizia l’età bramata uscio, e tu sul sacro Tevere 40 la conducesti, o Pio. Per lei già l’altre caddero men luminose e conte, perché di Pio non ebbero 44 l’augusto nome in fronte6. Per lei di greco artefice le belle opre felici van del furor de’ secoli 48 e dell’obblio vittrici7. Vedi dal suolo emergere ancor parlanti e vive di Perïandro e Antistene 52 le sculte forme argive. Da rotte glebe incognite qua mira uscir Bïante, ed ostentar l’intrepido 56 disprezzator sembiante: là sollevarsi d’Eschine la testa ardita e balda, che col rival Demostene 60 alla tenzon si scalda8. Forse restar doveami fra tanti io sol celato, e miglior tempo attendere 64 dell’ordine del Fato? Io, che d’età sì fulgida più ch’altri assai son degno? io della man di Fidia 68 lavoro e dell’ingegno9? [...] 5 Ed aspettai... puro: e attesi un’età benefica in cui potessi mostrarmi (levar la fronte) senza pericoli (sicuro), e godere dell’aria tranquilla e pura. 6 Al mio desir... in fronte: si inserisce ora apertamente nell’ode il motivo encomiastico, l’elogio della splendida età di Pio VI (indirettamente paragonata all’età di Pericle). L’età desiderata arrivò (uscìo) propizia al mio desiderio (di tornare alla luce), e fosti tu, o Pio, a portare questa età sul sacro Tevere. Per lo splendore dell’età nuova (per lei) le altre epoche meno lumi-

nose e famose caddero nell’oblìo, perché non portarono il nome augusto di Pio. 7 Per lei... vittrici: grazie alla nuova età le belle opere degli artisti greci hanno la meglio (van vittrici) sulla violenza distruttrice (furor) e sull’oblìo dei secoli. 8 Vedi... si scalda: per alcuni versi sono ricordate le statue di grandi personaggi greci portate alla luce dagli scavi archeologici promossi da Pio VI (ma l’autore, efficacemente, le presenta come esseri viventi che fuoriescono dalla terra scavata (da rotte glebe... uscir): Periandro (VII-VI

62 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

sec. a.C.), tiranno di Corinto, è uno dei sette sapienti; Antistene (V sec. a.C.) è il fondatore della scuola filosofica cinica; Biante (VI sec. a.C.) è un legislatore; Eschine e Demostene, presentati nell’atto di sfidarsi, sono due grandi oratori ateniesi del IV secolo che furono effettivamente acerrimi nemici. 9 io della man... e dell’ingegno: io, che sono opera (lavoro) della mano e del genio di FidiaW L’erma di Pericle fu attribuita dall’archeologo Ennio Quirino Visconti a Fidia, il maggiore degli scultori greci (V sec. a.C.).


Analisi del testo Un’ode encomiastica Il motivo ispiratore dell’ode non è tanto l’emozione per il ritrovamento dell’erma antica tornata alla luce, quanto la celebrazione dell’età di Pio VI, il pontefice che dà grande impulso agli scavi archeologici rinnovando i fasti della Roma rinascimentale e che, attraverso questa composizione, Monti cerca evidentemente di ingraziarsi (lui stesso definisce l’ode «canzonetta per il papa»). Da qui le scelte compositive dell’ode, ispirate a un sapiente utilizzo delle tecniche retoriche, a cominciare dalla scelta fondamentale, d’indubbia efficacia, di affidare l’enunciazione del discorso all’erma stessa: è il busto di Pericle, qui presentato come personificazione (prosopopea) del grande uomo politico ateniese, a parlare. L’erma di Pericle, tornata a rivedere trionfalmente la luce, lamenta il destino funesto e la barbarie degli invasori vandali che fecero perdere le sue tracce (vv. 1-16). A partire dal v. 33 fa il suo ingresso il motivo encomiastico: l’erma ha atteso per secoli che si ripresentasse un’età propizia alle arti, e naturalmente quell’età coincide con il papato di Pio VI, di fronte alla quale passano in secondo piano le età precedenti. Il poeta nei versi successivi (vv. 45-60) nomina, in tono sempre aulico e classicheggiante, le statue di uomini politici e di cultura recuperate negli scavi archeologici. È logico che anche la statua di Pericle torni dunque alla luce, tanto più che essa è opera, secondo l’opinione di Ennio Quirino Visconti, del più grande scultore greco, Fidia (V secolo a.C.).

Gli espedienti retorici Domina il testo una forte intonazione enfatica e retorica: ricorrono le personificazioni e, nella parte finale del testo, le interrogative retoriche; frequenti sono le inversioni e le coppie volte a intensificare il concetto espresso. Monti mostra grande capacità virtuosistica nella rappresentazione, di evidenza “visiva”, delle statue che tornano alla luce (vv. 49-60), ma nel complesso l’ode suscita nel lettore di oggi l’impressione di una prova di bravura tecnica, di una costruzione artificiosa, nella quale il linguaggio aulico e gli stilemi classicheggianti sono impiegati per colpire un certo tipo di lettori. Ed effettivamente all’epoca il successo non manca, al punto da stupire l’autore stesso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto dell’ode (max 5 righe). COMPRENSIONE 2. Chi il poeta immagina che vada cercando, senza trovarla, l’erma di Pericle? ANALISI 3. Come è presentata l’età di Pio VI? Individua e commenta i versi encomiastici, in cui Monti esalta la promozione degli scavi archeologici che caratterizzarono il pontificato di Pio VI. LESSICO 4. Analizza il lessico usato e individua i termini e le espressioni che appartengono al registro aulico. STILE 5. Assai ricorrente è la figura retorica dell’anastrofe (in particolare la posposizione del soggetto al complemento di specificazione): individua e trascrivi alcuni esempi. Ricerca altre figure retoriche nel testo.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. In un intervento orale di circa tre minuti, chiarisci il ruolo attribuito all’arte dal Neoclassicismo.

Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 2 63


3 Il Preromanticismo 1 In Germania: il gruppo dello Sturm und Drang

Caspar David Friedrich, Mare al chiaro di luna, olio su tela, 1836 (Amburgo, Hamburger Kunsthalle).

Le origini dello Sturm und Drang I princìpi basilari del Romanticismo, poi diffusi in tutta Europa, si devono ai romantici tedeschi, in particolare ai fratelli Schlegel (che nel 1798 fondano la rivista «Athenaeum», al poeta Novalis, ai filosofi Fichte e, soprattutto, Schelling (➜ C3): quando si parla di Romanticismo è fondamentale fare riferimento anzitutto alla cultura tedesca. Proprio in Germania del resto sono più consistenti, sotto il profilo ideologico, le tendenze anticipatrici della visione romantica presenti già nella seconda metà del Settecento, così da legittimare la definizione di pre-romanticismo o protoromanticismo, cioè di una fase effettivamente embrionale del Romanticismo vero e proprio. Tali tendenze sono in particolare rappresentate dal gruppo (non si tratta di una vera e propria scuola) dello Sturm und Drang, attivo tra il 1770 e il 1785 e caratterizzato da una marcata polemica nei confronti del classicismo e del razionalismo. L’espressione Sturm und Drang, che letteralmente significa “Tempesta e assalto”, deriva dal titolo di un testo teatrale di Friedrich Maximilian Klinger, uno degli Stürmer, del 1776. Lo Sturm und Drang ha come teorici Georg Hamann (1730-1788) e Johann Gottfried Herder (1744-1803). Del gruppo fanno parte, in giovinezza, Friedrich Schiller (1759-1805), come testimonia il dramma I masnadieri (1781), che sferra un aspro attacco contro le istituzioni (➜ T3 ), e per alcuni anni Goethe stesso: il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (1774) costituisce il documento letterario più rappresentativo del clima ideologico e delle principali tematiche dello Sturm und Drang e, più in generale, del Preromanticismo. Gli Stürmer gettano le basi di molte tematiche romantiche: in particolare la distinzione fra poesia d’arte (Kunstpoesie) e poesia di natura (Naturpoesie) e l’esaltazione della poesia popolare (Herder), il culto del genio (➜ PAROLA CHIAVE Genio, SCENARI, PAG. 9), l’enfatizzazione del valore delle passioni, il tema della ribellione, della sfida titanica ai limiti imposti all’uomo dalla società e dal destino. Forse proprio per il radicalismo delle posizioni il gruppo si estingue ben presto e quasi tutti i suoi componenti si allontanano dall’originario spirito ribellistico, da Schiller a Herder (che a Weimar diviene amministratore ecclesiastico) a Goethe, che modifica le posizioni giovanili per aderire a una visione classicheggiante e armonica dell’arte e della vita.

64 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Friedrich Schiller

T3

Il credo ribellistico degli Stürmer

LEGGERE LE EMOZIONI

I masnadieri, II scena F. Schiller, I masnadieri, trad. di B. Allason, Einaudi, Torino 1966

Per dare un’idea dello spirito ribellistico che anima gli Stürmer proponiamo breve passo tratto dalla II scena del dramma di Schiller I masnadieri.

KARL Essi1 sbarrano la via alla sana natura con le più smaccate convenzioni: non hanno il coraggio di vuotare un bicchiere perché devono bere alla salute di qualcuno, leccano il lustrascarpe, perché li rappresenti presso le loro Reali Altezze2, e molestano il povero diavolo di cui non hanno paura. Si portano l’un l’altro alle stelle 5 per un pranzo, poi per una coperta che sia stata loro portata via a un’asta pubblica sarebbero capaci di avvelenarsi. Condannano il sadduceo non abbastanza zelante nel frequentar la chiesa, e davanti all’altare calcolano mentalmente i loro interessi usurai3; cadono in ginocchio per sfoggiare lo strascico, ma non ritraggono lo sguardo dal prete per vedere come sia arricciata la sua parrucca; svengono quando vedo10 no svenare un’oca, ma battono le mani quando il loro concorrente se ne va dalla Borsa, fallito... Per quanto io abbia loro stretto la mano supplicando: «Un giorno di dilazione!» tutto inutile... Cacciatelo in prigione quel cane!... Preghiere, giuramenti, lacrime!... (Pestando il piede a terra) Inferno e maledizione! SPIEGELBERG E così per un paio di migliaia di pidocchiosi ducati... 15 KARL No, non voglio pensarci. Dovrei stringere il mio corpo in un busto e vincolare la mia volontà tra le leggi. La legge ha fatto scadere a incesso4 di lumaca ciò che sarebbe stato volo di aquila5. La legalità non ha mai prodotto un grand’uomo, ma la libertà cova e fa schiudere i colossi e i grandi eventi. I vigliacchi si trincerano nella pancia di un tiranno, fan la corte ai capricci del suo stomaco e si lasciano 20 sballottare dalle sue flatulenze6. Ah, se il genio di Arminio7 ardesse ancora tra le ceneri… Immagina un esercito di ragazzi in gamba come me, e la Germania diventerebbe una repubblica in confronto alla quale Sparta e Roma sarebbero conventi di monacelle8. (Butta la spada sul tavolo e si alza).

1 Essi: borghesi e aristocratici, accomunati, nel giudizio del personaggio, dal rispetto delle convenzioni. 2 leccano... Reali Altezze: adulano anche il più umile personaggio della corte pur di essere introdotti nelle alte sfere. 3 Condannano il sadduceo… interessi usurai: tra gli antichi ebrei, il partito religioso dei sadducei, che raccoglieva le famiglie più importanti e aristicratiche, si contrapponeva a quello dei farisei per un’osservanza meno rigida delle norme religiose e da questo sorsero fra le due correnti forti contrasti. Il riferimento qui serve a Karl-Schiller per condannare l’ipocrisia di chi rispetta severamente le regole della religione e, mentre assiste alle

funzioni, pensa ai guadagni che trarrà dall’usura. Anche gli esempi successivi sono finalizzati a condannare il culto delle apparenze, o anche un degenere senso di umanità, per cui ci si turba per la morte cruenta di un’oca ma non per la rovina di un essere umano. Anche Karl, come si comprende dal riferimento subito successivo, è nelle mani degli usurai e ha conosciuto la loro disumanità, poiché non gli è stata concessa alcuna dilazione per poter pagare i suoi debiti, ma al contrario è stata subito invocata la prigione. 4 incesso: incedere. 5 lumaca... aquila: per Karl la società e le norme di legge che la rappresentano costituiscono un freno alla libertà e allo

sviluppo delle qualità individuali, costringendo chi è capace di volare alto come un’aquila (il superuomo) a strisciare lentamente come una lumaca. 6 I vigliacchi… flatulenze: viene qui colpita, con dissacranti parole, l’acquiescenza generale al potere assoluto. 7 Arminio: comandante germanico che sconfisse i romani, sterminandone le legioni nella selva di Teutoburgo. 8 conventi di monacelle: conventi per giovani monache. Le ultime parole vibrano di orgoglio nazionalistico, quello stesso che nel 1807 Fichte cercherà di risvegliare nei Discorsi alla nazione tedesca.

Il Preromanticismo 3 65


Concetti chiave Lo spirito ribelle di Karl

In questo passo emerge già prepotentemente la figura del protagonista, Karl Moor, giovane studente aristocratico, ingiustamente diseredato dal padre e destinato a diventare il capo di una banda di briganti (i masnadieri del titolo) che scelgono l’illegalità per mettere riparo alle ingiustizie e ai soprusi della società. Nel brano Karl esprime all’amico Spiegelberg il suo disprezzo per la gretta mediocrità, l’ipocrisia, il servilismo e verso il potere politico degli aristocratici e dei buoni borghesi, a cui il giovane risponderà con la sfida dell’illegalità, qui presentata come indice di un animo forte, eroico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A che cosa si riferisce l’unica battuta pronunciata da Spiegelberg in questo passo? ANALISI 2. Riepiloga i bersagli polemici e gli atteggiamenti contro cui si scaglia Karl.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 3. Lo spirito di ribellione caratterizza l’età giovanile. Come giudichi il comportamento di Karl? Come ti poni tu nei confronti dei valori “borghesi”?

2 In Inghilterra: la poesia sepolcrale e i Canti di Ossian Anche in Inghilterra nello stesso periodo (e anche prima) si presentano in ambito letterario e artistico orientamenti che anticipano il Romanticismo; ma, più che di correnti e di prese di posizione articolate, si tratta di tendenze del gusto, di mutamenti della sensibilità artistica, di cui è testimonianza sul piano teorico l’«estetica del sublime», teorizzata fin dal 1757 da Edmund Burke, che lega il “sublime” alle forti emozioni suscitate ad esempio da spettacoli naturali grandiosi, da scenari tempestosi e notturni. Esempio di questo mutamento della sensibilità e dell’affermarsi di un nuovo gusto è il filone della poesia “sepolcrale”, incentrato su malinconiche rappresentazioni naturali e sulla riflessione sulla morte: esponenti principali sono Edward Young (1683-1765), autore dei Pensieri notturni, pubblicati verso la metà del Settecento, e Thomas Gray (1716-1771), autore della popolare Elegia scritta in un cimitero campestre (1751 ➜ T4a ). Una straordinaria influenza è esercitata sulle letterature europee dalla cosiddetta “poesia ossianica”. Nel 1760 lo scrittore scozzese James Macpherson (1736-1796) pubblica, anonimi, i Frammenti di antica poesia raccolti negli altopiani di Scozia e tradotti dal gaelico, un ciclo di canti di carattere epico attribuiti da Macpherson a Ossian, leggendario bardo (ossia cantore) che sarebbe vissuto nel III secolo. Macpherson sosteneva di aver ritrovato e quindi tradotto in inglese moderno le composizioni; in realtà si tratta di un clamoroso falso letterario, in quanto lo scrittore scozzese aveva rielaborato frammenti di canti epici popolari, integrandoli con testi suoi. L’opera ebbe un grande successo in tutta Europa, inducendo Macpherson ad aggiungere nuovi materiali, fino all’edizione definitiva del 1773.

66 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


I Canti di Ossian inaugurano una vera e propria moda letteraria: i paesaggi naturali selvaggi e tenebrosi, l’atmosfera cupa delle vicende non potevano che incontrare il gusto di un pubblico internazionale, appassionato alle leggende medievali e alla ricerca di nuove emozioni. Anche in Italia I canti di Ossian, tradotti da Melchiorre Cesarotti fin dal 1763 (Poesie di Ossian, antico poeta celtico), hanno molta risonanza: evidenti echi del gusto ossianico si ritrovano nell’Ortis e in una sezione dei Sepolcri di Foscolo (vv. 70-90 ➜ C2 T18 ). Ma anche nel cultore per eccellenza del neoclassicismo, Vincenzo Monti, non mancano testimonianze della suggestione esercitata dal gusto preromantico.

Il Preromanticismo

CARATTERI GENERALI

• polemica nei confronti di classicismo e razionalismo • anticipazione del tema romantico della ribellione, della sfida titanica, del valore delle passioni contro le convenzioni sociali, della distinzione tra poesia d’arte e poesia di natura • al gruppo appartiene in gioventù Goethe

GERMANIA

Sturm und Drang (1770-1785)

INGHILTERRA

estetica del “sublime”: emozioni forti suscitate da spettacoli naturali grandiosi

Burke

poesia sepolcrale: incentrata sul tema della morte e su rappresentazioni naturali malinconiche

Young e Gray

poesia ossianica: rielaborazione di canti epici popolari che rappresentano atmosfere cupe

Macpherson

Caspar David Friedrich, Abbazia nel querceto, olio su tela, 1809-1810 (Berlino, Alte Nationalgalerie).

Il Preromanticismo 3 67


Testi In dialogo

Due esempi della poesia preromantica inglese In Inghilterra il Romanticismo è anticipato dall’affermarsi di un filone poetico incentrato sui temi della morte e della natura malinconica e tenebrosa. Proponiamo due brani che esemplificano l’interesse della poesia inglese verso le ambientazioni sepolcrali.

Thomas Gray

T4a T. Gray, Elegia scritta in un cimitero campestre, trad. di D. Caminita, in S. Guglielmino, Civiltà letterarie straniere, vol. I, Zanichelli, Bologna 1976

Elegia scritta in un cimitero campestre Questa celebre elegia di Thomas Gray esercita un’indubbia suggestione sul Foscolo dei Sepolcri, come possono testimoniare i pochi versi esemplari qui proposti.

[…] Un’ora inevitabile attende egualmente la gloria del blasone, la pompa del potere, 35 e quanto mai abbiano donato la bellezza e la ricchezza: i sentieri della gloria non conducono che alla tomba1. Né voi, Orgogliosi, imputate a loro la colpa se il Ricordo non eresse alcun trofeo sulla loro tomba, là dove, attraverso lunghe navate e volte scolpite, 40 l’eco dei canti rende più intense le note di lode2. Possono un’urna istoriata o un busto animato3 richiamare alla sua dimora il respiro che fugge? Può la voce dell’Onore richiamare in vita la polvere silenziosa? O la lusinga blandire le deboli, fredde, orecchie della morte? 1 Un’ora inevitabile… alla tomba: il significato dei versi è che la morte attende inesorabilmente tutti gli uomini annullando l’orgoglio nobiliare e il censo. 2 Né, voi… di lode: nella parte

John Constable, Illustrazione per l’elegia di Thomas Gray, acquarello, 1833 (Londra, British Museum).

68 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

precedente dell’elegia il poeta fa riferimento alle tombe più semplici nel cimitero di campagna e invita i nobili altezzosi a considerare con benevolenza gli umili morti, che a differenza dei nobili

non dispongono di monumenti funebri sontuosi collocati nella chiesa. 3 animato: scolpito così bene da sembrare vivo.


James Macpherson

T4b

La notte Canti di Ossian

J. Macpherson M. Cesarotti, Canti di Ossian, La notte

Quelli che seguono (i versi iniziali di un poemetto dedicato alla notte) possono dare un’idea del gusto ossianico, soprattutto per quanto concerne la creazione di un’atmosfera inquietante e tenebrosa che troverà infinite repliche.

Trista è la notte, tenebria s’aduna1, tingesi il cielo di color di morte: qui non si vede né stella né luna, che metta il capo fuor delle sue porte. 5 Torbido è ‘l lago, e minaccia fortuna2; odo il vento nel bosco a ruggir forte: giù dalla balza va scorrendo il rio con roco lamentevol mormorio. Su quell’alber colà, sopra quel tufo3, 10 che copre quella pietra sepolcrale, il lungo-urlante ed inamabil gufo l’aer funesta col canto ferale4. Ve’ ve’: fosca forma la piaggia adombra5: 15 quella è un’ombra: striscia, sibila, vola via. [...] 1 tenebria s’aduna: le tenebre si addensano. 2 fortuna: fortunale, tempesta.

3 tufo: roccia. 4 l’aer... ferale: funesta l’aria con il suo lugubre canto.

5 Ve’ ve’… adombra: guarda, guarda: una forma scura stampa sulla terra la sua ombra.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto dei due passi proposti (max 5 righe). LESSICO 2. Analizza il lessico usato e individua i termini e le espressioni che fanno riferimento all’ambito sepolcrale.

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di massimo 15 righe illustra le modalità con le quali i testi proposti affrontano il tema sepolcrale.

Il Preromanticismo 3 69


4

Goethe, un genio poliedrico 1 Una vita in multiforme e instancabile attività La prima formazione, gli studi giuridici, la vocazione alla letteratura Johann Wolfgang Goethe nasce nel 1749 nella città tedesca di Francoforte, da una ricca famiglia borghese. Sulla sua formazione ha una grande influenza il padre: giurista e consigliere imperiale, uomo colto e metodico, fa impartire al figlio un’istruzione accurata nei più vari campi, dal disegno, alla musica, alle discipline umanistiche, alle lingue moderne. Avviato poi dal padre a una carriera giuridica, Wolfgang affronta gli studi di diritto con scarsa convinzione, preferendo dedicare le sue energie alla letteratura. Il periodo dello Sturm und Drang e il Werther La formazione letteraria di Goethe è influenzata dal filosofo Herder, teorico del movimento preromantico Sturm und Drang conosciuto durante il periodo degli studi universitari. Nel 1772, per perfezionarsi nel diritto, lo scrittore si reca a Wetzlar e lì conosce Charlotte Buff, che gli ispirerà il romanzo autobiografico I dolori del giovane Werther (1774), in cui, come nella tragedia incompiuta Prometeo (1773), si avverte la presenza dello spirito ribelle dello Sturm und Drang. Il romanzo riscuote un grandissimo successo. Il trasferimento a Weimar e il Viaggio in Italia Nel 1775 Goethe accetta l’invito a recarsi alla corte ducale di Weimar, dove ricopre incarichi via via più importanti e si impegna in un’intensa attività politica, amministrativa e culturale. Nel 1786, insofferente degli impegni che lo portavano a trascurare l’attività letteraria, parte per un viaggio in Italia, dove rimane fino al 1788, raccogliendo le sue impressioni in un diario poi rielaborato e pubblicato anni dopo, con il titolo Viaggio in Italia. L’esperienza trasforma nel profondo lo scrittore, che abbandona il ribellismo, la passionalità della fase del Werther per abbracciare un ideale di vita ed artistico ispirato alla misura, all’equilibrio, alla ricerca di una “olimpica” serenità. Il periodo dei capolavori Tornato a Weimar, Goethe si dedica soprattutto a promuovere le attività culturali della corte, fino a trasformarla in uno dei centri intellettualmente più prestigiosi della Germania. Con grande scandalo della corte, si lega a Christiane Vulpius, una donna del popolo da cui avrà un figlio e che sposerà solo in seguito. Attivissimo fino alla vecchiaia, dopo il ritorno a Weimar Goethe affianca all’attività letteraria studi metodici in ambito scientifico, che spaziano dalla botanica all’anatomia, dalla mineralogia all’ottica (in passato si era interessato anche a studi esoterici e alchemici): l’obiettivo di Goethe era quello di ricercare l’unità tra i vari campi del sapere. Intorno al 1794 avvia un intenso e produttivo sodalizio con l’altro grande scrittore tedesco Friedrich Schiller. Su suo consiglio, Goethe riprende e conclude opere iniziate nel periodo giovanile, come il Wilhelm Meister, prototipo del “romanzo di formazione” e Faust, uno dei capolavori della letteratura mondiale, di cui pubblica la prima parte nel 1808 (ma lavorerà all’opera fino alla fine della sua vita).

70 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Segue, nel 1809 Le affinità elettive, bersaglio delle critiche dei moralisti per la rappresentazione critica del matrimonio. Negli ultimi anni Goethe si dedica anche alla poesia, con la raccolta Divano occidentale-orientale (Diwan è voce araba per “canzoniere”), e all’autobiografia (Dalla mia vita. Poesia e verità). Divenuto ormai un punto di riferimento per gli intellettuali europei, muore a Weimar nel 1832.

2 I dolori del giovane Werther: il manifesto della sensibilità preromantica

Un’opera di successo La prima opera che diede larga fama all’autore, non solo in ambito tedesco, ma europeo, è il romanzo I dolori del giovane Werther, pubblicato nel 1774, con cui Goethe seppe cogliere il disagio delle giovani generazioni, che nessuno era stato ancora capace di esprimere. Inoltre nel libro c’è già in embrione tutto il romanticismo, con intuizioni che scrittori e filosofi avrebbero poi sviluppato nei decenni successivi, anche se Goethe si mantenne poi sempre distante dai romantici, o per lo meno dalle forme più irrazionalistiche del romanticismo tedesco. La genesi autobiografica del Werther Alle radici del romanzo stanno sicuramente componenti autobiografiche: quando lo scrive anche Goethe è un giovane inquieto, incerto sul proprio futuro e sulla strada da intraprendere nella vita. Come Werther anche Goethe si era innamorato di una giovane donna (Charlotte Buff), promessa sposa a un altro, e aveva vissuto una passione ossessionante che lo aveva addirittura indotto a pensare al suicidio (ma nell’ideazione della vicenda entra anche la suggestione di un tragico fatto di cronaca). Infine, la vicenda narrata nel romanzo è pressoché contemporanea alla sua composizione, che si realizza in poche settimane, e anche questo ne sottolinea lo stretto legame con la biografia e la storia interiore di Goethe. La stesura dell’opera ha un effetto catartico sul suo autore, che si sente guarito da una distruttiva malinconia; ma, come egli stesso racconta nell’autobiografia, i «raggi incendiari» dell’opera colpirono tanti giovani, provocando un’epidemia di suicidi, tanto che in vari Stati il romanzo fu vietato o fatto ritirare dalle autorità.

IMMAGINE INTERATTIVA

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Goethe nella campagna romana, olio su tavola, 1785 (Francoforte, Städelches Kunstinstitut).

Goethe, un genio poliedrico

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La vicenda I dolori del giovane Werther è un romanzo epistolare in due libri, costituito dalle lettere scritte dal protagonista all’amico Wilhelm; nella parte conclusiva interviene un narratore esterno, «l’Editore» delle lettere, che ricostruisce gli ultimi momenti della vita del giovane. Werther, un giovane ardente, ipersensibile, inquieto e amante dell’arte e della natura, si trasferisce dalla città nel paese di Wahlheim, dove conosce la giovane Lotte, promessa sposa ad Albert, in quel momento in viaggio. Con la giovane Werther scopre da subito una profonda affinità spirituale e ben presto se ne innamora perdutamente. Al ritorno di Albert, decide di allontanarsi dal paese. Prende allora servizio come segretario presso un ambasciatore, ma è presto insoddisfatto per un incarico che mortifica le sue qualità e soprattutto è disgustato da un ambiente retrivo e pieno di pregiudizi (quello della nobiltà locale), dal quale viene umiliato e respinto per la sua origine borghese. Ritornato a Wahlheim, viene a sapere che Lotte ha sposato Albert. In una scena di forte intensità drammatica, dopo aver letto insieme a lei i Canti di Ossian, travolto dalla passione, Werther bacia Lotte, ma la giovane, pur innamorata, lo respinge con fermezza. Werther decide allora di togliersi la vita.

Wilhelm von Kaulbach, Werther e Lotte, 1865.

La valorizzazione preromantica del sentimento e dell’interiorità Pubblicato ben prima delle teorizzazioni del romanticismo, il romanzo ne anticipa il modo di sentire e la maggior parte delle tematiche. Un primo elemento che preannuncia il romanticismo è il valore attribuito al sentimento e alla passione, che ribalta completamente la prospettiva illuministica. Werther è già un eroe romantico: inquieto, ipersensibile, instabile, capace di passare «dalla depressione all’euforia, dalla dolce malinconia alla passione devastante» (lettera del 13 maggio). Vive ogni affetto, ogni emozione, ogni situazione con un’intensità totale: nella lettera del 12 agosto (➜ T5 ) ammette che le sue passioni «non erano mai lontane dalla follia». Nel romanzo è già romantica anche la contrapposizione tra l’infinita ricchezza dell’interiorità e la limitatezza del mondo esteriore, e la ribellione titanica ai vincoli e alle convenzioni sociali che ingabbiano l’individuo. Prettamente romantico, infine, è lo stretto rapporto del protagonista con la natura (➜ T3 ), rappresentata come specchio dell’anima, prima idillica e consolatrice, poi minacciosa e distruttrice. Le novità del romanzo Il Werther fu letto in tutta Europa, suscitando grande entusiasmo soprattutto tra i giovani lettori e la cosa non sorprende: l’opera di Goethe, per la prima volta, poneva al centro il disagio della condizione giovanile ed enfatizzava la radicale diversità che, in un mondo in rapida evoluzione, si era creata fra i valori in cui i giovani credevano e quelli delle generazioni precedenti. I valori di Werther – spontaneità, passione, libertà da ogni convenzione, insofferenza per vincoli e divieti – sono infatti opposti a quelli della società dell’Ancien régime, nella quale egli si sente disadattato e infelice.

72 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Alla suggestione esercitata dal libro contribuì anche la scelta narrativa operata da Goethe: lo scrittore affida la narrazione alle sole lettere inviate da Werther all’amico Wilhelm omettendo le repliche del destinatario e le voci di altri personaggi (a parte le pagine finali); in tal modo l’unico punto di vista sulla vicenda è quello di Werther, con cui inevitabilmente i giovani lettori del tempo erano portati a identificarsi.

PER APPROFONDIRE

I dolori del giovane Werther DATAZIONE

1774

GENERE

romanzo epistolare con genesi autobiografica

TEMI

disagio e sofferenza della condizione giovanile, passioni e ideali frustrati in una società retriva e meschina

PROTAGONISTA

Werther, primo eroe romantico caratterizzato da interiorità e passioni contrastanti fino alla ribellione titanica

Un segno di protesta generazionale In ogni dettaglio Werther si pone in contrasto con il modello di uomo settecentesco ispirato all’equilibrio e alla razionalità. Un dettaglio solo apparentemente superficiale, in realtà rivelatore, è l’abbigliamento del giovane Werther, descritto accuratamente da Goethe in diversi passi del libro (e poi imitato dai giovani emuli del personaggio): frac azzurro scuro, panciotto giallo, calzoni infilati negli stivali, un look che rappresentava la «protesta giovanile contro la cultura effeminata del rococò» (Baioni). Anche l’abbinamento di colori, come osserva Vittorio Mathieu, non sarebbe casuale, ma espressione del disadattamento di Werther: nella Teoria dei colori, elaborata in seguito da Goethe, il giallo e l’azzurro rappresentano le due opposte polarità della luce e dell’ombra, dell’esaltazione e della malinconia, che Werther non riesce a conciliare; l’azzurro è poi per Goethe il colore «dell’infinito, dell’eternamente oltre» (Hadot), quindi dello spirito proto-romantico del personaggio. Anche in questo ambito, Werther è dunque un precursore: è superfluo ricordare come dopo di lui ogni generazione giovanile, per distinguersi dalle precedenti e manifestare la propria ribellione o la propria diversità si sia affidata a fogge

di abbigliamento fortemente simboliche, a mode e ad altri segnali (dai capelli lunghi ai tatuaggi e così via).

Werther medita il suicidio, di Johann Daniel Donat (1744-1830.

Goethe, un genio poliedrico

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Johann Wolfgang Goethe

T5

LEGGERE LE EMOZIONI

Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro di due opposte visioni del mondo I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto

J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

La lettera ha un’importanza centrale nel romanzo, sia perché, nel confronto con Albert, mette in luce il modo di sentire anticonformistico di Werther, sia perché anticipa l’esito finale del romanzo. Werther chiede in prestito all’amico le sue pistole, con il pretesto di un viaggio. In realtà sta meditando di togliersi la vita, come mostra con il gesto rivelatore di portarsi la canna della pistola (per il momento scarica) sopra l’occhio destro. Infastidito da quell’atteggiamento provocatorio, Albert esprime la sua condanna del suicidio, mentre Werther difende, con foga appassionata, le ragioni di chi compie tale atto estremo.

12 agosto Certo, Albert è la miglior persona di questo mondo. Ieri ho avuto con lui un incontro fuori del comune. Ero capitato lì per un saluto, dato che mi era venuta voglia di fare un giro a cavallo per i monti, da dove anche adesso ti scrivo. E mentre vado 5 su e giù per la stanza, mi cadono sotto gli occhi le sue pistole. “Prestami le pistole per il viaggio”, dissi io. “Senz’altro” mi rispose, “purché ti prenda la briga di caricarle; io le tengo appese tanto per mostrarle”. Ne staccai una ed egli continuò: “Da quando la mia prudenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più aver niente a che fare con questi arnesi”. Ero curioso di conoscere la storia. “Mi trovavo da tre 10 mesi da un amico in campagna” raccontò. “Avevo due terzette1 scariche e dormivo tranquillo. Una volta, mentre in un pomeriggio piovoso me ne stavo seduto in ozio, mi viene in mente (non so come), che potevamo essere aggrediti, che potevamo aver bisogno delle terzette, e che potevamo... Sai come vanno queste cose. Le consegnai al domestico per farle pulire e caricare. E quello si mette a scherzare con le 15 ragazze, tanto per spaventarle; e, Dio sa come, l’arma scatta con la carica ancora dentro e il proiettile colpisce una ragazza all’attaccatura della mano destra, e le fracassa il pollice. Dovetti prendermi le lamentele e pagare le cure; da allora lascio le pistole scariche. Caro mio, a che vale la prudenza? Il pericolo non si finisce mai di conoscerlo. Cioè...” 20 Ora tu sai che quell’uomo mi è molto caro in tutto, tranne che per i suoi “cioè”; non sanno forse tutti che ogni principio generale ha le sue eccezioni? Ma è così pignolo quel tipo! Quando ritiene di aver detto qualcosa di precipitoso, generico, inesatto, non la finisce più di circoscrivere, di modificare, di togliere e aggiungere, per cui in definitiva della cosa non resta più niente2. 25 E in questa circostanza egli sviscerò a fondo la questione: alla fine smisi di stare a sentirlo, mi distrassi e, con un gesto repentino, mi puntai la canna della pistola alla fronte, sopra l’occhio destro. “Beh!?”, disse Albert, facendomi abbassare la pistola. “Cosa fai?” “Non è carica”, replicai. 1 terzette: pistole a canna corta. 2 Ma è così pignolo… più niente: Werther, impulsivo e passionale, è insoffe-

rente della meticolosità di Albert. Ritiene che, prendendo in esame troppi dettagli, Albert non riesca a cogliere l’essenziale

74 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

delle situazioni.


“Sia pure, ma che significa?”, incalzò lui spazientito; “non riesco a rendermi conto di come un uomo possa essere così stolto da spararsi: il semplice pensiero mi provoca disgusto”. “Che razza di gente siete voi”, esclamai “che tanto per dir qualcosa, sentite il dovere in ogni caso di sentenziare: questo è idiota, questo è intelligente, questo è giusto, 35 quest’altro è sbagliato3! Ma che significa tutto ciò? Avete mai indagato sui reconditi4 moventi di un comportamento? Sapete scoprirne con certezza le cause remote, per cui si è verificato e si doveva necessariamente verificare5? Se l’aveste fatto, non sareste così sbrigativi nei vostri giudizi”. “Mi concederai”, disse Albert, “che certi comportamenti restano riprovevoli6, a pre40 scindere dal motivo che li determina”. Mi strinsi nelle spalle e gli detti ragione. “Eppure, mio caro”, continuai, “anche in questo caso ci sono delle eccezioni. È vero che il furto è un delitto, ma l’uomo che va a rubare per salvare sé e i suoi dalla morte per fame, merita pietà o castigo? Chi oserebbe scagliare la prima pietra contro il marito che, in un momento di legittima 45 ira, sopprime la moglie infedele e il suo indegno seduttore? O contro la ragazza che, in un’ora di ebbrezza, si stordisce nelle irresistibili gioie dell’amore? Persino le nostre stesse leggi, queste algide7 pedanti, si lasciano ammorbidire e sospendono la pena”. “Questa è tutt’altra cosa”, replicò Albert, “in quanto un uomo, travolto dalle passioni, perde ogni capacità di ragionare e va considerato alla stregua di un ubriaco 50 o di un folle”. “Ah, voi gente assennata!”, sbottai sorridendo. “Passione! Ubriachezza! Follia! Ve ne state così impassibili, così incuranti di tutto, voi persone perbene! Rimproverate l’ubriaco, prendete in giro il pazzo, passate davanti a loro come il sacerdote e, come il fariseo8, ringraziate Dio perché non vi ha fatto simili a loro. Io mi sono ubriacato 55 più di una volta, le mie passioni non erano mai lontane dalla follia; due cose di cui non mi pento, perché nella mia pochezza ho imparato a capire che tutti gli uomini eccezionali, che hanno compiuto qualcosa di grande, qualcosa di temerario, sono stati considerati in ogni epoca ubriachi e pazzi. Ma anche nella vita quotidiana è insopportabile sentir dire, ogni volta che qualcuno è riuscito a compiere un’azione 50 libera, nobile, inattesa: ‘Quest’uomo è ubriaco, è pazzo! Vergogna a voi, equilibrati! Vergogna a voi, assennati!’”. “Ecco altre tue fissazioni”, disse Albert, “tu esageri in tutto, e almeno in questo caso hai certamente torto, dato che paragoni il suicidio, perché è di questo che stiamo parlando, alle grandi imprese: ma esso non può essere considerato nient’altro che una 65 debolezza. Infatti è certamente più facile morire che sopportare una vita di sofferenze”. Ero sul punto di troncare il discorso. Non c’è infatti nient’altro che mi faccia uscire dai gangheri, che trovarmi di fronte qualcuno armato di insulsi luoghi comuni, mentre io parlo a cuore aperto. Tuttavia mi dominai, perché avevo già sentito spesso la medesima cosa e ancor più spesso mi aveva sdegnato; replicai con una certa ani70 mosità: “Tu la chiami debolezza? Ti prego, non lasciarti ingannare dall’apparenza. 30

3 Che razza di gente… sbagliato: Werther utilizza la seconda persona plurale, accomunando Albert ai benpensanti e superficiali borghesi, da cui si sente completamente diverso, ed esprime il suo fastidio perché Albert ha pronunciato un giudizio sul suicidio senza considerare le situa-

zioni disperate che possono condurre a tale gesto. 4 reconditi: nascosti, segreti. 5 si doveva necessariamente verificare: Werther crede che in certe condizioni l’individuo non possa evitare di soccombere agli effetti devastanti delle passioni.

6 riprovevoli: biasimevoli. 7 algide: fredde. 8 il fariseo: qui sta per “ipocrita”. Aderenti a un movimento religioso ebraico, i farisei erano particolarmente rigorosi nell’osservanza dei rituali e della legge; nei Vangeli se ne condanna l’eccessivo formalismo.

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Un popolo che geme sotto il giogo di un tiranno, lo puoi forse chiamare debole se alla fine si ribella e spezza le sue catene? Un uomo il quale, in preda allo spavento di fronte al fuoco che ha invaso la sua casa, sente le forze moltiplicarsi e riesce a sollevare facilmente certi pesi, che in situazioni normali sarebbe in grado di muovere 75 appena; un uomo il quale nel furore dell’offesa subita, da solo ne affronta sei e li vince; questo tu lo chiameresti debole9? E dunque, mio caro, se lo sforzo è potenza, perché mai lo sforzo supremo dovrebbe essere il contrario?” Albert mi guardò e disse: “Non avertene a male, ma gli esempi che porti mi sembrano del tutto fuori luogo”. 80 “Può darsi”, risposi; “mi è già stato rimproverato parecchie volte che il mio modo di ragionare è spesso privo di logica. Vediamo allora se possiamo immaginarci in altro modo quale deve essere lo stato d’animo di un uomo che decide di gettar via il fardello della vita, di solito peraltro così gradito. Infatti possiamo parlare di una cosa soltanto se la condividiamo profondamente. La natura umana”, continuai, 85 “ha i suoi limiti: può sopportare fino a un certo punto gioia, sofferenza, dolore, ma soccombe non appena si oltrepassa la misura. Qui non si tratta di stabilire se un uomo è debole o è forte, ma se è in grado di tollerare l’estremo peso della sua sofferenza, sia morale che fisica. Secondo me è tanto strano dare del vigliacco all’uomo che si toglie la vita, quanto sarebbe assurdo dare del codardo a colui che 90 muore di febbre maligna”. “Paradossale! Davvero paradossale!” esclamò Albert. “Non quanto pensi tu”, ribattei, “ammetterai che definiamo mortale una malattia, nel caso che il nostro fisico subisca una tale aggressione, che le sue energie in parte sono consumate e in parte fuori uso, per cui esso non può più riprendersi né è capace di ripristinare il corso 95 normale della vita con una felice rivoluzione10. Ora, mio caro, applichiamo questo ragionamento all’animo. Considera l’uomo nella sua limitatezza, come le impressioni agiscano su di lui, come le idee si consolidino in lui, finché una passione travolgente lo priva di ogni serena capacità di riflessione e lo distrugge. 100

Invano l’uomo equilibrato e ragionevole cerca di capire lo stato dell’infelice, invano gli rivolge la parola, proprio come fa al capezzale dell’ammalato l’uomo sano, che non gli può trasmettere neanche una minima parte delle proprie forze”. Ad Albert questi discorsi suonavano troppo generici.

[Werther ricorda ad Albert il caso di una ragazza, suicida dopo essere stata abban105 donata dall’amante.] “Guai a colui che, assistendo a una cosa simile, dirà: ‘Che sciocca! Se avesse atteso e lasciato fare al tempo, avrebbe placato la propria disperazione e avrebbe trovato qualcun altro per consolarla’. Sarebbe come se uno dicesse: ‘Quel pazzo è morto di febbre. Se avesse aspettato finché le forze gli fossero tornate, finché i suoi umori 110 fossero migliorati11 e il fermento del sangue si fosse calmato, sarebbe andato tutto bene ed oggi egli sarebbe ancora in vita!’”. 9 Un popolo… debole: Werther cita casi in cui gli individui sono spinti ad agire da intense passioni.

10 felice rivoluzione: positivo cambiamento. 11 i suoi umori… migliorati: il suo stato

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di salute fosse migliorato.


Albert, che non aveva trovato calzante nemmeno questo paragone, mosse ancora qualche obiezione e fra l’altro osservò che avevo citato l’esempio di una ragazza semplice, ma che non riusciva a capire come si sarebbe potuto scusare un uomo 115 intelligente, di ampie vedute, capace di una visione più complessa e interdipendente delle cose. “Amico mio” esclamai allora, “l’uomo è uomo, e quel po’ di intelligenza che può avere, serve poco o niente, quando divampa la passione, e ci si sente angosciati dai limiti della natura umana. Anzi... ma ne riparleremo un’altra volta”, dissi, e presi il cappello. 120 Come mi sentivo il cuore gonfio! Ci separammo senza esserci capiti. Ma, d’altra parte, in questo mondo, è così difficile intendersi.

Analisi del testo Una lettera “pericolosa” Anche al lettore odierno appare subito evidente come la lettera in cui «Werther mette apertamente in discussione alcuni pilastri della visione del mondo della società dominante» (Manacorda) sia potenzialmente “pericolosa”. L’esaltazione del suicidio – tanto più in quanto il romanzo (omettendo le risposte dell’amico Wilhelm) dà rilievo alla prospettiva del protagonista senza contraddittorio – può esercitare sui lettori una suggestione più profonda che non il racconto stesso dell’atto. Il lettore qui è come “invitato” a fare proprie le idee del protagonista e a condividerne lo spirito pessimistico e autodistruttivo. Oltre a questo, nella lettera, provocatoriamente, e in certe situazioni particolari, trovano giustificazione reati (come il furto) e comportamenti comunemente allora considerati immorali (i rapporti amorosi fuori dal matrimonio) o folli (l’omicidio per gelosia), alla luce della convinzione, più volte affermata nelle opere goethiane, del valore relativo dei giudizi morali. Non stupisce perciò che vari editori del tempo censurassero la lettera.

La contrapposizione tra Werther e Albert Nel brano si scontrano due personalità e due sistemi di valori: il pur giovane Albert ha già fatto proprie le prerogative dell’adulto equilibrato e maturo, l’autocontrollo, la razionalità, il dominio di sé. Werther invece preferisce essere considerato eccessivo e folle, pur di vivere fino in fondo le emozioni della giovinezza. La piatta mediocrità borghese gli fa orrore, e a essa contrappone la forza delle passioni e l’autenticità dei sentimenti. Ne deriva anche l’opposta valutazione del suicidio: chi lo mette in atto, per Albert è un debole, per Werther è una persona le cui emozioni sono così intense e travolgenti da sopraffare ogni resistenza.

La solitudine di Werther L’episodio segna un passo in avanti nel crescente isolamento di Werther, che nella sua geniale eccezionalità non può essere compreso dal mondo piatto e mediocre che lo circonda. Sebbene i suoi ragionamenti non siano condivisibili – e l’autore stesso ci presenti il personaggio come in preda a un’irrefrenabile esaltazione – non può certo essergli d’aiuto l’eccessivamente pacato e conformista Albert, che parla con freddezza e distacco del suicidio, senza cogliere la richiesta d’aiuto dell’amico, il suo bisogno di comunicare con lui in modo vero e profondo.

Due amici che non possono comprendersi Albert non chiede a Werther perché si sia puntato la pistola alla fronte, perché sia così sofferente, agitato, come febbricitante. Con grande perspicacia psicologica, Goethe fa comprendere che un giovane in crisi come Werther ha bisogno più di ogni altra cosa di sentirsi capito. Lo spezzarsi della comunicazione tra i due è espresso da una reticenza: Werther, che stava spiegando come una passione straordinaria possa travolgere un individuo, rendendolo incapace di ragionare, al momento di parlare di sé si interrompe senza concludere la frase («Anzi… ma ne riparleremo un’altra volta»), e scrive con amarezza: «Ci separammo senza esserci capiti». Se dal punto di vista razionale Albert probabilmente ha ragione, tuttavia, per la sua scarsa attitudine alla comprensione e all’empatia, non si è dimostrato l’amico che avrebbe potuto tendere una mano a Werther e, forse, salvarlo.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto del testo (max 10 righe). COMPRENSIONE 2. In seguito a quale episodio raccontato da Albert ha inizio il lungo colloquio tra i due? 3. Quali sono le cause del suicidio, secondo Albert? e secondo Werther? ANALISI 4. Evidenzia le frasi in cui Werther esprime la sua insofferenza verso la società borghese e spiega quali valori siano da lui respinti. 5. Quale giudizio contrastante mostrano i due personaggi nei riguardi della follia? STILE 6. A differenza delle frasi di Albert, quelle di Werther sono costellate di esclamativi e interrogativi. Per quale ragione?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 7. Pensi che Albert avrebbe potuto rispondere a Werther in modo migliore? Che cosa avrebbe potuto dirgli secondo te? Motiva la tua risposta in circa 15 righe. 8. Per quali ragioni è possibile affermare che il modo di sentire di Werther è anticonformistico? Argomenta con opportuni riferimenti al testo. (max. 15 righe) ESPOSIZIONE ORALE 9. In un intervento orale di massimo 5 minuti, confronta le ragioni di Albert e quelle di Werther, e spiega quali, fra di esse, ti sembrano condivisibili e quali no, e per quali ragioni.

3 Dall’autodistruzione di Werther alla formazione di Wilhelm Meister

Il superamento del “wertherismo” Al centro del Werther si pone la figura di un giovane dalle enormi potenzialità, ma incapace di metterle a frutto, tanto da essere annientato dall’eccesso delle sue doti, delle sue aspirazioni e soprattutto dall’abbandono a una passione funesta. Tutte le opere di Goethe successive a questa sua prima costituiscono, come osserva il filosofo Vittorio Mathieu, una risposta ai problemi esistenziali aperti dal romanzo giovanile. I romanzi di Wilhel Meister Goethe supera la pericolosa identificazione nel personaggio-modello di Werther nella vicenda di Wilhelm Meister, protagonista di un “romanzo di formazione” in cui, dopo varie vicissitudini, il personaggio giunge a inserirsi positivamente nel mondo: ogni esperienza, anche negativa, diventa una tappa utile nel suo “apprendistato” alla vita. I romanzi dedicati a Wilhelm Meister sono in realtà tre: il primo, giovanile, La vocazione teatrale di Wilhelm Meister, viene interrotto dall’autore (sarà pubblicato postumo soltanto nel 1910); il secondo (il più importante e più celebre) riprende il primo, completandolo, e viene pubblicato da Goethe, con il titolo Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, tra il 1795 e il 1796; seguì una terza parte, pubblicata nel 1829, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister. La vicenda Wilhelm Meister è figlio di un commerciante che vorrebbe avviarlo alla sua stessa attività; ma fin dall’infanzia il giovane scopre la sua «vocazione teatrale», e perciò, inviato dal padre in viaggio d’affari, preferisce unirsi a una compagnia di attori. Questi però lo deludono perché, interessati a un facile guadagno, non condividono il suo ideale dell’arte drammatica: illuminare e educare il popolo tedesco. La compagnia di attori viene poi ospitata nel palazzo di un conte, dove Wilhelm in-

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online

Per approfondire Massoneria e Bildungsroman

contra Jarno, che gli fa conoscere il teatro di Shakespeare. Conquistato dal grande autore inglese, e dal personaggio di Amleto, in cui riconosce un alter ego, Wilhelm lo porta sulla scena, interpretandone egli stesso la parte. In seguito, un’inattesa svolta narrativa: Jarno introduce Wilhelm nella “Società della Torre”, affine alla massoneria, attraverso cui Wilhelm crede di poter realizzare gli ideali che prima aveva perseguito attraverso il teatro, che decide perciò di abbandonare. Il giovane viene poi a sapere di essere padre: Mariane, un’attrice sua amante di un tempo, è morta lasciandogli un figlio, Felix. Ottenuto l’amore della bellissima e nobile Natalie, Wilhelm è ormai maturo e pronto per affrontare la vita. Il confronto tra Werther e Wilhelm: il valore dell’agire Come Werther (e come lo stesso Goethe), Wilhelm, di famiglia borghese, è critico verso la sua classe sociale. Con la crisi dell’Ancien régime, l’individuo non si sente più infatti indissolubilmente legato alla classe sociale di appartenenza, ma si ritiene libero di scoprire in piena autonomia il proprio posto nel mondo: un compito non sempre facile, ma che può essere realizzato se l’individuo si pone dei traguardi e si impegna per raggiungerli, anziché ripiegarsi in un vagheggiamento velleitario dei propri sogni. In questo senso, il romanzo assume caratteri scopertamente pedagogici: il protagonista da aspirante attore si trasforma in un uomo socialmente utile grazie all’ideale di una vita piena e attiva: «solo nell’attività si può giungere a indagare e a conoscere sé stessi», così nel romanzo insegna la figura di un abate.

PER APPROFONDIRE

Wilhelm Meister DATAZIONE

La vocazione teatrale di Wilhelm Meister (post., 1910) Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato (1795-96) Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister (1829)

GENERE

romanzo di formazione

TEMI

tappe di un “apprendistato alla vita” del protagonista, ricerca della propria identità nel mondo, ideale di una vita piena e attiva

Le caratteristiche dei romanzi di formazione Il romanzo di formazione (in tedesco, Bildungsroman) è un genere romanzesco in cui si descrive il percorso di crescita del carattere e dell’identità di un giovane protagonista, che cerca di comprendere, attraverso le sue esperienze personali, la realtà che lo circonda e il proprio ruolo in essa. Costanti di questo genere romanzesco sono: gli errori, attraverso cui il/la protagonista impara a comprendere le situazioni da evitare e i rischi; gli incontri con persone adulte o più esperte che possano consigliarlo; il confronto con figure che rappresentano scelte diverse di vita. Dal punto di vista

della tecnica narrativa, in genere è preferita la focalizzazione interna sul giovane protagonista; il genere si distingue anche per una particolare percezione del tempo, caratterizzato come un tempo di crescita, in cui “l’eroe/l’eroina” è mostrato non come «compiuto e immutabile, ma come diveniente, mutante, educato dalla vita» (Bachtin). (Testi di riferimento: M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979; F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999)

online T6 Johann Wolfgang Goethe

Gli ideali educativi della «Società della Torre» Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato VIII, V

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4 Faust, una moderna “Commedia” Una lunghissima elaborazione La composizione del Faust, una delle opere chiave della cultura mondiale, accompagna tutta la vita di Goethe: vi pone mano infatti poco più che ventenne, durante il periodo dello Sturm und Drang, verso il 17721773, pubblicando la prima parte nel 1808; negli anni della vecchiaia lavora alla seconda e ultima parte dell’opera, che sarebbe poi stata pubblicata postuma nel 1832. La prima e la seconda parte del Faust sono dissimili fra loro, sono quasi due opere indipendenti: • la prima – dalle vicende più romanzesche – si incentra sul piccolo mondo borghese e sulla tragica relazione amorosa tra Faust e Margherita; • la seconda – suddivisa in cinque atti e caratterizzata da un frequente e complesso ricorso all’allegoria – si estende al grande mondo della politica, dell’economia e della storia, e costituisce un’ideale sintesi delle trasformazioni del mondo moderno. Il motivo unificante dello Streben Accomuna le due parti dell’opera il tema chiave dello Streben che caratterizza la figura di Faust: il termine tedesco, a cui è tradizionalmente associato il personaggio, designa un’inesauribile sete di conoscenza e d’azione, il desiderio di fare sempre nuove esperienze, la tensione verso il superamento dei limiti umani.

La trama Parte prima: il “piccolo mondo” Dopo il prologo in Cielo, il dramma si apre sulla disperazione di Faust, un vecchio sapiente, profondamente insoddisfatto per le conoscenze libresche in tutti i campi del sapere che fino a quel momento ha inutilmente accumulato (➜ T7 ). Egli medita addirittura di uccidersi. Superato il momento di disperazione, mentre rientra nel suo studio, gli appare Mefistofele, il diavolo, sotto le sembianze prima di un cane nero, poi di un chierico vagante e infine di un cavaliere. I due stringono un patto: Mefistofele aiuterà con le sue arti magiche Faust a realizzare tutti i suoi desideri; Faust in cambio gli donerà la sua anima, se riuscirà almeno per un istante a sentirsi appagato. Accompagnato da Mefistofele, Faust vive diverse esperienze. Ringiovanito da una strega, seduce la giovane Margherita, di cui uccide in duello il fratello, per poi abbandonarla; la giovane sarà condannata a morte per aver ucciso il bambino nato dalla sua relazione con Faust, ma la sua anima sarà salvata dalla Grazia celeste.

Anton Kaulbach, Faust e Mefistofele, olio su tela, fine XIX-inizio XX secolo.

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Parte seconda: il “grande mondo” Nella seconda parte è accentuato il carattere allegorico delle figure di Faust e di Mefistofele e del loro “viaggio” che si iscrive in un raggio d’azione molto ampio. Divenuti consiglieri dell’imperatore, Faust e Mefistofele risolvono la crisi finanziaria del regno attraverso l’invenzione della carta moneta; disceso nel mondo archetipico delle “Madri” Faust evoca Elena di Troia, simbolo della bellezza e in seguito, grazie alle arti magiche di Mefistofele, si unisce a lei, che genererà il figlio Euforione (simbolo della fusione tra spirito classico e spirito romantico). Faust e Mefistofele aiutano quindi l’imperatore in una guerra, ottenendo in cambio una vasta terra paludosa da bonificare. Faust si accinge all’impresa con entusiastica determinazione, progettando di edificare in quei luoghi strappati al mare una società futura, dove gli uomini vivano liberi, anche se il compimento della bonifica comporta l’ingiusta sofferenza e la morte di due poveri vecchi, Filemone e Bauci. Faust dichiara che la realizzazione del suo progetto potrebbe finalmente appagarlo e fargli chiedere all’attimo che sta vivendo di fermarsi; quindi muore. La scommessa con Mefistofele sembra dunque perduta e il diavolo si appresta a impadronirsi dell’anima di Faust. Tuttavia, nonostante le colpe di cui si è macchiato, per la sua instancabile attività sempre protesa al perfezionamento (lo Streben), Faust viene salvato e la sua anima è accolta in cielo. Faust: da figura leggendaria a personaggio letterario La figura di Faust è ispirata a un personaggio realmente esistito: un astrologo e mago tedesco del Cinquecento, che dichiarava di aver stretto un patto con il demonio e perciò di essere in grado di operare straordinari incantesimi. La leggenda sul personaggio si diffonde quando, nel 1587, un anonimo scrittore tedesco pubblica la Storia del dottor Johann Faust, che ebbe grande fortuna in tutta Europa. Pochi anni dopo, nel 1592, lo scrittore inglese Christopher Marlowe elabora la prima versione letteraria della vicenda di Faust nel dramma La tragica storia del dottor Faust: il protagonista è uno studioso appassionato di ogni campo del sapere, che, conteso fra un angelo buono e un angelo cattivo, alla fine è dannato, ma pure nella sconfitta conserva una sua grandezza. Le novità introdotte da Goethe nella leggenda Goethe recupera gli elementi preesistenti della leggenda, ma la sua rappresentazione del personaggio di Faust è profondamente innovativa poiché accentua il carattere simbolico del protagonista, facendone l’emblema universale dell’uomo e della sua inesausta ricerca di conoscenza e di esperienze. Anche la figura del diavolo tentatore risulta Ary Scheffer, Faust e Margherita nel giardino, 1846 (Collezione privata).

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completamente trasformata: sebbene lo scrittore rappresenti esteriormente Mefistofele con i tratti tipici del diavolo della superstizione popolare (il piede equino e quel qualcosa di inquietante che suscita una istintiva diffidenza), nel dramma goethiano Mefistofele è una figura dotata di razionale lucidità e di una moderna ironia, che si rivela già nel prologo in Cielo, dove conversa amabilmente con Dio. Dio stesso, peraltro, gli riconosce un ruolo fondamentale: proprio perché rappresenta il Male, è necessario nell’universo ed è di sprone all’uomo, che altrimenti «si adagerebbe con piacere in un assoluto riposo» senza estrinsecare la sua grandezza, la capacità di rinnovare costantemente il mondo, quasi cooperando all’opera della creazione. Il tradizionale patto col diavolo si trasforma così in una scommessa in cui si manifesta una moderna concezione dell’uomo e del senso della vita umana (➜ T8 ). Faust alla fine sarà salvato dalla dannazione solo perché ha conservato la spinta a progredire sempre, a non appagarsi di facili piaceri. Certamente non viene giudicato secondo i parametri dell’ortodossia cristiana, che lo condannerebbe, avendo compiuto azioni gravi e addirittura delittuose. Faust, un nuovo Dante Se Faust è certamente una proiezione ideale dell’autore stesso, nel suo continuo tendere a una meta, sempre però impossibile da afferrare, è però anche una figura mitico-simbolica, che riunisce in sé i tratti dell’Ulisse dantesco, ma soprattutto quelli di Prometeo, il titano ribelle: infrangendo i limiti dello spazio e del tempo, Faust vive nel suo “viaggio” tutte le esperienze della cultura e della storia europea, rendendo il libro una summa del sapere accumulato nei secoli, quasi una moderna Divina Commedia. Un’opera “totale” e multiforme Nel libro non trovano posto solo le immagini della cultura di tutti i tempi, ma anche quelle della storia: l’economia (l’invenzione della carta moneta come simbolo del passaggio all’economia borghese e mercantile), gli orizzonti della scienza (la creazione di un homunculus, embrionale forma di vita creata attraverso trasformazioni alchemiche, teorizzata nel Cinquecento da Paracelso), la tecnica (le bonifiche dei terreni paludosi). La complessità dell’opera, che Goethe stesso definiva «incommensurabile», trova riscontro in una forma del tutto peculiare: Faust è formalmente una tragedia in versi, ma all’interno di un involucro tradizionale trova posto una incredibile commistione di generi e stili, a cui corrisponde una grande varietà metrica. Si comprende dunque perché il capolavoro di Goethe sia stato avvicinato alla Divina Commedia.

Eugène Delacroix, Faust e Mefistofele, 1827 (Londra, Collezione Wallace).

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PER APPROFONDIRE

Faust DATAZIONE

1808 prima parte; 1832 (postuma) seconda parte

GENERE

formalmente tragedia in versi, ma commistione di stili de di generi

TEMI

• rappresentazione del mondo borghese • trasformazioni sociali e culturali del mondo moderno • patto-scommessa con il diavolo • amore come forza distruttiva • Streben, “sete di conoscere e di agire”, “tensione verso il superamento dei limiti umani”

L’attualità del Faust Faust nelle rappresentazioni letterarie, teatrali e cinematografiche Il Faust, che a prima vista potrebbe sembrare un’opera inattuale, in realtà tocca temi che vanno al cuore del mondo moderno. Non sorprende perciò il gran numero di rivisitazioni del mito faustiano, dalla letteratura al teatro al cinema. In particolare, si distinguono opere che mettono in evidenza gli aspetti inquietanti del patto con il demonio: l’esempio più famoso è il Doktor Faustus di Thomas Mann, del 1947, in cui, grazie al patto demoniaco, il musicista Adrian Leverkühn ottiene un periodo di eccezionale felicità creativa ma in cambio deve rinunciare a ogni affetto umano. Rientrano nello stesso ambito tematico opere in cui il patto con il diavolo è soltanto suggerito ma in cui è chiaro l’influsso del Faust goethiano, come Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde. Altre opere si mantengono più vicine allo spirito di Goethe

Scena dal film Faust di Sokurov del 2010.

nell’assegnare a Mefistofele un ruolo non convenzionale: ne è un esempio lo straordinario romanzo Il maestro e Margherita (1966-1967) di Michail Bulgakov, in cui, nella Russia totalitaria staliniana, l’intervento di Woland (questo il nome di uno dei diavoli) apre spazi di libertà. Per quanto riguarda il teatro, in passato si riteneva che l’opera fosse più adatta alla lettura che alla rappresentazione scenica, ma tale pregiudizio è stato smentito da memorabili messe in scena teatrali, come quella di Giorgio Strehler (1988 e 1991), e, più recentemente, quella di Glauco Mauri e Roberto Sturno (2000). Anche il cinema è tornato spesso a interpretare la vicenda di Faust, e anche in quest’ambito si segnalano capolavori, dal film muto Faust di Murnau del 1926, dalle suggestive scenografie espressionistiche, a La bellezza del diavolo di René Clair (1950), fino al recente Faust di Aleksandr Sokurov (2010), di grande forza visiva. Mefistofele e Faust in una scena del film Faust diretto da Friedrich Wilhelm Murnau del 1926.

(Testo di riferimento: P. Orvieto, Il mito di Faust. L’uomo, Dio, il diavolo, Salerno, Roma 2006)

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Johann Wolfgang Goethe

Il carcere dei libri e l’ansia della conoscenza

T7

Faust Parte prima, Notte Presentiamo parte della scena iniziale del dramma, in cui sono poste le basi concettuali per comprendere la straordinaria avventura spirituale poi tracciata nell’opera. Un’avventura che prende le mosse dalla profonda insoddisfazione del protagonista, un vecchio sapiente, nei confronti della sua esistenza. La vita si è configurata per Faust nella ricerca del sapere, che non ha lasciato inesplorato alcun ambito, ma questa ricerca non ha prodotto alcun reale avanzamento conoscitivo: Faust si ritrova, ormai vecchio, a bramare la vera conoscenza della natura, che non potrà mai venire dai libri. Questa scena del dramma goethiano è un documento estremamente significativo delle tendenze antirazionalistiche e antiscientifiche proprie della cultura tedesca nel primo Ottocento.

J.W. Goethe, Faust e Urfaust, trad. e cura di G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1991

Notte Una piccola stanza gotica, con una volta alta Faust, inquieto, sulla sua poltrona, davanti al leggio FAUST Ahimè!, ho studiato, a fondo e con ardente zelo, filosofia e giurisprudenza e medicina e, purtroppo, anche teologia. Eccomi qua, povero pazzo, e ne so quanto prima! Vengo chiamato Maestro, anzi dottore1 e già da dieci anni meno per il naso2, in su ed in giù, in qua ed in là, i miei scolari. E scopro che non possiamo sapere nulla! Ciò mi brucia quasi il cuore. Ne so, è vero, un po’ più di tutti quelli sciocchi, dottori, maestri, scribi e preti; non mi tormentano né scrupoli, né dubbi, né ho 10 paura del diavolo o dell’inferno. Però mi è stata tolta in cambio di ciò ogni gioia; non mi metto in capo di sapere qualcosa di buono, non mi illudo di poter insegnare qualcosa, di saper render migliori o convertire gli uomini3. Oltre a ciò non ne ho né beni, né danari, né onori, né le pompe del mondo. Nemmeno un cane potrebbe continuare a vivere così. Mi sono dato pertanto alla magia4, se mai il potere o la 15 parola dello Spirito5 mi rivelassero qualche segreto. Per non dover dire, dopo così amare, sudate fatiche, quello che non so, per poter scoprire ciò che, nel profondo, tiene insieme l’universo e contemplare ogni attiva energia ed ogni primitiva sostanza e smetterla di rovistare nelle parole6. O potessi tu, o piena luna, contemplare per l’ultima volta il mio dolore, tu che io 20 ho atteso, sovente, sino a mezzanotte, vegliando al mio leggio. Poi su libri, e carte, o mesta amica, mi apparisti. Oh!, potessi aggirarmi su cime di monti, andar errando nella tua cara luce, aleggiare cogli spiriti intorno a caverne montane, vagare sui prati al tuo crepuscolo, e, liberato da tutti i tormenti del sapere, risanarmi nel bagno della tua rugiada7! 5

1 dottore: qui nel senso di colui che può insegnare all’università. 2 meno per il naso: inganno (Faust non possiede infatti veramente quella conoscenza che dovrebbe trasmettere ai suoi allievi). 3 Ne so… gli uomini: Faust si ritiene superiore a quei dotti che ingenuamente credono di poter migliorare o convertire l’umanità, ma questa superiorità non gli

dà alcuna gioia.

4 Mi sono dato… alla magia: la rinuncia al sapere libresco spinge Faust a cercare di attingere a nuove, più profonde, fonti di conoscenza del mondo. 5 la parola dello Spirito: riferimento generico ai testi esoterici e filosofici che studiano “lo spirito del mondo”, lo spirito immanente che pervade la natura. 6 per poter scoprire… nelle parole: al sa-

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pere fondato sulle parole dei libri viene contrapposta la ricerca mistico-magica dell’unità profonda dell’universo. 7 O potessi tu… rugiada: imprigionato nel suo carcere di libri, Faust si rivolge in modo struggente alla luna, compagna delle sue sterili, solitarie notti di studio ed esprime la sua ansia di liberazione dai tormenti del sapere: vorrebbe farsi natura nella natura, vagare con gli spiriti della


Ahimè! ancora chiuso in questo carcere? Un maledetto buco muffito, dove persino l’amabile luce del cielo s’intorbida, attraverso i vetri variopinti. Un buco rimpicciolito da questo mucchio di libri che i tarli forano e la polvere ricopre, rivestito di carta, nera per il fumo, fin su all’alta volta, con sparsi, tutto intorno, vasi ed ampolle, zeppo di istrumenti ed ingombro delle avite masserizie8 – questo è il tuo mondo, e 30 questo si chiama un mondo! E domandi ancora perché il tuo cuore ti si stringa, pieno d’angoscia, in petto? Perché frena, con inspiegato dolore, ogni impeto di vita? Invece della vivente natura entro la quale Dio creò gli uomini, ti circondano, fra fumo e muffa, carcasse d’animali ed ossa di morti. 35 Su, fuggi! fuori, nel vasto mondo! E questo libro pieno di misteri, scritto di proprio pugno da Nostradamo9 non ti è guida sufficiente? Conoscerai così il corso delle stelle e, se la natura ti sarà maestra, sorgerà in te anche la capacità di intendere come uno spirito parli ad un altro spirito. Invano speri che l’arido intelletto ti spieghi i sacri segni10! Voi, o spiriti, aleggiate intorno a me: rispondetemi, se mi udite. 40 (Apre il libro e scopre il segno del Macrocosmo11) Ah! quale gioia scorre improvvisamente, a questa vista, attraverso tutti i miei sensi! Sento un giovanile e sacro ardore di vita percorrermi le vene ed i nervi. Fu un Dio chi scrisse questi segni che mi placano l’interno tumulto, riempiono di gioia il mio cuore e svelano, con un arcano istinto, intorno a me, le forze della natura? Sono io 45 un Dio? Tanta chiarezza è in me! In questi chiari segni vedo innanzi a me, spiegata, la operante natura. Ora soltanto comprendo quello che il Saggio12 dice: «Il mondo degli spiriti non è impenetrabile; il tuo intelletto è chiuso, il tuo cuore è morto! Su, o scolaro, bagna, senza stancartene, il tuo terreno petto nel rosso dell’aurora!». (Contempla il segno) 50 Come ogni cosa si tesse col tutto e l’una cosa vive ed opera nell’altra! Come salgono e scendono le forze celesti e si porgono, l’un l’altra, i dorati secchi! Librandosi su ali che spandono un pro55 fumo di benedizione, passano dal cielo alla terra e risuonano armoniosamente attraverso il tutto! Quale spettacolo! Ma ahimè solamente uno spettacolo! Dove potrò afferrarti, o 60 infinita natura?… 25

terra, le presenze spirituali che animano l’universo. 8 ingombro… masserizie: ingombro di strumenti accumulati dagli avi. 9 Nostradamo: Nostradamus (Michel de Nostredame, 1503-66), autore di un famosissimo libro di profezie. 10 Invano speri… i sacri segni: al sapere scientifico razionalistico viene contrapposto apertamente un diverso sapere, magico, poetico, che solo può leggere il misterioso linguaggio dell’universo.

11 Macrocosmo: i romantici tedeschi recuperarono la tradizione filosofica del sapere magico rinascimentale: l’ordine dell’universo (macrocosmo) trova corrispondenza nel microcosmo-uomo. Più in generale la Naturphilosophie tedesca, di cui Goethe fu un esponente, accoglie una visione panteistica della natura, a cui certamente fa riferimento la poetica, esaltata descrizione: «Come ogni cosa si tesse... attraverso il tutto!» (r. 46). 12 il Saggio: Nostradamo.

Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Goethe alla finestra del suo appartamento romano, 1787 (Francoforte, Goethe-Museum).

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Analisi del testo Il rifiuto del sapere tradizionale e l’aspirazione a una nuova forma di conoscenza Tutta la prima parte dell’opera è segnata dal disgusto per un sapere libresco, fondato sull’accumulo di nozioni: il «buco muffito [...] rimpicciolito da questo mucchio di libri che i tarli forano e la polvere ricopre» diventa il luogo metaforico di un sapere sterile, dove non penetra la luce della vera conoscenza. Faust è stanco di «rovistare nelle parole», cerca ansiosamente la verità che (ormai lo sa bene, arrivato alla vecchiaia) non può certo scaturire dai libri. L’unica cosa, si potrebbe dire, che Faust ha ricavato da tanti anni di studi, è il disinganno, la perdita dell’ingenua fiducia nella possibilità di insegnare qualcosa a qualcuno: ma si tratta di un’amara conquista («Però mi è stata tolta in cambio di ciò ogni gioia»). Nel testo, all’insignificante e limitato sapere dei libri si contrappone la tensione verso un sapere “diverso” («mi sono dato [...] alla magia») che consenta finalmente di scoprire la legge armonica che lega nel profondo l’universo. La poetica invocazione alla luna segnala il bisogno struggente, e tipicamente romantico, di superare una visione conoscitiva limitata (quella della scienza) per cogliere la vivente armonia della natura. In Faust si proietta e trova espressione l’insoddisfazione propria dell’intellettuale romantico per le forme tradizionali del sapere accademico che non solo non appaga la sete di conoscenza, ma colloca irreparabilmente il dotto, l’uomo di cultura, fuori della natura e della vita, in una dimensione sterile e vuota. Da qui la scelta di Faust di affidarsi alla magia (Goethe stesso nella giovinezza si interessò all’alchimia e al sapere esoterico), come mezzo per accedere alla dimensione spirituale e insieme vitale della natura (gli spiriti). Ma il seguito della scena mostrerà il fallimento di questo tentativo: l’avventura conoscitiva di Faust dovrà essere molto più tortuosa e complessa e dovrà avvenire attraverso la rischiosa mediazione del contatto con il demoniaco (il patto con il diavolo, che Faust stringerà il giorno successivo ➜ T8 ).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega perché Faust svalorizza il proprio ruolo di maestro (nel senso del magister medievale) considerandolo un «menare per il naso» i suoi studenti: quale ruolo se ne deduce che dovrebbe avere un maestro? 2. A quale sapere dichiara di tendere il protagonista? ANALISI 3. Quale significato riveste il riferimento a Nostradamo? 4. La scena iniziale, in cui Faust compie un bilancio amaro della sua vita e verifica lo scacco della conoscenza del mondo, dopo tanto studio, si svolge di notte. Come spieghi questa scelta? Quale fascino e suggestione procura la notte? Quale tipo di conoscenza essa è in grado di svelare al poeta? STILE 5. Nell’invocazione alla luna compare una serie di verbi: aggirarmi, andar errando, aleggiare, vagare: che cosa li accomuna?

Interpretare

SCRITTURA 6. Chi è Faust? Sulla base del passo che hai letto e di quanto hai appreso, tratteggia il personaggio nelle sue possibili “versioni”: a. un vecchio professore deluso dai libri e nauseato della vita condotta; b. l’immagine delle inquietudini dell’intellettuale del tempo di Goethe, e quindi di Goethe stesso; c. personaggio dalla natura metastorica, archetipo dell’aspirazione eterna dell’uomo a forzare i segreti dell’universo.

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Johann Wolfgang Goethe

T8

Il patto tra Faust e Mefistofele

LEGGERE LE EMOZIONI

Faust, Parte prima, Studio [II] J.W. Goethe, Faust e Urfaust, trad. e cura di G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1991

Mefistofele invita Faust ad abbandonare la sua solitudine di studioso, per inoltrarsi nel vasto mondo, ricercando l’azione e il piacere; promette di seguirlo e di mettersi al suo servizio. Faust trasforma il patto in una scommessa: alla morte, cederà l’anima al demonio, ma solo se si sarà pigramente abbandonato al godimento dell’attimo di piacere, rinunciando alla sua tensione romantica all’infinito.

MEFISTOFELE Questi sono i piccoli fra i miei fedeli1. Ascolta, come, maturi già, ti consiglino il piacere, e l’azione! Essi ti vogliono attirare nel vasto mondo, fuori da questa solitudine dove si irrigidiscono sensi e linfe vitali. Smettila dunque di giocare con il dolore che, come un avvoltoio, ti divora la vita! 5 Anche la peggiore compagnia susciterà in te la sensazione di essere uomo fra uomini. Con ciò non vuol dire che io pensi di ficcarti fra la canaglia. Non sono uno dei grandi della terra, tuttavia se ti vuoi unire a me ed avviarti verso la vita, mi ci adatterò volentieri e sarò tuo da questo momento. Sarò tuo compagno e, se ti accontento, sarò tuo servo, sarò tuo schiavo! 10 FAUST Ed io a che cosa devo impegnarmi in cambio di ciò? MEFISTOFELE Per questo hai parecchio tempo davanti a te. FAUST No, no! Il diavolo è un egoista e non fa, facilmente, per amor di Dio, quello che può giovare altrui. Precisami le condizioni! Un servo come te porta con sé pericoli in casa. Io voglio di qua2 obbligarmi al tuo servizio, ad un tuo cenno non 15 MEFISTOFELE riposare e non aver tregua; quando noi ci ritroveremo di là3, dovrai fare altrettanto con me. FAUST Dell’al di là mi curo poco4. Frantuma dapprima questo mondo, ne potrà poi sorgere un altro. Da questa terra sgorgano le mie gioie e questo sole illumina 20 le mie pene. Se me ne posso liberare, succeda poi quello che può e deve. Su ciò non voglio più sentire parola, se, cioè, anche nella vita futura, si ami o si odi o se, anche in quelle sfere, esista un disopra ed un disotto5. MEFISTOFELE Se tale è il tuo punto di vista, corri il risico6. Conchiudi il patto! con gioia vedrai, in questi giorni, le mie arti: ti darò quello che nessun mortale ha 25 ancora veduto. FAUST Che cosa mi vuoi dare, tu, povero diavolo! Fu mai compreso, da un tuo pari, lo spirito di un uomo nel suo alto tendere7? Ma hai, forse, cibo che non sazia? Hai rosso oro che, senza posa, simile all’argento vivo, ti scorre via fra le dita? Un gioco al quale non si vinca mai? Una ragazza che, stretta al mio seno, se l’intenda,

1 piccoli… fedeli: Faust aveva appena

5 se, cioè… disotto: Faust non si preoc-

udito un coro di spiriti, evidentemente demoni minori. 2 di qua: nel mondo terreno. 3 di là: all’inferno. 4 Dell’al di là… poco: a Faust interessa soltanto la vita terrena.

cupa di come sia l’altro mondo, perché le sue pene e la sua felicità derivano soltanto dalla vita terrena. 6 risico: rischio. 7 fu mai… tendere: è stata mai compresa, da un diavolo come te, l’aspirazione uma-

na al perfezionamento? Mefistofele non possiede la caratteristica che, secondo l’antropologia rinascimentale, è propria soltanto dell’uomo, la capacità di autodeterminarsi. “Tendere” traduce la parola chiave Streben (che nel testo tedesco è sottolineata dalla rima).

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cogli occhi, col vicino? E l’onore, la bella gioia degli dei, che svanisce come una meteora? Mostrami il frutto che marcisce prima ancor che lo si colga e gli alberi che, giornalmente, rinverdiscono8! MEFISTOFELE Un tale compito non mi spaventa. Ti posso servire simili tesori. Tuttavia, caro amico, si avvicina il tempo in cui potremo godere in pace qualche 35 cosa di buono9. FAUST Se mai mi adagerò, placato, su un letto di pigrizia, sia, per me, subito finita! Se tu, illudendomi, mi ingannerai così ch’io possa compiacermi10 di me, se tu mi potrai sedurre con piaceri, sia quello l’ultimo giorno per me! Questa scommessa offro io! 40 MEFISTOFELE Accetto! FAUST E, qua, una stretta di mano! Se dirò all’attimo: fermati dunque! sei così bello11! allora mi potrai gettare in catene12, allora andrò volentieri in rovina. Allora potrà suonare a morto la campana, allora sarai liberato dal tuo servizio. Si arresti l’orologio e cada la lancetta13 e sia finito, per me, il mio tempo14! 30

8 Ma hai… rinverdiscono: Faust ricerca piaceri che non possano appagarlo, ma lo spingano sempre a cercare oltre. L’argento vivo è il mercurio, elemento alchemico legato alla capacità della materia di passare da una forma all’altra. 9 qualche… buono: qualche piacere. Mefistofele è convinto che l’uomo, quando abbia provato un grande piacere, si

accontenti di goderne, deponendo ogni aspirazione a migliorarsi. 10 compiacermi: essere soddisfatto. 11 Se dirò… bello!: Se mi sentirò perfettamente appagato, tanto da non desiderare nulla di più. 12 mi potrai gettare… catene: l’anima di Faust apparterrà allora per sempre al demonio.

13 cada la lancetta: la lancetta potrà cadere sulle sei, nel punto più basso del suo corso, senza la spinta a proseguire verso l’alto il suo giro nel quadrante. Il tempo per Faust sarà definitivamente fermo, nell’eterna dannazione. 14 sia finito… il mio tempo: il tempo sarà diventato inutile, perché non servirà più a progredire.

Analisi del testo La ricerca di un continuo perfezionamento Il testo mette a fuoco il senso della scommessa di Faust. A Faust interessa non l’aldilà, ma soltanto la vita terrena, che egli vuole vivere pienamente (rr. 18-22). L’eccezionalità di Faust si rivela già nella sua richiesta: non invoca, come l’uomo comune e privo di spirito, piaceri che lo possano saziare, legandolo per sempre a un’esistenza ripetitiva, ma piaceri che gli sfuggano, stimolandolo a una continua ricerca, una costante tensione al perfezionamento, in tedesco Streben, parola chiave del testo.

Mefistofele e Faust: le due facce dello spirito umano Rappresentando un principio scettico, di negazione, Mefistofele non è in grado di concepire la spinta umana a superarsi, e perciò, all’inizio della tragedia, dice a Dio: «Il piccolo dio del mondo (cioè l’uomo) è sempre tale e quale e sempre strambo come al primo giorno. Vivrebbe un po’ meglio, se tu non gli avessi dato una parvenza di luce del cielo. La chiama ragione e se ne serve unicamente per essere più bestiale di ogni altra bestia». Ma la sfiducia nell’uomo dichiarata da Mefistofele all’inizio della tragedia è espressa anche da Faust, che, angosciato dall’insufficienza del proprio sapere, si sente più simile a un essere infimo che a Dio: «Non somiglio agli Dei! Lo sento troppo profondamente! Al verme assomiglio che fruga nella polvere». Proprio nella sfida con Mefistofele Faust ritrova fiducia nelle illimitate potenzialità dell’uomo. La scommessa con Mefistofele, dunque, è per Faust anche una scommessa con sé stesso, sicché nelle due figure di Mefistofele e di Faust si può vedere uno sdoppiamento dello spirito umano: da una parte la tendenza all’autocritica e alla sfiducia, dall’altra la volontà di mettersi alla prova, con la convinzione di poter superare ogni ostacolo: due tendenze opposte, ma entrambe necessarie, come Goethe vuole mostrare, perché l’uomo dia il meglio di sé e possa raggiungere la pienezza dell’essere.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che senso Faust e Mefistofele possono rappresentare due parti diverse dell’animo umano? ANALISI 2. Indica i piaceri richiesti da Faust, tali da spronare l’uomo senza la speranza di essere appagati. 3. Confronta le idee sull’uomo di Faust e quelle di Mefistofele. In cosa differiscono? Quale ritieni più veritiera e perché?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Alla luce del passo proposto, indica quale visione accomuna il Faust ad altre opere di Goethe e rifletti sugli elementi di possibile modernità del protagonista. 5. Come evidenziato nell’Analisi del testo, il passo dimostra come l’uomo oscilli tra la tendenza all’autocritica e alla sfiducia e la convinzione di potere superare ogni ostacolo, mettendosi alla prova. Ti riconosci nel pensiero di Goethe? Credi che le due componenti siano da collocare sul medesimo piano o che nella nostra vita l’una debba prevalere sull’altra? Esponi le tue riflessioni in un testo di massimo 20 righe.

online T9 Johann Wolfgang Goethe

L’utopia di Faust Faust, Parte seconda, atto quinto

5 Natura e civiltà: il romanzo alchemico delle Affinità elettive Il rapporto tra natura e civiltà nella visione di Goethe Natura e civiltà, come si può riscontrare in tutte le sue opere, sono i due poli inseparabili nella visione di Goethe. La coscienza pone l’uomo al grado più elevato dell’essere, ma questi non deve mai dimenticare di essere anche natura. È questo il tema di una delle opere di Goethe più suggestive, ma anche misteriosa e di difficile interpretazione, il romanzo Le affinità elettive, pubblicato nel 1809. Le “affinità elettive” della chimica Il titolo del romanzo si riferisce all’affinità tra fenomeni della natura e manifestazioni dell’animo: per una legge della chimica (già rilevata dagli antichi alchimisti) due elementi uniti in un composto, se messi a contatto con altri elementi con maggiore affinità chimica, si separano per formare nuovi e più stabili aggregati. La vicenda del romanzo Nel romanzo è ciò che accade ai non più giovani coniugi Edoardo e Carlotta, la cui unione, apparentemente felice, è in realtà instabile, perché i due si sono sposati quando erano ormai spente l’attrazione e la passione che li avevano legati nella giovinezza. La debolezza dell’unione si rivela quando i due, che si erano ritirati in una loro proprietà di campagna, vi ospitano il Capitano, un amico di Edoardo, e Ottilia, la giovanissima nipote di Carlotta. Razionalità come civiltà / passione come natura Le “affinità elettive” cominciano a mostrare la loro forza: Carlotta e il Capitano, i due caratteri più razionali, si scoprono sempre più in sintonia; ancora più dirompente, perché non frenata dalla ragione, è la passione fra Edoardo e Ottilia, entrambi irrazionali, uno per immaturità ed egoismo, l’altra per inesperienza. Ma, secondo l’anticonformistico sistema etico goethiano, la natura non risparmia chi è nella falsità e nell’errore: da un rapporto fra Edoardo e Carlotta, “falso” perché entrambi avevano fantasticato di giacere con la persona amata, nasce uno strano bambino, assomigliante alle immagini della loro fantasticheria, con gli occhi di Ottilia e le fattezze del Capitano.

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Da questo momento la situazione precipita: il bambino, «creatura della menzogna» (W. Benjamin), annega nel lago, per colpa involontaria di Ottilia, e la giovane, per il rimorso e l’impossibilità di vincere la passione per Edoardo, si lascia morire di anoressia; l’amante non le sopravvive, e Carlotta li fa seppellire insieme, uniti nella morte, non avendo potuto esserlo nella vita. Il simbolismo del romanzo tra natura e civiltà Il fascino del romanzo è nelle sue atmosfere simboliche e nel rispecchiamento fra situazioni psicologiche ed elementi naturali. Inoltre, tutta la narrazione è percorsa dal senso dell’immensa potenza della natura e insieme dallo sforzo dell’uomo di non abbandonarvisi passivamente, ma di imporsi una scelta etica. Ma l’equilibrio instabile tra uomo e natura – che nel Faust vede l’uomo temporaneamente vincitore – qui, in una visione più pessimistica, lo mostra soccombente di fronte al destino di distruzione e di morte che domina il tutto.

Le affinità elettive DATAZIONE

1809

GENERE

romanzo

TEMI

affinità tra fenomeni della natura e sentimenti dell’animo; razionalità come civiltà/passione come natura

Fissare i concetti Tra Neoclassicismo e Preromanticismo Il Neoclassicismo 1. Quando inizia ad affermarsi il gusto neoclassico? Da cosa fu favorita la sua diffusione? 2. Quale visione estetica viene promossa da Winckelmann? 3. Quale atteggiamento mostra Ugo Foscolo nei confronti del Neoclassicismo? Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo 4. Chi fu il maggior esponente del Neoclassicismo italiano in ambito letterario? Quali peculiarità caratterizza la “fedeltà” al gusto “neoclassico” di questo poeta? Il Preromanticismo 5. Cosa si intende con il termine “preromanticismo”? 6. Quali tematiche romantiche vengono anticipate dagli Stürmer? 7. Come si declina in Inghilterra la tendenza preromantica? Goethe, un genio poliedrico 8. Quale fu la formazione di Goethe? 9. Da che cosa venne influenzata la sua formazione letteraria? 10. Perché il Werther ebbe tanta influenza su tutta una generazione di giovani lettori? 11. In quale clima culturale nacque? 12. Per quali ragioni è possibile considerare Werther il primo eroe romantico della letteratura europea? 13. Qual è il tema centrale dei romanzi dedicati a Wilhelm Meister? 14. Qual è l’utilità delle esperienze negative per l’“apprendistato” alla vita del protagonista? 15. Che tipo di opera letteraria è il Faust? 16. Quali sono le caratteristiche del personaggio di Faust? 17. A cosa allude il titolo del romanzo? 18. In cosa consiste il fascino del romanzo?

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Ottocento Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

Sintesi con audiolettura

1 Il Neoclassicismo

Dalla seconda metà del Settecento e, in particolare, durante l’età napoleonica, sulla scia della forte suggestione suscitata dagli scavi archeologici a Ercolano e a Pompei e sotto la spinta della politica culturale dei papi, si diffonde in Europa un orientamento del gusto noto come Neoclassicismo, per distinguerlo dal classicismo rinascimentale. Il Neoclassicismo interessa prima l’ambito artistico- architettonico e quindi la letteratura, ma ne sono influenzati anche la moda, l’arredamento, l’oggettistica, e costituisce un vero e proprio fenomeno di costume. Il culto dell’antico si afferma inizialmente soprattutto a Roma, dove operano, tra gli altri, lo scultore Antonio Canova, il letterato Vincenzo Monti e l’archeologo tedesco Winckelmann (1717-1768), la cui Storia dell’arte nell’antichità fonda l’estetica neoclassica. Winckelmann propone di fatto il principio di imitazione, perché considera l’arte statuaria della Grecia classica come un modello assoluto di perfezione: la bellezza ideale e universale viene identificata nell’armonia, nell’equilibrio e nel perfetto controllo delle passioni. In ambito letterario il Neoclassicismo comporta l’impiego di uno stile classicheggiante che predilige soggetti e immagini mitologiche, come risulta evidente nell’opera di Vincenzo Monti, il principale rappresentante del Neoclassicismo italiano. Riconducibile al gusto neoclassico è anche l’opera di Foscolo, fondata su una concezione della poesia che va alla ricerca del bello e dell’armonia, anche se nel poeta si avverte già una sensibilità romantica. In ambito europeo Neoclassicismo e Romanticismo coesistono cronologicamente.

2 Vincenzo Monti: la fedeltà al classicismo

Il più rappresentativo esponente del Neoclassicismo italiano è Vincenzo Monti (1754-1828). La sua opera si caratterizza, in linea con la politica culturale del papato, per la fedeltà al gusto neoclassico, che si traduce nella scelta di un linguaggio alto e classicheggiante e nell’uso di un repertorio mitologico, finalizzato alla nobilitazione della realtà. Capolavoro di Monti è la traduzione dell’Iliade in endecasillabi sciolti (1811).

3 Il Preromanticismo

In Germania: il gruppo dello Sturm und Drang Il Romanticismo, i cui princìpi basilari si devono ai romantici tedeschi (in particolare ai fratelli Schlegel, al poeta Novalis e ai filosofi Fichte e Schelling) è anticipato, in Germania e in Inghilterra, da tendenze del gusto che si è soliti definire Preromanticismo. In Germania tali tendenze sono rappresentate dallo Sturm und Drang (1770-1785), letteralmente “Tempesta e assalto”, un gruppo di cui fanno parte nella giovinezza anche Schiller e Goethe. Gli Stürmer anticipano il tema romantico della ribellione, della sfida titanica, dell’esaltazione del valore delle passioni contro le convenzioni sociali, dell’esaltazione della poesia popolare, della distinzione fra poesia d’arte (Kunstpoesie) e poesia di natura (Naturpoesie).

Sintesi Ottocento

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In Inghilterra: la poesia sepolcrale e i Canti di Ossian Anche in Inghilterra si manifestano in ambito artistico-letterario orientamenti che anticipano il Romanticismo: nel 1757 viene teorizzata da Edmund Burke l’«estetica del sublime», che lega il “sublime” alle emozioni forti suscitate da spettacoli naturali grandiosi e da scenari tempestosi e notturni. Esempio di questa nuova sensibilità è la poesia “sepolcrale”, un filone poetico incentrato sul tema della morte, su malinconiche rappresentazioni naturali, i cui esponenti principali sono Edward Young e Thomas Gray. Ma la poesia che esercita una grande influenza sulle letterature europee è soprattutto la cosiddetta “poesia ossianica” che deve il suo nome ai Canti di Ossian, rielaborazione di canti epici popolari a opera di James Macpherson che li attribuisce invece a un cantore antico, Ossian appunto. Tradotti da Melchiorre Cesarotti, i Canti di Ossian diffondono anche in Italia il gusto per le atmosfere cupe, tenebrose, per paesaggi selvaggi.

4 Goethe: un genio poliedrico

Una vita in multiforme e instancabile attività Goethe nasce a Francoforte nel 1749 da una ricca famiglia borghese. Sotto l’influenza del padre riceve un’istruzione in più campi del sapere (musica, discipline umanistiche, disegno, lingue moderne) e intraprende la carriera giuridica. La sua formazione letteraria è influenzata dal filosofo Herder, teorico del movimento dello Sturm und Drang. I dolori del giovane Werther: il manifesto della sensibilità preromantica Nel 1774, nel periodo in cui aderisce allo Sturm und Drang, Goethe pubblica la sua prima opera che gli dà fama grazie alla rappresentazione del disagio delle giovani generazioni, I dolori del giovane Werther, il cui protagonista già presenta le caratteristiche del futuro eroe romantico: l’esasperata passionalità, l’anticonformismo, il disadattamento sfociante nel suicidio. Nel libro è preromantica anche la rappresentazione della natura, in sintonia con lo stato d’animo del protagonista: prima idillica, poi tempestosa e distruttiva. Dall’autodistruzione di Werther alla formazione di Wilhelm Meister Dopo aver prefigurato la ribellione romantica con il Werther, un giovane dalle enormi potenzialità, ma incapace di metterle a frutto, Goethe affronta ancora il problema dell’inserimento e del ruolo dell’individuo nella società borghese, esordendo nel nuovo genere letterario del romanzo di formazione con il personaggio di Wilhelm Meister (al centro di tre diversi romanzi), che, dopo aver seguito la propria passione per il teatro, nonostante la volontà paterna di farne un commerciante, dopo varie vicissitudini, scopre la sua vera vocazione, la professione di medico. Il romanzo assume caratteri pedagogici: Wilhelm nel suo percorso di formazione si trasforma in un uomo socialmente utile, grazie all’ideale di una vita piena e attiva.

92 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo


Faust, una moderna commedia Il tema del rapporto tra l’individuo d’eccezione e il mondo borghese moderno è affrontato anche nel Faust, complessa opera teatrale suddivisa in due parti, che accompagna tutta la vita di Goethe (la prima parte viene pubblicata nel 1808, la seconda nel 1832). Egli riprende la figura leggendaria di un mago rinascimentale che avrebbe ceduto l’anima al demonio in cambio del sapere, facendone l’emblema dell’uomo moderno, sempre impegnato a superare i propri limiti. La prima parte si concentra sull’amore tragico tra Faust e Margherita, la seconda estende le riflessioni sul mondo dell’economia, della politica e della storia. Motivo unificante tra le due parti è quello dello Streben, che si identifica con l’inesauribile sete di conoscenza che caratterizza Faust. Il protagonista, accompagnato dal diavolo Mefistofele, vive una serie di stupefacenti avventure. A differenza del Faust della leggenda medioevale, dannato a causa del patto con il demonio, il personaggio goethiano è salvato dalla dannazione perché ha conservato la spinta a progredire sempre, a non appagarsi di facili piaceri. Le affinità elettive L’anticonformismo che caratterizza tutte le opere di Goethe emerge anche nel romanzo della sua tarda età, Le affinità elettive (1809), fondato su una suggestiva analogia fra i legami chimici che si stabiliscono tra elementi “affini”, tendenti a legarsi in composti stabili, e le anime “gemelle”, spinte a unirsi da una fatale passione, contro cui nulla possono le convenzioni borghesi e gli ostacoli di un vincolo matrimoniale.

Zona Competenze Esposizione orale

1. L’avvento del Romanticismo è preceduto da alcuni movimenti e tendenze che ne anticipano temi, sensibilità e modalità espressive. Individuali e presentali in un intervento orale di circa 8 minuti. 2. Illustra gli elementi di modernità presenti nelle opere di Goethe, ricorrendo a citazioni dai suoi testi (intervento orale di 3 minuti).

Competenza digitale

3. Dopo aver letto la parte del capitolo dedicata al Neoclassicismo e dopo aver preso visione della Gallery sullo “stile neoclassico” proposta online (PAG. 54), realizza un PowerPoint per presentare alla classe le tue riflessioni sul gusto neoclassico in arte e letteratura. 4. Prepara una presentazione multimediale in cui spieghi il concetto di Bildung (formazione) secondo Goethe, e individui i rapporti con le diverse opere dell’autore.

Scrittura argomentativa

5. Scrivi un testo argomentativo in cui evidenzi quale idea di intellettuale emerge dalle opere di Goethe (max. 10 righe).

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi del testo

Johann Wolfgang Goethe

Due visioni del mondo I dolori del giovane Werther, lettera del 29 giugno J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

L’altro ieri è venuto dalla città il medico per visitare l’intendente1 e mi ha trovato disteso per terra, in mezzo ai fratellini di Lotte, proprio mentre alcuni mi saltavano addosso, altri mi prendevano in giro e io li stuzzicavo con pizzicotti, facendo un gran baccano. Il dottore, una marionetta tutta dogmi2, che mentre 5 parla si aggiusta la piega ai polsini e tira fuori una gala3 interminabile, trovò indecoroso questo comportamento per una persona colta; me ne accorsi da come storceva il naso. Io però non mi scomposi, gli lasciai fare i suoi serissimi discorsi e mi misi a ricostruire il castello di carte che i bambini avevano demolito. Poi se n’è andato in città a raccontare che i figli dell’intendente erano 10 già abbastanza maleducati per conto loro e che questo Werther avrebbe finito per rovinarli del tutto. Sì, caro Wilhelm, i bambini sono su questa terra le creature più vicine al mio cuore. Quando li osservo e scorgo in piccolo i germi di tutte le virtù e di tutta la forza di cui un giorno essi avranno bisogno; quando vedo nella loro caparbietà 15 la futura costanza e fermezza di carattere; nella vivacità, il buonumore e la facilità per destreggiarsi fra i pericoli della vita, e tutto questo nella spontaneità e integrità, allora ripeto a me stesso di continuo le auree parole del Maestro dell’uomo: “Se non diventerete come uno di loro4!”. Eppure, carissimo, questi che sono nostri pari, che dovremmo considerare come modelli, li trattiamo co20 me subalterni. Non devono avere una volontà propria! Perché noi forse non la abbiamo? E dove sta il privilegio? Nell’essere adulti e avere più esperienza? Oh, Signore del cielo, Tu vedi soltanto bambini vecchi e bambini veri, nient’altro; quelli nei quali più ti compiaci, già da tempo lo ha annunciato Tuo Figlio. Ma la gente, pur credendo in Lui, non Lo ascolta – anche questa è una vecchia 25 storia! – e cresce i figli a propria immagine e somiglianza e... Addio, Wilhelm! Non voglio vaneggiare oltre sull’argomento.

1 intendente: funzionario pubblico; è il padre di Lotte. 2 dogmi: principi preconcetti.

94 Ottocento 1 Tra Neoclassicismo e Preromanticismo

3 gala: guarnizione di trina o di stoffa increspata. 4 le auree… loro: riferimento al

Vangelo (Mt 18, 3).


Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Chi è il protagonista? A chi si rivolge? 2. Riassumi i fatti narrati nella lettera. 3. Sintetizza le idee di Werther a proposito del modo di trattare i bambini. 4. Quale significato può avere, secondo te, la circostanza che il medico venga dalla città? 5. Spiega il senso della metafora riferita al medico, definito una «marionetta tutta dogmi». 6. In che modo il passo mette in luce l’anticonformismo di Werther?

Interpretare

Nel brano si contrappongono due visioni del mondo: da un lato quella rigida e convenzionale del medico, dall’altro quella passionale, spontanea, insofferente delle norme e dei vincoli, di Werther. Sulla base delle tue conoscenze del Werther e di altre opere di Goethe, rifletti sul tema del rapporto tra individuo e società nella sensibilità e nella cultura dell’età in cui visse e operò lo scrittore. Puoi anche fare riferimento ad altri autori o testi che conosci.

Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther, a cura di S. Marini, Principato, Milano 1995

8 gennaio 1772 Che razza di gente è quella il cui animo è tutto assorbito dal cerimoniale, che per anni non fa altro che pensare e agire all’unico scopo di conquistare un posto più in vista a tavola? E non è da dire che non abbia altro da fare: anzi, 5 il lavoro si accumula, perché per il disbrigo di questi piccoli traffici non riesce a portare a termine affari ben più importanti. La settimana scorsa, durante una gita in slitta, vi fu una discussione, che rovinò tutto il divertimento. Sciocchi sono quelli che non vedono come non sia la posizione a contare, e come anzi chi occupa il primo posto raramente riveste il ruolo più importante! 10 Quanti re sono governati dal proprio ministro, quanti ministri dal proprio segretario! E allora, chi è il primo? Credo colui che sa guardare al di sopra degli altri, che ha tanto potere o astuzia da far confluire le energie e le passioni altrui verso la realizzazione dei suoi piani.

Nel Werther Goethe mostra la difficoltà per un giovane di vivere in un mondo dominato da idee per lui inaccettabili (in particolare, per Werther, il conformismo borghese e le barriere sociali tra nobiltà e borghesia); mentre nel Wilhelm Meister, grazie all’ideale massonico di un’élite senza distinzione di classe, capace di rendere migliore l’umanità, tali difficoltà sono superate. Facendo un confronto con il mondo odierno, ritieni che oggi esistano modi di pensare o stereotipi sociali di ostacolo per i giovani? Che cosa, secondo te, aiuterebbe a superarli? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a tue esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

Verso l’esame di Stato

95


Ottocento Quattrocento e Cinquecento CAPITOLO

2 Ugo Foscolo LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Foscolo visto dalla poetessa Angela Veronese... Uno dei ritratti di Foscolo più vivi e “parlanti” – e probabilmente più vicini alla realtà – è quello di una giovane poetessa veneta, Angela Veronese, che lo descrive senza alcuna concessione a una ritrattistica di tipo “monumentale”, raffigurandolo non solo nell’aspetto fisico, ma anche nel comportamento disinvolto ed espansivo. Il suo vestito di panno grigio oscuro, senza alcun segno di moda, li suoi capegli rossi radati1 come quelli d’uno schiavo, il suo viso rubicondo tinto non so se dal sole oppur dalla natura, li suoi vivacissimi occhi azzurri seminascosi sotto le lunghe palpebre, le sue labbra grosse come quelle d’un Etiope, la sua sonora ed ululante2 voce, mel dipinsero a prima vista per tutt’altro che per elegante poeta. Egli appena mi vide s’alzò da sedere dicendo: È questa la Saffo campestre3? È molto ragazza; si vede dai suoi occhi ch’è vera poetessa. – Il suo complimento mi fece ridere. – Gran bei denti – esclamò egli – ditemi alcuni dei vostri versi. Dietro a queste lodi non mi sembrò più tanto brutto; mi fece coraggio e gli recitai un mio idilio pastorale, ch’egli applaudì avvicinandosi a me più che non permetteva la decenza della vita civile. A. Chiades, Addio, bello e sublime ingegno, addio (Ugo Foscolo e Isabella Teotochi Albrizzi), Scheiwiller, Milano 1987 1 capegli rossi radati: capelli rossi tagliati corti. L’autrice sottolinea la differenza con l’acconciatura dei nobili che, fino al periodo della rivoluzione francese, portavano i capelli lunghi con

il codino, e spesso parrucche. 2 ululante: qui sta per sonora, squillante. 3 Saffo campestre: con riferimento alla celeberrima poetessa greca, dato che Angela scriveva

poesie; campestre perché viveva in una villa di Breda di Piave, dove il padre lavorava come giardiniere e dove Foscolo l’aveva incontrata.

... e da Giuseppe Pecchio Altri tratti del carattere sono testimoniati anche nella fortunata biografia di Giuseppe Pecchio (uscita nel 1830, sarà ristampata, contribuendo a far nascere il mito del Foscolo “irregolare”) che, con un taglio da pamphlet giornalistico, ne disegna un ritratto vivace, talvolta anche irriverente, come quando ne ricorda gli atteggiamenti, alquanto teatrali, da donnaiolo impenitente: Avvezzo a conversar con le muse, aveva contratto il gusto delle belle donne. [...] Le giovani italiane, sempre avide di rinomanza, e propizie alla gloria, si lasciavano volentieri avvicinare da questo straordinario cascamorto, con quel suo stile alla Jacopo Ortis; ora gentile, or sentenzioso, or con un burbero cipiglio; or borbottando versi tra’ denti, or restando immobile pilastro per ore intere, colle labbra strette, cucite, or balzando in piedi colla spensieratezza d’un fanciullo. G. Pecchio, Vita di Ugo Foscolo, a cura di G. Nicoletti, Longanesi, Milano 1974

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Vicino alle idee materialistiche dell’Illuminismo, Foscolo trae dalla delusione per la politica napoleonica l’impulso per una visione nuova, in cui già si avverte uno spirito romantico. Anche grazie alla lettura di Vico, Foscolo valorizza infatti l’importanza del sentimento, delle passioni, della fantasia e della poesia nel fondare i valori della civiltà. Modello di riferimento nell’opera e nella visione foscoliane è il mondo antico: il Neoclassicismo foscoliano non è però mai formale o antiquario, ma è fondato sulla consapevolezza che nel mondo antico vanno ritrovati i valori irrinunciabili della civiltà occidentale. Nella visione foscoliana e nella vita stessa del poeta assume un ruolo centrale il sentimento patriottico rivolto a un’Italia non ancora nata, ma già da lui pensata libera e unita sulla base di un comune patrimonio culturale. Non è quindi certo casuale il mito di Foscolo (e in particolare dei Sepolcri) nel nostro Risorgimento.

1 Ritratto d’autore letteratura come 2 Laautoritratto valori e civiltà: 3 Poesia, dai Sepolcri alle Grazie 9797


1

Ritratto d’autore 1 Una vita inquieta, pienamente vissuta

VIDEOLEZIONE

Dalla Grecia a Venezia Foscolo nasce il 6 febbraio 1778, a Zante, anticamente chiamata Zacinto, isola greca allora sotto il dominio della Repubblica veneziana. La madre, Diamantina Spathys, è greca; il padre Andrea, medico, di Venezia. Primo di quattro tra fratelli e sorelle, Foscolo in realtà non si chiama Ugo, ma Niccolò, ed è lui stesso ad attribuirsi il nome di Ugo: dapprima accanto, poi in sostituzione del proprio. La nascita, il luogo in cui trascorre l’infanzia, l’origine della madre sono mitizzati da Foscolo, che si sente un erede della Grecia classica, come ricorda in una lettera: «non oblierò mai che nacqui da madre greca, [...] e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risuonante ancora de’ versi con che Omero e Teocrito la celebravano». La famiglia si trasferisce poi a Spalato, in Dalmazia (l’odierna Croazia), dove Ugo studia in seminario. Nel 1788, quando ha soltanto dieci anni, il padre muore e la famiglia, soprattutto a causa delle difficoltà economiche, si disperde: la madre affida i figli ai parenti di Zacinto per recarsi a Venezia, dove soltanto nel 1792 Ugo può raggiungerla. Venuto da un’isola lontana, in cui si parlava greco moderno, Ugo non sa neppure esprimersi correttamente in italiano, ma impara in fretta, accogliendo gli innumerevoli stimoli culturali offerti da Venezia: frequenta la biblioteca Marciana, è assiduo nei caffè ritrovo degli intellettuali e, nonostante l’origine oscura e la giovanissima età, viene accolto nei più prestigiosi salotti veneziani, come quello di Isabella Teotochi Albrizzi, colta gentildonna di origine greca.

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva 1789

Scoppia la Rivoluzione francese.

1778

Niccolò (poi Ugo) nasce il 6 febbraio a Zante, nelle isole Ionie, da Diamantina Spathys e Andrea Foscolo.

1788

Morte del padre.

98 Ottocento 2 Ugo Foscolo

1793

In Francia inizia il “Terrore”.

1797

Trattato di Campoformio.

Fine 1792-inizio 1793

Foscolo si trasferisce a Venezia.

1799

Inni alla notte di Novalis.

1802 1793

Prime affermazioni come intellettuale: rappresentazione del Tieste; Ode a Bonaparte liberatore.

1802

Dalla Repubblica Cisalpina nasce la Repubblica italiana. Napoleone console a vita. Viene pubblicato Il genio del cristianesimo di Chateubriand.

Seconda edizione milanese dell’Ortis.

1803

Pubblicazione delle Poesie.

1803

Terza sinfonia, l’“Eroica”, di L. Van Beethoven.

1804-1806

È in Francia, sulla Manica, con l’esercito napoleonico.


L’adesione agli ideali giacobini Nel periodo della sua formazione, lo stimolo intellettuale più forte ha a che fare con l’ambito della politica. Sono gli anni della Rivoluzione francese e delle prime imprese napoleoniche: ovunque, come egli stesso ricorda in una lettera, fervono «le opinioni di libertà universale» e anch’egli diviene giacobino e sostenitore di Napoleone. Seguendo l’esempio di Alfieri, per lui sempre fondamentale, affida inizialmente al teatro le sue idee libertarie e, nel 1797, a diciannove anni non ancora compiuti, fa rappresentare a Venezia il Tieste, una tragedia antitirannica di stampo alfieriano; nello stesso 1797 scrive l’ode A Bonaparte liberatore, in cui esalta Napoleone come liberatore dell’Italia. Divenuto sospetto al governo oligarchico veneziano per tali opere, deve abbandonare la città lagunare. Si trasferisce a Bologna, nella repubblica Cispadana, dove si arruola nell’esercito napoleonico, a cui, con diverse mansioni, sarebbe restato legato fino alla definitiva caduta di Napoleone, nel 1815. La scelta della professione militare Foscolo dunque intraprende la professione militare, una scelta inconsueta per un intellettuale. Vi è indotto da diverse ragioni: la prima è che, seguendo l’insegnamento di Alfieri, preferisce una professione al di fuori del campo letterario, per essere libero di scrivere senza condizionamenti; la seconda è che ritiene l’esercito napoleonico fondamentale per difendere gli ideali giacobini. Quando le armate napoleoniche abbattono l’antico regime oligarchico veneziano, Foscolo torna nella sua città da vincitore e assume l’incarico di segretario della “Società patriottica d’istruzione pubblica”, un circolo democratico e libertario. Il “tradimento” di Campoformio Ma, nello stesso 1797, la fede di Foscolo in Napoleone crolla quando, con il trattato di Campoformio, quest’ultimo cede Venezia all’Austria, rivelandosi uno spregiudicato politico e non un disinteressato liberatore dell’Italia. Due anni dopo il letterato ripubblica l’ode A Bonaparte liberatore con una lettera dedicatoria a Napoleone (➜ T1 OL). Rivolgendosi a lui, Foscolo fa riferimento al trattato in termini espliciti di condanna: “quel Trattato che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni, e scemò dignità al tuo nome”.

1810

Esce la versione di Vincenzo Monti dell’Iliade.

1808-1809

Cattedra universitaria a Pavia.

1814

Napoleone è sconfitto e abdica. Crollo dell’Impero napoleonico.

1815

Si chiude il congresso di Vienna.

1811

1816

Berchet pubblica la Lettera semiseria di Grisostomo.

1816

Rappresentazione a Milano dell’Aiace.

Esilio volontario in Inghilterra. 1812-1813

1807

Dei Sepolcri.

Periodo fiorentino; lavora alle Grazie; pubblica Notizia intorno a Didimo Chierico.

1827

Muore a Turnham Green. Dopo l’unificazione dell’Italia (1871) sarà sepolto in Santa Croce.

1815

Foscolo raggiunge la Svizzera.

Ritratto d’autore 1 99


Lo scrittore affida l’espressione della sua delusione al romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), in cui rappresenta un giovane che vive in modo drammatico la delusione del tradimento di Campoformio. Il libro ottiene un’immediata popolarità, esercitando un’influenza non soltanto letteraria: molti giovani (anche giovani donne), leggendolo, si avvicinano alla politica e si appassionano alle sorti dell’Italia. Molti di loro costituiranno la successiva generazione di patrioti del Risorgimento. Tra campagne belliche e letteratura Costretto ad abbandonare Venezia, ormai soggetta all’Austria per effetto del trattato, Foscolo si sposta nei territori dominati dai francesi, prima a Milano e poi a Bologna. Pur non risparmiando nei suoi scritti critiche ai francesi, non abbandona l’esercito e quando, nel 1799, gli austro-russi invadono la penisola italiana, partecipa a vari combattimenti con l’esercito napoleonico. Dopo la vittoria francese di Marengo (1800), Foscolo torna a Milano: sono anni di intensa attività intellettuale (completa e pubblica l’Ortis nel 1802, e le Poesie nel 1803), di amori passionali (in particolare per la nobile Antonietta Fagnani Arese, a cui dedica l’ode All’amica risanata), di attività politica, ma anche di grandi dolori, come il suicidio del fratello minore Giovanni, nel 1801. Tra il 1804 e il 1806, come ufficiale napoleonico, si reca in Francia, sulla Manica, dove Napoleone prepara un’armata con l’intenzione – poi non realizzata – di invadere l’Inghilterra. Per il poeta è un momento di fecondo rapporto con la cultura europea (traduce fra l’altro il Viaggio sentimentale dell’inglese Sterne), ma anche di approfondimento dei classici: sulle navi, in attesa della guerra, gli sembra di rivivere la condizione degli antichi eroi omerici e inizia a tradurre l’Iliade; entrambe queste componenti culturali saranno fondamentali per i Sepolcri, composti al termine di questo periodo. In questi anni si colloca la relazione con una giovane donna inglese, Fanny Hamilton, da cui Foscolo ha una figlia, Mary (chiamata Floriana), che vivrà con lui in Inghilterra dal 1821 e che gli rimarrà vicina negli ultimi, difficilissimi anni di vita. IMMAGINE INTERATTIVA

Giuseppe Bossi, La riconoscenza della Repubblica italiana a Napoleone, olio su tela, 1802 (Milano, Pinacoteca di Brera).

Realizzato nel clima di promozione delle arti, in seguito al rafforzamento del potere napoleonico a Milano, il dipinto allegorico raffigura Napoleone in trono, in una piena rievocazione neoclassica dell’antichità, mentre porge un ramo di ulivo alla giovane Repubblica italiana, nata dalla Repubblica Cisalpina. Alle sue spalle Ercole e Minerva tengono per le chiome, in gesto di sottomissione, la Fortuna; a fianco del trono, la Storia scrive le gesta del condottiero; sullo sfondo, si intravede il profilo dell’ampliamento urbano monumentale previsto per il Foro Bonaparte.

100 Ottocento 2 Ugo Foscolo


L’affermazione come intellettuale Nel 1806 il poeta torna a Venezia, non più soggetta all’Austria ma ormai parte del Regno d’Italia, e riprende a frequentare il salotto di Isabella Teotochi, dove una discussione con il poeta Ippolito Pindemonte sull’editto napoleonico di Saint-Cloud gli ispira il carme Dei Sepolcri, il suo capolavoro (1807). Per Foscolo questo è il periodo di maggiore serenità e soddisfazioni: ormai famoso come intellettuale, grazie all’interessamento di Vincenzo Monti, con cui aveva stretto amicizia, ottiene nel 1808 una cattedra di eloquenza presso l’università di Pavia. Sembrerebbe l’inizio di una prestigiosa carriera accademica, ma purtroppo, dopo qualche mese, la cattedra viene soppressa. Il poeta ha però il tempo di tenere una prolusione (Dell’origine e dell’ufficio della letteratura) in cui incita gli italiani al patriottismo e alla libertà: un discorso entusiasticamente acclamato dal numeroso pubblico accorso, ma che suscita l’allarme delle autorità. Un segretario della Pubblica Istruzione accusa il poeta di essere «pericoloso per la gioventù» e di istigare alla ribellione. La frattura con gli intellettuali milanesi e il soggiorno fiorentino Le posizioni non ossequienti al regime procurano a Foscolo molti nemici; anche Vincenzo Monti, allora il più influente degli intellettuali italiani, sempre pronto a celebrare con lodi iperboliche i potenti di turno, interrompe i suoi rapporti con Foscolo, seguìto dalla maggior parte dei letterati milanesi. Foscolo è ormai isolato: nel 1811 fa rappresentare al Teatro alla Scala la tragedia Aiace, in cui vengono notate allusioni critiche al regime napoleonico. Ne nasce uno scandalo: l’opera viene proibita e l’autore invitato ad allontanarsi da Milano. Si reca allora a Firenze, città da lui prediletta, celebrata nei Sepolcri, e vi rimane tra il 1812 e il 1813, ritrovando serenità e ispirazione letteraria: qui scrive infatti un’altra tragedia, la Ricciarda, di argomento amoroso, e lavora alla sua ultima grande opera, Le Grazie, poi rimasta incompiuta; nel 1813 pubblica la traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne. In questa occasione traccia un nuovo autoritratto, meno

Andrea Appiani, Venezia che spera di unirsi all’Italia, olio su tela, seconda metà sec. XIX (Milano, Museo del Risorgimento).

Ritratto d’autore 1 101


passionale e irruente di Ortis: attribuisce infatti la traduzione di Sterne a un personaggio autobiografico di sua invenzione, Didimo Chierico, un alter ego riflessivo, ironico e distaccato, descritto in una Notizia intorno a Didimo Chierico, pubblicata con la traduzione (➜ T19 ). L’esilio dall’Italia Ma nel 1813 la sconfitta di Napoleone a Lipsia e i drammatici avvenimenti che ne seguono strappano Foscolo alla tranquillità fiorentina. Coltivando la speranza che il Regno d’Italia possa sopravvivere al crollo dell’impero napoleonico, il poeta torna a Milano, riprende il suo posto nell’esercito e partecipa attivamente agli eventi. Ma ogni tentativo di mantenere l’indipendenza italiana fallisce e, nel 1814, Milano è ormai saldamente in mano agli austriaci. Dato che, a differenza di altri letterati milanesi, Foscolo aveva tenuto un atteggiamento critico e non servile verso il regime napoleonico, mantenendo così intatto il suo prestigio, nel 1815 gli austriaci gli offrono la direzione della «Biblioteca italiana», pubblicazione creata per guadagnarsi il favore degli intellettuali italiani. Il poeta è posto di fronte a un conflitto di coscienza: accettare avrebbe significato, per la prima volta nella sua vita, conquistare una posizione sociale ed economica sicura e ottenere una rivincita sugli uomini di cultura milanesi che lo avevano emarginato; tuttavia, schierarsi a favore dell’Austria reazionaria avrebbe significato tradire sé stesso, il suo passato e la sua attività intellettuale, come egli stesso spiega in alcune splendide lettere (➜ T3 ). Per non prestare il giuramento di fedeltà richiesto dagli austriaci, Foscolo lascia dunque l’Italia, dove non sarebbe più tornato. In volontario esilio si rifugia dapprima in Svizzera, nel 1815; poi, dal 1816, in Inghilterra, dove è ben accolto dagli intellettuali inglesi, favorevoli alla causa della libertà italiana. Purtroppo la situazione economica del poeta è sconfortante: da sempre abituato a vivere al di sopra delle sue possibilità e a contrarre debiti, Foscolo per guadagnarsi da vivere è costretto a lavori editoriali faticosi e mal retribuiti, soprattutto saggi sulla letteratura italiana: un’attività che gli impedisce quasi completamente di dedicarsi alla poesia, ma che è di notevole interesse per la sua novità metodologica.

Pietro Benvenuti, Elisa Baciocchi Bonaparte circondata da artisti a Firenze, olio su tela, 1813 (Versailles, Museé National). Il primo personaggio a destra della statua è Foscolo.

102 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Gli ultimi, difficili, anni A poco a poco, tuttavia, le condizioni economiche del poeta in Inghilterra divengono insostenibili: subisce il carcere per debiti e deve cercare alloggio in sobborghi sempre più popolari e malfamati, dove si nasconde sotto falso nome per sfuggire ai creditori. Alla fine, ammalato e depresso al punto da interrompere i contatti epistolari con i familiari per non informarli della difficile situazione in cui vive, si isola sempre più, frequentando solo pochi amici fedeli, confortato da Floriana, la figlia ritrovata in Inghilterra. Nell’ultimo periodo di vita abita a Turnham Green, un misero sobborgo abitato da famiglie proletarie. Qui Foscolo si spegne nel 1827, a 49 anni. Dapprima sepolto in Inghilterra, quando l’Italia viene unificata – come molti patrioti italiani avevano chiesto e come aveva meritato – nel 1871 il suo corpo viene trasportato dal cimitero inglese di Chiswick in Santa Croce, a Firenze, dove riposa insieme ai grandi italiani da lui celebrati nei Sepolcri.

2 Le lettere

PER APPROFONDIRE

L’epistolario Un interessante ritratto dell’“uomo” Foscolo emerge dal suo ricco corpus di lettere, uno dei più significativi epistolari della letteratura italiana. Oltre alle lettere d’amore – le più conosciute, più volte pubblicate in sillogi, cioè raccolte autonome in cui, come osserva il critico Mario Fubini, Foscolo assume spesso toni passionali, melodrammatici e “ortisiani” – sono di grande interesse le lettere scritte a persone amiche. Esse coniugano la sincerità alla perfezione dello stile, facendo conoscere lo scrittore nel suo autentico spessore online T1 Ugo Foscolo umano e documentando un periodo storico di cru«La nostra salute sta nelle mani di un conquistatore» ciale importanza come quello dell’Italia napoleonica. Scritti letterari e politici: testi dal 1796 al 1808, Lettera dedicatoria dell’“Ode a Bonaparte Liberatore” Al vasto epistolario sono dedicati diversi volumi (XIVXXII) dell’Edizione nazionale foscoliana.

Foscolo critico Foscolo è uno degli autori della letteratura italiana che affiancano alla scrittura letteraria una significativa attività critica. Non soltanto scrive testi illuminanti per l’interpretazione delle proprie opere (come la Lettera a Guillon sui Sepolcri), ma nel periodo londinese compone saggi su diversi autori italiani come Dante, Petrarca, Boccaccio, Parini e anche su sé stesso, elaborando una metodologia poi apprezzata e ripresa da Francesco De Sanctis (1817-1883), fondatore della critica moderna in Italia. Per la prima volta, come poi avrebbe fatto De Sanctis, Foscolo lega il piano letterario a quello storico ed etico-politico; inoltre, come viene oggi riconosciuto, Foscolo va persino oltre De Sanctis per l’attenzione prestata all’aspetto stilistico dei testi, riconoscendo con moderna sensibilità i rapporti fra il livello tematico e quello formale delle opere letterarie.

Léon Cogniet, Autoritratto, olio su tela, 1817 (Cleveland, Cleveland Museum of Art).

Ritratto d’autore 1 103


Ugo Foscolo

T2

LEGGERE LE EMOZIONI

Il linguaggio della passione Lettera ad Antonietta Fagnani Arese

U. Foscolo, Lettere d’amore, a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano 1983

Nelle lettere (più di cento) ad Antonietta Fagnani Arese, la nobildonna milanese con cui Foscolo ebbe un’appassionata relazione tra il 1801 e il 1803, i critici rilevano numerose corrispondenze con l’Ortis, il romanzo autobiografico che l’autore andava completando in quegli stessi anni e che fu pubblicato nel 1802.

Sabbato, prima di desinare Tu sei certa dunque ch’io t’amo, o celeste creatura? Oh!... sì, io t’amo quanto posso amare; il mio cuore non può reggere più alla piena1 di tante sensazioni. Io sento la passione onnipotente dentro di me... eterna! Sì io t’amo. Io sperava da’ tuoi baci un 5 qualche ristoro; ma invece io ardo ognor più... Il sorriso è fuggito dalle mie labbra; e la profonda malinconia che mi domina non mi lascia se non quando io ti vedo... e ti vedo venire così amorosa verso di me e farmi confessare come, ad onta di tanti mali2, la vita è preziosa. Ma... io tremo! Che farai di me ora che sei sicura del tuo potere? mi abbandonerai tu alle lagrime e alla disperazione? ti raffredderai tu con me? 10 – io so che mi sarebbero utili le arti del libertinaggio3 per farmi amare di più: dovrei fingere meno ardore per irritare il tuo amor proprio, dovrei... ah! la mia ragione le conosce tutte queste arti, ma pur troppo il mio povero cuore non sa fare alleanza con la mia ragione. Io lo abbandono tutto tutto a te... io spero che tu non sarai capace di tradirlo. È vero, mia cara, ch’io temo del tuo amore perché ne’ suoi principj4 è 15 stato troppo impetuoso, perché tu sei troppo bella, e troppo circondata dal bel-mondo in cui ti perdi, perché... – ma con tutto ciò io non ti credo così cattiva da lasciarmi crudelmente: quando l’amore si raffredderà in te, posso io lusingarmi, o Antonietta, che la compassione e la riconoscenza ti parleranno in favore del tuo amico? Sì, io me ne lusingo5, perché il tuo cuore è ben fatto... perché io non merito di essere tradito. 20 T’amai e t’amo con tutta la lealtà e la delicatezza della virtù... io mi sono confidato6 tutto a te... nelle mie stesse diffidenze io ho prescelto di essere piuttosto tradito che di non credere ai tuoi giuramenti. Rispondimi lealmente, o mia amica; e rispondimi con tutta l’effusione della tua anima. La tua passione per me s’è ella raffreddata? temi tu che quel divino delirio che ti conduce fra le mie braccia cominci a svanire?... oh 25 terribile idea! Ma tu rispondimi. Non temer dal mio canto7 né rimproveri né eccessi8... Io piangerò, io morirò, ma rispettando sempre la tua fama9. Io verserò l’ultimo respiro su le tue lettere. E dirò leggendole: La mia Antonietta mi ha pur qualche volta dato tutto il suo cuore e ha confuse le sue lagrime alle mie. Intanto odilo; niuna donna può vantarsi di essere stata tanto amata da me. Ho amato, è vero, ma non sapeva

1 alla piena: l’espressione metaforica rappresenta l’amore come la piena di un fiume che travolge gli argini. 2 ad onta di tanti mali: nonostante tanti mali. 3 le arti del libertinaggio: arti di sapiente

104 Ottocento 2 Ugo Foscolo

seduzione, schermaglie amorose.

4 ne’ suoi principj: al suo inizio. 5 io me ne lusingo: io mi affido a questa speranza. 6 io mi sono confidato: mi sono affidato. 7 dal mio canto: da parte mia.

8 eccessi: atteggiamenti che denotano la perdita del controllo.

9 la tua fama: il tuo buon nome, il tuo onore.


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di potere amar tanto; i miei passati amori hanno avuto o i caratteri romanzeschi, o con qualche donna del gran mondo quelli del libertinaggio; ma con tanta passione, con tanta ingenuità, con tanta verità di amore non ho amato mai. E non amerò più! Io te lo ripeto, o Antonietta, questo giuramento: tu sarai l’ultima donna ch’io amerò e dopo di te non mi avrà che la solitudine, o la sepoltura. Rispondimi. Addio.

Analisi del testo Un nuovo modo di “parlar d’amore” La lettera, appartenente al primo tempo della relazione tra il poeta e la donna, testimonia un nuovo modo di “parlar d’amore” e un nuovo stile epistolare che dà spazio, senza freni, all’effusione della soggettività. In essa vengono infrante le convenzioni poiché viene abbattuto ogni diaframma tra emittente e destinatario. La lettera dà l’impressione di esser stata scritta di getto e si configura come espressione diretta dello stato d’animo dell’autore, che si mette a nudo senza filtri.

Anonimo, Ritratto di Antonietta Fagnani Arese, olio su tela, circa 1810 (Milano, collezione privata).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto dell’epistola. COMPRENSIONE 2. Nelle ultime righe, Foscolo contrappone l’amore per Antonietta ad altre sue precedenti relazioni: quale differenza caratterizza queste diverse esperienze amorose secondo l’autore? ANALISI 3. Spiega e commenta l’espressione «il mio povero cuore non sa fare alleanza con la mia ragione» (rr. 12-13). LESSICO 4. Il testo è costellato di espressioni che rimandano alla visione romantica dell’amore come passione totalizzante, «passione onnipotente... eterna» (r. 3). Ricerca nel testo, trascrivi e commenta altre espressioni analoghe.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. La parola chiave del testo è amore: rintraccia nel testo tutti i termini riconducibili a questo campo semantico, osservane le occorrenze e spiegane la novità d’uso rispetto alla tradizione (max 15 righe). 6. Ti sembra che Foscolo sia troppo enfatico nell’espressione della sua passione per Antonietta Fagnani Arese e che ci sia in lui un atteggiamento studiato e poco naturale? O pensi al contrario che, come sostiene lo studioso Guido Bezzola, «molte delle lacrime che forse troppo sovente vengono nominate erano vere, anche se si asciugavano presto»? Ti è mai capitato di provare certi sentimenti e di dimostrarli così apertamente e con tale enfasi?

Ritratto d’autore 1 105


Ugo Foscolo

Foscolo motiva la dolorosa scelta dell’esilio

T3

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Epistolario Nella lettera, scritta ai familiari il 31 marzo 1815 e di cui riproduciamo una breve parte, Foscolo spiega i motivi per cui decide di abbandonare l’Italia, partendo per un volontario esilio nonostante una proposta da parte austriaca di dirigere la prestigiosa rivista «Biblioteca italiana». Il poeta avrebbe dovuto prestare un giuramento di fedeltà al nuovo occupante: cosa per lui inaccettabile, perché, in contrasto con i suoi princìpi e i suoi valori, non gli avrebbe permesso di esercitare liberamente la propria attività di intellettuale.

U. Foscolo, Epistolario, vol. VI, Le Monnier, Firenze 1966

Miei cari, [...] L’onore mio, e la mia coscienza, mi vietano di dare un giuramento che il presente governo1 domanda per obbligarmi a servire nella milizia2, della quale le mie occupazioni e l’età mia e i miei interessi m’hanno tolta ogni vocazione. Inoltre tradi5 rei la nobiltà, incontaminata fino ad ora, del mio carattere col giurare cose che non potrei attenere3, e con vendermi a qualunque governo. Io per me mi sono inteso di servire l’Italia, né, come scrittore, ho voluto parer partigiano di Tedeschi, o Francesi, o di qualunque altra nazione: mio fratello4 fa il militare, e dovendo professare quel mestiere ha fatto bene a giurare; ma io professo letteratura, che è arte liberalissima 10 e indipendente, e quando è venale non val più nulla. 1 il presente governo: il governo austriaco tornato a Milano dopo il crollo dell’impero napoleonico. 2 a servire... milizia: Foscolo era impie-

gato nell’esercito; come ad altri ufficiali, gli era stato richiesto un giuramento di fedeltà agli austriaci, sostituitisi ai francesi nel dominio dell’Italia.

3 attenere: mantenere. 4 mio fratello: si tratta di Giulio, fratello minore del poeta, che esercitava la professione di militare.

Analisi del testo Una scelta difficile Giurare fedeltà agli austriaci, e mostrare così un atteggiamento servile, avrebbe significato per Foscolo tradire la propria storia personale, i propri ideali, la propria identità umana e letteraria. Ecco perché egli decide di partire e lasciare l’Italia in esilio volontario. Spicca nel breve passo la presenza di termini ed espressioni che delineano un ritratto morale del poeta (l’onore mio, la mia coscienza, «la nobiltà...del mio carattere») e l’emergere di una dimensione patriottica che tanto sarà apprezzata nel Risorgimento («Io per me mi sono inteso di servire l’Italia»).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega l’affermazione di Foscolo: «io professo letteratura, che è arte liberalissima e indipendente, e quando è venale non val più nulla». Quale concezione della letteratura rivela?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 2. Nell’epistola il poeta afferma “Io per me mi sono inteso di servire l’Italia, né, come scrittore, ho voluto parer partigiano di Tedeschi, o Francesi”. Pensi che oggi una posizione di lealtà intellettuale, ferma e lucida come quella di Foscolo, possa essere attuale? Per quali ragioni? Motiva la tua risposta in un testo scritto (max 10 righe).

online T4 Ugo Foscolo

Il caro prezzo della libertà Epistolario

106 Ottocento 2 Ugo Foscolo


3 La visione del mondo e il ruolo dell’intellettuale Il compito dell’intellettuale. I modelli di vita Per comprendere l’opera di Foscolo si deve considerarne la formazione illuministica, innanzitutto per quanto riguarda la concezione dell’intellettuale come coscienza critica della società. Le figure di riferimento sono Parini e Alfieri: da Parini egli riprende l’idea del ruolo fondamentale esercitato dalla letteratura nel promuovere il progresso civile; da Alfieri l’idea che la letteratura debba educare alla libertà. Con toni alfieriani, Foscolo stesso ricorda: «Dal momento che appresi a pensare e a scrivere, giurai di non vergare una linea che non ardesse di libertà», mentre nei Sepolcri dirà di voler lasciare in eredità agli amici «di liberal carme l’esempio». Il modello alfieriano è presente in Foscolo anche nei momenti decisivi della sua stessa vita, in particolare nella scelta dell’esilio: Foscolo rifiuta l’offerta di collaborare con gli austriaci perché, come rivendica in una sua lettera, la letteratura è «arte liberalissima e indipendente, e quando è venale non val più nulla» (➜ T3 ). La concezione materialistico-meccanicistica Di derivazione illuministica è anche la concezione foscoliana della natura e dell’uomo, rigorosamente materialistica, da ritrovare nell’epicureismo del poeta latino Lucrezio (circa 98-55 a.C.) ma soprattutto nel pensiero di Diderot e La Mettrie. La natura è vista come un meccanismo impersonale, privo di senso e di scopo, in cui la materia assume ciclicamente forme diverse. È assente ogni prospettiva di vita ultraterrena: al di là della morte c’è soltanto il «nulla eterno», come Foscolo scrive nel sonetto Alla sera (➜ T15 ). Una sensibilità già romantica L’autore, però, va oltre le prospettive dell’Illuminismo, evidenziando una sensibilità già romantica per il valore attribuito al sentimento, alla fantasia, all’immaginazione, alle passioni: componenti che superano la dimensione strettamente razionale. Nell’Ortis il protagonista, alter ego dell’autore, afferma che l’uomo, abbandonato alla sola ragione «fredda, calcolatrice», è «scellerato, e scellerato bassamente» (lettera del 1° novembre 1797). L’influenza di Vico e la visione della storia La visione foscoliana della storia deriva soprattutto dalla lettura delle opere di Giambattista Vico (1668-1744), che avranno una decisiva influenza sui Sepolcri e anche sulle Grazie. Nella Scienza nuova, Vico distingue tre fasi dello spirito umano che si manifestano sia nell’individuo, sia nell’evoluzione della società; queste sono dominate rispettivamente dal prevalere del senso, dalla fantasia e dalla ragione («gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura»). Come l’uomo passa dall’infanzia alla maturità e alla vecchiaia, così le civiltà si evolvono da uno stadio primitivo, dominato dai sensi, alla fase degli eroi, resa feconda dalle passioni e dall’immaginazione, grazie alle quali si fondano i valori delle comunità civili; esse, però, tendono poi a degenerare nell’ultima età, razionale, in cui le passioni generose s’inaridiscono e prevalgono il calcolo e l’egoismo; così le civiltà si esauriscono, ricadendo in una nuova barbarie, dalla quale possono nuovamente uscire ripercorrendo le medesime fasi in un processo ciclico (i «corsi e ricorsi» vichiani). Dall’influenza di Vico derivano l’ammirazione di Foscolo per la civiltà delle origini, la Grecia omerica, l’appello costante alle passioni nobili e generose e, più in generale, l’interesse per la storia. Ritratto d’autore 1 107


4 La funzione e i caratteri della poesia

Stampa dell'orazione foscoliana del 1809 all'Università di Pavia.

Il compito della cultura e della parola poetica La poetica di Foscolo è in relazione con la sua concezione del mondo e dell’uomo, come si coglie in particolare nelle lezioni tenute a Pavia nel 1809, Sull’origine e i limiti della giustizia (per i laureati in giurisprudenza) e l’orazione inaugurale, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (➜ T5a ). Foscolo evidenzia una concezione pessimistica della natura umana, in cui si avverte l’influenza del pensiero di Niccolò Machiavelli (1469-1527) e del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679): per istinto naturale l’uomo è egoista e violento e la società non può che essere caratterizzata dalla legge del più forte e da una perenne conflittualità. Questa tendenza, però, può e deve essere arginata; l’uomo può essere indotto alla compassione, alla tolleranza, all’acquisizione di valori che rafforzino i vincoli sociali: proprio questo, per Foscolo, è il compito della parola poetica, che sola è capace di rasserenare gli animi, di purificarli, contrastando la barbarie e le pulsioni violente (➜ T5a,b,c ). Ne deriva un’immensa responsabilità dell’intellettuale: utilizzare la parola senza un senso di responsabilità etica, in modo insincero e opportunistico, appare a Foscolo la più grave delle colpe (tema, questo, quanto mai attuale). Il Neoclassicismo foscoliano Proprio perché per Foscolo l’arte si pone come alternativa alla natura istintiva dell’uomo e alla violenza della storia, essa non deve rispecchiare il mondo com’è, ma proporne uno migliore, creando un’armonia che non esiste nella vita reale, ma a cui gli uomini naturalmente tendono (➜ T5c ). Ne consegue una poetica che, nonostante l’impegno civile che la sottende, è del tutto estranea al realismo e, al contrario, tende a favorire l’immaginazione e la fantasia: ne discende anche la scelta foscoliana di una lingua raffinata e classicheggiante, lontana da quella comune. La concezione foscoliana della poesia e la ricerca, ad essa affidata, dell’armonia, ma anche l’idea, espressa soprattutto nei Sepolcri, che la poesia, con la sua bellezza, possa vincere i traumi della storia e sconfiggere il destino mortale dell’uomo, riconduce alcune opere di Foscolo (o parti di esse) alla visione estetica neoclassica. Marcata è, inoltre, nella sua opera la presenza del repertorio mitologico, l’uso di un linguaggio che utilizza latinismi e grecismi, l’impiego di solenni perifrasi e di una sintassi latineggiante. Ma certamente del tutto particolare è il Neoclassicismo foscoliano: Foscolo vede nel mondo classico un paradigma per il presente; non considera i miti greci e latini come un ornamento della poesia, al modo dei classicisti, ma li sente ancora vivi e attuali, modello perenne per ogni civiltà. Inoltre in Foscolo il culto dei classici coesiste con una sensibilità, una soggettività già prettamente romantica («quello spirto guerrier ch’entro mi rugge»).

108 Ottocento 2 Ugo Foscolo


T5

La parola, formatrice dell’animo umano I tre passi, tratti da scritti appartenenti a tempi diversi della biografia foscoliana, illustrano in vario modo l’importante funzione che Foscolo attribuiva alla parola poetica e, di conseguenza, il ruolo chiave che il poeta assegnava agli intellettuali nella società.

Ugo Foscolo

T5a

La responsabilità degli «uomini letterati» Lettera apologetica

U. Foscolo, Lettera apologetica, a cura di G. Nicoletti, Einaudi, Torino 1978

AUDIOLETTURA

L’orazione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, pronunciata da Foscolo come introduzione alle lezioni universitarie a Pavia, è un discorso molto ampio, di cui però il poeta stesso fornisce un’utile scaletta nella Lettera apologetica, scritta durante l’esilio londinese. L’orazione mette in luce il ruolo e la responsabilità degli uomini di lettere nel costruire i legami sociali e la civiltà.

Adunque intendendo di restituire, quanto era in me, alcuna dignità alla letteratura, mi studiai in quella cerimonia dell’inaugurazione di persuadervi1: Che l’animale umano è essenzialmente sociale, ed essenzialmente guerriero – Che vive, unico fra gli altri, dotato della facoltà di parlare […] – Che la parola, ove sia scritta, ri5 esce più atta a diffondersi e perpetuarsi e immedesimarsi ne’ pensieri, nell’anima, e nelle azioni d’ogni popolo, e nella memoria de’ tempi, più che ogni altra cosa terrena – Che alcuni individui in ciascheduna terra per doni di natura e di studio, possono far uso più utile della parola scritta – Che sì fatti individui privilegiati ad amministrare2 questa facoltà onnipotente siete voi tutti, uomini letterati – Che a 10 voi sta di diriggerla3 all’utilità della patria – […] – Che quindi pare ufficio4 di voi tutti, uomini letterati, come amministratori naturali di essa facoltà, di depurarla e diffonderla e perpetuarla in guisa che5 per essa possano ristorarsi e rinforzarsi que’ nodi sociali nelle forme più utili alla concordia de’ cittadini – e Che però6 non siete nati a parteggiare o per uno o per l’altro, o per pochi o per molti; bensì [a] starvi 15 mediatori fra tutti, a sopire le passioni maligne per eccitare7 le più generose.

1 mi studiai... persuadervi: mi sforzai nel discorso ufficiale di prolusione di sostenere i pensieri (che seguono).

2 amministrare: guidare e coltivare (più sotto, r. 11: amministratori). 3 diriggerla: indirizzarla. 4 ufficio: compito.

5 in guisa che: in modo che. 6 però: perciò. 7 eccitare: stimolare, promuovere.

Ugo Foscolo

T5b

Il valore formativo dei racconti poetici sui «cuori palpitanti» dei giovani Dell’origine e dell’ufficio della letteratura

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

In questo passo, tratto dall’Orazione inaugurale, Foscolo invita gli intellettuali a servirsi delle immagini poetiche per formare le nuove generazioni ai valori etici.

Secondate i cuori palpitanti de’ giovanetti e delle fanciulle, assuefateli, finché son creduli ed innocenti, a compiangere gli uomini, a conoscere i loro difetti ne’ libri, a cercare il bello ed il vero morale: le illusioni de’ vostri racconti svaniranno dalla fantasia con l’età; ma il calore con cui cominciarono ad istruire, spirerà continuo ne’ petti. Ritratto d’autore 1 109


Ugo Foscolo

T5c

La poesia rivelatrice di una «universale secreta armonia» Principi di critica poetica

U. Foscolo, Opere, a cura di M. Puppo, Mursia, Milano 1962

In un saggio scritto durante l’esilio londinese, intitolato Principi di critica poetica, Foscolo rivendica la capacità dell’arte e della poesia di creare mondi immaginari, dotati di un’armonia assente nella realtà ma a cui l’uomo naturalmente aspira. Tale poetica trova applicazione in particolare nell’ultima opera foscoliana, Le Grazie.

Il mondo in cui viviamo ci affatica, ci affligge e quel che è peggio, ci annoia; però1 la poesia crea per noi oggetti e mondi diversi. E se imitasse fedelissimamente le cose esistenti e il mondo qual è, cesserebbe d’essere poesia, perché ci porrebbe davanti agli occhi la fredda, trista, monotona realtà. [...] 5 Esiste nel mondo una universale secreta armonia, che l’uomo anela2 di ritrovare come necessaria a ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza; e quanto più trova sì fatta armonia, quanto più la sente e ne gode, tanto più le sue passioni si destano ad esaltarsi e a purificarsi, e quindi la sua ragione si perfeziona. Questa armonia nondimeno di cui l’esistenza è sì evidente, e di cui la necessità è sì forte10 mente esperimentata più o meno da tutti i mortali, vedesi (come tutte le cose che la natura offre all’uomo) commista a una disarmonia di cose, le quali cozzano e si attraversano3, e spesso si distruggono fra di loro. Però nella musica più che nelle altre arti appare evidentemente che l’immaginazione umana trovò il modo di combinare i suoni, ch’esistono in natura onde produrre melodia ed armonia, sottraendone tutti 15 i suoni rincrescevoli o discordi4. Il potere universale della musica è prova evidente della necessità che noi sentiamo dell’armonia. L’effetto dell’armonia che la musica produce all’anima per gli orecchi, per mezzo di suoni uniti con diversi modi e gradi, vien pure egualmente prodotto dalla scultura, dalla pittura, e dalla architettura per la via degli occhi e per mezzo di forme, di tinte e di proporzioni che armonizzano fra 20 di loro. Ma la poesia unisce l’armonia delle note musicali per mezzo della melodia delle parole e della misura del verso; – e l’armonia delle forme, de’ colori e delle proporzioni per mezzo delle immagini e delle descrizioni. 1 però: perciò. 2 anela: desidera ardentemente. 3 cozzano... attraversano: sono in con-

4 rincrescevoli o discordi: spiacevoli o disarmonici.

trasto e si pongono di traverso.

Angelica Kauffmann, Sibilla cumana, olio su tela, 1763 ca. (New York, National Museum of Women in the Arts).

110 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Analisi del testo La poesia come alternativa e correttivo della vita I testi, pur appartenenti a momenti diversi, mettono in luce un punto fermo nella concezione letteraria foscoliana: la poesia si pone come alternativa alla vita, come suo “correttivo”. Come evidenzia il testo ➜ T5a , la poesia – in contrasto con la barbarie che dominerebbe fra uomini anche razionali, ma per natura egoisti – ha una funzione civilizzatrice, messa in rilievo nel passo da termini come nodi sociali, concordia, e dalla concezione dei poeti come mediatori, capaci con la parola di smorzare le passioni maligne per risvegliare quelle più generose. Facendo propria una idea vichiana, Foscolo ritiene che tale funzione educatrice (volta a trasmettere “il bello e il vero morale”) debba essere soprattutto diretta ai giovani (➜ T5b ) e rivolgersi al cuore e ai sentimenti, in loro più freschi, intensi e vivi. La visione della poesia espressa nel periodo londinese (➜ T5c ) risente della disillusione di Foscolo e della sua rinuncia al ruolo di “poeta vate”; tuttavia rimane costante il carattere alternativo della letteratura rispetto alla vita, a cui offre l’armonia di cui il mondo è privo. Emerge in primo piano un’idea della poesia come purificatrice e consolatrice, capace di innalzare l’anima nella contemplazione del bello ideale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in max 6 righe il tema centrale dei brani proposti. COMPRENSIONE 2. Che cosa sono le «passioni maligne» (r. 15) di cui parla Foscolo nella Lettera apologetica (➜ T5a )? ANALISI 3. Come e con quali effetti si può scoprire la «secreta armonia» dell’universo secondo la visione foscoliana (➜ T5c )?

Interpretare

SCRITTURA 4. Qual è il ruolo fondamentale degli uomini di lettere, secondo Foscolo? Quali le responsabilità? Sintetizza le tue osservazioni in un breve testo (max 15 righe). 5. Riscrivi la “scaletta” del discorso di Foscolo di ➜ T5a in italiano odierno, mettendo in luce i passaggi argomentativi. 6. Spiega in uno scritto di circa 20 righe il valore che Foscolo assegna alla parola. LETTERATURA E NOI 7. Facendo riferimento all’esercizio precedente, rifletti ed evidenzia se tale concezione può essere, almeno in parte, ancora attuale.

Joseph Marie Vien, La venditrice di amorini, olio su tela, 1763 (Fontainebleau, Musée National du Château).

Ritratto d’autore 1 111


2

La letteratura come autoritratto Ultime lettere di Jacopo Ortis: i caratteri generali, la trama, 1 Le la storia editoriale

VIDEOLEZIONE

online

Per approfondire Alter ego ed eteronimi: da Foscolo a Pessoa

Un romanzo autobiografico e il ritratto di una generazione delusa Un caratteristico tratto di Foscolo è la tendenza all’autobiografismo: in tutte le sue opere lo scrittore traccia in modo più o meno diretto un ritratto di sé, a cominciare dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), la sua prima opera importante, in cui Foscolo fa del giovane protagonista una sorta di alter ego. Le Ultime lettere di Jacopo Ortis appartengono al genere del romanzo epistolare, che grande successo aveva avuto nella letteratura europea tardo-settecentesca, dalla Nuova Eloisa di Rousseau (1761) a I dolori del giovane Werther di Goethe (1774). Quest’ultimo romanzo (letto da Foscolo in una traduzione italiana del 1788) costituisce, come si dirà in seguito, il principale modello dell’opera, sia per la tipologia del protagonista, sia per il tema centrale (una irrealizzabile passione amorosa), sia per la conclusione tragica della vicenda narrata (il suicidio). Le lettere di Jacopo (indirizzate all’amico Lorenzo Alderani) nella finzione narrativa sono datate tra il 1797 e il 1799 e di poco successiva (1802) è l’edizione principale del romanzo, che risulta quindi di stringente attualità sul piano storico, esprimendo la delusione di tanti giovani del tempo per la politica napoleonica. Giustamente l’Ortis è stato definito un “romanzo di giovani” (e forse destinato prima di tutto a tali fruitori) per la componente dominante della passione (politica e amorosa), per la centralità dell’io e l’intolleranza del giovane protagonista di fronte a ogni compromesso. Ad accrescere l’interesse dei lettori dell’epoca per l’opera è anche la scelta di Foscolo di mettere in scena nel romanzo personaggi della cultura contemporanea a tutti noti (Parini) o comunque di evocarli (Alfieri). La vicenda A causa del trattato di Campoformio, per cui Venezia è ceduta agli austriaci, Jacopo, giovane di ideali repubblicani e giacobini, è costretto ad abbandonare la città, rifugiandosi sui Colli Euganei. La delusione per la condotta di Napoleone, ispirata alla “ragion di stato”, spegne la volontà di vivere di Jacopo, che aveva accolto i francesi come liberatori dell’Italia. Sui Colli Euganei il giovane è temporaneamente confortato dall’amore per la bellissima Teresa, che però è destinata dal padre, il signor T***, a un matrimonio di interesse con il ricco e nobile Odoardo; costui non è amato dalla ragazza, ma è in grado di restituire alla famiglia il benessere economico perduto a causa delle errate speculazioni paterne. Odoardo si allontana temporaneamente e l’amore tra Jacopo e Teresa esplode; quando il promesso sposo ritorna, Jacopo lascia i Colli Euganei e il territorio veneziano, iniziando un desolato pellegrinaggio attraverso l’Italia, in cui deve constatare a ogni tappa la drammatica condizione di un paese diviso, dominato dagli stranieri, incapace di riscattarsi. Giunto sul confine, a Ventimiglia, mentre si appresta a passare in Francia, Jacopo fa un’ultima e più profonda riflessione sulla politica e sulla storia, comprendendo che emigrare sarebbe inutile: in ogni luogo la sua ansia di giustizia rimarrebbe inappagata, perché ovunque nel mondo i più forti sopraf-

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fanno i più deboli; decide perciò di non abbandonare la penisola. Appresa la notizia del matrimonio di Teresa, torna sui Colli Euganei e si toglie la vita con un pugnale. L’amico Lorenzo pubblica le sue lettere, integrandole con il racconto degli ultimi momenti della vita di Jacopo. Una complessa storia editoriale L’Ortis ha una complessa storia editoriale, legata alle vicende biografiche del suo autore. In un giovanile Piano di studi (1796), Foscolo afferma di aver quasi completato un romanzo intitolato Laura, lettere, che però non ci è pervenuto. Nel 1798, a Bologna, lo scrittore intraprende la prima stesura dell’Ortis, ma deve interromperla per combattere con le armate napoleoniche contro gli austro-russi, che avevano occupato parte dell’Italia. L’editore fa allora completare il romanzo da un certo Angelo Sassoli che, come oggi è stato appurato, poté avvalersi di materiali foscoliani e lo pubblica nel 1800. Al suo ritorno, Foscolo rinnega tale edizione, da lui non autorizzata, e riscrive il romanzo, pubblicandolo nel 1802 con mutamenti considerevoli nelle vicende e nei personaggi: Teresa, che nella prima edizione è una giovane vedova con una bambina, nella seconda diviene una fanciulla costretta dal padre alle nozze; Odoardo, nella prima stesura una figura positiva (un giovane pittore amico di Jacopo), nella seconda diviene un personaggio pedante, privo di slanci; il tema politico, solo accennato nella prima stesura, assume un ruolo assai più rilevante nella seconda, per l’aggiunta delle lettere che descrivono le peregrinazioni di Jacopo attraverso l’Italia. Sebbene l’Ortis sia un libro ideato nel tempo della giovinezza di Foscolo, lo scrittore non lo considera mai del tutto superato e lo utilizza come una sorta di «diario aperto» (Isella), a cui affida la registrazione dei mutamenti intervenuti nella propria situazione e in quella politica italiana: perciò, nonostante le gravi difficoltà dell’esilio, ne pubblica una nuova edizione in Svizzera nel 1816, con significativi cambiamenti e, in particolare, con l’importante aggiunta di una lettera antinapoleonica, datata 17 marzo (➜ T8 ). Un’ultima edizione, con altri interventi meno rilevanti, è stampata a Londra nel 1817, quando Foscolo si trasferisce in Inghilterra.

La storia editoriale dell’Ortis 1796

1798

In un Piano di Studi, Foscolo accenna a un progetto di romanzo dal titolo Laura, lettere. Il romanzo non ci è pervenuto

Prima stesura a Bologna dell’Ortis, interrotta da Foscolo che si allontana dalla città per combattere contro gli austro-russi

1800

1802

1816 - 1817

Edizione non autorizzata dell’opera affidata dall’editore ad Angelo Sassoli

Prima edizione (con ampi mutamenti), a Milano, dell’opera da parte di Foscolo. Rilevanza del tema politico

Seconda edizione in Svizzera (con significativi cambiamenti) e terza edizione a Londra (con interventi poco rilevanti)

La letteratura come autoritratto

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2 I modelli letterari La tradizione italiana Se nell’Ortis l’ispirazione autobiografica è centrale, non è irrilevante, nel determinare la fisionomia dell’opera, la presenza di vari modelli, sia italiani sia stranieri. Tra gli scrittori italiani il principale in cui Foscolo maggiormente si identifica è Alfieri: all’influenza alfieriana rimanda la presenza del tema della libertà, il rifiuto sdegnoso di una società pragmatica e meschina, il titanismo (secondo una diffusa interpretazione, lo stesso suicidio di Jacopo è espressione di un atteggiamento “titanico” di ascendenza alfieriana). Ma in vari punti dell’opera si avverte anche la suggestione derivata dall’opera e dalla figura di Dante, exul immeritus e, soprattutto in rapporto al tema dell’amore infelice, di Petrarca. Il modello del Werther Modello principale dell’Ortis, come si è detto, è però il Werther di Goethe (➜ C1). Con il celebre romanzo goethiano le Ultime lettere di Jacopo Ortis hanno in comune, come già accennato, tratti fondamentali dell’intreccio (la passione amorosa irrealizzabile, il conflitto tra il protagonista e il mondo, la tragica risoluzione del suicidio). Come Werther, anche Jacopo incarna una nuova tipologia di personaggio, animato dalle emozioni, dalla passione più che dalla razionalità: non a caso, come Werther, anche Jacopo ha un “antagonista”, Odoardo, che è invece caratterizzato da una visione del mondo aridamente razionalistica. Ma, mentre il dramma di Werther ha a che fare soprattutto con la frattura tra io e società (la borghesia, classe sociale da cui proviene lo rifiuta, ma neppure l’aristocrazia lo accoglie), nell’Ortis si fa sentire soprattutto l’eco di un trauma storico-politico che costituisce l’antefatto, di fondamentale importanza, dell’azione narrativa. Dal Werther, Foscolo riprende la particolare struttura epistolare: la vicenda si costruisce attraverso le sole parole di Jacopo, mentre vengono omesse le risposte del suo interlocutore, l’amico Lorenzo (la cui “voce” entra in scena in rari momenti e in particolare per ricostruire gli ultimi, drammatici momenti di vita di Jacopo). Tale scelta narrativa permette di concentrare l’attenzione sul solo protagonista e sulla sua soggettiva percezione degli eventi, oltre che di porre il lettore nella posizione di privilegiato confidente-destinatario, come se ricevesse le confidenze di un amico. Inoltre, le lettere di Jacopo registrano le vicende man mano che si snodano, con le emozioni di volta in volta a esse legate, suscitando un’impressione di veritiera immediatezza.

sovrapposizione autore/personaggio e l’intreccio 3 La amore/politica Foscolo e Jacopo Ortis: somiglianze e differenze Per molti aspetti il protagonista Jacopo è una proiezione dell’autore, di cui rispecchia anzitutto la delusione dopo il trattato di Campoformio del 1797, con cui Napoleone cede Venezia all’Austria. Foscolo attribuisce inoltre al personaggio i propri sentimenti, le proprie idee, emozioni, esperienze, letture, creando così, come già si è detto, una sorta di alter ego. Foscolo sviluppa dunque nel romanzo quella forte commistione tra arte e vita che sarà propria dei romantici: nelle sue lettere d’amore si firma spesso Jacopo Ortis; di contro, inserisce nel romanzo lettere quasi identiche a quelle da lui scritte alle amanti reali. Ad accrescere l’identificazione, fa premettere all’opera un proprio ritratto, prestando in un certo qual modo al suo personaggio persino il suo

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volto. Tra il personaggio e l’autore sussistono, però, anche delle diversità: dopo il trattato di Campoformio Foscolo, a differenza del protagonista del romanzo, non solo non si suicida ma neppure rinuncia alla politica e all’azione, continuando a collaborare con i francesi e a militare nell’esercito napoleonico nonostante la cocente disillusione nei confronti di Napoleone. Nel personaggio di Jacopo, quindi, è come se Foscolo avesse proiettato la parte di sé più autodistruttiva, ma anche la più coerente e idealista. Ma la parte ideale di sé, che non accetta compromessi con il potere, rappresentata da Ortis, rimane in Foscolo sempre viva e pronta a riemergere: non è un caso che, nel 1816, allontanandosi dall’Italia in volontario esilio, il poeta decida di ripubblicare, aggiornandolo, il romanzo giovanile, quasi a illuminare attraverso di esso le ragioni ideali di quella coraggiosa scelta. Il rapporto fra il tema politico e l’amore per Teresa L’Ortis si impernia su due temi principali, quello politico e quello amoroso-sentimentale. Ma qual è il rapporto che lega i due motivi, apparentemente estranei? In primo luogo, un rapporto di causalità: Jacopo non può sposare Teresa perché, essendo esule e perseguitato, condannerebbe anche la moglie a una vita di stenti (come mostra l’episodio in cui a Pietra Ligure incontra un vecchio compagno di università, anch’egli esule per motivi politici, che trascina la moglie e la sua bambina piccola in una squallida miseria). Più rilevante e significativo è il parallelismo tra i due temi a livello simbolico: come Napoleone “vende” Venezia all’Austria per i motivi utilitaristici della “ragion di stato” – tradendo chi, come Jacopo, aveva creduto in motivazioni ideali – allo stesso modo il signor T*** sacrifica la felicità della figlia, destinandola per motivi di interesse al nobile e ricco Odoardo. Un ulteriore legame tra il motivo politico e quello amoroso – messo in luce dalla critica a orientamento psicanalitico, e in particolare da Giovanni G. Amoretti – è il rapporto di amore-odio di tipo edipico che lega Jacopo sia a Napoleone sia al padre di Teresa, il signor T***. Tra le due figure sussistono evidenti corrispondenze: come Napoleone sottrae a Jacopo Venezia, la città-madre oggetto del suo desiderio, così, per ragioni pragmaticamente economiche, il signor T*** gli toglie Teresa; come Jacopo ammira Napoleone e insieme lo detesta per il suo “tradimento”, così appare legato al signor T*** da un rapporto ambivalente, in cui non manca la dimensione affettiva, che si evidenzia più volte nel romanzo e persino nel momento chiave del suicidio (soccorso dal signor T***, Jacopo spira proprio fra le sue braccia).

4 Lo stile appassionato di un romanzo imperfetto Stile e lessico Il romanzo foscoliano inaugura un tipo di prosa che non ha precedenti nella nostra letteratura: intenzione programmatica dell’autore era dar voce alle emozioni tumultuose ed esacerbate del protagonista, così da colpire il lettore e coinvolgerlo nel dramma del giovane protagonista. Da qui la scelta di uno stile più lirico che narrativo, spesso enfatico: frequente è l’inserimento di frasi interrogative ed esclamative, il ritmo dei periodi è franto. D’altra parte il lessico è per lo più espressione della tradizione letteraria e la lettura risulta talvolta faticosa, soprattutto per il pubblico attuale.

La letteratura come autoritratto

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Un’opera imperfetta L’Ortis è un libro ricco di spunti tematici interessanti e innovativi, ma è comunque un’opera imperfetta, che va forse vista come una sorta di serbatoio di motivi a cui l’autore attinge per la stesura di altre sue opere più mature e più compiutamente elaborate. Un limite del romanzo, rimarcato dai critici a cominciare da Francesco De Sanctis, è la mancanza di sviluppo narrativo, dal momento che Jacopo, a differenza di Werther, appare fin dall’inizio votato al suicidio. Foscolo stesso, pur amando il libro come testimonianza della propria giovinezza, era consapevole dei suoi difetti stilistici. In una lettera all’amica Isabella Teotochi Albrizzi le confida: «Scriverò meglio forse come Autore – ma l’Uomo non scriverà più come in quel libro».

EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

L’Ortis come libro di educazione patriottica A differenza del Werther, l’effetto principale del romanzo di Foscolo non fu quello di indurre i giovani al pessimismo, ma di motivarli all’impegno patriottico. Nell’Ortis, a partire dall’edizione 1802, il tema politico assume un’importanza centrale; a detta dell’autore, l’amore è «la parte meno importante dell’opera». Proprio per la componente patriottica, il romanzo contribuì a sensibilizzare molti intellettuali stranieri alla causa italiana, mentre in Italia ebbe il merito di avvicinare alla politica giovani e ragazze, che spesso per la prima volta giungevano a interessarsi alla situazione della loro patria. Lo stesso Giuseppe Mazzini, nelle sue Note autobiografiche, racconta come durante il periodo universitario avesse imparato il libro a memoria e ne fosse rimasto talmente suggestionato da decidere fin da allora di vestirsi sempre di nero in segno di lutto per la patria, identificandosi a tal punto con il protagonista del romanzo foscoliano da far temere alla propria madre che potesse uccidersi.

Il successo tra il pubblico femminile

nucleo Costituzione competenza 1, 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Il romanzo riuscì ad avvicinare alla politica anche un consistente pubblico femminile, allora in genere refrattario all’argomento. L’entusiasmo delle giovani lettrici è così ricordato da Giuseppe Pecchio: «Un romanzo in Italia era la scoperta d’un nuovo pianeta. Ognuno voleva leggerlo. Era su le camminiere [mensole sopra il caminetto] di tutte le signore, le italiane, sì gaie, si vedevano colle ciglia umide di pianto. Non era più la morte della cuccia [cagnolina] o del canarino che si piangeva, ma la morte di Jacopo Ortis. La curiosità passò dal libro all’autore, che non era difficile a raffigurare, perché egli aveva avuto la furberia di premettere al romanzo un ritratto di Jacopo Ortis, ch’era il proprio, abbellito però come un ritratto per nozze». In seguito, lo stesso Foscolo si dichiarerà orgoglioso di aver avvicinato con il suo romanzo le donne italiane e il grande pubblico alla politica.

Ultime lettere di Jacopo Ortis GENERE

romanzo epistolare

MODELLI

tradizione italiana: Dante (exul immeritus); Petrarca (amore infelice); Alfieri (titanismo, aspirazione alla libertà); I dolori del giovane Werther di Goethe (struttura epistolare, intreccio)

TEMI

STILE

116 Ottocento 2 Ugo Foscolo

• amore come passione infelice e assoluta • caduta delle illusioni politiche giovanili e delusione storica • conflitto io/società • eroismo tragico del suicidio

lirico ed enfatico


Ugo Foscolo

T6

L’apertura drammatica del romanzo

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986 (esemplata sull’Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, vol. IV, a cura di G. Gambarin, Firenze 1955) ANALISI INTERATTIVA

Il romanzo si apre con una dedica al lettore da parte di Lorenzo Alderani, immaginario amico di Jacopo ed editore delle lettere. Segue la prima lettera, caratterizzata da un tono drammatico, con la quale Jacopo informa l’amico del fatto che, in seguito agli eventi storici, è stato costretto a lasciare Venezia per rifugiarsi sui Colli Euganei.

Al lettore Naturae clamat ab ipso vox tumulo1

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta 5 di spargere su la sua sepoltura2. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto3. Lorenzo Alderani

1. Naturae clamat ... tumulo: epigrafe ricavata dai vv. 91-92 della traduzione latina dell’Elegia scritta in un cimitero di campagna (Elegy written in a country churchyard) di Thomas Gray (1751) realizzata nel 1772 dall’abate Giovanni Costa. Il verso originale, il n. 91, recita: «E’en from the

tomb the voice of nature cries»; nella lettera del 25 maggio così traduce Foscolo: «Geme la natura perfin nella tomba», concetto che verrà ripreso anche nei Sepolcri («il sospiro/che dal tumulo a noi manda Natura», vv. 49-50; vedi pag. 166). 2 mi si vieta... sepoltura: l’accenno, volu-

tamente indeterminato, indica che anche Lorenzo subisce persecuzioni politiche. 3 esempio e conforto: Jacopo può essere esempio di libertà per i lettori e di conforto perché egli, giovane infelice, nelle sue lettere esprime le loro stesse sofferenze.

Da’ colli Euganei, 11 Ottobre 17971. Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia2. Il mio nome è nella lista di proscrizione3, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi 5 m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito4? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica5, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur10 troppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani6. Per me segua che può7. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri8. 1 11 Ottobre 1797: la data d’inizio del romanzo corrisponde al giorno in cui vennero resi noti i contenuti del trattato di Campoformio, poi siglato il 17 ottobre 1797: il “tradimento” napoleonico è l’elemento che mette in moto la narrazione. 2 la nostra infamia: il disonore degli italiani che hanno subito senza reagire la cessione all’Austria dell’antica Repubblica Serenissima di Venezia.

3 di proscrizione: dei cittadini perseguitati. 4 per salvarmi... tradito: per salvarmi da chi mi perseguita (gli austriaci) mi affidi a chi mi ha tradito (i francesi). Jacopo rifiuta di rifugiarsi nei territori della Cisalpina, controllati dai francesi. 5 questa mia... antica: questi luoghi solitari dei Colli Euganei, antico possesso della mia famiglia. 6 ci laviamo... italiani: allusione al com-

portamento di Ponzio Pilato nel Vangelo.

7 Per me segua che può: accada quello che deve accadere. Jacopo si affida fatalisticamente al destino. 8 il mio... padri: il periodo, scandito con un parallelismo in tre frasi epigrafiche («il mio cadavere... il mio nome... le mie ossa») ribadisce la volontà di Jacopo di morire e di essere sepolto nei luoghi a lui cari.

La letteratura come autoritratto

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Analisi del testo La presentazione di Jacopo. Il “pubblico ideale” del romanzo Fin dall’apertura del romanzo il lettore è informato, tramite le parole di Lorenzo, sulla morte di Jacopo («quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura»), le cui lettere appaiono perciò una sorta di testamento: si tratta di una prospettiva di lettura molto importante. Lorenzo pone il giovane amico su un ideale piedistallo eroico («io tento di erigere un monumento»); l’espressione virtù sconosciuta richiama il titolo di un’opera di Alfieri (Della virtù sconosciuta), presentando così il protagonista come un alfieriano eroe della libertà. Il lettore è dunque invitato non solo a compiangere il giovane, ma anche a trarre «esempio e conforto» dalla sua vicenda. La dedica delinea anche il “pubblico ideale” del libro, persone sensibili e capaci di commuoversi alle sofferenze di un giovane sventurato, mettendo così in rilievo un tema centrale per Foscolo: la compassione.

Due diverse voci narranti Le due voci narranti (Lorenzo e Jacopo) appaiono in netto contrasto, anche perché le parole di Lorenzo si collocano in un tempo posteriore alla morte di Jacopo, quando il dramma si è ormai compiuto ed è stato consegnato alla memoria, mentre la lettera di Ortis è scritta “a caldo”. Diverso è quindi lo stile: quello di Lorenzo è caratterizzato da espressioni di attenuazione (tento, spero, forse) che smorzano il tono del discorso, evidenziando il carattere pacato e riflessivo del personaggio. Lo stile di Jacopo, invece, si annuncia già dalla prima lettera come specchio del carattere passionale del protagonista, con espressioni recise e lapidarie, degne di un eroe tragico. La citazione evangelica «è consumato» (r. 1) (sono le ultime parole di Gesù pronunciate sulla croce, nel Vangelo di Giovanni) conferisce alle sofferenze del giovane un’aura di martirio, che le accomuna alla passione di Cristo.

Il dramma individuale e quello collettivo Il dramma di Jacopo rappresenta quello di molti altri giovani: illusi dagli ideali rivoluzionari, si erano sentiti traditi da Napoleone che, cedendo Venezia ai nemici austriaci, li aveva esposti alle rappresaglie degli avversari politici filoaustriaci. Ne è spia l’oscillazione tra la prima persona singolare («chi mi ha tradito», r. 4), che evidenzia come Jacopo si senta personalmente tradito da Napoleone, e plurale («patria nostra», r. 1), che sottolinea come il dramma del protagonista sia comune ad altri giacobini. Per accrescere il pathos, Foscolo si avvale efficacemente anche del non detto: Jacopo esprime raccapriccio per le notizie comunicategli dall’amico sulle persecuzioni subìte a Venezia dai giacobini (che il lettore può soltanto immaginare, in quanto mancano nel romanzo le lettere di Lorenzo). Lo sfondo storico della vicenda appare così tanto più tragico quanto più indeterminato.

Un protagonista già votato alla morte Edizione del 1802 delle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Fin da questa prima lettera il protagonista pensa alla morte e spera soltanto di essere sepolto nella sua terra, compianto da quelli che gli hanno voluto bene: è la stessa conclusione a cui, pur in modo più consapevole, arriverà alla fine del romanzo, la cui struttura appare così circolare. Jacopo dunque si configura come un personaggio “statico”, con un dramma già compiuto al principio dell’opera.

Uno stile “patetico”, al servizio delle emozioni La prime righe del romanzo hanno un ritmo franto, lapidario, che esprime la presa di coscienza di una situazione politica drammatica, avvertita dal protagonista come irreversibile; le brevi frasi sono inframezzate dalla successione incalzante delle interrogative, riferite a una situazione senza via d’uscita, viste le alternative, entrambe miserevoli: subire le persecuzioni austriache o affidarsi ai francesi traditori. Sul piano lessicale si nota la frequenza di termini riferibili al campo semantico del vissuto emozionale (perduto, piangere, sciagure, lagrime, ecc..), che intendono costruire fin dal principio una forte empatia tra il protagonista e i lettori.

118 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Perché Jacopo Ortis si sente tradito da Napoleone? ANALISI 2. Che cosa si comprende del carattere di Lorenzo e di Jacopo attraverso le prime lettere? E del loro rapporto di amicizia? 3. Come si spiega, nella lettera, il passaggio dalla prima persona plurale alla prima singolare? STILE 4. Lo stile delle lettere di Jacopo è caratterizzato dal prevalere della funzione emotiva. Sottolinea gli elementi che la contraddistinguono (frasi esclamative, interrogative, puntini di sospensione, espressioni relative a sentimenti e stati d’animo). Con le opportune citazioni, indica i sentimenti di Jacopo espressi nella lettera. 5. Quali espressioni evidenziano il sentimento patriottico di Jacopo?

Interpretare

SCRITTURA 6. Come ha riscontrato Maria Antonietta Terzoli, Jacopo riprende nelle lettere espressioni evangeliche: indicale e poi prova a spiegarne le ragioni, alla luce del senso della lettera e del romanzo (max 15 righe). 7. L’Ortis ha stimolato le generazioni risorgimentali, motivandole all’impegno patriottico (➜ EDUCAZIONE CIVICA L’Ortis come libro di educazione patriottica, pag. 116). Ti sembra che il messaggio del romanzo sia ancora attuale? Tu e i tuoi coetanei provate un senso di appartenenza nei confronti del vostro paese o ritenete che – in un mondo globalizzato – l’idea di patria sia superata? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

Ugo Foscolo

T7

La passeggiata ad Arquà: l’affinità romantica tra Jacopo e Teresa Ultime lettere di Jacopo Ortis

U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

In una delle prime lettere (di cui leggiamo uno stralcio significativo), Jacopo racconta di aver visitato la casa di Petrarca ad Arquà con la famiglia di Teresa e con Odoardo, promesso sposo di Teresa. La passeggiata e la conversazione rivelano la perfetta armonia tra Jacopo e Teresa, due anime fatte una per l’altra. In quell’occasione la fanciulla gli rivelerà per la prima volta il suo animo, raccontandogli di essere costretta dal padre a un matrimonio senza amore con l’insignificante (e da lei non amato) Odoardo.

20 Novembre1. Più volte incominciai questa lettera: ma la faccenda andava assai per le lunghe; e la bella giornata, la promessa di trovarmi alla villa per tempo, e la solitudine – ridi? – L’altr’jeri, e jeri mi svegliava proponendo di scriverti; e senza accorgermi, mi 5 trovava fuori di casa. Piove, grandina, fulmina: penso di rassegnarmi alla necessità, e di giovarmi di questa giornata d’inferno, scrivendoti. – Sei o sette giorni addietro s’è iti2 in pellegrinaggio. Io ho veduto la Natura più bella che mai. Teresa, suo padre, Odoardo, la piccola Isabellina, ed io siamo andati a visitare la casa del Petrarca in Arquà3. 1 20 Novembre: del 1797. 2 s’è iti: siamo andati.

3 Arquà: località nei Colli Euganei presso Padova dove si trovano la casa e la tomba

di Petrarca, che vi morì nel 1374.

La letteratura come autoritratto

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Arquà è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia casa; ma per più accorciare il cammino prendemmo la via dell’erta4. S’apriva appena il più bel giorno d’autunno. Parea che Notte seguìta dalle tenebre e dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorridea. Le nuvole dorate e dipinte a mille colori salivano su la volta del 15 cielo che tutto sereno mostrava quasi di schiudersi per diffondere sovra i mortali le cure della Divinità. Io salutava a ogni passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe che a poco a poco alzavano il capo chinato dalla brina. Gli alberi susurrando soavemente, faceano tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada; mentre i venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti udito una solenne 20 armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini: e intanto spirava l’aria profumata delle esalazioni che la terra esultante di piacere mandava dalle valli e da’ monti al Sole, ministro maggiore della Natura. – Io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo e guardare tanti beneficj senza sentirsi gli occhi bagnati dalle lagrime della riconoscenza. Allora ho 25 veduto Teresa nel più bell’apparato delle sue grazie. Il suo aspetto per lo più sparso di una dolce malinconia, si andava animando di una gioja schietta, viva, che le usciva dal cuore; la sua voce era soffocata; i suoi grandi occhi neri aperti prima nell’estasi, si inumidivano poscia a poco a poco; tutte le sue potenze5 parevano invase dalla sacra beltà della campagna. In tanta piena6 di affetti le anime si schiu30 dono per versarli nell’altrui petto: ed ella si volgeva a Odoardo. Eterno Iddio! parea ch’egli andasse tentone7 fra le tenebre della notte, o ne’ deserti abbandonati dalla benedizione della Natura. Lo lasciò tutto a un tratto, e s’appoggiò al mio braccio, dicendomi – ma, Lorenzo! per quanto mi studi8 di continuare, conviene pur ch’io mi taccia. Se potessi dipingerti la sua pronunzia, i suoi gesti, la melodia della sua voce, 35 la sua celeste fisonomia, o ricopiar non foss’altro le sue parole senza cangiarne o traslocarne sillaba, certo che tu mi sapresti grado9; diversamente, rincresco10 persino a me stesso. Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la cui fama soltanto lascia più senso che la sua misera copia? [...] Lorenzo, ne sono stanco; il rimanente del mio racconto, domani: il vento imperver40 sa; tuttavolta vo’11 tentare il cammino; saluterò Teresa in tuo nome. 10

4 la via dell’erta: il sentiero in salita. 5 potenze: energie vitali. 6 piena: intensità. 7 tentone: a tentoni. Si dice di un proce-

vedere nulla e si affida al tatto, tastando il terreno con i piedi o con un bastone. Dunque Odoardo è totalmente insensibile alle bellezze della natura.

8 mi studi: mi sforzi. 9 mi sapresti grado: me ne saresti grato. 10 rincresco: dispiaccio. 11 tuttavolta vo’: tuttavia voglio.

dere incerto, nell’oscurità, di chi non può

Analisi del testo Il tempo della vicenda narrata e il tempo della scrittura Nella lettera si alternano due piani temporali: quello in cui si svolge la visita ad Arquà, una giornata autunnale che ancora conserva il radioso splendore estivo, e quello della «giornata d’inferno», che annuncia l’inverno imminente, durante la quale Jacopo scrive la lettera, quando una pioggia incessante sembra minacciare la fine del mondo. I due piani temporali si alternano a più riprese perché Jacopo, impaziente di vedere Teresa, tenta più volte di uscire per recarsi da lei, interrompendo la stesura della lettera, ma è ogni volta costretto a rinunciare a causa delle intemperie: e allora torna a casa e riprende la sua narrazione. L’alternanza tra i due piani temporali sembra assumere un valore simbolico: la giornata radiosa rispecchia l’armonia di Jacopo con il mondo, ritrovata grazie all’amore per Teresa, mentre la tempesta preannuncia il desolato e tragico seguito del romanzo.

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L’affinità elettiva tra Jacopo e Teresa. Il medium della natura Nel passo della lettera riportato è protagonista lo splendore della natura: è ritratto un paesaggio autunnale, ma pervaso dall’ultima luce del sole e ancora vitale. La rappresentazione ha tratti idillici, propri di una natura quasi arcadica, in cui dominano la bellezza e l’armonia, che accomuna ogni elemento del creato. La commozione di Jacopo di fronte a ciò che lo circonda, in cui si manifesta una sensibilità già romantica, lo accomuna a Teresa, che vive le stesse emozioni, in una piena sintonia spirituale con il giovane. Significativa oltremodo è invece la distanza di Odoardo, che di fronte a tanta bellezza si mostra del tutto insensibile: «…parea ch’egli andasse tentone tra le tenebre della notte...». Significativamente la giovane Teresa, che si era inizialmente rivolta al promesso sposo, lascia il suo braccio per quello di Jacopo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della lettera in circa 3 righe. LESSICO 2. Analizza la lettera dal punto di vista lessicale e individua i termini e le espressioni che rivelano la tensione emotiva del protagonista. STILE 3. Sulla base dell’episodio descrivi i caratteri di Jacopo, Teresa, Odoardo e del signor T***.

Interpretare

SCRITTURA CREATIVA 4. Riscrivi l’episodio cambiando il punto di vista di Jacopo con quello di uno di questi personaggi: Teresa, Odoardo, il signor T***.

Ugo Foscolo

T8 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Il Giovine Eroe si mostra per quello che è: «un animo basso e crudele» Ultime lettere di Jacopo Ortis, lettera del 17 marzo 1798 La lettera di cui riproduciamo uno stralcio rappresenta una delle prese di posizione più dure nei confronti del Bonaparte; Foscolo inserì questa lettera soltanto nell’edizione zurighese delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1816), successiva alla caduta di Napoleone. La disillusione del poeta nei suoi confronti è ormai totale ed egli può ora esprimerla senza remore né schermi di sorta, vista la mutata situazione politica, pur attribuendola a una situazione di molti anni precedente.

Ma s’io scrivessi intorno a quello ch’io vidi, e so delle cose nostre, farei cosa superflua e crudele ridestando in voi tutti il furore che vorrei pur sopire dentro di me: piango, credimi, la patria – la piango secretamente, e desidero, Che le lagrime mie si spargan sole1. 5 Un’altra specie d’amatori d’Italia2 si quereli ad altissima voce a sua posta3. Esclamano d’essere stati venduti e traditi: ma se si fossero armati sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all’ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati4 di comperarli. Se non che moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le 1 Che le lagrime… sole: «Petrarca» annota l’Autore (la citazione è dal Canzoniere XVIII, v. 14). 2 Un’altra specie d’amatori d’Italia: Fo-

scolo, per bocca del suo personaggio, si scaglia contro coloro che attendono passivamente che sia una potenza straniera a portare la libertà all’Italia.

3 si quereli… posta: si lamenti pure a gran voce quanto vuole.

4 si sarebbero attentati: avrebbero avuto il coraggio.

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nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia! Ma i francesi che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà5, faranno da Timoleoni6 in pro nostro7? – Moltissimi intanto si fidano nel Giovine Eroe nato di sangue italiano8; nato dove si parla il nostro idioma9. Io da un animo 15 basso e crudele, non m’aspetterò mai cosa utile ed alta per noi. Che importa ch’abbia il vigore e il fremito del leone, se ha la mente volpina, e se ne compiace? Sì; basso e crudele – né gli epiteti sono esagerati. A che10 non ha egli venduto Venezia con aperta e generosa ferocia11? Selim I12 che fece scannare sul Nilo trenta mila guerrieri Circassi arresisi alla sua fede, e Nadir Schah13 che nel nostro secolo trucidò 20 trecento mila Indiani, sono più atroci, bensì meno spregevoli. Vidi con gli occhi miei una costituzione democratica postillata dal Giovine Eroe, postillata di mano sua, e mandata da Passeriano14 a Venezia perché s’accettasse; e il trattato di Campo Formio era già da più giorni firmato e Venezia era trafficata15; e la fiducia che l’Eroe nutriva in noi tutti ha riempito l’Italia di proscrizioni, d’emigrazioni, e d’esilii. – Non accuso 25 la ragione di stato che vende come branchi di pecore le nazioni: così fu sempre, e così sarà: piango la patria mia, 10

Che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende16. Nasce italiano, e soccorrerà un giorno alla patria: – altri sel creda17; io risposi, e risponderò sempre: La Natura lo ha creato tiranno: e il tiranno non guarda a patria; 30 e non l’ha. 5 che hanno fatto parere... pubblica libertà: i francesi, con la condotta dei loro eserciti e con le scelte politiche di Napoleone, hanno reso condannabile il valore della libertà pubblica sancito dalla Rivoluzione. 6 da Timoleoni: da liberatori, così come Timoleone (IV sec. a.C.) aveva portato la libertà ai siracusani. 7 in pro nostro: a nostro vantaggio. 8 Giovine Eroe… italiano: Napoleone.

9 nato… idioma: la Corsica era stata territorio della Repubblica di Genova fino al 1768. 10 A che: forse che. 11 non ha… ferocia: riferimento al trattato di Campoformio, per cui cfr. le note 14-15. 12 Selim I: sultano turco (1470-1520). 13 Nadir Schah: generale persiano, divenuto scià nel 1736. 14 Passeriano: a villa Manin, di Passaria-

no di Codroipo, presso Udine, Napoleone soggiornò nel corso delle trattative per la ratifica del trattato di Campoformio (1797). 15 Venezia era trafficata: Venezia era stata usata come merce di scambio. 16 Che mi fu… m’offende: «Dante, Inf., canto V.» È questa una nota dell’Autore. Il verso citato è il 102. 17 altri sel creda: che questo (se) lo creda qualcun altro.

Analisi del testo Una totale disillusione Rispetto alla Lettera dedicatoria dell’“Ode a Bonaparte Liberatore” (➜ T1 OL), dove pure affioravano numerosi dubbi sul personaggio di Napoleone, questo brano tratto dall’Ortis esprime una posizione ben più radicale e tagliente. Dopo aver manifestato in toni accorati il dolore provocato dalle misere condizioni in cui versa la patria, Jacopo si lancia in una critica feroce verso «un’altra specie d’amatori d’Italia» (r. 5), quelli che si lamentano senza mai aver fatto nulla per cambiare la situazione, convinti che la libertà e l’indipendenza arriveranno grazie all’intervento di una potenza straniera. Il tono utilizzato è acido e sarcastico («presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia!») (rr. 9-11). In questa schiera di illusi privi di nerbo, Foscolo fa rientrare anche coloro che si ostinano a considerare con ammirazione Bonaparte, il «Giovine Eroe nato di sangue italiano» (rr. 13-14). Questa volta, nei confronti di Napoleone, il giudizio è netto e deciso, senza ombre o smussature: «Io da un animo basso e crudele, non m’aspetterò mai cosa utile ed alta per noi». Prosegue, poi, parafrasando la famosa metafora di Machiavelli della golpe e del lione; ma secondo Jacopo Ortis, in Napoleone la spietata scaltrezza della prima supera il coraggio e la forza del secondo.

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La chiusa La chiusa della lettera è alta e solenne, quasi lapidaria, come spesso avviene nel romanzo: a chi sostiene che, tutto sommato, Napoleone è pur sempre italiano per nascita e quindi s’impegnerà per salvare la sua patria, Foscolo ribatte che «la Natura lo ha creato tiranno, e il tiranno non guarda a patria: e non l’ha». A quella che si presenta quasi come una vana chiacchiera da caffè, il poeta contrappone un’affermazione che risuona dell’autorevolezza di un’epigrafe.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nel passo tratto dall’Ortis quale giudizio viene dato del popolo italiano? LESSICO 2. Elenca le espressioni negative con cui è rappresentato Napoleone. Quali sono gli aspetti che vengono criticati? Quali, invece, quelli esaltati?

Interpretare

SCRITTURA 3. Riporta la citazione dantesca e spiega quale effetto vuole produrre secondo te.

Ugo Foscolo

T9

Dopo quel bacio... il tema delle illusioni

LEGGERE LE EMOZIONI

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Nel brano si descrive lo stato d’animo di Jacopo dopo aver baciato Teresa.

15 maggio1. Dopo quel bacio io son fatto2 divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli augelli3, e il bisbiglio de’ zefiri4 fra le frondi son 5 oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno5 è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando ogni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animali 10 generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati6 dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro7 dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se 15 tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata8; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. - O Lorenzo! sto spesso sdrajato su la riva del lago de’ cinque fonti: mi sento vezzeggiare9 la faccia e le chiome 20 dai venticelli che alitando sommovono10 l’erba, e allegrano i fiori, e increspano le

1 15 maggio: del 1798. 2 fatto: diventato. 3 lamentar degli augelli: il cinguettio degli uccelli.

4 zefiri: venticelli primaverili. 5 mio ingegno: la mia disposizione d’animo. 6 spirati: ispirati.

7 il labbro: la bocca (sineddoche). 8 ingrata: sgradevole. 9 vezzeggiare: carezzare. 10 sommovono: fanno ondeggiare.

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limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le Ninfe11 ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse e l’Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti12 sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le Na25 jadi13, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il filosofo14. - Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il Bello ed il Vero accarezzando gli idoli15 della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non 30 sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza16: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele. 11 Ninfe: divinità dei boschi. 12 stillanti: imperlate di gocce d’acqua.

13 Najadi: divinità delle fonti e delle acque. 14 il filosofo: il filosofo illuminista.

15 idoli: creazioni dell’immaginazione. 16 indolenza: inerzia.

Analisi del testo La metamorfosi prodotta dall’amore Nella prima parte della lettera Foscolo rappresenta, con estatiche espressioni, lo sconvolgimento emotivo e spirituale indotto in lui dal primo bacio di Teresa. L’esperienza ha prodotto in lui una metamorfosi, che ha investito ogni sfera del suo essere: le sue idee sono divenute più alte, il suo aspetto più gajo, il suo cuore più compassionevole, il suo stesso intelletto «è tutto bellezza e armonia». L’amore si prospetta dunque come esperienza non solo genericamente positiva, ma addirittura salvifica, antidoto alle pulsioni distruttive e all’attrazione funesta per la morte che fin dall’inizio caratterizza il protagonista: «dimentico le mie sventure...rido delle minacce della fortuna». Alla fantasia del giovane, che vive un momento felice di pienezza esistenziale, appaiono naturalmente delle immagini di bellezza, evocate secondo i modi dell’immaginario neoclassico (le Ninfe, le Naiadi..).

Il tema delle illusioni L’ultima parte del testo dà spazio a una riflessione critica attraverso la voce del filosofo che contesta, alla luce di un credo razionalistico, come illusorio il mondo ideale in cui, complice l’amore, Jacopo-Foscolo si è rifugiato. La riflessione foscoliana, rivendicando il valore delle illusioni, considera quindi malinconicamente la distanza che separa il mondo antico, naturalmente disposto ad aderire al mito, agli “idoli della fantasia”, dal mondo moderno, da un presente arido e disilluso. Una visione che troverà in Giacomo Leopardi una piena definizione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto della lettera in circa 5 righe. COMPRENSIONE 2. In cosa consistono le illusioni e che in modo rendono migliore la vita? 3. Per quale motivo Foscolo definisce gli antichi «beati»? (r. 26) STILE 4. Che figura retorica è contenuta nell’espressione «delirando deliziosamente»? (rr. 21).

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 5. Nella lettera a Jacopo, dopo aver baciato Teresa, il mondo appare trasfigurato. Ti è mai capitato, sull’onda di una passione sconvolgente, di percepire la realtà in modo diverso? Credi, come sostiene Jacopo riferendosi al pensiero del filosofo, che l’eccesso di razionalità del mondo moderno possa ridurre le emozioni a pure illusioni? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

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Ugo Foscolo

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La visita alle tombe di Santa Croce e i fantasmi di Montaperti Ultime lettere di Jacopo Ortis

U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Nella seconda parte del romanzo, Jacopo compie attraverso l’Italia un viaggio che assume i caratteri di un doloroso pellegrinaggio, di cui ogni tappa svela un aspetto della tragica condizione italiana. A Bologna Jacopo si imbatte in «tanti indigenti che giacciono per le strade, e gridano pane», dimostrazione evidente di come le promesse di giustizia sociale della rivoluzione non siano state mantenute; poi vede due condannati a morte, rei di aver rubato a causa della fame. Di lì si reca a Firenze, dove la visita alle tombe dei grandi italiani sepolti in Santa Croce suscita in lui amare considerazioni. Nei giorni successivi vaga nei dintorni della città toscana e a Montaperti gli sembra di rivivere l’antica e sanguinosa battaglia tra guelfi e ghibellini, anticipazione e quasi emblema della secolare divisione della nostra penisola.

Firenze, 27 Agosto1. Dianzi2 io adorava le sepolture di Galileo, del Machiavelli, e di Michelangelo3; e nell’appressarmivi4 io tremava preso da brivido. Coloro che hanno eretti que’ mausolei5 sperano forse di scolparsi6 della povertà e delle carceri con le quali i loro 5 avi punivano la grandezza di que’ divini intelletti? Oh quanti perseguitati nel nostro secolo saranno venerati da’ posteri! Ma e le persecuzioni a’ vivi, e gli onori a’ morti sono documenti della maligna ambizione che rode l’umano gregge. Presso a que’ marmi mi parea di rivivere in quegli anni miei fervidi7, quand’io vegliando su gli scritti de’ grandi mortali mi gittava con la immaginazione fra i plausi 10 delle generazioni future. Ma ora troppo alte cose per me! – e pazze forse. La mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guasto qui – nel profondo. Ritienti le commendatizie8 di cui mi scrivi: quelle che mi mandasti io le ho bruciate. Non voglio più oltraggi, né favori da veruno degli uomini potenti. L’unico mortale ch’io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri; ma odo dire ch’ei non accoglie per-

1 27 Agosto: l’anno è il 1798, così come per la lettera seguente. 2 Dianzi: poco fa. 3 sepolture... Michelangelo: le tombe che si trovano nella chiesa di Santa Croce (motivo ripreso nei Sepolcri).

4 appressarmivi: avvicinarmi a esse. 5 que’ mausolei: quelle tombe. 6 scolparsi: discolparsi. 7 fervidi: pieni di entusiasmo e di aspettative per il futuro. 8 Ritienti le commendatizie: tieni (non mandarmi) le tue lettere di raccomandazione. Si trattava di lettere di presentazione, da utilizzare per essere ammessi nei salotti e nei circoli più esclusivi.

Il frontespizio della settima edizione dell’Ortis stampata a Londra nel 1830.

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sone nuove9: né io presumo di fargli rompere questo suo proponimento che deriva forse da’ tempi, da’ suoi studj, e più ancora dalle sue passioni e dall’esperienza del mondo. E fosse anche una debolezza, le debolezze di sì fatti mortali vanno rispettate; e chi n’è senza, scagli la prima pietra.

Firenze, 25 Settembre. In queste terre beate10 si ridestarono dalla barbarie11 le sacre Muse e le lettere. Dovunque io mi volga, trovo le case ove nacquero, e le pie zolle dove riposano que’ primi grandi Toscani: ad ogni passo ho timore di calpestare le loro reliquie. La Toscana è tutta quanta una città continuata, e un giardino; il popolo naturalmente gentile; il cielo sereno; e l’aria piena di vita e di salute. Ma l’amico tuo non trova 25 requie: spero sempre – domani, nel paese vicino – e il domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio e di solitudine. [...] Ho corsa tutta Toscana. Tutti i monti e tutti i campi sono insigni12 per le fraterne battaglie13 di quattro secoli addietro; i cadaveri intanto d’infiniti Italiani ammazzatisi hanno fatte le fondamenta a’ troni degl’Imperadori e de’ Papi. Sono salito a Montea30 perto dove è infame ancor la memoria della sconfitta de’ Guelfi14. – Albeggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto silenzio, e in quella oscurità fredda, con l’anima investita da tutte le antiche e fiere sventure che sbranano la nostra patria – o mio Lorenzo! io mi sono sentito abbrividire15, e rizzare i capelli; io gridava dall’alto con voce minacciosa e spaventata. E mi parea che salissero e scendessero dalle vie 35 più dirupate della montagna le ombre di tutti que’ Toscani che si erano uccisi; con le spade e le vesti insanguinate; guatarsi biechi16, e fremere tempestosamente, e azzuffarsi e lacerarsi le antiche ferite. – O! per chi quel sangue? il figliuolo tronca il capo al padre e lo squassa per le chiome – e per chi tanta scellerata carnificina? I re per cui vi trucidate si stringono nel bollor della zuffa le destre e pacificamente 40 si dividono le vostre vesti e il vostro terreno17. – Urlando io fuggiva precipitosamente guatandomi dietro. E quelle orride fantasie mi seguitavano sempre; – e ancora quando io mi trovo solo di notte mi sento attorno 45 quegli spettri. [...] 20

Una rappresentazione della battaglia di Montaperti in una miniatura di Pacino da Buonaguida tratta dal manoscritto Chigiano L. VIII 296, contenente la Cronica Nuova di Giovanni Villani, foglio 92r, XIV secolo (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana). 9 ch’ei non... nuove: Alfieri, con la contessa d’Albany, negli ultimi anni si era stabilito a Firenze, ma si era isolato dal resto del mondo letterario. Il rifiuto opposto a Ortis, desideroso di incontrarlo, è autobiografico: l’episodio accadde effettivamente a Foscolo. 10 terre beate: le città della Toscana. 11 dalla barbarie: degli anni del Medioevo. 12 insigni: famosi.

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13 fraterne battaglie: battaglie fra italiani (che dovrebbero essere fratelli). 14 Monteaperto... Guelfi: Foscolo si riferisce alla battaglia di Montaperti (1260), in cui i ghibellini di Firenze e i senesi sconfissero i guelfi fiorentini. In una nota, Foscolo stesso spiega che la violenza della battaglia è ricordata in famosi versi dell’Inferno (X, vv. 85-86: «Lo strazio e ’l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso»).

15 abbrividire: rabbrividire. 16 guatarsi biechi: guardarsi intensamente, fissarsi con astio. 17 I re... terreno: Foscolo allude, nel proprio tempo, agli accordi tra francesi e austriaci ai danni degli italiani. L’efficace immagine verrà ripresa da Manzoni nel coro dell’atto III dell’Adelchi, vv. 64-66: «Dividono i servi, dividon gli armenti / si posano insieme sui campi cruenti / d’un volgo disperso che nome non ha».


Analisi del testo La Toscana e le tombe di Santa Croce, dall’Ortis ai Sepolcri Nelle opere di Foscolo, dall’Ortis ai Sepolcri alle Grazie, la Toscana è il luogo della cultura e della civiltà italiana in cui, ridestandosi dalla barbarie medievale, il nostro paese aveva trovato la sua più alta espressione nella letteratura e nell’arte. Ma tale motivo, che nei Sepolcri è visto come incitamento a una rinascita del nostro Paese proprio a partire dalla capitale ideale Firenze, nell’Ortis assume toni pessimistici. Il protagonista ricorda infatti come i grandi italiani sepolti in Santa Croce fossero stati incompresi e perseguitati dai loro contemporanei. Anch’egli, deluso e ormai lontano dai sogni di gloria della sua giovinezza, non spera più di potere emulare la gloria di quei grandi uomini. Pure la speranza di conoscere Vittorio Alfieri, lo scrittore italiano più ammirato, stabilitosi a Firenze, appare vana (il fatto è autobiografico) perché il poeta astigiano, per le delusioni provate, si è chiuso in uno sdegnoso isolamento. Anche questo fatto troverà una più positiva interpretazione letteraria nei Sepolcri, in cui Alfieri, nelle sue frequenti visite alle tombe in Santa Croce, dove gli bastava posare lo sguardo sui ricordi di un grande passato per ritrovare la speranza, diventa ispiratore di una rinascita patriottica.

I fantasmi di Montaperti Se la visita alla chiesa di Santa Croce appare pervasa da un senso di malinconica delusione, i luoghi intorno a Firenze appaiono in una luce ancora più sinistra, evocando il ricordo delle sanguinose guerre medievali tra guelfi e ghibellini, testimoniate da Dante ed emblemi delle secolari divisioni tra italiani. Accentua il carattere fosco della rappresentazione il motivo preromantico dell’apparizione di fantasmi, ripreso dal teatro di Shakespeare (soprattutto da Amleto e Macbeth), dalla poesia ossianica e dalle tragedie alfieriane (in particolare il Saul, il cui protagonista è tormentato, nel suo delirio, da apparizioni spettrali). L’apparizione fantastica degli spettri dei combattenti di Montaperti assume nell’Ortis due funzioni fondamentali: sul piano storico evidenzia il persistere di conflitti, divisioni e odi di parte in tutta la storia italiana, mentre su quello psicologico suggerisce lo stato d’animo alterato e quasi delirante del protagonista. Nei Sepolcri, Foscolo riprenderà il motivo fantastico dell’apparizione dei fantasmi di guerrieri (i greci vincitori dei persiani a Maratona) nei luoghi che li hanno visti impegnati in battaglia, ma con un intento opposto: rinnovare non l’orrore, ma la gloria imperitura di chi ha combattuto valorosamente per la patria.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali elementi positivi emergono nella descrizione della Toscana? A quali considerazioni negative si accompagnano? ANALISI 2. Qual è il giudizio di Jacopo Ortis su Alfieri? Perché Jacopo Ortis – e lo stesso Foscolo – nutrono una grande ammirazione per questo scrittore? 3. Quale valore simbolico assume l’isolamento di Alfieri? 4. Quali sono i sentimenti di Jacopo davanti alle tombe di Santa Croce? Quali riflessioni suscitano in lui?

Interpretare

SCRITTURA 5. Quali particolari sottolineano l’orrore delle apparizioni spettrali, mettendo in luce la crudeltà della guerra fratricida tra guelfi e ghibellini? Perché questa guerra richiama a Ortis il suo tempo? Scrivi un breve testo in cui elenchi tali particolari.

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Ugo Foscolo

T11

Il colloquio fra Jacopo e Parini

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Mentre l’amata Teresa è ormai prossima alle nozze con Odoardo, Jacopo sta peregrinando per l’Italia. Nel dicembre del 1798 si trova a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina. Nel capoluogo lombardo il giovane incontra il poeta Giuseppe Parini, a cui confida le sue speranze di contribuire a liberare l’Italia ma da cui riceve una disillusa lezione di vita. Riproduciamo la parte centrale e più nota della lunga lettera, in cui si dà voce appunto al dialogo tra Parini e Jacopo.

Milano, 4 Dicembre. [...] Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli1. Egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, 5 dall’altra sul suo bastone2: e talora guardava gli storpj suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise3 sopra uno di que’ sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai cono10 sciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi4 e per la nuova licenza5. Le lettere prostituite6; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione: non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amore figliale – e poi mi tesseva gli annali recenti7, e i delitti di 15 tanti uomiciattoli ch’io degnerei di nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo, non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e’ si vedano presso il patibolo8 – ma ladroncelli, tremanti, saccenti – più onesto9 insomma è tacerne. – A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva10 gridando: Chè non si tenta? morremo? 20 ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore11. – Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio12 chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso13 e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole – io taceva, ma si sentiva ancora un fremito

1 nel sobborgo... tigli: ai giardini di Porta

7 mi tesseva... recenti: mi narrava gli av-

Venezia. 2 sul suo bastone: nel 1798, anno in cui Foscolo immagina l’incontro, Parini era anziano (sarebbe morto l’anno successivo) e, fin dalla giovinezza, era claudicante a causa di una malattia. 3 S’assise: si sedette. 4 per le antiche tirannidi: il dominio spagnolo (secc. XVI-XVII) e quello austriaco (sec. XVIII). 5 nuova licenza: riferimento al potere francese, segnato da forme di degenerazione della libertà (licenza) e da arbitri. 6 Le lettere prostituite: la letteratura venduta ai potenti (cioè i letterati che si vendono al potere).

venimenti più recenti. 8 animosi... patibolo: coraggiosi delinquenti (masnadieri) che affrontano i misfatti anche se sono certi di essere condannati a morte. Il mito del fuorilegge è tipicamente romantico ed è reso celebre in particolare da una fortunata opera teatrale dell'intellettuale tedesco Friedrich Schiller, I masnadieri (1781). Silla (138-78 a.C., un protagonista delle guerre civili a Roma, dittatore e persecutore degli avversari politici con liste di proscrizione) e Catilina (che ordì una congiura antisenatoria nel 63 a.C., sventata da Cicerone, e fu sconfitto in battaglia) sono ricordati come uomini spietati, ma do-

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tati di una grandezza d’animo pure nella crudeltà. 9 onesto: onorevole, dignitoso. 10 sorgeva: mi alzai in piedi. 11 Chè... vendicatore: perché non tentare (la libertà della patria)? Moriremo? Ma dal nostro sangue nascerà un vendicatore? Le parole di Jacopo sono sottolineate dalla citazione di un passo dell’Eneide (IV, 625) in cui Didone, morendo, chiede che dal suo sangue nasca contro i romani un vendicatore, che sarebbe stato Annibale. Tutta la lettera è intessuta di echi classici, a elevarne lo stile e sottolinearne l’importanza. 12 in quel dubbio: in quell’incerto. 13 dimesso: abbattuto.


rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo salute14 mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte15, non servirebbero sì 25 vilmente. – Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il braccio, mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: E pensi tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni? 30 Allora io guardai nel passato – allora io mi voltava avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano16 e le mie braccia tornavano deluse17 senza pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta18 la disperazione del mio stato. Narrai a quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza19 tenebrosa di questa vita. E alle 35 mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. – No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: sono figlio di madre affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate20 e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi21, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell’aria – essa afferravami per la falda delle vesti, 40 e mi ritraeva22, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure s’ella – spiasse tutti gli occulti miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi23 miei giorni. Ma l’unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo, è la speranza di tentare la libertà della patria. – Egli sorrise mestamente; e poiché s’accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano 45 immoti sul suolo, ricominciò: – Forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma – credimi; la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l’altro quarto a’ loro delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria24 non ti hanno 50 per anco25 insegnato che non si dee26 aspettare libertà dallo straniero? Chiunque s’intrica27 nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno su la punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù28. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava per l’universo un nemico 55 al popolo Romano29? – Né ti sarà dato di essere giusto impunemente30. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno quale sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente31. E dove32 tu nelle pubbliche cose33 possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sa14 salute: salvezza. 15 si conducessero... morte: fossero sempre consapevoli di dover morire. 16 errava... vano: brancolavo sempre nel vuoto. 17 deluse: vuote. 18 tutta tutta: completamente. 19 stanza: dimora, sede (è la terra). 20 calcare... pedate: seguire tremando le mie orme. 21 diruparmi: gettarmi nel vuoto. 22 mi ritraeva: mi tirava indietro. 23 ansiosi: angosciati. 24 I gemiti… patria: le sofferenze del po-

polo italiano nei secoli passati e il presente giogo della dominazione francese. 25 per anco: ancora. 26 dee: deve. 27 s’intrica: s’immischia. 28 Quando… virtù: quando il senso della giustizia è sovrastato dalla forza, il conquistatore impone la legge con il sangue e obbliga (gli oppositori) a sacrificare il diritto. 29 E allora?... popolo Romano: si può pensare di combattere l’oppressore dall’esterno, come tentò di fare Annibale, che esule (da Cartagine), cercava un

alleato per prendersi la sua rivincita su Roma. 30 Né ti sarà dato… impunemente: e non ti sarà concesso di comportarti secondo giustizia senza pagarne il prezzo. 31 Un giovine … potente: un giovane retto e appassionato (dritto e bollente), ma senza mezzi, e imprudente per carattere (incauto d’ingegno) quale sei tu, sarà sempre o lo strumento di un intrigante (fazioso) o la vittima di un potente. 32 dove: anche se. 33 nelle pubbliche cose: nella vita politica.

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rai altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia34; la 60 tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. – Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri e la malignità de’ tuoi concittadini e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento; di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica35? arderai le tue case con le faci della guerra civile36? unirai col terrore i 65 partiti37? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune38? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato39 dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti; giudica, più che dall’intento, dalla fortuna40; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla41, e ingannarla sempre. E 70 ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e per pochi anni di possanza e di tremore42, avresti 75 perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. – Ti avanza ancora un seggio fra’ capitani43; il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere44, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t’aita a salire45. Ma – o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la speranza di sorridere su la sua bara. – 80 Tacque – ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato46. – Il vecchio mi guardò – Se tu né speri, né temi fuori di questo mondo – e mi stringeva la mano – ma io! – Alzò gli occhi al Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le tue speranze47. – Intesi un calpestio che s’avanzava verso di noi; 85 e poi travidi gente fra’ tiglj; ci rizzammo48; e l’accompagnai sino alle sue stanze.

34 spento… calunnia: caduto poi vittima della calunnia (per metafora: pugnalato a morte per mano di calunniatori che colpiscono nel buio delle tenebre). 35 col quale conviene... repubblica: che è necessario spargere per fondare un nuovo ordine politico e sociale. Si vuol dire che tentare di instaurare nuovi regimi, anche se giusti nelle intenzioni, implica necessariamente l’uso della violenza (si tratta di una questione che le recenti esperienze della rivoluzione francese e della fallita rivoluzione napoletana del 1799 avevano reso d’attualità). 36 arderai… civile: le devastazioni nella guerra civile sono evocate dall’immagini degli incendi appiccati dalle faci (“fiaccole”). 37 unirai… i partiti: allusione alla dittatu-

130 Ottocento 2 Ugo Foscolo

ra che cancella i partiti politici. 38 adeguerai... fortune: imporrai un’equa distribuzione delle ricchezze con la strage (dei più ricchi). 39 vediti esecrato: sappi che sarai odiato. 40 più che… fortuna: più dal risultato che dall’intenzione. 41 ingrassarla: arricchirla. 42 di possanza e di tremore: di potere e di paura (tremore sia dei sudditi sottomessi sia del tiranno che teme per il suo potere). 43 Ti avanza... fra’ capitani: ti resta ancora la possibilità di cercare di ottenere un alto grado militare. 44 rapisce per profondere: saccheggia (le popolazioni) per elargire donativi (ai propri soldati). 45 si lambe... salire: si lecca la mano che

ti aiuta (t’aita) a fare carriera. L’immagine figurata indica la necessità di un’adulazione servile anche per fare carriera nell’esercito. 46 O Cocceo... incontaminato: Cocceo Nerva era un senatore romano, che (come ricorda Tacito, Annali VI 26) preferì suicidarsi per conservare la propria dignità (morire incontaminato), piuttosto che doversi piegare al potere tirannico dell’imperatore Tiberio. Nell’edizione a stampa dell’Ortis, Foscolo fa riportare in nota il passo di Tacito. 47 Alzò... speranze: il gesto di Parini sottolinea la fede religiosa del poeta, che rende per lui inaccettabile il suicidio. 48 ci rizzammo: ci alzammo in piedi.


Analisi del testo Un Parini “reinterpretato” L’incontro tra Ortis e Parini, a cui Foscolo affida una funzione molto importante nel messaggio complessivo della sua opera, si immagina accaduto a Milano, pochi mesi prima della morte del poeta (avvenuta nell’agosto 1799). L’incontro è frutto della fantasia di Foscolo: non è affatto certo che abbia avuto modo di conoscere di persona l’autore del Giorno. Quello che appare chiaro è che Foscolo sceglie Parini innanzitutto come esempio autorevole di intellettuale ideale, integerrimo, alieno da compromessi, quale appare in particolare nell’ode La caduta, un testo di particolare rilevanza nella costruzione del “mito di Parini” operante sulle generazioni più giovani. All’autore della Caduta si associa ovviamente, nella visione foscoliana, anche l’intellettuale, che assume una funzione civile, quale demistificatore dei costumi dell’aristocrazia, che si manifesta nel Giorno. Ma certo l’intellettuale che compare nel testo foscoliano è soprattutto un’invenzione foscoliana e non può essere identificato nel Parini storico: al di là dei contenuti del dialogo, basterebbero già a evidenziarlo i modi enfatici e comunque appassionati del suo discorso, di certo più “alfieriani” che pariniani. Quanto ai contenuti, Foscolo affida alla figura di Parini, nel ruolo di portavoce delle sue idee, non solo l’aspra denuncia dello svilimento politico e valoriale presente, ma anche una più generale visione “machiavellica” della politica che non può, per varie ragioni, essere davvero attribuita a Parini.

La “sceneggiatura” di un tema chiave: il ruolo dell’intellettuale in un tempo drammatico Il colloquio serve a Foscolo per “mettere in scena” il tema fondamentale del compito dell’intellettuale, rapportato a un preciso momento storico, quello del passaggio dagli ideali rivoluzionari, che avevano appassionato tanti giovani, alla delusione, dopo che l’epopea napoleonica si era trasformata in regime. Tra i due interlocutori, Jacopo rappresenta nel dialogo la voce idealista di chi, smanioso di azioni generose per la libertà della patria, è disposto a sacrificare persino la vita. A Parini è affidato invece il ruolo di “coscienza critica” che, pur sviluppando una severa diagnosi della decadenza dei tempi, smorza la passionale reazione di Jacopo al degrado e alle ingiustizie, spingendolo a una riflessione sulle reali possibilità di azione nella difficile situazione italiana. Agli “astratti furori” di Jacopo si contrappongono nel dialogo le amare, realistiche, considerazioni di Parini, che si iscrivono in una visione che appare nel dialogo via via più pessimistica man mano che l’argomentazione procede.

Un pessimismo sempre più radicale In un primo tempo, Parini diagnostica severamente la generale corruzione, la “prostituzione” della cultura, pronta a vendersi, e la crisi di una intera civiltà, che ha ormai perduto i valori più importanti; quindi si riferisce in particolare a Jacopo, mettendo in discussione la possibilità, per «un giovine dritto (onesto) e bollente di cuore, ma povero di ricchezze» di svolgere un’azione efficace, mantenendosi «incontaminato dalla comune bruttura». Prospetta poi una visione negativa della rivoluzione – ammesso che possa realizzarsi – la quale implicherebbe nuove violenze, terrore, stragi (con evidente memoria della rivoluzione francese). Ma la “lezione” del vecchio poeta al giovane prosegue con un quadro di spirito machiavellico sull’andamento di ogni tempo della politica, che manifesta una visione radicalmente pessimistica. Di fatto il discorso di Parini finisce per sancire la impossibilità dell’azione e per avallare la decisione di Jacopo di porre termine a una vita che non trova senso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Dividi il testo in sequenze, assegnando un titolo di sintesi a ciascuna di esse. 2. Riassumi le critiche alla società milanese espresse nella lettera. COMPRENSIONE 3. Che cosa consiglia Parini a Jacopo? Come reagisce quest’ultimo? 4. Quali sono le possibilità di intervento dell’intellettuale nella politica e nella storia prese in esame nella lettera? Quali vengono respinte? Per quali ragioni?

La letteratura come autoritratto

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ANALISI 5. Nella lettera il personaggio di Ortis è connotato da grande passionalità. Sottolinea alcune delle espressioni che la evidenziano.

Interpretare

SCRITTURA 6. Alla luce dell’analisi svolta, illustra e discuti il giudizio di Luigi Russo sul personaggio Parini: «Il Parini sentì forte la dignità di sé, come uomo, come individuo, ma si tirò in disparte di fronte alle lotte politiche: austriaci o francesi, egli s’inchinò, rassegnato e docile all’eterna onnipotenza dei reggitori del suo paese. Ma il Parini delle Ultime lettere è un Parini fortemente alfierizzato e foscoleggiante; il che capita sempre agli uomini di generoso sentire che investono di sé stessi anche gli indifferenti o le persone miti, come tutti fossero partecipi della loro accesa passione». Organizza la tua esposizione (max 15-20 righe) in base a questi punti: a. Quali temi alfieriani emergono nella lettera? b. In che senso il ritratto di Parini può essere definito foscoleggiante?

EDUCAZIONE CIVICA

7. Nella lettera Foscolo, attraverso le parole pronunciate da Parini, denuncia la «prostituzione» della cultura, pronta a vendersi, asservendosi al potere. Credi che oggi gli intellettuali riescano a esprimere la loro voce per guidare un processo di rigenerazione etica e civile della nostra società o che abbiano abdicato al loro ruolo?

nucleo

Costituzione

competenza 1

8. Di fronte a una crisi di valori come quella analizzata lucidamente nella lettera dall’anziano Parini, come ti comporteresti? Saresti – in quanto giovane – animato dalla passione e dalla smania di azioni idealiste, come Jacopo, o saresti più propenso a un’analisi pessimista e realistica della situazione, come Parini?

Ugo Foscolo

T12

La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: la lettera da Ventimiglia

LEGGERE LE EMOZIONI

Ultime lettere di Jacopo Ortis U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G. Nuvoli, Principato, Milano 1986

Jacopo continua il suo viaggio in Liguria, da cui dovrebbe passare in Francia attraverso le Alpi. A Pietra Ligure incontra un vecchio compagno di università, anch’egli esule, che vaga con la moglie e una piccola figlia in condizioni di estrema miseria. Giunto a Ventimiglia, sui confini tante volte violati dalle invasioni straniere, Ortis riflette sulle vicende italiane, inscrivendole nel corso millenario della storia. In questa luce, ogni sua speranza si dissolve: in nessun luogo della terra – «foresta di belve» – esiste la giustizia, ovunque regnano sopraffazione e violenza; perciò Jacopo rinuncia a passare in una terra straniera. Tutto sembra ormai convergere verso la scelta finale del suicidio.

Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro1. [...] Alfine eccomi in pace! – Che pace? stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba2. Tutto è bronchi3; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che segnano il sito4 de’ viandanti assassina5 ti. – Là giù è il Roja5, un torrente che quando si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in due questa immensa montagna. V’è un ponte presso alla marina6 che ricongiunge il sentiero. Mi sono fermato su 1 Febbraro: febbraio (dell’anno 1799). 2 Non v’è... erba: l’anafora, con le tre successive negazioni, sottolinea come il paesaggio appaia privo di vita. 3 bronchi: nudi rami, sterpi. La paro-

132 Ottocento 2 Ugo Foscolo

la evoca la selva dei suicidi, nell’Inferno dantesco (If XIII, v. 26). L’asprezza del paesaggio è sottolineata anche a livello fonico. 4 sito: luogo.

5 Roja: torrente che sfocia presso Ventimiglia. Il deittico Là giù conferisce un senso di immediatezza alla descrizione. 6 alla marina: al mare.


quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cer10 vici7 dell’Alpi altre Alpi di neve8 che s’immergono nel Cielo e tutto biancheggia e si confonde – da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana9, e per quelle fauci10 invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi. I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto dì11 sormontati d’ogni parte dalla 15 pertinace avarizia12 delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli13? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? – Ov’è l’antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando14 la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta 20 schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e l’intelletto, e la voce, sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati15 come i miseri Negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que’ Grandi per annientarne le ignude16 memorie: poiché oggi 25 i nostri fasti17 ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell’antico letargo. Così grido quand’io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi intorno io cerco, né trovo più la mia patria. – Ma poi dico: Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure18; ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a’ destini19. Noi argomentiamo 30 su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino20 nell’immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale, pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L’universo si controbilancia21. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra. Io guardando da queste Alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro agl’invasori 35 vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli trapassati, quando i Romani rapivano22 il mondo, cercavano oltre a’ mari e a’ deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl’Iddii de’ vinti23, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri24, li ritorceano contro le proprie viscere25. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di 40 Canaan26, e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda27. Così Alessandro rovesciò l’impero di Babilonia28, e dopo avere passando arsa gran parte della terra, si corrucciava che non vi fosse 7 su le cervici: sulle cime. 8 di neve: innevate. 9 la tramontana: vento freddo del settentrione. Il vento che proviene dalle Alpi, superando il confine italiano, evoca le invasioni straniere tante volte subìte dall’Italia nel corso dei secoli. 10 per quelle fauci: attraverso quei valichi. L’espressione figurata evoca l’insaziabile avidità delle nazioni straniere, minacciose, come se fossero pronte a divorare l’Italia. 11 tutto dì: continuamente. 12 pertinace avarizia: insaziabile avidità. 13 i tuoi figli: gli italiani, che dovrebbe-

ro difendere la loro patria dalle invasioni straniere. 14 memorando: ricordando. 15 trafficati: venduti. 16 ignude: non onorate dagli italiani. 17 fasti: glorie. 18 Pare... sciagure: secondo le apparenze, gli uomini sono responsabili delle proprie disgrazie. 19 serve... destini: è orgoglioso e cieco strumento del destino. 20 eglino: essi. 21 si controbilancia: mantiene un costante equilibrio tra creazione e distruzione (se qualcosa, nella natura e nella storia viene creato, qualcos’altro viene distrutto).

22 rapivano: rapinavano. 23 manomettevano... vinti: profanavano le divinità dei vinti.

24 ferri: armi. La metonimia sottolinea la violenza dell’immagine. 25 li ritorceano... viscere: finivano per dilaniarsi in guerre civili. 26 Israeliti... Canaan: gli ebrei massacrarono i pacifici abitanti della regione di Canaan, in Palestina. 27 Babilonesi... Giuda: i Babilonesi poi deportarono in schiavitù i figli del popolo di Giuda. 28 l’impero di Babilonia: l’impero persiano, nel 331 a.C.

La letteratura come autoritratto

2 133


un altro universo. Così gli Spartani tre volte smantellarono Messene29 e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano della stessa religione e nipoti 30 45 de’ medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de’ Cesari, de’ Neroni, de’ Costantini, de’ Vandali, e de’ Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh quanto sangue d’innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’Oceano portato a 31 50 contaminare d’infamia le nostre spiagge ! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La Terra è una foresta di belve. La fame, i diluvj, e la 55 peste sono ne’ provvedimenti della Natura come la sterilità di un campo che prepara l’abbondanza per l’anno vegnente: e chi sa? fors’anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro32. Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: 60 ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. […] Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli o sventurati; 65 in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje33. Ma mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo? 70 Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico – tu ami – te aspetta una turba di miseri, a cui se’ caro, e che forse sperano in te – dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da 75 tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t’ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui – va, prostrati; ma all’are domestiche34. O Natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl’insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che35 vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto36 istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma 37 ed ubbidisca irrepugnabilmente38 a tutte le tue leggi, perché 80 delle tue infermità poi darci questo dono ancor più funesto della ragione39? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle40. 29 Messene: città del Peloponneso, sottomessa agli spartani. 30 sbranavansi: si massacravano fra loro. 31 Oh quanto fumo... spiagge: si riferisce alle stragi degli indiani d’America. 32 La fame... altro: ispirandosi alla concezione del filosofo Hobbes (1588-1679), Foscolo vede la storia come una successione di violenze in cui gli uomini si com-

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portano reciprocamente come belve, e la inscrive nel più generale meccanismo della natura, in cui si alternano crescita e distruzione, nascita e morte. 33 usuraje: false, non disinteressate. 34 all’are domestiche: agli altari della tua patria, intesi anche come luoghi culto degli affetti familiari e dei defunti. 35 a che: perché, per quale scopo.

36 funesto: in quanto comporta che si perpetui il dolore insito nella vita stessa. 37 la soma… infermità: il peso dei tuoi mali. 38 irrepugnabilmente: senza ribellarsi. 39 perché... ragione: almeno senza la ragione gli uomini potrebbero sopportare (come fanno gli animali) il dolore dell’esistenza. 40 ristorarle: porvi rimedio.


Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri, le infermi85 tà, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? – Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null’altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte – voi sole, o 90 mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie – e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da’ sospiri di quella celeste fanciulla ch’io credeva nata per me, ma che gl’interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.

Analisi del testo Le «mal vietate Alpi» Il primo elemento significativo è la descrizione delle Alpi. Baluardo naturale a difesa dell’Italia, appaiono a Jacopo spalancate al vento di tramontana, che «per quelle fauci invade il Mediterraneo», richiamando alla mente del protagonista le continue invasioni straniere subite dall’Italia. L’immagine delle «mal vietate Alpi», ripresa nei Sepolcri (➜ T18 , v. 182), è opposta a quella dell’Ode a Bonaparte liberatore (1797), scritta da Foscolo prima del trattato di Campoformio, quando il passaggio delle Alpi era visto come il momento culminante dell’epopea napoleonica.

La natura sublime Il paesaggio grandioso e desolato, dalle forme aspre e dai colori lividi, pervaso da immani forze distruttrici, («precipita dalle viscere», «ha spaccato... questa immensa montagna», «spalancate Alpi») evoca un presentimento di morte, sottolineato dal lessico (sopore di sepoltura, aspri e lividi macigni; bronchi), che richiama l’Inferno dantesco. Il paesaggio funereo, romanticamente specchio dell’animo desolato di Ortis, ormai prossimo alla morte, assume le connotazioni del “sublime”, proprio della sensibilità tardo settecentesca, teorizzato da Edmund Burke (1729-1797), di cui presenta tutti i caratteri: riempie l’animo della sua grandiosità, suscitando un misto di orrore e attrazione. Al paesaggio impervio e minaccioso, opposto ai vari paesaggi idillici rappresentati nel romanzo, corrisponde lo stato d’animo di Ortis che, nelle sue riflessioni, si eleva al di sopra della natura e della storia, contemplandole come dall’alto. Proprio dall’accettazione di una realtà non più elata da alcuna illusione egli trae la forza per la scelta del suicidio, sentita come “eroica”.

La caduta degli ideali illuministici

La riflessione di Jacopo Ortis nella lettera da Ventimiglia costituisce un microsaggio di filosofia della storia. Riallacciandosi alle concezioni politiche e antropologiche di Machiavelli e di Thomas Hobbes, Foscolo rivela un pessimismo ormai radicale, in netto contrasto con gli ideali illuministici di progresso e di positività della natura umana. La storia appare dominata dal potere e dalla violenza (una concezione che sarà ripresa nell’Adelchi manzoniano: «Una feroce / forza il mondo possiede»); di conseguenza, i popoli sono – ciclicamente – vincitori e vinti, oppressi o oppressori. Così avviene per l’Italia: ai tempi di Jacopo è soggetta a dominazioni straniere, ma in passato erano stati i Romani a opprimere popoli liberissimi. Molti eventi della storia testimoniano il medesimo processo ciclico: così gli Israeliti, giungendo nella Terra Promessa, avevano trucidato i Cananei, ma in seguito erano stati deportati dai Babilonesi, che a loro volta erano stati poi sottomessi da Alessandro Magno. La situazione dell’Italia si inscrive così in un contesto più vasto, in cui l’oppressione straniera, più che un’ingiustizia da vendicare, diviene esempio dell’«alterna onnipotenza delle umane sorti» (Dei Sepolcri, vv. 153-154). Ma, a sua volta, anche la storia appare inscritta in una più generale legge cosmica, per cui tutte le cose nascono e sono poi distrutte, in un meccanismo privo di senso e di scopo («L’universo si controbilancia»). Nel passo, inoltre, è messo in discussione il mito illuministico della ragione, definita «dono [...] funesto», in quanto svela, senza porvi rimedio, l’infelicità degli esseri umani. In quest’ot-

La letteratura come autoritratto

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tica, il desiderio di vivere appare come un inganno della Natura teso alla perpetuazione della specie. Tale “pessimismo cosmico” avrà un’influenza decisiva sulla formazione di un altro grande autore italiano dell’Ottocento, Giacomo Leopardi, lettore dell’Ortis.

La scelta di Jacopo La lettera da Ventimiglia ha un’importante funzione strutturale nel romanzo, perché da tali riflessioni consegue la rinuncia di Jacopo a raggiungere la Francia e la decisione di tornare nei Colli Euganei, in un percorso circolare che diviene simbolo di una vita priva di alternative. Se in nessun luogo del mondo, infatti, si può trovare la giustizia, che senso avrebbe per Jacopo rifugiarsi in un altro paese? E se l’etica, come insegnava Machiavelli, non ha nulla a che vedere con la politica e, come Jacopo afferma nella lettera, l’unica vera virtù è la compassione, nata dalla coscienza della comune infelicità del genere umano, a Jacopo non rimane altro che una sepoltura dove possa essere compianto da chi lo ha amato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Dopo aver contestualizzato questa lettera all’interno dell’Ortis, presentane in uno schema le argomentazioni. 2. Perché Jacopo decide infine di non emigrare oltre confine? 3. Quali leggi si possono riconoscere nella storia, secondo la riflessione di Ortis? 4. Che cosa significa l’espressione «La Terra è una foresta di belve» (r. 54)? ANALISI 5. Analizza le caratteristiche del paesaggio descritto all’inizio della lettera e mettine in luce gli aspetti “sublimi”. Quale rapporto esiste fra il protagonista e il paesaggio? In che senso la descrizione del paesaggio è vicina alla sensibilità romantica? STILE 6. Analizza la descrizione del paesaggio dal punto di vista linguistico. a. Individua i termini relativi al campo semantico della morte, e a quello della violenza e devastazione: a quali tematiche si collegano? b. Evidenzia gli aggettivi utilizzati: denotano un coinvolgimento emotivo o un atteggiamento distaccato? Motiva la tua risposta.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

TESTI A CONFRONTO 7. Confronta la rappresentazione della natura in questa lettera con quella del dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (vedasi anche pag. 2), evidenziando in una trattazione di circa 15-20 righe eventuali analogie tra le due opere. a. In che modo viene descritto il paesaggio? b. Quali emozioni e quali associazioni simboliche evoca questo tipo di paesaggio? c. Soffermati sugli elementi di novità del rapporto tra uomo e paesaggio. SCRITTURA 8. Nella lettera si avverte una profonda corrispondenza tra paesaggio e stato d’animo. Ti è mai capitato, di fronte allo spettacolo grandioso della natura, di provare forti emozioni? Di percepire una consonanza tra i tuoi sentimenti e le tue sensazioni e lo scenario nel quale sei immerso? Ti capita di scegliere il luogo delle tue passeggiate in accordo con il tuo stato d’animo?

online T13 Ugo Foscolo

Il quadro dipinto da Teresa e l’amore oltre la morte Ultime lettere di Jacopo Ortis

136 Ottocento 2 Ugo Foscolo

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela, 1818 (Amburgo, Kunsthalle).


5 Autobiografia foscoliana in versi: le Odi e i Sonetti VIDEOLEZIONE

La struttura e la composizione della raccolta Tra il 1802 e il 1803 Foscolo pubblica le Poesie, una raccolta dei sonetti e delle odi, in tre successive edizioni, progressivamente accresciute con nuovi testi. La silloge completa e definitiva, pubblicata a Milano nell’autunno del 1803, comprende due odi e dodici sonetti. Le forme metriche presenti possono essere ricondotte ai due modelli poetici fondamentali per l’autore, Parini e Alfieri: l’ode neoclassica, il cui modello è pariniano, e il sonetto, che rimanda a una lunga tradizione poetica italiana, di recente rinnovata da Alfieri. Il carattere distintivo del breve canzoniere è l’estrema selettività: Foscolo esclude infatti numerosi testi giovanili, in particolare le canzoni di argomento politico, che pure avevano conseguito una certa fama. Ne deriva una raccolta poetica unitaria (anche per la presenza quasi costante nei componimenti del tema autobiografico) e raffinata, che evidenzia il carattere innovativo della lirica foscoliana. Il tema delle odi: la celebrazione della bellezza Le due odi si ispirano alla poetica neoclassica, come evidenzia anche solo la fitta presenza di immagini mitologiche, e sono accomunate dal tema della bellezza. La prima, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, scritta nel 1800, è rivolta alla gentildonna del titolo, rimasta ferita per una caduta da cavallo, a cui si augura di recuperare la bellezza perduta. La seconda ode, All’amica risanata, scritta nel 1802-1803, si incentra sulla grazia di Antonietta Fagnani Arese, tornata al fascino e alla seduzione dopo una lunga malattia. La prima ode ha ancora un carattere occasionale e si richiama alla poesia galante del Settecento, mentre la seconda si eleva a una considerazione universale sulla bellezza, vista come “bello ideale”, conforto alle miserie umane. Al tema della bellezza si associa quello della poesia che, celebrandola, può eternare uno splendore in realtà transitorio e fugace; l’ode si conclude con un significativo autoritratto del poeta, che si ritrae come continuatore, nella poesia italiana, della lirica greca. I sonetti: alle radici della propria identità L’autobiografismo delle Odi è ancora più accentuato nei sonetti, che possono essere accostati all’Ortis, in quanto ispirati a una sensibilità proto-romantica, come rivelano i temi: il contrasto fra l’io del poeta e la realtà in cui si trova a vivere, la delusione esistenziale, l’esilio, lo spezzarsi dei legami con i familiari (la morte del fratello, la lontananza dalla madre), la meditazione sul nulla e sulla morte. Nell’insieme i sonetti costituiscono una sorta di autobiografia ideale in cui, con un’armoniosa compresenza di motivi classici e romantici, il poeta tratteggia il suo io più profondo. Questo avviene soprattutto in tre sonetti considerati maggiori, tra i capolavori del genere lirico di ogni tempo: Alla sera, collocato da Foscolo come primo dei dodici, forse per la riflessione di carattere filosofico che lo caratterizza; A Zacinto, in cui il ricordo dell’isola natale coincide con la riscoperta dei miti della Grecia classica; In morte del fratello Giovanni, in cui, al compianto per la tragica sorte del fratello deceduto giovanissimo, il poeta associa il proprio destino di sradicato e di esule. Nel loro insieme i dodici sonetti, secondo la critica moderna, costituiscono una sorta di canzoniere, nel quale i singoli testi non sono disposti in modo casuale ma secondo un disegno che fa della silloge un macrotesto, ovvero una struttura in cui ogni singolo elemento occupa, nella volontà dell’autore, una specifica posizione. Il numero di dodici (uno per ogni mese dell’anno) rimanda al Canzoniere di Petrarca (in cui i sonetti sono uno per ogni giorno dell’anno, più il sonetto proemiale).

La letteratura come autoritratto

2 137


Le caratteristiche formali dei sonetti: un modello stilistico rinnovato Dal punto di vista stilistico i sonetti foscoliani sono molto distanti dalla poesia di Petrarca per la presenza di un’accesa passionalità, che rimanda al modello della lirica alfieriana (oltre che testimoniare la più volte citata sensibilità preromantica di Foscolo). Un esplicito omaggio al poeta astigiano è il sonetto VII, al centro della raccolta: un autoritratto modellato su un sonetto dell’Alfieri. D’altra parte, i sonetti di Foscolo si distinguono dal modello alfieriano per una musicalità più fluida, prodotta da un uso intenso degli enjambements, secondo l’importante modello del poeta cinquecentesco Giovanni Della Casa (1503-1556), già ripreso da Tasso. Il carattere distintivo dei maggiori sonetti foscoliani è, però, soprattutto l’equilibrio classico delle forme che, in una estrema concentrazione espressiva, disciplina e domina l’impeto disordinato delle passioni. Non a caso il sonetto introduttivo, Alla sera, quasi una sorta di proemio all’intera raccolta, è dedicato alla ricerca di pace e di tranquillità nella contemplazione della sera, che placa l’inquietudine dell’animo e lo “spirito guerriero” del poeta. Auger Lucas, Allegoria della poesia (particolare), olio su tela, XVIII secolo (Collezione privata).

Poesie STRUTTURA

raccolta di 12 sonetti e due odi

DATAZIONE

1803 (edizione definitiva)

TEMI

STILE

138 Ottocento 2 Ugo Foscolo

• odi: celebrazione della bellezza valore della poesia eternatrice. • sonetti: autobiografismo, la morte, l’esilio, riflessioni di carattere filosofico.

equilibrio classico delle forme


Ugo Foscolo

T14

All’amica risanata Odi

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Nel 1802, anno di composizione dell’ode, Foscolo intratteneva una appassionata relazione, testimoniata da numerose lettere, con Antonietta Fagnani, moglie del conte Arese. Durante l’inverno, la giovane donna era stata a lungo malata; guarita, ritorna ammaliante e il suo splendore è visto dal poeta come una delle espressioni del bello ideale, l’aurea beltate, fonte per gli uomini di conforto e serenità.

Qual dagli antri marini l’astro più caro a Venere co’ rugiadosi crini fra le fuggenti tenebre 5 appare1, e il suo vïaggio orna col lume dell’eterno raggio2, sorgon così tue dive membra dall’egro talamo3 e in te beltà rivive, 10 l’aurea4 beltate ond’ebbero ristoro unico a’ mali le nate a vaneggiar menti mortali5. Fiorir sul caro viso veggo la rosa6, tornano 15 i grandi occhi al sorriso insidïando7; e vegliano per te in novelli pianti trepide madri, e sospettose amanti8. Le Ore che dianzi meste 20 ministre eran de’ farmachi9, oggi l’indica veste, e i monili cui gemmano effigïati Dei inclito studio di scalpelli achei, La metrica Strofe di cinque settenari e un endecasillabo rimati secondo lo schema abacdD; il secondo e il quarto verso sono sdruccioli, tutti gli altri sono piani 1 Qual... appare: come emergendo dalle profondità del mare appare il pianeta Venere, con i raggi risplendenti per la rugiada, fra le tenebre che si dissolvono. La parola crini (propriamente “capelli”), a indicare i raggi della stella Venere, fa sì che il lettore sovrapponga all’immagine dell’astro che sorge in cielo quella di Venere emergente dalle acque. Il ritorno della donna alla salute e alla bellezza è collocato sullo sfondo di immagini della

bellezza ideale (gli astri, l’immagine mitologica di Venere). 2 il suo... raggio: abbellisce il suo cammino con i raggi eterni del sole. 3 sorgon... talamo: così si leva il tuo corpo divino dal letto di malattia; con la figura retorica dell’ipallage, l’aggettivo egro “malato” è riferito al letto (talamo) e non alla donna, come se il poeta avesse voluto dissociarla dall’idea del male fisico. 4 aurea: dorata, splendida. L’aggettivo sottolinea la preziosità della bellezza (beltate, al verso precedente beltà) come ornamento della vita. 5 ond’ebbero... mortali: per cui ebbero l’unico conforto ai loro mali gli animi de-

gli uomini, altrimenti destinati a inseguire vane passioni. 6 veggo la rosa: vedo i colori rosati. 7 insidïando: tendendo insidie amorose, facendo innamorare. 8 vegliano... amanti: a causa tua perdono il sonno, versando nuovi pianti, madri preoccupate e amanti gelose. 9 Le Ore... farmachi: le Ore che, prima, tristi ti recavano le medicine. Le Ore sono divinità mitologiche che accompagnano il carro del Sole, rappresentando lo scorrere del tempo e i momenti in cui è suddiviso.

La letteratura come autoritratto

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25 e i candidi coturni e gli amuleti recano10, onde a’ cori notturni te, Dea, mirando obbliano i garzoni le danze, 30 te principio d’affanni e di speranze11.

O quando l’arpa adorni e co’ novelli numeri e co’ molli contorni delle forme che facile 35 bisso seconda12, e intanto fra il basso sospirar vola il tuo canto più periglioso13; o quando balli disegni14, e l’agile corpo all’aure fidando15, 40 ignoti vezzi16 sfuggono dai manti17, e dal negletto18 velo scomposto sul sommosso19 petto. All’agitarti, lente cascan le trecce20, nitide 45 per ambrosia recente21, mal fide22 all’aureo pettine e alla rosea ghirlanda che or con l’alma salute april ti manda23. Così ancelle d’Amore 50 a te d’intorno volano invidïate24 l’Ore,

10 l’indica... recano: ti recano la veste di seta (indica perché la seta preziosa era di provenienza orientale), i monili ornati da raffigurazioni di divinità mitologiche, preziosa opera di cesellatori greci (scalpelli è metonimia) e i candidi calzari (coturni sarebbero propriamente le alte calzature indossate dagli attori greci sulla scena) e (altri) monili (propriamente “portafortuna”). Le Ore spesso accompagnano Venere e le porgono ornamenti: si pensi ad esempio al quadro della Nascita di Venere, di Botticelli, in cui una delle Ore le porge un manto ricamato di fiori. Antonietta viene così accostata a Venere, non soltanto nel paragone iniziale, ma anche per l’accompagnamento delle Ore. 11 onde a’ cori… di speranze: per cui nelle feste (cori è un grecismo, dal greco

140 Ottocento 2 Ugo Foscolo

khorós, che ha il senso di danza unita al canto) notturne i giovani, contemplando te, causa dei loro affanni e delle loro speranze (amorose), dimenticano le danze. 12 O quando... seconda: o quando suoni l’arpa e ne accresci il fascino, sia suonando nuove melodie sia con i contorni flessuosi delle tue forme, modellate dalla morbida veste di bisso (tessuto sottile e pregiato). 13 fra il basso... periglioso: fra i sommessi sospiri (degli innamorati) si eleva più seducente il tuo canto. Il contrasto fra le note alte del canto della donna e il tono basso dei sospiri di chi, affascinato, la contempla, ne sottolinea il fascino seducente; l’enjambement fra i versi delle strofe successive ne amplifica l’eco sonora, per evocare la suggestione del canto

di Antonietta.

14 balli disegni: tracci figure di danza armoniose come un disegno. L’anastrofe sottolinea l’armonia dei movimenti della danza. 15 all’aure fidando: affidando all’aria. 16 ignoti vezzi: bellezze prima nascoste. 17 dai manti: dalle vesti. 18 negletto: scomposto. 19 sommosso: ansante, palpitante. 20 All’agitarti… le trecce: nei movimenti cadono allentate (lente) le trecce. 21 nitide... recente: lucenti per gli unguenti profumati appena sparsi. 22 mal fide: ribelli. 23 che or… ti manda: che ora Aprile (è personificato) ti manda insieme con la salute vivificatrice (alma). 24 invidïate: invidiate dalle altre donne.


meste le Grazie mirino chi la beltà fugace ti membra, e il giorno dell’eterna pace25. 55 Mortale guidatrice d’oceanine vergini la Parrasia pendice tenea la casta Artemide e fea terror di cervi 60 lungi fischiar d’arco cidonio i nervi26.

Lei predicò la fama olimpia prole27; pavido28 diva il mondo la chiama, e le sacrò l’Elisio 65 soglio, ed il certo telo, e i monti, e il carro della luna29 in cielo. Are così a Bellona, un tempo invitta amazzone, die’ il vocale Elicona30; 70 ella il cimiero e l’egida or contro l’Anglia avara e le cavalle ed il furor prepara31. E quella a cui di sacro mirto te veggo cingere 75 devota il simolacro32, che presiede marmoreo agli arcani tuoi lari33 ove a me sol sacerdotessa appari34, 25 meste... pace: le Grazie tolgano il loro

28 pavido: timoroso (riferito a il mondo,

favore a chi (mentre sei nel pieno del tuo splendore) ti ricorda (ti membra) la fugacità della bellezza e la tua mortalità. 26 Mortale... i nervi: la casta Artemide (Diana), un tempo donna mortale, guidatrice delle vergini oceanine (divinità mitologiche), abitava sulle pendici del monte Parrasio e, terrorizzando i cervi, faceva scoccare da lontano le corde del suo prezioso arco cidonio (ossia fabbricato a Cidone, una città dell’isola di Creta famosa per la produzione degli archi). La parola chiave Mortale introduce la seconda parte dell’ode, dedicata alla forza eternatrice della poesia: Foscolo immagina che tre divinità mitologiche, Diana, Bellona e Venere, in origine fossero donne mortali, rese divine, e quindi eterne, dalla poesia. 27 Lei... prole: la fama la dichiarò di stirpe divina. Diana era figlia di Giove e di Latona.

soggetto di chiama e sacrò). 29 le sacrò... luna: le (cioè a Diana), consacrò il trono dei Campi Elisi (dell’Ade), il dardo infallibile (certo telo) e i monti, e il carro della luna. Si credeva che Diana, chiamata dea triforme, si manifestasse anche sotto le sembianze della Luna e di Proserpina, regina dell’Ade. Telo è un latinismo da telum, che indica un’arma da getto, in particolare una freccia o un dardo. 30 Are così… Elicona: allo stesso modo, il monte Elicona, risonante di canti (vocale), consacrò altari (Are) a Bellona (cioè la trasformò in divinità, dea della guerra). Il monte Elicona, in Beozia, era sede delle Muse; per metonimia, indica i poeti e, qui, il loro canto. 31 ella il cimiero… prepara: ella (Bellona) ora prepara contro l’ingorda Inghilterra (l’Anglia avara) l’elmo, l’egida (la pelle che

copriva lo scudo di Giove; qui è simbolo di guerra), i cavalli e il furore guerriero. Foscolo allude ai preparativi di guerra contro l’Inghilterra allora intrapresi da Napoleone. L’accenno all’attualità appare però poco intonato ai temi dell’ode. 32 quella... simolacro: la dea (Venere) di cui, devota, ti vedo cingere di mirto la sacra immagine. Il mirto è la pianta sacra a Venere. La bella Antonietta, dedita agli amori, è immaginata come devota seguace di Venere. 33 che presiede… lari: che (soggetto è il simolacro) domina marmoreo nelle tue stanze più nascoste. I Lari, divinità protettrici della casa, erano conservati nella parte più interna della dimora; qui si allude alla camera da letto. 34 ove... appari: dove a me soltanto appari sacerdotessa (cioè concedi il tuo amore),

La letteratura come autoritratto

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regina fu, Citera 80 e Cipro ove perpetua odora primavera regnò beata35, e l’isole che col selvoso dorso rompono agli euri e al grande Ionio il corso36. Ebbi in quel mar la culla, ivi erra ignudo spirito di Faon la fanciulla37, e se il notturno zeffiro38 blando39 sui flutti spira 90 suonano i liti un lamentar di lira: 85

ond’io, pien del nativo aer sacro40, su l’Itala grave cetra derivo per te le corde eolie41, 95 e avrai divina i voti fra gl’inni miei delle insubri nipoti42. IMMAGINE INTERATTIVA

Angelica Kauffmann, Sibilla che legge, olio su tela, 1780-1785 (Torino, Galleria Sabauda).

35 regina... beata: felice regnò su Citera e Cipro, dove in eterno c’è profumo di fiori primaverili. Il regno di Venere è descritto come un luogo di eterna primavera (come ad esempio appare nelle Stanze di Poliziano). Foscolo lega così la stagione primaverile, in cui Antonietta torna alla salute e alla bellezza, all’eterna primavera del mito di Venere. 36 l’isole... corso: sulle isole selvose che con le loro pendici rompono il corso ai venti euri e alle onde del mar Ionio. L’accenno alle isole Ionie, fra le quali è Zacinto, luogo di nascita del poeta (v. 85: Ebbi in

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quel mar la culla), prepara la dichiarazione di poetica conclusiva dell’ode. 37 ivi erra... fanciulla: lì erra come spirito incorporeo (ignudo spirito) Saffo, amante di Faone. Secondo una leggenda tramandata dal poeta latino Ovidio, ma priva di fondamento nella realtà, la poetessa greca Saffo sarebbe morta gettandosi dalla rupe di Leucade per amore di Faone. Perciò, secondo Foscolo, quei luoghi sarebbero ancora imbevuti dello spirito dell’antica poesia greca. 38 zeffiro: vento primaverile. 39 blando: dolce, delicato.

40 pien... sacro: ispirato dal luogo natale, consacrato alla poesia.

41 su l’Itala... eolie: sulle corde dai suoni più gravi della lirica italiana (cetra indica con una metonimia la poesia), io, ispirato da te, innesto quelle della musicale poesia eolica. Qui Foscolo esprime la sua poetica neoclassica, rivolta a un ideale di armonia. 42 e avrai... nipoti: e tu, resa divina dai miei versi, sarai invocata dalle future donne lombarde. I Galli insubri abitavano anticamente la Lombardia, in cui viveva la milanese Antonietta. Gli ultimi versi chiudono l’ode con ironica leggerezza.


Analisi del testo La struttura e i contenuti dell’ode

Andrea Appiani, Josephine Bonaparte Beauharnais come Venere, olio su tela, 1796 (Collezione privata).

L’ode può essere suddivisa in due sezioni e ulteriormente scandita in quattro parti specularmente corrispondenti. La prima sequenza (vv. 1-12) introduce, sin dall’apertura dell’ode, il tema chiave della bellezza. Una raffinata similitudine paragona la rinascita e il recupero della bellezza della donna, guarita dalla malattia, all’ascesa luminosa della stella Venere sul mare, annunciando il sorgere del sole. L’espressione rugiadosi crini (v. 3), riferita ai raggi del pianeta, evoca a sua volta l’immagine della dea Venere sorgente dalle acque. Dallo sfondo elegante dei salotti milanesi, la bellezza di Antonietta si eleva e trasfigura per inscriversi nell’atmosfera eterna del mito, diventando emblema della bellezza ideale capace di confortare la vita inquieta e affannosa degli uomini («le nate a vaneggiar menti mortali»). Nella seconda sequenza (vv. 13-54) si passa dallo scenario vasto e luminoso del mare e dalla riflessione sul carattere universale della bellezza all’ambito consueto della vita di Antonietta, descritta mentre si adorna per una festa dove, con il suo fascino sensuale, attrae tutti gli sguardi, apparendo come la più affascinante delle donne mentre suona l’arpa, canta e danza. Oggetto dell’ammirazione generale, Antonietta è ornata secondo la moda classicheggiante del tempo. L’atmosfera neoclassica è accentuata dall’evocazione di altre figure del mito, le Ore e le Grazie. I vv. 52-54 segnano un passaggio argomentativo fortemente rilevato, come una cerniera tra la prima e la seconda parte dell’ode, che ne evidenzia il nucleo tematico: il fatto che, nonostante il giovanile splendore, la bellezza di Antonietta, come tutte le cose terrene, è transitoria e fugace. La parola chiave mortale apre la terza sequenza (vv. 55-84), sottolineando per contrasto il ruolo della poesia eternatrice, che permette di vincere la caducità delle cose umane, consegnandole all’eternità. Foscolo esemplifica tale valore della poesia immaginando che le dee Diana, Bellona e Venere fossero state in origine donne mortali, poi divinizzate e rese eterne dalla poesia. L’ultima sequenza dell’ode (vv. 85-96), con un andamento circolare, torna allo scenario iniziale delle distese marine, ma alla figura della donna subentra quella dell’autore: nato in un’isola del mar Ionio, presso cui nacque Venere, e ispirato dai versi dell’antica poetessa Saffo, che ancora sembrano aleggiare in quei luoghi con la loro eterna armonia, si propone di innestare sulle note più gravi della poesia italiana quelle più leggere e armoniose dell’antica lirica greca. Grazie al poeta e ai suoi versi anche la donna amata potrà vincere il tempo e la morte. L’ode si chiude così con una dichiarazione di poetica prettamente neoclassica.

Un’ode neoclassica La lirica può essere considerata un perfetto esempio di poesia neoclassica. In primo luogo per i temi: il tema del “bello ideale”, ispirato al Neoclassicismo di Winckelmann, che innalza chi lo contempla a una sfera più elevata rispetto alla vita quotidiana, un tema sottolineato dalle parole chiave (beltà, v. 9; aurea beltate, v. 10) e la concezione della poesia eternatrice, di origine classica. Sono inoltre numerose le figure del mito evocate nell’ode: dalle Grazie e le Ore, a Venere (che la donna onora particolarmente, cingendo la sua effigie di mirto), Diana e Bellona. Ma, soprattutto, neoclassiche sono le scelte stilistiche che conferiscono unità all’opera: una lingua poetica intarsiata di termini di registro elevato, con molti latinismi (dive, egro talamo, inclito studio); anche il movimento sintattico dei periodi, pur nitidi e armoniosi, caratterizzato dal frequente ricorso all’iperbato («le nate a vaneggiar menti mortali»), è latineggiante.

La letteratura come autoritratto

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Il rapporto tra poesia e pittura Gli ornamenti di Antonietta si ispirano alla moda neoclassica del tempo: i gioielli con incise immagini mitologiche, le calzature leggere (classicamente coturni), la veste di foggia greca che mette in risalto le forme perfette del corpo e l’arpa erano oggetti consueti per le donne eleganti dell’epoca. Come ricorda il critico Mario Praz, «Grazie e Amori eran familiari presenze nelle camere d’una dama del Primo Impero non meno che in quelle d’una donna romana o pompeiana». Tra le aristocratiche e le intellettuali del periodo, tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, sono di gran moda i ritratti di donne con l’arpa e con la lira (perché musiciste e poetesse), vestite secondo la foggia neoclassica e raffigurate in un’ambientazione che le allontana dalla loro epoca per collocarle in uno scenario ideale e remoto.

Jacques-Louis David, Ritratto di Juliette Récamier (particolare), olio su tela, 1800 (Parigi, Museo del Louvre).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi delle due ultime strofe; poi spiega che tipo di rapporto c’è tra Foscolo e la poesia classica. COMPRENSIONE 2. Quale idea della bellezza emerge nell’ode? Quali sono gli effetti suscitati? Qual è la funzione che Foscolo attribuisce alla bellezza? ANALISI 3. Individua i passi in cui si riscontrano riferimenti a Venere e spiega come in ciascuno la dea della bellezza sia messa in rapporto con Antonietta. 4. Indica i passi dell’ode in cui sono presenti riferimenti alle divinità mitologiche delle Ore e illustrane il significato. STILE 5. Riporta in uno schema gli elementi neoclassici dell’ode di Foscolo.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

SCRITTURA 6. In un testo di max 15 righe, spiega come nella lirica vengano sviluppati questi temi: a. il tema della bellezza consolatrice; b. il tema della poesia eternatrice; c. il tema del recupero della mitologia. 7. Quale valore attribuisci alla bellezza? Ti senti costretto a uniformarti ai canoni estetici seguiti dai tuoi coetanei o ti senti libero di esprimere te stesso? ESPOSIZIONE ORALE 8. Secondo la tendenza del Neoclassicismo propria dell’ambiente milanese del tempo di Foscolo (che in campo artistico si riscontra, ad esempio, nella pittura di Appiani), l’ode non suggerisce un’idea di staticità, ma al contrario di movimento armonioso. Indica i passi dell’ode in cui si riscontra un senso dinamico e prova a individuare la ragione di tale caratteristica. Esponi il risultato delle tue riflessioni in un intervento orale di circa tre minuti.

144 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Ugo Foscolo

T15

Alla sera Sonetti

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

AUDIOLETTURA

ANALISI INTERATTIVA

Alla sera, composto tra il 1802 e il 1803, occupa il primo posto tra i sonetti di Foscolo ed assume perciò un carattere proemiale per l’intera raccolta. Il tema fondamentale è la predilezione del poeta per la sera, che dà tregua alle inquietudini della vita e riflette il profondo dell’anima.

Forse perché della fatal quïete1 tu sei l’immago2 a me sì cara vieni3 o Sera! E quando ti corteggian liete 4 le nubi estive e i zeffiri sereni4, e quando dal nevoso aere inquïete tenebre e lunghe all’universo meni5 sempre scendi invocata6, e le secrete 8 vie del mio cor soavemente tieni7. Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme che vanno al nulla eterno8; e intanto fugge 11 questo reo tempo9, e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge10; e mentre io guardo la tua pace, dorme 14 quello spirto guerrier ch’entro mi rugge11.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD

1 fatal quïete: la pace destinata a tutti gli uomini, cioè la morte; la dieresi prolunga il suono di quïete. 2 immago: immagine. La parola latina, con il suo più vasto spettro semantico rispetto alla traduzione italiana (in latino imago si riferisce alle maschere funebri degli antenati e alle apparizioni illusorie, come spettri e fantasmi), conferisce un senso di mistero. 3 a me... vieni: giungi a me così gradita. 4 E quando... sereni: sia quando ti accompagnano come in un corteo le nubi estive e gli zeffiri (i venti primaverili) che rasserenano il cielo. L’immagine del corteo suggerisce l’idea di una personificazione della sera di tipo classico. 5 e quando... meni: sia quando dall’aria nevosa rechi all’universo lunghe ore di tenebra che provocano inquietudine. L’aggettivo inquïete, sottolineato dall’enjambement, viene trasferito dallo stato d’animo alle tenebre della sera, a sottolineare il legame fra spazio esterno e interiorità. L’iperbato (inquïete tenebre

e lunghe) sottolinea il prolungarsi della sera invernale. 6 scendi invocata: soggetto è la Sera del v. 3. 7 secrete... tieni: percorri dolcemente le strade più profonde del mio cuore. 8 Vagar... eterno: mi induci a vagare con la mente attraverso pensieri che portano all’infinito nulla. L’espressione nulla eterno evidenzia la concezione materialistica di Foscolo per cui dopo la morte c’è il nulla, secondo la concezione epicurea di Lucrezio, letto e studiato dall’autore nel periodo in cui componeva il sonetto. 9 reo tempo: tempo triste, negativo. Il tempo è negativo sul piano personale, perché porta affanni e sofferenze, e sul piano storico, per le condizioni politiche dell’Italia. 10 torme... strugge: le schiere degli affanni con cui (il tempo) si consuma per me. 11 dorme... rugge: trova requie l’inquietudine che mi tormenta dentro. Lo spirto guerrier è l’animo tormentato da passioni e in contrasto con il mondo. Le allitterazioni in r, producendo un effetto di fremito e di vibrazione, sottolineano la violenza delle passioni, evidenziata anche dal verbo rugge.

Antonio Canova, Figura pensosa, matita su carta, 1798.

La letteratura come autoritratto

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Analisi del testo Tra materialismo illuministico e sensibilità romantica Il sonetto, dedicato a una intensa meditazione sulla vita e sulla morte, si fonda su una premessa materialistica: l’espressione nulla eterno (v. 10), infatti, allude all’idea che dopo la morte non vi sia una sopravvivenza dell’anima. A partire da tale premessa, di derivazione epicurea e illuministica, il componimento dà però espressione a una sensibilità già romantica: proprio dinnanzi alla sera, vista come immagine della morte e dell’annullamento dell’essere, il poeta trova requie e serenità, per il placarsi degli affanni e delle inquietudini che contristano l’esistenza. Romantici (o, più propriamente, preromantici) sono il tema notturno e l’immagine della natura come specchio dell’anima, così come l’autoritratto del poeta, connotato dall’inquietudine, dalla passionalità, dal conflitto con il mondo. Pure romantico è il desiderio di evasione, tanto più in quanto si riferisce a un tempo e uno spazio interiori, infinitamente più vasti di quelli, limitati, del mondo esterno. Si tratta di temi per molti aspetti affini a quelli dell’Ortis; solo non presentati, però, con l’appassionata immediatezza del romanzo, ma guardati invece come da un’immensa distanza, che relativizza e placa inquietudini e passioni.

La compresenza armonica di elementi classici e romantici Questo complesso stato d’animo, insieme appassionato e contemplativo, trova perfetta espressione nello stile del sonetto, che armonizza elementi classici (che conferiscono pacatezza e armonia) e romantici, passionali. Se il ritmo, variato e mosso per i numerosi enjambement, asseconda il flusso mobile e vario dei sentimenti, il rasserenarsi dell’inquietudine in armoniosa compostezza è messo in rilievo da parole chiave poste alla fine dei versi: ad esempio dorme riferito allo spirto guerrier (vv. 13-14) e fugge riferito al reo tempo (vv. 10-11), che indicano il dissolversi degli affanni nella pace della sera. La componente classica dello stile è ben presente nel lessico, nobilitato dai frequenti latinismi (immago, reo, cure, meco), e nella sintassi latineggiante, caratterizzata dalla frequenza di iperbati. Richiama la poesia classica anche la personificazione della sera estiva (o Sera, v. 3), circondata dalle nubi e dai venti zeffiri come in un festoso corteo.

La struttura e la forma del sonetto: le quartine Il sonetto può essere suddiviso in due parti (che rappresentano due movimenti interiori), coincidente l’una con le quartine (vv. 1-8), l’altra con le terzine (vv. 9-14). La prima parte ha carattere descrittivo ed è dedicata alla consonanza della sera con l’animo del poeta, sia che appaia come sera estiva, immagine di uno stato d’animo lieto e sereno, sia come cupa e nevosa sera invernale, specchio di un’inquietudine romantica. Forse, con cui il sonetto si apre, sottolinea come l’affinità dell’animo del poeta con la sera, immagine della morte e dell’annullarsi di ogni cosa, sia percepita come un sentimento oscuro e indeterminato, che la ragione non giunge a chiarire fino in fondo. Il lessico evoca un senso di pacatezza e armonia: la morte è indicata come fatal quïete, un’espressione priva di connotazioni funeree che, attraverso il ritmo rallentato dalla dieresi sulla parola in rima, suggerisce un’idea di tranquillità e di pace, di serena accettazione del destino (la quïete della morte è definita fatal). Il carattere descrittivo delle quartine è evidenziato dal risalto che vi assumono gli aggettivi, sia per il numero (10 contro i 3 delle terzine), sia per la frequente posizione in rima (4 degli 8 versi terminano con un aggettivo), sia per gli enjambement che, isolando l’attributo alla fine del verso, ne ampliano la risonanza, come accade, in particolare, per gli enjambement dei vv. 5-6 (inquïete / tenebre) e 7-8 (secrete / vie).

Il dinamismo interiore delle terzine Come evidenzia il critico Pierantonio Frare, se le quartine sono dominate da un movimento “centripeto”, rivolto verso l’io poetico, come se la sera discendesse verso di lui, all’opposto, nella seconda parte, le terzine sono connotate da un movimento “centrifugo”, di allontanamento dagli affanni della vita quotidiana (questo reo tempo), per rivolgersi verso uno spazio

146 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Joseph Wright of Derby, Dovedale by Moonlight, olio su tela, 1785 ca. (Houston, Museum of Fine Arts).

interiore, eterno, infinito (il nulla eterno), rasserenante, che lenisce i conflitti e allontana le angosce della vita. Così il reo tempo si vanifica nel nulla eterno e lo spirto guerrier si placa nella calma della sera. La condizione d’animo mossa e inquieta delle terzine è sottolineata dall’elevato numero di verbi (8 contro i 6 delle quartine), in gran parte di movimento, fra cui Vagar, parola chiave che apre questa seconda parte del sonetto.

Il livello fonico e ritmico Il contrasto fra passionalità e contemplazione trova espressione in tutto il sonetto anche a livello fonico: si alternano suoni vibranti (ad esempio negli ultimi due versi, in cui l’allitterazione di r, come un fremito, sottolinea la passionalità dell’io), vocalismi cupi (la ripetizione della vocale u ai vv. 5-6) e suoni dolci, soavi, predominanti in particolare nella prima quartina. Il contrasto fra il tempo esterno e quello interiore è poi evidenziato dalla cesura del v. 10 (la pausa è particolarmente prolungata perché fra vocali). Il sonetto evidenzia così la novità della poesia di Foscolo: la passione romantica, trascesa però in una dimensione armoniosa e contemplativa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1 Quali sono i sentimenti espressi nel sonetto? 2. Spiega perché il poeta ritiene che la sera sia il momento della giornata a lui più congeniale. Quale significato simbolico riveste la sera per Foscolo? ANALISI 3. Il sonetto è costruito come un’apostrofe alla sera. Quali effetti determina tale scelta? 4. Individua le parole chiave del sonetto, spiegando i motivi della scelta. LESSICO 5. Per indicare che la sera è un’immagine della morte, Foscolo utilizza il latinismo immago (in latino: imago). Quali sono, a tuo parere, i motivi di tale scelta lessicale? STILE 6. Analizza l’iperbato ai vv. 5-6. Che effetto tende a suscitare? Come influisce sul ritmo dei versi? 7. Nelle quartine vi è una prevalenza di vocali aperte (a, e), mentre nelle terzine prevalgono le vocali chiuse (o, u): qual è l’effetto prodotto sul tono dei versi? 8. Rileva gli enjambements presenti nel sonetto: quale effetto hanno sulla struttura e sul ritmo del sonetto? Si può affermare che essi pongano in rilievo alcune immagini o situazioni? Se sì, quali?

Interpretare

SCRITTURA 9. Il sonetto pone a confronto due aspetti del tempo: quello esteriore e quello interiore della coscienza. In un testo di max 10 righe spiega come si sviluppa tale confronto e a quale ambito culturale può essere ricondotto. ESPOSIZIONE ORALE 10. Attraverso il sonetto, Foscolo traccia un complesso e articolato ritratto di sé. Quali elementi psicologici lo caratterizzano? Quali rapporti puoi individuare con il ritratto dell’Ortis? In un intervento orale di circa tre minuti, esponi il risultato delle tue riflessioni.

La letteratura come autoritratto

2 147


Ugo Foscolo

T16

A Zacinto Sonetti

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

ANALISI INTERATTIVA

Composto tra il 1802 e il 1803, il sonetto – uno dei più celebri dell’autore – rievoca l’isola in cui Foscolo nacque, Zante, chiamata classicamente Zacinto. Dal ricordo della propria infanzia il poeta risale a un passato mitico, la cui compiutezza e armonia è in contrasto con la propria angosciosa condizione di sradicamento.

Né più mai toccherò le sacre sponde1 ove il mio corpo fanciulletto giacque2, Zacinto mia3, che te specchi nell’onde 4 del greco mar da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso4, onde non tacque le tue limpide nubi e le tue fronde 8 l’inclito verso di colui che l’acque cantò fatali5, ed il diverso esiglio6 per cui bello di fama e di sventura 11 baciò la sua petrosa Itaca Ulisse7. Tu8 non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra9; a noi prescrisse 14 il fato illacrimata sepoltura10.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDE CED

1 Né più... sponde: non potrò mai più raggiungere le sacre sponde (dell’isola di Zacinto). L’anastrofe di Né più mai rallenta il ritmo, accentuando il senso di lontananza dell’isola; l’aggettivo sacre ha diverse connotazioni: si riferisce al mito (Venere nacque presso l’isola), ma anche alla sacralità della patria e del luogo di nascita e dell’infanzia. 2 ove... giacque: dove fui fanciullo; ma il verbo giacere evoca la primissima infanzia e il bambino disteso nella culla. 3 Zacinto mia: l’apostrofe (figura frequente nelle poesie di Foscolo) sottolinea quanto l’isola natale sia viva nell’immaginazione del poeta. 4 te specchi... sorriso: ti rispecchi nelle

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acque del mar Ionio, da cui, come giovane fanciulla, nacque Venere e, al suo primo apparire, con la sua bellezza e il suo sorriso, rese splendide le isole greche per la fecondità della vegetazione. Il poeta richiama il mito della nascita di Venere dalle spume del mare presso l’isola di Citera e, rifacendosi all’immagine di Venere nel De rerum natura di Lucrezio, la rappresenta come dea della bellezza e della fecondità della natura. 5 onde... fatali: ragione per cui cantò la bellezza del tuo cielo riflesso nel limpido mare, e le tue fronde verdeggianti, l’illustre (inclito) verso del poeta (Omero) che cantò i viaggi per mare (l’acque) voluti dal fato (fatali). 6 il diverso esiglio: il viaggio errante in diverse direzioni, lontano dalla patria. L’aggettivo diverso ha il senso del latino

diversus “in varie direzioni”. Il sintagma ricalca un’espressione virgiliana, diversa exilia (Eneide III, 4). 7 bello... Ulisse: Ulisse, nobilitato dalla fama e dalle sventure, riuscì infine a tornare a Itaca e baciò la terra della sua isola (per l’amore che lo legava a essa). 8 Tu: si rivolge ancora a Zacinto. 9 non altro... mia terra: sarai soltanto ricordata nei versi del poeta. A differenza di Ulisse, Foscolo non potrà tornare nella sua terra natale; vi tornerà soltanto con il pensiero e la poesia. 10 a noi... sepoltura: il fato ha riservato a noi una sepoltura in una terra lontana (illacrimata: priva del compianto dei familiari). Il plurale noi include il poeta nella categoria degli eroi romantici, segnati da un destino avverso e dall’esilio.


Analisi del testo L’impossibile ritorno e il paradiso perduto delle origini Il sonetto esprime il rimpianto del poeta in esilio per Zacinto, luogo dell’infanzia e patria perduta, e si incentra sulla contrapposizione tra il passato, dimensione dell’infanzia e del mito, ricco di vitalità e armonia, e il futuro, angoscioso e privo di speranza. La contrapposizione è evidenziata dalla struttura della poesia, divisa in due parti disuguali: la prima, costituita dalle quartine e dalla prima terzina, dall’andamento fluido e mosso, riferita al passato, personale e mitico, si estende ininterrottamente per ben 11 versi, travalicando la consueta scansione metrico-sintattica tra quartine e terzine; la seconda, scarna e asciutta, intimamente desolata, coincide con la seconda terzina. L’impossibilità del ritorno è già fortemente sottolineata dalle tre negazioni iniziali (Né più mai), che imprimono al verso un andamento rallentato e scandito. Il verbo toccherò e il termine sponde sottolineano il confine invalicabile fra terra e mare; l’aggettivo sacre, collocando il luogo in una sfera mitica, ne ribadisce ulteriormente l’irraggiungibilità.

Zacinto e il mare greco, luogo del mito Dal tempo dell’infanzia il sonetto risale all’universo primigenio del mito, connotato da immagini di armonia e vitalità, legate alla nascita di Venere, dea della bellezza, ma anche – con suggestione lucreziana – forza generatrice della natura. «Zacinto è il centro luminoso di una scena sempre più vasta: prima la vediamo specchiarsi nel mare, poi la scorgiamo circondata da isole ridenti di bellezza e di fecondità, e mentre il poeta, in un verso magico, ce la rivela tutta in un cielo ampio e aerato (“le tue limpide nubi e le tue fronde”), ci suggerisce intorno a lei il Mediterraneo tutto, per cui errante Ulisse tende alla sua Itaca» (Fubini). La suggestiva evocazione di un vasto spazio marino, a cui fanno riferimento i numerosi termini riferiti al campo semantico del mare (in particolare le parole in rima dei vv. 1-8, tutte terminanti in -acque e in -onde; e l’aggettivo limpide riferito alle nubi, ma per il significato associato all’acqua, le fa immaginare rispecchiate nel mare) è enfatizzata dal ritmo ampio dei versi, legati da numerosi enjambements, e dalla struttura sintattica, in cui le relative sono inserite una nell’altra come cerchi concentrici.

Il tema autobiografico e il contrasto tra epoca classica e moderna Il tema autobiografico si sviluppa attraverso un confronto con due figure dell’antichità: Ulisse e il poeta Omero; confronto che sottolinea la differenza tra il passato e l’epoca moderna: Ulisse, eroe classico, pur dopo un lungo vagare nelle acque del Mediterraneo, torna all’isola natale; il poeta, invece, simbolo dell’eroe romantico (il noi del v. 13 lo include in una più vasta categoria esistenziale), non può giungere alla meta desiderata. Analogo è il confronto tra i due poeti, Foscolo e Omero. Omero è cantore di un mondo con cui l’uomo è in armonia, mentre per il poeta romantico la poesia risarcisce di ciò che la realtà non può più offrire («Tu non altro che il canto avrai del figlio», v. 12). Il contrasto tra l’armonioso passato mitico e lo squallido presente è evidenziato dalla differenza stilistica tra le due parti del sonetto: al ritmo ampio, caratterizzato da numerosi enjambement della prima parte, subentra nell’ultima terzina un ritmo spezzato, con frasi brevi, recise e lapidarie; alle immagini di vitalità, bellezza e armonia si sostituisce la tomba illacrimata; all’ampiezza temporale di un passato risalente alle origini mitiche subentra un futuro privo di speranza; ai termini relativi al campo semantico della vitalità si oppone, nella seconda terzina, una scelta lessicale di negazioni e immagini di morte «tu non altro…» e l’aggettivo illacrimata, cioè “priva di lacrime”, “non compianta”), che culmina nella parola chiave sepoltura.

La struttura “circolare” e le corrispondenze interne del sonetto Le due sezioni si armonizzano però nella struttura circolare del sonetto, evidenziata dagli unici due futuri (toccherò, v. 1; avrai, v. 12), uno in incipit, l’altro in explicit, che sottolineano l’impossibilità del ritorno a Zacinto e il ricordo dell’isola natale attraverso la poesia. Un’altra corrispondenza lega le apostrofi del v. 3 «Zacinto mia» e del v. 13 «o materna mia terra», sottolineando l’immagine della terra madre, datrice di vita, ma che non può accogliere nella morte il corpo del poeta in esilio.

La letteratura come autoritratto

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La lontananza da Zacinto: il sistema simbolico del sonetto Nel sonetto l’isola, rappresentata come infinitamente distante, costituisce un crocevia simbolico in cui convergono le complesse significazioni del testo. Una prima causa di lontananza è biografica: Foscolo, esiliato dal territorio veneziano a causa del trattato di Campoformio, affida al sonetto la testimonianza del suo sradicamento. Un secondo elemento, meno noto e messo in luce dal critico Arnaldo Di Benedetto, è legato agli scenari geopolitici dell’epoca napoleonica: Zacinto e altre isole veneziane dello Ionio, tolte a Venezia in seguito al trattato, proprio nel 1802 (anno in cui Foscolo scrive il sonetto), dopo un iniziale periodo di indipendenza, persero la libertà (e divennero difficilmente raggiungibili per il poeta), essendo state poste sotto il dominio inglese. Alla distanza dell’isola dovuta alle circostanze biografiche e storiche si sovrappone quella culturale, in quanto essa viene vista anche come emblema dell’immaginario classico (il mito, la natura, le origini), contrapposto a quello romantico (il desiderio inappagato, l’esilio, la tomba). Il sonetto può essere anche letto in senso antropologico, come contrapposizione tra gli archetipi dell’acqua, simbolo di vita e di fecondità, e della terra, emblema di aridità e desolazione (nel Novecento il poeta Thomas Stearns Eliot [1888-1965] costruirà su tale opposizione simbolica il suo capolavoro, La terra desolata). Gli archetipi, elemento della psicologia analitica di Jung (1875-1961) offrono un’ulteriore chiave di lettura del tema della lontananza dall’isola, suggerendo una lettura psicoanalitica della poesia: dietro all’impossibile ritorno alla terra materna si celerebbe il desiderio inconscio di una regressione alla fusione originaria con la madre; una chiave simbolica a cui rinvierebbe la stessa figura di Venere, raffigurata dal poeta come vivificatrice del mondo naturale e quindi come dea madre («fea quelle isole feconde», v. 5).

L’isola di Zante in una litografia di Edward Lear (1848).

150 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa accomuna o distingue Foscolo da Ulisse e Foscolo da Omero? 2. Quali sono i momenti della vita dell’autore toccati nella poesia? ANALISI 3. Completa la tabella, illustrando gli aspetti associati alle figure di Zacinto, Venere, Omero e Ulisse. Figure

Significato simbolico

Zacinto

Terra natale, terra “madre” del poeta. Paradiso perduto della poesia classica…

Suggerisce il ricordo di…

Perché?

Venere

Venere

LESSICO 4. Riporta i termini presenti nel sonetto relativi al campo semantico dell’acqua e della fecondità, e quelli relativi all’aridità. Collega poi i due campi semantici ai temi della poesia. STILE 5. Analizza il sonetto dal punto di vista sintattico e cerca di rispondere a queste domande: a. Esiste coincidenza tra struttura sintattica e struttura strofica? Perché? b. Quanti blocchi sintattici ci sono? Individuali. c. Quale effetto hanno sulla struttura e il ritmo del sonetto gli enjambements? 6. Per quali aspetti la struttura del sonetto può essere definita “circolare”? 7. Indica le figure retoriche del sonetto, evidenziandone gli effetti.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. Confronta il sonetto con In morte del fratello Giovanni (➜ T17 ), evidenziandone questi aspetti: a. interlocutore dell’io poetico; b. figura materna; c. tema dell’esilio; d. tema della tomba. SCRITTURA 9. Rivolgendosi con il sonetto alla sua terra natale, Foscolo rievoca e crea l’ambiente entro cui la sua arte si rivelò. In un passo della lettera del 29 settembre 1808 così il poeta ricorda la sua culla: «Fin che sarò memore di me stesso non oblierò mai che nacqui da madre greca, che fui allattato da greca nutrice, e che vidi il primo raggio di sole nella chiara e selvosa Zacinto, risonante ancora de’ versi con che Omero e Teocrito la celebravano». Spiega in un breve testo (max 15 righe) perché si può affermare che il Classicismo foscoliano abbia una profonda connotazione autobiografica.

La letteratura come autoritratto

2 151


Collabora all’analisi

T17

Ugo Foscolo

In morte del fratello Giovanni Sonetti

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

Il sonetto, composto tra la primavera e l’estate del 1803, è l’ultimo dei sonetti scritti da Foscolo. Il poeta esprime il suo dolore per la morte del giovane fratello, tanto più cocente per la propria condizione di esule da Venezia, che non gli consente neppure di visitarne la tomba. Solo la madre, sulla tomba del fratello, può ricomporre in qualche modo la famiglia disgregata. Unica speranza che resta al poeta nel futuro è che il suo corpo sia restituito, come quello di Giovanni, all’affetto della madre. Giovanni Dionigi, fratello minore di Foscolo, anch’egli militare nell’esercito napoleonico, era morto a vent’anni, nel 1801, suicida per debiti di gioco.

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente1, me vedrai seduto su la tua pietra2, o fratel mio, gemendo 4 il fior de’ tuoi gentili anni caduto3. La Madre or sol suo dì tardo traendo4 parla di me col tuo cenere muto5, ma io deluse a voi le palme tendo6 8 e sol da lunge i miei tetti saluto7. Sento gli avversi numi, e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta8, 11 e prego anch’io nel tuo porto quïete9. Questo di tanta speme oggi mi resta10! Straniere genti, almen le ossa rendete 14 allora al petto della madre mesta11.

La metrica Sonetto con schema ABAB ABAB CDC DCD 1 Un dì... gente: un giorno, se non sarò sempre in fuga, spostandomi da un luogo all’altro. Foscolo si riferisce alla sua vita errabonda di esiliato, dopo aver abbandonato Venezia, ceduta agli austriaci con il trattato di Campoformio. 2 su la tua pietra: sulla tua tomba. La metonimia sottolinea la fredda durezza del sepolcro. 3 gemendo... caduto: piangendo la tua giovinezza stroncata nel fiore degli anni. 4 La Madre... traendo: ora soltanto la madre, trascinando a fatica le sua stanca vecchiaia.

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5 col... muto: con le tue spoglie, che non possono risponderle. L’espressione cenere muto ricalca l’espressione mutam… cinerem di Catullo e sottolinea l’assenza di speranza in una vita ultraterrena, analoga a quella del poeta latino. 6 deluse... tendo: protendo invano (deluse) a voi le braccia (le palme, la parte per il tutto). Il gesto sottolinea la lontananza ed evoca il mancato abbraccio di Enea al padre Anchise, nel VI libro dell’Eneide. 7 sol... saluto: solo da lontano posso salutare la mia casa (i miei tetti). In quel periodo Foscolo era infatti a Milano e, a causa della situazione politica, non gli era concesso tornare a Venezia, dove il fratello era sepolto.

8 Sento... tempesta: sento gli stessi dèi nemici e le stesse angosce che hanno tormentato la tua vita. 9 prego... quïete: aspiro anch’io a trovare pace nella morte. Il poeta sottolinea come, per quanto sia fisicamente lontano dalla tomba del fratello, gli è vicino perché prova le sue stesse afflizioni. La metafora della vita come tempesta evoca quella della morte come porto. 10 Questo... resta: questo mi resta delle tante speranze della giovinezza. 11 Straniere... mesta: il sonetto si conclude con la preghiera del poeta di restituire le proprie spoglie alla madre, se fosse morto lontano da Venezia.


Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il sonetto è incentrato sulla sofferenza per la morte del fratello e sull’impossibilità di recarsi sulla sua tomba, poiché il poeta è in esilio dallo stato veneziano. Si focalizza su tre figure: il fratello, la madre e il poeta, il cui autoritratto, speculare a quello di Giovanni, è fortemente connotato in senso romantico (la mancanza di radici che lo costringe a fuggire «di gente in gente», l’esilio, la delusione esistenziale [v. 12], il desiderio di pace nella morte). Una lettera di Ugo a Vincenzo Monti ne dà testimonianza: «La morte dell’infelicissimo mio fratello ha esulcerato tutte le mie piaghe: tanto più ch’ei morì d’una malinconia lenta, ostinata, che non lo lasciò né mangiare né parlare per quarantasei giorni. Io figuro i martirj di quel giovinetto e lo stato doloroso della nostra povera madre fra le cui braccia spirò. Ma io temo che egli stanco della vita siasi avvelenato, e mia sorella mi conferma in quest’opinione. La morte sola finalmente poté decidere della battaglia che le sue grandi virtù, e i suoi grandi vizj manteneano da gran tempo in quel cuore di fuoco». 1. Quale ritratto del fratello ne emerge? 2. Qual è invece il ritratto del poeta? In che cosa è accomunato al fratello? Anche questo testo foscoliano rivela una sensibilità romantica trasposta in forme classiche, come evidenziano i latinismi (cure, speme). Un altro elemento classico è la ripresa di un celebre carme di Catullo, in cui il poeta latino, sulla tomba del fratello nella Troade, scrive di «aver parlato invano alla sua cenere che non risponde» («mutam nequiquam alloquerer cinerem»). Il sonetto foscoliano è accomunato al carme catulliano da un’analoga concezione materialistica, priva della speranza cristiana nella sopravvivenza dell’anima (ne è spia la ripresa dell’espressione di Catullo al v. 6: cenere muto), ma è nello stesso tempo pervaso da una moderna sensibilità romantica. Alla lontananza fisica (il poeta, diversamente da Catullo, non può raggiungere la tomba del fratello) si contrappone un’affinità spirituale. Il poeta condivide il destino sfortunato del fratello (gli avversi numi, v. 9), la disperazione («le secrete / cure che al viver tuo furon tempesta», vv. 9-10) e il desiderio di morte («prego anch’io nel tuo porto quïete», v. 11): temi romantici, estranei al carme di Catullo. 3. Individua i termini di origine classica. 4. Individua le parole chiave che evidenziano una sensibilità romantica. A legare i due fratelli nel sonetto foscoliano, in una sorta di figura triangolare, è la madre, simbolo delle radici familiari, che ricorre in tre diverse immagini: mentre parla di Ugo col cenere muto del fratello, quasi a voler prolungare il momento in cui la famiglia era unita; mentre il poeta tende vanamente le braccia verso di lei e verso la tomba del fratello, lontani e irraggiungibili (v. 8), con un’immagine che ricorda l’impossibile abbraccio nell’Ade di Enea e dell’ombra di Anchise (Eneide, l. VI). L’ultima raffigurazione della madre è affidata a un ipotetico e incerto futuro, quando il poeta, immaginando di morire lontano da lei, prega che almeno le proprie ossa le siano restituite. 5. Quali effetti produce, a tuo parere, l’allitterazione del v. 5: «suo dì tardo traendo», riferita alla madre? 6. Descrivi la figura della madre, quale appare nell’insieme del sonetto; presta attenzione anche agli aggettivi che le sono attribuiti. Perché, a tuo parere, il poeta le conferisce un’importanza così centrale nel sonetto dedicato al fratello? 7. Nel sonetto Foscolo mette in rilievo i legami fra sé, il fratello e la madre. Evidenziali, presentando gli opportuni riferimenti testuali. Il sonetto, diversamente da Alla sera e da A Zacinto, ha una struttura classicamente ordinata, in cui i periodi sintattici corrispondono a quelli metrici e ognuna delle quartine e delle terzine si chiude con il punto fermo. 8. Che effetto produce, a tuo giudizio, tale rigorosa scansione metrica? 9. Sintetizza il tema centrale di ciascuna delle quattro parti del sonetto, evidenziando per ciascuna una parola chiave.

La letteratura come autoritratto

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Interpretare

10. Confronta il sonetto di Foscolo con il carme CI di Catullo, evidenziando analogie e differenze.

5

10

Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias, ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam alloquerer cinerem, quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum, heu miser indigne frater adempte mihi. Nunc tamen interea haec prisco quae more parentum tradita sunt tristi munere ad inferias, accipe fraterno multu manantia fletu, atque in perpetuum, frater, ave atque vale. Varcando tanti mari, passando per tanti popoli giungo fratello alla tua tomba amara, a portarti l’ultimo dono, un’offerta di morte, a parlare alla tua cenere che non risponde, perché il destino mi ti ha preso, ha preso proprio te, mio povero fratello, tu che non meritavi. E anch’io così, come sempre usarono i padri, reco le stesse offerte alle tue esequie, tu accettale, così grondanti di pianto fraterno; e addio, fratello amato, addio per sempre. Catullo, I canti, trad. di E. Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1982

INTERPRETAZIONI CRITICHE

11. Sintetizza in uno schema gli elementi classici e romantici del sonetto. 12. Quali correlazioni puoi istituire tra questo e gli altri sonetti foscoliani? Quali temi comuni si possono riconoscere? Quali elementi lessicali ricorrono anche in altri sonetti?

Carlo Dionisotti Foscolo esule C. Dionisotti, Foscolo esule, in Appunti sui moderni, Il Mulino, Bologna 1988

In questo passo critico Carlo Dionisotti (1908-1998) traccia un ritratto di Foscolo esule.

[…] Esule era stato sempre, fin dalla giovinezza. Già allora il mito dell’esilio gli si era inflitto nel cuore, nella prosa del romanzo e nella poesia. Ed era traboccato nel cuore, nella prosa degli Italiani, che in quel mito della fuga, dalla propria casa e terra, e dalla vita stessa, fuga selvatica, non di donne inermi né di cavalieri 5 erranti ma dei figli di Caino, avevano appreso a rifiutare e spregiare l’età presente, i lumi della natura e della civiltà moderna, primo passo sulla via del risorgimento nazionale. Quali che fossero stati i motivi occasionali, nel marzo del 1815, poco oltre il mezzo del cammino di una vita prodigalmente vissuta, il Foscolo era fuggito dall’Italia 10 inseguendo un illusorio richiamo della giovinezza, quasi volesse ricominciare

154 Ottocento 2 Ugo Foscolo


daccapo e insieme ricapitolare la propria vita a sfida della morte. Dopo la fuga, nella corrispondenza con gli amici e con la famiglia, prese a servirsi del nome, che aveva celebrato nell’Ortis, di Lorenzo Alderani, insistendo in questo trasparente e inutile travestimento durante il soggiorno svizzero. A Zurigo fra uomini di cultura 15 tedesca, non tardò ad accorgersi che la sua fame era ivi di tendenza goethiana, tutta e soltanto dovute all’Ortis. Onde la tentazione, alla quale già era predisposto, di una nuova edizione del romanzo, spacciata come l’unica corrispondente al testo originario, e accompagnata, quasi fosse un testo classico, da una lunga e frottolata1 notizia bibliografica e critica. 20 Testo più bugiardo, dal frontespizio innanzi, non esiste nella storia della letteratura italiana. Non era merce esportabile in Inghilterra tal quale, benché il frontespizio portasse la falsa data di Londra. Ma è notevole che anche a Londra, appena arrivato, il Foscolo volle pubblicare una nuova edizione dell’Ortis. Due anni più tardi, nel 1819, pubblicò senza successo l’inedita romantica tragedia Ricciarda. Nel 1822, 25 nascosti in un monumentale volume altrui, apparvero, come tradotti dal greco, alcuni frammenti delle Grazie. Ma il Foscolo poeta, che non trovava più ascolto intorno a sé, in terra straniera, neppure più trovava una sufficiente ragion d’essere in sé. Non perché gli mancasse l’ascolto, ma perché gli era mancata la forza di cercare e riconoscere la verità dell’e30 silio, quale che fosse, e di reprimere la menzogna che trovava facile ma effimero ascolto. L’esule italo- greco faceva spicco per la sua eccezionale personificazione di due lingue letterature che in quel momento erano predilette entrambe dagli Inglesi. Anche avrebbe potuto rendersi utile, ossia guadagnarsi da vivere, illustrando con articoli critici quelle due letterature. Anche avrebbe potuto semplicemente insegna35 re le due lingue, come tanti stranieri, tanti modesti e molto ricercati maestri italiani facevano. Ma Jacopo Ortis non poteva sopravvivere in figura di pedagogo. Mancò al Foscolo nella inizialmente splendida e poi gelida solitudine dell’esilio, la forza di smentire la propria anacronistica identificazione col personaggio del romanzo e di accettare la realtà di un esilio diverso. […] 1 frottolata: sconclusionata, infondata.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

1. Quali critiche muove Dionisotti al comportamento che Foscolo tenne durante il suo esilio in Inghilterra? 2. Quale immagine di Foscolo emerge dalle parole del critico? 3. Cosa intende dire Dionisotti, quando a proposito dell’Ortis dice «Testo più bugiardo, dal frontespizio innanzi, non esiste nella storia della letteratura italiana»? (rr. 20-21)

Produzione

4. La figura di Foscolo ha sempre destato sentimenti contrastanti: c’è chi lo ha denigrato e chi, al contrario, lo ha esaltato. Sulla base di quanto hai letto in merito alla sua opera e alla sua vita, quale opinione ti sei fatto dello scrittore e dell’uomo Foscolo? Elabora un testo in cui esponi le tue opinioni, sostenute da adeguate argomentazioni.

La letteratura come autoritratto

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3

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 1 Dei sepolcri: la genesi e la tipologia testuale

Antonio Canova, Studio per la stele funeraria di Vittorio Alfieri, 1803 (Bassano del Grappa, Museo Civico).

Significato e attualità dei Sepolcri Un poemetto di 295 versi intitolato “Alle tombe” a prima vista può sgomentare e apparire poco attraente per il lettore, evocando immagini tristi e funeree. La scelta di Foscolo è tuttavia consapevole: porsi nella prospettiva della morte richiede coraggio, intellettuale e morale, ma induce il lettore a riflettere su ciò che si sottrae all’annullamento, anche in assenza, come nel caso dell’autore, di una speranza religiosa di sopravvivenza ultraterrena dell’anima: sopravvivono alla nostra scomparsa i sentimenti di amore e amicizia di chi ci ha voluto bene, il ricordo e l’esempio lasciati, le opere compiute, tutto ciò che si è saputo costruire. In tale prospettiva, pensare alla morte conduce a dare un senso e un valore alla vita stessa: nel pensiero del Novecento questa riflessione si ripresenterà (in particolare, per la corrente filosofica dell’Esistenzialismo, il punto di partenza per una vita autentica è la consapevolezza della precarietà dell’esistenza umana). Un altro messaggio importante che i Sepolcri ci trasmettono riguarda l’importanza della memoria storica e culturale: nel nostro tempo, in cui vari fattori determinano un appiattimento sul presente e un abbandono della memoria, i Sepolcri fanno riflettere sul rapporto fecondo che lega il passato e il futuro. Dato il ruolo fondamentale che Foscolo attribuisce ai poeti, il capolavoro foscoliano ci ricorda quanto la cultura sia fondamentale per l’identità di una nazione e per la costruzione di un mondo “umano”. Le circostanze della composizione Tornato nel 1806 dalla Francia in Italia, a Venezia, ormai parte del Regno d’Italia napoleonico (annullati quindi gli effetti del trattato di Campoformio), Foscolo riprende a frequentare il salotto di Isabella Teotochi Albrizzi, dove partecipa a un dibattito sull’editto napoleonico di Saint-Cloud, promulgato in Francia nel 1804 e poi esteso all’Italia il 5 settembre del 1806. Ispirato a princìpi illuministici di igiene pubblica, l’editto vietava di seppellire i morti nelle chiese e imponeva che le sepolture fossero collocate fuori dall’abitato. Inoltre, per ragioni egualitarie, vietava la costruzione di monumenti funebri che differenziassero i morti e sottoponeva a rigido controllo l’apposizione di lapidi ed epigrafi. Come emerge da alcune lettere scritte da Foscolo alla nobildonna, in un primo tempo il poeta aveva assunto le parti di filosofo «indifferente», cioè materialista e laico, prendendo le difese della legge, contro il poeta Ippolito Pindemonte (1753-1828), che la contestava da

156 Ottocento 2 Ugo Foscolo


un punto di vista religioso. In seguito, tuttavia, alla luce di una riflessione più meditata, Foscolo aveva riconosciuto quanto fosse fondata la critica dell’amico all’editto: di qui nascono i Sepolcri, capolavoro dello scrittore, pubblicati a Brescia nel 1807 e dedicati proprio a Pindemonte.

Jacques Sablet, Elegia romana, olio su tela, 1791 (Brest, Museé des Beaux Arts).

All’incrocio di diversi generi I Sepolcri sono un poemetto di 295 versi (endecasillabi sciolti) che costituisce un unicum nella letteratura italiana. Per la complessa ispirazione l’opera si colloca all’incrocio di diversi generi letterari. In primo luogo i Sepolcri sono un’epistola, ossia un testo poetico indirizzato a un destinatario – qui Ippolito Pindemonte – a cui, secondo le consuetudini del genere, il poeta si rivolge nei passaggi salienti del discorso («Vero è ben, Pindemonte!», v. 16). Ma le epistole, il cui principale modello classico è quello del poeta latino Orazio, sono in genere caratterizzate da un registro colloquiale; non così i Sepolcri, definiti da Foscolo stesso anche carme, a sottolinearne il carattere alto e solenne e lo stile, che ricorda quello del poeta greco Pindaro per l’arditezza dei passaggi argomentativi. Per la centralità del tema del sepolcro, il carme foscoliano si iscrive nel genere, molto in auge, della poesia sepolcrale proto-romantica, ma Foscolo sottolinea con forza la differente ispirazione della sua opera. Nella Lettera a Guillon, rispondendo all’abate e critico francese Aimé Guillon (che aveva criticato l’opera foscoliana perché – a differenza di quella di Young e di Gray – non induceva a una meditazione cristiana sui sepolcri) Foscolo osserva che l’autore dei Sepolcri «considera i sepolcri politicamente; ed ha per iscopo di

Dei Sepolcri DATAZIONE

1807

GENERE

carme in endecasillabi sciolti

TEMI

STILE E STRUTTURA

• la tomba come centro degli affetti familiari e dei valori civili • negazione della sopravvivenza dell’anima • valore del ricordo personale ed esistenziale e della memoria storica • funzione della poesia che sfida l’opera distruttrice del tempo e perpetua il ricordo

• sublime, chiaroscuro e armonia • prevalenza delle immagini sulla struttura razionale • ricorso alle transizioni

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 157


animare l’emulazione politica degli Italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi» e si propone di «predicare non la resurrezione de’ corpi, ma delle virtù». Proprio per la forte presenza della dimensione etico-politica, i Sepolcri possono essere ricondotti anche al genere dell’orazione civile, in quanto esortano gli italiani, in particolare in una parte, ai valori di libertà, indipendenza e convivenza civile. Nell’ultima parte, dedicata alle gesta degli eroi omerici, il capolavoro foscoliano si riallaccia ai grandi modelli dell’epos (in particolare l’Iliade). Nel suo complesso, inoltre, può anche essere assimilato al genere del poema filosofico, come il De rerum natura di Lucrezio.

visione filosofica e i temi: tra Illuminismo 2 La e proto-Romanticismo La concezione foscoliana: oltre il materialismo Centro simbolico in cui si condensano tutte le tematiche del carme è il sepolcro: tradizionale simbolo di morte, nel carme foscoliano diventa al contrario simbolo di vita, la vita degli affetti, delle memorie culturali, dei grandi ideali. Sostrato filosofico del carme è la concezione materialistico-meccanicistica, che Foscolo deriva dal poeta latino Lucrezio ma soprattutto dalla cultura illuministica: la negazione dell’immortalità dell’anima e l’assenza di ogni prospettiva trascendente pervade l’intera opera e non viene mai messa in discussione sul piano razionale. Tuttavia Foscolo, che rappresenta in modo emblematico la transizione tra cultura illuministica e romantica, non è appagato dalle indiscutibili verità della ragione («vero è ben, Pindemonte!»), che non offrono alcuna risposta all’angoscia dell’uomo di fronte alla morte, ma cerca e trova una sua risposta: una risposta irrazionale (Foscolo parla infatti di illusioni e usa espressioni come pietosa insania), legata alle passioni e ai sentimenti più nobili dell’uomo, fondata sulla fede in valori laici che possono accomunare gli uomini e dare un senso alla loro vita. Sono valori perenni, capaci di istituire un ponte tra le generazioni passate, presenti e future: dall’amicizia alla compassione, dalla memoria al rispetto delle tradizioni e all’amore di patria. Una riflessione sui valori personali e collettivi I Sepolcri sono nel complesso definibili come una riflessione sui valori, «magari accettati con la coscienza della loro illusorietà, ma necessari all’uomo, al suo vivere» (Macchioni Jodi): • I valori privati e il culto della libertà Nella prima parte del carme Foscolo evoca e valorizza gli affetti personali, come l’amore, l’amicizia, la «corrispondenza d’amorosi sensi» tra vivi e defunti. Fondamentale è poi per il poeta, secondo una sensibilità già romantica, l’intensità dei sentimenti e delle passioni, associata al culto della libertà, che l'intellettuale afferma di voler trasmettere come eredità ai posteri, auspicando che la sua poesia possa essere esempio di «caldi / sensi» e di «liberal carme». Sono componenti proprie già di Alfieri, ma emergenti nella sensibilità del Romanticismo. • L’amore per la patria Valore fondamentale messo in luce dal carme è l’amore per la patria, che lega tra loro personaggi come l’ammiraglio inglese Orazio Nelson,

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morto eroicamente durante la battaglia di Trafalgar, gli antichi greci combattenti a Maratona e infine Ettore, sfortunato difensore della propria città. Un sentimento patriottico che l’autore si propone, nel ruolo di poeta vate, di suscitare negli italiani attraverso il carme, che effettivamente fu fonte di ispirazione nel Risorgimento. Foscolo inscrive il tema nel tempo lungo della storia, auspicando che dalla memoria di un glorioso passato gli italiani traggano stimolo per il futuro e ispirazione per rendere l’Italia libera e unita. Emblema di tale rapporto in cui il passato è linfa vitale per il futuro sono alcune figure centrali del carme, come quella di Vittorio Alfieri che, sdegnato per l’avvilimento del paese, trova conforto e speranza nella memoria dei grandi compatrioti sepolti in Santa Croce; Cassandra – consapevole, a differenza delle altre donne troiane, che Troia sarebbe caduta – che insegna ai giovani ad amarla e a perpetuarne la memoria; e naturalmente il poeta stesso, che in questi come in altri personaggi si rispecchia, conferendo al carme un intenso carattere autobiografico. • La compassione Va però sottolineato come nei Sepolcri il sentimento patriottico si inscriva in un più vasto orizzonte valoriale per cui, più dei greci vincitori, è celebrato lo sconfitto Ettore. Le parole di Cassandra, a conclusione del carme, mettono in luce quello che per Foscolo è il più elevato valore umano, la compassione, la solidarietà per le sventure e le sofferenze altrui: un fondamentale tema foscoliano, messo più volte in rilievo dall’autore, dalla lettera da Ventimiglia dell’Ortis, al Velo delle Grazie, alle Lezioni pavesi. • L’alta funzione della poesia Nella concezione foscoliana sintetizzata dai Sepolcri è infine da sottolineare il ruolo centrale della poesia. Non a caso le figure dei poeti, tra cui si pone lo stesso autore, segnano i momenti fondamentali del carme, accompagnandone la progressione argomentativa. Foscolo si ispira alla concezione del filosofo Vico, secondo cui la poesia, attivando l’immaginazione e il sentimento, fonda e perpetua i valori che uniscono la comunità. Nei Sepolcri perciò sono poste in primo piano le figure dei grandi poeti e le diverse funzioni della poesia: critica verso i potenti, come quella di Parini; fautrice di libertà, come quella di Alfieri e di Foscolo stesso; ma soprattutto consolatrice, eternatrice della memoria, come la poesia omerica, capace di tramandare gli ideali e i sentimenti più nobili che ci rendono umani. La prospettiva spazio-temporale Il fascino della breve e densissima opera è conferito anche dalla profondità della riflessione sul rapporto dell’uomo con il tempo, rappresentato nel carme in tutte le sue dimensioni: il tempo breve della vita individuale («per me alla terra non fecondi questa / bella d’erbe famiglia e d’animali», vv. 4-5), quello cosmico della natura, con la materia sottoposta a un incessante ciclo di trasformazioni («una forza operosa le affatica / di moto in moto», vv. 19-20), e il tempo della memoria, che si proietta oltre la durata della vita individuale e, grazie alla poesia, fino alla fine della storia dell’umanità. ... e quella spaziale Alla vastità dell’orizzonte temporale è correlato nel carme un progressivo ampliamento della dimensione spaziale: da Milano a Firenze, cuore artistico e culturale dell’Italia, si procede verso oriente fino alla Grecia di Maratona e di lì, oltre l’Egeo, alla Troade finché, nell’ultimo verso del carme, i luoghi geografici sfumano nell’orizzonte sconfinato del mito, lungo le terre circondate dal leggendario Oceano.

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VERSO IL NOVECENTO

Erri De Luca Il tema dei valori nella poesia del Duemila Valore E. De Luca, Valore, in Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino 2002

Nel periodo successivo all’Illuminismo, che aveva operato una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire l’uomo, la società e la cultura, con i Sepolcri Foscolo si propone di identificare un nuovo sistema etico per una rinnovata civiltà. Riconoscere i valori che davvero contano è un compito ancor oggi attuale per noi: in proposito, proponiamo un testo poetico dello scrittore Erri De Luca (n. 1950), dal titolo Valore.

Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano. 5 Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco. Considero valore tutte le ferite. Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, 10 provare gratitudine senza ricordare di che. Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato. Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.

INTERPRETAZIONI CRITICHE

15 Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore. Molti di questi valori non ho conosciuto.

Giovanni Getto Il tema del tempo nei Sepolcri G. Getto, La composizione dei “Sepolcri” di Ugo Foscolo, Olschki, Firenze 1977

In un suo saggio, il critico Giovanni Getto (1913-2002) sottolinea come lo spazio e il tempo abbiano un’importanza fondamentale nei Sepolcri. Proponiamo alcuni passi della sua analisi del concetto di tempo nel carme foscoliano.

Insieme alla suggestione dello spazio, nei Sepolcri ha una sua costruttiva presenza il sentimento del tempo. Fin dai primi versi il tempo interviene come tempo della morte. Il tempo si pone come tempo di totale annientamento di ogni valore della vita. In questa prospettiva, segretamente angosciosa e apertamente nostalgica, 5 si spengono una dopo l’altra le immagini luminose dell’esistenza: il sole e gli animali e le piante; le speranze e le attrattive del futuro; l’amicizia e la poesia e l’amore («Ove più il Sole / per me alla terra non fecondi...»; «e quando vaghe di

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lusinghe...»; «né da te, dolce amico, udrò più il verso...»). Il tempo diventa nel modo più categorico tempo perduto, senza possibilità di compenso alcuno: «qual 10 fia ristoro a’ dì perduti». Ma il tempo della morte non riguarda soltanto il destino individuale. Esso si estende ancora al destino del mondo. Al futuro inevitabile e minaccioso che sovrasta ogni uomo si accompagna il futuro certo e distruttore che incombe sull’esistenza delle cose e della terra tutta. Perciò al termine del primo episodio il tempo si colloca, nella sua dimensione cosmica, in posizione di forte 15 rilievo, come ultima parola dell’intero discorso poetico: «e l’uomo e le sue tombe / e l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo». Dove il polisindeto accumula una somma di realtà, anzi la realtà intera, inesorabilmente dominata dal tempo. In questo scorcio breve si assiste al trionfo del tempo, che si esercita sull’uomo, sulle cose ultime di lui, su tutto quello che è e si trasforma 20 nell’universo. [...] Un altro tempo ancora è quello della storia, un tempo di lunghe durate, di lente espansioni, di sviluppo di tradizioni e di civiltà («Dal dì che nozze e tribunali ed are…»; «Testimonianza a’ fasti eran le tombe...»; «religïon che con diversi riti / le virtù patrie e la pietà congiunta / tradussero per lungo ordine d’anni»). C’è anche 1 25 un tempo della polemica e del sarcasmo , il quale fa sì che il poeta immagini, per «il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo» un’anticipazione del tempo della morte, o meglio una sovrapposizione al tempo della vita del tempo della morte («nelle adulate reggie ha sepoltura / già vivo»). E finalmente, all’inizio dell’episodio di Santa Croce, si apre con stacco vigoroso un tempo della memoria, che evoca le 30 tre grandi «itale glorie» e l’emozione provata davanti alle loro tombe («Io quando il monumento / vidi...»); mentre verso il termine s’impenna gagliardo il tempo profetico della speranza nei destini d’Italia («Che ove speme di gloria... / quindi trarrem gli auspici»). Ma al di là di tutte queste forme del tempo, ritorna, pur sempre, dominante, il tempo della morte, individuale e cosmica, il tempo come 35 distruzione. A differenza dell’esordio però, in questo finale del carme la distruzione non appare più come irrimediabile, e il tempo non più come invincibile. Quando il tempo ritorna ad affacciarsi nel verso, insieme ad esso, e su di esso vittoriosa si afferma la certezza nella virtù eternatrice della poesia: «Siedon custodi de’ sepolcri, e quando / il tempo con sue fredde aie vi spazza / fin le rovine, le Pimplèe fan 40 lieti / di lor canto i deserti, e l’armonia / vince di mille secoli il silenzio». La scena è stupenda: come in un bassorilievo si profilano, immobili custodi delle tombe, le Muse, mentre il tempo passa annientando anche le rovine dei sepolcri: poi, in un musicale incanto, su tutto, nel deserto dello spazio e nel silenzio del tempo, si leva, miracolosamente serenatrice, la voce della poesia. 45 Su questa visione del tempo è impostata la parte ultima del carme. La parola di Cassandra squarcia il velo del futuro e annunzia il perire di Troia («Le mura, opra di Febo, / sotto le loro reliquie fumeranno»); il permanere degli eroi di Troia «in queste tombe», divenuti essi numi tutelari della patria («Ma i Penati di Troia avranno stanza / in queste tombe»); e, in prospettiva aperta su anni più lontani, 50 il brancolare di Omero fra gli avelli, e il suo interrogarli («Un dì vedrete / mendico un cieco errar sotto le vostre / antichissime ombre...»). 1 un tempo... sarcasmo: il sarcasmo dei versi foscoliani sta nel fatto che, mentre

gli uomini grandi sono vivi nella memoria anche da morti, gli italiani vili e inetti

sono come morti anche da vivi.

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 161


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

1. Il critico indica alcuni aspetti emersi nel carme foscoliano. Riassumi le caratteristiche attribuite a: – il tempo della morte; – il tempo della memoria; – il tempo della storia; – il tempo profetico. 2. Che cosa vuol dire il critico quando afferma che nella prima parte del carme si può parlare di un «trionfo del tempo»? 3. Perché nella conclusione del carme l’azione distruttiva del tempo non appare più irrimediabile? 4. Quale dimensione del tempo emerge nelle parole di Cassandra?

Produzione

5. Partendo dal passo proposto e sulla base del tuo percorso di studi e delle tue conoscenze personali, elabora una tua riflessione sulla rappresentazione del tempo nella letteratura e, se lo ritieni opportuno, nella filosofia e nell’arte. Argomenta in modo tale che gli snodi della tua esposizione siano organizzati in un testo coerente e coeso.

3 Lo stile e la struttura Uno stile personale La complessa ispirazione dell’opera si traduce in uno stile personalissimo, forse inizialmente impervio per il lettore, ma di straordinaria efficacia. Tre caratteristiche stilistiche dei Sepolcri – il sublime, il chiaroscuro e l’armonia – possono servire come categorie interpretative (sulla scorta di un’analisi critica di Rodolfo Macchioni Jodi). Lo stile sublime Nella Lettera a Guillon, Foscolo dichiara di aver mirato nei Sepolcri al “sublime” (conveniente all’elevatezza degli argomenti trattati), riconoscendo che tale stile produce un’apparente oscurità, perché affida al lettore la comprensione dei passaggi intermedi, fatti intuire soltanto attraverso le transizioni, «formate da tenuissime modificazioni di lingua e da particelle», elementi di collegamento da cui ricavare i trapassi da un concetto all’altro. Il chiaroscuro L’altro elemento è la prevalenza delle immagini sulle argomentazioni razionali. Ispirandosi al sensismo e alla filosofia di Vico, Foscolo intende indirizzarsi alla fantasia e al sentimento del lettore («non al sillogismo de’ lettori, ma alla fantasia e al cuore»). Di conseguenza affida il messaggio soprattutto ad esempi e immagini suggestive spesso accostate per contrasto, con un effetto di “chiaroscuro”, per cui si alternano visioni di morte e di vita, di luce e di ombra come correlato di un pensiero dialettico che si sviluppa attraverso antitesi e contrapposizioni. L’armonia Foscolo stesso, in un saggio scritto durante l’esilio inglese, dichiara di aver mirato in modo particolare all’armonia del carme, conferendo ai diversi passaggi una musicalità corrispondente alle immagini evocate: «ciascun verso ha una sua inconfondibile misura e accenti che si convengono all’argomento. La melanconia del sentimento è regolata da misure lente e spaziate, mentre le immagini vivaci corrono con il passo svelto della gioia [...]; al poeta italiano [Foscolo] si deve il meritato riconoscimento, se non altro, d’aver conferito a ciascun verso una sua melodia, così come ciascun periodo è retto dalla sua propria armonia». Contribuisce infatti al fascino dei Sepolcri l’accuratissima e suggestiva tessitura fonica che, con estrema varietà e duttilità di accenti, favorita dalla scelta metrica degli endecasillabi sciolti, si avvale degli effetti fonosimbolici dello stile per evocare suoni, immagini, armoniosamente variati.

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La struttura argomentativa dei Sepolcri Impostazione del problema: servono a qualcosa le tombe? (1-3) Prima ipotesi: inutilità del sepolcro (1-22)

PRIMA PARTE

La «corrispondenza d’amorosi sensi» (1-90)

Antitesi: utilità del sepolcro (23-50)

La “nuova legge” e Parini (51-90)

Chi muore perde i piaceri della vita: come può un sepolcro risarcirlo? (3-15) Concezione materialistica: dopo la morte non resta nulla se non la materia che assume altre forme (16-22) Valore umano e vitale delle “illusioni” (23-29) La vita si prolunga nel ricordo di chi ci ha amato (29-40) Esempio negativo di chi non lascia «eredità d’affetti» (41-50) Parini, un poeta degno di essere ricordato (51-72) Parini e Milano (72-77) La sepoltura abbandonata di Parini (78-90)

Nascita della civiltà dalla ferinità primitiva (91-96) Il culto delle tombe e la religione “civile” degli antichi (97-103) In contrasto: aspetti negativi della religiosità medievale (104-114)

SECONDA PARTE

Il culto dei morti e la civiltà (91-150)

Il rapporto tra i sepolcri e le diverse civiltà (97-150)

Il cimitero antico (114-129) La civiltà inglese e i valori patriottici. Nelson (130-136) In contrasto: gli italiani che disonorano la loro patria (137-145) Il compito del poeta e l’esempio che intende trasmettere (145-150)

TERZA PARTE

Il tema patriottico (151-212)

I grandi del passato come esempio per l’Italia futura (151-197)

I valori e la poesia eternatrice (213-295)

Firenze (165-185) Alfieri, poeta-profeta del riscatto nazionale (186-197)

La battaglia di Maratona (197-212) La giustizia (213-227)

QUARTA PARTE

Le sepolture in Santa Croce (151-164)

La poesia (228-253)

La memoria (254-271)

Esempio di Aiace (213-225) Il destino di Foscolo (226-227) Il compito del poeta (228-229) I sepolcri e le Muse (230-234) L’esempio di Troia (235-253) Le donne troiane e Cassandra (254-262) Profezia della distruzione di Troia (263-268) Permanenza della memoria storica (269-271) La pietà per i sepolti (272-279)

La compassione (272-295)

Omero (279-291) Il compianto per Ettore e le sciagure umane (292-295)

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Ugo Foscolo

T18 U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, MilanoNapoli 1974-1981

EDUCAZIONE CIVICA

Dei Sepolcri

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 7

DEORUM MANIUM IURA SANCTA SUNTO1

A IPPOLITO PINDEMONTE All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto2 è forse il sonno della morte men duro3? Ove4 più il Sole per me alla terra non fecondi questa 5 bella d’erbe famiglia e d’animali5, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l’ore future6, né da te, dolce amico, udrò più il verso

La metrica Endecasillabi sciolti v. 1-22 Il carme si apre con una domanda: può un sepolcro e il compianto dei vivi risarcire di tutto quanto si è perduto con la morte? È poi enunciata la concezione materialistica foscoliana, per cui tutto, senza eccezione, è soggetto all’opera distruttrice del tempo.

1 DEORUM... SUNTO: siano sacri i diritti

PER APPROFONDIRE

degli dei Mani (le anime divinizzate dei defunti). L’epigrafe, tratta dal De legibus di Cicerone, dove è citata come norma appartenente alle XII Tavole, introduce il tema della legge che, secondo le teorie

vichiane, non può essere imposta autoritariamente da un governo straniero come l’editto di Saint-Cloud, ma dovrebbe ispirarsi alla civiltà dei popoli a cui è rivolta. 2 All’ombra... pianto: all’ombra dei cipressi (che proteggono i sepolcri nei cimiteri) e dentro i sepolcri (classicamente denominati urne) confortati dal pianto dei superstiti. I versi sono riferiti alla legislazione illuministica che, per salvaguardare la salute pubblica, obbligava a collocare i cimiteri a distanza dall’abitato e vietava di interrarvi delle piante, che si riteneva ostacolassero la circolazione dell’aria e favorissero i contagi. 3 men duro: meno doloroso.

4 Ove: quando. 5 il Sole per me... animali: il sole non dia vita sulla terra per me (così che anch’io ne possa godere) a questa bella natura, nel suo insieme (famiglia) di piante e di animali. 6 vaghe... future: le Ore non danzeranno più dinanzi a me, attraenti per le speranze future. L’illusione di una felicità futura, una delle maggiori attrattive che legano alla vita, è rappresentata dall’immagine neoclassica delle Ore, divinità che nella mitologia significano lo scorrere del tempo e sono raffigurate come fanciulle danzanti intorno al carro del sole.

Il dibattito europeo sulle sepolture e l’editto di Saint-Cloud L’opera foscoliana si inserisce in un dibattito sulle sepolture, allora molto vivo in Europa, perché contrapponeva due opposte visioni della vita: una di ispirazione illuministica, l’altra cristiana. L’ideologia illuministica, egualitaria e razionalistica, aveva ispirato varie leggi simili all’editto di Saint-Cloud, dettate da preoccupazioni medico-sanitarie. La prima, emanata dal parlamento di Parigi nel 1765 (ma non immediatamente applicata per le polemiche sollevate), per evitare i contagi prevedeva di allontanare i cimiteri dalle città e rendere anonime le sepolture. In Italia l’assolutismo illuminato austriaco aveva già realizzato cimiteri di questo tipo, come quello di Verona, lontano dall’abitato e privo di nomi sulle lapidi, che aveva suscitato l’indignazione del cattolico Pindemonte, dedicatario dei Sepolcri foscoliani. Anche Parini, (morto nel 1799, quindi prima dell’editto di Saint-Cloud) era stato sepolto in una tomba anonima, come sarà ricordato nei Sepolcri, in un cimitero

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suburbano milanese organizzato dagli austriaci secondo i medesimi criteri. L’editto napoleonico di Saint-Cloud riprende tali princìpi, prevedendo di collocare i cimiteri fuori dall’abitato; non vieta espressamente di apporre epigrafi sulle tombe ma, imponendo un rinnovo frequente delle sepolture, porta di fatto a cancellare in breve tempo i nomi, e quindi la memoria, dei defunti: perciò Foscolo scrive che la «nuova legge […] il nome a’ morti / contende» (vv. 51-53). La riflessione di Foscolo si inserisce nel dibattito europeo anche per un’altra ragione: durante la rivoluzione francese si tenta in ogni settore (si pensi al calendario rivoluzionario) di sostituire una simbologia laica a quella cristiana e, a tale scopo, nel 1791 a Parigi, per onorare gli eroi della patria a somiglianza del culto dei santi, era stato istituito il Pantheon, destinato ai grandi uomini francesi; così, nei Sepolcri, Foscolo immagina la chiesa di Santa Croce in Firenze come il pantheon di una futura nazione italiana.


e la mesta armonia che lo governa7, 10 né più nel cor mi parlerà lo spirto8 delle vergini Muse9 e dell’amore, unico spirto a mia vita raminga10, qual fia ristoro a’ dì perduti11 un sasso12 che distingua le mie dalle infinite 15 ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea13, fugge i sepolcri: e involve tutte cose l’obblio nella sua notte14; e una forza operosa le affatica 20 di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe e l’estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo15. Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l’illusïon che spento 25 pur lo sofferma al limitar di Dite16? Non vive ei17 forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi18? Celeste è questa 30 corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani19; e spesso per lei20 si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi21, se pia22 la terra che lo raccolse infante e lo nutriva,

7 la mesta... governa: la musicalità malinconica che lo contraddistingue. Foscolo si riferisce ai versi di Ippolito Pindemonte, a cui è rivolto il carme. 8 lo spirto: l’ispirazione. 9 delle vergini Muse: di una poesia libera. Le Muse per metonimia rappresentano la poesia. 10 unico... raminga: unico conforto per la mia vita errabonda di esule. 11 qual... perduti: quale compenso sarà per la vita perduta. 12 un sasso: una pietra tombale. 13 la Speme, ultima Dea: la Speranza, l’ultima dea (ad abbandonare gli uomini). Secondo un mito a cui fa riferimento il poeta greco Teognide, quando gli dei si stabilirono sull’Olimpo, abbandonando gli uomini, lasciarono presso di loro solo la Speranza. 14 involve... notte: la dimenticanza avvolge tutto nella sua oscurità. 15 una forza... tempo: la forza incessante della natura dissolve tutte le cose in un continuo ciclo di trasformazioni; così il tempo tramuta in altre forme l’uomo, le sue tombe, l’ultimo aspetto di tutte le cose e ciò che alla fine resta della terra e dei corpi celesti.

vv. 23-90 Rispetto all’ipotesi prima formulata dell’inutilità delle tombe, viene avanzata una prima riserva: l’“illusione” di una corrispondenza tra i vivi e i morti, che prolunga l’esistenza dei morti nel ricordo dei vivi. Perché si produca tale «corrispondenza d’amorosi sensi» è necessario, però, che chi ha perso la vita sia degno di memoria, e che i viventi siano in grado di apprezzarne e raccoglierne l’eredità. È quindi introdotto il riferimento alla nuova legge sulle sepolture. Segue l’esempio di Parini, degno di essere ricordato, ma ingiustamente trascurato dai milanesi e sepolto in una fossa comune.

16 Ma perché... Dite: ma perché prima del tempo l’uomo destinato a morire (mortale) vorrà privarsi dell’illusione che, benché defunto, sembra fermarlo sulle soglie del regno dell’oltretomba? Nella mitologia romana Dite è la divinità che presiede al regno dei morti, corrispondente al greco Plutone. 17 ei: egli.

18 se... suoi: se può risvegliarla nella mente dei suoi (l’illusione che egli sia ancora vivo) grazie alle dolci cure (offerte alle tombe). Il passo è di controversa interpretazione: alcuni riferiscono il pronome enclitico la di destarla all’illusione (della sopravvivenza), altri a «l’armonia del giorno»: in ogni caso il senso sarebbe che grazie al ricordo si prolungherebbe la vita oltre la morte. 19 Celeste... umani: tale corrispondenza di sentimenti d’amore è una dote divina che rende gli uomini immortali. L’aggettivo celeste, parola chiave posta in evidenza nel verso e ripetuta al v. 31, si contrappone a estinto dei successivi vv. 32-33 a indicare che, attraverso il ricordo dei vivi, l’uomo può conseguire una sorta di immortalità, dote tradizionalmente attribuita agli dei. 20 per lei: grazie a tale dote. 21 si vive... noi: il chiasmo sottolinea la «corrispondenza d’amorosi sensi», cioè la corrispondenza di affetti e di valori tra chi è ricordato e chi ricorda. 22 pia: pietosa. Per ipallage, alla terra è attribuito il sentimento di pietà dei congiunti; l’espressione suggerisce l’immagine della terra-madre.

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35 nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall’insultar de’ nembi e dal profano piede del vulgo23, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica24 40 le ceneri di molli25 ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d’affetti26 poca gioia ha dell’urna; e se pur mira dopo l’esequie27, errar vede il suo spirto fra ’l compianto de’ templi Acherontei28, 45 o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d’Iddio29: ma la sua polve30 lascia alle ortiche di deserta gleba31 ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro 50 che dal tumulo a noi manda Natura32. Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende33. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia34, che a te cantando 55 nel suo povero tetto educò un lauro35 con lungo amore, e t’appendea corone36; e tu gli ornavi del tuo riso i canti37 che il lombardo pungean Sardanapalo, 23 sacre... vulgo: difenda, consacrandole, le spoglie mortali dalle intemperie e dalle profanazioni del volgo. 24 di fiori... amica: un albero amico (perché offre conforto e protezione), profumato di fiori. È da sottolineare il latinismo arbore, di genere femminile secondo la derivazione latina, che evidenzia l’umanizzazione della natura, ricorrente nel carme. 25 molli: dolci, protettive. 26 eredità d’affetti: qualcuno che ricordi chi è morto con affetto. 27 se pur... esequie: se pure (con la sua immaginazione) si spinge a pensare cosa accadrà dopo la cerimonia funebre (dopo la sua morte). 28 fra ’l compianto... Acherontei: fra il pianto dei regni dell’oltretomba. Foscolo riprende l’uso classico di templum inteso come vasto spazio circoscritto. Acherusia templa è un’espressione ripresa dal poeta latino Lucrezio. 29 ricovrarsi... Iddio: essere accolte in paradiso grazie al perdono divino. Le grandi ale sono una metafora di origine biblica per indicare il rifugio protettivo della bontà divina (Salmi 16, 8: sub umbra alarum tuarum, “all’ombra delle tue ali”). I suoni, con l’incontro tra vocali di grandi e ale, la sonorità delle liquide r, l, e la ripetizione della vocale a suggeriscono un senso di spaziosità.

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30 polve: polvere, resti mortali. 31 alle ortiche... gleba: alle ortiche di una terra abbandonata. La crescita delle ortiche, in opposizione all’«ombra de’ cipressi» e al profumo dell’«odorata arbore amica» dei vv. 1 e 39, sottolinea l’abbandono della tomba di chi non è ricordato da nessuno. 32 né passegger... Natura: né un viandante solitario senta il richiamo naturale evocato dal sepolcro. Nella solitudine il viandante riesce a raccogliersi in modo più profondo e a sentire più intensamente la «corrispondenza d’amorosi sensi», in un dialogo silenzioso. Foscolo ricorda un verso dell’Elegia scritta in un cimitero campestre di Thomas Gray, posto anche, in traduzione latina, come epigrafe dell’Ortis («Naturae clamat ab ipso vox tumulo»): chi visita un sepolcro si sente “naturalmente” più vicino a colui di cui visita la tomba. 33 Pur nuova... contende: nonostante ciò una nuova legge costringe oggi a collocare i sepolcri lontano dagli sguardi e dall’affetto dei vivi e nega la fama ai morti, togliendo loro la possibilità di essere identificati e ricordati. La nuova legge (l’editto di SaintCloud) si contrappone al sentimento naturale descritto nei versi precedenti e impone (un verbo in cui si avverte la durezza di una legge autoritaria) di porre le tombe fuori dall’abitato e quindi lontane dagli sguardi pietosi dei vivi e dalle loro cure. Secondo

le teorie filosofiche di Vico, riprese da Foscolo, le leggi devono derivare dalla storia di un popolo e non essere astrattamente imposte dall’esterno: la nuova legge, che si pone in contrapposizione con l’antica legge romana sui diritti dei morti, citata nell’apertura del carme, assume una connotazione negativa, in cui nuova ha il significato negativo di innaturale ed empia. 34 senza tomba... Talia: giace senza una propria tomba il tuo cultore, o Talia. Talia è la musa della poesia satirica, genere letterario a cui può essere ricondotto Il giorno di Parini. Il poeta milanese morì nel 1799, quindi prima dell’editto di Saint-Cloud, ma venne sepolto in una fossa comune per una legge austriaca ispirata ai medesimi principi illuministici, che prevedeva la possibilità di porre iscrizioni soltanto sul muro di recinzione e non sulle singole tombe. 35 nel suo... lauro: nella sua povera dimora coltivò la poesia. Il lauro (premio per i poeti) è una metonimia per indicare la poesia; la povertà di Parini evidenzia il rigore e l’onestà con cui il poeta milanese coltivò un’arte libera e mai adulatrice dei potenti. 36 t’appendea corone: l’immagine neoclassica delle corone votive offerte alla Musa sottolinea la dedizione di Parini alla sua arte. 37 e tu... canti: la Musa attribuiva bellezza poetica ai versi di Parini.


cui solo è dolce il muggito de’ buoi 60 che dagli antri abduani e dal Ticino lo fan d’ozi beato e di vivande38. O bella Musa, ove sei tu? Non sento spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume39, fra queste piante ov’io siedo e sospiro 65 il mio tetto materno40. E tu venivi e sorridevi a lui sotto quel tiglio ch’or con dimesse frondi va fremendo perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio cui già di calma era cortese e d’ombre41. 70 Forse tu fra plebei tumuli guardi vagolando42, ove dorma il sacro capo del tuo Parini43? A lui non ombre pose44 tra le sue mura la città, lasciva d’evirati cantori allettatrice45, 75 non pietra, non parola46; e forse l’ossa col mozzo capo gl’insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti47. Senti raspar fra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando48 80 su le fosse e famelica ululando; e uscir del teschio, ove fuggia la luna49, l’ùpupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerea campagna e l’immonda accusar col luttuoso 85 singulto i rai di che son pie le stelle alle obblïate sepolture50. Indarno 38 il lombardo... vivande: colpivano con la satira il corrotto nobile lombardo, il cui unico interesse è il muggito dei buoi, che dalle stalle lungo l’Adda (antri abduani) e il Ticino lo rendono ricco e ozioso. Sardanapalo, a cui sono paragonati i nobili milanesi, è un re assiro, citato anche da Dante come esempio di lussuria. 39 spirar... Nume: il profumo di ambrosia, indizio della presenza di una divinità. 40 fra queste... materno: fra queste piante di tiglio dove io ora sono seduto e rimpiango la mia casa materna. Foscolo immagina che la Musa ricerchi il sepolcro di Parini presso i giardini di Porta Orientale (Porta Venezia) dove il poeta era solito recarsi. Nello stesso boschetto di tigli Foscolo immagina l’incontro tra Ortis e Parini nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. 41 con dimesse... ombre: con i rami abbassati, quasi in segno di tristezza, sembra fremere di indignazione, o dea, perché non ricopre con la sua ombra il sepolcro del vecchio Parini, a cui già prima (quando era in vita) donava il conforto dell’ombra e della quiete. La rappresentazione

antropomorfica dell’albero, descritto come se provasse sentimenti umani, mette per contrasto in risalto l’insensibilità dei cittadini milanesi, incapaci di apprezzare la grandezza di Parini. 42 fra plebei... vagolando: guardi vagando incerta qua e là, fra sepolture di persone ignote (poste nei cimiteri suburbani di Milano, come precisa Foscolo in una nota). 43 il sacro... Parini: il corpo, che dovrebbe essere considerato sacro, di Parini (perché consacrato alla Musa, cioè alla poesia). La sineddoche di sacro capo, a indicare il corpo del poeta, richiama la poesia classica, a partire dall’Iliade (XV, 39) in cui Giunone giura sul sacro capo di Zeus. 44 non... pose: non pose l’ombra d’un albero. 45 lasciva... allettatrice: corrotta e più propensa ad attirare (con guadagni e onori) cantanti evirati. Nel Settecento vigeva ancora l’uso, contro cui Parini aveva polemizzato con l’ode La musica, di evirare giovani cantanti d’opera perché mantenessero una voce acuta, adatta a

ruoli femminili.

46 non... parola: non un monumento, né un’epigrafe.

47 l’ossa... delitti: insanguina le sue ossa (deposte in una fossa comune) con il suo capo mozzato (per la pena di morte) il ladro che soltanto sul patibolo (alla fine della vita) pose termine ai suoi delitti. L’immagine macabra vuole sottolineare le conseguenze del divieto di apporre lapidi sui sepolcri: il corpo sepolto del grande poeta non viene distinto da quello di un criminale. 48 Senti... ramingando: tu (si riferisce alla Musa) senti (nel cimitero suburbano) scavare con le unghie tra le rovine e gli sterpi la cagna randagia, vagando qua e là raminga tra le tombe. 49 fuggia la luna: evitava la luce lunare. Il soggetto è l’upupa. 50 l’immonda... sepolture: e (senti) l’immonda (ùpupa) rimproverare con il suo lugubre verso, simile a un singhiozzo, i raggi con cui le stelle illuminano pietosamente le sepolture dimenticate. L’upupa è erroneamente associata ai rapaci notturni;

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sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade dalla squallida notte51. Ahi! su gli estinti non sorge fiore, ove non sia d’umane 90 lodi onorato e d’amoroso pianto52. Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di sé stesse e d’altrui53, toglieano i vivi all’etere maligno54 ed alle fere 95 i miserandi avanzi che Natura con veci eterne a sensi altri destina55. Testimonianza a’ fasti eran le tombe, ed are a’ figli56; e uscian quindi i responsi de’ domestici Lari57, e fu temuto 100 su la polve degli avi il giuramento58: religïon che con diversi riti le virtù patrie e la pietà congiunta tradussero59 per lungo ordine d’anni. Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi 105 fean pavimento; né agl’incensi avvolto de’ cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò60; né le città fur meste d’effigïati scheletri: le madri balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono 110 nude le braccia su l’amato capo del lor caro lattante onde nol desti secondo il mito narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, in upupa si sarebbe trasformato il personaggio mitologico Tereo, a cui la moglie Progne, per vendetta, aveva fatto mangiare le carni del loro figlio Iti; perciò l’upupa è chiamata immonda, come se tale uccello si cibasse di carne umana. Tale descrizione errata dell’upupa si trova già nella Notte di Parini, citata da Foscolo a proposito di questo passo. 51 Indarno… notte: invano, o Musa (Dea), invochi la rugiada sulla tomba del poeta dalla cupa tristissima notte. 52 ove... pianto: in un luogo in cui non sia accompagnato dall’onore di lodi (per il defunto) e da un pianto pieno d’amore. Il senso è che la natura distrugge impietosamente ogni cosa; i fiori deposti sulla tomba, segno di amore per chi vi è sepolto, non crescono senza le cure degli uomini. vv. 91-150 Sulla base della filosofia di Vico, Foscolo indica la sepoltura dei morti come momento fondamentale per il passaggio dalla primitiva condizione ferina alla civiltà. Egli mostra poi come nel culto dei morti si rispecchino i valori dei diversi popoli, antichi e moderni. A esemplificazione, il poeta introduce quattro quadri degli usi

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sepolcrali, due positivi (l’antichità e la moderna Inghilterra) e due negativi (il Medioevo e il Regno d’Italia napoleonico).

53 Dal dì... altrui: dal giorno in cui le istituzioni del matrimonio, della legge e della religione condussero gli uomini, dallo stato ferino in cui vivevano, al rispetto per sé stessi e alla compassione per gli altri (e quindi alla civiltà). Foscolo riprende in questo passo La scienza nuova di Vico, che osservava come il passaggio dalla barbarie alla civiltà fosse per tutte le popolazioni contrassegnato da tre elementi: il matrimonio, la religione e la sepoltura dei morti: «Osserviamo tutte le Nazioni, così barbare come umane, [...] custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti» (Scienza nuova, I, De’ Principj). 54 toglieano... maligno: i vivi sottraevano alla corruzione atmosferica. Come osserva il critico Raffaello Ramat «in quel togliere è la grande conquista: esso segna la coscienza che ha l’uomo d’essere altro dalla cieca Natura, e di dover costruire un suo mondo di pietà in opposizione a quella spietata legge».

55 Natura... destina: la natura, con incessanti trasformazioni, destina ad altre forme di vita. 56 Testimonianza... figli: le tombe erano testimonianza delle imprese gloriose (dei defunti) e altari per i figli. Sulle tombe degli antichi erano infatti poste iscrizioni a testimonianza delle virtù del defunto e delle imprese compiute. 57 uscian... Lari: dalle tombe venivano tratti i responsi dei Lari (divinità protettrici della casa). 58 fu temuto... giuramento: il giuramento fatto sulla tomba degli antenati era considerato sacro e inviolabile. 59 religïon... tradussero: culto religioso che, con riti diversi, le virtù degli antenati e, insieme, il rispetto dei discendenti verso i morti perpetuarono. 60 Non sempre... contaminò: non in ogni epoca della storia si usava inserire lapidi (a chiusura dei sepolcri sottostanti) nel pavimento delle chiese; né l’odore dei morti (sepolti nelle chiese), mescolandosi al profumo dell’incenso, contaminava coloro che in chiesa supplicavano gli dei. Seppellire i morti nelle chiese era un’usanza di origine medievale, contrastata dalle leggi illuministiche.


il gemer lungo di persona morta chiedente la venal prece agli eredi dal santuario61. Ma cipressi e cedri 115 di puri effluvii i zefiri impregnando62 perenne verde protendean su l’urne per memoria perenne63, e prezïosi vasi accogliean le lagrime votive64. Rapìan gli amici una favilla al Sole 120 a illuminar la sotterranea notte65 perché gli occhi dell’uom cercan morendo il Sole; e tutti l’ultimo sospiro mandano i petti alla fuggente luce66. Le fontane versando acque lustrali67 125 amaranti educavano e vïole68 su la funebre zolla; e chi sedea69 a libar latte70 e a raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno sentia qual d’aura de’ beati Elisi71. 130 Pietosa insania72 che fa cari gli orti de’ suburbani avelli alle britanne vergini73 dove le conduce amore della perduta madre, ove clementi pregaro i Genii del ritorno al prode 135 che tronca fe’ la trïonfata nave del maggior pino, e si scavò la bara74. 61 né le città... santuario: né le città furono rese lugubri da raffigurazioni di scheletri, per le quali le madri si ridestano d’improvviso dal sonno, terrorizzate, e tendono le loro braccia nude sul capo del loro caro bambino piccolo, per proteggerlo, affinché non sia ridestato dai lunghi gemiti di una persona morta che, dalla chiesa dove è sepolta, chiede ai parenti preghiere, da pagare al sacerdote. 62 Ma... impregnando: ma piante funebri come cipressi e cedri, impregnando l’aria primaverile di freschi profumi. Il Ma avversativo sottolinea il cambio di scena e il ritorno alla rappresentazione dei cimiteri antichi, immagine di una concezione positiva della vita. La macabra scena medievale è incastonata all’interno della rappresentazione positiva dell’antichità. 63 perenne... perenne: l’immagine della pianta, con il verbo protendean, suggerisce un’idea di protezione, di preservazione della memoria, evidenziata dalla ripetizione, con il chiasmo del sintagma sostantivo + aggettivo, della parola chiave perenne, che evoca l’eternità della memoria. Come in altri passi del carme, l’elemento naturale sembra animato, a sottolineare l’intensità dei sentimenti coinvolti.

64 vasi... votive: vasi raccoglievano lacrime versate in voto. Nelle antiche tombe si trovavano piccoli vasi, che si era erroneamente creduto servissero a raccogliere lacrime (Foscolo in una sua nota ai Sepolcri parla di vasi lacrimatori), mentre in realtà contenevano essenze profumate. 65 Rapìan... notte: gli amici rubavano al sole una fiaccola (ponevano lampade sepolcrali) per illuminare la notte della morte e della sepoltura. I riti degli antichi tendevano a risarcire i morti di quanto avessero perduto: in primo luogo la luce del sole, simbolo di vita. 66 tutti... luce: tutti gli animi rivolgono l’ultimo sospiro di rimpianto alla luce del sole, che sembra fuggire da loro. È frequente nei testi classici, come le tragedie greche, lo sguardo di rimpianto del morente verso la luce del sole. 67 lustrali: purificatrici. 68 amaranti... vïole: facevano crescere piante di amaranto e di viola. La pianta di amaranto, dai fiori rosso porpora, è simbolo di immortalità; il termine greco amárantos significa “che non appassisce”. 69 chi sedea: chiunque sedesse sulla tomba. 70 a libar latte: a versare latte, secondo un rito funebre pagano.

71 sentia... Elisi: sentiva intorno un profumo simile a quello dei beati campi Elisi (sede riservata, secondo gli antichi, agli spiriti grandi e virtuosi). 72 Pietosa insania: sentimento irrazionale, dettato dall’umana pietà. L’espressione, quasi un ossimoro, sintetizza uno dei temi fondamentali del carme: la civiltà nasce dall’illusione di una sopravvivenza che, secondo Foscolo, convinto materialista, pur essendo irrazionale ispira comportamenti virtuosi, pietosi e civili. È il tema dell’illusione, centrale nell’opera foscoliana. 73 fa cari... vergini: rende cari alle giovani inglesi i giardini (orti) dei cimiteri (avelli) che circondano la città. 74 clementi... bara: dove pregarono gli dèi protettori della patria (i Genii) che fossero clementi del ritorno (lasciassero ritornare incolume) per il valoroso (l’ammiraglio inglese Orazio Nelson) che troncò l’albero maestro (pino è metonimia) della nave catturata (il vascello francese Orient) nella battaglia del trionfo su Napoleone e in quel legno si fece scavare la bara. Durante la battaglia di Abukir (1798), Nelson aveva affondato la flotta di Napoleone, facendosi poi costruire la bara con il legno della nave ammiraglia da lui

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Ma ove dorme il furor d’inclite gesta e sien ministri al vivere civile l’opulenza e il tremore75, inutil pompa 140 e inaugurate immagini dell’Orco sorgon cippi e marmorei monumenti76. Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, decoro e mente al bello Italo regno, nelle adulate reggie ha sepoltura 145 già vivo, e i stemmi unica laude77. A noi morte apparecchi riposato albergo ove una volta la fortuna cessi dalle vendette, e l’amistà raccolga non di tesori eredità, ma caldi 150 sensi e di liberal carme l’esempio78. A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, o Pindemonte79; e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta80. Io81 quando il monumento 155 vidi ove posa82 il corpo di quel grande che temprando lo scettro a’ regnatori gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue83; catturata. Al momento della stesura dei Sepolcri, come Foscolo ben sapeva, gli dei non erano stati clementi con Nelson, ucciso dopo aver combattuto eroicamente e aver distrutto la flotta napoleonica, durante la battaglia di Trafalgar (1805). Foscolo dà prova di coraggio nell’esaltare il più valoroso nemico di Napoleone, l’unico che fino ad allora gli avesse inflitto sconfitte; il riferimento alle giovani fanciulle, partecipi degli eventi politici, è inteso a mostrare l’elevato grado di civiltà del popolo inglese, contrapposto a quello italiano. 75 Ma... tremore: ma, dove l’ardente desiderio di compiere imprese gloriose sia spento e la vita civile sia dominata dal desiderio di ricchezze e dal timore nei confronti di chi detiene il potere. L’avversativa Ma introduce il quadro negativo dell’Italia, contrapposto alla civiltà inglese. 76 inutil... monumenti: come inutile sfoggio di lusso e come vane immagini mortuarie (Orco è uno dei nomi di Plutone, dio degli inferi, e per metonimia indica il regno dei morti), prive di auspici favorevoli (inaugurate significa prive di “auguri”, auspici necessari per trasformarle in un luogo sacro), sorgono steli (di pietra) funebri e monumenti di marmo. Dalla memoria dei propri concittadini, ricchi e potenti ma vili e inetti, gli italiani non possono trarre alcun sentimento di emulazione, perciò i preziosi sepolcri restano inerti e non mezzo di contatto tra i vivi e i

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morti. È evidente il contrasto con le tombe dei grandi uomini sepolti a Santa Croce (vv. 151-164), da cui gli italiani verranno successivamente nel carme invitati a trarre auspici per un futuro Risorgimento. 77 Già il dotto... laude: già i notabili appartenenti ai tre collegi elettorali (quindi i potenti) del Regno d’Italia (polemicamente definiti da Foscolo vulgo, cioè popolo privo di dignità e di coscienza politica), ornamento e classe dirigente e intellettuale del bel Regno d’Italia (l’espressione è ironica) sono sepolti vivi nelle loro lussuose dimore, in cui regna l’adulazione; e l’unica loro gloria sono gli stemmi nobiliari. Nel Regno d’Italia Napoleone aveva istituito tre collegi elettorali: dei dotti, dei ricchi possidenti e dei nobili. 78 A noi... l’esempio: a me (invece) la morte procuri un luogo tranquillo, qualora (ove) finalmente la sorte cessi di perseguitarmi e gli amici (amistà “amicizia”) possano raccogliere non eredità di ricchezze, ma di sentimenti nobili e appassionati e l’esempio di una poesia libera. vv. 151-197 Tema dei versi è lo spirito di emulazione suscitato dalle tombe dei grandi uomini, come i grandi italiani sepolti in Santa Croce. È quindi introdotto un elogio a Firenze, città che può ispirare un futuro riscatto dell’Italia. L’elogio di Firenze è scandito in tre momenti: il celebre riferimento ai grandi italiani sepolti nella chiesa di Santa

Croce (vv. 151-164); l’esaltazione della bellezza del paesaggio fiorentino e il ricordo di Dante e Petrarca (vv. 165-179); l’evocazione di Alfieri, che proprio dalla chiesa fiorentina (dove lui stesso verrà sepolto), trae ispirazione per meditare sulle sorti dell’Italia e sperare in un suo futuro riscatto (vv. 180-197).

79 A egregie... Pindemonte: le tombe dei grandi accendono negli uomini di pari valore il desiderio di compiere gesta altrettanto eccellenti. L’iterazione della parola chiave forte sottolinea il legame tra i grandi uomini e coloro che aspirano a emularli. L’importante passaggio argomentativo del carme è evidenziato dall’appello al destinatario Pindemonte. 80 ricetta: accoglie. 81 Io: la figura del poeta è messa in risalto dall’isolamento del pronome, soggetto, posto a grande distanza dal verbo gridai, al v. 165. Come scrive il critico Giovanni Getto, l’io «si ricongiunge al proprio verbo principale con lo squillo vibrante di un’epica tromba (gridai), dopo di aver descritto un arditissimo volo, simile a un ideale arco di trionfo». 82 posa: riposa. 83 temprando... sangue: insegnando ai prìncipi a rendere più saldo il loro potere (temprare lo scettro, cioè rendere più saldo l’acciaio dello scettro; è una metonimia), ne toglie le apparenze gloriose, e svela ai popoli le lacrime e il sangue dei sudditi su


e l’arca di colui che nuovo Olimpo 160 alzò in Roma a’ Celesti84; e di chi vide sotto l’etereo padiglion rotarsi più mondi, e il Sole irradïarli immoto85, onde all’Anglo che tanta ala vi stese sgombrò primo le vie del firmamento86; 165 te beata, gridai, per le felici aure pregne di vita, e pe’ lavacri che da’ suoi gioghi a te versa Apennino87! Lieta dell’aer tuo veste la Luna di luce limpidissima i tuoi colli 170 per vendemmia festanti88, e le convalli popolate di case e d’oliveti mille di fiori al ciel mandano incensi89: e tu prima, Firenze, udivi il carme che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco90, 175 e tu i cari parenti e l’idïoma desti a quel dolce di Calliope labbro che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma d’un velo candidissimo adornando, rendea nel grembo a Venere Celeste91: 180 ma più beata ché in un tempio accolte serbi l’Itale glorie92, uniche forse da che le mal vietate Alpi e l’alterna onnipotenza delle umane sorti93 armi e sostanze t’invadeano ed are94

cui (il potere) è fondato. Foscolo riprende l’interpretazione del Principe di Machiavelli elaborata da Rousseau, che vedeva l’opera come un’indiretta denunzia dei misfatti e degli inganni dei potenti. 84 l’arca... Celesti: la sepoltura di chi a Roma innalzò una costruzione che appare come l’Olimpo per gli dei. Foscolo si riferisce a Michelangelo e alla cupola di San Pietro, che sembra rinnovare, per la grandiosità, la dimora divina (nuovo Olimpo) immaginata nell’antichità. 85 e di chi... immoto: e di colui che vide, sotto la volta del cielo, diversi pianeti ruotare intorno al sole e quello, restando immobile, illuminarli. Foscolo si riferisce a Galileo, che con le sue ricerche contribuì a provare l’esattezza del sistema copernicano. 86 onde... firmamento: per cui, per primo aprì la via della scoperta delle leggi astronomiche all’inglese (Anglo: Isaac Newton) che con la sua scienza spaziò come in volo per le vie del firmamento. L’elogio dell’inglese Newton, insieme a quello di Nelson ai vv. 131-136, testimonia l’ammirazione di Foscolo per la civiltà inglese. 87 Te beata... Apennino: te beata (o Firen-

ze) – gridai – per la tua atmosfera piena di vita e per i corsi d’acqua che l’Appennino versa a te dalle sue cime. Firenze, contrapposta da Foscolo a Milano, è celebrata per le sue bellezze naturali, oltre che per l’arte e la cultura. 88 Lieta... festanti: la luna, più luminosa per la trasparenza dell’aria, riveste di una luce limpidissima le tue colline, festose nel periodo della vendemmia. 89 convalli... incensi: le valli tra le colline, piene di vita per le case e gli uliveti, mandano al cielo mille profumi di fiori. 90 tu prima... Ghibellin fuggiasco: tu per prima, Firenze, udivi i versi che alleviarono l’ira (verso i suoi concittadini) di Dante, esule ghibellino. Dante era un guelfo bianco, ma Foscolo lo definisce ghibellino, per sottolineare come durante l’esilio si fosse avvicinato alle posizioni filo-imperiali. Il carme a cui si riferisce Foscolo è la Divina commedia; Foscolo accoglie perciò l’ipotesi, non da tutti accettata, che Dante avesse iniziato a comporre il poema già prima dell’esilio. 91 e tu i cari parenti... Celeste: e tu (Firenze) desti i cari genitori e la lingua fiorentina a Petrarca, attraverso cui sem-

brava parlasse la musa Calliope, poeta che rese spirituale l’amore, sensuale e istintivo nella poesia greca e latina, rivestendolo del velo candidissimo dell’ideale, e restituendolo così a quella celeste delle due Veneri. Petrarca nacque ad Arezzo da genitori fiorentini in esilio. A partire da Platone, gli antichi distinguevano due Veneri: una preposta all’amore terrestre e sensuale, l’altra a quello spirituale, capace di nobilitare l’animo volgendolo all’ideale. 92 ma più beata... glorie: ma più beata perché conservi le glorie italiane raccolte in un tempio. La ripresa a distanza dell’appellativo beata, rafforzato dal comparativo, chiude circolarmente il discorso su Firenze tornando alla chiesa di Santa Croce, vista come futuro pantheon per l’Italia. 93 da che... sorti: da quando le Alpi, male difese dagli italiani, e l’onnipotenza del destino, che assegna ai popoli alterne sorti di grandezza e di miseria. I versi riprendono la concezione ciclica della storia espressa nella lettera da Ventimiglia dell’Ortis. 94 armi... are: ti tolsero armi (un esercito autonomo), ricchezze e culti religiosi (are, cioè “altari”).

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185 e patria e, tranne la memoria, tutto. Che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all’Italia, quindi trarrem gli auspici95. E a questi marmi96 venne spesso Vittorio97 ad ispirarsi. 190 Irato a’ patrii Numi, errava muto ove Arno è più deserto, i campi e il cielo desïoso mirando98; e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura, qui posava l’austero99; e avea sul volto 195 il pallor della morte e la speranza100. Con questi grandi abita eterno101: e l’ossa fremono102 amor di patria. Ah sì103! da quella religïosa pace un Nume parla104: e nutria contro a’ Persi in Maratona 200 ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi, la virtù greca e l’ira105. Il navigante che veleggiò quel mar sotto l’Eubea106, vedea per l’ampia oscurità scintille balenar d’elmi e di cozzanti brandi107, 205 fumar le pire igneo vapor, corrusche d’armi ferree vedea larve guerriere cercar la pugna108; e all’orror de’ notturni

95 Che ove... auspici: perché, se una speranza di gloria risplenderà per gli animi più valorosi e per l’Italia, trarremo forza e ispirazione di qui (quindi: da Santa Croce). 96 marmi: metonimia per indicare i sepolcri marmorei. 97 Vittorio: Alfieri, chiamato familiarmente per nome a sottolineare l’affinità, un’ideale fraternità con il poeta dei Sepolcri. 98 Irato... mirando: adirato per le sorti dell’Italia errava silenzioso nei luoghi più deserti presso l’Arno, guardando con desiderio i campi e il cielo. Sfiduciato per la situazione presente dell’Italia e ormai vicino alla morte, Alfieri, con un’immagine romantica, sembra cercare con lo sguardo più vasti e liberi orizzonti. 99 poi che... austero: poiché nessuna visione di cose attuali (vivente aspetto) gli mitigava l’angoscia, (quell’uomo) severo si fermava qui (a Santa Croce). 100 il pallor... speranza: Alfieri morì nel 1803. Pur non avendolo potuto conoscere, Foscolo lo aveva visto a Firenze nei suoi ultimi anni, come ricorda in una propria nota al carme: «così io scrittore vidi Vittorio Alfieri negli ultimi anni della sua vita. Giace in Santa Croce». 101 Con questi... eterno: Alfieri fu sepolto a Santa Croce e la duchessa d’Albany fece erigere dallo scultore Canova il suo monumento funebre, che sarebbe stato

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completato nel 1810. 102 fremono: il verbo, parola chiave del carme, indica che le grandi passioni, come quella di Alfieri per la patria italiana, restano vive oltre la morte: dalla tomba di Alfieri sembra emanare un fremito di amore di patria. vv. 197-212 Nei versi è centrale il tema patriottico. Con una delle “transizioni” di cui parla nella Lettera a Guillon, da Firenze e dalla tomba di Alfieri in Santa Croce, luogo simbolo di un possibile riscatto italiano, Foscolo passa a Maratona, per mostrare l’eternità della gloria di chi combatte per la patria, con una visione di grande forza fantastica (i fantasmi dei combattenti di Maratona rinnovano ogni notte la grande battaglia).

103 Ah sì: l’esclamazione sottolinea la partecipazione emotiva del poeta.

104 da quella... parla: da quella pace religiosa della morte sembra parlare qualcosa di divino. 105 e nutria... ira: e quella stessa divinità dell’amore di patria, a Maratona, dove Atene fece tumulare i valorosi ateniesi morti in quella battaglia (490 a.C.), alimentava la virtù dei greci e l’ardore di guerra contro i persiani. Con un trapasso improvviso di tempo e di luogo, tipico dei Sepolcri, Foscolo collega l’amore di patria, di cui

Alfieri è ispiratore, a quello dei greci nella battaglia di Maratona, emblema di lotta per la libertà. 106 che veleggiò... Eubea: che percorse con una nave a vela il tratto di mare tra l’Eubea (isola di fronte a Maratona) e la piana di Maratona. Il verbo veleggiò sottolinea la lentezza della navigazione, durante la quale, secondo una leggenda tratta dalla Periegesi della Grecia del greco Pausania (II secolo d.C.), nell’oscurità notturna si profilano i fantasmi degli antichi guerrieri che rinnovano la battaglia, simbolo della loro gloria eterna. 107 vedea... brandi: vedeva nell’ampia oscurità della notte balenare i riflessi scintillanti degli elmi e delle spade cozzanti tra loro. È evidente il fonosimbolismo del passo, che rende il contrasto tra l’oscurità della notte con il suono ampio della a, e il bagliore improvviso delle luci con la brevità di balenar, tronco e accentato sull’ultima, e il ricorrere del suono acuto della i (scintille), mentre cozzanti suggerisce fonicamente il cupo fragore della scena. 108 fumar... pugna: i roghi funebri (dei guerrieri morti) emanare vapore infuocato, vedeva fantasmi (larve) di guerrieri, scintillanti (corrusche) per le armi di ferro, cercare la battaglia. L’iterazione del verbo vedea sottolinea la straordinarietà dell’apparizione.


silenzi si spandea lungo ne’ campi di falangi un tumulto e un suon di tube 210 e un incalzar di cavalli accorrenti scalpitanti su gli elmi a’ moribondi, e pianto, ed inni, e delle Parche il canto109. Felice te che il regno ampio de’ venti, Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi110! 215 E se il piloto ti drizzò l’antenna oltre l’isole Egee111, d’antichi fatti certo udisti suonar dell’Ellesponto i liti112, e la marea mugghiar portando alle prode Retee l’armi d’Achille 220 sovra l’ossa d’Aiace113: a’ generosi giusta di glorie dispensiera è morte114; né senno astuto né favor di regi all’Itaco le spoglie ardue serbava, ché alla poppa raminga le ritolse 225 l’onda incitata dagl’inferni Dei115. E me che i tempi ed il desio d’onore fan per diversa gente ir fuggitivo,

109 all’orror... canto: e (contrapposto) all’orrore del silenzio notturno si avvertiva diffondersi in lontananza il fragore tumultuoso delle falangi e un suono di trombe, e un incalzare di cavalli che accorrevano e scalpitavano sugli elmi dei moribondi e (si sentivano) il pianto (dei morenti e degli sconfitti) e gli inni (dei vincitori) e il canto delle Parche. Alle immagini visive dei versi precedenti subentrano quelle uditive, con il contrasto tra l’iniziale silenzio notturno, immagine del nulla e della morte, e il ridestarsi di rumori e suoni, immagine della gloria indimenticabile della grandiosa battaglia. La scena si chiude con il trionfo dei vincitori, il pianto degli sconfitti e il canto delle Parche, simbolo del destino che accomuna vincitori e vinti. Nella mitologia greca le Parche sono tre divinità che simboleggiano l’esistenza: una inizia il filo della vita, l’altra lo lavora, la terza lo tronca al momento della morte. Il canto delle Parche rappresenta per gli eroi di Maratona il compimento del destino. vv. 213-253 Lo scenario marino, tra la Grecia e l’Ellesponto, evoca il primo eroe omerico del carme: Aiace, lì sepolto, morto suicida per l’ingiustizia di cui è stato vittima (non aver ricevuto le armi di Achille, a lui dovute essendo il più valoroso degli eroi greci, ma che Ulisse si era fatto assegnare grazie alla sua astuzia e abilità di parola). Ora la marea riporta le armi sulla tomba dell’eroe,

strappandole alla nave di Ulisse, a simboleggiare come la morte compensi dei torti sopportati in vita. È poi introdotto il tema della poesia eternatrice che, con la sua armonia, «vince di mille secoli il silenzio» e, donando gloria eterna, consola i grandi uomini delle ingiustizie e sofferenze subite. Ne è esempio la città di Troia che, pur distrutta dai Greci, vive eternamente nella memoria di tutti grazie ai poemi omerici.

110 Felice... correvi: felice te, o Ippolito (Pindemonte), che nel tempo della tua giovinezza percorrevi viaggiando il vasto mare, il regno su cui i venti spaziano liberamente. Foscolo fa riferimento a un giovanile viaggio di Pindemonte: Ippolito è chiamato felice perché ha potuto esplorare il Mediterraneo e avvertire la viva memoria degli antichi eventi. È implicito il passaggio logico dai luoghi della battaglia di Maratona, che ne serbano memoria, ai luoghi dell’Asia minore – teatro della guerra di Troia, anch’essi memori di quell’evento – che in giovinezza Pindemonte visitò e di cui ha potuto sentir riecheggiare il ricordo. 111 il piloto... Egee: il timoniere diresse la rotta della nave al di là delle isole dell’Egeo (quindi verso l’Asia Minore e la regione di Troia). L’antenna è l’albero della nave, che per sineddoche rappresenta tutta l’imbarcazione. 112 d’antichi... liti: certamente hai sentito

le spiagge dell’Ellesponto risuonare della memoria di antichi eventi mitici. Alcuni versi omerici, citati dallo stesso Foscolo, ricordano che i sepolcri degli antichi eroi della guerra di Troia erano stati posti lungo le coste dell’Ellesponto perché i naviganti li vedessero e ricordassero chi vi era sepolto. 113 la marea... Aiace: la marea risuonare minacciosa portando le armi di Achille sul promontorio reteo (vicino a Troia), sopra il sepolcro di Aiace. Ad Aiace, l’eroe greco più valoroso dopo Achille, sarebbero dovute toccare le armi di quest’ultimo ma Ulisse, più astuto e abile parlatore, se le era fatte ingiustamente assegnare da Agamennone. Aiace era allora caduto in preda a un folle furore e, perduto l’onore, si era ucciso. Secondo una leggenda riportata da Pausania, una tempesta aveva tolto le armi dalla nave di Ulisse per riportarle sulla tomba di Aiace. 114 a’ generosi... morte: la morte è dispensatrice di una giusta gloria per coloro che, agendo generosamente, l’hanno meritata. 115 né senno astuto... Dei: né l’astuzia né il favore dei re (Agamennone e Menelao) poté conservare all’eroe di Itaca (Ulisse) le spoglie di guerra difficili da conquistare, perché l’onda marina, resa tempestosa (e vendicatrice) dalle divinità protettrici dei morti, le strappò alla nave di Ulisse, errante per i mari durante il suo viaggio di ritorno.

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me ad evocar gli eroi chiamin le Muse del mortale pensiero animatrici116. 230 Siedon custodi de’ sepolcri, e quando il tempo con sue fredde ale vi spazza fin le rovine, le Pimplee fan lieti di lor canto i deserti, e l’armonia vince di mille secoli il silenzio117. 235 Ed oggi nella Troade inseminata eterno splende a’ peregrini un loco eterno per la Ninfa a cui fu sposo Giove, ed a Giove die’ Dardano figlio onde fur Troia e Assaraco e i cinquanta 240 talami e il regno della Giulia gente118. Però che quando Elettra udì la Parca che lei dalle vitali aure del giorno chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove mandò il voto supremo119: E se, diceva, 245 a te fur care le mie chiome e il viso e le dolci vigilie, e non mi assente premio miglior la volontà de’ fati, la morta amica almen guarda dal cielo onde d’Elettra tua resti la fama120. 250 Così orando121 moriva. E ne gemea122 l’Olimpio123; e l’immortal capo accennando piovea dai crini ambrosia su la Ninfa e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba124.

116 E me... animatrici: e le Muse, ispiratrici della vita spirituale degli uomini, chiamino me, che i tempi sfavorevoli e il desiderio di onore e gloria hanno reso esule, in fuga da un luogo all’altro, a celebrare gli eroi. I versi sottolineano l’affinità tra la figura di Aiace e quella di Foscolo, entrambi vittima di un destino ingiusto. Le Muse sono definite animatrici del pensiero perché, secondo la concezione vichiana, la poesia, ispiratrice di sentimenti e passioni, precede e fonda il pensiero razionale. 117 Siedon... silenzio: le Pimplee (le Muse) siedono presso i sepolcri e quando il tempo, con la sua crudele forza devastatrice, spazza via persino le rovine, confortano e allietano con il loro canto (letteralmente “danno la vita”: fan lieti “rendono fertili”) i luoghi in abbandono e dimenticati (deserti), cosicché l’armonia (del canto) vince di mille secoli il silenzio (della morte). Troia, città di cui, al tempo di Foscolo, non si conoscevano neppure le rovine (poi scoperte dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann nel secondo Ottocento), è ricordata da tutti grazie alla poesia di Omero. Le Muse sono dette Pimplee

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dal monte Pimpla in Tessaglia, dove era loro consacrata una fonte. Il Tempo, per il suo corso veloce, è rappresentato come alato; che le ali spazzino via tutto ne indica l’azione distruttrice; le ali del tempo sono fredde per esprimere il senso raggelante della morte, che non risparmia nulla. 118 nella Troade… gente: nella regione di Troia, divenuta un deserto (l’aggettivo inseminata “non seminata”, rende l’idea che di Troia non sia restato più nulla) risplende eterno un luogo (dove un tempo era la città), reso eterno grazie alla ninfa Elettra, a cui fu sposo Giove e che a Giove generò il figlio Dardano, da cui ebbero origine Troia e (attraverso le varie generazioni) Assaraco, i cinquanta figli di Priamo (talami indica i loro letti nuziali) e il regno dei discendenti di Iulo (figlio di Enea, dai discendenti del quale fu fondata Roma). Secondo il mito, la stirpe troiana derivò da Giove e dalla ninfa Elettra, che chiese al re degli dei di mantenere per sempre la memoria della sua stirpe. L’iterazione sottolinea la parola chiave eterno. 119 Però che... supremo: poiché quando Elettra sentì la Parca che (troncando il filo della vita) dalla viva aria del giorno la chia-

mava alle danze dell’Eliso, oltretomba dei beati, rivolse a Giove l’ultima preghiera. 120 fur care... fama: furono care le mie chiome e il viso (la mia bellezza) e le dolci veglie amorose; e il Fato non mi consente un premio migliore, almeno guarda dal cielo la tua amante morta, perché resti eterna la fama della tua Elettra. È ripresa la concezione omerica per cui neppure gli dei possono opporsi alla volontà del Fato. Giove può però concedere ad Elettra il dono divino dell’eternità attraverso la fama. 121 orando: pregando. 122 gemea: gemeva. Nei Sepolcri anche gli dèi non sono immuni dalla sofferenza. 123 l’Olimpio: Giove, perché abita nell’Olimpo. 124 e l’immortal... tomba: e accennando in segno di assenso, con il suo capo immortale, irrorava di ambrosia stillata dai suoi capelli la ninfa, consacrandone il corpo e la tomba; poiché nel sepolcro di Elettra saranno sepolti i suoi discendenti, anche la loro fama sarà resa eterna. L’ambrosia, mitico nutrimento degli dei omerici, era usata anche come unguento che preservava dalla corruzione, perciò vale come simbolo di immortalità.


Ivi125 posò Erittonio, e dorme il giusto 255 cenere d’Ilo126; ivi l’Iliache donne sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando da’ lor mariti l’imminente fato127; ivi Cassandra, allor che il Nume in petto le fea parlar di Troia il dì mortale, 260 venne; e all’ombre cantò carme amoroso, e guidava i nepoti, e l’amoroso apprendeva lamento a’ giovinetti128. E dicea129 sospirando130: Oh se mai d’Argo, ove al Tidide e di Laerte al figlio 265 pascerete i cavalli, a voi permetta ritorno il cielo, invan la patria vostra cercherete131! Le mura opra di Febo sotto le lor reliquie fumeranno132. Ma i Penati di Troia avranno stanza 270 in queste tombe133; ché de’ Numi è dono servar nelle miserie altero nome134. E voi palme e cipressi che le nuore piantan di Prìamo, e crescerete ahi presto di vedovili lagrime135 innaffiati, 275 proteggete i miei padri136: e chi la scure asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti e santamente toccherà l’altare137. vv. 235-295 L’Iliade è esempio di come la poesia possa eternare il ricordo oltre la distruzione materiale dei luoghi. Al poema omerico è poi legato il tema della “compassione”, che inscrive il sentimento patriottico in un più vasto orizzonte umano: tutta l’umanità, infatti, compiange e per sempre compiangerà («E tu onore di pianti, Ettore, avrai») Ettore, l’eroe sconfitto, caduto mentre difendeva la propria patria.

125 Ivi: nel sepolcro di Elettra, che accoglie anche i suoi discendenti. 126 posò... Ilo: fu sepolto Erittonio e riposano le ceneri del giusto Ilo. Erittonio è figlio di Dardano, Ilo il nipote; «giusto / cenere d’Ilo» è un’ipallage perché assegna l’attributo giusto a cenere e non a Ilo, come se la qualità della giustizia restasse a lui legata anche nel sepolcro. 127 ivi... fato: lì (presso il sepolcro dei grandi troiani) le donne troiane scioglievano le loro chiome, in segno di supplica, cercando invano di stornare il destino di morte incombente sui loro mariti. È ripreso il motivo per cui, nell’antichità, i sepolcri degli antenati divengono altari (vv. 97-98). L’interiezione ahi! esprime la partecipazione compassionevole del poeta, perché le preghiere delle donne troiane,

come quella della fanciulla inglese per il ritorno di Nelson, non verranno esaudite. 128 ivi Cassandra... giovinetti: lì venne Cassandra quando Apollo, ispirandole nell’animo la virtù profetica, le faceva predire la fine di Troia; e cantò ai morti lì sepolti un carme in cui esprimeva il suo amore (per i fondatori della sua patria) e insegnava ai giovani un canto ispirato dall’amore e dalla tristezza (per l’imminente fine della città). L’iterazione di ivi sottolinea la centralità del sepolcro dei grandi troiani, simbolo di memoria. A Cassandra, figlia di Priamo, vanamente amata da Apollo, il dio aveva concesso la virtù profetica, ma anche il destino di non essere creduta. La preveggenza di Cassandra, contrapposta alla cecità delle donne troiane, le fa comprendere che, essendo Troia destinata a cadere, sarebbe potuta rimanerne solo la memoria. La figura di Cassandra, centrale nel carme, evidenzia il rapporto tra la memoria del passato e il futuro: si collega perciò a quella di Alfieri e di Foscolo stesso. 129 dicea: diceva. Il discorso profetico di Cassandra si estende fino all’ultimo verso del carme. 130 sospirando: in segno di tristezza per l’infelice futuro che sta profetizzando. 131 Oh se mai... cercherete: oh se mai il destino vi permetterà di ritornare da Ar-

C.L.F. Becker (attribuito), Omero canta a un gruppo di giovani Greci, olio su tela, XIX secolo (Collezione privata).

go (città della Grecia che, per sineddoche, rappresenta l’intera Grecia) dove, come schiavi, farete pascolare i cavalli di Diomede (figlio di Tideo) e Ulisse (figlio di Laerte), cercherete vanamente la vostra patria. 132 Le mura... fumeranno: le mura di Troia, opera di Apollo, fumeranno sotto le loro macerie. Secondo il mito, il re di Troia Laomedonte aveva edificato le mura della città con l’aiuto degli dei Apollo e Poseidone, a cui però si era rifiutato di pagare il compenso dovuto; perciò gli dei lo avevano punito facendo distruggere la città. È sottolineato il contrasto tra le mura grandiose, edificate dagli dei, e ciò che ne resta dopo la distruzione e l’incendio di Troia. 133 Ma i Penati... tombe: ma le divinità tutelari di Troia avranno posto in queste tombe. 134 ché de’ Numi... nome: perché è un dono divino poter conservare una fama gloriosa anche nella sventura. 135 di vedovili lagrime: delle lacrime delle vedove. Cassandra profetizza la morte di molti troiani, pianti dalle loro vedove. 136 proteggete i miei padri: proteggete le tombe dei miei antenati. Cassandra si rivolge alle piante che proteggono i sepolcri. 137 e chi... altare: e chi, religiosamente, si asterrà dal troncare con una scure le fronde delle piante consacrate ai defunti, non sarà

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Proteggete i miei padri. Un dì vedrete 280 mendico un cieco errar sotto le vostre antichissime ombre138, e brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne, e interrogarle139. Gemeranno gli antri secreti140, e tutta narrerà la tomba 285 Ilio raso due volte e due risorto splendidamente su le mute vie per far più bello l’ultimo trofeo ai fatati Pelidi141. Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto, 290 i Prenci Argivi eternerà per quante abbraccia terre il gran padre Oceàno142. E tu onore di pianti, Ettore, avrai ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole 295 risplenderà su le sciagure umane143. punito dagli dei con la morte di consanguinei e toccherà l’altare (per le suppliche) con mani più pure (perciò i suoi voti saranno più graditi agli déi). Troncare i rami di una pianta consacrata a un defunto era considerato dagli antichi un sacrilegio: si ricordi il passo dell’Eneide (II, 512-514) in cui il vecchio Priamo si rifugia presso un altare protetto da un’antichissima pianta di alloro, dove viene empiamente ucciso da Pirro, figlio di Achille. 138 mendico... ombre: un mendicante cieco (Omero) errare sotto le vostre antichissime ombre. Omero, secondo la tradizione, è raffigurato come cieco, ma la sua cecità simboleggia anche il suo disinteresse per la realtà che lo attornia. L’essere errante lo accomuna a Dante (v. 174) e allo stesso Foscolo (vv. 226-227). La povertà, come per Parini, sottolinea il disinteresse e l’integrità morale del poeta. Le ombre sono antichissime perché Omero scrive il suo poema secoli dopo la guerra di Troia, il cui ricordo era giunto a lui indirettamente, attraverso i canti degli aedi. 139 brancolando... interrogarle: a tentoni (perché cieco) penetrare nelle camere sepolcrali e abbracciare le ombre dei morti nelle urne, e interrogarle. La scena ricorda la discesa nel regno dei morti di Ulisse nell’Odissea e di Enea nell’Eneide. L’abbraccio indica la partecipazione di Omero alle loro sofferenze. 140 Gemeranno... secreti: le camere sepolcrali più interne e nascoste risuoneranno di gemiti. I morti soffrono nel rievocare le terribili vicende della guerra. 141 tutta... Pelidi: tutti i sepolti nella tomba narreranno la storia di Ilio (Troia), due volte rasa al suolo e due volte ricostruita ancora più splendidamente sulle vie divenute deserte dopo la distruzione, per rendere più splendido l’ultimo trionfo sul-

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la città, riservato dal Fato ai discendenti di Peleo (Achille e suo figlio Pirro, ma il termine indica in generale tutti i greci). La città era stata precedentemente distrutta da Ercole e dalle Amazzoni. 142 Il sacro... Oceàno: il poeta sacro, consolando con il suo canto quelle anime addolorate, eternerà la fama dei principi greci in tutte le terre circondate dall’Oceano. Per Foscolo il poeta – vate e perciò ispiratore di valori – è sacro; Omero consola della morte i sepolti nella tomba troiana perché dona a loro e alla loro città una fama eterna in tutto il mondo (che, nell’antichità, si pensava fosse circondato da un unico mare, detto Oceano). 143 E tu... umane: e tu, Ettore, riceverai

onore e compassione in tutti i luoghi in cui il sangue versato per la patria sarà considerato sacro e degno di compianto, e fino a quando il sole illuminerà la vita sulla terra abitata e il dolore degli uomini. Parla ancora Cassandra che, dopo essersi rivolta ai giovani, affidando loro il compito di conservare la memoria della città dopo la sua distruzione, si rivolge al proprio fratello Ettore, sepolto in quella tomba, promettendo che sarà compianto fino al termine delle vicende di un’umanità accomunata dalle sventure. Il carme si chiude così circolarmente, sull’urna di Ettore, confortata dal pianto della sorella e dalla compassione di tutto il genere umano, dando implicita risposta alla domanda con cui si apre.

Arnold Böcklin, L’isola dei morti (la prima delle cinque versioni), olio su tela, 1880 (Basilea [Svizzera], Kunstmuseum Basel).


Analisi del testo L’articolazione complessiva del carme I Sepolcri sono un testo profondamente unitario, intessuto di richiami a distanza, che si sviluppa in un crescendo ma, come Foscolo stesso precisa nella Lettera a Guillon per farne meglio comprendere la struttura, può essere suddiviso in quattro parti, corrispondenti a quattro macrosequenze argomentative. Tali sequenze, aperte da frasi dalla sintesi epigrafica, sono fra loro legate da corrispondenze strutturali: in ciascuna, ad esempio, è presentata una figura di poeta (nell’ordine, Parini, Foscolo, Alfieri e Omero). Lo stile varia nelle diverse sezioni, paragonabili ai movimenti di una sinfonia, con un effetto di climax, dall’orrido preromantico della prima parte all’innalzarsi epico e grandioso della finale profezia di Cassandra.

La prima parte (vv. 1-90): la «corrispondenza d’amorosi sensi» Il tema della legge Il carme è preceduto da un’epigrafe, una legge romana del periodo arcaico sui diritti dei defunti citata da Cicerone e volta a mettere in rilievo come la disposizione legislativa napoleonica “nuova”, cioè autoritariamente imposta ed estranea alla civiltà italiana («Pur nuova legge impone oggi», v. 51), violi un principio enunciato da Vico, secondo cui le leggi devono derivare dalla storia di un popolo: i «governi debbono essere conformi alla natura degli uomini governati» (Vico, La scienza nuova, LXIX). L’epigrafe evidenzia così il rifiuto foscoliano del razionalismo illuministico e la valorizzazione della dimensione storica, profondamente connaturata al carme. La concezione materialistico-meccanicistica… I primi versi propongono una domanda, solo apparentemente retorica: in base alla concezione materialistico-meccanicistica di una natura la cui forza distruttiva è resa dalle immagini, di gusto preromantico, delle ossa disseminate ovunque, e della distruzione finale che attende la terra e i corpi celesti, come può un sepolcro consolare chi non gode più della vita? … e il suo superamento A questo punto (dal v. 23) – con una svolta segnata dalla forte avversativa Ma – si apre una riflessione che si protrae fino alla fine del carme, volta a superare il pessimismo iniziale, mostrando come l’uomo possa andare oltre il limitato tempo della vita individuale attraverso la memoria, la civiltà, la storia e la poesia. L’illusione e la «corrispondenza d’amorosi sensi» Chiavi per il superamento del pessimismo indotto dalla concezione meccanicistica sono due concetti: l’illusione e la «corrispondenza d’amorosi sensi», che spostano il discorso dalla dimensione razionale a quella sentimentaleaffettiva, evidenziando la sensibilità proto-romantica dell’autore. L’illusione, elemento centrale di tutta la concezione foscoliana, è quell’insieme di credenze che, sottraendosi alla “tirannia” della ragione – che ci mostra come ogni cosa venga annientata – danno ciononostante valore e senso alla vita (amicizie, affetti, bellezza della natura e dell’arte). Un esempio di illusione è il sentimento provato alla morte delle persone care. Secondo ragione, per i non credenti esse non ci sono più; ma è quasi impossibile accettare del tutto questa idea: senza che si possa razionalmente giustificarlo, l’amore ce le fa sentire ancora vive e vicine. La «corrispondenza d’amorosi sensi», il legame affettivo tra persone così intenso da non spezzarsi con la morte, dona una sorta di immortalità, avvicinando la condizione umana a quella degli dei, come evidenzia la ripetizione della parola chiave celeste, al v. 29 e in apertura del v. 31, contrapposta a estinto dei successivi vv. 32-33. L’esempio negativo: Milano dimentica di Parini Tale reciprocità di affetti viene considerata da Foscolo sia in una dimensione privata (a essere ricordati sono i buoni, che destano il rimpianto di chi ancora vive) sia in quella pubblica, in quanto una comunità che alimenti i più alti valori civili coltiva il ricordo dei concittadini più degni. A questo proposito è proposto l’esempio – negativo per la Lombardia napoleonica – del primo dei poeti dei Sepolcri, Parini: la sua poesia, sferzante verso i milanesi, non gli ha meritato il ricordo dell’ingrata città, tanto che ora il suo corpo giace abbandonato in una tomba anonima, in una squallida periferia. Si prepara così la seconda parte del carme, un excursus antropologico-storico dedicato al rapporto tra il culto dei morti e la comunità civile. Lo stile: un inizio “preromantico” Questa prima sezione è contraddistinta da immagini cupe, talvolta anche “orride”, di gusto ossianico e preromantico, come la distesa infinita di ossa che ricopre terra e mare, e la lugubre scena notturna del cimitero abbandonato in cui giace Parini, le cui connotazioni funeree sono messe in risalto dal fonosimbolismo della u e dai suoni duri e cupi delle consonanti c e g, che sottolineano la crudezza delle immagini. Ad accentuare

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l’atmosfera raccapricciante, la parola bronchi, per indicare i rami spogli, evoca uno scenario infernale, il XIII canto dell’Inferno dantesco con la selva dei suicidi.

La seconda parte (vv. 91-150): il culto dei morti e la civiltà Le istituzioni segnano il sorgere della civiltà L’introduzione solenne, dalla concisione epigrafica, dei vv. 91- 96, con un vertiginoso salto temporale all’indietro riporta al momento della nascita e dello sviluppo della civiltà che, con un esplicito richiamo alla filosofia vichiana, coincide per Foscolo con le istituzioni del matrimonio, dei riti religiosi e, prima ancora, della sepoltura dei morti, in cui avviene il passaggio dell’uomo primitivo dallo stato belluino a quello umano e civile grazie al sentimento di compassione («alle umane belve esser pietose»). Le usanze sepolcrali riflettono i caratteri delle civiltà in cui si inscrivono. Per dimostrarlo, Foscolo propone quattro quadri, due di segno positivo e due di segno negativo, in cui il culto dei morti rivela il modo di intendere la vita delle diverse civiltà. Due quadri opposti del passato: Medioevo e Antichità Un quadro oscuro e negativo è quello del Medioevo visto, secondo una prospettiva ancora illuministica, come ossessionato dalla caducità della vita e dal terrore dell’aldilà, che impediscono di godere dell’esistenza. Al Medioevo è contrapposta l’Antichità, che attribuisce alla vita pieno significato e valore, come rivelano gli usi funebri di inscrivere sulle tombe le gesta gloriose (i fasti), al fine di suggellarle per sempre tramandandone la memoria, e di offrire ai morti (con «pietosa insania», cioè in modo irrazionale, ma profondamente umano) ciò che confortava anche in vita, quasi idealmente prolungandola: la luce, il profumo dei fiori, le offerte funebri, le confidenze dei vivi. Due quadri opposti del presente: Inghilterra e Italia napoleonica Ai due quadri del passato se ne affiancano due del presente, anch’essi di segno opposto. Positivo è quello della contemporanea Inghilterra, in cui rivivono le generose illusioni degli antichi e l’elevato grado di civiltà, mostrato dall’immagine di una giovane donna che, partecipe del destino della propria patria, prega per l’ammiraglio Nelson, l’unico che allora fosse stato in grado di vincere Napoleone. Agli inglesi sono contrapposti gli italiani (e soprattutto le loro classi dirigenti), preoccupati solo delle ricchezze materiali e della propria tranquillità, passivamente assoggettati alle direttive napoleoniche, incapaci di assumere un impegno civile, tanto da essere considerati come morti anche quando sono in vita («nelle adulate reggie ha sepoltura già vivo»). Lo stile: il gioco dei contrasti Alla struttura oppositiva che caratterizza questa seconda parte del carme corrisponde uno stile ricco di contrasti, con un effetto di accentuato “chiaroscuro”. I cimiteri antichi sono raffigurati come in un quadro neoclassico, connotato dalla luminosità e dall’armonia, in contrapposizione alle immagini cupe e macabre del Medioevo (le raffigurazioni degli scheletri che, come un memento mori, intristiscono le città, oppure la scena notturna della madre che si ridesta angosciata dalla visione dei morti); allo stesso modo, alla scena di gusto preromantico dei cimiteri inglesi curati come giardini, con la fanciulla assorta nella preghiera, fa da contraltare la freddezza marmorea dei monumenti esteriormente pomposi, ma incapaci di suscitare emozioni. L’autoritratto foscoliano Anche questa seconda sezione si chiude con il ritratto di un poeta: l’autore stesso che, ponendo qui in rilievo il tema autobiografico che percorre tutto il carme, auspica, in contrasto con la viltà e l’ignavia degli italiani del suo tempo, di lasciare quella eredità ed esempio di «caldi sensi e di liberal carme» che contribuisca a preparare un futuro riscatto dell’Italia. Si preannuncia così la sezione successiva del carme, dedicata al tema patriottico.

La terza parte (vv. 151-212): il tema patriottico e Firenze, culla della futura Italia Questa parte è segnata da un marcato innalzamento di tono e da un carattere eroico, sottolineato fin dall’inizio dalla parola chiave egregie e dall’iterazione dell’aggettivo forte: «A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti». Il ricordo dei grandi, consacrato dalle tombe, può ridestare quei sentimenti di amore per la patria che soli possono far risorgere l’Italia. Come scrive il critico Enzo Neppi: «Prima di tutto, mossa cruciale, Foscolo sposta il suo sguardo a volo d’uccello da Milano, fulcro politico intorno a cui s’impernia il dominio francese, a Firenze, culla della cultura italiana. Come noto, Firenze, nella basilica di Santa Croce, raccoglie la memoria di tutte le forze italiane più libere e vive, nei diversi campi del pensiero, della scienza e dell’arte. Qui sono infatti le tombe di Machiavelli, Michelangelo e Galileo, qui è la memoria di Dante e Petrarca, padri della poesia

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italiana, ma anche quella di Alfieri, sua ultima gemma, a cui più intimamente si ispira Foscolo. [...]. Attraverso queste diverse figure, il poeta può così contrapporre alle Alpi – che nonostante la loro mole imponente non vietano la discesa in Italia delle potenze nemiche – le pareti della basilica fiorentina (riletta qui in chiave interamente civile), che almeno preservano la memoria, quando tutto il resto è stato invece invaso e distrutto. [...]». La raffinatezza stilistica La centralità del tema è evidenziata dalla raffinata eleganza dello stile; le immagini luminose e armoniose creano un effetto di aerea vastità, a sottolineare sia l’armonia tra uomo e natura nel paesaggio fiorentino, sia l’altezza del pensiero umano, a cui i grandi italiani sepolti in Santa Croce hanno saputo elevarsi: Machiavelli svelando la realtà della politica, Michelangelo innalzando grandiosi monumenti, Galileo spingendosi a contemplare il sistema dei pianeti, ammirando «sotto l’etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradïarli immoto» (vv. 161-162), e aprendo la strada a Newton che simboleggia la capacità sublime dell’umano pensiero di osservare il cosmo. Il tema è sottolineato dal campo semantico della visione svelata (svela, vide, sgombrò) e da una specie di climax (alzò, «sotto l’etereo padiglion», «tanta ala vi stese», «le vie del firmamento»). La figura di Alfieri, poeta profetico e patriottico A tali sentimenti di “magnanima esaltazione” è ispirata la figura principale di poeta della terza parte (in cui sono ricordati anche Dante e Petrarca): Vittorio Alfieri, considerato da Foscolo soprattutto per la sua ispirazione patriottica e rappresentato come se, esaltandosi per le memorie dei grandi di Santa Croce, ne traesse la speranza di un futuro riscatto dell’Italia; una connessione tra memoria del passato e futuro che caratterizza anche le figure di Cassandra e di Foscolo stesso, costituendo uno dei nodi del carme. L’eterna gloria degli eroi di Maratona Con uno degli arditi trapassi di tempo e di luogo che caratterizzano i Sepolcri, per l’affinità del tema patriottico la scena si sposta da Santa Croce, santuario della futura nazione italiana, a Maratona, luogo venerato da chi voglia combattere per la patria. L’eternità della gloria degli eroi combattenti per la libertà della Grecia contro i persiani è icasticamente raffigurata dal «realismo magico» (Getto) delle figure «sospese tra la vita e la morte» dei fantasmi guerrieri che ogni notte si stagliano luminosi dall’oscurità, a simboleggiare una gloria che non si spegne mai. La trama fonosimbolica Nei versi, l’accuratezza della trama fonosimbolica contribuisce alla vivida intensità della rappresentazione. Come rileva il critico Giuseppe Nicoletti, nel brano «si intrecciano tre temi sonori: un primo tema inaugurato da mar di v. 202 e costituito da una serie di forme tronche dell’infinito (balenar, fumar, cercar, incalzar), un secondo avviato da Eubea dello stesso verso e caratterizzato dal marcato raddoppiamento vocalico in fine di parola (vedea, vedea, spandea) e infine un tema fortemente espressivo in chiave soprattutto consonantica (cozzanti, accorrenti, scalpitanti). Le modalità di raccordo di questi temi e di altri minori sono assai varie: si va dalla rima interna all’assonanza, fino alla ripresa di segmenti versali [parti di versi, emistichi] in corrispondenza fonica («fumar le pire igneo vapor»; «cercar la pugna; e all’orror») e di corrispondenze fra incipit e clausole di uno stesso verso in funzione di dissolvenza sonora e di chiusa («e pianto ed inni, e delle Parche il canto»)». Anche la chiusura della terza parte (con il trionfo dei vincitori, il pianto degli sconfitti e, su entrambi, il canto delle Parche, simbolo del destino) prepara la seguente e conclusiva, in cui la passione patriottica è stemperata in un più comprensivo orizzonte umano che accomuna vincitori e vinti. Antonio Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria, 1798-1805 (Vienna). Particolare della costruzione a forma piramidale con il leone (la forza fisica) e il genio funerario alato (lo spirito umano) che si stanno spegnendo (simboli della vita che si allontana).

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La quarta parte (vv. 213-295): i valori e la poesia eternatrice Il mare greco Il mare greco presso l’isola di Maratona si allarga nelle distese di acque sempre più vaste dell’ultima sezione («il regno ampio de’ venti»), scenario dei poemi omerici. Sono i luoghi che il destinatario del carme, Ippolito Pindemonte (autore di una traduzione dell’Odissea a cui si era accinto nel periodo in cui Foscolo scriveva i Sepolcri) aveva percorso durante un viaggio giovanile. La poesia eternatrice In quest’ultima parte emerge un nuovo tema: tramite della memoria non sono ormai più i sepolcri, anch’essi destinati a disgregarsi come ogni cosa materiale, ma la poesia, la cui armonia «vince di mille secoli il silenzio», superando ogni limitazione temporale. Il tema della poesia eternatrice, centrale nell’opera foscoliana, emerge nei vv. 230-234, tra i più affascinanti del carme, con l’immagine delle Muse che custodiscono i sepolcri e ne perpetuano i ricordi quando essi sono spazzati via dalle ali del tempo. L’esempio di Troia Come sempre nei Sepolcri, il concetto riceve forza persuasiva da un esempio: quello della città di Troia, scomparsa ma rimasta viva nei secoli grazie alla poesia omerica. I versi foscoliani ne ripercorrono la storia: dalla mitica capostipite Elettra al momento in cui Cassandra, grazie alle sue capacità profetiche, “vede” nel futuro la distruzione della città; ma anche la consacrazione poetica grazie a Omero che, con profonda umanità, non solo glorifica i vincitori greci, ma onora anche gli sconfitti troiani e fra loro il più sfortunato e valoroso, Ettore. La chiusura dei Sepolcri I Sepolcri si chiudono così circolarmente, perché l’urna di Ettore è «confortata di pianto»: non solo quello di Cassandra, sua sorella, ma dell’intera umanità dei secoli a venire, che ama questo eroe, commossa dall’immortale poesia di Omero fino a quando il sole illuminerà le «sciagure umane». Così la domanda con cui si apre il carme riceve una grandiosa e solenne risposta.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è la funzione dei sepolcri secondo Foscolo? 2. Che cosa intende il poeta con l’espressione «corrispondenza d’amorosi sensi»? (v. 30) Quale speranza nutre Foscolo dopo la morte? 3. Perché, secondo Foscolo, soltanto «chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna»? (vv. 41-42) 4. A chi appartengono «l’urne de’ forti» (v. 152)? Perché questi sono menzionati? 5. Nei Sepolcri Foscolo confronta Milano e Firenze: per quali aspetti le due città sono contrapposte? Quali sono le ragioni della dura critica contro Milano? 6. Nei Sepolcri che cosa lega Orazio Nelson a Ettore? ANALISI 7. Analizza nei Sepolcri le immagini della luce e dell’oscurità e indicane il valore simbolico. 8. Individua nei Sepolcri i principali elementi pre-romantici e i principali elementi classici. 9. Analizza in una tabella come questa i temi indicati: Versi

Il modo in cui è trattato

Il valore attribuito dal poeta

La legge La speranza per il futuro Il compito della poesia La libertà 10. Indica e descrivi i luoghi in cui si snodano i Sepolcri, quindi analizzane il valore simbolico.

180 Ottocento 2 Ugo Foscolo


11. Completa la tabella e analizza i rapporti intercorrenti tra le diverse dimensioni del tempo nei Sepolcri: Versi

Tematiche affrontate

Interpretazione

Tempo breve della vita umana Tempo cosmico della natura Tempo della storia 12. Descrivi i caratteri dei seguenti poeti rappresentati nei Sepolcri e indica i valori trasmessi: Parini, Alfieri, Dante, Petrarca, Omero, Foscolo stesso. 13. Completa la tabella e interpreta il significato dei personaggi della storia e del mito citati: Personaggi

Versi

Descrizione

Interpretazione e significato

Funzione

Aiace Cassandra Ettore Omero Agamennone Ulisse Alfieri Dante STILE 14. Rintraccia le perifrasi con cui Foscolo introduce i personaggi nei Sepolcri. Spiega il motivo di questa scelta stilistica. 15. Analizza i vv. 226-295 dal punto di vista formale (aspetto lessicale, sintattico e ritmico, utilizzo di figure retoriche).

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 16. Confronta il ritratto di Parini presentato nell’Ortis (➜ T11 ) e nei Sepolcri, evidenziando elementi comuni e differenze. ESPOSIZIONE ORALE 17. I Sepolcri sono anche una riflessione sul concetto di civiltà. Come viene descritto lo sviluppo della civiltà? In che senso essa appare minacciata da possibili “ricorsi” vichiani? Rispondi in un intervento orale di max 3 minuti. SCRITTURA 18. «Esilio, erranza, impossibile nostos, vana ricerca di una meta al proprio vagare, incessante metamorfosi di tutte le cose» caratterizzano i Sepolcri secondo il critico Enzo Neppi. In un testo scritto di circa 20 righe spiega il significato di tale giudizio e indica le forze che secondo il poeta si contrappongono a questa desolata condizione esistenziale. 19. Foscolo invita a guardare al passato come fonte di ispirazione di grandi ideali. Credi che il suo messaggio sia attuale e condivisibile? Credi che coltivando la memoria collettiva si possa conservare un patrimonio culturale che funga da stimolo per agire nel nostro presente e costruire un futuro migliore?

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 7

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

20. La possibilità di instaurare con chi ci ha lasciati per sempre una «corrispondenza d’amorosi sensi» è per te una fonte di conforto o credi che sia soltanto un’illusione?

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 181


4 Un alter ego ironico e disincantato: Didimo Chierico Un nuovo autoritratto L’autoritratto passionale dell’Ortis non è l’unico che Foscolo tracci di sé. Un’immagine diversa, e addirittura alternativa dello scrittore, specchio di una nuova disposizione d’animo, è affidata anni dopo alla Notizia intorno a Didimo Chierico, pubblicata in appendice alla versione foscoliana del Viaggio sentimentale di Sterne, realizzata nel 1813 durante il soggiorno fiorentino: si tratta di informazioni biografiche su un personaggio d’invenzione a cui Foscolo attribuisce la traduzione dell’opera, Didimo Chierico appunto. In realtà, con Didimo Foscolo dà vita a una nuova “maschera” di sé stesso, vistosamente – e programmaticamente – contrapposta al personaggio di Jacopo. Già la scelta del nome è significativa: Didimo è un erudito greco, vissuto nel I secolo a.C; chierico (opposto a laico) significa invece “religioso, sacerdote”; nel Medioevo “chierico” era sinonimo di letterato e perciò il nome sembra alludere alla dedizione quasi sacerdotale del personaggio alla letteratura (nei Sepolcri anche Parini è definito sacerdote della musa Talia). Una dedizione che risulta, però, in parte alternativa alla rovente passione politica espressa dall’Ortis. «Didimo è l’anti-Ortis, o per meglio dire l’Ortis sopravvissuto, divenuto letterato, traduttore, commentatore, meglio disposto all’indulgenza verso sé e verso gli altri, ma con nell’animo integri gli ideali e i sentimenti di un giorno: un Ortis che, scrutato a fondo, si rivela a dir del suo autore, più disingannato che rinsavito» (Fubini). Il distacco dalle passioni di Didimo-Foscolo Di Didimo, Foscolo scrive che «teneva ormai chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana»: un distanziamento dalla dimensione emotiva e passionale che lo scrittore visse realmente nel periodo fiorentino quando, lontano dalle polemiche milanesi, si dedicava alla stesura delle Grazie. Come scrive efficacemente il critico Giuseppe De Robertis, «se Ortis scrisse i Sonetti, e Foscolo i Sepolcri, Didimo scrisse le Grazie». I critici hanno perciò parlato di un Foscolo “didimeo”, più incline a un atteggiamento di sereno distacco dal mondo che di polemica e contrasto, capace di una sorridente e tollerante accettazione degli uomini, nonostante i loro difetti. La tecnica narrativa A evidenziare il mutamento è anche la tecnica narrativa: diversamente da Ortis, che si confessa in prima persona, qui interviene un narratore-testimone che può riferire le abitudini, i discorsi, le azioni del protagonista, ma senza entrare nel suo animo, che rimane perciò alquanto misterioso. Anche la prosa è lontanissima dal pathos e dall’enfasi emotiva dell’Ortis: Foscolo sceglie qui un registro asciutto e referenziale.

Notizia intorno a Didimo Chierico

GENERE

TEMI

182 Ottocento 2 Ugo Foscolo

appendice alla versione foscoliana del Viaggio sentimentale di Sterne, nella quale vengono riportate informazioni biografiche su un personaggio di invenzione: Didimo Chierico

• distacco dalle passioni • tollerante accettazione degli uomini


Didimo, un Ortis «più disingannato che rinsavito»

T19

LEGGERE LE EMOZIONI

Notizia intorno a Didimo Chierico VII; XI-XIII Nella Notizia intorno a Didimo Chierico, composta nel periodo trascorso a Firenze e pubblicata nel 1813, Foscolo traccia un autoritratto profondamente diverso da quello affidato all’Ortis, mostrando come il tempo e le delusioni avessero mitigato la passionalità ortisiana in un disincanto tollerante e venato di ironia.

U. Foscolo, Opere, a cura di F. Gavazzeni, tomo I, Ricciardi, Milano-Napoli 1974

La tolleranza di Didimo VII. Teneva irremovibilmente strani sistemi; non però disputava a difenderli; e per apologia a chi gli allegava evidenti ragioni, rispondeva in intercalare: opinioni1. Portava anche rispetto a’ sistemi altrui, o fors’anche per non curanza, non movevasi a2 5 confutarli; certo è ch’io in sì fatte controversie, lo ho veduto sempre tacere, ma senza mai sogghignare3; e l’unico vocabolo, opinioni, lo proferiva con serietà religiosa. [...] Usi e costumi del personaggio XI. Ora dirò de’ suoi costumi esteriori. Vestiva da prete; non però assunse gli ordini sacri; e si faceva chiamare Didimo di nome, e chierico di cognome; ma gli rincre10 sceva sentirsi dar dell’abate. Fuor dell’uso de’ preti4, compiacevasi5 della compagnia degli uomini militari. Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se taluno (com’oggi s’usa) professavasi cosmopolita, egli si rizzava6 senz’altro. S’addomesticava alle prime7; benché con gli uomini cerimoniosi parlasse asciutto; ed a’ ricchi pareva altero; evitava le sette e le confraternite; 15 e seppi che ricusò due patenti8 accademiche. Usava per lo più ne’ crocchi delle donne9, per ch’ei le reputava più liberalmente10 dotate dalla natura di compassione e di pudore; due forze pacifiche le quali, diceva Didimo, temprano sole tutte le altre forze guerriere del genere umano11. Le passioni di Didimo: «calore di fiamma lontana» XII. Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale12 per cui l’uno s’attacca all’altro, l’aveva già data a que’ pochi ch’erano giunti innanzi. Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m’accorsi mai ch’egli avesse fiducia ne’ giorni avvenire o che ne temesse. […] Ammirava assai; ma 25 più con gli occhiali, diceva egli, che col telescopio13: e disprezzava con taciturnità sì 20

1 Teneva… opinioni: sosteneva con fermezza (irremovibilmente) strane (“del tutto personali”) opinioni con pretese di sistematicità (sistemi); ma non le dibatteva affrontando delle discussioni; e a difesa di chi gli portava prove evidenti del contrario, rispondeva con un intercalare ricorrente nel discorso: opinioni (che significa tolleranza delle idee altrui e insieme attaccamento alle proprie). 2 non movevasi a: non si preoccupava di. 3 senza... sogghignare: Didimo non ride delle opinioni altrui perché le considera con rispetto, anche se diverse dalle proprie.

4 Fuor dell’uso de’ preti: a prescindere dalle consuetudini di vita dei preti. 5 compiacevasi: si compiaceva, apprezzava. 6 si rizzava: si alzava in piedi (per andarsene). Didimo non vuole imporre ad altri le proprie idee, ma ha gli stessi sentimenti patriottici di Jacopo Ortis ed è ormai lontano dagli ideali cosmopoliti dell’Illuminismo. 7 S’addomesticava... prime: riusciva a stabilire in fretta un rapporto amichevole con le persone. 8 patenti: attestati. 9 Usava... donne: era solito preferire la

conversazione delle donne. 10 liberalmente: generosamente. 11 due forze... umano: è un’idea più volte teorizzata da Foscolo, in particolare nelle lezioni tenute a Pavia. 12 la colla cordiale: l’affabilità che viene dal cuore, collante dei rapporti fra le persone. 13 più con gli occhiali... telescopio: l’ammirazione di Didimo, a differenza di quella del giovane Ortis, non è disgiunta dalla capacità critica e non tende a mitizzare colui che è ammirato, come se lo ingrandisse con un telescopio.

Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 183


sdegnosa da far giusto e irreconciliabile il risentimento degli uomini dotti14. Aveva per altro il compenso di non patire d’invidia, la quale, in chi ammira e disprezza non trova mai luogo. XIII. Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua naturale, s’accomodasse15, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini, però non era orgoglioso né umile. Parea verecondo16, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso, perciò parea libero. […] Inoltre sembravami, ch’egli sentisse non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. […] Ma pareva, quando io lo 35 vidi, più disingannato17 che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare, che di toccare la meta. Queste ad ogni modo sono tutte mie congetture. 30

14 disprezzava... dotti: disistimava chiudendosi in un silenzio così sdegnoso da giustificare un irrimediabile risentimento dei dotti nei suoi confronti. Foscolo allude a un episodio autobiografico: richiesto di un parere su un poema di Monti, smaccatamente adulatorio verso Napoleone,

aveva opposto il silenzio a ogni richiesta di giudizio («io lo lessi attentamente, e senza proferire parola, lo rimisi tra le mani dell’autore; e i ciarlieri che aspettavano la mia risposta si rimasero con le orecchie vuote e con la lingua annodata»), suscitando la reazione offesa di Monti che

avrebbe poi rotto in modo clamoroso l’amicizia con Foscolo. 15 s’accomodasse: si adattasse. 16 verecondo: modesto. 17 disingannato: deluso.

Analisi del testo Un confronto Didimo-Ortis Nel breve ma articolato ritratto di Didimo si possono individuare diverse componenti. • Elementi autobiografici: alcuni aspetti del ritratto di Didimo rinviano direttamente a Foscolo, come la frequentazione dell’ambiente militare, il patriottismo, l’abilità nel parlare. • Elementi in contrapposizione con l’Ortis: Didimo-Foscolo appare come un’evoluzione di Ortis, una sorta di Ortis sopravvissuto, ma così cambiato dalle delusioni provate da apparire irriconoscibile. È più maturo e disincantato; condivide gli ideali di Ortis, ma ne ha compreso l’irrealizzabilità: perciò pare «più disingannato che rinsavito». Quanto Ortis è passionale, tanto Didimo è pacato, lasciando trasparire le sue antiche passioni come «calore di fiamma lontana». • La presentazione di un “io ideale”: come Ortis è più idealista e coerente dell’autore, così Didimo è più “filosofo”, più disincantato e saggio. • Il modello di Parini: mentre Ortis può ricordare un personaggio alfieriano, Didimo appare più simile a Parini, sia per la condizione ecclesiastica («Vestiva da prete [...]. Gli rincresceva sentirsi dar dell’abate», rr. 8-10), sia per il carattere tranquillo e tollerante, che ricorda quello del poeta milanese. • Il gusto sterniano del paradosso: il personaggio, presentato come traduttore di Sterne, assume anche alcune caratteristiche dello scrittore settecentesco inglese, come l’ironia e il gusto del paradosso. • Il gusto del nascondimento e del mistero: mentre Ortis svela nelle proprie lettere ogni piega del proprio animo, Didimo rimane misterioso, quasi inaccessibile. Ortis parla di sé al presente, in prima persona; Didimo è invece descritto da un narratore in terza persona che si riferisce al passato, presentandolo come un personaggio da lui non ben conosciuto e molto riservato. La soggettività della rappresentazione è evidenziata nel testo da espressioni quali E forse, fors’anche, parea. Le frasi e i comportamenti di Didimo presentati dal testimone appaiono come i tasselli di un mosaico che non si compongono in un tutto unitario, rendendo il personaggio inafferrabile.

184 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Le sue opinioni e il suo modo di agire, Didimo «non disputava a difenderli» (r. 2). Per quali ragioni? 2. In che cosa crede Didimo? Quali sono i suoi ideali? ANALISI 3. Quali passi sottolineano il contrasto, secondo te, fra Didimo-Foscolo e l’autoritratto ortisiano?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA CREATIVA 4. Tratteggia il ritratto ironico (in terza persona, attraverso un narratore-testimone) di te stesso (max 15 righe).

5 Le Grazie: alla ricerca di un’«universale secreta armonia» Un’opera incompiuta e frammentaria Le Grazie, poema allegorico neoclassico che Foscolo avrebbe voluto dedicare al celebre scultore Antonio Canova, è l’ultima grande opera di Foscolo, rimasta però incompiuta. L’autore vi dedica un lungo arco di tempo, soprattutto durante il soggiorno fiorentino del 1812-1813 e poi durante l’esilio, lavorando però in modo non sistematico: da una parte componendo frammenti come se fossero poesie indipendenti (spesso riscritte più volte con numerose varianti), dall’altro elaborando piani compositivi dell’opera, senza giungere a concluderla e pubblicarla, fatta eccezione per alcuni frammenti. Gli editori delle Grazie hanno quindi dovuto compiere un lavoro complesso, tentando di immaginare come l’opera si sarebbe dovuta presentare nelle intenzioni di Foscolo, e di conseguenza hanno predisposto edizioni fra loro molto diverse; l’ultima e più attendibile, a cui si fa attualmente riferimento, è quella di Mario Scotti, compresa nell’Edizione nazionale delle opere di Ugo Foscolo, che documenta le varie fasi redazionali dell’opera. Un complesso iter creativo Durante il periodo in cui compone i sonetti e le odi neoclassiche, Foscolo pubblica quattro frammenti sulle Grazie (1803), inserendoli in uno scritto erudito, il commento alla Chioma di Berenice di Callimaco (raffinato poeta d’età ellenistica); qualche anno dopo, nel 1808, in una lettera a Monti, citando una serie di opere che aveva intenzione di comporre, nomina un poema Alle Grazie, in cui si proponeva di trattare «tutte le idee metafisiche sul bello». Ma soltanto nel periodo del soggiorno fiorentino (1812-1813), ispirato dalle bellezze della città e dalle opere artistiche degli Uffizi – fra cui una statua di Venere appena scolpita da Antonio Canova – l’autore comincia a scrivere l’opera a ritmo sostenuto. La composizione del poema, tuttavia è interrotta dagli incalzanti avvenimenti storici legati alla caduta di Napoleone, che inducono Foscolo a lasciare Firenze per Milano e poi l’Italia per l’esilio. In Inghilterra, Foscolo continua a lavorare alle Grazie, indotto forse più dal fascino che ha su di lui l’argomento che dall’obiettivo di terminare il poema nella difficile situazione di esule. Quasi a sancire una definitiva rinuncia a concludere l’opera, nel 1822 – in un volume fatto predisporre dal duca di Bedford per illustrare la sua collezione di opere artistiche, che includeva una copia del gruppo scultoreo delle Grazie di Canova – Foscolo pubblica alcuni versi del poema, inserendoli in una trattazione in prosa (Di un antico inno alle Grazie) che chiarisce il senso generale dell’opera. Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 185


Le Grazie, un mito personale di Foscolo Foscolo dichiara una personale predilezione per il mito delle Grazie, divinità intermedie tra gli uomini e gli dei, vedendolo come la rappresentazione di un legame fra valori estetici, intellettuali e morali: un ideale da lui profondamente sentito. La grazia è più della semplice bellezza, è un’armonia fra tutti gli aspetti della persona: bellezza, intelligenza, bontà, gentilezza. Come Foscolo scrive negli Appunti sulla ragione poetica: «è una dilicata armonia che spira contemporaneamente spontanea dalla beltà corporale, la bontà del cuore e la vivacità dell’ingegno congiunte in sommo grado in una sola persona». Per Foscolo, le Grazie simboleggiano tutto ciò che si oppone alla brutalità degli istinti, che ingentilisce le persone e rende il mondo più armonioso, lieto e sereno.

Antonio Canova, Cinque danzatrici con il velo, pittura a tempera su carta, 1813 (Possagno, Museo Gypsoteca Antonio Canova).

La struttura del poema Il poema, dapprima strutturato come un unico carme, successivamente viene diviso in tre inni, dedicati alle dee Venere, Vesta e Pallade. Si tratta però di un progetto, come si è detto, che Foscolo non realizzerà mai definitivamente. Nell’insieme i tre inni delineano, in forma didattico-allegorica, un percorso storico modellato sulla filosofia vichiana, contrassegnato da un progressivo incivilimento dell’umanità ma anche da corsi e ricorsi. Il primo inno, dedicato a Venere e ambientato in Grecia, descrive l’apparizione di Venere e delle Grazie dal mare Ionio. La loro comparsa induce gli uomini, ancora preda della barbarie, a incamminarsi sulla strada della civiltà. Il significato allegorico dell’inno è la missione civilizzatrice esercitata dalla bellezza, dall’armonia, dall’arte, che le Grazie rappresentano simbolicamente. Il secondo inno, dedicato a Vesta, porta la scena «nell’Italia de’ giorni nostri», a Firenze, luogo elettivo della cultura e dell’arte italiana, e mostra come l’armonia delle Grazie si manifesti in varie arti, musica, poesia e danza, coltivate da tre «donne gentili», eredi delle figure femminili della poesia stilnovistica. Il terzo inno, dedicato a Pallade, si stacca nettamente dai precedenti per lo scenario ideale e mitico, l’isola perduta di Atlantide (secondo il Timeo di Platone, nell’Atlantico, oltre le colonne d’Ercole), dove le Grazie vengono condotte da Pallade lontano dalle passioni umane. Potranno ritornare fra gli uomini e continuare così la loro opera civilizzatrice, ma protette da un velo che Pallade fa tessere per loro da un gruppo di divinità minori e sul quale sono raffigurati i più sacri, puri e nobili sentimenti umani. Più degli altri, il terzo inno è incentrato sul divario fra ideale e reale, fra le tendenze brutali e il mondo rasserenante di bellezza e

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armonia creato dalla poesia e dall’arte, rappresentato dall’isola perduta che gli uomini non possono più raggiungere. Lo stile Le Grazie hanno caratteristiche stilistiche in comune con i Sepolcri, in particolare la prevalenza delle immagini sulle argomentazioni razionali. Il poema associa tre mondi diversi, quello reale e contemporaneo della storia, quello edificato dall’arte e dalla poesia e quello “metafisico” delle idee. L’armonia, già ricercata nei Sepolcri, è l’elemento stilistico caratterizzante delle Grazie, in cui la poesia gareggia con la pittura e con la musica. La realtà storica non è assente dal poema ma, a differenza dei Sepolcri, appare in brevissimi flash (ad esempio i riferimenti alle guerre napoleoniche e alla campagna di Russia) che, con un effetto di chiaroscuro, intaccano solo momentaneamente le immagini prevalenti nell’opera, di bellezza, armonia e serenità. Perché Foscolo non conclude Le Grazie? Può sorprendere il fatto che Foscolo non abbia concluso Le Grazie, a cui lavora per lungo tempo e a cui dedica approfondite pagine di riflessione teorica. Varie possono essere le motivazioni: le difficili circostanze della vita di Foscolo in esilio, il fatto che l’opera fosse divenuta inattuale, essendo mutate le circostanze storiche e ormai tramontato il Neoclassicismo; o ancora, il fatto che l’ideale a cui tende l’opera non può mai essere compiutamente afferrato e raggiunto, coincidendo perciò, per sua natura, con una forma incompiuta e frammentaria. Il dibattito critico: opera minore o capolavoro? A differenza dei Sepolcri, unanimemente giudicati un capolavoro, la valutazione delle Grazie è controversa; è anche dibattuto se si tratti di un’opera di evasione o si proponga in qualche modo di incidere nell’attualità. In ogni caso, i valori di cultura e civiltà sono presentati come «risentita alternativa» (Vitilio Masiello) alla negativa realtà storica del periodo. Quanto al valore letterario, è certo giudicato anche in rapporto alle diverse visioni della letteratura presenti nelle varie epoche: se il critico ottocentesco Francesco De Sanctis le ritiene un’opera decisamente meno ispirata dei Sepolcri, nel primo Novecento, quando predomina un ideale di poesia “pura”, di tipo ermetico, le Grazie vengono considerate il vero capolavoro di Foscolo. Attualmente, la critica sulle Grazie non tende più, come in passato, a contrapporle ai Sepolcri ma, al contrario, riconosce una continuità fra le due opere: «le Grazie non contraddicono, ma compiono [completano] l’opera anteriore del Foscolo: segnano il momento in cui la tendenza palese in tutta l’arte foscoliana verso la contemplazione serenatrice si è fatta, per una diuturna [continua] esperienza di poesia, consuetudine» (Fubini).

Le Grazie GENERE

poema allegorico neoclassico incompiuto in endecasillabi sciolti

STRUTTURA

3 inni mitologici a Venere (Grecia classica), Vesta (Firenze), Pallade (Atlantide)

TEMI

STILE

• visione pessimistica della storia e della civiltà • funzione civilizzatrice della poesia

prevalenza di immagini sulle argomentazioni razionali

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Sguardo sull'arte Le Grazie nel mito e nell’arte Le Grazie, un simbolo estetico ed etico Le Grazie, in greco Càriti, figlie di Zeus, dee della vita serena e piacevole, sono in genere rappresentate come un gruppo di tre fanciulle, nude o coperte di un velo trasparente, che danzano con movenze armoniose. Simili, ma non identiche, nel mito greco prendono i nomi di Talia (la Prosperità), Aglaia (lo Splendore) ed Eufrosine (la Letizia).

Nelle rappresentazioni pittoriche si tengono spesso per mano, allacciate in una danza. Alcuni filosofi dell’antichità, come Seneca nel trattato De beneficiis (Sui benefici), considerano le Grazie anche come simbolo etico, raffigurazione dei benefici che – con un reciproco e continuo scambio – si possono dare, ricevere e contraccambiare in modo circolare. I filosofi neoplatonici fiorentini del Rinascimento le interpretano invece come figurazione del legame tra il mondo terreno e quello delle idee. Le Grazie e il Neoclassicismo

PER APPROFONDIRE

Il mito delle Grazie ha particolare fortuna nel periodo del Neoclassicismo, quando diviene uno dei simboli del “bello ideale”; le tre dee divengono allora uno dei soggetti prediletti degli artisti neoclassici. Negli stessi anni in cui Foscolo compone i suoi versi, Canova le rappresenta in un gruppo scultoreo (di cui possediamo due versioni, una attualmente conservata all’Ermitage di San Pietroburgo e l’altra, ordinata dal duca di Bedford, al Victoria and Albert Museum di Londra.

Antonio Canova, Le Grazie, 1813 (Possagno, Museo Gypsoteca Antonio Canova).

Il fascino misterioso dell’«isola non trovata» da Foscolo a Guccini Per sottrarle alla violenza delle passioni umane, degenerata in continue guerre, nel III inno Pallade conduce le Grazie ad Atlantide, l’isola che, per le colpe degli uomini, gli dei avrebbero inabissato nell’Oceano, secondo il mito narrato da Platone nel Timeo. Nel poema (3, framm. 1), Atlantide rappresenta un luogo meraviglioso e incantato, ma remoto e inaccessibile («invan la chiede all’onde oggi il nocchiero» e, «se illuso è dal desio, biancheggiar mira i suoi monti da lunge»): come un miraggio, l’isola sembra sottrarsi a chi tenti di avvicinarla. Il motivo fiabesco dell’isola che non c’è, luogo irraggiungibile e affascinante che gli uomini intravedono da lontano ma non riescono a raggiungere, è stato ripreso nel primo Novecento da Guido Gozzano (1883-1916), nella poesia La più bella (pubblicata su rivista per la prima volta nel 1913): «È l’isola fatata che scivola sui mari; / talora i naviganti la vedono vicina... […] Ma, se il piloto avanza, / rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro color di lontananza...».

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Affascinato da questa immagine suggestiva e misteriosa, il cantautore Francesco Guccini l’ha riproposta nella canzone L’isola non trovata, che dà il titolo all’omonimo album del 1970 ed è, come afferma lo stesso cantautore, una “parafrasi” del testo gozzaniano: «Ma bella più di tutte l’isola non trovata, quella che il re di Spagna s’ebbe da suo cugino, / il re di Portogallo, con firma suggellata e bulla del pontefice in gotico-latino... / Il Re di Spagna fece vela cercando l’isola incantata, / però quell’isola non c’era e mai nessuno l’ha trovata: / svanì di prua dalla galea come un’idea, / come una splendida utopia, è andata via e non tornerà mai più...». La canzone di Guccini, per le sonorità suggestive della ballata, rende perfettamente il senso di fascino e di mistero dell’isola in fuga, con la sua suggestione simbolica; in fondo «l’Isola Non-Trovata» rappresenta tutto ciò che, senza riuscirci, gli uomini vorrebbero trovare sulla terra e che pure continuano a cercare: potrebbe essere la pace, la verità, il bene…


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Proemio e dedica a Canova Le Grazie, vv. 1-26

U. Foscolo, Poesie e carmi, a cura di Pagliai, Folena, Scotti, Le Monnier, Firenze 1985

Nel proemio, Foscolo espone i princìpi di poetica dell’opera, dedicandola allo scultore Canova che, già autore della statua di Venere agli Uffizi, stava lavorando al gruppo marmoreo delle Grazie.

Cantando o Grazie degli eterei1 pregi di che il cielo v’adorna, e della gioja che vereconde2 voi date alla terra, belle vergini! a voi chieggio l’arcana 5 armoniosa melodìa pittrice della vostra beltà3; sì che all’Italia afflitta di regali ire straniere4 voli improvviso a rallegrarla il carme5. Nella convalle fra gli aerei poggi 10 di Bellosguardo6 ov’io cinta d’un fonte limpido fra le quete ombre di mille giovinetti cipressi alle tre dive l’ara innalzo7, e un fatidico laureto8 la protegge di tempio9, al vago rito10 15 vieni, o Canova, e agl’inni. Al cor men fece dono la bella Dea che tu sacrasti qui su l’Arno alle belle arti custode11, ed ella d’immortal lume e d’ambrosia la santa immago sua tutta precinse12. 20 Forse (o ch’io spero!) artefice di numi, nuovo meco darai spirto alle Grazie13 che or di tua man sorgon dal marmo14: anch’io

La metrica Endecasillabi sciolti 1 eterei: celesti. 2 vereconde: pure (riferito a belle vergini del verso seguente).

3 chieggio... beltà: chiedo la misteriosa (arcana, nel senso di “riposta in luogo difficilmente accessibile”) armonia capace di raffigurare la vostra bellezza. L’armonia è misteriosa perché non è presente nel mondo, ma avvertita dall’anima. 4 afflitta... straniere: tormentata dagli attacchi di potenze straniere. Foscolo si riferisce alle campagne di guerra condotte in Italia dai sovrani coalizzati contro Napoleone, dopo la battaglia di Lipsia, quando nel 1813 i francesi, ai quali era ancora soggetta l’Italia, dovettero indietreggiare dall’Isonzo all’Adige. Il riferimento storico è vago e indiretto, a rimarcare la volontà dell’autore di estraniarsi dalle dolorose vicende storiche attraverso la poesia.

5 voli... carme: giunga improvvisa a rasserenarla la poesia. È il tema della poesia consolatrice. 6 Nella convalle... Bellosguardo: nella valle tra le colline di Bellosguardo, che si levano alte nell’aria. Bellosguardo è una località sulle colline presso Firenze, dove Foscolo aveva affittato una casa in cui soggiornò tra il 1812 e il 1813. 7 ov’io cinta... innalzo: dove io, fra le silenziose ombre di numerosi cipressetti, innalzo alle tre Grazie (Dive) un altare, circondato da una limpida sorgente. L’immagine neoclassica si riferisce alla stesura delle Grazie, composte in gran parte durante il periodo trascorso a Firenze. 8 un fatidico laureto: un bosco profetico di lauri. Il lauro è detto fatidico perché sacro ad Apollo, dio dotato di virtù profetiche. 9 di tempio: come un tempio. 10 vago rito: rito armonioso.

11 Al cor... custode: al mio cuore lo ha ispirato (me ne [degl’inni] ha fatto dono), la bella dea (Venere) che tu hai consacrato qui presso l’Arno (nel museo fiorentino degli Uffizi) come custode delle belle arti. Lo scultore neoclassico Canova (1757-1822), dedicatario delle Grazie, aveva infatti scolpito una statua di Venere, chiamata Venere italica, collocata nel 1812 agli Uffizi, in sostituzione della ellenistica Venere medicea, portata dai francesi al Louvre. 12 ella... precinse: Venere (ella) avvolse (precinse) di luce eterna e di ambrosia la propria immagine, rendendola immortale. 13 meco... alle Grazie: insieme a me farai rivivere le Grazie. 14 sorgon... marmo: stanno sorgendo dal marmo. Mentre Foscolo scrive le Grazie, Canova le stava rappresentando in un gruppo scultoreo.

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pingo, e la vita a’ miei fantasmi ispiro15; sdegno il verso che suona e che non crea16; 25 perché Febo17 mi disse: io Fidia primo ed Apelle guidai con la mia lira18. 15 anch’io... ispiro: anch’io creo (pingo, cioè “dipingo, raffiguro”) immagini (fantasmi) e ispiro alle visioni della mia fantasia un’anima. 16 sdegno... crea: non apprezzo il verso

che risuona senza creare immagini.

17 Febo: Apollo. 18 Io Fidia... lira: io (Apollo, dio della poesia) per primo, ho ispirato con i miei versi le raffigurazioni di Fidia e Apelle. Fidia

(ca. 490-430 a.C.) è considerato il massimo scultore greco, Apelle (IV sec. a.C.) il maggior pittore. La poesia crea dunque immagini per le arti figurative.

Analisi del testo La poetica delle Grazie Il proemio racchiude la poetica delle Grazie: a differenza che nei Sepolcri, Foscolo considera la drammatica situazione politica italiana (le «regali ire straniere») con un atteggiamento di distacco, contrapponendole il potere rasserenante della poesia e delle belle arti, come evidenzia l’antitesi tra l’Italia afflitta e la capacità della poesia di rallegrarla (vv. 7 e 8). Si tratta dunque di una poesia il cui fine è soprattutto di addolcire e lenire la durezza della vita, di consolare. Il tema della bellezza rasserenante e dell’arte consolatrice è ricorrente nella poesia foscoliana già prima delle Grazie: si ricordi ad esempio l’ode All’amica risanata «l’aurea beltate ond’ebbero / ristoro unico a’ mali / le nate a vaneggiar menti mortali» (vv. 10-12). Il fatto, poi, che le Grazie siano adornate di pregi eterei, cioè celesti (v. 1), richiama il potere dell’arte e della poesia di creare un’armonia non presente in natura, ma ideale, come spiega Foscolo stesso in un saggio di poetica composto durante l’esilio londinese (➜ T5c ).

Il Neoclassicismo dell’opera Un altro elemento evidenziato nel proemio e di particolare rilievo nelle Grazie è il rapporto con le arti figurative, sottolineato dalla dedica allo scultore Canova e dal riferimento alla pittura greca di Apelle e alla scultura di Fidia, da cui emerge l’idea di una poesia che, a gara con la pittura, crea splendide immagini, ispirando le arti figurative. La traducibilità in opere scultoree o pittoriche è dunque «pietra di paragone per la poesia» (Scotti). L’icastica affermazione «sdegno il verso che suona e che non crea» sintetizza tale poetica neoclassica, in gara con le arti figurative nella creazione di immagini armoniose. Neoclassico è anche lo stile dei versi, ricchi di riferimenti classici e di termini scelti e raffinati; come sempre, nella poesia foscoliana sono numerosi gli enjambements, ma il ritmo, frenato da frequenti cesure, è più lento di quello dei Sepolcri e riflette la maggiore pacatezza e serenità che caratterizza Le Grazie.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Rintraccia nel proemio al primo inno il tema dell’opera. ANALISI 2. Presenta in uno schema miti, personaggi e rimandi al mondo classico contenuti nel testo. 3. Indica i riferimenti alla pittura e alla scultura presenti nel passo: quali rapporti si instaurano con la poesia? 4. Individua i versi in cui Foscolo fa riferimento alla drammatica situazione politica italiana e spiegane il rapporto con la celebrazione della bellezza. STILE 5. Rintraccia nel testo gli elementi del rituale paganeggiante di gusto neoclassico. Quali considerazioni è possibile fare?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 6. In un intervento orale di max 2 minuti illustra i principi di poetica enunciati da Foscolo nel passo.

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Ugo Foscolo

T21

L’apparizione delle Grazie Le Grazie, Inno I, vv. 65-86

U. Foscolo, Poesie e carmi, a cura di Pagliai, Folena, Scotti, Le Monnier, Firenze 1985

Il rapporto con le arti figurative teorizzato nel proemio è suggestivamente rappresentato nel passo dedicato all’apparizione delle Grazie, portatrici di bellezza e di gioia, raffigurate in un quadro ricco di colori, di luce e di movimento.

Splendea tutto quel mar1 quando sostenne su la conchiglia assise2, e vezzeggiate dalla Diva le Grazie; e a sommo il flutto, quante alla prima prima aura di Zefiro le frotte delle vaghe api prorompono 70 e più e più succedenti invide ronzano a far lunghi di sé aerei grappoli, van aliando su’ nettarei calici e del mele futuro in cor s’allegrano3, tante a fior dell’immensa onda raggiante 75 ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude le amorose Nereidi Oceanine4, e a drappelli agilissime seguendo la Gioja alata, degli dei foriera, gittavan perle; dell’ingenue Grazie 80 il bacio le Nereidi sospirando5. Poi come l’orme della Diva6 e il riso delle vergini sue fer di Citera sacro il lito7, un’ignota violetta8 spuntò a’ piè de’ cipressi, e d’improvviso 85 molte purpuree rose amabilmente si conversero in candide9. 65

La metrica Endecasillabi sciolti 1 Splendea tutto quel mar: risplendeva tutta la superficie del mare (quel è il mar Ionio). Il termine Splendea è evidenziato dalla prima posizione nel verso; tutto accresce l’impressione di vastità e luminosità della scena. 2 su la conchiglia assise: sedute su una conchiglia. L’immagine delle Grazie portate da una conchiglia rievoca quella di Venere nella Nascita di Venere, la celeberrima tela di Sandro Botticelli (1445-1510). 3 a sommo... s’allegrano: sulla superficie del mare, quante al primissimo soffio di Zefiro (vento primaverile) api vaganti in grandi sciami («le frotte delle vaghe api»; vaghe significa però anche “desiderose” del nettare dei fiori) subentrando una all’altra («e più e più succedenti») piene di desiderio (invide), ronzano, formando, strette le une alle altre, lunghi grappoli sospesi in aria, e vanno volteggiando sui

calici colmi di polline dolce come un nettare, e nel cuore si rallegrano del miele che produrranno (mele futuro). È la prima parte della similitudine. 4 tante... Nereidi Oceanine: altrettanto numerose le amorevoli Nereidi (divinità marine figlie di Nereo, antico dio del mare tranquillo e benevolo) ardivano mostrarsi con il petto nudo sulla cresta dell’immensa onda, scintillante per i raggi del sole. L’ampia similitudine (vv. 68-74: quante ecc.; vv. 74-77: tante ecc.) sottolinea il movimento e la festosità della scena: le Nereidi, che si affacciano gioiose tra i flutti per festeggiare l’avvento delle Grazie, sono paragonate alle api che in primavera sciamano festose per il desiderio di suggere polline dai fiori primaverili. 5 a drappelli… sospirando: le Nereidi (v. 80, è soggetto), seguendo a schiera, agilissime, la Gioia alata, annunciatrice degli dei, gettavano perle, sospirando il bacio

delle innocenti Grazie (ingenue “semplici”, “schiette”, “prive di malizia”). 6 l’orme della Diva: i passi della dea Venere, sbarcata con le Grazie a Citera (isola consacrata a Venere). 7 e il riso... lito: e il sorriso delle vergini Grazie, che la accompagnavano, resero (fer, per contrazione fêr “fecero”) sacre le sponde di Citera. 8 un’ignota violetta: una violetta (simbolo di candore e di innocenza), sconosciuta fino ad allora (prima che le Grazie comparissero). 9 si conversero in candide: con grazioso gesto (amabilmente) mutarono il loro colore in un bianco candido. L’immagine rovescia il mito narrato nell’Adone di Marino, per cui la rosa era divenuta purpurea, come simbolo di passione sensuale, per il sangue di Venere, punta dalle spine. Invece, nel poema foscoliano le Grazie riscattano gli uomini dalle passioni e dalla sensualità.

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Analisi del testo Un quadro neoclassico Nella dissertazione Di un antico inno alle Grazie, pubblicata da Foscolo a Londra nel 1822, il poeta enuncia il proposito di costituire con la sua opera una sorta di “galleria” di quadri neoclassici, modello per le arti figurative: «Quel poema, che l’autore non ha potuto fin qui finire in guisa degna del subbietto, è inteso ad apprestare una serie di disegni da usare nelle belle arti». Ne è un esempio questo brano che, a gara con la pittura, vuole suscitare nel lettore un senso di incanto e di meraviglia con le immagini luminose di un mare risplendente per i raggi del sole e l’apparizione delle belle creature mitologiche. L’avvento delle Grazie segna il passaggio dalla feroce istintività primitiva alla gentilezza e alla civiltà, e suscita sentimenti di gaiezza e amabilità, come sottolinea anche il lessico, in cui sono associati i campi semantici della gioia e della luce (Splendea, s’allegrano, raggiante, Gioia). La purezza delle Grazie è simboleggiata dallo spuntare della violetta e dal colore candido assunto dalle rose, fino ad allora purpuree. Contribuisce a evocare un’atmosfera di armonia rasserenante la raffinata tessitura fonosimbolica, con l’impressione di leggerezza e di movimento prodotta, nella similitudine con le api, dai suoni di consonante liquida (cioè l e r) e vocale (si vedano ad esempio i vv. 71-73) e dal rapidissimo slancio delle rime sdrucciole dei vv. 69-74. L’impressione di vastità dell’«immensa onda raggiante» è affidata all’incontro tra vocali e dal ricorrente suono aperto della a, a cui si contrappone la vivacità ritmica di un aggettivo come agilissime (v. 77) che esprime la gioia della festa e il movimento della scena.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale funzione assolvono le Grazie con il loro avvento sulla terra? ANALISI 2. Analizza il livello retorico e sintattico dei versi. 3. Indica le divinità mitologiche evocate nella scena. LESSICO 4. Riporta i termini appartenenti al campo semantico della gioia e della serenità e quelli riferiti alla luminosità. 5. Individua gli aggettivi, elencali e indicane i campi semantici di appartenenza.

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 6. Immagina come apparirebbe un quadro con la scena delineata da Foscolo e descrivilo con parole o con i raffronti iconografici che puoi reperire in Rete; puoi metterlo, ad esempio, a confronto con la Nascita di Venere di Sandro Botticelli, riportando le tue osservazioni e le possibili analogie in un PowerPoint da presentare alla classe.

Edouard Bisson, Le tre Grazie, olio su tela, 1899 (Collezione privata).

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Inno II Le Grazie, vv. 111-125

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T23

Il velo delle Grazie Le Grazie, Inno III, vv. 31-85

U. Foscolo, Poesie e carmi, a cura di Pagliai, Folena, Scotti, Le Monnier, Firenze 1985

In un ampio frammento, destinato al terzo libro del poema, Foscolo immagina che, nei periodi in cui, per i corsi e i ricorsi vichiani, il mondo torna allo stato di barbarie, le innocenti Grazie trovino rifugio nell’isola di Atlantide, inaccessibile agli uomini. Qui alcune dee, guidate da Minerva, tessono un velo che possa preservarle dalle violente e rovinose passioni umane, recando in sé l’immagine dei sentimenti più nobili e puri, come l’amore coniugale, l’amore materno, l’amicizia, la compassione. Il velo simboleggia, dunque, i valori della civiltà che possono preservare l’equilibrio e l’armonia anche in un mondo devastato dalla barbarie e dalla violenza.

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila1; e nel mezzo del velo ardita2 balli, canti fra ’l coro3 delle sue speranze Giovinezza: percote a spessi tocchi 35 antico un plettro il Tempo4; e la danzante discende un clivo onde nessun risale5. Le Grazie a’ piedi suoi destano6 fiori a fiorir7 sue ghirlande, – e quando il biondo crin t’abbandoni e perderai il tuo nome, 40 vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno l’urna funerea spireranno odore8. Or mesci, amabil Dea, nivee le fila9; e ad un lato del velo Espero sorga dal lavor di tue dita10; escono, errando 45 fra l’ombre e i raggi fuor d’un mirteo bosco11, due tortorelle12 mormorando ai baci13: mirale occulto un rosignol, e ascolta silenzioso; e poi canta imenei14: 1 Mesci... fila: dea profumata (è Flora), intreccia (Mesci) all’ordito un filo da ricamo di colore rosa. Erato, una delle muse della poesia (musa della poesia amorosa), cantando fornisce a Flora, dea dei fiori, il soggetto da ricamare nella parte centrale del velo, ossia una fanciulla danzante, immagine della giovinezza; per il ricamo sceglie perciò fili di colore rosa. 2 ardita: entusiasta, sicura (della sua bellezza). 3 coro: nel teatro greco il coro è costituito da persone che cantano e danzano; perciò le speranze sono immaginate come fanciulle danzanti che circondano la Giovinezza, sempre associata alla speranza. 4 percote... il Tempo: il Tempo percuote velocemente (a spessi tocchi) un antico plettro con cui si fa risuonare la lira. Il ritmo veloce della musica rappresenta il rapido fuggire della giovinezza; il plettro è antico come il tempo. 5 discende... risale: discende un pendio

da cui nessuno può risalire. Nessuno può riavere la giovinezza perduta. 6 a’ piedi suoi destano: ai suoi piedi (cioè della Giovinezza) fanno spuntare. 7 a fiorir: per adornare. 8 quando... odore: quando i capelli biondi ti avranno abbandonata e non potrai più chiamarti Giovinezza, quei fiori resteranno comunque, o Giovinezza, e spargeranno il loro profumo anche oltre la tua fine. Il tema è quello della memoria e, come nell’ode All’amica risanata, quello della poesia eternatrice che potrà conservare intatto lo splendore della giovanile bellezza. Il tema del tempo e della poesia, di importanza primaria nell’opera foscoliana, determinano la collocazione del quadro al centro del velo. 9 nivee le fila: nel velo vengono ora intrecciati fili candidi come la neve (nivee… fila). 10 ad un lato... di tue dita: a un lato del velo, ricamato da Flora, sorga Espero.

Espero è la stella della sera; al suo apparire, gli antichi celebravano le cerimonie nuziali, durante le quali le giovani spose venivano condotte nella loro nuova casa, accompagnate da canti corali detti imenei. Il quadro è dedicato all’amore coniugale. 11 mirteo bosco: bosco di mirti. Il mirto è una pianta sacra a Venere, quindi simbolo dell’amore. 12 tortorelle: anche le tortore sono simbolo dell’amore fedele. 13 mormorando ai baci: emettendo il loro timido verso, tubando (mormorando) mentre si baciano. 14 mirale... imenei: nascosto (occulto), un usignolo le guarda (leggi mìrale), e silenzioso ascolta, poi intona canti nuziali (imenei) in onore degli sposi. Il canto dell’usignolo simboleggia la voce della poesia, che celebra valori positivi come la purezza dell’amore coniugale.

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fuggono quelle vereconde al bosco15. 50 Mesci, Madre de’ fior, lauri alle fila16; e sul contrario lato erri co’ specchi dell’alba, il sogno17; e mandi alle pupille sopite del guerrier miseri i volti18 della madre e del padre allor che all’are 55 recan lagrime e voti19; e quei si desta, e i prigionieri suoi guarda e sospira20. Mesci, Flora gentile, oro alle fila; e il destro lembo istorïato esulti d’un festante convito21: il Genio22 in volta23 60 prime coroni agli esuli le tazze24; or libera è la gioja, ilare il biasmo25, e candida è la lode26. A parte siede bello il Silenzio arguto in viso e accenna che non fuggano i motti oltre le soglie27. 65 Mesci cerulee28, Dea, mesci le fila; e pinta29 il lembo estremo abbia una donna che con l’ombre e i silenzi unica veglia30; nutre una lampa31 su la culla e teme non i vagiti del suo primo infante32 70 sien presagi di morte; e in quell’errore33 non manda a tutto il Cielo altro che pianti. Beata! ancor non sa come agl’infanti provido è il sonno eterno, e que’ vagiti presagi son di dolorosa vita34.

15 fuggono… bosco: le tortorelle (quelle) intimorite fuggono nel bosco. 16 Mesci… alle fila: intreccia, madre dei fiori (Madre de’ fior, appellativo di Flora) all’ordito gli allori (lauri); cioè un filo da ricamo del colore dell’alloro, ossia verde. Gli allori sono simbolo della gloria militare del guerriero ritratto. 17 sul contrario... il sogno: sul lato opposto del velo si presenti un sogno fatto dal guerriero all’alba, che rispecchi la vera immagine delle cose. Secondo la tradizione i sogni dell’alba sarebbero i più veritieri. 18 alle pupille... volti: agli occhi chiusi del guerriero addormentato i volti dolenti (miseri). 19 allor... voti: quando piangendo recano lacrime e voti (agli dei) sugli altari. 20 quei... sospira: quello si sveglia e guarda i suoi prigionieri e sospira. Al pensiero dei propri genitori angosciati per lui, il guerriero depone l’odio verso il nemico e lo guarda con umanità e compassione. Il riquadro si ispira all’Iliade e all’episodio in cui Achille, pensando al proprio vecchio genitore Peleo che lo attende, restituisce il corpo di Ettore al padre Priamo. Il tema

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della compassione per i vinti accomuna il passo delle Grazie alla conclusione dei Sepolcri. 21 il destro lembo... convito: il lato destro del velo ricamato (istorïato) risplenda della lieta scena di un festoso banchetto. 22 il Genio: la divinità protettrice del banchetto. 23 in volta: a turno, girando tra gli ospiti del convito. 24 prime... tazze: incoroni per prime le tazze degli esuli. Le tazze, riempite di vino, erano incoronate con ghirlande di foglie e fiori; per primi, in segno di ospitalità, le ricevono gli esuli, che più degli altri hanno bisogno di essere rallegrati. 25 libera... biasmo: la gioia si può manifestare liberamente, le critiche sono espresse con benevola ironia. 26 candida... lode: la lode è sincera, priva di adulazione. Nel convito si può parlare liberamente di tutto. 27 A parte… le soglie: il Silenzio siede in disparte, con un’espressione vivace dipinta sul viso, e invita (accenna) a che le parole dette non escano dalla sala del banchetto. Poiché non dappertutto c’è la stessa libertà che regna nel banchetto, il

Silenzio personificato invita alla discrezione. 28 cerulee: azzurre come il cielo. 29 pinta: dipinta, raffigurata. 30 con l’ombre… veglia: da sola veglia nell’ombra e nel silenzio (della notte). 31 nutre una lampa: alimenta d’olio (tiene accesa) una lampada. 32 teme non… infante: teme che (costrutto alla latina) i vagiti del suo primo bambino. 33 errore: timore infondato. 34 Beata... vita: fortunata! Non sa ancora come per i bambini il sonno eterno della morte sia provvidenziale e come quei vagiti siano presagio di una vita dolorosa. I versi esprimono una concezione pessimistica dell’esistenza. L’idea che il pianto dei bambini appena nati sia presentimento di future sofferenze sarà ripresa da Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e deriva dal De rerum natura di Lucrezio (V, 226-227). C’è poi il tema, foscoliano e romantico, dell’illusione, necessaria per affrontare la vita: è bene che la madre, lungi dal presagire la futura sofferenza del proprio figlio, lo creda destinato a una vita felice.


75 Come d’Erato al canto ebbe perfetti Flora i trapunti35, ghirlandò l’Aurora gli aerei fluttuanti orli del velo d’ignote rose a noi36; sol la fragranza37, se vicino è un Iddio, scende alla terra. 80 E fra l’altre immortali ultima venne rugiadosa la bionda Ebe38, costretti in mille nodi fra le perle i crini39, silenziosa; e l’anfora converse40: e dell’altre la vaga opra fatale 85 rorò d’ambrosia41, e fu quel velo eterno42.

35 Come... trapunti: appena Flora, guidata dal canto di Erato, ebbe terminato (perfetti) i ricami. 36 ghirlandò… rose a noi: l’Aurora adornò con ghirlande di rose, di una specie a noi sconosciuta, gli orli del velo leggero e impalpabile (aerei fluttuanti, grammaticalmente però riferito a orli). 37 la fragranza: il profumo. Le rose invi-

sibili, di cui sulla terra si avverte soltanto il profumo, simboleggiano l’ideale, inafferrabile per gli uomini. 38 rugiadosa... Ebe: fresca come un fiore rugiadoso (fresca di rugiada) la bionda Ebe. Ebe, la dea della giovinezza, è coppiera degli dei. 39 costretti... crini: con i capelli intrecciati in mille nodi ornati di perle.

40 converse: rivolse (verso il velo). 41 dell’altre... ambrosia: irrorò d’ambrosia il bel lavoro (la vaga opra) delle altre dee, che illustrava il destino degli uomini (fatale). L’ambrosia, nutrimento degli dèi, aveva il potere di rendere immortali cose o uomini su cui fosse versata. 42 fu quel velo eterno: quel velo divenne eterno.

Analisi del testo Dal mondo ideale al mondo reale Idea fondamentale delle Grazie è che il mondo ideale, costruito dalla poesia e dall’arte, possa influire su quello reale e renderlo migliore, vincendo l’istinto ferino degli uomini, mitigando le passioni troppo violente e riportando equilibrio, misura e armonia. Tale messaggio è sintetizzato nell’episodio del velo delle Grazie che, perciò, assume un rilievo centrale nel poema, come testimonia Foscolo stesso pubblicandolo nel 1822, in Inghilterra, a conclusione della dissertazione Di un antico inno alle Grazie.

La tessitura del velo Fuggite da un mondo in cui infuriano le ultime e più tragiche guerre napoleoniche, e trovando come unico rifugio l’isola di Atlantide, inaccessibile agli uomini, le Grazie potranno tornare nel mondo soltanto coperte da un velo, rappresentazione allegorica dell’arte e della poesia. Varie dee impiegano le loro arti per istoriare il velo, su cui sono rappresentati cinque quadri con i colori più radiosi dell’arcobaleno, offerti da Iride a Flora, dea dei fiori (è la fanciulla che li sparge nella Primavera di Botticelli), la quale ricama guidata dalle Muse: Talia con il suono della cetra, Tersicore con la danza ed Erato con un canto in cui descrive a Flora le immagini da raffigurare (ciascuna descritta da una strofa, contrassegnata nel primo verso dall’invito mesci, da un diverso appellativo rivolto alla dea dei fiori – salvo l’ultima, senza appellativi – e dall’indicazione del colore dominante nel riquadro). Al lavoro sovraintende Pallade, dea delle arti pacifiche, mentre Psiche, che rappresenta la personificazione dell’anima nel mito, siede in silenzio e pensosa, a simboleggiare la profondità di sentimento necessaria all’arte. Il velo è alla fine irrorato di ambrosia per renderlo eterno, come l’arte e la poesia. Sul velo sono raffigurati i mali che contristano la vita: la guerra, l’esilio, la morte; quest’ultima è richiamata negli ultimi versi con un’immagine di profondo pessimismo ripresa dal poeta latino Lucrezio: il pianto del bimbo appena nato è interpretato come un presagio luttuoso dalla madre e di infelicità dallo stesso poeta.

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Il riscatto dai mali della vita Ma le sofferenze sono mitigate dai valori positivi raffigurati dal velo, che rendono dolce l’esistenza, nonostante tutto: l’amore coniugale e la famiglia, l’amicizia e la solidarietà (gli esuli sono festeggiati per primi), la libertà di parola e la lealtà (i conversari del convito sono sinceri e privi di adulazione) e infine la compassione; il guerriero, infatti, visti in sogno i genitori afflitti che pregano per il suo ritorno, diviene più mite verso i prigionieri: evidente il richiamo all’Iliade e all’episodio di Priamo che ottiene da Achille, commosso pensando al vecchio padre, la restituzione del corpo di Ettore. Un richiamo che lega le Grazie ai Sepolcri, che si chiudono proprio sul personaggio di Ettore. Alla vita sono così donati colori luminosi e splendenti, come quelli del velo (il verde della gloria e l’oro del convito) e tonalità più intime, delicate e raccolte (il bianco dell’innocenza, il tenue colore rosato della giovinezza e l’azzurro dell’amore materno); manca invece il rosso, il colore delle passioni, simbolo di come queste siano mitigate e sublimate dalle Grazie.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. In che cosa consiste il dono che le Grazie hanno fatto agli uomini? Che cosa rappresenta? ANALISI 2. Descrivi il ruolo delle varie divinità nella realizzazione del velo. LESSICO 3. Analizza il lessico e individua i termini e le espressioni che appartengono al registro aulico.

Interpretare

SCRITTURA 4. Alla luce dei passi delle Grazie letti, in un testo di max 20 righe spiega il seguente giudizio critico di Vitilio Masiello: «il poema non è, nella sua essenza e nel suo significato ultimo, che una celebrazione dei valori della “civiltà” intesa come perenne superamento degli istinti belluini e guerrieri dell’uomo, come assidua ricerca di una “armonia” la quale si pone come metafora e simbolo di dominio delle passioni egoistiche ed antisociali e fondamento di una più “mite” e razionale, pacata e umana dimensione del vivere [...]».

6 Foscolo ieri e oggi Una fortuna contrastata L’apprezzamento per la figura di Foscolo è probabilmente senza vie di mezzo: o lo si ama o lo si odia, ma non lascia indifferenti. La sua stessa vita, singolare e avventurosa, la sua personalità fuori del comune (come scrive il critico Giuseppe Langella «il suo vero capolavoro Foscolo l’ha scritto con la vita, è lui stesso il personaggio romanzesco più avvincente»), hanno già nei contemporanei suscitato pareri contrastanti: dall’esaltazione idealizzante (Mazzini) alla feroce denigrazione (Tommaseo), al giudizio più equilibrato di Giuseppe Pecchio che, nella sua biografia pubblicata nel 1830, poco dopo la morte di Foscolo, nonostante qualche esagerazione caricaturale per gusto di humour, coglie con acutezza la personalità del poeta, nelle sue luci e ombre. Foscolo, mito per il Risorgimento e “poeta vate” Le generazioni risorgimentali ottocentesche colgono soprattutto il «carattere di vate civile e patriottico» (Binni) del poeta. La sua figura è venerata, tanto da divenire un vero e proprio mito, come lo stesso Mazzini testimonia: «imparavamo da lui la connessione delle lettere col viver civile e l’indipendenza da tutte le autorità». Il culmine di tale mitizzazione eroica è raggiunto con l’unità d’Italia, auspicata e quasi profetizzata dal poeta nei Sepolcri più di cinquant’anni prima. Al compimento definitivo del processo risorgimentale, il solenne trasporto delle ceneri del poeta dal cimitero inglese di Chiswick alla chiesa di Santa Croce (1871) sancisce il riconoscimento dovuto al suo ruolo di ispiratore del Risorgimento.

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In quell’occasione è pubblicato un saggio di Francesco De Sanctis (1817-1883), Ugo Foscolo poeta e critico, che segnava alcuni punti fermi per la comprensione dell’opera foscoliana. La parabola foscoliana secondo De Sanctis Valorizzando soprattutto il poeta civile, De Sanctis descrive l’opera di Foscolo come una sorta di parabola, il cui apice sarebbero i Sepolcri, che considera il capolavoro; di contro, il critico vede l’Ortis come un’opera ancora immatura per l’eccesso di idealismo e passionalità e lo stile troppo lirico, inadatto a un romanzo; e Le Grazie come opera di una fase di decadenza, in cui al poeta sarebbe subentrato l’artista raffinato, ma non più veramente ispirato. La rivalutazione delle Grazie e la nuova immagine del poeta La mitizzazione di Foscolo come ispiratore di passione civile e patriottica era però destinata a oscurarsi nei decenni successivi, quando tali ideali persero di attualità e la critica, a partire da Benedetto Croce (1866-1952), cominciò a rivalutare Le Grazie. Una rivalutazione che tocca il suo apice nel primo Novecento, quando critici come Francesco Flora e Giuseppe De Robertis le considerano come il capolavoro di Foscolo e anticipazione della novecentesca poesia ermetica. Tale rivalutazione delle Grazie è spesso accompagnata da giudizi limitativi sul carme Dei Sepolcri, motivati anche dall’eccesso di retorica patriottica di cui erano stati fatti oggetto nel Risorgimento. Anche l’immagine del poeta cambia: diviene meno “eroica” e più sfaccettata, profonda e complessa. L’unità di fondo dell’opera foscoliana e la sua influenza A partire da studi come quelli di Luigi Russo e Mario Fubini, la tendenza attuale della critica è riconoscere l’unità di fondo dell’opera foscoliana, dalle poesie ai Sepolcri e alle Grazie, senza operare eccessive distinzioni e riconoscendo come qualità maggiore del poeta la capacità di contemperare una disposizione armoniosa e contemplativa con un mondo interiore tumultuoso e passionale. Tale coesistenza di opposti, con l’equilibrio tra tendenze preromantiche e Classicismo, che ne era il corrispettivo stilistico, restò senza successori in quanto, mentre Foscolo si trovava in esilio in Inghilterra, ormai estraneo alla scena letteraria italiana, le polemiche e la divisione di campo tra classicisti e romantici, divampate in Italia nel 1816, non potevano che rendere inattuale tale poetica. Eppure, la poesia di Foscolo continuava a esercitare un’influenza profonda: basti pensare alla suggestione esercitata su Leopardi dalla teoria delle “illusioni”, compensatrici di una realtà per sua natura insoddisfacente; anche se Foscolo, meno radicalmente pessimista di Leopardi, mette in evidenza il carattere vitale delle illusioni, «non già oggetto di accorata nostalgia, ma sostanza stessa della storia umana» (Fubini). Foscolo ancor oggi attuale: il superamento delle ideologie Nel Novecento e nella contemporaneità, come si è detto, il giudizio sulla figura e la poesia di Foscolo non è univoco. Anche di recente non manca chi, come il critico e musicologo Massimo Mila (1910-1988), considera Foscolo il più attuale degli scrittori ottocenteschi: «più ancora che le voci del Manzoni e Leopardi, i quali impegnano l’uomo su due vie dettate da una scelta unilaterale – quella della fede e quella d’un pessimismo sistematico – proprio il messaggio del Foscolo, nonostante il lessico laborioso e la levigata classicità formale, sembra accostarsi all’esperienza dell’uomo moderno». Mila apprezza infatti la volontà di Foscolo di ricercare valori universalmente umani, senza chiudersi in orizzonti ideologici parziali, «ponendo le basi per un criterio di tolleranza fondata sulla reciproca comprensione e destinata a permettere la pacifica convivenza delle fedi diverse». Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 3 197


PER APPROFONDIRE

Gadda contro Foscolo L’avversione di Gadda per Foscolo Accanto ai numerosi ammiratori della grande poesia foscoliana, si incontra nel Novecento anche un caso di clamorosa avversione, quello di Carlo Emilio Gadda, uno dei maggiori scrittori italiani del secolo, che in Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (pubblicato su rivista nel 1959, poi in volume nel 1967) lancia strali che, pur con il pregio dell’ironia, risultano pervasi di una «clamorosa espressione di insofferenza» (Binni) nei confronti del poeta ottocentesco. L’operetta è un dialogo teatrale radiofonico a tre voci: i personaggi sono un pedante professore, un avvocato dalla vasta cultura letteraria ma assai critico verso il poeta e una nobildonna ignorante, scandalizzata dall’irriverenza dell’avvocato verso una delle glorie letterarie italiche. Quali le ragioni? Ma perché Foscolo è fatto bersaglio della sferzante polemica e irrisione gaddiana? Avverso agli atteggiamenti esibizionistici e narcisistici, per cui io è «il più lurido di tutti i pronomi», Gadda è infastidito dall’egocentrismo di Foscolo, che non solo afferma nelle opere un’individualità accesa, di stampo romantico, ma tende a creare di sé un vero e proprio mito. Inoltre la «scostante, altezzosa» (Mila) perfezione formale della lingua foscoliana così (volutamente) distante dal mondo reale suscita l’insofferenza dello scrittore milanese novecentesco, all’opposto fautore di un linguaggio

che non veli la realtà, ma anzi la esibisca nei suoi aspetti anche visceralmente repulsivi, scavandone a fondo il male e il dolore, anche con gli strumenti acuminati della satira e del sarcasmo. Non ci si deve quindi stupire che, nell’operetta, l’avvocato (portavoce di Gadda) si lasci andare a pungenti battute, tendenti a ridicolizzare Foscolo e la sua opera, come ben si comprende da queste esemplificazioni. «Nella “poesia del Foscolo” tutto si riduce a una ricerca onomastica ellenizzante o comunque classica, a un macchinoso ed inutile vocabolario: a una sequenza d’immagini ritenute greche e marmorine, a un vagheggiamento di donne di marmo in camicia, o preferibilmente senza, da lui dette “vergini”. […]» «Ci sono più vergini nei millenovecento versi del Foscolo che in tutta la storia di Roma antica. Nelle “Grazie” poi, sono vergini anche i quadrupedi. […]» «Vergini gli uomini, vergini le donne, vergini i cavalli, vergini le cavalle, vergine la cerva di Diana. E Diana stessa. E le Muse. E Minerva. Nessuno si salva dalla verginità.» «E dàlli! Anche Venere! Sono endecasillabi che fanno ridere i polli. Le sacre sponde, il greco mare, Teresa mia: e Venere che è nata vergine; come me: come tutti! Ma vada al diavolo!»

Fissare i concetti Ugo Foscolo Ritratto d'autore 1. Dove nasce Foscolo e qual è il legame con la sua terra natìa? 2. Quali sono gli eventi storici che influenzano il suo impegno politico e intellettuale? 3. Quali sono le esperienze più dolorose della vita di Foscolo? La letteratura come autoritratto 4. Quale fu la vicenda editoriale dell’Ortis? 5. Quali sono i modelli letterari che ispirano la stesura dell’Ortis? 6. Quali sono i temi e il valore dell’Ortis e quale il parallelismo con il contesto storico? 7. Quali temi vengono trattati nelle Odi foscoliane? 8. Per quale motivo i Sonetti possono essere definiti un’“autobiografia” ideale di Foscolo? Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie 9. In che modo la partecipazione di Foscolo al dibattito sull’editto di Saint-Cloud ha influenzato l’autore nell’ispirazione dei Sepolcri? 10. A quale genere appartengono i Sepolcri? 11. Quali elementi di attualità si possono riscontrare nei Sepolcri? 12. Qual è la struttura argomentativa dell’opera? 13. Quali sono i temi trattati nei Sepolcri? A quale visione filosofica si ispira Foscolo nei Sepolcri? 14. Qual è l’idea di civiltà che emerge dai Sepolcri? 15. Perché Didimo Chierico può essere definito un “anti-Ortis”? 16. Qual è la struttura delle Grazie? A quale genere appartengono? 17. Perché le Grazie rimasero incompiute? 18. Chi sono i modelli letterari per la produzione poetica di Foscolo?

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Ottocento Ugo Foscolo

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita inquieta, pienamente vissuta Foscolo nasce il 6 febbraio 1778 a Zante, un’isola greca all’epoca sotto il dominio della Repubblica di Venezia. La madre è greca, mentre il padre è un medico veneziano. Quando nel 1788 il padre muore, la famiglia si disperde: la madre parte per Venezia e Ugo potrà raggiungerla soltanto nel 1792. Nella città veneta il giovane entra in contatto con gli ambienti intellettuali e viene accolto nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi. Nel periodo della sua formazione, Foscolo aderisce agli ideali giacobini, intraprende la professione militare e si arruola nell’esercito napoleonico. Nel 1797, quando Napoleone cede Venezia all’Austria con il trattato di Campoformio, egli sente traditi i suoi ideali: la delusione per questo momento storico verrà trasposta nel romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802). Foscolo lascia così Venezia si sposta tra Milano e Bologna: in questi anni vive grandi amori e un profondo dolore: la morte del fratello minore Giovanni, suicidatosi nel 1801. Nel 1804 si unisce all’armata napoleonica pronta a invadere l’Inghilterra; proprio qui intreccia una relazione con Fanny Hamilton, dalla quale nascerà la figlia Mary, che gli resterà vicina negli ultimi anni. Nel 1806 torna a Venezia e l’anno successivo pubblica i Sepolcri. Nel 1808 gli viene offerta la cattedra di eloquenza a Pavia, ma i suoi rapporti con gli intellettuali milanesi e con il governo si deteriorano quando fa rappresentare nel 1811 l’Aiace, tragedia accusata di alludere criticamente al regime napoleonico e subito censurata. Si trasferisce allora a Firenze (1812-13): qui scrive Le Grazie e Le notizie intorno a Didimo Chierico. Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia, Foscolo torna a Milano e nel 1815 il governo austriaco gli offre la direzione della «Biblioteca italiana»; egli, però, sceglie l’esilio per non prestare giuramento agli austriaci, tradendo i suoi ideali. Dopo un anno trascorso in Svizzera, Foscolo si trasferisce nel 1816 in Inghilterra, dove ritrova la figlia Fanny e viene accolto con favore dagli intellettuali inglesi; tuttavia, vivendo al di sopra delle sue possibilità, cade in miseria. Povero e malato, muore a Turnham Green, un sobborgo di Londra, nel 1827. Nel 1871 le sue spoglie vengono trasportate in Santa Croce a Firenze. Le lettere Il ricco epistolario foscoliano – dove si fondono sincerità, sentimenti e perfezione dello stile – ci consente di conoscere lo spessore umano dell’autore e costituisce un importante documento del periodo storico napoleonico. La visione del mondo e il ruolo dell’intellettuale Il pensiero di Foscolo ha le proprie radici nell’Illuminismo, movimento dal quale egli trae un ideale egualitario di stampo giacobino; vi si affianca una concezione dell’intellettuale come coscienza critica per il progresso civile – che gli deriva da Parini – e come ispiratore di libertà, di stampo alfieriano. Dall’Illuminismo, Foscolo deriva anche una visione meccanicistico-materialistica, che approfondisce con lo studio del poeta latino Lucrezio; ma il poeta mostra anche una sensibilità già romantica, nella quale grande valore viene attribuito al sentimento e all’immaginazione. Sul pensiero filosofico e sulla visione della storia di Foscolo influisce, inoltre, l’opera di Giambattista Vico. La funzione e i caratteri della poesia Foscolo espone la propria concezione della vita e dell’arte nelle lezioni tenute all’Università di Pavia nel 1809, in cui illustra, basandosi su una Sintesi Ottocento

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concezione pessimistica ispirata a Machiavelli e a Hobbes, come la natura umana sia fondata su istinti egoistici e feroci. Questi ultimi, però, possono essere controbilanciati da una tendenza più sociale, fondata sui valori della compassione e della tolleranza grazie alla figura dell’intellettuale, chiamato ad assumersi grande responsabilità etica, e alla poesia. A tale fine l’arte, alternativa alla realtà, non deve solo riprodurla, ma creare un’armonia esemplare che in essa non esiste, cui l’umanità da sempre tende: ne deriva una poetica che tende a favorire l’immaginazione e che, pur non dimenticando l’impegno civile, si accompagna a uno stile raffinato e classicheggiante. Questi aspetti avvicinano la visione estetica di Foscolo al Neoclassicismo; anche se il Neoclassicismo foscoliano, nel quale è già presente una sensibilità romantica, non considera i miti antichi come puro ornamento ma come un modello perenne per ogni civiltà.

2 La letteratura come autoritratto

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis: i caratteri generali, la trama, la storia editoriale Le Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo epistolare autobiografico che raccoglie lettere fittizie datate tra il 1797 e il 1799 e inviate a Lorenzo Alderani dal protagonista Jacopo Ortis. Costui, giovane di ideali repubblicani e giacobini, è costretto a lasciare la sua Venezia e a rifugiarsi sui Colli Euganei dopo il trattato di Campoformio del 1797, con il quale Napoleone cedeva la città lagunare all’Austria. Nella nuova residenza egli si innamora di Teresa, già promessa dal padre, il signor T***, a un altro uomo, Odoardo. La delusione per la politica di Napoleone e l’impossibilità di poter coronare il suo amore con la giovane donna, da cui è pure riamato, spingono Jacopo – dopo una peregrinazione per l’Italia – al suicidio. L’Ortis ha una complessa storia editoriale: nel 1800 l’opera esce in un’edizione non autorizzata dall’autore; nel 1802 ne viene pubblicata a Milano la prima edizione da parte di Foscolo; nel 1816 è stampata una terza edizione svizzera e, infine, nel 1817 esce a Londra la terza edizione.

I modelli letterari Principale modello dell’Ortis è il Werther di Goethe, dal quale Foscolo riprende la struttura epistolare, il tema del contrasto con il mondo, quello della passione amorosa irrealizzabile e la tragica risoluzione del suicidio, sebbene il motore dell’Ortis sia un trauma storico-politico più che un generico conflitto tra “Io” e “Società”; ma ispirano l’opera anche Alfieri, per il tema della libertà e del titanismo; Dante, figura di exul immeritus in cui l’autore può identificarsi; e Petrarca, anch’egli cantore dell’amore infelice. La sovrapposizione autore/personaggio e l’intreccio amore/politica Jacopo Ortis è una proiezione dell’autore, una sorta di alter ego nel quale Foscolo traspone la parte di sé più autodistruttiva. Il romanzo risulta essere caratterizzato, dunque, da quella commistione tra arte e vita che sarà propria dei romantici. Al centro dell’opera si stagliano due temi: quello politico e quello amoroso-esistenziale; tra di essi esiste un parallelismo a livello evidentemente causale ma anche simbolico: come Napoleone “vende” Venezia all’Austria in nome della “ragion di stato”, allo stesso modo il padre di Teresa cede per interesse la figlia al ricco Odoardo; inoltre, da un punto di vista psicoanalitico, i temi risultano connessi anche perché Jacopo instaura un rapporto amore-odio di tipo edipico sia con Napoleone che con il signor T***, figure con evidenti ruoli corrispondenti. Lo stile appassionato di un romanzo imperfetto L’opera presenta uno stile più lirico che narrativo, spesso enfatico, caratterizzato dall’inserimento di frasi interrogative ed esclamative e da un ritmo franto dei periodi. I critici, pur evidenziandone la ricchezza di

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temi innovativi, ne sottolineano tuttavia una certa imperfezione, sotto forma di mancanza di sviluppo narrativo. Autobiografia foscoliana in versi: le Odi e i Sonetti Tra il 1802 e il 1803 Foscolo pubblica le Poesie, una raccolta di sonetti e odi in tre edizioni successive progressivamente accresciute. La silloge completa del 1803 comprende due odi e dodici sonetti. Le due odi (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata) sono ispirate al canone neoclassico per lo stile e per il motivo della bellezza e della poesia eternatrice. I sonetti, strutturati come un canzoniere che rappresenta una sorta di autobiografia ideale dell’autore, coniugano elementi classici con sensibilità romantica, rinnovando nel profondo anche la struttura metrica con l’uso insistito dell’enjambement, ma mantenendo l’equilibrio classico delle forme.

3 Poesia, valori e civiltà: dai Sepolcri alle Grazie

Dei Sepolcri: la genesi e la tipologia testuale La discussione sull’editto di Saint Cloud (che, promulgato in Francia nel 1804 ed esteso in Italia nel 1806, imponeva la collocazione dei cimiteri fuori dall’abitato e l’anonimato delle tombe) tenuta nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi nel 1806 ispira Foscolo nella stesura dei Sepolcri. Il poeta in un primo momento si schiera infatti a favore del provvedimento legislativo, in nome della sua visione materialista e laica, in opposizione alle idee dell’amico Ippolito Pindemonte; poi, egli ha un ripensamento ed esprime le riflessioni nel suo capolavoro, indirizzato proprio a Pindemonte. L’opera, pubblicata a Brescia nel 1807, per la complessa ispirazione può essere ascritta a diversi generi. È in primo luogo un carme di 295 versi in forma di epistola, ma per la centralità del tema del sepolcro può essere ascritta anche al genere della poesia sepolcrale proto-romantica; vista la presenza della dimensione etico-politica il testo può essere ricondotto pure al genere dell’orazione civile e, considerato il racconto delle gesta degli eroi omerici, anche a quello del poema epico-filosofico.

La visione filosofica e i temi: tra Illuminismo e proto-Romanticismo Centro simbolico del lavoro è il sepolcro, qui mutato in simbolo positivo. Sostrato filosofico è la concezione materialistico-meccanicistica che Foscolo deriva dal poeta latino Lucrezio e dalla cultura illuministica; ma nell’opera si nota una transizione tra di essa e quella romantica: infatti l’autore non si sente completamente appagato dalle indiscutibili verità della ragione. Nei Sepolcri vengono celebrati valori come l’amore, l’amicizia, gli affetti familiari, il culto della libertà, l’amor di patria, la compassione, la solidarietà verso i vinti e la funzione eternatrice della poesia. L’orizzonte temporale rappresentato è vasto: si passa dal tempo breve della vita individuale, al tempo cosmico della natura e al tempo della memoria collettiva; la dimensione spaziale si adatta alla vastità del tempo: si passa dall’Italia alla Grecia e agli orizzonti sconfinati del mito. Lo stile e la struttura Lo stile dell’opera è caratterizzato dalla ricerca di uno stile sublime, con lessico elevato e ricorso alle «transizioni»; dal chiaroscuro, cioè dall’accostamento di immagini suggestive accostate per contrasto; e dall’armonia, improntata alla musicalità e sostenuta dalla scelta metrica degli endecasillabi sciolti. Un alter ego ironico e disincantato: Didimo Chierico Notizia intorno a Didimo Chierico rappresenta un autoritratto autoironico di Foscolo, elaborato mediante l’invenzione di un personaggio immaginario cui il poeta attribuisce la propria traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne del 1813. Rispetto all’Ortis, in quest’opera l’autore prende le distanze dalla dimensione emotiva e passionale attraverso la creazione di un narratore-testimone e l’abbandono dell’uso della prima persona. La prosa è priva di pathos ed enfasi.

Sintesi Ottocento

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Le Grazie: alla ricerca di un’«universale secreta armonia» Opera incompiuta e frammentaria, composta in un lungo periodo di tempo compreso tra il 1803 e il 1827, Le Grazie è un poema allegorico neoclassico incentrato sulla funzione civilizzatrice della bellezza e dell’arte che Foscolo avrebbe voluto dedicare allo scultore Antonio Canova. Il titolo richiama appunto le Grazie, divinità intermedie tra gli uomini e gli dei, la cui storia è raccontata in un mito che lo scrittore apprezzava e che considerava rappresentazione del legame fra valori estetici, intellettuali e morali. Il poema, dapprima strutturato come un unico carme, avrebbe dovuto, nel progetto di Foscolo, essere diviso in tre inni (a Venere, a Vesta e a Pallade), rispettivamente ambientati nella Grecia classica, a Firenze e nell’isola perduta di Atlantide. Stilisticamente vi si nota, come nei Sepolcri, la prevalenza delle immagini sulle argomentazioni razionali e l’armonia quale elemento caratterizzante; compaiono, inoltre, brevi intermezzi storici che, con effetto di chiaroscuro, si alternano alle immagini prevalenti di bellezza senza tuttavia interrompere il senso generale di serenità. Foscolo ieri e oggi L’apprezzamento per la figura di Foscolo è senza vie di mezzo già per i contemporanei. Durante il Risorgimento e l’Unità d’Italia ne è esaltato e venerato il «carattere di vate civile e patriottico»; coerentemente, l’opera più valorizzata è Dei Sepolcri. Nei decenni successivi, quando tali ideali scemano di attualità, il suo mito perde vitalità e la critica rivaluta Le Grazie, in cui si leggono caratteri già ermetici. La tendenza attuale della critica è riconoscere l’unità di fondo dell’opera foscoliana, sottolineandone come qualità maggiore la capacità di contemperare una disposizione armoniosa e contemplativa con un mondo interiore tumultuoso e passionale; un’abilità rimasta senza successori e in grado di esercitare un’influenza profonda (ad esempio su Leopardi). Nella contemporaneità il giudizio sulla figura e la poesia di Foscolo non è univoco: non manca chi considera l’autore come il più attuale degli scrittori, in quanto capace di cercare valori comuni senza elaborare ideologie parziali.

Zona Competenze Scrittura

1. Secondo il critico Fubini, le “illusioni” sono per Foscolo «sostanza stessa della storia umana». In un testo di max 15 righe spiega tale giudizio, citando esempi significativi in proposito.

Scrittura argomentativa

2. Scrivi un breve testo in cui evidenzi i modelli teorici cui Foscolo si ispira per le sue idee politiche. 3. In un testo argomentativo (di max 3 colonne di foglio protocollo) confronta le Ultime lettere di Jacopo Ortis con il modello del romanzo di formazione, discutendo il giudizio del critico Marco Cerruti, secondo cui quello foscoliano è un romanzo di formazione alla rovescia «nel senso che il protagonista, l’“eroe”, anziché la maturità e l’equilibrio, al termine del suo itinerario raggiunge la consapevolezza dell’inevitabilità dell’autodistruzione».

Esposizione orale

4. In una lettera (a Jakob Salomon Bartholdy, 1808), Foscolo afferma che, mentre nel Werther di Goethe il suicidio era da compiangere e perdonare come una «fatale malattia», egli voleva nell’Ortis farlo stimare come «unico rimedio di certi tempi». Spiega oralmente questa affermazione tenendo presenti i presupposti filosofici, i modelli culturali e il contesto storico-politico cui fa riferimento la composizione dell’Ortis.

Competenza digitale

5. Prepara una presentazione multimediale (di max 5 slide) in cui spieghi il valore e il significato assunto dal mito dell’opera di Foscolo attraverso alcuni esempi a tuo parere significativi, tratti da testi che hai letto e che devi presentare adeguatamente.

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi del testo

Ugo Foscolo

Non son chi fui, perì di noi gran parte U. Foscolo, Poesie, II, a cura di M. Palumbo, Rizzoli, Milano 2010

Non son chi fui; perì di noi gran parte: questo che avanza1 è sol languore e pianto. E secco è il mirto2, e son le foglie sparte3 4 del lauro4, speme5 al giovenil mio canto. Perché dal dì ch’empia licenza e Marte vestivan me del lor sanguineo manto6, cieca è la mente e guasto il core7, ed arte 8 la fame d’oro, arte è in me fatta, e vanto8. Che se pur sorge di morir consiglio, a mia fiera ragion chiudon le porte 11 furor di gloria, e carità di figlio9. Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte, conosco il meglio ed al peggior mi appiglio10, 14 e so invocare e non darmi la morte. La metrica sonetto con schema

6 Perché … manto: poiché dal

di rime ABAB, ABAB, CDC, DCD

giorno in cui la sfrenatezza dei rivoluzionari e la guerra mi hanno rivestito con il loro mantello di sangue. 7 cieca… core: la mia mente è resa cieca e il mio animo corrotto. 8 la fame … vanto: da leggere come la fame d’oro è fatta in me

1 avanza: rimane. 2 mirto: pianta sacra a Venere. 3 sparte: disperse. 4 lauro: alloro, pianta sacra ad Apollo. 5 speme: speranza.

arte, e vanto, cioè la brama di ricchezze è divenuta per me un’arte di cui vantarmi. 9 Che … figlio: Se anche mi viene il desiderio sfrenato di morire, al mio feroce proposito (fiera ragion) chiudono le porte la ricerca di gloria e l’affetto di figlio. 10 mi appiglio: mi aggrappo.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Sintetizza il contenuto del sonetto in max 5 righe. 2. Quale valore simbolico si può attribuire al mirto secco e alle foglie sparte dell’alloro? (vv. 3-4) 3. Qual è lo stato d’animo del poeta? 4. Individua gli enjambements presenti nel testo e indicane la funzione espressiva. 5. Individua tutti i termini e le espressioni che fanno riferimento alla disillusione provata da Foscolo.

Interpretazione

Partendo dal testo proposto e facendo riferimento alla produzione poetica di Foscolo, illustra il modo con il quale lo scrittore ha saputo rappresentare nelle sue opere l’età a lui contemporanea.

Verso l’esame di Stato

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Verso l’esame di Stato Tipologia B  Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da F. Venturi, L’Italia dei liberatori, in L’Italia fuori d’Italia, Storia d’Italia, vol. 3. Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973

L’Italia classica, l’Italia dei dotti e degli artisti appariva in primo piano agli occhi dei conquistatori. Nell’estate del 1796 l’amministrazione francese dei territori occupati sembrava soprattutto affaccendata a rastrellare quadri, statue, manoscritti. [...] 5 Attraverso questo saccheggio e questo culto insieme del passato, andò nascendo un nuovo modo di sentire e d’interpretare gli uomini e le cose dei millenni trascorsi. La rivoluzione s’impadroniva così bruscamente non soltanto delle statue e dei quadri, ma di Virgilio, di Dante, di Ariosto, facendoli propri e chiamandoli a partecipare alle nuove cerimonie repubblicane, non dimenticando mai nel me10 desimo tempo di ricordare che il merito di questa loro risurrezione, di questo loro uscire dalle stanze dei dotti e dei principi era da attribuire interamente agli uomini che avevano avuto il coraggio e la capacità di ristabilire la libertà nelle terre italiane. [...] Quanto ai dotti e agli scrittori viventi, Napoleone era ben deciso a servirsene 15 con altrettanta spregiudicatezza quanta ne usava con le opere d’arte e i ricordi del passato. Non era forse convinto, come tutti gli altri, che gli intellettuali costituivano la parte della popolazione italiana più pronta ad accogliere le idee che venivano dalla Francia? L’incontro di Buonaparte con Barnaba Oriani1, a Milano, in quell’estate del 1796, 20 fa parte dell’imagerie dell’epoca2, né manca di qualche tinta evidentemente falsa. L’astronomo avrebbe confidato al generale di non aver mai messo piede nel ricco palazzo del governo milanese. [...] Napoleone voleva persuadere sé stesso e gli altri che gli intellettuali erano stati poco stimati e poco retribuiti nei regimi italiani che egli andava abbattendo. An25 che ad Oriani egli s’affrettò a far pagar i suoi «appointements»3. Parimenti volle che si riaprisse l’università di Pavia, e tutto fece per mostrarsi mecenate di un tipo nuovo, aiutando largamente soprattutto scienziati e tecnici, e proteggendo gli artisti capaci di creare un’immagine diversa della società che andava emergendo anche in Italia. Quando poi uno di questi dotti agiva, o si credeva avesse agito, 30 in modo diverso da quello che da lui s’attendeva, grande era lo scandalo. [...] Ma, e l’Italia non dotta? I francesi s’accorsero presto che a poco serviva dirla oppressa da secoli, guasta da una lunga tirannia civile e religiosa. Erano queste formule che ricorrevano spesso in quei primi mesi, sotto la penna di Buonaparte e dei suoi, con un misto di commiserazione e di superiorità. Ma, se le ombre 35 del passato erano spesse, quel che contava davvero era ciò che si muoveva nel presente. Né era facile intenderlo per i francesi, abituati a secoli d’assolutismo, di grande Stato accentrato. Quel che la conquista francese aveva invece scate1 Barnaba Oriani: astronomo (1752-1832) presso l’osservatorio di Brera; fu anche molto attivo nella società civile e ricoprì numerosi incarichi tecnico-

204 Ottocento 2 Ugo Foscolo

amministrativi coi governi sia asburgici sia francesi. 2 imagerie dell’epoca: l’iconografia del tempo, cioè l’immagine che di sé andavano

costruendo i francesi conquistatori. 3 «appointements»: compensi, emolumenti.


nato in Italia era innanzi tutto un moto cittadino, comunale, una ripresa di lotte secolari tra municipio e municipio, che andavano ritrovando sotto le strutture 40 degli Stati principeschi un’antica volontà di riaffermare l’autogoverno della propria città. Alba e Asti contro il re di Sardegna, Reggio contro il duca di Modena, Bologna e Ferrara contro lo Stato Pontificio, Bergamo, Brescia, Padova contro Venezia, le città delle Marche le une contro le altre, ecc. E rapidamente, in ognuno di questi centri, la lotta si fece subito sociale, tra cittadini e paesani, tra nobili 45 e borghesi, tra patrizi e plebei. Questo movimento aveva certo caratteri specificamente italiani. Ma – non dimentichiamolo – una delle fasi iniziali della rivoluzione francese era stata precisamente una rivolta municipale, provocata dalla pressione dei contadini e dalla ribellione contro la centralizzazione monarchica. La Francia era tuttavia, ormai, lontana dal 1789, e il Direttorio trovò non poca 50 difficoltà ad orizzontarsi nella situazione italiana. [...] La «grande nation» aveva fornito la spinta iniziale, gli effetti suoi erano stati autonomi e imprevedibili.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Quale era stato l’atteggiamento di Napoleone nei confronti degli intellettuali italiani immediatamente dopo le conquiste della campagna d’Italia? 2. Per quali motivi Napoleone e il governo del Direttorio erano sconcertati di fronte alla reazione delle popolazioni italiane in seguito alla conquista francese? 3. Con quali argomenti l’autore illustra e motiva le proprie affermazioni?

Produzione

Con la folgorante vittoria di Napoleone, al comando dell’Armata d’Italia, nel 1796 la penisola entrò nell’orbita francese per restarvi quasi ininterrottamente fino al 1814, in un quadro complesso di innovazioni, nuovi assetti territoriali e politici, aspettative deluse, esperienze di parziale autonomia e unità, subordinazione alle esigenze francesi e così via. Prova a tracciare, alla luce delle tesi sostenute nel brano proposto e delle tue conoscenze storiche e letterarie, un bilancio dell’influenza francese in Italia dalle repubbliche giacobine al dominio napoleonico. Elabora le tue riflessioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Verso l’esame di Stato

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Milano, 4 dicembre. Siati1 questa l’unica risposta a’ tuoi consiglj. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta2: i pochi che comandano; l’universalità che serve; e i molti che brigano3. Noi non possiam comandare, né forse siam tanto scaltri; noi non 5 siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que’ cani senza padrone a’ quali non toccano né tozzi4 né percosse. […] Non che i tirannetti non si avveggano5 delle brighe; ma gli uomini balzati da’ trivj al trono hanno d’uopo di faziosi che poi non possono contenere6. Gonfj del presente, spensierati dell’avvenire, poveri di fama, di 10 coraggio e d’ingegno, si armano di adulatori e di satelliti, da’ quali, quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi7: perpetua ruota di servitù, di licenza e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue. Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi 15 ogni anno di più, rimorsi ed infamia. Odilo un’altra volta: Non reciterò mai la parte del piccolo briccone. […]

1 Siati: sia per te. 2 sorta: tipi. 3 brigano: cercano di ottenere

4 tozzi: pezzi di pane. 5 si avveggano: si accorgano. 6 balzati da’ trivj… contenere:

qualcosa con raggiri e imbrogli.

balzati da posizioni infime al

potere hanno bisogno di sostenitori che poi non riescono a controllare. 7 svilupparsi: liberarsi.

In questo passo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il protagonista esprime la propria condizione di intellettuale che, non potendo comandare e non volendo ubbidire, si trova fatalmente condannato all’isolamento e all’inazione. Rifletti sul complesso rapporto tra intellettuale e potere, che può essere di integrazione o di opposizione, e comunque mai pacifico e univoco, esprimendo le tue considerazioni e appoggiandoti, se lo ritieni, a esempi che ti sembrano significativi.

206 Ottocento 2 Ugo Foscolo


Ottocento CAPITOLO

3 Romanticismo/ romanticismi

Il Romanticismo è un fenomeno culturale complesso che investe la letteratura, le arti figurative, la musica, il pensiero filosofico e l’ideologia politica e assume forme diverse a seconda dei differenti paesi europei nei quali si afferma: sarebbe, dunque, più corretto parlare di “romanticismi”. Le basi teoriche della poetica romantica sono formulate in Germania dal filosofo Schelling e dai fratelli Schlegel. Tratti fondamentali sono l’idea della poesia come conoscenza e il rifiuto dell’imitazione dei classici in nome della diversità dei moderni rispetto agli antichi.

fenomeno 1 Un complesso estetica 2 Ladelconcezione Romanticismo 207 207


1 Un fenomeno complesso Il Romanticismo è un fenomeno culturale molto complesso, che coinvolge il pensiero filosofico, la letteratura, la musica, le arti figurative, ma anche l’ambito politico. Difficile quindi schematizzarne le caratteristiche, anche perché assunse forme diverse a seconda dei vari paesi europei e delle loro tradizioni culturali e letterarie: sarebbe quindi più corretto parlare, anziché di Romanticismo, di vari “romanticismi”. Tra i paesi europei è la Germania a svolgere il ruolo principale nell’elaborazione dei principi teorici che definiscono il Romanticismo, fatti propri poi dagli altri paesi. I “romanticismi” europei: le date di nascita Quelle che seguono sono le date che corrispondono per convenzione alla nascita “ufficiale” del Romanticismo. In realtà motivi, spunti, temi, definibili in senso lato come “romantici” circolavano in Europa, come si è visto, a prescindere da queste date. Germania 1798 Viene fondata la rivista «Athenaeum» di cui sono responsabili e animatori i fratelli Schlegel: Friedrich (1772-1829) e August Wilhelm (1767-1845). Attorno agli Schlegel si raccoglie un gruppo ristretto: il filosofo Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e gli scrittori Johann Ludwig Tieck e Novalis. Dall’università dove si riuniva, il gruppo è noto come “gruppo di Jena”. La rivista «Athenaeum», pubblicata a Berlino dal 1798 al 1800 (soli 6 numeri) è considerata l’organo ufficiale del Romanticismo tedesco: vi si ritrovano infatti i nuclei teorici principali del movimento romantico. Oltre a Novalis, grande testimone della poesia romantica tedesca è Friedrich Hölderlin (1770-1843). Nel 1800 la rivista chiude, il gruppo di Jena si scioglie e August Wilhelm Schlegel inizia un’importante opera di divulgazione delle idee romantiche, viaggiando in vari paesi europei.

Delphine de Custine, Ritratto di Friedrich Schlegel, olio su tela, 1816 (Francoforte, Goethe-Museum).

208 Ottocento 3 Romanticismo/romanticismi

Adolf Hohneck, Ritratto di August Wilhelm Schlegel, olio su tela, 1830 ca. (Dresda, Buchmuseum der Sächsischen Landesbibliothek).


La seconda scuola romantica tedesca è denominata “gruppo di Heidelberg” e dà spazio soprattutto alla valorizzazione delle tradizioni del popolo germanico. Massimi esponenti sono Clemens Maria Brentano e Ludvig von Armin, che curano una raccolta di ballate e poesie della tradizione germanica. Inghilterra 1798 La data corrisponde alla pubblicazione della raccolta delle Lyrical Ballads (Ballate liriche) di William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge, preceduta da un’importante Prefazione che enuncia una nuova poetica. Ai poeti cosiddetti “laghisti” segue la “seconda generazione romantica”, rappresentata da grandi figure come George Byron, John Keats e Percy Bysshe Shelley, autori di testi poetici chiave della letteratura romantica europea. L’Inghilterra sarà anche la patria del romanzo storico.

Parola chiave

MarieÉléonore Godefroid, Ritratto di Madame de Staël, olio su tela, 1808 (Versailles, Museo di storia della Francia).

Francia 1813 In questo anno viene pubblicato un saggio destinato a grande fortuna di Madame de Staël: De l’Allemagne (La Germania), in cui l’attivissima intellettuale francese sintetizza (e semplifica) le teorie estetiche dei tedeschi contribuendo così alla loro diffusione in Europa. Il manifesto del Romanticismo francese è però considerata la prefazione di Victor Hugo alla sua tragedia di argomento storico Cromwell (1827). La Francia è la culla del romanzo realistico moderno, da Stendhal a Flaubert. Italia 1816 Sulla rivista «Biblioteca italiana» viene pubblicato l’articolo di Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni che stimola un vivace dibattito noto come “polemica classico-romantica”. Il Romanticismo italiano ha tratti peculiari, legati alla specificità della cultura e alle vicende politiche del paese. Non produce risultati letterari di grande livello, a parte naturalmente Leopardi e Manzoni. Verso la metà dell’Ottocento il Romanticismo tende a esaurirsi per l’emergere di nuovi modelli di pensiero, di nuove istanze culturali e letterarie in rapporto a un nuovo contesto storico-sociale.

Romanticismo Il termine “romantico” nasce in Inghilterra verso la metà del Seicento per designare, con connotazione negativa, la materia e l’atmosfera, fantastica e irrazionale, dei romances, i romanzi cavallereschi medievali. Nel corso del Settecento “romantico” tende ad assumere un significato non più negativo: tradotto in Francia con pittoresque (“pittoresco”) o romanesque (“romanzesco”) designa un rapporto di tipo sentimentale con la natura selvaggia e solitaria (Rousseau, per definire questo rapporto, utilizza il termine romantique). È Friedrich Schlegel, il principale teorico del Romanticismo

in Germania, a fare del termine “romantico” (romantik, in tedesco) una categoria estetica: “romantica” è una nuova forma poetica, propria dei moderni, diversa da quella classica, propria degli antichi e dei loro imitatori. Nel corso del tempo il termine ha assunto un significato metastorico, figurato, soprattutto in riferimento all’amore: quando oggi definiamo “romantico” un atteggiamento, il carattere di una persona, un film, alludiamo di solito alla presenza di una vistosa componente sentimentale appassionata, che certamente è presente nella letteratura romantica, ma in cui essa non si esaurisce.

Un fenomeno complesso 1 209


2

La concezione estetica del Romanticismo Il Romanticismo si caratterizza, come si è visto, per la contrapposizione all’Illuminismo (➜ SCENARI PAGG. 8 ss.). Nell’ambito della visione dell’arte e della letteratura, la contrapposizione riguarda soprattutto il classicismo (o per lo meno le poetiche normative che al classicismo si richiamano) e si traduce in una concezione del tutto nuova. Essa trova espressione in particolare nella lirica, il genere più importante. La poesia come conoscenza assoluta In senso più propriamente filosofico la visione romantica dell’arte è affidata soprattutto alle intuizioni di Friedrich W. Schelling (1775-1854), punto di riferimento dei primi romantici (➜ SCENARI D12 OL). Per il filosofo tedesco l’arte attinge all’infinito, all’assoluto, ed è superiore alla filosofia: infatti mentre questa consente ai soli filosofi di accostarsi all’assoluto, ai princìpi universali, l’arte offre questa possibilità a tutti gli uomini attraverso la mediazione del poeta, che Novalis rappresenta come veggente, sacerdote di un culto iniziatico (➜ D1 ). La valorizzazione del carattere conoscitivo della poesia è un aspetto del tutto nuovo (che anticipa le poetiche del simbolismo). Si tratta di una concezione antitetica al razionalismo illuministico: per i romantici l’essenza della realtà sfugge infatti agli strumenti razionali e può essere colta solo dall’intuizione poetica. In Italia questa concezione misticheggiante, o comunque irrazionalistica, della poesia non si afferma, anche a causa delle circostanze storico-politiche (la lotta risorgimentale), che impongono al letterato di assumere un ruolo civile, e alla letteratura di esercitare una funzione educativa e addirittura espressamente politica. La frattura tra antichi e moderni I romantici scoprono la vera e propria cesura che separa antichi e moderni e che comporta differenze fondamentali nel modo di far poesia. Già alla fine del Settecento, nel fondamentale saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795), Friedrich Schiller sottolinea la costituzionale diversità dei moderni, in particolare per quanto concerne il rapporto con la natura (➜ D2a ). Se gli antichi avevano con la natura un rapporto diretto e “ingenuo”, compiutosi ormai il distacco tra uomo e natura, i moderni possono solo avere con essa un rapporto “sentimentale”. È importante precisare che il significato di “sentimento” per Schiller è diverso dall’accezione comune del termine: il “sentimento” è legato alla struggente nostalgia per una condizione primigenia felice e inconsapevole ormai perduta e insieme esprime la tensione volta a riconquistarla (➜ PAROLA CHIAVE Sehnsucht, SCENARI PAG. 13). Si tratta di un concetto essenziale per comprendere la stessa poesia leopardiana. I fratelli Schlegel, fondatori della rivista «Athenaeum» (1798-1800), culla del Romanticismo tedesco, ripropongono e approfondiscono la distinzione schilleriana tra antichi e moderni, con riferimento all’arte classica e a quella romantica. • L’arte antica è bellezza perfetta, forma ideale uguale nel tempo, mentre l’arte moderna è frutto caratteristico di un’individualità.

210 Ottocento 3 Romanticismo/romanticismi


• La poesia classica corrisponde a una visione oggettiva del mondo ed è imitazione della natura. La poesia romantica è invece soggettiva espressione della fantasia, delle emozioni, del sentimento individuali e mira all’indefinito (per questo l’arte suprema è la musica, che si impone nell’universo artistico con una rilevanza del tutto nuova). • La poesia classica è espressione di ordine e di armonia. La poesia moderna è invece caratterizzata dal conflitto, dalla disarmonia, dalla brama inesauribile di infinito e dalla malinconia: secondo A.W. Schlegel, l’aspirazione all’infinito e la malinconia sono soprattutto il frutto della visione del mondo introdotta dal cristianesimo (➜ D2b ). La contestazione del principio d’imitazione La poesia romantica, soprattutto tedesca, è percorsa da una nostalgia profonda per il mondo ellenico e mitizza la figura di Omero come sommo poeta. Respinge però l’imitazione dei classici e, più in generale, rifiuta il principio stesso di imitazione che era alla base della poetica classicistica. Queste le ragioni che inducono i romantici a contestare il principio di imitazione. • Mentre nelle poetiche classicistiche la grandezza di un’opera si misura sull’aderenza a grandi modelli del passato, per i romantici l’opera d’arte è frutto originale della spontaneità creativa e del genio individuale del poeta. • Ogni opera, in quanto organismo unico e irripetibile, ha in sé le proprie leggi organizzative e non può dipendere da regole esterne, né essere giudicata sulla base di principi estrinseci.

In questa incisione, da un disegno di John Flaxman (part., 1809, Londra, Victoria and Albert Museum), ispirato a un ciclo mitologico della tragedia greca (Oreste inseguito dalle Erinni), l’artista rappresenta le divinità della vendetta. Con un segno neoclassico, ritrae i geni alati con le chiome intrecciate di serpi e armati di fruste secondo la tradizionale iconografia, ma li trasfigura con sensibilità romantica, accentuandone la funzione e l’aspetto di fantasmi della coscienza umana.

La concezione estetica del Romanticismo 2 211


Franz Ludwig Catel, Veduta del Colosseo al chiaro di luna, (Hermitage, San Pietroburgo).

• Non esistono canoni assoluti e astratti che definiscano la bellezza perfetta. L’arte deve conquistare, interessare: i romantici accolgono così entro i confini dell’arte la dimensione del grottesco, del brutto, che acquista definitivo diritto di cittadinanza (dei diritti del brutto parla la prefazione al Cromwell di Hugo, considerata il manifesto del Romanticismo francese ➜ D3 OL). • Secondo la visione storicistica, propria del Romanticismo, ogni epoca è diversa da un’altra come ogni popolo ha la propria cultura e le proprie tradizioni. La poesia ha carattere “progressivo”, cioè è in perpetuo divenire e non può quindi richiamarsi a modelli precedenti. Il rifiuto delle regole Per tutte queste ragioni i romantici rifiutano le regole imposte dalla precettistica classica, a cominciare dalle tre unità pseudo-aristoteliche (tempo, luogo, azione) a cui soggiacevano i testi teatrali e che A.W. Schlegel attacca nel suo Corso di letteratura drammatica, che ha risonanza anche in Italia. Ma i romantici rifiutano la distinzione stessa dei vari generi, codificata dall’estetica classica, e persino quella tra prosa e poesia, perché unica è la poesia quando si manifesta.

PER APPROFONDIRE

Madame de Staël e la divulgazione delle idee romantiche Un ruolo essenziale nella divulgazione europea del Romanticismo tedesco è esercitato, come già si è accennato, da Madame de Staël e in particolare dal suo scritto Sulla Germania (1810). In esso la scrittrice francese distingue fra letteratura del Nord (Germania e Inghilterra) e letteratura del Sud (Francia e Italia). La seconda è più incline all’imitazione della poesia classica, mentre le radici della poesia romantica sono nordiche. Romantica è la poesia nata dalla cavalleria e dal cristianesimo, che ha introdotto l’inquietudine spirituale («questa riflessione inquieta, che talvolta ci divora come l’avvoltoio di Prometeo»), l’attitudine introspettiva nata dal senso del peccato e dal pentimento.

Chi sono i moderni per i romantici? Tutta l’arte moderna è romantica? È importante sottolineare che, quando i romantici parlano di “moderni”, non alludono necessariamente alla contemporaneità, ma si riferiscono soprattutto alla nuova visione del mondo e alla sensibilità che nasce con il Medioevo cristiano. Già moderna è l’arte che ama la disarmonia e il contrasto, andando oltre i parametri classicisti: moderni sono così soprattutto Shakespeare e Cervantes. Per contro, non tutta

212 Ottocento 3 Romanticismo/romanticismi

l’arte moderna è romantica: romantica è l’arte che non segue i canoni classici e aspira a superare la dimensione della finitezza. Scrive Novalis, uno dei grandi romantici tedeschi: «Nel momento in cui io do a ciò che è comune un senso elevato, a ciò che è consueto un aspetto pieno di mistero, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita, io lo rendo romantico» (Frammenti logologici, 105).


Novalis

Il poeta veggente

D1

Frammenti di letteratura Questi Frammenti possono dare almeno un’idea dell’originalità di pensiero con cui Novalis si rivolge alla definizione di poesia e risultano particolarmente significativi per identificare l’idea romantica di poesia.

Novalis, Frammenti di letteratura, a cura di G. Calzecchi Onesti, Edizioni Fussi-Sansoni, Firenze s.d. [ma 1950]

III, 981 [...] Ogni Poesia interrompe lo stato abituale, la quotidianeità della vita – simile in questo al Sogno – allo scopo di rinnovarci, di mantenere sempre vivace in noi il senso stesso della vita.

5

III, 1247 [...] La Poesia è la Realtà vera, assoluta. Questo è il nocciolo della mia filosofia. Là dove è maggiore la poesia, maggiore è la verità... IV, 2416 [...] Delle cose e delle parole il Poeta si serve come di tasti musicali e tutta la poesia si riduce a un’associazione libera di idee, ad una produzione spontanea, arbitraria, ideale, di cose...

IV, 3056 [...] Il senso poetico1 ha in sé molto in comune con il senso mistico. È il 10 senso per le cose veramente nostre, personali, sconosciute, misteriose, il senso per tutto quello che è passibile di rivelazione2, per quello che è necessario e insieme casuale. Rappresenta l’irrappresentabile, vede l’invisibile, sente l’insensibile e così via3.

15

20

Una critica della poesia è un controsenso. È cosa già di per sé difficile il poter distinguere – ed è tuttavia l’unica distinzione possibile – se qualcosa sia o no poesia. In realtà il poeta è propriamente privo di volontà e di sensi e come posto al di fuori di essi: per questo appunto tutto si ritrova in lui. Egli rappresenta veramente in sé stesso l’unità di Soggetto-Oggetto, Gemüt4 e Mondo. Il senso per la poesia ha stretta affinità con il senso profetico, con il senso della veggenza religiosa e della veggenza in generale. Il poeta ordina, unisce, sceglie, scopre... e resta per lui stesso un mistero, perché debba essere proprio in quel modo e non altrimenti5.

1 Il senso poetico: la facoltà di far poesia. 2 passibile di rivelazione: che è oggetto di una vera e propria rivelazione (il che è ben diverso dall’essere spiegato con argomentazioni logiche).

3 Rappresenta... e così via: con questa

5 Il poeta ordina... altrimenti: neppure il

serie di espressioni antitetiche Novalis tenta di rendere il mistero della poesia, la sua sfida conoscitiva. 4 Gemüt: in tedesco, “spirito”.

poeta (e quindi men che meno gli altri) è capace di spiegare come avvenga la creazione poetica, che rimane anche per lui un mistero.

La concezione estetica del Romanticismo 2 213


Concetti chiave Una concezione rivoluzionaria del fare poesia

I pensieri proposti suggeriscono un’idea rivoluzionaria di poesia, che si contrappone nettamente alla visione classicistica secondo cui la poesia è soprattutto perfezione stilistica faticosamente raggiunta, padronanza eccellente di tecniche. Al contrario, Novalis sottolinea la spontaneità del fare poesia, la sua sostanziale irrazionalità (la descrive come «associazione libera di idee… spontanea, arbitraria»). Significativo a tale proposito è il legame che Novalis stabilisce tra sogno e poesia, l’idea (poi fatta propria dalle avanguardie storiche, in particolare dal surrealismo) che la poesia ci sottragga a una visione abitudinaria del mondo, risvegliando l’originalità, la creatività che è presente, magari assopita, in ognuno di noi. Ma la riflessione di Novalis va ben oltre, arrivando a identificare la poesia con la verità assoluta (identificazione che egli considera l’essenza stessa della sua filosofia). Solo la poesia sa cogliere, oltre le apparenze fenomeniche, il mistero dell’essere che chiede di essere decifrato; per questo è paragonabile all’intuizione folgorante che i mistici hanno dell’unità del tutto. In un modo che rimane misterioso (è vano quindi per Novalis ogni sforzo di compiere un’indagine critica, di definire “che cosa sia” la poesia) il poeta, simile in questo al veggente e al profeta, crea la poesia.

Philip James de Loutherbourg, Visitatore in un cimitero al chiaro di luna, olio su tela, 1790 (Yale, Center of British Art).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Per Novalis la poesia ha a che fare con la ragione? 2. Perché per Novalis l’esercizio critico sulla poesia è un controsenso? ANALISI 3. A quale concezione filosofica rimanda l’idea di poesia di Novalis? Rileggi attentamente il profilo ➜ PAGG. 210-212 e anche SCENARI, PAGG. 33-34 prima di rispondere.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Rileggi il primo Inno alla notte (➜ C4 T1 ) e commentalo in rapporto alle osservazioni di poetica qui indicate. 5. Nel 1871, molti anni dopo, lo scrittore francese Rimbaud nello scritto Lettera del veggente prospetta un’idea del poeta come visionario («Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente»), come individuo eccezionale, sommo sapiente che giunge «all’ignoto». Le intuizioni di Novalis si agganciano però a una visione spiritualistica e mistica, che il poeta francese, alle soglie del Novecento, non ha ormai più. Reperisci in rete il testo di Rimbaud e prova a metterlo a confronto con i Frammenti di Novalis, poi esprimi le tue impressioni.

214 Ottocento 3 Romanticismo/romanticismi


D2

La contrapposizione antichi/moderni Friedrich Schiller

D2a

La poesia moderna nasce dal sentimento Sulla poesia ingenua e sentimentale

Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, a cura di E. Franzini e W. Scotti, SE, Milano 1986

Il saggio di Schiller Sulla poesia ingenua e sentimentale (1794-95) è uno dei testi fondanti della cultura romantica: in esso lo scrittore tedesco introduce la fondamentale distinzione tra poesia antica e poesia moderna, che sarà più volte ripresa dai teorici del Romanticismo e che costituisce anche uno dei grandi temi della poesia romantica. Ne presentiamo alcuni passi significativi.

Fin quando rimanemmo semplici figli della natura, fummo felici e perfetti; poi siamo divenuti liberi e abbiamo perduto entrambi questi beni. Di qui nasce una nostalgia duplice e molto diversa verso la natura: una nostalgia per la sua felicità, una nostalgia per la sua perfezione1 [...]. 5 Quando ci si ricorda della bella natura che circondava gli antichi Greci, quando si pensa con quale familiarità questo popolo vivesse con la libera natura sotto il suo cielo felice, quanto più vicino alla pura natura fosse il suo modo di rappresentare e quale fedele specchio di questo siano le sue opere poetiche, deve stupirci se in un simile popolo si incontrano così scarse tracce dell’interesse sentimentale2, che 10 noi moderni nutriamo verso scene e caratteri naturali. Il Greco è di certo al sommo grado preciso, fedele, minuzioso nella descrizione della natura, ma sicuramente non di più né con una più profonda partecipazione emotiva che nella descrizione di un abito, di uno scudo, d’una corazza, di un arnese domestico o di un qualsiasi prodotto meccanico. Non sembra che nel suo amore per l’oggetto faccia qualche 15 distinzione tra ciò che esiste per sé stesso e ciò che esiste in virtù dell’arte e della volontà umana. Sembra che la natura interessi di più il suo intelletto e il suo desiderio di sapere che il suo sentimento morale; non l’ama con profondità, con partecipazione, con dolce tristezza come noi moderni. [...]. Da dove deriva dunque questo spirito così diverso? Perché mai noi, che in tutto ciò 20 che è natura siamo superati in così infinita misura dagli antichi, proprio noi possiamo renderle omaggio in misura superiore, possiamo amarla intimamente, possiamo abbracciare persino il mondo inanimato con il più caldo sentimento3? Questa è la risposta: la natura è ormai scomparsa dall’umanità, e soltanto fuori di questa, nel mondo inanimato, nuovamente possiamo incontrarla nella sua verità. 25 [...] Per questo il sentimento che ci spinge ad amare la natura è così simile al sentimento con cui rimpiangiamo la perduta età dell’infanzia4 e dell’innocenza infantile. Essendo la nostra infanzia la sola natura integra che ancora sia possibile incontrare 1 Fin quando... perfezione: la conquista della libertà dalla condizione istintuale, naturale, comporta la perdita della felicità e della perfezione, che dall’uomo civilizzato non possono che essere rimpiante nostalgicamente. 2 sentimentale: con questo aggettivo Schiller allude al sentimento complesso, proprio dei moderni, di nostalgia e desiderio di una felicità e perfezione perdute,

in contrapposizione all’atteggiamento “ingenuo” degli antichi nei confronti della natura. 3 Perché mai noi... caldo sentimento: Schiller dà qui voce a quel nuovo modo, complesso, soggettivamente partecipe, di guardare alla natura che si ritrova in tanti testi romantici e che deriva dalla perdita all’interno dell’io della naturalità, della semplicità, per cui lo spirito

moderno si proietta costantemente all’esterno nella disperata ricerca fuori di sé della natura. 4 Per questo... infanzia: il passo che mitizza la condizione infantile come “ingenua”, vicina alla natura e perciò stesso felice, richiama da vicino alcuni fondamentali concetti alla base della poesia leo­ pardiana della “rimembranza”.

La concezione estetica del Romanticismo 2 215


nell’umanità civilizzata, non c’è da stupirsi se ogni traccia della natura al di fuori di noi ci riconduce alla nostra infanzia. 30 Per gli antichi Greci tutto era diverso. Presso di loro la cultura non degenerò al punto di far abbandonare per essa la natura. L’intero edificio della loro vita sociale era fondato su sensazioni e non sul lavoro composito dell’arte5; la loro stessa teoria degli dèi6 era l’ispirazione di un sentimento ingenuo, il parto di un’immaginazione gioiosa, non di una ragione tortuosa come accade per la fede nelle moderne nazioni. [Schiller passa quindi a considerare i riflessi che l’allontanamento dalla “naturalità” e dalla felice condizione di armonia produce sull’evoluzione della poesia, delineando due tipologie di poeti, l’“ingenuo” e il “sentimentale”, alle quali corrispondono differenti forme artistiche.] I poeti sono ovunque, e per definizione, i conservatori della natura. Quando non possono più esserlo compiutamente, e già sperimentano su loro stessi l’influsso devastante di forme arbitrarie e artificiose, oppure hanno dovuto combattere un simile influsso, allora essi si presentano come i testimoni e i vendicatori della natura7. O saranno natura perduta o la cercheranno. Da ciò hanno origine due generi poetici 40 totalmente diversi, da cui l’intero campo della poesia viene esaurito e misurato. Tutti i poeti che siano realmente tali apparterranno, a seconda delle caratteristiche dell’età in cui fioriscono o delle circostanze casuali che influenzano la loro formazione generale e la loro momentanea disposizione d’animo, o al genere ingenuo o a quello sentimentale [...] 45 Se ora si applica a entrambi gli stati8 il concetto di poesia, che semplicemente consiste nel conferire all’umanità la più completa espressione possibile, vediamo che nello stato della semplicità naturale, in cui l’uomo agisce ancora con tutte le sue forze contemporaneamente, come unità armonica, e in cui la totalità della sua natura si esprime compiutamente nella realtà, l’elemento costitutivo della poesia è 50 l’imitazione più perfetta possibile del reale; invece nello stato della cultura, in cui per l’uomo quell’armonico concorso di tutte le forze della propria natura è semplicemente un’idea9, ciò che definisce il poeta è la capacità di elevare la realtà all’ideale o, il che è lo stesso, alla rappresentazione dell’ideale. 35

5 lavoro composito dell’arte: costruzione artificiosa e complessa. 6 teoria degli dèi: visione religiosa. 7 i conservatori della natura... i vendicatori della natura: i poeti per loro natura cercano di salvaguardare la condizione naturale. Quando le forme sociali allontanano irreparabilmente dalla natura, i poeti si fanno testimoni della sua esistenza e

cercano di restaurare il più possibile la condizione della naturalità. 8 entrambi gli stati: si allude alla condizione spirituale “ingenua” degli antichi e a quella invece “sentimentale” nell’accezione che si è visto, dei moderni (stati che Schiller subito dopo definisce rispettivamente «della semplicità naturale e della cultura»).

216 Ottocento 3 Romanticismo/romanticismi

9 quell’armonico concorso... è semplicemente un’idea: nella condizione moderna l’armonia di tutti gli elementi della natura umana è solo un concetto ideale, un’aspirazione. La poesia moderna quindi avrà sempre a che fare con la rappresentazione dell’ideale.


Concetti chiave Dalla comunione con la natura alla ricerca “sentimentale” dell’armonia perduta

Il saggio di Schiller fonda un’essenziale distinzione tra la poesia degli antichi, che nasce da una spontanea comunione con la natura (l’uomo antico stesso in fondo è natura) e quella dei moderni che invece è il frutto di una consapevole ricerca di ciò che è stato perduto ed esprime le emozioni e i sentimenti che la ricerca della perduta armonia comporta. L’elemento distintivo della poesia moderna è dunque per Schiller il sentimento, termine che nel testo dello scrittore e in genere nei romantici assume un significato diverso e ben più complesso della comune accezione: il sentimento è insieme consapevolezza di ciò che non c’è più e tensione verso la sua riconquista, ed è comunque una condizione complessa, costitutiva della modernità.

La “lontananza” del mondo antico

Il testo di Schiller documenta la prospettiva storicistica che ispira ai romantici una nuova visione della poesia: non esistono parametri validi per ogni tempo, perché la poesia scaturisce da condizioni diverse ed esprime quindi in tempi diversi, diversi modi di sentire. Anche da Schiller il mondo greco è mitizzato (come dimostra l’aggettivazione costantemente positiva impiegata per rappresentarlo), è considerato archetipo di serenità, di naturalità e armonia, ma non ne deriva, come invece per gli autori del Neoclassicismo, la necessità di imitare la poesia classica: al contrario, quel mondo è sentito come irrimediabilmente “diverso” e lontano dal mondo moderno, in cui domina la crisi d’identità dell’uomo, frutto della civilizzazione e dell’allontanamento dalla naturalità. La poesia degli antichi è “ingenua”, come quella dei moderni è necessariamente “sentimentale”; la prima imita la realtà, una realtà che è armonica, la seconda, cercando l’armonia in un mondo in cui non c’è più, non può che ritrarre l’ideale.

Caspar David Friedrich, Il tempio di Giunone ad Agrigento, olio su tela, 18281830 (Dortmund, Museum für Kunst und Kulturgeschichte).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Nella riflessione di Schiller è centrale l’individuazione della categoria psicologica o, meglio, antropologica, che egli chiama “sentimento” e associa alla modernità: che cosa intende lo scrittore per “sentimentale”? 2. Perché secondo Schiller la dimensione “sentimentale” non era presente nei greci?

Interpretare

SCRITTURA 3. In un testo di circa 10 righe spiega perché Schiller associ la poesia moderna (sentimentale) alla rappresentazione dell’ideale.

La concezione estetica del Romanticismo 2 217


August Wilhelm Schlegel

La poesia moderna è frutto della visione cristiana

D2b

Corso di letteratura drammatica Nel passo, tratto dal Corso di letteratura drammatica (che riunisce le lezioni tenute da A.W. Schlegel a Vienna, pubblicate nel 1809-1811), viene definita la categoria psicologico-spirituale che sta alla base della poesia romantica, distinguendola dalla poesia degli antichi: la malinconia, intesa come struggente tensione verso l’infinito. Una condizione interiore che secondo Schlegel è stata indotta dal cristianesimo, vero e proprio spartiacque tra la civiltà degli antichi e la civiltà dei moderni.

A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, trad. di G. Gherardini, in M. Puppo, Il romanticismo, Studium, Roma 1967

Alcuni filosofi, i quali per altro s’accordano con noi nella maniera di riguardare1 il genio particolare2 dei moderni, hanno creduto che il carattere distintivo della poesia del Nord fosse la melancolìa3; la quale opinione, dove sia chi bene la intenda4, non s’allontana dalla nostra. Appo5 i Greci, la natura umana bastava a sé stessa, non pre5 sentiva alcun voto6 e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma, quanto a noi7, una più alta dottrina8 c’insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo9 il posto che gli era stato originariamente destinato10, non ha sulla terra altro fine che di ricuperarlo; al che tuttavia non può giungere, s’egli resta abbandonato11 a sé stesso. La religione sensua10 le12 de’ Greci non prometteva che beni esteriori e temporali13: l’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida14 imagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgoreggiante. Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposto: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla15 di 15 tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e sol di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale16. Una siffatta religione risveglia tutti i presentimenti che riposano nel fondo dell’anime sensitive17, e li mette in palese18; ella conferma quella voce secreta la qual ne19 dice che noi aspiriamo ad una felicità cui non si può conseguire in questo mondo, – che nessun oggetto caduco20 20 può mai riempiere il voto21 del nostro cuore, – ch’ogni piacere non è quaggiù che una fugace illusione. Allorché dunque, simile agli schiavi ebrei i quali prostesi sotto i salci di Babilonia faceano risonare de’ loro lamentevoli canti le rive straniere22, la nostr’anima esiliata su la terra sospira la sua patria, quali possono mai essere i suoi accenti23, se non quelli della melancolìa? E però24 la poesia degli antichi era quella 25 del godimento; la nostra è quella del desiderio: l’una si ristringeva al presente, l’altra si libra25 fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire. 1 riguardare: considerare, giudicare. 2 il genio particolare: il particolare spirito (➜ PAROLA CHIAVE Genio, SCENARI, pag. 9). 3 melancolìa: malinconia. 4 dove sia... intenda: se viene adeguatamente compresa.

5 Appo: presso (latinismo da apud). 6 non presentiva alcun voto: non avvertiva alcuna mancanza..

7 quanto a noi: per ciò che riguarda noi moderni.

8 una più alta dottrina: si allude al cristianesimo.

9 per un gran fallo: per un grande errore (il peccato originale). 10 il posto... destinato: l’Eden, il paradiso terrestre. 11 abbandonato: da Dio. 12 sensuale: basata sui sensi, materialistica. 13 temporali: terreni. 14 languida: sbiadita. 15 il nulla: la nullità. 16 sol... reale: nella visione cristiana solo dopo la morte inizia la vera vita. 17 sensitive: sensibili. 18 li mette in palese: li mette in luce.

218 Ottocento 3 Romanticismo/romanticismi

19 ne: ci. 20 caduco: mortale. 21 voto: vuoto. 22 simile... straniere: come gli ebrei schiavi, prostrati sotto i salici di Babilonia (allude alla cosiddetta “cattività babilonese”), facevano risuonare dei loro canti lamentosi la terra straniera. 23 accenti: parole. 24 però: perciò. 25 si libra: rimane sospesa.


Concetti chiave Modernità e cristianesimo

Anche questo celebre testo è incentrato sull’opposizione poesia antica-poesia moderna, che ha qui come fondamento la diversità della visione religiosa: pagana negli antichi, cristiana nei moderni. La poesia del mondo antico non può essere che fondata sui sensi: la religione pagana impedisce infatti l’intuizione del trascendente, il senso vero dell’immortalità dell’anima. La poesia antica è ancorata esclusivamente alla dimensione terrena, al godimento dei sensi. La modernità invece è nata con il cristianesimo che ha introdotto l’introspezione, la spiritualità, ha invitato l’uomo a guardare oltre la dimensione sensibile. La vera vita per il cristiano è l’aldilà, mentre la vita terrena è una specie di esilio, durante il quale l’uomo vive il costante e struggente desiderio di ritrovare la vera patria. Per il cristiano la felicità non si può ottenere in questo mondo, quindi egli vive una condizione di costante inappagamento. Proprio per questo, in quanto figlia della sensibilità cristiana, la poesia romantica è “poesia del desiderio”, poesia della malinconia, protesa in modo struggente verso il futuro e memore del passato. La consapevolezza di una sostanziale diversità dei moderni rispetto agli antichi e alla loro poesia, che Schlegel qui focalizza, giustifica l’opposizione dei romantici a ogni forma di imitazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Illustra gli snodi fondamentali del discorso di Schlegel. 2. Che cosa significa per Schlegel “moderni”? 3. Spiega il seguente passo, di centrale importanza nel testo: «Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposto: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e sol di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale». Rileva l’importanza delle antitesi costruite da Schlegel: infinito/limiti, vita/morte, notte/giorno.

Interpretare

SCRITTURA 4. Il termine “malinconia” è qui usato in modo pregnante e diverso dall’uso comune. Ricerca sul vocabolario il significato etimologico del termine melancolìa (comunemente melanconia) e le diverse sfumature di significato che può assumere, poi, in un testo di massimo dieci righe, rifletti sul diverso significato rispetto a quello odierno.

online D3 Victor Hugo

Poesia romantica e grottesco Cromwell

Fissare i concetti Il Romanticismo e la nascita della lirica moderna 1. Quali sono le date di nascita dei “romanticismi” europei? 2. Quali sono i fondamenti della concezione estetica del Romanticismo?

La concezione estetica del Romanticismo 2 219


Ottocento Romanticismo/romanticismi

Sintesi con audiolettura

1 Un fenomeno complesso

Il Romanticismo è un fenomeno culturale che coinvolge filosofia, musica, arti figurative e ideologia politica. Le date di nascita ufficiali del Romanticismo in Europa sono le seguenti. Germania 1798 I fratelli Schlegel fondano la rivista «Athenaeum», culla del Romanticismo tedesco. Attorno agli Schlegel si raccoglie il “gruppo di Jena”, di cui fanno parte Tieck, Schelling e Novalis. Grandi testimoni della poesia romantica tedesca sono Novalis e Hölderlin. Inghilterra 1798 Pubblicazione delle Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge. Francia 1813 Pubblicazione del saggio di Madame de Staël, La Germania (De l’Allemagne), con il quale vengono diffuse in Europa le teorie estetiche del Romanticismo tedesco. Il manifesto del Romanticismo francese è considerata, tuttavia, la prefazione di Victor Hugo alla sua tragedia storica Cromwell (1827). Italia 1816 Pubblicazione sulla «Biblioteca Italiana» dell’articolo di Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni.

2 La concezione estetica del Romanticismo

Il Romanticismo si caratterizza per la contrapposizione all’Illuminismo e al classicismo. La poesia viene interpretata, sulla base delle intuizioni di Schelling come una conoscenza assoluta. I romantici scoprono una vera e propria cesura che separa antichi e moderni, soprattutto in relazione con la natura. I primi, infatti, avevano instaurato con quest’ultima un rapporto diretto e “ingenuo”, mentre i secondi possono avere solo un rapporto “sentimentale”, cioè nostalgico di una condizione primigenia e felice e ormai perduta. L’arte moderna, inoltre, come sottolineano i fratelli Schlegel, è frutto dell’individualità, è espressione della fantasia e delle emozioni, della disarmonia e del conflitto; per questi motivi essa contesta il principio di imitazione e si fonda su una visione storicistica: ogni epoca è diversa dalle altre e dunque la poesia ha carattere “progressivo”. Vengono rifiutate anche le regole della precettistica classica, come ad esempio le tre unità aristoteliche.

Zona Competenze Sintesi

Costruisci una breve sintesi sul Romanticismo, indicando: – il significato del termine “romanticismo” – i caratteri della concezione estetica del Romanticismo.

220 Ottocento 3 Romanticismo/romanticismi


Ottocento CAPITOLO

4 La rivoluzione della poesia in Europa

Il Romanticismo promuove, soprattutto in Europa, un rinnovamento profondo della concezione della poesia, espressione dell’io lirico che cerca di penetrare il mistero della natura e di cogliere le manifestazioni dello Spirito infinito. Alle novità dei temi corrispondono nuove forme stilistiche e metriche che preludono alla poesia moderna. Da alcuni poeti tedeschi (Novalis, Hölderlin) già alla fine del Settecento sono definiti i temi che caratterizzano la lirica romantica: l’aspirazione dell’io lirico all’assoluto e all’infinito, il desiderio di comunione con la natura, il rimpianto per l’armonia perduta del mondo classico. La poesia romantica inglese (in particolare Byron, Keats, Shelley) unisce alla ribellione esistenziale nei confronti del conformismo l’amore per la Bellezza, identificata nella classicità rivissuta con sensibilità moderna.

nuova sensibilità 1 Una poetica poesia romantica 2 Lain Germania poesia romantica 3 Lain Inghilterra 221 221


1 Una nuova sensibilità poetica L’emergere del genere lirico Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento la rivoluzione romantica produce profonde trasformazioni anche (e soprattutto) nella poesia. Innanzitutto tende a emergere nettamente il genere lirico, sia per il tramonto del poema epico e di altri generi poetici classici, sia per la valorizzazione, propria del Romanticismo, dell’interiorità, degli aspetti emotivi e passionali: la poesia tende così sempre più a configurarsi come voce dell’io, frutto di un’ispirazione libera e spontanea. Al contempo, però, l’affermazione della filosofia idealistica fa della poesia l’espressione privilegiata della nuova visione del mondo e le attribuisce addirittura valore conoscitivo, come si è anticipato. Ciò avviene in particolare in Germania, dove sono elaborati i temi principali dell’immaginario romantico che rifluiscono poi nei testi narrativi e nella lirica. Il valore conoscitivo della poesia e la nuova identità del poeta Per la prima volta si crea un legame molto stretto tra filosofia e poesia (i poeti romantici come Novalis frequentano i maggiori filosofi, ne sono influenzati e a loro volta li influenzano) e proprio questo nesso conferisce alla nuova poesia un nuovo, straordinario spessore: si afferma, in particolare in Germania, un’idea di poesia come esperienza mistico-religiosa, di valore conoscitivo non solo pari ma addirittura superiore a quello della filosofia. La poesia non è più imitazione della natura, come nelle poetiche classicistiche, ma linguaggio della verità, manifestazione dell’essere, voce dello Spirito. Se la poesia è illuminazione del senso profondo del reale, il linguaggio poetico va necessariamente oltre la razionalità: da qui l’uso di un lessico estremamente condensato, di metafore del tutto inusitate, di arditi nessi analogici che preparano l’avvento della poesia moderna. Proprio perché investita di un altissimo ruolo conoscitivo, la poesia viene liberata da ogni vincolo precettistico, sganciata dai repertori usurati dalla tradizione e dalla pesante eredità della retorica. La trasformazione delle forme poetiche si avverte anche a livello metrico: sono abbandonate le forme metriche chiuse a vantaggio delle strofe aperte, ovvero senza un numero vincolato di versi per strofa, e con versi liberi da uno schema fisso di rime. A sua volta il poeta dell’età romantica, proprio perché depositario di una vera e propria “missione”, non ha più nulla in comune con il letterato tradizionale, non è più il custode di un patrimonio di immagini e tecniche ereditate dalla tradizione. Diventa invece “profeta”: annunciatore della verità come per Shelley, “veggente” come per Novalis. La poesia del quotidiano Un altro filone poetico, per certi aspetti contrapposto a quello ora tratteggiato, tende invece a portare la poesia a contatto con la realtà comune (Wordsworth): vengono così introdotti nell’ambito della poesia aspetti del quotidiano e di conseguenza viene adottato un registro linguistico anche prosastico. Nonostante le differenze, è comune a ogni manifestazione della poesia romantica la volontà di andare contro la tradizione, di sovvertire un’idea della poesia come “tecnica” retorica.

222 Ottocento 4 La rivoluzione della poesia in Europa


2

La poesia romantica in Germania 1 Novalis: la poesia come esperienza esoterica

Lessico pietismo Movimento religioso che nasce all’interno del Protestantesimo contrastandone l’eccessivo razionalismo ed esaltando, invece, l’esperienza interiore.

Franz Gareis, Ritratto di Novalis, 1799.

Le opere e il ruolo nel panorama romantico È soprattutto in Novalis, pseudonimo letterario di Friedrich Leopold von Hardenberg (1772-1801), che la poesia assume più propriamente il carattere di una rivelazione, anche in rapporto alle posizioni filosofiche assunte dal poeta nell’ambito dell’Idealismo tedesco (affidate ai Frammenti) nonché alla lettura dei mistici tedeschi e all’influenza esercitata su di lui dall’indirizzo religioso del pietismo . Di nobile famiglia, Novalis riceve una rigida educazione religiosa. Esercita la professione di funzionario delle miniere, ma la sua breve vita è votata al culto della poesia. Fondamentale, nella scoperta della sua vocazione, è la conoscenza prima di Schiller, da cui rimane molto influenzato, e poi di Friedrich Schlegel. Novalis ha un ruolo di primo piano nella costituzione e negli orientamenti del primo gruppo romantico tedesco (il cosiddetto gruppo di Jena) e nelle posizioni assunte dalla rivista «Athenaeum», sulla quale compaiono in forma di aforismi o di brevi pensieri numerosi suoi scritti. Nella storia umana e letteraria di Novalis esercita un ruolo fondamentale la figura di Sophie, la sua fidanzata, che muore appena quindicenne e che ispira gli straordinari Inni alla notte (1798). Le altre opere letterarie di Novalis rimangono incompiute. Si tratta di due testi in prosa, che rappresentano in diverso modo la visione romantica: I discepoli di Sais, una sorta di fiaba, e il romanzo Enrico di Ofterdingen (1799). Per l’opposizione di Goethe rimane inedito e viene pubblicato postumo lo scritto Cristianità o Europa (1799), in cui ben si esprime l’anima antilluministica del Romanticismo tedesco: Novalis polemizza aspramente contro il razionalismo irreligioso ed esalta il Medioevo, auspicando una riconversione religiosa e mistica dell’Europa. Lo scavo nelle profondità dell’Io L’esperienza poetica si configura in Novalis come una consapevole discesa nel profondo, negli abissi dell’Io, nella dimensione “notturna” dell’essere. L’elemento catalizzatore di questa discesa, che conduce a una nuova e superiore conoscenza, è la morte della giovanissima fidanzata Sophie. La scomparsa dell’amata getta inizialmente il giovane poeta in uno stato di abbattimento, ma lo spinge poi a intraprendere un cammino di ricerca interiore nella speranza di un contatto mistico con Sophie. Per Novalis, del resto, il mondo esteriore è solo il mondo delle apparenze, delle “ombre”: occorre guardare al proprio interno, per poi rivolgere uno sguardo attivo e diverso all’esterno che attivi una conoscenza più profonda del mondo.

La poesia romantica in Germania 2 223


Gli Inni alla notte Negli Inni alla notte (➜ T1 ), il suo testo più importante e rivoluzionario, Novalis assimila questo cammino iniziatico al sonno, alla notte: la discesa nell’oscurità della notte è la premessa per una risalita e una rinascita spirituale in cui il poeta-veggente riesce a cogliere pienamente il mistero cristiano della morte e della resurrezione. La funzione che Novalis attribuisce alla poesia è quella di rendere paradigmatico, esemplare, universale il cammino iniziatico compiuto dall’io lirico dal “qui” all’“oltre”, alla scoperta del mistero dell’essere, alla comunione mistica con il divino. Una poesia densa di oscure immagini simboliche Proprio per il suo carattere esoterico, la poesia di Novalis utilizza costantemente un linguaggio simbolico, che è arduo e forse impossibile interpretare univocamente (in particolare, risulta enigmatica soprattutto la ricca aggettivazione). La stessa figura di Sophie, la giovane amata, che Novalis cerca disperatamente di incontrare di nuovo, acquista negli Inni alla notte diversi significati simbolici: l’anima, la saggezza cui allude il suo stesso nome (sophia in greco significa “sapienza”), la Madonna, fino a fondersi con l’immagine di Cristo vittorioso sulla morte.

Novalis

T1

Primo inno alla notte

LEGGERE LE EMOZIONI

Inni alla notte, I Novalis, Inni alla notte, trad. di I. Porena, in I romantici tedeschi, volume secondo, Narrativa e lirica, a cura di G. Bevilacqua, Rizzoli, Milano 1995

Gli Inni alla notte, composti a partire dal 1797, vengono pubblicati nel 1800 sulla rivista «Athenaeum». Inizialmente composti in versi liberi, vengono poi trasformati, nella versione destinata alla pubblicazione sulla rivista, in prose liriche con alcune parti in versi liberi. Costituiscono la prova poetica maggiore di Novalis e sono tra le più alte testimonianze del Romanticismo tedesco. Gli Inni alla notte sono concepiti da Novalis come una sorta di poema scandito in sei inni di diversa ampiezza, suddivisibili in una prima parte (I, II, III inno) e in una seconda, più ampia (V e VI), mentre il IV inno funge da cerniera e punto di svolta. Presentiamo, nella versione definitiva in prosa lirica, il primo inno.

Chi tra i viventi, ricco di sensi, fra tutte le meraviglie dello spazio che immenso lo circonda, non ama la luce, che tutto rallegra – con i suoi colori, i suoi raggi, le sue onde – con la sua dolce onnipresenza di ridestante giorno. Anima segreta della vita1, la respira il mondo senza sosta, immenso, degli astri2 e nuota e danza nel suo 5 flutto azzurro, la respira la pietra scintillante, eternamente immota, la pianta avida e assennata e il selvaggio, ardente animale dalle molte forme – ma più di tutti il divino straniero3, dagli occhi pensosi, dall’andatura lieve e dalle labbra sonanti, soavemente schiuse. Regina della natura terrena, chiama ogni forza a metamorfosi infinite, annoda e discioglie infiniti legami, presta la sua immagine divina a ogni sostanza 10 terrena. Solo la sua presenza rivela le preziose meraviglie dei regni del mondo4.

1 Anima segreta della vita: si riferisce alla luce. 2 la respira... degli astri: espressione intensamente poetica: il mondo astrale la (cioè la luce) assorbe.

3 il divino straniero: l’uomo, straniero sulla terra, che pure egli domina. 4 Solo la sua presenza... del mondo: nella versione originaria in versi liberi qui terminava la prima strofa, dedicata al poetico

224 Ottocento 4 La rivoluzione della poesia in Europa

elogio della luce, regina della terra, la cui presenza è necessaria perché si riveli la bellezza del mondo.


In basso mi volgo, verso la sacra, misteriosa, indicibile notte5. Il mondo è remoto – affondato in una fossa profonda – il suo luogo solitario e deserto. Tra le corde del cuore spira malinconia profonda. Come stillante rugiada, voglio sprofondare e mischiarmi alla cenere. – Lontani ricordi, desideri della giovinezza, sogni infantili, 15 le brevi gioie di tutta una lunga vita e le vane speranze tornano con vesti grigie, simili a nebbie della sera, dopo il tramonto6. In altri spazi ha aperto la luce le sue gioiose tende. Non tornerà più dai suoi figli, che ansiosi l’attendono con la fede dell’innocenza? Cosa goccia improvviso e carico di speranza sotto il cuore e inghiotte la molle aura 20 della malinconia? Anche tu godi di noi, notte oscura? Cosa reggi sotto il manto che, con forza invisibile, giunge alla mia anima? Balsamo prezioso stilla dalle tue mani, dal fascio di papaveri. Sollevi le ali pesanti del cuore7. Siamo scossi in modo oscuro e indicibile – con gioia e timore vedo un volto severo chinarsi su di me, dolce e raccolto, e mostra tra le infinite volute dei ricci la cara gioventù della madre8. Come povera e 25 puerile mi appare adesso la luce – come gioioso e benedetto il congedo del giorno9. – Dunque solo perché la notte ti porta via i servitori – vorresti seminare nell’immensità dello spazio le sfere lucenti, ad annunciare nei tempi della tua assenza il tuo potere immenso – il tuo ritorno10. Più divini di quelle stelle lampeggianti, ci appaiono gli innumerevoli occhi che la notte ha spalancato in noi11. Guardano più lontano delle più 30 pallide tra quell’esercito sterminato – incuranti della luce contemplano le profondità di un animo innamorato12 – ciò colma di voluttà ineffabile uno spazio più alto. Lode alla signora del mondo, alla nunzia suprema di mondi sacri, alla custode di un amore radioso – lei ti manda a me, dolce amore – sole delicato della notte (sono desto ora – ché sono Tuo e Mio) tu mi hai annunciato che la notte si è fatta vita – mi hai fatto 35 umano – consuma di ardore spirituale il mio corpo, ché, aria ormai, possa mischiarmi più intimamente con te e duri in eterno la notte nuziale13. 5 In basso... notte: qui ha inizio la seconda sezione, che introduce una svolta radicale. Il poeta abbandona la luce per rivolgersi lontano dal mondo, nel regno della notte, connotata subito come dimensione del sacro, del mistero, che proprio per questo non si può esprimere con parole comuni (indicibile). 6 Lontani ricordi... dopo il tramonto: l’immersione nella dimensione notturna fa affiorare i ricordi e i sogni, le labili speranze della vita passata. 7 Cosa goccia... del cuore: si apre la terza parte, che si sviluppa fino alla conclusione dell’inno. Alla malinconia che domina la seconda sezione si contrappone l’attesa speranzosa che la notte porti un dono prezioso, anche se ancora il poeta non sa che cosa sia: già la malinconia si è attenuata

(«inghiotte la molle aura della malinconia»; «Sollevi (soggetto è la notte) le ali pesanti del cuore»: cioè, fuor di metafora, “alleggerisci la pena del cuore”). Il fascio di papaveri letteralmente si riferisce all’effetto soporifero dell’oppio (ricavato dai papaveri). 8 vedo un volto... della madre: dalle profondità dell’Io emerge il volto giovane della madre. 9 Come povera... giorno: al confronto con i doni preziosi e misteriosi che porta la notte, la luce del giorno appare ormai misera e limitata. 10 Dunque... il tuo ritorno: il poeta si rivolge alla luce del giorno, affermando che dunque solo perché la notte ti sottrae i tuoi servitori (cioè gli uomini) vorresti seminare nell’immensità dello spazio le stelle (le sfere lucenti) ad annunciare durante

il periodo notturno, in cui sei assente, il tuo immenso potere, cioè la tua possibilità di ritornare sempre. 11 Più divini... spalancato in noi: si approfondisce il senso iniziatico della notte, che apre nell’uomo un nuovo “sguardo” su di sé e sul mondo, uno sguardo spirituale. 12 contemplano... innamorato: il nuovo sguardo attivato dalla notte consente al poeta di contemplare il profondo del proprio spirito, dove vive ancora intatto l’amore per Sophie. 13 Lode alla signora... la notte nuziale: l’inno si chiude con un’estatica lode alla notte, che ha riportato al poeta lo spirito dell’amata Sophie, a cui finalmente può unirsi in mistica eterna unione, perché lui stesso è divenuto, grazie alla notte, spirito.

Analisi del testo La contrapposizione tra luce e notte L’inno è strutturato sulla contrapposizione fra luce-giorno e notte, che nel corso della composizione va anche assumendo i tratti di una contrapposizione tra forme diverse di conoscenza: l’una, più superficiale, legata alle forme sensibili, alla contemplazione razionale della bellezza esteriore, l’altra volta a ritrovare l’essenza dell’Io e del mondo.

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L’elogio della luce è sviluppato nella prima parte del testo (rr. 1-10): la luce è vita, anima del mondo e dell’universo; la luce pervade tutto, dal mondo minerale delle pietre fino al mondo vegetale e animale, ma soprattutto la luce dà vita all’uomo, «il divino straniero». Con un brusco passaggio, la seconda parte (rr. 11-18) si apre con la dichiarazione del poeta di volersi allontanare dalla luce per volgersi al mondo magico e misterioso della notte («in basso mi volgo», r. 11). Il primo effetto del cammino iniziatico che egli sceglie di percorrere è la malinconia, l’affiorare labile di ricordi, speranze, immagini di un lontano passato («simili a nebbie della sera, dopo il tramonto»). La notte ha quindi a che fare con la dimensione onirica, in cui il passato può tornare. Ma il cammino prosegue, addentrandosi più in profondità, e la notte assume ora un aspetto consolatore («Balsamo prezioso stilla dalle tue mani», r. 21), riportando alla luce il volto dolce e severo della madre. Nell’ultima parte (rr. 19-36) dell’inno, la notte va sempre più delineandosi come esperienza conoscitiva, un’esperienza condotta non secondo la direttrice della ragione, ma anzi abdicando a essa, finché il “viaggio iniziatico” porta il poeta a incontrare oltre la morte l’amata Sophie. Finalmente egli può unirsi spiritualmente all’amata, ora che ha liberato il suo spirito dai vincoli materiali e terreni, ora che ha nuovi “occhi” per vedere ciò che visibile non è.

Lo stile dell’enigmaticità L’inno di Novalis è un testo di ardua interpretazione, difficilmente riducibile a una lettura univoca. Contribuisce a renderlo tale l’uso particolarmente creativo del linguaggio (non a caso le traduzioni del testo dal tedesco originale differiscono notevolmente l’una dall’altra), che porta all’estremo la polisemia propria della lingua poetica, il continuo ricorso a preziose immagini metaforiche, i costrutti analogici, le personificazioni e, più in generale, l’utilizzazione di un registro alto: si tratta di scelte legate alle complesse valenze filosofiche della poesia di Novalis e alla funzione magico-sacrale che egli attribuisce alla poesia. La lirica romantica italiana farà scelte opposte, privilegiando la strada della “popolarità” e della comunicazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale significato simbolico riveste la luce? Per quale ragione la notte appare inizialmente sinonimo di morte? 2. Quali verità sono svelate al poeta dalla notte? 3. Quale significato acquista l’atto volontario del poeta di respingere la luce e il giorno per immergersi nella dimensione notturna? Che cosa rifiuta e che cosa cerca? TECNICA NARRATIVA 4. L’inno ha una struttura apparentemente circolare, poiché si apre e si chiude con una “lode”: si tratta di una ripetizione, magari amplificata, oppure di un rovesciamento? ANALISI 5. Tra gli esseri che popolano la terra l’uomo ha un posto privilegiato: cerca di spiegare come Novalis rappresenta l’uomo. 6. Nell’ultima parte dell’inno, Novalis fa riferimento all’amata Sophie, che egli ritrova attraverso la mediazione della notte. Spiega il significato delle ultime righe. LESSICO 7. Il testo è ricchissimo di espressioni metaforiche altamente poetiche, a cui non sempre è possibile dare un significato univoco. Prova a spiegare queste in rapporto al contesto: la respira il mondo – le sue gioiose tende – sollevi le ali pesanti del cuore – innumerevoli occhi – esercito sterminato

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 8. Che cos’è la notte per Novalis? Semplicemente un momento suggestivo della giornata, che magari favorisce l’introspezione, o qualcosa di ben più complesso e profondo? Commenta in particolare l’espressione «nunzia suprema di mondi sacri» con cui Novalis evoca la notte. Quali sensazioni provoca in te l’ambiente notturno? Ti angoscia il buio della notte o, al contrario, ti senti protetto dall’oscurità?

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PER APPROFONDIRE

Dal mito illuminista della luce alla predilezione romantica per la notte La diffusione degli scenari e delle tematiche “notturne” Tra la fine del Settecento e il primo Ottocento, in relazione all’avvento della sensibilità romantica, la notte costituisce uno degli scenari e dei temi prediletti e assume una vasta gamma di significati e valenze simboliche. Non è un caso che Fryderych Chopin (1810-1849) intitoli Notturni un ciclo di sue composizioni e che Ludwig van Beethoven (1770-1827) dedichi al “chiaro di luna” una delle sue più celebri sonate. In generale, la preferenza dei romantici per le tematiche notturne può essere interpretata come un’evidente contrapposizione all’Illuminismo, modello culturale in cui dominano, negli scritti di più diversa natura, le immagini e le metafore che alludono ai “lumi”, alla luce, appunto. La notte è il luogo in cui i contorni delle cose si sfumano, il mondo reale perde la sua definizione assumendo forme indeterminate, avanza il silenzio, cessa il rumore del quotidiano e si dilata lo spazio della soggettività in cui può emergere la dimensione interiore. Leopardi: la “poeticità” della notte Leopardi, oltre a lasciare nei suoi Canti degli straordinari scenari notturni, teorizza nello Zibaldone la costitutiva “poeticità” della notte, che per lui ha a che fare proprio con l’indefinito: «Le parole notte, notturno, ecc. [...], le descrizioni della notte ecc. […] sono poeticissime, perché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta, sia di essa che di quanto ella contiene». Per Leopardi, dunque, la notte è la condizione ideale per il potenziamento della fantasia e dell’immaginazione da cui, per lui, scaturisce la poesia. La notte inquietante dei Canti di Ossian Nei Canti di Ossian (➜ C1) la notte costituisce uno scenario ricorrente, generalmente pauroso e orrorifico: alla notte si associa spesso una natura tenebrosa, preda della furia degli elementi, popolata da spettri e presenze inquietanti. Un’atmosfera che, una volta assimilata dalla cultura europea, finisce per diventare maniera: lo testimonia la scena notturna dei Sepolcri foscoliani (➜ C2) in cui ricorrono tutti gli ingredienti tenebrosi

della “notte ossianica” (il teschio, l’upupa con il suo luttuoso canto, ecc.). La notte nella poesia romantica tedesca Ben diverso spessore è attribuito al tema della notte nella grande poesia romantica tedesca, in particolare con Novalis, nei suoi Inni alla notte, e con Hölderlin: in entrambi i poeti il soggetto assume complesse valenze filosofiche e simboliche. Come si è visto, la notte è per Novalis non tanto un momento del corso della giornata, quanto una dimensione dello spirito in cui si potenzia la visione interiore ed è possibile attingere a una conoscenza più elevata: immergendosi nella notte si percepisce l’unità mistica degli esseri oltre la morte e si vive appieno la vita vera, che è la vita dello spirito. Di segno opposto è il valore della notte per Hölderlin, altro grande poeta del Romanticismo tedesco: se la luce, che si associa in Hölderlin al mito solare dell’Ellade, è assoluta positività e serenità, la notte è simbolicamente la negazione dei valori, il regno oscuro del Caos, lo smarrimento del senso delle cose che caratterizza il mondo moderno, la perdita della speranza che gli dèi possano tornare tra gli uomini. La notte e la crisi La notte simboleggia spesso le tenebre dello spirito, lo smarrimento dell’anima (così accade nella più celebre notte della letteratura, quella che dà origine al cammino della Commedia). Alla disperazione notturna può seguire una svolta esistenziale, come nelle celebri pagine dei Promessi sposi che descrivono la “conversione” dell’Innominato (cap. XXI) o nella notte di Faust nell’omonimo dramma di Goethe (➜ C1). In entrambi i casi i personaggi rischiano di smarrirsi nella notte, di perdere la propria identità (quella di sapiente studioso Faust, quella di potente omicida prezzolato l’Innominato) e di concludere drammaticamente la loro vita nel suicidio; ma la notte che ha indotto nei due personaggi l’angosciosa autoanalisi e la coscienza del fallimento esistenziale ha come sbocco una metamorfosi positiva, poiché per entrambi l’avvento dell’alba e il suono festoso delle campane segnala il superamento della crisi e l’inizio di un nuovo corso della vita.

Karl Gustav Carus, Finestra a Oybin al chiaro di luna, olio su tela, 1825-1828 (Schweinfurt, Museo Georg Schäfer).

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2 La poesia di Hölderlin: tra “assenza” e “rifondazione” La vita e le opere Friedrich Hölderlin (1770-1843) è un altro grande interprete della sensibilità romantica tedesca. Nasce a Lauffen, in Germania e, orfano di padre, è destinato dalla madre alla carriera ecclesiastica; studia in vari seminari e si iscrive al corso di teologia nella città universitaria di Tubinga, dove conosce Hegel e Schelling, i due futuri filosofi dell’Idealismo, con i quali condivide l’entusiasmo per la rivoluzione francese appena scoppiata. L’insofferenza verso ogni dogmatismo gli impedisce però di svolgere l’ufficio di pastore; così, mentre matura la vocazione poetica, deve cercare i mezzi per vivere. Nel 1793 ottiene un posto come precettore a Francoforte: si innamora di Suzette Gontard, madre dei suoi allievi, che celebra in poesia con il nome grecizzante di Diotima e che in seguito abbandonerà per seguire la vocazione poetica. Del 1797 è il romanzo epistolare Iperione o l’eremita della Grecia, che associa il culto della Grecia a una sensibilità già romantica. Alla figura di Iperione è dedicata anche una bellissima lirica giovanile di Hölderlin, Canto del destino d’Iperione, che sintetizza poeticamente gli aspetti fondamentali della sua poesia ➜ T3 OL. Della sua vasta produzione ricordiamo anche l’elegia L’arcipelago, gli inni All’umanità e Al dio Sole e la tragedia La morte di Empedocle. Verso il 1802 comincia a soffrire di gravi disturbi psichici. Dal 1806 al 1843, anno della morte, vive segregato come folle in una torre sulle rive del fiume Neckar a Tubinga. La nostalgia della Grecia antica La poesia di Hölderlin è pervasa dal senso della privazione, del vuoto, dell’assenza di bellezza e valori che vive l’uomo moderno, emblema dell’hegeliana “coscienza infelice”. Da qui la struggente nostalgia della pienezza, per l’età felice della Grecia antica, mito di solarità, armonia, bellezza: la poesia di Hölderlin è in questo senso piena testimonianza dell’associazione tra la Sehnsucht romantica (il “male del desiderio”, lo “struggimento”) e il Neoclassicismo, che nel poeta tedesco non è un bagaglio erudito e convenzionale. Il contatto con la mitica bellezza propria della Grecia antica può però ancora avvenire in mo-

Bertel Thorvaldsen, Ganimede e l’aquila, 1817 (Copenaghen, Museo di Thorvaldsen)

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menti che solo il poeta può conoscere, rivivendo per gli altri uomini un rapporto “ingenuo” con la realtà o comunque rievocandolo nostalgicamente (➜ T2 ). A differenza di altri romantici, tuttavia, per Hölderlin non c’è distacco tra l’età del mito classico dell’Ellade e il Cristianesimo: l’età moderna è “orfana del divino”, gli dèi sono lontani («sul nostro capo lassù in un altro mondo […]. Sogno di loro è, dopo, la vita»), ma l’«ultimo di essi» è proprio Cristo. Anzi, la lingua degli dèi che non si fa più sentire tra gli uomini o che essi non riescono più a sentire è anche il Verbo, la parola di Cristo; non a caso la poesia di Hölderlin è densa di rimandi non solo ai classici latini (Orazio, Virgilio) e greci (Pindaro e Sofocle) ma anche alla Sacra Scrittura. La missione del poeta Nella condizione di privazione propria dell’uomo moderno, il grande compito del poeta è rifondare l’unità perduta tra l’Io e il mondo, cogliere l’armonia superstite in un mondo in cui il divino è lontano, tornare a parlare per gli uomini la «lingua degli dèi». Solo il poeta può parlare questa lingua, perché è un individuo diverso dagli altri uomini e l’intuizione artistica è assimilabile alla contemplazione che è propria delle divinità. La poesia per Hölderlin è rivelazione, testimonianza della presenza superstite del divino tra di noi («E ciò che io vidi, il Sacro, sia mia parola»). In questo senso la produzione lirica di Hölderlin è al contempo “poesia dell’assenza” e “poesia della rifondazione”, affidata alla straordinaria potenzialità della parola poetica. Ma questa è continuamente soggetta alla precarietà, al trascorrere inesorabile delle cose. I momenti di grazia concessi al poeta lasciano allora il posto a momenti di assoluta negatività, alla percezione della perdita di senso delle cose a cui Hölderlin dà il nome di Notte, cieca oscurità in cui è immerso l’uomo moderno, perdita dell’armonia.

I principali esponenti della poesia romantica tedesca NOVALIS

HÖLDERLIN

poesia come rivelazione e viaggio iniziatico nell’Io

svanire della bellezza e dei valori

linguaggio simbolico

presenza del divino da salvare

richiami alla classicità

Fissare i concetti La poesia romantica in Germania 1. Che cosa significa e in relazione a che cosa il poeta romantico si può definire “profeta” e “veggente”? 2. Quale evento biografico risulta fondamentale per l’esperienza poetica di Novalis? 3. Quale significato assume in Novalis il tema della notte? 4. Con quale sentimento Hölderlin guarda alla Grecia antica? 5. Quale ruolo viene attribuito alla poesia e alla figura del poeta da Novalis e da Hölderlin?

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Friedrich Hölderlin

T2 F. Hölderlin, Poesie, trad. di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1976

Quand’ero fanciullo La lirica di Hölderlin che ora presentiamo costituisce un esempio del “Neoclassicismo romantico” tipico della cultura europea tra fine Settecento e primo Ottocento e che trova nel poeta tedesco un’espressione particolarmente suggestiva.

Quand’ero fanciullo, spesso un dio mi scampava dagli sgridi e le verghe1 degli uomini. Giuocavo sicuro e buono 5 con i fiori del bosco, e le aure del cielo giuocavano con me. E come tu2 il cuore delle piante consoli, 10 quando esse d’incontro le tenere braccia ti tendono, così hai il mio cuore consolato, padre Elio! e, come Endimione3, io ero il tuo vago4, 15 sacra Luna. O tutti voi fidi5, amorevoli dèi! Se poteste sapere quanto vi ha la mia anima amato! 20 Certo allora io non vi invocavo ancora con nomi, e neanche voi mi chiamavate mai a nome, come uomini si chiamano quasi si conoscessero.

Pure conosciuto vi ho meglio 25 che mai abbia conosciuto gli uomini: compresi il silenzio dell’etere6, le parole degli uomini non le ho comprese mai7.

1 sgridi... verghe: rimproveri e colpi di bastone. 2 tu: si riferisce al sole, in seguito personificato nel dio Elio (in greco Helios). 3 Endimione: nella mitologia greca è il

pastore di cui si innamorò la Luna (Selene in greco). 4 vago: amante. 5 fidi: fedeli. 6 etere: aria, cielo.

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7 le parole... mai: il poeta sottolinea di aver sempre compreso il misterioso silenzio della natura, ben più del linguaggio degli uomini.


M’educò il concento8 del bosco pieno di murmuri9, 30 e amare appresi10 in mezzo ai fiori. In braccio degli dèi sono cresciuto. 8 concento: armonia. 9 murmuri: mormorii.

10 amare appresi: imparai ad amare.

Analisi del testo Il Neoclassicismo di Hölderlin: la poesia della lontananza dalla dimensione mitica La suggestiva lirica di Hölderlin dà voce al recupero di tematiche connesse all’antichità classica, diffuso nella cultura europea alla fine del Settecento. In particolare si lega però alla percezione della frattura tra passato e presente, tra gli antichi, che vivevano in spontanea comunione con la natura e avvertivano la presenza del divino, e i moderni, che hanno smarrito tale armonia. Si tratta di una dimensione che ricorre insistentemente nella riflessione teorica dei romantici (da Schiller agli Schlegel) e nei testi poetici del tempo.

Il tempo dell’infanzia Tuttavia, in questo affascinante testo, Hölderlin tende a riportare la frattura passatopresente all’interno dell’esistenza individuale: il passato è qui presentato come il tempo “mitico” dell’infanzia e della prima giovinezza, quando appunto il poeta era un fanciullo. La comunione e il dialogo non erano con gli altri esseri umani, ma con la natura con cui allora viveva un rapporto di felice intimità e con il divino che anima il mondo. La tormentata ricerca di Hölderlin come poeta consisterà nel recuperare il linguaggio del mito, che da fanciullo sapeva intuitivamente cogliere («compresi il silenzio dell’etere»). È questo il senso dell’invocazione finale della celebre elegia di Hölderlin L’Arcipelago: in essa il poeta chiede al dio del mare il dono prezioso di poter intendere la «lingua degli dei», per arrivare a comprendere il divenire dello Spirito.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale giudizio dà il poeta dell’infanzia? Perché si volge a questa età con patetica nostalgia? LESSICO 2. Il linguaggio di questa lirica affascina per la sua semplicità, quasi fosse una prosa armonizzata da suoni che la rendono simile a un canto. Condividi questa affermazione? Rintraccia nel testo gli elementi che possono giustificarla. 3. La funzione che Hölderlin attribuisce al divino è innanzitutto consolatoria. Identifica le espressioni (verbi, aggettivi) che rimandano a questa valenza, in particolare nella prima parte del testo.

Interpretare

SCRITTURA 4. Dopo aver fatto la parafrasi, cerca di spiegare il significato dei versi 24-27. È possibile ritrovarvi il motivo romantico dell’eccezionalità del poeta e della sua inevitabile solitudine? 5. La bellissima immagine metaforica che chiude la poesia («In braccio degli dèi sono cresciuto») potrebbe sintetizzare il fulcro dell’ispirazione poetica di Hölderlin? Se sì, perché? Motiva la tua risposta in un testo di circa 10 righe.

online T3 Friedrich Hölderlin

La struggente aspirazione al divino Canto del destino di Iperione

La poesia romantica in Germania 2 231


3 La poesia romantica in Inghilterra 1 La prima generazione romantica Wordsworth e Coleridge: le Ballate liriche A differenza dei poeti tedeschi, in quelli inglesi l’espressione poetica di una nuova sensibilità non è sostenuta da una consapevolezza teorica comune, così che si possa parlare di una vera e propria “scuola romantica”. Si è soliti distinguere una prima generazione romantica (che avvia la sperimentazione di nuove forme poetiche) e una seconda generazione romantica. Della prima fanno parte William Wordsworth (1770-1850) e Samuel Coleridge (1772-1850). Coleridge nasce in una piccola cittadina del Devonshire. Dopo aver interrotto gli studi (è stato destinato alla carriera ecclesiastica) si stabilisce in campagna, dove conosce Wordsworth. Insieme, i due scrittori pubblicano nel 1798, anonime, le Ballate liriche (Lyrical Ballads). L’introduzione di Wordsworth alla seconda edizione (1800) è considerata il manifesto del Romanticismo inglese: vi si enuncia la necessità di una poesia nuova, spontanea, creativa e anticonvenzionale. Wordsworth cercherà ispirazione nel mondo semplice dei contadini della campagna inglese del Lake District, di cui egli stesso è originario; Coleridge è invece attratto dalla dimensione soprannaturale, dall’irrompere del mistero nella vita. Del resto i due poeti si spartiscono programmaticamente i ruoli, come dichiara proprio Coleridge: mentre Wordsworth avrebbe conferito il “fascino della novità” alle cose di tutti i giorni, egli avrebbe reso tangibile il soprannaturale. La ballata del vecchio marinaio Il contributo principale di Coleridge alle Ballate liriche è La ballata del vecchio marinaio, un celebre e suggestivo poemetto in forma di ballata popolare che apre la raccolta e che rimane la sua opera più significativa. Mentre si sta recando a una festa di nozze, uno degli invitati incontra un vecchio marinaio dallo sguardo magnetico che inizia a raccontargli una strana storia, attraendo la sua attenzione. Egli rievoca un viaggio nei mari del Sud con la sua nave: dopo aver passato la linea dell’equatore, l’imbarcazione è sospinta fino ai ghiacci del polo Sud a causa di violente tempeste, quando compare all’improvviso un albatro che sembra propiziare il viaggio. In effetti la nave riprende la rotta, ma l’uccisione dell’uccello da parte del vecchio marinaio, compiuta senza un motivo apparente, suscita una punizione soprannaturale: il vento cessa, il corso della nave si arresta e tutto l’equipaggio muore. Solo il narratore si salva ma, per espiare la sua colpa, sarà costretto a raccontare per sempre la sua storia. Altre opere di Coleridge L’interesse verso la dimensione demoniaca e soprannaturale a cui dà voce la celebre ballata è espresso da Coleridge anche nel poemetto incompiuto Christabel (1800), fondato sull’incontro tra la protagonista e una creatura soprannaturale, Geraldina, che finisce per trasformare anche Christabel in una specie di vampiro. Spirito complesso e tormentato, Coleridge è preda per anni dell’alcool e dell’oppio. Da una condizione di obnubilamento della coscienza, in seguito all’assunzione di sostanze psicotrope, prende origine il frammento poetico Kubla Khan (pubblicato nel 1816).

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Samuel Coleridge

T4

EDUCAZIONE CIVICA

La ballata del vecchio marinaio

nucleo Costituzione competenza 3 nucleo Sviluppo economico e sostenibilità competenza 5

I, vv. 51-82; II, vv. 107-142 S. Coleridge, La rima del vecchio marinaio, trad. di G. Giudici, a cura di M. Bacigalupo, SE, Milano 1987

Il poemetto è diviso in sette parti accompagnate da brevi didascalie esplicative in prosa, inserite da Coleridge nell’ultima edizione della ballata (1834). All’inizio del poemetto, prima della parte qui presentata, un vecchio marinaio dallo sguardo inquietante, capitato a un banchetto di nozze, cerca di far ascoltare a un invitato la sua tragica storia. Dopo essere stato respinto bruscamente, il marinaio, con la fissità penetrante del suo sguardo, riesce a calamitare l’attenzione dell’invitato e inizia a narrare la storia, che riguarda un viaggio per mare. Neppure l’arrivo della sposa alla festa potrà più distogliere l’invitato dall’ascoltare il racconto. Inizialmente la partenza della nave è rappresentata gioiosamente, ma l’irrompere improvviso di una terribile tempesta spinge la nave verso sud, finché essa arriva in Antartide.

«[...] E poi vennero nebbia e neve1 e freddo — ma tanto e tanto: alti i ghiacci galleggiavano, verdi come smeraldo. Un paese di ghiaccio e di boati tremendi dove non si vedeva cosa vivente. E fra i crepacci di quei ghiacci la neve triste riluceva: non si vedeva uomo né bestia — ghiaccio ovunque si stendeva. 55

Ghiaccio di qua e di là, 60 ghiaccio, ghiaccio assoluto: tutto ululìi, ruggiti e schianti, come rumori da svenuto! Finché un grande uccello marino, che è chiamato Albatro2 spuntò da quella nebbia di neve, e fu accolto con grande gioia e ospitalità. Finalmente passò un Albatro, di tra le nebbie spuntato; 65 nel nome di Dio l’accogliemmo quasi un Cristiano fosse stato. Mangiò cibo non mai assaggiato e intorno intorno poi volò. Con un boato si crepò il ghiaccio; 70 il timoniere lo attraversò. La metrica Quartine a rima alternata (ABCB) con frequenti allitterazioni. Si tratta del metro dell’antica ballata popolare inglese

1 E poi vennero nebbia e neve: la nave, spinta dalla tempesta, si trova tra i ghiacci dell’Antartide. 2 Albatro: uccello marino dalle grandi ali;

sarà reso celebre da una lirica dei Fiori del male di Baudelaire, intitolata appunto L’Albatro.

La poesia romantica in Inghilterra 3 233


Ed ecco che l’Albatro si dimostra uccello di buon augurio e segue la nave che ritornava verso Nord attraverso la nebbia e i ghiacci vaganti. Buon vento del Sud spirò in poppa e l’Albatro ci seguiva, volando per cibo o per gioco ai marinai, alle loro grida! Contro ogni legge di ospitalità, il vecchio Marinaio uccide il sacro uccello di buon augurio. 75 Su alberi o sàrtie, con ogni cielo, fu appollaiato nove sere; mentre la luna nella bruma bianca splendeva notti intere».

«O mio vecchio Marinaio, 80 Dio ti salvi! Perché mai fai quella faccia?»3. «Con una freccia io quell’Albatro ammazzai». […] La nave si trova improvvisamente in bonaccia. Ma giù la brezza, giù le vele, tristezza da non pensare; parlavamo appena per rompere 110 il silenzio del mare. Nel cielo di rame infocato meridiano un Sole di sangue proprio sull’albero sta fisso, della Luna non è più grande. Giorni e giorni, giorni e giorni, nemmeno un fiato ci ha spinto; fermi come dipinta nave sopra un oceano dipinto. 115

E l’Albatro comincia a essere vendicato. Acqua, acqua dappertutto, 120 e il fasciame che si accartoccia; acqua, acqua dappertutto, e da bere non una goccia. 3 «O mio vecchio marinaio... faccia?»: parla uno degli invitati al banchetto di nozze.

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Il vecchio Marinaio uccide l’Albatro, in un’incisione di Gustave Doré (1876).


Si guasta anche il fondo — o Cristo! Chi lo poteva immaginare! 125 Forme viscide ecco strisciano su quel viscido mare. Turbina intorno quando è notte dei fuochi fatui4 la danza; l’acqua, come olio di streghe, 130 ribolle verde e blu e bianca. Uno Spirito li aveva seguiti; uno di quelli abitatori invisibili del nostro pianeta, che non sono né anime di trapassati né angeli; su di essi si potrebbero consultare il dotto Giuseppe Ebreo e Michele Psello, platonico di Costantinopoli5. Sono molto numerosi e non c’è clima o elemento in cui non se ne trovino uno o più d’uno. Alcuni scoprono in sogno che uno Spirito ci persegue: nove braccia di sott’acqua dal paese di nebbia e neve. 135 Ed ogni lingua per arsura alla radice è disseccata; da non poter parlare, quasi da una fuliggine aggroppata6.

I compagni dell’equipaggio, per tanta disgrazia, vorrebbero riversare tutta la colpa sul vecchio Marinaio: in segno di ciò, gli appendono al collo l’uccello di mare da lui ucciso. Ahimè! Ché giovani e vecchi 140 mi fissano con sguardo atroce! Mi avevano appeso al collo l’Albatro, al posto della croce. 4 fuochi fatui: per la superstizione popolare erano le anime dei morti che si palesavano sotto forma di fiammelle.

5 Giuseppe... Costantinopoli: Flavio Giuseppe (I sec. d.C.), storico ebreo; Michele Psello, filosofo bizantino (1018-1096 circa), autore di

un trattato Sull’attività dei demoni.

6 aggroppata: soffocata.

Analisi del testo L’apparizione dell’albatro I naviganti si trovano in un mondo “alieno”: la nave viene imprigionata tra bufere di neve e giganteschi iceberg («alti i ghiacci galleggiavano,/verdi come smeraldo») e non c’è traccia umana, solo il sinistro rumore dei ghiacci che si rompono. Ma all’improvviso, proveniente chissà da dove, appare tra le nebbie un albatro e subito l’equipaggio vede in esso una figura salvifica («nel nome di Dio l’accogliemmo/quasi un Cristiano fosse stato»). Appena comparso l’albatro, la nave riesce ad attraversare una fenditura nel ghiaccio e per nove sere il grande uccello marino accompagna la nave nel suo cammino, come una specie di nume protettore.

La poesia romantica in Inghilterra 3 235


L’uccisione dell’albatro e la punizione del sacrilegio Inaspettatamente e senza alcuna plausibile ragione, il marinaio-narratore della storia uccide l’albatro: un gesto sconsiderato e sacrilego a cui seguirà la sventura per l’equipaggio. Entrata nell’oceano Pacifico e diretta verso la linea dell’equatore, la nave si trova improvvisamente ferma nella totale assenza di vento. Un sole implacabile, color rame e sangue, cade a perpendicolo sopra l’albero maestro. Il mare sembra subire una mostruosa metamorfosi; forme viscide vi strisciano, paurose apparizioni danzano di notte intorno alla nave, mentre l’acqua ribolle. I marinai stanno morendo ormai di sete; inferociti appendono al collo del marinaio l’albatro morto come punizione del misfatto compiuto. Nella parte della ballata che segue quella qui presentata (III-VII), la misteriosa maledizione seguita all’uccisione dell’albatro continua a manifestarsi: in lontananza appare una nave, ma si tratta di un vascello fantasma, maledetto, in cui l’unico equipaggio è costituito da uno scheletro (la Morte) e una donna (chiamata «Vita in morte») che si giocano a dadi la sorte dell’equipaggio. Allo scheletro spettano i compagni, che moriranno tutti; alla donna il vecchio marinaio, che però riesce a salvarsi, soccorso da una barca su cui si trova un santo eremita: il destino del marinaio sarà quello di errare di terra in terra, narrando la sua storia, così da insegnare il rispetto per ogni creatura di Dio.

Un significato simbolico? Del testo di Coleridge sono state date più interpretazioni, anche molto complesse. Di certo fin dall’inizio la narrazione è lontana da una dimensione realistica: il percorso che si compie, quello della nave e dell’io narrante, è contrassegnato dall’incontro con “presenze” (e l’albatro stesso lo è, non diversamente dalla nave-fantasma) che scandiscono un itinerario entro una dimensione allucinata, surreale, in cui anche il lettore entra facilmente, agevolato dal ritmo favoloso (la ballata appunto) della narrazione. L’intento di Coleridge è quello di riportare il mistero e il soprannaturale all’interno della poesia, anche se attraverso una vicenda orribile.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale gesto incomprensibile ha un ruolo centrale nella vicenda evocata? 2. Perché i marinai appendono l’albatro al collo del vecchio? ANALISI 3. Quali elementi del testo appartengono al soprannaturale e al visionario, quali al realistico? Quale effetto genera il sovrapporsi di queste due dimensioni? STILE 4. Un tipico elemento della ballata popolare è la ripetizione: individua nel testo la presenza di questo stilema e l’effetto che produce sul lettore.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Nella ballata viene utilizzato l’archetipo del viaggio: dopo aver ricordato altri esempi che conosci, cerca di spiegare quale significato si potrebbe attribuire al viaggio di cui qui si parla, anche in rapporto al clima culturale e ai motivi fondamentali del Romanticismo (max 15 righe). SCRITTURA CREATIVA 6. Procurati il testo dell’intera ballata, poi prova a trasformare il testo poetico in un racconto, cercando di conservare l’atmosfera onirico-surreale del testo di Coleridge. SCRITTURA ARGOMENTATIVA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3 nucleo

Sviluppo economico e sostenibilità

competenza 5

7. Nel testo è presentata l’uccisione di un animale, l’albatro, in chiave visionaria. Spostando questa azione dal piano simbolico a quello della realtà di oggi, rifletti sul rapporto uomo/animale e uomo/natura. Credi che il mondo animale e naturale siano sufficientemente tutelati in Italia? Credi che tu e i tuoi coetanei siate in grado di sensibilizzare gli adulti sull’urgenza della questione ambientale? Motiva la tua risposta in un testo di circa 20 righe.

236 Ottocento 4 La rivoluzione della poesia in Europa


2 La seconda generazione romantica Byron, Keats, Shelley La cosiddetta “seconda generazione romantica” inglese annovera i nomi di Byron, Keats e Shelley. Questi poeti sono accomunati dalla morte prematura, che ha consegnato alle generazioni future il loro volto, affascinante, di artisti giovani e dallo spirito ribelle, che li induce ad attaccare ogni forma di conformismo in campo politico (aderendo agli ideali rivoluzionari), sociale e comportamentale (Byron e Shelley praticando l’amore libero), religioso (professando l’ateismo). I loro atteggiamenti individualisti e addirittura anarchici per certi versi prefigurano i poeti “maledetti” di fine secolo. All’epoca suscitano scandalo, anche tenuto conto del fatto, non certo irrilevante, che sia Byron sia Shelley appartengono a importanti famiglie dell’aristocrazia inglese. Questi giovani poeti, seppur con modalità diverse, danno vita a una poesia nuova e antitradizionale, in cui non esiste alcuna opposizione tra culto del bello e della classicità e moderna sensibilità, come risulta evidente soprattutto nella celebre Ode su un’urna greca di John Keats (➜ T6 ). Vita e opere di Byron Nato a Londra da nobile famiglia, George Byron (1788-1824), entra nella Camera dei Lords nel 1808. Inquieto e anticonformista fin dalla prima giovinezza, inizia a viaggiare. Nel 1812 pubblica la prima parte del Pellegrinaggio del giovane Aroldo (➜ T5 ) (altri due canti seguiranno nel 1817 e 1818). L’opera ha un successo straordinario e crea uno dei miti romantici, quello dell’eroe solitario, insofferente dei vincoli sociali. Un mito che lo stesso Byron contribuisce ad alimentare con la sua vita sregolata e ribelle alle convenzioni sociali e morali. La figura dell’eroe ribelle è riproposta anche nella tragedia Manfred (1816-17); grande successo hanno anche le novelle in versi Il Giaurro, La sposa di Abido, Il corsaro. Dal 1817 Byron si stabilisce in Italia (paese mitizzato anche da altri romantici inglesi). Una svolta tematica e stilistica nella produzione dello scrittore è rappresentata dal Don Giovanni, in cui la cupa maschera di Aroldo viene abbandonata per una prospettiva burlesca e satirica. Byron muore nel 1824 in Grecia, dove era andato a combattere per l’indipendenza greca. Vita e opere di Keats La breve vita di John Keats (1795-1821), nato a Londra, è tutta votata alla poesia, nella quale raggiunge risultati considerati tra i più alti del Romanticismo inglese. A parte il poema mitologico Endimione del 1817, l’attività poetica di Keats è tutta concentrata in un solo biennio (1818-1819): in questo brevissimo periodo compone poemi (Iperione), ballate (La bella dama senza pietà [La Belle dame sans merci]) e cinque grandi odi, considerate il vertice della sua produzione (Ode alla malinconia, All’Autunno, A un usignolo, A Psiche e la celebre Ode su un’urna greca (➜ T6 ). Trasferitosi nel 1820 a Roma nella speranza di vincere la tubercolosi, muore a soli ventisei anni, l’anno dopo, nell’appartamento di piazza di Spagna dove si era stabilito. È sepolto a Roma nel cimitero degli acattolici. Shelley: la poesia come rivelazione dello Spirito e della Bellezza Nato nel Sussex da nobile e ricca famiglia, Percy Bysshe Shelley (1792-1822) studia a Eton e Oxford. È appassionato di romanzi gotici, ma coltiva anche interessi per l’alchimia, il magnetismo e l’occultismo. Spirito anticonvenzionale, viene espulso dall’università per aver scritto il libello Necessità dell’ateismo. Ne conseguono la rottura con la famiglia e l’inizio di viaggi cui lo spinge una continua inquietudine interiore. La poesia romantica in Inghilterra 3 237


Louis Edouard Fournier, Il funerale di Shelley, olio su tela, 1889 (Liverpool, Walker Art Gallery).

Anche la sua vita sentimentale è contraddistinta dall’instabilità: dopo un primo matrimonio con Harriet Westbrook, appena sedicenne, se ne separa per un nuovo amore. Si tratta di Mary (futura autrice del celebre romanzo Frankenstein), figlia del filosofo razionalista e di idee egualitarie William Godwin, di cui Shelley è divenuto discepolo. Con Mary, che ha sposato dopo il suicidio della prima moglie, si trasferisce in Italia, dove già si trova Byron, conosciuto nel 1816. Shelley costruisce con Byron un sodalizio intellettuale e un’amicizia che dureranno fino alla morte (1822), avvenuta in circostanze drammatiche: presso Lerici, in Liguria, dove vive con la moglie negli ultimi tempi, la barca a vela di Shelley naufraga durante una tempesta. Il suo corpo è ritrovato dieci giorni dopo presso Viareggio e l’amico Byron assiste al rogo del cadavere. Nella varia produzione poetica di Shelley (scrive anche ambiziosi poemi come il Prometeo liberato e il saggio Difesa della poesia) oggi si leggono soprattutto le liriche, più congeniali alla sua ispirazione poetica e in cui raggiunge altissimi risultati: Ode al vento occidentale, A un’allodola, Inno alla Bellezza intellettuale. Shelley attribuisce alla poesia un’altissima funzione: la poesia deve cambiare la visione del mondo, rigenerare l’umanità creando miti, risvegliare la presenza del divino e della Bellezza tra gli uomini. Il poeta è dunque un profeta di verità, anche se spesso rimane inascoltato. Nell’Inno alla Bellezza intellettuale (➜ T8 ), Shelley rievoca il momento esaltante in cui ha avvertito prepotentemente dentro di sé la vocazione alla poesia, che egli assume come missione da compiere. Esprime pienamente la sua visione della poesia la celeberrima Ode al vento occidentale, scritta in Italia nell’autunno del 1819, mentre sulle rive dell’Arno soffia un vento impetuoso. Il poeta si rivolge al vento selvaggio per tutta l’ode, che si sviluppa in una serie potente di immagini naturali, legate da similitudini e folgoranti metafore. Si tratta però di una poesia non naturalistica, ma simbolica: nel vento occidentale si manifesta lo Spirito rigeneratore che pervade tutto il mondo. Il poeta lo invoca chiedendo allo Spirito-vento di fare di lui la sua cetra, ovvero il suo strumento, il suo interprete tra gli uomini. La poesia di Shelley è spesso legata a immagini della natura di grande suggestione, sempre caricate di significati simbolici e attraverso le quali si intuisce la presenza di una visione panteistica del mondo: in ogni aspetto della natura si manifesta il divino. Shelley crede nella realizzazione dello Spirito tra gli uomini, nella possibilità di una comunione con il Tutto, ma non manca nella sua poesia la consapevolezza dei limiti che ostacolano lo slancio verso l’Infinito. Si tratta di un conflitto interno all’Io del poeta che Shelley tematizza nella lirica apertamente simbolica I due spiriti, in cui si contrappongono, appunto, le parole di due entità: l’una simboleggia il principio di realtà, i limiti oggettivi dell’esistenza umana che, come per il poeta tedesco Hölderlin, sono simbolicamente associati alla notte; l’altra il principio dell’amore e del sogno, il desiderio di infinito, simbolicamente collegati alla sfera della luce.

238 Ottocento 4 La rivoluzione della poesia in Europa


I principali esponenti della poesia romantica inglese PRIMA GENERAZIONE

Wordsworth: • spontaneità • ispirazione dalla natura

Coleridge: • mistero e soprannaturale • dimensione surreale

Fissare i concetti

SECONDA GENERAZIONE

Byron, Keats, Shelley: • atteggiamenti individualistici, ribelli e anticonvenzionali • poesia antitradizionale: il culto della Bellezza si fonde con la sensibilità moderna

La poesia romantica in Inghilterra 1. Quali sono i principali esponenti della prima e della seconda generazione romantica inglese? 2. Quale opera contiene il manifesto del Romanticismo inglese? 3. Quali sono le principali differenze tematiche tra la poesia di Wordsworth e quella di Coleridge? 4. Quali elementi biografici accomunano i poeti della seconda generazione romantica inglese? 5. Quale ruolo assume la natura nella produzione poetica di Shelley?

Charles Lock Eastlake, Il sogno di Lord Byron, olio su tela, 1827 (Londra, National Gallery).

La poesia romantica in Inghilterra 3 239


George Byron

T5 G. Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, in Opere scelte, a cura di T. Kemeny, Mondadori, Milano 1993

Il pellegrinaggio del giovane Aroldo I versi che seguono sono tratti dal poema Childe Harold’s Pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, 1812-1818), un’opera del poeta inglese Byron che descrive in quattro canti le peregrinazioni del protagonista, in fuga attraverso l’Europa dalla mediocrità della società contemporanea e dell’umanità stessa, verso cui ostenta evidente disprezzo.

12 Ma si riconobbe presto1 come il meno adatto tra gli uomini a entrare nel gregge dell’Uomo, col quale ebbe poco in comune; incapace di sottoporre i suoi pensieri ad altri, sebbene la sua anima fosse soffocata 5 in giovinezza dai suoi stessi pensieri; spontaneo ancora, non voleva concedere il dominio della sua mente a spiriti a cui il suo si ribellava; orgoglioso nella sua solitudine, sapeva trovare una vita in sé stesso, per esistere fuori dall’umano.

1 Ma si riconobbe presto: il soggetto è Aroldo.

13 10 Dove si elevano i monti, là aveva amici; dove rombava l’oceano, là era la sua dimora; dove un cielo s’offre azzurro, e un clima raggiante, sentiva la passione e la forza di girovagare; il deserto, la foresta, la caverna, la schiuma dei frangenti 15 gli facevano compagnia; parlavano un linguaggio comune, più limpido del volume della lingua della sua terra, a cui spesso rinunciava per le pagine della Natura dai raggi del sole riflesse sul lago.

Analisi del testo Una sensibilità romantica Questo frammento esprime la frattura tra l’Io e la società, l’insofferenza dei limiti, la ricerca della solitudine e della comunione con la natura che costituiscono i temi più ricorrenti della sensibilità romantica. La figura di Aroldo, in cui si proietta l’autore stesso, anche considerato l’enorme successo del poema rappresenta una delle più significative immagini del volto prometeico dell’eroe romantico. Queste tematiche sono espresse in modo visionario e profetico, attraverso un linguaggio enfatico e ispirato.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Per quale aspetto il personaggio di Aroldo si può ricondurre all’archetipo di Prometeo? 2. Che cosa intende dire Aroldo, quando parla di gregge dell’Uomo? (v. 2)? ANALISI 3. Quale caratteristica presenta il personaggio in relazione al contesto sociale nel quale vive?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. Quale ruolo svolge e quale valore assume la natura nel testo? Motiva la tua risposta in un intervento orale di circa tre minuti.

240 Ottocento 4 La rivoluzione della poesia in Europa


John Keats

T6 J. Keats, Poesie, trad. di M. Roffi, Einaudi, Torino 1983

Ode su un’urna greca Composta nel 1819 e pubblicata l’anno successivo, l’ode di Keats è considerata una delle testimonianze più significative della poesia inglese del primo Ottocento ed è rappresentativa dello stretto legame tra mito della grecità e sensibilità romantica che caratterizza la grande poesia europea dell’epoca. La lirica trae origine dalla contemplazione di un reperto antico: un’urna greca.

Tu della quiete ancora inviolata sposa, alunna del silenzio e del tempo tardivo1, narratrice silvestre2 che un racconto fiorito puoi così più che la nostra 5 rima dolcemente dire3, quale leggenda adorna d’aeree fronde4 si posa intorno alla tua forma? Di deità, di mortali o pur d’entrambi, in Tempe o nelle valli 10 d’Arcadia5? Quali uomini son questi o quali dèi, quali ritrose vergini qual folle inseguimento, qual paura quali zampogne e timpani, 15 quale selvaggia estasi6? Dolci le udite melodie: più dolci le non udite. Dunque voi seguite, tenere cornamuse, il vostro canto, non al facile senso, ma, più cari, 20 silenziosi concenti date all’intimo cuore7. Giovine bello8, alla fresca ombra mai può il tuo canto languire, né a quei rami venir meno la fronda.

1 Tu... tardivo: il poeta si rivolge a un’urna greca, che giace da tempo immemorabile nel silenzio («alunna del silenzio e del tempo tardivo»), il cui segreto non è stato ancora violato («della quiete ancora inviolata sposa»). 2 narratrice silvestre: l’urna torna a narrare la storia silvestre, ambientata fra i boschi, che vi è rappresentata. 3 che un racconto... dire: costruisci come “che puoi così dolcemente dire (narrare) un racconto fiorito più che la nostra rima” (la nostra poesia); fiorito potrebbe alludere al fatto che le vicende rappresentate sull’urna si svolgono in primavera. 4 aeree fronde: foglie di alti alberi. 5 Di deità... d’Arcadia: (è retto da quale

leggenda, al v. 6, sottinteso) di dei (deità), di uomini o di entrambi in Tempe o nelle valli dell’Arcadia? Sono evocati luoghi della Grecia antica legati alla poesia pastorale. Inizia da qui una serie di interrogative rivolte all’urna: il poeta cerca di cogliere il senso delle immagini raffigurate su di essa. 6 quali zampogne... estasi: la scena dell’inseguimento della fanciulla pudica, che un giovane (forse un satiro) cerca di baciare, si iscrive in un contesto ispirato al culto di Dioniso; ad esso alludono le zampogne, i cembali (timpani), come più sotto i flauti (le cornamuse, tenere, “dal morbido suono”) e soprattutto il riferimento alla selvaggia estasi, propria dei riti dionisiaci.

Stampa che riproduce un disegno di John Keats, 1819 ca. (Museo del Louvre, Parigi).

7 Dolci... cuore: è fondamentale, per cogliere il senso complessivo dell’ode, comprendere il significato di questi versi. Riferendosi agli strumenti musicali riprodotti sull’urna, il poeta dice che le melodie da essi prodotte, anche se non percepibili dai sensi (le non udite), sono più dolci di quelle che si possono veramente udire, sono un’armonia (concenti) silenziosa, cara al cuore più che all’udito. Indirettamente si afferma il potere dell’arte, considerata da Keats superiore alla realtà comune. 8 Giovine bello: il poeta si rivolge al giovane raffigurato sull’urna.

La poesia romantica in Inghilterra 3 241


Audace amante e vittorioso, mai 25 mai tu potrai baciare, pur prossimo alla meta, e tuttavia non darti affanno: ella non può sfiorire e, pur mai pago, quella per sempre tu amerai, bella per sempre9. O fortunate piante cui non tocca perder le belle foglie, né, meste, dire addio alla primavera; te felice, cantore non mai stanco di sempre ritrovare 35 canti per sempre nuovi; ma, più felice Amore! più felice, felice Amore! fervido e sempre da godere, e giovane e anelante sempre, 40 tu che di tanto eccedi ogni vivente passione umana, che in cuore un solitario dolore lascia, e sdegno: amara febbre10. 30

Chi son questi venienti al sacrificio? 45 E, misterioso sacerdote, a quale verde altare conduci questa, che mugghia ai cieli, mite giovenca di ghirlande adorna i bei fianchi di seta11? 50 Qual piccola città, presso del fiume o in riva al mare costruita, o sopra il monte, tra le sue placide mura, si è vuotata di questa folla festante, in questo pio12 mattino? 55 Tu, piccola città, quelle tue strade sempre saranno silenziose e mai non un’anima tornerà che dica perché sei desolata13.

9 Audace amante... bella per sempre: il giovane non potrà mai raggiungere e baciare la fanciulla, sebbene sia assai vicino alla meta, ma in compenso la sua bellezza non potrà mai sfiorire e lui, benché mai appagato, la amerà per sempre. 10 O fortunate piante... amara febbre: la strofa continua e approfondisce il tema espresso dalla precedente. Il poeta si rivolge alle piante effigiate sull’urna: fissate in un’eterna primavera, esse non conosceranno

il trascorrere del tempo, non perderanno le foglie; allo stesso modo l’amore fervido (“ricco di passione”) del giovane cantore vivrà sempre, in eterno anelante (“palpitante”) proprio perché inappagato e non conoscerà il dolore e l’amarezza che ogni reale (vivente) passione umana sperimenta. 11 Chi son questi... di seta: lo sguardo del poeta passa ora alla seconda immagine, quella di una piccola comunità che si prepara ad assistere a un sacrificio a cui

242 Ottocento 4 La rivoluzione della poesia in Europa

è condotta una giovenca, con i fianchi morbidi (di seta), cinti di ghirlande. Keats mantiene l’efficace struttura della domanda che il poeta, fingendosi ignaro, rivolge all’immagine effigiata per recuperarne l’identità, la vita. 12 pio: perché dedicato a un momento religioso. 13 perché sei desolata: perché sei abbandonata (dalla popolazione accorsa al sacrificio).


O pura attica forma14! Leggiadro atteggiamento, 60 cui d’uomini e fanciulle e rami ed erbe calpestate intorno fregio di marmo chiude15, invano invano il pensier nostro ardendo fino a te si consuma, 65 pari all’eternità, fredda, silente, imperturbata effige16. Quando, dal tempo devastata e vinta, questa or viva progenie anche cadrà, fra diverso dolore, amica all’uomo, 70 rimarrai tu sola17, «Bellezza è Verità» dicendo ancora: «Verità è Bellezza». Questo a voi, sopra la terra, di sapere è dato: questo, non altro, a voi, 75 sopra la terra, è bastante sapere18. 14 O pura attica forma: il vaso proviene dalla regione dell’Attica, dove sorge Atene. 15 cui... chiude: che decora (cui chiude... intorno) un fregio di marmo (soggetto) che raffigura uomini e fanciulle e rami ed erbe calpestate.

16 pari all’eternità... effige: l’urna, fredda, silenziosa, immobile, è paragonata all’eternità. 17 Quando... tu sola: quando questa generazione (progenie) di uomini che ora vive corrosa e vinta dal passare del tempo

sarà scomparsa, tu sola rimarrai, amica dell’uomo in mezzo a nuovi dolori, diversi da quelli presenti. 18 è bastante sapere: basta sapere.

Analisi del testo Le scene rappresentate sull’urna Sull’urna greca che il poeta si sofferma a contemplare sono scolpite due scene: nella prima un giovane, su uno sfondo agreste, cerca di baciare una fanciulla; nella seconda gli abitanti di un villaggio, guidati dal sacerdote, vanno a un sacrificio. Le figure sono evocate dalla voce del poeta, che in un certo senso le interroga, cercando di strapparle all’azione distruttiva del tempo, di ridare loro la vita. Motivo conduttore della poesia è la struggente nostalgia di un grande passato e il ruolo della poesia, capace di eternare la bellezza.

Il fascino dell’antica Grecia e la genesi dell’ode L’ode è certamente una delle più suggestive e significative testimonianze del culto della Grecia che si diffonde negli ambienti colti europei tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento. Keats non conosce il greco, ma ha studiato appassionatamente, da autodidatta, dizionari e repertori della classicità. Più direttamente l’ode trae ispirazione dalla contemplazione entusiasta da parte del giovane poeta inglese dei fregi del Partenone, esposti dal 1816 al British Museum di Londra insieme ad altri manufatti classici.

Classicismo romantico L’intera ode è strutturata in forma di un dialogo immaginato tra il poeta e i suoi muti interlocutori: l’urna attica e le figure su di essa intarsiate. Questo dialogo esprime il senso della lontananza che divide l’uomo moderno dal mondo antico, paradiso perduto di bellezza, e al contempo il desiderio struggente che il filo si possa riannodare. La condizione spirituale che ispira l’ode si può dunque dire a pieno titolo insieme neoclassica e romantica e forse nessun’altra poesia come questa può dimostrare l’assurdità di opporre Neoclassicismo e Romanticismo, considerandole fasi diverse e differenti concezioni del mondo. Per lo meno, questa distinzione non ha senso per la poesia inglese e tedesca.

La poesia romantica in Inghilterra 3 243


Il potere eternatore dell’arte Nella prima strofa l’urna è inizialmente evocata con espressioni che alludono al lungo e lento trascorrere del tempo che ha reso muta l’urna greca. Ma al contempo subito si insinua nei versi la fiducia che l’urna (narratrice silvestre) possa tornare a parlare, a narrare ancora i miti antichi (racconto / fiorito). Segue una serie incalzante di frasi interrogative a cui corrisponde la domanda che il poeta rivolge alle figure rappresentate, forzandole quasi a rispondere, a tornare a parlare il linguaggio del mito, un tempo condiviso dagli uomini. Nella seconda e terza strofa l’immagine, prima quasi confusa, si va precisando. Sullo sfondo il suono dei flauti si può solo intuire, ma la melodia non udita realmente, proprio perché solo immaginata, risulta più dolce di una melodia reale; un giovane insegue una fanciulla per baciarla, un ragazzo suona il flauto. Entrambi non porteranno a termine l’azione: il canto non sarà compiuto sotto gli alberi, e mai essi diverranno spogli, il giovane non potrà mai baciare la fanciulla e raggiungere la gioia, perché la fanciulla in eterno continuerà a fuggire. Il significato simbolico del testo comincia a delinearsi: l’arte non soggiace al tempo distruttore, l’arte è capace di eternare la bellezza per sempre, sottraendola al divenire (un tema a cui dà altissima voce poetica anche Foscolo nei Sepolcri, composti circa quindici anni prima dell’ode di Keats). La fanciulla rappresentata rimarrà per sempre bella, gli alberi godranno di un’eterna primavera, il giovane musico sempre continuerà a cantare e suonare, il giovane innamorato audace godrà sempre della felice stagione amorosa del desiderio, mai raggiungerà la sazietà e mai proverà l’amarezza dell’amore consumato e stanco. Nella quarta strofa compare una seconda scena: è mattino e una piccola comunità festante, guidata da un sacerdote, conduce una giovenca a un sacrificio. Anche in questo caso il poeta ripete la suggestiva successione di interrogative, che corrispondono al suo desiderio di scoprire il segreto dell’immagine effigiata: che piccola comunità è quella che si dirige al sacrificio? Da quale cittadina proviene, le cui strade per sempre resteranno vuote e silenziose? Nell’ultima strofa, che chiude circolarmente l’ode, il poeta si rivolge di nuovo all’urna, esaltando la bellezza delle forme classiche su di essa istoriate. Assai significativo per la comprensione del messaggio dell’intera ode è il paragone tra l’urna, silenziosa, e l’eternità, mistero che sfida la ragione umana nel tentativo, vano, di comprenderlo. Mentre la vita umana è contingente, soggetta al tempo e alla morte, solo l’arte, grazie alla Bellezza, vince la morte; e la Bellezza, espressa attraverso l’arte, rappresenta la Verità: questo il messaggio profondo dell’ode.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi della prima strofa. SINTESI 2. Sintetizza ogni strofa dell’ode in 2-3 righe. COMPRENSIONE 3. Spiega e commenta gli ultimi versi dell’ode: «Quando... è bastante sapere» (vv. 67-75). LESSICO 4. Nella prima strofa il poeta si rivolge all’urna greca con espressioni che appaiono tra loro in contraddizione, poiché alludono da un lato al silenzio («sposa della quiete», «alunna del silenzio») e dall’altro alla voce, alla narrazione («narratrice silvestre... che un racconto... puoi... dire»): cerca di spiegare il senso di questa contrapposizione. STILE 5. Individua gli aspetti dell’ode riconducibili al gusto neoclassico.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 6. Sulla base dell’analogia del tema (il dialogo del poeta con un reperto antico) fai un confronto fra questo testo e l’ode di Monti Prosopopea di Pericle (➜ C1 T2 ); poi esprimi un tuo giudizio critico.

online T7 Percy Bysshe Shelley

Un inno all’amore universale Filosofia dell’amore

244 Ottocento 4 La rivoluzione della poesia in Europa


Percy Bysshe Shelley

T8

Inno alla Bellezza intellettuale Vv. 1-26; 54-85

P. B. Shelley, Poesie, a cura di G. Conte, Rizzoli, Milano 1989

Scritto nel 1816 sul lago di Ginevra, dove il poeta soggiorna insieme all’amico Byron, l’Inno è una delle prove più alte della poesia di Shelley: il poeta vi tesse una lode della Bellezza, una forza immateriale e misteriosa che pervade il mondo e che l’intuizione poetica può cogliere. Riproduciamo una parte del testo, che è composto nell’originale inglese da sette strofe numerate di dodici versi ciascuna.

I La sacra ombra di un’invisibile forza1 fluttua benché invisibile a noi vicino visita il mondo con una così incostante ala come i venti d’estate che strisciano 5 da fiore a fiore, come raggi di luna che dietro una montagna irta di pini piovono, visita con incostante sguardo ogni umano cuore e lineamento. Come tinte ed armonie della sera 10 come nuvole disperse nel vasto chiarore stellato come ricordo di musica fuggita come qualcosa che essere può cara per la sua grazia, e ancora più per il suo mistero. II 15 Spirito della Bellezza, che consacri con le tue tinte il pensiero e la forma mortale su cui risplendi, dove sei andato2? Perché vai via e lasci il nostro regno questa vasta oscura valle di lacrime, deserta3 e desolata? 20 Chiedi perché la luce del sole per sempre non tessa arcobaleni su quella fiumana laggiù perché ciò che apparve una volta debba debole farsi e svanire, perché paura e sogno e morte e nascita gettino sulla luce del giorno di questa terra 25 tanta oscurità, perché l’uomo ha per destino amore e odio, sconforto e speranza? […]

1 un’invisibile forza: quella della Bellezza, forza potente e misteriosamente operante, che permea il mondo. 2 Spirito della Bellezza... dove sei andato:

anche nella poesia di Shelley, come in quella di Hölderlin, è ricorrente il senso della privazione che caratterizza l’età moderna. La seconda strofa è dominata dal tema

dell’incertezza, del dolore, della mancanza di luce che affliggono la vita dell’uomo. 3 deserta: abbandonata (dalla Bellezza); nel testo originale vacant.

La poesia romantica in Inghilterra 3 245


V Quando ero ancora un ragazzo, cercavo 55 i fantasmi, e correvo attraverso molte stanze che ascoltavano, caverne e rovine, e boschi sotto la luce degli stellati, a passi pieni di paura inseguivo la speranza di parlare alto con chi era morto. Io rievocavo i nomi velenosi 60 di che si nutre la nostra giovinezza4. Non ero udito, non li vedevo quando meditando sul destino della vita, a quel dolce momento quando i venti stanno corteggiando tutte le cose 65 che si risvegliano a portare notizie di alati e di fiorite d’improvviso, la tua ombra cadde su di me. Io urlai, e giunsi le mie mani in estasi5. VI 70 Giurai che avrei dedicato le mie forze a te e alle tue, non ho mantenuto il giuramento? Con il cuore che batte e occhi inondati anche ora chiamo i fantasmi di innumerevoli stagioni6, ognuno dalla sua tomba senza voce: 75 in pergolati pieni di visioni di zelo appassionato e di gioie d’amore essi hanno superato come me l’invidia della notte. Essi sanno che mai gioia illuminò il mio ciglio senza 80 essere legata alla speranza che tu avresti liberato questo mondo dalla sua buia schiavitù7 che tu, o sacra Bellezza avresti donato ciò che queste parole 85 non sanno esprimere. [...]

4 i nomi velenosi... la nostra giovinezza: Shelley allude alle espressioni con cui nella giovinezza si invocano per nome presenze religiose, che in realtà non ci danno alcuna risposta. Il poeta abbandona ben presto la fede religiosa dei padri. 5 d’improvviso... in estasi: il poeta ri-

evoca il momento in cui lo spirito della bellezza discese su di lui ancora ragazzo e ricevette il battesimo dell’Arte, a cui avrebbe votato la sua vita. 6 i fantasmi… stagioni: le fantasie poetiche elaborate in tempi diversi, che hanno vinto il buio della notte invidiosa («hanno superato… l’invidia della notte»; in senso

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simbolico, tutto ciò che ostacola la libera vita dello spirito). 7 buia schiavitù: il poeta, investito dallo spirito della bellezza, ha per Shelley il compito di redimere il mondo da ciò che frena la libera espressione dello spirito umano.


Analisi del testo La struttura e i contenuti Nella prima strofa la Bellezza, a cui la lirica è dedicata, viene evocata come presenza misteriosa e invisibile, ma non viene espressamente nominata. Il poeta ne costruisce il volto attraverso un accumulo di immagini e l’uso insistito della similitudine (ben sei, di cui quattro enfatizzate anche visivamente dalla collocazione anaforica: come... come... come). La seconda strofa esplicita il tema: il poeta si rivolge allo Spirito della Bellezza, per lamentarne la lontananza, ormai, dal mondo. Anche Shelley, come Hölderlin, dà voce al tema della perdita del Bello e del “divino” di cui soffre la società moderna. A espressioni positive, legate alla luce e alla solarità (consacri, risplendi), si contrappongono immagini negative, che nel loro insieme connotano la vita terrena e il mondo umano come regno dell’oscurità, del dolore e dell’incertezza (oscura valle di lacrime, fiumana, paura ecc.). La quinta e la sesta strofa focalizzano l’Io del poeta nel suo rapporto con la Bellezza. Nella quinta strofa in particolare l’io lirico rievoca nella prima parte la propria fanciullezza come momento magico in cui “si cercano i fantasmi”, ovvero in cui si è in spontaneo contatto con la dimensione del mistero, del trascendente, e si ascolta, in intima comunione, la voce della natura. Quindi rievoca il momento, simile a una sorta di estasi mistica, in cui ha incontrato lo spirito della Bellezza (la tua ombra cadde su di me) e ha scoperto così la sua vocazione poetica, che coinciderà con la ricerca della Bellezza nel mondo: una sorta di missione, come viene esplicitato nei primi versi della sesta strofa (Giurai che avrei dedicato le mie / forze a te). La vita del poeta appare indissolubilmente legata al culto della sacra Bellezza, la sua unica gioia è la speranza che essa liberi il mondo dalla sua buia schiavitù.

Un poeta “immaginifico” Colpisce nella lirica la sorprendente capacità di Shelley di creare una serie di immagini che si sovrappongono e accumulano così da intensificare progressivamente l’idea che il poeta vuole trasmettere. Da questa capacità è colpito Gabriele D’Annunzio (1863-1938), la cui caratteristica distintiva (si pensi a una lirica come L’onda) è allo stesso modo l’accumulo di immagini, che attinge spesso dalla poesia antica e moderna. Riportiamo un breve passo in cui D’Annunzio, il poeta “immaginifico” per eccellenza, esalta la capacità di Shelley di dar vita a immagini sempre nuove: Nessuno, certo, modulando il verso, ha saputo trovare armonie così aeree, non mai prima udite. Pare che veramente questo figlio dell’Oceano abbia risvegliato una voce che dormiva sconosciuta nel mondo. Anche le sue odi meno curate hanno qualcosa di sovrumano. Certe note sembrano uscite non dalla bocca di un mortale, ma da quella di un dio o di un demone. Certi versi paiono tessuti dall’elemento imponderabile d’un qualche sogno elisio [etereo, celestiale]. [...] Mentre egli possiede le più alte verità dei più alti maestri antichi, tutto è nuovo in lui. Le sue immagini non si ritrovano in alcun altro poeta: scaturiscono dal suo cervello con tale prodigiosa abbondanza che i più ricchi sembrano miseri al confronto di lui. Gabriele d’Annunzio, in appendice a P. B. Shelley, Poesie, a c. di G. Conte, Rizzoli, Milano 1989

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Come è presentato il momento in cui l’io lirico scopre la Bellezza e la poesia? 2. Nell’espressione «invidia della notte» (v. 78), quale significato assume la notte? Ha una connotazione positiva o negativa? ANALISI 3. Nella prima parte della quinta strofa si possono ritrovare riferimenti alla visione romantica del paesaggio? Quali? Individuali. LESSICO 4. La seconda strofa è strutturata su serie oppositive: elenca i termini che si riferiscono allo Spirito della Bellezza e quelli che si riferiscono alla dimensione terrena.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 5. Alla luce dell’analisi svolta, istituisci un confronto fra la poesia di Shelley e quella di Hölderlin, evidenziando gli elementi di affinità.

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Ottocento La rivoluzione della poesia in Europa

Sintesi con audiolettura

1 Una nuova sensibilità poetica

Poesia nuova e poeti nuovi Tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento diventano centrali in poesia la voce dell’Io e agli aspetti emotivi e passionali. Al contempo, sotto l’influsso della filosofia idealistica, dai romantici tedeschi la poesia è concepita come un’esperienza mistico-religiosa e il poeta diviene depositario di una missione: è “profeta” e “veggente”. Accanto a questo approccio, si afferma anche un altro filone poetico che tende alla rappresentazione del quotidiano e che, di conseguenza, adotta un registro linguistico prosastico.

2 La poesia romantica in Germania

Novalis: la poesia come esperienza esoterica Nell’opera del poeta tedesco Novalis (17721801) la poesia ha il carattere di una rivelazione. Negli Inni alla notte la discesa nella profondità della notte è la premessa per una rinascita spirituale e per comprendere il mistero cristiano della morte e della resurrezione. La poesia di Hölderlin: tra “assenza” e “rifondazione” Per Friedrich Hölderlin (1770-1843) la poesia è l’espressione del venir meno della bellezza e dei valori nell’epoca moderna (ed è quindi “poesia dell’assenza”) ma anche della presenza superstite del divino nel mondo da tener viva (e perciò “poesia della rifondazione”). Si tratta di una poesia pervasa dalla nostalgia per l’età felice della Grecia antica.

3 La poesia romantica in Inghilterra

La prima generazione romantica La cosiddetta “prima generazione romantica” è rappresentata da William Wordsworth (1770-1850) e da Samuel Coleridge (1772-1834). Il primo propugna una poesia spontanea ispirata al mondo contadino; il secondo, invece, è attratto dalla dimensione del mistero e del soprannaturale. La seconda generazione romantica I poeti della seconda generazione romantica (Byron, Keats, Shelley) sono accomunati dalla ribellione nei confronti di ogni forma di conformismo. Nelle loro opere il culto del bello e della classicità si fonde con la sensibilità moderna.

Zona Competenze Scrittura

Uno dei temi ricorrenti nella poesia romantica è quello della notte, che i vari autori, pur partendo da un terreno comune, caricano di suggestioni e di valenze simboliche diverse. In un testo espositivo-argomentativo sviluppa questo confronto, rifacendoti, se lo ritieni opportuno, anche alla poesia foscoliana (circa 3 colonne di foglio protocollo).

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Ottocento CAPITOLO

5 Il romanzo europeo

Nel primo Ottocento il genere letterario del romanzo, già affermato nel Settecento nelle sue diverse tipologie, raggiunge una diffusione e una popolarità mai conosciute da altre forme letterarie. Questo successo è legato alla sua particolare natura di genere multiforme, che può accogliere in sé la più svariata gamma di temi e suggestioni, riuscendo così a corrispondere alla sensibilità, al gusto e alle attese di ogni tipo di pubblico anche di cultura non elevata. Tra le forme principali del romanzo di primo Ottocento spiccano il romanzo storico (ricordiamo in particolare Ivanhoe di Scott e NotreDame de Paris di Hugo) e il romanzo a impianto realista (come Orgoglio e pregiudizio della Austen, Il rosso e il nero di Stendhal e Papà Goriot ed Eugénie Grandet di Balzac). Madame Bovary di Gustave Flaubert costituisce, anche per la data di pubblicazione (1857), uno spartiacque tra il romanzo primo-ottocentesco e il romanzo naturalista, di cui Flaubert precorre le modalità narrative, in particolare per la scelta dell’impersonalità.

successo del genere 1 Ilromanzo romanzo storico 2 Ile realista il Naturalismo: 3 Verso Madame Bovary 249 249


1

Il successo del genere romanzo La popolarità del romanzo Il genere del romanzo, che si era sviluppato in Inghilterra nel secolo precedente, incontra in vari paesi europei durante l’Ottocento un crescente favore presso il grande pubblico, arrivando ad assumere i caratteri di un fenomeno culturale di massa. Le ragioni di questo straordinario successo sono molteplici e di natura sia sociologica sia più specificamente letteraria: • fin dai suoi esordi, il romanzo si è presentato come un genere libero da codificazioni rigide e pronto a dare voce anche ai soggetti solitamente trascurati dalla letteratura cosiddetta “alta”: è proprio questa natura “aperta” e spuria a renderlo la forma letteraria più idonea a rappresentare una realtà complessa e in continuo divenire come quella del XIX secolo. Alla visione dall’alto e totalizzante caratteristica dell’epica, che rispecchiava un indiscutibile sistema di valori comuni, il romanzo sostituisce una molteplicità di angolazioni e prospettive, specchio di una realtà storica composita in cui ogni individuo vuole dare spazio alla propria voce. Nella sua natura molteplice e polifonica, il romanzo si presenta come il genere più coerente con questo nuovo quadro;

Francesco Filippini, La lettura, Madame Bovary, olio su tela, 1881 (Collezione privata).

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CarolusDuran, La Dame au gant (La Signora col guanto), olio su tela, 1869 (Parigi, Musée d’Orsay).

• fondamentale per spiegare il successo del romanzo è la progressiva affermazione della classe borghese (non a caso il grande filosofo tedesco Hegel definisce il romanzo «moderna epopea borghese»). Da un lato il romanzo ne diviene lo specchio e la forma di espressione più adeguata, dall’altro lo sviluppo di un ceto benestante, che dispone del tempo e della cultura necessari ad affrontare letture anche ponderose, offre al nuovo genere un pubblico su cui poter contare con una certa sicurezza; • il romanzo si presenta al pubblico come un genere, per così dire, “democratico”. La forma libera, che non si irrigidisce su formule e schemi retorici prefissati, e la lingua, pronta ad assorbire le sfumature più vicine alla quotidianità del parlato, lo rendono adatto anche a un pubblico non colto; • il romanzo per sua natura consente, inoltre, diversi livelli di lettura, a seconda della cultura e delle capacità del lettore: dal puro godimento dell’intreccio fino all’analisi più approfondita. Si comprende allora perché, con il romanzo, per la prima volta i lettori diventano “pubblico” nell’accezione moderna del termine e la lettura si configura sempre più come fenomeno di costume; • sempre per questa sua natura aperta e malleabile, poi, il romanzo si presta alle finalità di scrittura più disparate, dando luogo a un genere con molte ramificazioni. Si scrivono romanzi per raccontarsi, per educare, per emozionare nel senso più vasto e multiforme del termine. Testimonianza di questa rete sterminata di possibilità sono, ad esempio, sottogeneri quali il romanzo storico o il romanzo “nero”.

Le cause del successo del genere romanzo AFFERMAZIONE SOCIALE DELLA BORGHESIA

• trova rappresentazione nel romanzo • la classe borghese apprezza e legge i romanzi

LINGUA

• è più vicina a quella usuale e della comunicazione fra ceti diversi • la struttura polifonica permette la compresenza di stili e registri differenti in riferimento a vari contesti

VERSATILITÀ

si ramifica in molteplici tipologie e sottogeneri

Il successo del genere romanzo 1 251


2

Il romanzo storico e realista 1 Il romanzo storico Un genere di grande fortuna All’interno del variegato mondo del romanzo ottocentesco, il romanzo storico costituisce indubbiamente una delle varianti di genere di maggiore successo. La grande fortuna che incontra presso il pubblico è assicurata da un insieme di fattori: innanzitutto il nuovo interesse per la storia, che si sviluppa con la cultura romantica, in particolare per periodi storici come il Medioevo; poi la possibilità di creare trame intricate e appassionanti, capaci di catturare l’attenzione dei lettori attraverso la sollecitazione emotiva (una caratteristica che fa del romanzo storico un “genere di consumo” analogo per qualche verso a certa odierna produzione televisiva); infine la valenza patriottica che spesso vengono ad assumere queste opere, nelle quali si narra di popoli oppressi in lotta per la libertà e di eroi che si oppongono a spietati tiranni: tutte situazioni in cui possono riconoscersi molte delle nazioni europee che nel corso dell’Ottocento si stanno faticosamente costruendo un’identità e che proprio nel passato vanno a cercare le loro radici. È il caso anche dell’Italia dove, a partire dal 1827 (anno della pubblicazione della prima versione dei Promessi sposi), il romanzo storico conosce un particolare successo (➜ C9). Il modello di Walter Scott La moda letteraria del romanzo storico ha come modelli indiscussi i titoli di successo dello scrittore scozzese Walter Scott che, a partire dal 1814, si impongono in tutta Europa. Il loro autore nasce a Edimburgo, in Scozia nel 1771; arriva alla letteratura nel 1814, una volta abbandonata la professione di avvocato, pubblicando il suo primo romanzo storico, Waverley, che ha notevole successo; ne seguono molti altri, in genere ambientati nel Seicento e Settecento. Ma la fama maggiore gli viene da Ivanhoe (1820), ambientato invece nel Medioevo. Coinvolto nel dissesto finanziario della casa editrice con cui pubblica, Scott è costretto a incrementare la produzione di romanzi (alla fine ben 29) per evitare la bancarotta. Muore nel 1832. I romanzi di Scott sono fondati sul gusto della ricostruzione storica scrupolosa di eventi, usi e costumi, del passato; le storie avventurose narrate sono collocate in ambienti di gusto romantico (castelli, di cui lo scrittore scozzese riproduce minuziosamente gli arredi e le atmosfere, ma anche prigioni, foreste, ecc…) che vogliono colpire il lettore. I personaggi di Scott (come l’esempio più celebre, Ivanhoe, protagonista dell’omonimo romanzo ➜ T1 ) sono entità a una dimensione, hanno la rigida compattezza di maschere che devono portare in scena un’unica caratteristica umana, vivendola fino all’estremo: chi il coraggio adamantino, chi la crudeltà più turpe e vigliacca. Le figure più illustri della grande storia rimangono in genere su uno sfondo lontano: Scott cala gli eventi, i meccanismi e le aspirazioni della storia al livello delle persone comuni, viste nella loro prosaica quotidianità. Proprio questa è la novità più importante e feconda della sua esperienza letteraria: i suoi eroi sono figure con

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una collocazione sociale media o medio-bassa, che acquistano importanza non perché nobili o potenti, ma perché capaci di cogliere e interpretare quello spirito comune di un popolo a cui lo scrittore vuole dare voce. I suoi romanzi, in tal modo, si colorano del motivo romantico dell’esaltazione dello spirito nazionale, in cui può riconoscersi un’intera collettività. Al di là delle trame intricate e dei colpi di scena, ingrediente essenziale del suo successo, quello di Walter Scott è un mondo schematico, dove è facilissimo distinguere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. E anche questa caratteristica favorisce senz’altro la diffusione di un modello di immediata comprensione per qualsiasi tipo di pubblico, di ogni livello culturale. Ivanhoe L’opera più celebre di Scott è il romanzo Ivanhoe. La vicenda è ambientata nell’Inghilterra del 1194, sullo sfondo delle lotte intestine tra i due popoli che abitano il paese: i crudeli Normanni, che l’hanno conquistato un secolo prima, e i Sassoni, che subiscono tutte le conseguenze della sconfitta. Il protagonista è il giovane ed eroico cavaliere Wilfred di Ivanhoe, figlio di Cedric, un nobile sassone ostile ai Normanni. Ivanhoe è stato cacciato dal padre a causa del suo amore per lady Rowena, che Cedric intende dare in sposa a un nobile sassone di stirpe reale, Athelstane, nella speranza, con questa unione, di riconquistare per il suo popolo il trono d’Inghilterra. Ivanhoe è partito per la terza crociata al seguito di re Riccardo Cuor di Leone, in assenza del quale l’ipocrita e ambizioso fratello, Giovanni Senzaterra, tenta di usurpare il trono. Re Riccardo ritorna dalla crociata e insieme a lui, sotto false spoglie, ritorna alla casa del padre anche Wilfred di Ivanhoe. In incognito partecipa al torneo di Ashby, nel quale affronta e vince tutti i cavalieri del principe Giovanni. Rimasto ferito, è curato dalla bellissima Rebecca, che subito si innamora di lui. Mentre attraversano un bosco, Ivanhoe, Rebecca, Cedric il Sassone e Rowena sono fatti prigionieri da alcuni cavalieri normanni, che li rinchiudono nel castello del crudele tiranno Reginaldo Front-de-Boeuf. Dopo una furiosa battaglia, il castello viene espugnato da un misterioso Cavaliere Nero e da una banda di arditi fuorilegge, guidata dal

Frank William Warwick Topham, La regina del torneo, “Ivanhoe”, olio su tela, XIX secolo (Collezione privata).

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leggendario Robin Hood, difensore dei poveri. Solo Rebecca resta prigioniera di un crudele templare, Brian-de-Bois-Guilbert, che ne vuole a tutti i costi l’amore. Accusata di stregoneria e condannata al rogo, la donna viene liberata da Ivanhoe, che uccide il malvagio templare. Riccardo intanto stabilisce il suo potere sui Normanni ribelli e ottiene la sottomissione dei Sassoni, avviando la fusione dei due popoli nemici in una nuova realtà nazionale, quella inglese. La storia si chiude col matrimonio tra Rowena e Ivanhoe, mentre Rebecca, che in cuor suo lo ha sempre amato invano, decide di lasciare l’Inghilterra. L’eredità di Scott Tra gli autori che fanno maggiormente tesoro della lezione scottiana figurano quelli della scuola del romanzo storico italiano, con Manzoni in testa (che però, come vedremo, se ne distanzia per l’approfondimento e la complessità nella ricostruzione delle ambientazioni e dei personaggi), oltre ai francesi Prosper Mérimée, autore della novella tragica Carmen (1845), e Victor Hugo, con il celebre Notre-Dame de Paris (1831) (➜ T2 OL). Una diversa versione di romanzo storico Victor Hugo (1802-1885) è considerato il padre del Romanticismo francese. I suoi romanzi più celebri sono Notre-Dame de Paris (1831) e I miserabili, pubblicato trent’anni dopo (1862), che testimonia ormai il passaggio dall’interesse per il passato, proprio del romanzo storico, ai problemi sociali che saranno al centro del Naturalismo. Hugo si muove all’interno del genere del romanzo storico in un modo del tutto particolare. Anch’egli adotta lo statuto del narratore extradiegetico e onnisciente (che cioè si pone al di fuori della storia narrata e che ne conosce motivazioni e sviluppi), tipico del romanzo storico. La sua però è un’onniscienza che aspira a collocarsi a un livello superiore rispetto a quanto accade nel romanzo storico tradizionale alla Walter Scott, cercando di farsi interprete del mistero dell’esistenza umana. Nella sua prosa, la descrizione del dato materiale diventa così una lettura simbolica del senso profondo che sottende alle cose: l’orrenda deformità di Quasimodo viene a rappresentare le storture che dominano la società e l’eterna lotta tra il bene e il male, entrambi presenti nell’animo dell’uomo. Il Medioevo di Quasimodo ed Esmeralda, protagonisti di Notre-Dame de Paris, è una rappresentazione lontana da qualsiasi orizzonte di credibilità: con la figura del gobbo Quasimodo, esteriormente deforme ma nobile d’animo, Hugo introduce nella letteratura moderna l’idea del “grottesco”: aspetti inconsueti e magari “brutti” che l’arte non deve rifiutarsi di rappresentare. Una posizione rivoluzionaria, che venne abbracciata da un’ampia parte del movimento romantico e che Hugo teorizza nella prefazione al dramma Cromwell del 1827, di poco precedente a NotreDame de Paris.

Fissare i concetti Il romanzo storico: dal modello di Scott alla produzione francese e italiana 1. Quali sono le principali caratteristiche del romanzo storico europeo dal punto di vista tematico e formale? 2. Quali elementi fanno di Ivanhoe di Walter Scott una tipica opera romantica? 3. Che cosa rappresenta per i romantici la ripresa o rivisitazione dell’epoca medievale? Quali aspetti di essa sono privilegiati? 4. Come si evolve il genere del romanzo storico in Francia? E in Italia?

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Walter Scott

T1

L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe

LEGGERE LE EMOZIONI

Ivanhoe, XII W. Scott, Ivanhoe, trad. di L. Ferruta, Garzanti, Milano 2000

Ivanhoe, tornato segretamente in patria, partecipa in incognito al torneo organizzato da re Giovanni e, facendosi chiamare il «cavaliere Diseredato» (nome drammaticamente ammantato di mistero, che allude alla situazione dell’eroe dopo il ripudio da parte del padre Cedric), riesce ad avere la meglio sui campioni messi in lizza dal malvagio. Il testo che segue mostra la conclusione del torneo, che prevede la nomina del miglior cavaliere della giornata.

Così ebbe fine il memorabile torneo di Ashby-de-la-Zouche, uno dei più coraggiosamente combattuti dell’epoca. Infatti, anche se furono solo quattro i cavalieri che morirono sul campo, compreso uno che fu soffocato dal calore dell’armatura, più di trenta furono gravemente feriti, di cui quattro o cinque non guarirono più. Parecchi 5 furono coloro che rimasero invalidi per tutta la vita, e quelli che se la cavarono un po’ meglio portarono con sé nella tomba i segni della battaglia. Ecco perché quel torneo viene sempre ricordato nelle antiche cronache come il Nobile e Glorioso Passo d’Armi di Ashby. Era ora compito del principe Giovanni nominare il miglior cavaliere della giornata, 10 ed egli decise che l’onore toccava al cavaliere che la voce popolare aveva soprannominato Le Noir Fainéant1. Fu fatto notare al principe, criticando la sua decisione, che la vittoria era stata conseguita in realtà dal cavaliere Diseredato che nel corso della giornata aveva abbattuto da solo sei campioni e che aveva poi disarcionato e fatto cadere a terra il capo della fazione avversaria. Ma il principe Giovanni rimase del 15 suo parere, sostenendo che il cavaliere Diseredato e il suo gruppo avrebbero perso il torneo se non fosse stato per il potente aiuto del cavaliere dalla nera armatura, al quale perciò insisté di aggiudicare il premio. Tuttavia, con sorpresa di tutti i presenti, non si riuscì a trovare il cavaliere prescelto da nessuna parte. Aveva lasciato il campo immediatamente dopo la fine del tor20 neo ed era stato visto da alcuni spettatori scendere lungo una radura della foresta con lo stesso passo lento e gli stessi modi svogliati e indifferenti che gli avevano procurato l’epiteto di Fannullone Nero. Dopo che l’ebbero chiamato due volte con squilli di tromba e proclami degli araldi2, fu necessario nominare un altro per ricevere gli onori che a lui erano stati destinati. Il principe Giovanni non aveva ormai 25 altri pretesti per opporsi alla nomina del cavaliere Diseredato che fu quindi eletto campione della giornata. Attraverso il campo reso scivoloso dal sangue e ingombro di armature rotte e dei corpi di cavalli uccisi o feriti, i marescialli3 condussero il nuovo vincitore ai piedi del trono del principe Giovanni.

1 Le Noir Fainéant: “Il Nero Fannullone” è il significato del soprannome dato dal pubblico al cavaliere. Si tratta del re Riccardo, in incognito. 2 araldi: nel Medioevo l’araldo è un ufficiale della corte incaricato di rendere

pubbliche le decisioni del signore, del re o delle autorità comunali, a seconda del periodo e dell’ambiente. Qui il termine si riferisce più genericamente a dei messaggeri. 3 marescialli: nel Medioevo sono alti di-

gnitari di corte, in origine incaricati di sovrintendere alle scuderie regie e in seguito responsabili di importanti mansioni giuridiche e amministrative. Il termine è poi passato nel lessico militare, dove in vari paesi indica il grado supremo della gerarchia.

Il romanzo storico e realista 2 255


«Cavaliere Diseredato», disse questi, «poiché solo con questo nome volete essere riconosciuto, vi conferiamo per la seconda volta4 gli onori di questo torneo e vi annunciamo il diritto di richiedere e di ricevere dalle mani della regina dell’amore e della bellezza la corona che il vostro valore vi ha giustamente meritato.» Il cavaliere si inchinò profondamente e con eleganza, ma non rispose nulla. 35 Mentre le trombe squillavano, mentre gli araldi si sfiatavano a tributare onore ai valorosi e gloria al vincitore, mentre le dame agitavano i fazzoletti di seta e i veli ricamati, e mentre tutti i presenti si univano in numerose grida di esultanza, i marescialli condussero il cavaliere Diseredato attraverso il campo fino ai piedi del trono d’onore occupato da Lady Rowena. Il campione fu fatto inginocchiare sul gradino 40 più basso. In effetti, dalla fine del combattimento il suo comportamento sembrava determinato più dall’intervento di coloro che gli erano intorno che dalla sua volontà, e fu visto barcollare mentre per la seconda volta veniva condotto attraverso la lizza5. Rowena, scendendo dal trono con passo aggraziato e fiero, stava per mettere la corona che aveva in mano sull’elmo del campione quando i marescialli esclama45 rono: «Così non va: dev’essere a capo scoperto». Il cavaliere mormorò debolmente qualche parola che andò perduta nella cavità dell’elmo, ma che sembrava esprimere il desiderio che non gli fosse tolto. I marescialli, non si sa se per amore del cerimoniale o per curiosità, non fecero caso alla sua riluttanza e gli tolsero l’elmo tagliando i lacci del casco e aprendo le 50 fibbie della gorgiera6. Quando l’elmo fu tolto, si videro i bei lineamenti, abbronzati dal sole, di un giovane uomo di circa venticinque anni in mezzo a una profusione di corti capelli biondi. Il volto era pallido come quello di un morto e segnato da una o due macchie di sangue. Rowena, non appena lo vide, gettò un debole grido, ma immediatamente, facendo 55 appello alla sua forza di carattere e imponendosi di continuare mentre tremava tutta per la violenza dell’improvvisa emozione, pose sulla testa china del vincitore la splendida corona premio della giornata, e con voce chiara e distinta pronunciò queste parole: «Io vi conferisco questa corona, signor cavaliere, come ricompensa al valore destinata al vincitore della giornata». A questo punto si fermò e poi con 60 tono fermo aggiunse: «E mai corona cavalleresca potrebbe essere messa su fronte più degna!». Il cavaliere abbassò il capo e baciò la mano della bella sovrana che aveva premiato il suo valore e poi, piegandosi ancora più in avanti, crollò ai suoi piedi. 65 La costernazione fu generale. Cedric, ammutolito dall’improvvisa apparizione del figlio che aveva bandito, si lanciò verso di lui come se volesse separarlo da Rowena. Ma ciò era già stato fatto dai marescialli di campo, i quali, intuendo la causa 70 dello svenimento, si erano affrettati a togliergli l’armatura e avevano scoperto che la punta di una lancia era penetrata nel pettorale della corazza e aveva ferito a un fianco Ivanhoe. 30

4 per la seconda volta: il cavaliere Diseredato è risultato vincitore anche nella prima giornata di torneo.

256 Ottocento 5 Il romanzo europeo

5 la lizza: il recinto destinato alle prove d’armi. 6 gorgiera: il sottogola dell’armatura.

Francesco Hayez, Ivanhoe, incisione per l’edizione italiana del 1843.


Analisi del testo Un narratore rigorosamente esterno Il brano proposto è uno dei momenti topici del romanzo: il canonico colpo di scena attraverso il quale si giunge allo svelamento dell’eroe. Solo alla fine dei giochi, quando il cavaliere Diseredato è stato gravemente ferito e si teme per la sua vita, gli astanti possono vederne il volto e riconoscervi quello di Ivanhoe, che tutti credevano lontano. Questo episodio offre un esempio molto chiaro della narrativa di Scott. La scena si presenta al lettore come un palcoscenico perfettamente allestito e controllato da un regista esterno, che conosce ogni minimo dettaglio dell’azione e ne controlla lo sviluppo. La voce narrante appartiene dunque a un narratore onnisciente, che si colloca al di fuori dello spazio e del tempo degli eventi narrati e li valuta da un futuro indefinito, come ci fa capire l’espressione con cui si apre il brano: «Così ebbe fine il memorabile torneo di Ashby-de-la-Zouche, uno dei più coraggiosamente combattuti dell’epoca» (rr. 1-2). Questo punto di vista è una strategia narrativa che diventerà caratteristica del romanzo storico come genere.

Lo sfondo convenzionale di un Medioevo mitizzato Nella costruzione della scena è evidente l’intenzione dello scrittore di confermare una certa immagine “tipica” del Medioevo, la stessa che si è affermata e circola nei primi decenni dell’Ottocento, in seguito alla nuova passione romantica per i cosiddetti “secoli bui”. Già la situazione descritta costituisce di per sé un topos: il torneo che vede scontrarsi eroi misteriosi dai nomi suggestivi. Scott, poi, non perde occasione per arricchire la narrazione di tutti i dettagli del caso, proprio come in uno dei quadri di genere che all’epoca riscuotono tanto successo: gli «squilli di tromba» e i «proclami degli araldi» (r. 23), le dame che «agitavano i fazzoletti di seta e i veli ricamati» (rr. 36-37), Lady Rowena che scende dal trono d’onore «con passo aggraziato e fiero» (r. 43), la «splendida corona» (r. 57) offerta in premio al vincitore sono particolari che concorrono a tratteggiare un’immagine oleografica e pittoresca del Medioevo.

I “trucchi” del narratore di successo: sangue e suspense Il romanzo storico si vuole proporre fin dai suoi esordi come genere popolare, in grado di rispondere al gusto di un pubblico vasto e di cultura non necessariamente elevatissima. Non a caso, Scott sperimenta strategie narrative destinate a diventare peculiari della letteratura di consumo e ben note ancora oggi. Ad esempio prepara lo svelamento dell’eroe in modo tale da creare un effetto di suspense che tenga il lettore incollato alla pagina: prima lo si ammanta di un’aura di mistero chiamandolo con un nome enigmatico, poi si gioca a lungo con il particolare dell’elmo, che nasconde le reali sembianze del protagonista; in seguito sono descritte con accorata partecipazione le reazioni di lady Rowena e solo alla fine della scena, quasi casualmente, viene svelato il nome dell’eroe («la punta di una lancia era penetrata nel pettorale della corazza e aveva ferito a un fianco Ivanhoe», rr. 70-72), che ormai i lettori hanno già intuito ma di cui attendono ansiosamente una conferma. Un’altra strategia narrativa di Scott consiste nel soffermarsi spesso su particolari truci e cruenti, descritti con precisione quasi pedante. È, naturalmente, una strategia volta a suscitare il raccapriccio e a tenere alto il coinvolgimento emotivo del lettore: la menzione del cavaliere morto «soffocato dal calore dell’armatura» (r. 3), la precisazione che, anche se a morire furono «solo quattro» cavalieri, «parecchi furono coloro che rimasero invalidi per tutta la vita, e quelli che se la cavarono un po’ meglio portarono con sé nella tomba i segni della battaglia» (rr. 4-6), la descrizione del campo «reso scivoloso dal sangue e ingombro di armature rotte e dei corpi di cavalli uccisi o feriti» (rr. 2728) sono tutti tasselli di un disegno complessivo che vuole catturare l’attenzione del lettore con immagini a effetto.

Il romanzo storico e realista 2 257


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il contenuto informativo del testo in non più di 10 righe. TECNICA NARRATIVA 2. In quali punti del brano emerge con evidenza lo statuto del narratore onnisciente? ANALISI 3. Individua e isola le espressioni che si riferiscono al personaggio di Rowena: che tipo di immagine ti sembra che Scott voglia dare dell’eroina? Quale modello femminile viene a delinearsi?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Quale, tra i temi caratteristici del Medioevo romantico, è possibile individuare in questo brano? In che modo Scott cerca di far rivivere l’epoca medievale? Argomenta la tua risposta in un breve testo (max 15 righe). 5. Il gusto per il particolare cruento e scabroso è una caratteristica che avvicina Scott anche a certo giornalismo di cronaca contemporaneo. Ti sembra che le motivazioni alla base di questo tipo di scrittura siano in qualche modo simili? Qual è la tua opinione in merito alla ricerca dell’attenzione dello spettatore/lettore con qualsiasi mezzo? TESTI A CONFRONTO 6. Orlando, Don Chisciotte, Ivanhoe: tre cavalieri nati da tre culture diverse, in momenti storici diversi e con diversi ideali. Mettili a confronto: fai una schedatura delle caratteristiche fisiche, comportamentali, narrative di ognuno dei tre personaggi e del contesto storico-letterario delle rispettive opere, poi scrivi un breve testo (max 30 righe) in cui esponi il risultato del tuo confronto in parallelo.

online T2 Victor Hugo

Il gobbo di Notre-Dame: la storia si tinge di gusto dell’orrido Notre-Dame de Paris I, 5; XI, 4

2 Il romanzo a impianto realista L’interesse per l’attualità Mentre nei romanzi storici alla Scott si guarda a una realtà lontana nel tempo, proprio per questo carica di fascino (e spesso sfumata in un alone di eroismo), altri romanzieri traggono invece ispirazione dalla realtà contemporanea, che cercano di ritrarre nelle loro opere in tutta la sua complessità. Forse per la prima volta, la letteratura si sente chiamata a rappresentare il mondo in modo credibile ed esauriente: a rispondere a quello che, prendendo a prestito la terminologia del giornalismo moderno, potremmo chiamare “dovere di cronaca”. Una volontà documentaristica Non è certo un caso che Stendhal (1783-1842) come sottotitolo al suo romanzo Il rosso e il nero scelga la definizione Cronaca del 1830. Molto significativa è anche l’affermazione di un’altra delle figure chiave di questo ricchissimo filone letterario, il romanziere francese Honoré de Balzac (17991850): «La società francese stava diventando lo storico, io dovevo soltanto essere il segretario». Compito essenziale dello scrittore, dunque, diventa il documentare una realtà talmente vitale, ricca di spunti, personaggi e punti di vista diversi, che automaticamente diventa essa stessa “storia”: storia che si narra da sé, quasi senza bisogno della mediazione dell’artista (che risulta sminuito nel suo tradizionale ruolo creativo dal termine “segretario”). Siamo già sulla strada che, appena passata la metà del secolo, porterà all’opera di Gustave Flaubert, maestro indiscusso dei “naturalisti” (➜ PAG. 274 ss.).

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La nuova esigenza di una rappresentazione realistica viene ad assumere orientamenti e caratteristiche diverse a seconda del paese e del contesto storico, sociale e politico in cui si manifesta. La tradizione del romanzo in Inghilterra L’Inghilterra è il paese che vanta la più solida tradizione nel campo del romanzo, con precedenti settecenteschi del calibro di Daniel Defoe, Samuel Richardson e Henry Fielding. Qui la scrittura romanzesca si è ormai affrancata da tempo dal rapporto di sudditanza verso la cultura accademica, che altrove frena ancora la sperimentazione, e può inoltre contare sulla risposta di un pubblico assai ricettivo e più maturo che nel resto d’Europa. In Inghilterra il legame fra letteratura e realtà è già consolidato, ma nel corso dell’Ottocento questo interesse peculiare si affina e si approfondisce, trovando nel romanzo un prezioso strumento di analisi e talvolta anche di denuncia sociale. Jane Austen Tra le prime figure a scegliere la strada del romanzo in Inghilterra troviamo Jane Austen (1775-1817). Nata e vissuta nella provincia inglese, figlia di un pastore anglicano, Jane Austen fu un’autrice di successo. Nel corso di una carriera estremamente prolifica, la scrittrice analizza i meccanismi che regolano la vita delle famiglie medio e alto-borghesi nell’Inghilterra previttoriana, soffermandosi soprattutto sull’ambiente tipicamente inglese della provincia rurale a cui apparteneva. I suoi romanzi (tra i più celebri citiamo Orgoglio e pregiudizio, 1813; Mansfield Park, 1814; Emma, 1816) sono lo specchio di un mondo che cerca di mantenere un difficile equilibrio fra tradizione e spinte innovative di una realtà in veloce cambiamento: Jane Austen riesce a costruirne una rappresentazione viva ed efficace, fondata su un realismo attento e segnato da lievi tocchi di ironia. Con la sua opera per la prima volta fa il suo ingresso sul palcoscenico letterario un punto di vista femminile non aristocratico: l’autrice di Orgoglio e pregiudizio è, infatti, assai lontana dall’aura di privilegiata nobiltà che circonda, ad esempio, una Madame de Staël.

Giuseppe Canella, Piazza Luigi XVI a Parigi, olio su pannello, 1829 (Parigi, Museo Carnavalet).

Orgoglio e pregiudizio L’opera ancora oggi più celebre di Jane Austen è Orgoglio e pregiudizio, come testimoniano anche i numerosi adattamenti cinematografici e televisivi. Il romanzo ruota intorno alle vicende della famiglia Bennet, che vive a Longbourn, in Inghilterra, ed è composta dal padre (un pacifico signorotto di campagna), la madre e le cinque figlie, due delle quali già in età da marito. E trovare un marito alle figlie, alla bella e sensibile Jane e all’intelligente e spiritosa Elizabeth, è la principale preoccupazione della signora Bennet. Una nuova prospettiva si apre per lei quando nei pressi dell’abitazione dei Bennet, nella lussuosa dimora di Netherfield Park, si trasferisce il ricco scapolo Bingley, che s’innamora di Jane e ne è ricambiato. Ma un’improvvisa e inspiegabile partenza di Bingley per Londra rompe il rapporto tra i due, in un modo che sembra definitivo. Elizabeth, sempre molto incline a giudicare e sicura delle proprie opinioni, attribuisce la rottura fra Jane e Bingley a Darcy, un aristocratico amico di Bingley: questi, pur attratto da Elizabeth, ha sempre guardato alla famiglia Bennet con distacco e superiorità e i suoi modi sprezzanti hanno suscitato nella ragazza una forte avversione verso di lui.

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Ma nel tempo vi saranno diverse occasioni in cui Darcy avrà modo di mostrare a Elizabeth la sua vera natura di gentiluomo. Nel frattempo anche i malintesi tra Bingley e Jane vengono chiariti e i due si fidanzano, con grande gioia della signora Bennet. Ma la sua gioia diventa addirittura euforia quando Elizabeth, ormai del tutto ricredutasi sul conto di Darcy, accetta la sua proposta di matrimonio. Non può esserci conclusione migliore per un romanzo che si era aperto con il celebre incipit: «È cosa ormai risaputa che a uno scapolo in possesso di un’ingente fortuna manchi soltanto una moglie» (➜ T3 ). Le altre voci femminili del romanzo inglese Jane Austen inaugura un filone della moderna storia letteraria d’Europa, sul quale la seguiranno George Eliot (18191880), pseudonimo di Mary Ann Evans: Il mulino sulla Floss, 1860; Middlemarch, 1871-1872) e le sorelle Emily (1818-1848: Cime tempestose, 1847) e Charlotte Brönte (1816-1855: Jane Eyre, 1848) e che un secolo più tardi troverà pieno compimento nell’opera di Virginia Woolf. Tutte queste autrici sono accomunate dalla scelta, per le loro opere, di un’ambientazione prevalentemente provinciale (un mondo fino ad allora trascurato dalla letteratura) e dalla fine analisi psicologica dei rapporti che legano tra loro i personaggi. Charles Dickens Con l’opera di Charles Dickens (1812-1870: Il circolo Pickwick, 1836; Oliver Twist, 1838; David Copperfield, 1849-1850; Grandi speranze, 1860-1861, Tempi difficili, 1854; Il nostro comune amico, 1864) entriamo nel vivo del periodo vittoriano, un’epoca contraddistinta in Gran Bretagna da un fiorente progresso tecnico ed economico che però porta con sé anche un pesante bagaglio di problemi e contraddizioni. Proprio su questi lati negativi della moderna società industriale (che coinvolgono anche i bambini, sfruttati dall’implacabile legge del profitto) si soffermano spesso i romanzi di Dickens; non a caso, agli inizi della sua carriera, lo scrittore svolge a lungo un’attività di cronista giudiziario e giornalista, che contribuisce a formare in lui un’attenzione mai spenta per la realtà sociale, osservata con sguardo analitico. Con Dickens il realismo arriva a sfiorare gli ambiti della denuncia sociale, sia pure smorzata da una certa tendenza al sentimentalismo patetico.

Ritratto fotografico dello scrittore inglese Charles Dickens.

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Olof Johan Södermark, Henry Beyle, detto Stendhal, olio su tela, 1840 (Versailles, Palazzo).

In Francia: il romanzo durante la Restaurazione In Francia, già intorno agli anni Trenta del XIX secolo, il romanzo comincia ad aprirsi a un più diretto rapporto con la realtà contemporanea. È la Francia della Restaurazione, che vede il trionfo di una borghesia spesso gretta e bigotta, pronta ad anteporre le ragioni economiche agli ideali più nobili. In un panorama così scialbo e avvilente, dove le prospettive esistenziali appaiono quanto mai limitate, una rappresentazione fedele e spassionata della realtà deve per forza prendere atto del conflitto insanabile tra l’individuo e la società: il primo animato dall’entusiasmo e dagli slanci ideali della rivoluzione prima e del movimento romantico poi; la seconda bloccata nella palude di un conformismo squallido e opportunista. Come osserva Franco Moretti, nel mondo che si è venuto a creare una volta passata la bufera napoleonica, «gli interessi reali entrano in conflitto con gli ideali professati: il desiderio di libertà con l’aspirazione alla felicità; l’amore […] con la “carriera” intesa nel suo senso più alto. Tutto si sdoppia; a ogni valore se ne contrappone un altro di pari importanza». Uno sdoppiamento di valori di cui il soggetto si trova a essere ostaggio, impossibilitato com’è a compiere una scelta sicura e definitiva: i personaggi cui dà voce il nuovo romanzo realista francese non potranno che essere individui tormentati, insoddisfatti, eternamente in sospeso tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che invece si deve essere. Il nuovo romanzo realista francese trova in Stendhal e Balzac i suoi maggiori esponenti, non a caso accomunati dalla particolare attenzione al legame profondo fra individuo e società: anche se inventati, i loro personaggi traggono sempre la propria veridicità dal nesso con una situazione storica specifica e con un ben preciso ambiente sociale. Mentre nei romanzi del primo Ottocento (come René di Chateubriand (➜ SCENARI, D1 ) si sviluppava un’analisi del personaggio essenzialmente sul piano introspettivo ed esistenziale, nel nuovo romanzo di impianto realista l’interiorità del personaggio viene messa in rapporto con un preciso contesto storico-sociale, che inevitabilmente la condiziona in modo profondo. Si tratta di una novità destinata a sviluppi ulteriori nel secondo Ottocento con la vera e propria corrente naturalista. Stendhal e la nascita del moderno Realismo Il primo e uno dei principali esponenti del nuovo romanzo realista francese è Henry Beyle (1783-1842), meglio conosciuto con lo pseudonimo di Stendhal. Nato a Grenoble nel 1873 da una famiglia dell’alta borghesia, Stendhal si trasferisce a Parigi, dove diventa membro del Ministero della Guerra. Nel 1800 segue le armate napoleoniche in Italia, che si trasforma per lui una seconda patria: in particolare è molto legato a Milano, dove vive fino al 1821 frequentando gli ambienti del Romanticismo lombardo. Chiusa l’epoca napoleonica, torna a Parigi alla ricerca di un impiego. Intanto si era dedicato allo scrivere, pubblicando Il rosso e il nero (1830), a cui seguirà La certosa di Parma (1839). Dopo aver soggiornato a Civitavecchia come console francese, muore a Parigi nel 1842. Il romanzo storico e realista 2 261


Più di qualsiasi altro autore contemporaneo, Stendhal esprime nei suoi romanzi la forza dirompente delle pulsioni individuali che si contrappongono alle rigide norme imposte dalla vita sociale. È proprio attraverso questo scontro che lo scrittore rappresenta con rigorosa precisione il mondo contemporaneo, servendosi di un linguaggio freddo e distaccato anche quando ci parla delle passioni umane più divoranti. Caratteristica del suo stile narrativo è una spiccata tendenza all’analisi: tutto ciò che viene fatto oggetto della sua narrazione (luoghi, persone, opinioni, sentimenti) è passato attraverso il vaglio di questa inesausta vena analitica, applicata tanto al vasto panorama della grande storia quanto ai più intimi recessi dell’interiorità. Basti pensare ai Ricordi d’egotismo (scritti nel 1832, ma pubblicati soltanto nel 1892), opera dichiaratamente autobiografica, che fin dal titolo rivela il proposito di studiare il mondo complesso dei moti dell’animo (con egotismo non si vuole tanto designare la propensione a porsi al centro del mondo, quanto la ferma intenzione di scrutarsi al solo fine di conoscersi). È un atteggiamento che l’autore non abbandonerà mai, anche a costo di mettere in luce aspetti ambigui e non propriamente positivi della propria psicologia. Infatti Stendhal mette qualcosa di sé in tutti i personaggi dei suoi libri, anche in quelli più odiosi e meschini: c’è un po’ di lui nella sfrenata ambizione di Julien Sorel, protagonista del romanzo Il rosso e il nero, così come nella passionalità istintiva e generosa di Fabrizio del Dongo nella Certosa di Parma. I sentimenti dei personaggi e le situazioni in cui vengono a trovarsi sono rappresentati da Stendhal in modo diretto e con un’esattezza spietata, senza reticenze né schermi di sorta. Insomma, con Stendhal il romanzo diventa un vero e proprio strumento di studio della realtà umana, con i suoi metodi e la sua precisa specificità, in modo analogo a quanto avviene in un laboratorio scientifico: possiamo dire che si inaugura con lui quel proficuo rapporto fra letteratura e scienza che nel Novecento porterà a esiti di altissimo valore. Non è un caso che un autore come Italo Calvino, che del dialogo con la scienza ha fatto uno dei capisaldi della propria poetica, abbia avuto sempre Stendhal fra i propri autori di riferimento. Il rosso e il nero Julien Sorel è un giovane ambizioso, di modeste origini. Grande ammiratore di Napoleone Bonaparte, grazie alla tenacia negli studi e alla mancanza di scrupoli riesce a elevare il suo status sociale, diventando precettore in casa di Monsieur de Rênal, sindaco conservatore di Verrières, nella Franca Contea; spinto dall’ambizione, ne conquista la moglie, Madame de Rênal, ma finisce per innamorarsene sul serio. Quando nel paese iniziano a spargersi delle voci e Rênal riceve una lettera anonima che lo informa dell’infedeltà della moglie, Julien decide di partire per la vicina Besançon e di entrare in seminario ➜ T5 . È assunto come segretario in casa del marchese de la Mole, la cui figlia Mathilde s’innamora di lui e ne è ricambiata. Quando Mathilde informa il padre della sua intenzione di sposare Julien, perché aspetta un figlio da lui, il marchese sospetta che Julien sia un cacciatore di dote, ma gli conferisce lo stesso un titolo e una rendita. Poco prima del matrimonio, una lettera di Madame de Rênal informa il marchese che Julien l’ha ingannata e che è un truffatore; ma la missiva è stata dettata dal nuovo curato di Verrières, che comunque riesce a convincere il marchese de la Mole. Vedendo infrangersi i suoi sogni e le sue speranze, Julien ritorna a Verrières e con un colpo di pistola ferisce Madame de Rênal, durante una funzione in chiesa. È imprigionato e condannato alla ghigliottina, nonostante i tentativi di Mathilde per salvarlo e l’affetto della stessa Madame de Rênal, che è sopravvissuta e che, colta dal rimorso, lo perdona. Dopo l’esecuzione, Mathilde seppellisce con le sue mani la testa di

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Julien, emulando così la vicenda eroica e romantica del suo avo, Bonifazio de La Mole e della sua amante, da lei idolatrati. Madame de Rênal muore di disperazione tre giorni dopo. Balzac e La commedia umana Con Honoré de Balzac (1799-1850) siamo già nel pieno della stagione del romanzo realista. Proveniente da una famiglia borghese abbastanza agiata, Balzac, nato a Tours, compie gli studi prima nella città natale e poi a Parigi, dove si trasferisce con la famiglia nel 1814. Lavora come scrivano in uno studio notarile, ma a vent’anni scopre la vocazione letteraria, dedicandosi dapprima a opere di narrativa popolare non apprezzate dalla critica, tanto da spingerlo a intraprendere altre attività: diventa editore, stampatore e infine compra una fonderia di caratteri da stampa; ma tutte queste imprese si rivelano fallimentari, indebitandolo pesantemente. Nel 1829 pubblica per la prima volta un romanzo senza ricorrere a uno pseudonimo e riscuote finalmente un certo successo. A partire dal 1830 l’attività letteraria di Balzac diventa frenetica, tanto che in sedici anni arriva a scrivere circa novanta romanzi. I suoi primi successi di pubblico sono La pelle di zigrino (La peau de chagrin, 1831) e tre anni più tardi Papà Goriot (Le père Goriot, 1834). Nel 1842 Balzac decide di organizzare la sua opera monumentale in una specie di macrostruttura, dal titolo La commedia umana (La comédie humaine), un grandioso progetto di analisi della vita sociale e privata nella Francia della monarchia borghese di Luigi Filippo d’Orléans. Muore nel 1850, dopo un’esistenza vissuta come una continua rincorsa del successo e della visibilità sociale.

Lessico Naturalismo Corrente letteraria della seconda metà dell’Ottocento, che punta a utilizzare metodi analoghi a quelli delle scienze per descrivere la realtà sociale e psicologica.

Un’«opera mondo» La commedia umana, il monumentale progetto narrativo di Balzac iniziato nel 1829 e rimasto incompiuto, si articola in una serie di romanzi attraverso i quali l’autore passa al setaccio la società contemporanea, con tutte le sue miserie e le sue idiosincrasie, senza trascurare nessun ceto. Un progetto che qualche anno più tardi sarà ripreso da Zola, caposcuola del Naturalismo e, in Italia, da Giovanni Verga nel suo “Ciclo dei vinti”. Vera e propria «opera-mondo» che vuole dare voce, nella forma letteraria, alla complessa rete di rapporti e problemi che caratterizzano l’età contemporanea, La commedia umana avrebbe dovuto articolarsi in ben novantuno romanzi, suddivisi in tre insiemi principali: Studi di costumi (Études de moeurs), Studi filosofici (Études philosophiques) e Studi analitici (Études analytiques). A loro volta, gli Studi di costumi si suddividono in Scene della vita privata, Scene della vita di provincia, Scene della vita parigina, Scene della vita politica, Scene della vita militare, Scene della vita di campagna. Questo ambizioso progetto è sostenuto da una grande lucidità teorica. Nel 1836 Balzac scrive a Madame Hanska, la donna che gli rimarrà accanto fino alla morte: «Le Études de moeurs rappresenteranno tutti gli effetti sociali, senza che una situazione di vita, né una fisionomia, né un carattere di uomo o di donna, né un modo di vivere, né una professione, né una zona sociale, né un paese francese, né qualcosa dell’infanzia, della vecchiaia, dell’età matura, della politica, della giustizia, della guerra sia stato dimenticato […]. La seconda assise è costituita dalle Études philosophiques, giacché dopo gli effetti vengono le cause […], poi, dopo gli effetti e le cause, verranno le Études analytiques, che ricercano i principi». Il romanzo come strumento di analisi capillare della società Balzac procede dunque secondo un piano di lavoro articolatissimo e del tutto consapevole: nulla è lasciato al caso e il proposito implacabile che impera su questo lavoro ciclopico è Il romanzo storico e realista 2 263


quello dell’esaustività. Ogni singolo aspetto della compagine sociale deve passare attraverso il laboratorio dello scrittore, che saprà trovargli il posto più adeguato all’interno della sua opera. Non a caso Balzac afferma che il romanzo moderno deve essere il concorrente del codice civile, di cui deve avere lo stesso rigore e la stessa precisione nomenclatoria: ogni elemento ha un suo posto, un nome e una funzione.

Lessico feuilleton Romanzo d’appendice, cioè pubblicato a puntate su vari numeri di un giornale o di una rivista.

Lessico letteratura combinatoria Tecnica che consiste nell’offrire al lettore la possibilità di “scomporre” e “ricomporre” gli elementi narrativi, dando vita a interessanti esperimenti.

online

Per approfondire Eugénie Grandet

Il ricorrere dei personaggi in diversi romanzi L’espediente narrativo cui Balzac fa ricorso per dare compattezza a una compagine così vasta e variegata è lo stesso utilizzato anche dal feuilleton , che è arrivato poi fino a certa moderna narrativa commerciale: il ritorno, nei diversi romanzi, degli stessi personaggi, che il lettore impara a conoscere e a considerare come presenze note, amiche o nemiche. Si viene così a creare una sorta di mondo chiuso dove prima o poi tutti i personaggi si incontrano e di cui lo scrittore è non soltanto il cronista, ma anche il vero e proprio demiurgo, che manovra i destini delle sue creature. Nella Commedia umana ci sono alcune figure cardine delle quali, attraverso gli intrecci romanzeschi, è possibile seguire l’intera esistenza lungo l’arco di trenta o quarant’anni: ad esempio Rastignac, ma anche Vautrin, Du Marsay, Gobseck, d’Arthez, Bianchon. Il lettore viene così chiamato in prima persona a “costruire” il proprio romanzo, seguendo e riallacciando i fili delle varie trame esistenziali che vengono a intrecciarsi al suo interno. In un certo senso, nella Commedia umana possiamo leggere una sorta di esperimento antesignano di quella letteratura combinatoria che proprio in Francia, con lo sviluppo dello Strutturalismo, si affermerà nel secolo successivo. Tra i romanzi di Balzac si ritrovano alcuni degli indiscussi capolavori della narrativa ottocentesca, come Papà Goriot (➜ T6 ) ed Eugénie Grandet (➜ T7 OL). Papà Goriot Il romanzo Papà Goriot di Balzac si sviluppa essenzialmente attraverso tre ambienti: la pensione Vauquer, che ospita una variegata rassegna di personaggi – tra cui il protagonista – ciascuno dei quali avrà un qualche ruolo, maggiore o minore, nello svolgimento della trama; l’ambiente dell’alta finanza e infine quello dell’aristocrazia. Al centro della vicenda c’è la figura di papà Goriot, ricco commerciante a riposo, con due figlie, Anastasie e Delphine, sposate rispettivamente con un conte e con un banchiere. Egli le ama in un modo così totale e assoluto che per la loro felicità è pronto a dilapidare il suo patrimonio. Da parte loro, invece, le due ragazze lo vanno a trovare solo per ottenere i soldi necessari a soddisfare i propri capricci nella vuota e ipocrita società del tempo. La vicenda di Goriot si intreccia con quella di Eugène de Rastignac, un altro degli ospiti della pensione, che rappresenta il punto d’incontro tra i vari ambienti che interagiscono nell’economia del romanzo. Egli è un giovane ambizioso originario della provincia che, attratto dalle lusinghe dell’alta società parigina, trascura gli studi di giurisprudenza che lo hanno portato in città. È proprio l’ambizione che spinge Rastignac a sedurre donne altolocate, tra cui Delphine. Un ruolo di rilievo all’interno della vicenda è poi quello del signor Vautrin, che simboleggia quanto vi è di più negativo nel mondo borghese. Egli tenta di iniziare Eugène al male, spiegandogli come raggiungere i propri scopi con mezzi disonesti, mettendo da parte ogni scrupolo. Il romanzo si conclude con la morte di papà Goriot, ucciso non solo dall’età, ma anche dalle privazioni che si è imposto per amore delle figlie.

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Il romanzo storico e realista ROMANZO STORICO

• interesse per la storia (rappresentata in rievocazioni “d’atmosfera” e talvolta anche per stereotipi) • gusto per le vicende avventurose

ROMANZO REALISTA

• realtà contemporanea vista sotto vari aspetti, anche problematici • analisi sociale • rapporto conflittuale individuo-società

Fissare i concetti La diffusione del romanzo realista in Inghilterra e in Francia 1. Quali sono le principali voci del romanzo realista inglese? 2. Su quale particolare ambiente sociale si focalizzano le opere di Jane Austen? 3. In che modo il contesto della Restaurazione influenza lo sviluppo del romanzo realista francese? 4. In che modo lo studio della realtà umana viene affrontato rispettivamente da Stendhal e da Balzac? 5. Che cos’è La commedia umana e quale progetto Balzac si propone di realizzare con quest’opera?

Jane Austen

L’orizzonte esistenziale di un’anziana coppia di borghesi campagnoli

T3

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Orgoglio e pregiudizio, I Quello che segue è il capitolo d’esordio del capolavoro di Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio. La trama si sviluppa attorno alle vicende delle cinque sorelle Bennet e in particolare di Elizabeth, descrivendo i loro sforzi per costruirsi un futuro attraverso il matrimonio; in queste pagine d’apertura, però, esse non compaiono e la scena è interamente occupata dal dialogo tra i loro genitori.

J. Austen, Orgoglio e pregiudizio, introduzione di S. Poledrelli, trad. di M. La Russa, Feltrinelli, Milano 2011

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È cosa ormai risaputa che a uno scapolo in possesso di un’ingente fortuna manchi soltanto una moglie. Questa verità è così radicata nella mente delle famiglie del luogo che, nel momento in cui un simile personaggio viene a far parte del vicinato, prima ancora di conoscere anche 10 lontanamente i suoi desideri in proposito, viene immediatamente considerato come proprietà legittima di una o l’altra delle loro figlie. «Mio caro Mr Bennet», disse un giorno una signora al marito, «hai saputo che Netherfield Park è stato final15 mente affittato?». Il signor Bennet dichiarò di non saperlo. «Ormai non c’è dubbio,» ribatté la signora, «Mrs Long è appena stata lì e mi ha raccontato ogni cosa». Mr Bennet non rispose. 20 «Non vuoi sapere chi lo ha preso?» riprese sua moglie impaziente.

Edmund Blair Leighton, Una domenica mattina di pioggia, olio su tela, 1896 (Collezione privata).

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1 un tiro a quattro: una vettura trainata da quattro cavalli, indizio certo di benessere economico.

«Sei tu che vuoi dirmelo, e non ho niente in contrario a sentirlo». Questo incoraggiamento fu sufficiente. «Dunque, mio caro, devi sapere che Mrs Long dice che Netherfield è stato affittato a 25 un ricchissimo giovane dell’Inghilterra del Nord, che è arrivato lunedì con un tiro a quattro1 per vedere il posto e ne fu talmente affascinato da prendere subito accordi con Mr Morris; prenderà possesso della proprietà prima di San Michele e parte della sua servitù arriverà per la fine della settimana ventura». «Qual è il suo nome?». 30 «Bingley». «È sposato o scapolo?». «Oh, scapolo, caro, a onor del vero! Un uomo libero e, per di più, ricchissimo: quattro o cinquemila sterline di rendita. Che fortuna per le nostre ragazze!». «Per quale motivo? Cosa c’entrano loro?». 35 «Mio caro Bennet!» replicò la moglie. «Come puoi essere noioso! Puoi immaginare che spero ne sposi una, no?». «È questo il suo intento nello stabilirsi qui?». «Intento? Sciocchezze! Come puoi parlare così? Nessuno però gli può impedire di innamorarsi di una di loro e di sposarla; motivo per il quale devi fargli visita ap40 pena arriva». «Non ne vedo la ragione. Puoi andare tu con le ragazze, o, cosa ancora migliore, puoi mandarle da sole, dato che non sei meno graziosa di loro. Mr Bingley potrebbe addirittura preferire te». «Mio caro, tu vuoi adularmi. Non nego di essere stata assai graziosa in passato, ma 45 non pretendo di essere adesso qualcosa di straordinario. Quando una donna è madre di cinque figliole in età da marito, deve rinunciare a pensare alla propria bellezza». «Questo accade solo nei casi in cui alla donna non ne resti più molta». «Ti ripeto, mio caro, che quando Mr Bingley diventerà nostro vicino, sarà tuo dovere andare a conoscerlo». 50 «Mi stai chiedendo un po’ più di quanto possa prometterti, te lo assicuro». «Ma pensa alle nostre figlie! Considera che partito sarebbe per una di loro! Sir William e Lady Lucas si sono decisi a fargli visita unicamente a questo scopo, dato che, in genere, come ben sai, non si recano dai nuovi arrivati. Davvero dovrai andare anche tu, perché a noi sarebbe impossibile farlo, se tu non ci hai precedute». 55 «Ti fai troppi scrupoli. Sono certo che Mr Bingley sarà felicissimo di conoscerti; e io, da parte mia, gli invierò due righe, a mezzo tuo, per assicurarlo del mio cordiale consenso a sposare quale delle mie figliole vorrà scegliere, sebbene avrò premura di mettere una buona parola per la mia piccola Lizzy». «Spero che non farai una cosa simile. Lizzy non vale più delle altre, è bella la metà 60 di Jane e non ha certo il carattere brioso di Lydia. Ma tu hai sempre avuto una preferenza per lei». «Nessuna di loro vale molto», replicò Mr Bennet, «sono tutte sciocchine e ignoranti come le altre ragazze; ma Lizzy è un po’ più acuta delle sorelle». «Come puoi insultare così le tue stesse figlie? Provi piacere a indispettirmi. Non hai 65 nessuna pietà dei miei poveri nervi». «Ti sbagli, mia cara. Ho un grande rispetto per i tuoi nervi. Sono miei vecchi amici. Ne parli accoratamente da almeno vent’anni». «Ah! Tu non hai davvero idea di quanto io soffra».

266 Ottocento 5 Il romanzo europeo


«Ma spero che riuscirai a resistere alle tue sofferenze e che vivrai abbastanza a lungo da vedere stabilirsi nei dintorni molti giovani con quattromila sterline di rendita». «A cosa servirebbe dato che, dovessero venirne venti, tu non ti degneresti di far loro visita?». «Rassicurati, cara, che quando saranno venti, andrò a far visita ad ognuno di loro». Mr Bennet era un tale impasto di vivacità e sarcasmo, di riservatezza ed esuberanza, 75 che ventitré anni di vita assieme non erano bastati alla moglie per comprenderne il carattere. Il suo, invece, era meno difficile da capire. Era una donna di intelligenza mediocre, poco colta e di carattere volubile. Quando era scontenta, si immaginava di essere nervosa. Il più grande obiettivo della sua vita era di far sposare le figlie; il suo unico passatempo era costituito dalle visite e dai pettegolezzi. 70

Analisi del testo Una scena da salotto: il ruolo della conversazione Nel breve capitolo di apertura di Orgoglio e pregiudizio si trovano concentrate alcune delle tematiche più importanti nella narrativa di Jane Austen: attraverso il vivace scambio di battute tra i due coniugi, magistralmente orchestrato dall’abile vena narrativa dell’autrice, il lettore può gettare uno sguardo nel mondo limitato e ristretto della borghesia rurale inglese di fine Settecento. Innanzitutto emerge nel testo la dimensione della conversazione, che nella Austen diventa tessuto fondante di ogni sviluppo narrativo: situazioni come quella del brano proposto sono frequentissime nei suoi romanzi, tutti costruiti sulla difficile arte di comunicare all’interno di un consesso sociale che, dietro lo schermo di un’apparente leggerezza, è in realtà regolato da norme ed equilibri delicatissimi, che è indispensabile rispettare. Il salotto è così il vero e proprio teatro in cui vanno in scena le piccole “avventure” della vita borghese.

Il tema del matrimonio C’è poi il tema del matrimonio, che viene rappresentato sia nello stadio consolidato di una coppia già matura, sia (per quanto riguarda le figlie della coppia) come progetto, o meglio speranza. Dalle parole della signora Bennet capiamo che il matrimonio, nel contesto sociale e antropologico a cui il romanzo fa riferimento, costituisce il principale orizzonte esistenziale nel futuro delle ragazze: si tratta di una prospettiva così importante da coinvolgere tutta la famiglia nei suoi tentativi per realizzarla (da notare che tutte le opere della Austen sono romanzi familiari, i cui interpreti sono legati fra loro da rapporti di parentela, già esistenti o solo auspicati). Il matrimonio è, nella Austen, un tema dalle profonde implicazioni economiche e sociali: per una giovane donna nell’Inghilterra di fine Settecento contrarre un matrimonio vantaggioso è infatti l’unico modo per assicurarsi una certa autonomia e una posizione accettabile in seno alla società.

Il denaro, croce e delizia Altro tema fondante, che emerge dal dialogo tra i due coniugi, è quello del denaro. Il “dossier informativo” che la signora Bennet ha saputo abilmente raccogliere su Bingley ruota tutto attorno al dato economico: di lui sappiamo, come prima cosa, che è «ricchissimo», poi che è arrivato «con un tiro a quattro» e che è fornito di una congrua servitù, fino a giungere all’informazione precisa del suo patrimonio: «quattro o cinquemila sterline di rendita». Quella della signora Bennett (così come quella di tante altre madri nei romanzi della Austen) non è semplice avidità: per la società borghese dell’Inghilterra di fine Settecento, che ha assistito con orrore alla rivoluzione d’oltremanica e guarda con timore e sospetto a qualsiasi elemento che possa turbare il sogno di un mondo ordinato e sicuro, un matrimonio economicamente solido rappresenta una garanzia di stabilità ed equilibrio per l’intera compagine sociale. Siamo assai lontani dai turbamenti e dai fremiti dell’amore romantico: non è questo ciò che cercano le eroine della Austen e nemmeno le loro trepide madri, che sono pronte a tutto pur di assicurare alle figlie un futuro senza scosse. Non a caso il critico contemporaneo Franco Moretti ha scritto che in questo genere letterario le storie devono sempre concludersi con dei matrimoni, perché «non è solo la fondazione dell’istituto familiare, ad essere in gioco, ma quel patto tra individuo e mondo, quel consenso reciproco che trova nel doppio “sì” della formula nuziale insuperata concentrazione simbolica».

Il romanzo storico e realista 2 267


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il significato dell’incipit del romanzo e rifletti sul tono con cui è enunciato. 2. Quale desiderio, mal celato, è al centro del dialogo fra Mr. Bennet e sua moglie?

Interpretare

SCRITTURA 3. Definisci brevemente quali sono i princìpi dominanti nell’educazione che la signora Bennet impartisce alle figlie. Il suo atteggiamento ti sembra in linea con quello del marito?

EDUCAZIONE CIVICA

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo

#PROGETTOPARITÀ

Costituzione

4. Che cosa si può dedurre dal testo sul ruolo del padre nell’educazione dei figli? E sul ruolo della donna all’interno della società inglese dell’Ottocento?

competenza 3

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 5. Secondo l’interpretazione di Franco Moretti, la centralità del matrimonio nelle opere della Austen, così come di molti altri romanzieri inglesi contemporanei, è legata a quella che potremmo definire una “paura sociale”. Quale evento storico ha contribuito a creare questo sentimento? Argomenta le tue opinioni, poi allarga la riflessione al ruolo del matrimonio nel mondo contemporaneo.

online T4 Jane Austen

Lo scontro tra Lizzy e Lady Catherine Orgoglio e pregiudizio, III, LVI

Stendhal

T5

LEGGERE LE EMOZIONI

Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone Il rosso e il nero, cap. V

Stendhal, Il rosso e il nero, a cura di A. Cappi, trad. di M. Bontempelli, Newton Compton, Milano 1994

Pubblicato nel 1830, Il rosso e il nero offre un magnifico affresco dell’epoca post-napoleonica.

D’un tratto Julien cessò di parlare di Napoleone; annunciò che aveva risolto1 di farsi prete, e lo si vide costantemente, sotto la tettoia del padre, occupato a mandare a memoria una Bibbia latina che il curato gli aveva prestata. Il buon vecchio, stupito de’ suoi progressi, passava serate intere a insegnargli la teologia. Julien non mani5 festava davanti che sentimenti di pietà. Chi avrebbe potuto indovinare che quella figura di giovinetto, così pallida e così dolce, chiudeva in sé la risoluzione2 irremovibile di esporsi a mille morti piuttosto di rinunciare a far fortuna! Per Julien fare fortuna era anzitutto uscire da Verrières3; odiava il suo paese. Tutto ciò che vi vedeva gelava la sua immaginazione. 10 Fin dalla prima adolescenza aveva avuto momenti di esaltazione. Allora pensava con delizia che un giorno si sarebbe trovato al cospetto delle belle donne di Parigi e che avrebbe saputo destare la loro attenzione con qualche atto clamoroso. Perché non sarebbe riuscito a farsi amare da una di loro, come Bonaparte, povero ancora, era stato amato dalla brillante signora di Beauharnais? Da molti anni Julien non passava, 15 si può dire, un’ora della sua vita senza dirsi che Bonaparte, tenente oscuro e povero, s’era fatto padrone del mondo con la sua spada. Quest’idea lo consolava delle sue sventure che gli parevano grandi, e raddoppiava le sue gioie quando ne aveva.

1 risolto: deciso.

268 Ottocento 5 Il romanzo europeo

2 risoluzione: decisione.

3 Verrières: è il paese natale di Julien.


La costruzione della chiesa e le sentenze del giudice4 lo illuminarono d’un tratto; un’idea che gli venne lo rese come pazzo per qualche settimana, e finalmente5 20 s’impadronì di lui con tutta la forza della prima idea che un’anima appassionata crede d’aver inventata. «Quando Bonaparte fece parlare di sé, la Francia aveva paura di essere invasa; il valore militare era necessario, e di moda. Oggi si vedono preti di quarant’anni provvisti di centomila lire di assegno6, cioè del triplo dei famosi generali di divisione di 25 Napoleone. Occorron loro persone che li assecondino. Ecco qui il giudice, uomo di tanto senno, che finora s’è mantenuto tanto onesto, ed è così vecchio; e si disonora per paura di dispiacere a un vicario di trent’anni. – Bisogna esser prete7». 4 La costruzione… del giudice: poco prima Stendhal aveva spiegato che Verrières si stava fabbricando una chiesa magnifica, sproporzionata per un paese così piccolo; nello stesso tempo, il giudice aveva rischiato di perdere il posto per essere entrato in polemica con il giovane

vicario, sospettato di essere una spia dei conservatori, e in seguito aveva emesso numerose sentenze sfavorevoli a cittadini più progressisti. Tutti segni dei tempi cambiati, agli occhi del giovane e ambizioso Sorel. 5 finalmente: alla fine.

6 assegno: riferimento alle ricche prebende di cui godevano gli ecclesiastici.

7 Bisogna esser prete: la secca e risoluta affermazione di Julien racchiude tutto il suo progetto di vita, interamente improntato all’ambizione più sfrenata.

Analisi del testo Il mito di Napoleone Il senso di cocente disillusione che domina il contesto storico nel quale è ambientato il romanzo è rappresentato nel personaggio di Julien Sorel, giovane di umili origini, pieno di talento ma soprattutto divorato dall’ambizione e disposto a qualunque finzione o compromesso pur di riuscire nel proprio intento di avanzata sociale. Cresciuto con il mito di Napoleone, Julien non esita però a mettere da parte il proprio eroe e il modello militaresco da lui proposto non appena si accorge che nel mondo attuale la carriera ecclesiastica è molto più conveniente e “di moda”. Quando entrerà, in veste di istitutore, in casa del reazionario Rênal, il ritratto del suo eroe Bonaparte, che egli porta sempre con sé come una sorta di portafortuna, finirà nascosto sotto il materasso, perché nessuno scopra il suo passato di fervente ammiratore del generale: un gesto che diventa quasi l’emblema della sua esistenza, tutta costruita sull’opportunismo e l’ipocrisia.

Un romanzo di impianto realista In questo episodio si possono ravvisare alcuni dei tratti che caratterizzano il romanzo di impianto realista: il rilievo conferito alla rappresentazione storica di un’epoca e la cruda analisi dei sentimenti dei personaggi, che fanno del romanzo uno strumento di studio della realtà umana. L’ipocrisia e l’ambizione sfrenata di Julien Sorel sono delineati, infatti, senza infingimenti. Le parole di Stendhal riferite al giovane sono nette «chiudeva in sé la risoluzione irremovibile di esporsi a mille morti piuttosto di rinunciar a far fortuna!» (rr. 6-7).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono le motivazioni che inducono Julien a intraprendere la carriera ecclesiastica? ANALISI 2. Dal brano del romanzo Il rosso e il nero appena letto quanto puoi intuire degli aspetti della figura di Napoleone che maggiormente affascinano Julien? STILE 3. Individua nel testo gli elementi che caratterizzano lo stile di Stendhal come lineare e di taglio giornalistico.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Il progetto di vita di Julien Sorel è improntato alla rinuncia dei propri ideali in nome dell’ambizione. Come giudichi il suo comportamento? Credi che l’ipocrisia di Julien sia lo specchio dell’ambiente sociale in cui vive? Faresti le medesime scelte?

Il romanzo storico e realista 2 269


Honoré de Balzac

T6

La costruzione di un ambiente e di un microcosmo sociale: la pensione Vauquer Papà Goriot, I

H. de Balzac, Papà Goriot, trad. di E. Klersy Imberciadori, Garzanti, Milano 2015

La pensione Vauquer (dal nome della donna che la gestisce) è il principale teatro dell’azione romanzesca di Papà Goriot, mentre “gli attori” hanno le sembianze della varia umanità che ne costituisce la clientela, tanto di pensionanti quanto di habitués del vicinato che vi si recano soltanto a pranzare: Mademoiselle Michonneau, Victorine Taillefer, Madame Couture, Poiret, Bianchon, Vautrin, Eugène de Rastignac e lo stesso papà Goriot. Quello che segue è il brano d’apertura del romanzo, dove Balzac traccia con analitica precisione le coordinate ambientali dell’opera che sta cominciando, connotandole molto chiaramente in senso sociale.

La signora Vauquer, nata de Conflans, è una donna anziana che da quarant’anni tiene a Parigi una pensione familiare situata in via Neuve-Sainte-Geneviève, tra il Quartiere latino e il Faubourg1 Saint-Marceau. La pensione, nota come Casa Vauquer, accetta sia uomini che donne, giovani e vecchi, senza che i costumi di questa 5 rispettabile istituzione abbiano mai prestato il fianco alla maldicenza. […] La facciata, alta tre piani e sormontata da mansarde, è costruita in pietra e intonacata di quel colore giallo che dà un’aria volgare a quasi tutte le case di Parigi. Le cinque finestre che si aprono a ogni piano hanno piccoli riquadri a vetri e sono 10 munite di gelosie2, nessuna delle quali è sollevata come le altre3, tanto che tutte le loro linee risultano sfalsate. Nel senso della profondità, la casa ha due finestre4 ornate a pianterreno da grate di ferro. Dietro l’edificio c’è un cortile largo circa venti piedi5, dove vivono in armonia maiali, galline, conigli, e che ha una rimessa6 sul fondo. Tra la rimessa e la finestra della cucina sta appesa la moscaiola7 sotto cui 15 finisce l’acqua sporca del lavello. Il cortile si apre sulla rue Neuve-Sainte-Geneviève con una porticina da cui la cuoca butta le immondizie di casa, ripulendo quella sentina8 a forza d’acqua per non rischiare una pestilenza9. Il pianterreno, naturalmente riservato alla pensione, si compone di una prima stanza, illuminata dalle due finestre della strada, a cui si accede da una porta-finestra. 20 Questo salotto comunica con la stanza da pranzo, separata dalla cucina tramite la tromba di una scala coi gradini di legno e di mattonelle colorate e lucidate. Non c’è spettacolo più triste di quel salotto ammobiliato con poltrone e sedie coperte di stoffa a righe alterne opache e lucide. Nel mezzo c’è un tavolo rotondo con un piano di marmo di Sainte-Anne10 ornato da uno di quei vassoi di porcellana bian25 ca profilata d’oro semisbiadito che oggi si trovano dappertutto. La stanza, con un impiantito11 malconcio, è rivestita di legno fino all’altezza del gomito. Il resto delle

1 il Faubourg: il sobborgo. 2 gelosie: persiane. 3 sollevata come le altre: allineata con

5 venti piedi: circa sei metri e mezzo. 6 rimessa: deposito per la legna o per at-

le altre. 4 Nel senso... due finestre: la casa è profonda la larghezza di due finestre.

7 moscaiola: dispensa per mantenere i

screziato di bianco.

generi alimentari aerati e al riparo da mosche e altri insetti.

11 impiantito: pavimento.

270 Ottocento 5 Il romanzo europeo

trezzi vari.

8 sentina: canale di scolo, cloaca. 9 una pestilenza: il diffondersi del fetore. 10 marmo di Sainte-Anne: marmo grigio


pareti è tappezzato di una carta lucida che raffigura le principali scene del Telemaco12, con i suoi classici personaggi a colori. Il pannello tra le due finestre a inferriate presenta ai pensionanti il quadro del festino offerto da Calipso al figlio di Ulisse. 30 Da quarant’anni il dipinto provoca le battute di spirito dei giovani pensionanti, che s’immaginano di sentirsi superiori alla loro condizione scherzando sul pasto a cui la miseria li condanna. Il caminetto in pietra, il cui focolare sempre pulito sta a dimostrare che vi si accende il fuoco solo nelle grandi occasioni, si fregia di due vasi pieni di fiori artificiali, ormai vecchi e accartocciati, che inquadrano una 35 pendola di marmo bluastro di pessimo gusto. Da questa prima stanza esala un odore indefinibile, che si potrebbe chiamare odore di pensione. Sa di rinchiuso, di ammuffito, di rancido; dà una sensazione di freddo, di umido al naso, penetra negli abiti; sa di stanza dove si è cenato, puzza di servizio, di dispensa, di ospizio. Si potrebbe forse descrivere se s’inventasse un procedimento per misurare le particelle 13 40 elementari e nauseabonde che vi diffondono le emanazioni catarrali e sui generis di ogni pensionante, giovane o vecchio. Ebbene! Nonostante questi mediocri orrori, se paragonaste questa stanza all’attigua sala da pranzo, la trovereste elegante e profumata come si addice a un boudoir14. Interamente rivestita di legno, la stanza da pranzo era stata dipinta in passato di un colore oggi indistinto, sul cui sfondo 45 strati di sporcizia hanno delineato strane figure. Su credenze appiccicose, lungo le pareti, sono posate caraffe sbreccate, opache, dischi di metallo marezzato15, pile di piatti di spessa porcellana a bordi blu, fabbricati a Tournai. In un angolo c’è una cassetta a scomparti numerati che serve per tenere i tovaglioli, macchiati di vino o d’altro, di ogni pensionante. I mobili sono di quelli indistruttibili, ovunque pro16 50 scritti, ma piazzati lì come i rottami della civiltà agli Incurables . Potreste vedere un barometro con il frate cappuccino che esce quando piove, orribili stampe che tolgono l’appetito, tutte incorniciate di legno verniciato filettato d’oro; un orologio a muro di tartaruga con motivi di rame; una stufa verde, delle lampade d’Argand17 dove la polvere si combina con l’olio, un lungo tavolo coperto di tela cerata talmen55 te unta che un pensionante esterno in vena di burle vi potrebbe scrivere il nome servendosi di un dito a mo’ di stilo, sedie zoppicanti, logori tappetini di sparto18 che si sfilaccia sempre senza mai consumarsi, e inoltre miseri scaldapiedi con i buchi rotti, le cerniere sgangherate, e il legno che si carbonizza. Per spiegare come questo mobilio sia vecchio, screpolato, marcio, traballante, corroso, monco, orbo, 60 invalido, agonizzante, se ne dovrebbe fare una descrizione che ritarderebbe troppo la parte interessante della nostra storia e che i lettori frettolosi non perdonerebbero. Il pavimento di mattonelle è pieno di avvallamenti prodotti dallo sfregamento o dalla lucidatura. Vi regna insomma la miseria senza poesia; una miseria parsimoniosa, concentrata, logora. Se ancora non è insozzata, ha però delle macchie; se non ha 65 buchi, né stracci, non ci vorrà molto perché imputridisca.

12 Telemaco: opera di Fénelon (16511715), moralista francese autore di opere pedagogiche, fra cui appunto Le avventure di Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope, protagonista dei primi quattro libri dell’Odissea.

13 sui generis: caratteristiche, proprie. 14 boudoir: elegante salottino per signora.

15 marezzato: con chiazze e striature irregolari.

16 Incurables: l’ospizio degli Incurabi-

li accoglieva malati, ma anche vecchi e indigenti. 17 lampade d’Argand: tipo di lampada ad olio brevettato da Aimé Argand nel 1780. 18 sparto: pianta graminacea la cui fibra è utilizzata per produrre cordami e stuoie.

Il romanzo storico e realista 2 271


Analisi del testo Un narratore onnisciente, dal punto di vista percepibile Fin dalle prime battute del romanzo, è evidente che il narratore di Papà Goriot condivide lo stesso statuto di onniscienza che aveva caratterizzato il romanzo storico classico. L’ambiente della pensione Vauquer è descritto con una precisione e una completezza che possono appartenere soltanto a chi la stia guardando dall’esterno, da un punto di vista che consente di cogliere anche i particolari più minuti. Ma la narrazione non è del tutto distaccata e oggettiva: lo sguardo del narratore lascia intravedere la sua valutazione sull’ambiente che farà da sfondo al romanzo. Qualche esempio: l’esterno della pensione non è semplicemente “giallo”, ma di «quel colore giallo che dà un’aria volgare a quasi tutte le case di Parigi» (r. 8); del salotto si dice che «non c’è spettacolo più triste», con la sua mobilia consunta e modesta; la pendola di marmo bluastro viene definita «di pessimo gusto» e tutto l’ambiente viene riassunto come un insieme di «mediocri orrori». Sono tutte espressioni che presuppongono un giudizio netto e preciso da parte di chi scrive, il quale non ha alcuna remora a farlo pervenire al lettore, anzi, considera una parte sostanziale del proprio lavoro il farsene veicolo. Padre del realismo moderno, Balzac non è tuttavia ancora arrivato al metodo dell’impersonalità, che sarà il principio fondante della poetica di Flaubert e soprattutto dei naturalisti.

La precisione mai soddisfatta di uno sguardo implacabilmente realista La prima cosa che colpisce nella lettura di questo brano è senza dubbio la scrupolosa accuratezza con cui si cerca di rendere ogni minimo particolare, ogni dettaglio, ogni sfumatura, senza tralasciare nulla. Il realismo di Balzac sembra aver fatto propria la consapevolezza che la realtà sia troppo ricca e complessa per potersi esaurire entro lo spazio limitato di un’opera letteraria, per quanto di ampio respiro. Oggetti, forme, colori, impressioni non possono essere semplicemente nominati: ciò significherebbe restituirne al lettore soltanto una pallida ombra. Essi dovranno essere sviscerati, presentati più volte e da punti di vista differenti, inseriti in una rete di relazioni che dia loro uno spessore storico e sociale: la realtà cui Balzac dà voce non è mai univoca e monodimensionale. Ad esempio, prendiamo in considerazione il passo in cui si descrive la sala principale della pensione. Dopo un paio di righe puramente informative, che assegnano al locale una collocazione precisa nell’architettura dell’edificio, il narratore si espone con una nota di giudizio («Non c’è spettacolo più triste di questo salotto», rr. 21-22) che toglie al passo che segue qualsiasi pretesa di oggettività: a questo punto le «poltrone e sedie coperte di stoffa a righe» non sono più soltanto semplici pezzi di mobilia, ma diventano il segno tangibile della povertà senza redenzione che domina l’ambiente. Leggendo, automaticamente andiamo oltre la mera immagine dell’oggetto descritto e ne percepiamo l’umile ruvidezza, l’odore di stantio, intuiamo i sacrifici che sono stati necessari per acquistarlo e la vita grama che vi si svolge attorno. Allo stesso modo, basta il particolare del vassoio che pretende di abbellire il tavolo rotondo di marmo, «uno di quei vassoi di porcellana bianca profilata d’oro semisbiadito, che oggi si trovano dappertutto», per proiettare la sala della pensione Vauquer in un contesto economico e sociale più vasto, di cui essa è parte e immagine: il mondo della piccola borghesia che si arrabatta per darsi un contegno, ammantandosi di una parvenza di benessere e rispettabilità fatta di suppellettili dozzinali e falsamente lussuose.

Il triste “odore” della piccola borghesia Ma il passo in cui emerge con maggiore evidenza questo carattere di connaturata inesaustività del realismo balzachiano è quello dedicato all’odore che pervade la sala della pensione Vauquer, «l’odore di pensione» sul quale il narratore si sofferma per parecchie righe, utilizzandolo anche come aggancio per introdurre nel dato puramente ambientale l’elemento umano, con il riferimento alle «emanazioni catarrali e sui generis di ogni pensionante». Che cos’è più evanescente e immateriale di un odore? Sembrerebbe il particolare meno adatto a chi voglia realizzare una descrizione oggettiva, saldamente ancorata alla realtà. E invece Balzac vi dedica moltissimo spazio, soffermandosi sulle minime sfaccettature delle sensazioni olfattive che colpirebbero un ipotetico visitatore della pensione Vauquer: è come se volesse far entrare quell’ambiente nelle nostre fibre, perché rimanga impresso nella nostra memoria di lettori a un livello assai più profondo di quello della semplice verbalizzazione, insufficiente a rendere in modo adeguato la realtà.

272 Ottocento 5 Il romanzo europeo


Il «realismo atmosferico» di Balzac Il critico Erich Auerbach parla per Balzac di «realismo atmosferico», intendendo con questo che il romanziere francese non descrive con precisione le cose solo per una volontà documentaria, per realizzare una fotografia di ambienti e personaggi: al contrario, egli vuole andare oltre la superficie materiale delle cose, per coglierne il senso profondo, che è ciò che le rende elementi partecipi di un preciso contesto storico, antropologico, culturale e sociale. «Ogni spazio si tramuta per lui in un’atmosfera morale e sensibile di cui s’imbevono il paesaggio, la casa, i mobili, le suppellettili, gli abiti, i corpi, il carattere, il comportamento, il sentire, l’agire e la sorte degli uomini, e in cui poi la situazione storica generale a sua volta appare come un’atmosfera totale abbracciante tutti i singoli spazi di vita». Un realismo totale e pervasivo, quello di Balzac, che sembra quasi non potersi accontentare dello spazio offerto dalla pagina scritta.

Un ambiente calato nel tempo e nello spazio Uno dei pilastri della poetica di Balzac, nonché uno dei principi cardine del romanzo moderno che proprio con lui si inaugura, è la stretta correlazione istituita dallo scrittore francese tra i suoi personaggi, gli ambienti che prendono vita nelle sue pagine e un contesto storico e sociale ben preciso e definito: «[Balzac] non soltanto […] ha collocato gli uomini, di cui con serietà narra la sorte, nella loro cornice storica e sociale esattamente circoscritta, ma ha inoltre inteso questo legame come necessità» (Auerbach). Per calare questo principio nel testo proposto, lo squallore e la miseria della pensione Vauquer non sarebbero pensabili al di fuori della gretta mentalità borghese dominante nella Francia orléanista, della quale essi diventano simbolo ed espressione e che si rispecchia in ogni particolare portato sulla pagina; al di fuori di quella realtà specifica, la descrizione di Balzac perderebbe qualsiasi valore di connotazione.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Individua le parti di Casa Vauquer descritte nel brano proposto e sintetizzane la descrizione in max 4 righe ciascuna. COMPRENSIONE 2. Spiega con parole tue l’espressione «miseria senza poesia» alla r. 63 del brano. ANALISI 3. Individua gli oggetti che fanno del pianterreno della pensione Vauquer un luogo simbolo della borghesia parigina dell’epoca.

Interpretare

online T7 Honoré de Balzac

SCRITTURA 4. Nel brano non compare ancora alcun personaggio se non, attraverso un breve accenno, la proprietaria della pensione; tuttavia la descrizione di Casa Vauquer fa già immaginare i suoi frequentatori. Sulla base degli indizi presenti nella descrizione, delinea quelle che pensi possano essere le caratteristiche essenziali dei pensionanti della signora Vauquer (max 10 righe).

La costruzione di un personaggio: il signor Grandet Eugénie Grandet, I

Honoré de Balzac, ritratto del 1842 di Louis-Auguste Bisson (Parigi, Maison de Balzac).

Il romanzo storico e realista 2 273


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Verso il Naturalismo: Madame Bovary 1 Gustave Flaubert L’autore Con l’opera di Gustave Flaubert il romanzo francese affronta un’ulteriore svolta, avviandosi sulla strada del Naturalismo. Flaubert nasce nel 1821 a Rouen, in Normandia, da una famiglia borghese. Il padre è un celebre chirurgo. Avviato dalla famiglia alla carriera giuridica, Gustave interrompe gli studi universitari per disturbi nervosi che lo affliggeranno anche in seguito. Decide di stabilirsi a Croisset, nella casa di campagna della famiglia, e di dedicarsi esclusivamente alla letteratura: il suo primo romanzo è L’educazione sentimentale (il titolo sarà poi ripreso in una nuova versione, pubblicata nel 1869). Tra il 1845 e il 1851 viaggia molto (in Italia, Grecia e in Oriente), seguendo l’attrazione per un mondo diverso dalla sonnolenta vita della provincia. Nel 1851 inizia la stesura di Madame Bovary, il suo capolavoro, pubblicato in volume nel 1857, che gli costa un processo per immoralità, da cui viene però assolto. Il fascino dell’esotico e del lontano si esprime in Salammbô (1862), che lo consacra autore alla moda, stimato da letterati e intellettuali come Baudelaire e i fratelli Goncourt, che lo considerano un maestro. Del 1877 sono i Tre racconti, mentre rimane incompiuto il romanzo ferocemente satirico Bouvard et Pécuchet. Flaubert muore nel 1880.

2 Madame Bovary: uno scandaloso romanzo di successo Un soggetto apparentemente banale In Madame Bovary una giovane donna di bell’aspetto con la testa piena di sogni romantici sposa un modesto medico di provincia; delusa dal matrimonio, si abbandona ad avventure amorose e dissolutezze che la condurranno al suicidio. Sembrerebbe una trama semplice, scontata, quasi banale: quale tema romanzesco è più ovvio del tradimento? Eppure Gustave Flaubert riesce a trasformare questo topos letterario in uno dei capolavori della letteratura europea. La grandezza di quest’opera non sta nell’originalità della trama e nemmeno nell’interesse delle tematiche proposte. Non a caso il critico Jean Rousset ha definito Madame Bovary «il libro su nulla»: “nulla” è la vicenda in cui si trovano coinvolti i protagonisti, di nulla sono fatte le loro esistenze ordinarie e convenzionali, nulla sono gli squallidi ambienti piccolo-borghesi che ne sono teatro. Quella di Emma Bovary è una storia come tante se ne sentono e si svolge piana e prevedibile, senza colpi di scena; il lettore ha quasi l’impressione di conoscerne già tutti gli sviluppi, fino al tragico epilogo, che potrebbe essere l’oggetto di un articolo di cronaca nera. Un metodo narrativo innovativo Ma perché, allora, la vita così banale di questa giovane donna ha incontrato una risposta tanto entusiasta fra i lettori del tempo? E perché, trascorsi più di centocinquant’anni, possiamo considerare Madame Bovary un “classico”?

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La risposta si trova nel metodo di Flaubert, del tutto nuovo nella storia della letteratura. Egli descrive quel “nulla” di cui si è detto con spietata sincerità, senza schermi né mistificazioni, con la stessa precisione di uno scienziato che descrive le varie fasi di un esperimento. Questo rapporto diretto e trasparente con la realtà, anche nei suoi aspetti più sgradevoli, è la grande novità apportata da Flaubert e anche l’aspetto della sua opera che all’epoca generò più scandalo. Inoltre, quello di Flaubert non è semplice, banale “realismo”, perché non mancano nel romanzo frequenti, sottili, suggestive connotazioni simboliche legate al tema chiave, profondamente moderno, del vuoto esistenziale (➜ PER APPROFONDIRE Un realismo venato di simbolismo, pag. 280). Infine non si può non apprezzare, nell’opera di Flaubert, la particolare ricerca di uno stile sempre sorvegliato, attento a ogni sfumatura. Un romanzo “scandaloso” Pubblicato in volume nel 1857, dopo essere uscito a puntate sulla «Revue de Paris» nel corso dell’anno precedente, il romanzo viene bloccato dalla censura e sia l’autore sia l’editore sono sottoposti a un processo per offesa alla morale. Eppure la letteratura francese non era affatto nuova ad argomenti quali sesso o adulterio: si pensi alla tradizione libertina del Settecento e all’opera di autori quali de Sade o Laclos. Ciò che però “disturba”, in Madame Bovary, è il modo asettico con cui questi soggetti vengono presentati al pubblico e l’assenza di interventi commentativi volti a salvaguardare i rassicuranti valori borghesi sovvertiti nell’azione del romanzo. La struttura e la vicenda Il romanzo è strutturato in tre parti: la prima è composta di nove capitoli; la seconda, quella più estesa, di quindici; la terza, infine, di undici. Prima parte Teatro dell’azione è la provincia settentrionale della Francia, nella regione della città di Rouen, in Normandia. Charles Bovary, un giovane medico vedovo, sposa una bella ragazza di campagna, Emma Rouault, figlia di un suo paziente occasionale. La giovane è di estrazione sociale modesta, ma è stata educata in un collegio religioso dove la sua formazione si è nutrita di letture romantiche e languidi sogni (➜ T8 ): tutto ciò che ella desidera è conoscere gli agi dell’alta società e i fremiti di passione di cui parlavano le sue letture in collegio. Le sue aspirazioni sono destinate a una cocente delusione: Charles, infatti, è un uomo semplice e ordinario, mediocre nell’esercizio della sua professione come nella vita privata. A differenza della moglie, egli si sente pienamente appagato dalla vita matrimoniale: Flaubert ci dice di lui che «era felice e non si curava di nient’altro al mondo» (parte I, cap. V). Charles è un uomo buono, ma semplice e superficiale, bloccato al livello di una grossolana materialità e privo di quella sensibilità raffinata che Emma sognava nel proprio futuro compagno. Charles non sente alcuno stimolo a migliorarsi, perché la sua piccola routine lo soddisfa completamente e non si accorge dell’insoddisfazione che affligge Emma: la distanza dal marito e la noia della vita di provincia alimentano ben presto in lei il sogno di un “altrove” indefinito. A interrompere il grigiore della sua vita di moglie disillusa, giunge inaspettato l’invito a una festa offerta dal marchese d’Andervilliers al castello di Vaubeyssard. È l’occasione per Emma di assaporare il profumo di quel mondo favoloso e scintillante che ha sempre sognato. Ma la festa finisce ed Emma deve risalire sulla vettura che la riporterà alla sua vita di sempre. Quella che mostra la signora Bovary sul suo carrozzino, in viaggio verso casa, è forse una delle immagini più cariche di valore simbolico in tutto il romanzo: «Taciturna, Emma guardava le ruote girare». Il movimento circolare delle ruote rappresenta il ritorno dal sogno

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alla realtà di una vita che si ripete, sempre uguale a sé stessa. Quando scopre di essere incinta, per un momento crede che la nascita di un maschio potrebbe salvare il suo matrimonio. Seconda parte Ma quando alla fine partorisce una figlia, a cui viene dato il nome di Berthe, Emma se ne disinteressa e si spegne sempre di più. Pensando che la moglie potrebbe trarre giovamento da un cambiamento, Charles si trasferisce in un altro villaggio, Yonville. Qui Emma accetta il corteggiamento di una delle prime persone che incontra, un giovane studente di giurisprudenza, Léon Dupuis, che sembra condividere con lei il gusto per le «cose più belle della vita». Quando Léon per motivi di studio se ne va a Parigi, Emma allaccia una relazione con un ricco proprietario terriero, Rodolphe Boulanger, un avventuriero, esperto di donne, che per conquistarla sfrutta le sue debolezze di giovane moglie romantica e insoddisfatta. Quando Emma escogita un piano per fuggire con lui, Rodolphe si tira indietro, lasciando a Emma una lettera che ricomparirà alla fine del romanzo, dopo la sua morte. Il colpo per la donna è tale che ella si ammala gravemente. Durante una serata all’Opera di Rouen, dove Charles l’ha portata per cercare di distrarla dalla sua cupa malinconia, Emma reincontrerà per caso Léon. Terza parte Emma e Léon iniziano una relazione: Emma si reca in città ogni settimana per incontrarlo, mentre Charles crede che la moglie stia prendendo lezioni di pianoforte. A questo punto del romanzo Emma abbandona l’alone di etereo romanticismo che l’aveva circondata finora e con Léon si trasforma in un’amante ardita e spregiudicata. Ben presto però ritroverà anche nell’adulterio gli stessi difetti del matrimonio. Nello stesso tempo, Emma accumula debiti con Lheureux, un merciaio scaltro che sa sempre convincerla a comprare a credito, approfittando della sua inclinazione per il lusso. Alla disperata ricerca di denaro per pagare Lheureux, dopo che l’intero mobilio della casa è sotto sequestro, senza che il povero Charles sappia nulla, Emma si umilia a cercare aiuto anche presso Léon e Rodolphe, ma senza risultato. Persa ogni speranza di risolvere la situazione, Emma si avvelena e muore, con una penosa e lenta agonia che Flaubert descrive con precisione scientifica, in una pagina che susciterà grande scalpore per la crudezza dei particolari. Nelle battute finali del romanzo, Charles scopre i tradimenti e le bugie della moglie e trova le lettere scritte a Léon; completamente distrutto, muore di crepacuore poco dopo la moglie. L’influenza della cultura scientifica: il metodo dell’impersonalità Per capire appieno Madame Bovary non si può prescindere dal contesto culturale in cui si forma Flaubert: in Francia questi sono, infatti, gli anni del Positivismo in cui, in opposizione all’Idealismo di stampo romantico, si assiste all’emergere della visione scientifica come chiave di interpretazione della realtà. Inoltre, l’autore di Madame Bovary è nato e cresciuto in ambiente medico: il padre è un chirurgo, primario dell’ospedale di Rouen, e questo sostrato culturale è ben visibile nel romanzo, soprattutto nelle drammatiche pagine dell’agonia di Emma, per la cui stesura Flaubert consulta anche manuali di medicina e tossicologia. Flaubert pone sempre in primo piano il valore documentario dell’opera letteraria e sceglie di applicare il metodo scientifico all’analisi dei personaggi e del loro ambiente: infatti li considera dall’esterno, come puri oggetti di osservazione, con lo stesso distacco con cui un medico visita e studia il corpo dei propri pazienti.

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In questo consiste il metodo dell’impersonalità, pilastro della poetica flaubertiana: lo scrittore deve abbandonare l’intimismo che ha caratterizzato il Romanticismo, deve liberarsi delle proprie idee, inclinazioni e sentimenti e lasciare che i personaggi, tratti dal mondo reale, si sviluppino in piena autonomia, mantenendo sempre una fredda oggettività. Si comprende, anche da queste rapide notazioni, perché Flaubert sia stato considerato il maestro del Naturalismo francese.

Achille Lernot, Gustave Flaubert “disseziona” Madame Bovary, caricatura, 1869 (Parigi, Bibliothèque Nationale de France).

Il complesso rapporto tra protagonista e narratore «Madame Bovary c’est moi!»: è la celeberrima frase con cui Flaubert risponde alla letterata Amélie Bosquet, che gli chiede a chi si fosse ispirato per la costruzione del suo personaggio. Una dichiarazione divenuta proverbiale, che sembrerebbe alludere a una totale identificazione dello scrittore con il suo personaggio. In realtà, il rapporto che si viene a creare tra Flaubert e la “sua” Emma è assai più complesso. Il romanzo si nutre certamente di componenti autobiografiche: uomo schivo e introverso, anche Flaubert , come la sua eroina, aveva la tendenza, anche per i disturbi nervosi che lo affliggevano, a fuggire la realtà, sia attraverso i vari viaggi che compie prima di scrivere il suo capolavoro, sia attraverso l’isolamento della piccola proprietà di Croisset, dove si rifugia. Con Emma, Flaubert condivide anche la passionalità e la propensione a letture di gusto romantico durante la giovinezza, e da cui prende poi nettamente le distanze. Ma la celebre asserzione “Madame Bovary sono io” non allude tanto all’autobiografismo del romanzo, ma piuttosto alla scelta di Flaubert di rinunciare non solo alla propria voce, ma al proprio punto di vista per adottare in tutto e per tutto quello della sua eroina (diventando, in un certo senso, lei) così da poterne offrire ai lettori un’immagine il più possibile spassionata e autentica. Per fare solo un esempio, quando Emma entra per la prima volta nella sua casa di novella sposa, è attraverso i suoi occhi che noi visitiamo quelle stanze squallide e pretenziose, arredate con il pessimo gusto di un provinciale convinto di toccare l’apice dell’eleganza con la sua «pendola fatta a testa d’Ippocrate» appoggiata sul caminetto. Flaubert non lascia trapelare alcun commento, limitandosi a riprodurre lo sguardo deluso di Emma. La critica implicita del sentimentalismo romantico Eppure, al di là di questo sforzo strenuo di calarsi nel proprio personaggio, il pensiero dell’autore continua ad affiorare, creando una sottile tensione che si protrae lungo tutto il romanzo. Flaubert mette in mostra senza alcuna reticenza, il morboso romanticismo e l’esagerato fatalismo di Emma, che vive la deludente condizione di borghese provinciale con un’enfasi emotiva degna di una tragedia greca. Si percepisce nel testo la velata ironia con cui l’autore rappresenta i toni e le espressioni esagerate della sua eroina, che segnala la distanza di Flaubert rispetto al suo personaggio: quella di Emma è una visione del mondo limitata e velleitaria, tipica di chi non è in grado di vivere il ruolo assegnatogli dalla sua condizione sociale. D’altro canto, nell’opera di Flaubert è presente anche un’aspra critica a tutti quei valori della società borghese che contribuiscono a costruire una prigione morale attorno a Emma e che la spingeranno verso la rovina.

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Quello di Flaubert nei confronti della sua eroina è, dunque, un atteggiamento di adesione e di distacco critico nello stesso tempo. L’ossessione delle parole Fra le numerose dichiarazioni di poetica di Flaubert spicca un motivo ricorrente, come un rovello insistente da cui lo scrittore non riesce a liberarsi. L’inadeguatezza del linguaggio e l’impossibilità di riprodurre perfettamente il mondo reale nel mondo della parola costringono lo scrittore a una lotta continua e durissima alla ricerca del mot juste, la parola giusta: «Io preferisco crepare come un cane piuttosto che affrettare anche di un istante la mia frase, prima che sia matura». Per Flaubert la ricerca della parola più adeguata a esprimere un’idea, a descrivere un carattere o un ambiente, diventa una vera e propria ossessione, un tormento psicologico e anche fisico che lo accompagna per tutta la sua vita di scrittore. Basti pensare che per produrre le poco più di trecento pagine che compongono Madame Bovary Flaubert impiega quasi sei anni, anni febbrili e tormentati, di cui lui stesso dice: «La disperazione è il mio stato normale». Il problema dello stile diventa così il fulcro dell’intera sua ricerca letteraria, sempre animata dalla profonda convinzione che esista un solo modo per esprimere una certa cosa, un solo sostantivo per indicarla, un solo aggettivo per descriverla, e che allo scrittore spetti l’arduo compito di scovare quest’unico segno nell’universo infinito delle parole.

Madame Bovary di Gustave Flaubert • basato sulla sincerità del narratore e attuato con precisione scientifica fino alle estreme conseguenze METODO NARRATIVO • lo scandalo nasce, più che per il soggetto immorale (l’adulterio), per l’impersonalità, per l’assoluta mancanza di commento e giudizio del narratore: aspetto che è visto come un affronto ai valori borghesi

• illusioni adolescenziali della protagonista • delusione della realtà • fuga nell’adulterio e nelle smanie per gli agi e il lusso SOGGETTO “BANALE”

• critica implicita al sentimentalismo romantico, che conduce a una visione distorta della realtà • accusa feroce contro i falsi valori borghesi che sono alla base dell’oppressione morale-esistenziale e che portano alla rovina

Fissare i concetti Verso il Naturalismo: Madame Bovary 1. In che cosa consiste la novità di Madame Bovary? 2. Per quale motivo Madame Bovary generò scandalo? 3. Qual è il rapporto tra narratore e personaggio nella poetica di Flaubert? 4. Quali giudizi di Flaubert nei confronti del Romanticismo e dei valori borghesi emergono dal romanzo? 5. Spiega l’importanza delle scelte lessicali per Flaubert.

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EDUCAZIONE CIVICA

EDUCAZIONE CIVICA

La condizione di impotenza della donna e il fenomeno del “bovarismo” Madame Bovary: una lettura del “femminile” in un preciso contesto storico-sociale Quando Emma si accorge di aspettare un figlio, la sua speranza è di aver concepito un maschio. Le motivazioni che adduce aprono uno squarcio sulle condizioni della donna nel mondo borghese di metà Ottocento, stigmatizzate da Flaubert nel romanzo: «Un uomo, almeno, è libero; può esplorare le passioni e i paesi, superare gli ostacoli, assaporare le gioie più remote. Ma una donna è sempre incatenata. Inerte e flessibile, ha contro di sé le debolezze della carne e i rigori della legge. La sua volontà, come il velo del suo cappello trattenuto da un nastro, palpita a ogni vento, e c’è sempre qualche desiderio a darle slancio, qualche convenzione a trattenerla» (parte II, cap. III). Nel suo ruolo di critico della società, Flaubert dimostra una profonda comprensione del mondo femminile, insieme ad altri aspetti della contemporaneità. Il dramma di Emma, nel romanzo, è strettamente collegato al suo essere donna L’“altrove”, verso cui Emma si sente perennemente attratta, per un uomo è sempre a disposizione, a portata di mano, basta che lo voglia afferrare; per lei, invece, rimane irraggiungibile, perché in netto contrasto con la condizione di sudditanza in cui la pone la sua femminilità. Universo maschile vs universo femminile partire dal padre, gli uomini che Emma incontra hanno sempre il potere di influenzare e determinare in qualche modo il corso della sua vita; un potere che a lei, invece, viene costantemente negato. Si può quasi dire che la scelta di commettere adulterio sia il solo modo che Emma ha di esercitare un qualche potere sul proprio destino. Perfino il mediocre e indolente Charles, con tutti i suoi limiti, ha un ruolo fondamentale nel produrre lo stato di impotenza di Emma: non ha la capacità né la volontà di diventare un buon medico e questa inettitudine incatena lui e la moglie a uno stile di vita che, se soddisfa lui, è invece fonte di frustrazione per la donna, la quale però non può fare

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

proprio nulla per cambiare le cose. Rodolphe, che avrebbe i mezzi economici per offrire a Emma una via di fuga, la abbandona a sé stessa e lei, in quanto donna, non trova il coraggio e l’autonomia sufficienti per fuggire da sola. Léon, in prima battuta, potrebbe sembrare il compagno più vicino ad Emma, quello maggiormente in grado di comprendere il tarlo che la divora: condivide con lei molte passioni e, come lei, è insofferente nei confronti della vita di provincia. Entrambi sognano una vita più romantica ed eccitante, ma Léon potrà realizzare il suo sogno e trasferirsi nella tanto vagheggiata Parigi; Emma, invece, sarà costretta a rimanere a Yonville, prigioniera di una vita deludente. Il “bovarismo” Descrivendo in modo così accurato questa insoddisfazione (che porta a rifiutare la realtà per rifugiarsi in un mondo fittizio, fatto di sogni irrealizzabili), Flaubert non fa altro che documentare quella che nell’Ottocento borghese era diventata una vera e propria malattia sociale e che, sulla scia del successo incontrato dal romanzo, prese a essere chiamata bovarismo (il termine fu usato per la prima volta, a fine Ottocento, in una recensione dallo scrittore francese Barbey d’Aurevilly). Alla luce di questa sua vocazione di scrittore agganciato al vero, perciò, non stupisce sapere che Flaubert forse si è ispirato a un fatto di cronaca: in un paesino della Normandia, una giovane donna, Delphine Couturier Delamare, si era abbandonata a spese folli per mania di grandezza e, travolta dai debiti, si era suicidata. Più o meno, la trama di Madame Bovary. L’eroina flaubertiana divenne il simbolo di un malessere esistenziale tipicamente femminile assai diffuso nella borghesia del XIX secolo: il senso di soffocamento, di chiusura e grigiore indotto da esistenze apparentemente perfette, alle quali sembrava non mancare nulla, ma che in realtà conducevano alla nevrosi.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

Interpretare

COMPRENSIONE 1. In che senso la parabola esistenziale di Emma è strettamente legata alla condizione della donna nell’Ottocento? 2. Che cosa si intende con bovarismo? 3. In che modo le principali figure maschili del romanzo mostrano la distanza tra la libertà dell’universo maschile e i vincoli a cui è sottoposto l’universo femminile? LETTERATURA E NOI 4. In quali ambiti, ancora oggi, le scelte di vita delle donne subiscono maggiori condizionamenti rispetto a quelle degli uomini? DISCUSSIONE IN CLASSE 5. Discuti del tema proposto in classe con il docente e con i compagni, confrontando i diversi punti di vista emersi.

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PER APPROFONDIRE

Un realismo venato di simbolismo Il capolavoro di Flaubert è considerato una testimonianza esemplare della cifra realista del romanzo, ma a una lettura attenta l’etichetta di “realismo” applicata a Madame Bovary risulta riduttiva. In effetti, il realismo di Flaubert ci appare arricchito di numerosissimi elementi di carattere simbolico, che ricorrono nel corso del romanzo attribuendogli una dimensione più profonda e sfumata. Pensiamo ad esempio al ricorrente “stare alla finestra” di Emma, a indicare il suo perenne tendere verso un indefinito “altrove” che le possa offrire una via di fuga dal suo piccolo mondo soffocante. O ancora, è significativo il ricorso massiccio dello scrittore a elementi appartenenti all’area semantica del cibo e del mangiare, in senso non solo denotativo, ma anche connotante, simbolico. Il banchetto di nozze di Charles ed Emma, ad esempio, è descritto con una precisione e un’abbondanza di particolari che gravano sulla pagina come la grossolana materialità del marito graverà sui sogni eterei e romantici della neo-signora Bovary. Di Charles, per descrivere la piena

soddisfazione che trova nella vita matrimoniale, si dice che «se ne andava ruminando la sua felicità come chi, finito il pranzo, in piena digestione, rimastichi ancora il sapore dei tartufi» (parte I, cap. V); di Emma, invece, si dice che «tutta l’amarezza dell’esistenza le veniva scodellata davanti, sul piatto, e con il vapore del bollito le salivano dal fondo dell’anima altre zaffate di squallore» (parte I, cap. IX).

Gottfried Schultz, Natura morta con frutta e piatti, olio su tavola, fine del XIX secolo (Winter Park, Morse Museum).

Gustave Flaubert

T8

Una distorta educazione sentimentale Madame Bovary, parte I, cap. VI

G. Flaubert, Madame Bovary, trad. di O. Del Buono, Garzanti, Milano 2011

Dopo aver descritto le nozze di Emma e Charles e l’arrivo degli sposi nella casa di Tostes, Flaubert introduce un lungo flashback che occupa tutto il sesto capitolo, in cui descrive l’educazione che Emma fanciulla ha ricevuto nel convento di suore dove è stata mandata dal padre a tredici anni. Si tratta di un’educazione che reca già in sé i semi dell’insoddisfazione e dell’irrequietudine che segneranno la vita della donna.

I primi giorni di convento, lei non s’annoiò minimamente, le piaceva talmente la compagnia delle suore che, per divertirla, la conducevano nella cappella, cui si accedeva dal refettorio attraverso un lungo corridoio. Durante le ricreazioni giocava poco, invece era pronta a capire il catechismo, ed era sempre lei a rispondere al 1 5 signor vicario , quando costui formulava delle domande difficili. Vivendo dunque, senza uscirne mai, nella tiepida atmosfera di quelle classi, tra quelle pallide donne

1 vicario: il sacerdote incaricato dell’educazione delle fanciulle ospiti del convento.

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che portavano rosari dalla croce di rame, finì per assopirsi dolcemente al mistico languore che esala dai profumi dell’altare, dalla frescura delle acquasantiere, dal raggiare dei ceri. Invece di seguire la messa, s’incantava a guardare nel suo libro le 10 pie immagini orlate d’azzurro, s’innamorava della pecora malata, del Sacro Cuore trafitto da aguzze frecce, del povero Gesù soccombente, in cammino, sotto la croce2. Provò, per mortificazione, a restare un’intera giornata senza toccare cibo. Si scervellava per trovare qualche voto da imporsi. Quando andava a confessarsi, inventava qualche peccatuccio veniale per poter re15 stare più tempo possibile lì, nell’ombra, in ginocchio, la faccia premuta contro la grata nel bisbigliare del prete. Le similitudini di fidanzato celeste, di sposo celeste, d’amante celeste e di sposalizio eterno ricorrenti spesso nelle prediche le suscitavano in fondo al cuore inattese dolcezze. [Prosegue la descrizione dell’educazione impartita a Emma in convento, tutta intrisa 20 di «malinconie romantiche» e lontana da qualsiasi contatto autentico con la realtà concreta.] Frequentava il convento una vecchia zitella che ogni mese veniva per otto giorni a cucire biancheria. Era protetta dall’arcivescovado come appartenente a un’antica famiglia di nobili caduti in rovina sotto la Rivoluzione, consumava i suoi pasti al 25 refettorio alla tavola delle suore, e dopo mangiato s’intratteneva a conversare un poco con loro prima di risalire al suo lavoro. Spesso le educande sgusciavano fuori dalle classi per vederla. Quella sapeva a memoria canzonette galanti del secolo prima, e le ripeteva a mezza voce, continuando a lavorare con l’ago. Raccontava un’infinità di storie, informava sulle novità, s’incaricava di far commissioni in città e 30 prestava, di nascosto, alle grandi qualche romanzo che portava nelle tasche del suo grembiule per leggerne avidamente un capitolo nelle pause del suo cucito. C’erano sempre amori, amanti maschi e amanti femmine, dame perseguitate precipitanti in deliquio3 in padiglioni4 solitari, postiglioni5 trucidati a ogni tappa, cavalli fatti scoppiare a ogni pagina, tenebrose foreste, tumulti del cuore, giuramenti, singhioz35 zi, lacrime e baci, barchette al chiar di luna, usignoli nei boschetti, eroi forti come leoni, dolci come agnelli, virtuosi come non è possibile essere, sempre ben vestiti, sempre pronti a piangere come fontane. A quindici anni, dunque, Emma si sporcò le mani per sei mesi con quella polvere di vecchie sale di lettura. Più tardi, con Walter Scott, s’infiammò per le avventure storiche, sognò forzieri, corpi di guardia e 40 menestrelli. Avrebbe voluto vivere in qualche vecchio maniero come le castellane dai lunghi corsetti che, con i gomiti appoggiati al davanzale di un’ogiva a trifoglio6 e il mento nella mano, passavano le loro giornate a guardare se spuntasse all’orizzonte un cavaliere con la piuma bianca, al gran galoppo su un cavallo nero. [...] 45 Al corso di musica, nelle romanze che lei cantava, c’erano sempre angioletti dalle ali d’oro, madonne, lagune, gondolieri, miti composizioni che le lasciavano intrave2 pecora malata... sotto la croce: Flaubert descrive alcune delle illustrazioni tipiche dei libri di devozione dell’epoca. 3 precipitanti in deliquio: preda di svenimenti.

4 padiglioni: costruzioni, spesso aperte, in giardini e parchi signorili. 5 postiglioni: guidatori di carrozze di posta, cocchieri. 6 ogiva a trifoglio: elemento tipico dell’ar-

chitettura gotica, consistente nell’arco diagonale di una volta a crociera, in questo caso costituita da tre sezioni.

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dere, attraverso la stupidità dello stile e l’imprudenza della melodia, l’affascinante fantasmagoria delle realtà sentimentali. Qualcuna delle sue compagne portava in convento i keepsakes7 ricevuti come strenna. Bisognava nasconderli, era un proble50 ma, li si leggeva in dormitorio. Maneggiando con delicatezza quelle belle legature di raso, Emma fissava sguardi perduti sui nomi degli autori sconosciuti, il più delle volte conti o visconti che avevan firmato quegli scritti. Fremeva, sollevando con il respiro la velina che si alzava per metà, poi ricadeva dolcemente sulla pagina. Dietro la balaustra d’un balcone, ecco un giovane con un 55 corto mantello serrar tra le braccia una fanciulla biancovestita con una borsa appesa alla cintura; oppure ecco gli anonimi ritratti delle lady dai boccoli biondi, sogguardanti da sotto i tondi cappelli di paglia con i loro grandi occhi chiari. Ce n’era qualcuna sdraiata in una carrozza che attraversava un parco, e un levriero saltellava davanti alla pariglia8, condotta al trotto da due piccoli cocchieri in pantaloni bianchi. 60 Qualcun’altra fantasticava su un divano, con accanto una lettera dissuggellata9, gli occhi smarriti a contemplare la luna attraverso la finestra socchiusa, mezzo coperta da una tenda nera. Le ingenue, con una lacrima sulla guancia, becchettavano una tortorella attraverso le sbarrette di una gabbia gotica, o, tutte un sorriso, il capino reclinato su una spalla, sfogliavano una margherita con le loro piccole dita affusola65 te, rivoltate all’insù come la punta di una pantofola. Né mancavate voi, sultani dalle lunghe pipe, illanguidenti sotto le pergole tra le braccia delle baiadere, e giaurri10, sciabole turche, berretti greci; e soprattutto non mancavate voi, lividi paesaggi di ditirambiche contrade11 che tanto spesso ci mostrate insieme palme e abeti, qualche tigre a destra, un leone a sinistra, minareti tartari all’orizzonte, rovine romane in 70 primo piano e infine cammelli accovacciati; e, tutt’intorno, una linda foresta vergine, con un gran raggio di sole tremolante nell’acqua, e sull’acqua cigni, bianche scaglie sempre più lontane contro il fondo grigio acciaio. La lampada appesa al muro sopra la testa di Emma rischiarava tutte quelle meraviglie del mondo, sfilanti una dopo l’altra nel silenzio del dormitorio; da qualche 75 parte remota una carrozza si attardava a rotolare sui viali. Morì sua madre, lei pianse molto, i primi giorni. Si fece fare un medaglione funebre con i capelli della defunta, e, in una lettera che inviò ai Bertaux, tra una quantità di tristi riflessioni sulla vita, domandava di venire sepolta un giorno in quella stessa tomba. Quel brav’uomo di suo padre la credette malata, andò a vedere come stesse. 80 Emma fu intimamente orgogliosa di essere arrivata, al primo colpo, a quel raro ideale di pallida esistenza, cui non pervengono mai i cuori mediocri12. Si lasciò, dunque, scivolare nei meandri lamartiniani13, prestò orecchio alle arpe sui laghi, ai canti dei cigni morenti, a ogni caduta di foglie, alle vergini purissime che ascendono al cielo,

7 keepsakes: raccolte di incisioni, poesie e brani scelti, molto in voga in Francia e in Inghilterra nella prima metà del XIX secolo. 8 pariglia: coppia di cavalli da tiro. 9 dissuggellata: alla quale erano stati tolti i sigilli. 10 baiadere, e giaurri: le prime sono danzatrici indiane; quanto ai giaurri, era il termine dispregiativo con cui i turchi indicavano gli infedeli, e particolarmente i

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cristiani. I termini sono qui usati in un’accezione impropria, che rispecchia l’idea stereotipata e superficiale che Emma si era fatta del mondo orientale. 11 ditirambiche contrade: paesaggi incredibili; propriamente i ditirambi sono i canti in onore del dio greco Dioniso. 12 quel raro ideale... cuori mediocri: Emma esulta dentro di sé quando si accorge di riuscire ad adattarsi alla perfezione al modello romantico della fanciulla

languida e sofferente, un modello che lei identifica con i più alti valori dell’animo umano, ma che in realtà non è altro che un copione ben interpretato. 13 meandri lamartiniani: il riferimento è al poeta francese Alphonse de Lamartine (1790-1869), esponente del Romanticismo e noto per lo stile elaborato (a questo allude il termine meandri, da intendere come svolazzi retorici, giri di parole, espressioni altisonanti).


e alla voce dell’Eterno discorrente per le valli14. Quando tutto questo cominciò ad 85 annoiarla, non volle ammetterlo, insisté a illudersi, dapprima per semplice abitudine, poi per vanità a credersi fatta in un dato modo, sinché un giorno si meravigliò nel trovarsi tranquilla, priva di tristezze nel cuore come di rughe sulla fronte. Le buone suore che avevano fatto tanto assegnamento sulla sua vocazione s’accorsero con grande stupore che la signorina Rouault pareva sottrarsi alle loro sollecitudini. 90 D’altra parte, loro le avevano prodigato un tal numero di uffizi, ritiri, novene, prediche, le avevano talmente predicato il rispetto dovuto ai santi e ai martiri, le avevano talmente consigliato come assicurarsi la modestia del corpo e la salute dell’anima, che Emma si comportò come i cavalli troppo imbrigliati: si fermò d’improvviso e il morso le uscì dai denti. La sua mente, positiva nel vortice degli entusiasmi, che 95 aveva amato la chiesa per i fiori, la musica per le parole delle romanze e la letteratura per gli eccitamenti passionali, recalcitrava15 davanti ai misteri della fede, almeno quanto si ribellava ai rigori della disciplina contraria alla sua natura. Così, quando suo padre si decise a toglierla dal convento, nessuno rimpianse quella partenza; anzi, la superiora era del parere che negli ultimi tempi l’allieva aveva troppo 100 mancato di rispetto alla comunità. Tornata a casa, Emma provò dapprima un certo gusto a dare ordini alla servitù; presto, però, prese a noia la campagna, e cominciò a rimpiangere il convento. Quando Charles fece la sua prima apparizione ai Bertaux, lei si sentiva ormai totalmente delusa, pensava che non ci fosse più nulla che valesse la pena imparare, non ci 105 fosse più nulla per cui valesse la pena commuoversi. Ma l’emozione della novità, e forse l’eccitazione prodotta dalla presenza di quell’uomo eran bastate a farle credere di essere finalmente posseduta da quella meravigliosa passione che sino ad allora si era librata come un grande uccello dalle piume rosa nel fulgore dei cieli poetici; così adesso non poteva convincersi che la calma 110 in cui viveva fosse proprio la felicità tanto sognata. 14 prestò orecchio... per le valli: Flaubert offre qui una carrellata di stereotipi della

cultura romantica del tempo. 15 recalcitrava: si ribellava.

Analisi del testo Nasce il personaggio di Emma Bovary Il sesto capitolo, da cui è tratto il brano proposto, ha un’enorme importanza nell’economia narrativa del romanzo. Fedele alla sua visione “scientifica” della realtà, Flaubert risale alla prima fase della vita della sua eroina, proprio perché in essa si possono individuare le cause dei drammatici sviluppi che essa avrà in età adulta. Fino a questo momento, Emma non è stata altro che un “personaggio-oggetto” contemplato dagli occhi adoranti di Charles. È proprio in questo capitolo, in cui si delinea l’adolescenza di Emma, che si attua il fondamentale passaggio dal punto di vista di Charles a quello della donna. Possiamo addirittura dire che in queste pagine Flaubert ci fa assistere alla genesi di questo punto di vista, mostrandocene le motivazioni profonde, ciò che instilla nell’animo e nella sensibilità di Emma una visione falsata delle cose, che dà importanza soltanto alle emozioni forti e al brivido romantico.

La religione come fonte di traviamento Con la sua analisi tagliente Flaubert non perde mai occasione per condannare i vizi e le storture della società borghese. In questo passo il bersaglio della sua critica sono i costumi e i valori legati alla religione. Mandata in convento per ricevere quella che si riteneva dovesse essere un’educazione sana e conforme alla morale, Emma proprio da questo ambiente trae invece la materia su cui costruirà la propria perdizione.

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 283


La religione insegnata dalle suore appare come una sequela di pratiche superficiali, che danno un’altissima importanza all’aspetto estetizzante (i «profumi dell’altare», la «frescura delle acquasantiere», il «raggiare dei ceri»; e si noti anche il particolare delle suore che portano la fanciulla nella cappella «per divertirla», quasi si trattasse di una sorta di spettacolo teatrale), trascurando completamente la dimensione della spiritualità. Inoltre, le suore dimostrano di non saper proteggere in modo adeguato le educande da possibili influenze negative, come dimostra l’episodio dell’aristocratica zitella che passa loro le letture proibite. La religiosità che Emma sviluppa al convento non è che la prefigurazione di quello che sarà il suo modo di vivere la sfera affettiva come donna adulta: eccessivo e al tempo stesso inautentico (in proposito è significativo il particolare della confessione “gonfiata”), improntata alla ricerca di sensazioni forti e immediate, eccessivamente sensibile all’esteriorità delle cose. È infatti da notare come il primo e più intenso rapporto di Emma con la sfera religiosa sembri consumarsi al livello epidermico delle immagini che la colpiscono e fanno volare la sua fantasia, lasciando invece del tutto muta la sfera spirituale: «Invece di seguire la messa, s’incantava a guardare nel suo libro le pie immagini orlate d’azzurro, s’innamorava della pecora malata, del Sacro Cuore trafitto da aguzze frecce, del povero Gesù soccombente, in cammino, sotto la croce» (rr. 9-12).

Una pessima formazione letteraria Il capitolo ricostruisce anche le prime esperienze di Emma come lettrice, che vanno dai romanzi gotici e sentimentali a quelli storici alla Walter Scott. Sono le letture di moda dell’epoca, espressione di un Romanticismo di maniera aborrito da Flaubert, che con la sua opera intende distaccarsene con decisione: le definisce spregiativamente «quella polvere di vecchie sale di lettura» (r. 38), in uno dei rari punti in cui lascia affiorare il suo personale punto di vista. Emma le divora con avida curiosità, sviluppandone una visione del mondo distorta che l’accompagnerà per tutta l’esistenza. Ai suoi occhi, la letteratura si trasfigura in un’infinita carrellata di immagini, materializzazioni dei luoghi comuni prodotti da una cultura superficiale e stereotipata, che la coinvolgono fin nell’intimo del suo essere, inducendo in lei quello straziante desiderio di fuga dalla realtà che, se ora è soltanto una fantasticheria adolescenziale («Avrebbe voluto vivere in qualche vecchio maniero»), diventerà il tormento della sua vita da adulta. Va notato l’atteggiamento analogo tenuto da Emma tanto di fronte alla pagina scritta quanto alle incisioni raccolte nei keepsakes delle compagne: in entrambi i casi, è il potere dell’immagine a far presa su di lei, che sia un’immagine creata dalla sua fantasia o materialmente presente davanti ai suoi occhi sognanti, ma in ogni caso sempre in grado di produrre una realtà “altra”, alternativa alla deludente oggettività del quotidiano e dove la ragazza può trovare una via di fuga.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Come reagisce Emma alla morte della madre? Che cosa mette in evidenza la descrizione della sua reazione? 2. Elenca, rintracciandoli nel testo, gli elementi che accendono l’immaginazione di Emma e che diventano le basi della sua educazione sentimentale. ANALISI 3. Nel brano è ricostruita la “formazione” di Emma in collegio, distorta dai libri che divora di nascosto ma anche dalla musica insegnatale, che le trasmettono i cascami del peggior romanticismo: esotismo artificiale e convenzionale, sentimentalismo, passionalità esasperata e irrealistica. Rintraccia nel testo ed esemplifica con alcune citazioni ciascuno degli aspetti indicati.

Interpretare

LETTERATURA E NOI 4. Ricapitola in un breve testo il ruolo dei libri nella vita di Emma: che importanza assume la letteratura nella parabola esistenziale dell’eroina di Flaubert? Ti sembra che i rischi ravvisati da Flaubert nei confronti di un certo tipo di letteratura, o quanto meno di un certo tipo di fruizione dei libri, possano esistere ancora oggi, se non nell’ambito letterario, in altre forme espressive oggi più popolari?

284 Ottocento 5 Il romanzo europeo


Gustave Flaubert

T9

EDUCAZIONE CIVICA

Le delusioni di un matrimonio piccolo-borghese

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Madame Bovary, parte I, cap. VII G. Flaubert, Madame Bovary, trad. di R. Carifi, Feltrinelli, Milano 1994

Dopo le nozze, Charles ed Emma si sono sistemati nella casa del giovane medico a Tostes (parte I, cap. V). La delusione che Emma prova non appena arrivata nella sua modesta dimora di sposa trova ben presto una serie di conferme nell’ordinaria quotidianità che il marito è in grado di offrirle. In queste pagine assistiamo all’infrangersi di tutti i suoi sogni di ragazza.

Talvolta pensava che proprio quelli avrebbero dovuto essere i giorni più belli della sua vita, la luna di miele, come si dice. Ma per assaporarne tutta la dolcezza sarebbe stato necessario, senza dubbio, andarsene in quei paesi dai nomi sonanti dove i giorni che seguono alle nozze trascorrono nelle più soavi mollezze! A bordo di una 5 diligenza, sotto tende di seta azzurra, si sale lentamente per sentieri scoscesi, ascoltando la canzone del postiglione che riecheggia nella montagna insieme ai campanelli delle capre e al rumore sordo della cascata. Quando il sole tramonta, si respira sulle rive di un golfo il profumo dei limoni; poi, la sera, sulle terrazze delle ville, soli e tenendosi per mano, si contemplano le stelle e si fanno progetti per il futuro. 10 Era convinta che certi luoghi della terra fossero destinati a produrre la felicità, come un terreno particolare fa crescere certe piante che altrove appassiscono. Perché mai non poteva affacciarsi al balcone di uno chalet svizzero oppure rinchiudere la sua tristezza in un cottage scozzese, con un marito vestito d’un abito di velluto nero a lunghe falde, che indossa stivali flosci, un cappello a punta e mezze maniche? 15 Forse avrebbe desiderato confidarsi con qualcuno. Ma come esprimere un ineffabile disagio1, che muta aspetto come le nubi, che turbina come il vento? Le mancavano le parole, l’occasione, il coraggio. Certo, se solo Charles avesse voluto, se appena avesse sospettato, se una volta soltanto il suo sguardo avesse incontrato i suoi pensieri, era convinta che un’ab20 bondanza improvvisa sarebbe caduta dal suo cuore, come un albero lascia cadere i suoi frutti al primo tocco di una mano. Ma via via che le loro esistenze si facevano più intime si apriva dentro di lei un distacco che la separava da lui sempre di più. La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede, e le idee più comuni vi sfilavano nella loro veste ordinaria senza produrre nessuna emozione, di allegria 25 o di sogno. Diceva di non avere mai provato la curiosità, durante il suo soggiorno a Rouen, di andare a teatro a vedere gli attori di Parigi. Non sapeva nuotare, né tirare di scherma, né usare la pistola, e una volta non riuscì nemmeno a spiegarle un termine d’equitazione che aveva trovato in un romanzo. Un uomo, invece, non doveva conoscere tutto, eccellere in molteplici attività, iniziar30 ti alle energie della passione, alle raffinatezze della vita, insomma a tutti i misteri? Non insegnava nulla, quello là, non sapeva nulla, non aveva interessi di nessun tipo. La credeva felice; e lei gliene voleva per quella calma così imperturbabile, per quella serafica pesantezza e per la felicità che lei stessa gli dava.

1 un ineffabile disagio: uno stato di malessere indefinito, che non si riesce a descrivere a parole.

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 285


Qualche volta lei disegnava; ed era un grande piacere per Charles restarsene lì, in piedi, a guardarla china sul suo cartone, gli occhi semichiusi per mettere a fuoco il proprio lavoro, oppure il pollice che arrotolava delle palline di mollica2. Quanto al piano, più velocemente vi scorrevano le sue dita, più lui provava meraviglia. Batteva sui tasti ostentando sicurezza, e percorreva la tastiera dall’alto in basso senza interrompersi. Così scosso, il vecchio strumento dalle corde vibranti si faceva 40 sentire fino in fondo al villaggio se la finestra era aperta, e spesso il ragazzo di studio dell’ufficiale giudiziario che passava per la strada maestra, senza cappello e in pantofole, si fermava in ascolto con il suo foglio di carta in mano. Emma, del resto, sapeva come mandare avanti la casa. Mandava ai malati il conto delle visite in lettere così bene elaborate da non sembrare nemmeno fatture. Quando 45 poi, la domenica, avevano a pranzo qualche vicino, trovava il modo di offrire un piatto dall’aspetto gradevole, sapeva disporre piramidi di susine3 sui pampini4 di vite, serviva vasetti di marmellata rovesciandoli in un piattino, e parlava addirittura di acquistare gli sciacquabocca per il dessert. E da tutto questo ne derivava un aumento di considerazione per Bovary. 50 Lo stesso Charles finiva per stimarsi di più per il fatto di possedere una moglie simile. Mostrava con orgoglio, in sala, due piccoli schizzi a matita disegnati da lei; li aveva fatti incorniciare in cornici larghissime, appese alla parete mediante dei lunghi cordoncini verdi. Quelli che uscivano dalla messa lo vedevano sulla porta con delle belle pantofole ricamate. 55 Rincasava tardi, alle dieci, qualche volta a mezzanotte. Allora chiedeva da mangiare, e poiché la serva era già a letto veniva servito da Emma. Nominava uno per uno tutti quelli che aveva incontrato, i paesi dov’era stato, le cure che aveva prescritto, e soddisfatto di sé mangiava gli avanzi dello stracotto, grattava il formaggio, sgranocchiava una mela, vuotava la caraffa, poi si metteva a letto, si coricava sul dorso 60 e cominciava a russare. Dato che per molto tempo aveva avuto l’abitudine di portare il berretto di cotone, il suo fazzoletto non gli stava a posto sugli orecchi; così i capelli, la mattina, gli ricadevano tutti arruffati sulla faccia, imbiancati dalla lanugine del cuscino, i cui lacci si scioglievano durante la notte. Calzava sempre dei robusti scarponi che formavano, 65 al collo del piede, due grosse pieghe inclinate verso le caviglie, mentre la parte alta della calzatura si allungava diritta, tesa come se dentro vi fosse un piede di legno. Diceva che non c’era nulla di più adatto alla campagna. [...]. Tuttavia, in base a teorie della cui bontà era assolutamente convinta, decise di dedicarsi all’amore. Al chiar di luna, in giardino, recitava tutte le rime appassionate che 70 sapeva a memoria e sospirando cantava al marito qualche aria malinconica; ma poi si ritrovava altrettanto calma di prima, e Charles non appariva né più innamorato né più commosso. Quando ebbe così battuto un po’ l’acciarino sul suo cuore senza che ne sgorgasse una sola scintilla, incapace, del resto, di comprendere quanto lei per prima non 75 provava, come di credere a tutto quanto non si manifestava affatto in forme convenzionali, si persuase facilmente che la passione di Charles non aveva più nulla di eccessivo. Le sue espansioni erano divenute regolari; l’abbracciava a ore fisse. Era 35

2 palline di mollica: la mollica di pane bianco veniva utilizzata per cancellare i

286 Ottocento 5 Il romanzo europeo

segni di grafite della matita. 3 susine: prugne.

4 pampini: foglie di vite.


un’abitudine come tante, simile a un dolce previsto per tempo, dopo la monotonia del pranzo. 80 Un guardacaccia, che il dottore aveva guarito da una polmonite, aveva donato alla signora una piccola levriera italiana; lei se la portava con sé durante le sue passeggiate, dato che ogni tanto usciva per starsene un poco da sola e non avere più sotto gli occhi il solito giardino con la strada piena di polvere. Arrivava fino al faggeto di Banneville, nei pressi del padiglione abbandonato che fa angolo con il muro, dalla 85 parte dei campi. Nel fossato, tra le erbe, c’erano lunghe canne dalle foglie taglienti. Per prima cosa si guardava intorno, per vedere se qualcosa era cambiato dall’ultima volta che era stata là. Ritrovava al loro posto le digitali5 e i rafani selvatici, i ciuffi d’ortiche intorno ai grossi sassi, e le chiazze di lichene lungo le tre finestre che si disfacevano, marce, sui loro sostegni di ferro arrugginito. I suoi pensieri, dapprima 90 senza una meta, erravano a caso, come la sua levriera che girava in tondo in mezzo alla campagna, guaiva dietro alle farfalle gialle, dava la caccia ai topiragno6, oppure mordicchiava i papaveri ai bordi di una distesa di grano. Poi Emma riordinava le idee, si sedeva sull’erba, e frugandola a piccoli colpi con la punta dell’ombrello, non cessava mai di ripetersi: 95 “Ma perché, mio Dio, mi sono sposata?” Si chiedeva se non avrebbe potuto, per una diversa combinazione del caso, incontrare un altro uomo; e cercava di immaginare come sarebbero stati quegli eventi mai accaduti, quella vita differente, quel marito sconosciuto. Nemmeno uno, tra quelli che s’inventava, somigliava all’attuale marito. Forse sarebbe stato bello, spiritoso, 100 distinto, attraente, come di certo dovevano essere quelli che avevano sposato le sue antiche compagne di convento. Che facevano ora? In città, con il frastuono delle vie, il brusio dei teatri e lo splendore dei balli, conducevano esistenze che allargano il cuore e fanno sbocciare i sensi. Quanto a lei, la sua vita era fredda come un granaio che ha le finestre esposte a settentrione, e la noia, ragno silenzioso, tesseva 105 nell’ombra la sua tela in ogni cantuccio del suo cuore. 5 digitali: piante erbacee dai grandi fiori

6 topiragno: piccoli mammiferi inset-

penduli, riuniti in infiorescenze.

tivori simili a topi, ma con il muso più

allungato e dotato di lunghi peli sensoriali.

Analisi del testo Charles, un uomo refrattario all’“altrove” Attraverso il punto di vista di Emma il narratore ci presenta Charles come un uomo perfettamente appagato del “qui” e dell’“adesso” che gli sono capitati in sorte; la dimensione dell’“altrove”, che per Emma costituisce l’orizzonte esistenziale più importante, gli rimane completamente estranea. Per sua stessa ammissione, Charles non cerca nulla che si allontani dal suo presente, non lo incuriosisce minimamente quello scintillante mondo parigino che tanto affascina sua moglie, né lo attirano le attività alla moda («Non sapeva nuotare, né tirare di scherma, né usare la pistola») che potrebbero forse renderlo un po’ più interessante agli occhi di Emma. La sua conversazione (all’epoca parametro imprescindibile per determinare il valore sociale di un individuo) è «piatta come un marciapiede», le sue idee sono banali e incapaci di «produrre nessuna emozione, di allegria o di sogno». Le sue aspirazioni sono tutte limitate alla sfera dei bisogni materiali immediati: non è un caso che, nel corso del romanzo, attorno a lui si vengano ad accumulare numerose immagini e situazioni riconducibili all’area semantica del cibo, come nel testo proposto, dove assistiamo alla placida cena di Charles, descritta gesto per gesto, servita da un’Emma che possiamo immaginare quanto mai avvilita.

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 287


L’“altrove” fittizio di Emma La visione di Emma, contrapposta all’appagata materialità in cui si consuma l’esistenza di Charles, è tutta tesa verso un “altrove” irraggiungibile, proprio perché si tratta di una visione eccessiva e ossessiva, incapace di un’analisi equilibrata della realtà. Questo aspetto emerge, ad esempio, quando Emma incolpa Charles di non aver saputo spiegarle «un termine d’equitazione che aveva trovato in un romanzo», mancanza del tutto perdonabile in un uomo che non si interessa di cavalli; lei, invece, nella sua visione distorta della realtà, vi legge una conferma definitiva dell’incapacità di Charles a renderla felice, lontano com’è dall’ideale di marito che, fin da quando era ragazza, ha preso forma nella sua mente. Non essendole concessa alcuna via di fuga reale da un’esistenza grigia e soffocante, Emma cerca di costruirsene una fittizia, lavorando a livello puramente mentale. Prima tenta di convincersi di essere davvero innamorata, come una scolara giudiziosa che si sforza di applicare diligentemente le regole studiate: «in base a teorie della cui bontà era assolutamente convinta», la donna non si fa mancare nessuno degli elementi tipici dell’amore romantico, conosciuto soltanto attraverso i libri, dal “chiar di luna” ai “versi appassionati”, dai sospiri ai malinconici adagi. Ma dinanzi al fallimento di qualsiasi tentativo di far sprizzare «una sola scintilla» dall’«acciarino» del suo cuore, ad Emma non rimane altro che mimare la fuga preclusa nella realtà: le sue passeggiate meditabonde nella campagna di Tostes vogliono rappresentare proprio questa sua brama verso l’altrove, destinata a rimanere inappagata per sempre. Anche il particolare della «piccola levriera italiana» contribuisce a caratterizzare la tensione di Emma verso l’esotico e il diverso: proprio un levriero compariva anche fra le immagini delle incisioni contenute nei keepsakes che Emma tanto ammirava in collegio (➜ T8 ) e l’Italia, cui si fa riferimento nella razza del cane, è sempre stata vista dalla donna come il luogo della cultura più alta e raffinata, quella che a lei è ora negata per sempre. E proprio alla levriera viene paragonato il suo pensiero, che vaga confuso e senza alcuna meta apparente, prima di focalizzarsi su quello che è il nodo cruciale nell’animo tormentato della donna: «Ma perché, mio Dio, mi sono sposata?» (➜ T9 r. 93).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Qual è il rapporto tra Emma e Charles? Quali sentimenti nutrono l’uno nei confronti dell’altra? TECNICA NARRATIVA 2. Cerca di individuare i punti del brano in cui emerge con maggiore evidenza il metodo dell’impersonalità adottato da Flaubert. Poi rispondi. a. Quale tipologia di narratore è presente? b. La focalizzazione è interna o esterna? c. Qual è il punto di vista? d. Per mezzo di quale tecnica Flaubert riproduce i pensieri della protagonista? Fai qualche esempio.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Flaubert tende ad attribuire a oggetti, cose e ambienti una valenza spesso simbolica, attraverso cui si colgono particolari aspetti della psicologia dei personaggi. Considerando sia questo brano sia il (➜ T8 ), individua i passi che secondo te possono essere letti in questa chiave e cerca di fornirne una tua interpretazione. SCRITTURA 4. Emma e Charles: due vite unite nel matrimonio ma inevitabilmente separate in quelle che erano le rispettive visioni del mondo. Traccia una breve descrizione in parallelo di questi due personaggi, evidenziando le aspirazioni dell’uno e dell’altra e spiegando perché non possono che rivelarsi inconciliabili (max 15 righe).

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

5. Nei suoi romanzi, e in particolar modo proprio in Madame Bovary, Flaubert vuole svolgere anche un ruolo di critica nei confronti della cultura e dei modelli sociali dominanti all’epoca. Fortissima, ad esempio, è la sua presa di posizione nei confronti dell’istituto matrimoniale: alla luce di quanto hai letto, commenta questo particolare aspetto della narrativa di Flaubert, facendo riferimento anche a punti specifici dei testi analizzati.

288 Ottocento 5 Il romanzo europeo


Sguardo sul cinema Madame Bovary, un “soggetto” di successo La vicenda di Emma Bovary ha ispirato notevolmente il cinema. Il primo adattamento cinematografico, che rimane anche uno dei più riusciti, è quello del grande regista francese Jean Renoir nel 1933. Tra le altre trasposizioni cinematografiche, una delle più celebri è quella di Vincente Minnelli del 1949, con Jennifer Jones nel ruolo della protagonista. Il regista gira un suo libero adattamento con lo stesso spirito dei suoi celebri musical, e così la scena del ballo in società ben poco conserva dell’asciutto realismo di Flaubert. Un’interpretazione cinematografica assai libera è anche quella portata sullo schermo nel 1989 dal regista Aleksandr Sokurov, che ambienta la vicenda in Russia modificando i tratti di alcuni personaggi e ponendo un forte accento sull’erotismo degli incontri della protagonista con i suoi amanti. Filologicamente fedele al testo di Flaubert è invece l’adattamento che Claude Chabrol ne trae nel 1991, con Isabelle Huppert. Una trama popolare come quella di Madame Bovary non poteva non diventare anche oggetto di sceneggiati televisivi e fiction. Nel Regno Unito ne sono state realizzate due (1975 e 2000). Serie analoghe sono state create anche in Germania e in Francia; in Italia, nel 1978, è stato un successo lo sceneggiato tratto dal romanzo con una particolare cura per l’ambientazione (per regia di Daniele D’Anza, con Carla Gravina nel ruolo della protagonista). La popolarità di Madame Bovary, tuttavia, non si limita a influenzare il cinema e la tv e investe anche la musica. L’eroina di Flaubert diventa il simbolo di tutte le domande angosciose che accompagnano l’uomo nella sua ricerca di un senso dell’esistenza nella canzone del cantautore Francesco Guccini intitolata Signora Bovary, che dà il nome all’intero album, uscito nel 1987.

Il manifesto del film Madame Bovary, diretto da Vincente Minnelli.

Una scena del film Madame Bovary del 1991, diretto da Claude Chabrol e interpretato da Isabelle Huppert nel ruolo di Emma.

online T10 Gustave Flaubert

La scintillante chimera dell’“altrove”: il ballo al castello Madame Bovary, parte I, cap. VIII

online T11 Gustave Flaubert

L’ebbrezza dell’amore adultero: Emma e Rodolphe Madame Bovary, parte II, cap. IX

online T12 Gustave Flaubert

La morte di Emma Madame Bovary, parte III, cap. VIII

Verso il Naturalismo: Madame Bovary 3 289


Ottocento Il romanzo europeo

Sintesi con audiolettura

1 Il successo del genere romanzo

La popolarità del romanzo All’inizio dell’Ottocento il romanzo vive un momento di straordinario successo, le cui ragioni sono di natura sia sociologica sia letteraria. Un elemento determinante è sicuramente la progressiva affermazione di una nuova classe borghese: da un lato il romanzo si dimostra una forma letteraria capace di rappresentarla, dall’altro essa fornisce un pubblico abbastanza colto e benestante da poter dedicare tempo e risorse alla lettura di testi di una certa lunghezza. Inoltre la lingua del romanzo, assai più vicina al vissuto rispetto a quella della poesia, è in grado di far dialogare i ceti più diversi, rendendo il romanzo stesso un genere democratico; mentre la sua struttura polifonica, pronta ad accogliere stili e registri espressivi anche molto lontani tra loro, riesce a fornire diversi livelli di lettura e a dar voce alla crescente complessità del mondo moderno. La sua versatilità, inoltre, impedisce al romanzo di finire ingabbiato in una codificazione di genere troppo rigida. In effetti, negli anni del suo maggiore sviluppo, esso riesce trovare strade diverse, adattandosi a differenti contesti culturali, politici e sociali.

2 Il romanzo storico e realista

Il romanzo storico Una delle varianti romanzesche di maggior successo, tanto da poter essere definita una vera e propria moda, è quella del romanzo storico, che bene risponde al nuovo interesse per la storia diffusosi grazie alla cultura romantica. Modello indiscusso è lo scozzese Walter Scott, con le sue storie avventurose ambientate per lo più in un Medioevo di maniera, intrise di patriottismo e animate dalla volontà di coinvolgere il lettore in un’atmosfera suggestiva: una scrittura che tende a emozionare più che a informare e educare. L’opera più celebre è il romanzo Ivanhoe (1820), ambientato nell’Inghilterra del 1194, sullo sfondo delle lotte intestine tra Normanni e Sassoni. Ingrediente essenziale del successo è la rappresentazione di un mondo schematico, nel quale è chiara la distinzione tra bene e male e protagonisti sono esponenti delle classi medie o medio-basse. Il suo modello ispirerà, in particolare, Victor Hugo, il padre del Romanticismo francese, autore di opere celeberrime come Notre-Dame de Paris (1831) e I miserabili (1862). Nei suoi romanzi, Hugo anticipa l’attenzione verso le tematiche sociali che saranno al centro del Naturalismo. Un’importante novità nelle sue opere riguarda lo statuto del narratore che è,

290 Ottocento 5 Il romanzo europeo


come nel romanzo storico, extradiegetico e onnisciente, ma cerca anche di farsi interprete del mistero dell’esistenza umana. A Walter Scott si rifà anche una fiorente scuola italiana: lo stesso Manzoni vi si ispira, ma nei Promessi sposi lo sostanzia con un rigoroso uso delle fonti e uno spessore morale sconosciuti all’autore di Ivanhoe. Il romanzo a impianto realista Con il romanzo a impianto realista l’attenzione si sposta sulla realtà contemporanea. Nelle opere di questo filone essa è analizzata in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più oscuri e problematici. In Inghilterra, dove il romanzo realista ha cominciato a fiorire fin dal Settecento, prevale l’aspetto dell’analisi e anche della critica sociale, pur nei romanzi di autori diversissimi tra loro come Jane Austen, George Eliot (pseudonimo di Mary Ann Evans), le sorelle Emily e Charlotte Bronte e Charles Dickens. Jane Austen analizza con tagliente ironia e stile impeccabile i vizi e le idiosincrasie della piccola nobiltà rurale nell’Inghilterra previttoriana: un mondo che sembra non essere stato nemmeno sfiorato dai fremiti rivoluzionari, apparentemente bonario e pacifico, ma in realtà dominato da leggi economiche e sociali spietate, capaci di determinare in modo decisivo la vita delle persone. In questo contesto vivono le eroine della Austen, che l’autrice racconta con grande finezza psicologica, inaugurando un filone di scrittura al femminile assai fecondo in Inghilterra, da George Eliot fino a Virginia Woolf. L’opera più celebre della Austen è Orgoglio e pregiudizio (1813). Charles Dickens, invece, vero e proprio monumento nazionale per l’Inghilterra vittoriana, si concentra soprattutto sulla narrazione dei lati negativi della modernità: i guasti della società neo-industriale, con i suoi effetti deleteri e disumanizzanti sulla vita delle persone. In Francia è il tema del rapporto conflittuale dell’individuo con la società a fornire gli spunti maggiori: nella Francia bigotta e retriva della Restaurazione, gli aneliti alla libertà che ancora fremono negli animi di chi ha sentito dai propri padri il racconto della rivoluzione non possono che andare incontro a una dolorosa delusione. È così che nascono i personaggi tormentati e irrisolti di Stendhal, come ad esempio Julien Sorel nel Rosso e il nero (1830), divorati da un’ambizione sfrenata ma al tempo stesso sensibili a valori e ideali che ormai non trovano più spazio nel mondo contemporaneo. Stendhal può essere considerato il padre del moderno realismo poiché con lui il romanzo diventa uno strumento di studio della realtà umana. Anche Balzac, nei romanzi del ciclo della Commedia umana, vuole dare uno spaccato completo e impietoso della Francia del suo tempo; lo fa con il rigore e la pertinacia di uno scienziato che classifica con precisione dei campioni di laboratorio: la sua opera, un amplissimo “mondo chiuso” che egli stesso definisce una «concorrente del codice civile», ci porta già verso il metodo e lo stile che saranno di Flaubert. Tra i capolavori di Balzac vanno ricordati Papà Goriot ed Eugenie Grandet.

3 Verso il Naturalismo: Madame Bovary

Gustave Flaubert e Madame Bovary: uno scandaloso romanzo di successo Con l’opera di Gustave Flaubert (1821-1880), il romanzo francese si avvia sulla strada del Naturalismo. Il lavoro che diventa un vero e proprio paradigma per tutta la letteratura successiva di impianto realista (e non solo) è Madame Bovary (1857). Raccontando la storia apparentemente banale della sua eroina, Emma Bovary, lo scrittore inaugura un nuovo modo di avvicinarsi alla realtà attraverso la letteratura, elaborando uno sguardo assolutamente

Sintesi Ottocento

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spassionato, alieno da qualsiasi forma di coinvolgimento emotivo o di giudizio morale su quanto si sta raccontando, che così può assumere l’aspetto rigoroso di uno studio scientifico. Questo metodo rivoluzionario, fondato sul distacco dalla materia narrata, rappresentata in modo asettico anche se disprezzabile secondo la morale comune, suscita all’epoca grande scandalo: il libro viene censurato e accusato di immoralità. Il romanzo, strutturato in tre parti, racconta la storia – ambientata in Normandia – di Emma Bovary che, insoddisfatta della vita di provincia e imbevuta di letture romantiche e sogni di grandezza, dopo il matrimonio con un uomo da lei considerato inadeguato entra in un vortice di tradimenti e bugie che la condurranno al dissesto economico e al suicidio. Il metodo di Flaubert risente del clima culturale dell’epoca: sono gli anni del Positivismo, nei quali si assiste all’emergere di una nuova visione scientifica come chiave di interpretazione della realtà. Secondo Flaubert l’opera letteraria deve assumere un valore documentario e per ottenere questo scopo è necessario adottare il metodo dell’impersonalità: lo scrittore deve liberarsi delle proprie idee (anche se in realtà la sua visione affiora in più punti) e lasciare che i personaggi si sviluppino in piena autonomia. Un altro aspetto fondamentale del romanzo di Flaubert è la sua cura maniacale alla ricerca della parola giusta per designare gli oggetti, tratteggiare un personaggio o descrivere un avvenimento in modo realistico e insieme simbolico. Il problema dello stile diviene in Flaubert il fulcro della ricerca letteraria.

Zona Competenze Sintesi

1. Attraverso uno schema illustra le diverse forme assunte dal romanzo nell’Ottocento, sintetizzandone le rispettive caratteristiche fondamentali.

Competenza digitale

2. Scegli due romanzi tra quelli affrontati; realizza una presentazione multimediale in cui indichi per ciascun romanzo titolo, autore, temi principali, ambientazione e tipologia dei personaggi, confrontando ed esponendo alla classe i dati raccolti.

Scrittura

3. Alla luce delle opere analizzate e facendo gli opportuni confronti tra i diversi modi di narrare, esponi l’immagine della società di metà Ottocento che emerge attraverso la narrativa realista (max 3 colonne di foglio protocollo).

292 Ottocento 5 Il romanzo europeo


Ottocento CAPITOLO

6 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

Il genere fantastico, che si afferma alla fine del Settecento, appare congeniale alla concezione romantica, che riscopre la dimensione dell’irrazionale in contrapposizione alla visione razionale e positiva propria dell’Illuminismo. Il grande consenso riservato a questo genere, inaugurato dal romanzo gotico inglese, è stato spiegato con la sua capacità di veicolare le inquietudini profonde prodotte dai cambiamenti sociali e politici del tempo e dagli interrogativi suscitati dallo sviluppo scientifico e tecnologico: da essi nasce il celebre Frankenstein di Mary Shelley. Nei migliori interpreti del fantastico (Hoffmann, Poe), rispetto alle forme più appariscenti (fantasmi e altre apparizioni), prevalgono situazioni inspiegabili e presenze perturbanti, strumento per rappresentare incubi e ossessioni da sempre connaturati alla natura umana. Rimane tuttora enigmatico il piacere della paura che caratterizza inequivocabilmente il lettore appassionato dei racconti fantastici.

1 L’emergere della narrativa

di carattere fantastico

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1

L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 Alle origini del genere “fantastico” Tra Settecento e Ottocento emerge un forte interesse per il fantastico, che si concretizza in una ricca produzione, in vari paesi europei, di racconti e romanzi. Ci si può chiedere la ragione della fortuna di questa tendenza letteraria proprio in questo periodo. Una spiegazione sociologica I traumi politici che hanno segnato la fine del Settecento e la rivoluzione industriale, che sconvolge modi di produzione e forme di vita secolari, suscitano inevitabilmente grandi paure, che secondo alcuni studiosi sono esorcizzate dalla letteratura “nera”: essa avrebbe la funzione di incanalare su specifiche figure e situazioni terrorizzanti (mostri e fantasmi appunto) una paura che ha ben altre radici.

Ernst Ferdinand Oehme, Il castello Scharfenberg di notte, olio su tela, 1827 (Berlino, Alte Nationalgalerie).

Una spiegazione culturale L’irrompere del soprannaturale nelle pagine dei romanzi può essere spiegato anche con la crisi del razionalismo illuminista e della filosofia sensistica, con l’emergere di nuove dimensioni di cui la cultura romantica, nelle sue varie manifestazioni, è espressione: dallo spiritualismo all’interesse per il mistero, all’esplorazione della dimensione notturna e oscura (➜ SCENARI PAG. 12). L’esplosione di interesse del pubblico per la letteratura fantastica e il proliferare di forme narrative nuove, ha quindi a che fare innanzitutto con una nuova visione della realtà e dell’io, più sfaccettata, sfuggente, misteriosa (come ben evidenziano i racconti fantastici di Hoffmann ➜ T3 ). Dal fantastico visionario al fantastico quotidiano Le prime testimonianze letterarie del fantastico hanno caratteri visionari e in esse domina il tema dell’apparizione soprannaturale; in seguito, dopo Poe, il fantastico ha più a che fare con l’esplorazione della dimensione mentale-psicologica; e comunque l’irrompere di fenomeni inspiegabili non avviene più tanto in ambiti speciali come i castelli del gotico, ma si insinua nella dimensione quotidiana, risultando così ben più inquietante. Ovviamente l’identità di ciò che fa paura, di ciò che inquieta, si trasforma a mano a mano che si modificano i parametri conoscitivi e le stesse teorie scientifiche e mediche: in generale si può dire che dal primo al secondo Ottocento si va verso un’interiorizzazione del soprannaturale, verso effetti meno appariscenti, per poi arrivare, nel Novecento, al fantastico che assume un nuovo volto e non attinge più del tutto al repertorio tradizionale di fantasmi, apparizioni e così via.

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2 Il romanzo gotico Susanna Duncombe, La scena del fantasma dal romanzo Il castello di Otranto, illustrazione (Londra, Tate).

Il termine “gotico” Una delle prime manifestazioni dell’interesse della cultura europea per la dimensione del fantastico è il romanzo gotico. Il termine “gotico”, che in origine designa uno stile artistico medievale (secoli XII-XIV), è ripreso in Inghilterra verso la fine del Settecento per identificare un tipo di romanzo caratterizzato da temi e atmosfere cupi e tenebrosi (aspetti che nell’ottica del Settecento si associavano comunemente all’idea di Medioevo). Il romanzo gotico inglese, che ebbe grande successo, si afferma nello stesso ambito di quel nuovo gusto e quella nuova sensibilità che vede l’affermazione dell’“estetica del sublime” di Edmund Burke, con l’associazione tra “il bello” e “il tenebroso”, e della poesia ossianica e cimiteriale.

PER APPROFONDIRE

La fondazione del genere Inaugura il genere Horace Walpole (1717-1797) con Il castello di Otranto (The Castle of Otranto, 1764), che contamina liberamente leggende, romanzi cavallereschi, materiali fiabeschi e introduce esemplarmente gli ingredienti del genere che ne sanciranno la fortuna presso il pubblico e che ricorreranno anche nelle varie forme di narrativa “nera” che si ispirano al romanzo gotico. Questi gli ingredienti. • L’ambientazione temporale e lo scenario: per lo più un Medioevo tenebroso di maniera fatto di castelli in rovina, abbazie che nascondono oscuri segreti, con tutto l’armamentario che ne consegue (segrete e cantine, botole, cardini cigolanti ecc.). • I personaggi: dal nobile malvagio che perseguita una compassionevole eroina, all’eroe senza macchia.

Le strategie della narrazione fantastica Una narrazione costituzionalmente ambigua Nelle sue forme più tipiche, collocabili nell’Ottocento, il fantastico è un tipo di narrazione in cui si verifica una contaminazione, un connubio trasgressivo fra narrazione realistica e narrazione inverosimile: al centro della narrazione fantastica c’è una vicenda incredibile ma che è presentata come veramente accaduta. La cornice realistica Per il racconto fantastico è importante creare perciò degli “effetti di realtà” che accreditino agli occhi del lettore la storia narrata: per questo la storia incredibile è in genere inclusa, soprattutto nel racconto fantastico ottocentesco, in una sorta di cornice di cui si accentua l’impianto realistico (elementi che contribuiscono a creare l’effetto di realtà sono, ad esempio, le descrizioni minuziose, la datazione precisa, e soprattutto la citazione di documenti, lettere e manoscritti). Nella prima parte del testo l’autore costruisce un piano di “normalità” con cui entra in conflitto la vicenda incredibile che subentra in un secondo momento, così che si viene a creare l’ambiguità tipica del fantastico.

L’uso del finale “aperto” Nel racconto fantastico classico ha particolare importanza la sequenza finale: talvolta è proprio in rapporto a essa che il racconto assume caratteri fantastici. Il finale è spesso a sorpresa: un’immagine o un elemento hanno la funzione di spiazzare il lettore. Il finale rimane comunque in genere “aperto”: a differenza del racconto giallo, le domande del lettore non ricevono risposta. L’impiego della prima persona Frequente è infine l’uso della prima persona, che da un lato crea l’illusione di una testimonianza veridica, ma dall’altro presuppone una percezione soggettiva (per definizione, limitata e passibile di dubbio) della realtà, in quanto la storia incredibile può aver a che fare con la percezione distorta dell’io narrante (è il caso del racconto Il ritratto ovale di Poe ➜ T1 e dell’Orco Insabbia di Hoffmann ➜ T3 ). Anche quando viene usata la terza persona, del resto, la focalizzazione è in genere sul protagonista, di cui viene adottato integralmente il punto di vista.

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• La presenza del soprannaturale, sul cui ingresso, inaspettato e terrorizzante, si fonda l’interesse centrale dell’intreccio. Più in generale si può dire che con il romanzo gotico fa il suo esordio nella letteratura lo sfruttamento della paura (➜ PER APPROFONDIRE, Il piacere di aver paura, PAG. 298), attraverso procedimenti sempre vistosi. I rappresentanti del “gotico” La più famosa narratrice gotica fu Ann Radcliffe (1764-1823), autrice del celeberrimo I misteri di Udolpho (The Mysteries of Udolpho, 1794), ambientato in un sinistro castello dell’Appennino (➜ D1 OL). La scrittrice inglese costituirà un modello per numerosi scrittori (spesso mediocri) nel creare atmosfere paurose. Si deve alla Radcliffe, nel suo saggio Il soprannaturale in poesia, la sottile distinzione fra terror e horror, che dimostra nella scrittrice inglese la piena consapevolezza degli effetti psicologici da suscitare nei lettori: con terror la Radcliffe intende l’attesa angosciosa di possibili orrori che però possono anche non verificarsi; con horror la realizzazione e descrizione dettagliata di orrori quali torture, apparizioni demoniache ecc. Celebre romanzo gotico, composto a pochi anni di distanza dai Misteri di Udolpho, è Il monaco (The Monk, 1796) di Matthew Lewis (1775-1818), in cui compare il tema, che avrà larga fortuna, del patto col diavolo; nel 1811 ecco il tema del vampiro (The Vampire, di John William Polidori) poi ripreso a fine secolo nel romanzo tardo gotico Dracula (1897) di Bram Stoker (1847-1912). L’ultimo vero e proprio romanzo gotico, anch’esso di largo successo, fu Melmoth l’errante (Melmoth the Wanderer, 1820) dell’irlandese Charles R. Maturin (1782-1824). Un codice narrativo di grande successo La straordinaria fortuna del romanzo gotico non si deve tanto alla sua qualità letteraria, spesso mediocre, quanto proprio alla ripetibilità di temi e situazioni, alla deliberata ricerca di effetti paurosi, che rendevano i testi facilmente riconoscibili a un pubblico vasto, che spesso attingeva alle biblioteche circolanti. Ma persino in scrittori come Alessandro Manzoni, ben poco inclini al gusto romanzesco e agli effetti “facili”, è riconoscibile l’influenza di aspetti gotici (l’eroina indifesa insidiata dal malvagio potente, l’omicidio della conversa nell’episodio della monaca di Monza ecc.), a testimonianza della grande diffusione di questa forma narrativa. Intorno agli anni Venti il successo del romanzo gotico tende a esaurirsi. L’influenza del gotico perdura però ben oltre la sua stagione d’oro: il repertorio figurativo e le atmosfere gotiche sono ad esempio abbondantemente sfruttate dal grande scrittore americano Edgar Allan Poe, che se ne serve però all’interno di strategie narrative ben altrimenti sofisticate (➜ T1 e ➜ T2 OL).

Una scena del film Cime tempestose, 1992.

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In un certo senso possono essere definiti romanzi tardo-gotici anche Cime tempestose (Wuthering Heights, 1847) di Emily Brontë, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, 1886) di Robert L. Stevenson. In sostanza il gotico diventa un codice di sicuro successo a cui attingere.

Il romanzo gotico

GLI INIZIATORI

• Horace Walpole Il castello di Otranto (1764) • Ann Radcliffe, I misteri di Udolpho (1794) • Matthew Lewis, Il monaco (1796)

I CONTINUATORI

• John W. Polidori, Il Vampiro (1811) • Charles R. Maturin, Melmoth l’errante (1820) • Bram Stoker, Dracula (1897)

3 Il maestro del terrore e dell’orrore: Edgar Allan Poe Edgar Allan Poe (1809-1849), benché statunitense (nacque a Boston nel 1809), fu ben presto considerato a tutti gli effetti uno scrittore “europeo”, grazie alla precoce conoscenza dei suoi racconti e alla sua stessa trasformazione in “personaggio” a opera di Charles Baudelaire, che scrisse un saggio di prefazione all’edizione francese dei suoi Racconti straordinari (1856). L’interpretazione di Baudelaire – che faceva di Poe quasi un suo “doppio”, presentandolo come una sorta di poeta maledetto emarginato e incompreso da un mondo conformista e volgare – ne avviò la fortuna europea e il vero e proprio “mito”. Effettivamente Poe visse una vita disordinata e infelice, ribelle ai vincoli sociali, segnata dalla nevrosi, che lo indusse a cercare rifugio nell’alcool e nella droga, fino alla morte, avvenuta in seguito a un attacco di delirium tremens, a soli quarant’anni nel 1849. Fu autore molto versatile e prolifico: poeta (Il corvo), romanziere (La storia di Gordon Pym), saggista acuto, Poe è famoso a livello mondiale per le diverse raccolte di racconti fantastici. I più terrificanti di essi (come Il gatto nero, Il cuore rivelatore, Il crollo della casa Usher, Berenice, Il pozzo e il pendolo, La maschera della Morte Rossa ➜ T2 OL) sono talmente noti da essere diventati parte dell’immaginario collettivo, anche in seguito alle numerose trasposizioni cinematografiche (ad esempio, il regista Dario Argento è un grande ammiratore di Poe) e alla presenza di soggetti ed “effetti alla Poe” nel fumetto horror (come la fortunatissima serie di Dylan Dog, l’«indagatore dell’incubo» ➜ Un eroe postmoderno). Se Poe è considerato maestro assoluto nel racconto del terrore e dell’orrore, in realtà la sua opera narrativa corrisponde a una tipologia molto varia: dal poliziesco (I delitti della via Morgue, La lettera rubata) al fantascientifico (Una discesa nel Maelström, Mellonta tauta), al racconto grottesco, che risente dell’influenza di Hoffmann e dei romantici tedeschi (Il diavolo nel campanile, Re peste). Un immaginario turbato e ossessivo I racconti di Poe traggono origine indubbiamente da ossessioni, incubi, manie dell’autore stesso: nei suoi personagginarratori (Poe usa quasi sempre la formula enunciativa dell’io narrante con una costante focalizzazione interna) si rispecchia l’autore, si riflette la sua turbata

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visione del mondo, le sue stesse ossessioni. Una di esse è sicuramente il tema della “morte in vita” (che ispira racconti orrorosi come Berenice, Il crollo della casa Usher) o l’azione delittuosa ispirata semplicemente dal “demone della perversità” (è questo il titolo dell’analisi compiuta da Poe stesso di questa pulsione in un suo saggio), come nel celebre Il cuore rivelatore, l’attrazione sado-necrofila per figure femminili (Berenice, Ligeia, Morella) la cui bellezza è insidiata, se non addirittura già corrotta, dalla morte.

PER APPROFONDIRE

Gustave Doré, illustrazione da incisione su acciaio per un’edizione de Il corvo di E.A. Poe, 1884.

La manipolazione del codice gotico e le lucide strategie narrative D’altra parte la critica ha ormai da tempo messo in luce la componente di lucidità razionale e le consapevoli strategie compositive che organizzano i racconti di Poe, oltre all’utilizzazione voluta degli elementi più vistosi del codice gotico, da cui preferibilmente Poe trae materiali e atmosfere (➜ T1 ): lo scrittore americano considerava ormai il gotico solamente un repertorio a cui attingere e da manipolare per raggiungere un gran numero di lettori. Ed effettivamente negli anni Poe ebbe uno straordinario successo proprio presso il pubblico di massa, che lo ha consacrato il maestro del brivido; ma, al contempo, l’opera di Poe è stata – ed è – apprezzata anche dalla critica più sofisticata. La narrativa dello scrittore americano è infatti ben lontana dagli intrecci banali e dai facili effetti del romanzo gotico: ogni suo racconto, anche i più orrorifici, è frutto

Il piacere di aver paura Soprattutto nella letteratura ottocentesca, il racconto fantastico sembra costituzionalmente legato alla paura, che intenzionalmente vuole stimolare. Si tratta a ben vedere del “piacere della paura”, che può nascere solo in culture letterarie evolute, nelle quali il lettore può apprezzare gli espedienti con cui l’autore cerca di spaventare e in cui dunque la paura diviene emozione estetica. Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), autore americano di racconti gotici fantastici e anche teorico della letteratura “nera”, nel suo saggio L’orrore soprannaturale in letteratura (1927) scrive: «L’emozione più vecchia e più forte del genere umano è la paura, e la paura più vecchia e più forte è la paura dell’ignoto». Secondo Lovecraft, il fantastico si può catalogare propriamente sulla base dell’intensità delle emozioni che riesce a suscitare, e fa quindi nel suo saggio una storia della letteratura fantastica del terrore, indagando i meccanismi attraverso cui gli scrittori suscitano la paura nei lettori. Nel romanzo gotico la paura è suscitata da espedienti spettacolari: in genere, nella narrativa fantastica del primo Ottocento ha a che fare con la presenza di elementi soprannaturali che si insinuano (Poe, Il ritratto ovale) o irrompono nel finale dopo un crescendo di suspense (La maschera della Morte Rossa ➜ T2 OL); nel secondo Ottocento la paura inizia a legarsi non solo a ciò che ci trascende, ma anche a ciò che sta dentro di noi, in rapporto alla percezione della parte oscura e inconscia che, di fatto sconosciuta prima di Freud, appariva minacciosa, suscitava paura, appunto; in alcuni

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magistrali racconti fantastici, come il celebre L’Horlà (1887) di Guy de Maupassant, la paura nasce dalla contaminazione sogno-realtà, dentro-fuori di sé. Per Lovecraft, Poe aveva compreso, come nessun altro, la “psicologia della paura”. Egli sapeva selezionare, all’interno di una precisa infallibile strategia, gli elementi che si accumulano in un organismo narrativo perfettamente coerente fino all’esito finale, spesso terrorizzante, che scioglie il crescendo di suspense (come nella Maschera della Morte Rossa).

Johann Heinrich Füssli, Paura, 1870 ca. (Zurigo, Kunsthaus).


di una meditata strategia, a volte persino intellettualistica, che costruisce in modo coerente la suspense, calibrando ogni elemento in vista dell’unità del racconto e soprattutto dell’effetto da raggiungere (➜ T2 OL). Del resto, l’alto grado di consapevolezza tecnica di Poe è dimostrato dai molteplici interventi metanarrativi disseminati nei suoi racconti, ma soprattutto dal saggio intitolato Filosofia della composizione (1846), in cui egli mostra piena padronanza teorica dei trucchi dello scrivere e non poca ironia (e autoironia).

Edgar Allan Poe

T1

La rivisitazione del codice gotico Il ritratto ovale

E.A. Poe, Il ritratto ovale, in Racconti fantastici italiani e stranieri, a cura di N. Gazich, trad. di R. Ferrari, Principato, Milano 1994

Il racconto che presentiamo, il cui titolo originario era significativamente Vita nella morte (Life in Death) fu pubblicato sulla rivista «The Broadway Journal» nel 1845. È molto significativo per evidenziare la ripresa da parte di Poe degli elementi del romanzo gotico, ma anche la presa di distanza da esso per una narrazione ben più sofisticata, che utilizza con piena padronanza le tecniche della suspense.

Il castello, nel quale il mio domestico aveva osato entrare per forza piuttosto di lasciarmi, ferito gravemente com’ero, passare una notte all’aperto, era uno di quegli edifici in cui la tetraggine1 si mescolava alla magnificenza, e che da tanto tempo ergono le loro fronti accigliate2 tra gli Appennini, non meno nella realtà che nella fantasia della 5 signora Radcliffe3. Secondo ogni apparenza esso era stato abbandonato temporaneamente e da pochissimo tempo. Ci stabilimmo in una delle stanze più piccole e meno sontuosamente arredate. Essa era situata in una remota4 torre dell’edificio. Le sue decorazioni erano ricche ancorché5 malandate e antiche. Le sue pareti erano tappezzate d’arazzi ed erano coperte di molteplici e multiformi trofei araldici insieme con 10 una quantità inconsueta di audacissimi quadri moderni in cornici auree riccamente arabescate. Questi dipinti, che coprivano non solo le superfici principali delle pareti, ma anche molti angoli che la bizzarra architettura del castello aveva reso necessari, suscitarono il mio più vivo interesse, forse a causa del mio incipiente delirio6; cosicché pregai Pedro7 di chiudere le pesanti imposte della camera – poiché era già notte – , 15 di accendere i bracci di un grande candelabro che stava alla testata del mio letto, e di aprire completamente le frangiate cortine8 di velluto nero che avvolgevano il letto stesso. Volli che tutto questo fosse fatto per potermi affidare, se non al sonno, almeno alla contemplazione di questi quadri, alternata alla lettura di un volumetto che avevo trovato sul guanciale, e che sembrava contenerne la critica9 e la descrizione. 20 A lungo, a lungo io lessi; e con fervore, con fervore contemplai. Rapidamente e gloriosamente volarono le ore, e la profonda mezzanotte giunse. La posizione del candelabro non mi soddisfaceva, e per non disturbare il mio domestico assopito, 1 tetraggine: cupezza. 2 accigliate: severe. 3 signora Radcliffe: attraverso la voce narrante, Poe chiama in gioco il modello indiscusso del romanzo gotico, Ann Radcliffe. La scoperta, quasi ironica, citazione di una delle fonti principali di Poe nella costruzione di ambienti sinistri

(➜ D1 OL) testimonia la volontà dello scrittore di “giocare a carte scoperte” con i lettori. 4 remota: lontana (dal corpo centrale dell’edificio). 5 ancorché: benché. 6 il mio più vivo... delirio: il narratore avanza l’ipotesi, non irrilevante ai fini dell’attendibilità del racconto che segui-

rà, che la sua curiosità per i quadri della stanza del castello sia frutto di un’alterata condizione psicofisica. 7 Pedro: il domestico. 8 frangiate cortine: le tende del letto a baldacchino, ornate di frange. 9 la critica: la valutazione delle qualità artistiche.

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allungai la mano con difficoltà, spostai il lume in modo ch’esso gettasse i suoi raggi in pieno sul libro. 25 Ma questa mia azione produsse un effetto assolutamente inaspettato. I raggi delle numerose candele (poiché ve ne erano molte), caddero ora entro una nicchia della stanza che fino a quel momento una colonna del letto aveva tenuto nell’ombra più fitta. Vidi così nella più splendente luce un quadro che prima non avevo assolutamente notato. Era il ritratto di una fanciulla sul punto di maturare in donna. Diedi 30 una rapida occhiata al dipinto, e poi chiusi gli occhi. Perché facessi questo non seppi neppure spiegarmelo a tutta prima. Ma mentre le mie palpebre rimanevano così chiuse, esaminai mentalmente le ragioni che mi avevano indotto a chiuderle. Era stato un movimento impulsivo per guadagnare tempo alla mia riflessione, per esser certo che la vista non mi avesse ingannato, per calmare e indurre la mia fantasia ad una 35 più fredda e sicura contemplazione. Pochi attimi dopo fissavo nuovamente il quadro. Non potevo né volevo dubitare che ora ci vedessi bene; poiché i primi guizzi delle candele su quella tela sembravano aver dissipato lo stupore trasognato che stava insinuandosi nei miei sensi, e mi avevano richiamato improvvisamente alla vita desta. Il ritratto, l’ho già detto, era quello di una giovane. Si trattava della semplice testa e 40 delle spalle eseguite in quel che tecnicamente viene chiamato una maniera vignette10, e molto nello stile delle teste predilette di Sully11. Le braccia, il petto e persino l’estremità dei raggianti capelli si confondevano impercettibilmente nella vaga ma profonda ombreggiatura che formava lo sfondo dell’insieme. La cornice era ovale, riccamente dorata e filigranata alla moresca12. Come opera d’arte non si poteva trovare nulla 45 di più ammirabile del dipinto stesso. Ma non poteva essere stata né l’esecuzione dell’opera, né l’immortale bellezza del volto a produrre in me una così violenta ed improvvisa commozione. E ancor meno avrebbe potuto essere che la mia fantasia, riscossa dal suo dormiveglia, avesse scambiato la testa per quella di una persona vivente. Compresi subito che le peculiarità del disegno, della vignettatura, e della 50 cornice avrebbero istantaneamente dissipato un’idea di tal genere13, avrebbero persino impedito un suo momentaneo manifestarsi. Riflettendo intensamente su questi punti, rimasi, per un’ora forse, mezzo seduto e mezzo disteso, con gli occhi fissi sul ritratto. Infine, sicuro di aver individuato il vero segreto del suo effetto, mi lasciai ricadere nel letto. Avevo scoperto che la magia del dipinto risiedeva nell’espressione assolutamente 55 veristica, che dapprima mi aveva fatto sussultare, poi m’aveva confuso, soggiogato e sgomentato. Con profondo e reverente timore rimisi il candelabro nella sua posizione primitiva. Avendo così nascosto alla vista la causa della mia profonda agitazione, cercai ansiosamente il volume che trattava dei dipinti e della loro storia. Andando al numero che designava il ritratto ovale, vi lessi le vaghe e strane parole che seguono: 60 «Ella era una fanciulla14 della più rara beltà e la sua gaiezza non era inferiore alla sua grazia. E infausta fu l’ora in cui ella vide, e amò, e sposò il pittore. Lui, appassionato, studioso, austero, aveva già una sposa nella propria Arte15; lei, una fanciulla della più 10 vignette: si tratta di una tecnica pittori-

12 filigranata alla moresca: cesellata con

ca in uso nell’Ottocento, usata nella ritrattistica, caratterizzata dalla sfumatura della luminosità dal centro alla periferia dell’immagine, che si oscura o che va sfumando. 11 Sully: Thomas Sully (1783-1872), pittore americano di origine inglese, noto per la grazia dei suoi ritratti.

decori in stile arabeggiante. 13 un’idea di tal genere: è l’idea che si trattasse di una persona in carne e ossa. La particolare tecnica sfumata del disegno rendeva impossibile l’equivoco. 14 Ella era una fanciulla: inizia qui quella che, essendo inserita in una sorta di cata-

300 Ottocento 6 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

logo, avrebbe dovuto essere la descrizione tecnica delle qualità del dipinto. In realtà si apre un vero e proprio “racconto nel racconto” che si chiude solo con la conclusione del racconto stesso. 15 aveva… Arte: il pittore era completamente votato alla sua arte, che infatti la fanciulla considera presto una rivale.


rara beltà la cui gaiezza non era inferiore alla grazia; tutta luce e sorrisi, e gioconda come un cerbiatto; ella amava e aveva cara ogni cosa; odiava solo l’Arte che era sua 65 rivale; temeva solo la tavolozza e i pennelli e gli altri malvagi strumenti16 che la privavano della vista dell’amato. Perciò per questa dama fu una cosa terribile udir parlare il pittore del suo desiderio di fare un ritratto anche alla sua giovane sposa. Ma ella era umile ed obbediente, e posò docilmente per molte settimane nella oscura ed alta camera della torre dove la luce stillava sulla pallida tela soltanto dall’alto. Ma egli, il 70 pittore, si esaltò nel suo lavoro, che progrediva di ora in ora, e di giorno in giorno. Ed era costui uomo passionale e strano e lunatico, che si perdeva in fantasticherie17; cosicché egli non volle accorgersi che la luce che cadeva così spettrale in quella solitaria torre insidiava la salute e lo stato d’animo della sua sposa, che languiva visibilmente per tutti fuor che per lui. Eppure ella continuava a sorridere e a sorridere sempre 75 senza un lamento, perché ella vedeva che il pittore (che aveva un’alta fama), traeva fervido e bruciante piacere dalla propria opera e lavorava giorno e notte per ritrarre colei che tanto lo amava, ma che diventava ogni giorno più depressa e più debole. E in verità chi vedeva il ritratto parlava a bassa voce della sua rassomiglianza come di una possente meraviglia, e come una prova della capacità del pittore non meno grande 80 del suo profondo amore per colei ch’egli ritraeva così incomparabilmente bene. Ma alla fine, avvicinandosi l’opera alla sua conclusione, nessuno fu più ammesso nella torre; perché il pittore era diventato folle per l’ardore del suo lavoro, e raramente distoglieva gli occhi dalla tela, persino per guardare il volto di sua moglie. Egli non volle vedere che i colori che stendeva sulla tela erano attinti dalle gote di colei che 85 gli sedeva accanto. E quando molte settimane furono trascorse, e ben poco restava da fare, tranne una pennellata alla bocca e una sfumatura all’occhio, lo spirito della dama guizzò più vivo come la fiamma entro il bocciuolo della lampada. E allora la pennellata fu data, e allora la sfumatura fu collocata; e, per un attimo, il pittore restò in estasi davanti all’opera ch’egli aveva elaborato; ma nell’attimo successivo, mentre 90 ancora la fissava, lo colse un tremito e un pallore estremo, e colpito di terrore gridò a gran voce: “Questa in verità è la Vita stessa!” e si volse bruscamente a guardare l’amata. Ella era morta18!». 16 gli altri malvagi strumenti: gli altri oggetti usati dal pittore che la fanciulla considera malvagi. 17 Ed era... fantasticherie: spesso i perso-

naggi creati da Poe sono delle proiezioni dell’autore stesso, cui egli presta qualche tratto della sua personalità. 18 Ella era morta: il racconto si chiude

con questa esclamazione, senza alcun altro commento del primo narratore.

Analisi del testo La struttura binaria del racconto Il breve racconto è diviso nettamente in due parti (prima parte: rr. 1-60; seconda parte: rr. 60-92), che svolgono una diversa funzione nell’economia complessiva del racconto: la partizione è espressamente sottolineata dal cambiamento della voce narrante (dalla prima persona alla terza). Ci si aspetterebbe che la seconda parte svolga una funzione accessoria, contenendo semplici informazioni tecniche sul dipinto, ma l’autore ha costruito precedentemente troppi sottili elementi di suspense perché il lettore non si aspetti di leggere qualcosa di sorprendente. La prospettiva complessiva e la gerarchia delle parti del racconto dunque si ribalta: il “racconto nel racconto” diventa la narrazione principale, maggiormente portatrice di significato anche in rapporto alla natura fantastica del testo, mentre il primo racconto finisce per assolvere alla funzione di semplice cornice, quasi una citazione ostentata dei topoi del romanzo

L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 301


gotico, per altro espressamente evocato dal riferimento quasi ironico ai castelli della signora Radcliffe, maestra indiscussa del gotico (rr. 1-5).

Dalla citazione del gotico alla gara con il modello Il primo racconto, narrato in prima persona, con l’arrivo del narratore ferito al misterioso castello, potrebbe essere interpretato come una sorta di omaggio al racconto gotico, di cui colleziona tutti gli elementi, quasi in un convenzionale catalogo: il castello abbandonato e diroccato, gli inevitabili trofei araldici alle pareti, il candelabro, la fatidica ora del soprannaturale, mezzanotte, quando il narratore scorge per caso il misterioso dipinto… Ma probabilmente la stessa ideazione fondamentale del racconto è debitrice della Radcliffe e dei suoi Misteri di Udolpho (anche nel romanzo dell’autrice inglese l’eroina scopre infatti in una stanza segreta un quadro coperto da un drappo nero, oltre il quale le si presenta un’orrenda visione). Il secondo racconto allora potrebbe quasi essere visto come una specie di gara con il modello, in cui Poe dimostra la sua indiscussa superiorità di scrittore capace di costruire una narrazione perfettamente risolta e di alta qualità pur nella brevità. Entro il “racconto nel racconto” Poe rivitalizza un motivo narrativo tradizionale del quadro vivente, inserendo anche componenti autobiografiche: il demone dell’arte, che porta a ignorare la realtà stessa, i tratti della personalità dell’artista, in cui si riconosce Poe stesso, l’eterea figura femminile in cui la vita si contamina con la morte, personaggio ricorrente nella sua narrativa.

L’enigmaticità come cifra distintiva del fantastico Il racconto di Poe costituisce un esempio canonico di racconto fantastico per la componente dell’enigmaticità, l’oscillazione tra verità e fantasia, che lo caratterizza. La storia narrata nel secondo racconto non è accettabile razionalmente, ma l’autore la consegna al lettore senza alcun commento suo e neppure del narratore di primo grado. Del resto la sospensione del giudizio (è successo davvero?) è accentuata dalle precarie condizioni fisico-mentali del primo narratore (si dice che è ferito e prossimo al delirio), il che fa legittimamente dubitare della sua credibilità (davvero il dipinto sembrava “vero”? E davvero nella descrizione del misterioso quadro c’era scritta la drammatica vicenda narrata o se l’è immaginata il primo narratore?). In mancanza di un epilogo con commento, il lettore è costretto a credere all’incredibile racconto, ritrovandosi nella condizione prevista dal patto narrativo del fantastico.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale circostanza fa scoprire al narratore il singolare dipinto? 2. Che cosa lo colpisce in esso? 3. Qual è il motivo del turbamento del protagonista? 4. In quale momento si inserisce il secondo racconto e in quale testo il primo narratore lo legge? TECNICA NARRATIVA 5. Nel racconto si alternano due piani narrativi ben distinti: individua le due parti e rifletti sugli effetti generati dal cambiamento della voce narrante. ANALISI 6. Quali sono i tratti che caratterizzano la figura del pittore? Hanno a che fare con il drammatico esito della vicenda narrata? STILE 7. Metti in luce nel brano gli elementi tipici del codice gotico e i tratti che invece ne fanno un’opera originale.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 8. Confronta il ➜ D1 OL (in cui viene descritto l’arrivo di Emily al castello di Udolpho) con la prima parte del racconto di Poe. Individua gli elementi gotici che Poe ha voluto deliberatamente inserire nel suo racconto.

online T2 Edgar A. Poe

La poetica dell’effetto e dell’eccesso La maschera della Morte Rossa

302 Ottocento 6 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

online D1 Ann Radcliffe Un castello misterioso I misteri di Udolpho


4 Il fantastico visionario di Hoffmann Il racconto fantastico in Germania Rispetto all’Inghilterra, in Germania (e poi anche in Francia) il racconto fantastico scaturisce da una matrice culturale più complessa, a cui è necessario fare riferimento per poterne comprendere le testimonianze. È dall’idealismo filosofico, che metteva in primo piano la partecipazione dell’io alla vita cosmica dello spirito, che i narratori tedeschi (e in particolare Hoffmann) traggono ispirazione per scandagliare il mondo interiore. Essi condividono l’idea che ogni vero artista sia una sorta di veggente, che la poesia scaturisca dall’inconscio, dalla nostra interiorità più profonda: discendere in questa dimensione ci riporta all’armonia con il tutto. Una delle figure più importanti della letteratura romantica tedesca, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822), parte da questi presupposti e scrive racconti dove circolano personaggi visionari ed emerge il tema del sogno, spesso in forma di incubo.

Horst Janssen, Der Doppelgänger Ernst Theodor Wilhelm (alias Amadeus) Hoffmann, disegno, 1974 (Amburgo, Verlag und Galerie St. Gertrude).

E.T.A. Hoffmann Nato a Königsberg nel 1776, Hoffmann rimane presto orfano e viene allevato rigidamente da uno zio, che lo avvia alla carriera giuridica; nel 1807 si trasferisce a Berlino, dove frequenta tra gli altri il filosofo Fichte e lo scrittore Adelbert von Chamisso, la cui Storia straordinaria di Peter Schlemihl (1814; è la storia dell’uomo che vendette la sua ombra al diavolo) lo influenza profondamente, soprattutto per la presenza del tema del “doppio”. Questo tema sarà ricorrente in Hoffmann: «Mi sembra di vedere il mio io attraverso una lente che lo rifranga e moltiplichi». Del resto egli stesso era un uomo sdoppiato o addirittura moltiplicato: austero uomo di legge nella vita pubblica, la sua vera identità era quella dell’artista sregolato e geniale (fu musicista e pittore, oltre che scrittore). Interessato ai fenomeni del magnetismo e dell’ipnosi, lettore di libri mistici ed esoterici, Hoffmann scoprì l’inconscio, la vita “notturna” dell’io, a cui nella sua concezione anche l’arte apparteneva, molti anni prima della rivoluzione freudiana. Non per caso dunque Freud farà una celebre lettura del più famoso racconto di Hoffmann: L’Orco Insabbia (➜ T3 ) offrì a Freud lo spunto più rilevante per la sua teoria del “perturbante”, cioè la funzione specifica che egli attribuiva al fantastico. Il mondo rappresentato da Hoffmann è sempre sospeso fra realtà e sogno, domina nei suoi racconti e romanzi una realtà enigmatica, sfuggente, frantumata. I racconti e i romanzi La prima raccolta di Hoffmann è Frammenti fantastici alla maniera di Callot (1813), entro la quale spicca La storia del riflesso perduto, incentrata sui temi del doppio e dello specchio (che ha larga fortuna nella letteratura fantastica e che troverà molteplici figurazioni in Pirandello, non a caso buon conoscitore della cultura tedesca). Altre raccolte furono Racconti notturni (1817) e I confratelli di San Serapione (1819); Hoffmann scrisse anche romanzi, tra i quali ricordiamo Gli elisir del diavolo (1815), dalla trama molto intricata e in cui torna il tema del doppio, e Punti di vista e considerazioni del gatto Miur (1822) che dà voce al gusto del “grottesco” diffuso nella cultura romantica tedesca. L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 303


L’opera di Hoffmann fu tradotta in varie lingue ed esercitò una grande influenza su scrittori come Puškin e Dostoevskij, inducendo all’esplorazione dei sotterranei della psiche. L’Orco Insabbia Il racconto che è considerato il capolavoro di Hoffmann e che meglio esprime le caratteristiche della sua arte è Der Sandmann (letteralmente “L’uomo della sabbia”, ma il titolo è tradotto in vario modo: da “L’Orco Insabbia”, appunto, a “Il mago sabbiolino”), pubblicato nei Racconti notturni nel 1817). Il titolo allude alla figura paurosa, presente nelle fiabe, di un orco che getta sabbia negli occhi dei bambini che non si vogliono addormentare. Al centro dell’intera vicenda c’è la figura paurosa dell’Orco Insabbia, che ossessiona fin da bambino il protagonista, Nataniele. Un giorno crede di riconoscere l’Orco Insabbia nel sinistro avvocato Coppelius che, in segreto, collabora con il padre a esperimenti di alchimia. Nel corso di un ennesimo esperimento chimico si verifica un’esplosione e il padre di Nataniele muore. Della sua morte il ragazzo incolpa il perfido Coppelius, che scompare misteriosamente. Anni dopo, durante gli studi universitari, Nataniele riceve la visita di un ottico ambulante italiano, Giuseppe Coppola, che vuole vendergli degli occhiali, e il giovane crede di riconoscervi l’orrendo Coppelius-Orco Insabbia dei suoi incubi infantili. Crede allora che un oscuro destino incomba su di lui, ma la fidanzata Clara cerca di tranquillizzarlo. Un giorno Nataniele compra da Coppola un cannocchiale con il quale osserva una ragazza nella casa di fronte alla sua, che trascorre lunghe ore immobile alla finestra: si tratta di Olimpia, figlia del professore italiano di fisica Spallanzani, che apparentemente la tiene segregata in casa. Una sera, durante una festa da ballo da Spallanzani, Nataniele si innamora perdutamente della fanciulla, ammaliato dai suoi occhi vivissimi, nonostante essa ripeta meccanicamente sempre le stesse sillabe. In realtà Olimpia è un automa, costruito da Spallanzani e in cui Coppola ha inserito gli occhi. Quando scopre che Olimpia è un automa, Nataniele sprofonda nella follia. Si getta dalla torre del municipio e si sfracella nella piazza. Tra la folla accorsa c’è anche l’avvocato Coppelius, l’Orco Insabbia della sua infanzia. Le tecniche narrative Dal punto di vista delle tecniche narrative il racconto ha un carattere multiprospettico: la prima parte è riconducibile al genere epistolare (è costituita dalle lettere tra il protagonista Nataniele e l’amico Lotario, e tra Nataniele e Clara, la sua fidanzata e sorella di Lotario); subentra poi un narratore esterno, il quale ha deciso, per avvalorare la strana storia che narra, di rendere note le lettere dopo la morte tragica di Nataniele. La scelta narrativa è in relazione alla visione che Hoffmann aveva della realtà: anche a prescindere dall’irrompere di eventi soprannaturali, è la realtà stessa a essere enigmatica e sfuggente («nulla v’è di più stravagante e pazzesco della vita reale», osserva a un certo punto della storia il narratore esterno, rivolgendosi al lettore).

Illustrazione di un incubo tratta da George du Maurier, A legend of Camelot, Harper & Brothers, 1898.

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Ernst Theodor Amadeus Hoffmann

T3

L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà

LEGGERE LE EMOZIONI

L’Orco Insabbia E.T.A. Hoffmann, L’Orco Insabbia, in Romanzi e racconti, a cura di C. Pinelli, trad. di A. Spaini, Einaudi, Torino 1969

Riproduciamo un passo fondamentale della storia (all’inizio del racconto), compreso nella prima lettera di Nataniele a Lotario, in cui Nataniele rievoca i suoi terrori infantili legati alla figura di Orco Insabbia-Coppelius.

Nataniele a Lotario […] Fuori dell’ora di pranzo, io e i miei fratelli e le mie sorelle vedevamo raramente mio padre durante la giornata. Può darsi che fosse molto occupato per il suo lavoro, ma dopo cena, che secondo una vecchia usanza ci riuniva già alle sette di 5 sera, andavamo tutti insieme con la mamma nella camera di lavoro di nostro padre e ci sedevamo intorno a una tavola rotonda. Il babbo fumava la pipa e beveva intanto un bel bicchiere di birra. Spesso ci raccontava molte storie straordinarie e si entusiasmava tanto che lasciava spegnere la pipa; allora io avevo l’incarico di riaccendergliela con un pezzo di carta infiammata, e questo era senza dubbio lo 10 spasso migliore della serata. Ma talvolta ci dava anche da guardare le immagini di qualche libro e lui stava sdraiato nella sua poltrona muto ed immobile mandando in giro grosse nuvole di fumo, sicché ben presto tutti quanti eravamo immersi in mezzo alla nebbia. In quelle serate la mamma era molto triste e appena l’orologio batteva le nove, incominciava a dire: – Su, bambini, a letto, a letto! Viene l’Orco 15 Insabbia, l’ho bell’e visto –. E davvero ogni volta sentivo qualcosa che saliva su per le scale con un passo lento e pesante, che rimbombava; non poteva essere altri che l’orco. Una volta che quei passi lenti, quel rimbombo erano particolarmente orribili chiesi alla mamma che ci portava via: – Oh, mamma chi è questo cattivo Orco Insabbia che ci fa sempre andare via dal babbo? Com’è fatto? – Ma non c’è nessun 20 orco, piccolo mio, – rispose la mamma; – quando dico: viene l’Orco Insabbia, vuol dire solo che vi è venuto il sonno e non potete tenere più gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse buttato la sabbia in viso. La risposta della mamma non mi persuase; anzi, nel mio animo infantile si radicò l’idea che la mamma dicesse che l’orco non esisteva solo perché non avessimo paura 25 di lui; l’avevo sempre sentito salire le scale. Tutto curioso di sapere qualcosa di più preciso di questo Orco Insabbia e dei rapporti che aveva con noi bambini, chiesi finalmente alla vecchia che faceva da balia alla mia sorellina più piccola che razza di uomo fosse l’Orco Insabbia. – Ehi, Tanielino, – mi rispose, – come mai non lo sai? È un uomo cattivo; viene 30 dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro pugni di sabbia negli occhi, e glieli fa cadere insanguinati fuori dalla testa; poi li mette in un sacco e li porta nella Mezza Luna1 per darli da mangiare ai suoi bambini. Stanno tutti nel nido e hanno il becco a punta come le civette; e così beccottano gli occhi dei bambini maleducati. 35 Dentro di me si formò così un quadro orribile di questo feroce Orco Insabbia; e quando la sera sentivo il suo passo pesante2 per le scale, tremavo dalla paura e dallo

1 nella Mezza Luna: evidentemente, un luogo di fantasia.

2 sentivo… pesante: il passo pesante è già diventato con sicurezza, nell’imma-

ginazione turbata del bambino, il passo dell’orco.

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spavento. La madre non mi poteva levare altro di bocca che questo balbettato fra le lacrime: – L’Orco Insabbia, l’Orco Insabbia! – Poi scappavo subito nella camera da letto e per tutta la notte ero torturato dalla terribile apparizione dell’orco. 40 Oramai ero già abbastanza grandicello per comprendere che quello che mi aveva raccontato la bambinaia dell’orco e del nido dei suoi bambini nella Mezza Luna, non poteva essere tutto vero; ma lo stesso l’Orco Insabbia era rimasto per me uno spettro terribile ed ero preso dal terrore, dallo spavento quando lo sentivo non solo salire su per le scale, ma aprire anche violentemente la porta di mio padre e penetrare nella 45 sua stanza. Talvolta restava a lungo senza venire; poi all’improvviso ritornava per parecchie sere di seguito. Questa storia durò per anni interi ed io stesso non potei mai abituarmi a questi rumori paurosi; e l’immagine del feroce Orco Insabbia non impallidì dentro di me. Anzi la mia fantasia incominciò ad occuparsi sempre più di quello che poteva venire a fare da mio padre. Ma un timore invincibile mi tratteneva 50 dal chiedere a mio padre una spiegazione; e invece con gli anni nasceva sempre più forte in me il desiderio di svelare da me il mistero e soprattutto di vedere coi miei occhi l’orco favoloso. L’Orco Insabbia mi aveva messo sulla via delle fantasie meravigliose, straordinarie che così facilmente s’impossessano degli animi infantili. Non c’era nulla che mi piacesse di più di ascoltare o leggere storie paurose di folletti, 55 di streghe, di pollicini3, e così via; ma in testa a tutti stava sempre l’Orco Insabbia che non mi stancavo mai di disegnare nella figura più stravagante e repulsiva4 sugli armadi e sulle pareti col gesso o col carbone5. Quando ebbi compiuto dieci anni la madre mi tolse dalla stanza dove dormivano gli altri fratelli e mi mise in una cameretta che dava sul corridoio, vicino alla stanza 60 di mio padre. Ancora, quando l’orologio suonava le nove e lo sconosciuto si faceva sentire sulle scale di casa, dovevamo andarcene in fretta. Stando nella mia cameretta, sentivo come entrava da mio padre, e poco dopo sembrava che per la casa si diffondesse un sottile vapore, con un profumo curioso. Sempre più, assieme alla curiosità, cresceva il desiderio di fare in un modo qualunque la conoscenza dell’Orco 65 Insabbia. Spesso, quando la mamma se n’era andata, scivolavo rapidamente dalla mia stanza, nel corridoio, ma non potevo scoprire nulla; perché l’orco era regolarmente già scomparso dietro la porta6 quando raggiungevo il posto dal quale l’avrei potuto vedere. Finalmente, spinto da una smania irresistibile, decisi di nascondermi dentro la stanza di mio padre e di aspettare là l’arrivo dell’orco. 70 Una sera, dal silenzio di mio padre, dalla tristezza di mia madre7, compresi che l’Orco Insabbia sarebbe venuto; finsi perciò di essere molto stanco, già prima delle nove me ne andai dalla stanza e mi nascosi in un angolo del corridoio, vicino alla porta. Udii scricchiolare la porta di casa; nell’androne un passo lento, pesante, rimbombante si diresse verso la scala. La madre mi passò in fretta davanti portando via 75 gli altri bambini. Adagio – adagio apersi la porta dello studio di mio padre. Come sempre sedeva immobile e silenzioso volgendo le spalle alla porta; non si accorse di

3 pollicini: gnomi. 4 repulsiva: terrificante. 5 ma in testa… col carbone: l’Orco Insabbia sta diventando a tutti gli effetti una fissazione maniacale per il bambino. 6 l’orco era… dietro la porta: nonostante Nataniele abbia già dieci anni e quindi

un’età, come lui stesso asserisce, in cui non si crede più ciecamente a quanto raccontano le favole, tuttavia continua (e ciò appare strano) a credere all’esistenza dell’orco e a identificarlo con lo sconosciuto visitatore serale del padre. 7 tristezza di mia madre: già all’inizio

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del racconto il narratore ha accennato alla tristezza della mamma nelle serate in cui era prevista la visita dello sconosciuto. La ragione di tale tristezza non è però svelata e contribuisce ad accrescere la suspense.


nulla. In un lampo fui dentro e nascosto dalla tendina appesa davanti ad un armadio aperto che stava accanto alla porta e nel quale erano appesi i vestiti di mio padre. I passi rimbombavano, sempre più vicini, sempre più vicini… si sentiva nel corrido80 io qualcuno che tossicchiava, trascinava i piedi e brontolava in un modo bizzarro. Il cuore mi tremava dalla paura e dall’attesa... Vicino, proprio vicino alla porta, un ultimo passo più pesante un colpo forte sulla maniglia… la porta si spalanca con grande fracasso. Sforzandomi di farmi coraggio sporsi prudentemente il capo dalla tenda. L’Orco Insabbia sta in mezzo alla stanza in piedi davanti a mio padre; la luce 85 della lampada lo colpisce in viso. L’orco, il terribile Orco Insabbia è il vecchio avvocato Coppelius8, che talvolta veniva a pranzo da noi a mezzogiorno. Ma la figura più orribile non mi avrebbe potuto incutere più profondo spavento di questo Coppelius. Immaginati un uomo alto di statura e largo di spalle, con una grossa testa informe, il viso giallastro, due sopracciglia grigie e arruffate sotto le quali scintilla un paio di 90 occhi pungenti, verdi come gli occhi di un gatto, un grande naso che pende sopra il labbro. La bocca storta si spalanca spesso per una risata odiosa; e allora sulle guance gli si accendono due macchie rosse ed uno strano sibilo gli esce dai denti stretti. Coppelius arrivava sempre con una giacca di taglio antico, color grigio cenere, panciotto e pantaloni uguali, calze nere e scarpe con una piccola fibbia. Aveva un 95 parrucchino che gli arrivava a malapena a metà della testa; le ciocche appiccicate sopra due grandi orecchie rosse, ed un codino attorcigliato e spettinato che gli si alzava sopra la nuca scoprendo la fibbia d’argento che sosteneva la cravatta increspata9. Tutta la sua figura era repellente ed odiosa, ma per noi bambini ci facevano soprattutto senso i grossi pugni nodosi, coperti di pelo, tanto che non potevamo 100 più soffrire una cosa che egli avesse toccata. Lui se n’era accorto e si diveniva a toccare con un pretesto o con l’altro un pezzettino di torta o un frutto dolce che la madre ci aveva messo di nascosto sul piatto, e noi allora con gli occhi pieni di lacrime, pieni di nausea e di spavento, non potevamo più mangiare il dolce che ci avrebbe dovuto rallegrare. E faceva lo stesso anche quando nei giorni di festa mio 105 padre ci versava un bicchierino di vino dolce. Ci passava in fretta sopra il pugno o addirittura avvicinava il bicchiere alle labbra bluastre, e rideva diabolicamente di noi che potevamo mostrare il nostro dispetto solo piangendo sottovoce. Aveva l’abitudine di chiamarci le bestioline, e quando c’era lui non potevamo pronunciare una parola e maledivamo perciò quel vecchio brutto e antipatico che ci guastava 110 di proposito e con intenzione anche il più piccolo divertimento. Pareva che anche la mamma odiasse come noi l’insopportabile Coppelius; perché appena si faceva vedere, la sua allegria, il suo carattere gaio e spensierato cedeva il posto ad un umore triste e tetro. Di fronte a lui mio padre invece si comportava come se fosse un essere superiore di cui bisognava sopportare gli sgarbi e che bisognava tenere in 115 tutti i modi di buonumore. Bastava che facesse un piccolo cenno e subito venivano preparati i suoi piatti preferiti o portate in tavola bottiglie di prezzo10. Non appena vidi questo Coppelius, nella mia anima nacque con un brivido la certezza che nessun altro che lui poteva essere l’Orco Insabbia; ma ora l’orco non era più per me quello spauracchio della fiaba della bambinaia, che portava da mangiare 8 L’orco… il vecchio avvocato Coppelius: il narratore ha dato un volto ai suoi terrori: l’aver riconosciuto il vecchio avvocato amico di famiglia avrebbe dovuto dissi-

parli, ma non è così.

9 increspata: di un tessuto fittamente pieghettato o lavorato a piccole ondulazioni.

10 Di fronte… di prezzo: la strana soggezione del padre al sinistro avvocato introduce un nuovo elemento misterioso; di prezzo “pregiate”.

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occhi di bambini alla sua nidiata di civette nella Mezza Luna, no, era divenuto un mostro odioso e spettrale che dovunque si presenta porta con sé dolori, angosce, eterna rovina. Ero come incantato. Esponendomi al rischio di essere scoperto e, come m’immaginavo, severamente punito, rimasi dov’ero, spiando con la testa fuori della tenda. Mio padre accolse Coppelius con solennità. – Su, al lavoro! – esclamò 125 questi con la sua voce rauca, imperiosa, e si levò la giacca. Senza dir nulla e col volto imbronciato anche mio padre si tolse la veste da camera e tutti e due indossarono due lunghi camici neri. Dove li avessero presi, non l’avevo visto. Mio padre spalancò i battenti di un grande armadio; ma vidi che quello, che per tanto tempo avevo creduto che fosse un armadio, era invece un grande vano nero aperto nel 130 muro, nel quale si trovava un focolare. Coppelius vi si avvicinò e ben presto una fiamma azzurra incominciò a crepitare sul fornello. In giro c’era ogni sorta di arnesi e di attrezzi strani ed insoliti. Oh Dio! Quando il mio vecchio padre si chinò sul fuoco, il suo volto mi parve completamente trasformato! Un dolore orribile, convulso pareva che avesse sconvolto 135 i suoi lineamenti dolci e sinceri trasformandoli in un’orribile maschera diabolica. Assomigliava a Coppelius. Questi brandiva un paio di tenaglie roventi e toglieva fuori da dense nuvole di fumo masse di metallo incandescenti che batteva poi furiosamente col martello. Mi sembrava che tutto all’intorno comparissero volti umani, ma senza occhi… con orribili, profonde occhiaie nere, invece degli occhi. – Occhi 140 ci vogliono, occhi ci vogliono! – gridò Coppelius con una voce profonda, rimbombante. Lanciai un urlo, in preda al più terribile spavento e ruzzolai fuori del mio nascondiglio, sul pavimento. Coppelius mi afferrò immediatamente. – Bestiolina… bestiolina! – gracidò con la sua voce fioca digrignando i denti, mi sollevò da terra e mi buttò sul focolare tanto 145 che le fiamme incominciarono a bruciarmi i capelli. – Ecco che abbiamo trovato gli occhi, gli occhi… un bel paio d’occhi di bambini –. Sussurrava Coppelius come un pazzo e con le mani toglieva dalle fiamme grani di una materia incandescente che mi voleva gettare negli occhi. Ma mio padre alzò le mani supplicando e gridando: – Maestro, maestro, lasciate gli occhi al mio Nataniele, lasciateglieli! – 150 Coppelius scoppiò in una risata stridula ed esclamò: – Che si tenga pure i suoi occhi e che versi la sua parte di lacrime nella vita; ma almeno studieremo il meccanismo delle mani e dei piedi. – E così dicendo mi afferrò con tanta forza che le giunture mi scricchiolavano, mi svitò le mani ed i piedi, riappiccicandomeli ora qua ora là. – Non stanno bene in nessun posto: era meglio come era prima. Il vecchio ha saputo 155 fare le cose! – Brontolava e sussurrava così il vecchio Coppelius, ma d’un tratto fu circondato da una grande nuvola nera; una terribile convulsione mi scosse le ossa ed i nervi, non sentii più nulla. Sentii un alito dolce e tiepido sul volto; mi 160 destai come da un sogno mortale: la mamma stava chinata su di me. – È ancora qui l’Orco Insabbia? – balbettai. – No, bambino mio, è andato via da molto tempo; non ti farà più nessun male! – Così 165 disse la mamma baciando ed accarezzando il suo caro figliolo ritrovato. 120

E.T.A. Hoffmann, Il padre di Nathanael, Coppelius e Nathanael nascosto dietro la tenda, disegno per un’edizione de L’Orco Insabbia, 1823.

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Analisi del testo Un’intuizione pre-psicanalitica Alla base dell’inquietante racconto di Hoffmann sta sicuramente l’interesse dello scrittore tedesco per le patologie psichiche e, in particolar modo, quella che potremmo definire una vera e propria intuizione pre-psicanalitica: l’idea (che fa da elemento strutturante l’intreccio dell’intera opera) secondo cui le angosce infantili possono in vario modo condizionare la vita adulta. Quello che viene raccontato nel brano, attraverso l’esclusivo punto di vista di Nataniele, è un “trauma” infantile: esso non viene rievocato dal protagonista, ormai adulto, con distacco razionale (nonostante la dichiarazione «Ormai ero abbastanza grandicello per comprendere che quello che mi aveva raccontato la bambinaia dell’orco e del nido dei suoi bambini nella Mezza Luna, non poteva essere tutto vero»), ma con la stessa turbata partecipazione emotiva, con lo stesso terrore di quando lo visse, a testimonianza del peso che quel trauma continua ad avere nella sua vita. Lo dimostra il passaggio brusco nella narrazione di ciò che accadde (o che il narratore ha creduto accadesse) dal tempo passato («Udii scricchiolare... si diresse... apersi la porta...») al presente, che attualizza il turbamento e la paura vissuti allora («la porta si spalanca... l’Orco Insabbia sta in mezzo alla stanza... L’orco, il terribile Orco Insabbia è… il vecchio avvocato Coppelius»). La scoperta che i passi pesanti uditi tante volte per le scale appartenevano all’avvocato Coppelius non porta, come sarebbe logico immaginare, al dileguarsi della paurosa figura dell’orco ma, al contrario, alla convinzione (evidentemente del tutto irrazionale, anche se il narratore la presenta come “naturale” e ovvia) che l’orco temuto altri non fosse che il vecchio, brutto e maligno, che frequentava la famiglia del protagonista. La spaventosa descrizione del vecchio, sempre condotta attraverso lo sguardo infantile di Nataniele (rr. 88-98), avvalora ulteriormente l’identificazione, assurda per la ragione ma plausibile per la logica infantile.

Un incubo infantile? Il seguito del racconto ha i tratti scoperti dell’incubo: l’irrealistica metamorfosi dell’ambiente (l’armadio ben noto al protagonista diventa una fucina di streghe, con tanto di fuoco acceso) e della cara figura paterna (anch’egli diventa simile al demoniaco personaggio di Coppelius), la volontà di Coppelius-orco di strappare gli occhi di Nataniele, dopo averlo scoperto a spiare la scena, il salvataggio messo in atto disperatamente dal padre, il ripiegare della ferocia di Coppelius sulle gambe e braccia di Nataniele, trasformato in una sorta di bambola dagli arti artificiali... tutto, compresa la chiusa, in cui Nataniele è tranquillizzato dalla madre con dolcezza, sembra confermare che si è trattato di un incubo infantile, ma il narratore adulto non offre alcun sostegno a questa interpretazione, anzi assume del tutto il punto di vista del bambino.

Il filo conduttore degli occhi Anche solo nella parte di testo che abbiamo antologizzato, si può notare il ruolo, evidentemente centrale a livello simbolico, che nel racconto di Hoffmann ha il riferimento agli occhi, in primo piano fin dall’inizio: se la mamma dà di fatto un’interpretazione “razionalizzante” della favola dell’orco (nessuna sabbia viene gettata negli occhi dei bambini, non c’è nessun orco a farlo, ma è il sonno a far bruciare loro gli occhi come se si trattasse di sabbia), la balia invece nella sua versione terrorizzante (e che per il piccolo Nataniele diventa quella vera) parla di occhi che cadono insanguinati e che vengono beccati dai figli dell’orco. Gli occhi tornano in primo piano nella descrizione di Coppelius-orco («un paio di occhi pungenti, verdi come gli occhi di un gatto»), figure senza occhi appaiono tra le nuvole di fumo nella stanza in cui il padre e Coppelius compiono strani esperimenti, e sono gli occhi di Nataniele che l’orco Coppelius, proprio come quello della fiaba, vuole strappare. Nel seguito della vicenda gli occhi (e ciò che si riferisce comunque alla vista) avranno grande importanza: dagli occhiali che Coppola vuole vendere al protagonista, al cannocchiale, sempre acquistato da Coppola, con cui Nataniele scorge la fanciulla-automa che lo ammalierà proprio con la dolcezza dei suoi occhi, fino al grido finale con cui Nataniele si suicida, con le stesse parole «belli occhi, belli occhi» con cui Coppola reclamizzava i suoi binocoli e occhiali.

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Il “perturbante” e la lettura psicanalitica di Freud Questa rilevanza non è certo passata inosservata a Sigmund Freud, che proprio su di essa ha incentrato l’analisi psicanalitica del racconto di Hoffmann inserita nel suo saggio Il perturbante (1919), ovvero sui risvolti inconsci del sentimento di angoscia e paura suscitato da certi racconti, come appunto quello di Hoffmann. Perturbante traduce il tedesco Unheimlich, che significa “inconsueto, non familiare”, e, nell’accezione in cui tecnicamente Freud usa il termine, «ciò che doveva rimanere segreto ma è venuto alla luce»; vale a dire, aspetti inconsci che sono stati “rimossi” (in psicanalisi, accantonati, dimenticati dalla coscienza), e il cui emergere quindi ci turba, producendo un senso di angoscia. Freud incentra la sua analisi del racconto di Hoffmann, alla quale facciamo qui solo qualche sommario riferimento, proprio sul tema ossessivo degli occhi. Il racconto terrificante della governante ha innescato nel bambino Nataniele una tremenda angoscia: apparentemente si tratta della paura di perdere la vista, ma lo studio delle fantasie di pazienti, dei sogni e dei miti condotto da Freud evidenzia come la perdita degli occhi nel linguaggio simbolico sia un equivalente del timore dell’evirazione, cui a sua volta è connesso il tema del rapporto irrisolto con la figura paterna. Un vero e proprio “complesso” in senso psicanalitico, dal quale, nella lettura freudiana, scaturisce l’identificazione di Coppelius (significativamente associato al padre nella scena dell’incubo) nell’Orco Insabbia della favola e l’“ossessione” degli occhi strappati.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Presenta in sintesi il racconto (max 20-25 righe). COMPRENSIONE 2. Chi è l’avvocato Coppelius? Per quale ragione spesso raggiungeva di sera il padre di Nataniele? 3. Spiega per quali eventi e associazioni mentali Nataniele arriva a identificare Coppelius con l’Orco Insabbia. TECNICA NARRATIVA 4. Ai fini del carattere fantastico della narrazione è rilevante che essa sia condotta in prima persona? Cerca di spiegare che tipo di narratore (attendibile/inattendibile) è Nataniele. 5. La parte di racconto che abbiamo letto testimonia in modo esemplare le tecniche narrative proprie del racconto fantastico, l’ambiguità magistralmente creata dall’autore tra realtà e fantasia. Rileggi l’introduzione e rileva nel testo la presenza di alcuni procedimenti della narrazione fantastica. ANALISI 6. Rintraccia nel testo i riferimenti al tema degli occhi e indicane il significato in rapporto al contesto. 7. Alle rr. 85-100 il narratore si dilunga ampiamente nella descrizione dettagliata di Coppelius. Evidenziane gli elementi più importanti ai fini del ruolo esercitato da Coppelius in questo passo e nell’intero racconto. 8. Ti sembra rilevante la metamorfosi che, per lo meno agli occhi di Nataniele, subisce il volto del padre alle rr. 133-136?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 9. In un testo di circa 10 righe, descrivi l’interpretazione “razionalizzante”, e in sostanza rassicurante, fatta dalla mamma sulla figura dell’orco e la versione della balia e poi mettile a confronto indicando la differenza sostanziale tra le due. 10. La vita di un adolescente è costellata di “paure razionali”– legate alle aspettative per un futuro incerto, spesso, “regolato” dagli errori degli adulti -, ma anche da paure irrazionali, che nascono senza una reale motivazione. Tu come vivi il rapporto con l’irrazionale, con l’ignoto, con il perturbante?

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5 Il tema del vampiro Nella letteratura fantastica è assai diffusa l’infrazione del confine tra morte e vita, che si iscrive nel più generale interesse per il mistero e l’occulto. Ne deriva il genere narrativo delle ghost stories, le “storie di fantasmi”, che ebbe straordinaria fortuna soprattutto in Inghilterra e a cui si dedicano anche grandi narratori come Charles Dickens (1812-1870). Dalla trasgressione dell’opposizione morte-vita, dal superamento del confine che dovrebbe separare il mondo dei vivi da quello dei defunti nasce anche la figura inquietante del vampiro, morto-vivo che si alimenta del sangue delle sue vittime riducendole in suo potere. Si tratta inizialmente di un tema folklorico-popolare di cui la letteratura fantastica si impadronisce, elevandolo a dignità letteraria, a cominciare da John William Polidori (Il Vampiro, 1819); anche il grande Hoffmann inserisce una storia di vampirismo nella raccolta I fratelli di san Serapione (1828). Celebri racconti di vampiri sono La morta innamorata (1836 ➜ T4 OL) di Théophile Gautier, Carmilla dell’irlandese Le Fanu (nella raccolta In uno specchio oscuro, 1872) fino al celeberrimo Dracula (1897) di Bram Stoker. Da quest’ultimo testo prevalentemente prende le mosse poi la fortuna cinematografica del tema del vampiro: dal capolavoro dell’espressionionline smo tedesco Nosferatu (1922) al Vampyr di C.Th. Dreyer (1932) T4 Théophile Gautier Il mistero di Clarimonda si svela fino alla vera e propria proliferazione del tema nella produzioLa morta innamorata ne cinematografica successiva.

6 Frankenstein: la modernità come mostro Nel 1818 Mary Godwin Shelley (1797-1851), figlia del filosofo William Godwin e della scrittrice proto-femminista Mary Wollstonecraft, giovane sposa del poeta inglese Percy Bysshe Shelley, pubblica un romanzo “nero” che avrà grande successo: Frankenstein, o il Prometeo moderno (Frankenstein or The Modern Prometheus). Il romanzo nasce da un abbozzo scritto nell’estate del 1816, in un tempo brevissimo, su proposta di Byron (che Percy Bysshe e Mary avevano seguito a Ginevra) che aveva organizzato una specie di gara fra chi, fra gli amici, fosse riuscito a scrivere il racconto più terrorizzante. Interessante è anche un altro meno noto romanzo della Shelley, scritto alcuni anni dopo la drammatica morte del marito: L’ultimo uomo (The Last Man, 1826), che si può considerare uno dei primi esempi del genere fantascientifico, in cui la scrittrice inglese immagina che, alla fine del XXI secolo, una terribile pestilenza provochi la morte di tutto il genere umano, risparmiando appunto un solo uomo. Una pluralità di voci narranti Frankenstein è scritto in prima persona, ma l’enunciazione è affidata all’alternanza di ben tre voci narranti: quella del capitano Robert Walton, che comunica per lettera alla sorella di aver raccolto sulla sua nave, durante un viaggio verso il Polo Nord, un singolare individuo (è Victor Frankenstein), che gli ha raccontato una storia incredibile, che viene riferita fedelmente. Il secondo narratore è dunque Victor Frankenstein, il giovane scienziato che narra il suo esperimento. A un certo punto nel racconto si inserisce però anche la “voce” del mostro, il quale narra come da buono e mite sia potuto diventare capace di far del male al suo stesso creatore.

L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 311


La pluralità delle voci narranti probabilmente si spiega con la volontà della Shelley di costruire sul tema centrale del romanzo un discorso problematico e aperto a più di una interpretazione.

online

Per approfondire La fortuna del mito di Prometeo

Il tema centrale: il fallimento dell’onnipotenza della scienza Il romanzo di Mary Shelley si iscrive apparentemente nel codice gotico, volto a suscitare, anche in modo facile, inquietudini e paure nei lettori. In realtà già l’ambientazione della vicenda nella contemporaneità, anziché, come di solito, in un Medioevo di maniera, oltre che l’assenza del soprannaturale testimonia come la giovanissima scrittrice (aveva solo 19 anni) avesse maggiori ambizioni. Il tema del romanzo, che si delinea attraverso l’andamento stesso dell’intreccio e che è condito con l’ingrediente della paura (amplificato in seguito dagli adattamenti cinematografici, che ne hanno fatto una vicenda tipicamente horror) è impegnativo e ancor oggi di stringente attualità. Il titolo stesso, associando la figura dello scienziato Frankenstein al mito di Prometeo, molto amato dalla cultura romantica, allude all’onnipotenza della scienza e ai terribili pericoli che può comportare l’aspirazione dell’uomo a voler diventare come Dio. Ricordiamo che il Settecento era stato il secolo che aveva creato il mito del progresso illimitato delle conoscenze. Il mostro creato da Frankenstein (in sostanza, un uomo artificiale) potrebbe simboleggiare proprio l’avanzata del progresso tecnologico e scientifico che stava sradicando modi di vivere secolari e di cui non si intravedevano i possibili limiti: secondo le interpretazioni dei sociologi della letteratura, la paura nei confronti del “mostro” potrebbe essere l’esorcizzazione di paure reali nei confronti di una modernità avvertita come minacciosa e snaturante. Il fallimento del progetto di Frankenstein eserciterebbe, per contro, un effetto rassicurante nei lettori sulla possibilità che ci si possa spingere nel progresso scientifico oltre i confini del lecito. La trama Victor Frankenstein è un giovane scienziato di Ginevra, che lavora ad azzardati esperimenti. Assemblando parti del corpo umano tratte da cadaveri, realizza un essere mostruoso, riuscendo anche, con la corrente elettrica, a dargli la vita. Frankenstein rimane però inorridito da quanto ha creato e abbandona la creatura al suo destino. Il mostro comincia a girovagare, arrivando a uccidere il fratello minore del suo creatore (dell’omicidio è accusata la governante, che viene impiccata). Durante un’escursione sul monte Bianco, Frankenstein incontra di nuovo il mostro che là si è rifugiato, lontano dagli uomini. Il mostro racconta la sua storia di infelicità ed emarginazione che lo ha portato a uccidere, dopo che gli uomini lo avevano respinto per l’orrore che il suo aspetto suscitava. Chiede allora allo scienziato per lo meno di fabbricargli una compagna che divida con lui il suo destino di solitudine. Frankenstein si mette al lavoro, ma quando sta per realizzare una nuova creatura artificiale, abbandona il progetto per paura di diffondere una nuova razza mostruosa sulla terra. Il mostro allora, per vendicarsi, uccide la sera stessa delle nozze la giovane sposa di Frankenstein, che lo insegue fino ai ghiacci del Polo Nord. Dopo aver narrato la sua storia al capitano di una nave che lo ha raccolto, Frankenstein muore. Sulla nave riappare il mostro, venuto a piangere il suo padrone e creatore. E poi, l’infelice creatura scompare per sempre, tra i ghiacci. La figura di Frankenstein Certamente Victor Frankenstein è presentato anche con connotati di positività: egli incarna il desiderio romantico di superare i limiti

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imposti alla conoscenza umana, per arrivare a carpire i segreti della natura: a questo ideale egli sacrifica la sua vita, l’amore, le amicizie. Ma da “eroe” della conoscenza egli diventa ben presto un mito negativo, perché si avventura in un territorio proibito, pensando di potersi equiparare a Dio. Come, dunque, nella mitologia classica la ribellione alle leggi divine (la hybris) è punita (Prometeo, per aver sottratto il fuoco agli dei, è incatenato alla montagna e il suo fegato è divorato ogni giorno da un’aquila), così anche Frankenstein è punito duramente per la sua superbia intellettuale: il mostro ucciderà chi ha di più caro e alla fine provocherà indirettamente la morte stessa del suo creatore. L’emarginazione del diverso Un tema forse minore ma non certo trascurabile nel romanzo è quello dell’emarginazione di chi è diverso solo per il suo brutto, inquietante aspetto trasfigurato, sebbene abbia un animo candido: L’attore Bela Lugosi interpreta Dracula nel film omonimo del l’essere artificiale suscita orrore e timore negli 1931. esseri umani “normali”, ed egli è costretto a vivere isolato e nascosto, fino a che, esasperato soprattutto dal rifiuto di chi avrebbe dovuto amarlo e proteggerlo, ovvero il suo creatore, sfoga nel delitto la sua rabbia impotente e la sua delusione nei confronti della comunità degli esseri umani.

La narrativa fantastica (o di carattere fantastico) Edgar Allan Poe (1808-1849) • la “morte in vita” • figure femminili di bellezza mortifera • il delitto ispirato dal demone interiore

I MAESTRI E I TEMI RICORRENTI

Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822) • la “vita notturna dell’io” • le ossessioni interiori infantili (il “perturbante” di Freud)

Mary Godwin Shelley (1797-1851) • onnipotenza della scienza • pericoli insiti nel progresso della tecnologia e paure conseguenti

Fissare i concetti La narrativa fantastica e il fascino del lato buio 1. Che cosa si intende per romanzo gotico? Quali elementi lo classificano? 2. Sai spiegare le ragioni del successo dei romanzi gotici? 3. In che modo Edgar Allan Poe rivista il codice gotico? 4. Quali sono le caratteristiche del “fantastico visionario” di Hoffmann? 5. In quale occasione viene scritto il Frankenstein di Shelley?

L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 313


Mary Shelley

T5

La creazione dell’uomo artificiale Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV

M. Shelley, Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno, trad. di B. Tasso, Rizzoli, Milano 1975

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EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

Riportiamo un brano fondamentale del romanzo nel quale Frankenstein narra al capitano che lo ha raccolto sulla sua nave come è avvenuta la nascita dell’orribile creatura. I brani che presentiamo sono preceduti da un significativo mea culpa del narratore, che invita il capitano a non seguire il suo esempio e a rispettare i limiti della natura umana: «Imparate da me – se non dai miei consigli, dal mio esempio – quanto pericoloso sia l’acquisto della scienza, quanto più felice sia chi crede mondo la sua città di chi aspira ad elevarsi più di quanto la sua natura consenta».

Nessuno può immaginare la complessità dei sentimenti che, come un uragano, mi travolsero nel primo entusiasmo del successo. Vita e morte mi apparivano legami ideali che io per primo avrei potuto spezzare, rovesciando sul nostro buio mondo un torrente di luce. Una nuova specie mi avrebbe benedetto come sua origine e 5 creatore; molti esseri eccellenti e felici avrebbero dovuta a me la loro esistenza. Nessun padre avrebbe avuto diritto alla gratitudine dei figli così completamente come io mi sarei meritata da loro1. Seguendo il corso di tali riflessioni, pensai che, se potevo animare la materia inerte, avrei potuto con l’andare del tempo (anche se ciò mi era per il momento impossibile), rinnovare la vita là dove la morte sembrava 10 aver votato il corpo alla distruzione2. Tali pensieri valsero a sostenere il mio spirito mentre continuavo nella mia impresa con ardore instancabile. Le mie guance si erano fatte pallide per lo studio, il mio corpo emaciato per l’isolamento. Spesso, sull’orlo della certezza, fallivo; pure mi abbarbicavo alla speranza che il giorno o l’ora seguente potessero segnare il mio 15 successo. Io solo possedevo il segreto della mia attività, e la luna era spettatrice delle mie fatiche notturne mentre, con costanza incrollabile e ansiosa, penetravo nei misteri della natura3. Chi può immaginare gli orrori del mio lavoro segreto, quando mi calavo nelle umide profondità di una tomba, o torturavo gli animali vivi per animare la creta inerte? Al ricordo, le ginocchia mi tremano e tutto mi ondeggia 20 davanti agli occhi, ma allora un impulso irresistibile e quasi frenetico mi spingeva innanzi; sembrava che anima e sensi mi fossero rimasti per quest’unico scopo. Ma fu solo una esaltazione passeggera, che valse unicamente ad acuire la mia sensibilità quando, scomparso lo stimolo innaturale, mi riuscì di tornare alle vecchie abitudini. Raccolsi ossa da cripte e profanai i segreti del corpo umano. Attrezzai il 25 mio misterioso laboratorio in una camera solitaria, o meglio in una soffitta, separata dagli appartamenti mediante un corridoio e una rampa di scale. Gli occhi quasi mi schizzavano dalle orbite mentre seguivo i particolari del mio lavoro. Sala anatomica e mattatoi mi fornivano buona parte di ciò che mi occorreva; spesso la mia natura si ritraeva disgustata da quello di cui mi stavo occupando, mentre, spinto da un’ansia 30 sempre crescente, progredivo nel mio lavoro e lo avviavo alla conclusione. [...] 1 Vita e morte... da loro: espressioni molto enfatiche che mostrano in Frankenstein un nuovo Prometeo, l’eroe della mitologia classica che, secondo una versione del mito (➜ PER APPROFONDIRE, La fortuna del mito di Prometeo OL), avrebbe foggiato

gli uomini dalla creta, elevandosi oltre i limiti consentitigli da Zeus (al quale poi sottrasse il fuoco per donarlo agli uomini). 2 Seguendo… distruzione: Frankenstein pensa dunque di poter arrivare a ridare la vita, come Dio.

314 Ottocento 6 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

3 Io solo… natura: nel suo sforzo titanico di possedere la conoscenza, nella sua solitudine eroica, certamente Frankenstein si rivela uno spirito romantico.


Era una cupa notte di novembre quando vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti atti ad infondere la scintilla di vita nell’essere inanimato4 che giaceva ai miei piedi. Era quasi l’una 35 del mattino; la pioggia batteva monotona contro le imposte e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; respirò a fatica, e un moto convulso le agitò le membra. Come descrivere le mie emozioni dinanzi a questa catastrofe, o come dare un’idea dell’infelice che, con cura e pena infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra 40 erano proporzionate, ed avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore 45 delle orbite, di un pallore terreo, in cui erano collocati, con la sua pelle grinzosa e con le sue labbra nere e diritte. I casi della vita non sono così mutevoli come i sentimenti della natura umana. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo mi ero negato riposo e salute. Avevo desiderato il 50 successo con un ardore che trascendeva ogni moderazione; ma ora che vi ero giunto, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore era pieno di orrore e di un disgusto indicibili5. Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori del laboratorio e passeggiai a lungo su e giù per la mia camera da letto, senza decidermi a prender sonno. Alla fine la stanchezza subentrò al tumulto che prima 55 mi aveva scosso, e mi gettai sul letto, vestito com’ero, sforzandomi di trovare qualche istante d’oblio. Invano: dormii, sì, ma il mio sonno fu disturbato dagli incubi più spaventosi. Mi pareva di vedere Elisabetta6 che, nel fiore della salute, passeggiava per le strade di Ingolstadt7. La abbracciavo con gioiosa sorpresa, ma le labbra, che le sfioravo nel primo bacio, assumevano il pallore livido della morte, i suoi linea60 menti mutavano, ed ecco che io stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario ne ricopriva le forme, ed io potevo vedere i vermi che strisciavano sotto i lembi della stoffa. Inorridito, mi scossi dal sonno; un sudore gelido mi copriva la fronte, i denti mi battevano, tremavo convulso in tutte le membra; poi, al chiarore incerto e giallo della luna che filtrava attraverso le imposte, scorsi lo sciagurato, il 65 miserabile mostro che io avevo creato. Sollevò le cortine del letto, ed i suoi occhi, se occhi possono chiamarsi, si fissarono su di me. Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre una smorfia gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii; aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi, ma fuggii e mi precipitai giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa dove abitavo, 70 e lì rimasi per il resto della notte, camminando in su e in giù agitatissimo, tendendo ansiosamente l’orecchio e sussultando di paura ad ogni rumore, quasi esso mi annunciasse l’avvicinarsi dell’essere demoniaco cui così follemente avevo dato la vita. Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto! Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa. Lo avevo osservato quando 4 essere inanimato: il corpo della nuova creatura, dopo strenue fatiche, è ormai pronto e Frankenstein gli infonde (attraverso scariche elettriche) la scintilla della vita.

5 Avevo desiderato… indicibili: è facile avvertire un netto rovesciamento delle espressioni quasi liriche con cui si apre il passo. Una volta raggiunta la meta, ogni tensione cade e in Frankenstein rimane

solo l’orrore per quanto ha fatto e il disgusto per la creatura artificiale. 6 Elisabetta: la fidanzata di Frankenstein. 7 Ingolstadt: città della Baviera.

L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 315


era incompiuto: era già brutto allora, ma quando muscoli e giunture erano stati resi capaci di moto, era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire8. Passai una notte terribile. In certi momenti il mio polso batteva così in fretta e così forte che sentivo palpitare ogni arteria; in altri momenti quasi mi accasciavo a terra per il languore9 e l’estrema debolezza. Assieme all’orrore avvertivo l’amarezza della delusione: 80 quei sogni che per tanto tempo erano stati il mio cibo e il mio conforto erano diventati un inferno per me; e il mutamento era stato repentino, lo sconvolgimento completo. Giunse alla fine il mattino, triste ed umido, e scoprì ai miei occhi insonni e affaticati la chiesa di Ingolstadt con il suo campanile bianco e l’orologio che segnava le sei. Il custode aprì i cancelli del cortile che era stato il mio asilo10 notturno, ed io uscii 85 nelle strade e le percorsi a passi rapidi, quasi a sfuggire il mostro che a ogni angolo temevo si presentasse al mio sguardo. Non osavo ritornare nel mio appartamento, ma mi sentivo sospinto innanzi, anche se ero fradicio per la pioggia che cadeva da un cielo nero e ostile. 75

8 qualcosa… concepire: qualcosa che neppure la potente fantasia di Dante (so-

prattutto nella rappresentazione dei demoni infernali) avrebbe potuto immaginare.

9 languore: spossatezza, sfinimento. 10 asilo: rifugio.

Analisi del testo Nella prima parte, nel racconto di Frankenstein al capitano c’è un crescendo di esaltazione ed entusiasmo che descrivono il suo studio e le sue scoperte, quasi si comparasse a Dio nella possibilità di poter ridare la vita. Nella seconda parte domina l’inquietudine e lo smarrimento dello scienziato di fronte alla sua creatura che ha preso vita e dalla quale egli fugge sconvolto. Il Prometeo moderno Il titolo completo del romanzo (Frankenstein, o Il Prometeo moderno) fa comprendere quanto le colpe del dottor Frankenstein siano assimilabili a quelle del titano che non aveva rispettato i limiti imposti dalle divinità e per questo era stato punito. Il dottore, come Prometeo, ha osato penetrare i segreti della natura e non ha rispettato la legge di Dio, peccando di hybris e come lui sarà punito. Nel passo emerge chiaro il tema fondamentale del romanzo, il fallimento dell’onnipotenza della scienza e si concretizzano le conseguenze che può comportare l’aspirazione dell’uomo a voler diventare come Dio.

Il contesto inquietante Nel brano la descrizione del contesto è resa sinistra attraverso il ricorso a tutti gli ingredienti del genere horror: è una «cupa notte di novembre», è quasi l’una del mattino, la pioggia batte monotona, nella stanza si percepisce solo la luce fioca di una candela che sta per spegnersi, offrendo i suoi ultimi guizzi. In quest’atmosfera compare la figura del mostro, la «creatura dai foschi occhi gialli» che induce il suo creatore a passare una notte terribile, nella consapevolezza di trovarsi davanti a una catastrofe e a provare sgomento e repulsione. Anche se il lettore non sa ancora quale sarà lo sviluppo degli eventi, il contesto inquietante gli fa presagire una storia spaventosa.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi il testo in 20-25 righe al massimo. COMPRENSIONE 2. In quale luogo avvengono gli esperimenti di Frankenstein e in che modo si procura i materiali organici che serviranno a comporre il nuovo essere? 3. Perché Frankenstein fugge dopo aver creato il mostro? ANALISI 4. Con quale atteggiamento mentale lo scienziato lavora per realizzare il suo obiettivo? 5. In alcuni punti del testo l’autore fa riferimento all’ora della giornata, alla stagione, alle condizioni atmosferiche in cui si svolgono determinate fasi della vicenda. I riferimenti sono ispirati a un desiderio di puntualizzazione realistica o ti sembra che abbiano un valore connotativo e simbolico? Perché? 6. Descrivi in sintesi gli stati d’animo di Frankenstein rappresentati nel corso della vicenda narrata.

316 Ottocento 6 La narrativa fantastica e il fascino del lato buio


Intepretare

LEGGERE LE EMOZIONI

EDUCAZIONE ALLE RELAZIONI

7. Come si può spiegare la repentina trasformazione dello stato d’animo di Frankenstein nei confronti della sua scoperta subito dopo la “nascita” del mostro? COMPETENZA DIGITALE 8. L’attrazione per la conoscenza proibita è un tema che percorre la letteratura del primo Ottocento (dal Faust di Goethe al racconto di Hoffmann L’Orco Insabbia). Prepara una presentazione multimediale di 5 slide, in cui esprimi delle considerazioni sulla presenza di questo tema nella cultura romantica. SCRITTURA ARGOMENTATIVA 9. Uno dei temi presenti nel romanzo, seppure minoritario, è quello dell’emarginazione nei confronti di chi appare diverso a causa del suo aspetto fisco, brutto e “disturbante” in mezzo a uomini cosiddetti “normali”. Rifletti su questo tema ed esponi le tue considerazioni in un testo di circa 15 righe.

Sguardo sul cinema Il mito di Frankenstein La vicenda del mostro creato da Frankenstein con parti di cadaveri umani che si ribella al suo creatore, fuggendo e avventurandosi in un mondo ostile, si è impressa nell’immaginario collettivo non tanto con il romanzo di Mary Shelley quanto con le sue semplificazioni e spettacolarizzazioni cinematografiche: dalla prima versione muta del 1910 all’ultima in uscita nel 2025 sono circa una trentina i film che hanno per protagonista la creatura erroneamente identificata col nome del suo creatore, il dottor Victor Frankenstein. È con Frankenstein di James Whale (1931), inserito dall’American Film Institute tra i migliori cento film americani di sempre, che la creatura si impone come uno dei più famosi mostri cinematografici di tutti i tempi. Ispirandosi a una versione teatrale del testo di Mary Shelley del 1927, Whale punta con la sua pellicola su un prodotto di grande effetto, seguendo solo parzialmente il racconto originario e calcando la mano sugli effetti più orrorifici della vicenda. Di fatto il film si discosta notevolmente dal suo modello e i colti riferimenti filosofici del racconto originario e la complessità psicologica del personaggio della creatura di Frankenstein sono abbandonati dal regista, a favore di un linguaggio maggiormente filmico e appassionante per le platee di spettatori. A differenza dell’istruito personaggio letterario, infatti, il mostro del film è muto e si esprime con incomprensibili grugniti che lo rendono (per il tempo) più terrificante; la sua aggressività non è il frutto dei maltrattamenti subìti, ma si spiega col fatto che il cervello è

Robert De Niro interpreta la Creatura nel film Frankenstein di Mary Shelley del 1994.

Boris Karloff nel ruolo del mostro di Frankenstein.

stato prelevato per errore da un criminale omicida di cui ha ereditato dunque le pulsioni distruttive. Questa prima versione cinematografica è passata alla storia per aver di fatto inventato il mostro con quelle fattezze deformi (il cranio squadrato e gli elettrodi che sporgono dal collo) con le quali sarà per sempre ricordato, oltre che per l’interpretazione di Boris Karloff nel ruolo del mostro e per numerose scene particolarmente suggestive. Il film fu un enorme successo all’epoca e, insieme all’altro grande classico con cui condivide un’origine letteraria, Dracula (uscito lo stesso anno), sancì la gloria della casa di produzione Universal che per tutti gli anni Trenta e Quaranta fu sinonimo di film dell’orrore dal grande riscontro commerciale. Il trucco di notevole impatto visivo creato da Jack Pierce e dal regista stesso per Boris Karloff, le atmosfere gotiche, i giochi di luci e ombre ereditate dall’espressionismo tedesco e il tragico finale decretarono la fortuna del film. La lettura “colta” di Branagh Bisogna aspettare gli anni Novanta perché il cinema proponga una versione fedele al racconto originario, dopo decenni di film di genere (quando non di serie B) su Frankenstein. Si tratta di Frankenstein di Mary Shelley (1994) dell’attore e regista Kenneth Branagh (nato nel 1960) che già dal titolo si rivela come un vero e proprio “adattamento” del testo letterario, a differenza di tutti i film precedenti che avevano utilizzato il racconto come un canovaccio da cui sviluppare storie anche molto diverse. Per la prima volta, l’attenzione è rivolta più al barone Victor Frankenstein (interpretato dallo stesso Branagh), al suo superomismo e alla sua sfida tra la vita e la morte, che alla creatura, pur magistralmente interpretata da Robert De Niro che ne svela il lato umano oltre che quello orrorifico. online

Per approfondire Ottocento al nero: suggestioni gotiche e fantastiche

L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 317


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Silvia Albertazzi Significato dell’irrompere del fantastico sulla scena letteraria S. Albertazzi, Il punto su: la letteratura fantastica, Laterza, Bari 1993

In questo passo critico Silvia Albertazzi, studiosa di letteratura anglosassone, indica le ragioni che possono spiegare la diffusione della narrativa “nera”, e più in generale fantastica, nella narrativa europea tra fine Settecento e primo Ottocento.

Da un punto di vista storico-cronologico, è ormai luogo comune indicare nel trapasso fra XVIII e XIX secolo la data di nascita del fantastico. Va subito chiarito che, ovviamente, opere fantastiche sono reperibili nella letteratura d’ogni tempo e paese, molto prima del tardo Settecento. Tuttavia, è solo in quel periodo che il 5 cambiamento dei modelli culturali, riflesso anche nel romanzo, genere narrativo appena nato e già largamente popolare, unito alle mutate condizioni sociali subentrate all’industrializzazione e all’influsso di concezioni filosofiche tese a problematizzare il rapporto dell’uomo con l’elemento religioso-soprannaturale, porta allo sviluppo, principalmente in Gran Bretagna e Scozia, di una narrativa che, con 10 i suoi improvvisi eventi inspiegabili, mette in dubbio la rassicurante certezza della quotidianità borghese. Certamente, tra gli antecedenti del fantastico si annoverano alcune tra le più importanti opere della letteratura universale: il Gargantua et Pantagruel1 di Rabelais e l’Orlando furioso ariostesco nel XVI secolo [...], oltre, ovviamente, alle orientali 15 Mille e una notte, o, nel teatro, Shakespeare. È forse superfluo sottolineare l’enorme influenza che hanno avuto sulla tipologia e sulle trame fantastiche le sue situazioni oniriche (vedi il Sogno di una notte di mezza estate), le apparizioni spettrali (Amleto, Macbeth), le presenze soprannaturali (le streghe di Macbeth, ma anche le tante creature ultraterrene di segno positivo2, come Ariel o Puck3) o prototipi fantastici 20 quali lo scienziato-mago (il mitico Prospero della Tempesta [...]). Impensabile comunque senza la grande fioritura romanzesca del Settecento, dal realismo improbabile di Defoe4 al sentimentalismo di Richardson5 al trionfo dell’eroe borghese di Fielding6, il fantastico si sviluppa in maniera direttamente proporzionale all’indebolimento della credenza nel meraviglioso. Prodotto di reazione 25 all’industrializzazione e allo scientismo, esso deve essere valutato anche da un punto di vista squisitamente sociale e politico. [...] Proprio nel momento in cui, in sede filosofica, la fantasia viene bandita come “pazza di casa”, gli scrittori gotici rivendicano il primato del meraviglioso e del mistero, opponendo all’ordine borghese la trasgressione, al romanzo d’affetti 30 familiari e quotidiane virtù lo sfrenamento di passioni morbose e vizi criminali, al focolare domestico la fuga, all’orrore reale dell’esistenza da schiavi negli opifici il terrore fittizio del sangue e della morte violenta.

1 Gargantua et Pantagruel: celebre romanzo (ed. definitiva 1542) dell’umanista François Rabelais, che narra le mirabolanti e grottesche avventure di Gargantua e di suo figlio Pantagruel. 2 di segno positivo: non maligne, benevole. 3 Ariel o Puck: figure di spiriti-folletti

presenti rispettivamente nella Tempesta e nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. 4 Defoe: Daniel Defoe è uno scrittore inglese (1660-1731) celebre soprattutto come autore del romanzo Robinson Crusoe. 5 Richardson: Samuel Richardson

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(1689-1761) è autore di romanzi di larghissima diffusione in Europa, come Pamela o la virtù premiata e Moll Flanders. 6 Fielding: Henry Fielding (1707-1754) è uno dei padri fondatori del romanzo realista inglese, in particolare con Tom Jones.


A proposito di questi romanzi “eccessivi”, il Marchese de Sade7 scrive che, alla fine del Settecento, «non c’era individuo che non avesse provato più disgrazie in quattro 35 o cinque anni di quante ne potesse dipingere in un secolo il più famoso romanziere della letteratura: bisognava dunque chiamare l’inferno al proprio soccorso». Raccontare storie “nere” diviene un modo per evadere da una realtà amara, introiettandone al tempo stesso le caratteristiche più inquietanti in una trasfigurazione visionaria del quotidiano. [...] Con il romanticismo, la narrazione fantastica orrifica 40 conosce la propria apoteosi: mentre il tentativo di superare i confini dell’umano che anima la ricerca maledetta di tanti eroi gotici si tinge di faustismo8, il mostro perde le connotazioni soprannaturali e diviene parte dell’io, doppio ossessivo che dapprima minaccia il protagonista dall’interno (come la creatura di Frankenstein) e successivamente, nel tardo vittorianesimo, lo aggredisce dall’esterno, come Dra45 cula. Questi due archetipi, che delimitano lo sviluppo dell’orrore fantastico nell’Ottocento inglese, suggeriscono l’impotenza dell’uomo nei confronti della materia e la sua paura della creatività, da un lato, e dell’erotismo dall’altro. [...] Non è un caso se il Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels si apre con un’immagine tipicamente gotica: «Uno spettro si aggira per l’Europa». Nell’In50 ghilterra vittoriana – e successivamente, in tutta l’Europa uscita dalle rivolte del 1848 – quanto, nel sociale come nel privato, sembra attentare all’ordine borghese costituito, è visto come manifestazione demoniaca. La vena fantastica inquietante che serpeggia anche nella narrativa apparentemente realistica (si vedano, per esempio, romanzi come Jane Eyre di Charlotte Brontë in Inghilterra o, molto più 55 vicino a noi, l’episodio della monaca di Monza nei Promessi sposi) e il gusto del mistero, a volte morboso, cui si abbandonano nelle loro prove minori autori insospettabili9 come Dickens, [...] Balzac e, in Italia, Verga e altri veristi (per citare solo gli esempi più clamorosi) traducono in immagini la paura di cambiamento della borghesia ottocentesca e la sua ambigua fascinazione per il lato oscuro – o 60 negato o comunque represso – dell’esperienza umana. 7 il Marchese de Sade: DonatienAlphonse-François de Sade (1740-1814) è uno dei maggiori rappresentanti dell’Illuminismo più radicale e del libertinismo.

8 faustismo: sinonimo del desiderio inesausto di sapere, della volontà di superare i limiti concessi all’uomo, incarnati soprattutto dal personaggio di Faust, protagonista dell’omonimo dramma di

Goethe (1773-1832). 9 insospettabili: in quanto gli autori citati sono in genere considerati maestri della tendenza realista.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Quali libri sono considerati antecedenti della letteratura fantastica? Sai spiegare almeno in un caso perché? 2. Il fantastico rappresenta una forma di trasgressione: a che cosa? Quali trasformazioni socio-culturali ne consentono l’affermarsi? Scrivi la tua opinione argomentando in un testo (max 20 righe).

L’emergere della narrativa di carattere fantastico 1 319


Ottocento La narrativa fantastica e il fascino del lato buio

Sintesi con audiolettura

1 L’emergere della narrativa di carattere fantastico

Alle origini del genere “fantastico” Tra la fine del Settecento e l’Ottocento si afferma nella narrativa il genere fantastico. L’interpretazione sociologica ne attribuisce l’origine alle paure suscitate dai rivolgimenti politici dell’epoca e alla rivoluzione industriale: la letteratura “nera”, contraddistinta da esseri misteriosi e mostruosi e da situazioni terrorizzanti, permetterebbe di incanalarle ed esorcizzarle. Secondo altri studiosi il grande consenso del pubblico del tempo per il genere esprime l’interesse per una visione della realtà e dell’io più sfaccettata rispetto a quella illuministica. Mentre nella produzione iniziale dominano il tema dell’apparizione soprannaturale e l’ambientazione in luoghi tenebrosi, nel tempo prevalgono storie in cui i fenomeni inspiegabili si manifestano nella dimensione della vita normale, risultando nel contrasto più inquietanti. Un ulteriore sviluppo del genere è rappresentato dall’interiorizzazione del soprannaturale: l’essere mostruoso è una forza oscura all’interno dell’individuo, che la proietta fuori di sé, non riuscendo a dominarla, ma ne viene ugualmente travolto con esiti drammatici. Il romanzo gotico Alla fine del Settecento in Inghilterra il termine “gotico” indica un tipo di romanzo contraddistinto da vicende misteriose, ambientate in luoghi cupi e tenebrosi. Il castello di Otranto di Horace Walpole (1717-1797), che inaugura il genere, fonde elementi tratti dalle leggende, dai romanzi cavallereschi, dalle fiabe. Nei romanzi gotici ricorrono i personaggi del nobile malvagio, della fanciulla innocente e indifesa che viene perseguitata, dell’eroe che interviene a salvarla grazie anche a un evento soprannaturale. Autrice famosa è Ann Radcliffe (1764-1823), la cui opera più importante è I misteri di Udolpho; altro rappresentante del genere è Matthew Lewis (1775-1818) che introduce il tema del patto con il diavolo. Dal gotico, che ebbe un grande successo di pubblico, trassero spunti importanti scrittori, come E.A. Poe in alcuni racconti, E. Brontë in Cime tempestose, Robert L. Stevenson in Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde, perfino Alessandro Manzoni soprattutto nella prima stesura dei Promessi sposi. Il maestro del terrore e dell’orrore: Edgar Allan Poe La vasta produzione narrativa dello scrittore americano Edgar Allan Poe (1809-1849) trae origine dalle ossessioni e dagli incubi che lo tormentavano. Temi ricorrenti sono: la “morte in vita”, l’azione delittuosa ispirata dal “demone della perversità”, l’attrazione per figure femminili dalla bellezza insidiata dalla morte. Nelle opere di Poe il codice gotico funge da repertorio a cui attingere e da manipolare per raggiungere il maggior numero di lettori. Per ottenere questo scopo lo scrittore costruisce intrecci ricchi di suspense, calibrando ogni elemento della narrazione attraverso una meditata strategia. Il fantastico visionario di Hoffmann Nei racconti dello scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann (1776-1822), teorico della “vita notturna dell’io”, domina una realtà enigmatica e sfuggente, che rispecchia la complessità della psiche umana. Il suo capolavoro è L’Orco Insabbia, al cui

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centro vi è una figura paurosa che ossessiona il protagonista dall’infanzia fino a portarlo alla follia. Questo racconto fornì a Freud uno spunto importante per la sua teoria del “perturbante” (il termine indica ciò che suscita inquietudine, paura, perché è ignoto, lontano dall’esperienza normale) come funzione specifica, a suo avviso, del fantastico. Il tema del vampiro Elemento ricorrente della letteratura fantastica è il superamento del confine tra il mondo dei vivi e quello dei defunti; da questa dimensione nasce la figura del vampiro, morto-vivo che si nutre del sangue delle sue vittime. Dal Dracula (1897) di Bram Stoker è derivata la fortuna cinematografica del tema. Frankenstein: la modernità come mostro Il romanzo Frankenstein o il Prometeo moderno (1816) della scrittrice inglese Mary Godwin Shelley (1797-1851), ambientato nella contemporaneità, già dal titolo – con il riferimento al mito di Prometeo – si riallaccia al problema dell’onnipotenza della scienza e dei pericoli che ne possono derivare. Se Frankenstein può rappresentare il desiderio romantico di scoprire i segreti della natura, il mostro da lui creato (costruito con organi e membra umani) evoca l’avanzata del progresso scientifico e tecnologico, con le paure che esso suscita.

Zona Competenze Esposizione orale

1. Quali sono le caratteristiche degli ambienti in cui si svolgono le vicende narrate nei romanzi che appartengono al genere fantastico?

Scrittura

2. Delinea il rapporto fra la narrazione fantastica e il corrispondente contesto socioculturale tra fine Settecento e primo Ottocento. (max 15 righe)

Competenza digitale

3. La paura è un ingrediente quasi costitutivo della narrazione fantastica: esemplifica alcune modalità in cui gli autori utilizzano la componente della paura per catturare il lettore. Presenta in forma multimediale il risultato del tuo lavoro alla classe.

Scrittura argomentativa

4. Facendo riferimento ai brani proposti, illustra alcuni tra gli ingredienti tipici del genere gotico. (max 10 righe)

Sintesi Ottocento

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Verso l’esame di Stato Tipologia C  Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità Testo tratto da B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, trad. di Andrea D’Anna, Feltrinelli, Milano 2000

Perché tanti genitori intelligenti, dai buoni intendimenti, moderni, borghesi, preoccupatissimi del felice sviluppo dei loro figli, tengono in poco conto il valore delle fiabe e privano i loro bimbi di quanto queste storie hanno da offrire? […] Secondo certuni le fiabe non presentano quadri “veritieri” della 5 vita e quindi non sono sane. Essi non pensano che la “verità” di un bambino può essere diversa da quella degli adulti. Non si rendono conto che le fiabe non cercano di descrivere il mondo esterno e la “realtà”. Né riconoscono che nessun bambino sano di mente crede mai che queste fiabe descrivano il mondo in modo realistico. 10 Certi genitori temono, raccontando ai loro figlioletti gli eventi fantastici contenuti nelle fiabe, di dir loro delle “bugie”. La loro preoccupazione trae alimento nella domanda del bambino: «È vero?». […] La “verità” delle fiabe è la verità della nostra immaginazione, non quella dei normali rapporti di causa ed effetto. […] Prima che un bambino possa venire alle prese con la realtà, deve disporre 15 di una base di princìpi per poterla giudicare. Quando chiede se una storia è vera, vuol sapere se essa contribuisce con qualcosa d’importante alla sua comprensione delle cose, e se ha qualcosa d’illuminante da dirgli circa quelle che sono le sue principali preoccupazioni.

Lo psicanalista viennese Bruno Bettelheim (1903-1990) nel suo testo vuole dimostrare che le situazioni delle fiabe, utilizzando la visione magica infantile delle cose, esorcizzano incubi inconsci, aiutano a superare le inevitabili insicurezze nel cammino di crescita del bambino e sono così un prezioso strumento educativo. Concordi con questa valutazione? Riconosci la funzione educativa delle fiabe nell’infanzia tua o di bambini che hai avuto modo di osservare? Sviluppa sul tema una tua riflessione critica, facendo riferimento a esperienze personali e di studio. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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Ottocento CAPITOLO

7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

In Italia, nel 1816, un articolo di Madame de Staël attiva la contrapposizione tra classicisti e romantici; questi ultimi rifiutano la mitologia e le regole in favore di una poesia nuova e popolare. Il Romanticismo italiano è caratterizzato dalla prevalenza di temi storico-patriottici e dalla predilezione per il genere del romanzo storico. Un caso particolare nel panorama del romanzo in Italia è Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, che si pone all’incrocio tra più generi: tra il romanzo storico, la memorialistica e il romanzo di formazione. Durante il periodo risorgimentale la letteratura assume un carattere pedagogico che trova espressione nella lirica patriottica. Nello stesso clima, l’idea comune di nazione è veicolata dal genere autobiografico, che si caratterizza come un memoriale di un’esperienza collettiva. L’esempio più significativo è quello della memorialistica garibaldina.

dibattito sul 1 IlRomanticismo in Italia confessioni di un italiano 2 Ledi Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi

e Risorgimento: 3 Letteratura alla ricerca di un’identità nazionale

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1

Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 Un nuovo movimento La centralità del Nord Italia e di Milano Il Romanticismo si afferma in Italia più tardi rispetto agli altri paesi europei, anche per la presenza, particolarmente forte, del Classicismo nella nostra cultura. Le nuove idee trovano accoglienza nelle zone d’Italia più avanzate sotto il profilo economico, come la Lombardia (e in parte il Piemonte), mentre restano ai margini, confinati in un sostanziale provincialismo, il Veneto, Firenze e ampia parte della Toscana. Anche la cultura napoletana, dopo essere stata all’avanguardia durante l’Illuminismo, conosce un evidente regresso; ma alcuni intellettuali napoletani, sfuggiti alla repressione della rivoluzione napoletana del 1799, come Cuoco e Lomonaco, approdano esuli a Milano, dove danno vita a un vivace dibattito politico. L’articolo di Madame de Staël: Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni In stretta continuità con l’Illuminismo, il centro del dibattito romantico in Italia è Milano. Qui, nel 1816 (anno considerato come data convenzionale della nascita del Romanticismo nella penisola) ha luogo un acceso dibattito tra letterati: l’occasione del dibattito è la pubblicazione, sul primo numero della rivista milanese «Biblioteca italiana», dell’articolo (in forma di lettera) Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni di Madame de Staël (1776-1817), importante intellettuale francese, che ebbe un ruolo di primo piano nella divulgazione in Europa del Romanticismo tedesco.

PER APPROFONDIRE

La critica all’arretratezza e al provincialismo dei letterati italiani L’articolo di Madame de Staël è presentato al pubblico nella traduzione dal francese di Pietro Giordani (1774-1848), uno dei più autorevoli letterati italiani del momento e redattore della rivista (oltre che figura di riferimento per il giovane Leopardi, con il quale intreccia dal febbraio 1817 un fitto scambio epistolare). Gli intellettuali italiani conoscevano già l’autrice dell’articolo grazie alla grande diffusione in Italia dal suo scritto Sulla Germania (De l’Allemagne, 1810) che enunciava in forma divulgativa le principali posizioni e idee del Romanticismo tedesco.

La «Biblioteca italiana» (1816-1840) Rientrati nel Lombardo-Veneto dopo la fine del regime napoleonico, gli austriaci cercano di aggregare gli intellettuali non troppo compromessi con il passato regime attorno al progetto di un nuovo periodico: nel 1816 nasce la «Biblioteca italiana» e Foscolo viene contattato per dirigerla (➜ C2). L’obiettivo del governo austriaco è quello di ripristinare, nel nome di una cultura moderatamente aperta e non pedantesca, una nuova concordia tra gli intellettuali dopo le divisioni politiche e ideologiche dell’epoca rivoluzionaria. Foscolo rifiuta però l’incarico e lascia precipitosamente l’Italia, intuendo che il suo nome sarebbe stato usato per attirare uomini di cultura nell’orbita della politica austriaca.

Il nuovo gruppo dirigenziale della rivista (significativi i nomi di Giordani e Monti), rappresentativo di un Classicismo moderato, aperto anche al dibattito culturale europeo, all’inizio attrae molti intellettuali lombardi liberali (come Pietro Borsieri e Silvio Pellico): la pubblicazione dell’articolo di Madame de Staël sembra confermare tale indirizzo. Di fatto, invece, dal periodico ben presto si allontanano gli intellettuali più moderni, che confluiscono nel «Conciliatore», mentre la «Biblioteca italiana» sempre più si configura come l’organo ufficiale del governo austriaco (l’abbonamento è obbligatorio per i comuni). La rivista cessa le pubblicazioni nel 1840.

324 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Nel suo intervento, la de Staël sprona i letterati italiani ad abbandonare la chiusura orgogliosa nel culto del passato, che ha prodotto nella cultura del Belpaese stasi, arretratezza e un sostanziale provincialismo. Madame de Staël accusa i letterati di sterile erudizione e di prediligere una letteratura fatta di parole e suoni, inautentica e indifferente ai contenuti. Gli italiani vengono invitati ad aprirsi al confronto con le letterature straniere, favorendo la traduzione delle opere tedesche e inglesi, così da trovare in esse nuovi stimoli. Madame de Staël scrive: «Dovrebbero a mio avviso gl’italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti [si attengono] all’antica mitologia, né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate [diventate antiquate], anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche [dimenticate]. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dell’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle; non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete [superate]». La polemica classico-romantica L’articolo smuove le acque, inducendo i letterati italiani non solo a prendere posizione di fronte alle accuse della de Staël, ma a schierarsi su opposti fronti letterari. La conseguenza è una vivace polemica, denominata “classico-romantica”, che sarebbe più corretto definire classicistico-romantica: si tratta infatti di un dibattito che contrappone (tra il 1816 e la soglia degli anni Venti) seguaci del Classicismo e fautori della nuova letteratura romantica. In Italia il dibattito sulla nuova letteratura è ben lontano dalla profondità e dallo spessore filosofico del dibattito romantico europeo: più che altro ha il carattere di uno scontro (a volte anche aspro) fra letterati progressisti e conservatori, che si soffermano su questioni tutto sommato specifiche e non su una generale visione del mondo. I contendenti polemizzano sull’uso della mitologia, sull’opportunità di accogliere o rigettare le novità straniere, sull’imitazione o meno dei classici, sul rispetto, nei testi teatrali, delle tre unità pseudo-aristoteliche (tempo, luogo, azione) e così via. Certo la polemica serve, in un momento ancora incerto, a far uscire allo scoperto i letterati romantici che, grazie a essa, prendono coscienza di sé come gruppo: ne deriva la fondazione, da parte di alcuni di essi, del «Conciliatore», il periodico dei romantici, in grado di confrontarsi con l’autorevole «Biblioteca italiana», che di fatto diventerà la roccaforte dei classicisti.

Élisabeth Vigée Le Brun, Ritratto di Madame de Staëll come Corinna a Capo Miseno, olio su tela, 1809 (Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire).

Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 325


«Il Conciliatore»: il “foglio azzurro” «Il Conciliatore» raccoglie gli intellettuali milanesi più aperti, da Federico Confalonieri (il promotore) a Ludovico di Breme, Silvio Pellico, Pietro Borsieri e Giovanni Berchet (senza dimenticare Manzoni, che appoggia il periodico pur mantenendosi in disparte). Il “foglio azzurro”, così chiamato dal colore della carta, è fondato nel 1818; bisettimanale, sarà costituito di sole quattro pagine a due colonne. Questa scelta è motivata dall’idea di incontrare un pubblico più vasto, quel popolo di cui parla Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo (➜ D1d ). L’obiettivo non verrà raggiunto: «Il Conciliatore» avrà un numero modesto di adesioni (solo 240 abbonati) e non riuscirà non solo a varcare i confini d’Italia, ma di fatto neppure a uscire dalla città di Milano.

Il primo numero della rivista «Il Conciliatore».

Gli obiettivi e il modello del «Conciliatore» La direzione è affidata a Silvio Pellico, mentre il programma è steso da Borsieri, che sottolinea l’obiettivo di offrire, attraverso la nuova rivista, un «servizio al pubblico» e l’intento esplicito di conciliare ambiti «utili» come la scienza, l’economia, il diritto, e «dilettevoli» come la letteratura. Il modello è quello autorevole del «Caffè», anche nell’idea di fondo di voler contribuire alla formazione di una moderna e illuminata opinione pubblica. In ambito letterario, fin dall’inizio la rivista si fa portavoce delle idee di fondo del Romanticismo (ecco perché uno scritto del Monti, Gli dei della Grecia, che egli proponeva per il primo numero, viene rifiutato) e di un’apertura al confronto con le culture europee. Il più articolato e importante intervento a difesa del Romanticismo pubblicato sul «Conciliatore», Idee elementari sulla poesia romantica di Ermes Visconti, è considerato uno dei “manifesti” del Romanticismo italiano. L’ideologia politica del «Conciliatore» In ambito politico, il giornale rivela abbastanza chiaramente l’adesione dei collaboratori all’ideologia liberale e patriottica: «romantico», scrive il Pellico nel maggio 1819 al fratello, «fu riconosciuto per sinonimo di liberale, né più osarono dirsi classicisti, fuorché gli ultra e le spie». L’affermazione corrisponde nel complesso al vero (anche se Giordani, ad esempio, è un classicista, eppure è imprigionato ed esiliato); tanto che il governo austriaco se ne accorge ben presto ed esercita sempre una severa censura sulle pagine della rivista. Dopo un interrogatorio subito da Pellico negli uffici di polizia, si decise di chiudere le pubblicazioni: l’ultimo numero esce il 17 ottobre 1819. In seguito ai moti del 1820-21, Borsieri e Pellico saranno arrestati, mentre Berchet andrà in esilio. La posizione dei classicisti Tra i classicisti che reagiscono alle affermazioni di Madame de Staël non mancano atteggiamenti sdegnati, sarcastici o quantomeno ironicamente irridenti (➜ D1b OL): posizioni miopi di chi ha visto nell’intervento della scrittrice francese un ingiustificato attacco alla gloriosa cultura italiana. Altri classicisti assumono invece una linea più equilibrata (come in particolare Pietro Giordani), riconoscendo come giuste le critiche rivolte agli intellettuali italiani, ma di fatto difendendo la concezione classicistica della poesia e il principio di imitazione (➜ D1a OL).

326 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Nel 1816 anche Leopardi, allora giovanissimo, invia una Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana per esprimere la sua posizione al riguardo: la lettera viene rifiutata, così come il successivo Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818). Il contributo di Leopardi, proprio perché rimasto inedito, non avrà influenza sul dibattito, ma la profondità e l’originalità delle argomentazioni del giovane scrittore avrebbero potuto arricchire notevolmente il fronte dei classicisti, tra i quali egli sostanzialmente si schiera. Il più noto poeta del tempo in Italia, Vincenzo Monti, all’inizio evita di intervenire nella polemica, restando prudentemente ai margini del dibattito. Solo parecchi anni dopo, quando ormai il Romanticismo trionfa e la polemica si è in sostanza esaurita, scrive il Sermone sulla mitologia (1825) in difesa dell’uso della mitologia; ma il tono malinconico dello scritto testimonia di per sé la percezione della sconfitta. Le posizioni dei romantici Allo stesso 1816 appartengono i primi interventi di parte romantica. I più significativi (che si possono a vario livello considerare i primi “manifesti” del Romanticismo italiano, poiché contribuiscono a definire la visione romantica della poesia) appartengono non a caso ai futuri collaboratori del «Conciliatore». Le posizioni dei romantici sono tutt’altro che omogenee ma, cercando di schematizzarle in termini molto generali, si può dire che essi: • rifiutano l’uso della mitologia, considerata un insieme di forme vuote e ormai lontane dalla realtà e dal sentire popolare, patrimonio di eruditi passatisti; • respingono le regole della poetica aristotelica in nome dell’originalità e della spontaneità; • rigettano il principio di imitazione in nome della storicità dell’arte, che comporta il divenire nel tempo delle forme artistiche, e propongono la creazione di una poesia moderna e popolare (nel senso di un nuovo pubblico, delineato con chiarezza da Berchet nella Lettera semiseria (➜ D1d ). I “manifesti” del Romanticismo italiano Altri scritti centrali nella storia del Romanticismo italiano sono: • l’opuscolo di Ludovico Di Breme Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani. Di Breme riconosce la fondatezza delle accuse di Madame de Staël e la necessità di rinnovare la cultura italiana; • l’opuscolo di Pietro Borsieri Avventure letterarie di un giorno (➜ D1c OL). L’intervento è strutturato in forma narrativa per dargli una forma antipedantesca. Particolarmente importante nel testo è la difesa del genere del romanzo, attaccato dai letterati classicisti, del quale Borsieri individua con chiarezza la moderna funzione; • Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo di Giovanni Berchet, il più noto dei manifesti romantici (➜ D1d ); • Idee elementari sulla poesia romantica di Ermes Visconti, uscito a puntate tra il 19 novembre e il 6 dicembre 1818 sul «Conciliatore»; • Lettera a M. Chauvet di Manzoni (composta nel 1820), successiva alla scelta di infrangere nel Carmagnola le unità di tempo e di luogo; ma soprattutto la Lettera a Cesare d’Azeglio sul Romanticismo (1823): in essa lo scrittore milanese si schiera dalla parte del Romanticismo, ma con motivazioni specifiche, connesse alla sua visione religiosa della vita (➜ C9).

Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 327


PER APPROFONDIRE

I caratteri specifici del Romanticismo italiano Il Romanticismo italiano si pone in un rapporto di continuità più che di rottura rispetto all’Illuminismo, di cui condivide pienamente la concezione della letteratura (e più in generale della cultura) come strumento di progresso civile: una continuità evidente nel capolavoro del nostro più grande romanziere, Manzoni. Quello italiano è dunque un Romanticismo moderato, poco incline all’esibizione individualistica, ma anche refrattario all’esplorazione del lato “oscuro” della realtà e della psiche, di certo in rapporto alle specifiche condizioni della cultura e della società italiane. Forti motivazioni per ancorare il Romanticismo italiano al concreto, a una letteratura legata alla storia, derivano dal legame con il movimento risorgimentale, a cui praticamente tutti gli scrittori romantici aderiscono, molti dei quali partecipando anche in prima persona alla lotta per l’indipendenza del paese. La necessità di coinvolgere la maggior parte della popolazione e di diffondere i valori-guida del Risorgimento assegna agli scrittori italiani un compito importante nell’elaborare in ambito letterario stimoli utili nella formazione di una coscienza nazionale: da ciò deriva la scarsa presenza nel nostro Romanticismo di motivi irrazionalistici e la netta prevalenza di temi storico-patriottici, sia nella poesia sia nella narrativa. In particolare è prediletta l’epoca medievale e l’età dei comuni, la cui lotta contro l’Impero ben poteva rappresentare quella degli italiani contro l’oppressione straniera. Molto significativo è anche il proliferare delle memorie dei patrioti, che intrecciano le vicende personali alla storia di una nazione che stava nascendo. Proprio per l’importante ruolo civile che per la prima volta rivestivano, gli scrittori romantici italiani si proposero di trovare un linguaggio che riuscisse a parlare alla maggior parte degli italiani e non solo ai letterati di mestiere. Un tentativo convinto, ma non sempre riuscito.

Altre due importanti riviste: «L’Antologia» e «Il Politecnico» Dopo la soppressione del «Conciliatore», nel granducato di Toscana si sviluppa un nuovo tentativo di dare vita a un periodico moderno e liberale: Giovan Pietro Vieusseux (17791863), già organizzatore di un importante ritrovo culturale (il “Gabinetto Vieusseux”), nel gennaio 1821 fonda «L’Antologia», poi soppressa nel 1833. La visione politica della rivista è moderata: prevalgono su quelli letterari interessi storici, economici e scientifici, nell’obiettivo dichiarato di sprovincializzare la nostra cultura. A questo fine si auspica la diffusione di traduzioni di opere straniere. Nel 1839 nasce «Il Politecnico» di Carlo Cattaneo (18011869), ispirato a una visione militante e democratica dell’attività intellettuale che conferisce alla rivista una fisionomia unica nel panorama della pubblicistica ottocentesca. L’obiettivo della rivista è sempre, illuministicamente, quello di dare un contributo «alla prosperità comune e alla convivenza ci-

vile»; ma Cattaneo vuole privilegiare la diffusione del sapere scientifico in modo che l’Italia possa uniformarsi alle nazioni più progredite (alla rivista collaborarono in gran numero fisici, chimici, biologi, oltre a filosofi e letterati). Il fondatore muove un deciso attacco al sapere sterilmente umanistico proprio della nostra tradizione culturale a favore di una cultura moderna capace di incidere veramente sulla società. Una visione a cui si richiamerà, negli anni difficili del secondo dopoguerra, lo scrittore Elio Vittorini (1908-1966), scegliendo significativamente per la rivista da lui fondata lo stesso nome («Il Politecnico», 1945-1947) del periodico di Cattaneo. Quanto allo stile, Cattaneo pensa che «non debba cercare altra efficacia che quella di una semplice e rapida evidenza» e considera un modello da seguire lo stile di Galileo e dei suoi seguaci, reso «bello di semplicità» dalla «grandezza degli argomenti» e dalla «coscienza del vero».

328 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


D1

La polemica classico-romantica Proponiamo alcuni passi particolarmente significativi nell’ambito della polemica classico-romantica in Italia e che offrono punti di vista di entrambi gli schieramenti.

online D1a Pietro Giordani

“Un italiano” risponde al discorso della de Staël «Biblioteca italiana», aprile 1816

D1b Arnaldo Una parodia dei seguaci del Romanticismo Parodia dello statuto d’una immaginaria Accademia romantica

D1c Pietro Borsieri Elogio del romanzo Avventure letterarie di un giorno

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Giovanni Berchet

D1d

Il nuovo pubblico della letteratura romantica Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, in Lettera semiseria. Poesie, a cura di A. Cadioli, Rizzoli, Milano 1992

Il più celebre dei testi programmatici del nostro Romanticismo è la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo del milanese Giovanni Berchet (1783-1851), pubblicata a Milano nel 1816 e che ha grande diffusione. Nella Lettera semiseria (il cui titolo completo è Sul “Cacciatore feroce” e sulla “Eleonora” di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo), Berchet veste i panni di un personaggio immaginario, dal nome grecizzante di Grisostomo, il quale scrive al figlio, studente in collegio, che gli ha chiesto la traduzione di due ballate, di gusto romantico, del poeta tedesco Gottfried August Bürger. La seconda parte del testo di Grisostomo-Berchet contiene appunto la traduzione in prosa e il commento delle due ballate, mentre la prima presenta osservazioni generali sulla letteratura che esprimono la posizione di Berchet (e in genere dei romantici italiani), che ben si inseriscono nella polemica tra classicisti e romantici. Nella terza parte, l’autore finge di ritrattare le sue posizioni, esortando il figlio a seguire le regole classicistiche (da qui il titolo Lettera semiseria). Nel passo che presentiamo, tratto dalla prima parte della Lettera, particolarmente noto e importante, Berchet identifica il nuovo pubblico a cui si deve rivolgere la letteratura romantica.

Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ti1 fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia2. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva3; non è che una corda che risponde con simpatiche4 oscillazioni al tocco della prima. 5 La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto5 dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti6, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro,

1 ti: Grisostomo, che nella finzione è l’au-

3 in pochissimi... passiva: pochissimi so-

tore del testo, si rivolge al figlio. 2 Tutti... poesia: la sensibilità dell’uomo verso la poesia è uno dei tratti fondamentali della concezione romantica, che Berchet trae essenzialmente dal Corso di letteratura drammatica di August Wilhelm Schlegel.

no in grado di creare poesia, ma i più sono comunque capaci di apprezzarla (è quella che Berchet chiama «tendenza passiva»); 4 simpatiche: simpatetiche, fondate cioè sull’innata affinità (propriamente le simpatiche oscillazioni sono le vibrazioni provo-

cate in un corpo da quelle di un altro corpo senza che essi vengano a diretto contatto). 5 differenti affatto: completamente diversi. 6 antiche... poeti: nella mitologia greca ricordiamo in particolare il poeta Orfeo, figlio del dio Apollo.

Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 329


e l’«est deus in nobis7». Di qui il più vero dettato8 di tutti i filosofi: che i poeti fanno 10 classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma dell’intero universo. E per verità chi misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de’ loro poeti, parmi che non scandaglierebbe da savio9. Né savio terrei chi nelle dispute letterarie introducesse i rancori e le rivalità nazionali10. Omero, Shakespeare, il Calderón, il Camoens, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di patria tanto quanto Dante, 15 l’Ariosto, l’Alfieri. La repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. [...] Il poeta dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarre alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi 20 anch’essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini ugualmente squisita11. Lo stupido ottentoto12, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto perpetua25 mente tra ’l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però13 alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità14 quella della tendenza poetica. Per lo contrario un parigino15 agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran ca30 pitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una folta16 immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti17. Quindi la fantasia di lui è stracca18, il cuore allentato per troppo esercizio19. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano20 (per così dire); gli effetti di esse non lo commovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le ca35 gioni, giovandosi della mente21. Questa sua mente inquisitiva22 cresce di necessità in vigoria, da che l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla fantasia ed al cuore; cresce in arguzia23 per gli sforzi frequenti a’ quali la meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche senza avvedersene, viene assuefacendosi24 a perpetui raziocini o, per dirla a modo del Vico25, diventa filosofo. 40 Se la stupidità26 dell’ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto a 7 est deus in nobis: “c’è una presenza divina in noi”, espressione del poeta latino Ovidio. 8 dettato: opinione. 9 parmi... da savio: mi sembra (parmi) che non condurrebbe la sua indagine da persona saggia: il poeta è comunque un individuo eccezionale, la sua patria è l’universo e non la nazione di cui fa parte. 10 Né savio... nazionali: è evidente la polemica di Berchet verso coloro che, per malinteso culto della gloria nazionale, proprio in quell’anno hanno mal visto l’invito di Madame de Staël a far circolare in Italia testi stranieri. Seguono nomi di grandissimi poeti (da Omero a Schiller) che, sebbene nati in varie nazioni e in diverse epoche, Berchet considera italiani perché la grandezza poetica non ha patria. Il Camoens è il poeta porto-

ghese Luís de Camões (1525-80), autore dei Lusiadi. 11 squisita: perfetta. Berchet, dunque, istituisce (e lo farà in modo più dettagliato nel seguito del passo) una gerarchia all’interno di quella capacità di recepire la poesia che in sé è universale. 12 Lo stupido ottentoto: il rozzo ottentotto. Gli ottentotti sono una popolazione dell’Africa meridionale: qui il termine è sinonimo di uomo rozzo, incivile, che si limita a soddisfare i bisogni primari per la sola sopravvivenza materiale. 13 Però: perciò. 14 tiene dietro di necessità: consegue necessariamente. 15 un parigino: qui sinonimo di uomo colto e raffinato, ricco di letture ed esperienze colte, evidentemente una tipologia opposta all’ottentoto di prima.

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16 folta: folla, gran quantità. 17 accidenti: eventi. 18 stracca: stanca, infiacchita. 19 il cuore... troppo esercizio: le emozioni indebolite dall’eccesso di sollecitazioni.

20 lusingano: attraggono. 21 bisogna... mente: ha necessità di indagare razionalmente (giovandosi della mente) le cause. 22 inquisitiva: indagatrice. 23 arguzia: sottigliezza di analisi. 24 assuefacendosi: abituandosi. 25 a modo del Vico: secondo Giambattista Vico (1668-1744), pensatore scoperto e valorizzato proprio nell’età romantica, l’eccesso di raziocinio indebolisce l’attitudine alla poesia. 26 stupidità: sempre nel senso di “rozzezza”, “incultura”.


lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi. Nell’anima del secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore 45 non rispondono loro che come a reminiscenze27 lontane. E siffatti canti28, che sono l’espressione arditissima di tutto ciò che v’ha di più fervido nell’umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che meraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sarà più bene accolto che più penderà all’epigrammatico29? Ma la stupidità dell’ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora de50 scritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che più o meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che più si trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi30 che andrei a cercarli in una parte della Germania31. [...] L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o 55 ristretta in una nazione dalla natura delle istituzioni civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche, non fa all’intendimento mio32. Te ne discorreranno, o carissimo33, a tempo opportuno, i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa – l’italiana anch’essa né più né meno – sono formate da tre classi d’individui: l’una di ottentoti, l’una di parigini e l’una, per 60 ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri34, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni35. A questi tutti io do nome di «popolo». Della prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi36, non occorre far parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi, i quali escono dalla comune37 in modo 65 da perdere ogni impronta nazionale, vuole38 bensì essere rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio che i membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole derivare dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da’ confronti. Negli anni del fervore eglino hanno trovato il bello presso tale e tal altro poeta, e ciò che non somiglia al bello sentito un tempo, pare loro ora di 70 doverlo ricusare39. [...] La lode che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione non può davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch’ella sentenzia40, non ha a mettergli grande spavento. La gente ch’egli cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella terza classe. E questa, cred’io, deve il poeta moderno aver di mira, da questa 75 deve farsi intendere, a questa deve studiar41 di piacere, s’egli bada al proprio interesse ed all’interesse vero dell’arte. 27 reminiscenze: ricordi. 28 siffatti canti: i canti poetici. 29 E che meraviglia... epigrammatico: e come stupirsi se sarà accolto meglio dal parigino raffinato quel poeta che propenderà maggiormente verso la poesia concettosa (che più penderà all’epigrammatico)? 30 parmi: mi sembra. 31 in una parte della Germania: Berchet indica la Germania (o parte di essa) come la patria della poesia. E proprio in Germania era appunto nato il movimento romantico. 32 L’annoverare... intendimento mio:

l’autore non si propone di elencare le circostanze materiali (accidenti fisici) che favoriscano od ostacolino la tendenza poetica, né il ruolo che possano avere le istituzioni, la religione o le circostanze politiche. 33 o carissimo: Grisostomo si rivolge al figlio, cui appunto è indirizzata la lettera. 34 quant’altri: come i parigini. 35 pur tuttavia... emozioni: nondimeno mantengono una qualche capacità di provare emozioni (condizione per Berchet necessaria per poter apprezzare la poesia). 36 balordi calzati e scalzi: ottusi insensibili, sia benestanti che poveri.

37 escono dalla comune: si distinguono dagli altri.

38 vuole: deve. 39 Il giudizio... ricusare: Berchet attacca qui nei parigini un pubblico conservatore, che giudica le opere poetiche con criteri astratti, attraverso sterili paragoni con il bello ideale, identificato in passati modelli; ricusare, rifiutare. Sullo sfondo si intravede la polemica tra classicisti e romantici; eglino sta per “essi”, “questi”. 40 il biasimo... sentenzia: il giudizio negativo che esprime. 41 studiar: preoccuparsi.

Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 331


Concetti chiave Una nuova poesia per un nuovo pubblico

L’autore Giovanni Berchet nasce a Milano nel 1783 da una famiglia borghese di origine svizzera. Nel 1816 inizia a frequentare il gruppo dei romantici e scrivere la Lettera semiseria; nel 1818 è tra i più attivi collaboratori del «Conciliatore». Dopo la chiusura forzata la rivista, si rifugia prima in Svizzera e poi in Francia, ma il governo austriaco ne chiede l’estradizione. Ripara allora in vari paesi fino ad approdare nel 1822 a Londra, dove rimane fino al 1829. Intanto pubblica I profughi di Parga, le Poesie e le Fantasie, opere i cui temi patriottici sono in primo piano. Continuano nel frattempo le sue continue le sue peregrinazioni, prima in Belgio e poi a Nizza. Nel 1848 torna a Milano in occasione dei moti. Falliti i progetti di indipendenza dall’Austria, si reca a Torino, dove muore nel 1851. Tendenza poetica attiva e passiva La prima parte del testo è incentrata sull’enunciazione del principio romantico dell’universalità della tendenza poetica, dalla quale nessun uomo è escluso. Tuttavia Berchet distingue fra tendenza attiva (la capacità di produrre poesia), che è prerogativa di pochi, e tendenza passiva, che riguarda tutti gli uomini (ma seguirà poi una distinzione, che occupa la maggior parte del testo, tra i vari gradi con cui è recepita la poesia). Il poeta è uno di quei pochi esseri eccezionali che costituiscono, senza distinzione, la repubblica delle lettere. La voce divina dei poeti però ha bisogno, per esprimersi, di chi la recepisca. Nuova poesia, nuovo pubblico A questo punto Berchet introduce la distinzione tra ottentoti, parigini e popolo che costituisce l’aspetto più noto e interessante della Lettera semiseria. Alla base della distinzione, che finisce per identificare il pubblico ideale nel popolo, sta una libera interpretazione del principio vichiano secondo cui la facoltà poetica è propria delle epoche più arcaiche: a mano a mano che la civilizzazione procede e il sapere scientifico-filosofico avanza, l’ispirazione poetica, che si fonda sulla fantasia, tende ad affievolirsi, così come la capacità di recepire la poesia. Berchet applica però questo principio non a diverse età, ma a diverse categorie di persone. Non si tratta di una distinzione strettamente sociale, anche se il discorso fatto da Berchet finisce inevitabilmente per assumere anche un significato sociologico: identifica infatti nei ceti medi quel pubblico che, lontano dalla rozzezza e primitività (proprie degli ottentoti), come pure da un eccesso di raffinatezza e cultura (proprio dei parigini), è in grado di apprezzare veramente la poesia. Il popolo di cui parla Berchet, dando più precisa connotazione realistica al mito romantico della popolarità dell’arte, mantiene quell’«attitudine alle emozioni» che i parigini hanno perso e che è una qualità necessaria per recepire la poesia. Come scrive Berchet in un passo della lettera qui non riportato: il poeta moderno (che corrisponde al poeta romantico) deve essere consapevole che «...mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri....». Ed è a questo pubblico ampio, che di fatto coincideva con i vari strati della borghesia, che la letteratura romantica si rivolgeva. Ovviamente i termini ottentoto e parigino non vanno intesi letteralmente, come allusivi a una popolazione, ma in senso simbolico: il primo termine allude a una condizione di ignoranza, di elementarità del sentire, il secondo a un eccesso di raffinatezza e di raziocinio che ostacola la comprensione della poesia che, per i romantici, è spontanea creazione, espressione del sentimento e della fantasia. Da questa categoria di lettori il poeta non deve più farsi condizionare, ma deve invece rivolgersi a quel vasto pubblico a cui l’emergente industria editoriale sta cominciando a guardare con interesse anche in Italia.

William Wyld, Il duomo di Milano visto da una strada laterale, olio su tela, 1834 (Collezione privata).

332 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Dividi il testo in parti, titolandole, e sintetizzane il percorso argomentativo. COMPRENSIONE 2. Che cosa significa l’espressione «la repubblica delle lettere non è se non una»? 3. Quale rapporto fra scrittore e pubblico è auspicato da Berchet?

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4 Sottolinea i passi in cui Berchet delinea le caratteristiche del popolo e spiega le ragioni per cui la poesia romantica può essere definita “popolare” (max 6-8 righe). 5. Berchet crede fermamente nella necessità di una poesia che si allontani dal culto dei classici e da un puro esercizio intellettualistico e ritiene, invece, che essa debba nascere dalla «fantasia» e dal «cuore». Quale rapporto hai con la parola poetica? Ti emoziona la lettura di poesie?

2 Il genere egemone del Romanticismo italiano: il romanzo storico La contrastata accettazione del genere romanzo A partire dagli anni Venti, anche in Italia il romanzo conosce una grande fortuna, soprattutto in seguito alla pubblicazione, nel 1827, dei Promessi sposi. Grazie al successo di pubblico e all’indiscutibile qualità dell’opera, I promessi sposi riescono a vincere la diffidenza e a volte la vera e propria ostilità degli ambienti letterari conservatori verso il genere del romanzo. I letterati tradizionalisti vedevano infatti nel romanzo un genere letterario minore, che non esisteva nella tradizionale codificazione dei generi e che poteva coinvolgere emotivamente in modo pericoloso i lettori (e soprattutto le lettrici). I teorici del Romanticismo italiano, da Pietro Borsieri nelle Avventure letterarie di un giorno (➜ D1c OL) a Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo (➜ D1d ), difendono invece il romanzo, intuendone le grandi potenzialità nella formazione di un nuovo pubblico. Si comprende che la mancanza, in Italia, di una narrativa moderna è il frutto di una società ancora arretrata, in cui manca una classe borghese solida. L’affermazione del romanzo storico Tra le varie tipologie di romanzo, gli scrittori italiani si orientano nettamente verso il sottogenere del romanzo storico, il cui atto di nascita è costituito proprio dai già citati Promessi sposi (1827), ai quali seguiranno innumerevoli lavori tra lo stesso 1827 e il 1840 (anno della redazione definitiva del romanzo manzoniano). È da ricordare che nel 1821-1822 sono elaborate le prime traduzioni dei romanzi di Scott, che costituisce anche per Manzoni il principale punto di riferimento. La predilezione della cultura italiana per il romanzo storico si spiega con i caratteri specifici del Romanticismo italiano a cui si è fatto riferimento: in rapporto alle vicende politiche del paese, gli scrittori e il pubblico italiani sono più interessati alle vicende storiche, sia pur romanzate, che all’invenzione fantastica. Attraverso la rievocazione di episodi salienti e di personaggi della storia italiana si può svolgere un’opera di educazione e sensibilizzazione politico-patriottica dei lettori: il pubblico, infatti, è indotto a riconoscere nel passato le proprie radici, il “genio” del popolo italiano (il passato è sempre presentato nei vari romanzi come “preistoria del presente”). In questo senso il romanzo storico svolge effettivamente un’azione importante nella formazione della coscienza risorgimentale. Oltre all’ingrediente storico però, secondo una “ricetta” adottata sistematicamente, gli scrittori inseriscono nei loro romanzi anche quelle vicende sentimentali che il Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1 333


pubblico richiede sempre di più e la cui assenza ne pregiudicherebbe il successo; proprio questa commistione di storia e invenzione, oltre alla scarsa qualità letteraria di molti romanzi, induce Manzoni, “padre” del romanzo storico italiano, a prenderne le distanze e a formulare un giudizio severo su di esso nel saggio Del romanzo storico, pubblicato dopo una lunga gestazione nel 1850. Rivolgendosi a un pubblico di lettori comuni, che vogliono avvincere, i romanzieri utilizzano espedienti avventurosi, colpi di scena, ingredienti tratti anche dal romanzo gotico, accentuando il carattere popolare delle loro opere non solo rispetto al grande modello manzoniano, ma anche rispetto alla lezione di Scott. Anche nel romanzo storico del primo Ottocento si avverte l’influenza dei due principali schieramenti ideologico-politici del nostro Risorgimento: quello cattolicoliberale e quello democratico (➜ VEDI PAG. 349-351). Al primo appartengono, tra gli altri, Tommaso Grossi (1790-1853), amico personale di Manzoni, autore del romanzo Marco Visconti (1834), incentrato su una vicenda amorosa che ha sullo sfondo eventi politici legati alla dinastia dei Visconti; Cesare Cantù (1804-1895), autore di Margerita Pusterla (1838); Massimo d’Azeglio (1798-1866), genero di Manzoni e autore, oltre che di Niccolò de’Lapi (1841), del fortunato Ettore Fieramosca (1833), romanzo di forte ispirazione risorgimentale, che trae spunto dalla disfida di Barletta, avvenuta ai primi del Cinquecento fra cavalieri francesi e italiani. Appartiene invece all’area democratica Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), autore di La battaglia di Benevento (1828), L’assedio di Firenze (1836) e Beatrice Cenci (1853). Ma quelli citati sono solo gli esempi più noti di quella che diventa una vera e propria moda, destinata a esaurirsi verso la metà del secolo. Unico esempio di romanzo di notevole levatura letteraria, nel panorama complessivamente modesto della narrativa italiana del primo Ottocento, è Le confessioni di un italiano, composto nel 1858 da Ippolito Nievo (1831-1861) morto non ancora trentenne durante la spedizione dei Mille: un romanzo di impianto storico, ma ormai lontano dalle prerogative canoniche (e dai limiti) del genere. (➜ C5).

La poetica romantica in Italia

CARATTERI GENERALI

RUOLO “CIVILE” DELLA LETTERATURA

• dibattito tra classicisti e romantici • poesia moderna e popolare • rifiuto del principio di imitazione e dell’uso della mitologia

• sostegno al Risorgimento • interesse per la storia (soprattutto il Medioevo) e per i temi patriottici

predilezione per il romanzo storico

334 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


2

Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 1 L’autore Ippolito Nievo Nievo nasce a Padova nel 1831 e qui si laurea in legge nel 1855, ma non eserciterà la professione di avvocato a cui il padre voleva avviarlo. Assai presto si manifestano in lui interessi politici (aderisce alla corrente democratica) e letterari, che si traducono in una serie di opere: dalle novelle e romanzi di ambientazione e soggetto campagnolo (Il novelliere campagnolo e altri racconti; Il barone di Nicastro) alle liriche (Lucciole, 1858; Amori garibaldini, 1860). Tra il 1857 e il 1858 scrive il suo capolavoro: Le confessioni di un italiano, che verranno pubblicate postume presso Le Monnier con il titolo Confessioni di un ottuagenario senza l’ultima revisione d’autore. Egli partecipa, infatti, alla spedizione dei Mille e nel 1861 muore, appena trentenne, in un naufragio mentre sta rientrando a Napoli dalla Sicilia.

2 Il romanzo

Ippolito Nievo.

La trama Il romanzo Le confessioni di un italiano narra le vicende di Carlo Altoviti, orfano di madre e abbandonato dal padre. Il protagonista viene quindi allevato dalla zia materna al castello di Fratta, vicino a Portogruaro, allora sotto la Repubblica di Venezia. Si interessano a lui solo il vecchio servitore Martino e la capricciosa contessina Pisana, che Carlino amerà fino alla morte della donna, nonostante il suo comportamento volubile e contraddittorio. Il giovane studia legge a Padova e ben presto inizia a nutrire idee liberali, ma il trattato di Campoformio disillude brutalmente il suo entusiasmo per Napoleone; in seguito all’occupazione austriaca fugge dal territorio veneziano e ripara in varie città. A Napoli prende parte ai moti che portano alla nascita della Repubblica partenopea; fatto prigioniero, è condannato a morte ma viene salvato dall’intervento della Pisana, con la quale fugge a Genova e poi a Bologna. Costituitosi il Regno d’Italia, Carlo torna a Venezia e sposa, per suggerimento della Pisana, Aquilina, una ragazza semplice e concreta, che gli darà due figli. Dopo la caduta di Napoleone e l’avvento della Restaurazione, Carlo combatte con i patrioti di Guglielmo Pepe. È condannato ai lavori forzati all’isola di Ponza, dove si ammala e perde la vista. Graziato per una protezione autorevole sollecitata dalla Pisana, si reca con lei a Londra: qui è assistito dalla Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 335


donna, che si riduce a elemosinare per lui. Carlino riacquista la vista ma la Pisana, provata dalle fatiche e dagli stenti, muore. Carlo torna in Italia e, ormai vecchio, scrive le sue memorie.

Giuseppe Canella, Veduta di mulino (collezione privata).

Un romanzo all’incrocio tra diversi generi Il romanzo di Nievo, sebbene non abbia avuto da parte dell’autore le ultime correzioni, presenta molti elementi di interesse, innanzitutto per l’originalità dell’impianto: si tratta infatti di un romanzo complesso, all’incrocio tra diversi generi. Sicuramente Nievo guarda al fortunato modello del romanzo storico (sono molteplici gli echi diretti dei Promessi sposi, in particolare nelle pagine del tumulto di Portogruaro) ma vi introduce una variazione fondamentale: l’inserimento dell’attualità (mentre, come si è visto, il romanzo storico faceva riferimento esclusivamente alla storia passata). La narrazione, condotta in forma di memorie personali dal protagonista, che si immagina ormai ottantenne, può richiamare anche la memorialistica di carattere patriottico che fiorisce abbondantemente nell’ambito dell’esperienza risorgimentale. D’altra parte, caratteri specifici dell’opera di Nievo sono il rifiuto di ogni mitizzazione, di ogni visione idealizzante (si rimanda, a conferma di ciò, all’episodio dell’incontro tra Carlino e Napoleone ➜ T3 ) e la prospettiva dichiaratamente realistica e antieroica, con il frequente ricorso all’ironia. Il titolo (che richiama Le confessioni rousseauiane) sembrerebbe rimandare alla narrazione autobiografica settecentesca, ma in Nievo l’esperienza del protagonista è strettamente intrecciata al percorso storico-politico dell’Italia verso l’unità nazionale; ed è proprio questo nesso che a lui sta a cuore sottolineare, come già si comprende dalle prime parole del romanzo: «Io nacqui veneziano e... morrò per la grazia di Dio italiano...» (➜ T1 OL). La tipologia che più identifica il romanzo di Nievo è il Bildungsroman, il “romanzo di formazione”: la narrazione segue il percorso di Carlino Altoviti nella sua crescita spirituale, culturale e umana. Essa si svolge in un periodo storico di transizione per l’Europa e per l’Italia in particolare («a cavalcione di due secoli»), dall’ancien régime e dagli schemi immobili della vita feudale (ritratti in particolare nei primi cinque capitoli, relativi al castello di Fratta) agli avvenimenti napoleonici e allo scoppio dei primi moti, per arrivare fino al 1849, subito dopo la prima guerra d’indipendenza. Nell’itinerario, anche spaziale, del protagonista – che è condotto “fuori” dal mondo immobile di Fratta e immesso nella realtà tumultuosa della storia (un passaggio sottolineato, nel romanzo, dall’ampliarsi degli spazi e dall’accelerazione del tempo della narrazione) – si rispecchia la difficile nascita di una nazione. Il narratore-protagonista: un antieroe La storia di Carlino in sé non ha niente di esemplarmente eccezionale, così come “normale” si configura fin dalle prime righe del romanzo il protagonista-narratore, che non ha i tratti dell’eroe romantico né vuole incarnare la figura del patriota-modello. La narrazione della sua vicenda ai lettori è motivata esclu-

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sivamente dal periodo storico eccezionale in cui egli si è trovato a vivere: «nulla sarebbe di strano o degno di essere narrato, se la mia vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana». La storia di Carlino, come il narratore esplicita nel primo capitolo, è solo una delle tante: «sarà quasi un esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali che [...] composero la gran sorte nazionale italiana» (➜ T1 OL). Lo sguardo “lungo” sulla storia italiana Ciò che dà particolare significato alla narrazione è la veneranda età del protagonista, immaginato da Nievo ottuagenario e perciò ricco di saggezza; ma soprattutto, grazie alla sua lunga vita, capace di abbracciare molti anni cruciali della storia italiana, estendendo il suo sguardo a ritroso, dal periodo risorgimentale agli ultimi decenni del Settecento. La scelta particolare di Nievo riguardo alla voce narrante comporta la presenza nel romanzo di uno sguardo “lungo” sulla storia italiana, che sottrae la narrazione alla retorica dei grandi ideali propria della letteratura risorgimentale. Nievo è tra i pochi scrittori a capire che, se si voleva davvero costruire una nuova nazione su basi solide, occorreva una riflessione seria e spassionata sui mali maggiori che affliggevano la società italiana, riflessione che non poteva prescindere dal risalire alle loro origini storiche. Si capisce allora il valore del quadro che nel romanzo viene offerto del microcosmo di Fratta (➜ T1 OL), dove Carlino assiste «all’ultimo e ridicolo atto del gran dramma feudale». Esso non è solo una rappresentazione affettuosa e insieme ironica, bensì un’analisi che permette di capire con quale tipo di realtà si sarebbe scontrato quel nuovo mondo che il vento della storia stava per portare anche in Italia. È indubbia, nel giovane romanziere, la fiducia nel valore pedagogico della letteratura: uno sforzo di comprensione-valutazione degli eventi indirizzato alla crescita morale e civile dei lettori. Lo stile Anche sul piano stilistico, le scelte di Nievo sono originali: è contrario sia al fiorentinismo manzoniano sia, ancor più, alle rigide posizioni dei puristi. Nievo attinge così il suo lessico agli ambiti più diversi, senza preclusioni: dai dialetti veneti e lombardi alla tradizione letteraria. Anche sul piano online sintattico prevale la varietà: una misurata mimesi dei modi T1 Ippolito Nievo L’esordio del romanzo del parlato si associa ai procedimenti della prosa di tradizione Le confessioni di un italiano, cap. I letteraria.

Le confessioni di un italiano GENERE

romanzo all’incrocio di diversi generi: romanzo storico, romanzo autobiografico e memoriale, “romanzo di formazione”.

DATAZIONE

stesura tra il 1857 e il 1858. Pubblicazione, senza ultima revisione dello scrittore, nel 1867, con il titolo Confessioni di un ottuagenario.

TEMI

riflessione antiretorica sui grandi mali che affliggono la società italiana e ricerca delle origini storiche che li hanno prodotti.

STILE

lessico attinto agli ambiti più vari (dai dialetti veneti e lombardi alla tradizione letteraria).

Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 337


Ippolito Nievo

T2

Il conte di Fratta, emblema della società feudale Le confessioni di un italiano, cap. I

I. Nievo, Le confessioni di un italiano, Einaudi, Torino 1964

Questo brano si iscrive nella rievocazione dell’ambiente fisico (celeberrima la descrizione della cucina) e umano del castello di Fratta, che è considerata tra le parti più riuscite del romanzo di Nievo. Per primo viene descritto il conte di Fratta.

Il signor Conte di Fratta era un uomo d’oltre a sessant’anni il quale pareva avesse svestito allor allora l’armatura, tanto si teneva rigido e pettoruto sul suo seggiolone. Ma la parrucca colla borsa, la lunga zimarra1 color cenere gallonata di scarlatto2, e la tabacchiera di bosso che aveva sempre tra mano discordavano un poco da quell’at5 titudine guerriera. Gli è vero che aveva intralciato fra le gambe un filo di spadino3, ma il fodero n’era così rugginoso che si potea scambiarlo per uno schidione4; e del resto non potrei assicurare che dentro a quel fodero vi fosse realmente una lama d’acciaio, ed egli stesso forse non s’avea presa mai la briga di sincerarsene. Il signor Conte era sempre sbarbato con tanto scrupolo, da sembrar appena uscito dalle mani 10 del barbiere; portava da mattina a sera sotto l’ascella una pezzuola turchina, e benché poco uscisse a piedi, né mai a cavallo, aveva stivali e speroni da disgradarne un corriere di Federico II5. Era questa una tacita dichiarazione di simpatia al partito prussiano, e benché le guerre di Germania fossero da lungo tempo quietate, egli non avea cessato dal minacciare agli imperiali il disfavore de’ suoi stivali6. Quando 15 il signor Conte parlava, tacevano anche le mosche; quando avea finito di parlare, tutti dicevano di sì secondo i propri gusti o colla voce o col capo; quando egli rideva, ognuno si affrettava a ridere; quando sternutiva anche per causa del tabacco, otto o nove voci gridavano a gara: «Viva; salute; felicità; Dio conservi il signor Conte!»; 20 quando si alzava, tutti si alzavano, e quando partiva dalla cucina, tutti, perfino i gatti, respiravano con ambidue i polmoni, come si fosse lor tolta dal petto una pietra da mulino. Ma più romorosamente d’ogni altro respirava 25 il Cancelliere7, se il signor Conte non gli facea cenno di seguirlo e si compiaceva di lasciarlo ai tepidi ozi del focolare. Convien però soggiungere8 che questo miracolo avveniva di rado. Per solito il Cancelliere era l’ombra 30 incarnata del signor Conte. S’alzava con lui, sedeva con lui, e le loro gambe s’alternavano con sì giusta misura che pareva rispondessero Thomas Lawrence, ritratto di gentiluomo, ad una sonata di tamburo. olio su tela, 1820 ca. (Collezione privata). 1 zimarra: una veste da camera. 2 gallonata di scarlatto: ornata di decorazioni rosse.

3 un filo di spadino: una spada sottile. 4 schidione: spiedo. 5 da disgradarne… Federico II: da far sfigurare un portaordini di Federico II (re di

Prussia, 1712-1786).

6 non avea cessato… stivali: non aveva smesso di rivolgere contro gli austriaci (gli imperiali, in riferimento alla casa regnante d’Austria che aveva combattuto con la Prussia di Federico II nella guerra di successione austriaca, le guerre di Germania

338 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

citate poco sopra) l’ostilità minacciosa dei suoi stivali (l’espressione è ironica). 7 il Cancelliere: l’uomo di legge che assisteva il conte nell’amministrazione giuridica del feudo. 8 soggiungere: aggiungere.


Analisi del testo Il ritratto del conte Il conte di Fratta, fin dall’aspetto fisico e dall’abbigliamento, si rivela un vero e proprio simbolo di un mondo feudale sostenuto da rigide gerarchie e altrettanto rigidi rituali. Il castellano è un “sopravvissuto” all’avanzare della storia e ostenta con boria il suo attaccamento a un passato che inesorabilmente si va sempre più sbriciolando intorno a lui: «pareva avesse svestito allor allora l’armatura» e porta sempre con sé un inutile (e inutilizzato) spadino. Attorno al conte orbita un gruppo di personaggi indistinti, ma tutti uniti dall’impegno nel compiacere il castellano. In questo gruppo spicca solo la figura del Cancelliere destinato, suo malgrado, a essere «l’ombra incarnata del signor Conte». Nel seguito del capitolo, a quella del conte seguirà la presentazione degli altri membri della nobile famiglia: monsignor Orlando, fratello del conte, la contessa e la vecchissima madre del conte «che aveva veduto Luigi XIV», quasi il simbolo della storia passata; infine le due figlie del conte: la dolce Clara e l’affascinante Pisana. Un mondo che, ben presto, sarà travolto dalla bufera della storia (➜ T3 , ➜ T4 e ➜ T5 ).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

ANALISI 1. La boria del conte è raffigurata da Nievo attraverso particolari significativi, in cui si manifesta lo sguardo del narratore: individua e commenta le immagini, i paragoni e altri elementi del testo in cui si esprime tale giudizio. STILE 2. Con quale tono viene descritto il conte? Quale obiettivo persegue il narratore con questa scelta?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 3. In un intervento orale di max 3 minuti presenta il ritratto del conte di Fratta.

Ippolito Nievo

T3

Carlo Altoviti incontra un Napoleone molto diverso dal mito Le confessioni di un italiano, cap. X

I. Nievo, Le confessioni di un italiano, a cura di Marcella Gorra, Mondadori, Milano 1984

L’arrivo delle truppe napoleoniche in Italia sconvolge, con la sua violenza, il mondo del castello di Fratta. Carlo si reca dunque a Udine, presso lo Stato Maggiore dell’esercito francese, per denunciare a Napoleone le efferatezze dei suoi soldati, che hanno portato alla morte per crepacuore dell’anziana Contessa: in questo brano assistiamo all’incontro tra Carlo e Napoleone in persona.

Ad Udine trovai la solita confusione. Gli ospiti che comandavano, i padroni che ubbidivano. Le autorità veneziane senza forza senza dignità senza consiglio1; il popolo e i signori del paese spartiti in diverse opinioni le une più strane e fallaci delle altre. Ma moltissimi che giorni prima avevano gridato evviva agli usseri d’Ungheria e ai 5 dragoni di Boemia, plaudivano allora ai sanculotti di Parigi2. Questo era il frutto della nullaggine politica di tanti secoli: non si credeva più di essere al mondo che per guardare; spettatori e non attori. Gli attori si fanno pagare, e chi sta in poltrona è giusto che compensi quelli che si movono per lui. 1 senza consiglio: senza capacità di prendere delle decisioni. 2 moltissimi... di Parigi: molti di quelli

che avevano applaudito le truppe d’occupazione alleate degli Austriaci, ora erano pronti ad applaudire i francesi.

Nievo, per bocca del suo personaggio, condanna il trasformismo opportunista degli italiani.

Le confessioni d’un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 339


Il generale in capite3 Napoleone Buonaparte (così lo chiamavano allora) dimorava in 10 casa Florio. Chiesi di abboccarmi con essolui4 affermando di aver a fare gravissime comunicazioni sopra cose avvenute nella provincia, e siccome egli mestava in fin d’allora nel torbido coi malcontenti veneziani5, così mi venne concessa un’udienza. Questo perché non lo seppi che in appresso6. Il generale era nelle mani del suo cameriere che gli radeva la barba; allora non disde15 gnava di farsi vedere uomo, anzi ostentava una certa semplicità catoniana7, cosicché al primo aspetto rimasi confortato d’assai. Era magro sparuto irrequieto; lunghi capelli stesi gli ingombravano la fronte, le tempie e la nuca fin giù oltre al collare del vestito. Somigliava appunto a quel bel ritratto che ce ne ha lasciato l’Appiani, e che si osserva alla villa Melzi a Bellaggio8: dono del Primo Console Presidente al 20 Vicepresidente, superba lusinga del lupo all’agnello. Solamente a quel tempo era più sfilato ancora tantoché gli si avrebbero dati pochi anni di vita, ed anzi una tal sembianza di gracilità aggiungeva l’aureola del martire alla gloria del liberatore. Egli sacrificava la sua vita al bene dei popoli; chi non si sarebbe sacrificato per lui? «Cosa volete, cittadino?» mi diss’egli ricisamente9, fregandosi le labbra col pizzo 25 dello sciugatoio10. «Cittadino generale» risposi con un inchino lievissimo per non offendere la sua repubblicana modestia11 «le cose di cui vengo a parlarvi sono della massima importanza e della maggior delicatezza». «Parlate pure» egli soggiunse, accennando il12 cameriere che continuava l’opera sua. 30 «Mercier non ne sa d’italiano più che il mio cavallo». «Allora», ripresi, «mi spiegherò con tutta l’ingenuità d’un uomo che si affida alla giustizia di chi combatte appunto per la giustizia e per la libertà. Un orrendo delitto fu commesso tre giorni sono13 al castello di Fratta da alcuni bersaglieri francesi. Mentre il grosso della loro schiera saccheggiava arbitrariamente i pubblici granai 35 e l’erario di Portogruaro, alcuni sbandati invasero una onorevole casa signorile, e svillaneggiarono14 e straziarono tanto una vecchia signora inferma più che centenaria rimasta sola in quella casa, che ella ne morì di disperazione e di crepacuore». «Ecco come la Serenissima Signoria inacerbisce i miei soldati!» gridò il generale balzando in piedi, poiché il cameriere avea finito di sciacquargli il mento. «Si predica 40 al popolo che sono assassini, che sono eretici: al loro comparire tutti fuggono, tutti abbandonano le case. Come volete che simili accoglienze predispongano gli animi all’umanità e alla moderazione?... Ve lo dico io; bisognerà che mi volga indietro a pulirmi la strada da questi insetti molesti». «Cittadino generale, capisco anch’io che la fama bugiarda può aver impedito la 45 cordialità dei primi accoglimenti; ma vi è una maniera di smentir questa fama, mi pare, e se con un esempio luminoso di giustizia...» «E sì, parlatemi proprio di giustizia, oggi che siamo alla vigilia d’una battaglia campale sull’Isonzo!... La giustizia bisognava che fosse fatta a noi fin da due o tre anni 3 in capite: in capo. 4 abboccarmi con essolui: avere un incontro con lui. 5 mestava… veneziani: cercava fin da allora di trarre vantaggio da una situazione confusa in relazione al malumore che c’era a Venezia. 6 Questo perché… appresso: questo motivo non venni a saperlo che in seguito.

7 una certa semplicità catoniana: Catone il censore, uomo politico romano vissuto tra il III e il II secolo a.C., è passato alla storia per la morigeratezza e la severità dei costumi. 8 villa Melzi a Bellaggio: residenza estiva di Francesco Melzi d’Eril, vicepresidente della Repubblica Italiana con Napoleone. 9 ricisamente: con tono secco e deciso. 10 sciugatoio: asciugamani.

340 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

11 risposi... modestia: Nievo rappresenta l’incontro di Carlino con Napoleone inserendo tocchi di ironia in ogni minimo particolare. 12 accennando il: facendo un cenno al. 13 tre giorni sono: tre giorni orsono, tre giorni fa. 14 svillaneggiarono: ingiuriarono, offesero.


fa!... Adesso raccolgono quello che hanno mietuto. Ma ho il conforto di vedere che il peggior danno non vien loro da’ miei soldati... Bergamo Brescia e Crema hanno già divorziato da San Marco15, e quella stupida e frodolenta16 oligarchia s’accorgerà finalmente che i loro veri nemici non sono i Francesi. L’ora della libertà è suonata; bisogna levarsi in piedi e combattere per essa, o lasciarsi schiacciare. La Repubblica francese porge la mano a tutti i popoli perché si rifacciano liberi, nel pieno esercizio 55 dei loro diritti innati e imprescrivibili. La libertà val bene qualche sacrifizio! Bisogna rassegnarsi». «Ma, cittadino generale, io non parlo di rifiutarmi a nessun utile sacrifizio per la causa della libertà. Soltanto mi sembra che il martirio d’una vecchia contessa...» «Ve lo ripeto, cittadino; chi ha esacerbato l’animo de’ miei soldati? chi ha volto contro 60 di essi il talento17 dei preti di campagna e dei contadini?... È stato il Senato, è stata l’Inquisizione di Venezia. Non dubitate che giustizia sarà fatta sopra i veri colpevoli...» «Pure, mi parrebbe che un esempio per ovviare a simili disordini nel futuro...» «L’esempio, cittadino, i miei bersaglieri lo daranno sul campo di battaglia. Non dubitate. Giustizia sarà fatta anche sopr’essi; già non pretendereste che li ammazzassi 65 tutti!... Or bene; saranno nella prima fila; laveranno col loro sangue e a pro’ della libertà l’onta della colpa commessa. Così il male sarà volto in bene, e la causa del popolo si sarà avvantaggiata degli stessi delitti che la deturparono!» «Cittadino generale, vi prego di osservare...» «Basta, cittadino: ho osservato tutto. Il bene della Repubblica innanzi ad ogni cosa. 70 Volete essere un eroe?... Dimenticate ogni privato puntiglio e unitevi a noi, unitevi con quegli uomini integri e leali che fanno anche nel vostro paese una guerra lunga ostinata sotterranea ai privilegii dell’imbecillità e della podagra18. Di qui a quindici giorni mi rivedrete. Allora la pace la gloria la libertà universale avranno cancellato la memoria di questi eccessi momentanei». 75 In queste parole il gran Napoleone aveva finito di vestirsi, e si mosse verso la camera vicina ove lo attendevano alcuni officiali superiori. Vedendo ch’egli né era molto contento della mia visita, né pareva disposto a badarmi oltre, io m’avviai mogio mogio giù per la scala riandando il tenore di tutto quel colloquio19. Non ci capii per verità molto addentro; ma pure que’ suoi gran paroloni di popolo e di libertà, e quel 80 suo piglio riciso ed austero m’avevano annebbiato l’intelletto, e mi partii, a conti fatti, che l’odio contro i patrizi veneziani superava d’assai perfino il risentimento contro i bersaglieri francesi. La tremenda disgrazia della Contessa mi parve una goccia d’acqua in confronto al mare di beatitudine che ci sarebbe venuto addosso pel valido patrocinio dell’esercito 85 repubblicano. Quel cittadino Bonaparte mi pareva un po’ aspro un po’ sordo un po’ anche senza cuore, ma lo scusai pensando che il suo mestiere lo voleva pel momento così. E a questo modo lasciai a poco a poco darsi pace la morta, e tornai col pensiero ai vivi: cosicché nella lettera che scrissi a Venezia per partecipare il triste caso20 alla famiglia, ne affibbiai21 forse più la colpa all’improvvidenza22 delle venete magistrature, 90 e alla sciocca paura del popolo, che alla barbara sfrenatezza degli invasori. 50

15 Bergamo… San Marco: le tre città erano tutte nel territorio della Serenissima (San Marco) da cui ora, a detta di Napoleone, intendono staccarsi. 16 frodolenta: fraudolenta, che agisce con la frode.

17 il talento: gli umori. 18 podagra: gotta, malattia tipica delle

20 partecipare il triste caso: comunicare

classi aristocratiche, per via dell’alimentazione ricca di grassi e proteine. 19 riandando... colloquio: ripensando a come si era svolto quell’incontro.

21 affibbiai: attribuii, addossai. 22 improvvidenza: incapacità di preve-

il triste fatto.

dere.

Le confessioni d’un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 341


Analisi del testo L’irruzione delle truppe francesi Quando le truppe napoleoniche arrivano in Italia, Carlo Altoviti vive ancora nel castello di Fratta che, come si è visto (➜ T2 ), è un mondo chiuso: alle orecchie dei semplici abitanti del castello il nome stesso di Napoleone suona falso e improbabile. Invece Napoleone e le sue truppe sono reali. La storia irrompe con violenza nella vita sonnacchiosa degli abitanti di Fratta e ha le sembianze minacciose e brutali della soldataglia francese: gli uomini di Bonaparte si rivelano molto diversi dall’idea eroica che si era fatto Carlo, il quale, come molti altri giovani della sua generazione, si era entusiasmato per le imprese del generale francese, visto e atteso come speranza di nuova libertà. I francesi requisiscono il castello e a causa delle loro oltraggiose malefatte la Contessa, quasi centenaria, muore di crepacuore.

La denuncia di Carlo e la risposta di Napoleone È proprio per denunciare tutto ciò a Napoleone che Carlo si reca a Udine. Si tratta di un gesto dettato da una buona fede ingenua e cristallina. All’entrata in scena di Napoleone Bonaparte, l’aspetto fisico con cui il giovane generale si presenta agli occhi di Carlino sembra ancora rispondere all’immagine idealizzata che lo stesso Carlino se n’era fatta, tant’è vero che al protagonista viene in mente il parallelo immediato col celebre ritratto di Appiani, che contribuisce a diffondere in Europa il mito del condottiero francese. Questo mito comincia a incrinarsi nel momento in cui, di fronte all’appello di Carlo, Napoleone risponde con un atteggiamento violento e chiuso a ogni compromesso: egli, anzi, ribalta la prospettiva, facendo ricadere la colpa dell’accaduto non sui soldati stessi ma sui patrizi veneziani, che esasperano gli animi delle truppe francesi diffondendo la voce «che sono assassini, che sono eretici». Una risposta così convincente, dato il carisma di chi la pronuncia, che Carlo finisce per uscire dall’incontro con un’opinione assai diversa da quella iniziale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Con quale frase prende avvio il cambiamento nell’immagine di Napoleone? STILE 2. A dispetto della violenza francese, agli occhi del giovane Carlino Napoleone conserva ancora i tratti e le caratteristiche dell’eroe. Ripensando in tarda età a questa passione giovanile, Carlo la pone in una luce diversa, considerandola con distacco ironico: rintraccia nel testo i segnali di questa ironia.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 3. La varietà degli scritti dedicati a Napoleone ha contribuito a farne un personaggio controverso. Leggi questo documento, tratto da un saggio di Natalie Petiteau, docente francese di storia contemporanea, che si è occupata dell’eredità delle istituzioni napoleoniche nel XIX secolo. Spiega come si conciliano i diversi aspetti della personalità di napoleone con la reale valutazione del suo operato. Argomenta le tue riflessioni in una trattazione dal taglio storico.

Esiste un altro uomo passato o presente che, come Napoleone, abbia suscitato altrettante ricerche sui più piccoli dettagli della sua personalità? Una vera nausea può nascere a stendere l’inventario di questi ritratti, fondati troppo spesso su una profusione di aneddoti. Lodatori o autori di libelli denigratori, molti sono quelli che si sono lasciati affascinare dal capo militare, dal salvatore o dall’ostentatore di energia. […] Resta il fatto che Napoleone continua ad appassionare lettori e autori, anche se ha perso la popolarità di una volta. […] L’immagine di Napoleone resta confusa. Se il personaggio continua a nascondersi, non bisogna d’altra parte riconoscere che la massa delle pubblicazioni ha privilegiato l’uomo piuttosto che la sua opera? E, ugualmente, che la storiografia napoleonica ha peccato per un eccesso di approccio biografico, trascurando i cittadini in favore del sovrano? N. Petiteau, Napoléon, de la mythologie à l’histoire, Editions du Seuil, Paris 2004

342 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Ippolito Nievo

T4

LEGGERE LE EMOZIONI

La bufera della storia e la fine di un mondo Le confessioni di un italiano, cap. XVIII

I. Nievo, Le confessioni di un italiano, Einaudi, Torino 1964

La bufera della storia, impersonificata nelle armate napoleoniche, si è ormai abbattuta anche sul piccolo mondo arcaico di Fratta e dintorni, sconvolgendone i secolari equilibri. Non c’è posto ora per l’ironia ma solo per il rimpianto di care usanze spazzate via: un rimpianto nostalgico che ben traspare dalle parole della lettera che l’amico Provedoni, reso invalido dalla guerra, invia a Carlo.

«Se vedeste questi paesi, Carlino!... Non li conoscereste più!... Dove sono andate le sagre, le riunioni, le feste che allegravano di tanto in tanto la nostra giovinezza?... Come sono scomparse tante famiglie che erano il decoro del territorio, e serbavano incorrotte le antiche tradizioni dell’ospitalità, della pazienza cristiana, e della reli5 gione?... Per quale incanto s’è assopita ad un tratto quella vita di chiassi, di gare fra villaggio e villaggio, di contese e di risse per le occhiate d’una bella, per l’elezione d’un parroco, o per la preminenza d’un diritto? In quattro anni sembra ne sian passati cinquanta. Non ci fu carestia, e si lagnano ogni dove della miseria; non ci furono leve di soldati, né pestilenze come in Piemonte ed in Francia; e le campagne 10 sono spopolate e le case deserte1 dai migliori lavoratori. Chi emigrò in Germania, chi nella Cisalpina; chi accorse per far fortuna a Venezia, e chi sta zitto per paura nei poderi più nascosti e lontani. La differenza d’opinioni ha disfatto le famiglie2; i dolori, i patimenti, le soperchierie3 della guerra hanno ucciso i vecchi e invecchiato gli adulti. Non si celebrano più matrimoni, e di rado assai il campanello suona pel 15 battesimo. Se si ode la campana si può giurare ch’è per un’agonia o per un morto. La vigoria ch’era rimasta nei nostri compaesani, e che s’esercitava o bene o male in piccoli negozi4 di casa o di comune, ora s’è sfiancata del tutto. Rimasti senza armi senza denari senza fiducia non pensano più che ciascuno a sé stesso e pei bisogni dell’oggi; tutti lavorano dal canto loro ad assicurarsi un covacciolo5 contro le insidie 20 del prossimo e le prepotenze dei superiori. L’incertezza delle sorti pubbliche e delle leggi fa sì che si schivino dal contrattare, e che si specoli sulla buona fede altrui piuttosto che affidarvisi». [...] «Oh se vedeste ora il castello di Fratta!... Le muraglie sono ancora ritte; la torre s’innalza ancora tra il fogliame dei pioppi e dei salici che circondano le fosse; ma 25 nel resto qual desolazione! Non più gente che va e viene e cani che abbaiano e cavalli che nitriscono e il vecchio Germano che lustra gli schioppi6 sul ponte, o il signor Cancelliere7 che esce col conte, o i villani8 che si schierano facendo di cappello alle Contessine9! Tutto è solitudine, silenzio, rovina. Il ponte levatojo è caduto fradicio; e hanno empiuto la fossa10 con carri di rottami e di calcinacci tolti via dalla 30 casa dell’ortolano che è cascata. L’erba cresce pei cortili, le finestre non solo sono prive d’imposte, ma gli stipiti e i davanzali si sgretolano al gocciolar continuo della 1 deserte: abbandonate (latinismo). 2 La differenza... le famiglie: si allude alle differenti opinioni politiche create dal convulso succedersi degli eventi storici. 3 le soperchierie: i soprusi.

4 negozi: attività commerciali. 5 covacciolo: piccolo rifugio. 6 schioppi: fucili. 7 il signor Cancelliere: confronta con la

nota 7 in (➜ T2 ).

8 villani: contadini. 9 Contessine: Clara e Pisana. 10 empiuto la fossa: riempito il fossato che circondava il castello.

Le confessioni d’un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 343


pioggia. Si dice che alcuni creditori, o ladri, o che so io, abbiano venduto perfino le travature del granaio; io non ne so nulla; veggo solamente che manca un gran pezzo di tetto e che ci piove e nevica dentro, con quanto danno degli appartamenti 35 ve lo potete immaginare!» [...] «Insomma, ve lo diceva fin dapprincipio, ch’io son partito da un paese e torno in un cimitero».

Analisi del testo Il “prima” e il “dopo” di Fratta La descrizione della vita del mondo arcaico di Fratta, sconvolto dall’irrompere della storia, è strutturata in un “prima” e un “dopo”, a cui Provedoni, rivolgendosi a Carlo nella lettera, associa in modo netto una valutazione rispettivamente positiva e negativa. La descrizione di questo desolante cambiamento parte dal territorio di Fratta per poi addentrarsi nelle dinamiche personali e familiari dei suoi abitanti, anch’esse sconvolte dall’arrivo delle armate napoleoniche. Infine lo sguardo si posa sul castello in rovina, che diventa il simbolo stesso della devastazione: la struttura è ancora presente, ma in uno stato di completo degrado e soprattutto abbandonata da quelle figure che la animavano, come Germano, il Cancelliere, i contadini e le Contessine. Una devastazione ben riassunta dalla frase finale del brano: «Insomma, ve lo diceva fin dapprincipio, ch’io son partito da un paese e torno in un cimitero».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il brano in max 5 righe. COMPRENSIONE 2. Che cosa intende Provedoni con la frase «In quattro anni sembra che ne sian passati cinquanta» (rr. 7-8)? ANALISI 3. Trascrivi in una scheda i principali elementi della contrapposizione del “prima” e del “dopo” nella vita di Fratta, quindi sintetizzane il significato. STILE 4. Perché l’autore nella prima parte del testo utilizza con insistenza frasi interrogative?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA CREATIVA 5. Descrivi un luogo importante della tua vita “prima” e “dopo” un evento che ne ha mutato la fisionomia e metti in luce quanto questi cambiamenti abbiano contribuito a incidere sulla tua sensibilità e sulla tua visione del mondo.

In questo dipinto di fine Ottocento, opera di Edouard Detaille, le truppe francesi presentano a Napoleone gli stendardi prussiani catturati dopo la battaglia di Jena.

344 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Ippolito Nievo

T5

La Pisana, una figura femminile fuori dagli stereotipi

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 3

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Le confessioni di un italiano, cap. VIII I. Nievo, Le confessioni di un italiano, Einaudi, Torino 1964

Nel romanzo di Nievo ha un ruolo di primo piano la figura della Pisana, la contessina che compare sulla scena del romanzo fin dall’inizio e che ricompare poi nei momenti chiave dell’avventurosa esistenza di Carlo Altoviti. Si tratta di un personaggio originale, a tratti addirittura inquietante, di certo non riconducibile agli stereotipi romanzeschi del tempo. Anche dal passo che presentiamo la Pisana si mostra un personaggio di sorprendente modernità.

Le stranezze della Pisana toccavano sovente all’ingiustizia1; spesso apparivano svergognatezza2, se io non avessi ricordato quanto spensierata ella fosse di natura. Le sue simpatie non aveano più né ragione né scusa né durata né modo3. Questa settimana s’apprendeva4 d’un affetto rispettoso e veemente pel vecchio Piovano5 di 5 Teglio; usciva col velo nero sul capo e le ciglia basse; s’intratteneva con lui sulla porta della canonica volgendo le spalle ai passeggieri6; udiva pazientemente i suoi consigli e perfino le sue mezze prediche. Si ficcava in testa di diventare una santa Maddalena, si pettinava i capelli come li vedeva a questa santa in un quadretto che stava a capo del suo letto. Il giorno dopo compariva mutata come per incanto; la 10 sua delizia non era più il Piovano, ma il cavallante7 Marchetto; voleva a tutta forza8 ch’ei le insegnasse a cavalcare; scorrazzava pei prati a bisdosso9 d’un ronzino come un’amazzone, e si guastava10 la fronte e le ginocchia contro i rami della boscaglia. Allora non voleva seco11 che poverelli e contadini; si atteggiava, credo, a castellana del Medio Evo; camminava lungo il rio12 a braccetto di Sandro il mugnaio, e perfin 15 Donato, lo spezialino13, le pareva troppo azzimato e artifizioso14. Poco stante15, eccola cambiar registro; voleva esser condotta mattina e sera a Portogruaro16; faceva attrappire17 tutti i vecchi cavalli di suo padre nelle fangose carraie di quelle stradacce, ma si dovea sempre correre di galoppo. Godeva di eclissare la podestaressa, la Correggitrice18, e tutte le signore e donzelle della città. Giulio Del Ponte, il damerino 20 più vivace e desiderato, le serviva di riverbero19: parlava e gesticolava con lui, non perché avesse nulla a dirgli, ma per ottener voce di briosa e maligna20. Giulio ne era innamorato pazzamente e avrebbe giurato ch’ella aveva più brio di tutte le male lingue di Venezia. Ella invece sempre scontenta, sempre tormentata da desiderii mal definiti, e da una voglia sfrenata di piacere a tutti, di far bene a tutti, non pensa25 va che ciò, non si studiava che a ciò21, e rade volte si prendea la briga di neppur ascoltare quando altri parlava. 1 toccavano sovente all’ingiustizia: sconfinavano spesso nell’ingiustizia. 2 svergognatezza: spudoratezza. 3 Le sue simpatie... né modo: la Pisana si delinea attraverso le parole del narratore come dotata di una personalità eccentrica, imprevedibile e incostante, poco incline al vaglio razionale dei propri comportamenti. 4 s’apprendeva: si accendeva. 5 Piovano: curato. 6 passeggieri: passanti.

7 cavallante: stalliere, custode di cavalli. 8 a tutta forza: a tutti i costi. 9 a bisdosso: sul dorso senza sella. 10 si guastava: si feriva. 11 seco: con sé, vicino a sé. 12 rio: fiumicello. 13 lo spezialino: il garzone del farmacista. 14 troppo azzimato e artifizioso: elegante in modo ricercato e artefatto. 15 Poco stante: poco dopo. 16 Portogruaro: la cittadina vicino al feu-

do di Fratta. 17 attrappire: rattrappire. 18 la podestaressa, la Correggitrice: erano le mogli degli uomini più autorevoli e più in vista. 19 di riverbero: da specchietto di richiamo. 20 voce... maligna: fama di spigliata e di maliziosa. 21 non si studiava che a ciò: non si impegnava in altro che in questo.

Le confessioni d’un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 345


Questa era una qualità singolarissima della sua indole, che purché fosse certa di far contento alcuno, a nessuna opera, per quanto difficile e schifosa, si sarebbe rifutata. Se uno storpio, uno sciancato, un mostro avesse mostrato desiderio d’ottenere un 30 suo sguardo lusinghiero, tosto ella glielo avrebbe donato così amorevole, così lungo, così infocato come al vagheggino22 più lindo e lucente. Era generosità, pensieratezza, o superbia? Forse questi tre motivi si univano a renderla tale; per cui non ebbe dintorno essere tanto odioso e spregevole che con un’attitudine23 di preghiera non ottenesse da lei confidenza e pietà, se non affetto e stima. Perfino con Fulgenzio si 35 addomesticava24 talvolta a segno da25 sedere al suo focolare intantoché dimenavano26 la polenta. E poi, uscita di là, la sola memoria di quel bisunto ipocrita sagrestano le metteva raccapriccio. Ma non poteva resistere a un’occhiata di adulazione. [...] Io mi maravigio ancora che non ne nascesse sotto gli occhi del Conte e del Cano40 nico27 qualche gravissimo scandalo; ma forse le apparenze furono peggiori della realtà, e le fatiche corporali e la vita selvatica e vagabonda attutirono per allora nella Pisana gli istinti focosi e sensuali. In ciò io era più disposto tuttavia a veder nero che bianco; perché essendo stato testimonio e compagno delle sue infantili effervescenze, durava grande fatica28 a credere che l’età più adulta avesse smorzato 45 in lei quello che suole accendere negli altri. Briaco29 d’amore e di rimembranze30, ogni qualvolta un impeto di compassione me la recava fra le braccia e non la sentiva tremare e sospirare come avrei voluto, la gelosia mi torceva l’anima: pensava 22 vagheggino: bellimbusto. 23 attitudine: atteggiamento. 24 si addomesticava: assumeva atteggia-

25 a segno da: al punto di. 26 dimenavano: mescolavano. 27 Conte... Canonico: rispettivamente il

menti di confidenza.

padre e lo zio della Pisana.

Francesco Hayez, I vespri siciliani, olio su tela, 1846 (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e contemporanea).

346 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

28 durava grande fatica: facevo molta fatica. 29 Briaco: ubriaco. 30 rimembranze: ricordi.


che a me restassero le ceneri d’un fuoco che avea bruciato per altri, e su quelle labbra dove m’immaginava dover gustare ogni gioia del paradiso trovava invece i 50 tormenti dell’inferno. Ella si stoglieva31 da me disgustata della mia freddezza, della mia rabbia continua; io fuggiva da lei colle mani nei capelli, colla disperazione nel cuore volgendo nell’animo pensieri di morte e di vendetta. [...] Nessuno al mondo esisterà mai, per quanto incantevole e perfetto, che avesse potuto concentrare in sé solo e per sempre tutti gli affetti, tutti i desiderii della Pisana. 55 Io che ne aveva una buona parte, desiderava l’altra: se avessi ottenuto questa, mi sarebbe mancata la prima. Poiché né Giulio, né alcun altro prima o dopo di lui, poté vantarsi di godere al pari di me la confidenza e la stima della Pisana. Io solo, io solo ebbi questa parte più intima e sola forse santa dell’anima sua; io solo, nei pochi intervalli che fui da lei beato d’amore, ho potuto credermi padrone di 60 tutto l’esser suo, veramente amante, poiché l’amava conoscendola com’ella era; veramente amato, perché al sentimento che mi desiderava, la ragione stessa dava la sveglia e l’abbandono soave della gratitudine. Oh! mi si conceda questo unico premio d’un amore sì lungo, paziente, infelice. Mi si conceda di poter credere che come io prelibai32 le delizie di quell’anima, così solo ne ebbi il pieno godimento. 65 Né lo spettacolo d’un bello e vario prospetto di natura33, né l’aspetto d’un quadro finitamente condotto può apprezzarsi degnamente se non da chi ha la vera conoscenza della natura e dell’arte. Nessuno potrà apprezzare certo i tesori di un’anima, se non ne ha indagato con lunga consuetudine e con devoto e profondo amore i più reconditi nascondigli. La Pisana fu una creatura siffatta, che soltanto chi nacque, 70 si può dire, e crebbe con lei, e pensò sempre a lei, e non amò che lei, può averla interamente indovinata. 31 si stoglieva: si scostava. 32 prelibai: gustai per primo.

33 prospetto di natura: prospettiva, panorama naturale.

Analisi del testo La Pisana: un personaggio moderno, refrattario agli schemi Insieme a Carlo, il protagonista-narratore, l’altra figura centrale nel romanzo di Nievo è sicuramente la Pisana, uno dei personaggi femminili più significativi e memorabili della nostra letteratura. Essa ha un ruolo importante anche sul piano dell’intreccio: non solo scompare e ricompare nei momenti chiave della vicenda ma, con il suo provvidenziale intervento, produce anche svolte sorprendenti nel corso degli eventi, come una sorta di deus ex machina. Si tratta di una figura che rimane enigmatica sino alla fine del romanzo e la cui personalità fin dalle prime pagine appare sotto il segno della volubilità e della contraddizione: «Volubile come una farfalla che non può ristar due minuti sulla corolla d’un fiore, senza batter le ali per succhiarne uno diverso, ella passava d’un tratto dalla dimestichezza al sussiego, dalla più chiassosa garrulità ad un silenzio ostinato, dall’allegria alla stizza e quasi alla crudeltà» (cap. III). Già da bambina la Pisana mostra, ben delineati, i tratti di un carattere forte e complesso: è capricciosa, sensuale e seduttiva, crudele e tirannica, ma anche capace di grande generosità, una generosità che nel corso della vicenda diventerà addirittura abnegazione e altruismo estremo, come quando a Londra si ridurrà a mendicare per consentire a Carlo di guarire da una grave infermità. Il suo comportamento nel corso del romanzo è sempre ispirato non dalle leggi sociali (anche se accetta un matrimonio di convenienza) ma dalle leggi del cuore e dell’istinto.

Le confessioni d’un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 2 347


Sempre autentica, indipendente, fedele solo a sé stessa, la Pisana non può in alcun modo essere iscritta entro i modelli femminili istituzionalizzati dalla letteratura del tempo: non è la brava moglie borghese, ma non è nemmeno la donna perduta; mobile e metamorfica, è una donna costantemente in fuga dai vincoli comportamentali del tempo e dalle immagini culturali e letterarie ad essi collegate. Si comprende facilmente perché questo personaggio femminile trasgressivo suscitò perplessità se non scandalo nei lettori benpensanti, tenuto conto anche del fatto che compariva in un romanzo che si proponeva fini educativi delle giovani generazioni.

L’infrazione degli schemi del Bildungsroman Mentre il protagonista maschile compie un cammino di educazione sentimentale, civile, morale (secondo lo schema narrativo del Bildungsroman, il romanzo di formazione), la Pisana, fin dall’inizio depositaria di tratti caratteriali che rimangono costanti, si sottrae a qualsiasi progetto pedagogico che derivi dall’esperienza di vita. Le linee del Bildungsroman che Nievo intende realizzare con Le confessioni si complicano, diventano confuse. L’educazione stessa ha svolto un ruolo solo negativo nella Pisana: troppo permissiva, l’educazione ricevuta da bambina, anziché smorzare le sue stranezze e i suoi capricci, vi ha lasciato libero sfogo, fissandoli in tratti definitivi di personalità. La Pisana è così un personaggio per certi aspetti “statico” (in termini narratologici), senza evoluzione: «ciò che manca alla Pisana è una crescita ordinatamente distribuita nel tempo, così come si configurava nel romanzo di formazione tradizionale. Il suo accesso al bene non è determinato da una maturazione progressiva e lineare, né tanto meno da una consapevolezza razionalmente raggiunta; al contrario, esso è completamente subordinato alle illuminazioni improvvise della sua indole strana e indomabile [...] se nel romanzo riuscirà a salvarsi da un destino di degradazione sociale e morale, non sarà grazie a un processo di normalizzazione, che la riporti entro i ranghi del “giusto” e del “buono”, bensì per una sorta di apoteosi, che da personaggio reale, in carne ed ossa, la trasformerà in eroina tragica, in cifra simbolica» (C. Gaiba). L’impossibilità di ricondurre il suo personaggio entro i limiti di un percorso prestabilito induce Nievo a ideare per la Pisana una morte purificatrice idealizzante, da eroina melodrammatica. Ma evidentemente la catarsi anche troppo obbligata del personaggio non risulta convincente per i lettori benpensanti e la Pisana rimane così un personaggio inquietante (e proprio per questo moderno), la cui interpretazione è ancora oggi una sfida aperta per la critica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale rapporto ha il protagonista con la Pisana? ANALISI 2. Il passo delinea abbastanza compiutamente la complessa personalità della Pisana. I tratti fondamentali del suo carattere sono la contraddittorietà e la volubilità: ripercorri il testo e indica alcuni esempi che lo comprovino.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 3

TESTI A CONFRONTO

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

3. Leggi autonomamente i primi tre capitoli del romanzo ricercando notazioni relative alla Pisana bambina e istituisci un confronto con le informazioni che su questo complesso personaggio sono fornite nel brano.

348 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


3

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 1 Il problema dell’identità: «fare gli italiani»

online

Verso il Novecento Il Risorgimento rivisitato di Luciano Bianciardi

La letteratura per la nazione Per l’Italia l’Ottocento è il secolo in cui il nostro paese diventa, in seguito alle lotte risorgimentali, una nazione unitaria. Al di à degli eventi politico-militari del Risorgimento che portano all’unificazione del paese (1860), il formarsi negli italiani di una coscienza comune e di un comune sentire è un processo lento e faticoso, che impegna tutte le forze intellettuali della società e nel quale la letteratura ha un ruolo fondamentale. Bisogna ricordare che l’Italia era un paese nel quale convivevano realtà sociali e culturali estremamente diverse, privo di una lingua unitaria, ma privo soprattutto di un’idea condivisa di popolo e di nazione. È anche per questo che, nel periodo risorgimentale, la letteratura tende spesso, come già si è detto, ad assumere un carattere fortemente pedagogico, prendendosi la responsabilità di formare i cittadini della nazione che andava allora costituendosi e che aveva, per la prima volta nella storia, la possibilità di chiamarsi “italiana”. Gli scrittori fanno ricorso a tutti gli strumenti retorici a propria disposizione per stimolare nei neo­italiani l’orgoglio verso la propria identità nazionale, anche a scapito della qualità dei testi che, a un lettore contemporaneo, possono apparire artefatti e stucchevoli. Il panorama ideologico Sulla produzione letteraria dell’epoca hanno un importante riflesso i principali orientamenti ideologici su cui si costruisce il complesso panorama delle lotte risorgimentali, che si definiscono a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento e che qui ricordiamo brevemente. A questo proposito rimane sempre valida la schematizzazione operata al tempo dal grande critico Francesco De Sanctis (1817-1883), che tra gli scrittori di questo periodo individua due grandi “scuole”: quella cattolico-liberale – di tendenza moderata – e quella democratica – di tendenza più radicale – (naturalmente all’interno dei due schieramenti si delineeranno posizioni differenziate).

Baldassare Verazzi, Combattimento a Palazzo Litta durante le Cinque giornate di Milano, olio su tela, 1886 ca. (Milano, Museo del Risorgimento).

Il versante moderato: i cattolico-liberali Nei primi anni dell’Ottocento per gli intellettuali moderati la preoccupazione maggiore era stata la difesa del sistema di valori messo in discussione dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese. A partire dagli anni Trenta, invece, la cultura cattolica italiana comincia a confrontarsi con le problematiche e le ideologie legate al clima risorgimentale e alla nascita in Italia di una nuova società borghese: particolarmente importante è il movimento noto come neoguelfismo, teorizzato dal canonico Vincenzo Gioberti, che individua nel Cattolicesimo e nella figura del papa l’unico eleLetteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 349


mento aggregante abbastanza forte da servire come punto di riferimento nel cammino di costruzione della nazione unita. Nell’atteggiamento dei cattolici emergono non poche contraddizioni e lacerazioni destinate a durare nel tempo, specchio delle diverse anime che convivono nel Cattolicesimo italiano in rapporto a due fondamentali aspetti: il problema dell’iniziativa politica dei cattolici e il rapporto con una cultura laica che negli altri paesi europei si era ormai conquistata un ruolo primario. Tratto comune di tutto lo schieramento liberal-moderato è l’idea che la società italiana possa progredire solo attraverso riforme graduali, mentre viene rifiutata qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. Nella visione moderata, la questione dell’indipendenza va invece affidata agli strumenti della diplomazia, attraverso un’alleanza tra i diversi stati italiani. Inoltre, pur chiedendo che siano garantite le libertà fondamentali, i moderati non intendono affatto mettere in discussione la forma di governo monarchica e la immaginano temperata da blande forme di costituzionalismo ispirate al modello inglese. Il punto di riferimento principale per tutti i letterati di orientamento moderato è Alessandro Manzoni (➜ C9): proprio l’esempio dell’autore dei Promessi sposi, grande modello di equilibrio e di conciliazione, favorisce il formarsi di una cultura cattolica italiana che non si identifica nella visione ideologica della Restaurazione.

PER APPROFONDIRE

Il versante democratico Tutt’altro che compatto e omogeneo, lo schieramento democratico diede spazio a posizioni e idee alquanto diversificate. Dopo il fallimento dei moti carbonari del 1821, che aveva dimostrato l’inefficacia di una lotta politica fondata sulla cospirazione e lontana dalle reali condizioni del popolo, diviene più che mai evidente la necessità di individuare princìpi, ideali e punti di riferimento comuni. Proprio da questa consapevolezza prendono le mosse, negli anni Trenta, le prime iniziative di stampo democratico, soprattutto grazie all’opera di Giuseppe Mazzini. Con la fondazione nel 1831 della “Giovine Italia” nasce una tradizione democratica che si manterrà viva e attiva fino alla seconda metà del XX secolo: essa dà voce soprattutto all’ideologia della piccola e media borghesia, con i suoi valori prettamente

Il dibattito sul carattere dei popoli Il problema della ricerca di un’“identità nazionale” non nasce con i moti risorgimentali: si tratta in realtà di una riflessione le cui radici risalgono al pensiero politico del Rinascimento, da Machiavelli a Guicciardini, e che tra Settecento e Ottocento riceve nuovo impulso dalle discussioni sul “carattere” dei popoli che si diffusero soprattutto in Francia nell’ambito dell’Illuminismo. In quel periodo si accese un vivo interesse (ne è espressione ad esempio il Saggio sui costumi di Voltaire) per quello che gli intellettuali del tempo chiamavano esprit des nations, “spirito dei popoli”, inteso come insieme dei tratti che caratterizzano una nazione, in senso non solo etnico ma più ampiamente antropologico: lo spirito dei popoli riguarda infatti anche le tradizioni, i costumi, le forme del pensiero e dell’arte. Anche l’Italia fu coinvolta in questo nuovo interesse: ne sono esempi opere quali Descrizioni de’ costumi italiani (1728) di Pietro Calepio (1693-1762) o An Account of the Manners and Customs in Italy (1768, in italiano nel 1808) di Giuseppe Baretti (1719-1789). Si tratta per lo più di scritti concepiti per rispondere alle critiche dei viaggiatori stranieri che, arrivando in Italia (meta obbligata del Grand Tour), ne criticavano l’ar-

retratezza rispetto al resto d’Europa e la miseria in cui viveva gran parte della popolazione. Giacomo Leopardi, con il suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani scritto nel 1824, dà il contributo più originale e profondo al dibattito sul carattere nazionale. Egli condanna aspramente la mancanza in Italia di una società vera e propria, intesa come comunità consapevole e matura, e di un’opinione pubblica che ne sostenga e propaghi opinioni e ideologia, bilanciando con la sua forza di coesione la tendenza all’individualismo e alla difesa degli interessi privati. Il carattere degli italiani è contraddistinto, secondo il poeta, da una diffusa carenza di senso civico, accompagnata anche da una notevole dose di cinismo. Manca, insomma, una vita collettiva e, quel che è peggio, manca la volontà sincera e genuina di costruirne una. Quella di Leopardi è una visione del tutto pessimista, assai lontana dai quadri estetizzanti della realtà nazionale tratteggiati da tanti scrittori romantici; già nei primi decenni dell’Ottocento, il poeta di Recanati sa mettere in luce alcune delle problematiche fondamentali che emergeranno in tutta la loro gravità negli anni post-risorgimentali e che forse costituiscono ancora oggi un aspetto cruciale della società italiana.

350 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


laici e repubblicani, volti a promuovere la modernizzazione delle strutture sociali ed economiche del paese, ancora frenato da un assetto civile di stampo feudale. Nonostante l’interesse manifestato dai democratici per le condizioni di vita delle masse popolari, non si viene mai a creare un vero contatto tra intellettuali e classi umili, in particolare quelle contadine. Proprio per questa distanza incolmabile, al di là della retorica e delle mitologie, il Risorgimento italiano rimane un movimento sostanzialmente elitario, che non sa farsi interprete delle vere esigenze del popolo né riesce a dar vita a un forte e genuino senso di appartenenza nazionale. A questo proposito è di straordinaria lucidità quanto, tempo dopo, scriverà Antonio Gramsci (1891-1937) nei Quaderni del carcere (1929-1935) ripercorrendo la storia degli intellettuali italiani in alcuni momenti cruciali nello sviluppo del paese. Il giudizio sul Risorgimento è sostanzialmente negativo: lontani dalla vita reale del paese, gli intellettuali dell’epoca non hanno saputo guidare il rinnovamento democratico dell’Italia, fallendo in quello che era il loro compito storico. Da qui la celebre definizione gramsciana del Risorgimento come «rivoluzione mancata».

2 Andare al passato per costruire il futuro: le memorie dei patrioti Dalla “scrittura dell’io” alla “scrittura del noi”: il nuovo valore della riflessione autobiografica Nel corso del XVIII secolo il genere autobiografico aveva conosciuto uno sviluppo straordinario, diventando uno strumento prezioso per la scoperta e l’analisi di una nuova soggettività, più moderna e complessa: basti ricordare Rousseau e, in Italia, Goldoni e Alfieri. Con il nuovo secolo, e in particolare in rapporto alle mutate circostanze storiche, in Italia la scrittura autobiografica assume un significato diverso: non è più solo scandaglio intimistico e viaggio nell’interiorità, ma si proietta su un orizzonte più ampio, in cui esperienza individuale e contesto storico si intersecano in un rapporto di scambio e rispecchiamento reciproco. La “scrittura dell’io” aspira a trasformarsi in “scrittura del noi” nella ricerca di un sistema di valori e ideali comuni: spesso il racconto di un’esperienza individuale tende così ad assumere un valore paradigmatico, di esempio per tutti. Più che di autobiografie (nelle quali chi scrive racconta di sé stesso) si può parlare di “memorie”: il memorialista scrive per fare dei propri ricordi un patrimonio comune e creare un legame tra passato e futuro. Non è un caso che la memorialistica conosca un momento di grande vigore nel periodo risorgimentale e postrisorgimentale: nell’intenzione degli autori di memorie gli ideali patriottici e l’impegno civile che animano i loro scritti possono contribuire alla costruzione di un patrimonio ideologico e spirituale comune alla nuova nazione che si sta formando. Pochi esempi di valore letterario I risultati della memorialistica risorgimentale non sono, però, sempre felici. I miei ricordi, del nobile sabaudo Massimo d’Azeglio (1798-1866), sono un’opera dall’intento apertamente pedagogico uscita postuma nel 1867. Il testo ricostruisce la formazione dell’autore tracciando un confronto tra il passato e l’epoca corrente, della quale d’Azeglio condanna severamente la perdita di quei valori di rettitudine e coerenza che animavano invece il primo Risorgimento. Al di là della finalità educativa, le migliori doti di scrittore di Massimo D’Azeglio emergono specialmente nelle parti dedicate alla sua prima giovinezza. Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 351


Incompiute sono le Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini (1813-1876), importante esponente della cultura liberale e democratica dell’Italia meridionale. L’opera, stampata postuma tra il 1879 e il 1880 con una prefazione di Francesco De Sanctis, è per lo più dedicata all’impegno politico dell’autore nella sua terra natale. Sono pagine dominate dall’ardore e dall’entusiasmo patriottico, sia quando viene descritta la giovinezza felice trascorsa fra Napoli e Caserta, sia quando si narra delle lotte risorgimentali e della dura esperienza della prigione (➜ T6 ), dove Settembrini fu rinchiuso dalla polizia borbonica dal 1839 al 1842, e poi ancora dal 1849 al 1859. La reale complessità della storia Come già evidenziato, si differenzia da questi modelli il più importante romanzo dell’Ottocento, dopo I promessi sposi: Le confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo, che partecipò alla spedizione dei Mille e vi perse la vita. Nievo rifiuta il modello letterario della memorialistica, fondato su una ricostruzione del passato storico come patrimonio comune, a cui la nazione possa guardare con animo concorde. Per quanto convinto della positiva energia anche pedagogica insita nella letteratura, l’autore delle Confessioni non crede in una storia vista come “monumento”, dove bene e male sono nettamente distinti, dove tutte le esperienze possono essere ridotte a esempi, e le persone diventano meri caratteri: per lui, la storia rimane soprattutto un’esperienza umana, che dell’umano conserva tutte le debolezze e le incoerenze. Per questo motivo il suo Carlino è un antieroe del Risorgimento, coinvolto quasi per caso nelle vicende della sua nazione, che da lui vengono sempre vissute con passione sincera e generosa, senza però mai prendere il sopravvento sul versante più intimo e personale dei sentimenti, che si tratti degli affetti familiari, delle amicizie o dell’amore.

Gerolamo Induno, Il generale Garibaldi con Sirtori e Bixio, si imbarca a Quarto, oio su tela, 1860 (Milano, Museo del Risorgimento).

L’epopea dei Mille nei memoriali dei garibaldini Nell’ambito del genere memorialistico una menzione a parte spetta agli scritti che, nella seconda metà del secolo, scaturirono dalle varie imprese garibaldine, prodotti in genere da persone che vi avevano preso parte. Il livello e la qualità di questi diari, memorie e note sparse sono disomogenei. Per lo più si tratta di opere che risentono in maniera molto pesante degli intenti retorici dei loro autori, per i quali le preoccupazioni di carattere artistico e letterario sono decisamente subordinate alla volontà di conferire alle esperienze narrate un’aura di eroismo epico. Di fatto, però, è proprio l’enfasi retorica che domina queste narrazioni a restituirci il fervido clima ideologico di quegli anni caldi della vita nazionale. Tra i memorialisti garibaldini più importanti ricordiamo Eugenio Checchi, Memorie d’un Garibaldino (1888); Alberto Mario, Camicia Rossa (1870); Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille (1891). Il memoriale di Abba (➜ T7 ) è il racconto di una rivoluzione che, nella visione dell’autore, vedeva popolo e intellettuali uniti in una causa comune: una rappresentazione che dimostra scarsa consapevolezza di quelle che erano le effettive condizioni del meridione. La narrazione di Abba si sviluppa così sullo sfondo di una Sicilia fittizia, vista attraverso la lente deformante dell’idealismo di patria come una terra atavica e mitologica.

352 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Luigi Settembrini

T6

Una conversazione tra compagni di cella Ricordanze della mia vita, Tre giorni in cappella, 1

L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, a cura di M. Themelly, Feltrinelli, Milano 1961

Nel 1849 Settembrini è arrestato dalla polizia borbonica per attività sovversive: condotto nel carcere di Santo Stefano, vi rimane rinchiuso dieci anni (fino a quando riesce a sfuggire alla deportazione e a riparare in Inghilterra). Nel brano, ambientato in una cella comune, Luigi e altri tre prigionieri sono in attesa della sentenza, che si prevede di condanna capitale (sarà poi convertita nell’ergastolo).

Finalmente il venerdì 31 gennaio 1851, tre ore dopo il mezzodì, i giudici si chiusero nella camera del consiglio per decidere, e noi discesi nel carcere fummo ristretti più1 che nei giorni precedenti. Desinammo tranquillamente secondo il solito; e poiché fu venuta2 la sera, tutti e quattro prendemmo a ragionare3. «Faranno giustizia?» «E lo 5 speri?» «Io non credo che saranno tutti malvagi, e qualcuno di essi penserà all’avvenire». «Costoro hanno un’altra logica». «Ricordiamo che questa causa si è fatta per esempio pubblico, e che il governo ha necessità di condanne per giustificare le sue azioni». «Ebbene, io sono disposto4 a tutto». «Nessuno di noi smentirà sé stesso». «A noi condanna, ad essi infamia». «Io dico che da questa decisione dipende la libertà 10 o la servitù del nostro paese: se avranno il coraggio di essere giusti, il governo non farà più cause, e dovrà cessare questa furia d’imprigionamenti e di processi». «Il governo conosce i suoi, e li ha scelti, costoro si brigan poco5 di patria, di libertà, di servitù, vogliono serbare la toga, e niente altro, son carnefici col soldo6 di cento otto ducati il mese». «Ma non tutti». «Tutti ribaldi, 15 o vili; il magistrato è il primo puntello della libertà, perché la giustizia è la prima virtù degli stati: e questi sono primi strumenti della nostra servitù». «Ma tante promesse, tante assicurazioni, tante proteste!» «Arte di 20 legisti7». «Vedremo». Mentre facevam questi discorsi udimmo su la volta8 della prigione un rumor grave9 come di seggioloni rimossi, e di un calpestio di più persone. «Son dessi10», dicemmo, «ci stanno 25 sul capo11, e giudicano di noi. O se qualcuno dicesse loro che noi siam qui». La camera del consiglio sta propriamente su la stanza dove noi eravamo. Dopo alquanto tempo io prendendo una seg30 giola me la trovai rotta e disfatta tra le mani, Vincenzo Niccolini, Ritratto di letterato-patriota e dissi sorridendo: «Brutto augurio12 questo in carcere, olio su tela, 1830 (Roma, Museo per me». Filippo ricordò che c’eran brutti centrale del Risorgimento). 1 ristretti più: trattati con maggior rigore. 2 poiché fu venuta: dopo che venne. 3 ragionare: conversare, parlare insieme. 4 disposto: pronto. 5 costoro si brigan poco: a questi interessa poco.

6 col soldo: con lo stipendio. 7 legisti: legulei, esperti in cose legali, ma

10 Son dessi: sono loro. 11 ci stanno sul capo: sono sulle nostre

in senso dispregiativo.

teste.

8 su la volta: il soffitto a volta della cella in

12 augurio: presagio.

cui erano rinchiusi. 9 grave: cupo, sordo.

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 353


auguri per tutti, perché la sera precedente s’era rovesciato pel tavolino un candeliere d’olio13. «L’ho rovesciato io», disse Faucitano, «e male per me solo». E Filippo 35 ridendo: «Non dubitate, c’impiccheranno tutti». Ed io: «Oh, non s’è trovato ancora il campo per seminarvi quel canape14 che dovrà stringerci la gola». «Ma che uomo sei tu?» mi disse Michele. «Ora parli di cattivi augùrii come una femminetta, ora sfidi la morte, e scherzi. Non sai che ora qui sopra si può formare il laccio per noi?» «Bah! non sanno farlo: l’avrebber fatto prima: se lo fanno ora, si spezzerà nelle loro mani». 40 «E se ci manderanno in galera?» «Il saggio sta bene in ogni luogo». «Ma neppure adesso vuoi finirla? Via, parliamo d’altro». Io aveva il maggior gusto del mondo a contraddire il caro Michele, e con istrane15 parole, e con qualche stravaganzella fargli venire un po’ di stizza16. Attaccavamo certi moccoli17 lunghi lunghi, nei quali talvolta c’era da imparare: egli strillava, io ridevo, poi ridevamo ambedue. Uomo 45 carissimo, di bello ingegno, di molte e varie cognizioni18, di cuore ottimo, di costumi candidi, di fede rara nell’amicizia. Io non seguitai secondo il solito, perché pensai che questo diletto amico ignorava un’altra sua sventura, la morte d’un suo fratello sostegno e speranza della famiglia. Andammo a letto, e dormimmo placidamente. 13 candeliere d’olio: lume a olio. 14 quel canape: quella corda (di canapa,

15 istrane: bizzarre. 16 con qualche… di stizza: con qualche

la pianta con le cui fibre si producevano cordami vari).

17 moccoli: litigi, battibecchi.

18 di molte… cognizioni: dotato di un’ampia cultura.

uscita stravagante, farlo arrabbiare un po’.

Analisi del testo Un naturalismo “familiare” Settembrini racconta l’esperienza del carcere con tono volutamente colloquiale, cercando di riprodurre realisticamente il carattere dei dialoghi che si sviluppavano tra i detenuti durante le loro lunghe giornate in cella. Lo scrittore costruisce una scrittura quasi naturalistica, capace di rendere la quotidianità e gli stati d’animo dei patrioti che, trovandosi a condividere un’esperienza tanto drammatica, si sforzano in ogni modo di farsi coraggio e di trovare nuovi motivi di speranza.

Lo stile Il tono antiretorico della narrazione, lontano dagli artifici così comuni nella letteratura risorgimentale e che non indulge in sofismi ed elucubrazioni di alcun genere distingue nettamente la scrittura di Settembrini da quella di Silvio Pellico, di argomento analogo. Lo stile cerca di comunicare al lettore il senso della concretezza di scene, situazioni e sensazioni vissute da chi scrive: si spiega così il ricorso al discorso diretto, che affida l’espressione di idee e opinioni ai personaggi, nella veste linguistica più viva e vera. Dunque, anche nella lingua Settembrini punta al realismo, accogliendo nella sua prosa toni colloquiali, inflessioni proprie del parlato, abbassamenti di registro.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

STILE 1. Prova ad analizzare il brano cercando di mettere in luce le strategie stilistiche (ad esempio il particolare uso del dialogato) e le peculiarità linguistiche (espressioni gergali, forme tipiche del parlato) che caratterizzano la prosa di Settembrini.

Interpretare

SCRITTURA 2. Il romanzo autobiografico, basato sul ricordo e sulla rievocazione intensa e commossa dei fatti, rispecchia una sensibilità tutta romantica. Spiega questa affermazione, facendo riferimento a elementi desunti dal testo e riconducibili al Romanticismo (max 10 righe). TESTI A CONFRONTO 3. Fai un confronto con il brano tratto da Le mie prigioni (➜ T8 ): individua nel testo i punti in cui emerge con maggiore evidenza la differenza di tono e di stile tra i due autori.

354 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Giuseppe Cesare Abba

T7

«Cavalcava un baio da gran Visir»: l’apparizione dell’eroe Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille

G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, Noterelle d’uno dei Mille, in Memorialisti dell’Ottocento, a cura di G. Trombatore, Ricciardi, MilanoNapoli 1953

Dal celebre memoriale di Abba riportiamo il passo del 1860 in cui viene descritta l’apparizione di Garibaldi tra le truppe.

Mercoledì. Durante il «grand’alt»1. Alla punta del giorno2 venne uno a cavallo, parlò col capitano, pigliammo gli schioppi, e rientrammo in città. Per una via sonnacchiosa, passammo innanzi a certe casuccie, dove la miseria3 si ridestava nelle stanze terrene4 semiaperte e schifose, 5 riuscimmo alla campagna5 dal lato opposto. Là erano tutti i nostri già ordinati e pronti; là un’allegrezza intera e sana che alzava il cuore6. In alto mare, le due navi napoletane di ieri filavano di lunga, menandosi a rimorchio il Piemonte. Bella consolazione! Il Lombardo era sempre al suo posto; e quando spuntò il sole, la parte della sua carena7 che era fuori dell’acqua, parve incendiarsi dallo splendore, per 10 salutarci e augurarci fortuna. Nell’aria era un profumo delizioso: ma quel campo lì fuori le mura di Marsala, coi suoi grandi massi nerastri sparsi qua e là, con quei fiori gialli che lo coprivano a tratti, cominciava a darmi non so che senso di cose morte. Passò Bixio a 15 cavallo. Fiero come già sul cassero8 del Lombardo, diede una occhiata burbera laggiù a quel povero legno9, accennò brusco come a dire: «Siamo intesi!» e tirò innanzi trottando. 20 Dopo di lui vennero alcune Guide10, gente che ha navigato sul Piemonte, bei cavalli, bei cavalieri, coll’uniforme leggiadra che avevano l’anno passato in Lombardia11. [...] 25 Sempre sorridente e colla buona novella in fronte, arrivò ultimo GariGerolamo Induno, Garibaldi sulle alture di Sant’Angelo baldi collo stato maggiore. Cavalcava presso Capua (particolare), olio su tela, 1862 (Milano, un baio12 da Gran Visir13, su di una Gallerie d’Italia).

1 il «grand’alt»: è il momento in cui viene

5 riuscimmo alla campagna: uscimmo

concesso ai soldati di potersi fermare liberamente, per riposare o per consumare il rancio. 2 Alla punta del giorno: a mezzogiorno. 3 la miseria: metonimia per indicare la popolazione povera e macilenta che abitava in questo quartiere. 4 stanze terrene: erano abitazioni che si aprivano direttamente sul piano stradale dove, in un unico locale, si svolgeva la vita di tutta la famiglia.

nuovamente dalla città, verso i campi. 6 alzava il cuore: rincuorava, riempiva di entusiasmo. 7 carena: parte dello scafo che normalmente, durante la navigazione, rimane immersa. 8 sul cassero: è la struttura dell’imbarcazione che ospita sale e alloggi; il Lombardo e il Piemonte (citato poco sotto) sono i nomi delle due navi su cui i Mille erano arrivati a Marsala.

9 legno: metonimia per barca. 10 Guide: soldati garibaldini a cavallo. 11 l’anno passato in Lombardia: riferimento alle battaglie della seconda guerra d’indipendenza. 12 baio: cavallo dal mantello color rossiccio, con le estremità degli arti, la coda e la criniera nere. 13 Gran Visir: primo ministro dell’impero ottomano.

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 355


sella bellissima, colle staffe14 a trafori. Indossava camicia rossa e calzoni grigi, aveva 30 in capo un cappello di foggia ungherese e al collo un fazzoletto di seta, che, quando il sole fu alto, si tirò su a far ombra al viso. Scoppiò un gran saluto affettuoso; ed Egli, guardandoci con aria paterna, si spinse fin in capo alla colonna. Poi le trombe suonarono e ci ponemmo in marcia. Fatto un bel tratto della via consolare15, si pigliò la campagna, per una straduccia 35 incerta e difficile tra i vigneti. I nostri cannoni venivano dietro a stento, su certi carri dipinti d’immagini sacre, tirati da stalloni focosi, che spandevano nell’aria la grande allegria delle loro sonagliere. Ci siamo fermati a questa fattoria; una casa bianca e un pozzo, in mezzo a un oliveto. Che gioia un poco d’ombra, e che sapore il po’ di pane che ci han dato! E il Generale seduto a piè di un olivo, mangia anche lui 40 pane e cacio, affettandone con un suo coltello, e discorrendo alla buona con quelli che ha intorno. Io lo guardo e ho il senso della grandezza antica.

14 staffe: nei finimenti della sella, sono

15 via consolare: l’antica strada fatta co-

i due anelli metallici nei quali si infilano i piedi.

struire dai consoli romani.

Analisi del testo La lente deformante dell’idealismo di patria Abba descrive le azioni delle truppe garibaldine sul suolo siciliano come se la scena si svolgesse sul momento, cercando di dare un’immagine eroica dei Mille, senza ombre: l’effetto è quello di una rappresentazione retorica, lontana da una resa oggettiva dei fatti e in certi momenti anche un po’ stucchevole. L’episodio culmina con l’apparizione di Garibaldi cui segue la scena finale, con il Generale che, seduto sotto un olivo, mangia pane e cacio insieme ai suoi soldati. L’immagine del condottiero appare trasfigurata dalla memoria commossa di chi in lui vedeva l’incarnazione dell’eroe per antonomasia.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

STILE 1. Evidenzia nel testo gli elementi tipici della narrazione popolare d’avventura (eroe guerriero, sodalizio con i compagni d’avventura, difesa di un ideale, ecc.) illustrando le tecniche stilistiche e retoriche utilizzate. 2. La comparsa di Garibaldi ricorda quasi l’entrata in scena della primadonna di uno spettacolo, costruita apposta per strappare l’applauso del pubblico: individua e spiega gli strumenti retorici e le immagini di cui Abba si serve per ottenere questo effetto.

Interpretare

SCRITTURA 3. Il testo di Abba esemplifica un nuovo modo di parlare degli eventi storici, che ha le sue radici nel Romanticismo. In un breve testo spiega perché la letteratura risorgimentale voglia creare un nuovo linguaggio popolare, capace di dar voce al forte desiderio di identità nazionale. SCRITTURA CREATIVA 4. Immagina di essere un “corrispondente di guerra”: riscrivi il testo attenendoti soltanto ai fatti. Quali accorgimenti sono stati necessari nel passaggio da una forma all’altra?

356 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


3 Il best seller del Risorgimento: Le mie prigioni di Silvio Pellico La vita Il patriota piemontese Silvio Pellico nasce a Saluzzo nel 1789. Dopo gli studi lavora a Lione nel settore commerciale; rientrato in Italia nel 1809, si stabilisce a Milano, dove conosce Monti e Foscolo e, intorno a 1812, comincia l’attività letteraria, inizialmente soprattutto in ambito teatrale. Scrive tragedie d’impostazione ancora classica, ma che da un punto di vista contenutistico virano già verso il Romanticismo. La più celebre è la Francesca da Rimini, rappresentata nel 1815, in cui l’episodio dantesco è interpretato alla luce delle influenze romantiche e risorgimentali. Sempre a Milano, per qualche tempo è membro e direttore del gruppo che animò l’esperienza milanese del «Conciliatore». Nel 1820 è arrestato per aver partecipato alle attività clandestine della Carboneria: la sentenza di condanna a morte in seguito viene commutata in 15 anni di carcere duro, da scontare nella fortezza di Spielberg, in Moravia. Nel 1830 Pellico è graziato; tornato in Italia si ritira dalla politica attiva, si estrania dai circoli letterari (mantenendosi grazie a un posto di bibliotecario) e nel 1832 pubblica Le mie prigioni. Muore a Torino nel 1854. L’opera Le mie prigioni è un libro di memorie in cui Pellico rievoca gli otto anni trascorsi nel carcere dello Spielberg. Pubblicata nel 1832, l’opera riscuote subito un enorme successo di pubblico e viene letta in tutt’Europa come documento accusatorio del carattere spietato della repressione austriaca. In realtà, nello scrivere le sue memorie, Pellico non è affatto animato da una volontà di denuncia: al contrario, l’esperienza del carcere aveva prodotto in lui una forte crisi mistico-religiosa, che lo spinge verso una visione pessimistica del mondo come ineluttabilmente dominato dal male, dove all’uomo non rimane altra scelta che quella di un’accettazione passiva e cristianamente rassegnata. L’unico barlume di salvezza va ricercato nei piccoli gesti quotidiani di amicizia e carità. Questa chiusura intimistica, che comporta anche la totale sfiducia verso qualsiasi forma di azione politica, non viene minimamente recepita dall’opinione pubblica, per la quale Le mie prigioni rimangono sempre simbolo dell’anelito italiano all’indipendenza e alla libertà. Una ricezione singolarmente selettiva, dunque, che dell’opera coglie soltanto gli aspetti che meglio rispondono alle attese e ai sentimenti del particolare clima politico e ideologico del Risorgimento.

Luigi Norfini, Ritratto di Silvio Pellico, olio su tela, 1861 (Firenze, Galleria d’Arte Moderna).

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Silvio Pellico

T8

La comune umanità di carcerati e carcerieri

LEGGERE LE EMOZIONI

Le mie prigioni, LXII S. Pellico, Le mie prigioni, a cura di A. Jacomuzzi, Mondadori, Milano 1986

I primi momenti di Silvio Pellico allo Spielberg, pur terribili e dolorosi, sono tuttavia rischiarati da qualche sprazzo di luce inaspettata: la discreta solidarietà del fabbro incaricato di mettergli le catene ai piedi e l’incontro con un altro prigioniero italiano, anche se i due possono comunicare soltanto attraverso il muro della cella.

Ci si facevano intanto i vestiti da prigioniero. Di lì a cinque giorni, mi portarono il mio. Consisteva in un paio di pantaloni di ruvido panno, a destra color grigio, e a sinistra color cappuccino; un giustacuore1 di due colori, egualmente collocati, ed un giub5 bettino di simili due colori, ma collocati oppostamente, cioè il cappuccino a destra ed il grigio a sinistra. Le calze erano di grossa lana; la camicia, di tela di stoppa piena di pungenti stecchi, un vero cilicio2; al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia. Gli stivaletti erano di cuoio non tinto, allacciati. Il cappello era bianco. Compivano3 questa divisa i ferri a’ piedi, cioè una catena da una gamba all’altra, 10 i ceppi della quale furono fermati con chiodi che si ribadirono sopra un’incudine4. Il fabbro che mi fece questa operazione disse ad una guardia, credendo che io non capissi il tedesco: «Malato com’egli è, si poteva risparmiargli questo giuoco; non passano due mesi, che l’angelo della morte viene a liberarlo». «Möchte es sein! (fosse pure!)» gli diss’io, battendogli colla mano sulla spalla. 15 Il pover’uomo strabalzò5 e si confuse; poi disse: «Spero che non sarò profeta, e desidero ch’ella sia liberata da tutt’altro angelo». «Piuttosto che vivere così, non vi pare» gli risposi «che sia benvenuto anche quello della morte?» Fece cenno di sì col capo, e se n’andò compassionandomi. Io avrei veramente 20 volentieri cessato di vivere, ma non era6 tentato di suicidio. Confidava che la mia debolezza di polmoni fosse già tanto rovinosa da sbrigarmi7 presto. Così non piacque a Dio. La fatica del viaggio m’avea fatto assai male: il riposo mi diede qualche giovamento. Un istante dopoché il fabbro era uscito, intesi sonare il martello sull’incudine nel sotterraneo. Schiller8 era ancora nella mia stanza. 25 «Udite que’ colpi?» gli dissi. «Certo, si mettono i ferri al povero Maroncelli». E ciò dicendo, mi si serrò talmente il cuore, che vacillai, e se il buon vecchio non m’avesse sostenuto, io cadeva. Stetti più di mezz’ora in uno stato che parea svenimento, eppur non era. Non potea parlare, i miei polsi battevano appena, un sudor freddo m’inondava da capo a piedi, e ciò non ostante intendeva tutte le parole di 30 Schiller, ed avea vivissima la ricordanza del passato e la cognizione del presente.

1 giustacuore: gilet. 2 cilicio: veste ruvida che si portava sulla nuda pelle per mortificarsi; in senso figurato vale “tortura, tormento”. 3 Compivano: completavano. 4 si ribadirono... incudine: che vennero ribattuti sopra un’incudine (blocco di

acciaio con la faccia superiore piana sul quale il fabbro appoggia il pezzo da foggiare con il martello). 5 strabalzò: sussultò. 6 era: ero. All’epoca era ancora in uso nella lingua letteraria per la prima persona singolare la desinenza in -a dell’im-

358 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

perfetto (più sotto: io cadeva, Non potea). 7 sbrigarmi: liberarmi, togliermi d’impiccio. 8 Schiller: è il carceriere con cui Pellico è entrato in confidenza.


Il comando del soprintendente e la vigilanza delle guardie avean tenuto fino allora tutte le vicine carceri in silenzio. Tre o quattro volte io aveva inteso intonarsi qualche cantilena italiana, ma tosto era soppressa dalle grida delle sentinelle. Ne avevamo parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed una nel medesimo nostro 35 corridoio, la quale andava continuamente orecchiando alle porte e guardando agli sportelli per proibire i romori. Un giorno, verso sera (ogni volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora mi si destarono), le sentinelle, per felice caso, furono meno attente, ed intesi spiegarsi e proseguirsi, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella prigione 40 contigua alla mia. Oh qual gioia, qual commozione m’invase! M’alzai dal pagliericcio9, tesi l’orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibil pianto. «Chi sei, sventurato?» gridai «chi sei? Dimmi il tuo nome. Io sono Silvio Pellico». «Oh Silvio!» gridò il vicino «io non ti conosco di persona, ma t’amo da gran tempo. 45 Accòstati alla finestra, e parliamoci a dispetto degli sgherri». M’aggrappai alla finestra, egli mi disse il suo nome, e scambiammo qualche parola di tenerezza. Era il conte Antonio Oroboni, nativo di Fratta presso Rovigo, giovine di ventinove anni. 50 Ahi, fummo tosto interrotti da minacciose urla delle sentinelle! Quella del corridoio picchiava forte col calcio dello schioppo, ora all’uscio d’Oroboni, ora al mio. Non volevamo, non potevamo obbedire; ma pure le maledizioni di quelle guardie erano tali, che cessammo, avvertendoci10 di ricominciare quando le sentinelle fossero mutate.

9 pagliericcio: sacco pieno di paglia o foglie secche usato come materasso.

10 avvertendoci: accordandoci.

Analisi del testo Un bene nascosto e imprevedibile, che prescinde dalla politica Il brano offre un esempio di uno dei caratteri più tipici della scrittura del Pellico e un tratto saliente del suo pensiero: la tendenza al ripiegamento intimistico e la convinzione che nell’essere umano esista una bontà innata in grado di superare qualsiasi barriera politica o ideologica. Il bene, per Pellico, è un’entità imprevedibile e misteriosa che può manifestarsi nei modi e nelle situazioni più inaspettate: sta all’uomo mantenere un animo abbastanza aperto, limpido e sincero, così da riuscire a percepirlo. Il fabbro incaricato di mettergli i ceppi che si abbandona a un’umana compassione nei confronti del prigioniero e l’umano carceriere Schiller con cui il prigioniero ha costruito una sorta di amicizia (➜ T9 OL) incarnano questa fede profonda in un bene che non smette di esistere nemmeno nella buia profondità del carcere, dove la violenza sembra averlo messo a tacere per sempre. È solo in queste manifestazioni inaspettate che l’uomo può trovare un qualche motivo di speranza: in tutte Le mie prigioni, infatti, non si fa mai riferimento alle idee o all’impegno politico che avevano caratterizzato la vita di Pellico prima dell’arresto. Lo scrittore non ne parla: come se, una volta conosciuti gli abissi cui può giungere la crudeltà umana, quel tipo di realtà avesse perso qualsiasi valore per lui.

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 359


Dall’asciutta oggettività della descrizione alla riflessione meditativa Lo stile di Pellico è estremamente semplice ed essenziale: una scrittura veloce, basata sulla paratassi, con frasi brevi in rapida successione, quasi a richiamare i ritmi di una narrazione orale. Ciò che sostiene la sua prosa, tuttavia, è l’alternarsi continuo di descrizioni nitidamente oggettive (i dettagli della divisa dei detenuti) e di meditazioni moraleggianti, ricordi o rapide manifestazioni di sentimenti e pensieri personali, che possono essere inserite nel testo, oppure attribuite all’uno o all’altro dei personaggi in campo. Queste due parti si mantengono sempre distinte e separate, come se Pellico intendesse differenziare in modo netto il momento dell’osservazione da quello della riflessione, ponendo sempre l’accento su quest’ultimo: è, questo, un carattere della sua prosa che contribuisce a confermarne il valore di memoria personale, più che di testimonianza pubblica e di denuncia politica.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il passo in max 5 righe. ANALISI 2. Si è detto del carattere essenzialmente intimistico dell’opera di Pellico, tutta volta a dar voce all’interiorità dello scrittore, piuttosto che a rendere conto di una realtà storica oggettiva. Rintraccia nel testo i segni di questo atteggiamento, soffermandoti soprattutto sulla vasta terminologia utilizzata dallo scrittore per indicare e descrivere i suoi stati d’animo. STILE 3. Evidenzia almeno due passaggi del testo in cui è evidente l’uso della paratassi.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 4. Spiega perché l’opera di Pellico è un esempio di memorialistica risorgimentale (max 10 righe). 5. Quale messaggio, secondo te, vuol comunicare Pellico attraverso la narrazione della sua prigionia? Lo condividi? L’autore vuole semplicemente trasmettere il ricordo delle esperienze del passato?

online Silvio Pellico T9 «Ho io a cessare d’esser uomo per quella canaglia di chiavi?»: il carceriere Schiller Le mie prigioni, LXVIII

Gerolamo Induno, La partenza dei coscritti, olio su tela, 1878 (Milano, Museo del Risorgimento).

360 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


4 La celebrazione epica del Risorgimento: la lirica patriottica Al servizio della patria Negli anni caldi della lotta risorgimentale, anche nella produzione poetica – e, anzi, soprattutto in essa – dominano i temi legati alla lotta risorgimentale e al patriottismo. È di questo filone lirico che ci occuperemo qui, più per la sincerità delle passioni che animano questi componimenti che per i risultati poetici raggiunti, in genere assai modesti. Per dei poeti patrioti come Luigi Mercantini (1821-1872), Arnaldo Fusinato (18171889) o lo stesso Goffredo Mameli (1827-1849), autore di quello che sarebbe divenuto l’inno nazionale (➜ D2 ), la poesia è prima di tutto uno strumento per avvincere il pubblico della nazione nascente. Da questo fondamentale obiettivo derivano le scelte retoriche e metriche adottate da questi letterati: versi rapidi e martellanti, che incalzano l’uditorio con la stessa vivace sfrontatezza di una marcia militare e s’impongono alla memoria con immediata facilità; affollarsi di frasi esclamative e interrogative («Dov’è la Vittoria...?»), come a mimare un ipotetico dialogo con chi ascolta, che ha così l’impressione di essere chiamato in causa direttamente; abbondanza di figure retoriche – metafore, similitudini e personificazioni – per stimolare l’immaginazione. Una poesia “popolare”? Nonostante le intenzioni, la lirica patriottica non riesce a diventare una poesia veramente popolare (anche se tocca temi e motivi cari e vicini al popolo), né a operare un rinnovamento del linguaggio poetico capace di accogliere la lingua vera e viva di quel popolo italiano di cui canta, o auspica, le gesta eroiche. Un’intrinseca debolezza rintracciabile anche negli esperimenti compiuti in questo campo da un grande poeta come Alessandro Manzoni: la sua ode Marzo 1821 (➜ C9), composta per celebrare i moti carbonari ma resa pubblica soltanto nel 1848, reca tutti i segni di quell’enfasi retorica che contraddistingue quasi tutta la poesia risorgimentale. Il lessico e la sintassi della lirica patriottica rimangono legati a toni e stilemi aulici e dotti, che non sanno sganciarsi dai modelli classicheggianti proposti da quello che può essere considerato il padre del genere, Giovanni Berchet (1783-1851), autore fra l’altro del poemetto in versi Fantasie (1829), di cui fa parte Il giuramento di Pontida, rievocazione di un episodio glorioso della storia comunale italiana; ugualmente ostico si presenta il linguaggio di gran parte delle liriche riconducibili a questo filone. Tuttavia, anche grazie alla scuola, esse diventano parte del comune patrimonio nazionale, ma senza entrare davvero nell’immaginario degli italiani, che spesso le recitano senza afferrarne il significato reale. Lo stesso inno Fratelli d’Italia è un esempio di questa assimilazione inconsapevole.

Carlo Stragliati, Episodio delle Cinque Giornate di Milano in Piazza Sant’Alessandro, olio su tela, fine XIX secolo (Milano, Museo del Risorgimento).

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 361


Panorama ideologico dell’età risorgimentale CATTOLICOLIBERALI

• neoguelfismo di Gioberti • moderati, monarchici e riformisti • altri intellettuali che fanno riferimento a Manzoni

DEMOCRATICI

• laicismo e princìpi repubblicani di Mazzini • altri progressisti si posizionano variamente

Letteratura dell’età risorgimentale • Valore paradigmatico • Finalità pedagogiche

Prosa

Poesia

memorialistica

autobiografica: • Settembrini • D’Azeglio

garibaldina: Abba

• schemi retorico-formali della tradizione classicistica • rare influenze della poesia popolare

• Mercantini, Fusinato • Fantasie di Berchet, • Marzo 1821 di Manzoni • Il canto degli italiani di Mameli

unicità e originalità nel genere: • Confessioni di un italiano di Nievo • Le mie prigioni di Pellico

362 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Goffredo Mameli

D2 G. Mameli, Il canto degli italiani. Poesie d’amore e di guerra, Rizzoli, Milano 2010

EDUCAZIONE CIVICA

Il canto degli italiani

nucleo Costituzione competenza 1

Il canto degli italiani, meglio noto come Inno di Mameli, venne scritto nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne studente e patriota genovese Goffredo Mameli (18271849) e messo in musica poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro (1818-1885). Mazziniano convinto, Mameli sarebbe poi morto nel 1849 in seguito a una ferita riportata mentre combatteva a difesa della Repubblica romana.

Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta; dell’elmo di Scipio1 s’è cinta la testa. 5 Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma; ché schiava di Roma Iddio la creò2. Stringiamoci a coorte3! 10 Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci; l’unione e l’amore 25 rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio: uniti per Dio7, 30 chi vincer ci può? Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli calpesti4, derisi, perché non siam popolo, 15 perché siam divisi. Raccolgaci un’unica bandiera, una speme5: di fonderci insieme già l’ora suonò6. 20 Stringiamoci a coorte! Siam pronti alla morte; l’Italia chiamò.

Dall’Alpe a Sicilia, 35 dovunque è Legnano8; ogn’uom di Ferruccio9 ha il core e la mano10; i bimbi d’Italia si chiaman Balilla11; 40 il suon d’ogni squilla12 i Vespri suonò. Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò.

La metrica Versi senari, con accentazione fissa sulla seconda e sulla quinta sillaba

1 Scipio: il riferimento è al condottiero romano Scipione l’Africano. Numerosi sono i richiami di Mameli alla cultura classica e alla romanità gloriosa cui può rivolgersi come esempio la nuova nazione italiana. 2 Dov’è la Vittoria... la creò: il senso è: l’Italia sarà sempre vittoriosa, come lo furono un tempo i Romani; cioè, la Vittoria (personificazione classica) è destinata a porgere il capo (chioma per sineddoche) inchinandosi all’Italia, perché Dio l’ha resa schiava di Roma. 3 coorte: le coorti erano le parti in cui si divideva l’esercito romano. Ogni coorte costituiva un decimo di una legione

4 calpesti: calpestati. 5 una speme: un’unica speranza, ossia quella di liberarsi, tutta unita, dall’oppressione straniera. 6 di fonderci... suonò: è ormai arrivato il momento di unirci. 7 uniti per Dio: uniti nel nome di Dio. 8 Legnano: il riferimento è alla battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega lombarda sconfisse l’imperatore Federico Barbarossa. 9 Ferruccio: Francesco Ferrucci, capitano fiorentino che resistette all’assedio posto da Carlo V alla città nel 1530. Venne ucciso da Fabrizio Maramaldo, un italiano al soldo straniero, al quale rivolse la battuta divenuta poi celebre: «Tu uccidi un uomo morto». 10 il core e la mano: il coraggio e la prontezza di agire.

11 Balilla: la figura dell’eroico ragazzino genovese Balilla, sebbene non sia stata storicamente accertata, rappresenta il simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese. Dopo cinque giorni di lotta, il 10 dicembre 1746 la città venne finalmente liberata dalle truppe austriache che l’avevano occupata per diversi mesi. 12 squilla: campana. Il riferimento è alla sera del 30 marzo 1282, quando a Palermo tutte le campane suonarono per chiamare il popolo alla rivolta contro gli angioini, francesi, che governavano in Sicilia: sono i vespri siciliani (i Vespri, v. 41), conclusi con la cacciata dei francesi.

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 363


Son giunchi che piegano le spade vendute13: già l’Aquila d’Austria le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, 50 il sangue Polacco, 45

13 Son giunchi… vendute: (sono giunchi) le deboli armi italiane che piegano le truppe mercenarie d’occupazione.

bevé, col cosacco, ma il cor le bruciò14. Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte 55 l’Italia chiamò.

14 già l’Aquila... bruciò: ormai l’Austria austriaca è in declino (ha perso le penne); insieme con la Russia (il cosacco), ha

bevuto il sangue dell’Italia e della Polonia oppresse, ma il sangue si è fatto veleno, e le ha bruciato il cuore.

Concetti chiave Un componimento amato

Nato nel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l’Austria, il Canto degli Italiani divenne in breve il più amato canto dell’unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi; finché, nel 1946, fu scelto come inno della nuova Repubblica italiana.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Fai la parafrasi del testo del Canto degli italiani. ANALISI 2. Rintraccia nel testo i riferimenti all’ideologia mazziniana cui aderiva Mameli. STILE 3. Evidenzia gli strumenti retorici e gli stilemi lessicali e linguistici presenti in questo testo. Quali sono gli espedienti retorici che rafforzano il messaggio del canto e spronano all’azione?

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 4. Analizza il tipo di immaginario richiamato da Mameli nel testo dell’inno, i riferimenti storici e letterari e il lessico utilizzato: a quale tipo di pubblico ti sembra che potesse rivolgersi un testo di questo genere? Prova a inserire la tua riposta nel quadro delle discussioni che videro nel Risorgimento italiano una «rivoluzione mancata» (Gramsci).

EDUCAZIONE CIVICA

5. Dopo aver letto il testo e averne considerati i vari aspetti retorici ed emotivi, prova a indicare quali sono i motivi che ne hanno determinato il lungo successo, facendolo scegliere come inno della nazione italiana; senza dimenticare le critiche che, negli ultimi decenni (specie in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, nel 2011) l’hanno investito, con la proposta di sostituirlo perché “brutto”. Qual è il tuo giudizio personale?

SCRITTURA nucleo

Costituzione

competenza 1

364 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


PER APPROFONDIRE

Gli ideali in musica: il melodramma ottocentesco L’Ottocento fu il secolo della musica d’opera e l’Italia ne divenne la patria grazie al fiorire del melodramma che – a partire da Rossini, Bellini e Donizetti, fino a Verdi – diede vita a una stagione unica e gloriosa, durante la quale la musica seppe diventare al tempo stesso interprete e veicolo dei grandi ideali risorgimentali. Lasciatosi alle spalle il modello metastasiano, che tendeva a privilegiare il testo poetico rispetto alla parte musicale, con un effetto distaccato, il melodramma romantico italiano lascia campo libero alla musica: è la scrittura a doversi adattare al suo fluire impetuoso. Nei libretti (in cui spesso interviene direttamente anche il musicista per apportare variazioni e modifiche), metro e scelte sintattiche e lessicali si adeguano alle esigenze della sonorità più immediata, che si dimostra in grado di afferrare il pubblico con una presa emotiva diretta ed efficace e che riesce ad accomunare tutti i ceti sociali: possiamo infatti dire che il melodramma divenne un vero e proprio fenomeno di massa, una passione diffusa tanto fra i borghesi quanto fra uomini e donne del popolo. D’altra parte, non si può negare che ci sia in esso una certa artificiosità: le situazioni sono infatti portate ai limiti in modo tale da colpire l’emotività degli spettatori (è proprio questo che comunemente intendiamo con il termine melodrammatico). Inoltre, la lingua utilizzata mantiene e addirittura amplifica il tono aulico e lo stile retorico che caratterizzano la poesia risorgimentale.

Eppure, al di là di tutto questo, il melodramma seppe diventare la forma di cultura più popolare e riuscì, più di quanto non fecero la poesia o il romanzo, a dar voce a sentimenti, miti, ideali ed emozioni il cui senso andava ben oltre il valore delle parole messe in musica (nella maggior parte dei casi le parole, private della musica, esprimevano ben poco): il melodramma è «l’unico genere artistico veramente nazionale e popolare capace di penetrare a fondo nel tessuto sociale, e nello stesso tempo il solo genere romantico italiano che sappia affascinare la cultura europea, tanto da diffondere ancora oggi nel mondo un’immagine tutta “romantica” del nostro paese» (Ferroni). Nel melodramma il fervore patriottico trovò la forma di espressione più adatta: l’esempio più significativo è dato da Giuseppe Verdi (1813-1901), che pur non occupandosi mai di politica in maniera attiva, divenne un vero e proprio personaggio-simbolo per chiunque aspirasse a un’Italia unita e indipendente. A metà dell’Ottocento era assai in voga lo slogan “Viva Verdi”, dove il nome del musicista era inteso come acrostico di “Vittorio Emanuele Re d’Italia”: il pubblico aveva infatti colto nell’energia vitale che emanava dalle opere di Verdi uno stimolo alla lotta per la libertà del popolo italiano. Basti pensare alla possibile lettura in chiave patriottica di opere quali I Lombardi alla prima crociata (1843) o alla celebre aria del Nabucco (1842), Va’ pensiero (➜ T10 OL).

online T10 Giuseppe Verdi

(librettista Temistocle Solera) Va’, pensiero, sull’ali dorate: il canto struggente di un popolo in prigionia Coro del terzo atto del Nabucco

Lo slogan “Viva Verdi” in un’incisione ottocentesca.

Louis-Léopold Boilly, L’effetto del melodramma, olio su tela, 1830 (Versailles, Musée Lambinet).

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 365


Sguardo sul cinema Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione Scritto da Anna Banti nel 1967, Noi credevamo corrisponde in pieno alla definizione che l’autrice stessa dava dei suoi romanzi cosiddetti “storici”: non tanto trascrizioni scientificamente fondate di eventi e fenomeni, quanto piuttosto «interpretazioni ipotetiche della storia». E l’ipotesi a cui la Banti dà voce in questo romanzo è quella di un anziano patriota, Domenico Lopresti, gentiluomo calabrese di fede repubblicana che nel 1883 decide di stendere le proprie memorie nella sua casa di Torino: città ostile, che lui non ama, ma dove deve vivere suo malgrado. Quasi la metafora di una vita spesa in nome di una coerenza quanto mai caparbia e che però ha visto sgretolarsi tutte le speranze e gli ideali. Il settantenne Domenico narra della sua militanza politica clandestina, dei dodici anni trascorsi nelle carceri borboniche, dell’impresa dei Mille, per poi arrivare allo scialbo epilogo di un lavoro alle dogane del Regno. La sua scrittura è dettata dalla rabbia per tutto ciò che, dopo avergli dedicato l’intera giovinezza, Domenico non ha visto realizzato

nel nuovo Stato italiano, più incline all’aggiustamento e al compromesso che all’idealismo. Dal suo racconto nasce un affresco amaro e disilluso, ma di grande fascino, anche grazie alla prosa colta e sapiente di Anna Banti, che ha saputo ricreare il sapore e le tonalità di una lingua di fine Ottocento. Ispirandosi a questo romanzo, il regista Mario Martone nel 2010 ha realizzato il film omonimo, con la partecipazione, tra gli altri, degli attori Luigi Lo Cascio, Renato Carpentieri e Toni Servillo. La storia è raccontata dal punto di vista di tre giovani del Sud che, dopo aver assistito alla ferocia della repressione borbonica, maturano la decisione di entrare nella Giovine Italia. Attraverso quattro episodi, che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l’Unità, le loro vite saranno segnate tragicamente dalle loro scelte di cospiratori e rivoluzionari, mentre sullo sfondo vediamo snodarsi le vicende della nascita del nostro paese, con tutte le contraddizioni, gli errori, i guasti che ancora oggi segnano l’Italia in cui viviamo.

Scene dal film Noi credevamo, 2010.

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Per approfondire Il Risorgimento al cinema

366 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


VERSO IL NOVECENTO

Il Risorgimento fallito: l’amara visione di tre scrittori siciliani Negli anni successivi all’unificazione entusiasmo patriottico e facili idealismi si esaurirono non appena l’impresa di costruire una vera nazione si manifestò in tutta la sua drammatica difficoltà: la retorica del Risorgimento vacilla proprio là dove si dimostra più difficile tradurre in pratica i suoi alti ideali. E il nodo più problematico del processo di unificazione italiana è il Sud: qui l’annessione al neonato stato italiano comportò tensioni e contrasti inconciliabili, destinati a dar vita a quella “questione meridionale” che ancora oggi non ha trovato una piena soluzione. Gli scrittori di queste terre, quelli siciliani in particolare, nelle loro opere diedero voce a questo orizzonte irto di problemi. Il loro Risorgimento non è quello eroico e luminoso dei memorialisti garibaldini, ma piuttosto rappresenta un’occasione perduta o al massimo una possibilità che si è realizzata solo in parte, magari in forme distorte e corrotte, in cui l’immobilismo e l’ingiustizia assurta a sistema finiscono per soffocare ogni speranza di un futuro migliore. È la prospettiva rappresentata da Federico De Roberto nel suo romanzo I Viceré, scritto tra il 1891 e il 1893 (➜ T11 OL). Anche nel Novecento la letteratura ha continuato a considerare con lo stesso occhio critico le origini dell’Italia come stato nazionale, avviando un processo di vera e propria demitizzazione. Non è un caso che la quasi totalità dei romanzi che si sono occupati del Risorgimento siano ambientati nel Sud, vero nodo problematico nella costruzione di una solida prospettiva unitaria. Significativo è l’esempio di due scrittori, Pirandello con I vecchi e i giovani e Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo, che hanno voluto rileggere le vicende risorgimentali in un’ottica antieroica e demistificatoria, ma che pure conserva intatto il fascino di un’epoca unica e straordinaria. I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello Scritto nel 1899, pubblicato dapprima nel 1909 sulla «Rassegna contem-

poranea» e quindi nel 1913 dall’editore Treves, I vecchi e i giovani sfugge a una collocazione facile e immediata nella produzione di Luigi Pirandello (1867-1936). Fu l’autore stesso a definirlo il «romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo, ov’è racchiuso il dramma della mia generazione»: una prova in qualche modo a sé stante, in quanto risponde a un’esigenza di Pirandello di venire a capo del proprio vissuto, storico e personale. Il romanzo, come ha osservato il critico Carlo Salinari, mette in scena tre «fallimenti collettivi: quello del Risorgimento, come moto generale di rinnovamento del nostro paese, quello dell’unità, come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo, che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale», che si sovrappongono ai «fallimenti individuali: dei vecchi che non hanno saputo passare dagli ideali alla realtà e si trovano a essere responsabili degli scandali, della corruzione e del malgoverno dei giovani». Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa Uscito postumo nel 1958 per i tipi di Feltrinelli, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa incontrò un immediato successo di pubblico – alimentato anche dal celebre film che Luchino Visconti ne trasse nel 1963 – e stimolò al contempo un dibattito critico che ne fece un vero e proprio caso letterario di quegli anni. L’epopea garibaldina e la nascita del Regno d’Italia sono visti attraverso lo sguardo scettico e disincantato di un nobile siciliano, il principe di Salina, convinto che nulla potrà davvero cambiare nell’immobile società siciliana. Gli si contrappone il giovane nipote Tancredi, che combatte nelle file dei garibaldini, per opportunismo pragmatico più che per adesione agli ideali risorgimentali, come evidenzia la celebre espressione: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” enunciata durante un colloquio con lo zio.

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Federico De Roberto T11 Il Risorgimento da farsa degli Uzeda I Viceré I, 8

I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello

Per approfondire

Fissare i concetti Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale Il dibattito sul Romanticismo in Italia 1. Quale scritto fornisce lo spunto iniziale per il dibattito sul Romanticismo in Italia? Quali riflessioni contiene? 2. Quali sono le posizioni dei classicisti? E quelle dei romantici? Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi 3. Perché in Italia il romanzo storico riveste una particolare importanza? 4. Quali generi si intrecciano nel romanzo Le confessioni di un italiano di Nievo? 5. Delinea le caratteristiche di Carlo, protagonista del romanzo di Nievo. Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 6. Sai indicare le caratteristiche, gli autori, i generi più rappresentativi della letteratura risorgimentale? 7. Qual è il nesso tra Romanticismo e idea di nazione? 8. Perché a proposito de Le mie prigioni di Silvio Pellico si può parlare di un equivoco nella ricezione dell’opera? 9. Perché la lirica patriottica non è riuscita a diventare una poesia veramente popolare?

Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale 3 367


Ottocento Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale

Sintesi con audiolettura

1 Il dibattito sul Romanticismo in Italia

Un nuovo movimento Le nuove idee romantiche che si erano diffuse in Europa trovano accoglienza soprattutto nel Nord Italia, nelle zone più avanzate economicamente. È infatti a Milano che nasce il Romanticismo italiano: sulla «Biblioteca italiana» (rivista classicista, poi organo ufficiale del governo austriaco) viene pubblicato nel 1816 un intervento di Madame de Staël, divulgatrice in Europa del Romanticismo tedesco, intitolato «Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni», nel quale si invitano i letterati italiani ad abbandonare il culto sterile del passato e ad aprirsi alle letterature straniere. Ne deriva un ampio dibattito che contrappone classicisti e romantici: i primi si mantengono su posizioni conservatrici e difendono il principio di imitazione e la tradizione letteraria; i secondi si dimostrano aperti al cambiamento e contrari all’uso della mitologia e delle regole della poetica aristotelica in nome dell’originalità e del principio di imitazione in nome della storicità dell’arte; questi ultimi si raccolgono attorno al periodico liberale e patriottico «Il Conciliatore», fondato nel 1818 (e censurato dagli austriaci nel 1819), che si prefigge di conciliare ambiti «utili» come la scienza, l’economia e il diritto e «dilettevoli» come la letteratura. Ne seguono l’esempio qualche anno dopo – nel 1821 e nel 1839 – «L’Antologia» e «Il Politecnico», riviste votate alla sprovincializzazione della cultura italiana attraverso la diffusione del sapere storico, economico e scientifico in opposizione allo sterile umanismo tradizionale. Il Romanticismo italiano si pone in continuità con l’Illuminismo e ne condivide la concezione della letteratura come strumento di progresso civile, configurandosi come un Romanticismo moderato, poco incline all’esplorazione del “lato oscuro” della realtà. L’attitudine alla concretezza e la valorizzazione di una letteratura legata alla storia avvicinano il Romanticismo italiano al movimento risorgimentale, del quale gli intellettuali romantici diffondono i valori utili alla formazione di una coscienza nazionale. Nella produzione romantica italiana vengono così prediletti i temi storico-patriottici rispetto ai motivi irrazionalisti del Romanticismo europeo. Il più noto dei manifesti romantici è la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo di Giovanni Berchet. Il genere egemone del Romanticismo italiano: il romanzo storico Il Romanticismo italiano predilige il genere del romanzo - che gli ambienti letterari conservatori avevano considerato fino a quel momento come un genere letterario minore – perché vedono in esso un utile strumento per la formazione di un nuovo pubblico. Si spiega così il grande successo in Italia del romanzo storico, genere in cui si iscrivono anche I promessi sposi: con la rievocazione di episodi e personaggi della storia italiana passata si fa opera di educazione e sensibilizzazione politico-patriottica dei lettori, che sono stimolati a ricercarvi le radici dell’identità del popolo italiano; nelle vicende storiche sono comunque inseriti quegli elementi sentimentali e romanzeschi che sono richiesti dal gusto del pubblico medio. Unico esempio di romanzo del primo Ottocento di notevole levatura letteraria è Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1831-1861).

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2 Le confessioni di un italiano di Nievo: un romanzo all’incrocio dei generi

L’autore Il più importante romanzo ottocentesco dopo I promessi sposi è Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un partecipante alla spedizione dei Mille morto appena trentenne nel 1861; la sua opera viene scritta tra il 1857 e il 1858 e pubblicata postuma nel 1867 con il nuovo titolo Confessioni di un ottuagenario. Il romanzo Il romanzo presenta una natura complessa, all’incrocio tra diversi generi. Subisce l’influenza del romanzo storico ma, rispetto al modello manzoniano, si distingue per l’inserimento dell’attualità, che si innesta sulla storia passata. La presentazione in primo piano delle memorie del protagonista può richiamare anche la memorialistica di carattere patriottico; ma la tipologia che più identifica il romanzo di Nievo è il Bildungsroman, il “romanzo di formazione”. Al centro dell’opera vi è, infatti, la crescita spirituale, culturale e umana di Carlino Altoviti, un protagonista che non ha di certo i tratti “eccezionali” dell’eroe romantico, così come una storia che non viene presentata in nessun modo come esemplare. Per nulla propenso alla retorica patriottica propria dei testi risorgimentali, il romanzo di Nievo adotta una prospettiva realistica, a tratti incline all’ironia.

3 Letteratura e Risorgimento: alla ricerca di un’identità nazionale

Il problema dell’identità: «fare gli italiani» Nel periodo risorgimentale, a causa della particolare situazione storica del paese, impegnato in quegli anni nella lotta (non solo con le armi) per conquistare la dimensione di nazione, la letteratura italiana assume spesso toni pedagogici: essa infatti si era caricata del difficile compito di formare i cittadini della nazione che si stava allora costituendo, fornendo loro esempi luminosi a cui ispirarsi, infiammando i sentimenti patriottici e indicando temi e valori preziosi per la creazione di un’identità nazionale. Scrittori e poeti non trascurano alcuno strumento retorico per raggiungere quelle che all’epoca apparivano come le vere finalità dell’attività artistica e il fervore pedagogico, pur sincero, talvolta va a scapito della qualità dei testi. Questi letterati si dividono tra due grandi “scuole”: quella cattolico-liberale (di tendenza moderata e monarchico-costituzionalista) e quella democratica (di tendenza più radicale, laica e repubblicana). Andare al passato per costruire il futuro: le memorie dei patrioti Nella prosa del periodo risorgimentale, il posto più significativo è occupato dalla memorialistica, sviluppatasi come derivazione dell’autobiografia settecentesca. Ora però il racconto di un’esperienza personale non è più visto come uno strumento d’analisi interiore, ma viene ad assumere il valore di un esempio, al quale tutti gli italiani possano guardare per trarre ispirazione: possiamo dire che dalla narrazione dell’io si passa alla narrazione del noi. Il risultato letterario di questo genere di scritti non è sempre altissimo: tra i pochi esempi di un qualche valore, I miei ricordi di Massimo d’Azeglio e Le ricordanze di Luigi Settembrini. Un caso a parte è quello della memorialistica garibaldina, scaturita dalle imprese del celebre condottiero e per lo più prodotta da uomini che vi avevano preso parte, come Giuseppe Cesare Abba, Eugenio Checchi e Alberto Mario. Si tratta di opere nelle quali l’intento artistico è subordinato alla volontà di trasfigurare eroicamente le esperienze narrate, ma che hanno il merito di testimoniare il clima ideologico dell’epoca nella quale furono scritte. Come già evidenziato, Le confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo si distingue in questo panorama. Giovane garibaldino anche lui, lo scrittore rifiuta il modello letterario della memorialistica che riduceva la storia a un paradigma e dà voce a una storia vista soprattutto come un’esperienza umana, di cui conserva tutte le debolezze e le incoerenze. Proprio per questo motivo il protagonista Carlino Altoviti può essere considerato un antieroe del

Sintesi Ottocento

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Risorgimento. Il best seller del Risorgimento: Le mie prigioni di Silvio Pellico Un altro caso a parte è quello di Silvio Pellico con Le mie prigioni. Scritte in un momento di forte crisi misticoreligiosa, queste memorie degli otto anni di dura prigionia scontati dall’autore (membro della Carboneria) nel carcere moravo dello Spielberg vennero però lette però come un documento di carattere politico, un’accusa durissima alla sopraffazione austriaca e un simbolo dell’anelito italiano all’indipendenza e alla libertà: in realtà, con Le mie prigioni Pellico dava voce a una visione pessimistica, che non credeva più nella politica come mezzo per conquistare la libertà e vedeva la religione come unica possibilità di conforto rimasta all’uomo. La celebrazione epica del Risorgimento: la lirica patriottica Anche la lirica partecipò con fervore ed entusiasmo al clima ideologico e culturale del Risorgimento: essa però non riuscì mai a diventare una poesia veramente popolare, perché non seppe sganciarsi dagli schemi retorici troppo aulici e dotti del Classicismo: una debolezza in cui incorse anche Manzoni, con Marzo 1821, poesia che con grande enfasi retorica celebrava i moti carbonari. La stessa enfasi che ritroviamo anche negli scritti di Giovanni Berchet e nell’inno nazionale, Il canto degli italiani, di Goffredo Mameli.

Zona Competenze Scrittura

1. In max 15 righe prepara un’introduzione per il romanzo di Ippolito Nievo, facendone risaltare l’originalità nell’ambito della produzione narrativa italiana dell’Ottocento. 2. Elenca almeno due autori della letteratura risorgimentale ed esponi le caratteristiche più rappresentative di questo genere. Prova quindi a spiegare qual è il nesso esistente tra Romanticismo e idea di nazione. 3. Scrivi e argomenta in max 15 righe per quale ragione, a conclusione del processo risorgimentale, si moltiplicano le memorie autobiografiche, quale finalità si propongono e quali caratteristiche presentano.

Esposizione orale

4. In un’esposizione orale indica i principali esponenti e temi della polemica classicoromantica. Se vuoi, puoi supportare la tua esposizione con una mappa concettuale o una presentazione multimediale. 5. Sulla base dei contenuti e dei testi antologizzati del capitolo individua quali problematiche del processo risorgimentale e dei suoi esiti vengono messe in luce dai diversi autori; valuta se si possa rintracciare una linea critica comune, quindi confrontala con le tue conoscenze storiche. 6. A conclusione della tua analisi, redigi una relazione per la classe sul tema: “Illusioni e delusioni del Risorgimento in alcune pagine della letteratura”. Per l’esposizione hai a disposizione max 10 minuti.

Competenza digitale

7. Prepara una presentazione multimediale sul melodramma ottocentesco, indicando in particolare quale ruolo svolse nella trasmissione degli ideali patriottici. Nella presentazione puoi inserire file audio o video di rappresentazioni di opere celebri disponibili in rete.

370 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Verso l’esame di Stato Tipologia B  Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da Lucy Riall, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, trad. di P. Di Gregorio, Donzelli, Roma 2007

Gli storici della cultura sembrano implicitamente respingere la prospettiva revisionistica che considera l’unificazione come un “incidente” che infranse la logica dello sviluppo politico ed economico, ma la funzione e il significato esatti di questo evento rimangono da chiarire. Permangono inoltre molti interroga5 tivi sui legami e le continuità fra la cultura politica del Risorgimento e quella dell’Italia liberale. La critica revisionista dell’approccio teleologico1 al Risorgimento ha senza dubbio portato a una nuova stimolante interpretazione della storia italiana del secolo XIX. Come risultato di queste nuove ricerche, è diventato comunque 10 molto difficile per gli storici capire perché mai accadde l’unificazione italiana. Il processo di formazione dello Stato può spiegare gli aspetti della “modernizzazione” e sembra anche offrire interpretazioni per l’instabilità politica italiana di primo Ottocento; ma non può spiegare l’unificazione nazionale. Quest’ultima era lungi dall’essere l’unica e ovvia soluzione per la crisi dei regimi della Re15 staurazione nel 1859-1860. Questa crisi può essere attribuita in parte al timore dei governi preunitari di una disintegrazione territoriale: sarebbe stato evidente per chiunque, in una situazione del genere, lo svantaggio di creare uno Stato più grande e più rigido. Se così è, non si può ignorare il richiamo al mito di una “resurrezione” dell’I20 talia attraverso l’unificazione nazionale. Questa fu vista nel 1859-1860 come una soluzione perché da tempo essa sembrava, anche se erroneamente, un’inevitabilità storica. Sotto questo aspetto gli errori di giudizio dei contemporanei possono dirci molto più di quello che gli storici sono in grado di rivelare con il senno di poi. Inoltre l’interesse storico nel Risorgimento riflette anche la 25 crescente legittimità del nazionalismo come soluzione per la crisi politica. Se la tensione tra quello che accadde e quello che avrebbe potuto accadere ha determinato il dibattito storico, ciò riflette la battaglia politica prima dell’unificazione. La speranza delle possibilità future dell’Italia, e l’insoddisfazione per lo stato presente, dominarono in questo periodo il dibattito liberale e l’opposi30 zione politica. Le ricostruzioni storiche concentrate sugli eventi più turbolenti, le personalità più fiammeggianti e la chiara identificazione dei «cattivi» sono in un certo senso il frutto di esigenze nazionalistiche. Anche le analisi marxiste, sostenendo le disastrose conseguenze del fallimento rivoluzionario, rispondono alla delusione provata dal movimento democratico negli anni dopo il 1848. 35 In definitiva può dimostrarsi difficile spezzare il legame tra Risorgimento e unificazione nazionale. Nessun’altra “nazione” europea ebbe un Risorgimento e nessuna descrisse queste esperienze in termini così vivaci e romantici. Un secolo e mezzo di esperienze politiche e culturali separa il lettore odierno dai patrioti del Risorgimento, e ostacola notevolmente la nostra profonda compren1 approccio teleologico: approccio che interpreta azioni e processi storici come frutto di finalità predeterminate.

Verso l’esame di Stato

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sione del loro mondo. Le loro idee di patria, di popolo e di rivoluzione possono sembrarci assurde (o ancor peggio), ma è proprio su questa enorme differenza in termini pratici e culturali che dovremmo operare una riflessione. [...] Per spiegare i motivi per cui i processi legati alla formazione dello Stato si conclusero con l’unificazione nazionale, è necessario attribuire il giusto peso al richiamo 45 emotivo e politico esercitato dal nazionalismo. La “poesia del Risorgimento” e la potenza di questo eccezionale mito nazionale possono aver nascosto agli occhi dei nazionalisti le profonde divisioni presenti nella società italiana, ma il grande sforzo fatto per l’unità nazionale, o comunque per l’indipendenza, alterò significativamente l’esito del processo di formazione dello Stato. 50 Anche se la “poesia del Risorgimento” non può bastare a spiegare la “prosa del post-Risorgimento” e le ragioni del processo di cambiamento dell’Italia ottocentesca, essa consente tuttavia di comprendere le modalità con cui quel cambiamento è stato spiegato, vissuto e agito. 40

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Quale questione viene affrontata dalla storica nel testo proposto? 2. Qual è la tesi sostenuta? 3. Ricostruisci sinteticamente gli snodi dell’argomentazione.

Produzione

Il processo risorgimentale e il suo esito sono ancora soggetti a molteplici interpretazioni che, a seconda della prospettiva storiografica adottata, insistono su fattori di diversa natura: economici, politici, culturali, simbolici e così via. Anche tenendo conto delle considerazioni formulate nel testo, rifletti sul ruolo delle idealità nazionali e dei miti patriottici nella formazione dello Stato unitario. Sulla base delle tue conoscenze storiche e letterarie, sviluppa le tue riflessioni al riguardo, sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

372 Ottocento 7 Il Romanticismo italiano e la letteratura risorgimentale


Ottocento CAPITOLO

8 La poesia dialettale

A torto considerata per lungo tempo “minore”, soprattutto in ambito scolastico, la letteratura dialettale assume una particolare importanza nell’Italia dell’Ottocento perché risponde alle esigenze di spontaneità e aderenza alla realtà del Romanticismo. Utilizza una lingua viva, il dialetto, allora l’unica impiegata nella vita quotidiana, dando così per la prima volta voce al popolo, il cui punto di vista era sempre stato escluso dalla letteratura alta. In dialetto scrivono due autori considerati tra i maggiori dell’Ottocento, Carlo Porta e Giuseppe Gioachino Belli. Porta rappresenta le vicissitudini di Milano tra il periodo napoleonico e la Restaurazione attraverso uno sguardo critico che contesta le ingiustizie e la prepotenza di chi detiene il potere. Belli, suddito dello Stato pontificio, rappresenta in più di duemila sonetti la realtà immobile e arcaica della Roma papale attraverso la parola, spesso dissacrante, del popolo.

poesia in dialetto, 1 Lalingua del “vero” 2 I poeti dialettali 373 373


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La poesia in dialetto, lingua del “vero” Il filo rosso del dialetto Il panorama della nostra letteratura sarebbe sicuramente incompleto se trascurasse una componente fondamentale per il nostro quadro culturale, la produzione in dialetto, assai apprezzata a livello europeo, ma fino a tempi relativamente recenti ingiustamente misconosciuta in Italia. Anche quando nella letteratura alta si impone il modello linguistico bembiano, fondato sul toscano letterario trecentesco, nella parlata della quotidianità si continua a usare il dialetto. Inoltre, fin dal Cinquecento, alcuni scrittori utilizzano il dialetto anche in testi letterari (ad esempio Ruzante nel Cinquecento, Basile nel Seicento), per conferire alle loro opere maggior immediatezza e verità, in contrapposizione polemica con il selettivo monolinguismo della letteratura “ufficiale”.

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Verso il Novecento La poesia dialettale nel Novecento

Il Romanticismo crea le premesse per una valorizzazione della poesia in dialetto Nel XIX secolo l’affermazione della letteratura dialettale si lega all’esigenza romantica di immediatezza e spontaneità. La poesia in dialetto viene anche incontro a esigenze egualitarie, radicate fin dall’Illuminismo, e all’interesse romantico per il “popolo”, introducendo il punto di vista dal “basso” delle classi subalterne ed emarginate, in genere parlanti il solo dialetto, e dando quindi voce, come scrive il critico Dante Isella, «a una folla di uomini rimasti sempre senza volto». Lo svantaggio di una circolazione limitata Ma la produzione dialettale deve fare i conti con il pesante limite di una ridotta circolazione presso il pubblico, che è ristretto e non nazionale, come è evidente soprattutto nel caso di Porta, i cui versi a Milano sono notissimi, tanto da diventare spesso proverbiali, ma fuori dalla Lombardia sono pressoché sconosciuti. Significativamente Manzoni, pur dichiarandosi ammiratore di Porta, con I promessi sposi compie una scelta diversa sul piano linguistico e, alla sua morte, in una lettera all’amico Claude Fauriel, si rammarica che la scelta linguistica del dialetto non avesse fatto apprezzare il primo come avrebbe meritato al di fuori dell’ambiente milanese.

Un mercato a Roma in una stampa del XIX secolo (Roma, Museo di Roma in Trastevere).

374 Ottocento 8 La poesia dialettale


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I poeti dialettali 1 Carlo Porta, un testimone della storia milanese

Ritratto di Carlo Porta in un’incisione del XIX secolo (Civico Museo di Milano).

Il dialetto come lingua della realtà Il primo e più importante autore della letteratura ottocentesca in dialetto è Carlo Porta. Testimone di un periodo storico cruciale per Milano, caratterizzato da incessanti sovvertimenti politici, dalle repubbliche filo-francesi alla restaurazione austriaca (➜ T1a OL), Porta fornisce una rappresentazione incisiva dell’altalenarsi di speranze e delusioni dei milanesi. Erede delle istanze proprie dell’Illuminismo lombardo, Porta considera la poesia uno strumento utile per contribuire al rinnovamento della società attraverso la rappresentazione realistica delle dinamiche sociali e la denuncia delle ingiustizie. Da questa prospettiva deriva la scelta del dialetto milanese, che traduce la volontà dell’autore di aderire alla realtà nella sua concretezza, al di fuori di ogni reticenza e ipocrisia. Dalla sfortuna ottocentesca alla rivalutazione nel Novecento Proprio tale rappresentazione diretta della realtà, senza filtri e censure, ostacolò a lungo la pubblicazione delle opere del poeta milanese: durante la sua vita, ne uscì soltanto una stampa purgata e priva dei testi più significativi (1817), e, anche dopo la morte, la prima edizione non censurata, nel 1826, fu stampata fuori d’Italia (a Lugano). Per il pregiudizio contro i dialettali, anche l’apprezzamento dell’opera di Porta da parte della critica fu tardivo, ed è da attribuire a critici novecenteschi (tra cui, per primo, Attilio Momigliano, seguito poi in particolare da Dante Isella). La vita: un impiegato con la vocazione teatrale Nato a Milano (dove rimane tutta la vita) in una famiglia piccolo-borghese, Carlo Porta (1775-1821) è un semplice impiegato nella pubblica amministrazione, prima sotto gli austriaci, poi per la burocrazia napoleonica, poi nuovamente per gli austriaci nel periodo della Restaurazione. Fin dalla giovinezza però è anche un attore teatrale dilettante presso il Teatro patriottico (poi denominato “dei Filodrammatici”). Un’esperienza che esercita una grande influenza sulla sua opera: alcuni dei testi più riusciti e celebri di Porta sono «grandi monologhi teatrali» (Isella), di cui lo stesso poeta era apprezzato interprete. Il primo di essi è il poemetto Desgrazzi de Giovannin Bongee (1812; poi seguito nel 1813-1814 da Olter desgrazzi de Giovannin Bongee), con il quale Porta ottiene enorme successo nell’ambiente letterario milanese. Attraverso la testimonianza del povero protagonista, vittima delle prepotenze di alcuni soldati, Porta denuncia la sopraffazione dell’esercito francese: presentatosi come liberatore, e perciò accolto con favore da intellettuali (come lo stesso Porta e Foscolo), ne aveva tradito le speranze, sfruttando e opprimendo la popolazione italiana. A questo poemetto seguiranno a breve distanza di tempo altri due celebri monologhi, considerati fra i capolavori del Porta: La Ninetta del Verzee (1814) e El lament del Marchionn di gamb avert (1816). I poeti dialettali 2 375


La svolta della Restaurazione e l’avvicinamento alla poetica romantica Il 1816 è un anno cruciale per Porta: accusato di aver composto una satira antiaustriaca, la Prineide, in realtà opera dell’amico Tommaso Grossi (1790-1853), è interrogato e diffidato dalla polizia, tanto che per un breve tempo ipotizza di abbandonare l’attività letteraria. Ma i successivi eventi della storia gli fanno mutare parere, mostrandogli quanto il ruolo critico della letteratura sia ancora fondamentale. A partire da quello stesso 1816, infatti, la Restaurazione tenta di riportare in vita la struttura politica e sociale dell’ancien régime, ormai del tutto anacronistica. Ma Porta non resta indifferente: riunisce intorno a sé un gruppo di intellettuali – la “Cameretta” – con cui discute di attualità politica e letteratura, e in questi anni – gli ultimi della sua vita (morirà prematuramente nel dicembre del 1821, a 45 anni) – scrive altre opere fondamentali su questa nuova fase storica: La preghiera (➜ T1b ) e La nomina del cappellan, in cui rappresenta in modo ironico e critico il clima ideologico e sociale della restaurazione. In questo periodo divampa la polemica fra romantici e classicisti, cui Porta partecipa schierandosi a favore dei primi, con testi come El romanticismo (1819), in cui spiega come il valore della poesia romantica sia nella verità della rappresentazione e nell’espressione spontanea del sentimento. Con un’immagine concreta ed efficace, Porta paragona le costrittive regole della poesia classicistica a un busto con le stecche di ferro (un «bust coj stecch de ferr») e ricorda come l’arte romantica sia invece la «magia de moeuv [di muovere], de messedà, come se voeur [di mescolare con libertà], tutt i passioni che gh’emm sconduu in del coeur [nascoste nell’animo]».

Angelo Inganni, Veduta della piazza del Duomo dal Coperto dei Figini, olio su tela, 1842.

La prospettiva “dal basso”: uno sguardo che privilegia gli “umiliati e offesi” Anticipando Manzoni (e, secondo il critico Isella, in alcuni casi ispirandolo) Porta mostra nelle sue opere una predilezione per personaggi ingenui, indifesi, perdenti, esposti alle prepotenze e alle angherie dei potenti, e collocati al gradino più basso della società; ma, proprio per questo, spesso più umani e più veri. È significativo che nei tre monologhi già ricordati, oltre a scegliere il dialetto, Porta annulli in un certo senso la mediazione dell’autore e il filtro della sua visione del mondo (adottando così una prospettiva realistica ben più radicale rispetto a Manzoni) per dar voce direttamente ai protagonisti del popolo, che narrano in prima persona la loro storia. Giovannin Bongee, vittima di quei «prepotentoni de Frances» Giovannin Bongee, il prototipo di tali “umiliati e offesi”, che, attraverso un monologo, cerca di rivendicare la propria dignità calpestata, è un pover’uomo del popolo di indole non certo coraggiosa, il quale, confidandosi con un personaggio di più elevata condizione – che chiama Lustrissem, illustrissimo (mettendo con questo appellativo già in luce la sua tendenza a umiliarsi davanti ai potenti) – si lamenta delle sue “disgrazie”, dovute alla prepotenza dei militari napoleonici. Il Bongee racconta infatti come, mentre andava tranquillo per la

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sua strada, fosse stato fermato da soldati francesi, che lo avevano maltrattato; ma il peggio doveva ancora venire: giunto a casa, aveva trovato la moglie insidiata da altri ufficiali francesi, che avevano brutalmente stroncato i suoi timidi e inefficaci tentativi di protesta. Il monologo è uno dei capolavori di Porta.

Giovanni Migliara, illustrazione di un episodio del Marchionn di gamb avert, 1822.

La Ninetta del Verzee Come nel Bongee, anche nella Ninetta del Verzee l’autore lascia parlare la protagonista: Ninetta è una prostituta che si confida con un cliente in un linguaggio duro, crudo, senza dissimulare nulla, e che nella sua sincerità rivela un animo ingenuo e generoso. La donna è stata trascinata nel baratro dell’abiezione dall’amore mal riposto per un uomo cinico che, dopo averla derubata di tutto, l’ha indotta ad abbandonare il suo lavoro di onesta pescivendola per prostituirsi. La figura della prostituta (ricorrente nella letteratura ottocentesca) vittima dei vizi e dell’ipocrisia della società moderna, spesso presentata in modo edulcorato (si pensi ad esempio alla Traviata di Verdi e al romanzo La signora delle camelie di Dumas, da cui l’opera lirica è tratta), si mostra nel testo di Porta in tutta la sua autenticità, senza mai cadere nel patetico o in un’idealizzazione lontana dalla realtà.

PER APPROFONDIRE

El Lament del Marchionn di gamb avert Un altro personaggio di “perdente” di cui Porta sa mettere in luce l’umanità dandogli la parola in un toccante monologo è il protagonista del Lament del Marchionn di gamb avert, un povero sciancato, vittima di una donna astuta e corrotta, la bella Tetton (il nome già evoca il personaggio…), che lo sposa per fargli riconoscere il bambino concepito con un altro e lo sottopone a ogni sorta di tradimenti e di umiliazioni, finché se ne va via lasciandogli il bimbo, che il povero Marchionn accoglie di buon animo e accudisce con tenerezza, sempre convinto che sia figlio suo.

La “linea lombarda”: realismo, moralità, sperimentazione linguistica Milano, una città all’avanguardia La Lombardia, con Milano, si caratterizza come regione d’avanguardia della cultura italiana per circa due secoli, dal Settecento al Novecento. Milano è uno dei centri propulsivi prima dell’Illuminismo (attorno alla rivista «Il Caffè») e poi del Romanticismo, con il gruppo del «Conciliatore»; in seguito, nel capoluogo lombardo avranno il loro centro la Scapigliatura e, nel Novecento, l’avanguardia europea del Futurismo. La “linea lombarda” La cultura della città e della regione si caratterizza per alcuni tratti peculiari, a proposito dei quali i critici Luciano Anceschi e Dante Isella hanno parlato di una “linea lombarda”, che accomunerebbe, tra gli altri, gli illuministi Parini, Verri, Beccaria, Porta e Manzoni, gli scapigliati Dossi, Tessa e Gadda: tali caratteri sono il realismo (comune anche alla pittura lombarda), la moralità (si parla di “reali-

smo etico”) e la tendenza alla sperimentazione linguistica, non fine a se stessa, ma volta a rendere la complessità del reale. Come scrive Dante Isella, nella letteratura lombarda «lo strenuo esercizio dello stile è l’equivalente espressivo di un profondo senso del reale, osservato con animo partecipe, scrutato con l’occhio indagatore di chi dalla buccia delle cose specula le leggi dell’eterno fluire». Gli autori lombardi appaiono mossi da una tensione morale, da una volontà di scavo oltre le apparenze, che li induce alla ricerca di uno stile di forte e spesso violento impatto, talvolta con caratteri espressionistici, mai comunque convenzionale. A tale tendenza che per sua natura «aborre dal monolinguismo», si può ricondurre anche la linea dialettale, che in ambito milanese assume per la prima volta «pari dignità, anche a livello stilistico» rispetto alla tradizione in lingua.

I poeti dialettali 2 377


T1

Due momenti della storia nella poesia di Porta I testi qui presentati sono riferiti alla storia milanese, di cui Porta fu attento testimone. Il primo è un sonetto (➜ T1a OL) in cui il poeta dà voce, con la rude icasticità del dialetto, all’insofferenza dei milanesi per le prepotenze e le spoliazioni dell’esercito francese. Nel secondo (➜ T1b ), La preghiera, egli stigmatizza il clima degli anni della Restaurazione e il tentativo della nobiltà di riacquistare i propri privilegi con il sostegno di ideologie anacronistiche, come l’alleanza fra trono e altare e la concezione del potere per diritto divino (da quello regale ai privilegi della nobiltà).

online T1a Carlo Porta

Paracarr che scappee de Lombardia Poesie, 22

EDUCAZIONE CIVICA

Carlo Porta

T1b C. Porta, Poesie, lettere: itinerario antologico del “poetta ambrosian”, a cura di C. Beretta, Bompiani, Milano 1988

La preghiera

nucleo Costituzione competenza 1, 2

Composta nel 1820, la poesia, nota anche con il titolo L’offerta a Dio, rappresenta con pungente ironia il clima sociale e ideologico della Restaurazione. La nobile e presuntuosa donna Fabia racconta a un religioso suo ospite, l’ex francescano don Sigismondo, un incidente (in realtà di scarsa importanza e piuttosto ridicolo) da lei ritenuto di tragica gravità ed emblema della corruzione dei tempi. Caduta rovinosamente nello scendere dalla carrozza per entrare in chiesa, l’altezzosa nobildonna suscita le risa dei mendicanti e della povera gente lì accalcata. Per donna Fabia non c’è dubbio: si sta avvicinando la fine del mondo, se i “pezzenti” non rispettano più i nobili, «primm Cardin dell’ordine social». Ritenendo con ciò di fornire un luminoso esempio di carità cristiana, la donna si reca all’altare a pregare per i delinquent che l’hanno derisa: una preghiera in realtà blasfema perché fondata sul disprezzo dei poveri e sulla convinzione di dovere la propria condizione privilegiata a una speciale benevolenza divina. Secondo la sua poetica realistica, Porta non enuncia un giudizio esplicito sulla donna, ma ne lascia trasparire il carattere ottuso e presuntuoso attraverso la sua stolta “preghiera”.

Donna Fabia Fabron de Fabrian l’eva settada al foeugh sabet passaa col pader Sigismond ex franzescan, che intrattant el ghe usava la bontaa 5 (intrattanta, s’intend, che el ris coseva) de scoltagh sto discors che la faseva1.

La metrica: Sestine di endecasillabi, con lo schema ABABCC 1 Donna Fabia... faseva: Donna Fabia Fabroni di Fabriano era seduta sabato scorso presso il focolare con padre Sigismondo, un ex francescano che, intanto, le usava la cortesia (intanto, s’intende, che il ri-

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so cuoceva) di ascoltare questo discorso che lei faceva. La prima e l’ultima strofa si distinguono dalle altre perché sono in milanese, il linguaggio del narratore eterodiegetico, esterno. Nelle altre, invece, parla la donna, che tenta di elevare il proprio linguaggio nel “parlare finito” (un italiano approssimativo utilizzato dalle classi

più alte per distinguersi dal popolo), ma ricade spesso nel dialetto e in goffi errori. Il nome altisonante della protagonista, sottolineato dalle allitterazioni, fornisce la prima immagine di un personaggio pretenzioso e ridicolo.


Ora mai anche mì2 don Sigismond convengo appien nella di lei paura3 che sia prossima assai la fin del mond, 10 chè vedo cose di una tal natura, d’una natura tal, che non ponn dars4 che in un mondo assai prossim a disfars. Congiur, stupri, rapinn, gent contro gent, fellonii5, uccision de Princip Regg6, 15 violenz, avanii7, sovvertiment de troni e de moral, beffe, motegg8 contro il culto9, e perfin contro i natal del primm Cardin dell’ordine social10. Questi, don Sigismond, se non son segni 20 del complemento della profezia11, non lascian certament d’esser li indegni frutti dell’attual filosofia12; frutti di cui, pur tropp, ebbi a ingoiar tutto l’amaro, come or vò13 a narrar. Essendo ieri venerdì de marz fui tratta dalla mia divozion a Sant Cels14, e vi andiedi15 con quell sfarz che si adice alla nostra condizion; il mio copè con l’armi, e i lavorin 30 tanto al domestich quanto al vetturin16. 25

Tutte le porte e i corridoi davanti al tempio eren pien cepp d’una faragin17 de gent che va, che vien, de mendicanti,

2 anche mì: anch’io. 3 convengo… paura: concordo in pieno con la sua (di lei) paura. Il costrutto goffo e pretenzioso mette in evidenza la scarsa cultura della donna, e ci dà già un primo indizio del suo carattere. 4 non ponn dars: non possono accadere. 5 fellonii: tradimenti. 6 uccision de Princip Regg: uccisione di principi reali. Si riferisce probabilmente all’attentato di cui era stato vittima il duca di Berry, ucciso a Parigi nel gennaio 1820. 7 avanii: soprusi. 8 mottegg: scherni. 9 contro il culto: antireligiosi. 10 contro i natal... social: contro i discendenti del primo cardine dell’ordine sociale (la nobiltà). 11 del complemento della profezia: del compimento della profezia dell’Apocalis-

se. La donna assimila il tramonto dell’ordine sociale dell’ancien régime alla fine del mondo, profetizzata nell’Apocalisse. 12 non lascian... filosofia: sono certamente i frutti delle filosofie moderne. Donna Fabia ritiene colpevoli della perdita di rispetto del popolo verso i nobili l’Illuminismo e le ideologie democratiche e liberali, da lei condannate in blocco. 13 or vò: ora vado. 14 a Sant Cels: chiesa milanese, situata nell’attuale corso Italia. 15 vi andiedi: vi andai. Il parlare sussiegoso della donna risulta comico, perché infarcito di grossolani errori grammaticali. 16 con quello... al vetturin: con quello sfarzo che si addice alla nostra condizione di nobili; la mia carrozza ornata dello stemma nobiliare (copé dal francese coupé, carrozza chiusa con due sportel-

li e un solo sedile) e alamari di gala sia per il servitore sia per il conducente della vettura. È da notare il nostra, riferito alla nobiltà, di cui la donna fa parte, e non all’interlocutore, un povero ex frate ridotto a elemosinare il pranzo a causa della chiusura forzata dei conventi, avvenuta nel Settecento, per gli interventi dei sovrani illuminati austriaci (in particolare di Giuseppe II) e poi di Napoleone. La pompa della donna per recarsi in chiesa appare del tutto fuori luogo, particolarmente in una giornata penitenziale come il venerdì, e rende per contrasto ancora più ridicolo l’incidente della sua caduta. 17 pien... faragin: pieni zeppi di una folla confusa; faragin (“farragine”), con le sue connotazioni dispregiative, evidenzia il disprezzo della donna per la folla di popolani.

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de mercadanti de librett, de immagin, 35 in guisa che, con tanto furugozz18, agio non v’era a scender dai carrozz. L’imbarazz era tal che in quella appunt ch’ero già quasi con un piede abbass, me urtoron contro19 un pret sì sporch, sì unt20 40 ch’io, per schivarlo e ritirar el pass21, diedi nel legno22 un sculaccion sì grand che mi stramazzò in terra di rimand23. Come me rimaness in un frangent di questa fatta è facil da suppôr24: 45 e donna e damma25 in mezz a tanta gent nel decor compromessa e nel pudôr è più che cert che se non persi i sens fu don del ciel che mi guardò propens26. E tanto più che appena sòrta in piè27 50 sentii da tutt i band quej mascalzoni a ciuffolarmi dietro il va via vè28! Risa sconc29, improperi, atti buffoni, quasi foss donna a lor egual in rango, cittadina30... merciaja... o simil fango31. Ma, come dissi, quell ciel stess che in cura m’ebbe mai sempre fino dalla culla32, non lasciò pure in questa congiuntura de protegerm ad onta del mio nulla33. e nel cuor m’inspirò tanta costanza 60 quant c’en voleva in simil circostanza. 55

18 furugozz: calca, confusione. Il termine dialettale, che indica ancora quale sia la disposizione di donna Fabia verso la massa dei popolani, è in comico contrasto con la costruzione sintattica ricercata, introdotta da in guisa che. 19 me urtoron contro: mi spinsero contro. 20 un pret... unt: un prete, così sporco, così unto. Fra tanta folla, chi suscita un particolare ribrezzo nella donna è proprio un prete che, nella società della Restaurazione, impersona l’avvilimento degli ecclesiastici, immiseriti e privi di dignità, ridotti a difendere i privilegi di una nobiltà al tramonto. Negli ultimi testi di Porta sono ricorrenti figure di ex sacerdoti e frati in miseria per la chiusura dei conventi, di cui è un esempio lo stesso interlocutore

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della donna, fra Sigismondo.

21 ritirar... pass: tirarmi indietro. 22 nel legno: sottinteso “della carrozza”. 23 mi stramazzò... di rimand: per il contraccolpo mi fece cadere a terra. 24 Come me… da suppôr: come rimanessi in un frangente di tal fatta è facile da supporre. 25 damma: dama (nobile). 26 se non... propens: se non caddi svenuta fu per l’aiuto divino, che mi concesse il suo favore. 27 sòrta in piè: rialzatami. 28 da tutt... vè: da tutte le parti fischiarmi dietro frasi di scherno (il “vattene via!”, ritornello popolare). 29 Risa sconc: risate sconce, volgari. 30 cittadina: borghese. 31 simil fango: simile bassezza. Tocca

qui il suo culmine il disprezzo per i poveri e l’arroganza di donna Fabia, incapace di riconoscere l’uguaglianza di tutti gli uomini: un principio non soltanto illuministico, ma anche cristiano. È significativo che don Sigismondo rimanga in silenzio, senza controbattere nulla. 32 quell ciel... culla: quel cielo che fin dalla nascita mi concesse sempre il suo favore, anche in tale difficile circostanza non cessò di proteggermi. 33 non lasciò… mio nulla: non trascurò pure in questa circostanza di proteggermi, nonostante il mio essere nulla di fronte a Dio. La retorica professione di umiltà religiosa contrasta con la superbia della donna convinta, perché nobile, di avere diritto a un favore particolare dal Cielo.


Fatta maggior de mì34, subit impongo al mio Anselm ch’el tacess, e el me seguiss, rompo la calca, passo in chiesa, giongo a’ piedi dell’altar del Crocifiss, 65 me umilio35, me raccolgh, poi a memoria36 fò al mio Signor questa giaculatoria37: Mio caro buon Gesù, che per decreto dell’infallibil vostra volontà m’avete fatta nascere nel ceto 70 distinto38 della prima nobiltà, mentre poteva a un minim cenno vostro nascer plebea, un verme vile, un mostro39: io vi ringrazio che d’un sì gran bene abbiev40 ricolma l’umil mia persona, 75 tant più che essend le gerarchie terrene simbol di quelle che vi fan corona godo così di un grad ch’è riflession del grad di Troni e di Dominazion41. Questo favor lunge dall’esaltarm, 80 come accadrebbe in un cervell leggier42 non serve in cambi che a ramemorarm la gratitudin mia ed il dover di seguirvi e imitarvi, specialment nella clemenza con i delinquent. 85 Quindi in vantaggio di costor anch’io v’offro quei preghi, che avii faa voi stess43 per i vostri nimici al Padre Iddio:

34 Fatta maggior de mì: spinta (dall’ispirazione divina) a un comportamento eroico, superiore a quello consueto. 35 subit... me umilio: la successione di verbi d’azione ritrae efficacemente l’atteggiamento deciso e prepotente della donna, convinta di dover difendere la sua dignità ingiustamente calpestata; l’incedere altero e sussiegoso con cui giunge fino all’altare contrasta in modo ridicolo con l’espressione «me umilio». 36 a memoria: Porta insinua abilmente che le sciocchezze dette dalla donna non siano il frutto di un suo pensiero personale, ma che le abbia apprese “a memoria”, perché spesso ripetute nel suo ambiente. Le concezioni di donna Fabia, infatti, possono essere ricondotte all’ideologia della Restaurazione, di cui è evidente l’anacronismo, grottesco dopo l’Illuminismo,

la Rivoluzione francese e la parabola di Napoleone. 37 fò al mio… giaculatoria: l’espressione non è casuale, perché il Signore invocato dalla donna (la giaculatoria sta per “preghiera rivolta a Dio”) è davvero “il suo”, dato che lei ritiene di riceverne una speciale protezione personale. Lontano dal vero Dio cristiano, è frutto dei suoi pregiudizi di persona tanto sciocca quanto privilegiata. 38 ceto distinto: l’enjambement sottolinea il compiacimento della donna per la sua elevata appartenenza sociale. 39 plebea... mostro: il climax evidenzia il disprezzo della donna per i poveri. 40 abbiev: abbiate. Nel coniugare i verbi donna Fabia mostra tutto il suo impaccio linguistico, coniando più volte forme inesistenti.

41 godo... Dominazion: godo sulla terra di un grado pari a quello delle gerarchie angeliche dei Troni e delle Dominazioni. Secondo una visione medievale, l’ordine gerarchico terreno rispecchierebbe quello divino. 42 cervell leggier: persona superficiale. Donna Fabia non si ritiene soltanto un esempio di moralità, ma anche di profondità di pensiero. 43 v’offro... stess: vi offro quelle preghiere che avete rivolto Voi stesso. Convinta che aver riso di lei fosse stata una colpa di inaudita gravità, donna Fabia definisce delinquent (v. 84) quelli che l’hanno commessa, e arriva nella sua superbia a identificarsi con Cristo sulla croce; è perciò convinta di dare prova di grandezza d’animo perdonando i colpevoli e pregando per loro.

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Ah sì abbiate pietà dei lor eccess, imperciocché ritengh che mi offendesser 90 senza conoscer cosa si facesser44. Possa st’umile mia rassegnazion congiuntament45 ai merit infinitt della vostra accerbissima passion46 espiar le lor colpe, i lor delitt, 95 condurli al ben, salvar l’anima mia, glorificarmi in cielo, e così sia. Volendo poi accompagnar col fatt le parole, onde avesser maggior pes47, e combinare con un pò d’eclatt48 100 la mortificazion di chi m’ha offes e l’esempio alle damme da seguir ne’ contingenti prossimi avvenir, sòrto a un tratt49 dalla chiesa, e a quej pezzent, rivolgendem in ton de confidenza, 105 Quanti siete, domando, buona gent50?... Siamo ventun, rispondon, Eccellenza! Caspita! molti, replico... Ventun?... Non serve51: Anselm?... Degh on quattrin per un52. Chì tas la Damma, e chì Don Sigismond 110 pien come on oeuv de zel de religion, scoldaa dal son di forzellinn, di tond, l’eva lì per sfodragh on’orazion, che se Anselm no interromp con la suppera vattel a catta che borlanda l’era53!

44 imperciocché... facesser: la donna ripete le parole di Cristo sulla croce, “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”, mettendo sullo stesso piano la sua goffa caduta, derisa dal popolo, e il martirio di Cristo. 45 congiuntament ai merit: insieme ai meriti. 46 accerbissima passion: dolorosissima Passione. 47 pes: peso. La donna vuole conferire maggior efficacia alla preghiera con un’opera di misericordia. 48 eclatt: francesismo (dal francese éclat, “splendore, magnificenza”). L’uso del francese non è casuale: era la lingua parlata dai nobili e il termine indica la volontà

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della donna di compiere un bel gesto aristocratico, per impressionare e mortificare la folla. Nella sua illimitata superbia, la nobildonna pensa di poter essere d’esempio addirittura per le donne delle future generazioni. 49 sòrto... tratt: esco a un tratto. 50 pezzent... buona gent: la rima evidenzia l’ipocrisia della donna, che con disprezzo giudica pezzent i poveri che la circondano ma si rivolge loro con falsa cortesia, chiamandoli buona gent. 51 Non serve: non importa. 52 Degh... per un: dai un quattrino (una moneta di scarso valore) per uno. Disprezzando la folla dei miserabili, la donna non consegna loro personalmente l’elemosi-

na, ma la fa distribuire dal suo servitore, Anselmo. 53 Chì tas... l’era: qui (a questo punto) tace la dama e a questo punto don Sigismondo, pieno come un uovo di zelo religioso, incitato dal suono delle forchette e dei piatti, era lì lì per sfoderare un’orazione che, se Anselmo non lo interrompeva con la zuppiera, chi sa che sbrodolata sarebbe stata! In dialetto milanese, la borlanda è una minestra brodosa e insipida. L’ultima ottava, come la prima affidata al narratore in milanese, rivela come l’esponente del clero, seduto al tavolo della nobildonna, sia più interessato al pasto che alla religione.


Analisi del testo La Preghiera come sguardo critico sulla Restaurazione Considerata uno dei capolavori di Porta, la poesia non si esaurisce nel suo aspetto caricaturale e satirico, ma propone una riflessione più profonda sul tentativo storico della Restaurazione europea di cancellare le idee illuministiche e di tornare a usare la religione come sostegno del potere e del privilegio sociale. Il tentativo di riportare indietro l’orologio della storia, ripristinando le prerogative aristocratiche dell’ancien régime, appariva grottesco in una città come Milano, che era stata uno dei maggiori centri dell’Illuminismo europeo. Contro tale pretesa, Porta utilizza l’arma del comico, da sempre una delle più efficaci per contestare il potere.

La cornice in dialetto e la parlata della nobildonna Il monologo di donna Fabia è incorniciato da un’introduzione e da una conclusione di un narratore eterodiegetico, in terza persona che, in dialetto milanese, ne illustra l’occasione: la donna rivolge il racconto della sua eroica “preghiera” a don Sigismondo, ex frate ridotto al rango di parassita, il quale però sembra più interessato al pranzo imminente che alle questioni morali e teologiche. La cornice dialettale permette di apprezzare meglio l’intarsio linguistico (quasi un pastiche, cioè un impasto di stili diversi) che caratterizza il discorso della nobildonna: era il cosiddetto “parlar finito”, un ibrido di italiano letterario e dialetto, parlato dai nobili milanesi per distinguersi dalle classi inferiori, che erano esclusivamente dialettofone.

Una preghiera empia e blasfema

Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Anziana in preghiera, olio su tela, 1629 ca. (Salisburgo, Residenzgalerie).

Nell’ideologia della Restaurazione, la religione torna a essere un sostegno dell’ordine costituito. Le ottuse convinzioni di donna Fabia ne sono un riflesso: convinta che il potere derivi da un’investitura divina, la nobildonna considera le gerarchie sociali specchio di quelle celesti. Non si rende, però, conto che la sua preghiera, insieme ai valori illuministici, rinnega anche quelli cristiani: non è certo evangelico il suo disprezzo per le persone umili («poteva... nascer plebea, un verme vile, un mostro»), che la spinge a definire fango gente che ha il solo torto di essere povera. La sua superbia da aristocratica giunge addirittura al paragone, tanto empio quanto ridicolo, tra l’offesa da lei ricevuta e la Passione di Cristo.

La continuità Parini-Porta-Manzoni Per la sua critica alla nobiltà, Porta si riallaccia all’esempio del poeta milanese Parini, come già si avverte in questo testo, ma come è evidenziato in modo ancora più esplicito in un poemetto del 1819, La nomina del cappellan, in cui, con un richiamo all’episodio pariniano della Vergine cuccia, Porta immagina che la cagnetta di casa guidi una nobildonna nella scelta di un cappellano tra la folla dei miserabili pretendenti. Ma, come una linea di continuità lega Parini a Porta, così un altro filo conduce da Porta a Manzoni. Proprio il 1821, infatti (l’anno della morte di Porta), segna per Manzoni l’inizio della lunga elaborazione dei Promessi sposi, per cui, come ha mostrato Isella, l’opera portiana costituisce un importante modello narrativo. Manzoni riprende infatti la scelta portiana di protagonisti umili e popolari e il realismo critico della narrazione. Alcuni personaggi dei Promessi sposi, inoltre, ricordano quelli portiani: la nobile prepotente, stupida e bigotta della Preghiera somiglia alla manzoniana donna Prassede, che scambia il cielo per il suo cervello, mentre il disprezzo degli aristocratici per gli umili è pari a quello di don Rodrigo, che afferma di Renzo e Lucia: «Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno» (I promessi sposi, XI). Sia Porta sia Manzoni hanno aderito agli ideali illuministici e, sebbene lo spirito laico del primo differisca da quello religioso del secondo, entrambi condannano la sottomissione della Chiesa ai potenti.

I poeti dialettali 2 383


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Riassumi brevemente gli avvenimenti narrati nel testo. 2. Perché donna Fabia ritiene sia prossima la fine del mondo? 3. Qual è il rapporto fra il mondo celeste e quello terreno secondo donna Fabia? 4. Qual è il ruolo di don Sigismondo? Che comportamento tiene? ANALISI 5. In tutto il suo discorso la nobildonna manifesta il suo disprezzo per i poveri. Riporta i passi in cui si evidenzia tale atteggiamento. 6. Indica l’espressione con cui donna Fabia definisce la nobiltà e spiegane il senso. 7. Il discorso di donna Fabia si caratterizza per la varietà di registri linguistici (dialetto, italiano alto, commistione di dialetto e italiano). Riporta qualche espressione esemplificativa di tali diversi registri linguistici, spiegando le ragioni per cui Porta li ha usati.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 8. In un intervento orale di max 3 minuti, evidenzia in un testo i temi e le idee che accomunano Parini, Porta e Manzoni.

EDUCAZIONE CIVICA

9. Donna Fabia condanna le ideologie democratiche e liberali propugnate dall’Illuminismo e ritiene che la nobiltà sia il «primm Cardin dell’ordine social». La donna è l’espressione di una mentalità chiusa e classista che sfocia in un vero e proprio disprezzo verso i «pezzent». Ti è mai capitato di assistere a episodi di questo tipo, nei quali risultava evidente l’ostentazione di superiorità e di aperto disprezzo nei confronti di persone indigenti?

nucleo

Costituzione

competenza 1, 2

2 Giuseppe Gioachino Belli e la voce del popolo di Roma

Giuseppe Gioachino Belli (Roma, Museo del folklore e dei poeti romaneschi).

Una personalità enigmatica e contraddittoria La personalità di Belli – che, insieme a Porta, fu l’altro grande poeta dialettale dell’Ottocento – resta tuttora misteriosa. Il confronto tra la sua vita pubblica (impiegato dello Stato pontificio, conservatore in politica, addirittura reazionario negli ultimi anni) e i dissacranti sonetti in dialetto romanesco ci offre infatti l’immagine di un uomo dal doppio volto. Ma “doppia” è anche la sua figura di scrittore perché affianca la produzione in dialetto, sorprendentemente moderna, a una produzione in lingua di gusto classicistico. Una giovinezza difficile Giuseppe Gioachino Belli nasce nel 1791 a Roma, in uno Stato pontificio dove il potere temporale dei papi era ormai avviato verso un’irreversibile crisi, minato dalle idee illuministiche e dall’avanzare della modernità. Nel 1798 il più che millenario governo papale cade per la prima volta e i francesi occupano militarmente la città, proclamando la prima Repubblica romana. La famiglia di Belli, ancora bambino, ne è drammaticamente coinvolta, costretta alla fuga per aver ospitato un parente (un generale napoletano inviato a restaurare il potere papale, poi fucilato dai rivoluzionari). Seguono altri dolorosi eventi che rendono infelice la giovinezza di Belli, contribuendo a formare un carattere pessimista e malinconico: a dieci anni perde il padre e pochi anni dopo la madre, rimanendo in condizioni economiche assai difficili che lo costringono a interrompere gli studi. Trova lavoro come

384 Ottocento 8 La poesia dialettale


impiegato, ma non rinuncia all’attività intellettuale e diviene socio dell’Accademia Tiberina (in cui si coltivava una letteratura accademica e tradizionalistica), per cui scrive testi di impianto tradizionale. La cultura, i viaggi, l’influenza di Porta Nel 1816 il poeta sposa una ricca vedova, Maria Conti Pichi, da cui avrà il figlio Ciro. Raggiunta, grazie al matrimonio, una condizione di tranquillità e di agiatezza, può dedicarsi agli studi, impadronendosi di una cultura enciclopedica, che spazia dai testi illuministici alla filosofia, alla politica e alla letteratura. Compie anche viaggi a Firenze e a Milano che lo mettono a contatto con ambienti liberali e con realtà politiche e sociali ben più evolute dello Stato pontificio. A Milano, Belli legge le poesie di Porta, che rappresentano per lui una vera e propria «rivelazione folgorante» (Teodonio), aprendogli nuove e inaspettate prospettive. Tornato a Roma, Belli si dimette dall’Accademia Tiberina e dà inizio alla sua produzione in dialetto romanesco, che costituirà un grandioso, dissacrante affresco della Roma papalina. Belli autore europeo Per timore della censura (o per più complesse ragioni personali) Belli decide di non dare alle stampe durante la vita i suoi sonetti, che (salvo uno) vengono pubblicati postumi: per la prima edizione completa si è dovuto attendere addirittura il 1952, quando si è potuto veramente comprendere la portata eccezionale dell’opera. Tuttavia essi erano ben conosciuti a Roma perché il poeta, attore dilettante, era solito declamarli durante riunioni di amici e intellettuali, che ne diffusero la fama in Europa (in cui Belli apparve uno degli iniziatori di un realismo che avrebbe in seguito caratterizzato la letteratura del tardo Ottocento) La rinuncia alla poesia in dialetto Ma dopo la proclamazione della Repubblica romana (1849), Belli decide di rinunciare alla sua poesia di argomento popolare in romanesco, presumibilmente per il timore di fomentare i moti liberali. Da allora esibisce un atteggiamento reazionario al punto che, nel suo incarico di censore teatrale della curia papalina, arriva a condannare il Rigoletto di Verdi per l’enfasi posta sulla parola vendetta nel libretto di Francesco M. Piave. Intristito da sventure familiari e dalla rinuncia alla sua più autentica vocazione di poeta, muore nel dicembre del 1863. La raccolta dei Sonetti: la commedia della Roma papalina La raccolta dei testi in romanesco di Belli consta di più di duemila sonetti (precisamente 2279), per un insieme di versi più che doppio rispetto alla Divina Commedia: una “umana” commedia della Roma papalina, ricchissima di situazioni e personaggi, in cui sono i popolani a parlare, con molteplici voci che si sovrappongono in un insieme colorito e multiforme a cui fa da sfondo la Roma del tempo, dalle miserabili case alle piazze animate, dai mercati affollati di popolani ai tribunali, alle chiese e alle strade. Rivivono nella poesia di Belli i tipi umani caratteristici della città, i loro diversi mestieri e occupazioni, il modo di educare i figli, la loro approssimativa e immaginosa cultura di analfabeti, la loro visione di questa vita (e dell’altra), le opinioni sulla politica, sulla giustizia, sulla religione, sui rapporti tra le classi sociali e naturalmente sul “papa re”. Le idee dell’autore: un enigma Dato che nei sonetti parlano i popolani, resta un mistero il pensiero dell’autore, che si cela «nel suo parlante pigro e collerico, esibizionista e filosofo» (P. P. Pasolini). Nell’Introduzione alla raccolta (➜ T2 ), Belli rivendica per sé soltanto il ruolo di storico oggettivo, guidato da un interesse che oggi definiremmo antropologico: ritrarre fedelmente l’indole, la mentalità del popolo di Roma nella sua inconfondibile tipicità, filtrata attraverso il suo peculiare linguaggio. I poeti dialettali 2 385


È però difficile non cogliere la formidabile carica eversiva dei sonetti in cui, attraverso la voce della gente del popolo, il poeta delinea un quadro di miseria, ingiustizia e sopraffazione tale da rendere la città dei papi più simile all’infernale città di Dite dantesca che alla città di Dio, ritraendola con uno spirito graffiante che lo ha fatto accostare al pittore spagnolo Francisco Goya (1746-1828).

Religiosi conversano nei pressi del Colosseo, seconda metà del XIX secolo.

La prospettiva critica dei Sonetti Assumendo il punto di vista del popolo, Belli crea un effetto di straniamento, che smaschera le ingiustizie e l’ipocrisia dei potenti. Ammiratore di Porta e Manzoni (giudica I promessi sposi «il primo libro del mondo»), lettore degli illuministi, nonostante le esibite professioni reazionarie il poeta è sicuramente critico verso la Roma papalina. Non può, però, essere definito un “progressista”: a differenza di Porta e Manzoni non sembra infatti nutrire alcuna fiducia nella possibilità di cambiare in meglio la situazione politica e sociale né, tanto meno, appare convinto del ruolo “illuministico” della poesia, come dimostra la rinuncia a comporre sonetti (che, nel testamento, chiederà addirittura di distruggere) dopo la rivoluzione romana di Mazzini, per evitare di essere coinvolto nella propaganda antipapale. Probabilmente, il carattere pessimista e l’ambiente arretrato in cui viveva gli impedirono di coltivare la speranza in un positivo cambiamento.

Giuseppe Gioachino Belli

T2

Il programma di Belli: un ritratto fedele del popolo romano Introduzione ai Sonetti

G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

L’Introduzione ai Sonetti (composta da Belli nel 1831 e successivamente rivista più volte) è il documento che ci permette di capire al meglio il significato complessivo della raccolta, le intenzioni dell’autore e la sua poetica.

Io ho deliberato1 di lasciare un monumento2 di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi3, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tutto ciò in1 deliberato: deciso, stabilito. 2 monumento: documento, ricordo. 3 i lumi: le idee, la saggezza. Il termine,

386 Ottocento 8 La poesia dialettale

che rimanda all’Illuminismo, fa comprendere come Belli non abbia voluto soltanto rappresentare il popolo come ignorante,

ma anche come partecipe di una profonda saggezza. 4 ritiene... popolo: ha delle caratteristi-


somma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo4. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza5. Oltre a ciò, mi sembra la mia idea non iscompagnarsi da novità6. Questo disegno così colorito, checché ne sia del soggetto, non trova lavoro da confronto che lo abbia preceduto7. I nostri popolani non hanno arte alcuna: non di oratoria, non di poetica: come niuna 10 plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie8. [...] Esporre le frasi del Romano quali dalla bocca del romano escono tuttodì9, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza10, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma cavare 15 una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo. [...] E dove con tal corredo di colori nativi11 io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio. Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e 20 la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una imagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento. 5

che che, per le circostanze particolari, si differenziano da quelle di qualsiasi altro popolo. 5 di sempre solenne ricordanza: di grandiose memorie storiche. 6 mi sembra… novità: mi sembra che la mia idea non sia priva di novità.

7 Questo... preceduto: questo quadro così colorito, qualsiasi cosa valga il soggetto, non trova precedenti lavori con cui essere confrontato. Belli si mostra consapevole della novità della propria opera. 8 non fattizie: non prodotte artificialmente, cioè innate.

9 tuttodì: tuttora. 10 senza... licenza: senza alcuna modificazione, senza neppure mutamenti nella sintassi o troncamenti delle parole per licenza poetica. 11 tal corredo... nativi: tale insieme di raffigurazioni reali.

Analisi del testo L’originalità dei Sonetti L’entrata trionfale a Roma di Pio VII nel 1814 (Roma, Museo napoleonico).

L’autore dichiara nell’Introduzione il proprio intento: rappresentare in tutti i suoi aspetti la vita nella Roma dei papi. Mentre nei sonetti la parola è data esclusivamente ai personaggi popolari, qui l’io del poeta emerge con orgogliosa consapevolezza («Io ho deliberato»), a rimarcare l’originalità della propria opera. Originalità che per il poeta deriva anche dalle peculiarità del popolo romano, sia per la sua storia millenaria, sia per le particolari condizioni dello Stato pontificio. Lo scrittore si propone perciò di lasciarne un monumento, un perenne ricordo. L’espressione, di origine classica, svela l’ambizione di Belli nel comporre la propria opera, nonostante l’argomento popolare: riecheggia infatti un verso del carme (Odi, III 30) in cui il poeta latino Orazio dichiara di aver innalzato alla Roma di Augusto un monumento (Exegi monumentum) più perenne del bronzo (aere perennius).

La distanza tra l’autore e i personaggi In vari punti dell’Introduzione lo scrittore contesta l’accusa di aver voluto utilizzare i popolani come portavoce delle proprie opinioni e mette in luce la distanza che lo separa dai suoi personaggi: una distanza morale (la materia dei Sonetti è definita «non casta, non pia»), culturale (l’autore caratte-

I poeti dialettali 2 387


rizza la plebe come superstiziosa e senz’arte, mettendo al contempo in luce, attraverso le citazioni classiche, la propria raffinata cultura), linguistica (afferma che il romanesco non è un vero e proprio dialetto ma una parlata corrotta, tanto che, per trascriverla, ha dovuto creare le regole di una lingua romanesca scritta, cavando «una grammatica dall’uso»).

Lo sguardo “antropologico” dell’autore Lo scrittore si propone tuttavia di offrire una rappresentazione veritiera dei suoi personaggi, di guardarli dall’interno, di coglierne, con uno sguardo che potremmo definire “antropologico”, il modo di pensare, di sentire e di rappresentarsi il mondo, le strutture mentali e psicologiche (i «concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni»): un popolo per la sua incultura distante dalla verità delle cose («i pregiudizi, le superstizioni»), ma anche talvolta capace di coglierla intuitivamente (i «lumi»), con insospettata saggezza.

Ettore Roesler Franz, Vicolo del campanile del rione Borgo, 1880 ca. (Roma, Museo di Roma in Trastevere).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali passi dell’Introduzione evidenziano l’intento dell’autore di rappresentare la realtà in modo veritiero? ANALISI 2. Sotto quali aspetti Belli dice di aver voluto rappresentare il popolo romano? Per quali ragioni dichiara di averlo scelto come soggetto? 3. Quali indirette accuse verso chi governa lo Stato pontificio emergono nell’Introduzione ai Sonetti? Riporta le citazioni più significative in proposito.

Interpretare

SCRITTURA 4. Presenta in un breve testo (max 10 righe) la descrizione che il poeta fa della Roma papalina dell’Ottocento, illustrandone pregi e difetti. ESPOSIZIONE ORALE 5. «… cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo» (rr. 14-15): a che cosa si riferisce questa affermazione di Belli? A quale principio di poetica credi si possa ricollegare questo concetto? Motiva la tua risposta in un intervento orale di max 3 minuti.

388 Ottocento 8 La poesia dialettale


Giuseppe Gioachino Belli

T3

La vita da cane Sonetti, 515

G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Il sonetto, come molti altri di Belli, è dedicato alla caustica rappresentazione del potere teocratico papale. Scritto nel 1845, contro la volontà di Belli ebbe una notevole diffusione negli ambienti liberali europei: fu infatti pubblicato, anonimo, su rivista a Losanna, e Mazzini, a Londra, lo poté conoscere e trascrivere già nel 1846. Un popolano romano tenta di difendere il papa dall’accusa di essere ozioso, ma la sua difesa si rovescia in una critica dissacrante del suo operato.

Ah sse chiam’ozzio er zuo, bbrutte marmotte1? Nun fa mmai ggnente er Papa2, eh?, nun fa ggnente? Accusí vve pijjassi un accidente 4 come lui se strapazza e ggiorn’e nnotte. Chi pparla co Ddio padr’onnipotente? Chi assorve3 tanti fijji de miggnotte? Chi mmanna in giro l’innurgenze a bbotte4? 8 Chi vva in carrozza a bbinidí5 la ggente? Chi jje li conta li quadrini6 sui? Chi l’ajjuta a ccreà7 li cardinali? 11 Le gabbelle8, pe ddio, nnu le fa llui? Sortanto la fatica da facchino de strappà ttutto l’anno momoriali9 14 e bbuttalli a ppezzetti in ner cestino!            31 dicembre 1845 La metrica: Sonetto con schema delle rime ABBA BAAB CDC EDE 1 Ah sse... marmotte: osate chiamarlo ozio quello del papa, brutti pigroni? Il popolano, che parla in modo concitato, come si capisce dalla raffica di domande, si rivolge evidentemente a un gruppo di ascoltatori di parere opposto al suo.

2 Nun fa... Papa: non fa mai niente il papa. 3 assorve: assolve. 4 Chi mmanna... bbotte: chi emana indulgenze in enormi quantità; bbotte, “bótti”. 5 bbinidí: benedire. 6 quadrini: quattrini. 7 ccreà: nominare.

8 gabbelle: tasse. 9 de strappà... momoriali: di strappare tutto l’anno memoriali (momoriali: si tratta di scritti indirizzati al papa da parte dei sudditi, per rivolgergli suppliche, per discolparsi o chiedere misericordia quando erano sotto processo).

Analisi del testo Una difesa del papa? La riflessione sul potere del papa è uno dei temi centrali della raccolta di Belli, che si sviluppa con varie sfaccettature in numerosi sonetti, i cui protagonisti possono essere di volta in volta accesi fautori o implacabili denigratori del “papa re”. Al di là degli ingenui discorsi dei popolani, emerge comunque il quadro di un potere che nulla ha a che vedere con la giustizia divina. In questo sonetto, secondo una modalità consueta nella raccolta, il discorso del protagonista è pensato come risposta a un dialogo. Rivolgendosi a interlocutori che evidentemente hanno accusato il papa di non fare nulla, il popolano ribatte in modo concitato, con espressioni enfaticamente ripetute («Nun fa mmai ggnente»), improperi («Accusí vve pijjassi un accidente») e accavallando una fitta serie di domande retoriche (sottolineate dall’anafora di Chi: vv. 5-10).

I poeti dialettali 2 389


Sebbene il protagonista del sonetto sia ingenuamente convinto di difendere il papa, le sue parole mettono al contrario in luce (con un effetto comico immediato) proprio gli aspetti più negativi e riprovevoli del potere temporale. Dal contrasto fra il discorso del parlante e il giudizio implicito dell’autore emerge dunque un duro giudizio morale.

Le “fatiche” del papa Il sonetto è costruito su un efficace crescendo: dapprima il popolano ricorda (ma è già evidente la prospettiva ironica dell’autore) i compiti spirituali del papa: parlare con Dio, assolvere i fedeli (per quanto molti siano «fijji de miggnotte»), benedire la gente (ma la carrozza da cui elargisce le sue benedizioni suggerisce l’idea di una vita comoda e oziosa). A partire dalle terzine, comincia a emergere la critica al potere terreno del papa: tra le “fatiche” si annovera quella di contare i soldi, evidentemente in cospicua quantità, e di inventarsi nuove tasse. L’immagine finale è la più dura e incisiva, perché, se il papa parla con Dio, non comunica però con i suoi sudditi, dato che ne cestina tutti i “memoriali”, cioè le suppliche dei condannati e gli appelli all’autorità pontificia. Con un’immagine iperbolica, il papa si affatica come un facchino a strapparli personalmente e quasi con rabbia, disdegnando di leggerli. La quantità così esorbitante di tali richieste di giustizia implicitamente mostra il malgoverno dello Stato pontificio.

Il fine implicito: la denuncia del potere temporale del papa Il sonetto è quindi da leggere in modo antifrastico, come una denuncia della commistione del potere temporale e di quello spirituale, e dell’indifferenza del papa per la cura dei suoi sudditi. Non si deve però pensare che l’autore l’abbia scritto con un intento politico, auspicando la fine del potere papale; anzi, paradossalmente, il fatto che il sonetto fosse stato conosciuto e apprezzato da Mazzini, che lo aveva diffuso attribuendogli un intento politico rivoluzionario estraneo alle intenzioni dell’autore, contribuì forse alla decisione di Belli di non comporne più altri, al ritorno dei papi dopo l’esperienza della Repubblica mazziniana del 1849.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Il sonetto può essere suddiviso in due parti: individuale e per ciascuna inserisci un titolo. 2. Mentre cerca di difendere il papa, il protagonista ne traccia uno spietato ritratto: come viene espressa la critica della sovrapposizione del potere temporale a quello spirituale? Quali accuse sono implicitamente formulate nei confronti della figura del papa? 3. Quale significato assume il gesto di strappare momoriali (v. 13)? ANALISI 4. Quale effetto conferiscono al sonetto le domande delle due strofe centrali? STILE 5. Spiega il significato della reiterazione, quasi ossessiva, del chi? Quale effetto produce? 6. Nel sonetto il poeta fa ricorso alla figura dell’antifrasi, cioè scrive intendendo il contrario di quello che dice. Giustifica questa affermazione con esempi tratti dal testo. 7. Utilizzando lo schema della finta difesa, il poeta fa una pungente satira nei confronti del papa. Elenca le attività descritte e spiega perché si possano considerare una critica all’istituzione papale.

Interpretare

SCRITTURA ARGOMENTATIVA 8. Alla luce dell’analisi svolta, quale significato – non solo metaforico – acquista il titolo del sonetto? SCRITTURA 9. Scrivi un testo (max 10 righe) in cui spieghi in che senso è possibile affermare che l’uso del dialetto sia un’arma dissacrante. 10. Il dialetto può, in questo caso, essere considerato uno strumento di evasione e di esternazione della propria libertà di parola e di giudizio? Ritieni che anche oggi il dialetto sia usato con lo stesso scopo? In quali contesti ti è capitato di sentirlo utilizzato?

390 Ottocento 8 La poesia dialettale


T4

La Roma dei papi: una città violenta Un’incongruenza in una città dominata dal potere papale, messa in luce a tinte forti nell’opera belliana, è il clima violento che vi si respira. Tutt’altro che inclini a “porgere l’altra guancia”, i sudditi pontifici, abbrutiti dall’ignoranza e dall’abbandono in cui vivono, sembrano lasciarsi andare a impulsi primitivi e brutali, per nulla mitigati dalla morale cristiana.

Giuseppe Gioachino Belli

T4a

EDUCAZIONE CIVICA

L’aducazzione

nucleo Costituzione competenza 2

Sonetti, 2 G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Sotto forma di esortazione di un padre al figlio, il poeta trasmette una morale tutt’altro che evangelica: un codice di comportamento praticato dai popolani romani con una certa assiduità.

Fijjo, nun ribbartà mmai tata tua: abbada a tté, nnun te fà mmette sotto1. Si cquarchiduno te viè a ddà un cazzotto, 4 lì ccallo callo tu ddàjjene dua2. Si ppoi quarcantro porcaccio da ua te sce fascessi un po’ de predicotto3, dijje: «De ste raggione io me ne fotto: 8 iggnuno penzi a li fattacci sua». Quanno ggiuchi un bucale4 a mmora, o a bboccia5, bbevi fijjo; e a sta ggente bbuggiarona 11 nu ggnene fà rrestà mmanco una goccia6. d’èsse cristiano è ppuro7 cosa bbona: pe’ cquesto hai da portà ssempre in zaccoccia 14 er cortello arrotato e la corona8.               Roma, 14 settembre 1830

La metrica: Sonetto, con schema delle rime ABBA ABBA CDC DED 1 Fijjo... sotto: figlio, non disobbedire mai a tuo padre: bada a te, non farti sottomettere. 2 Si... dua: se qualcuno ti viene a dare un pugno, lì per lì, immediatamente, tu dagliene due. 3 Si ppoi... predicotto: se poi qualche altro porco da uva (è un’ingiuria popolaresca) ti facesse un predicozzo.

Bartolomeo Pinelli, Lite fra trasteverini, acquaforte, 1816.

4 un bucale: un boccale di vino (la misura, variabile da luogo a luogo, a Roma equivaleva a poco meno di due litri). 5 a mmora... bboccia: alla morra o a bocce. 6 a sta… goccia: a questa gente imbrogliona (bbuggiarona) non gliene fare restare neanche una goccia. 7 ppuro: pure, anche. 8 pe’ cquesto... corona: perciò devi portare sempre in tasca il coltello affilato e la corona del rosario.

I poeti dialettali 2 391


Analisi del testo Il “Decalogo” del popolano Nella Roma dei papi un padre istruisce il figlio sulla “buona educazione”, che segue principi del tutto opposti alla morale evangelica: non gli insegna il precetto del perdono e quello di porgere l’altra guancia, ma lo invita piuttosto a restituire la violenza ricambiandola in misura doppia (se riceve un cazzotto, dovrà ridarne due) e a non farsi “mettere sotto” dagli altri, cercando sempre di essere il più forte; gli insegna a essere arrogante, rispondendo per le rime a chi cercasse di fargli la predica o di metterlo all’angolo, ed egoista (ad esempio, quando beve non deve lasciare agli altri neppure una goccia), seguendo un comportamento che, se non è certo da vero cristiano o da buon cittadino, però serve alla sopravvivenza di chi si trova a vivere dove, più della legge, domina la forza. Nella città papalina il figlio dovrà naturalmente mostrarsi anche religioso, ma di una religiosità solo esteriore, in realtà superstiziosa: perciò dovrà portare sempre con sé la corona del rosario, insieme però al coltello, indispensabile visto il clima violento che si respira a Roma (come testimoniano molti altri testi belliani). Il sonetto propone dunque «un’analisi esemplare della cultura popolare romana» (Teodonio), allo stesso tempo comica e amara, data la pretesa “educativa” del discorso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Riassumi brevemente il contenuto del sonetto. 2. Quali comportamenti suggerisce il padre al figlio? ANALISI 3. Come si può interpretare il v. 12: «d’èsse cristiano è ppuro cosa bbona»? 4. Indica l’espressione con cui il padre dà consigli in materia religiosa al figlio e spiegane il senso. 5. Sintetizza le caratteristiche psicologiche del padre, facendo riferimento al testo. 6. A quale scopo il padre suggerisce di seguire certi comportamenti? LESSICO 7. Rintraccia nel sonetto termini ed espressioni tipici di un registro lessicale basso.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

SCRITTURA 8. I principi morali sui quali si fonda l’aducazzione di un figlio, di cui in questo sonetto si fa portavoce un uomo del popolo, sono l’espressione di un mondo all’insegna dell’egoismo, della violenza e dell’arroganza. Principi che si scontrano con i valori essenziali per diventare un buon cittadino. Credi che la poesia di Belli contenga una morale che purtroppo ancora oggi trova sostenitori? 9. Alla luce dell’analisi dei sonetti proposti, illustra in un breve testo (max 15 righe) le caratteristiche della Roma ottocentesca sotto il potere dei papi.

online T4b Giuseppe G. Belli

Chi ccerca trova Sonetti, 399

online T5 La miseria del popolo di Roma T5a Giuseppe G. Belli La bbona famijja Sonetti, 47 T5b Giuseppe G. Belli La famijja poverella Sonetti, 413

392 Ottocento 8 La poesia dialettale

Jean-Baptiste-Camille Corot, Veduta di Roma dal Pincio, olio su tela, 1826 (Minneapolis, Institute of Art).


T6

La filosofia e la teologia dei popolani Nell’Introduzione ai Sonetti, Belli accenna al proposito di dare spazio alla visione del mondo dei popolani, alle loro credenze, ai pregiudizi, alle superstizioni, ma anche alla loro cultura (i lumi): un coacervo immaginoso e colorito, unico nel suo genere, perché trae linfa da una città unica al mondo. Nascono così alcuni dei più affascinanti sonetti belliani, con il loro fantasioso e spesso comico insieme di teologia e di superstizione, e con riflessioni pessimistiche e disincantate sul destino umano che probabilmente accomunano l’autore ai suoi personaggi.

Giuseppe Gioachino Belli

T6a

LEGGERE LE EMOZIONI

Er caffettiere fisolofo* Sonetti, 180

G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Il sonetto esprime la visione della vita di un popolano che, nel suo pessimismo, probabilmente rispecchia quella dell’autore. Un caffettiere (gestore di un caffè) sta tritando i chicchi tostati con un macinino a manovella e riflette sulla loro somiglianza con la sorte degli uomini, “girati in tondo” dal destino e quindi spinti a cadere nella gola della Morte.

L’ommini de sto Monno sò ll’istesso che vvaghi de caffè nner mascinino1: c’uno prima, uno doppo, e un antro appresso2, 4 tutti cuanti però vvanno a un distino3. Spesso muteno sito4, e ccaccia spesso er vago grosso er vago piccinino, e ss’incarzeno5 tutti in zu l’ingresso 8 der ferro che li sfraggne in porverino6. E ll’ommini accusí vviveno ar monno misticati7 pe mmano de la sorte 11 che sse li ggira tutti in tonno in tonno8; E mmovennose9 oggnuno, o ppiano, o fforte, senza capillo mai caleno a ffonno10 14 pe ccascà11 nne la gola de la morte.             Roma, 22 gennaio 1833 *fisolofo: filosofo. La metrica: Sonetto con lo schema ABAB ABAB CDC DCD

1 vvaghi... mascinino: chicchi di caffè nel macinino. 2 un antro appresso: un altro dopo. 3 tutti... distino: tutti quanti vanno verso

uno stesso destino, la morte.

4 muteno sito: cambiano di posto. 5 ss’incarzeno: s’incalzano. 6 li sfraggne... porverino: li riduce in polvere. La violenza espressiva del verbo onomatopeico sfraggne e il diminutivo porverino rendono efficacemente l’idea dell’annientamento finale.

7 E ll’ommini... misticati: e gli uomini così vivono nel mondo, mescolati.

8 in tonno in tonno: tutt’in tondo. 9 mmovennose: muovendosi. 10 senza... ffonno: senza capirlo mai affondano. 11 pe ccascà: per cascare.

I poeti dialettali 2 393


Analisi del testo L’allegoria del macinino Il sonetto richiama la lirica barocca, in cui l’osservazione di un oggetto – in genere una clessidra o un orologio a ruote o ad acqua – dava origine a una riflessione sulla vanità della vita e sull’incombere della morte. L’originalità della poesia di Belli sta nel fatto che il protagonista (in modo simile a colui che tiene in mano il destino degli uomini) sta egli stesso azionando il macinino, il meccanismo che frantuma e riduce in polvere i chicchi di caffè. Dall’analogia scaturisce una pessimistica riflessione sulla condizione umana, con ogni probabilità condivisa dallo stesso autore: gli uomini, dominati da un destino crudele e incomprensibile, si affannano vanamente, cercando di migliorare la propria condizione e di sopraffarsi gli uni con gli altri, cosicché i forti prevalgono sui più deboli; ma alla fine per tutti c’è la morte che incombe spaventosa, pronta a ingoiarli.

La struttura e lo stile del sonetto Il sonetto è perfettamente costruito: le quartine evocano il movimento dei chicchi di caffè, con una cadenza lenta e monotona che riproduce il ritmo cadenzato dei giri di manovella. Alcuni termini anticipano il secondo elemento della comparazione, la condizione umana: distino (il destino) e porverino (i chicchi ridotti in polvere), parola chiave che chiude le quartine, con un’evidente citazione della Bibbia («ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai»). Il movimento descritto, prima in tondo, poi di caduta a precipizio, è sottolineato dai «ritmi incalzanti in continuo crescendo che girano anch’essi come ruote, sino a conchiudersi nella clausola fortemente cadenzata e statica dell’ultimo verso. Verso fermo e pesante come una pietra tombale» (Vigolo). Il caffettiere, cioè il gestore di un caffè, descrive la condizione umana in un modo rassegnato, ma il sonetto (che per certi aspetti può ricordare la visione del mondo di un altro poeta suddito pontificio, Giacomo Leopardi) solleva una domanda a cui non è data risposta: nel ciclo di creazione e distruzione che caratterizza tutte le cose, esiste un senso ultimo della vita?

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono gli aspetti della condizione umana messi in luce dal sonetto? ANALISI 2. Analizza il lessico del sonetto, individuando i principali campi semantici e il rapporto con i temi. Individua in particolare i verbi di movimento, spiegando a quali aree semantiche appartengono. 3. Come si può interpretare il v. 10: «misticati pe mmano de la sorte»? 4. Quale visione della vita vuole esprimere il poeta nel sonetto? STILE 5. Illustra le modalità con cui il poeta sviluppa, nel corso del sonetto, la metafora iniziale.

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 6. Belli utilizza la metafora del caffettiere per proporre una sconsolata meditazione sulla vita dell’uomo e sul suo destino finale. Proponi altre suggestive metafore, ispirate anche dalla tua vita quotidiana, che alludano allo stesso tema.

394 Ottocento 8 La poesia dialettale


Giuseppe Gioachino Belli

T6b

La creazzione der monno Sonetti, 20

G. G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Una serie di sonetti del Belli è dedicata alla narrazione degli episodi biblici più atti a colpire la fantasia popolare. Questo sonetto sulla creazione del mondo fu composto nel 1831, come quello sulla fine del mondo (➜ T6c OL).

L’anno che Ggesucristo impastò er monno, ché pe impastallo ggià cc’era la pasta1, verde lo vorze fà, ggrosso e rritonno2 4 all’uso d’un cocommero de tasta3. Fesce un zole4, una luna, e un mappamonno5, ma de le stelle poi, di’ una catasta6: sù uscelli, bbestie immezzo, e ppessci in fonno7: 8 piantò le piante, e ddoppo disse: «Abbasta». Me scordavo de dí che ccreò ll’omo, e ccoll’omo la donna, Adamo e Eva; 11 e jje proibbí de nun toccajje un pomo8. Ma appena che a mmaggnà ll’ebbe viduti, strillò per Dio con cuanta vosce9 aveva: 14 «Ommini da viení10, sséte futtuti».                Terni, 4 ottobre 1831 La metrica: Sonetto con schema delle rime ABAB ABAB CDC EDE 1 L’anno... pasta: l’anno che Dio (confuso con Gesù Cristo a causa dell’ignoranza del popolano) impastò (creò) il mondo, perché per impastarlo c’era già la pasta. 2 lo vorze... rritonno: lo volle fare grosso e rotondo.

3 ll’uso... tasta: al modo di un cocomero da assaggio. La tasta è un pezzo, un tassello, ricavato dal cocomero per farne provare il grado di maturazione ai possibili acquirenti. 4 Fesce un zole: fece un sole. 5 un mappamonno: un mappamondo, un globo terrestre. 6 de le stelle... catasta: le stelle potresti

dire che fossero una catasta (un numero grandissimo). 7 sù uscelli… fonno: in cielo gli uccelli, in mezzo gli animali terrestri e i pesci in fondo (al mare). 8 jje proibbí... pomo: intimò loro di non toccargli una mela (un pomo). 9 cuanta vosce: quanta voce. 10 da viení: a venire, futuri.

Analisi del testo La creazione ridotta alla misura di un popolano Il sonetto ha un effetto comico per la riduzione della Genesi alla misura di un popolano, che immagina la creazione del mondo rappresentandola, a modo suo, con due metafore alimentari: un impasto, lavorato da un fornaio e un’anguria da assaggio, grossa, matura e polposa. Anche il Creatore divino subisce una metamorfosi grottesca: dapprima esaltato da un impeto creativo nel riempire il mondo di ogni sorta di animali e piante, d’improvviso sembra accasciarsi, quasi ne avesse abbastanza di quella fatica, pigro e indolente come un comune popolano; quindi assume le sembianze di un «tiranno allegramente feroce» (Muscetta) che impone decreti immotivati e incomprensibili, simili a quelli di un sovrano assoluto e del papa re. Tale Dio-sovrano assoluto appare grossolanamente volgare quando strilla a gran voce, proibendo agli uomini di toccare il frutto proibito, quasi fosse compiaciuto di avere ingannato in tal modo tutta la futura umanità, per capriccio o per insidia deliberata.

I poeti dialettali 2 395


Errori teologici del popolano o dubbi di Belli? Attraverso una serie di grossolani errori teologici, l’autore mette in evidenza l’inattendibilità del credo religioso del popolano, che confonde Dio con Gesù Cristo, immagina che la materia sia preesistente alla Creazione, come nel caso del Demiurgo platonico, e parla di un anno della Creazione, come se il tempo potesse precederla. Per un lettore colto, tuttavia, e per i religiosi (ricordiamo che fra i lettori dei sonetti non mancavano gli ecclesiastici), tali svarioni non appaiono del tutto “innocenti” in quanto alludono a questioni teologiche fondamentali e discusse fin dai tempi del primo Cristianesimo e fonte di eresie, quali il rapporto fra la materia e lo spirito, il tempo, l’essenza della Trinità. Dietro alla voce del popolano ignorante non si può, perciò, non avvertire quella dell’autore, con i suoi dubbi sulla centralità dell’uomo nell’universo, sul peccato originale, sulla provvidenza, nati da una visione pessimistica della realtà; per il popolano, ammaestrato dalla sua triste esperienza della vita, l’uomo appare come una presenza trascurabile nell’universo (si scorda di dire che Dio lo ha creato). Ma qual è realmente – il lettore è portato a chiedersi – il posto dell’uomo nella creazione divina? Ne è veramente il centro e lo scopo? Nell’immaginazione del popolano ignorante, la crudele battuta finale di Dio è davvero così infondata in un mondo in cui la condizione umana è così dolorosamente difficile e sono esistite (e ancora esistono) tante sofferenze, violenze e ingiustizie lungo il corso millenario della storia?

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il punto di vista del popolano. COMPRENSIONE 2. Individua gli errori teologici presenti nel sonetto. ANALISI 3. Quali sono i particolari più comici del racconto? STILE 4. Analizza il sonetto dal punto di vista stilistico-formale, ricercando in particolare le figure retoriche presenti.

Interpretare

ESPOSIZIONE ORALE 5. In un intervento orale di max 3 minuti illustra le azioni compiute da Dio e l’immagine del Creatore che ne emerge.

Jan Brueghel il Giovane, Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, olio su tavola, 1640 ca. (Milano, Biblioteca Ambrosiana).

396 Ottocento 8 La poesia dialettale


La poesia dialettale di Porta e Belli a confronto LA POESIA DI PORTA

LA POESIA DI BELLI

CITTÀ RAPPRESENTATA

Milano, città dell’Illuminismo e delle tendenze romantiche, moderna e culturalmente avanzata

Roma, la città del “papa-re” arretrata e votata all’immobilismo

RAPPORTO CON LA STORIA

punto di vista critico sulla dominazione francese e sulla Restaurazione

il mondo rappresentato appare “immobile”, al di fuori della storia

NARRATORE

narratore omodiegetico nei monologhi di personaggi popolari; in altri testi invece narratore eterodiegetico, che esprime un punto di vista vicino a quello dell’autore

sempre narratore omodiegetico perché nei sonetti parlano personaggi popolari

PUNTO DI VISTA DELL’AUTORE

punto di vista critico sull’ordine sociale, alla luce della cultura illuministica dell’autore

non è esplicitato il punto di vista punto di vista critico sull’ordine dell’autore, che cede la parola sociale, alla luce della culturaai suoi personaggi illuministica dell’autore

FINE DELLA POESIA

impegno progressista dell’autore: con la poesia vuole mostrare i soprusi e le ingiustizie per contribuire al loro superamento

l’autore si propone di rappresentare la realtà, ma è pessimista sulla possibilità di modificarla

POETICA E USO DELLA LINGUA

OPERE

Porta si rifà a una tradizione di poesia in dialetto milanese già consolidata ed è vicino ai romantici, di cui condivide l’idea di una poesia che possa rappresentare il vero la lingua portiana tende al plurilinguismo: ogni classe sociale ha nella sua il proprio linguaggio, attraverso il quale esprime una visione del mondo

• Desgrazzi de Giovannin Bongee (poemetti) • La Ninetta del Verzee e El lament del Marchionn di gamb avert (monologhi) • La preghiera e La nomina del Cappellan (poemetti)

a Roma la poesia dialettale non ha una tradizione la lingua belliana tende al monolinguismo: il poeta riprende da Porta l’idea di una poesia in dialetto che dia voce al popolo, l’unica classe sociale che a Roma (in cui di fatto manca una borghesia) parli in dialetto; più che una lingua, si tratta di una parlata corrotta e sgrammaticata, a cui il poeta conferisce una forma scritta

Sonetti (più di 2000)

I poeti dialettali 2 397


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Giuseppe Petronio Roma e il mondo nello specchio deformante dell’ottica popolare G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palumbo, Palermo 1991

Il critico Giuseppe Petronio mette in luce alcuni caratteri fondamentali dei sonetti belliani.

Suo [di Belli] scopo era, disse lui stesso, costruire un «monumento» del popolo romanesco, ritraendolo quale esso era, «non per produrre un modello, ma sì per dare un’immagine fedele di cosa già esistente, e più, abbandonata senza miglioramento». Il popolo, cioè, non era per lui detentore di verità o di virtù che le classi 5 colte e agiate avessero perdute, ma solo capace di parlare e pensare realisticamente, con una «verità sfacciata»; ma appunto per questo egli poteva far dire «a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera», disegnando un quadro non solo di quella plebe, ma di tutta la società romana, e, talvolta, di tutta la vita e la condizione dell’uomo, viste con gli occhi smagati1 del popolano e con la sua «verità 10 sfacciata», senza l’ipocrisia «comandata dalla civile educazione». Il che vuol dire che il Belli nei suoi sonetti si assunse la parte del popolano, ora inducendo la plebe stessa a raccontare e a descrivere, ora raccontando e descrivendo lui, ma come quella avrebbe raccontato e descritto, con gli occhi, l’animo, la lingua di quella: attraverso, dunque, l’impiego di quell’artificio che oggi chiamiamo «straniamento». 15 Per questo i sonetti, pur essendo il Belli quello che era, scoperchiano il mondo romano e lo mostrano nella sua putrefazione sociale e morale, formando uno dei quadri più energici e aspri che si siano tracciati mai di una società: «il popolo – osserva in quegli anni Stendhal2 – vuole soprattutto beffarsi dei potenti e ridere alle loro spalle: donde i dialoghi fra Pasquino e Marforio3». E il Belli, vestendo i 20 panni del popolo, se ne assumeva lo spirito e la satira scanzonata e amara, il che, poi, si confaceva benissimo al suo carattere ipocondriaco, che voleva mettere alla berlina non tanto una organizzazione sociale, quanto, attraverso quella, la condizione stessa dell’uomo, come mostrano i suoi sonetti più incisivi e più densi, quali La vita dell’omo, La creazione del mondo, Er giorno der giudizzio. 25 Mezzo espressivo di questa plebe era, ovviamente, il dialetto. In una lettera del ’61 il Belli, negando che esistesse un dialetto romanesco, dato che questo era lingua «non di Roma ma del rozzo e spropositato suo volgo», asseriva di aver usato quella lingua, avendo voluto «introdurre il nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta, ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi originali 30 pensieri intorno ai più elevati ordini di questo civil corpo di cui esso occupa il fondo»: un poema, dunque, in cui la plebe, nella sua lingua, dipingesse se stessa e Roma e il mondo, riflessi nello specchio deformante della sua vita, della sua morale, della sua lingua. I rischi di questo proposito e di questa poetica potevano essere molti, e il Belli 35 qualche volta incappò ora nell’uno ora nell’altro. Poteva essere la poesia «dialettale», nel senso deteriore del termine, il facile bozzettismo folcloristico; poteva essere il naturalismo esterno, cioè la riproduzione meccanica del sentire e parlare del popolo, svuotato di ogni partecipazione o reazione dello scrittore; poteva essere anche, in un letterato come il Belli, la letteratura o l’alessandrinismo4, il 40 compiacimento filologico del dialetto e del gioco verbale. Il Belli, infatti, fu artista

398 Ottocento 8 La poesia dialettale


espertissimo, e lavorò i suoi sonetti non solo con estrema perizia tecnica ma anche con gusto goduto di quella lingua energica, «nuda, gretta, sconcia», ora raccogliendo le espressioni più rozze, energiche, oscene, ora riproducendo – e forse qualche volta inventando storpiature divertentissime di termini dotti, specie del linguaggio 45 della religione e del culto – come aveva fatto già il Boccaccio nella novella di fra Cipolla – ora ripetendo o inventando riuscitissime etimologie popolari: basti citare «mattamatica» per «matematica». Che non sono, poi, solo giochi di parole o trovatine del letterato, ma sono i modi in cui, nell’occhio e nella parlata, cioè nella mente del popolano, si stravolge e deforma il mondo della cultura e delle abitudi50 ni proprie delle classi elevate; o sono, altre volte, il mezzo a5 prendere in giro lo stesso popolano parlante, nella sua aspirazione a cose e a parole più grandi di lui. Così, quei duemila e trecento sonetti circa possono essere diversissimi fra loro. Pietre del monumento costruito alla plebe romana, essi svariano dal quadretto di genere al colloquio sornione e ambiguo, dalla descrizione condensata di un fatto 55 di tragedia alla narrazione di una scenetta saporita, da un pettegolezzo volgaruccio alla meditazione sulla vita dell’uomo, alternando descrizione, narrazione, dialogo: un affresco enorme e grandioso, a cui il dialetto aggiunge vivacità e novità di colore, non toglie larghezza di respiro o sapienza di costruzione e di arte.

1 smagati: disillusi. 2 Stendhal: pseudonimo di Henri Beyle (1783-1842), scrittore francese, uno dei massimi rappresentanti del romanzo francese del XIX secolo (Il rosso e il nero, 1830; La certosa di Parma, 1839).

3 Pasquino e Marforio: statue parlanti della Roma storica; in genere, il secondo era rappresentato come “la spalla” comica del primo. Infatti, le due statue dialogavano e alla battuta imbeccata di uno seguiva la risposta sagace dell’altro.

4 alessandrinismo: tendenza artistica e culturale dotta, raffinata fino all’artificio, simile a quella considerata caratteristica della poesia greca antica, fiorita ad Alessandria in età ellenistica. 5 a: adatto a, per.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Qual è la tesi sostenuta da Petronio? 2. Cosa ottiene Belli – secondo il critico - adottando la prospettiva del popolo? 3. Quali considerazioni fa il critico a proposito della lingua di Belli? 4. Partendo dal passo critico proposto e facendo riferimento ai sonetti di Belli che hai affrontato nel tuo percorso di studi esprimi una tua riflessione in merito all’opera dell’autore.

Fissare i concetti La poesia dialettale La poesia in dialetto, lingua del “vero” 1. Per quale motivo la letteratura dialettale assume particolare importanza in Italia nel secondo Ottocento? I poeti dialettali 2. Quali sono le opere più significative di Carlo Porta? 3. In che modo Porta rappresenta il mondo degli “umiliati e offesi”? 4. Perché Belli può essere definito “una personalità enigmatica e contraddittoria”? 5. Come vengono rappresentati i potenti nei Sonetti di Belli?

I poeti dialettali 2 399


Ottocento La poesia dialettale

Sintesi con audiolettura

1 La poesia in dialetto, lingua del “vero”

Nell’Ottocento il dialetto appare in linea con gli ideali di spontaneità e immediatezza della poesia romantica e viene anche incontro a esigenze di egualitarismo sociale, radicate fin dall’Illuminismo, e all’interesse romantico per il “popolo”, introducendo il punto di vista “dal basso” delle classi subalterne ed emarginate che in genere parlano il solo dialetto e quindi dando voce a una «folla di uomini rimasti sempre senza volto» (Dante Isella). Ma la produzione dialettale ha una ridotta circolazione presso il pubblico, che, essendo “del luogo”, è ristretto e non.

2 I poeti dialettali

Porta, un testimone della storia milanese Nato a Milano nel 1775, Porta, sin dalla giovinezza, coltiva interessi artistici e diviene attore teatrale dilettante. Proprio questa esperienza influirà sui suoi testi più riusciti, che – come sostiene il critico Dante Isella – appaiono come dei «grandi monologhi teatrali». Al tempo di Porta, Milano vive un momento storico caratterizzato da incessanti sovvertimenti politici, dalle repubbliche filo-francesi alla restaurazione austriaca. Lo scrittore rappresenta il succedersi altalenante delle speranze e delle delusioni del popolo milanese: ne denuncia le ingiustizie subite e, raccontando con realismo le dinamiche sociali, contribuisce con la poesia al rinnovamento della società, sulla scia delle istanze proprie dell’Illuminismo lombardo. Porta dà vita a una poesia innovativa, sia per lo schietto realismo con cui presenta le vicende di Milano, sia perché, per la prima volta – anticipando Manzoni – assume una prospettiva “dal basso” e dà voce a protagonisti umili e perdenti, che occupano il gradino più basso della società e, proprio per questo, sono più umani e più veri. Belli e la voce del popolo di Roma Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) è stato l’altro grande poeta dialettale dell’Ottocento e ammiratore delle opere di Porta, che rappresentano per lui «una rivelazione folgorante». Belli, rivendicando per sé il ruolo di storico oggettivo e guidato da un interesse antropologico dà vita a una vasta produzione di sonetti in romanesco nei quali, con straordinaria vivacità, rappresenta il mondo popolare romano nella città ancora dominata dal potere temporale del papa, dipingendo un grandioso affresco della Roma papalina in cui rivivono i tipi umani caratteristici della città.. Forse per timore della censura, Belli decide di non dare alle stampe durante la sua vita i suoi sonetti, che verranno pubblicati postumi (la prima edizione completa è del 1952). Tuttavia essi erano ben conosciuti a Roma perché il poeta, attore dilettante, era solito declamarli durante riunioni di amici e intellettuali, che ne diffusero la fama in Europa.

400 Ottocento 8 La poesia dialettale


Zona Competenze Scrittura

1. Alla luce delle conoscenze acquisite sui due autori e dell’analisi dei loro testi, rifletti sul potenziale eversivo della satira e, in particolare, sulla carica demistificante del dialetto o di un linguaggio, comunque, non ufficiale e formale. Puoi fare riferimento ad altri esempi letterari che conosci e/o a esempi contemporanei. Sviluppa le tue riflessioni in un testo di 3-4 colonne di foglio protocollo.

Esposizione orale

2. Argomenta in un’esposizione orale di max 3 minuti i legami esistenti tra le opere di Porta e la tradizione illuministica lombarda settecentesca.

Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Giuseppe Gioachino Belli

Er giorno der giudizzio Sonetti, 37 G.G. Belli, Sonetti, a cura di P. Gibellini, Mondadori, Milano 1990

Cuattro angioloni co le tromme in bocca se metteranno uno pe ccantone a ssonà: poi co ttanto de voscione cominceranno a ddí: «Ffora a cchi ttocca1». Allora vierà ssú una filastrocca de schertri da la terra a ppecorone, pe rripijjà ffigura de perzone, 4

come purcini attorno de la bbiocca2. E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto, che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera: 8

una pe annà3 in cantina, una sur tetto. All’urtimo usscirà ’na sonajjera d’angioli4, e, ccome si ss’annassi5 a lletto, 11

14

smorzeranno6 li lumi, e bbona sera.

La metrica Sonetto con schema delle rime ABBA ABBA 1 Cuattro... ttocca: quattro enormi angeli con le trombe in bocca si metteranno a sonare ai quattro angoli della terra, e poi, con un vocione, cominceranno a dire: “Fuori a chi tocca”. 2 vierà... bbiocca: verrà su una fila (filastrocca) di scheletri (scherti) usciti dalla terra, appoggiati sulle mani e sulle ginocchia, carponi, come fossero pecore, per riprendere l’aspetto di persone, come pulcini intorno alla chioccia (bbiocca). 3 pe annà: per andare. 4 ’na sonajjera... d’angioli: un’infilata di angeli musicanti. 5 si ss’annassi: se si andasse. 6 smorzeranno: spegneranno.

25 novembre 1831 Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Fai la sintesi del sonetto. 2. Quale realtà rappresenta il poeta nella poesia? 3. Quale punto di vista è adottato dal poeta nella descrizione? 4. Tutto nel sonetto è reso corposo e concreto: rintraccia nel testo gli elementi che confermano tale interpretazione.

Interpretazione

Quale ti sembra lo stato d’animo predominante nel sonetto? Ti sembra di cogliere timore, rassegnazione o altro? Rintraccia nel testo gli elementi testuali che suggeriscono lo stato d’animo del poeta.

Sintesi Ottocento

401


Verso l’esame di Stato Tipologia B Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da D. Isella, La moralità del comico, in I Lombardi in rivolta, Einaudi, Torino, 1984.

Nel passo, tratto dal libro I Lombardi in rivolta, Dante Isella sostiene la necessità di non sottovalutare l’importanza, come spesso è avvenuto nelle storie letterarie, di un autore che merita di essere considerato tra i maggiori del suo tempo, non solo in ambito italiano, ma europeo.

Non è forse vero? Il capitolo dedicato a Carlo Porta dalle nostre storie letterarie, da quelle medesime che mostrano una più approfondita e partecipe coscienza della sua opera, aveva quasi sempre fino a ieri un po’ il taglio e il tono del capitolo «stravagante»1, rispetto al disegno storico generale. Come se si trattasse 5 di far luogo a un frutto d’eccezione, cresciuto, per generosa estrosità della natura, fuori di ogni «ambiente» determinato. Poco più di una sfumatura, o anche solo di un sospetto, s’intende. Ma dovrebbe essere ormai chiaro, invece, che Carlo Porta va considerato fianco a fianco con gli scrittori di maggiore statura che tra la fine del Settecento e i primi vent’anni dell’Ottocento, 10 attuarono in Lombardia il più profondo moto di rinnovamento della cultura, dell’arte e, prima ancora, della vita morale italiana: una storia illustre, di respiro, nonché nazionale, europeo, iscrivibile entro due esperienze che sono alla base della fondazione della società moderna: da un lato «Il Caffè», dall’altro «Il Conciliatore», in un arco di sviluppo che va dall’Illuminismo aristocratico di 15 un ristretto gruppo di amici al Romanticismo democratico di una più vasta e varia cerchia di uomini. Si dovrebbe insomma vederlo in compagnia del Parini e del Manzoni: di quest’ultimo in particolare, e non solo per la splendida felicità della sua poesia, dove ogni sapienza di letteratissimo mestiere si risolve in tale limpidezza di segno, in così nitido e intenso tratto, da indurre, parlando di 20 un “dialettale», nella illusione di una poesia aurorale, sgorgata naturalmente dalle fresche scaturigini dell’anima del popolo; ma proprio per la straordinaria attitudine a tradurre in quel nitore e in quella energia la partecipata storia del suo tempo. […] L’assurda qualifica di «minore» (che un tempo, sia pure con disagio, si riservava 25 anche al Porta, come a ogni altro poeta «dialettale»), a non volerla ormai considerare più di una semplice, vecchia etichetta di comodo, ha se non altro il merito di tradurre in termini elementari, di immediata evidenza, un particolare destino di disavventure critiche. Delle quali si potranno di volta in volta, o tutt’insieme, chiamare responsabili lo stesso poeta, che non provvide ad amministrare più 30 oculatamente la sua fama fondandola su un’edizione autorevole dei propri versi […]. Ma forse si dovrà invocare, con più fondamento, il riserbo, fatto insieme di diffidenza intellettualistica e di diseducazione retorica, della cosiddetta cultura ufficiale di fronte a una poesia così prepotentemente nuova, vera espressione delle

1 stravagante: periferico, estraneo. 2 palingenesi: completo rin-

402 Ottocento 8 La poesia dialettale

novamento.

3 bernesca: si riferisce alla poesia di Francesco Berni

(1497-1535) che rovescia comicamente il petrarchismo.


speranze e della fierezza morale di un’età cui era parso possibile di attuare una 2 35 palingenesi della società umana attraverso una coraggiosa rimozione delle sovrastrutture del passato: tra le quali è pure da includere la tradizione letteraria di tanti secoli, aulica e compassata, incapace di un rapporto diretto con la realtà che non fosse quello della deformazione bernesca3: quanto di più remoto, dunque, da una poesia che trova il suo più alto valore di immagine in una partecipazione 40 cordiale e aperta alla vita quotidiana di tutti, in una simpatia (in senso etimologico) che nasce dalla consapevolezza di una comune condizione umana. […] [...] Come pure sarà evidente che l’impiego del dialetto non sta affatto a significare una posizione di angusto regionalismo o di chiusura provinciale, ma semmai una forza di rottura con gli schemi abusati dell’accademismo barocco. 45 Posizione, questa, che verrà non solo continuata, ma approfondita e aggiornata ai problemi della nuova cultura illuministica dalle generazioni successive. Non è forse sorprendente che il periodo più illustre della vita civile della Lombardia sia stato anche il periodo di più rigogliosa fioritura della poesia dialettale? Tra l’Accademia dei Trasformati e quella dei Pugni, tra l’opera del Parini e quella del 50 «Caffè», si assiste infatti allo sviluppo di una floridissima tradizione letteraria in dialetto che opera fianco a fianco con la tradizione in lingua, impegnata intorno ai medesimi problemi e, in molti casi, impersonata dai medesimi individui […]. Senza di questa produzione dialettale, a livello della più progredita letteratura in lingua, non sarebbe neppure pensabile la nascita della grande poesia portia55 na, che è il prodotto d’incontro di una coscienza morale educata ai valori più profondi della Rivoluzione francese con una tradizione espressiva già aperta, con avvertita sensibilità, agli sviluppi della cultura. La mutata concezione dei rapporti tra lo scrittore e la sua società (misurabile nella storia compresa tra “Il Caffè» e “Il Conciliatore») troverà la generazione del Porta e del Manzoni impe60 gnata ancora una volta nella secolare questione della lingua, non come problema teorico, ma come esigenza di una soluzione stilistica in servizio di un radicale rinnovamento della funzione della poesia. Problema che per gli scrittori milanesi correrà agevolmente a configurarsi nella forma di un dilemma tra il ricorso alla lingua oppure al dialetto, così poco quest’ultimo era riguardato come strumento 65 espressivo di limiti provinciali, e tanto forte era, invece, la diffidenza(già per altre prospettive, degli stessi illuministi) in cui gli spiriti democratici del Romanticismo tenevano la prima: lingua di una tradizione altissima, elaborata in cristallizzate forme ideali, ma perciò stesso remota da qualsiasi diretta relazione con la realtà.

Comprensione e analisi

Produzione

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’opinione di Dante Isella sulla poesia dialettale? 2. In qual ambito culturale il critico colloca Porta? 3. Quali motivi, secondo il critico, inducono Porta a scrivere in dialetto? 4. Partendo dal passo critico di Dante Isella e facendo riferimento alle tue letture, esprimi una tua personale riflessione sul valore letterario della poesia dialettale.

Verso l’Esame di Stato

403


Ottocento Quattrocento e Cinquecento CAPITOLO

9 Alessandro Manzoni

LEZIONE IN POWERPOINT

L’uomo Manzoni visto da sé medesimo In un sonetto datato 1801, un Alessandro Manzoni poco più che quindicenne delinea un ritratto fisico e morale di sé stesso. Sono sicuramente versi immaturi, che risentono della sua giovanissima età e dell’inevitabile tributo ai modelli letterari dell’epoca (soprattutto Alfieri); eppure è possibile trarne qualche spunto prezioso per decifrare un animo che fin dagli anni della fanciullezza si manifesta complesso e tormentato. Capel bruno: alta fronte: occhio loquace: naso non grande e non soverchio umile1: tonda la gota e di color vivace: 4 stretto labbro e vermiglio: e bocca esile: lingua or spedita or tarda2, e non mai vile, che il ver favella3 apertamente, o tace. Giovin d’anni e di senno; non audace: 8 duro di modi, ma di cor gentile. La gloria amo e le selve e il biondo iddio4: spregio5, non odio mai: m’attristo spesso: 11 buono al buon, buono al tristo6, a me sol rio7. A l’ira presto8, e più presto al perdono: poco noto ad altrui, poco a me stesso: 14 gli uomini e gli anni mi diran chi sono. A. Manzoni, Autoritratto VI, in Poesie e tragedie, a c. di F. Ghisalberti, vol. I, Mondadori, Milano 1947

1 soverchio umile: troppo piccolo. 2 tarda: lenta. 3 favella: dice.

404

4 il biondo iddio: Febo Apollo. 5 spregio: disprezzo. 6 tristo: malvagio. 7 a me sol rio: cattivo solo nei

miei confronti.

8 presto: pronto.


Alessandro Manzoni eredita dall’Illuminismo milanese del «Caffè» l’idea che la letteratura debba contribuire al progresso civile della società. Ma all’utilità dello scrivere il cristiano Manzoni attribuisce un significato ancora più alto: testimoniare la fede, illuminare la presenza di Dio nelle coscienze e nella storia. Per questo, in particolare nel romanzo, bisogna impiegare una lingua nuova, non più retorica e letteraria, per raggiungere ed educare un pubblico più ampio possibile. La visione religiosa che anima tutta l’opera di Manzoni si coniuga con una concezione dolorosamente pessimistica della vita umana e della storia. La società è dominata dall’ingiustizia, dalla sopraffazione dei più deboli, dalla violenza e dalla cieca irrazionalità dei più. Contro questi disvalori Manzoni non ha soluzioni facili da proporre, se non il severo appello alla coscienza e alla responsabilità individuale. Un monito ancora attuale.

1 Ritratto d’autore poeta cristiano alla 2 Ilricerca di un proprio

linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili

produzione tragica: 3 ilLaCarmagnola e l’Adelchi 4 I promessi sposi ricezione dei 5 LaPromessi sposi

405 405


1

Ritratto d’autore 1 Una vita schiva e riservata

VIDEOLEZIONE

Un ritratto di Alessandro Manzoni da giovane (Milano, Museo Manzoniano).

Un’infanzia povera di affetti: i tristi anni del collegio Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 dal conte Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare, il celebre autore del trattato Dei delitti e delle pene: un matrimonio di pura convenienza, combinato – come era frequente a quei tempi, tra un gentiluomo già anziano e una giovane bella e brillante – e destinato ad avere breve vita (a Milano si mormorava che il piccolo Alessandro, nato tre anni dopo il matrimonio, fosse in realtà figlio di Giovanni Verri, con cui la giovane donna aveva una relazione). Nel 1791 la madre decide di separarsi dal marito. Alessandro non ne saprà quasi più nulla fino all’età di circa vent’anni. A soli sei anni viene mandato in collegio presso i padri Somaschi a Merate, vicino a Milano: un’esperienza infelice, che lascia segni profondi sul futuro scrittore. Di certo Manzoni medita sui tristi ricordi di questo periodo mentre compone le pagine del romanzo dedicate all’educazione di Gertrude, come dimostra anche una nota da lui apposta in margine al manoscritto del Fermo e Lucia (la prima versione dei Promessi sposi), proprio nel punto in cui si narra dell’educazione della futura monaca: «Merate! Merate! in quante maniere tu guasti l’intelletto dei poveri tuoi ospiti per forza». Con l’arrivo dei francesi in Italia, nel 1796, il collegio dei padri Somaschi viene trasferito prima a Lugano e poi, nel 1798, a Milano, presso il Collegio Longone, detto “dei Nobili”. In questi anni, il giovane Manzoni allaccia alcune amicizie che lo accompagneranno per tutta la vita, divenendo punti di riferimento fondamentali nella sua futura attività letteraria: tra gli altri, Federico

CARTA INTERATTIVA DEI LUOGHI

Cronologia interattiva

1789

Scoppia la Rivoluzione francese.

1785

Nasce a Milano il 7 marzo.

1798

Entra nel Collegio Longone di Milano.

1804

Napoleone imperatore.

1805

Si reca dalla madre a Parigi, dove scrive il Carme in morte di Carlo Imbonati.

406 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

1808

Sposa Enrichetta Blondel, di fede calvinista.

1810

È l’anno della conversione.

1812

Inizia a scrivere La Risurrezione, il primo degli Inni sacri.

1815

Si apre il congresso di Vienna; Murat diffonde il proclama di Rimini.

1814

Scrive la canzone Aprile 1814. Scrive la poesia Il proclama di Rimini, che sarà diffusa nell’aprile del 1848, assieme a Marzo 1821. Pubblica i primi quattro Inni sacri.

1816

Comincia la stesura del Carmagnola.

1819

Scrive le Osservazioni sulla morale cattolica.

1820

Legge l’edizione in francese di Ivanhoe di Scott; termina la Lettera a M. Chauvet; inizia l’Adelchi.

5 maggio 1821

Muore Napoleone a Sant’Elena.

1821

Inizia a lavorare al Fermo e Lucia (lo interrompe per terminare l’Adelchi); il 16 luglio, appena letta la notizia della morte di Napoleone, compone Il cinque maggio.


Confalonieri, Giovan Battista Pagani e soprattutto Ermes Visconti, che diventerà uno dei protagonisti della cultura romantica milanese. Un giovane ribelle Quasi in reazione ai rigori dell’educazione che gli viene impartita, l’adolescente Manzoni assume atteggiamenti giacobini: si appassiona a Voltaire, legge furiosamente classici, filosofi e pensatori, in cerca di un sostegno a quell’ateismo che considera allora come l’unico strumento di lettura della realtà e della storia; compone poi un poemetto in terzine dall’eloquente titolo Il trionfo della libertà (1801) in cui, tra l’altro, attacca in modi veementi l’oscurantismo religioso. È insomma, per molti versi, un giovane ribelle, figlio dei suoi tempi. Fin da questi anni, tuttavia, si delinea in lui una particolare propensione alla ricerca interiore e morale, un’inquietudine che forse è descritta nel modo migliore dagli ultimi due versi di quel suo primo autoritratto: «poco noto ad altrui, poco a me stesso / gli uomini e gli anni mi diran chi sono». Quasi una profezia. Il difficile rapporto con il padre Con il padre, con il quale si ricongiunge nel 1801 una volta terminati gli studi, Manzoni non ha facili rapporti: li possiamo definire di rispetto distante, mai animati da affetto autentico. Tra Pietro e Alessandro c’è un divario incolmabile, scavato sia da una differenza di indole sia da uno scarto generazionale che i sussulti della storia hanno approfondito: «Don Pietro Manzoni, triste e solitario, contemplava insieme la fine del suo matrimonio e la fine d’un’epoca: nella sua città regnava il disordine e la confusione; vi si affollavano quei soldati che gli erano odiosi [le truppe francesi, giunte a Milano nel 1796 sotto il comando di Napoleone]; era un uomo all’antica, e vedeva intorno a sé travolta da una bufera la stabilità civile e religiosa in cui aveva vissuto». Così Natalia Ginzburg tratteggia questa figura di nobile lombardo di fine Settecento, che vede svanire un mondo di cui suo figlio per primo non vorrà più fare parte. Soli e distanti, Pietro e Alessandro vivono senza quasi sfiorarsi, anche se non vivono il conflitto che caratterizza il difficile rapporto tra un altro figlio celebre e suo padre, Giacomo Leopardi e il conte Monaldo. È forse indicativo il fatto che nei Promessi sposi le figure paterne scarseggino (sono senza padre i protagonisti, Renzo e Lucia) o che, quando compaiono con un ruolo rilevante, si tratti di figure negative, come il padre di Gertrude.

1831

1827

Escono i tre tomi della prima versione dei Promessi sposi.

1822

Pubblica l’Adelchi; prima edizione della Pentecoste.

1833

Mazzini fonda la Giovane Italia.

Il giorno di Natale muore la moglie Enrichetta. Nel 1835 il Manzoni inizia a lavorare a un inno alla sua memoria, che resta incompiuto: è Il Natale del 1833.

1837

Sposa in seconde nozze Teresa Borri, vedova Stampa.

1838-39

Mette mano alla revisione dei Promessi sposi, “la quarantana”.

1848

Moti insurrezionali in Europa.

1842

1850

Scrive la Lettera a Giacinto Carena sulla lingua italiana.

Esce completa l’ultima versione dei Promessi sposi; pubblica anche il saggio Del romanzo storico.

1861

Muore la seconda moglie, Teresa.

1870

Roma è proclamata capitale.

1873

In gennaio cade nella chiesa di San Fedele e ne riporta un trauma che lo lascia in stato confusionale. Muore in maggio, nella sua casa di Milano.

Ritratto d’autore 1 407


Andrea Appiani, Ritratto di Giulia Beccaria col figlio Alessandro a sei anni, olio su tela, 1790 (Villa di Brusuglio). Lessico idéologues

PER APPROFONDIRE

Gli “ideologi”, un gruppo di intellettuali composto dagli ultimi eredi dell’Illuminismo settecentesco.

Fondamentale per Manzoni è invece il rapporto con la madre, Giulia Beccaria. Come si è visto, durante tutta l’infanzia Alessandro non ha alcun contatto con lei: dopo la separazione da Pietro Manzoni la donna vive a Parigi insieme a Carlo Imbonati. Per suggerimento di Vincenzo Monti, ospite dei due durante un soggiorno nella capitale francese, la coppia decide di chiamare presso di sé il figlio di Giulia, ormai quasi ventenne. Imbonati muore nel marzo del 1805 e nel giugno dello stesso anno Alessandro si mette in viaggio per Parigi, con la benedizione (e il denaro) del padre, per il quale quella partenza è forse un sollievo. A Parigi. L’incontro con la madre e l’ambiente degli idéologues Questo soggiorno parigino (che dal 1805 si protrae fino al 1810) è molto importante per Manzoni, innanzitutto perché conosce la madre. Natalia Ginzburg afferma che Alessandro «s’innamora» di Giulia e non è un’esagerazione; dal momento del loro primo incontro, madre e figlio saranno uniti da un sentimento fortissimo ed esclusivo. Giulia è una donna volitiva, intelligente e colta e a Parigi frequenta gli ambienti culturali più all’avanguardia: tutto questo non può che esercitare un fascino fortissimo su Alessandro, cresciuto tra l’apatica indifferenza del padre e gli antiquati precetti dei detestati padri Somaschi. Da allora madre e figlio divengono inseparabili, fino alla morte di Giulia (1841). A Parigi, Manzoni trova grandi stimoli intellettuali: in particolare frequenta il gruppo degli idéologues , eredi dell’Illuminismo, tra i quali il critico Claude Fauriel, che diventerà amico fraterno e con cui il futuro scrittore condividerà importanti riflessioni sulla letteratura. Sarà anche grazie alla loro influenza che Manzoni svilupperà una visione politica liberale, dando un’impronta democratica al suo stesso Cristianesimo, lontano dall’ideologia reazionaria della Restaurazione. Il matrimonio Contro ogni previsione, Alessandro si dimostra impaziente di mettere su una famiglia propria. La compagna perfetta per il figlio è individuata dall’occhio esperto di Giulia in Enrichetta Blondel, una sedicenne ginevrina di famiglia protestante, che Manzoni sposa nel febbraio del 1808. Nella sua breve vita (morirà a soli 41 anni il giorno di Natale del 1833 ➜ D3 OL), Enrichetta si dimostra in tutto corrispondente al modello di donna che lo scrittore auspica di avere accanto: dedita interamente alla numerosa famiglia, religiosissima, riservata e serenamente rassegnata al suo destino.

La ricerca di figure paterne sostitutive Vincenzo Monti Non è un caso che, durante gli anni della giovinezza, Manzoni sembri sempre alla ricerca di una figura di riferimento, qualcuno a cui guardare come un modello e una guida affettuosa: il primo è Vincenzo Monti, che Alessandro conosce durante gli anni al Collegio Longone e che diventa l’attento lettore delle sue prime prove poetiche. Carlo Imbonati e Claude Fauriel In seguito ci sarà Carlo Imbonati, il compagno della madre, che Alessandro non fa in tempo a conoscere. Nonostante ciò, il giovane ha per lui parole di tale ammirazione che possono essere spiegate solo pensando al desiderio di dispensare a un sostituto paterno

408 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

quei sentimenti e quella devozione che il padre biologico (o presunto tale) non ha voluto, o potuto, accogliere. E poi, soprattutto, c’è lo storico e letterato Claude Fauriel: l’amico, il confidente, il maestro, che per il giovane scrittore diventa subito un punto di riferimento sia umano sia letterario. Dopo averlo conosciuto a Parigi nel circolo degli idéologues che si raduna alla Maisonette (il prestigioso salotto della vedova del filosofo Condorcet), Manzoni inizia con Fauriel una corrispondenza epistolare che è stata definita, per la sua centrale importanza, il vero e proprio «cuore pulsante» dell’intero epistolario manzoniano.


La “conversione”, tra leggenda e realtà Circa due anni dopo il matrimonio si colloca il momento chiave della biografia manzoniana: la “conversione”. Secondo l’aneddotica, questa sarebbe avvenuta quasi per un’improvvisa folgorazione il 2 aprile 1810, in una chiesa parigina. Durante i festeggiamenti per il matrimonio tra Napoleone Bonaparte e Maria Luisa d’Austria, Manzoni e la moglie si trovano in mezzo alla folla. Persa di vista Enrichetta, Manzoni, in preda all’angoscia, si rifugia nella chiesa di San Rocco. Lì lo avrebbe visitato la grazia divina, aprendogli la strada della fede: questa, almeno, è la versione “vulgata” che non tarda a diffondersi in vari ambienti, religiosi e non, ma sulla quale lo scrittore rimane sempre evasivo. Di fatto, importante potrebbe essere stata l’influenza della giovane sposa, che per prima, sotto la guida dell’abate Degola, si avvia al Cattolicesimo e che, poche settimane dopo l’episodio di san Rocco, abiura al Calvinismo. Sicuramente la cosiddetta “conversione” fu il frutto di un processo lungo e meditato, attivato da letture e riflessioni; rimane comunque innegabile che, intorno a quella data fatidica, si verifichi un avvicinamento di Manzoni alla chiesa di Roma, accompagnato in ogni passo, oltre che dalla sposa, anche dalla solerte presenza della madre, la quale va via via allontanandosi dalla vita mondana per abbracciare a sua volta la religione cattolica. Non è un caso che la famiglia Manzoni decida, nello stesso 1810, di lasciare Parigi e di ritornare in Italia, dove verrà affidata alla tutela spirituale (a volte anche troppo pressante) del canonico Tosi. Di fatto, la fede da quel momento diventa l’elemento fondante dell’opera letteraria manzoniana e ispira le principali scelte poetiche dello scrittore, come già dimostra l’abbandono di una letteratura di tipo classicista (come il poemetto Urania, pubblicato nel 1809) e il progetto degli Inni sacri, iniziati due anni dopo (1812). Dopo la conversione: una vita appartata e segnata dal dolore Dopo il ritorno in Italia, Manzoni vive una vita dedita allo studio e alla produzione letteraria, dividendosi tra la villa di campagna di Brusuglio ereditata da Carlo Imbonati – dove segue le coltivazioni personalmente, con passione e competenza, rivelandosi capace amministratore di una tenuta agricola – e la bella dimora nel centro di Milano. Anche in città lo scrittore ama vivere in modo schivo e appartato, respingendo E. Bisi, La famiglia Manzoni nel 1823, acquerello (Milano, Fondo Manzoniano, Biblioteca Braidense). Dall’alto a sinistra: Giulia Beccaria, Alessandro Manzoni e la moglie Enrichetta Blondel, in seconda fila i figli più grandi Giulia, Pietro e Cristina, nella terza fila in basso i figli più piccoli Sofia, Enrico, Vittoria e Filippo.

Medaglioni con i ritratti di Alessandro Manzoni e della moglie Enrichetta Blondel (Milano, Biblioteca Braidense, Fondo Manzoniano).

Ritratto d’autore 1 409


programmaticamente qualsiasi elemento possa turbare quella tranquillità che gli è necessaria per dedicarsi alle sue opere (e forse anche per arginare le inquietudini e le angosce che sempre lo accompagnarono). Non sarebbe eccessivo definire tragica la vita familiare di Manzoni: oltre a Enrichetta (1833), la madre Giulia (1841), egli vede morire sette dei suoi nove figli, da alcuni dei quali, i maschi in modo particolare, riceve non pochi motivi di preoccupazione. Ma è come se lo scrittore si fosse ritagliato una dimensione propria, dalla quale osservare le sventure che continueranno ad abbattersi inesorabili sui suoi cari, senza tuttavia lasciarsene travolgere. Di fronte alle tragedie familiari, Alessandro si rifugia nel suo studio rivestito di libri, dove medita sul senso della sofferenza nella storia e nella vita dell’uomo. Dal periodo della creatività ai lunghi anni del silenzio poetico Manzoni compone tutte le sue opere maggiori nell’arco di una decina di anni: dopo la stesura dei primi Inni sacri (1812-1815) è tra il 1817 (anno in cui inizia a scrivere la Pentecoste) e il 1827 (quando pubblica la prima edizione dei Promessi sposi) che si condensa la sua attività creativa e si collocano anche i più rilevanti interventi teorici (le Osservazioni sulla morale cattolica del 1819, la Lettre à M. Chauvet del 1820 e la lettera Sul Romanticismo a Cesare d’Azeglio del 1823). In seguito, l’autore si dedica alla attenta revisione linguistica del romanzo, sfociata nell’edizione del 1840. Si può però dire che il tempo dell’ispirazione creativa per lui si è ormai chiuso. Si dedicherà a scritti di natura storica, estetica e linguistica: l’ultimo suo scritto pubblicato è l’Appendice intorno all’unità della lingua e ai mezzi per diffonderla (1869), steso in rapporto al suo ruolo come presidente della Commissione per l’unificazione della lingua, problema chiave nel neonato stato unitario.

Vedute della villa Manzoni a Brusuglio: la casa, il viale dei platani, la biblioteca e la camera da letto, la “montagnola” con il panorama della Brianza, le due robinie con la croce incisa dal Manzoni alla morte della moglie. Da «L’Illustrazione Italiana», Milano, Treves.

410 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

Monumento ad Alessandro Manzoni in piazza San Fedele a Milano.


La sua lunga, solitaria vecchiaia (morirà a 88 anni) viene funestata da nuovi lutti (nel 1861 muore anche la seconda moglie Teresa Borri Stampa) ma anche segnata dalla sua consacrazione a personaggio pubblico, nonostante la sua proverbiale riservatezza.

online

Gallery Iconografia manzoniana

La consacrazione di Manzoni a gloria nazionale In seguito alla risonanza nazionale del suo romanzo, Manzoni diventa un’icona della cultura italiana (già nel 1861 viene nominato senatore del Regno), venerata e quasi idolatrata. Del resto lo scrittore milanese, pur rimanendo lontano da una partecipazione diretta, era sempre stato un convinto sostenitore delle lotte risorgimentali per l’indipendenza e l’unità d’Italia, come dimostra anche solo l’ode Marzo 1821. All’autore dei Promessi sposi si guarda come a un modello, non solo dal punto di vista letterario: nella sua casa milanese, così come nella tenuta di Brusuglio, egli riceve spesso le visite di letterati che vedono in lui un punto di riferimento; e non mancano illustri uomini politici, come Garibaldi e Cavour. Quando muore, nel 1873, i suoi funerali avvengono in forma solenne. A un anno di distanza dalla morte, Giuseppe Verdi ne onora la memoria con la Messa da Requiem, che il grande musicista dirige personalmente nella chiesa di San Marco in Milano.

Sguardo sull’arte La “scena di conversazione” L’artista si cimenta nel genere della conversation piece, la “scena di conversazione” (non molto frequente nella pittura romantica italiana) che raffigura un gruppo di persone in atteggiamenti di vita familiare. La tela ritrae la committente, Teresa Borri (già vedova del conte Stampa e futura seconda moglie di Manzoni), con la ma-

dre, il fratello e il figlioletto Stefano, che con il patrigno Alessandro avrà un rapporto di stima e affetto. Steffanino è intento a disegnare (infatti rivelerà una precoce predisposizione artistica), mentre gli altri tre personaggi sono “in posa”, in un’attitudine di consapevole decoro borghese.

IMMAGINE INTERATTIVA

Francesco Hayez, Ritratto di gruppo della famiglia Borri, olio su tela, 1822-1823 (Milano, Pinacoteca di Brera).

Ritratto d’autore 1 411


2 La visione politica, storica e religiosa Manzoni e l’attualità politica Manzoni frequenta il gruppo del Conciliatore, ne condivide le posizioni, ma non aderisce formalmente ad esso. Allo stesso modo, pur appoggiando con convinzione i moti risorgimentali per la liberazione dallo straniero e per l’Unità d’Italia, si tiene sempre lontano da un’attiva partecipazione. Gli mancava, e la cosa non stupisce data la sua indole problematica, la capacità di tradurre le idee in azioni e di assumere una presa di posizione decisa. Nessuno può definire questa manchevolezza, se tale va considerata, meglio di lui stesso quando, nel 1848, declina l’offerta che gli era stata rivolta a diventare deputato, giustificandosi con queste parole: «Un utopista e un irresoluto sono due soggetti inutili, per lo meno in una riunione in cui si parli per concludere: io sarei l’uno e l’altro nel medesimo tempo» (➜ D1 ). Politicamente Manzoni è un liberale moderato, che appartiene all’area cattolica; è nettamente contrario alle soluzioni rivoluzionarie che avevano portato agli esiti drammatici della Rivoluzione francese, come dimostra il saggio comparativo (steso negli anni Sessanta ma rimasto incompiuto) La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859; sogna una società tranquilla, operosa e pacificata, guidata dalla Chiesa, dove lo scontro tra classi è impensabile perché ciascuno, come in una famiglia amorevole, accetta il ruolo che gli è stato assegnato. Pur attribuendo alle gerarchie ecclesiastiche un ruolo primario nella società, Manzoni è però nettamente contrario a una Chiesa compromessa con la politica e rifiuta il potere temporale del papato, schierandosi apertamente per Roma capitale dello stato unitario: una presa di posizione non scontata – in tempi in cui il papa vietava ai cattolici ogni partecipazione al nascente stato unitario – e che costa a Manzoni non poche critiche. Una visione religiosa complessa e problematica Al di là dell’episodio che ne ha costruito la leggenda, l’avvicinamento di Manzoni alla fede cattolica è stato probabilmente graduale e meditato, sviluppato attraverso la lettura dei pensatori giansenisti francesi del Seicento (Pascal, Nicole e Bossuet) e, prima di loro, di sant’Agostino. Si tratta di autori che di certo non si muovono nell’ambito di un’accettazione superficiale di verità assodate, ma che cercano, attraverso un incessante interrogarsi, di gettar luce sulle zone più riposte dell’Io. Sensibili al messaggio giansenista sono anche l’abate Degola e monsignor Tosi, consiglieri spirituali dello scrittore e di Enrichetta Blondel. Anche per questo retroterra filosofico-teologico, quella di Manzoni è una religiosità tutt’altro che pacificata, che va a inserirsi nel quadro della complessa e tormentata interiorità dello scrittore. Una religiosità che trova la propria dimensione autentica più nella riflessione sul senso del dolore e della vita umana che nelle pratiche devote. L’adesione alla fede non modifica la visione della storia maturata ben presto dall’autore, una visione profondamente pessimista, se non addirittura tragica: la fede non può spiegare né risolvere la presenza del male nel mondo (che colpisce anche gli innocenti) ma soltanto dare speranza e fiducia nel bene ultraterreno. Importante è dire, ancora, che l’adesione alla fede non comporta in Manzoni l’abbandono di un abito mentale razionalista: di certo egli non indulge a atteggiamenti irrazionalistici e misticheggianti. Inoltre non abbandona gli ideali di libertà e uguaglianza che derivano dall’Illuminismo, aderendo a atteggiamenti reazionari, ma al contrario questi ideali si rafforzano una volta ricondotti al Vangelo, in cui già sono presenti.

412 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Alessandro Manzoni

EDUCAZIONE CIVICA

«Un utopista e un irresoluto»: una spietata autoanalisi

D1

LEGGERE LE EMOZIONI

nucleo Costituzione competenza 1

Lettera a Giorgio Briano Riportiamo un brano tratto dalla lettera che Manzoni scrisse al politico e letterato ligure Giorgio Briano nel 1848.

A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, Adelphi, Milano 1986

Quel senso pratico delle opportunità, quel saper discernere il punto o un punto, dove il desiderabile s’incontri col riuscibile1, e attenercisi, sacrificando il primo, con rassegnazione non solo, ma con fermezza, fin dove è necessario (salvo il diritto, s’intende) è un dono che mi manca, a un segno singolare2. [...] Ardito, finché si 5 tratta di chiacchierare tra amici, nel mettere in campo proposizioni che paiono, e saranno, paradossi; e tenace3 non meno nel difenderle, tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato quando le parole possono condurre a una deliberazione4. Un utopista e un irresoluto sono due soggetti inutili per lo meno in una riunione, dove si parla per concludere5; io sarei l’uno e l’altro nello stesso tempo. Il fattibile6 le più 10 volte non mi piace. E dirò anzi, mi ripugna; ciò che mi piace, non solo parrebbe fuor di proposito e fuor di tempo agli altri, ma sgomenterebbe me medesimo, quando si trattasse non di vagheggiarlo7 o di lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo in effetto8, d’aver poi sulla coscienza una parte qualunque delle conseguenze. Di maniera che, in molti casi, e singolarmente ne’ più importanti, il costrutto del mio 15 parlare sarebbe questo: nego tutto, e non propongo nulla. Chi desse un tal saggio9 di sé, è cosa evidente che anco10 i più benevoli gli direbbero: ma voi non siete un uomo pratico, un uomo positivo; come diamine non vi conoscevate? dovevate conoscervi; quando è così, si sta fuori degli affari. È una cosa dolorosa e mortificante il trovarsi inutile a una causa che è stata il sospiro di tutta la mia vita. Ma Ipse fecit 20 nos et non ipsi nos11; e non ci chiederà conto dell’omissione12, se non nelle cose, alle quali ci ha data attitudine.

1 riuscibile: ciò che si può effettivamente

5 per concludere: ossia, per arrivare a una

tradurre in realtà. 2 a un segno singolare: in un modo eccezionale. 3 Ardito… tenace: è ovvio che il Manzoni riferisce i due aggettivi alla sua indole. 4 deliberazione: decisione pratica.

conclusione pratica. 6 Il fattibile: ciò che può essere realizzato concretamente. 7 vagheggiarlo: desiderarlo. 8 promuoverlo in effetto: fare in modo che si concretizzi, che abbia un effetto.

9 un tal saggio: una tale prova. 10 anco: perfino. 11 Ipse… nos: Egli (Dio) ci ha fatti, e non noi stessi.

12 omissione: mancanza.

Concetti chiave Una descrizione sincera

Nella lettera, scritta da Manzoni per spiegare i motivi che lo spingevano a rifiutare la candidatura elettorale in un collegio di Torino, lo scrittore spiega senza schermi o reticenze quella che, a suo modo di vedere, è un’indole del tutto incompatibile con le esigenze e i doveri legati a un impegno politico, aprendo uno squarcio illuminante su certi aspetti del suo carattere.

Ritratto d’autore 1 413


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega che cosa intende Manzoni per «senso pratico delle opportunità». (r. 1) 2. Spiega l’affermazione secondo cui Dio «non ci chiederà conto dell’omissione, se non nelle cose, alle quali ci ha data attitudine». ANALISI 3. In quali situazioni l’autore afferma di sentirsi ardito e tenace? Quando queste doti gli vengono meno? LESSICO 4. Che cosa vuol dire utopista? E irresoluto?

Interpretare

SCRITTURA 5. Per avere una visione più completa sul modo problematico di Manzoni di relazionarsi con la realtà politica puoi leggere altre lettere che Manzoni stesso scrisse a distanza di tempo: la lettera del 1814 a Claude Fauriel e quella del 1860 scritta a Emilio Broglio. Una videolezione sull’argomento è presente al seguente indirizzo: http://www.oilproject.org/lezione/riassuntomanzoni-pensiero-poetica-claude-fauriel-1929.html Scrivi una breve trattazione sull’argomento (max 15 righe).

LEGGERE LE EMOZIONI

6. Di fronte a una proposta di candidatura in un organo di rappresentanza studentesca ti comporteresti come Manzoni, declinando l’invito alla partecipazione attiva, o saresti pronto a prestare il tuo contributo alla vita scolastica? Motiva la tua risposta in circa 10 righe.

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

Alessandro Manzoni

Una religiosità problematica e tormentata

D2

Lettera a Diodata Saluzzo di Roero A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, Adelphi, Milano 1986

Ormai in età matura, lo scrittore stesso descrive il proprio rapporto con la religione. Vediamo come Manzoni sia il primo a smentire l’ipotesi di un rapporto con la fede facile, trasparente, privo di ombre e tentennamenti.

Egli è vero che1 l’evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa2. […] Ma l’espressione sincera di questa può, nel mio caso, indurre un’idea pur troppo falsa, l’idea d’una fede custodita sempre con amore, e 5 in cui l’aumento3 sia un premio di una continua riconoscenza; mentre invece questa fede io l’ho altre volte ripudiata, e contraddetto col pensiero, coi discorsi, colla condotta; e dappoiché, per un eccesso di misericordia, mi fu restituita, troppo ci manca4 che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio raziocinio. E non vorrei avere a confessare di non sentirla mai così vivamente, come 10 quando si tratta di cavarne delle frasi5; ma almeno non ho il proposito d’ingannare: e col dubbio d’aver potuto anche involontariamente dar di me un concetto non giusto, mi nasce un timore cristiano di essere stato ipocrita, e un timore mondano di comparire tale agli occhi di chi mi conosce meglio. 1 Egli è vero che: È vero che (egli è pleonastico). 2 per tutto... esclusa: la presenza della religione è autonoma dalla volontà razionale dello scrittore, perciò si impone anche

414 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

là dove lui vorrebbe escluderla.

3 l’aumento: sottinteso “della fede”. 4 troppo ci manca: è ben lontana da. 5 come... delle frasi: come quando ne voglio parlare nelle mie opere. Come spe-

cifica anche poche righe dopo, Manzoni manifesta il timore che la sua sia una fede ipocrita, che si sente tale solo quando le si dà un’espressione letteraria.


Concetti chiave Il contrasto doloroso tra l’apparenza e la verità

Se in Manzoni la religione riesce a sottomettere il raziocinio, così non è in molti altri aspetti della sua vita. In questa lettera, dunque, lo scrittore esprime un timore profondamente radicato nel suo animo di cristiano: che la sua fede, sempre sincera nelle sue forme esteriori, non lo sia altrettanto nelle regioni più intime e nascoste dell’Io, là dove si mette alla prova la corrispondenza tra l’essere e il fare. Della propria fede cattolica, Manzoni riconosce «l’espressione sincera»: non è sicuro, però, che tale sincerità vada di pari passo con un’applicazione serena e incondizionata di quei princìpi religiosi a ogni aspetto della vita. Lo scrittore, perciò, ammette persino che non sempre la dimensione religiosa sia stata vissuta con dedizione piena e convinta: piuttosto, l’aprirsi di un orizzonte di trascendenza diventa per lui sinonimo di un nuovo assillo, l’accendersi di altri quesiti sul senso dell’esistenza umana e della storia dell’uomo, con tutto il loro carico di sofferenza e ingiustizia.

Il timore dello scrittore di cadere nell’ipocrisia

A questo timore squisitamente morale, Manzoni ne aggiunge un altro, legato all’attività di scrittore. Egli ha paura che la propria attività letteraria, improntata com’è alla più alta espressione dei valori cristiani, gli fornisca una sorta di “maschera”, un alibi che gli consente di mostrarsi sempre come portatore di una fede integerrima, nascondendo dietro alle frasi i dubbi, i tormenti e le incongruenze. Manzoni, insomma, teme di essere ipocrita (sia pur involontariamente) e anche di apparire tale agli occhi di chi lo conosce meglio. È da notare come nel pensiero dello scrittore riaffiori sempre questa difficile convivenza tra “essere” e “apparire”, che egli considera due categorie dell’esistenza umana non sempre facilmente conciliabili.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi in forma schematica i punti principali dei pensieri espressi da Manzoni in questo brano. COMPRENSIONE 2. Spiega la differenza tra il timore cristiano e il timore mondano di cui parla Manzoni alla fine del brano.

Interpretare

SCRITTURA 3. Commenta il brano, cercando in particolare di mettere in luce come per Manzoni la fede, invece di essere una risposta risolutiva e tranquillizzante, si traduca in una lotta interiore (max 10 righe).

online D3 Alessandro Manzoni Un Dio implacabile Il Natale del 1833

3 Il rapporto con il Romanticismo e la poetica del vero La posizione di Manzoni di fronte al Romanticismo Verso gli anni Venti, la cultura milanese è in fermento: è scoppiata la polemica classico-romantica e si pubblica il «Conciliatore» (1818-1819). Sono anni di schieramenti aperti e roventi polemiche: Manzoni aderisce al Romanticismo e appoggia le posizioni del «Conciliatore». ma rifiuta, come già detto, di collaborare in prima persona alla rivista. Ritratto d’autore 1 415


Con il Romanticismo, Manzoni condivide il rifiuto del Classicismo (e delle sue regole) e della mitologia, l’interesse per la storia e per i temi civili e patriottici, la ricerca di una lingua che infrangesse la dimensione elitaria della nostra tradizione letteraria. È invece lontanissimo dal gusto per il fantastico, il macabro, proprio di certo Romanticismo d’oltralpe e dalla tendenza a sollecitare le passioni del lettore. La funzione educativa della letteratura e il rifiuto del Classicismo Manzoni non cesserà mai di interrogarsi sul senso della letteratura e sul ruolo che il letterato deve rivestire nel mondo e nella società: una riflessione sofferta, che non arriverà mai a risposte definitive, ma che è sempre guidata dalla convinzione che l’arte abbia valore solo se è in grado di contribuire al progresso dell’umanità. Nel suo pensiero il concetto di “bello” è sempre indissolubilmente legato al concetto di “utile”, certo ereditato dalla cultura illuminista, ma a cui Manzoni, dopo aver fatto propria la visione cristiana della vita, conferisce un significato più profondo. Per lui una letteratura “utile” è una letteratura capace di educare i lettori a una visione del mondo ispirata ai valori morali, alla solidarietà, al senso della giustizia. Proprio la visione cristiana, più ancora che l’adesione al Romanticismo, induce Manzoni a rifiutare drasticamente, dopo la conversione, il repertorio mitologico (agli occhi del poeta cristiano la mitologia diventa vera e propria “idolatria”) e i vincoli della poetica classicistica. E questo non solo in ambito teorico (Lettera sul Romanticismo ➜ D4c ), ma nel vivo delle scelte tematiche e stilistiche che caratterizzano le sue opere, a partire dagli Inni sacri. In particolare, nei Promessi sposi, Manzoni sceglie di dare dignità tragica alle vicissitudini di due popolani che, nella tradizione classica, avrebbero potuto trovare posto al massimo in una commedia, in rapporto al registro comico. La “poetica del vero” La riflessione teorica di Manzoni si sviluppa a partire dalla sua attività di drammaturgo. Proprio in questo ambito si colloca il documento più significativo della sua partecipazione al dibattito romantico e, più in generale, della

Frontespizio della Lettera sul Romanticismo nell’edizione del 1881 delle Opere varie.

416 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

Frontespizio di Del romanzo storico nell’edizione del 1881 delle Opere varie.


sua stessa poetica: la Lettera al signor Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia (Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie), scritta nel 1820. Il tema centrale di questo lungo scritto è uno dei motivi ricorrenti nella polemica tra classicisti e romantici, vale a dire la questione del rispetto, nel testo teatrale, delle cosiddette unità aristoteliche. Manzoni è disposto ad accettare l’unità d’azione, mentre trova del tutto inaccettabili le unità di tempo e di luogo, perché comprometterebbero il rispetto della veridicità storica. Tuttavia la Lettera allo Chauvet, al di là del testo teatrale, introduce importanti concetti, in particolare la necessità per la letteratura di riferirsi al “vero storico”. Questo è il principio chiave della poetica manzoniana, a cui lo scrittore milanese si atterrà sempre scrupolosamente. Il rapporto tra storia e poesia Rispetto allo storico, allo scrittore spetta un compito in più: nella Lettera, Manzoni affronta infatti anche il problema del rapporto fra storia e poesia (➜ D4b ). Se lo storico si ferma ai fatti puri e semplici, senza pretendere di scalfire la superficie delle cose, il poeta può e deve andare oltre, e dar voce al mondo complesso dei sentimenti e dei pensieri dell’uomo (quello che nei Promessi sposi verrà definito il guazzabuglio del cuore umano); tutto questo, naturalmente, rispettando i confini rigorosi del verosimile. Manzoni costruirà il suo romanzo proprio a partire dalla complessa dialettica tra vero storico e vero poetico, che troverà nella sua opera più famosa uno straordinario equilibrio. Ma, a livello teorico, Manzoni continuerà a interrogarsi sul problema. Nel 1828, solo un anno dopo l’uscita della prima edizione dei Promessi sposi e prima di accingersi al lungo lavoro di revisione, lo scrittore compone il primo abbozzo del futuro saggio Del romanzo storico (sarà pubblicato, nel 1850, nelle Opere varie), dove mette in dubbio la legittimità di mescolare la realtà storica con l’invenzione narrativa. L’invenzione, infatti, introdurrebbe inevitabilmente un elemento di falsità, che andrebbe a ledere quella fiducia totale che il lettore deve accordare a un’opera per poterne trarre un beneficio morale. Nel pensiero di Manzoni, dunque, quello tra storia e poesia rimane un nodo irrisolto, che alla fine lo porterà ad allontanarsi dall’attività poetica e creativa: infatti dal 1827, anno di pubblicazione dei Promessi sposi, fino alla morte nel 1873 (fatta eccezione per l’opera di revisione del romanzo e per i due inni incompiuti Ognissanti e Il Natale del 1833) Manzoni si dedicherà esclusivamente a opere di carattere storico e filosofico.

La “poetica del vero” VERO STORICO

una rigorosa documentazione storica è alla base della composizione delle tragedie e del romanzo

VERO POETICO

il poeta va oltre l’aderenza alla realtà storica e può/deve rappresentare i pensieri e i sentimenti dell’uomo

Ritratto d’autore 1 417


Testi In dialogo

La poetica del vero: una letteratura al servizio dell’etica Nel primo dei passi proposti (➜ D4a ) Manzoni esprime, tramite le dichiarazioni dello stimato Carlo Imbonati, i principi della propria visione morale. Nel secondo (➜ D4b ) l’autore spiega che lo storico accede alla verità dei fatti «nel loro esterno», mentre «è dominio della poesia» interrogarsi sui sentimenti più profondi che generano i fatti. Nel terzo (➜ D4c ) Manzoni indica i princìpi della poetica romantica.

Alessandro Manzoni

D4a

«Sentir e meditar» Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 202-215

A. Manzoni, Tutte le poesie 1797-1872, a cura di G. Lonardi, commento e note di P. Azzolini, Marsilio, Venezia 1992

Carlo Imbonati, compagno di Giulia Beccaria, madre di Manzoni, muore il 15 marzo 1805. Il poeta, che nutre per l’uomo una vera e propria venerazione pur non avendolo mai conosciuto, immagina che l’ombra dell’Imbonati gli appaia in sogno e gli rivolga paterni consigli (un topos della poesia classicheggiante). In questi celebri versi l’autore fa esprimere all’interlocutore quelli che in realtà sono il proprio credo morale e la propria poetica.

Gioia il suo dir mi porse1, e non ignota bile destommi 2, e replicai. «Deh! vogli la via segnarmi, onde toccar la cima3 205 io possa, o far che, s’io cadrò su l’erta, dicasi almen: su l’orma propria ei giace4». «Sentir – riprese – e meditar5: di poco esser contento6: da la meta mai non torcer7 gli occhi, conservar la mano 210 pura e la mente: de le umane cose tanto sperimentar, quanto ti basti per non curarle8: non ti far mai servo: non far tregua coi vili: il santo Vero mai non tradir: né proferir mai verbo9, 215 che plauda il vizio, o la virtù derida».

La metrica Endecasillabi sciolti 1 Gioia... porse: le sue parole (il suo dir) suscitarono in me una grande felicità. Si riferisce, naturalmente, a Carlo Imbonati che gli è apparso in sogno. 2 non ignota... destommi: mi suscitò un’indignazione (bile) non nuova (nel senso di tradizionale nel genere e anche già provata). 3 la cima: indica metaforicamen-

418 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

te la perfezione, sia artistica sia morale, visto che nel pensiero di Manzoni le due categorie vengono a coincidere. 4 s’io... giace: se non ce la faccio e cadrò durante la salita, si possa almeno dire che ho ceduto sui miei stessi passi, cioè che non mi sono limitato a calcare le orme altrui, senza trovare la mia strada originale. 5 Sentir... meditar: accostarsi alla realtà tanto attraverso il senti-

mento quanto con gli strumenti della ragione. 6 esser contento: accontentarsi. 7 torcer: distogliere. 8 de le umane... non curarle: delle cose del mondo ti basti conoscere quel tanto che ti consenta di non dar loro un’eccessiva importanza. 9 né proferir mai verbo: e non pronunciare parola alcuna, e non dire mai nulla.


Alessandro Manzoni

D4b

Il vero dello storico e il vero del poeta Lettre à Monsieur Chauvet

A. Manzoni, Scritti di teoria letteraria, a cura di A. Sozzi Casanova, Rizzoli, Milano 1990

La Lettera al signor Chauvet, scritta nel 1820 dopo la pubblicazione del Conte di Carmagnola, è uno dei principali scritti di poetica di Manzoni, dove lo scrittore enuncia alcune delle idee fondamentali del suo pensiero. Tra queste, la distinzione tra la visione dello storico, obbligata a fermarsi all’apparenza oggettiva delle cose, e quella del poeta, che è chiamata a interrogarsi sulle motivazioni profonde di quell’apparenza; e, se non potrà arrivare a conoscerle con sicurezza, costui dovrà almeno intuirle, «individuarle, capirle ed esprimerle».

Ma, si potrà dire, se al poeta si toglie ciò che lo distingue dallo storico, e cioè il diritto di inventare i fatti, che cosa gli resta? Che cosa gli resta? La poesia; sì, la poesia. Perché, alla fin fine, che cosa ci dà la storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno 5 fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi1; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno tentato di far prevalere, le loro passioni e le loro volontà su altre passioni o su altre volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato sfogo alla loro tristezza, coi quali, in una parola, hanno rivelato la loro 10 personalità: tutto questo, o quasi, la loro storia lo passa sotto silenzio, e tutto questo è invece dominio della poesia. Sarebbe assurdo temere che, in tale ambito, manchi mai alla poesia occasione di creare nel senso più serio, e forse nel solo serio, della parola. Ogni segreto dell’animo umano si svela, tutto ciò che determina i grandi avvenimenti, che caratterizza i grandi destini si palesa alle immaginazioni dotate di 2 15 sufficiente carica di simpatia . Tutto quello che la volontà umana ha di forte o di misterioso, che la sventura ha di sacro e di profondo, il poeta può intuirlo; o, per meglio dire, può individuarlo, capirlo ed esprimerlo. 1 scacchi: sconfitte esistenziali. 2 simpatia: qui nel senso di empatia, cioè capacità di capire, di mettersi in relazione con l’altro.

Frontespizio della Lettre à Monsieur Chauvet nell’edizione del 1881 delle Opere varie.

Ritratto d’autore 1 419


Alessandro Manzoni

D4c

«L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo» Lettera sul Romanticismo

A. Manzoni, Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. ChiariF. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1957-1990

La Lettera sul Romanticismo, diretta a Cesare d’Azeglio, viene scritta nel 1823. Stampata nel 1846 senza il consenso dell’autore (il testo era stato concepito da Manzoni per una lettura privata e non per la pubblicazione), è poi pesantemente rivista da Manzoni nel 1870 e viene inserita nella seconda edizione delle Opere varie. Qui si riporta un brano dalla prima redazione per il suo valore storico, che la lega in modo più diretto con il dibattito tra classicisti e romantici. Manzoni organizza la lettera in due parti: nella prima viene esposta la parte “negativa”, ossia le critiche che i romantici rivolgono alla letteratura classicista, riguardanti soprattutto il ricorso alla mitologia; nella seconda, da cui è tratto questo brano, egli espone invece la parte “positiva” (il «positivo romantico»), vale a dire i princìpi che i romantici propongono in alternativa a quelli classici. Lo scrittore definisce con chiarezza lapidaria ciò che per lui costituisce il valore e il senso dell’opera artistica. L’arte ha «l’utile per iscopo», vale a dire che il suo fine deve essere quello di educare l’uomo in senso civile e morale; deve poi avere «il vero per soggetto» e scegliere, quindi, come propria materia gli elementi che vanno a costituire la realtà in cui l’uomo si muove, a livello sia storico sia psicologico, rifuggendo dall’invenzione pura e dal fantastico fine a sé stesso. Il mezzo specifico per raggiungere i propri scopi è poi «l’interessante», ovvero ciò che può accendere «la disposizione di curiosità e di affezione» dei lettori, che nell’ottica romantica del Manzoni si identificano con l’ampio pubblico borghese, non certo l’élite colta e ristrettissima che ancora poteva appassionarsi agli astratti temi classicisti.

Mi limiterò ad esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico1. Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter esser questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’inte5 ressante per mezzo. Debba per conseguenza scegliere gli argomenti pei quali la massa dei lettori ha o avrà, a misura che diverrà più colta, una disposizione di curiosità e di affezione, nata da rapporti reali2, a preferenza degli argomenti, pei quali una classe sola di lettori ha una affezione nata da abitudini scolastiche, e la moltitudine una riverenza non sentita né ragionata, ma ricevuta ciecamente3. E che in ogni argomento debba 10 cercare di scoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale4, non solo come fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello5: giacché e nell’uno e nell’altro ordine di cose, il falso può bensì dilettare, ma questo diletto, questo interesse è distrutto dalla cognizione del vero6; è quindi temporario7 e accidentale. Il diletto mentale non 1 positivo romantico: le proposte concrete avanzate dal Romanticismo. Fino ad ora, come si è accennato, Manzoni si è concentrato sulle critiche mosse dai romantici ai classicisti. 2 una disposizione… rapporti reali: Manzoni auspica un interesse per le opere che nasca e sappia rimanere legato alla vita e al pensiero reali dei lettori, e non sia invece una consuetudine imposta a pochi privilegiati da un

420 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

certo percorso accademico. 3 ricevuta ciecamente: senza spirito critico, senza un coinvolgimento vero e totale. Secondo Manzoni, questo è spesso l’atteggiamento nel quale rimane relegata la moltitudine nel suo rapporto con le grandi opere letterarie. 4 il vero… morale: la verità dei fatti avvenuti e la verità dell’animo umano, la cui rappresentazione secondo Manzoni compete

al poeta ( ➜ D4b dalla Lettre à Monsieur Chauvet). 5 non solo... del bello: non solo la rappresentazione del vero è il fine dell’arte, ma diventa anche l’elemento da cui scaturisce il più autentico piacere estetico. 6 questo diletto... del vero: l’interesse che può essere suscitato dall’invenzione che falsifica la realtà si dissolve non appena si impone la conoscenza del vero. 7 temporario: temporaneo.


è prodotto che dall’assentimento8 ad una idea; l’interesse, dalla speranza di trovare in 15 quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento e di riposo: ora quando un nuovo e vivo lume ci fa scoprire in quella idea il falso e quindi l’impossibilità che la mente vi riposi e vi si compiaccia, vi faccia scoperte, il diletto e l’interesse spariscono. Ma il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione 20 del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere. 8 assentimento: adesione.

Angelo Inganni, Piazza Duomo, Milano, olio su tela, 1842 (Collezione privata).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Indica brevemente quali sono, nella visione di Manzoni, le prerogative della storia e quali invece quelle della poesia (➜ D4b ). 2. «Creare nel senso più serio, o forse nel solo serio, della parola»: secondo te, a che cosa si riferisce Manzoni con questa espressione? (➜ D4b ) ANALISI 3. Quale visione morale emerge dal Carme in morte di Carlo Imbonati? (➜ D4a ) 4. Nella Lettera (➜ D4c ), Manzoni introduce l’idea di un nuovo rapporto che la letteratura deve intrattenere con la società in senso esteso, non più con un’élite ristretta. È un atteggiamento tipico del Romanticismo e che prepara in qualche modo quella che sarà la disposizione “pedagogica” della letteratura negli anni del Risorgimento. Rintraccia i passi del brano nei quali emerge questa idea.

Interpretare

SCRITTURA 5. Nel Carme in morte di Carlo Imbonati (➜ D4a ), Manzoni utilizza i due termini sentir e meditar. Cerca di spiegare in un breve testo in quale rapporto egli pone il sentir e il meditar nella sua poetica e nella sua opera di scrittore. 6. «L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo»: spiega in un breve testo questa che può essere considerata la sintesi della poetica manzoniana, seguendo la traccia delle domande (➜ D4c ). a. Per chi l’arte può cercare di essere utile? b. Che cosa si intende per soggetto vero? c. Quali sono i mezzi che potrebbero rendere interessante l’arte? TESTI A CONFRONTO 7. Commenta i tre brani proposti, concentrandoti sul tema della poetica del vero in Manzoni, espressione del valore etico che egli attribuisce alla letteratura. 8. In che modo il monito di Carlo Imbonati (➜ D4a ) potrebbe assumere un ruolo significativo nella tua vita di adolescente e guidarti verso scelte responsabili? LETTERATURA E NOI 9. Credi che una letteratura che abbia «l’utile per iscopo» (in senso manzoniano) sia praticabile oggi?

Ritratto d’autore 1 421


Alessandro Manzoni

Contro lo «spirito romanzesco»

D5

Lettera a Claude Fauriel del 29 maggio 1822 A. Manzoni, Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari-F. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1957-1990

Per quanto riguarda il genere del romanzo, manca un testo di riflessione critica unitario e organico come è, per la tragedia, la Lettre à Monsieur Chauvet. Le osservazioni di Manzoni al proposito sono contenute soprattutto nelle lettere, in ordine sparso. Uno dei momenti di riflessione più significativi è costituito dalla lettera che Manzoni scrive a Claude Fauriel il 29 maggio 1822, quando lo scrittore sta lavorando da circa un anno alla stesura del Fermo e Lucia.

Oso lusingarmi […] di evitare almeno la taccia di imitatore; a questo scopo faccio quel che posso per immedesimarmi nello spirito del tempo che devo descrivere, per viverci dentro; è stato un tempo così bizzarro1 che sarà proprio colpa mia se questo aspetto non si comunicherà alla descrizione2. Quanto al procedere degli avvenimenti 5 e all’intreccio, credo che il mezzo migliore per non fare come gli altri sia di applicarsi a considerare nella realtà il modo di agire degli uomini, e di considerarlo soprattutto in ciò che esso ha di opposto allo spirito romanzesco. In tutti i romanzi che ho letto mi sembra di scorgere un impegno per stabilire rapporti interessanti e inattesi fra i diversi personaggi, per riportarli insieme sulla scena, per trovare avvenimenti che 10 influiscano a un tempo e in modi diversi sui destini di tutti, per trovare infine una unità artificiale che nella vita reale non si verifica. So che questa unità piace al lettore, ma penso che gli piaccia per una vecchia abitudine. So che è considerata un merito in alcune opere che ne traggono un vantaggio reale e di prim’ordine3, ma sono del parere che un giorno sarà oggetto di critica; e si citerà questo modo di consertare4 gli 15 avvenimenti come un esempio dell’impero5 che la consuetudine esercita sugli spiriti liberi e più alti, o dei sacrifici che vengono fatti al gusto imperante6. 1 è stato… bizzarro: il Seicento in cui si svolgono I promessi sposi (e la prima versione del romanzo, il Fermo e Lucia).

2 se questo aspetto... descrizione: se non riuscirò a far passare nella mia descrizione lo “spirito del tempo” del Seicento. 3 un vantaggio reale e di prim’ordine: Manzoni si riferisce al successo di pub-

blico.

4 consertare: unire insieme, intrecciare. 5 impero: dominio. 6 al gusto imperante: alla moda letteraria del momento.

Concetti chiave Una riflessione sul romanzo

Nel brano sono contenute importanti indicazioni sui princìpi che guidano lo scrittore nel suo approccio al romanzo: soprattutto viene sancito il rifiuto di tutto ciò che è comunemente definito romanzesco, vale a dire gli stratagemmi narrativi concepiti per accattivarsi il favore immediato del pubblico, ma del tutto alieni da ogni preoccupazione di resa efficace del vero storico e del vero morale.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cos’è l’unità che «piace al lettore», ma «per una vecchia abitudine»? 2. Che cosa intende Manzoni con il termine consuetudine? Quale giudizio ne dà?

Interpretare

LETTERATURA E NOI 3. Pensi che il giudizio di Manzoni sulla pigrizia mentale, che spesso caratterizza gran parte del pubblico, possa avere una qualche attualità e applicarsi anche alla situazione contemporanea? Esprimi la tua opinione in un breve testo, apportando anche esempi tratti dalla tua personale esperienza di lettore.

422 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


2

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 1 Il progetto di una nuova epica cristiana: gli Inni sacri Un progetto letterario alternativo al Classicismo Il 1810, anno della conversione, rappresenta un punto di svolta non soltanto nel percorso esistenziale di Manzoni, ma anche nella sua carriera di letterato. Lo scrittore comincia infatti in quell’anno a cercare un’alternativa ai modelli classici della tradizione poetica italiana, a cui egli stesso ha aderito nel poemetto neoclassico Urania (1809): dopo la conversione, tali modelli vengono percepiti come inadeguati al ruolo di poeta cristiano che da quel momento assume con ferma decisione. Nasce così il progetto degli Inni sacri: dodici componimenti dedicati alle principali festività della liturgia cattolica. Tra il 1812 e il 1815 ne vengono composti quattro, pubblicati poi a Milano nel 1815: La Risurrezione (1812), Il Nome di Maria (1812-13), Il Natale (1813), La Passione (1814-15). Tra il 1817 e il 1822 viene poi composta La Pentecoste (➜ T4 ), destinata a rimanere l’ultimo inno completo del progetto, il quale non sarà mai portato a termine: un sesto inno, Ognissanti, rimarrà infatti incompiuto. Ma cosa si propone Manzoni nell’avvicinarsi a un genere così particolare come la poesia di ispirazione religiosa? Dal punto di vista letterario, l’autore intende prendere le distanze dagli stilemi neoclassici a cui hanno aderito Parini, Monti e lo stesso Foscolo: una tradizione illustre che Manzoni rifiuta nettamente, andando invece a cercare nel Vangelo e nella tradizione degli inni cristiani antichi e medievali le immagini e le forme per la sua nuova poesia. Proprio da questa scelta deriva il vigore espressivo di questi componimenti, la predilezione dei versi brevi (che, insieme alle rime semplici e immediate, favoriscono un andamento discorsivo e una tonalità in qualche modo “popolare”, quasi da litania), la ricchezza di metafore e immagini dal valore fortemente icastico. Sotto il profilo stilistico i risultati sono però discontinui e sfiorano talvolta effetti di pesante artificiosità: come osserva Ferroni, il linguaggio manzoniano appare quasi «partorito da un ostinato sforzo di volontà».

Giuseppe Diotti, Adorazione dei pastori, olio su tela, 1809 (Milano, Pinacoteca di Brera).

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 423


L’obiettivo di una moderna poesia cristiana Non è, però, soltanto un intento di rinnovamento formale a spingere Manzoni: dopo la conversione, infatti, egli sente fortissima l’esigenza di dare voce con la sua poesia a valori collettivi, in cui tutta la cristianità possa riconoscersi. Prima protagonista degli Inni è la Chiesa, vista e rappresentata come soggetto storico e fatta più volte oggetto di personificazioni cariche di significato (l’esempio più significativo si trova nella Pentecoste); è una Chiesa attiva, militante, viva e vera, prima protagonista della storia umana. Negli Inni si avverte chiaramente che per Manzoni il messaggio cristiano ha un valore totalizzante, in grado di inglobare anche la razionalità e i valori democratici su cui si fondava la tradizione illuminista, inserendoli in un orizzonte più ampio e sublime. Il rifiuto del soggettivismo per una poesia aperta ai valori collettivi Visti in quest’ottica, gli Inni sacri costituiscono anche un rifiuto di quel soggettivismo introspettivo di stampo petrarchesco che informa tanta poesia di primo Ottocento. Come afferma lo stesso Manzoni, essi rappresentano una sorta di poesia «sliricata», concreta e oggettiva, che non si ferma all’orizzonte esistenziale di un singolo individuo ma vuole al contrario confrontarsi con un contesto storico più ampio e complesso, accogliendone le istanze e l’esigenza di impegno morale e civile. Con il progetto degli Inni Manzoni addirittura anticipa il clima ideologico e culturale dell’imminente Romanticismo lombardo e si trova sulla stessa linea che sarà propria del «Conciliatore»; fautore di una letteratura che, riprendendo gli ideali dell’Illuminismo, accorda la supremazia alle «cose» sulle «parole» e nella quale lo scrittore è chiamato ad assumere un ruolo non più puramente estetico ma anche etico, nel senso più profondo del termine. Un Cristianesimo calato nella realtà e nella storia Come I promessi sposi, anche gli Inni sacri incarnano la futura formula ideata da De Sanctis per descrivere la religiosità problematica dello scrittore: «l’ideale calato nel reale». Il Cristianesimo propugnato da Manzoni, infatti, non si chiude in un isolamento aristocratico né si nasconde dietro a dogmi e vuoti precetti, ma vuole calarsi nella storia, accettandone le contraddizioni e “sporcandosi le mani” con la sua materia viva e dolorosa. Non è un caso, allora, che la poesia religiosa degli Inni prenda le mosse dal riferimento alle feste della liturgia cattolica: ricorrenze vere, che possono richiamare immagini concrete alla mente del lettore, partecipe di quella stessa tradizione.

Inni sacri COMPONIMENTI DEDICATI ALLE PRINCIPALI FESTIVITÀ CATTOLICHE

12 previsti dal progetto originario

ne compone 5 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e, più tardi, La Pentecoste); rimane incompiuto Ognissanti

MODELLI

Vangeli e inni cristiani antichi e medioevali

FINALITÀ

Manzoni vuole dare voce ai valori collettivi della cristianità, espressione di una Chiesa attiva

424 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Alessandro Manzoni

T1

EDUCAZIONE CIVICA

La Pentecoste

nucleo Costituzione competenza 1

Inni sacri A. Manzoni, Tutte le poesie 1797-1872, a cura di G. Lonardi, commento e note di P. Azzolini, Marsilio, Venezia 1992

Cominciato nel 1817, ripreso nel 1819 e portato a termine verso la fine del 1822, quando Manzoni ha ormai scritto le tragedie e messo mano alla prima stesura dei Promessi sposi, il quinto degli Inni sacri è espressione di una fase creativa più consapevole e matura rispetto agli altri componimenti. L’argomento è la festa della Pentecoste, quando, cinquanta giorni dopo la Resurrezione di Cristo (nel calendario liturgico la festa cade la settima domenica dopo la Pasqua), lo Spirito Santo discese sugli apostoli nascosti nel cenacolo insieme alla Vergine Maria, dando loro la forza e il coraggio per avviare la predicazione che sarebbe diventata l’atto di nascita della chiesa cristiana.

Madre de’ Santi1, immagine della città superna2, del Sangue incorruttibile3 conservatrice eterna; 5 tu che, da tanti secoli, soffri, combatti e preghi, che le tue tende spieghi dall’uno all’altro mar4;

E allor che dalle tenebre la diva spoglia uscita, mise il potente anelito 20 della seconda vita11; e quando, in man recandosi il prezzo del perdono12, da questa polve al trono del Genitor salì13;

campo di quei che sperano5; 10 Chiesa del Dio vivente, dov’eri mai? qual angolo ti raccogliea nascente6, quando il tuo Re7, dai perfidi tratto a morir sul colle8, 15 imporporò9 le zolle del suo sublime altar10?

25 compagna del suo gemito, conscia de’ suoi misteri, tu, della sua vittoria figlia immortal, dov’eri14? in tuo terror sol vigile15, 30 sol nell’obblio secura16, stavi in riposte mura17, fino a quel sacro dì18,

La metrica Strofe di otto settenari, di cui primo, terzo e quinto sono sdruccioli; piani il secondo, il quarto, il sesto e il settimo; tronco l’ultimo verso di ogni strofa, in rima con l’ultimo della strofa successiva.

1 Madre de’ Santi: Manzoni esordisce rivolgendosi direttamente alla Chiesa, identificata come madre dei santi in quanto generatrice di salvezza eterna. 2 città superna: la Gerusalemme celeste. 3 Sangue incorruttibile: il sangue di Cristo, che la Resurrezione ha sottratto alla corruzione materiale e di cui la Chiesa è custode (conservatrice). 4 che le tue tende… all’altro mar: che pianti le tue tende in ogni regione del mondo. 5 campo di quei che sperano: un altro appellativo riferito alla Chiesa, vista come il campo dove possono agire e impegnarsi coloro che hanno fede in una vita ultraterrena (quei che sperano). 6 qual angolo… nascente: quale luogo nascosto ti diede rifugio, proprio nel mo-

mento in cui stavi nascendo (nascente è predicativo dell’oggetto, riferito alla Chiesa). Il riferimento è al primissimo nucleo della comunità ecclesiastica, costituito dagli apostoli che, pieni di timore, dopo la crocifissione di Gesù rimasero nascosti per timore di rappresaglie. 7 il tuo Re: Cristo. 8 sul colle: il colle del Calvario, o Golgota, dove Gesù venne crocifisso. 9 imporporò: tinse con il rosso del proprio sangue. 10 sublime altar: ancora un riferimento al Golgota, sublime in quanto elevato, ma anche in senso morale, per l’alta sacralità racchiusa nel luogo del supplizio di Cristo. 11 allor che… seconda vita: quando il corpo divino di Cristo (la diva spoglia), dopo essere uscito dalle tenebre del sepolcro, emise il potente soffio della vita eterna scaturita dalla Resurrezione («il potente anelito / della seconda vita»). Il poeta riprende il discorso facendo sempre dipendere le frasi dalla domanda, qui sottintesa: “dov’eri tu, Chiesa?”

12 in man recandosi… perdono: portando in mano il prezzo del perdono per i peccati degli uomini. 13 da questa polve… salì: dalla polvere terrena salì fino al trono del Padre celeste. 14 compagna… dov’eri?: tutto il periodo è retto dal dov’eri conclusivo. Dov’eri tu, che sei stata partecipe del dolore di Cristo (compagna del suo gemito) e che eri consapevole del mistero della sua natura divina, tu che sei figlia della sua vittoria sulla morte e destinata a vivere per sempre (figlia immortal)? 15 in tuo terror sol vigile: attenta solo alla tua paura. 16 sol nell’obblio secura: sicura solo perché nascosta e dimenticata da tutti. 17 in riposte mura: in stanze chiuse e segrete (del cenacolo, dove per dieci giorni gli apostoli si raccolsero in isolamento). 18 quel sacro dì: è il giorno della Pentecoste, quando lo Spirito Santo discese sugli Apostoli infondendo loro il coraggio per dare inizio all’opera pastorale della Chiesa, come viene specificato nella strofa successiva.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 425


quando su te lo Spirito rinnovator discese 35 e l’inconsunta fiaccola19 nella tua destra accese; quando, segnal de’ popoli, ti collocò sul monte20, e ne’ tuoi labbri il fonte 40 della parola aprì21.

spose, che desta il subito balzar del pondo ascoso30; voi già vicine a sciogliere 60 il grembo doloroso31; alla bugiarda pronuba non sollevate il canto32; cresce serbato al Santo quel che nel sen vi sta33.

Come la luce rapida piove di cosa in cosa, e i color vari suscita dovunque si riposa; 45 tal risonò moltiplice la voce dello Spiro22: l’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì.

Perché, baciando i pargoli34, la schiava ancor sospira? e il sen che nutre i liberi invidiando mira35? non sa che al regno36 i miseri 70 seco37 il Signor solleva? Che a tutti i figli d’Eva Nel suo dolor pensò?

Adorator degl’idoli23, 50 sparso per ogni lido24, volgi lo sguardo a Solima25, odi quel santo grido26: stanca del vile ossequio27, la terra28 a Lui ritorni: 55 e voi29 che aprite i giorni di più felice età,

Nova franchigia38 annunziano i cieli, e genti nove39; 75 nove conquiste, e gloria vinta in più belle prove; nova, ai terrori immobile e alle lusinghe infide, pace, che il mondo irride, 80 ma che rapir non può40.

19 l’inconsunta fiaccola: la fiamma che non si consuma mai. 20 quando… sul monte: quando ti pose in cima a un monte perché tu, Chiesa, potessi diventare un faro guida per i popoli. Manzoni riprende qui l’immagine evangelica dei cristiani, sale della terra e luce del mondo: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lanterna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Matteo 5, 14-15). 21 ne’ tuoi labbri… aprì: fece sgorgare dalle tue labbra la fonte della parola. Manzoni allude all’inizio della predicazione apostolica, ma il riferimento è anche al miracolo della Pentecoste, quando lo Spirito Santo fece parlare gli apostoli in modo tale che tutti, indipendentemente dalla nazionalità, compresero le loro parole (Atti 2, 1-13). È una duplicità di significato che si ripete anche nella strofa successiva

426 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

65

(«l’Arabo, il Parto, il Siro / in suo sermon l’udì»). 22 Come la luce… dello Spiro: nello stesso modo in cui la luce si posa (si riposa) veloce su ogni cosa, facendone risaltare il colore, così anche lo Spirito fa risuonare la propria voce in molteplici forme. 23 Adorator degl’idoli: Manzoni si rivolge ai popoli pagani, rappresentati da un unico, simbolico Adorator. 24 sparso per ogni lido: disperso in ogni regione del mondo. 25 Solima: Gerusalemme. 26 quel santo grido: la predicazione degli apostoli. 27 vile ossequio: l’adorazione degli dèi pagani. 28 la terra: l’umanità. 29 e voi: si rivolge alle spose della strofa successiva. 30 spose… pondo ascoso: voi spose, che venite svegliate di soprassalto dall’improvviso sobbalzarvi in grembo del vostro fardello nascosto, il bambino che

portate dentro al vostro ventre (pondo ascoso). 31 vicine a… doloroso: prossime a partorire, a liberare con dolore il grembo. 32 alla bugiarda… il canto: non levate il vostro canto alla falsa divinità che protegge le unioni matrimoniali, cioè Giunone. 33 cresce… vi sta: quello che vi sta crescendo in seno è destinato alla santità di Dio. 34 i pargoli: i propri figli. 35 il sen… mira: guarda con invidia il seno che nutre fanciulli liberi. 36 regno: è il regno dei cieli. 37 seco: con sé. 38 Nova franchigia: una nuova libertà. 39 genti nove: uomini rinnovati (dallo spirito). È un’allusione a quell’«uomo nuovo» di cui parla san Paolo. 40 nova… non può: una nuova pace, che rimane impassibile di fronte alla paura e alle blandizie ingannevoli, una pace che il mondo deride ma non può togliere (a chi la possiede).


O Spirto! supplichevoli41 a’ tuoi solenni altari, soli per selve inospite42, vaghi43 in deserti mari, 85 dall’Ande algenti44 al Libano, d’Erina all’irta Haiti45, sparsi per tutti i liti, uni per Te di cor46, Noi T’imploriam! placabile47 90 spirto, discendi ancora, a’ tuoi cultor propizio48, propizio a chi T’ignora; scendi e ricrea49; rianima i cor nel dubbio estinti50; 95 e sia divina ai vinti mercede il vincitor51. Discendi Amor; negli animi l’ire superbe attuta52: dona i pensier che il memore 100 ultimo dì non muta53; i doni tuoi benefica54 nutra la tua virtude; siccome il sol che schiude dal pigro germe il fior55; che lento56 poi sull’umili erbe morrà non còlto, né sorgerà coi fulgidi 105

41 supplichevoli: comincia l’invocazione allo Spirito Santo; supplichevoli è da legare al Noi (v. 89) con cui si apre la strofa successiva. 42 inospite: inospitali. 43 vaghi: erranti, girovaganti. 44 algenti: ghiacciate. 45 d’Erina all’irta Haiti: dall’Irlanda alla montuosa Haiti. 46 uni per Te di cor: uniti (uni) nell’animo (di cor) grazie alla tua opera (per Te). 47 placabile: mite, che perdona facilmente. 48 a’ tuoi cultor propizio: benigno verso i tuoi fedeli. 49 ricrea: rinnova. 50 nel dubbio estinti: spossati dal dubbio. 51 sia… il vincitor: il vincitore (ossia Cristo) sia la ricompensa divina per coloro che si sono fatti vincere (da Lui). 52 attuta: attenua, smorza. 53 i pensier… non muta: i pensieri che non cambiano nel giorno della morte, quando ciascun uomo ricorda tutti i

color del lembo sciolto57, se fuso a lui nell’etere 110 non tornerà quel mite lume, dator di vite, e infaticato altor58. Noi T’imploriam! Ne’ languidi59 pensier dell’infelice 115 scendi piacevol alito, aura60 consolatrice: scendi bufera ai tumidi61 pensier del violento; vi spira uno sgomento 120 che insegni la pietà62. Per Te sollevi il povero al ciel, ch’è suo, le ciglia63; volga i lamenti in giubilo64, pensando a cui somiglia65; 125 cui fu donato in copia66, doni con volto amico, con quel tacer pudico67, che accetto68 il don ti fa. Spira de’ nostri bamboli 130 nell’ineffabil riso69; spargi la casta porpora70 alle donzelle in viso; manda alle ascose vergini le pure gioie ascose71;

momenti della propria vita (il memore / ultimo dì). 54 benefica: è riferita al virtude (“soffio animatore”) del verso successivo. 55 siccome… il fior: così come il sole fa schiudere il fiore dal germe che da solo, senza il suo calore, non riuscirebbe a crescere e svilupparsi (e per questo è definito pigro). 56 lento: debole. 57 del lembo sciolto: della corolla aperta. 58 se fuso a lui… infaticato altor: se quella dolce luce del sole, che dà la vita e dona instancabile il nutrimento (altor, “nutritore”, è un latinismo), non torna a unirsi a lui nell’aria. 59 languidi: tristi, senza speranza, stanchi. 60 aura: aria, brezza. 61 tumidi: gonfi (d’orgoglio). 62 vi spira… la pietà: ispira (imperativo esortativo, come il precedente scendi) su questo un turbamento che lo renda

pietoso, fraterno (pietà è la pietas latina: il rispetto degli dèi e della giustizia, ma anche il senso di umanità). 63 Per Te… le ciglia: grazie al tuo conforto, il povero sollevi lo sguardo a quel cielo che gli è stato promesso (suo). 64 giubilo: gioia piena. 65 pensando a cui somiglia: pensando a colui al quale lui, povero, somiglia, ossia a Cristo, che nacque e visse in povertà. 66 cui fu donato in copia: colui al quale sono stati fatti doni in abbondanza (vale a dire il ricco). 67 tacer pudico: silenziosa discrezione. 68 accetto: gradito. 69 Spira… riso: soffia (ancora imperativo) nel riso dei nostri bambini, che non si può descrivere a parole (ineffabil). 70 casta porpora: il rossore dettato dalla verecondia. 71 alle… ascose: alle monache, che vivono nascoste, ritirate (nei conventi), il raccoglimento con Dio, fonte di gioia.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 427


consacra delle spose il verecondo amor72. 135

Tempra de’ baldi giovani il confidente ingegno73; reggi il viril proposito

ad infallibil segno74; adorna le canizie di liete voglie sante75; brilla nel guardo errante di chi sperando muor76. 140

72 il verecondo amor: il pudico amore

74 reggi… segno: sostieni i propositi degli

coniugale. 73 Tempra… ingegno: rafforza, mettendolo alla prova, l’intelligenza dei giovani troppo fiduciosi (baldi) nelle proprie capacità.

uomini (viril proposito) affinché possano raggiungere un obiettivo sicuro (infallibil segno). 75 le canizie… sante: abbellisci l’età della vecchiaia con desideri improntati a san-

tità e letizia.

76 nel guardo... muor: nello sguardo errabondo (cioè che poco a poco vien meno) di chi muore nella speranza di una vita ultraterrena.

Analisi del testo La struttura Il testo può essere suddiviso essenzialmente in tre parti, varie e articolate al loro interno. vv. 1-48 Attraverso una serie di domande il poeta si rivolge alla Chiesa (v. 1, Madre de’ Santi) chiedendosi dove si trovava quando non era ancora vittoriosa nel mondo intero, ma era costituita dai soli apostoli che, timorosi delle persecuzioni dopo la morte di Cristo, stavano nascosti, riunendosi in segreto nel cenacolo. A partire dal v. 33 si rappresenta l’evento dal quale la festività della Pentecoste trae origine: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel Cenacolo. Questo episodio diede inizio alla predicazione del Vangelo, conferendo ai discepoli di Cristo la capacità di farsi capire da tutti i popoli. vv. 49-80 Sono descritti gli effetti che l’evento pentecostale ebbe sull’umanità: il messaggio cristiano produce una nuova civiltà, fondata sulla giustizia e sulla pace. Immaginando di parlare nel momento storico in cui inizia la diffusione della parola di Cristo, il poeta esorta i pagani a convertirsi, invita le donne che stanno per generare dei figli a non pregare più la dea pagana Giunone e infine rincuora la schiava che compiange i suoi figli (destinati a essere schiavi a loro volta) perché il Signore promette a ogni uomo, anche al più misero, il riscatto e la salvezza. Grazie alla diffusione del messaggio cristiano nascerà una nuova civiltà, in cui l’umanità può aspirare a una nuova pace, irrisa dal mondo (v. 79) ma che nessuno potrà mai più negare. vv. 81-144 Il componimento si conclude con una lunga invocazione allo Spirito Santo. Il poeta, la cui voce però ora si fonde con quella di tutti i cristiani del mondo, rivolge un’ardente preghiera allo Spirito Santo perché discenda ancora esercitando la sua azione benefica tra gli uomini, che ne hanno bisogno così come il fiore richiede al sole, che lo ha fatto schiudere, di continuare a riscaldarlo. Implora lo Spirito Santo di ridare la fede a chi è nel dubbio, di smorzare le passioni negative, di consolare chi è infelice e chi è povero, di ispirare tutte le età della vita, dai bambini ai vecchi, di infondere speranza nei moribondi.

Una religione che si fa storia Protagonista di questo componimento è la Chiesa, vista non come istituzione o custode di norme e precetti che regolano la vita dei credenti, bensì come forza viva e attiva nella storia. Una Chiesa militante, insomma, nell’ottica della nuova epica cristiana che Manzoni intende proporre negli Inni sacri, come si percepisce anche dalle scelte lessicali, più volte riferite all’area semantica militare (in particolare nelle prime due strofe). Alla Chiesa trionfante cui Manzoni si rivolge nei primi versi (una Chiesa dal carattere ancora vetero-testamentario, severa custode del Sangue incorruttibile di Cristo) viene a sovrapporsi una Chiesa più vera, viva e operante nella storia, in cui l’evento religioso non è più soltanto oggetto di celebrazioni liturgiche, ma fatto concreto che entra nella storia e con essa interagisce, apportando una nuova visione, nuovi princìpi e capace di cambiarla ben più delle ideologie politiche terrene (non può non colpire la ripetizione dell’aggettivo “nuovo” nella decima strofa). Nella Pentecoste si trova già formulato il nocciolo dell’ideologia politico-religiosa manzoniana, che nella Chiesa vede il fondamento di una società giusta, misericordiosa e umana, in cui ogni individuo potrà vivere in pace e armonia, al sicuro dalla logica della sopraffazione

428 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


che domina la mentalità mondana: è questo il senso del riferimento che si legge ai vv. 79-80 alla «pace, che il mondo irride / ma che rapir non può». Si può anche intravedere nell’inno l’attenzione per gli umili e i dimenticati, lasciati ai margini della storia che sarà propria dei Promessi sposi: la proposta cristiana costituisce per loro una possibilità di riscatto («non sa che al regno i miseri / seco il Signor solleva?» [vv. 69-70]; «Per Te sollevi il povero / al ciel, ch’è suo, le ciglia, / volga i lamenti in giubilo, / pensando a cui somiglia» [vv. 121-124]), l’unica possibile in un mondo in cui la giustizia sembra appannaggio esclusivo dei potenti.

Una lirica corale La Pentecoste evidenzia con chiarezza la volontà di Manzoni di creare una lirica corale, lontana dalla centralità dell’Io propria di tanta tradizione letteraria. Anche quando la voce è quella del poeta (nelle prime due sezioni) non si tratta di una voce individuale, ma del credente che si fa portavoce dell’intera collettività cristiana. Nell’ultima parte, propriamente l’inno di preghiera, l’io trapassa poi nel “noi”: l’invocazione allo Spirito Santo si immagina pronunciata dalla voce del popolo cristiano.

Lo stile

Luigi Mussini, La Musica sacra olio su tela, 1841 (Firenze, Gallerie dell’Accademia).

Nonostante il livello alto dell’argomento affrontato, Manzoni non si rinchiude in un linguaggio alto e freddamente liturgico: fin dai primi versi si avverte lo sforzo di dare un piglio autentico e vitale al componimento. Immagini canoniche e formule rituali (Madre de’ Santi, città superna, Sangue incorruttibile, Chiesa del Dio vivente) si caricano di vivo sentimento religioso. Lo sforzo di Manzoni è di dar vita a un’epica religiosa, di forte impatto per il lettore. Da qui le scelte stilistiche e metriche, a cominciare da quella di versi brevi (settenari) fortemente ritmati. A potenziare l’effetto di questi versi come una “liturgia in atto” concorrono molteplici accorgimenti: la frequenza di interrogative, la forte presenza di forme conative, in particolare “imperativi” (ad esempio nella strofa 7: «volgi...odi...non sollevate...» e soprattutto nella terza sezione, posti per lo più a inizio di verso: v. 129 Spira, v. 133 manda, v. 135 consacra, v. 137 Tempra, v. 139 reggi, v. 141 adorna, v. 143 brilla. Intensificano il messaggio le anafore (in particolare vv. 13, 21, 33, 37), i parallelismi come nella prima strofa, dove è presente una successione di aggettivi sempre posposti al nome cui si riferiscono e in fine di verso (città superna, Sangue incorruttibile, conservatrice eterna). Una gamma di artifici retorici che conferiscono all’inno una grande compattezza stilistica e ne aumentano l’efficacia espressiva, richiamando ritmi e stilemi tipici di una certa versificazione liturgica ben nota a chi, come il lettore ideale della Pentecoste, aveva familiarità con il linguaggio sacro e i riti cattolici.

Una retorica della concretezza L’impegno di Manzoni a far convivere concetti astratti complessi con la viva concretezza dell’esperienza umana trova uno strumento particolarmente efficace nel ricorso alle similitudini, come si può notare ai vv. 41-48 e ai vv. 103-112. Nel primo caso, il poeta paragona il diffondersi dello Spirito Santo alla luce che si propaga veloce, suscitando le diverse sfumature di colore così come si presentano agli occhi di chi osserva (il motivo della luce è assai caro a sant’Agostino, che spesso vi ricorre nei suoi scritti). La seconda similitudine, invece, accosta l’amore divino al sole, senza il quale il fiore, sbocciato solo grazie al suo calore, è destinato a morire prima che qualcuno lo colga. Questi paragoni, pur mantenendo intatta l’ineffabile immaterialità dell’oggetto che si sta cercando di descrivere, richiamano alla mente l’esperienza quotidiana di ciascuno: è la stessa forza icastica delle immagini cui ricorre Dante per spiegare gli oscuri concetti affrontati nel Paradiso.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 429


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quali sono gli effetti della discesa dello Spirito Santo? Quali importanti cambiamenti sociali essa opera, secondo Manzoni? 2. A chi si rivolge il poeta nei vv. 49-64? Si tratta di figure importanti nel messaggio complessivo del testo? ANALISI 3. Quali immagini della Chiesa nella sua storia secolare sono presenti nella prima parte del testo? LESSICO 4. Individua i termini e le espressioni di matrice militare che Manzoni utilizza per costruire l’immagine di una Chiesa militante. STILE 5. Nel testo sono presenti due efficaci similitudini: indicale e spiegale in rapporto al contesto. 6. Analizza l’inno dal punto di vista stilistico ed evidenzia gli elementi che lo allontanano dallo stile neoclassico e dal gusto letterario romantico, avvicinandolo invece alla poesia religiosa antica. 7. Motiva il frequente utilizzo da parte dell’autore di domande retoriche, apostrofi e iterazioni.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

SCRITTURA 8. Nei vv. 121-128, Manzoni enuclea una sorta di progetto di pacificazione sociale, in cui a poveri e ricchi è assegnato un ruolo ben preciso. Rileggi la strofa e cerca poi di spiegare in un testo di max 5 righe quale tipo di ideologia sociale si rifletta in essa.

2 La poesia civile Gli scritti di carattere patriottico Nonostante l’indole schiva e l’inclinazione moderata che lo tengono lontano dalla politica attiva, Manzoni è sempre un attento osservatore del mondo contemporaneo: se ne trova conferma grazie alla presenza, tra le sue opere, di non pochi testi poetici di carattere patriottico-civile. Si tratta di testi di livello molto vario, alcuni dei quali rimasti incompiuti e inediti, ma tutti accomunati dal carattere occasionale: sono tutti cioè composti a caldo, sull’onda di un evento politico, o comunque legato alla politica, che colpisce l’immaginazione dell’autore e stimola la sua riflessione o le sue speranze patriottiche. Accade così per Aprile 1814, canzone composta sulla scia della sconfitta di Napoleone e della ritirata dell’esercito francese dalla Lombardia; e anche per Il proclama di Rimini, dell’anno successivo, in cui l’autore appoggia l’iniziativa di Gioacchino Murat, che in un proclama pubblico aveva esortato gli italiani a insorgere contro gli austriaci. Ancora legati a modelli stilistici tradizionali di stampo petrarchesco, entrambi i componimenti rimangono incompiuti e inediti. Le due odi civili. L’intreccio fra tema politico e dimensione religiosa Nelle due prove successive di poesia civile, ben più riuscite poeticamente, il tema politico si trova intrecciato alla dimensione religiosa, con un costante richiamo a un Dio presente come forza attiva nella storia (Marzo 1821) e nell’intima interiorità degli uomini grandi che fanno la storia (Il cinque maggio). L’ode Marzo 1821 (➜ T2 ) è scritta in seguito all’entusiasmo suscitato dai moti carbonari di quell’anno, quando sembrava che il reggente Carlo Alberto di Savoia potesse appoggiare i patrioti lombardi contro gli austriaci, varcando con le sue truppe il confine tra Regno di Sardegna e Lombardo-Veneto. Un evento che nella parte iniziale dell’ode si presenta come già avvenuto, ma che invece nella realtà non accadrà. La dura repressione austriaca seguita al fallimento dei moti indusse Manzoni

430 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


a distruggere il manoscritto dell’ode, che fu pubblicata solo molti anni dopo, nel 1848. Concetto chiave del testo, ispirato a un fervente patriottismo, è la convinzione che una guerra come quella condotta dai patrioti italiani per l’indipendenza dagli usurpatori è una guerra giusta, voluta e sostenuta da Dio stesso. L’altra celebre ode civile, Il cinque maggio (➜ T3 ), è composta da Manzoni nel luglio del 1821 in pochi giorni, di getto, sulla scia dell’emozione suscitata dalla notizia della morte di Napoleone, avvenuta il 5 maggio di quell’anno sull’isola di Sant’Elena, dove si trovava in esilio da sei anni. La notizia circola in Europa in ritardo: Manzoni ne viene a conoscenza il 17 luglio dalla «Gazzetta di Milano» e ne rimane profondamente turbato. Scriverà in seguito all’amico Cesare Cantù: «...La sua morte mi scosse, come al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale; fui preso da smania di parlarne, e dovetti buttar giù quest’ode, l’unica che, si può dire, improvvisassi in meno di tre giorni...». Composta l’ode, il poeta la sottopone immediatamente al controllo della censura, che non ne autorizza la pubblicazione; ciononostante il componimento inizia a circolare manoscritto e viene poi pubblicato nel 1823 fuori dei confini del Lombardo-Veneto, guadagnandosi un’immediata celebrità. L’ode è conosciuta anche all’estero, soprattutto grazie alla prestigiosa traduzione che ne fa in tedesco Goethe. L’interpretazione manzoniana della figura di Napoleone (che può essere collocata a fianco di tanti testi letterari ispirati dal grande personaggio) risente della notizia secondo cui egli negli ultimi tempi della vita si sarebbe avvicinato alla fede: la sua vicenda terrena assume così il carattere di una parabola morale, mostrandoci l’illustre sconfitto che, dal mare dolorosamente burrascoso dei ricordi, grazie alla fede approda infine ai «floridi sentier della speranza». Tutta l’ode è in realtà pervasa da uno spirito religioso, che ha indotto la critica a considerare Il cinque maggio un “inno sacro” più che un’ode civile, come ancora, per convenzione, viene catalogata: attraverso la figura del grande condottiero il pessimismo cristiano di Manzoni ricorda ai lettori l’effimera sorte della gloria terrena, «silenzio e tenebre» di fronte alla vita eterna. I cori delle tragedie Al filone civile-patriottico possono essere ascritti anche alcuni cori delle due tragedie, in particolare il coro del secondo atto del Conte di Carmagnola (➜ T4 ) e il coro del terzo atto dell’Adelchi (➜ T6 ). In entrambi i casi, momenti della passata storia d’Italia sono letti e interpretati con lo sguardo rivolto alla realtà presente, con la passione civile e patriottica di chi assiste ai primi, difficili passi che porteranno all’indipendenza e all’unità nazionale.

Poesia civile GENERE

TEMI

lirica civile • intreccio tra tema politico e dimensione umana e religiosa • ideali di patria e nazione • riflessione sulla gloria terrena

TESTI PIÙ RIUSCITI

Marzo 1821, scritta sull’onda dell’entusiasmo per i moti carbonari del 1821 e Il cinque maggio, dedicata alla figura di Napoleone, scomparso il 5 maggio 1821

STRUTTURA METRICA

Odi

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 431


Alessandro Manzoni

T2 A. Manzoni, Tutte le opere, vol. I, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1957

EDUCAZIONE CIVICA

Marzo 1821

nucleo Costituzione competenza 1

L’ondata di fervore patriottico che investe la poesia italiana fin dai primi decenni dell’Ottocento coinvolge anche Alessandro Manzoni. L’ode Marzo 1821 viene composta in occasione dei moti carbonari di quell’anno, quando i patrioti lombardi nutrono la vana speranza che Carlo Alberto di Savoia possa appoggiare l’insurrezione contro l’Austria. La rivolta invece fallirà miseramente con la sconfitta dei ribelli a Novara, l’8 aprile, per opera dell’esercito austriaco. È dunque una poesia scaturita da un evento preciso e composta sull’onda delle emozioni immediate; viene pubblicata però solo nel 1848 e si narra che Manzoni, per sfuggire ai controlli della polizia austriaca, ne abbia distrutto il manoscritto dopo aver imparato a memoria il testo. Stando alla testimonianza dello storico e letterato Cesare Cantù (18041895), l’ultima strofa sarebbe stata aggiunta proprio nel 1848, sull’onda emotiva suscitata dai fatti milanesi delle Cinque giornate. L’ode è preceduta da una dedica a Theodor Körner (1791-1813), un giovane soldato tedesco caduto a Lipsia mentre combatteva contro Napoleone in difesa dell’indipendenza della Germania: un particolare che rende ancora più marcato il carattere patriottico che Manzoni vuole dare a questo componimento.

ODE ALLA ILLUSTRE MEMORIA DI TEODORO KOERNER POETA E SOLDATO DELLA INDIPENDENZA GERMANICA MORTO SUL CAMPO DI LIPSIA IL GIORNO XVIII D’OTTOBRE MDCCCXIII NOME CARO A TUTTI I POPOLI CHE COMBATTONO PER DIFENDERE O PER RICONQUISTARE UNA PATRIA Soffermati sull’arida sponda, volti i guardi al varcato Ticino, tutti assorti nel novo destino, certi in cor dell’antica virtù, 5 han giurato1: Non fia che quest’onda scorra più tra due rive straniere2: non fia loco ove sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia, mai più! L’han giurato: altri forti a quel giuro 10 rispondean da fraterne contrade3, affilando nell’ombra le spade che or levate scintillano al sol.

La metrica Ottave di decasillabi con schema ABBCDEEC 1 han giurato: il soggetto sono i soldati dell’esercito piemontese. Manzoni immagina che i piemontesi abbiano già oltrepassato il Ticino, che segnava il confine tra Regno di Sardegna e Lombardo-Veneto, e se li figura mentre contemplano assorti il fiume (volti i guardi al varcato

432 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

Già le destre hanno stretto le destre; già le sacre parole son porte: 15 o compagni sul letto di morte, o fratelli su libero suol4. Chi potrà della gemina Dora, della Bormida al Tanaro sposa, del Ticino e dell’Orba selvosa 20 scerner l’onde confuse nel Po; chi stornargli del rapido Mella e dell’Oglio le miste correnti, chi ritogliergli i mille torrenti che la foce dell’Adda versò,

Ticino), consapevoli del significato storico di cui è carico il gesto appena compiuto. I versi che seguono rappresentano il giuramento che il loro sguardo esprime tacitamente («volti i guardi... tutti assorti»). 2 Non fia... rive straniere: non accada mai più che questo fiume scorra tra due sponde straniere. 3 altri forti... fraterne contrade: gli altri di cui parla Manzoni sono i patrioti di ogni

regione d’Italia, fraterne perché appartenenti a una medesima nazione; giuro significa “giuramento”. 4 Già le destre... libero suol: le mani si sono già strette nello scambio di un giuramento sacro: o moriremo insieme, o vivremo da fratelli in un solo paese, libero dalla dominazione straniera.


25 quello ancora una gente risorta potrà scindere in volghi spregiati, e a ritroso degli anni e dei fati, risospingerla ai prischi dolor5: una gente che libera tutta, 30 o fia serva tra l’Alpe ed il mare6; una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor7.

O stranieri! sui vostri stendardi 50 sta l’obbrobrio d’un giuro tradito18; un giudizio da voi proferito v’accompagna all’iniqua tenzon19; voi che a stormo gridaste in quei giorni20: Dio rigetta la forza straniera; 55 ogni gente sia libera, e pera della spada l’iniqua ragion21.

Con quel volto sfidato8 e dimesso, con quel guardo atterrato9 ed incerto, 35 con che stassi un mendico sofferto per mercede nel suolo stranier10, star doveva in sua terra il Lombardo11; l’altrui voglia12 era legge per lui; il suo fato, un segreto d’altrui13; 40 la sua parte, servire e tacer14.

Se la terra ove oppressi gemeste preme i corpi de’ vostri oppressori, se la faccia d’estranei signori 60 tanto amara vi parve in quei dì; chi v’ha detto che sterile, eterno saria il lutto dell’itale genti? Chi v’ha detto che ai nostri lamenti saria sordo quel Dio che v’udì22?

O stranieri, nel proprio retaggio torna Italia15, e il suo suolo riprende; o stranieri, strappate le tende da una terra che madre non v’è. 45 Non vedete che tutta si scote, dal Cenisio alla balza di Scilla16? Non sentite che infida17 vacilla sotto il peso de’ barbari piè?

65 Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia chiuse il rio che inseguiva Israele23, quel che in pugno alla maschia Giaele pose il maglio24, ed il colpo guidò; quel che è Padre di tutte le genti, 70 che non disse al Germano giammai25: va, raccogli ove arato non hai; spiega l’ugne26; l’Italia ti do.

5 Chi potrà... ai prischi dolor: è un lungo

11 star… Lombardo: il Lombardo doveva

periodo ipotetico (parte al v. 17) che si sviluppa nello spazio di una strofa e mezza ed è costruito su un paradosso. Intendi: solo chi fosse in grado di distinguere nelle acque mescolate del Po quelle dei suoi vari affluenti, della Dora Baltea e della Dora Riparia (gemina Dora), della Bormida che si unisce al Tanaro, del Ticino e dell’Orba che scorre fra i boschi (selvosa), solo chi (fosse in grado di) estrarne le correnti mescolate del rapido Mella e dell’Oglio e i mille torrenti riversativi attraverso l’Adda, potrebbe riuscire a dividere in popoli (volghi) senza dignità una nazione risorta e riportarla così agli antichi dolori. 6 una gente... il mare: un popolo che, dalle Alpi fino al mare, sarà tutto quanto o libero o servo. 7 una d’arme… e di cor: (una gente) unita per avere in comune la difesa, la lingua, la religione, le memorie storiche, la stirpe e il sentire. 8 sfidato: sfiduciato. 9 atterrato: sempre rivolto a terra, umiliato. 10 con che stassi... suolo stranier: con cui sta un mendicante che in terra straniera viene sopportato per compassione.

stare sulla sua terra. 12 l’altrui voglia: la volontà di altri (degli austriaci). 13 il suo fato, un segreto d’altrui: il suo destino era un segreto conosciuto solo da altri (dagli austriaci). 14 la sua parte... tacer: ciò che gli spettava (la sua parte) era soltanto servire e tacere. 15 nel proprio retaggio torna Italia: l’Italia riconquista i propri diritti. 1 6 dal Cenisio alla balza di Scilla: dal Moncenisio allo scoglio di Scilla, a indicare gli estremi settentrionale e meridionale del territorio italiano. 17 infida: insicura, ossia non più certa terra di conquista, perché non più disposta a rimanere sottomessa allo straniero (il peso de’ barbari piè). 18 sui vostri... tradito: sulle vostre bandiere si legge la vergogna (obbrobrio) di un giuramento non mantenuto. Manzoni si riferisce alla promessa di libertà che era stata fatta dalle potenze che solo pochi anni prima si erano coalizzate contro Napoleone. Ora invece l’Austria ha preso il posto dell’imperatore francese nell’opprimere l’Italia. 19 iniqua tenzon: la guerra contro l’Italia, ingiusta perché condotta con il fine di

opprimere un popolo.

20 in quei giorni: nei giorni delle lotte contro Napoleone, quando le potenze a lui avverse lanciavano fitti richiami ai popoli assoggettati alla Francia, perché si ribellassero e riconquistassero la libertà, voluta da Dio. 21 pera… ragion: muoia, finisca il diritto basato sulla forza. 22 Chi v’ha detto... che v’udì: chi vi ha detto che dovrebbe essere sordo ai dolori degli italiani quel Dio che invece ascoltò i vostri. Anche qui va sottolineata la contrapposizione. 23 quel Dio… Israele: quel Dio che richiuse nel Mar Rosso (onda vermiglia) il malvagio (rio) che inseguiva gli ebrei (Israele, per metonimia). Il riferimento è all’episodio biblico. 24 quel che... il maglio: quel Dio che mise in mano all’eroina Giaele (maschia Giaele) il maglio (grosso martello a due teste). Giaele uccise Sisara, generale dei Cananei, in guerra contro il popolo d’Israele. 25 quel che è... giammai: quel Dio che è padre per tutti i popoli e che non disse mai al popolo germanico. 26 spiega l’ugne: «... allunga le mani rapaci (l’ugne, le unghie)» (Guglielmino).

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 433


Cara Italia! dovunque il dolente grido uscì del tuo lungo servaggio27; 75 dove ancor dell’umano lignaggio, ogni speme deserta non è28; dove già libertade è fiorita, dove ancor nel segreto matura, dove ha lacrime un’alta sventura, 80 non c’è cor che non batta per te.

Oggi, o forti, sui volti baleni 90 il furor delle menti segrete33: per l’Italia si pugna, vincete! Il suo fato sui brandi vi sta34. O risorta per voi35 la vedremo al convito de’ popoli assisa36, 95 o più serva, più vil, più derisa, sotto l’orrida verga37 starà.

Quante volte sull’Alpe spiasti l’apparir d’un amico stendardo29! Quante volte intendesti lo sguardo ne’ deserti del duplice mar30! 85 Ecco alfin dal tuo seno sboccati31, stretti intorno a’ tuoi santi colori, forti, armati de’ propri dolori, i tuoi figli son sorti a pugnar32.

Oh giornate del nostro riscatto! Oh dolente per sempre colui che da lunge, dal labbro d’altrui38, 100 come un uomo straniero, le udrà! Che a’ suoi figli narrandole un giorno, dovrà dir sospirando: io non c’era39; che la santa vittrice40 bandiera salutata quel dì non avrà.

27 servaggio: stato di schiavitù. 28 dove ancor... non è: dove ancora non è stata abbandonata ogni speranza (speme) di dignità umana. 29 Quante volte... stendardo: quante volte hai spiato oltre le Alpi, sperando di avvistare le bandiere di un popolo alleato che veniva in tuo soccorso. 30 Quante volte... duplice mar: quante volte hai rivolto lo sguardo verso il mar Tirreno e l’Adriatico, sperando in un aiuto

che non arrivava (e che per questo vedevi deserti, vuoti). 31 dal tuo seno sboccati: sorti dall’Italia stessa. 32 pugnar: combattere. 33 sui volti... segrete: oggi lampeggi (baleni) sui volti tutta la rabbia contro l’oppressione, coltivata a lungo nel segreto delle menti. 34 Il suo fato… vi sta: il suo destino dipende dalle vostre spade.

35 per voi: grazie a voi, per opera vostra. 36 al convito de’ popoli assisa: ammessa fra le altre nazioni d’Europa. 37 l’orrida verga: lo scettro terribile dell’oppressore. 38 da lunge… altrui: da lontano, sentendolo raccontare da qualcun altro (letteralmente: “dalle labbra di un altro”). Il che a inizio verso è retto da Oh dolente… colui, come pure quello al v. 101 e al v. 103. 39 io non c’era: io non c’ero. 40 vittrice: vincitrice.

Analisi del testo Un immaginario che unisce futuro e passato per parlare del presente L’ode si apre con una scena immaginaria, non ancora avvenuta nella realtà: le truppe piemontesi hanno già varcato il confine tra Regno di Sardegna e Lombardo-Veneto (rappresentato dal fiume Ticino) e meditano sul futuro glorioso che attende la loro lotta: voltandosi a contemplare il fiume, giurano di far sì che quelle acque non scorrano mai più tra terre straniere e che mai più vi siano barriere interne sul suolo italiano. Manzoni prosegue poi ricordando gli altri forti che da ogni parte d’Italia hanno risposto al richiamo della patria, affilando in segreto (nell’ombra) quelle spade che ora non esitano a sguainare. Nella finzione poetica di Manzoni, insomma, il desiderio dei patrioti viene tradotto in un fatto storico certo: l’impresa dei piemontesi infatti è descritta come se fosse già accaduta e la sua certezza viene ribadita dal lungo adynaton che occupa la terza e la quarta ottava («Chi potrà della gemina Dora... / di sangue e di cor»). Nelle ottave successive (e per tutto il componimento) il poeta ribadisce ancora la solida certezza che per l’Italia è finalmente arrivato il momento del riscatto; lo fa ricorrendo a più riprese a immagini e memorie del passato, un passato anche doloroso, ma che ha sempre visto vivo e fervido il sentimento di patria degli italiani e il loro desiderio di libertà. Nella terzultima ottava, Manzoni ricorda quante volte gli italiani hanno scrutato ansiosamente al di là delle Alpi, oppure oltre la distesa del mare, nella vana speranza di un aiuto che arrivasse a sostenere la loro lotta per l’indipendenza. Questa situazione richiama lo sguardo assorto dei soldati piemontesi che, nei primi versi dell’ode, il poeta immagina scrutare le acque del Ticino. Come a dire che finalmente l’Italia ha trovato in sé la forza di reagire e di portare avanti la propria lotta, del cui esito felice Manzoni si mostra sicuro.

434 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Un patriottismo di stampo religioso Secondo Manzoni, la guerra per liberare il suolo patrio ha una giustificazione di carattere religioso, perché l’autodeterminazione dei popoli è voluta da Dio: un Dio a cui spesso si fa riferimento nel corso dell’ode, come protettore di chiunque sia oppresso dallo straniero. L’ode non vuole, quindi, essere un incitamento alla rivoluzione, cosa quanto mai lontana dall’indole e dall’ideologia manzoniana: piuttosto, rivolgendosi in primo luogo ai cattolici, Manzoni intende richiamarli a un’idea di Cristianesimo come religione fondata sul rispetto, sulla fraternità e sulla giustizia e quindi anche nemica di qualsiasi sopruso. In quest’ottica si inserisce anche la dedica al poeta tedesco Theodor Körner, caduto combattendo contro Napoleone e dunque in nome di quella stessa libertà per cui ora si battono i patrioti italiani. C’è stato un tempo, sembra voler dire Manzoni, in cui tedeschi e italiani hanno lottato per la stessa causa, fratelli uniti contro l’oppressione.

Un esempio canonico di poesia patriottica Con la sua metrica martellante (il decasillabo è un verso che si distingue per l’andamento molto ritmato e incalzante, quasi da marcia militare) e l’irruenza oratoria, che sembra quasi voler travolgere il lettore, Marzo 1821 costituisce un esempio tipico di quella che sarà la poesia patriottica italiana nel corso del Risorgimento. Appartiene allo stile tipico della retorica risorgimentale anche il lessico aulico e solenne (giuro, prischi, tenzon, pèra, speme, brandi…), con molte metafore tratte dalla Bibbia. Anche le ripetute apostrofi agli stranieri, all’Italia e ai patrioti, seguite da punti esclamativi o interrogazioni retoriche, hanno la funzione, da un lato, di scuotere gli italiani e incitarli all’azione; dall’altro di aprire gli occhi degli invasori stranieri, colpevoli di calpestare i diritti dei popoli nel momento stesso in cui lottano per difendere i propri.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il contenuto dell’ode, seguendone gli snodi principali. PARAFRASI 2. Fai la parafrasi della prima strofa del componimento, esplicitando il soggetto di «Soffermati sull’arida sponda» (v. 1). COMPRENSIONE 3. Spiega con parole tue il senso della dedica dell’ode. 4. A chi è diretto il rammarico che Manzoni esprime nell’ultima strofa? LESSICO 5. Spiega il significato dei seguenti termini (già annotati) con un sinonimo o con un’espressione equivalente e anche con una frase esemplificativa: giuro (v. 9); gemina (v. 17); prischi (v. 28); sfidato (v. 33); mercede (v. 36); servaggio (v. 74); baleni (v. 89); brandi (v. 92); vittrice (v. 103). STILE 6. Rintraccia le domande retoriche presenti nel testo e individua a chi sono dirette. 7. Spiega in che modo Manzoni ha conferito al testo una struttura circolare.

Interpretare

SCRITTURA 8. Quali sono gli elementi e le tematiche che inseriscono quest’ode nel filone romanticorisorgimentale e che, nello stesso tempo, ne fanno un’opera “manzoniana”? (max 10 righe) TESTI A CONFRONTO 9. Leggi l’Inno di Mameli, altro esempio di poesia patriottica (➜ C7, D2 ): facendo un parallelo, quali strumenti retorici e quali stilemi lessicali e linguistici comuni ai due componimenti ti sembra di ravvisare? Costruisci uno schema che metta a confronto la struttura dei due testi, mettendo in luce le analogie e le eventuali differenze nel tipo di linguaggio, nel registro retorico adottato, nel tipo di immaginario a cui i due autori fanno riferimento (nota, ad esempio, l’uso del passato classico che viene fatto nei due testi). SCRITTURA ARGOMENTATIVA

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

10. Credi che l’ode di Manzoni possa rappresentare uno strumento utile per approfondire il concetto di “patria”? O ritieni, al contrario, che lo scrittore esprima delle riflessioni ormai superate?

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Alessandro Manzoni

T3 A. Manzoni, Tutte le opere, vol. I, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Mondadori, Milano 1957

AUDIOLETTURA

LEGGERE LE EMOZIONI

Il cinque maggio

Raggiunto dall’inaspettata notizia della morte di Napoleone esule a Sant’Elena, Manzoni scrive di getto la celebre ode dedicata alla figura del grande personaggio. Il poeta si astiene dal formulare su di lui un giudizio storico-politico per focalizzarne in particolare il dramma umano: scomparso dallo scenario della storia di cui era stato protagonista, Napoleone vive la definitiva sconfitta, la solitudine, la disperazione. Ma proprio allora, nella reinterpretazione cristiana della sua vicenda umana sviluppata da Manzoni, si verifica l’intervento salvifico della fede, alla lode della quale sono dedicati gli ultimi versi dell’ode.

Ei fu1. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, 5 così percossa, attonita la terra al nunzio sta2, muta3 pensando all’ultima ora dell’uom fatale4; né sa quando una simile 10 orma di pie’ mortale la sua cruenta polvere a calpestar verrà5. Lui folgorante in solio vide il mio genio6 e tacque; 15 quando, con vece assidua7,

La metrica Sestine composte da settenari, di cui il primo, il terzo e il quinto sono sdruccioli; il secondo e il quarto piani; il sesto tronco e in rima con il sesto della strofa successiva 1 Ei fu: il celeberrimo esordio dell’ode manzoniana vuole rendere con immediatezza fulminea la drammatica realtà della morte dell’eroe, che era e adesso non è più. Ecco dunque l’uso del passato remoto, efficace anche per esprimere l’effetto di sgomento che la notizia ha avuto sull’autore e su tutto il mondo a lui contemporaneo. 2 Siccome… sta: come i resti mortali ormai privi di memoria (spoglia immemore), una volta esalato l’ultimo respiro, rimasero immobili, privati di un tale spirito (orba di tanto spiro). Il Siccome iniziale serve a introdurre il parallelo tra la salma di Napoleone e il mondo, la terra (collegata al così del v. 5) rimasta agghiacciata per lo stupore alla notizia (al nunzio) della sua morte. 3 muta: predicativo del soggetto riferito a terra.

436 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

cadde, risorse e giacque8, di mille voci al sònito mista la sua non ha9: vergin di servo encomio 20 e di codardo oltraggio10, sorge or commosso al sùbito11 sparir di tanto raggio12; e scioglie all’urna un cantico che forse non morrà13. Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai14, 30 dall’uno all’altro mar. 25

4 uom fatale: uomo del destino, perché con le sue gesta ha segnato le sorti dell’Europa intera. 5 né… verrà: e non sa quando un’altra impronta d’uomo paragonabile alla sua verrà a calpestare la sua stessa polvere, intrisa del sangue delle battaglie combattute. 6 Lui… il mio genio: la mia facoltà poetica lo vide quando rifulgeva sul trono (in solio: metafora per indicare il momento di massima gloria di Napoleone, mai citato esplicitamente). 7 con vece assidua: in un continuo susseguirsi di alterne vicende. 8 cadde, risorse e giacque: il riferimento è all’esilio sull’isola d’Elba (aprile 1814 marzo 1815), seguito dal ritorno al potere, poi dalla sconfitta a Waterloo (18 giugno 1815) e infine dall’esilio definitivo a Sant’Elena (dal 16 ottobre dello stesso anno). 9 di mille… non ha: non ha mescolato la propria voce al suono (sònito) di mille altre. 10 vergin... oltraggio: senza essersi mai macchiato (vergin, riferito al genio della strofa precedente) di una lode servile, né di un attacco vigliacco (codardo perché giun-

to quando ormai l’eroe era al suo declino).

11 sùbito: improvviso. 12 di tanto raggio: di una luce così intensa e sublime; metafora per indicare Napoleone. 13 scioglie… non morrà: dedica all’urna funebre un componimento che forse sopravviverà al momento storico. 14 Dall’Alpi… al Tanai: vengono indicati in rapida successione nomi geografici che alludono agli straordinari successi riportati da Napoleone: le Alpi delle campagne d’Italia (1796 e 1800) e le piramidi della spedizione in Egitto; il Manzanarre è il fiume di Madrid (campagna di Spagna 1808-09), mentre il Reno rappresenta la Germania; Scilla, sullo stretto di Messina, indica la punta estrema d’Italia, mentre Tanai (forma classica per designare il fiume russo Don) rimanda alla campagna di Russia. L’espressione «di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno» significa “le azioni fulminee di quell’uomo sicuro di sé seguivano immediatamente il suo apparire (sottinteso: come il fulmine segue l’apparire del lampo)”.


Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza: nui15 chiniam la fronte al Massimo Fattor16, che volle in lui 35 del creator suo spirito più vasta orma stampar17.

E sparve29, e i dì nell’ozio chiuse in sì breve sponda30, segno31 d’immensa invidia e di pietà profonda, d’inestinguibil odio 60 e d’indomato amor.

La procellosa e trepida gioia d’un gran disegno18, l’ansia d’un cor che indocile 40 serve, pensando al regno19; e il giunge20, e tiene21 un premio ch’era follia sperar;

Come sul capo al naufrago l’onda s’avvolve e pesa32, l’onda su cui del misero, alta pur dianzi e tesa, 65 scorrea la vista a scernere prode remote invan33;

tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio22, 45 la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio;si astiene due volte nella polvere, due volte sull’altar23.

tal su quell’alma il cumulo delle memorie scese34. Oh quante volte ai posteri 70 narrar se stesso imprese35, e sull’eterne pagine cadde la stanca man!

Ei si nomò24: due secoli25, 50 l’un contro l’altro armato, sommessi26 a lui si volsero, come aspettando il fato; ei fe’ silenzio27, ed arbitro s’assise28 in mezzo a lor.

Oh quante volte, al tacito morir d’un giorno inerte36, 75 chinati i rai fulminei37, le braccia al sen conserte, stette38, e dei dì che furono l’assalse il sovvenir39!

15 nui: noi. 16 al Massimo Fattor: al creatore supremo, a Dio. 17 che volle… stampar: che volle imprimere in lui un segno più evidente del suo spirito creatore. 18 La procellosa… disegno: la gioia tormentata e trepidante d’un grande progetto. 19 l’ansia… al regno: l’ansia di un cuore che obbedisce senza tuttavia venire domato, con la mente rivolta alla conquista del potere regale. 20 il giunge: l’ottiene. 21 tiene: coglie. 22 la gloria… periglio: la gloria ancora più grande dopo il pericolo. 23 due volte… sull’altar: due volte sconfitto (a Lipsia nel 1813 e a Waterloo nel 1815), due volte portato in trionfo (incoronato nel 1804 imperatore e dopo l’Elba il ritorno dei cento giorni); cfr. nota 8.

55

24 Ei si nomò: egli pronunciò il proprio nome (e lo impose all’attenzione del suo tempo, cioè raggiunse la fama). 25 due secoli: il Settecento e l’Ottocento, descritti in armi l’uno contro l’altro per indicare il passaggio epocale vissuto proprio negli anni segnati dall’astro di Napoleone. Sette e Ottocento sono, rispettivamente, il secolo della rivoluzione e quello della Restaurazione: Napoleone funge da arbitro tra i due. 26 sommessi: sottomessi e ridotti al silenzio (dall’autorità di Napoleone). 27 ei fe’ silenzio: egli impose il silenzio. 28 s’assise: si sedette, si impose. 29 E sparve: eppure scomparve. 30 i dì… sponda: concluse i propri giorni nell’inattività, prigioniero di un orizzonte così ristretto; il riferimento è all’esilio sulla minuscola isola di Sant’Elena (al largo dell’Angola, nell’oceano Atlantico). 31 segno: oggetto, bersaglio.

32 Come… pesa: come l’onda si avvolge richiudendosi con tutto il suo peso sul capo del naufrago. 33 l’onda… invan: quella stessa onda sulla quale solo un momento prima lo sguardo alto e proteso dell’infelice scorreva per cercare invano di scorgere in lontananza un approdo. 34 tal su quell’alma… scese: così (in correlazione con il Come del v. 61) su quell’anima (di Napoleone) si riversò il cumulo dei ricordi. 35 Oh quante volte… imprese: oh, quante volte si accinse (imprese) a narrare la propria vita ai posteri. 36 al tacito… inerte: al sopraggiungere silenzioso del tramonto di una giornata trascorsa nell’inattività (inerte). 37 i rai fulminei: gli occhi fulminanti. 38 stette: rimase immobile. 39 dei dì… il sovvenir: l’assalì il ricordo dei giorni passati.

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E ripensò le mobili 80 tende, e i percossi valli40, e il lampo de’ manipoli41, e l’onda dei cavalli42, e il concitato imperio e il celere ubbidir43. Ahi! forse a tanto strazio cadde lo spirto anelo44, e disperò45; ma valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere 90 pietosa il trasportò46; 85

e l’avvïò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio 40 i percossi valli: le trincee battute dalla battaglia. 41 il lampo de’ manipoli: il veloce movimento delle schiere. 42 l’onda dei cavalli: l’ondata delle cariche di cavalleria. 43 il concitato… ubbidir: il concitato succedersi degli ordini, cui seguiva un rapido obbedire. 44 forse… anelo: forse l’anima affranta (letteralmente: ansante) cedette dinanzi a un dolore così grande. 45 disperò: perse ogni speranza. 46 ma valida… il trasportò: ma dal cielo

che i desideri avanza, 95 dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò47. Bella Immortal48! Benefica Fede ai trïonfi avvezza49! Scrivi ancor questo, allegrati50; 100 ché più superba altezza al disonor del Gòlgota giammai non si chinò51. Tu52 dalle stanche ceneri sperdi ogni ria parola53: 105 il Dio che atterra e suscita54, che affanna e che consola, sulla deserta coltrice55 accanto a lui posò56.

venne una mano forte che pietosamente lo trasportò in un’atmosfera rarefatta, più respirabile. Manzoni sembra accogliere le voci che circolavano riguardo a una presunta conversione di Napoleone negli ultimi periodi della sua esistenza. 47 l’avvïò… che passò: lo guidò verso le vie piene di vita della speranza, verso quel premio che supera ogni desiderio, dove l’effimera gloria terrena non è altro che silenzio e tenebre. 48 Bella Immortal: epiteti riferiti alla Fede nominata nel verso successivo. 49 ai trïonfi avvezza: abituata a trionfare

(sottinteso: sull’animo dell’uomo).

50 Scrivi… allegrati: registra tra gli altri anche questo trionfo, e rallégrati. 51 ché… non si chinò: che nessuna fronte più superba di questa si è mai chinata dinanzi al segno della croce (disonor del Gòlgota). 52 Tu: si riferisce ancora alla Fede. 53 dalle stanche... parola: allontana dalle spoglie affaticate ogni parola di rancore. 54 atterra e suscita: abbatte e solleva. 55 sulla deserta coltrice: sul letto di morte, in cui era solo (abbandonato da tutti). 56 posò: si sedette, si fermò.

Analisi del testo La struttura Le quattro strofe iniziali hanno una funzione introduttiva. L’ode si apre descrivendo gli effetti che la notizia della morte di Napoleone (mai nominato apertamente) ha avuto prima sul mondo contemporaneo (vv. 1-12), poi sul poeta (vv. 13-24). Manzoni scioglie il riserbo sempre mantenuto su un personaggio tanto controverso e, dopo la morte, gli dedica un’ode il cui significato potrà forse trascendere la mera contingenza storica («che forse non morrà»). Segue una lunga sezione centrale, che a sua volta si può suddividere in due parti. La prima (vv. 25-60) ricostruisce, commentandola, l’eccezionalità delle imprese compiute da Napoleone; la seconda (vv. 61-84) sposta il punto di vista su Napoleone stesso dopo la sua sparizione dalla scena politica («E sparve», v. 55), rappresentandolo nello straziante momento in cui ricorda le glorie ormai passate. Infine, le ultime quattro sestine innalzano il discorso sul piano religioso con la celebrazione della potenza salvifica della fede, dalla quale pare che anche il grande condottiero francese sia stato toccato nell’ultimo periodo della sua vita.

Una parabola morale Rinunciando a esprimere un giudizio storico («Ai posteri / l’ardua sentenza», vv. 31-32), l’ode acquista invece il valore di una vera e propria parabola morale: l’avventura umana di Napoleone che, dopo essersi posto come arbitro tra «due secoli, / l’un contro l’altro armato» (vv.

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49-50), sparisce per sempre dal palcoscenico della storia («e i dì nell’ozio / chiuse in sì breve sponda», vv- 55-56), diventa l’occasione per una riflessione sulla condizione umana, che è soggetta alle alterne vicende del destino e solo nella stabilità della fede può trovare conforto. Se anche l’uomo più potente è destinato inesorabilmente a soccombere, esiste un Dio (terribile ma anche misericordioso, «che atterra e suscita, / che affanna e che consola», vv. 105106) che può scegliere di dispensare il proprio spirito salvifico sull’anima affranta dell’uomo sconfitto dalla vita. Come notò anche Stendhal, nell’ode si riconoscono i toni solenni dell’oratoria funebre del Seicento francese, in particolare di Bossuet.

Una lettura della biografia di Napoleone La sezione centrale dell’ode (vv. 25-84) è dedicata a una serrata rievocazione della straordinaria biografia di Napoleone. Nella prima parte (vv. 25-54) i versi si snodano in frasi veloci ed ellittiche, allineando le immagini l’una dopo l’altra, in una rapida successione mirata a rendere il successo fulmineo dell’uomo che segna il destino dell’Europa. La seconda parte (vv. 55-84) vede Napoleone a Sant’Elena, ormai fuori dall’azione e dalla storia. Il ritmo della versificazione si distende e al frenetico rincorrersi di immagini sempre nuove si sostituisce un’unica, ampia similitudine, che nel movimento avvolgente e incontrastabile dell’onda, dipinta nell’attimo in cui sta per richiudersi sul capo del naufrago, vuole rappresentare l’insostenibile carico delle memorie passate che si rovescia addosso all’eroe, sconfitto per sempre. Alla sintassi rapida e sincopata dei versi precedenti subentra qui un fraseggio più fluido e disteso. Ricorrendo a una moderna terminologia cinematografica, potremo quasi definirlo un ralenti, introdotto dalla repentina battuta d’arresto del v. 55: «E sparve», che in sole tre sillabe, con una rapidità fulminea che ancora una volta potremmo associare a certe tecniche del montaggio cinematografico, cancella il frenetico vortice di immagini con cui ci è stata presentata la vita di Napoleone nei versi precedenti.

Il trionfo della fede Il cinque maggio si inserisce nella tradizione del “trionfo” codificato da Petrarca; vale a dire un componimento inteso a celebrare un principio o un ideale in tutta la sua gloria, che in questo caso si identifica con la fede. Secondo i toni del trionfo, nelle ultime quattro sestine l’ode celebra la Fede, che scende valida dal cielo per sorreggere Napoleone nel momento dello sconforto e condurlo verso quel premio «che i desideri avanza», premio ben più alto e duraturo dell’altro, quello «ch’era follia sperar» e che il «cuore indocile» dell’uomo era riuscito a ottenere con le sue sole forze attraverso una vita di imprese eccezionali: successi da ascriversi al mondo incerto ed effimero della «gloria che passò». Come vedremo anche per la protagonista femminile dell’Adelchi, Ermengarda (per quanto i due personaggi si trovino a interpretare ruoli assai diversi sulla scena della storia), per Napoleone la sconfitta, la caduta, la dolorosa condizione di emarginato, coincide con la «provida sventura» grazie alla quale il condottiero può infine avvicinarsi alla salvezza, avviandosi per i «floridi / sentier della speranza».

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Sintetizza il tema dell’ode. PARAFRASI 2. Dopo aver fatto la parafrasi dei vv. 13-24, spiega in che modo il poeta definisce il proprio atteggiamento verso Napoleone. COMPRENSIONE 3. Perché Manzoni decide di scrivere l’ode? Rispondi sulla base della domanda precedente. ANALISI 4. Rintraccia i versi che ricostruiscono il progressivo ampliarsi del potere e del ruolo pubblico di Napoleone: ritrovi delle analogie sintattiche con la parte che precede, dedicata alle vittorie militari? 5. Cerca di rintracciare nell’ode i momenti di eccezionale tensione storica e collettiva.

Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 2 439


LESSICO 6. In più punti dell’ode la figura di Napoleone viene associata a fenomeni atmosferici. Individua nel testo queste espressioni e cerca di spiegare la ragione della scelta manzoniana, nell’ottica della costruzione del personaggio di Napoleone. 7. Al momento dell’azione si contrappone nell’ode il momento del ricordo, anche attraverso un sensibile mutamento del ritmo narrativo, che dalla rapidità frenetica dei versi dedicati alle imprese napoleoniche passa ai toni più lenti e distesi dei giorni della memoria. Ti sembra che un’analoga antitesi si possa individuare anche dal punto di vista lessicale? Individua i vocaboli utilizzati per descrivere i diversi momenti dell’esistenza di Napoleone: inseriscili in una tabella, in cui a ogni evento storico fai corrispondere l’espressione usata.

Interpretare

LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 8. Al v. 31 Manzoni formula una domanda: «Fu vera gloria?» Ti sembra che alla fine dell’ode venga data implicitamente una risposta a questa domanda? Motiva la tua risposta in un testo di circa 10 righe. TESTI A CONFRONTO 9. L’ode, nell’ultima parte, mette in scena il trionfo della Fede. Quanto conta nella tua vita e in quella dei tuoi coetanei il sentimento religioso? Ritieni che le riflessioni di Manzoni siano lontane dalla tua sensibilità di ragazzo di oggi?

online

Verso il novecento Marguerite Yourcenar Un imperatore di fronte alla morte: Adriano

Charles de Steuben, La morte di Napoleone, olio su tela, 1828 (Palazzo di Arenenberg, Museo napoleonico).

440 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


3

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi dibattito sul paradigma classico e i caratteri della tragedia 1 Ilmanzoniana

VIDEOLEZIONE

La questione delle unità aristoteliche Nel clima romantico dei primi decenni dell’Ottocento, in Italia è molto vivo il dibattito sulla forma che il teatro dovrebbe assumere nel contesto della modernità. In particolare, si discute sul valore delle cosiddette unità aristoteliche, riferite alle modalità di svolgimento dell’azione teatrale. La rigida normativa codificata nel Cinquecento stabilisce che i fatti rappresentati dalla tragedia debbano concludersi nell’arco delle ventiquattro ore di una giornata (unità di tempo), senza cambi di scena importanti (unità di luogo); inoltre, per non incrinare la chiarezza della narrazione, nessuna azione secondaria deve intrecciarsi con la principale (unità di azione). Al rispetto delle unità si erano adeguati Corneille e Racine, grandi autori del teatro francese del Seicento; in Italia, in anni più recenti, anche Alfieri aveva accolto questa consuetudine. Al contrario, in Inghilterra Shakespeare aveva sviluppato le proprie tragedie su un arco temporale ben più ampio di quello di una giornata, facendo muovere i personaggi in più di un luogo e mescolando all’azione principale svariate azioni secondarie. Inoltre Shakespeare accostava arditamente generi diversi in una medesima opera, inserendo, ad esempio, scene dal sapore comico in azioni drammatiche di stampo tragico. Proprio all’esempio di Shakespeare si ispirano, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, i romantici tedeschi – Goethe e soprattutto Wilhelm Schlegel (nel Corso di letteratura drammatica, 1809) – per negare la validità assoluta delle unità di tempo e di luogo nella tragedia e per rivendicare la libertà del genio artistico su ogni imposizione. La posizione di Manzoni Anche Manzoni, con la stesura delle sue due tragedie, Il conte di Carmagnola (1816-1819) e Adelchi (1820-1822), prende parte a questo importante dibattito. Al pari dei colleghi tedeschi, egli rifiuta in particolare le unità aristoteliche di tempo e di luogo, mentre accetta sostanzialmente l’unità d’azione, intesa però come attenta concatenazione tra eventi; ma più che della libertà del genio inventivo, che tanto sta a cuore ai drammaturghi tedeschi, Manzoni mostra di preoccuparsi del rispetto del vero storico, fulcro della sua poetica, che non può conciliarsi con una griglia rigida come quella imposta dal modello di tragedia classico. Tale posizione viene espressa dallo scrittore nella Prefazione a Il conte di Carmagnola (1820) e poi, come già detto, nella Lettre à Monsieur Chauvet, stampata a Parigi nel 1823 ma scritta tre anni prima, contestualmente alla pubblicazione del Carmagnola, come risposta alla recensione della tragedia manzoniana pubblicata dal critico Jean-Jacques-Victor Chauvet sul «Lycée Français». In un passo importante della lettera, Manzoni chiama in causa proprio il “contromodello” di Shakespeare, analizzando la sua tragedia Riccardo II. Se il grande dramLa produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 441


maturgo inglese avesse voluto rispettare le unità aristoteliche, sostiene Manzoni, sarebbe stato costretto a trascurare alcuni tra i particolari più interessanti per lo sviluppo del dramma interiore messo in scena. Ma non è invece proprio questo il compito della poesia, che nel dramma storico si trova fianco a fianco con la storia, nella rappresentazione della Verità nel modo più fedele possibile? La tragedia manzoniana: verosimile rappresentazione storica… Manzoni distingue con molta chiarezza tra un’invenzione fine a sé stessa, concepita come puro piacere creativo, e un’invenzione che invece si muove entro i confini stabiliti dal vero storico, del quale essa vuole indagare i motivi più nascosti, le prospettive ambigue e impreviste, le zone d’ombra. Al poeta e alla sua facoltà creatrice, guidata dal senso del verosimile, spetta il compito di dare una forma artistica adeguata e credibile all’intimo sentimento dei protagonisti della Storia, la quale è invece pura cronaca dei fatti esteriori. Questo programma (che Manzoni attuerà poi anche nei Promessi sposi) è prima di tutto applicato nelle tragedie, entrambe di soggetto storico e fondate su una rigorosa documentazione sull’epoca a cui fanno riferimento i fatti narrati. ...e veicolo di riflessione morale Oltre che sul rispetto del vero storico, Manzoni imposta le tragedie anche su una precisa finalità morale. Egli non si propone di innescare nel pubblico un processo di identificazione, di stimolare una partecipazione emotiva: al contrario, vuole sollecitare e acuire le capacità critiche del lettore o dello spettatore, suscitando quella facoltà di riflessione che rende l’uomo capace di distinguere tra il bene e il male. In questo modo l’azione drammatica viene proiettata su un più ampio orizzonte morale e acquista carattere di universalità. I protagonisti del Carmagnola e di Adelchi, attraverso le vicende storiche che li riguardano, si fanno così paradigmi umani di una parabola esistenziale che invita il pubblico a meditare sui grandi temi posti all’uomo dalla storia: la lotta tra il bene e il male, le dinamiche del potere, il senso del dolore, la sopraffazione che domina la rete di rapporti su cui si fonda la società, la voce sempre negata ai vinti. I materiali storici subiscono insomma un processo che da puro documento li trasforma in specchio della condizione umana in senso più vasto, in modo analogo a ciò che accade al personaggio di Napoleone nell’ode Il cinque maggio (➜ T3 ). Il coro, «cantuccio» del poeta Nella tragedia classica il coro era utilizzato dal drammaturgo come spazio lirico che dava voce a una sorta di «spettatore ideale» (come lo definisce Schlegel, citato nella Prefazione al Carmagnola), chiamato a commentare i fatti che si svolgevano sulla scena, spesso dialogando con i personaggi e (sempre con le parole di Schlegel) utilizzato per temperare «l’impressioni violente e dolorose d’un’azione qualche volta troppo vicine al vero». Anche Manzoni nelle sue tragedie utilizza questa risorsa drammaturgica, ma ne cambia radicalmente la funzione e il significato. Permane l’idea di diluire momentaneamente la tensione drammatica in un tono più poetico (Manzoni parla per i cori di «squarci lirici»), ma il coro è soprattutto uno spazio che l’autore si riserva all’interno dell’opera per dare voce alla propria riflessione rispetto a temi morali che sono connessi alla vicenda rappresentata, sebbene non strettamente legati alla sua trama (Manzoni infatti propone addirittura che i cori delle sue tragedie siano destinati non alla recitazione ma a una lettura a parte). L’autore così può prendere la parola ed esprimere una posizione personale, senza intaccare pensieri e discorsi dei personaggi in scena: «riserbando al poeta un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria» dice Manzoni «gli diminuiranno

442 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli autori drammatici». I cori delle due tragedie (➜ T4 , ➜ T6 e ➜ T7 ) rivelano con chiarezza questa funzione e risultano così di fondamentale importanza per delineare problematiche etico-politiche e religiose che stanno particolarmente a cuore all’autore.

2 Il conte di Carmagnola

Francesco Hayez, Studio per la testa del Carmagnola, olio su tela, 1821 (Milano, collezione privata).

La composizione e il contesto storico Manzoni lavora alla sua prima tragedia dal 1816 al 1819, interrompendosi più volte per dedicarsi alla composizione delle Osservazioni sulla morale cattolica e della Pentecoste; pubblicata a Milano nel gennaio 1820, l’opera Il conte di Carmagnola viene rappresentata a teatro nel 1828, ma senza gran successo di pubblico. Protagonista della tragedia è Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola (1380-1432), un capitano di ventura realmente vissuto nella prima metà del Quattrocento, la cui vicenda viene esposta e spiegata da Manzoni in una notizia storica che precede il testo. Inizialmente al servizio di Filippo Visconti, duca di Milano, il Carmagnola passa dalla parte di Venezia e, alla testa dell’esercito di San Marco, nella battaglia di Maclodio (1427) sconfigge le forze del precedente signore. Adeguandosi a quella che è una consuetudine di cortesia militaresca, il condottiero mette in libertà tutti i prigionieri catturati sul campo di battaglia. Tanta clemenza muove a sospetto il Senato veneziano, che accusa il Carmagnola di essere in combutta con i Milanesi per tramare contro gli interessi della Serenissima. I poco soddisfacenti sviluppi della guerra non fanno che confermare questo dubbio: un amico del conte, Marco, membro del Consiglio dei Dieci, fa un tentativo per salvarlo ma alla fine è costretto a piegarsi dinanzi alla ragion di stato. Richiamato a Venezia con un pretesto, il Carmagnola, accusato di tradimento, viene condannato a morte e giustiziato. La trama La tragedia si sviluppa in cinque atti. La prima parte (atti I-II) è dedicata alla descrizione delle vicende politiche e belliche: Venezia decide di muovere guerra a Milano e affida il comando delle truppe al Carmagnola. L’atto II si chiude con il coro S’ode a destra uno squillo di tromba (➜ T4 ), che proprio da questo momento trae spunto per una riflessione sulle guerre fratricide che insanguinano la terra italiana. Il terzo atto descrive gli eventi successivi alla battaglia e in particolare la decisione del conte di non lanciarsi all’inseguimento degli avversari sconfitti. Nell’atto IV si assiste allo scontro tra Marino e Marco, consoli veneziani membri del Consiglio dei Dieci, riguardo ai sospetti sulla fedeltà del Carmagnola. L’ultimo atto mette in scena l’audizione dinanzi al Senato del protagonista, con la sua condanna e l’ultimo colloquio con la moglie e la figlia. La vicenda si svolge in un lasso di tempo che va dal 1426, anno in cui viene affidata al Carmagnola la guida dell’esercito veneziano, al 1432, quando il conte viene giustiziato. Manzoni dunque mette in atto il suo dichiarato rifiuto La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 443


dell’unità di tempo. Lo stesso anche per l’unità di luogo: sono numerosi e rilevanti i cambi di scena, passando dal campo di battaglia alla Sala del Consiglio dei Dieci.

La battaglia di Maclodio in un’incisione di Giuseppe Gatteri pubblicata nel 1867.

Il tema: l’impotenza del bene di fronte al potere Manzoni abbraccia senza riserve la tesi dell’innocenza del Carmagnola, attualmente respinta dalla maggior parte degli storici. Ma ciò che veramente gli interessa è mettere in scena il dramma dell’uomo giusto dinanzi alle manipolazioni spietate della politica, vista come un ingranaggio totalmente asservito alla logica del potere: Carmagnola è l’innocente che agisce seguendo sempre i princìpi di onore e di lealtà e che proprio per questo è destinato a soccombere. Accanto a lui si distingue la figura del senatore Marco, che in nome dell’amicizia che lo lega al Carmagnola cerca di opporsi alla risoluzione presa dal Consiglio dei Dieci, ma alla fine è costretto a rassegnarsi al loro volere: Marco rappresenta l’impotenza del bene dinanzi all’ineluttabile avanzare di una storia dominata dalla violenza e dall’ingiustizia; all’uomo non è offerta alcuna possibilità di sfuggire a questo destino: «Un nobile consiglio / per me non c’è; qualunque io scelga, / è colpa» (➜ T5 OL).

online T4 Alessandro Manzoni

«S’ode a destra uno squillo di tromba» Il conte di Carmagnola, coro del II atto, vv. 1-32; 121128

online T5 Alessandro Manzoni

Il monologo di Marco: il dramma dell’amicizia sconfitta Il conte di Carmagnola, atto IV, scena II, vv. 270-350

Il conte di Carmagnola DATAZIONE

GENERE

1816-1819

tragedia storica

STRUTTURA

cinque atti con un coro

ARGOMENTO

storia (1426-1432) – durante la guerra tra Milano e Venezia – del capitano di ventura Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola, accusato di tradimento, condannato a morte e giustiziato

TEMI

444 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

• impotenza del bene di fronte al potere • dramma di un uomo stritolato nell’ingranaggio delle lotte politiche


3 Adelchi La composizione della tragedia È nella seconda tragedia di Manzoni che trovano piena espressione i princìpi esposti nella Prefazione al Carmagnola e nella Lettre à Monsieur Chauvet. Manzoni compone l’Adelchi tra il novembre del 1820 e il maggio del 1822, dopo un breve, nuovo soggiorno a Parigi (1819-20) durante il quale approfondisce la propria riflessione sul genere tragico e comincia ad avvicinarsi alle problematiche legate al romanzo storico, discutendone con l’amico Fauriel. L’opera, rappresentata a Torino molti anni dopo, nel 1843, non riscuote molto successo di pubblico. La trama La vicenda si svolge tra il 772 e il 774, durante il periodo della dominazione dei Longobardi in Italia, nel momento in cui questi ultimi stanno per essere sopraffatti dai Franchi. Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio, torna a Pavia dopo essere stata ripudiata dal re franco Carlo Magno. Per quanto il figlio Adelchi, più cauto e riflessivo, cerchi di dissuaderlo, Desiderio, assetato di vendetta, muove guerra al papa, da sempre alleato dei Franchi. Ermengarda si rifugia a Brescia, nel convento della sorella Ansberga, dove vive nel ricordo del suo amore infelice, in uno struggimento che la accompagnerà fino alla morte. Nel frattempo Carlo, che con le sue truppe si trovava bloccato presso le fortificazioni della val di Susa, riesce a trovare un valico attraverso le Alpi grazie alle indicazioni del diacono Martino, legato papale che lo ha raggiunto da Ravenna. Può così cogliere di sorpresa l’esercito di Desiderio e, grazie anche all’aiuto di alcuni soldati longobardi traditori, riesce a sbaragliarlo. Mentre tenta la fuga, Adelchi viene ferito a morte. Condotto in fin di vita al cospetto di Carlo Magno e di Desiderio, il giovane principe longobardo pronuncia le sue ultime parole, supplicando il re franco di essere clemente nei confronti di Desiderio ed esortando il proprio padre a non rammaricarsi del trono perduto, perché ogni potere, inevitabilmente, comporta violenza e soprusi. Un’opera complessa, fondata su un’attenta ricerca storica Rispetto alla prima tragedia, Adelchi si presenta come un’opera di maggior spessore, dalla struttura più articolata. Mentre il Carmagnola procede linearmente, per giustapposizione di situazioni successive, qui assistiamo invece a un continuo intrecciarsi di piani e punti di vista diversi, con cambi di scena frequenti e sostanziali, come se Manzoni volesse dimostrare tutte le possibilità aperte dal rifiuto delle unità aristoteliche espresso nella Lettre à Monsieur Chauvet, che sta scrivendo proprio in questi stessi anni. Inoltre, a differenza del Carmagnola, Manzoni qui forza in qualche caso i confini del vero storico: in particolare, mentre nella tragedia manzoniana Adelchi muore sul campo di battaglia e pronuncia spirando una sorta di amara lezione sulla storia (➜ T8 ), nella realtà storica trovò scampo a Costantinopoli (Manzoni rende comunque conto di ogni modifica apportata alla realtà dei fatti in una Nota storica premessa al testo della tragedia). Preparatorio alla stesura della tragedia è il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, pubblicato nel 1822, in cui Manzoni ricostruisce il periodo della dominazione longobarda attraverso una puntuale analisi delle fonti e facendo tesoro della lezione dello storico liberale francese Augustin Thierry (1795-1856), che lo scrittore aveva avuto modo di frequentare durante il soggiorno a Parigi nel circolo dell’amico Claude Fauriel. Un problema storiografico: dare voce alle masse nella ricostruzione storica Nelle sue Lettere sulla storia di Francia, Thierry aveva posto l’attenzione sul ruolo La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 445


delle masse, auspicando l’avvento di una nuova storiografia che non si limitasse a riportare le vicende dei grandi uomini, ma cercasse invece di dare voce alla vita dei popoli, nelle loro diverse componenti etniche, e della gente comune che li compone. Questo cerca di fare a suo modo anche Manzoni nell’Adelchi: un’opera in cui vediamo, sullo sfondo della contrapposizione tra i Franchi e i Longobardi, la massa dei Latini, dominati e vessati da entrambi. Come già aveva fatto nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819), anche qui l’autore abbraccia una tesi volta a confutare la posizione dello storico svizzero Sismondi, che imputava alla Chiesa la colpa di aver interrotto, chiamando i Franchi in Italia, il processo di integrazione già avviato tra Longobardi e Latini, rallentando così il cammino del paese verso l’unificazione. In realtà – ribatte Manzoni con la sua tragedia – tale processo era ben lungi dal farsi: tra i due popoli sussistevano invece differenze insanabili e il loro rapporto si esauriva tutto nella dialettica fra dominato e dominatore. È questa l’idea che emerge dal coro del terzo atto, Dagli atrii muscosi… (➜ T6 ). «Il cor m’ange»: il tormento di un eroe romantico Nonostante lo spunto offerto dalla riflessione storica di Thierry, Adelchi rimane però una tragedia di nobili e potenti, lasciando il popolo sullo sfondo. Grandi personaggi che, però, vengono rappresentati nel momento della crisi, della sconfitta, della sventura. Questo è particolarmente vero per il protagonista: il principe Adelchi incarna già il modello dell’eroe romantico, perennemente combattuto fra un ideale sentito come imprescindibile (l’aspirazione alla gloria, derivata però da azioni nobili e generose) e una realtà, quella della storia, che di quell’ideale nega ogni possibile realizzazione. Adelchi vorrebbe agire secondo giustizia e rettitudine, ma si trova a dover assecondare la follia vendicatrice del padre Desiderio per filiale ubbidienza; si trova a capo di un popolo a cui si sente legato dal proprio ruolo di principe, ma nello stesso tempo ne conosce le meschinità e le interne divisioni («Pur mi parea che ad altro io fossi nato, / che ad esser capo di ladron»: atto III, scena prima). Come tanti altri eroi della tradizione romantica, in Adelchi la grandezza d’animo sembra legata indissolubilmente a uno stato perenne di sofferenza, apparentemente senza via d’uscita: «Soffri e sii grande...», così si esprime all’inizio dell’atto terzo lo scudiero Anfrido, rivolgendosi ad Adelchi. L’incarnazione del pessimismo storico manzoniano Il principe longobardo dà voce al pessimismo storico di Manzoni, tanto assoluto da arrivare a negare all’uomo qualsiasi possibilità di agire bene nella realtà storica: «loco a gentile / ad innocente opra non v’è: non resta / che far torto, o patirlo», affermerà Adelchi prima di morire (➜ T8 ). E quindi, a una gloria fondata sul sopruso è preferibile una sorte sventurata che si profila come “provvidenziale”: una provida sventura accomuna Adelchi alla infelice sorella Ermengarda; per entrambi la morte diventa l’unica possibile salvezza, in cui i due eroi tragici possono trovare finalmente un senso e una qualche pacificazione. Il dramma d’amore di Ermengarda Se il tormento esistenziale di Adelchi ha a che fare col piano storico e politico, quello vissuto da Ermengarda è invece un dramma intimo e privato che si consuma tra il dolore della principessa longobarda per l’abbandono subìto e la condanna a non poter ammettere davanti al padre, re dei Longobardi, l’amore ancora vivo per Carlo. Vittima delle leggi spietate della politica e della storia che negano la realtà dei sentimenti, condannata all’incomunicabilità, Ermengarda vive quello stesso isolamento senza speranza che segna anche Adelchi e che per la giovane donna trova espressione nella reclusione volontaria nel convento di Brescia.

446 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


online

Audio e Video Brani video degli sceneggiati televisivi di Vittorio Gassman (1961) con lo stesso Gassman e di Orazio Costa (1974) con Gabriele Lavia

Ermengarda appartiene alla stirpe feroce degli “oppressori” ma, come il fratello, è destinata a soccombere. Le ingiustizie subìte la sottraggono provvidenzialmente al palcoscenico della storia e del potere, in cui era stata involontaria attrice, e fanno di lei un’“oppressa” («Te, dalla rea progenie /degli oppressor discesa...te collocò la provida/sventura in fra gli oppressi»), ma questa infelice condizione, nella visione manzoniana, è in realtà un privilegio: anche per Ermengarda vale infatti la dura legge secondo cui «non resta/che far torto o patirlo» in un mondo ingiusto e violento. Riscattate con le sue sofferenze le colpe della sua stirpe, Ermengarda può morire «compianta e placida», ritrovando nella morte la serenità che la vita le ha negato.

Adelchi DATAZIONE

GENERE

STRUTTURA

TEMI

VICENDA STORICA

PER APPROFONDIRE

FINALITÀ

novembre 1820 - maggio 1822

tragedia storica

cinque atti con due cori

• tormento di un eroe “romantico”, Adelchi, che incarna il pessimismo storico manzoniano • “provida sventura”, vista come un privilegio per potersi sottrarre alle logiche del potere

conflitto tra Franchi e Longobardi durante la dominazione longobarda in Italia (772-774)

dare voce alle masse nella ricostruzione storica

L’opposizione tra personaggi del “fare” e personaggi del “sentire” Accanto al conflitto tra Franchi e Longobardi, serpeggia in tutta la tragedia una seconda tensione, ben più forte e profonda: quella tra i personaggi del “fare” e i personaggi del “sentire”. Il “fare”: Carlo e Desiderio Sul primo versante si trovano uniti i due acerrimi nemici Carlo e Desiderio, qui accomunati da un analogo modo di considerare la storia: per entrambi, uomini di potere, tutti impegnati nel gioco esteriore delle trame politiche e militari, l’universo dei sentimenti esiste solo come strumento per raggiungere i propri scopi o per esprimere le pulsioni legate alla loro posizione nell’ambito dei regni che devono rispettivamente governare. Assistiamo così all’ira impaziente di Carlo da un lato o, dall’altro, alla furia vendicativa di Desiderio, tanto cieca da impedirgli di riconoscere e rispettare il dolore della figlia. Le ragioni dei due monarchi sono quelle di chi, come dice Carlo, «tenzona con le cose, e

deve ciò ch’egli agogna conseguir con l’opra», secondo un’ottica tutta pragmatica che non dà valore al punto di vista di chi, invece, «stassi fuor degli eventi e guata». Solo nel finale i due personaggi, di fronte alla morte del “giusto” Adelchi, sembrano trovare una nuova dimensione umana. Il “sentire”: Adelchi ed Ermengarda È la condizione, quest’ultima, di Adelchi ed Ermengarda, estranei in ciò al loro stesso padre. Si tratta di due personaggi del “sentire”, dotati di una dimensione interiore che agli altri manca e che, anche quando agiscono (è il caso di Adelchi), lo fanno pienamente consapevoli delle contraddizioni e ingiustizie della Storia, su cui non smettono di interrogarsi. Ed è proprio questo atteggiamento di continua ricerca, di instancabile interrogarsi su di sé e sul senso del proprio agire, a diventare la loro condanna in un mondo dove contano solo le ragioni dei forti e dei vincitori.

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 447


Alessandro Manzoni

T6

«Dagli atrii muscosi…»

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 2

Adelchi, coro del III atto A. Manzoni, Tragedie, a cura di F. Ghisalberti, Rizzoli, Milano 2002

ANALISI INTERATTIVA

I Longobardi, colti di sorpresa dai Franchi, si sono dati a una fuga disperata e scomposta. Anche Desiderio e Adelchi, insieme ai pochi principi rimasti loro fedeli, cercano scampo: il primo a Pavia e il secondo a Verona. Anfrido, il fido scudiero e amico di Adelchi, rimane ucciso negli scontri. Il terzo atto si chiude con il coro che fa entrare in scena la massa anonima delle popolazioni italiche, quei Latini che hanno subìto la dominazione longobarda e che assistono ora alla calata franca. Manzoni li esorta a non illudersi che questo evento possa significare per loro la conquista della libertà.

Dagli atrii muscosi1, dai fori cadenti2, dai boschi, dall’arse fucine stridenti3, dai solchi bagnati di servo sudor4, un volgo5 disperso repente6 si desta; 5 intende7 l’orecchio, solleva la testa percosso da novo crescente romor8. Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti, qual raggio di sole da nuvoli folti, traluce de’ padri la fiera virtù9: 10 ne’ guardi, ne’ volti, confuso ed incerto si mesce e discorda lo spregio sofferto col misero orgoglio d’un tempo che fu10. S’aduna voglioso11, si sperde tremante, per torti12 sentieri, con passo vagante13, 15 fra tema e desire, s’avanza e ristà14; e adocchia e rimira scorata e confusa de’ crudi signori la turba diffusa15, che fugge dai brandi, che sosta non ha16. Ansanti li vede17, quai trepide fere18, 20 irsuti per tema le fulve criniere19,

La metrica Strofe di sei versi dodecasilla-

8 percosso da… romor: colpito dall’in-

bi, di cui il terzo e il sesto sono tronchi, gli altri piani, con schema AABCCB

sorgere di un rumore, che si fa sempre più forte. 9 Dai guardi dubbiosi… la fiera virtù: dai loro sguardi dubbiosi (riferito al volgo del v. 4), dai volti pieni di timore, traspare il fiero valore degli antichi antenati, come un raggio di sole che si fa strada attraverso le fitte nubi. 10 ne’ guardi... tempo che fu: nei loro sguardi e nei volti, all’orgoglio umiliato (misero) del tempo passato si mescola in modo confuso e incerto l’oltraggio subìto, creando un effetto di contrasto (e discorda). 11 s’aduna voglioso: si raduna desideroso (di riscatto); il soggetto è sempre il volgo.

1 Dagli atrii muscosi: dagli antichi palazzi diroccati, ora ricoperti di muschio.

2 dai fori cadenti: dai resti di antiche piazze ormai in rovina. 3 dall’arse fucine stridenti: dalle fucine infuocate e dominate dal frastuono. 4 dai solchi… servo sudor: dai solchi dei campi bagnati dal sudore di un lavoro compiuto da servi (servo sudor). 5 un volgo: un popolo. 6 repente: all’improvviso. 7 intende: tende.

448 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

12 torti: tortuosi. 13 vagante: incerto. 14 fra tema… e ristà: combattuto fra timore e desiderio, avanza e poi si ferma.

15 e adocchia… la turba diffusa: e scorge e contempla la torma in fuga dei crudeli dominatori (i Longobardi), scoraggiata e confusa. 16 fugge… non ha: cerca scampo dalle spade (dei Franchi) e non si dà tregua. 17 Ansanti li vede: li vede ansimanti (il soggetto è sempre il volgo degli Italici). 18 quai trepide fere: simili a fiere tremanti di paura. 19 irsuti… criniere: i capelli biondo-rossicci dritti per la paura.


le note latebre del covo cercar20; e quivi, deposta l’usata minaccia21, le donne superbe, con pallida faccia, i figli pensosi pensose guatar22. E sopra i fuggenti, con avido brando, quai cani disciolti, correndo, frugando, da ritta, da manca, guerrieri venir23: li vede, e rapito d’ignoto contento24, con l’agile speme precorre l’evento25, 30 e sogna la fine del duro servir26. 25

Udite! Quei forti che tengono il campo27, che ai vostri tiranni precludon lo scampo28, son giunti da lunge29, per aspri sentier30: sospeser le gioie dei prandi festosi31, 35 assursero in fretta dai blandi riposi32, chiamati repente da squillo guerrier33. Lasciâr34 nelle sale del tetto natio35 le donne accorate, tornanti all’addio, a preghi e consigli che il pianto troncò36: 40 han carca la fronte de’ pesti cimieri37, han poste le selle sui bruni corsieri38, volaron sul ponte che cupo sonò39. A torme, di terra40 passarono in terra, cantando giulive41 canzoni di guerra, 45 ma i dolci castelli42 pensando nel cor: per valli petrose, per balzi dirotti43, vegliaron nell’arme le gelide notti, membrando i fidati colloqui d’amor44.

20 le note… cercar: mentre cercano i nascondigli (latebre) conosciuti della tana (gli infiniti cercar, guatar e venir sono retti dal vede del v. 19). 21 deposta l’usata minaccia: smesso il solito atteggiamento minaccioso. 22 guatar: guardare. 23 sopra i fuggenti… guerrieri venir: simili a (quai) cani sciolti, che corrono annusando ovunque, sui Longobardi in fuga (il volgo) vede piombare guerrieri (i Franchi) da destra e sinistra, con le spade (al singolare: brando) avide (di preda, di sangue). 24 rapito d’ignoto contento: colto da una gioia mai provata prima. 25 con l’agile… l’evento: con la speranza che corre innanzi (veloce) anticipa ciò che sta per succedere.

26 servir: schiavitù, servaggio. 27 tengono il campo: dominano lo scontro (si sta riferendo ai Franchi).

28 ai vostri… lo scampo: impediscono la fuga ai vostri tiranni, cioè ai Longobardi. 29 da lunge: da lontano. 30 per aspri sentier: attraverso vie irte di ostacoli. 31 sospeser… festosi: interruppero i piaceri dei banchetti festosi. 32 assursero… riposi: si alzarono in fretta dai placidi sonni. 33 chiamati… guerrier: richiamati improvvisamente dallo squillo delle trombe di guerra. 34 Lasciâr: lasciarono. 35 nelle sale… natio: nelle case in cui nacquero. 36 le donne… troncò: le donne addo-

lorate che ripetono più volte il saluto, le preghiere e le raccomandazioni troncati infine dal pianto. 37 han carca… cimieri: sulla loro fronte poggiano con tutto il loro peso gli elmi ammaccati (pesti). 38 corsieri: cavalli. 39 volaron… sonò: sfrecciarono sul ponte levatoio che risuonò cupo al loro passaggio. 40 terra: città. 41 giulive: allegre, festose. 42 i dolci castelli: è sottinteso “della patria”. 43 balzi dirotti: dirupi scoscesi. 44 vegliaron… d’amor: vegliarono in armi nelle notti gelide, mentre nella loro memoria erano vivi i ricordi (membrando “rimembrando, ricordando”) dei confidenziali (fidati) incontri amorosi.

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 449


Gli oscuri perigli di stanze incresciose, 50 per greppi senz’orma, le corse affannose, il rigido impero, le fami durâr45; si vider le lance calate46 sui petti, a canto agli scudi, rasente47 agli elmetti, udiron le frecce fischiando volar. E il premio sperato, promesso a quei forti, sarebbe, o delusi, rivolger le sorti, d’un volgo straniero por fine al dolor48? Tornate alle vostre superbe ruine, all’opere imbelli49 dell’arse officine, 60 ai solchi bagnati di servo sudor. 55

Il forte si mesce col vinto nemico50, col novo signore rimane l’antico51; l’un popolo e l’altro sul collo vi sta. Dividono52 i servi, dividon gli armenti; 65 si posano insieme sui campi cruenti53 d’un volgo disperso che nome non ha. 45 Gli oscuri perigli… le fami durâr: sopportarono (durâr) i pericoli imprevisti di soste (stanze) sgradite (incresciose), le corse affannose per pendii su cui non è mai passato nessuno (per greppi senz’orma), la severa disciplina militare (il rigido impero), la fame. 46 calate: scagliate.

47 rasente: vicinissime. 48 il premio… al dolor?: la ricompensa sperata da quei valorosi, e loro promessa, sarebbe, o illusi (delusi), cambiare il destino di un popolo straniero, porre fine al suo dolore? 49 imbelli: inermi. 50 Il forte… nemico: il popolo vincitore si

mescola col nemico battuto. 51 col novo… l’antico: l’antico dominatore (i Longobardi) si unisce al nuovo (i Franchi). 52 Dividono: è sottinteso “tra di loro”. 53 si posano… cruenti: insieme si riposano sui campi di battaglia insanguinati.

Analisi del testo La struttura e i contenuti Il coro può essere diviso in due parti chiaramente distinguibili. vv. 1- 30 Il coro si apre con la descrizione delle reazioni del popolo dei Latini, negativamente identificato dall’icastica espressione “volgo disperso”, di fronte alla rotta affannosa dei Longobardi, incalzati dalle armate dei Franchi. Il punto di vista della descrizione è quello delle popolazioni latine, da anni sottomesse, che improvvisamente vedono la possibilità di cambiare le loro sorti. Dalla sorpresa iniziale di fronte a un evento inaspettato, i Latini passano a reazioni contrastanti: desiderio, timore, infine una felicità mai provata prima («ignoto contento») e speranza che, con la cacciata dei Longobardi, la loro schiavitù possa avere fine. Ai loro movimenti lenti e smarriti (s’aduna...si sperde...s’avanza e ristà), che traducono la loro incertezza interiore, si contrappone nella scena il movimento convulso e frenetico dei Longobardi in fuga e quello, aggressivo e violento, dei Franchi. vv. 31 - 66 Il coro, in cui si manifesta la voce stessa del poeta, prende la parola con un’apostrofe rivolta proprio a quegli stessi Latini (Udite!), esortandoli a non illudersi che i Franchi possano portare loro quella libertà che non hanno mai conosciuto; non per questo, infatti, costoro hanno abbandonato l’amata patria, ma per perseguire i propri sogni di vittoria, che nulla hanno a che fare con il bene delle popolazioni assoggettate. Il coro si chiude con una serie di frasi brevi, che hanno il sapore di una amara sentenza: vincitori e vinti (in questo caso Franchi e Longobardi) si uniscono, mentre chi non ha saputo ribellarsi rimane «un volgo disperso che nome non ha».

450 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


La guerra e i suoi risvolti umani Nelle sestine 6-9, Manzoni dà spazio a una rappresentazione epico-cavalleresca di tono quasi romantico («A torme, di terra passarono in terra/cantando giulive canzoni di guerra») dei guerrieri franchi, per designare i quali ricorre ben tre volte l’aggettivo “forte”, in evidente contrapposizione al volgo imbelle, passivo dei Latini. Dei Franchi si mette in luce l’eroica sopportazione di pericoli, fatiche, sofferenze. Ma, conformemente all’ idea manzoniana del “vero poetico”, lo sguardo del poeta cristiano focalizza anche gli aspetti psicologici più intimi, il ricordo nostalgico dell’amore delle spose che i guerrieri hanno dovuto abbandonare, al dolore delle quali va la pietà partecipe dello scrittore. Alla retorica delle imprese eroiche, delle gesta degli uomini grandi, si contrappone il desiderio di dar voce al mondo di sentimenti, emozioni, pensieri che la storia nasconde dietro i nudi fatti oggettivi. In questa visione corale si avverte molto chiaramente anche l’influsso del pensiero di Thierry, che Manzoni aveva conosciuto e frequentato a Parigi e che nelle sue opere si era concentrato sul problema delle masse, i cui movimenti lo storico deve interpretare, senza limitarsi a leggere la storia come una trama intessuta solo dai grandi uomini.

Un severo giudizio politico Nella seconda parte del coro emerge nettamente la posizione di Manzoni rispetto alle condizioni dell’Italia, non solo ai tempi dello scontro tra Longobardi e Franchi, ma anche nell’attualità. Secondo il poeta, che esprime qui un giudizio politico netto, le speranze di riscatto di un popolo risiedono unicamente nella sua capacità di costruirsi una propria identità: nessun intervento esterno potrà mai portare quella libertà e quella pace stabile che derivano solo dalla consapevolezza di essere un’unica entità nazionale, accomunata da uno stesso destino. Quasi prefigurazione degli italiani contemporanei di Manzoni, i Latini sono ridotti a un «volgo disperso che nome non ha», privo di un sentimento unanime e di un immaginario collettivo in cui riconoscersi (a differenza dei Franchi, le cui memorie sono vive, potenti e legate a consuetudini di vita comuni che sono costretti ad abbandonare). Essi sono pertanto condannati a una condizione di servitù perpetua, senza via d’uscita, come si avverte dalla struttura circolare del componimento, che si chiude sulle stesse note sconsolate con cui si era aperto: «arse officine», «solchi bagnati di servo sudor», «volgo disperso».

Le scelte stilistiche Come poeta, Manzoni ha chiaro un obiettivo: distanziarsi dai moduli classicistici e tentare la strada di una poesia che sia “popolare” anche, e soprattutto, per i fini di educazione morale e religiosa che egli assegnava alla letteratura già prima di affrontare il romanzo. Questa scelta si configura nel celebre coro che abbiamo appena letto, nell’opzione per un verso, il dodecasillabo, che non a caso sarà amato dalla poesia risorgimentale. Qui risulta particolarmente funzionale, per il ritmo cadenzato che lo caratterizza, alla suggestiva rappresentazione epica dell’avventura guerresca dei Franchi a cui si è fatto riferimento. Alla scelta del dodecasillabo si accompagna omologamente una sintassi prevalentemente paratattica, in cui prevalgono proposizioni brevi, con sequenze di verbi in rapida successione (fino al v. 30 tutti al presente: si desta… intende l’orecchio... solleva... S’aduna... si sperde... ecc.) che fanno immaginare con facilità a un lettore comune una scena quasi cinematografica. Nel lessico, inevitabilmente, persiste qualche traccia aulica, ma anche qui il poeta si sforza di utilizzare termini comprensibili alla maggioranza dei lettori.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi è il protagonista di questo coro? Qual è il giudizio storico-politico che si evince dal testo? Rintraccia le espressioni più significative in tal senso. 2. Quale messaggio intende esprimere l’autore attraverso la rievocazione del passato? ANALISI 3. Ricerca nel testo e trascrivi le espressioni che si riferiscono al passato glorioso e ormai perduto del popolo latino: quale immagine ti sembra che voglia darne Manzoni? 4. Rileggi le strofe dedicate ai Franchi (vv. 31-54): quali aspetti della loro spedizione militare sono messi in luce?

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 451


LESSICO 5. Esamina il piano lessicale, raccogliendo esempi di termini aulici e di termini più comuni e quotidiani. STILE 6. In questo testo ci sono alcune similitudini: rintracciale e commentane l’efficacia espressiva. 76. Manzoni sceglie per questo coro il dodecasillabo: un metro usato nell’epica francese, costituito da due senari con forte cesura tra l’uno e l’altro e ritmi fissi. Leggi ad alta voce i primi versi del coro: quali effetti ti sembra produca questa scelta a livello ritmico?

Interpretare

SCRITTURA 8. Nel celebre coro dell’atto III dell’Adelchi, Manzoni stigmatizza l’intervento di un esercito straniero per liberare un popolo dall’oppressione. Ti sembra che l’analisi dello scrittore sia condivisibile? Pensi che il passo proposto possa costituire uno spunto di riflessione per comprendere le dinamiche dei teatri di guerra che stanno sconvolgendo gli equilibri tra Stati nella nostra epoca?

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 2

Alessandro Manzoni

T7

EDUCAZIONE CIVICA

«Sparsa le trecce morbide…»

PARITÀ DI GENERE equilibri

nucleo Costituzione competenza 3

#PROGETTOPARITÀ

Adelchi, coro del IV atto A. Manzoni, Tragedie, a cura di F. Ghisalberti, Rizzoli, Milano 2002

Informata dalla sorella Ansberga del nuovo matrimonio di Carlo con Ildegarda, Ermengarda cade in una specie di delirio, nel quale prima le sembra di vedere l’amato marito al fianco della prescelta, poi implora la consolazione della suocera Bertrada, che l’aveva voluta come sposa del figlio. Da questo penoso vaneggiamento, Ermengarda ritorna lucida per pochi istanti soltanto, appena il tempo per rendersi conto che sta giungendo per lei il sollievo della morte. L’atto si chiude con questo celebre coro che accompagna l’infelice figlia di Desiderio.

Sparsa le trecce morbide sull’affannoso petto, lenta le palme, e rorida di morte il bianco aspetto, 5 giace la pia1, col tremolo2 sguardo cercando il ciel. Cessa il compianto3: unanime4 s’innalza una preghiera: calata in su la gelida

La metrica Strofe di sei settenari liberi (rimano il secondo e il quarto), alternativamente sdruccioli e piani, tranne l’ultimo, tronco, che rima con quello delle altre strofe a due a due 1 Sparsa… giace la pia: la pia Ermengarda giace con le morbide trecce sciolte sul petto ansimante, con le mani (le palme) abbandonate e il volto pallido (il bianco aspetto) bagnato del sudore (rorida) della

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fronte, una man leggiera sulla pupilla cerula5 stende l’estremo vel6. 10

Sgombra7, o gentil, dall’ansia8 mente i terrestri ardori9; 15 leva all’Eterno un candido pensier d’offerta10, e muori: fuor della vita è il termine del lungo tuo martir11.

morte. La prima strofa è costruita su tre accusativi di relazione (o “alla greca”), di matrice classicheggiante. 2 tremolo: tremante. 3 il compianto: il pianto funebre delle suore. 4 unanime: corale. 5 pupilla cerula: occhi azzurri (pupilla indica per metonimia gli occhi). 6 l’estremo vel: l’ultimo velo. Indica il gesto pietoso della mano che chiude gli occhi della defunta.

7 Sgombra: la voce soggettiva è quella forse delle suore, forse del poeta.

8 ansia: affannata, angosciata; è un aggettivo riferito a mente.

9 i terrestri ardori: le passioni terrene. 10 leva… d’offerta: eleva a Dio un puro pensiero di offerta (sottinteso: del tuo pentimento, di te stessa). 11 fuor della vita… tuo martir: la fine (nel senso cristiano di “meta”) delle tue lunghe sofferenze (martir) si trova oltre il confine dell’esistenza terrena.


Tal della mesta, immobile 20 era quaggiuso il fato12: sempre un obblio di chiedere che le saria negato13; e al Dio de’ santi ascendere santa del suo patir14.

e dietro a lui la furia de’ corridor fumanti25; 45 e lo sbandarsi, e il rapido redir de’ veltri ansanti26; e dai tentati triboli27 l’irto28 cinghiale uscir;

Ahi! nelle insonni tenebre15, pei claustri16 solitari, tra il canto delle vergini17, ai supplicati altari18, sempre al pensier tornavano 30 gl’irrevocati dì19;

e la battuta polvere 50 rigar di sangue, colto dal regio stral29: la tenera alle donzelle il volto volgea repente, pallida d’amabile terror30.

quando ancor cara, improvida d’un avvenir mal fido, ebbra spirò le vivide aure del Franco lido, 35 e tra le nuore Saliche invidiata uscì20:

Oh Mosa errante31! oh tepidi lavacri32 d’Aquisgrano! Ove, deposta l’orrida maglia33, il guerrier sovrano scendea del campo a tergere34 60 il nobile sudor!

Quando da un poggio aereo21, il biondo crin gemmata22, vedea nel pian discorrere 40 la caccia affaccendata23, e sulle sciolte redini chino il chiomato sir24;

Come rugiada al cespite dell’erba inaridita35, fresca negli arsi calami fa rifluir la vita36, 65 che verdi ancor risorgono nel temperato albor37;

25

55

12 Tal… il fato: questo era l’immutabi-

22 il biondo crin gemmata: con i biondi

le destino qui in terra (quaggiuso) di quell’infelice. 13 sempre un obblio… negato: (quello, riferito al fato) di chiedere sempre un oblio che le doveva esser negato (saria, “sarebbe”). 14 santa del suo patir: santificata dalle sue sofferenze. 15 tenebre: notti. 16 pei claustri: per i chiostri (del convento). 17 vergini: suore, donne consacrate. 18 ai supplicati altari: presso gli altari cui si rivolgevano le suppliche dei fedeli (e soprattutto sue, di Ermengarda). 19 sempre… dì: tornavano sempre alla memoria i ricordi dei giorni che non erano stati richiamati (volontariamente dalla memoria). 20 quando… uscì: quando, ancora amata (dal marito), ancora ignara (improvvida) di un avvenire insidioso (mal fido), respirò, ebbra di felicità, l’aria rivitalizzante della terra di Francia, e si mostrò invidiata tra le spose saliche (cioè le mogli dei nobili appartenenti alla tribù franca dei Salii). 21 poggio aereo: terrazzo elevato.

capelli adorni di gemme (altro accusativo alla greca). 23 vedea… affaccendata: giù, per la pianura, vedeva correre qua e là cani e cacciatori (caccia, con l’astratto per il concreto), tutti presi nella battuta. 24 sulle sciolte… il chiomato sir: il sovrano dalle lunghe chiome (Carlo: oggetto di vedea; il soggetto è Ermengarda) chino sul cavallo che cavalcava a briglia sciolta. 25 e dietro… corridor fumanti: e (vedea) dietro di lui i cavalli impetuosi (la furia de’ corridor) sudati per lo sforzo. 26 lo sbandarsi... ansanti: (vedea) lo sbandare, per poi velocemente ritornare in gruppo (redir), dei cani da caccia (veltri) ansimanti. 27 dai tentati triboli: dai roveti frugati (dai cani per stanare la preda). 28 irto: irsuto, con le setole ritte. 29 e la battuta… stral: e (vedea il cinghiale), colpito dalla freccia scagliata dal re (regio stral), rigare di sangue la polvere calpestata. 30 la tenera… d’amabile terror: (Ermengarda) sensibile (la tenera) volgeva in modo repentino alle fanciulle del suo seguito

il volto, il cui pallore, che ne rivelava la paura, la rendeva ancora più bella (amabile). 31 errante: dal corso tortuoso. La Mosa è il fiume che scorre vicino ad Aquisgrana, dove Carlo Magno aveva posto la sua reggia. 32 tepidi lavacri: acque tiepide, termali. Presso la reggia di Aquisgrana sgorgavano delle acque termali. 33 l’orrida maglia: la maglia di ferro dell’armatura, orrida perché usata in battaglia, e quindi spaventosa; ma il termine può anche significare “irta, pungente”, appunto perché di ferro. 34 tergere: lavare. 35 Come… inaridita: come la rugiada posandosi sul cespo dell’erba inaridita. Nella lunga similitudine, che inizia al v. 61 e si conclude al v. 72 (sviluppandosi nell’arco di due strofe), Come ha il correlativo in tale (v. 67). 36 fresca… la vita: (la rugiada) fresca fa rifluire la vita negli steli (calami) riarsi, rinsecchiti. 37 che verdi… albor: (calami) che si risollevano, nuovamente rinverditi, quando giunge l’alba con la sua temperatura mite.

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tale al pensier, cui l’empia virtù d’amor fatica, discende il refrigerio 70 d’una parola amica38, e il cor diverte ai placidi gaudii d’un altro amor39. Ma come il sol che, reduce40, l’erta infocata ascende41, 75 e con la vampa assidua l’immobil aura incende42, risorti appena i gracili steli riarde al suol43; ratto così dal tenue 80 obblio torna immortale l’amor sopito44, e l’anima impaurita assale, e le sviate immagini richiama al noto duol45. 85 Sgombra, o gentil, dall’ansia mente i terrestri ardori46; leva all’Eterno un candido pensier d’offerta, e muori: nel suol che dee la tenera 90 tua spoglia ricoprir47,

altre infelici dormono, che il duol consunse48; orbate spose dal brando49, e vergini 38 tale al pensier… amica: così discende il conforto (refrigerio) di una parola amica nell’animo (al pensier di Ermengarda) che il crudele potere dell’amore mette in affanno (l’animo, cioè, è prostrato dalle sofferenze dell’amore). 39 il cor… amor: volge il cuore altrove (diverte, “distrae”), verso la gioia tranquilla d’un altro tipo di amore (quello per Dio). 40 reduce: dopo essere ritornato. 41 l’erta infuocata ascende: sale lungo il suo ripido percorso infuocato. 42 con la vampa… incende: con il suo calore che sempre ritorna (vampa assidua) incendia l’aria immobile. 43 risorti… al suol: gli steli sottili che si erano appena ripresi, ora, nuovamente bruciati e piegati (riarde) a terra, si afflosciano. 44 ratto così… sopito: così rapidamente (ratto) torna inestinguibile (immortale) l’amor sopito dal momentaneo (tenue) oblio. 45 le sviate… al noto duol: richiama, a risvegliare un dolore già conosciuto (noto), quelle immagini che si era cercato di tenere lontane (sviate).

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indarno fidanzate50; 95 madri che i nati videro trafitti impallidir51. Te, dalla rea progenie degli oppressor discesa52, cui fu prodezza il numero53, 100 cui fu ragion l’offesa54, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà55, te collocò la provida sventura in fra gli oppressi: 105 muori compianta e placida; scendi a dormir con essi56: alle incolpate ceneri nessuno insulterà57. Muori; e la faccia esanime 110 si ricomponga in pace; com’era allor che improvida d’un avvenir fallace58, lievi pensier virginei solo pingea59. Così60 dalle squarciate nuvole si svolge il sol cadente61, e, dietro il monte, imporpora il trepido occidente62; al pio colono63 augurio 120 di più sereno dì. 115

46 Sgombra... ardori: o anima nobile, libera la tua mente angosciata dalle passioni terrene. 47 nel suol… ricoprir: nella terra che è destinata a ricoprire i tuoi giovani resti. 48 altre infelici… duol consunse: dormono altre donne infelici che il dolore consumò. 49 orbate spose dal brando: spose private dei mariti, uccisi in guerra (orbate… dal brando: rese vedove dalla spada). 50 vergini indarno fidanzate: fanciulle fidanzate inutilmente (perché il promesso sposo è morto prima delle nozze). 51 madri… impallidir: madri che videro i propri figli scolorire dopo che erano stati trafitti. 52 Te, dalla rea… discesa: te, che discendi dalla stirpe colpevole (rea) degli oppressori. Il pronome Te, in anafora e in posizione eminente all’inizio delle due strofe, è oggetto di collocò (e il soggetto è la provida sventura). 53 cui fu prodezza il numero: il cui eroismo derivava dall’essere più numerosi.

54 cui fu ragion l’offesa: la cui ragione si fondava sull’aggressione violenta. 55 e dritto… pietà: e lo spargimento di sangue era considerato un diritto e la crudeltà un orgoglio. 56 con essi: con gli oppressi. 57 alle incolpate… insulterà: nessuno profanerà le tue ceneri senza colpa, innocenti. 58 improvida… fallace: incapace di prevedere un avvenire ingannevole; cfr. vv. 31-32. 59 lievi pensier… pingea: si dipingeva, si immaginava solo sereni pensieri di purezza (quando ancora non era andata sposa a Carlo). 60 Così: allo stesso modo. È l’attacco della similitudine del sole che squarcia le nubi, sviluppata nella strofa successiva. 61 si svolge… cadente: si libera il sole che tramonta. 62 imporpora... occidente: tinge di rosso il cielo a ovest, tremolante di luce. 63 al pio colono: al contadino devoto e insieme fiducioso.


Analisi del testo La struttura del coro Il testo presenta una struttura particolarmente mossa: si intersecano parti descrittive e narrative, interventi riflessivi ed esortazioni rivolte alla principessa morente. Altrettanto mossa è la struttura temporale, in cui si alternano passato e presente, mentre il futuro è rappresentato dalla vita eterna in cui Ermengarda si prepara a entrare. Il coro può essere suddiviso in quattro parti. vv. 1-24 Nelle prime due strofe viene descritta l’agonia e la morte di Ermengarda, circondata dalle suore in preghiera. La terza e la quarta strofa ospitano un intervento del coro (in cui si avverte la presenza dell’autore), che esorta la giovane a lasciarsi alle spalle le passioni e i tormenti terreni per offrirsi all’Eterno e avere finalmente pace. vv. 25-60 Attraverso un flashback si rievoca il continuo riemergere – nella pace del monastero e senza che la volontà di Ermengarda possa opporsi in alcun modo – dei ricordi legati alla sua passata vita di sposa e di regina. Ricordi che si concretizzano in particolare nella scena della caccia e nel ritorno dell’amato sposo dalla guerra. vv. 61-84 Una lunga similitudine, riportandoci al momento presente, descrive lo stato d’animo affranto e turbato di Ermengarda, combattuto fra l’amore di Dio, al quale la sua anima ormai sta per congiungersi, e l’amore terreno, il cui ricordo continuamente riaffiora. vv. 85-120 Nella parte finale del coro, il poeta riprende la parola per rinnovare l’esortazione iniziale all’infelice principessa longobarda, invocando per lei la consolazione e la pace che solo la morte saprà portarle.

Il tormento amoroso di un personaggio lacerato tra essere e dover essere Al pari del fratello Adelchi, anche Ermengarda è un personaggio in perenne conflitto con sé stessa e con il mondo di fredde macchinazioni politiche di cui, suo malgrado, anch’essa è parte. Questo aspetto emerge anche nel coro che celebra la sua morte, dove una lunga sequenza è dedicata al ricordo dei giorni felici del matrimonio con Carlo; ma sono memorie involontarie (irrevocati dì, sviate immagini), che si presentano con insistenza alla mente tormentata di Ermengarda, trasportate dalla forza di una passione che non accetta di morire, per quanto sia contraria ai codici d’onore e agli interessi politici del popolo longobardo. Solo nel vaneggiamento dell’agonia la giovane può rivivere fin nei dettagli l’amore per Carlo, quei terrestri ardori dei quali anche il poeta la esorta a liberarsi. Le strofe in cui prende vita il ricordo degli irrevocati dì rappresentano quasi un momento di libertà concesso all’inconscio di Ermengarda, che può così emergere dando voce a un sentimento fino a quel momento sopito e nascosto dietro le convenienze sociali e politiche.

La rimozione dell’eros Ma la passione di Ermengarda non viene negata soltanto per le implicazioni politiche inopportune. Nella scena che precede immediatamente il coro (IV, I), durante il suo delirio, la giovane parla del sentimento per Carlo, definendo il suo un amor tremendo (v. 148), e confessa di non aver mai rivelato al marito la pienezza del proprio amore per lui: «Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora / non tel mostrai: tu eri mio; secura / nel mio gaudio io tacea; né tutta mai / questo labbro pudico osato avria / dirti l’ebrezza del mio cor segreto». La forza di questa passione si ripresenta anche nel coro: nel ricordo della principessa morente, Carlo appare nella sua virile fisicità, vista attraverso gli occhi innamorati della moglie. Le scene che Ermengarda rivive (la caccia guidata da Carlo e la scena di Aquisgrana, dove il sovrano, reduce dalla guerra, si reca a «tergere il nobile sudor») sono pervase da una sottile ma evidente componente erotica. Subito dopo, quasi consapevole di aver dato troppo spazio a una dimensione “minacciosa” (quella dell’eros appunto), il poeta riconduce il ricordo tormentoso dell’amato da parte di Ermengarda entro la struttura di una preziosa similitudine, perfetta nell’elegante equilibrio delle immagini proposte e ormai lontana dal pericoloso territorio del ricordo vissuto, con tutte le sue implicazioni emotive. In questo modo viene domata la femminilità troppo impetuosa e accesa della sua sfortunata eroina, la cui mente, nel momento del trapasso, torna a essere abitata, non a caso, da «lievi pensier virginei».

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Il tema della provida sventura Nell’ultima parte del coro il poeta sublima e purifica la passione di Ermengarda, proiettandola su un orizzonte ultraterreno, dove la giovane può abbandonare i terrestri ardori e ricongiungersi al destino di altre infelici che, come lei, sono state private in vita delle gioie dell’amore. È qui proposto il motivo della provida sventura, che pone Ermengarda dalla parte degli oppressi e fa di lei una vittima della cieca sopraffazione operata ai suoi danni sia dal marito Carlo (che l’ha ripudiata per calcolo politico) sia dal padre Desiderio (che prima l’ha destinata a un matrimonio di interesse e poi le ha negato persino di ammettere il suo amore per Carlo). In questo modo la redime dalle colpe di cui si è macchiata la sua stirpe di oppressori, i Longobardi «cui fu ragion l’offesa, / e dritto il sangue», consegnandola all’eternità di un ricordo libero dall’odio e dal risentimento («muori compianta e placida»; «alle incolpate ceneri / nessuno insulterà»). Con la breve similitudine dell’ultima strofa, il coro si chiude in un’atmosfera pervasa di pace, che sembra voler cancellare il segno della passione travolgente cui si era dato spazio nella parte centrale del testo. Lo svenimento di Ermengarda in un disegno a matita di Giuseppe Bezzuoli (1784-1856).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

PARAFRASI 1. Individua i versi (si tratta di due strofe consecutive) in cui emerge in modo più evidente il tema della provida sventura e fanne la parafrasi. COMPRENSIONE 2. Quale sventura ha colpito Ermengarda e perché l’autore la definisce provida? 3. Per quali ragioni Ermengarda può essere considerata un “doppio” del fratello Adelchi? ANALISI 4. Segnala le parti del testo in cui sono presenti interventi diretti dell’autore. 5. Individua gli aggettivi più significativi con cui Manzoni connota il personaggio di Ermengarda e per ognuno di essi cerca di spiegare il motivo per cui sono stati scelti.

Interpretare

SCRITTURA 6. Nei paragoni tracciati dal poeta, un posto centrale è occupato dall’immagine del sole: nella prima, lunga, similitudine l’astro compare a rappresentare l’ardore bruciante della passione amorosa, che toglie all’infelice Ermengarda la pace effimera donatale da una parola amica; ma nella seconda similitudine, quella con cui il coro si chiude, il sole viene ad assumere tutt’altro valore. Quale, a tuo parere? Ti sembra che questo slittamento di significato rispecchi in qualche modo il messaggio contenuto nel coro? Motiva la tua risposta in un testo di max 15 righe.

456 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


TESTI A CONFRONTO 7. Ermengarda e Napoleone (➜ T3 ) sono due personaggi che hanno conosciuto il fulgore della gloria e che Manzoni sceglie di ritrarre nel momento del declino, quando su di loro grava il peso insostenibile del ricordo. Per entrambi la sventura che li emargina dalla storia è a suo modo provvidenziale. Prova a delineare un confronto tra le due figure. SCRITTURA EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

PARITÀ DI GENERE equilibri #PROGETTOPARITÀ

Costituzione

competenza 3

8. Ermengarda è una donna ripudiata dal marito, sacrificata alle logiche del potere e della ragion di stato; una donna vittima di piani di guerra, che ama ma che è costretta a nascondere il suo segreto inconfessabile, il suo amor tremendo. Esprimi le tue riflessioni sul ruolo, troppo spesso subordinato, che continuano ancora oggi a ricoprire le donne anche nelle società più evolute come quella occidentale.

Alessandro Manzoni

T8

Il testamento spirituale di Adelchi

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1, 3

Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362 A. Manzoni, Tragedie, a c. di F. Ghisalberti, Rizzoli, Milano 2002

Siamo all’epilogo della tragedia: la guerra con i Franchi è irrimediabilmente perduta. Ferito a morte, Adelchi viene condotto al cospetto di Carlo, dove incontra anche Desiderio, ormai prigioniero del re nemico. Le sue ultime parole sono per il padre, perché non si rammarichi del regno perduto.

ADELCHI Cessa i lamenti, cessa o padre, per Dio! Non era questo il tempo di morir1? Ma tu, che preso2 vivrai, vissuto nella reggia3, ascolta. 340 Gran segreto è la vita, e nol comprende che l’ora estrema4. Ti fu tolto un regno: deh! nol pianger; me ’l credi5. Allor che a questa

La metrica Endecasillabi sciolti 1 Non era… morir?: non è forse quello della battaglia il momento giusto per morire? È una domanda retorica. 2 preso: prigioniero. 3 vissuto nella reggia: dopo aver vissuto nelle condizioni di re. 4 e nol… estrema: e non lo capisce (il mistero della vita) che l’ultima ora, quella della morte. 5 me ’l credi: credimelo (credi a me riguardo a questo).

Adelchi sconfitto e ferito a morte davanti a Carlo Magno e al padre Desiderio in un’illustrazione del 1881 circa.

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 457


ora tu stesso appresserai6, giocondi si schiereranno al tuo pensier dinanzi 345 gli anni in cui re non sarai stato7, in cui né una lagrima pur notata in cielo fia contro te8, né il nome tuo saravvi con l’imprecar de’ tribolati asceso9. Godi che re non sei; godi che chiusa 350 all’oprar t’è ogni via10: loco a gentile, ad innocente opra non v’è11: non resta che far torto, o patirlo12. Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto13: la man degli avi insanguinata 355 seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue; e omai la terra altra messe non dà. Reggere iniqui dolce non è14; tu l’hai provato: e fosse15; non dee finir così16? Questo felice17, 360 cui la mia morte fa più fermo il soglio18, cui tutto arride, tutto plaude e serve19, questo è un uom che morrà.

6 appresserai: ti avvicinerai. 7 giocondi… stato: si schiereranno felici davanti alla tua memoria gli anni in cui non sarai stato re. 8 in cui… contro te: nei quali neppure una lacrima sarà (fia) annoverata in cielo come prova contro di te. 9 né… asceso: e il tuo nome non vi sarà (saravvi) salito (in cielo), accompagnato dalle maledizioni di genti vessate (tribolati). 10 godi che chiusa… ogni via: sii contento che ti sia preclusa ogni possibilità di azione.

11 loco… non v’è: non c’è alcuna possibilità di un’azione che sia onesta e priva di colpa. 12 non resta… patirlo: tutto ciò che si può fare è infliggere un torto, oppure subirlo. 13 fa nomarsi dritto: si fa chiamare diritto, legge. 14 Reggere… non è: non può dare gioia governare con la forza (iniqui come predicativo del soggetto); altri spiegano iniqui come “persone ingiuste” (in quanto abituate a leggi inique).

15 e fosse: e se anche fosse (sottinteso dolce). 16 non dee finir così?: non è forse destino che finisca in questo modo (cioè con la morte)? 17 Questo felice: quest’uomo felice (re Carlo). 18 cui… il soglio: a cui la mia morte rende più stabile il trono. 19 cui tutto… e serve: a cui tutto va per il verso giusto, cui tutti plaudono e si sottomettono.

Analisi del testo La profezia di Adelchi Adelchi è giunto al momento supremo della morte ed è qui che assistiamo a un ribaltamento dei ruoli tradizionali, fatto tanto più clamoroso in una società come quella dei Longobardi, profondamente legata a norme e tradizioni ancestrali. Infatti, è il figlio che indica al padre la via da percorrere, che gli fornisce gli strumenti per discernere il vero dal falso. Adelchi, lo sconfitto, esorta il padre a non lamentarsi per la sorte toccatagli: in primo luogo perché era inevitabile («Non era questo / il tempo di morir?») e poi perché quella che a occhi mondani può sembrare una sventura, nella visione chiarificatrice che si acquista in punto di morte si rivela invece come un dono prezioso. Infatti, l’esercizio del potere non può in alcun modo andare disgiunto dall’ingiustizia e dalla sopraffazione («non resta che far torto o patirlo»); meglio dunque rinunciare a ogni azione politica e accettare la sconfitta come una provida sventura.

458 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Adelchi propone, insomma, una visione in cui perdere diventa sinonimo di vittoria: è soltanto nella prospettiva della sconfitta che all’uomo è consentito di vivere e agire senza arrecare dolore al prossimo. Chi vince, e proprio in ragione di questa vittoria detiene il potere, ineluttabilmente diventa strumento di sopraffazione ai danni degli sconfitti e dei sottomessi. Per questo Adelchi ammonisce il padre, dicendogli che nel momento supremo i soli ricordi lieti per lui saranno quelli degli anni in cui non è stato re (vv. 342-348). Il principe sconfitto arriva addirittura ad auspicare la totale mancanza di qualsiasi azione: il padre non solo deve rallegrarsi di aver perduto il trono («Godi che re non sei»), ma anche e soprattutto del fatto di trovarsi nell’impossibilità di fare alcunché, di prendere qualsiasi decisione («godi che chiusa / all’oprar t’è ogni via»). Mettersi in disparte, rinunciare all’azione, è l’unica possibilità per l’uomo di poter aspirare all’innocenza: «loco a gentile, / ad innocente opra non v’è». Se si agisce, in qualsiasi modo lo si faccia e qualunque sia il ruolo assegnato dal destino, si arreca dolore a qualcuno e ineluttabilmente si diventa artefici di ingiustizia. Violenza e sopraffazione sono inevitabili per chi voglia prendere parte attiva al gioco della storia: questa è la triste norma insita nel destino di ogni popolo.

La visione manzoniana della storia Manzoni mette in bocca ad Adelchi (vv. 352-357) quella che in realtà è la sua visione della storia, la stessa che prenderà forma anche nel romanzo: una catena inesorabile di mali e ingiustizie dominati da una feroce forza, che gli uomini più scaltri hanno imparato a camuffare sotto le spoglie della legge («e fa nomarsi dritto»). Ecco allora che la sconfitta, la prigionia e la morte, così come è stato anche per Ermengarda, diventano provida sventura: Carlo il vittorioso, il «felice, [...] cui tutto arride, tutto plaude e serve», in realtà porta già in sé i segni della morte, anche se la gloria effimera del mondo gli impedisce di riconoscerli.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Qual è la concezione del potere espressa da Adelchi? Sintetizzala in max 10 righe. COMPRENSIONE 2. Quale particolare condizione dà ad Adelchi il diritto di elargire a suo padre Desiderio consigli e moniti su come condurre la propria esistenza? 3. Perché gli anni che Desiderio avrà vissuto non da re saranno impressi nella sua memoria come giocondi? 4. Alla luce del discorso di Adelchi delinea le caratteristiche di Desiderio e del figlio. ANALISI 5. Quale idea della giustizia terrena ti sembra emerga dalle parole di Adelchi? Cerca elementi del testo a sostegno della tua risposta. Ti sembra che la posizione di Adelchi rispecchi anche quella di Manzoni? 6. In quale punto del testo è evidente il passaggio dal piano politico delle argomentazioni al piano religioso?

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1, 3

ESPOSIZIONE ORALE 7. Nei versi 349-352 Adelchi afferma che nel mondo degli uomini dominato dalla violenza non c’è spazio per un’azione generosa; non resta quindi alternativa che esercitare la violenza e l’ingiustizia o esserne vittime. Che cosa pensi di questa affermazione? Sei d’accordo sulla visione manzoniana della storia o ritieni che sia possibile esercitare giustizia?

La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 3 459


4

I promessi sposi 1 La scelta del romanzo come “letteratura del vero”

VIDEOLEZIONE

Michele Fanoli, La partenza dei promessi sposi, olio su tela, 1831 (Padova, Museo Civico).

Scrivere un romanzo in Italia: una scelta coraggiosa Manzoni mette mano alla prima stesura del suo romanzo il 24 aprile 1821, ma il lavoro di ricerca e documentazione storica era cominciato assai prima. Grazie ai suoi scritti poetici, Manzoni in quegli anni è già un nome di spicco nel mondo letterario italiano: appare perciò di particolare rilevanza la sua scelta di accostarsi al genere del romanzo, oggetto di non pochi pregiudizi in un panorama arretrato come il nostro durante il primo Ottocento. Il romanzo era infatti considerato dalla cultura ufficiale un genere “basso”, popolare nel senso deteriore del termine. A questo pregiudizio si aggiungevano timori di carattere moralistico: le avventure e passioni narrate dai romanzi europei già nel Settecento avrebbero potuto avere effetti deleteri sugli animi dei lettori più sensibili, soprattutto sulle giovani lettrici. Perché dunque un letterato già affermato come Alessandro Manzoni decide di utilizzare una forma letteraria mal accetta nelle alte sfere della cultura nazionale? Le ragioni della scelta manzoniana sono molteplici: innanzitutto nel genere del romanzo Manzoni trova lo spazio più appropriato per tradurre in atto la sua poetica del «vero», da perseguirsi attraverso l’«interessante» e con il fine dell’«utile» (come scrive nella Lettera sul Romanticismo del 1823 ➜ D4c ); una definizione nella quale si riassume perfettamente quell’ideologia romantica nella quale Manzoni si era riconosciuto fin dal 1816, al primo divampare della polemica con i classicisti. Il genere del romanzo, inoltre, offriva maggiore libertà rispetto ai generi codificati dalla tradizione, sia nella scelta dei contenuti sia dal punto di vista strutturale e linguistico: con le loro rigide convenzioni formali, la lirica e il dramma non erano adeguati a rappresentare una realtà della quale Manzoni vuole rendere tutta la complessa orditura storica, sociale, economica e morale. Proprio perché sceglie il romanzo, Manzoni potrà dare dignità di protagonisti a due umili popolani lombardi, che appartengono a quel “volgo” che nelle tragedie di fatto rimaneva sullo sfondo. Una nuova idea di romanzo storico Manzoni sceglie di scrivere un romanzo storico; iniziatore del genere è Walter Scott: ma rispetto al modello, il romanzo manzoniano è ispirato rigorosamente al principio della verosimiglianza e ha l’obiettivo di fornire ai lettori occasioni conoscitive e di riflessione morale. A questo scopo va ricondotto l’uso della storia nell’opera: non semplice coloritura esotica né sollecitazione della fantasia e del gusto per l’avventura dei lettori, ma appunto strumento per fornire conoscenza e soprattutto per sviluppare una riflessione che possa essere

460 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


valida anche per il presente. Da qui deriva il netto rifiuto del “romanzesco”, a cui Manzoni contrappone uno scrupolo rigoroso nel ricercare la verosimiglianza; al punto che, come scrive in una lettera a Fauriel del 1821, i personaggi, compresi quelli di invenzione, appaiano «così simili alla realtà che li si possa credere appartenenti ad una storia vera appena scoperta». Una storia vista “dall’interno” Nella Lettre à Monsieur Chauvet (➜ D4b ) Manzoni indica come compito precipuo della poesia la rappresentazione di una storia vera, ma vista “dall’interno”, in tutti quegli aspetti nascosti che sono patrimonio dell’intima esistenza del soggetto, ma che vengono inevitabilmente trascurati dal lavoro dello storiografo, attento esclusivamente ai fatti. Il poeta non deve dunque fermarsi alla superficie degli eventi, ma deve rappresentare quello che i personaggi «hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi». Questo programma artistico si esplicita al massimo nel romanzo, nel quale i personaggi sono rappresentati nella complessità del loro mondo interiore: si pensi a figure come la monaca di Monza o l’Innominato, in cui Manzoni dà prova di una straordinaria capacità di analisi morale e psicologica, nella quale si avverte l’influenza dei moralisti francesi del Sei-Settecento, a lui ben noti.

2 Le fonti e i modelli letterari Le fonti storiche Manzoni fonda la sua opera su una rigorosa documentazione storica sull’epoca in cui è immaginata la vicenda dei Promessi Sposi: tra le fonti principali a cui lo scrittore attinge vanno segnalate la secentesca Storia patria del canonico Giuseppe Ripamonti (1573-1643) (da cui ricava anche la storia della monaca di Monza e dell’Innominato); il saggio “Sul commercio dei commestibili e caro prezzo del vitto” dell’economista Melchiorre Gioia (1767-1829), che riporta le gride contro i bravi; gli scritti giuridici degli illuministi lombardi; il Ragguaglio del medico Alessandro Tadino (1580-1661) sull’origine della peste. Ma innumerevoli furono i documenti e le cronache del tempo in cui il romanzo è ambientato consultate dall’autore. Il modello del romanzo storico Uno dei modelli letterari di maggior importanza per Manzoni sono i romanzi storici di Walter Scott: la lettura di Ivanhoe precede di poche settimane l’inizio della stesura del Fermo e Lucia. Mentre però Walter Scott (➜ C5) nei suoi romanzi non si preoccupa tanto dell’esattezza del dato documentario, quanto piuttosto di rendere genericamente una certa atmosfera – il “colore” dell’epoca storica chiamata a rivivere sulle pagine (in modo analogo a una certa pittura di genere assai in voga nell’Ottocento) – Manzoni, come si è detto, è estremamente attento a una rigorosa fedeltà al vero storico. Inoltre, ben diversa è la levatura artistica della sua opera, animata da una tensione di carattere etico quasi del tutto assente dal Medioevo oleografico dei romanzi dell’autore di Ivanhoe: nei Promessi sposi la storia particolare dei personaggi, inserita nel contesto della grande Storia, alimenta una riflessione più ampia sull’uomo e il suo destino, sul rapporto tra bene e male, sulla giustizia. Il modello del romanzo di formazione Il “romanzo di formazione” si fonda sull’idea di un personaggio che, da una situazione di partenza, vive una serie di avventure che lo portano a subire una trasformazione sostanziale, identificabile come un processo di crescita (di “formazione”, appunto). I promessi sposi 4 461


Uno schema del genere è sicuramente riconoscibile anche nei Promessi sposi. Renzo e Lucia, loro malgrado, vengono strappati dall’ambiente ristretto e sicuro in cui vivevano: il piccolo sogno di felicità che si stavano costruendo è spazzato via dalla sopraffazione di un potente e per essi inizia una trafila obbligata di peripezie che, alla fine, li vedrà profondamente cambiati. Essi dovranno affrontare una serie di prove (per Renzo saranno l’avventurarsi nella grande città con tutte le sue insidie, l’incontro con le ambiguità e i soprusi delle istituzioni, la fuga, la peste; per Lucia l’incontro con un personaggio ambiguo e misterioso come la monaca di Monza, il rapimento, l’orribile notte da prigioniera nel castello dell’Innominato), al termine delle quali ciascuno dei due raggiunge un proprio personale patrimonio di saggezza. Il modello del romanzo gotico e d’avventura Nel passaggio dalla prima versione del romanzo (il Fermo e Lucia) all’edizione dei Promessi sposi del 1827, Manzoni sceglie di attenuare i toni forti e “goticheggianti” di certe scene; tuttavia il modello del romanzo gotico (o “nero”) di provenienza inglese è ancora riconoscibile nella redazione finale dei Promessi sposi (1840), in particolare associato alle peripezie di Lucia una volta separatasi dal fidanzato. Lucia rimanda allo stereotipo romanzesco della fanciulla innocente perseguitata dal potente malvagio e corrotto, un modello assai in voga nella letteratura di gusto nordico del Sette-Ottocento; e un’atmosfera “gotica” si ritrova anche nel disegno di certi ambienti, quali ad esempio il monastero della monaca di Monza (del quale si fa intendere che sia stato teatro di un delitto cruento mai scoperto) o ancor più il castello dell’Innominato (avvolto com’è in una sinistra aura di mistero che allude a tutte le nefandezze che vi sono state perpetrate ➜ T10c ). Tuttavia nei Promessi sposi questi elementi non hanno uno scopo puramente “pittoresco”: Manzoni trasforma ambienti e situazioni canonici del romanzo gotico in quelli che il critico russo Michail Bachtin ha definito “cronotopi”. «Nel cronotopo – spiega Raimondi – la fusione dei connotati spaziali e temporali d’una determinata epoca si attua in un tutto dotato di senso e di concretezza». Ecco che allora il castello dell’Innominato non funge semplicemente da sfondo suggestivo alle disavventure della protagonista, come avveniva invece nei romanzi di Ann Radcliffe

Lucia e Renzo, illustrazioni di Francesco Gonin dall’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

462 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


e di Horace Walpole, celebri rappresentanti della moda “gotica” tardo-settecentesca: la descrizione di Manzoni rinvia a tutto un mondo, alle sue consuetudini, i suoi princìpi e la sua morale, diventando così per i lettori uno “spioncino” attraverso cui osservare e comprendere un’epoca intera.

3 Una storia redazionale lunga e tormentata Il romanzo di una vita I promessi sposi costituiscono per Manzoni il lavoro di un’intera vita artistica. L’elaborazione del romanzo è infatti lunga e complessa e si snoda attraverso tre diverse versioni (1821-23, 1827, 1840-42) delle quali l’autore non sembrava mai soddisfatto, tanto da intervenire perfino a modificare le bozze in corso di stampa. Particolarmente tormentata fu l’attività di correzione sul piano linguistico: un terreno, quest’ultimo, particolarmente spinoso in un paese come l’Italia, in cui mancava una lingua comune che fosse da un lato abbastanza popolare da essere compresa da tutti i lettori e, dall’altro lato, adeguata a un’opera di alto valore letterario. Il Fermo e Lucia La prima stesura del romanzo inizia nell’aprile 1821 e termina nel settembre 1823, con un’interruzione dovuta alla composizione dell’Adelchi. L’opera si presenta divisa in quattro tomi, composti da un numero variabile di capitoli tutti titolati; è priva di titolo generale, anche se da una lettera di Manzoni all’amico Ermes Visconti (1784-1841) si può desumere che lo scrittore avesse l’intenzione di designare il romanzo con il nome dei due protagonisti, Fermo e Lucia. Questa prima versione del romanzo rimarrà manoscritta; a lungo sconosciuta al vasto pubblico, sarà pubblicata soltanto agli inizi del Novecento. Dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi: due romanzi diversi? Terminata la prima stesura del romanzo, praticamente subito (marzo 1824) Manzoni si accinge a un lavoro di revisione radicale, che si traduce in una vera e propria riscrittura dell’opera. Essa porta alla pubblicazione della prima edizione del romanzo, nel 1827, con titolo I promessi sposi e sottotitolo Storia milanese scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. Questa edizione è comunemente indicata come la “ventisettana”. Queste due versioni sono tanto differenti l’una dall’altra che c’è addirittura chi ha voluto vedervi due romanzi distinti, frutto di intenzioni autoriali del tutto diverse (Nigro). Le differenze riguardano sia la struttura, sia la lingua sia il tono complessivo dell’opera.

La struttura Mentre nel Fermo e Lucia le rispettive storie vissute dai due protagonisti vengono giustapposte in due blocchi successivi (Manzoni racconta prima le disavventure occorse a Lucia, per poi passare alle peripezie di Fermo) nei Promessi sposi le due serie di vicende sono intersecate l’una nell’altra, con un effetto di maggior verosimiglianza. Alcune parti vengono ridotte considerevolmente: in particolare la fosca storia della monaca di Monza nel Fermo e Lucia è molto più dettagliata (quasi un “romanzo nel romanzo”) così come la vita del Conte del Sagrato (poi ribattezzato l’Innominato). Vengono eliminati molti interventi e digressioni di tipo saggistico e la lunghissima parte dedicata al processo agli untori, che nell’edizione del 1840 Manzoni sceglierà di pubblicare in un’appendice separata.

I promessi sposi 4 463


Per contro, nella ventisettana Manzoni aggiunge alcuni episodi nuovi: la celebre scena della notte di Renzo presso l’Adda (XVII ➜ T10b OL), quella della visita alla sua vigna devastata (XXXIII ➜ T10d2 ) e, in chiusura del romanzo, la pagina sulla pioggia purificatrice (XXXVII). Tutti passi piuttosto brevi, ma densi di importanti significati.

La lingua Nel Fermo e Lucia Manzoni non si è ancora affrancato dalla matrice lombarda, scegliendo una soluzione di compromesso che porta a esiti di “ibridazione linguistica”. L’autore per primo non ne è soddisfatto, visto che definisce la lingua del Fermo e Lucia un «composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine». Invece nella ventisettana Manzoni si orienta decisamente verso il toscano, anche se per ora è quello appreso esclusivamente dai libri e dai vocabolari.

Le tonalità narrative Nel Fermo e Lucia si avverte ancora un tono piuttosto assertorio e didascalico. L’impianto ideologico dell’opera tende a separare nettamente il bene dal male, senza sfumature e senza lasciare troppo spazio a ombre e complessità. Rispetto al Fermo e Lucia, nei Promessi sposi l’intento pedagogico che il narratore si assume diventa più sfumato, come una sorta di sottofondo implicito, che non emerge mai se non nei toni lievi e obliqui di una sottile ironia. Si avverte inoltre un allontanamento dai toni eccessivi e dalle semplificazioni tipiche del romanzo storico alla Scott e dal repertorio di immagini e situazioni di gusto gotico (➜ T15 OL). Nella ventisettana è anche dato un più ampio spazio alla dimensione narrativa a scapito dell’elemento documentaristico, che è ancora primario nel Fermo e Lucia. Se là si voleva tratteggiare un certo quadro di costume, fornendo ai lettori il maggior numero di dettagli possibile con un intento quasi saggistico, nei Promessi sposi ogni aspetto della Storia è presentato attraverso la vita e le azioni dei personaggi, che vengono maggiormente approfonditi sotto il profilo psicologico. Dalla “ventisettana” alla “quarantana” Nel 1840 Manzoni pubblica l’edizione definitiva dei Promessi sposi, quella che leggiamo oggi. Tra la ventisettana e la cosiddetta “quarantana” non vi sono le marcate differenze che separano il Fermo e Lucia dalle redazioni successive. Manzoni attua nella nuova edizione una revisione di carattere sostanzialmente linguistico, operata dopo un viaggio a Firenze fatto nel 1827, subito dopo la pubblicazione del romanzo. Un viaggio che è per lui una vera e propria rivelazione e che lo porta alla decisione di intraprendere quella che lui stesso definisce, con un’espressione ormai celeberrima, «la risciacquatura in Arno», vale a dire un capillare lavoro di vaglio linguistico volto ad avvicinare la lingua del romanzo al fiorentino parlato dalle classi colte. Inoltre, in appendice all’edizione quarantana, viene pubblicata anche la Storia della colonna infame (➜ PAG. 475). Da notare che la “quarantana” viene illustrata dall’incisore Francesco Gonin, seguendo le precise direttive dell’autore, che intendeva potenziare il messaggio del romanzo attraverso le immagini suggerendone persino la collocazione nella pagina.

464 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Le principali differenze tra le diverse redazioni del romanzo FERMO E LUCIA

I PROMESSI SPOSI EDIZIONE 1827

I PROMESSI SPOSI EDIZIONE 1840

SEQUENZE DELL’INTRECCIO

dopo la separazione, le storie vissute dai due protagonisti sono raccontate in due blocchi distinti

dopo l’allontanamento dal paese, le due serie di avventure si intrecciano l’una nell’altra (le peripezie di Renzo all’interno delle vicende di Lucia)

ASPETTI DELLA STRUTTURA E DEI CONTENUTI

• la storia della monaca di Monza è molto ampia e dettagliata • concessioni al “romanzo nero” o al gusto romantico (ad esempio la morte di don Rodrigo) • un’ampia parte è riservata al processo agli untori

• i particolari più scabrosi e gli aspetti crudi della storia di Gertrude sono taciuti • scompaiono episodi gotici o di “facile” romanticismo • sono aggiunte parti storico-documentarie secentesche (quelle relative alla peste confluiscono nell’Appendice storica, poi Storia della colonna infame)

NARRATORE

interviene con giudizi e commenti critici

interviene in modo circoscritto, con commenti più sfumati, segnati dall’ironia costante

LINGUA

forte “ibridazione linguistica” (sul toscano letterario si innestano elementi lombardi, apporti dialettali, espressioni toscane, francesi e latine)

orientamento deciso verso il toscano libresco e arricchito dalla consultazione dei vocabolari

profonda revisione linguistica, basata sul toscano vivo parlato dai fiorentini colti del suo tempo

vengono evitate le semplificazioni tipiche di genere e delle situazioni del repertorio romantico

• si attua un profondo lavoro di analisi psicologica e di costruzione dei singoli personaggi e delle relazioni reciproche • l’intento morale è implicito e sfumato nell’ironia

TONALITÀ NARRATIVE

prevalgono le contrapposizioni nette bene-male e un sostanziale tono didascalico

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4 L’espediente dell’anonimo e lo statuto del narratore Un espediente tradizionale utilizzato in modo nuovo Manzoni immagina di riscrivere la storia che un anonimo scrittore narra in modo «sguaiato» e «scorretto» in un manoscritto secentesco, da lui trovato per caso, a cui dà voce in un breve passo nell’Introduzione al romanzo. Si tratta di un espediente narrativo con illustri precedenti nella storia della letteratura, come l’Orlando furioso di Ariosto e il Don Chisciotte di Cervantes. Rispetto ai predecessori, però, Manzoni usa lo stratagemma del finto manoscritto con una consapevolezza e un’intenzionalità del tutto nuove. Nei Promessi sposi il «graffiato e dilavato autografo» non è soltanto un pretesto per avviare la narrazione, né serve unicamente come garanzia di veridicità delle vicende narrate (come era prassi per il romanzo storico): il manoscritto diventa piuttosto un mezzo per distanziarsi dalla materia narrata, per osservarla da un punto di vista diverso e critico. Con un incessante gioco prospettico in cui la voce narrante risulta sdoppiata (➜ T9c1 ), Manzoni si può permettere di raccontare qualcosa prendendone nello stesso tempo le distanze e, in più, di esprimere il proprio giudizio. Gli interventi commentativi dell’autore Gli interventi del narratore di secondo grado a commento della storia narrata sono una costante dell’opera: invitano continuamente il lettore ad assumere un atteggiamento critico e riflessivo e a diffidare da un’identificazione troppo facile e immediata con ciò che viene raccontato. Prendiamo ad esempio l’episodio della «notte degli imbrogli e dei sotterfugi», nel capitolo VIII, quando Renzo e Lucia si introducono di nascosto in casa di don Abbondio per estorcergli le nozze negate. A un certo punto, proprio sul più bello, il racconto si interrompe per lasciare la parola a un commento della voce narrante. «In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.» La voce del narratore commenta quanto l’anonimo si limitava a raccontare; e basta quella breve battuta pungente della chiusa («voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo») a creare un’intesa con i lettori, che diventano così i suoi alleati, perfettamente in grado di comprendere il significato sottinteso. Se non mancano severi giudizi morali, tipico dei Promessi sposi è il commento ironico, che investe i grandi della storia ma, seppur in forma bonaria, non risparmia comunque i personaggi umili, mai idealizzati, ma visti anche nei loro difetti umani. Un’onniscienza problematica Seguendo le categorie comunemente utilizzate dalla narratologia, possiamo certo dire che quello dei Promessi sposi è un narratore onnisciente. Possiede infatti una conoscenza superiore dello spazio geografico in cui si svolge la storia, come si può vedere nel celebre incipit (➜ T9a ); dimostra di essere informato su tutti i fatti che vengono narrati, non solo i presenti ma anche i passati e i futuri (anche perché, prima che narratore, è stato lettore del manoscritto dell’anonimo); conosce pensieri e psicologia dei vari personaggi; talvolta assume perfino un ruolo di “demiurgo”, vale a dire che costruisce e manipola la storia a seconda delle sue esigenze narrative, manovrando i personaggi come fossero burat-

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tini nelle sue mani “onnipotenti” (➜ T9b ); interviene spesso con commenti e giudizi personali (come nel passo sopra citato) e talvolta arriva a rivolgersi direttamente ai lettori, allacciando con loro una sorta di dialogo privilegiato. Insomma, il narratore dei Promessi sposi pare davvero attribuirsi un potere enorme e ammantato di grande autorevolezza. D’altra parte, Manzoni è convinto che la realtà umana sia troppo complessa perché la si possa conoscere tutta, senza ombre e tentennamenti: anche uno sguardo “totale”, quale in teoria dovrebbe essere quello di un narratore onnisciente, non può pretendere di illuminarne i recessi più nascosti. È per questo che possiamo parlare di “onniscienza problematica”, perché essa non si impone nel romanzo come un punto di vista assoluto e indiscutibile.

trama, gli itinerari della narrazione, il rapporto 5 La tra macrostoria e microstoria

LA TRAMA

La struttura La vicenda avventurosa dei Promessi Sposi si svolge in Lombardia tra il 1628 e il 1630 durante la dominazione spagnola. Con le vicende dei protagonisti si intrecciano gli eventi storici: la carestia, la guerra per la successione al ducato di Mantova, la calata dei lanzichenecchi, la peste. Dal paesino sul lago di Como dove vivono Renzo e Lucia, l’azione si sviluppa a Monza, Milano e nel territorio bergamasco.

L’inizio della storia: i capitoli “paesani” (I-VIII) Il romanzo si apre in un piccolo paesino sul lago di Como, che non viene mai nominato, dove la mattina del 7 novembre 1628 due giovani, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, dovrebbero sposarsi. Ma il signorotto del luogo, don Rodrigo, ha messo gli occhi sulla ragazza e così la sera prima delle nozze manda i suoi bravi dal parroco che deve ufficiare il rito, il pavido don Abbondio, intimandogli di non celebrare le nozze (I). Renzo non si fa ingannare dalle mille scuse accampate dal prete e alla fine riesce a scoprire il vero

IMMAGINE INTERATTIVA

Giuseppe Molteni e Massimo d’Azeglio, Alessandro Manzoni, olio su tela, 1835 (Milano, Accademia di Brera). La tela è il frutto della collaborazione di due pittori: il ritratto di Manzoni è di Molteni, mentre lo sfondo di paesaggio (che rappresenta «Quel ramo del lago di Como» dell’incipit del romanzo) è opera dello scrittore e pittore Massimo Taparelli d’Azeglio, marito di Giulietta, una delle figlie di Manzoni.

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Mappa interattiva Vite a confronto delle figure femminili nei Promessi sposi

LA TRAMA

Le prime pagine di un’edizione dei Promessi sposi.

motivo della sua titubanza (II). Su consiglio di Agnese, la madre di Lucia, Renzo si reca dall’avvocato Azzeccagarbugli per chiedergli aiuto, ma costui prima lo scambia per un bravo e poi, quando scopre che c’è di mezzo il temuto don Rodrigo, si rifiuta di occuparsi del caso (III). I due fidanzati si rivolgono allora a padre Cristoforo, un frate cappuccino del vicino convento di Pescarenico, dalla gioventù burrascosa (IV). Questi decide di andare nel palazzotto di don Rodrigo ma, quando i due si affrontano, il nobilotto si rifiuta di intendere le ragioni del frate e lo scaccia in malo modo (V). Agnese consiglia ai due giovani di tendere un tranello a don Abbondio con un matrimonio a sorpresa (VI). Nel frattempo, don Rodrigo organizza il rapimento di Lucia, che deve avvenire nella notte tra il 10 e l’11 novembre, la stessa in cui i promessi intendono tentare il matrimonio a sorpresa (VII). Intanto padre Cristoforo, informato da un vecchio servitore di don Rodrigo dell’intenzione di rapire Lucia, fa avvertire i due giovani e li chiama al convento insieme ad Agnese. Di lì, i tre scapperanno verso un rifugio sicuro: Agnese e Lucia in un monastero di Monza, Renzo in un convento milanese. I fuggiaschi abbandonano il paese in una struggente scena notturna (VIII).

Lucia e la monaca di Monza (IX-X) Nel convento dove vengono accolte Agnese e Lucia vive una suora di nobili origini, che si trova in quel luogo in seguito a una monacazione forzata. Questa drammatica vicenda e il torbido passato della donna sono narrati dettagliatamente in una delle più celebri digressioni del romanzo.

Renzo a Milano: il montanaro ingenuo nella città in rivolta (XI-XVII) Don Rodrigo briga per scoprire dove sia finita Lucia dopo il fallito tentativo di rapimento. Intanto Renzo raggiunge Milano e trova la città sconvolta dai tumulti per il pane (XI). Il narratore spiega le ragioni della rivolta e Renzo assiste molto turbato alla violenza della folla (XII-XIII); nella sua ingenuità, comincia a fare discorsi incauti, che attirano l’attenzione di una spia degli sbirri. Arrestato, Renzo riesce a fuggire durante il tragitto verso la prigione (XIV-XV). Scappa così da Milano, dirigendosi verso l’Adda, confine tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia (XVI). Raggiunge poi un paesino nel Bergamasco, dove vive Bortolo, un suo cugino, che gli dà ospitalità (XVII).

Il “romanzo gotico” di Lucia (XVIII-XXVII) Intanto Lucia è rimasta sola al convento di Monza, dopo che Agnese è tornata al paese; padre Cristoforo è trasferito lontano da Pescarenico. Don Rodrigo ha scoperto il rifugio di Lucia e, attraverso l’Innominato, signore potente e crudele, con l’aiuto della monaca di Monza la fa rapire (XVIII-XX). Condotta al castello dell’Innominato, Lucia offre alla Madonna la propria castità in cambio della salvezza (XXI). Nel paese, però, è in visita l’arcivescovo Federigo Borromeo; turbato da un malessere interiore,

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LA TRAMA

l’Innominato decide di recarsi dal prelato; dopo un incontro sconvolgente e una notte tumultuosa, si converte e libera Lucia, che viene affidata a una nobildonna milanese, donna Prassede (XXII-XXV). Trascorre quasi un anno, durante il quale le notizie di Renzo sono sempre più confuse e incerte; attraverso un complicato carteggio con Agnese, il giovane ha saputo del voto di Lucia, ma non si rassegna a rinunciarvi (XXVI-XXVII).

La discesa agli inferi di Renzo (XXVIII-XXXV) Il narratore ricostruisce le ragioni della carestia, acuita dallo scoppio della guerra. Don Abbondio, Agnese e Perpetua trovano rifugio presso l’Innominato, che è diventato un benefattore (XXVIII-XXX). In conseguenza della carestia e della guerra, a Milano scoppia un’epidemia di peste (XXXI-XXXII). Anche don Rodrigo è contagiato ed è portato al lazzaretto. Renzo, venuto a cercare Lucia, è scambiato per untore e rischia il linciaggio. Trovato il lazzaretto, vi incontra padre Cristoforo, che lo conduce da don Rodrigo ormai agonizzante (XXXIII-XXXV).

Il ricongiungimento dei promessi sposi e l’epilogo (XXXVI-XXXVIII) Al lazzaretto, Renzo trova anche Lucia, che come lui ha contratto la peste ma ne è guarita. Padre Cristoforo scioglie il voto di castità (e muore vittima dell’epidemia); Renzo torna nel Bergamasco e poi si reca al paese natio, dove viene raggiunto da Lucia. Finalmente i due promessi riescono a sposarsi.

Niccolò Cianfanelli, Le nozze di Renzo e Lucia, olio su tela, 1845 circa (Collezione privata).

Renzo e Lucia: due diversi percorsi narrativi Nel passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi, il rapporto fra le vicende che vedono coinvolti rispettivamente i due protagonisti viene a complicarsi: non più semplicemente giustapposte in due blocchi distinti, esse si intrecciano le une nelle altre in uno schema di interruzioni reciproche. Le strade dei due protagonisti, però, si separano non soltanto in senso spaziale (Lucia a Monza e poi nel castello dell’Innominato, Renzo a Milano e poi in fuga nel Bergamasco), ma anche per il carattere diverso che assumono agli occhi dei lettori. Renzo vive la sua avventura a diretto contatto con la Storia e con i suoi molteplici eventi (i tumulti del pane a Milano, l’aggressione al Vicario di Provvisione ➜ T13 ) e vi partecipa in maniera attiva, rimanendo spesso vittima, per la sua ingenuità e per il carattere impulsivo, di equivoci e fraintendimenti (il primo dei quali si era avuto nello studio dell’Azzeccagarbugli, quando Renzo era stato scambiato per un bravo in cerca di scappatoie legali). Il suo è un percorso che si sviluppa tutto negli spazi aperti, dalla grande città alla campagna lombarda; che si tratti di viaggi o di vere e proprie fughe, la sua vicenda si snoda attraverso continui spostamenti, in prima persona. Al contrario, Lucia vive un’esperienza lontana dalla dimensione colletI promessi sposi 4 469


Eliseo Sala, Lucia Mondella, olio su tela, 1843 (Milano, collezione privata).

tiva della Storia, in linea con il suo carattere riservato, poco propenso all’azione diretta. Il suo percorso si configura come una serie di passaggi da dimora a dimora (passaggi sempre subìti, decisi per lei da altri): il convento della monaca di Monza, il castello dell’Innominato, la casa del sarto e poi quella di don Ferrante e donna Prassede; e persino il lazzaretto, dove la giovane è rappresentata chiusa nella baracca insieme alla mercante milanese. Lucia, insomma, si muove sempre in un ambito ristretto e limitato: la sua esperienza, più che sul piano storicosociale, si sviluppa su quello privato dei rapporti personali, della conoscenza intima e profonda di indoli e caratteri. Se quello di Renzo è un romanzo in continuo movimento, che vive nella dimensione del viaggio, il percorso narrativo di Lucia si consuma invece all’interno delle mura domestiche e il suo rapporto con la realtà è contrassegnato dalla parola più che dall’azione, una parola più spesso ascoltata che non pronunciata. “Storia” dei grandi... La trama dei Promessi sposi trae spunto da eventi storici realmente accaduti tra il 1628 e il 1630 che fanno da sfondo alla storia privata di Renzo e Lucia: essi però, a differenza di quanto avveniva nei romanzi alla Scott, non hanno soltanto la mera funzione di fornire un’ambientazione credibile alle vicende dei protagonisti. Spesso infatti la macrostoria diventa l’oggetto esclusivo del discorso di Manzoni, che si sviluppa in ampie e articolate digressioni nelle quali egli propone una propria visione critica della vicenda in esame; l’esempio più evidente nella compagine del romanzo è quello dei capitoli (ben cinque, dal XVIII al XXII) dedicati alla carestia e al successivo diffondersi della peste nel Milanese. Sul palcoscenico del romanzo compaiono grandi personaggi storici realmente vissuti, come ad esempio il cancelliere Ferrer o il cardinale Borromeo, che della grande Storia sono stati protagonisti.

PER APPROFONDIRE

... e “storie” dei piccoli Non è però sui personaggi illustri che Manzoni concentra la propria attenzione come narratore: l’ottica in cui si pone è quella delle «genti meccaniche», figure umili e oscure la cui vita semplice e modesta si scontra con le vicende della Storia decisa e manovrata dai potenti. La finalità che ispira questa scelta dello scrittore non è certo quella di impietosire i lettori alle vicissitudini

Tempo del narrato e tempo della narrazione La complessità del rapporto con la materia storica trattata nei Promessi sposi emerge anche dall’evidente squilibrio nella distribuzione dei fatti che si riscontra nell’economia interna del romanzo. Manzoni non segue in modo lineare la scansione temporale degli eventi (che, come abbiamo visto, si snodano lungo un periodo di circa due anni), adeguandosi alla loro durata effettiva, ma dedica più o meno i due terzi del romanzo (circa 25 capitoli) ai fatti avvenuti nel primo mese, dall’incontro di don Abbondio con i bravi fino alla liberazione di Lucia da parte dell’Innominato (ossia dal 7 novembre 1628 al dicembre dello stesso anno); poi la narrazione accelera vertiginosamente, concentrando i mesi rimanenti (inverno 1629 - autunno 1630) negli ultimi tredici capitoli, fino all’epilogo della vicenda. A questa sfasatura temporale vanno aggiunte le diverse frat-

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ture costituite dalle lunghe digressioni con cui Manzoni inframmezza la narrazione, siano esse flashback (come nel caso di padre Cristoforo e della monaca di Monza), oppure spaccati storici sull’epoca in cui si svolge la vicenda. Manzoni, insomma, quasi a ulteriore riprova delle idee già espresse nella Lettre à Monsieur Chauvet, si muove con estrema libertà nella dimensione temporale del romanzo: nella sua visione la storia è infatti una struttura complessa, tanto complessa che non le è possibile adeguarsi allo scorrere naturale del tempo. Troppe sono le prospettive, i vuoti, gli squilibri, le zone d’ombra e i punti di vista che concorrono alla sua esistenza. Ecco allora che una sola notte può occupare uno spazio narrativo più vasto di quello dedicato a molti mesi di vicende, se si tratta della “notte degli imbrogli e dei sotterfugi”, raccontata nell’ottica accorata dei suoi protagonisti.


dei due giovani protagonisti. In linea con il progetto già intrapreso nelle tragedie, anche nel romanzo Manzoni intende proporre un punto di vista nuovo sul corso storico, vale a dire il punto di vista di chi è costretto a subirlo, con tutto il suo carico di soprusi e sopraffazioni. Una prospettiva che si riallaccia alla visione cristiana dell’autore, secondo la quale ogni singola esistenza ha importanza e senso in sé ed è preziosa agli occhi di Dio. Da qui deriva anche la scelta di un realismo che implica costanti riferimenti al “basso” e al quotidiano, in linea con le tendenze europee più moderne. L’interazione tra macrostoria e microstoria Della “grande” Storia, Manzoni vuole rappresentare soprattutto la correlazione organica e profonda con la vita reale e concreta dei suoi umili personaggi: macrostoria e microstoria così si intrecciano, conformandosi reciprocamente. Ecco che allora le gride, cioè i decreti redatti nella lingua fredda e oscura del legislatore (e letti dal banditore nei luoghi pubblici), diventano il segno visibile che sancisce il peso della sopraffazione subìta da Renzo e Lucia; la carestia incombente è riflessa sulle povere tavole imbandite nel corso dei primi capitoli; la peste che devasta Milano e il suo contado diventa per Renzo una sorta di personale “discesa agli inferi”, così come i tumulti del pane (➜ T13 ) erano stati l’occasione per prendere coscienza delle insidie e dei pericoli della vita pubblica.

sistema dei personaggi e la raffigurazione della società 6 Ilsecentesca online

I rapporti tra i personaggi e la prospettiva ideologica dei Promessi sposi I personaggi che animano le pagine del romanzo sono numerosissimi: non solo testimoniano la straordinaria ricchezza creativa dell’autore, ma assumono un’importante funzione strutturale, diventando veri e propri pilastri di forza su cui si fonda l’intera architettura narrativa e attraverso cui si definisce la prospettiva ideologica che sottende il romanzo. A questo proposito, si dimostra particolarmente utile la proposta del critico Franco Fido, che opera una sintesi del sistema dei personaggi illustrandolo in una sorta di grafico geometrico. Fido cerca di tradurre in immagine la natura organica del romanzo, concepito da Manzoni come un sistema unitario, in cui i reciproci rapporti tra i vari personaggi rimandano con evidenza ai campi di forza MEDIATORI sopruso storico-sociale attivi nel tempo della storia Protettori Strumenti OPPRESSORI narrata, ovvero nel Seicento.

Mappa interattiva I promessi sposi: i personaggi

Schema di Franco Fido del sistema di personaggi del romanzo.

giustizia? VITTIME

don Abbondio

ca

pit

capitoli

Renzo

olo

I

don Rodrigo

fra Cristoforo

ultimi

(capitoli XX-XXXVIII)

Lucia

la monaca di Monza l’Innominato

Il cardinale misericordia

grazia

Un ritratto realistico della società secentesca Nella sua instancabile attenzione al vero storico, Manzoni si preoccupa di rappresentare, attraverso i personaggi maggiori e minori del romanzo, i vari settori della società secentesca. Appartengono al ceto popolare i due protagonisti, Renzo e Lucia, e le figure che ruotano attorno ad essi: Agnese, innanzitutto, e diverse minori, come gli amici che aiutano Renzo nel tentato inganno ai danni di don Abbondio o il cugino bergamasco. L’ariI promessi sposi 4 471


stocrazia è rappresentata da don Rodrigo, sostenuto nelle sue malefatte dal conte Attilio e dal conte zio, da Gertrude insieme alla sua spietata famiglia e anche dall’Innominato: che però, pure quando è ancora prigioniero della propria malvagità, ha un’aura di nobile grandezza; e inoltre dal cardinale Federigo Borromeo. Non manca il ceto medio, che prende forma in personaggi quali Azzeccagarbugli ma anche fra Cristoforo, che prima di seguire la vocazione religiosa era un ricco mercante. I campi di forza del bene e del male Se si analizzano i vari gruppi sociali rappresentati nel romanzo, è possibile constatare come ciascuno di essi si divida in maniera quasi simmetrica tra bontà e malvagità, tra comportamenti dettati da generosità e amore cristiano e figure che si esauriscono invece in un egoismo gretto o che addirittura rappresentano la dimensione del male operante nella storia. Evidentemente, la visione di Manzoni secondo la quale il mondo si divide tra oppressi e oppressori non intende dare a questa spartizione una connotazione prettamente sociale: il male, così come il bene, non sta tutto da una parte sola. Nel popolo vi è certo la mite rassegnazione nutrita di fede religiosa di un personaggio per definizione virtuoso come Lucia; ma tale gruppo è anche rappresentato dalla cieca follia della marmaglia, che si riversa per le vie e le piazze milanesi durante i tumulti del pane, sintetizzata dalla celebre immagine del vecchio malvissuto (➜ T13 ). Analogamente, tra la nobiltà, la meschina crudeltà del nobile di provincia don Rodrigo è bilanciata dalla cupa grandiosità dell’Innominato, che a sua volta trova il proprio contraltare nella luminosa magnanimità del cardinale Federigo Borromeo. I personaggi del mondo ecclesiastico Lontano da qualsiasi forma di bigottismo, Manzoni non esita a rappresentare vizi e debolezze anche pesanti di cui si macchiano alcuni rappresentanti della Chiesa, tanto più gravi perché si tratta proprio di coloro che dovrebbero prodigarsi per alleviare le pene e i dolori dei deboli. D’altra parte, se da un lato troviamo la grettezza e la pusillanimità di don Abbondio, dall’altro vi sono la fede coraggiosa e sollecita di fra Cristoforo e la grande statura morale del cardinale Borromeo. Opposizioni che Manzoni “drammatizza”, in qualche caso, sotto forma di memorabili confronti diretti, come nel celebre dialogo tra don Abbondio e il cardinale (➜ T12b ).

7 L’ideologia del romanzo Il Seicento di Manzoni: una diagnosi severa con l’occhio rivolto al presente I promessi sposi sono ambientati nel Seicento: una scelta che, in un periodo nel quale il romanzo storico tende a prediligere le atmosfere medievali, assume un particolare significato. Per Manzoni, il Seicento è il simbolo di un’epoca dominata dalla violenza e dall’arbitrio dei potenti, ancora impastoiata in strutture politiche di tipo feudale, dove dominano l’adulazione e il privilegio, e la mentalità corrente è intrisa di superstizione, pregiudizi e vuota erudizione: emblematica al proposito è la figura di don Ferrante, che muore di peste dopo aver dimostrato con una serie di acuti sillogismi che il contagio non esiste. È l’occhio critico dell’illuminista quello che Manzoni rivolge alla società che fa da sfondo alle vicende dei suoi personaggi, nella quale è possibile riconoscere molti caratteri propri anche del tempo a lui contemporaneo: non va dimenticato che proprio nel 1821, quando Manzoni comincia la prima stesura del romanzo, erano falliti i moti liberali che rappresentavano il primo tentativo della borghesia pro-

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gressista di far sentire la propria voce. Alla luce di questi eventi, che ebbero un forte impatto anche emotivo sullo scrittore (come testimonia l’ode Marzo 1821 ➜ T2 ), la sua analisi critica del Seicento si configura come una ricerca delle radici passate di quei guasti che ancora, in pieno XIX secolo, continuavano ad affliggere la società italiana. Una visione politico-sociale moderata, illuminata dai princìpi cristiani Il romanzo assume così anche il valore di una proposta attuale, si anima di una progettualità in cui è possibile riconoscere l’ideale di società che Manzoni vuole offrire. A quale modello di società pensa lo scrittore? Posta come condizione essenziale e irrinunciabile la conquista dell’autonomia politica, per l’Italia egli auspica una società che possa contare su un saldo potere statale, in grado di limitare e controllare gli interessi privati e tutelare le parti sociali più deboli, spezzando così quel circolo vizioso oppressori-oppressi tanto ben descritto nel romanzo. La critica, anche feroce, mossa nel romanzo alla corruzione e alla prepotenza dei ceti aristocratici non deve però far pensare che Manzoni possa indulgere a una prospettiva di tipo rivoluzionario. Al contrario, l’orrore per lo scontro di classe traspare con evidenza nelle pagine dedicate ai tumulti milanesi, nelle quali la folla è rappresentata come una massa minacciosa che si lascia trasportare dalla rabbia e dall’irrazionalità (➜ T13 ). Manzoni rifiuta ogni ipotesi di sovvertimento sociale e rimane sempre fedele alla prospettiva di un liberalismo moderato, arricchito e illuminato dai princìpi del Cristianesimo: i diversi ceti devono continuare a esistere, nella nuova consapevolezza della propria funzione e delle responsabilità a essa connesse. Questo comporta, per l’aristocrazia, un’oculata gestione del proprio patrimonio, messo a servizio della collettività, e nell’attenzione alle esigenze dei bisognosi secondo un principio cristiano di solidarietà. Dal canto suo, il popolo deve abbandonare ogni proposito di rivendicazione violenta e, fiducioso nella ricompensa ultraterrena, accettare con cristiana rassegnazione le inevitabili durezze legate alla propria condizione. Condizione cui, tuttavia, non è del tutto preclusa la possibilità di un miglioramento e addirittura di un avanzamento sociale: è quanto accade a Renzo il quale, da operaio che era, investendo il suo piccolo gruzzolo nell’acquisto di un filatoio, si trova a concludere il suo itinerario nel romanzo da artigiano-piccolo imprenditore. La provvidenza e il «sugo della storia» Uno dei luoghi comuni maggiormente radicati riguardo ai Promessi sposi è che si tratti del romanzo “della provvidenza”; l’opera, cioè, in cui Manzoni sancisce l’impossibilità da parte degli uomini di gestire il proprio destino, che deve pertanto essere affidato, con cristiana rassegnazione, alla volontà di Dio, nella fiducia che la provvidenza divina operi comunque il bene nella Storia e nella vita umana. Si tratta, però, di una semplificazione che rischia di banalizzare o interpretare in modo riduttivo il pensiero manzoniano. In realtà, se si legge con attenzione il lavoro, ci si accorge che tutte le affermazioni di fiducia incondizionata nella divina provvidenza non provengono mai dalla voce dell’autore, ma sono affidate a questo o quel personaggio e risultano dunque espressione di un determinato punto di vista. Una scelta che non può essere casuale: attraverso questa opzione narrativa, Manzoni sembra rinunciare a una posizione di fideistica certezza. Il fatto è che la riflessione sulla provvidenza non può essere considerata se non in relazione con la consapevolezza che il male è presente nella storia dell’uomo, vi opera in modo instancabile e spesso riesce ad avere il sopravvento sul bene e sulla ragione. I promessi sposi 4 473


Una visione pessimistica, che trova piena espressione nella prospettiva drammatica e sconsolata della Storia della colonna infame e che, nella conclusione del romanzo, è sintetizzata nel «sugo della storia» (➜ T14d ), compreso in parte da Renzo e, soprattutto, da Lucia: «conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore» (XXXVIII). Parafrasando la semplice lezioncina che i due fidanzati hanno saputo trarre dalle proprie disavventure, possiamo dire questo: nella visione manzoniana non vi è alcuna corrispondenza tra virtù e felicità. Questa è un’ingenua convinzione che appartiene soltanto ai suoi personaggi e alla quale lo scrittore guarda spesso con un’ironia affettuosa che ne smaschera l’elementare limitatezza. Pensiamo all’espressione diventata famosa «La c’è la provvidenza», pronunciata da Renzo dopo la sua notte da fuggiasco (XVII). Il rapporto tra bene e male nella storia umana rimane regolato da meccanismi imperscrutabili, che solo in una prospettiva ultraterrena potranno trovare un senso, una giustificazione. Il nodo della giustizia Il pessimismo manzoniano, che deriva dalla sua particolare visione religiosa, trova espressione nei Promessi sposi in uno dei temi principali e fondanti del romanzo, cioè la giustizia. Si tratta di un tema centrale nella riflessione illuminista; non si deve al proposito dimenticare che Manzoni era nipote di Cesare Beccaria, l’autore del celebre trattato Dei delitti e delle pene. La stessa macchina narrativa è messa in moto, non a caso, da un palese atto di ingiustizia patito dai due protagonisti e, vista nel suo complesso, tutta la loro vicenda potrebbe essere letta come una lunga, faticosa ricerca di giustizia; un’impresa destinata a rimanere molte volte frustrata, a partire dall’avvilente episodio di Renzo nello studio dell’Azzeccagarbugli. La giustizia, dunque, rappresenta per l’uomo un orizzonte lontano e irraggiungibile: essa è il riflesso visibile della sua incapacità a costruire un mondo dove il bene comune si sposi con il benessere dei singoli individui, indipendentemente dallo stato sociale o dal grado di potere che essi incarnano. Ecco perché questo tema occupa uno spazio tanto importante nell’economia del romanzo, diventandone una fondamentale chiave di lettura.

Aspetti fondamentali dei Promessi sposi NARRATORE

MODELLI

• espediente dell’anonimo e sdoppiamento del narratore • onniscienza “problematica” • romanzo storico • romanzo di formazione • romanzo gotico e d’avventura

STORIA E PERSONAGGI

• rapporto fra macrostoria e microstoria • sistema dei personaggi, fondato sull’opposizione tra i campi di forza del bene e del male e tra campi di forza etico-sociale • ritratto realistico della società secentesca

IDEOLOGIA

• ottica politico-sociale moderata e princìpi cristiani • consapevolezza che il male è presente nella storia dell’uomo • il nodo “illuminista” della giustizia

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Storia della colonna infame: tra responsabilità individuali 8 La e silenzio della provvidenza Il processo agli untori Tra i maggiori interventi operati da Manzoni nella revisione del Fermo e Lucia c’è lo stralcio della lunghissima parte dedicata a uno dei più celebri processi ai cosiddetti “untori”, celebrati a Milano nel 1630. Non è una decisione dettata esclusivamente dall’ampiezza eccessiva: Manzoni, infatti, riconosce in questi capitoli anche un’autonomia stilistica e ideologica che lo porta alla decisione di pubblicarli in forma indipendente dal romanzo, ma come un suo necessario completamento, in appendice all’edizione del 1840. L’argomento Soggetto principale è il processo che si svolge a Milano contro alcuni presunti “untori”; la narrazione prende l’avvio da un episodio di cronaca cittadina: in una piovosa mattina del giugno 1630, in una città stremata dalla pestilenza, due popolane credono di riconoscere un comportamento sospetto in un passante ignaro, tale Guglielmo Piazza. Il malcapitato verrà arrestato dalle autorità e sottoposto a tortura; per cercare di sottrarsi ai tormenti, e dietro la mendace promessa di impunità, egli denuncia il suo presunto complice, il barbiere Giangiacomo Mora. Ne seguirà un processo assurdo, ingiusto e crudele, che vedrà coinvolti anche altri innocenti, dettato esclusivamente dal bisogno di trovare un colpevole da gettare in pasto a una folla feroce, incattivita dalla paura. Il processo si concluderà con la prevedibile condanna a morte degli imputati (tranne uno, perché abbastanza ricco e altolocato da poter allestire una difesa efficace). Il titolo La casa del Mora è rasa al suolo e al suo posto viene eretta una colonna con un’iscrizione che recita: «A perenne memoria dei fatti il Senato comandò che questa casa, officina del delitto, venisse rasa al suolo con divieto di mai ricostruirla e che si ergesse una colonna da chiamarsi infame». Da qui il titolo dell’opera di Manzoni,

La stampa rappresenta episodi del processo e della tortura degli untori durante la peste del 1630 a Milano. Sulla destra, la colonna infame eretta al posto della casa del presunto untore Giangiacomo Mora.

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Il problema della giustizia La Storia della colonna infame ruota attorno a uno dei temi fondanti di tutto il pensiero manzoniano: il problema della giustizia. Nell’introduzione leggiamo che questa è la storia «d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini»: un’espressione in cui è condensato il senso profondo di una vicenda cupa, che Manzoni riporta non per semplice gusto di cronaca, ma per elevarla a emblema del male che, in determinate circostanze, riesce ad avere il sopravvento sul bene. E queste circostanze non sono soltanto quelle determinate dal contesto storico e culturale: vale a dire, Manzoni non intende semplicemente scagliarsi contro l’ignoranza dominante nel Seicento, che abbracciava l’assurda idea di un contagio diffuso dagli untori, né contro la brutalità di un sistema giudiziario basato sull’uso della tortura. Questa, semmai, era la finalità perseguita da Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene, riconosciuto da Manzoni come fonte importante, ma dal quale tiene a prendere le distanze. Il suo discorso, infatti, vuole inserirsi in una più ampia riflessione di carattere morale, che coinvolge l’uomo non solo come espressione di una certa cultura o di un certo contesto storico, bensì come individuo singolo, con le sue responsabilità: pur condannando senza riserve la tortura, Manzoni sostiene infatti che il male non stia nella cosa in sé, ma negli uomini che vi fanno ricorso lasciandosi trascinare da quelle pulsioni irrazionali e sempre negative che lui chiama «passioni». Questo accadeva nel Seicento, per una cultura oscurantista e dentro una società arretrata; ma lo stesso può accadere anche in qualsiasi altra epoca storica, magari anche quella che si illude di aver raggiunto il più alto livello di civiltà. Un monito valido per ogni epoca Come ha scritto uno dei più acuti lettori e interpreti della Storia della colonna infame, Leonardo Sciascia (1921-1989), «il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente». A riprova dell’attualità e dell’immutato valore civile dell’opera manzoniana, Sciascia traccia un parallelo tra chi interpreta le nefandezze dei

Lapide della colonna infame (Milano, Castello Sforzesco).

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giudici del 1630 come un mero frutto dei tempi e chi, con argomentazioni analoghe, riesce in qualche modo a giustificare gli orrori dei campi di sterminio nazisti. Lo scrittore siciliano vede Manzoni come un lucido cronista che analizza con spietata precisione le responsabilità individuali di uomini a cui era stato concesso il potere di giudicare altri uomini, di decidere della loro vita e della loro morte: non mostri, ma uomini come tutti che, consapevolmente, hanno scelto di agire per il male. Ecco perché questa lettura diventa un campanello d’allarme anche per il mondo odierno; ecco perché, sempre secondo Sciascia, forse si potrebbe anche non leggere I promessi sposi, ma non si può assolutamente prescindere dalla Storia della colonna infame. Manzoni, insomma, non riconosce né nella tortura, né nell’ignoranza, le cause prime degli orrori consumatisi a Milano nel 1630. Infatti nell’Introduzione afferma: «L’ignoranza in fisica [cioè in medicina] può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé»: come a dire, che per quanto limitate fossero le conoscenze scientifiche all’epoca dei processi agli untori, per quanto esecrabile la consuetudine della tortura, non è in questi fatti esteriori che ha origine il male, bensì nell’animo e nelle menti di coloro che li hanno messi in pratica. Infatti, la Storia della colonna infame è un’attenta e puntuale cronaca giudiziaria nella quale si dimostra come i giudici, pur rimanendo entro i parametri imposti dall’uso e dalla cultura del loro tempo, avrebbero avuto modo di giungere alla verità e, facendo un buon uso della ragione, accogliere l’innocenza degli imputati. Così non fecero perché scelsero di lasciarsi dominare da quelle passioni che, lasciate libere di agire nella storia, aprono la strada all’inesorabile prevalere del male sul bene. L’assenza della provvidenza In questa fosca prospettiva delineata da Manzoni non c’è spazio neppure per quella provvidenza che nei Promessi sposi pare, a volte, poter aprire uno spiraglio di luce. Invece, tutti gli eventi descritti nella Storia della colonna infame si sviluppano entro una dimensione esclusivamente umana: la vicenda non ha alcuna dimensione trascendentale, i meccanismi che la regolano sono tutti materiali e contingenti. La fede religiosa compare solo attraverso le vicende terribili dei condannati, come unica forma di consolazione ad essi accessibile, che però nulla cambia né del loro destino né del quadro generale tratteggiato dall’autore, che è quello di un mondo dominato dall’ingiustizia. Uno scandalo immane, questo, anche agli occhi di un credente, e che Manzoni non ha voluto nascondere in questa sua opera, che va letta insieme ai Promessi sposi per capire il senso relativo da attribuire alla proverbiale provvidenza manzoniana.

Storia della colonna infame DATAZIONE

1840, in appendice ai Promessi sposi

ARGOMENTO

processo contro “presunti” untori, avvenuto a Milano nel 1630

TEMI

• responsabilità etica individuale • sistema iniquo della giustizia • ignoranza e pregiudizio

I promessi sposi 4 477


9 Le scelte linguistiche e stilistiche Il dilemma di un romanziere italiano A chi, nei primi anni dell’Ottocento, in Italia si accingesse alla stesura di un romanzo, si presentava come urgente e prioritario il problema della lingua nella quale scriverlo. Una scelta tutt’altro che ovvia in un paese dove, a differenza della Francia, esisteva un divario fortissimo tra lingua letteraria e lingua effettivamente parlata e quest’ultima era lontana anche solo da una parvenza di unità. Di tutte queste difficoltà si lamenta Manzoni fin dal 1821, in una lettera a Claude Fauriel in cui si sofferma in particolare sulla mancanza, nel nostro paese, di un codice comune tra chi scrive e chi legge. Da quel momento la riflessione sulla lingua lo accompagna per quasi vent’anni, lungo tutta la vicenda compositiva e editoriale dei Promessi sposi. L’obiettivo principale: avvicinare lo scritto al parlato Da subito il progetto manzoniano sulla lingua si fonda su questo principio basilare: superare la dicotomia fra lo scritto e il parlato, avvicinare la lingua della letteratura alla lingua d’uso. Pur consapevole che si tratta di un obiettivo pressoché irraggiungibile, già nell’Introduzione al Fermo e Lucia Manzoni scrive così: «A bene scrivere bisogna saper scegliere quelle parole e quelle frasi che, per convenzione generale di tutti gli scrittori, e di tutti i favellatori [coloro che utilizzano la lingua nel parlato quotidiano] [...] hanno quel tale significato: parole e frasi che, o nate nel popolo, o inventate dagli scrittori, o derivate da un’altra lingua, quando che sia, comunque, sono generalmente ricevute e usate. Parole e frasi che sono passate dal discorso negli scritti senza parervi [apparirvi] basse, dagli scritti nel discorso senza parervi affettate; e sono generalmente e indifferentemente adoperate all’uno e all’altro uso». Fin dai suoi primi passi nell’universo del romanzo, lo scrittore si pone dunque in una prospettiva che cerca nella lingua uno strumento non della retorica, ma della viva comunicazione, il legame con il mondo concreto dei parlanti. La soluzione di compromesso del Fermo e Lucia La base di partenza (cioè la lingua alla quale Manzoni pensa come “la sua” e che può usare con il maggior grado di naturalezza) è il dialetto milanese. Questo fondo lombardo è ben percepibile nell’impasto linguistico della prima stesura del romanzo, sia pur mediato dal toscano, riferimento fondamentale della lingua letteraria in Italia (anche se spesso usato in modo libresco); a comporre la mescolanza linguistica del Fermo e Lucia si aggiungono anche voci provenienti dal francese, che costituisce per lo scrittore, come per tutte le persone colte di quel tempo, una seconda lingua. Le scelte linguistiche realizzate nella prima stesura del romanzo non convincono affatto lo scrittore, se è vero che Manzoni stesso definisce severamente il Fermo e Lucia un «composto indigesto», un ibrido indefinito, assai lontano dal soddisfare le sue ambizioni, tanto da accingersi quasi immediatamente alla sua integrale riscrittura. Verso la scelta del toscano d’uso Il passaggio dalla dominante patina lombarda al fiorentino colto del tempo avviene gradualmente: prima attraverso la riscrittura del romanzo nella versione della ventisettana e poi, dopo la “risciacquatura in Arno”, con l’edizione definitiva del 1840. Nell’edizione del 1827 Manzoni procede a una revisione linguistica orientata verso il toscano, che si attua essenzialmente attraverso la lettura di testi della tradizione del luogo (specie quelli cinque-secenteschi comico-realistici) e di repertori lessico-

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grafici (con un raffronto puntuale tra il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini e il Vocabolario della Crusca). Dopo l’edizione del 1827, un dilemma spinge Manzoni a operare una nuova revisione linguistica del romanzo. Egli si chiede se il toscano letterario della tradizione, quello di Dante e di Boccaccio, fosse ancora in grado di esprimere idee e concetti della modernità: in altre parole, “quel” toscano era ancora una lingua viva e pienamente comprensibile da un’ampia gamma di lettori italiani? Una questione che impegna Manzoni molto a lungo, portandolo alla conclusione che fosse necessaria un’opera di contaminazione fra il toscano letterario del passato e la lingua parlata in quegli anni nella terra di Dante. Da qui nasce l’esigenza della “risciacquatura in Arno”, iniziata di fatto proprio nel 1827, in occasione di un viaggio in Toscana che Manzoni compie per presentare al pubblico il romanzo appena uscito. Si tratta di un lavoro lungo, minuzioso ed estremamente articolato, per il quale lo scrittore si serve spesso della collaborazione di fiorentini di nascita, ai quali fa leggere le bozze del romanzo per verificare che la lingua corrisponda per lessico e costrutti all’idioma vivo e vero parlato dalle classi colte di Firenze. Con la scelta definitiva del toscano parlato dai fiorentini colti in quello che può giustamente considerarsi il primo romanzo moderno italiano, Manzoni diventa di fatto il punto di riferimento principale per la lingua della nuova nazione che va allora formandosi attraverso i primi moti risorgimentali. La parola come “personaggio” in un romanzo polifonico Quando si parla della lingua dei Promessi sposi non bisogna fare l’errore di attribuire all’aspetto linguistico un valore puramente formale. Al contrario, Manzoni considera la lingua in un’ottica culturale e antropologica come il primo e più importante veicolo dell’esperienza umana in tutta la sua complessità. Proprio questo è uno dei maggiori elementi di modernità del romanzo: parte integrante della storia, “personaggio” essa stessa, la parola si diversifica non solo in rapporto all’identità sociale dei parlanti, ma in infinite sfaccettature, come varia e multiforme è l’esperienza umana. Nella polifonia del romanzo ogni personaggio ha una propria “voce”, uno stile anche espressivo specifico, che interagisce con quello degli altri. In alcune pagine memorabili, Manzoni pone efficacemente in contrasto non solo due personaggi, ma anche due diversi registri espressivi, specchio non solo di differenti categorie sociali, ma di diverse (o addirittura opposte) visioni del mondo, concezioni morali, psicologie: è il caso di confronti come quello tra Don Abbondio e il cardinale Borromeo (➜ T12b ). La commistione dei registri stilistici Coerentemente con l’adesione al programma poetico del Romanticismo, Manzoni pensa a una scrittura narrativa che abbatta la rigida suddivisione fra stili ancora dominante nel panorama letterario italiano. Tra i vari modelli a cui lo scrittore guarda figurano opere come il Don Chisciotte di Cervantes e alcuni romanzi di Defoe, di Richardson e, soprattutto, di Henry Fielding, che con Tom Jones ha messo in atto una vera e propria decostruzione degli schemi narrativi tradizionali. Anche Manzoni si mette sulla stessa strada e compone un romanzo moderno, che sul piano delle scelte stilistiche (in rapporto a quelle narrative) si rivela ricchissimo e multiforme, quanto multiforme e ricca è la materia narrata: nei Promessi sposi egli accosta senza timori momenti comici a passi drammatici o tragici, squarci lirici I promessi sposi 4 479


a passaggi didascalici, il rigore scientifico dello storico e dell’economista alla partecipazione più accorata, sfruttando pienamente le possibilità offerte dalla natura polimorfa del romanzo. Esemplare in questo senso è il capitolo VIII dove, dai toni grotteschi e dal ritmo concitato con cui viene raccontata la «notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi», si passa con naturalezza estrema all’intenso lirismo del celebre Addio, monti (➜ T10a ). O, ancora, si possono ricordare i celebri passi sulla peste a Milano, ritratta sia attraverso la lucida cronaca che Manzoni trae dalle pagine del Ripamonti e del Borromeo, sia attraverso la commovente scena della madre di Cecilia (cap. XXXIV). Questa vocazione alla mescolanza degli stili e dei registri linguistici attraverso il modello manzoniano sarà di esempio a vari autori della letteratura italiana del Novecento, da Luigi Pirandello a Carlo Emilio Gadda.

PER APPROFONDIRE

Prima pagina del manoscritto autografo degli Sposi promessi, 1821 (Milano, Biblioteca nazionale braidense).

Una riflessione mai esaurita Gli scritti linguistici Quasi a coronare il lungo e faticoso lavoro sul romanzo, la ricerca linguistica con la quale Manzoni si cimenta nella palestra narrativa dei Promessi sposi trova infine una propria espressione specifica anche in una serie di scritti saggistici. È del 1847 la lettera-saggio scritta a Giuseppe Carena e pubblicata con il titolo Sulla lingua italiana; in collaborazione con Gino Capponi; in seguito, Manzoni intraprende nel 1856 la stesura del Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze. Ricordiamo anche un progetto molto ambizioso, un trattato Della lingua italiana cui Manzoni attende dal 1830 al 1859, producendo ben cinque redazioni diverse, ma che è destinato a rimanere solo manoscritto.

480 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

Il progetto per la diffusione nazionale del fiorentino Manzoni è anche coinvolto dal neonato Regno d’Italia nel progetto per la diffusione di un italiano nazionale e unitario; il ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio lo mette a capo della “Commissione per l’unificazione della lingua” appositamente creata allo scopo. Nella sua Relazione (Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla), lo scrittore propone di redigere un vocabolario e una grammatica della lingua fiorentina che costituiscano un punto di riferimento sicuro per tutti e di impiegare docenti toscani nelle scuole elementari.


T9

La voce narrante nei Promessi sposi I quattro passi che seguono esemplificano lo statuto della voce narrante nel romanzo manzoniano e il suo rapporto con l’anonimo, aspetti chiave per affrontare la lettura dei Promessi sposi.

Alessandro Manzoni

T9a

«Quel ramo del lago di Como»: lo sguardo onnisciente del narratore I promessi sposi, I

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Presentiamo qui il celeberrimo esordio del romanzo, in cui il narratore presenta al lettore i luoghi in cui si svolgeranno i primi eventi della storia con uno sguardo “a volo d’uccello”, rivelando così immediatamente la propria condizione onnisciente.

Quel ramo del lago di Como, che volge1 a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni2 e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, AUDIOLETTURA tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera3 dall’altra parte; e il ponte, che 5 ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, 10 l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia4, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa 15 sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre5, e che dà nome 20 al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione 25 di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre6; e,

1 volge: è rivolto. 2 seni: anse, insenature. 3 costiera: pendio. 4 giogaia: catena montagnosa.

5 terre: arcaismo per “città, paese”. 6 accarezzavan… padre: si tratta, naturalmente, di “carezze” fatte col bastone, per mettere a tacere le proteste dei mariti e

dei padri contro i soldati che «insegnavan la modestia» alle loro donne. È il primo esempio dell’ironia manzoniana.

I promessi sposi 4 481


sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia7. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia8, 30 strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite9 che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa10 nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che 35 questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti 40 posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi 45 a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio11, e orna vie più12 il magnifico dell’altre vedute.

7 alleggerire... vendemmia: altro esempio dell’ironia di Manzoni. I soldati depredavano le vigne dei locali e in tal modo i contadini dovevano faticare di meno per la vendemmia.

8 tuttavia: ancora, tuttora. 9 iscoprite: scoprite con gli occhi, vedete. 10 qualcosa: in qualche modo. 11 l’ameno... il selvaggio: l’aspetto riden-

a quello più aspro e selvaggio, creando un equilibrio armonioso, gradevole agli occhi. 12 vie più: ancora di più.

te e familiare del paesaggio si mescola

Analisi del testo Un approccio da “geografo” Il romanzo si apre con un’ampia descrizione, che ci fornisce le precise coordinate geografiche dei luoghi dove si svolgerà molta parte dell’azione (e che in seguito sarà presentato come il “panorama sentimentale” dei protagonisti). Non è una scelta casuale: già dalle prime righe il lettore ha l’impressione di una scrittura tutta tesa a rappresentare con la massima verosimiglianza un ambiente che esiste davvero (come viene immediatamente messo in evidenza dall’uso del dimostrativo Quel) e dove ciascuno può recarsi e verificare in prima persona la precisione dello scrittore. Possiamo veramente dire, con le parole del critico ottocentesco Francesco De Sanctis, che la pagina «pare scritta da un geografo o da un naturalista che descrive dal vero quello che gli è innanzi»: fin dalle prime battute si manifesta l’attenzione documentaria del romanziere. Un atteggiamento che vuole richiamarsi alla poetica del “vero”, fondamentale per Manzoni a tal punto da dichiararla implicitamente proprio in apertura di romanzo.

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La presentazione di un narratore onnisciente La pagina di apertura del romanzo è dunque dominata dall’elemento visivo: ma a chi appartiene quell’occhio che, scorrendo il paesaggio lacustre del lecchese, guida il lettore alla scoperta di ogni minimo dettaglio? Quell’occhio più volte citato nel testo stesso, quasi a volerne fare una sorta di vista interna alla narrazione? Possiamo considerare l’apertura del romanzo come la prima manifestazione del narratore onnisciente, che sceglie per sé un punto di vista sopraelevato, da cui domina tutto il paesaggio descrivendolo ai propri lettori in una veduta “a volo d’uccello”. In un certo senso, la pagina iniziale si configura così come un’allegoria della posizione che nel corso di tutto il romanzo sarà occupata dal narratore, che osserva e vede tutto. Un’onniscienza, quella di Manzoni, che non pretende di essere autoritaria e assoluta, ma al contrario è aperta ad accettare le ombre e i punti oscuri della storia, quelli che si nascondono e spariscono, a seconda del serpeggiare di qua o di là delle stradicciole.

Dimensione spaziale e dimensione temporale Al “qui” della dimensione geografica si aggiunge ben presto il “quando” della dimensione temporale. Con la locuzione «Ai tempi in cui accaddero i fatti», Manzoni introduce nel quadro appena tratteggiato l’elemento della Storia, che si presenta subito con i caratteri di una forza capace di sconvolgere la vita di una comunità: Lecco, il «gran borgo» di cui si è detto che «s’incammina a diventar città» (frase che già tende a storicizzare il territorio in cui è ambientata la vicenda narrata, a inserirlo nel flusso delle cose che cambiano e si evolvono), cessa di essere un mero scenario naturalistico e viene posta in contatto con il contesto storico degli eventi e delle forme di potere dominanti: un contatto, come si vedrà, tutt’altro che idilliaco. Poi la descrizione riprende, recuperando l’aspetto visivo e paesaggistico, ma ora è tutta dominata da un elemento umano: quelle «strade e stradette», percorrendo le quali l’occhio immaginario del lettore riesce ad afferrare ogni aspetto dell’ambiente rappresentato sulla pagina, quasi diventandone parte lui stesso e giungendo a coglierne i dettagli anche minimi in un movimento che ricorda quello di una zoomata cinematografica.

L’ironia A riprova della natura complessa e problematica che contraddistingue l’onniscienza del narratore, in questa pagina d’esordio abbiamo già un assaggio della famosa ironia manzoniana. È significativo che la storia faccia il proprio ingresso nel romanzo proprio attraverso la cifra ironica: quando introduce il riferimento a Lecco, Manzoni ci informa che all’epoca il grande borgo «era anche un castello», fatto che gli conferiva «l’onore [...] e il vantaggio» di dare alloggio a un comandante spagnolo con le relative truppe di soldati, i quali si premuravano di «insegnar la modestia» alle fanciulle, di «accarezzar le spalle» ai loro padri e mariti e di «diradar l’uve», alleggerendo così ai contadini le fatiche della vendemmia. Si tratta, evidentemente, di una costruzione di tipo antifrastico, in cui ogni asserzione va intesa come l’esatto contrario di quello che asserisce. Al di là del sipario paesaggistico apparentemente idilliaco finora descritto, è un mondo dominato dalla violenza e dalla sopraffazione quello in cui Manzoni ci fa entrare, dove i deboli sono destinati a soccombere: attraverso l’ironia, già si allude alla vicenda del sopruso attorno cui ruoterà l’intero romanzo.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cos’è il Resegone e a che cosa deve il suo nome? ANALISI 2. Individua nel testo le espressioni che fanno riferimento all’occhio del narratore.

Interpretare

COMPETENZA DIGITALE 3. Cerca in Internet una mappa delle zone descritte da Manzoni in questo brano e, in una breve presentazione orale, indica i luoghi citati da Manzoni nel testo e ancora oggi riconoscibili.

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INTERPRETAZIONI CRITICHE

Umberto Eco Manzoni, narratore che crea un mondo Umberto Eco analizza la tecnica descrittiva utilizzata da Manzoni nella pagina d’apertura del suo romanzo: una tecnica che richiama quella della cinematografia moderna, con panoramiche alternate a veloci zoomate. Il critico propone una sua interpretazione di questa particolare scelta stilistica.

U. Eco, Indugiare nel bosco, in Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 2000

Una delle domande che hanno sempre intrigato i lettori italiani è perché Manzoni perda tanto tempo, all’inizio dei Promessi sposi, a descrivere il lago di Como. Possiamo perdonare a Proust di descrivere in trenta pagine il suo indugio prima del sonno1, ma perché Manzoni deve spendere una pagina abbondante per dirci 5 “C’era una volta un lago, e qui prende inizio la mia storia”? Se provassimo a leggere questo brano tenendo sotto gli occhi una carta geografica, vedremmo che la descrizione procede associando due tecniche cinematografiche, zoom e rallentatore. Non ditemi che un autore del XIX secolo non conosceva la tecnica cinematografica: è che i registi cinematografici conoscono le tecniche della 10 narrativa del XIX secolo. È come se la ripresa fosse fatta da un elicottero che sta atterrando lentamente (o riproducesse il modo in cui Dio muove il suo sguardo dall’alto dei cieli per individuare un essere umano sulla crosta terrestre). Questo primo movimento continuo dall’alto al basso inizia a una dimensione “geografica”:

15

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte...

Ma poi la visione abbandona la dimensione geografica per entrare lentamente in una dimensione topografica1, là dovesi può iniziare a individuare un ponte a 20 distinguere le rive: [...] e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. Sia la visione geografica sia quella topografica procedono da nord verso sud, seguendo appunto il corso di generazione del fiume; e di conseguenza il movimento descrittivo parte dall’ampio verso lo stretto, dal lago al fiume. E come ciò avviene, la pagina compie un altro movimento, questa volta non di discesa dall’alto geografico al basso topografico, ma dalla profondità alla lateralità: a questo punto l’ottica si ribalta, 30 i monti vengono visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano: 25

La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè 1 Possiamo perdonare … prima del sonno: il riferimento è alle pagini iniziali del

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romanzo Dalla parte di Swann, primo dei sette che compongono Alla ricer-

ca del tempo perduto di Marcel Proust (1871-1922).


non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio di su le mura 35 di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Ora, raggiunta una scala umana, il lettore può distinguere i torrenti, i pendii e i valloncelli, sino all’arredamento minimo delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli, 40 descritti come se fossero “camminati”, con suggestioni non solo visive, ora, ma anche tattili. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendio lento e continuo; poi si rompe in poggi e valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavor dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e 45 ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa... E qui Manzoni compie un’altra scelta: dalla geografia passa alla storia, inizia a 50 narrare la storia del luogo or ora descritto geograficamente. Dopo la storia verrà la cronaca, e finalmente incontriamo per uno di quei viottoli don Abbondio che si avvia al fatale incontro coi bravi. Manzoni inizia a descrivere assumendo il punto di vista di Dio, il grande Geografo, e a poco a poco assume il punto di vista dell’uomo, che abita dentro il paesaggio. 55 Mail fatto che abbandoni il punto di vista di Dio non ci deve ingannare. Alla fine del romanzo – se non durante – il lettore dovrebbe rendersi conto che egli ci sta narrando una storia che non è solo la storia di uomini, ma la storia della provvidenza divina, che dirige, corregge, salva e risolve. L’inizio dei Promessi sposi non è un esercizio di descrizione paesaggistica: è un modo di preparare subito il lettore 60 a leggere un libro il cui principale protagonista è qualcuno che guarda dall’alto le cose del mondo. Ho detto che potremmo leggere questa pagina guardando prima una carta geografica e poi una carta topografica. Ma non è necessario: se si legge bene ci si rende conto che Manzoni sta disegnando la carta, sta mettendo in scena uno spazio. 65 Guardando al mondo con gli occhi del suo creatore, Manzoni gli fa concorrenza: sta costruendo il suo mondo narrativo, prendendo a prestito aspetti del mondo reale.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi

Produzione

1. Quale è la tesi sostenuta da Umberto Eco? 2. Che cosa intende dire Eco, quando parla di «dimensione geografica» e di «dimensione topografica», in riferimento alla tecnica descrittiva alla quale ricorre Manzoni nella pagina di apertura dei Promessi sposi? 3. Perché, secondo Eco, Manzoni indugia nel descrivere il lago di Como nell’incipit del suo romanzo? 4. I romanzi ottocenteschi concedevano ampio spazio alle parti descrittive. Credi che oggi questo stile narrativo possa essere considerato ancora attuale? Motiva la tua risposta in un testo coerente e coeso.

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Alessandro Manzoni

Il narratore esibisce il proprio ruolo registico

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I promessi sposi, XI A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Presentiamo un brevissimo passo in cui il narratore manifesta la propria funzione registica attraverso una similitudine estremamente significativa.

Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo1; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d’India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli2 andar 5 tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po’ impazientito3, s’adattava al loro genio4, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien 10 fare co’ nostri personaggi: ricoverata5 Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista.

1 a tutti i segnali... galantuomo: di cui tutto lascia supporre che da adulto diventerà una brava persona.

2 fargli: farli. 3 impazientito: spazientito. 4 al loro genio: alla loro indole, alla loro

naturale vivacità.

5 ricoverata: sistemata, messa a posto.

Analisi del testo Un paragone significativo Lo scrittore è paragonato a un fanciullo vivace che governa un gregge di porcellini d’India cercando di ricondurli tutti quanti al covile dopo una giornata trascorsa in libertà all’aria aperta. L’immagine vuole ribadire l’onniscienza del narratore, che governa autorevolmente la materia del proprio racconto.

Eugene de Blaas, Ritratto di fanciullo, olio su tela, 1884.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega gli elementi della metafora del fanciullo e dei porcellini d’India, indicando a chi o a che cosa corrispondono il fanciullo vispo, il covile, il giardinetto e i porcellini d’India. ANALISI 2. Individua nel testo le parti relative ai due termini del paragone istituito dall’autore.

Interpretare

SCRITTURA 3. Questo breve testo contiene un’informazione significativa sul modo in cui Manzoni costruisce l’intreccio: rifletti sull’argomento in un breve testo, includendo anche riferimenti alla trama del romanzo (max 10 righe).

online T9c Alessandro Manzoni Il rapporto narratore-anonimo I promessi sposi, XXVII; XXXVIII

486 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

T9c1 La “scienza” di don Ferrante, erudito del Seicento I promessi sposi, XXVII

T9c2 Il sipario del romanzo si chiude I promessi sposi, XXXVIII


T10

I luoghi del romanzo e la rappresentazione dello spazio Questi brani focalizzano alcuni dei luoghi principali che fanno da sfondo alla vicenda: l’obiettivo è quello di far emergere i diversi significati assunti dalla rappresentazione dello spazio nell’economia del romanzo.

Alessandro Manzoni

T10a

L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...»

LEGGERE LE EMOZIONI

I promessi sposi, VIII A. Manzoni, I promessi sposi, a cura. di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

È la notte degli imbrogli: Renzo, Lucia, Tonio e Gervaso lasciano la casa di don Abbondio (litografia da un’edizione popolare del XIX secolo).

Dopo la fallita spedizione a casa di don Abbondio nel tentativo di estorcergli la celebrazione del matrimonio, Renzo, Lucia e Agnese corrono al convento di Pescarenico per chiedere il consiglio e l’aiuto di padre Cristoforo. Con la consueta energia, il frate organizza la fuga e dà loro le indicazioni necessarie per muoversi: Renzo si recherà a Milano, presso il convento cappuccino di porta Orientale, mentre Lucia e Agnese troveranno rifugio in un altro convento dei dintorni. Ma ora è giunto per i nostri eroi il momento di partire, abbandonando il paese natale. Il brano che segue è il celebre Addio, monti, in cui Lucia, attraverso la voce del narratore, dà sfogo ai suoi sentimenti più intimi in un momento così drammatico della sua vita.

Senza aspettar risposta1, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa; e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola2, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un 5 remo alla proda3, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua 10 rotta tra le pile4 del ponte, e il tonfo misurato5 di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce6 che, ritto nelle tenebre, 1 Senza aspettar risposta: fra Cristoforo ha appena esortato i suoi protetti ad affrettarsi sulla via della fuga, rincuorandoli con l’assicurazione che molto presto si sarebbero incontrati tutti di nuovo. 2 data e barattata la parola: dopo

aver chiamato ed aver ricevuta risposta in cambio. 3 proda: sponda. 4 le pile: i piloni in legno. 5 misurato: cadenzato. 6 un feroce: un malvagio.

I promessi sposi 4 487


20

in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava7 il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la 25 fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville8 sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti9; 30 addio! Quanto è tristo10 il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono11, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere12, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso13. Quanto più si avanza nel piano14, il suo occhio 35 si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa15 e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, 40 tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo16, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire17, e n’è sbalzato18 lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in traccia di sconosciuti che 45 non ha mai desiderato di conoscere, e non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto19, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera20, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si 50 figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito21; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto22; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una 55 più certa e più grande. Di tal genere, se non tali appunto23, erano i pensieri di Lucia, e poco diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla riva destra dell’Adda. 7 sopravanzava: superava. 8 ville: villaggi. 9 pascenti: al pascolo. 10 tristo: triste. 11 si disabbelliscono: perdono ogni attrattiva. 12 si maraviglia… risolvere: si stupisce di aver deciso (di lasciare il paese). 13 dovizioso: ricco. 14 nel piano: nella pianura.

488 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

15 gravosa: pesante, irrespirabile. 16 fuggitivo: fugace, passeggero. 17 chi... avvenire: chi aveva immaginato tutti i progetti per il proprio avvenire entro i limiti di quei monti, senza mai pensare di allontanarsene. 18 sbalzato: scacciato, allontanato con forza. 19 occulto: nascosto, segreto. 20 casa ancora straniera: è la casa del

futuro sposo, dove Lucia sperava silenziosamente di andare a vivere. 21 un rito: il matrimonio con Renzo che doveva essere celebrato da don Abbondio. 22 Chi... per tutto: chi vi aveva concesso tutte quelle gioie (Dio) è dappertutto, lo troverete ovunque andrete. 23 se non tali appunto: se non proprio così, espressi con queste esatte parole.


Analisi del testo Una rappresentazione fortemente soggettiva del paesaggio Il brano può essere diviso in due momenti: la descrizione della cornice paesaggistica entro la quale avviene la fuga di Agnese e dei giovani fidanzati e il lungo squarcio lirico che dà voce al sentimento di Lucia. Il passaggio tra le due parti è segnato dall’Addio, monti del r. 26. Non si tratta però di una giustapposizione rigida e brusca: al contrario, la rappresentazione della scenografia naturale che fa da sfondo all’azione prepara la “messa in scena” del mondo interiore di Lucia, nel quale il lettore si sente trasportato in maniera graduale e quasi inavvertita. Il tema del notturno lunare costituisce, dall’Eneide di Virgilio in poi, un vero e proprio topos letterario; qui però la raffigurazione del paesaggio è ben lontana dal ridursi a puro e semplice disegno. La natura che esce dalla pagina è una natura vissuta e interpretata dall’animo accorato dei protagonisti e che viene via via prendendo forma attraverso le loro percezioni sensoriali: «Non tirava un alito di vento»; «S’udiva soltanto il fiotto morto e lento»; per arrivare, infine, all’immagine dell’«onda segata dalla barca» che, senza averlo ancora citato apertamente, ci fa risalire fino al loro sguardo mestamente rivolto all’indietro, oltre la poppa, verso gli amati monti che i protagonisti sono costretti ad abbandonare. Anche la rappresentazione dell’elemento umano risente di questa visuale soggettiva: ecco che allora l’abitazione di don Rodrigo è dipinta come una sagoma che incombe minacciosa sulle altre case del paese, simile a un feroce che veglia meditando delitti ai danni degli ignari addormentati, situazione resa linguisticamente dalla contrapposizione tra palazzotto e casucce.

La focalizzazione sul punto di vista di Lucia In questa visuale soggettiva, l’intenzione dell’autore è di portare poco a poco i lettori a identificarsi con il punto di vista di Lucia, in un movimento di graduale restringimento: prima si dà conto delle sensazioni generali del gruppo («Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano»), poi ci si sposta sullo sguardo dei personaggi («I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti»), che è seguito fino alla comparsa dell’oggetto dell’attenzione della giovane (il palazzotto di don Rodrigo). Allora, con un sussulto che dal campo sensoriale ci fa slittare verso quello emotivo, arriviamo a concentrarci su Lucia: «Lucia lo vide, e rabbrividì». Da questo punto in avanti, sarà lo sguardo di Lucia che noi lettori seguiremo («scese con l’occhio giù giù per la china»): il suo scorrere triste sulle case del paesello fino a scorgerne i più piccoli dettagli, con quella minuzia attenta che solo un amore profondamente radicato può produrre, costituisce il movimento preparatorio all’ampio passo dell’Addio, monti.

Addio, monti: il narratore prende la parola Manzoni affida alla chiusa del capitolo un commento, espresso con la consueta velatura ironica («Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia»), il cui senso non poteva non essere già colto dal lettore attento. Le parole dell’Addio, monti non possono considerarsi la riproduzione esatta dei pensieri di Lucia; anzi, parrebbe quasi che il narratore abbia voluto adottare qui un registro linguistico aulico, per rendere ancora più lampante lo scarto tra la parola scritta e la dimensione espressiva di una povera operaia quale era Lucia. In realtà, dopo aver ricostruito materialmente lo sguardo di Lucia mentre scivola sul paesaggio tanto amato che sta per lasciare, con l’Addio, monti è il narratore stesso a prendere la parola, interpretando il sentimento della protagonista attraverso il proprio filtro ideologico e culturale: in un certo senso, possiamo leggere questo celebre passo come un “cantuccio” che l’autore ha voluto ritagliarsi per sé, simile in qualche modo ai cori delle tragedie (➜ T4 , ➜ T6 e ➜ T7 ). Oltre che nelle scelte linguistiche, la presenza della visuale d’autore si manifesta anche attraverso l’impostazione data al brano: lo sconforto di Lucia viene rappresentato contrapponendo la sua situazione a quella di un ipotetico personaggio che si allontana dal paese natale per propria decisione, perseguendo un progetto di miglioramento economico («tratto dalla speranza di fare altrove fortuna») ma che, ciononostante, non si salva dalla tortura di una persistente malinconia. Ben più gravosa, continua il narratore, sarà la condizione di chi, come Lucia, non ha mai desiderato allontanarsi dalla propria terra, ma ne è cacciato da una «forza perversa». Ogni desiderio di Lucia è invece racchiuso entro lo spazio conosciuto e sicuro del paese natio e in queste righe la visione dell’autore sembra trovare una perfetta

I promessi sposi 4 489


identificazione con quella dell’eroina a cui sta prestando la voce. Il ragionamento di Manzoni tradisce la sua personale propensione per un ideale di vita semplice e raccolta (quello che in effetti coltiva egli stesso per tutta la sua esistenza).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Quale storia immagina il narratore per l’uomo «che se ne parte volontariamente», l’ipotetico personaggio la cui partenza dal paese viene confrontata con quella di Lucia? 2. Qual è la forza perversa che costringe Lucia ad andarsene? 3. A chi appartiene il «passo aspettato con un misterioso timore» di cui si parla nel testo manzoniano alle rr. 47-48? ANALISI 4. Individua le sensazioni uditive presenti nel testo, a partire dal saluto «con la voce alterata» di fra Fazio, e spiega come il narratore passi progressivamente dalla dimensione uditiva a quella puramente visiva. 5. Nel testo è presente un rapido riferimento implicito alla figura di don Abbondio. Ricerca il punto dove se ne parla. STILE 6. In che modo emerge l’ironia del narratore?

Interpretare LEGGERE LE EMOZIONI

SCRITTURA 7. Ti è mai capitato di vivere, direttamente o attraverso l’esperienza di una persona che conosci, una situazione simile a quella descritta nel testo, cioè l’abbandono (forzato o per scelta) dei luoghi in cui si è nati e cresciuti? Quali sensazioni hai provato (o credi che potresti provare)? 8. La descrizione del paesaggio manzoniano rispecchia la concezione della natura tipica della letteratura romantica, che trasferisce nei dati oggettivi della realtà le emozioni, le sensazioni, le percezioni soggettive dei personaggi. Spiega e argomenta in un breve testo (max 15 righe) le tue considerazioni a proposito della rappresentazione della natura e del paesaggio manzoniano, che è espressione degli stati d’animo umani. 9. Il romanzo è costruito in modo da trasferire gli affetti e i discorsi dei personaggi sul piano intellettuale e morale dell’autore. Commenta questa affermazione alla luce dell’accorato Addio, monti di Lucia e dell’interpretazione di Giuseppe Petronio che ti presentiamo:

A differenza di quanto fecero poi i veristi, il Manzoni non si trasferisce lui sul piano dei suoi personaggi, ma trasporta quelli sul suo, e li fa pensare e parlare per interposta persona, attraverso il pensare e l’esprimersi di quell’Alessandro Manzoni che è il loro storiografo e interprete. Esempio tipico l’addio di Renzo e Lucia ai loro monti […] dove i sentimenti e i pensieri dei due umili eroi vengono resi con una elevatezza di affetti, una perspicuità di parole, una forza di lirismo, che non poteva essere loro. E Manzoni ne ha coscienza, tanto che alla fine del passo aggiunge due righe rivelatrici; «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia». «Non tali appunto», perché Lucia non poteva pensare e sentire così, o, per lo meno, non poteva estrinsecare così i suoi sentimenti. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia. Storia della letteratura italiana, Palumbo, Palermo 1991

online T10b Alessandro Manzoni

La natura “umanizzata” (o la natura specchio): la fuga di Renzo I promessi sposi, XVII

490 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Alessandro Manzoni

La valle e il castello dell’Innominato: un esempio di cronotopo

T10c

I promessi sposi, XX Fallito il tentativo di rapire Lucia, don Rodrigo decide di chiedere l’aiuto di un truce personaggio, famoso per la crudeltà e la spregiudicatezza con cui è pronto a compiere i crimini più efferati: «Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui». Così Manzoni aveva descritto l’Innominato nel capitolo precedente; il capitolo XX si apre con una descrizione del suo castello, un luogo che sembra costruito proprio per riprodurre i tratti distintivi del personaggio.

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta1 e uggiosa2, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane3 e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. 5 Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde4 a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati5. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e maci6 10 gni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni. Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio7 signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sè, nè più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. 15 Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al 20 fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro8 poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar 25 l’impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, nè vivo, nè morto. Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non

1 angusta: stretta. 2 uggiosa: cupa, dove la luce fatica ad

4 nelle falde: sui fianchi. 5 due stati: il Ducato di Milano e la Re-

7 selvaggio: crudele. 8 birro: ufficiale di giustizia, equivalente

entrare. 3 tane: grotte, anfratti.

pubblica di Venezia.

del moderno poliziotto.

6 fessi: crepacci.

I promessi sposi 4 491


metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don Rodrigo9, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all’imboccatura dell’erto 30 e tortuoso sentiero. Lì c’era una taverna, che si sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt’e due le parti un sole raggiante10; ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta li rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte. 9 del viaggio di don Rodrigo: il capitolo precedente si era chiuso con la scena di

don Rodrigo che, in compagnia del Griso e di altri bravi, partiva dal suo palazzotto

alla volta del castello dell’Innominato.

10 raggiante: radioso.

Analisi del testo Il cronotopo del castellaccio Fin dalla sua prima apparizione, il castellaccio è connotato come un luogo che non si limita a svolgere la mera funzione di teatro degli avvenimenti, ma esprime di per sé il carattere dei personaggi e del tempo in cui essi vivono e agiscono. In altre parole è un cronotopo (dal greco crónos, “tempo” e tópos, “luogo”) in cui i connotati spaziali e temporali di una certa epoca si fondono organicamente in un’unica espressione artisticamente coerente. Come osserva il critico Michail Bachtin, il cronotopo è quel luogo letterario dove il tempo «si fa denso e compatto e diventa artisticamente visibile; lo spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell’intreccio, della storia. I connotati del tempo si manifestano nello spazio, al quale il tempo dà senso e misura». Ed è proprio quanto accade con il castello dell’Innominato, che, insieme alla valle in cui sorge, diventa espressione del potere spietato e crudele del suo signore, ne reca la traccia in ogni elemento, tanto naturale quanto architettonico, rivive nel pensiero e nella memoria atterrita di quanti quel potere hanno avuto la disgrazia di conoscere, anche solo per sentito dire: vedi il «Si raccontavano le storie tragiche» che sembra solo l’eco lontana di una lunga sequela di orribili episodi. Il castello dell’Innominato diventa così viva allegoria di quel Seicento dominato dalla violenza e dai soprusi che Manzoni mette in scena nel romanzo.

La natura partecipe dei drammi della storia

Il castello dell’Innominato in una litografia del 1874.

La descrizione della valle sulla quale incombe il castello è costruita ricalcando lo schema della pagina iniziale del romanzo (➜ T9a ). Simili sono infatti gli elementi geografici portati sulla pagina, in un caso come nell’altro pertinenti a un paesaggio di tipo montano; viene ripresa anche la medesima modellizzazione spaziale, con il movimento “a carrellata”, così come il punto di vista dall’alto. Se però in «Quel ramo del lago di Como» questo era un modo per introdurre, riproducendola simbolicamente, la visione totale del narratore onnisciente, qui l’asse spaziale alto-basso serve invece a rendere fisicamente il dominio incontrastato che l’Innominato esercita sulla sua valle. Tutto il primo capoverso, denso di immagini atte a richiamare l’idea di un’altezza impervia e inattaccabile, serve a preparare la scena nella quale il lettore, che pure già lo aveva intuito, riconosce senz’ombra di dubbio a chi vada attribuita quella visuale sovrastante: «Dall’alto del castellaccio, come l’aquila nel suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio». Quella rappresentata qui è, dunque, una natura che assorbe i drammi della storia umana, ne assume i caratteri con precisione mimetica e se ne fa portatrice agli occhi di chi la guarda. Non è più la natura innocente e astorica dell’idillio, bensì una natura, se così si può dire, storicizzata, percorsa e trasformata dal fitto sistema di rapporti e tensioni che costituiscono la storia, dove ogni minimo elemento viene ad assumere un valore semantico, diventando così un veicolo di senso e di valore.

492 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

TECNICA NARRATIVA 1. Di chi è il punto di vista ravvisabile nella descrizione del luogo in cui sorge il castello? Ricorda in proposito che, secondo Umberto Eco, per l’apertura dei Promessi sposi è stato adottato «il punto di vista di Dio». ANALISI 2. In che modo il concetto di “cronotopo” trova applicazione nella descrizione del castellaccio dell’Innominato? Quali sono gli elementi che, nella descrizione del castellaccio, contribuiscono a connotarlo in senso spaziale, temporale e, aggiungiamo noi, anche morale?

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 3. Rileggi la pagina d’apertura del romanzo (➜ T9a ) e traccia un parallelo tra quella descrizione paesaggistica e questa del castello dell’Innominato, che tenga conto di: a. come è costruita la dimensione spaziale (movimento dall’alto al basso, carrellate, zoomate ecc.); b. quale sia il punto di vista (dall’alto, frontale, ecc.) e se cambia nel corso del brano; c. come l’elemento umano si inserisce nella descrizione.

online T10d Alessandro Manzoni La natura senza idillio I promessi sposi, IV; XXXIII

T10d1 I segni della carestia I promessi sposi, IV

T10d2 La vigna di Renzo: una raffigurazione dichiaratamente simbolica I promessi sposi, XXXIII

online

Verso il novecento La letteratura dell’ordine opposta al caos del mondo

Renzo entra nella sua vigna, illustrazione di Francesco Gonin per l’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

I promessi sposi 4 493


T11

Gli inganni della parola e il potere sociale della lingua I passi presentati evidenziano un tema assai caro a Manzoni, ovvero la subordinazione della comunicazione tra i personaggi alle dinamiche di potere che sottendono i rapporti sociali; importante elemento della trama, questo tema diventa fondamento del “pessimismo storico” manzoniano. Linguista finissimo e puntiglioso, oltre che grande romanziere, Manzoni infatti ebbe sempre la consapevolezza che la lingua non è uno strumento innocente attraverso cui la comunicazione avviene in modo lineare e trasparente. Assai più spesso, anzi, capita che l’uomo usi il mezzo linguistico per erigere una barriera tra sé e il mondo, per poterlo meglio dominare (soprattutto quando il mondo è quello degli umili e degli oppressi), per nascondere o camuffare la verità. La lingua può allora diventare il latinorum scaltro e vigliacco di don Abbondio o il garbuglio incomprensibile delle gride o i furbi giri di parole dell’Azzeccagarbugli.

Alessandro Manzoni

T11a

Renzo e don Abbondio: la subdola violenza del latinorum

EDUCAZIONE CIVICA

nucleo Costituzione competenza 1

I promessi sposi, II A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Leggiamo ora una delle prime pagine del romanzo: quella in cui Renzo, ancora ignaro della bufera che sta per piombargli addosso, si reca da don Abbondio tutto contento per le nozze che (così crede) dovranno celebrarsi quel giorno. Reduce da una notte insonne per la paura dell’incontro con i bravi, il curato, per cavarsi d’impiccio e levarsi di torno l’insistente giovanotto, fa ricorso a tutti i mezzi e gli stratagemmi che la sua posizione di privilegio gli consente, compresi, non da ultimo, quelli linguistici.

Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione1, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia2 d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti3, ed esercitava la professione di filatore 5 di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che4 un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora 10 a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era 15 divenuto massaio5, si trovava provvisto bastantemente6, e non aveva a contrastar7 con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel taschino de’ calzoni, con 1 senza indiscrezione: senza arrecare disturbo. Fin da subito Renzo si fa conoscere come un ragazzo educato e rispettoso dei ruoli sociali, che vedono in un

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prete una persona degna di particolare riguardo. 2 furia: impazienza. 3 parenti: latinismo per “genitori”.

4 a segno che: al punto che. 5 massaio: un buon amministratore. 6 bastantemente: a sufficienza. 7 contrastar: lottare.


una cert’aria di festa e nello stesso tempo di braverìa8, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento9 incerto e misterioso di don Abbondio fece un 20 contrapposto10 singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto. – Che abbia qualche pensiero per la testa, – argomentò Renzo tra sè; poi disse: «son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.» «Di che giorno volete parlare?» «Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi?» 25 «Oggi?» replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.» «Oggi non può! Cos’è nato11?» «Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.» «Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca 30 fatica...» «E poi, e poi, e poi...» «E poi che cosa?» «E poi c’è degli imbrogli.» «Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere?» 35 «Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi12, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s’ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio.» «Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto 40 cosa c’è.» «Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimonio in regola?» «Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa,» disse Renzo, cominciando ad alterarsi, «poichè me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s’è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s’aveva a fare?» 45 «Tutto, tutto, pare a voi: perchè, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine13 e il martello: voi impaziente; vi compatisco14, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo.» 50 «Ma mi spieghi una volta cos’è quest’altra formalità che s’ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.» «Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti15?» «Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?» «Error, conditio, votum, cognatio, crimen, 55 cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis16... » cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. 8 braverìa: spavalderia. 9 accoglimento: accoglienza. 10 contrapposto: contrasto. 11 Cos’è nato: che cosa è accaduto. 12 nei nostri piedi: nei nostri panni. 13 ancudine: incudine. 14 vi compatisco: vi capisco. 15 impedimenti dirimenti: i motivi che impediscono o rendono nullo un matrimonio.

16 Error... affinis: gli impedimenti dirimenti appena citati, così come stabiliti nel 1563 dal concilio di Trento, furono raccolti dal rituale ambrosiano in sei esametri latini per facilitarne l’apprendimento a memoria da parte dei sacerdoti. Ecco perché don Abbondio li enumera contando sulle dita, come snocciolando una filastrocca: error, errore di persona; conditio, equivoco sul-

la condizione della persona; votum, l’aver pronunciato un voto; cognatio, la consanguineità; crimen, un delitto o un adulterio; cultus disparitas, differenza di religione; vis, coercizione violenta; ordo, gli ordini sacri; ligamen, vincolo matrimoniale precedente; honestas, mancata promessa di matrimonio; si sis affinis, l’affinità tra uno degli sposi e i parenti dell’altro.

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«Si piglia gioco di me?» interruppe il giovine. «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum17?» 60 «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.» «Orsù!...» «Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi...» 65 «Che discorsi son questi, signor mio?» proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adirato. «Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento.» «In somma...» «In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di 70 conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti.» «Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?» «Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è 75 chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet18...» «Le ho detto che non voglio latino.» «Ma bisogna pur che vi spieghi...» «Ma non le ha già fatte queste ricerche?» «Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.» 80 «Perchè non le ha fatte a tempo? perchè dirmi che tutto era finito? perchè aspettare...» «Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto: ma... ma ora mi son venute... basta, so io.» «E che vorrebbe ch’io facessi?» 85 «Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza.» «Per quanto?» – Siamo a buon porto, – pensò fra sè don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, «via,» disse: «in quindici giorni cercherò,... procurerò...» 90 «Quindici giorni! oh questa sì ch’è nuova! S’è fatto tutto ciò che ha voluto lei; s’è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici...» riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio non l’avesse interrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza 95 timida e premurosa: «via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana...» «E a Lucia che devo dire?» «Ch’è stato un mio sbaglio.»

17 latinorum: Renzo avverte che don Abbondio sta usando cultura e conoscenze linguistiche per imbrogliarlo; questa con-

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sapevolezza emerge dalla storpiatura (involontaria) che fa parlando del latinorum per intendere la lingua latina.

18 antequam... denunciet: prima delle pubblicazioni.


«E i discorsi del mondo19?» 100 «Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana.» «E poi, non ci sarà più altri impedimenti?» «Quando vi dico...» «Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, 105 non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco.» E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente. 19 i discorsi del mondo: le dicerie della gente, che si sarebbe stupita nello sco-

prire che il matrimonio non era stato celebrato.

Analisi del testo Il ritratto sociale di Renzo Fa il suo ingresso in questa pagina il protagonista maschile del romanzo. In un rapido ritratto sono tratteggiati i connotati di Renzo: giovane sveglio (capisce subito che nell’atteggiamento del prete c’è qualcosa di strano) e baldanzoso, animato da una lieta furia giovanile, alimentata dall’entusiasmo per la cerimonia nuziale che crede imminente. Come accade di consueto nel romanzo, la prima comparsa di un personaggio è anche il momento in cui l’autore ricostruisce a grandi linee la sua storia personale. Orfano fin dall’adolescenza, Renzo si mantiene esercitando la professione di filatore di seta, ereditata dalla famiglia, e grazie a un poderetto, che lavora quando il filatoio lo lascia libero. Nelle parole del narratore si delinea una figura dalla precisa fisionomia sociale e antropologica: un operaio, piccolo proprietario agricolo, rispettoso dei ruoli sociali, massaio avveduto sì da poter realizzare il progetto di metter su famiglia con la giovane sulla quale «aveva messi gli occhi». Tutto secondo i princìpi cari a quel liberalismo cattolico di cui Manzoni era convinto assertore.

Renzo e don Abbondio: latinorum contro un’ingenua braverìa L’incontro fra don Abbondio e Renzo si configura subito come una sorta di duello, nel quale al legittimo risentimento di Renzo si contrappongono gli argomenti pavidi e pretestuosi di don Abbondio, che riescono a imporsi soltanto ricorrendo al sostegno di una lingua sconosciuta all’interlocutore, il famigerato latinorum. Senza questo schermo, che stabilisce una distanza culturale e sociale tra lui e il giovane, don Abbondio si trova del tutto sprovveduto, impelagato in una situazione incresciosa che non riesce assolutamente a gestire: prima finge una poco credibile amnesia («Di che giorno volete parlare?»), poi accampa scuse senza fondamento («Prima di tutto, non mi sento bene, vedete»), e solo in terza battuta, quando vede che Renzo ancora non demorde, mette in campo il motivo degli imbrogli, dietro al quale riesce finalmente a trovare riparo dall’insistenza del giovane. L’uso del latino diventa così un’arma la cui forza risiede nell’ignoranza dell’interlocutore, rovesciando quella che dovrebbe essere la norma fondante di qualsiasi dialogo, vale a dire la ricerca di comunicazione. Non a caso la sequela di formule latine snocciolate da don Abbondio suscita l’irritata reazione di Renzo: «Si piglia gioco di me? [...] Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?», e la risposta del prete non fa che sancire la sua indiscutibile posizione di immeritata superiorità, contro la quale nulla può lo sdegno del giovane: «Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa». Al contrario, il comportamento di Renzo è franco e trasparente; si rivolge a don Abbondio con domande brevi e dirette, che accanto ai confusi giri di parole del prete appaiono ancora più fulminee. Quella di Renzo è la lingua semplice e autentica di chi reclama con ragione un diritto negato; essa nasce da un sentimento genuino e dalle esigenze concrete e reali della vita e non necessita di artifici. Quella di don Abbondio, invece, è la lingua dell’inganno e della dissimulazione, usata come arma di potere anche quando si tinge di toni affettuosi: per questo ha bisogno di ricorrere a tutti i mezzi retorici di cui dispone la preparazione ecclesiastica, quelli stessi che dovrebbero servire a sostegno e difesa di un povero cristiano come Renzo.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Ricostruisci lo schema secondo il quale è strutturato il ritratto di Renzo: dati fisici, familiari, economici, sociali ecc. ANALISI 2. Nel dialogo-scontro fra don Abbondio e Renzo, individua le battute che contribuiscono maggiormente a far emergere il carattere dei due uomini.

Interpretare EDUCAZIONE CIVICA

nucleo

Costituzione

competenza 1

LETTERATURA E NOI 3. Il latinorum di don Abbondio diventa un’arma per annientare la legittima richiesta di giustizia di Renzo. Anche con l’aiuto degli altri esempi proposti nel ➜ PER APPROFONDIRE Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi, commenta come nel mondo secentesco descritto da Manzoni la lingua, nelle sue varie forme (dialogo diretto, lingua burocratica, scambio epistolare...), possa diventare un esercizio di potere e di sopraffazione. Ti sembra che questo “lato oscuro” sia ancora presente negli odierni canali di comunicazione e nella vita quotidiana? In che modo l’istruzione può contribuire a difenderci da soprusi? SCRITTURA ARGOMENTATIVA 4. Quale importante ruolo Manzoni attribuisce alla parola? Perché i grandi e i potenti dominano il mondo e lo “modificano” con la parola, mentre gli umili sono traditi dalla parola e intrappolati da essa, soprattutto se scritta? Argomenta opportunamente, facendo riferimento anche ad altre considerazioni analoghe che hai incontrato nelle tue letture oppure nella tua esperienza di studente.

online T11b Alessandro Manzoni

PER APPROFONDIRE

Renzo e l’Azzeccagarbugli I promessi sposi, III

Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi Comunicazione e logica del potere Nel mondo secentesco dei Promessi sposi, anche una facoltà primaria come la comunicazione è soggetta alla logica del potere e della sopraffazione: per le genti meccaniche di Manzoni essa, dunque, può trasformarsi in un percorso estremamente accidentato, irto di trabocchetti e inganni e spesso fallimentare. Oltre al caso proposto in ➜ T11a , uno degli esempi più eclatanti di questa realtà è sicuramente l’incontro tra Renzo e Azzeccagarbugli (➜ T11b OL), che si sviluppa tutto sulla falsariga dell’equivoco e del fraintendimento. La diffidenza di Renzo per la parola scritta e la lingua della legge Le cose si fanno ancora più complesse quando si entra nella sfera insidiosa della parola scritta, dimensione completamente estranea ai poveri e agli umili, che sono pertanto condannati a subirne le regole ingannevoli senza alcuna possibilità di difendersi. È quanto accade a Renzo nel capitolo XIV, quando, alla fine della giornata che ha visto Milano in subbuglio per i tumulti del pane, viene condotto dal falso amico Ambrogio Fusella nell’osteria dove poi sarà arrestato. Quando l’oste chiede le sue generalità per scriverle sul registro, il giovane rifiuta con energia, respingendo la grida che l’uomo gli mostra perché «se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male».

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Il ragionamento di Renzo si fonda su una semplicità disarmante, sostenuto e alimentato da un’idea di giustizia cristallina: se le leggi non contano per difendermi, non devono contare nemmeno per opprimermi e limitarmi nei miei movimenti. La lingua con cui esse si esprimono è fallace e menzognera e Renzo vuole tenersene lontano: così, mentre si trova sotto i fumi dell’alcol, il giovane formula la sua teoria riguardo al subdolo potere della penna, al quale crede di potersi sottrarre rifiutandosi di compilare il registro dell’oste. Nelle parole di Renzo, la penna diventa una sorta di spada, una lama acuminata che infilza le parole di «un povero figliuolo» e le inchioda sulla carta, perché possano essere usate contro di lui. È il potere immenso della parola scritta, preclusa agli umili e ai poveri, strumento esclusivo delle classi privilegiate che lo usano per i propri scopi invece che per il bene comune. È il potere del latinorum di don Abbondio e di Azzeccagarbugli, della lingua vuota e involuta delle gride, ma anche della falsa cortesia dell’oste. Le lettere: «bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa» Un altro esempio particolarmente significativo si trova nel capitolo XXVII, quando, allontanato suo malgrado dalle persone che ama, Renzo si vede costretto a fare ricorso a quella «diavoleria della penna» a lui tanto invisa, cercando di comunicare per lettera con Agnese.


Non è, però, una cosa tanto semplice: muoversi nel mondo della scrittura diventa per lui una vera e propria avventura, una sorta di piccolo romanzo nel romanzo, che lo porta a cercarsi più di un aiutante (il segretario che scriva per lui la missiva e il corriere che la porti a destinazione), sperando che nessun ostacolo si frapponga tra lui e la destinataria. E proprio l’alto numero di passaggi e mediazioni è ciò che rende particolarmente difficoltosa la comunicazione tra Renzo e Agnese. È la situazione in cui si trova un analfabeta che abbia necessità di inviare una lettera: Manzoni spiega in dettaglio come avvenga questo complicato processo, aggiungendo che, in faccende di questo tipo, neppure ai suoi tempi è cambiato granché. Il contadino illetterato deve trovare qualcuno che conosca la scrittura, qualcuno di cui si fidi e con il quale abbia un rapporto paritario, in modo da potergli spiegare ciò che dovrà esprimere nella lettera; questi, «parte intende, parte fraintende» e, come è inevitabile, ci mette del suo, aggiunge, toglie e aggiusta i contenuti dello scritto secondo il suo punto di vista, lo stile e l’indole personale, che non è mai possibile far tacere del tutto. Lo stesso tipo di situazione si verificherà all’altro capo della comunicazione epistolare: chi riceverà la lettera dovrà farsela leggere da una quarta persona competente e si sa che ogni lettura costituisce inevitabilmente un’interpretazione. Quello che emerge da questo lungo e articolato discorso, condotto da Manzoni in modo estremamente puntuale e dettagliato, è che nell’ambito della comunicazione scritta tutto si riconduce a una conoscenza che finisce per diventare una forma di potere: «finalmente [alla fin fine] bisogna che chi non sa, si metta nelle mani di chi sa», in una posizione

T12

quindi di subalternità, in cui le proprie ragioni, anche quando sostenute da un ingente patrimonio di affetti, pensieri ed esperienze, devono per forza passare al vaglio di un’interpretazione esterna, che molto probabilmente ne traviserà il senso. Il narratore non tralascia di sottolineare la secentesca lentezza di questa farraginosa procedura, osservando che il tutto non avvenne «così presto come noi lo raccontiamo»: una frattura fra tempo narrato e tempo della scrittura narrativa che già di per sé allude alla distanza tra il mondo degli incolti e il mondo di chi, come Manzoni, a quegli incolti pretende di dare voce letteraria.

Renzo e l’Azzecca-garbugli in un’incisione di Francesco Gonin (1808-1889) per l’edizione del 1840.

La logica oppositiva dei personaggi La logica oppositiva dei personaggi entra in quella particolare geometria compositiva che regola i loro rapporti con un calcolatissimo sistema di contrapposizioni e opposti equilibri. Di quello che è stato definito un “romanzo dialogico” proponiamo due dialoghi memorabili, attraverso i quali emergono i rapporti complessi tra i diversi mondi etici, storici e sociali di cui i vari personaggi si fanno portavoce.

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Fra Cristoforo affronta don Rodrigo I promessi sposi, V-VI

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Venuto a conoscenza dei tristi casi di Renzo e Lucia, fra Cristoforo decide di recarsi nella “tana del lupo” a perorare di fronte a don Rodrigo la causa dei due giovani.

[...] «In che posso ubbidirla?» disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati. Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, 5 che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e I promessi sposi 4 499


facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui1, corresse e 10 temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: «vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare2 due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, 15 e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo... la coscienza, l’onore...» «Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura3, lo riguardo4 come il temerario che l’offende.» 20 Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue5, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo di venire alle strette6, s’impegnò tanto più alla sofferenza7, risolvette8 di mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire, e rispose subito, con un tono sommesso: «Se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, 25 mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire...» e, così dicendo, aveva preso tra le dita, e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, «non s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, 30 e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L’innocenza è potente al suo...» «Eh, padre!» interruppe bruscamente don Rodrigo: «il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa.» Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante 35 di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: «lei non crede che un tal titolo mi si convenga9. Lei sente in cuor suo, che il passo ch’io fo ora qui, non è nè vile nè spregevole. M’ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia metter la sua gloria... qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! 40 Lei può molto quaggiù; ma...» «Sa lei,» disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza qualche raccapriccio, «sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia! Oh!» e continuò, con un sorriso forzato di scherno: «lei mi tratta da più di quel che sono. Il predica45 tore in casa! Non l’hanno che i principi.»

1 i fatti altrui: vale a dire di Renzo e Lucia. 2 soverchiare: commettere un sopruso ai danni di.

role l’interpretazione peggiore.

7 sofferenza: sopportazione. 8 risolvette: decise. 9 che un tal… convenga: che la qualifica

3 ardisce… cura: ha l’ardire di far mostra

6 per volgere… alle strette: per trascinarlo

di spia mi si addica.

di preoccuparsi (entrare a parte sta per “impicciarsi”) di questo (del mio onore).

al litigio aperto, e non dargli la possibilità di arrivare al dunque.

500 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

4 riguardo: considero. 5 tirare al peggio le sue: dare alle sue pa-


«E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente...» «In somma, padre,» disse don Rodrigo, facendo atto d’andarsene, «io non so quel che 50 lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev’essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un gentiluomo.» Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s’era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto10, 55 rispose ancora: «la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto.» «Ebbene,» disse don Rodrigo, «giacchè lei crede ch’io possa far molto per questa 60 persona; giacchè questa persona le sta tanto a cuore...» «Ebbene?» riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole. «Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà 65 più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.» A siffatta proposta, l’indegnazione11 del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due. «La vostra protezione!» esclamò, dando indietro due passi, postandosi12 70 fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più.»

Gallo Gallina, Padre Cristoforo e Don Rodrigo, olio su tela (Milano, Casa del Manzoni, Centro Studi Manzoniani).

10 ad un punto: al tempo stesso. 11 indegnazione: sdegno.

12 postandosi: piantandosi.

I promessi sposi 4 501


«Come parli, frate?...» «Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili.» 80 «Come! in questa casa...!» «Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete 85 disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo13. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch’io vi prometto. Verrà un giorno...» Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un 90 lontano e misterioso spavento. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: «escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato.» Queste parole così chiare acquietarono in un momento il padre Cristoforo. All’idea di 95 strapazzo e di villania, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo14, e non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, e rimase immobile, come, al 100 cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda. «Villano rincivilito15!» proseguì don Rodrigo: «tu tratti16 da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e 105 la vedremo.» Così dicendo, additò, con impero sprezzante17, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia. 75

13 Il cuore... spezzarlo: riferimento biblico alle vicende narrate nell’Esodo. 14 entusiasmo: usato qui nel senso di

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eccitazione, accaloramento. 15 Villano rincivilito: zotico, plebeo ripulito.

16 tratti: ti comporti. 17 con impero sprezzante: con gesto imperioso e arrogante.


Analisi del testo Uno scontro acceso Fra Cristoforo, nell’affrontare don Rodrigo, cerca di farsi forte dell’autorevolezza e del rispetto che gli vengono dalla sua condizione di cappuccino. È proprio questa autorevolezza che porta don Rodrigo ad accettare il colloquio con il frate, per quanto gli risulti sgradito, come è ben evidente dal suo atteggiamento delineato nelle prime righe del brano. Tale atteggiamento, del resto, spinge a sua volta il frate a farsi coraggio ed esporre le proprie ragioni. Ma nulla può far recedere don Rodrigo dalla sua arroganza: l’incontro tra i due, da possibile dialogo, si trasforma in uno spietato duello verbale. Esasperato dal suo avversario, che cerca di spostare l’attenzione da sé stesso e dalle proprie colpe, fra Cristoforo si accende sempre di più, fino ad accennare una tetra premonizione («Verrà un giorno...»). In don Rodrigo, a questo punto, inizia a farsi spazio un vago timore; caccia quindi in malo modo il frate, che improvvisamente di fronte a un comportamento così sfrontato e violento si quieta e accetta di ritirarsi. Il dialogo tra i due personaggi, dunque, non si limita a svolgere un ruolo pratico nell’economia della vicenda narrata, ma consente anche di mettere in luce in modo naturale alcune sfumature della loro indole, attraverso le loro reazioni nel corso dello scontro verbale con l’avversario.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Che cosa intende il narratore quando, riferendosi a fra Cristoforo, dice che «l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo»? TECNICA NARRATIVA 2. Rintraccia gli interventi di commento da parte del narratore: qual è la loro funzione? ANALISI 3. Quali aspetti del carattere del frate emergono dal colloquio con don Rodrigo? Individua nel testo i passaggi precisi. 4. In quale momento del colloquio l’atteggiamento di fra Cristoforo cambia radicalmente? Per quale motivo? 5. Il rispetto dei ruoli sociali è una condizione essenziale perché possa aver luogo anche solo un tentativo di comunicazione: individua nel testo gli elementi (gesti, rituali, appellativi) che denotano il tipo di rapporto sociale che esiste tra i due personaggi in scena. Quando e per quale motivo il rispetto di questi ruoli viene meno? 6. Don Rodrigo è sempre presentato come un personaggio avvolto da un’ombra cupa, quasi il riflesso del buio che domina nella sua anima. Anche in questo caso, il suo comportamento è permeato di una tetraggine che offusca anche la sua arroganza nobiliare, che un personaggio a lui affine come il conte Attilio esprime invece con baldanzosa spavalderia. In quali punti del testo e attraverso quali mezzi il narratore fa emergere questo particolare tratto del personaggio? STILE 7. A un certo momento dell’incontro, il dialogo fra don Rodrigo e padre Cristoforo diventa un duello verbale, sia per i toni sia per l’atteggiamento dei due: rintraccia e commenta questi particolari elementi del loro colloquio. 8. Nella prima fase del colloquio, quando ancora fra Cristoforo riesce a tenere a freno la propria irruenza, il suo comportamento, la mimica, la retorica e anche la sintassi sono quelle tipiche di un predicatore del Seicento: cerca nel testo gli elementi che ti sembrano confermare questa affermazione.

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 9. In questo episodio, fra Cristoforo si fa carico del ruolo di “mediatore sociale”. Infatti tra don Rodrigo, il nobile oppressore, e Renzo, l’umile vittima del sopruso, non può esserci contatto diretto (tant’è vero che anche il minaccioso «questo matrimonio non s’ha da fare» era stato comunicato a don Abbondio). Cerca e leggi nel romanzo il passo precedente a quello presentato qui, che descrive la passeggiata del frate verso il palazzotto di don Rodrigo, e individua gli elementi che denotano questo spostamento nello spazio come simbolo di uno spostamento lungo l’asse sociale, dal “basso” (fra Cristoforo parte dal convento e attraversa il villaggio) verso l’“alto” (il palazzotto di don Rodrigo che domina i terreni circostanti).

I promessi sposi 4 503


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T12b

Alessandro Manzoni

«Come un pulcino negli artigli del falco»: don Abbondio e il cardinale Federigo I promessi sposi, XXV

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Nel corso della sua visita pastorale, il cardinale Federigo tocca anche il paese di Lucia e Agnese: informato da quest’ultima della condotta di don Abbondio, lo convoca immediatamente per chiedergliene conto. È lo scontro tra due visioni dell’esistenza opposte, per le quali qualsiasi possibilità di dialogo sembra impossibile: quella del cardinale, eroica e pronta al sacrificio, e quella prosaica e pavida di don Abbondio. Eppure, nell’ottica di Manzoni, anche la meschinità del povero curato sembra avere una sua qualche ragione.

Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand’ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, «signor curato,» cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch’erano il principio d’un discorso 5 lungo e serio: «signor curato; perchè non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?» – Hanno votato il sacco stamattina coloro1, – pensò don Abbondio; e rispose borbottando: «monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell’affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno 10 d’oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare2 da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti3, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.» «Domando,» riprese il cardinale, «se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, nel giorno fissato; 15 e il perchè.» «Veramente... se vossignoria illustrissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho avuti di non parlare...» E restò lì senza concludere, in un cert’atto4, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più. «Ma!» disse il cardinale, con voce e con aria grave5 fuor del consueto: «è il vostro 20 vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perchè non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo vostro di fare.» «Monsignore,» disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, «non ho già voluto dire... Ma m’è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare... Però, però, dico... so che vossignoria illustrissima non 25 vuol tradire un suo povero parroco. Perchè vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui esposto... Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.» «Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.» Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome 30 principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta. 1 Hanno votato... coloro: quella mattina il cardinale aveva incontrato Lucia e Agnese; è a loro che si riferisce don Abbondio.

504 Ottocento 9 Alessandro Manzoni

2 argomentare: arguire, capire. 3 accidenti: avvenimenti imprevisti. 4 atto: atteggiamento.

5 grave: severa.


«E non avete avuto altro motivo?» domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito. «Ma forse non mi sono spiegato abbastanza,» rispose questo: «sotto pena della vita, 35 m’hanno intimato di non far quel matrimonio.» «E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso?» «Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita...» «E quando vi siete presentato alla Chiesa,» disse, con accento ancor più grave, Fe40 derigo, «per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita6? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui 45 potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, 50 della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! 55 noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?» Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione 60 sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: «monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo7, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È un signore 65 quello, con cui non si può nè vincerla nè impattarla8.» «E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; 70 che a questo non vi fu dato nè missione, nè modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.» – Anche questi santi son curiosi, – pensava intanto don Abbondio: – in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un

6 v’ha essa fatto sicurtà della vita: vi ha assicurato che avreste avuto salva la vita? 7 il bravo: qui nel senso spagnoleggiante

di “coraggioso”, aggettivo che nella bocca di don Abbondio assume una connotazione velatamente negativa, ossia quello

di “temerario”, “azzardato”. 8 impattarla: arrivare alla pari.

I promessi sposi 4 505


75 povero sacerdote. – E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso

finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma. «Torno a dire, monsignore,» rispose dunque, «che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare.»

Don Abbondio e il cardinale Borromeo. Illustrazione di Francesco Gonin dall’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

Collabora all’analisi Comprendere e analizzare

Il brano ci presenta il colloquio tra il cardinale Federigo e don Abbondio come un fatto che viene a sconvolgere la tranquilla routine del povero curato, tutto preso da quelle piccole preoccupazioni quotidiane che sono la sua vita: le funzioni, il desinare… Di fronte alla chiara richiesta dell’alto prelato, dapprima il parroco cerca di sviare l’attenzione, rimanendo sul vago; poi, messo alle strette, racconta l’accaduto senza però esporsi a fare il nome di don Rodrigo. A questo punto intuiamo che lui si aspetterebbe comprensione dal cardinale, il quale invece lo incalza con una ramanzina che lo lascia senza parola («Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire»), senza però riuscire a scalfire in profondità la sua visione del mondo pavida e opportunista. 1. Che cosa sta facendo don Abbondio quando viene convocato dal cardinale Federigo? 2. Come si rivolge il cardinale al prete? Con quale tono? 3. Qual è la prima reazione di don Abbondio? Trovi che ci sia corrispondenza tra i suoi pensieri e le sue parole? 4. Come reagisce il cardinale all’affermazione del curato, che dichiara di non aver celebrato il matrimonio perché era a rischio della vita? 5. «Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva [...]»: che cosa vuole dire il narratore con questa espressione? Il colloquio tra il cardinale e il curato rappresenta l’incontro – impossibile – tra due sistemi morali antitetici: quello tutto prosaico e materiale di don Abbondio, incentrato sulla difesa della propria vita e del proprio interesse, e quello generosamente eroico del cardinale, che la vita è pronto a donarla per il bene dei suoi fedeli.

506 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Tra i due non si instaura un dialogo reale: il cardinale Federigo parla più per domande retoriche che per affermazioni e ciò che don Abbondio pensa realmente lo si capisce più dalla trascrizione che dei suoi pensieri ci fa il narratore onnisciente che dalle sue parole esplicite. Alla fine, ciascuno dei due interlocutori lascerà il colloquio ancora convinto della propria posizione, senza aver minimamente cambiato punto di vista. 6. Con i profondi ragionamenti del prelato, davanti agli occhi attoniti e timorosi di don Abbondio si apre una dimensione mai presa in considerazione prima, quella della virtù e del ministero generoso che si spende senza limiti: che immagine usa Manzoni per rappresentare questa particolare situazione vissuta dal sacerdote? 7. Analizza il tono usato da don Abbondio nella sua risposta al cardinale: ti sembra convinto? Usa più frasi affermative o negative? 8. Prova a enucleare il sistema esistenziale di don Abbondio, così come emerge dal suo dialogo con il cardinale Federigo. Quindi commenta la frase: «Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire». La prospettiva limitata di don Abbondio, subito messa in luce fin dal suo primo apparire, tutto preso dalla preoccupazione di controllare «se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare», emerge anche dalle sue parole (sia quelle pronunciate sia quelle del concitato discorso interiore che fa da contrappunto al dialogo con il cardinale). A partire dal primo pensiero formulato («Hanno votato il sacco stamattina coloro»), la lingua di don Abbondio è tutta improntata a un’espressività bassa e popolare, messa ancora più in risalto dalla severa gravità dell’eloquio del cardinale. Anche quando cerca di elevarsi alla solennità della situazione, le frasi del curato conservano la sintassi e il lessico del suo ristretto orizzonte morale ed esistenziale, tutto teso a tenersi fuori dagli scompigli e a salvaguardare il proprio interesse; né cambiano i balbettii, le pause, le ripetizioni, le frasi alla ricerca di benevolenza nell’interlocutore («so che vossignoria illustrissima non vorrà tradire un povero parroco»). A questo stile espressivo si contrappone la parola ferma e adamantina del cardinale, vibrante dell’energia di una salda struttura retorica fondata su precisi stilemi: reiterazioni calibrate, efficaci opposizioni, antitesi, un lessico di ascendenza evangelica. È facile capire come due stili linguistici così distanti l’uno dall’altro siano destinati all’incomprensione reciproca e all’incomunicabilità. 9. Don Abbondio ascolta in silenzio la ramanzina del cardinale e Manzoni, con un’immagine che offre inaspettati spunti di riflessione, lo paragona a «un pulcino negli artigli del falco». a. Nella similitudine manzoniana, a chi spetta il ruolo della vittima e a chi quello del carnefice? b. L’immagine della similitudine implica un atto di violenza che il cardinale starebbe infliggendo a don Abbondio, suo sottoposto. Che significato possiamo dare a questa particolare espressione scelta dal narratore? In che senso don Abbondio sta subendo una violenza da parte del cardinale Federigo? 10. Nelle parole di don Abbondio, individua gli elementi del lessico e della sintassi che pongono il suo discorso a un livello popolare. 11. Analizza il lungo intervento del cardinale Federigo («E quando vi siete presentato alla Chiesa... con codeste dottrine», rr. 39-57) dal punto di vista retorico e lessicale: a quali strumenti retorici il prelato ricorre per esporre il proprio punto di vista a don Abbondio?

Interpretare

12. «Il coraggio, uno non se lo può dare»: spiega e commenta questa celeberrima battuta di don Abbondio, cercando di inserirla nel ritratto che il romanzo ci dà di questo personaggio (rileggi anche il capitolo I).

online

Analisi passo dopo passo

T13 Alessandro Manzoni Le “voci” della folla in rivolta e il giudizio del narratore I promessi sposi, XII-XIII

I promessi sposi 4 507


T14

Il volto problematico della provvidenza e il «sugo di tutta la storia» Attraverso alcuni esempi significativi, si vuole documentare uno dei temi chiave del romanzo, quello della provvidenza, cercando di mostrare, contro ogni semplificazione riduttiva, la complessità e problematicità con cui il cristiano Manzoni affronta tale tema.

Alessandro Manzoni

T14a

Il filo inaspettato (ma illusorio) della provvidenza: il vecchio servitore di don Rodrigo I promessi sposi, VI

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Padre Cristoforo ha appena lasciato don Rodrigo dopo il fallimentare colloquio con cui sperava di ottenere pietà per Lucia (➜ T12a ). In questo momento che sembrerebbe di sconfitta totale, la provvidenza divina si manifesta in un modo tanto insolito quanto inaspettato, come un filo al quale il frate si aggrappa, anche soprassedendo a certe regole del comune decoro: cosa che, con la consueta ironia, il narratore non manca di far notare. Ma anche con questo aiuto inatteso, il risultato non sarà quello sperato...

Quando il frate ebbe serrato l’uscio dietro a sè, vide nell’altra stanza dove entrava, un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch’era venuto a riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da quarant’anni, cioè prima che 5 nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del padre, il quale era stato tutt’un’altra cosa. [...]

Il servitore di don Rodrigo e padre Cristoforo, illustrazione di Francesco Gonin per l’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

508 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Il padre Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il vecchio se gli1 accostò misteriosamente, mise il dito alla bocca, e poi, col dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito buio. Quando furon lì, 10 gli disse sotto voce: «padre, ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle.» «Dite presto, buon uomo.» «Qui no: guai se il padrone s’avvede... Ma io so molte cose; e vedrò di venir domani al convento.» «C’è qualche disegno2?» 15 «Qualcosa per aria c’è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma ora starò sull’intesa3, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a sentir cose...! cose di fuoco! Sono in una casa...! Ma io vorrei salvar l’anima mia.» «Il Signore vi benedica!» e, proferendo sottovoce queste parole, il frate mise la mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di lui, gli stava curvo 20 dinanzi, nell’attitudine d’un figliuolo. «Il Signore vi ricompenserà,» proseguì il frate: «non mancate di venir domani.» «Verrò,» rispose il servitore: «ma lei vada via subito e... per amor del cielo... non mi nomini.» Così dicendo, e guardando intorno, uscì, per l’altra parte dell’andito, in un salotto, che rispondeva4 nel cortile; e, visto il campo libero, chiamò fuori il buon 25 frate, il volto del quale rispose a quell’ultima parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore gli additò l’uscita; e il frate, senza dir altro, partì. Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men con30 traddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sè, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare. Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò più libera35 mente, e s’avviò in fretta per la scesa5, tutto infocato in volto, commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sentito, e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione6 del vecchio era stata un gran ristorativo7 per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione. – Ecco un filo, – pensava, – un filo che la provvidenza mi mette 40 nelle mani. E in quella casa medesima! E senza ch’io sognassi neppure di cercarlo! – Così ruminando8, alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e pensò che rimaneva ben poco del giorno. Allora, benchè sentisse le ossa gravi e fiaccate da’ vari strapazzi di quella giornata, pure studiò9 di più il passo, per poter riportare un avviso, qual si fosse, a’ suoi protetti, 45 e arrivar poi al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più severamente mantenute del codice cappuccinesco.

1 se gli: gli si. 2 qualche disegno: qualche progetto, si sta tramando qualcosa. 3 sull’intesa: sul chi vive, con le orecchie

tese. 4 rispondeva: conduceva. 5 scesa: discesa. 6 esibizione: comparsa.

7 ristorativo: ristoro, sollievo. 8 ruminando: pensando tra sé e sé. 9 studiò: affrettò.

I promessi sposi 4 509


Analisi del testo Un incontro (forse) provvidenziale Dunque la provvidenza avrebbe offerto un filo a fra Cristoforo, una piccola speranza da perseguire nel tentativo di aiutare Renzo e Lucia. Ma è veramente così? Se leggiamo con attenzione il testo, notiamo che questa non è altro che l’interpretazione personale elaborata dal frate dinanzi a questo incontro fortuito: «gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione». Il narratore non prende alcuna posizione a tal proposito; anzi, solo poche righe più sopra ha dichiarato la propria intenzione di raccontare semplicemente dei fatti, senza sbilanciarsi in giudizi di sorta. Forse non è un caso che Manzoni abbia scelto proprio questo punto particolare per ribadire la “neutralità etica” del proprio narratore. La provvidenza, spesso considerata come vero e proprio cardine del romanzo manzoniano, in realtà si manifesta solo attraverso la visione parziale e a volte distorta dei personaggi: nell’ingenua semplificazione di Renzo («La c’è la provvidenza!»), nell’entusiasmo dettato da una nuova speranza di fra Cristoforo (che si dimostrerà poi sbagliato: l’avvertimento del vecchio servitore giunge infatti troppo tardi), nell’egoistico sollievo di don Abbondio, che riesce a leggere un disegno provvidenziale perfino negli orrori della peste (➜ T14c ). Il narratore non abbraccia nessuna di queste posizioni, anzi, non ne elabora neppure una propria: come osserva Raimondi analizzando proprio questo brano, «la sua funzione di osservatore critico – che commenta talvolta il racconto – non può trasformarsi in quella d’un giudice onnisciente che restituisce al teatro del mondo un disegno di perfezione provvidenziale». Nel pensiero di Manzoni, un’ottica del genere può appartenere soltanto a Dio, ed è pertanto esclusa da qualsiasi indagine romanzesca: il guazzabuglio del cuore umano e il mistero profondo dei destini che guidano i sentieri della storia rimangono un terreno oscuro e insondabile. Pietro da Cortona, Il trionfo della Divina Provvidenza, affresco, 1632-1639 (Roma, Palazzo Barberini).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Spiega il significato delle seguenti parole del vecchio servitore: «Mi tocca a vedere e a sentir cose...! cose di fuoco! Sono in una casa...! Ma io vorrei salvar l’anima mia.» ANALISI 2. Ricerca nel testo le righe che forniscono maggiori indizi sulla neutralità di giudizio del narratore di fronte alla vicenda presentata. 3. Quale effetto ha l’incontro con il servitore sullo stato d’animo di fra Cristoforo?

Interpretare

SCRITTURA 4. Prova a rispondere in un breve testo (max 15 righe), in base alla tua opinione personale, al seguente dubbio espresso nel brano: «Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò?».

510 Ottocento 9 Alessandro Manzoni


Alessandro Manzoni

T14b

Una provvidenza dall’inaspettato volto turpe: Renzo e i monatti I promessi sposi, XXXIV

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

Tornato a Milano in cerca di Lucia, Renzo incappa in un altro dei tanti equivoci di cui è costellata la sua parabola romanzesca: a causa di un gesto incauto, viene scambiato per un untore. L’unico scampo possibile per salvarsi dalla furia del popolo, che ha ormai perso ogni ragione, è saltare sull’orrendo carro dei monatti, biechi amministratori della morte nella città in balìa della pestilenza.

Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi da coloro1, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un’occhiata a destra e a sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone2 nel petto, fece dare indietro otto o dieci passi un 5 altro che gli correva incontro; e via di galoppo, col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse venuto tra’ piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare3: «dàgli! dàgli! all’untore!» Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva dove si potrebbe mettere in salvo. L’ira divenne rabbia, l’angoscia si cangiò in 10 disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più cagnesco che avesse fatto a’ suoi giorni4; e, col braccio teso, brandendo in aria la lama luccicante, gridò: «chi ha cuore5, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con questo». Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione6, vide che i suoi 15 persecutori s’eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che, seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati, come a gente che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide (chè il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un carro che s’avanzava, anzi una fila di que’ soliti carri funebri, col solito accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un 20 altro mucchietto di gente che avrebbero voluto anche loro dare addosso all’untore, e prenderlo in mezzo; ma eran trattenuti dall’impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il primo, e 25 adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia alzate. «Bravo! bravo!» esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de’ quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l’orribil cosa com’era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. «Bravo! bel colpo!» 30 «Sei venuto a metterti sotto la protezione de’ monatti; fa’ conto d’essere in chiesa,» gli disse uno de’ due che stavano sul carro dov’era montato.

1 gli parve... da coloro: la decisione migliore gli parve subito quella di allontanarsi da quella gente. 2 punzone: colpo vibrato violentemente

a pugno chiuso. 3 amare: crudeli. 4 a’ suoi giorni: mai, da che era vivo. 5 cuore: coraggio.

6 consolazione: sollievo, per non essere stato costretto a ricorrere alla violenza.

I promessi sposi 4 511


I nemici, all’avvicinarsi del treno7, avevano, i più, voltate le spalle, e se n’andavano, non lasciando di gridare: «dàgli! dàgli! all’untore!» Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a 35 Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria. «Lascia fare a me,» gli disse un monatto; e strappato d’addosso a un cadavere un laido cencio, l’annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l’alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: «aspetta, canaglia!» A quell’atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di 40 nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere8. Tra i monatti s’alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso9 di risa, un «uh!» prolungato, come per accompagnar quella fuga. «Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini?» disse a Renzo quel monatto: «val più uno di noi che cento di que’ poltroni.» 45 «Certo, posso dire che vi devo la vita,» rispose Renzo: «e vi ringrazio con tutto il cuore.» «Di che cosa?» disse il monatto: «tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledi50 cono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa, e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano.» 7 del treno: della fila di carri. 8 gualchiere: sono le presse a macchina a energia idraulica utilizzate in Lombardia

Gallo Gallina, I monatti raccolgono i corpi dei morti di peste, litografia, 1828-1830.

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per rendere feltro il panno, con una serie di colpi alternati, simili al movimento dei piedi di chi scappa correndo.

9 procelloso: scomposto, violento, disordinato.


«Viva la morìa, e moia la marmaglia!» esclamò l’altro; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt’e due le mani, tra le scosse del carro, 55 diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: «bevi alla nostra salute.» «Ve l’auguro a tutti, con tutto il cuore,» disse Renzo: «ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento.» [Renzo, «ancora mezzo affannato, e tutto sottosopra», dopo esser riuscito a sfuggire al pericolo, ora cerca di «liberarsi anche da’ suoi liberatori», senza metterli in sospetto.] [...] Tutt’a un tratto, a una cantonata10, gli parve di riconoscere il luogo: guardò più attentamente, e ne fu sicuro. Sapete dov’era? Sul corso di Porta Orientale, in quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti mesi prima. Gli venne subito in mente che di lì s’andava diritto al lazzeretto; e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l’ebbe per un tratto speciale della 65 Provvidenza, e per buon augurio del rimanente. In quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a’ monatti di fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica si cambiò in un diverbio rumoroso. Uno de’ monatti ch’eran sul carro di Renzo, saltò giù: Renzo disse all’altro: «vi ringrazio della vostra carità: Dio ve ne renda merito»; e giù anche lui, dall’altra parte. 70 «Va’, va’, povero untorello,» rispose colui: «non sarai tu quello che spianti11 Milano.» 60

10 una cantonata: un angolo.

11 spianti: abbatti, radi al suolo.

Analisi del testo Il povero figliuolo si adegua alla situazione Mentre avanza nell’orrore della peste che corrompe e distrugge ogni manifestazione di umanità, anche il buon Renzo sembra respirare i miasmi mefitici che esalano dalla città devastata: il povero figliuolo, scambiato per untore, finirà per fingersi un monatto, ovvero l’incarnazione stessa del male, nella sua forma più bieca e disgustosa. Anche i gesti e le parole del giovane contribuiscono a sottolineare le tappe di questa progressiva metamorfosi. Alla vista dell’orrenda donna che cerca di denunciarlo come untore, Renzo reagisce con una sia pur velata bestemmia: «Che diamine...?» (interiezione eufemistica che incrocia le parole latine dia-bole e do-mine). Poi, una volta capìta la situazione, si difende con piglio energico, lanciando alla volta dell’accusatrice l’epiteto più tremendo per una donna che vive nel Seicento della Controriforma: «ah, strega bugiarda!». Non perde tempo in valutazioni o discussioni di sorta («non istette lì a pensare»), ma si lancia in una fuga folle, pronto anche a ricorrere alla violenza, dove gli eventi lo costringessero. Espressioni come «perso il lume degli occhi» o «il viso più torvo e più cagnesco» segnalano che il protagonista si sta allineando con il clima infernale che si è impadronito della città intera, quasi per preparare il lettore al gesto sconvolgente e inaspettato che sta per compiere: saltare sul carro dei monatti!

Un’anomala salvezza, un’equivoca provvidenza Mentre due gruppi di folla inferocita lo incalzano, Renzo vede il carro dei monatti che si avvicina e si accorge che «ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza»: un chiasmo molto efficace che esprime, nel carnevale infernale della peste, il sovvertimento di ogni morale, di ogni senso comune. Quello che agli occhi dei più costituisce un orrore insostenibile, può trasformarsi in un’insperata fonte di salvezza; al punto che Renzo, ritrovato in cuor suo il sentimento cristiano, ringrazia la provvidenza per avergli fornito una via di fuga opportuna che, tra l’altro, gli ha permesso di evitare di ricorrere alla violenza.

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È uno dei pochi passi del romanzo in cui la provvidenza viene citata apertamente, non dalla voce autoriale ma, come anche in tutti gli altri casi, attraverso la mediazione di uno dei personaggi. Strana provvidenza, che eleva a rango di salvatori proprio quei turpi monatti, oggetto dell’odio e del disprezzo universali. Quasi a ricordarci che, quando si maneggia la materia confusa ed eterogenea di cui è composta la storia umana, nessun principio sublime può salvarsi da un certo grado di contaminazione.

Il mondo alla rovescia Il salto di Renzo sul carro dei monatti come gesto estremo per conquistarsi la salvezza rappresenta il culmine del processo di rovesciamento della realtà operato dalla peste. Nella desolazione dell’epidemia, le norme e le consuetudini che regolano la convivenza umana e civile vengono meno, a partire dalla semplice cortesia (si pensi al sarcasmo gratuito della risposta data a Renzo dalla donna alla finestra) fino ai legami affettivi più profondi, come quello che unisce una madre ai propri figli. In questo quadro di totale anarchia antropologica e sociale, un carro traboccante di cadaveri può trasformarsi in un luogo sacro dove trovare salvezza («Sei venuto a metterti sotto la protezione de’ monatti; fa’ conto d’essere in chiesa»), mentre differenze di ceto e orgogli di classe sono annullati dalla logica spietata della peste, che accomuna tutti in una specie di democrazia apocalittica. Infine, colmo del paradosso, sarà proprio uno dei turpi monatti quello che finalmente, dopo tanti equivoci, saprà vedere Renzo per quello che veramente è: «m’hai l’aria d’un pover’uomo; ci vuol altri visi a far l’untore». Il saluto tra l’affettuoso e l’ironico che ne accompagna il salto giù dal carro conclude la parabola infernale compiuta suo malgrado e lo restituisce al suo consueto orizzonte esistenziale di “povero figliuolo”: «Va’, va’, povero untorello [...] non sarai tu quello che spianti Milano».

Melchiorre Gherardini, Piazza San Babila a Milano durante la peste del 1630 (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo).

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. Chi sono i monatti? ANALISI 2. Quali elementi nel testo indicano l’atteggiamento di Renzo nei confronti dei monatti?

Interpretare

SCRITTURA 3. In un punto della scena non riportato nel brano proposto, il narratore si chiede: «Ma cosa non può alle volte venire in acconcio? Cosa non può far piacere in qualche caso?» Qual è a tuo parere il senso di queste domande retoriche? Rispondi contestualizzando le tue osservazioni con la situazione in cui si trova Renzo nel brano proposto. 4. Rifletti sul macabro augurio che, nella parte finale del brano, uno dei monatti rivolge alla folla: «Fai bene a ungere questa canaglia» e spiega le motivazioni che portano i due schieramenti (la gente comune e i monatti) a odiarsi a vicenda (max 15 righe). ESPOSIZIONE ORALE 5. Manzoni in questo passo descrive un terribile effetto prodotto dalla diffusione della peste: la totale di perdita di umanità in un mondo nel quale le regole di una normale convivenza civile si sono completamente rovesciate. Credi che le scelte di Renzo siano da esecrare? Come ti comporteresti nella medesima situazione?

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VERSO IL NOVECENTO

La “lettura con la lente” di uno scrittore: Primo Levi Primo Levi rilegge le pagine sulla peste a Milano. Le sue sono le osservazioni di un lettore particolarmente sensibile a molti dei temi trattati dal Manzoni, soprattutto a quello del male come forza che agisce inesorabile nella storia. Il brano è tratto da L’altrui mestiere, una raccolta di articoli di vario argomento che Levi pubblica su quotidiani e riviste fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta.

Primo Levi Il perché del male Avevo appena finito di leggere, nei Promessi sposi, la scena celebre in cui Renzo, guarito dalla peste, ritorna a Milano a cercare Lucia. Sono pagine splendide, sicure, ricche di una sapienza umana forte e triste che ti arricchisce e che senti valida per tutti i tempi: non solo per quelli in cui il racconto si svolge, ma per quelli del 5 Manzoni e per il nostro. Dopo molto inutile domandare, Renzo apprende infine l’indirizzo della casa che dovrebbe ospitare Lucia, ma non prova sollievo, anzi, è profondamente turbato: in quel momento definitivo davanti all’alternativa cruda e immediata, Lucia viva o Lucia morta, «gli sarebbe piaciuto più di trovarsi ancora al buio di tutto, d’essere al principio del viaggio, di cui ormai toccava la fine». Chi 10 non ha mai provato un turbamento simile, ad esempio davanti alla porta di un medico? Ma solo un conoscitore acuto dell’animo umano sa condensarlo in poche parole e restituirne la verità. Subito dopo, nel famoso, conciso episodio (poco più di una pagina) della madre che rifiuta di affidare ai monatti la bimba morta «ma tutta ben accomodata... co15 me... adornata per una festa», e la depone essa stessa sul carro1, è adombrato il più grande dei dubbi che affliggono gli animi religiosi, il problema dei problemi, il perché del male. È l’enigma su cui si tormentano Giobbe e Ivan Karamazov2, e la macchia più nera sulla Germania di Hitler: perché gli innocenti? perché i bambini? perché la provvidenza si ferma davanti alla malvagità umana e al dolore del 20 mondo? Questa meditazione suggerita e non espressa, questo momento di alta pietà, si stagliano sul fondale truce delle vie di Milano spopolate dalla strage; qui, l’unico segno di vita è la presenza proterva e sinistra dei monatti: «alcuni con la divisa rossa, altri... con... pennacchi e fiocchi di vari colori, che quelli sciagurati portavano come per segno d’allegria, in tanto pubblico lutto». [...]

P. Levi, L’altrui mestiere, Einaudi, Torino 1998

1 famoso... carro: è il celebre episodio della madre di Cecilia (cap. XXXIV). 2 Giobbe e Ivan Karamazov: il primo, protagonista del libro biblico omonimo,

è un uomo probo e timorato che, messo a dura prova da ogni sorta di sventure, non perde mai la fiducia in Dio e per questo sarà ricompensato; il secondo è uno dei

quattro fratelli al centro del romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1879-80): fine intellettuale, attratto da alti ideali, ateo dichiarato, sensibile al problema del male.

I promessi sposi 4 515


Alessandro Manzoni

La “peste-provvidenza” di don Abbondio

T14c

I promessi sposi, XXXVIII Siamo vicini all’epilogo del romanzo: i protagonisti sono tornati al luogo d’origine, la peste sembra proprio finita e poco a poco torna a ristabilirsi l’ordine perduto. Quelle che presentiamo sono le parole dirette e senza remore con cui don Abbondio, dimentico di qualsiasi pietà cristiana, accoglie la notizia certa della morte di don Rodrigo.

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964])

«Ah! è morto dunque! è proprio andato!» esclamò don Abbondio. «Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva1 alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi 5 soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci2. E in un batter d’occhio, sono spariti, a cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa3, con quell’aria, con quel palo in corpo4, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al 10 mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’imbasciate5 ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: chè adesso lo possiamo dire.» «Io gli ho perdonato di cuore» disse Renzo. «E fai il tuo dovere» rispose don Abbondio: «ma si può anche ringraziare il cielo, 15 che ce n’abbia liberati.» 1 arriva: raggiunge. 2 chi era destinato... latinucci: se non ci fosse stata la peste, i sacerdoti che potevano essere destinati a celebrare il loro

funerale sarebbero stati ancora studentelli in seminario, alle prese con i primi esercizi di latino. 3 albagìa: boria, superbia.

4 con quel palo in corpo: con quell’aria impettita. 5 quell’imbasciate: quei messaggi.

Analisi del testo La visione di don Abbondio Nelle battute finali il romanzo stempera i toni cupi e drammatici degli ultimi capitoli dominati dalla peste in alcuni momenti dal sapore “comico” e familiare. Una delle scene più celebri è senz’altro quella in cui esplode la gioia incontrollata di don Abbondio allo scoprire che quello che per lui era il più grave motivo di paura, don Rodrigo, è caduto vittima del morbo letale. Il prete, che ci siamo abituati a vedere sempre incerto e balbettante, qui parla – e molto – con una foga che nemmeno le ragioni della carità cristiana riescono a contenere. Come sempre, la visione di don Abbondio rimane limitata al proprio strettissimo orizzonte personale: don Rodrigo è morto, una minaccia per la sua incolumità personale è sparita e tanto gli basta. Nemmeno la frase di Renzo vale a risvegliare in lui un barlume di pietà: anch’essa viene liquidata con una brusca battuta di circostanza («E fai il tuo dovere») che affida al giovane tutto il carico del perdono, mentre il prete torna a gioire della propria riconquistata sicurezza. In quest’ottica meschina ed egoistica, capiamo bene come la peste perda ogni valenza drammatica: essa non è più il segno visibile e cupo del male nella storia, ma agli occhi di don Abbondio assume le domestiche fattezze di una provvidenziale scopa, venuta a spazzar via quanto di fastidioso c’era nel mondo. Come ogni altro principio incontrato nel corso della sua vita di «vaso di terracotta in mezzo ai vasi di ferro», anche la provvidenza viene calata da don Abbondio nel suo sistema tutto terreno e materiale, volto prima di ogni altra cosa a preservare la vita e il proprio piccolo mondo di certezze.

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Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

SINTESI 1. Riassumi la visione della peste espressa da don Abbondio nel brano. COMPRENSIONE 2. Qual è, rispettivamente, la reazione di don Abbondio e di Renzo alla notizia della morte di don Rodrigo? 3. A quale episodio si riferisce in particolare don Abbondio quando afferma che don Rodrigo «Non manderà più di quell’imbasciate ai galantuomini»? ANALISI 4. Come viene ritratto don Rodrigo nelle parole di don Abbondio?

INTERPRETAZIONI CRITICHE

Interpretare

SCRITTURA 5. Alla luce di quanto hai appreso sul personaggio di don Abbondio, commenta le conclusioni a cui giunge alla fine del romanzo.

Ezio Raimondi Sul concetto di provvidenza nei Promessi sposi E. Raimondi, La provvidenza e la speranza, da I promessi sposi, a cura di E. Raimondi e L. Bottoni, Principato, Milano 1988

Il critico Ezio Raimondi offre una diversa interpretazione del concetto di provvidenza, che tante letture dei Promessi sposi hanno voluto vedere come principio cardine dell’ideologia del romanzo.

Dei Promessi sposi si è parlato spesso come d’una «epopea della provvidenza», quasi il romanzo si contrapponesse al Candido (1759) d’un Voltaire per dimostrare – contro il violento pessimismo di quella “favola” filosofica – che tutti gli eventi sono concatenati «nel migliore dei mondi possibili». In realtà sembra piuttosto essere 5 l’intelligenza del caso a guidare l’intrico delle vicende narrate eludendo ironicamente tutti i propositi umani [...]. Nel romanzo la fiducia in un piano o in un’invenzione provvidenziale appartiene sempre alla sfera discorsiva dei personaggi, al loro punto di vista. Il Manzoni è convinto che ogni eventuale disegno della provvidenza trascenda l’umana cognizione. Come si legge nel dialogo Dell’invenzione (1850), «l’ordine 10 universalissimo, il quale abbraccia la serie intera e il nesso di tutti gli affetti che sono e che saranno prodotti da ogni azione e da ogni avvenimento, e comprende il tempo e l’eternità» trascende «la nostra cognizione» in un «complesso di futuri, che per noi è un caos di possibili». Non solo, ma persino l’«ordine particolare», relativo ad ogni individuo, appare «misterioso e oscuro, anche per lui, ne’ suoi nessi e ne’ 15 suoi modi», quantunque sia «chiaro per la parte che tocca a lui prenderci». Il segno di Dio quindi non è da cercare nella catena degli eventi (rendendo banale il concetto di provvidenza e riducendola ad un’arbitraria oggettività), ma solo nella vita interiore dell’uomo, nella forza ardente e inquieta delle coscienze.

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Che cosa significa l’espressione «epopea della provvidenza»? 2. Rintraccia e sottolinea nel testo la tesi di Raimondi. 3. In che senso «Nel romanzo la fiducia in un piano o in un’invenzione provvidenziale appartiene sempre alla sfera discorsiva dei personaggi, al loro punto di vista»? Argomenta questa affermazione motivandola con alcuni esempi pratici. Spiega poi, con parole tue, come il concetto di provvidenza viene utilizzato da Manzoni nel romanzo secondo Raimondi (max 10 righe).

I promessi sposi 4 517


Alessandro Manzoni

T14d

Il «sugo» della storia I promessi sposi, XXXVIII

A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. Gavino Olivieri, Principato, Milano 2009 (esemplato sull’edizione di Fausto Ghisalberti [Hoepli, Milano 1964]) AUDIOLETTURA

Siamo alle battute finali del romanzo, con l’apparente lieto fine e la morale, diventata celebre, che Renzo desume da tutte le sue peripezie, contrapposta alla ben più profonda meditazione di Lucia, disarmante nella sua semplicità. È il «sugo» della storia che il narratore-Manzoni vuole affidare ai suoi lettori come lascito più prezioso dell’opera che si sta concludendo.

Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e 5 Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati1; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacchè la c’era questa birberia2, dovevano almeno profittarne anche loro. 10 Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. «Ho imparato,» diceva, «a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha 15 la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere». E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina3 falsa in sè, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, «e io,» disse un giorno al suo moralista4, 20 «cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire,» aggiunse, soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.» Renzo, alla prima, rimase impicciato5. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione6; ma che 25 la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche 30 un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

1 ben inclinati: di buona indole. 2 giacchè... birberia: dal momento che questa diavoleria, cioè la scrittura, esisteva.

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3 dottrina: l’insegnamento che Renzo dice di aver tratto dalle proprie esperienze. 4 al suo moralista: riferito a Renzo, con affettuosa ironia da parte del narratore.

5 rimase impicciato: si trovò in difficoltà. 6 ci si è dato cagione: se n’è dato loro motivo.


Analisi del testo La visione di Renzo Giunto alla fine delle sue peripezie, Renzo snocciola una serie di «ho imparato» che riassume in poche righe la saggezza spicciola raggiunta nel corso del suo Bildungsroman personale, perfettamente in linea con il carattere spavaldo e un po’ superficiale del personaggio. A dispetto di tutto quello che gli è accaduto, Renzo rimane sempre il “ragazzone” buono e semplice che Manzoni ci ha presentato nelle prime pagine del romanzo. La lezione che trae dalle proprie disavventure non va oltre la dimensione dei fatti nudi e crudi: ciò che ha imparato costituisce una sorta di prontuario immediato, da applicare a situazioni analoghe a quelle in cui si è trovato lui, e non riesce a innalzarsi al livello più alto dei princìpi e delle idee. Raggiunta la sua nuova stabilità di marito e di piccolo imprenditore, Renzo pare assestarsi su una morale conformista che si accontenta di quello che ha e bada soprattutto a tenersi lontano dai guai, un po’ come don Abbondio, che nel primo capitolo affermava che «a un galantuomo, il qual badi a sè, e stia ne’ suoi panni, non accadono mai brutti incontri». Ma questa morale ridotta e semplicistica sta per essere scalzata dalla disarmante riflessione di Lucia che, nella sua semplicità, riesce a cogliere il vero «sugo della storia».

La visione di Lucia e il «sugo della storia» È alla voce umile e pacata di Lucia che Manzoni vuole affidare il messaggio ultimo del suo romanzo, l’idea con cui si congeda dai suoi lettori. Non esiste una ricetta sicura per mettersi al sicuro da dolori e problemi: il meticoloso prontuario stilato da Renzo ha ben poco valore dinanzi al caso che colpisce la vita dell’uomo indipendentemente dalla sua condotta. «Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me», afferma Lucia; essi infatti, è poi ribadito, «vengono bensì spesso, perché ci si è data cagione; ma che la condotta più cauta non basta a tenerli lontani». Una morale amara e pessimista, che elimina del tutto la prospettiva dell’idillio da quello che solo apparentemente è un lieto fine. Il male è connaturato alla storia stessa, l’uomo non può sfuggirvi, ma solo sperare di mitigarne gli effetti con il conforto della fede. Viene così ridimensionato notevolmente anche il ruolo della provvidenza: lungi dall’essere un arbitro decisivo nelle vicende umane dominate dal caso, essa viene proiettata su di un orizzonte tutto ultraterreno, coincidente con la visione perfetta e totale di Dio, dalla quale l’uomo è inesorabilmente escluso.

Esercitare le competenze Comprendere e analizzare

COMPRENSIONE 1. A quali episodi specifici si riferisce Renzo nell’enumerare le lezioni che ha imparato? 2. Spiega qual è, nelle intenzioni comunicative del narratore, il «sugo di tutta la storia». 3. Spiega con parole tue l’espressione «sugo di tutta la storia».

Interpretare

TESTI A CONFRONTO 4. Rielaborando le informazioni raccolte nei testi proposti, illustra la visione della provvidenza che ne emerge e le sfaccettature che assume nel punto di vista dei vari personaggi e del narratore.

online T15 Alessandro Manzoni

Una scena “gotica”. La cavalcata infernale di don Rodrigo Fermo e Lucia, IV; IX

La famiglia di Renzo e Lucia, è l’illustrazione finale di Francesco Gonin per l’edizione del 1840 dei Promessi sposi.

I promessi sposi 4 519


INTERPRETAZIONI CRITICHE

Lanfranco Caretti La portata innovativa del romanzo manzoniano L. Caretti, Alessandro Manzoni, milanese, in L. Caretti, Antichi e moderni, Einaudi, Torino 1976

In questa pagina critica, Lanfranco Caretti delinea le novità che I promessi sposi apportano al genere del romanzo in una dimensione italiana e in un’ottica europea.

L’operazione che il Manzoni mirava a compiere [...] era un’operazione prima di tutto di implacabile demistificazione dell’«historia» ufficiale e di coraggioso e ancora inedito ampliamento dell’area sociologica romanzesca, sia nell’assunzione dei temi e delle situazioni, che nella inserzione di nuovi personaggi della cronaca 5 minore, e quindi anche un’operazione di trasformazione linguistica e stilistica in rapporto alla più articolata e complessa realtà da rappresentare. È lo stesso problema affrontato dal Porta1, il quale prese arditamente la via dell’innesto diretto nel mondo contemporaneo, premeditando una polemica regressione dei contenuti al milieu municipale e plebeo e optando per lo strumento dialettale. [...] 10 E tuttavia occorre pur dire che la via seguita dal Porta era una via senza uscita e che l’opera portiana coronava nel modo più suggestivo e moderno una tradizione già esistente, rimanendo un fatto d’eccezione senza costituirsi archetipo di una nuova esperienza letteraria. La via seguita, invece, dal Manzoni, alla ricerca e costituzione di una lingua viva e antiletteraria, sì, ma nazionale, e quindi larga15 mente divulgabile, deliberatamente rivolta a liquidare il passato ma nello stesso tempo a fondare un nuovo istituto linguistico-stilistico, è una via che se non ha districato d’un colpo tutti i nodi difficili che la situazione storica obbiettivamente presentava, ha in ogni modo impetuosamente aperto il nuovo corso della prosa italiana. 20 Evidentemente agiva nel Manzoni una diversa concezione del prodotto letterario e della sua destinazione. Al Manzoni l’eredità illuministica, in lui ancora viva, e la fiducia in una attiva renovatio cristiana delle coscienze, suggeriscono l’idea di un’opera, di un genere letterario, non inscrivibile nella pura dimensione lirica o entro un sistema linguistico di usufruibilità soltanto municipale [...]. E trovandosi 25 ad agire in un’epoca di crisi e in una società in profondo rinnovamento, delle cui ombre e luci si preoccupò di indagare nel profondo tutte le ‘ragioni’, il romanzo gli si venne sempre più configurando come un’opera insieme di giudizio etico, di indagine psicologica e di fantasia narrativa, e si sentì chiamato ad avviare così una forma d’arte interamente nuova e precisamente quella del romanzo di idee, 30 sotto specie di romanzo storico, che ha avuto tanta fortuna poi nello svolgimento della moderna narrativa europea. La coesistenza dei diversi piani concettuali e psicologici, la cui modernità recalcitrava all’adozione dell’arcaica tradizione letteraria, escludeva per altro, a livello linguistico-stilistico, la soluzione unidimensionale del dialetto. Così, come l’esigenza storico-morale aveva determinato 35 l’idea del nuovo genere letterario, questo a sua volta proponeva energicamente al Manzoni la difficile soluzione del problema linguistico in uno strettissimo nesso dialettico.

1 Porta: Carlo Porta, che utilizza il dialetto milanese (➜ C8).

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Il Manzoni creava così in Italia, si può dire dal nulla, il romanzo moderno, e impostava pragmaticamente la questione della lingua come problema stilistico 40 dell’adeguamento della forma espressiva alla natura intima dell’opera d’arte, facendo confluire nei Promessi Sposi tutte le sue esperienze di storico, di moralista e di scrittore e armonizzando tra loro i corrispettivi piani stilistici (quello della narrazione storica, quello dell’oratoria morale, quello della distensione o del raccoglimento lirici, quello dell’annotazione intellettuale o del commento ironico, e 45 soprattutto quello arduo del ‘parlato’ dimesso e familiare) [...]. Ha superato così i limiti dell’illuminismo e ha conferito una precisa e originale fisionomia al romanticismo italiano; ha inventato il personaggio moderno, il personaggio di romanzo che invano cercheremmo nell’Ortis e nel teatro alfieriano; ha saltato oltre l’autobiografismo, la rêverie lirica e il mero patetico; ha felicemente calato nella narrazione 50 uno spirito religioso [...]; ha sottratto alla storia il carattere di semplice cornice scenografica e ne ha rappresentato invece la tragica connessione con il destino degli uomini, grandi e piccoli; ha oggettivamente delineato i personaggi senza sacrificarne la natura individuale al rigido disegno di una provvidenzialità ineludibile, e ha piuttosto insistito rigorosamente sul tema della responsabilità morale di ogni 55 individuo, aprendo nuovi orizzonti alla più sottile, penetrante e anche spregiudicata analisi psicologica; ha dimostrato la legittimità artistica dei personaggi ‘negativi’ anticipando così il ‘tipico’ dei grandi romanzi realisti; ha saputo soprattutto operare un montaggio sapiente dei vari piani del romanzo, eliminando senza indulgenza ogni divagazione esorbitante e ogni compiacimento edonistico, e realizzando, con 60 fulminei raccordi a distanza e ben bilanciate corrispondenze interne, un organismo romanzesco perfettamente equilibrato. Si può ben dire perciò, che si è trattato di un’opera di eccezionale impegno, fondamentale per la nostra cultura e per la nostra arte narrativa, condotta innanzi dallo scrittore con la fermezza di un metodo implacabile, senza cedimenti, sì da uscirne alla fine stremato. [...]

Analisi e produzione di un testo argomentativo Comprensione e analisi Produzione

1. Che cosa intende sostenere Caretti nel passo proposto? 2. Ricostruisci e sintetizza gli snodi argomentativi del discorso di Caretti. 3. Che cosa accomuna e che cosa distingue, secondo il critico, l’operazione di Manzoni da quella di Porta? 4. I promessi sposi è un’opera fondante della tradizione narrativa italiana e un grande classico che non ha perso la capacità di comunicare i suoi molteplici messaggi ai lettori del presente. Rifletti sulla modernità del romanzo di Manzoni, individuandone le ragioni sulla base delle tue conoscenze ed esperienze e confrontandoti anche con le considerazioni della critica, in particolare del testo di Caretti. Elabora le tue opinioni al riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

I promessi sposi 4 521


5

La ricezione dei Promessi sposi 1 Un romanzo destinato a colpire l’immaginario collettivo

Frontespizio di un’edizione popolare illustrata a dispense dei Promessi sposi (Roma, Perino, fine sec. XIX).

Un grande successo Non appena dato alle stampe, il romanzo manzoniano incontra immediatamente un enorme successo di pubblico. I personaggi dei Promessi sposi entrano subito a far parte dell’immaginario popolare, fino ad acquistare il valore di archetipi antropologici: emblematico è il caso di Perpetua che, da nome della fedele domestica di don Abbondio, passa a identificare l’intera categoria; oppure quello di Azzeccagarbugli che, dal romanzo in poi, ha sempre indicato la figura dell’uomo di legge subdolo e intrigante. Ma anche quando non si sia verificato un processo di antonomasia come questi, agli occhi del lettore comune le creature di Manzoni (sia quelle che rivestono un ruolo da protagonista sia le figure secondarie) sono diventate dei tipi umani immediatamente identificabili e riconducibili a una particolare caratteristica comportamentale: don Abbondio diventa così il simbolo della codardia, il personaggio di Lucia evoca semplici e ingenue manifestazioni dei propri sentimenti, Agnese rappresenta la popolana chiacchierona e di buon cuore, padre Cristoforo è l’emblema della caritas cristiana energica e coraggiosa, e così via. Le ragioni della popolarità del romanzo manzoniano È inevitabile domandarsi quali possano essere stati i motivi di una ricezione tanto diffusa e capillare, ma al tempo stesso riduttiva (che semplifica, cioè, di molto la complessità dell’opera

Emilio de Amenti, La lettura in famiglia di un punto commovente dei Promessi sposi, olio su tela, 1876 (Pavia, Musei Civici).

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La serie di figurine Liebig con episodi del romanzo.


Giovanni Molteni, La Signora di Monza, olio su tela, 1847 (Pavia, Musei Civici).

manzoniana, riducendo i personaggi quasi a “tipi”). Possiamo provare a formulare qualche ipotesi: • il romanzo incarna valori perfettamente coerenti con la sensibilità cattolica, che all’epoca di Manzoni gode di un predominio pressoché assoluto. A una lettura immediata, quella di Renzo e Lucia si presenta come una storia edificante e moralmente irreprensibile, del tutto immune dal rischio di corrompere le giovani menti, una colpa che era spesso stata imputata al genere romanzesco agli inizi della sua diffusione in Italia; • i protagonisti sono «genti meccaniche», popolani le cui vicende possono innescare un facile e immediato processo di identificazione anche nei lettori dei ceti più bassi, pronti a commuoversi di fronte alle peripezie dei due sfortunati fidanzati, ma assai meno a ricercarne i significati più profondi; • la “moralità” del romanzo e il successo del modello linguistico proposto da Manzoni guadagnarono ai Promessi sposi il ruolo impegnativo di testo scolastico per eccellenza: questo sicuramente contribuì a consolidarne la fama, ma, d’altro canto, fece anche sì che un testo così ricco si ritrovasse imprigionato dentro una lettura riduttiva, che spesso tendeva a smussare ogni possibile problematicità; • il gusto per la descrizione minuziosa, tipico della scrittura manzoniana, fa dei Promessi sposi un testo estremamente evocativo e immaginifico: il lettore legge e immediatamente “vede” ciò che sulla pagina è espresso per mezzo delle parole e proprio per questo è più portato a ricordarsi e ad affezionarsi a ciò cui si approccia. Ben lo sa l’editore Ricordi che, già nel maggio del 1827 (un paio di mesi prima che cominci a circolare l’edizione ufficiale del romanzo in tre volumetti per i tipi di Ferrario), annuncia l’uscita di dodici litografie collegate ad altrettanti passi del testo. Da allora in poi, il successo riscosso dall’opera in campo figurativo è stato tanto impressionante quanto vario e diverso nei risultati artistici raggiunti: si va dalle opere pregevoli di Giuseppe Molteni alle incisioni di maniera di Francesco Gonin, fino ad arrivare a una serie della raccolta delle celeberrime figurine Liebig (che reclamizzavano un estratto di carne) sugli episodi manzoniani, risalente agli anni Venti del Novecento. • Nell’economia dei Promessi sposi è possibile isolare diversi episodi particolarmente adatti a rimanere impressi nella memoria e nella sensibilità dei lettori, quasi come se fossero delle storie a sé stanti, con uno sviluppo autonomo rispetto al dipanarsi delle vicende di Renzo e Lucia. Il caso più eclatante è quello della monaca di Monza, vero e proprio romanzo nel romanzo, in grado di ispirare rivisitazioni letterarie da parte di più di un autore: qui ricorderemo La Monaca di Monza, romanzo composto dal toscano Giovanni Rosini nel 1829 e, in tempi più recenti, la trasposizione teatrale realizzata nel 1967 da Luchino Visconti del testo omonimo di Giovanni Testori. Anche altri episodi del romanzo hanno avuto successo, trasformandosi in altrettanti “cammei” ben vivi nella memoria anche di chi, La ricezione dei Promessi sposi 5 523


magari, ha una conoscenza solo superficiale dell’intera opera: basti ricordare l’incontro di don Abbondio con i bravi, con il celeberrimo «Questo matrimonio non s’ha da fare», la fuga dei promessi sulle note dell’«Addio, monti», la madre di Cecilia o l’incontro tra l’Innominato e il cardinale Federigo. Il lavoro manzoniano, insomma, sembra scritto apposta per favorire una sorta di ricezione selettiva e parcellizzata, pronta ad adattarsi al gusto e alla sensibilità dei lettori più diversi.

sacro e il profano: il romanzo tra riprese, trascrizioni, 2 Ilparodie e appropriazioni indebite Un fenomeno di costume Un romanzo che in breve tempo è capace di conquistarsi una popolarità e un successo tanto consistenti non può certo rimanere immune da trattamenti impropri o quanto meno anomali (che in alcuni casi possono arrivare fino alla vera e propria parodia): nel 1828, quando il romanzo circola da poco più di sei mesi, un conte ungherese organizza un ballo in maschera a tema su soggetti tratti dai Promessi sposi. Ancora fresco di stampa, il romanzo è già diventato un fenomeno di costume, almeno negli ambienti dell’aristocrazia milanese, dove Manzoni con la sua famiglia è sicuramente personaggio noto. Il teatro Il successo delle trame manzoniane è ben testimoniato anche dalle numerose trasposizioni teatrali che ne vengono realizzate, in chiave sia drammatica sia comico-parodistica. I promessi sposi trovano un campo fertile per la propria diffusione anche in una forma artistica fondamentale nella cultura ottocentesca italiana come il melodramma. Infatti se ne annoverano alcuni che, a partire dal successo della ventisettana, si rifanno al romanzo. L’esempio più illustre è l’opera di Amilcare Ponchielli, rappresentata per la prima volta a Cremona nel 1856, che però incontra il successo solo nel 1872, quando viene portato in scena al Teatro Dal Verme di Milano, dopo che sul libretto è intervenuto lo scrittore scapigliato Emilio Praga. È un lavoro che si caratterizza per un rapporto assai libero con il testo manzoniano, con scelte a volte anche discutibili: basti pensare che dall’intreccio viene tolta la figura di don Abbondio!

Una scena da I promessi sposi alla prova di Giovanni Testori.

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L’elemento importante da sottolineare, comune a tutti questi esempi, è che l’industria culturale dell’epoca accoglie e considera immediatamente il romanzo di Manzoni come un patrimonio comune di storie, personaggi e princìpi cui attingere per produrre opere che possono contare su una certa garanzia di successo. Con una terminologia moderna, potremmo dire che il pubblico contemporaneo impara a riconoscere nelle avventure di Renzo e Lucia una sorta di format, al quale si è affezionato e che diventa perciò godibile nelle più disparate versioni. Un successo dagli imprevisti esiti “pop” Questo successo, superficiale e in qualche maniera banalizzante, continua ad accompagnare il romanzo manzoniano anche nel corso nel Novecento. E se nell’Ottocento il melodramma ha rappresentato una delle forme artistiche più vicine alla sensibilità del volgo, è significativo che nel secolo successivo I promessi sposi abbiano trovato spazio anche nei palinsesti televisivi, luogo deputato per eccellenza a esprimere e rappresentare la cultura popolare, nelle sue forme più svariate. Naturalmente il primo esempio da citare è lo sceneggiato televisivo realizzato da Sandro Bolchi nel 1967, con Nino Castelnuovo e Paola Pitagora nel ruolo dei due protagonisti (cui sono seguite altre due riduzioni per il piccolo schermo, nel 1989 e nel 2004). Ma attraverso la televisione prendono forma e si diffondono anche versioni parodistiche del romanzo, per esempio in forma di sketch da cabaret, come quelli messi in scena dal trio Lopez, Marchesini e Solenghi. E la parodia è la tonalità spesso scelta anche da altre forme espressive, come ad esempio il fotoromanzo o il fumetto: si ricordano, ad esempio, le due versioni realizzate dalla Disney, I promessi topi e I promessi paperi. Gli esempi di questo genere sono numerosissimi e potrebbero essere oggetto di una ricerca interessante, che proponiamo alla vostra iniziativa personale.

Una scena dello sceneggiato televisivo tratto dai Promessi sposi diretto da Sandro Bolchi nel 1967.

Una scena della rappresentazione musicale-teatrale I promessi sposi in dieci minuti degli Oblivion, autori di un video di grande successo nel 2009 su You Tube ispirato al romanzo.

La ricezione dei Promessi sposi 5 525


3 Manzoni e il Novecento: alcuni esempi Pirandello Con il suo romanzo, Manzoni è una presenza significativa anche in tanta parte della letteratura del Novecento, come una sorta di “interlocutore nascosto” con il quale non è possibile evitare il confronto: un confronto che può essere pacifico, ma anche tradursi in un dialogo più problematico. Vogliamo cominciare con l’esempio di uno scrittore molto importante, oltre che per la sua opera, anche per le sue riflessioni di poetica: Luigi Pirandello (1867-1936). Nel saggio L’umorismo (1908) egli vede incarnata in una delle figure più celebri dei Promessi sposi, don Abbondio, la dimensione umoristica, che caratterizza peraltro anche l’intera opera di Pirandello: a prima vista il curato potrebbe apparire un personaggio quasi comico, che suscita il sorriso del lettore. In realtà le sue debolezze e meschinità (che lo rendono tutto sommato un personaggio più “vero” degli irraggiungibili modelli di virtù rappresentati da padre Cristoforo e soprattutto dal cardinale Federigo) inducono il lettore a riflettere sui limiti della natura umana: «Il poeta, in somma, ci induce ad avere compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano sulla coscienza». Quello che proveremo nei suoi confronti sarà allora «un sentimento misto di riso e di pianto»: e proprio in questo, secondo Pirandello, consiste l’umorismo. Gadda Di realismo profondo e perfino spietato parla un altro illustre estimatore del romanzo manzoniano, milanese pure lui, Carlo Emilio Gadda (1893-1973), che nel 1927 compone un saggio dal titolo Apologia manzoniana: in pratica, dunque, una difesa di Manzoni. Difesa contro chi? Contro i detrattori, sicuramente, ma anche contro i lettori pigri che vorrebbero ridurre il romanzo a una lezioncina facile intrisa di moralismo e di buoni sentimenti cristiani. Tutt’altro, per Gadda, è l’opera di Manzoni; e questa è una convinzione che gli nasce da una frequentazione lunga e meditata: tanto da poter dire che per lui la lezione manzoniana si configura innanzitutto come una vera e propria lezione di vita, ben al di là dei limiti puramente teorici della pratica letteraria. Nell’Apologia, testo denso e difficilissimo, Gadda afferma che Manzoni «volle parlare da uomo agli uomini, come a lor modo parlarono tutti quelli che ebbero qualche cosa di non cretino da raccontare». «Parlare da uomo agli

Lo scrittore Carlo Emilio Gadda, autore dell’Apologia manzoniana.

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uomini» è la formula in cui Gadda riassume il realismo manzoniano, secondo lui inarrivabile perché riesce ad affrontare gli aspetti oscuri, tragici e complessi della realtà senza mistificazioni o aggiustamenti semplificatori. Moravia Nulla a che vedere, dunque, con il «realismo cattolico» che, nel 1960, scrivendo la prefazione a un’edizione Einaudi del romanzo, uno scrittore come Alberto Moravia (1907-1990) imputa all’opera di Manzoni. Pur non negando il valore artistico dei Promessi sposi, romanzo che secondo lui conserva la capacità di tratteggiare in modo efficace i peggiori vizi dell’Italia del Seicento (e, per estensione, anche di quella attuale), Moravia vi legge tuttavia un’espressione di arte d’orientamento cattolico. Sciascia Un altro grande lettore di Manzoni è Leonardo Sciascia (1921-1989), che lo legge con passione fin dagli anni della scuola. Anzi, come lui stesso confessa, il primo incontro risaliva a prima che il romanzo gli venisse imposto a scuola, e proprio per questo egli riuscì ad apprezzarlo nel suo valore. Le implicazioni più profonde della riflessione manzoniana sul male nella storia e sulle responsabilità dell’individuo che ne è coinvolto sono riconoscibili in filigrana in gran parte dell’opera di Sciascia, ma è soprattutto in due saggi, compresi nella raccolta Cruciverba del 1982, che il suo rapporto con l’autore dei Promessi sposi si delinea in modo esplicito e inequivocabile: Goethe e Manzoni e Storia della colonna infame. Da questi scritti emerge l’idea di un romanzo che sa trasformarsi in un esame tanto minuzioso quanto inflessibile della società italiana, quella secentesca ma anche quella contemporanea al Manzoni, e che fornisce strumenti utili anche a comprendere i guasti dell’Italia di oggi, al di fuori di qualsiasi idea di provvidenza risolutrice. «La sua opera» dice Sciascia riferendosi a Manzoni «è generalmente vista come il prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e conformista, quando invece si tratta di un’opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società italiana di ieri e di oggi e delle sue componenti più significative. Un libro, un’opera che contiene tutta l’Italia, persino l’Italia che più tardi sarà descritta da De Roberto ne I viceré, da Pirandello ne I vecchi e i giovani, da Vitaliano Brancati ne Il vecchio con gli stivali, addirittura l’Italia delle Brigate Rosse». Anche del proverbiale Cattolicesimo manzoniano Sciascia ha una visione molto particolare, sostenendo che, al contrario di ciò che credono in molti, e cioè che convertendosi Manzoni abbia convertito l’Illuminismo al Cattolicesimo, in realtà in lui sia il Cattolicesimo a essersi convertito all’Illuminismo. Testori Un cattolico problematico, come Manzoni, è anche Giovanni Testori (1923-1993), un altro autore che non è possibile tralasciare parlando dell’eredità di Manzoni nel Novecento. Nella trasposizione teatrale I promessi sposi alla prova, che debutta a Milano nel 1984, Testori mette in scena non una sceneggiatura del testo originale, bensì una “messa alla prova” in cui, attraverso l’espediente pirandelliano del “teatro nel teatro”, il romanzo viene calato nella realtà dell’oggi, facendolo scontrare con tutti i suoi problemi e le contraddizioni. In Testori si riconosce una piena e profonda accettazione di quel valore religioso che, impregnando il romanzo di Manzoni, ne costituisce anche il nodo di problematicità più drammatico: Dio esiste, ma questa realtà non è sufficiente a cancellare la presenza del male dalla storia. E anche nell’attenzione che Testori rivolge al mondo dei più umili, gli operai e i semplici personaggi che animano il suo ciclo romanzesco I segreti di Milano, è possibile leggere un’eco significativa della lezione manzoniana.

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Fissare i concetti Alessandro Manzoni Ritratto d’autore 1. Illustra il contesto familiare di Manzoni, dall’infanzia alla vita adulta. 2. In che modo il soggiorno a Parigi influenza la visione politica di Manzoni? 3. Quando e in che modo, secondo l’aneddotica, avviene la conversione di Manzoni? 4. In quali anni si concentra la produzione di Manzoni? 5. In quali scritti è espressa più chiaramente la “poetica del vero”? 6. Qual è, secondo Manzoni, il rapporto tra storia e poesia? Il poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi civili 7. Quali sono le caratteristiche degli Inni sacri? 8. Quali degli Inni sacri sono stati completati? 9. Quale immagine della Chiesa emerge dagli Inni sacri? 10. In che senso la poesia civile di Manzoni ha carattere occasionale? 11. In che modo il tema religioso si intreccia a quello politico nella poesia civile manzoniana? 12. Quali sono le poesie civili di Manzoni più note e da quali occasioni scaturiscono? La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi 13. Come si colloca l’opinione di Manzoni nel dibattito sulle unità aristoteliche? 14. In che modo è sviluppata nelle tragedie la poetica del vero? 15. Qual è la funzione del coro nelle tragedie manzoniane? 16. Quali sono l’argomento storico e i temi principali del Conte di Carmagnola? E dell’Adelchi? 17. Spiega in che modo il tema della «provida sventura» è presente nelle tragedie manzoniane. I promessi sposi 18. Quali sono i motivi che possono aver spinto Manzoni a cimentarsi con la forma letteraria del romanzo? 19. Quali differenze segnano il passaggio dal Fermo e Lucia alla “ventisettana”? E dalla “ventisettana” alla “quarantana”? 20. Quale valore assume nei Promessi sposi il ricorso allo stratagemma narrativo del manoscritto ritrovato? 21. Che cosa si intende per “narratore onnisciente” e in che modo il narratore dei Promessi sposi può dirsi tale? 22. Quali generi narrativi influenzano Manzoni nella stesura del romanzo? 23. Chiarisci in che modo si sviluppa nei Promessi sposi il rapporto fra “tempo del narrato” e “tempo della narrazione”. 24. In che modo si sviluppano gli eventi storici nel romanzo? 25. Come viene rappresentata la società secentesca? 26. Enuncia la visione politica manzoniana, così come la si può ricavare dalla lettura del suo romanzo. 27. I promessi sposi possono essere definiti un “romanzo della provvidenza”? Perché? 28. Che cos’è la Storia della colonna infame e perché Manzoni sente l’esigenza di narrare anche questa vicenda? 29. Che cosa induce Manzoni a compiere la «risciacquatura in Arno»? La ricezione dei Promessi sposi 30. Come viene accolta l’uscita dei Promessi sposi all’epoca di Manzoni? 31. Quali possono essere i motivi della popolarità del romanzo manzoniano? 32. Illustra i modi in cui il romanzo è stato ripreso e trasposto dall’Ottocento a oggi. 33. In che modo Manzoni ha influenzato la letteratura del Novecento?

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Ottocento Alessandro Manzoni

Sintesi con audiolettura

1 Ritratto d’autore

Una vita schiva e riservata Alessandro Manzoni nasce nel 1785 da Giulia Beccaria (figlia di Cesare Beccaria) e Pietro Manzoni. I genitori si separano nel 1791 e Alessandro viene mandato in collegio, dove trascorrerà anni infelici. Con il padre il rapporto non è facile; la madre è a Parigi, dove il figlio la raggiunge solo nel 1805. Qui Alessandro si confronta con gli idéologues, eredi dell’Illuminismo e fonte per lui di grandi stimoli intellettuali. Nel 1808 egli sposa Enrichetta Blondel, donna religiosa e dedita alla famiglia, che tuttavia muore giovane; è solo uno dei molti lutti vissuti dall’autore, il quale vede morire anche molti dei suoi figli. Nel 1810 Manzoni vive una specie di folgorazione, a seguito della quale si avvicina alla fede. Dopo la “conversione”, torna in Italia e vive in modo schivo e appartato tra Brusuglio e Milano. In circa dieci anni – tra il 1817 e il 1827 – egli scrive tutte le sue opere maggiori e i suoi più importanti interventi teorici. Con il 1827 termina la sua stagione creativa; in seguito, Manzoni si dedica prevalentemente alla revisione linguistica dei Promessi sposi, conclusa nell’edizione del 1840. Ormai un’icona nazionale, muore nel 1873; Nel 1874 Giuseppe Verdi lo onora con la Messa da Requiem. La visione politica, storica e religiosa Pur avendo aderito al Romanticismo e nonostante il suo appoggio alle posizioni liberali del «Conciliatore», Manzoni si tiene sempre lontano da una partecipazione attiva ai moti risorgimentali, mancandogli la capacità di tradurre le idee in azione. Politicamente, egli è un liberale moderato: non rifiuta le idee nuove (ad esempio l’avversione per la compromissione della Chiesa nella politica italiana) ma al contempo guarda con orrore a qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. La sua visione religiosa è tormentata, influenzata dalla lettura dei pensatori giansenisti francesi del Seicento e mai scevra da un atteggiamento di fondo razionalista; essa influenza la sua considerazione della storia, alquanto pessimista vista la riconosciuta impossibilità di spiegare l’esistenza del male nel mondo. Il rapporto con il Romanticismo e la poetica del vero Manzoni aderisce al Romanticismo in quanto ne condivide il rifiuto per la mitologia, per le regole del Classicismo e ne apprezza l’interesse per la storia e i temi civili e patriottici. Si sente lontano, invece, dal gusto d’oltralpe per il fantastico e per il macabro. Erede della tradizione illuminista lombarda, lo scrittore abbraccia un’idea di letteratura improntata al senso dell’utile e all’impegno civile, prezioso strumento di analisi dell’uomo in senso individuale, sociale e politico. A tale concezione egli conferisce un’impronta morale derivata dalla sua visione cristiana: per Manzoni, “utile” è la letteratura che educhi ai valori alla solidarietà e alla giustizia. La poetica si esprime nella sua forma più compiuta nella Lettera al signor Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia, dove lo scrittore partecipa al dibattito romantico ribadendo la propria adesione a una letteratura ancorata al “vero”, al di là dei dogmi tradizionali. Tale convinzione, che nella scrittura teatrale lo porta a superare le unità aristoteliche di tempo e di luogo, è la stessa che lo guida anche nella stesura del

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romanzo. Qui la sua riflessione si spinge anche a definire i compiti del poeta rispetto a quelli dello storico: mentre quest’ultimo deve limitarsi allo studio dei fatti oggettivi, spetta al primo interrogarsi sulle loro motivazioni più profonde, su ciò che ha contribuito a generarli partendo dalle parti più nascoste del cuore umano, sempre rispettando il criterio di verosimiglianza. Il rapporto tra storia e poesia rimane, tuttavia, un nodo irrisolto della vita artistica di Manzoni che addirittura lo spinge ad allontanarsi dall’attività creativa.

poeta cristiano alla ricerca di un proprio linguaggio: gli Inni sacri e le odi 2 Ilcivili Il progetto di una nuova epica cristiana: gli Inni sacri Manzoni inizia a concepire il progetto degli Inni sacri dopo il 1810, anno della conversione: dei dodici componimenti previsti, dedicati alle principali festività del Cattolicesimo, tra il 1812 e il 1817 ne compone solo quattro (La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione), oltre a un quinto, La Pentecoste, rimasto incompiuto. Molto più tarda e travagliata è la composizione di Ognissanti (anch’esso incompiuto). L’idea è quella di fondare una forma di epica cristiana, lontana dal modello neoclassico sia dal punto di vista formale, sia da quello del contenuto: Manzoni vuole dare voce a una Chiesa militante e battagliera, calata attivamente nella storia degli uomini, con i suoi conflitti e contraddizioni. La poesia civile Manzoni si cimenta anche nella poesia civile con risultati piuttosto discontinui e numerosi lavori rimasti incompiuti. Sono testi d’occasione, scritti sull’onda emotiva di un certo evento, dove il tema politico si trova sempre profondamente intrecciato con la dimensione religiosa. Le odi più riuscite e famose sono Marzo 1821 e Il cinque maggio. La prima è scritta in seguito all’entusiasmo suscitato dai moti carbonari del 1821; la seconda (di grande successo) è composta in occasione della morte di Napoleone e ne interpreta la vita come una parabola morale di conquista della speranza grazie all’avvicinamento alla fede.

3 La produzione tragica: il Carmagnola e l’Adelchi

Il dibattito sul paradigma classico e i caratteri della tragedia manzoniana Con le due tragedie Adelchi e Il conte di Carmagnola, Manzoni prende parte al dibattito tra classicisti e romantici, rifiutando le unità aristoteliche di tempo e di luogo e ridefinendo quella di spazio. Gli unici limiti che lo scrittore deve porsi sono quelli derivanti dall’indagine precisa del vero storico, presentato al pubblico per stimolare una riflessione profonda sui grandi temi morali. Luogo deputato alla riflessione nelle tragedie è il coro, che per Manzoni rappresenta un “cantuccio” nel quale dare a voce a temi morali connessi alla vicenda rappresentata. Il conte di Carmagnola Manzoni compone la tragedia tra il 1816 e il 1819 e la pubblica nel 1820. Al centro dell’opera si racconta la vicenda di Francesco Bartolomeo da Bussone, conte di Carmagnola, un capitano di ventura del XV secolo accusato di tradimento durante la guerra tra Venezia e Milano e condannato a morte. Il tema centrale della tragedia è l’impotenza del bene di fronte al potere.

Adelchi La tragedia è composta tra il 1820 e il 1822. La vicenda si svolge tra il 772 e il 774 durante la dominazione dei Longobardi in Italia, nel momento in cui questi ultimi stanno per essere sopraffatti dai Franchi. Figura centrale dell’opera, assai articolata, è quella del principe longobardo Adelchi (figlio di re Desiderio e fratello di Ermengarda, moglie ripudiata di Carlo Magno), eroe romantico combattuto tra ideale e reale, che rappresenta l’incarnazione del pessimismo storico manzoniano.

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4 I promessi sposi

La scelta del romanzo come “letteratura del vero” La “poetica del vero” abbracciata da Manzoni si realizza nel romanzo, genere che all’epoca era considerato “basso” dalla cultura ufficiale ma che l’autore ritiene adatto in quanto più libero rispetto ai generi tradizionali. Lo scrittore opta per il romanzo storico, genere di cui era stato iniziatore Walter Scott; ma, rispetto al modello, egli concepisce la storia non solo come sfondo delle vicende ma come strumento di riflessione valida anche per il presente. Con la sua elaborata gestazione (che dal Fermo e Lucia porta alla “ventisettana” e poi all’edizione definitiva del 1840), I promessi sposi, in linea con l’ideologia romantica, stabilisce infatti un rapporto nuovo con la realtà: vi sono rappresentati gli umili, con le loro storie e il loro universo morale; ma anche la storia, con le sue prospettive più ampie. Le fonti e i modelli letterari Nella stesura del suo romanzo, Manzoni ricorre a una rigorosa documentazione storica. Tra le fonti principali ricordiamo la Storia patria di Giuseppe Ripamonti; il Saggio sul commercio dei commestibili e caro prezzo del vitto di Melchiorre Gioia e il Ragguaglio di Alessandro Tadino, sull’origine della peste. I modelli letterari più significativi dei Promessi sposi sono: il romanzo storico di Walter Scott (rispetto al quale, tuttavia, in Manzoni è presente una profonda tensione etica e una precisa ricostruzione storica), il romanzo di formazione e, infine, il romanzo gotico d’avventura. Una storia redazionale lunga e tormentata L’elaborazione del romanzo si snoda attraverso tre diverse versioni. 1) 1821-23: nella prima stesura (rimasta manoscritta) l’opera è divisa in quattro tomi ed è priva di un titolo, anche se si presuppone che l’autore volesse designarla con il nome dei due protagonisti, Fermo e Lucia. 2) 1827: Manzoni attua una revisione radicale dell’opera, che viene pubblicata con il titolo di I promessi sposi. È l’edizione definita “ventisettana”. Rispetto alla prima, viene modificata la struttura, non più ripartita in blocchi giustapposti; la lingua viene affrancata dalla matrice lombarda e Manzoni si orienta verso il toscano; l’intento pedagogico diventa più sfumato. 3) Nel 1840 Manzoni pubblica l’edizione definitiva, definita “quarantana”, frutto di una revisione di carattere sostanzialmente linguistico, operata a seguito della cosiddetta “risciacquatura in Arno”, che avvicina la lingua del romanzo al fiorentino parlato delle classi colte. In appendice all’opera, inoltre, viene pubblicata la Storia della colonna infame. L’espediente dell’anonimo e lo statuto del narratore Manzoni finge di aver ritrovato un manoscritto secentesco e di aver costruito il romanzo sulla storia in esso narrata: lo stratagemma è utilizzato per distanziarsi dall’opera e favorire nel lettore un atteggiamento critico. Il narratore si presenta come onnisciente; ma tale onniscienza è problematica, poiché rispecchia la convinzione che l’interiorità umana sia troppo complessa per essere conosciuta davvero. La trama, gli itinerari della narrazione, il rapporto tra macrostoria e microstoria Il racconto dei Promessi Sposi si svolge in Lombardia tra il 1628 e il 1630, durante la dominazione spagnola. È la storia di una coppia di giovani fidanzati, Renzo e Lucia, le cui nozze vengono ostacolate da un signorotto locale; dopo varie vicissitudini, tuttavia, i due riescono comunque a sposarsi. Con le vicende dei protagonisti si intrecciano, infatti, gli eventi storici: la carestia, la guerra per la successione al ducato di Mantova, la calata dei lanzichenecchi, la peste. Dal paesino sul lago di Como dove vivono, l’azione si sviluppa a Monza, Milano e nel territorio bergamasco. Si realizza così un’interazione tra macrostoria e microstoria.

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Il sistema dei personaggi e la raffigurazione della società secentesca Il sistema dei personaggi, assai numerosi, si fonda su una contrapposizione tra i campi di forza del bene e del male e su una contrapposizione storico-sociale. Viene presentato un ritratto realistico della società secentesca, delineata in tutte le sue componenti. L’ideologia del romanzo Nei Promessi sposi, il Seicento diviene il simbolo di un’epoca di violenza e arbitrio dei potenti, nella quale Manzoni riconosce molti caratteri a lui contemporanei. Ma lo scrittore, nonostante la critica ai soprusi, è un liberale moderato sostenitore dei principi del Cristianesimo che rifiuta ogni ipotesi di rivoluzione. Il “sugo della storia”, è che non è possibile alcuna corrispondenza tra virtù e felicità: il male trova un senso solo in una inconoscibile prospettiva ultraterrena. La Storia della colonna infame: tra responsabilità individuali e silenzio della provvidenza Nella “quarantana” è collocata in appendice la Storia della colonna infame, opera cupa che racconta un terribile errore giudiziario: il processo contro “presunti untori” nel 1630 a Milano e che vede gli imputati condannati a morte. Al centro vi è, dunque, il problema di una giustizia ingiusta e la conseguente riflessione morale in merito alle responsabilità individuali nel compiere il male, che non possono trovare giustificazioni nell’influenza da parte del contesto in cui avvengono. Le scelte linguistiche e stilistiche Obiettivo principale di Manzoni nell’adozione della lingua con la quale scrivere il romanzo è quello di avvicinare la lingua della letteratura alla lingua d’uso. Nel Fermo e Lucia lo scrittore non riesce ancora a mettere in atto il proposito e opta per un compromesso: innesta il toscano e voci francesi su una base di dialetto milanese. Ne risulta un «composto indigesto». Nella “ventisettana” lo scrittore procede a una revisione, orientata verso il toscano letterario; ma è nella “quarantana” che il lavoro arriva a compimento: dopo un viaggio a Firenze e la “risciacquatura in Arno”, l’autore sceglie il toscano dei fiorentini colti, declinato in vari registri espressivi e stilistici. Con I promessi sposi, Manzoni diventa il punto di riferimento per la lingua della nuova nazione che si va formando a seguito dei moti risorgimentali.

5 La ricezione dei Promessi sposi

Un romanzo destinato a colpire l’immaginario collettivo Il romanzo ha immediatamente un enorme successo. I motivi si ritrovano nei valori trasmessi, coerenti con la sensibilità cattolica; nei protagonisti, popolani per cui è facile simpatizzare; nell’adozione come testo scolastico; nell’evocatività delle descrizioni, che ne assicura la popolarità anche in campo figurativo; infine nella memorabilità degli episodi, capaci di rimanere impressi come storie a sé stanti. Il sacro e il profano: il romanzo tra riprese, trascrizioni, parodie e appropriazioni indebite Il successo porta il testo a riprese proprie e anomale, di grande valore o più o meno banalizzanti. Già nell’Ottocento se ne realizzano numerose trasposizioni teatrali, in chiave sia drammatica sia comico-parodistica; non mancano, poi, rielaborazioni in forma di melodramma. Nel XX secolo I promessi sposi, ormai parte della cultura popolare, compaiono nei palinsesti televisivi italiani: lo fanno dagli anni ’60 e più di una volta, anche in forma parodistica; una tonalità ripresa, poi, pure nei fotoromanzi e nei fumetti. Manzoni e il Novecento: alcuni esempi Manzoni è una presenza significativa anche nella letteratura novecentesca: un interlocutore con il quale non si può evitare il confronto. Tra tanti, Pirandello, Gadda, Sciascia e Testori ne riconoscono la grandezza, sottolineando rispettivamente la profonda dimensione umoristica; il realismo, in grado affrontare gli aspetti

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complessi della realtà senza mistificazioni semplificatorie; la riflessione sulla natura della storia e sulla responsabilità dell’individuo nelle società di ogni tempo, utile per comprendere anche l’Italia di oggi; e infine l’attenzione agli umili e la religiosità inquieta, mai doma nel cercare una soluzione al problema del conflitto tra bene e male. Moravia, invece, pur non disconoscendo il valore artistico dei Promessi sposi, considera l’opera eccessivamente condizionata dal pensiero di matrice cattolica.

Zona Competenze Scrittura

1. Costruisci un elenco delle affinità che la produzione manzoniana presenta con i temi e le poetiche del Romanticismo. 2. Relativamente ai generi romanzeschi che esercitano un’influenza sui Promessi sposi, distingui e sintetizza gli elementi assunti dal romanzo e quelli per cui invece se ne distanzia. 3. In un testo di max 20 righe, illustra la natura complessa e problematica della religiosità manzoniana. 4. In un testo di 3-4 colonne di foglio protocollo, considerando il percorso manzoniano dalle tragedie al romanzo, discuti come viene affrontato dall’autore il rapporto tra morale e storia e come esso investe il tema della natura e dei compiti dell’arte.

Esposizione orale

5. In un intervento orale di max 3 minuti presenta la particolarità che assume il narratore onnisciente nel romanzo manzoniano. 6. In un intervento orale di max 3 minuti spiega i motivi per cui, agli occhi di un lettore del XIX secolo, la Milano del Seicento poteva essere vista come una sorta di specchio del proprio tempo. 7. Attraverso la presentazione e l’interpretazione di un episodio a tua scelta, esponi alla classe, in max 8 minuti, come si sviluppa il tema della giustizia nel romanzo.

Sintesi Ottocento

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Verso l’esame di Stato Tipologia A Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano

Alessandro Manzoni

Una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta I promessi sposi, IX Testo tratto da A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di R. Luperini e D. Brogi, Einaudi Scuola, Milano 1998.

Il suo aspetto, che poteva dimostrar 25 anni, faceva prima vista un’impressione di bellezza, ma di una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una 5 fronte di diversa, ma non di inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo1, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e, allora due sopraccigli neri si avvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con 10 un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una 15 svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano come 20 quelli degli occhi, subitanei, vidi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura 25 secolaresca2, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento. 1 soggolo: benda, indossata dalle suore, che fascia

2 secolaresca: mondana.

il collo.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Quali tratti della personalità di Gertrude emergono dalla descrizione che ne fa il narratore? 2. Quale figura retorica si può individuare nell’espressione «bellezza sbattuta, sfiorita e, direi, quasi scomposta» (r. 2)? 3. Nel passo, il narratore attribuisce grande rilevo ai contrasti cromatici. Perché? 4. Per quale motivo il narratore indugia nel descrivere gli occhi della monaca?

Interpretare

Metti a confronto la figura di Gertrude con quella di Ermengarda nell’Adelchi e di Lucia nei Promessi sposi ed elabora una tua riflessione sulle modalità con le quali Manzoni rappresenta l’universo femminile nelle sue opere.

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Verso l’esame di Stato Tipologia B  Analisi e produzione di un testo argomentativo Testo tratto da V. Spinazzola, Il libro per tutti. Saggio su “I promessi sposi”, Editori Riuniti, Roma 1983

Al suo romanzo, il Manzoni affida il compito di avviare un processo di ristrutturazione generale dell’attività letteraria, mutando i termini tradizionali del rapporto fra lo scrittore e i lettori. Premessa decisiva è la volontà di allargare la cerchia del pubblico assai oltre i confini dell’intellettualità umanistica: senza però effettuare 5 concessioni di sorta alla mentalità e al gusto più corrivi. D’altronde questo ampliamento dell’area di lettura deve coincidere con la sua riqualificazione: l’autore si atteggia a messaggero di una idea nuova di letteratura che, per essere vicina ai modi del discorso pratico, agli interessi mentali della gente comune, non cessa di ribadire il suo carattere di esperienza privilegiata di linguaggio; anzi, lo esal10 ta massimamente [...]. Per effettuare un’operazione così complessa, occorreva rivolgersi anzitutto al pubblico obbiettivamente disponibile, selezionando al suo interno la fascia da assumere come destinataria elettiva. [...] Ai lettori di formazione classicistica I promessi sposi voglion presentarsi come un libro di cui sia difficile misconoscere la qualità estetica e che tuttavia contraddice 15 clamorosamente i precetti della retorica più illustre, intesa come mezzo di separazione dal volgo profano. Tutt’altro era invece l’atteggiamento da assumere nei riguardi dei ceti colti d’impronta romantica, quali avevano cominciato a raccogliersi a Milano, negli anni del «Conciliatore». Le richieste che ne provenivano, o almeno le esigenze che bisognava raccogliere e interpretare, erano di due tipi: [...] 20 la capacità di sollecitare direttamente l’immaginazione collettiva, senza il filtraggio costrittivo delle regole classicistiche e senza il ricorso al dotto armamentario mitologico; assieme, l’accoglimento di una somma di preoccupazioni civili [...]. Ma il Manzoni intende allargare ancora l’orizzonte, rivolgendosi a interlocutori di acculturazione più incerta, [...] I promessi sposi non dovevano precludere l’ac25 cesso a strati di lettori puramente virtuali, tuttora sprovvisti di ogni competenza libraria, ma prima o poi destinati ad accender la loro sensibilità di fronte a un testo in cui la piacevolezza dei moduli narrativi si sostanziasse di un afflato religioso, nel nome di un cattolicesimo altamente partecipe dei destini di libertà di ogni anche più umile persona. 30 Tale era l’ampiezza dell’impresa [...] concepita dal Manzoni. In questa prospettiva, la forte impronta di milanesità della vicenda narrativa, col suo rimando a memorie, usi, costumi localmente caratteristici, adempiva una funzione essenziale: eccitare la curiosità e sollecitare il consenso del pubblico più immediatamente raggiungibile, quello appunto municipale, offerto da una città in fase di sviluppo 35 culturale. Nello stesso tempo, però, la tipicità milanese [...] doveva esser trascesa e fatta assurgere al grado più alto di esemplarità metastorica e metageografica. Nel microcosmo romanzesco dovevano potersi riconoscere senza distinzione i cittadini di tutte le città terrene. Se la vita è sempre una prova, le sue modalità potranno variare di paese in paese, ma inalterata resta la drammaticità perenne 40 del rapporto fra l’individuo e i suoi simili, quale viene codificato dalle istituzioni di un potere non mai ossequiente ai princìpi dell’amor fraterno, sì invece dell’odio e della vendetta. La generalità dell’appello ai lettori era poi destinata a tradursi in

Verso l’esame di Stato

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un privilegio di attenzione per le varie genti abitatrici della penisola: esperte da secoli di cosa siano i regimi di illibertà, negatori del vero spirito cristiano, quanto 45 a corruzione dei valori morali e civili, conformismo culturale, ristagno economico, arbitrio amministrativo. L’italianità dei Promessi sposi consiste nel proposito di riflettere e corroborare un’assunzione di consapevolezza da parte di un pubblico cattolico liberale, ancora non del tutto maturo, nelle nostre varie regioni.

Comprensione e analisi

Puoi rispondere punto per punto oppure costruire un unico discorso che comprenda le risposte a tutte le domande proposte. 1. Qual è l’obiettivo che, secondo Spinazzola, Manzoni persegue con l’ideazione del suo romanzo? 2. Presenta le tre categorie di pubblico che Manzoni intende raggiungere sul piano sociale e la risposta che, con il romanzo, offre alle aspettative di ciascuna di esse. 3. Milanesità, universalità e italianità: come si declinano, secondo il critico, queste caratteristiche del romanzo manzoniano?

Produzione

In un testo argomentativo, anche alla luce della tua esperienza di lettore, discuti in merito alla modernità dei Promessi sposi e alla capacità del romanzo di parlare ancora oggi a un vasto pubblico.

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Indice dei nomi A Abba, Giuseppe Cesare, 39, 352, 355, 356, 362, 369 Albertazzi, Silvio, 318 Alfieri, Vittorio, 29, 40, 99, 107, 112, 114, 116, 118, 125-127, 137, 138, 158, 159, 163, 170, 172, 175, 177, 179, 181, 200, 330, 351 Appiani, Andrea, 55 Armin, Ludvig von, 209 Austen, Jane, 24, 259, 260, 265, 267, 291

B Balbo, Cesare, 7 Balzac, Honoré de, 38, 42, 43 Banti, Anna, 366 Bayard, Hippolyte, 46 Beccaria, Cesare, 29, 474, 476, 529 Beccaria, Giulia, 406, 408, 409, 418, 529 Beethoven, Ludwig van, 227 Belli, Giuseppe Gioacchino, 37, 39, 49, 373, 384, 386, 389, 391, 393, 395, 396, 400, 401 Bembo, Pietro, 40 Bentham, Jeremy, 33 Berchet, Giovanni, 30, 36, 48, 326, 327, 329, 330-333, 361, 362, 368, 370 Blondel, Enrichetta, 406, 408, 409, 412, 529 Boccaccio, Giovanni, 40, 103 Bonaparte, Napoleone, 4, 5, 6 Borsieri, Pietro, 324-327, 329, 333 Botticelli, Sandro, 140, 191, 192, 195 Branagh, Kenneth, 317 Brentano, Clemens Maria, 209 Bröntë, Charlotte, 24, 260, 291, 319 Bröntë, Emily, 24, 260, 291, 297, 320 Bulgakov, Michail, 83 Burke, Edmund, 66, 67, 92, 295 Byron, George Gordon, 10, 22, 31, 209, 221, 237-240, 245, 248

Carlo Alberto di Savoia, 7 Carlyle, Thomas, 10 Casati Confalonieri, Teresa, 30 Cattaneo, Carlo, 7, 328 Cavour, Camillo Benso Conte di, 5, 7, 411 Cervantes, Miguel de, 212, 466 Cesari, Antonio, 40, 41 Cesarotti, Melchiorre, 67, 69, 92 Chabod, Federico, 21 Chateaubriand, François-AugusteRené de, 9-11, 18, 19, 37 Chopin, Fryderych, 227 Clair, René, 83 Coleridge, Samuel Taylor, 209, 220, 232, 233, 236, 239, 248 Comte, Auguste, 33 Constant, Benjamin, 22, 37 Corneille, Pierre, 441 Cuoco, Vincenzo, 324

D Daguerre, Louis, 46 Dante, 9, 19, 41, 103, 114, 116, 122, 127, 167, 170, 171, 176, 178, 179, 181, 200, 204 David, Jacques-Louis, 14, 23, 31, 55, 64 d’Azeglio, Cesare, 410, 420, 467 d’Azeglio, Massimo, 38, 327, 334, 351, 369 De Luca, Erri, 160 De Roberto, Federico, 367 De Sanctis, Francesco, 103, 116, 187, 197, 349, 352 Di Benedetto, Arnaldo, 150 Di Breme, Ludovico, 327 Dickens, Charles, 8, 260, 291, 311 Diderot, Denis, 107 Dostoevskij, Fëdor, 304 Dumas, Alexandre, 24, 30, 38, 377

E Eco, Umberto, 484, 485, 493 Eliot, George (pseudonimo di Mary Ann Evans), 24, 260, 291 Eliot, Thomas Stearns, 150

C Canova, Antonio, 44, 52, 55, 91, 145, 156, 172, 179, 185, 186, 188, 189, 190, 202 Cantù, Cesare, 334 Carcano, Giulio, 38 Caretti, Lanfranco, 520, 521

F Fagnani Arese, Antonietta, 100, 104, 105, 137 Fauriel, Claude, 41, 374, 408, 414, 422, 445, 461, 478

Fichte, Johann Gottlieb, 20, 33, 34, 43, 48, 64, 65, 91 Flaubert, Gustave, 38 Foscolo, Ugo, 9, 13, 20, 22, 27-29, 35-37, 39, 48, 51, 54, 56-58, 60, 67, 68, 90, 91, 96-206, 423 Fox Talbot, Henri, 46 Frare, Pierantonio, 146 Freud, Sigmund, 298, 303, 310, 313, 321 Friedrich Caspar David, 14, 16, 18, 23, 33, 50 Fubini, Mario, 103, 149, 182, 187, 197, 202 Fusinato, Arnaldo, 361, 362

G Gadda, Carlo Emilio, 198, 480, 526, 527, 532 Garibaldi, Giuseppe, 7, 10, 411 Gioberti, Vincenzo, 7, 349, 362 Giordani, Pietro, 40, 41, 324, 326, 329 Godwin, William, 311, 313, 321 Goethe, Johann Wolfgang, 9, 13, 15, 18, 22, 31, 35, 37, 48, 51, 56, 64, 67, 70-74, 77-95, 112, 114, 116, 200, 202, 431, 441, 527 Goldoni, Carlo, 351 Gonin, Francesco, 462, 464, 493, 499, 506, 508, 519, 523 Gozzano, Guido, 188 Gramsci, Antonio, 351, 364 Gray, Thomas, 66-68, 83, 92 Grossi, Tommaso, 36, 38, 334, 376 Guccini, Francesco, 188 Guerrazzi, Francesco Domenico, 38, 334 Guicciardini, Francesco, 350

H Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 228 Herder, Johann Gottfried, 64, 70, 92 Hobbes, Thomas, 108, 134, 135, 200 Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 12, 293, 294, 295, 297, 303, 304, 305, 308-311, 313, 317, 320 Hölderlin, Friedrich, 52, 54, 208, 220, 221, 227-231, 238, 245, 247, 248 Hugo, Victor, 209, 212, 219, 220

Indice dei nomi

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I

N

Imbonati, Carlo, 406, 408, 409, 418, 421 Isella, Dante, 374-377, 383, 400, 402, 403

Neppi, Enzo, 178, 181 Nievo, Ippolito, 323, 334-340, 343, 345, 347, 348, 352, 362, 367-370 Novalis, (pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg), 12, 18, 19, 22, 33, 36, 64, 91, 208, 210, 212-214, 220-224, 226, 227, 229, 248

J Jones, Jennifer, 289 Jung, Carl Gustav, 150

K Keats, John, 22, 31, 36, 52, 54, 209, 221, 237, 239, 241-244, 248 Klinger, Friedrich Maximilian, 64

L La Mettrie de, Julien Offray, 107 Langella, Giuseppe, 196 Lavoisier, Antoine-Laurent de, 32 Leopardi, Giacomo, 13, 14, 22, 27-31, 34, 35, 36, 39, 43, 48, 124, 136, 194, 197, 202, 324, 327, 350 Leopardi, Monaldo, 29 Leverkühn, Adrian, 83 Levi, Primo, 515 Lewis, Matthew, 296, 297, 320 Lomonaco, Francesco, 324 Lovecraft, Howard Phillips, 298

M Machiavelli, Niccolò, 108, 122, 125, 135, 136, 171, 178, 179, 200, 350 Macpherson, James, 66, 67, 69, 92 Maffei, Clara, 30 Mameli, Goffredo, 361, 362, 363, 364, 370 Mann, Thomas, 83 Manzoni, Alessandro, 18, 20, 22, 2729, 35, 38, 39, 41, 48, 49, 126, 197, 209, 254, 291, 296, 320, 326-328, 333, 334, 350, 361, 362, 370, 374, 376, 377, 383, 384, 386, 400, 402, 404-536 Martone, Mario, 366 Marx, Karl, 5, 42 Maturin, Charles R., 296, 297 Mauri, Glauco, 83 Mazzini, Giuseppe, 4, 7, 20, 21, 350, 362 Mercantini, Luigi, 361, 362 Molteni, Giuseppe, 467, 523 Momigliano, Attilio, 375 Monti, Vincenzo, 27, 29, 40, 41, 51, 52, 55-61, 63, 67, 90, 91, 99, 101, 153, 184, 185, 324, 326, 327, 357, 408, 423

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Indice dei nomi

P Parini, Giuseppe, 103, 107, 112, 128132, 137, 159, 163-168, 176, 177, 181, 182, 184, 199, 377, 383, 384, 402, 403, 423 Pasolini, Pier Paolo, 385 Pecchio, Giuseppe, 96, 116, 196 Pellico, Silvio, 28, 39, 324, 326, 354, 357-359, 360, 362, 367, 370 Petrarca, Francesco, 20, 40, 103, 114, 116, 119, 121, 137, 138, 170, 171, 178, 179, 181, 200 Petronio, Giuseppe, 398, 399 Piave, Francesco M., 385 Pindemonte, Ippolito, 101, 156-158, 164, 165, 170, 173, 180, 201 Pirandello, Luigi, 303, 367, 480, 526, 527, 532 Poe, Edgar Allan, 293, 294, 295, 296299, 301, 302, 313, 320 Polidori, John William, 296, 297, 311 Porro Lambertenghi, Luigi, 28 Porta, Carlo, 37, 39, 49, 373-381, 383, 384, 385, 386, 397, 399, 400-403 Prati, Giovanni, 36, 37 Praz, Mario, 144 Puškin, Aleksandr, 304

R Racine, Jean, 441 Radcliffe, Ann, 296, 297, 299, 302, 320 Raimondi, Ezio, 462, 510, 517 Rimbaud, Arthur, 214 Rousseau, Jean-Jacques, 22, 37, 351 Russo, Luigi, 132, 197

S Sand, George (pseudonimo di Aurore Lucile Dupin, 24 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 12, 33, 34, 48, 64, 91, 207, 208, 210, 220, 228 Schiller, Friedrich, 14, 50, 54, 64, 65, 70, 91, 210, 215, 216, 217 Schlegel, Friedrich, 18, 33, 207-212, 218-220 Schlegel, Wilhelm, 441, 442 Schubert, Gotthilf H. von, 12

Sciascia, Leonardo, 476, 477, 527, 532 Scott, Walter, 406, 460, 461, 464, 470, 531 Sénancour, Étienne Pivert de, 37 Settembrini, Luigi, 352-354, 362, 369 Shakespeare, William, 79, 127, 212, 318, 330, 441 Shelley, Mary Godwin, 24, 31, 36, 38, 238, 293, 311-314, 317, 321 Shelley, Percy Bysshe, 209, 221, 222, 237, 238, 239, 244, 245, 246, 247, 248, 311 Snow, Charles, 32 Sokurov, Aleksandr, 83 Staël, Madame de, 32, 323-327, 329, 330, 368 Stevenson, Robert L., 297, 320 Stoker, Bram, 296, 297, 311, 321 Strehler, Giorgio, 83 Sturno, Roberto, 83 Sue, Eugène, 38

T Teotochi Albrizzi, Isabella, 96, 98, 116, 156, 199, 201 Testori, Giovanni, 523, 524, 527, 532 Tieck, Johann Ludwig, 208, 220 Tommaseo, Niccolò, 25, 26, 27, 38 Turner, William, 45

V Verdi, Giuseppe, 24, 39, 365, 377, 385 Veronese, Angela, 96 Vico. Giambattista, 97, 107, 159, 162, 166, 168, 177, 199 Vieusseux, Giovan Pietro, 328 Visconti, Ermes, 326, 327 Volta, Alessandro, 32 Voltaire, (pseudonimo di François Marie, Arouet), 350, 407

W Walpole, Horace, 295, 297, 320 Whale, James, 317 Winckelmann, Johann Joachim, 31, 44, 52-54, 57, 90, 91 Wollstonecraft, Mary, 311 Woolf, Virginia, 260, 291 Wordsworth, William, 209, 220, 222, 232, 239, 248

Y Young, Edward, 66, 67, 92

Z Zola, Émilie, 263


Glossario

Anacronia Sfasatura nella successione temporale dei fatti (➜ analessi, ➜ prolessi).

A

Anacrùsi Aggiunta di una o due sillabe fuori battuta, all’inizio di un verso o di una sua parte, eccedente la normale misura metrica.

Acefalo Detto di manoscritto mancante della prima o delle prime pagine.

Anadiplòsi Figura retorica che consiste

Adynaton (dal gr. “cosa impossibile”)

La formulazione di un’ipotesi o di una situazione impossibile il cui avverarsi è subordinato a un altro fatto ritenuto irrealizzabile. Ad es.: «S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo» (Cecco Angiolieri).

Aferesi Caduta di una sillaba all’inizio di una parola. Ad es.: verno per “inverno”.

Agnizione Riconoscimento (special-

mente nel teatro classico) della vera identità di un personaggio. Il riconoscimento risolve così, alla fine, le complesse vicende dell’intreccio.

Alessandrino Verso della tradizione

poetica francese. È composto di dodici sillabe divise in due emistichi di sei sillabe. L’omologo italiano è il verso martelliano formato da due settenari (prende il nome dal poeta drammatico Pier Iacopo Martello che lo creò a imitazione dell’esempio francese).

Allegoria Figura retorica tramite la qua-

le il riferimento a immagini complesse o narrazioni richiama un significato più nascosto, allusivo e profondo (in genere un’entità astratta come un vizio, una virtù, un evento ecc.). A differenza della ➜ metafora, l’allegoria richiede un’interpretazione alla quale si può giungere solo conoscendo il contesto culturale del testo: il significato infatti non è deducibile da un immediato processo intuitivo. Per quanto complessa, l’allegoria è sempre costruita razionalmente e per tanto è decifrabile una volta compreso il criterio con cui è stata formata. Ad es.: nella Divina commedia le tre fiere che ricacciano Dante nella selva oscura sono un’allegoria; inoltre il senso allegorico può anche essere “trovato” dai lettori a dispetto delle intenzioni dell’autore: la IV egloga di Virgilio fu interpretata come un’allegoria della venuta di Cristo.

Allitterazione Figura retorica che consiste nella ripetizione di una lettera o di un gruppo di lettere in una o più parole successive. Ad es.: «Il pietoso pastor pianse al suo pianto» (Tasso, Gerusalemme liberata VII).

nella ripresa all’inizio di frase o di verso, della parola conclusiva della frase o del verso precedente al fine di dare maggior efficacia all’espressione. Ad es.: «Ma passavam la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi» (If IV 65-66).

Anàfora Ripetizione di una o più parole

proprio di una persona o di una cosa con un appellativo che ne indichi un elemento caratterizzante e lo identifichi in modo inequivocabile. Ad es. “il Ghibellin fuggiasco” per indicare Dante, “l’eroe dei due mondi” per Garibaldi. Può anche indicare il trasferimento del nome di un personaggio proverbiale a chi dimostra di avere le sue stesse qualità. Ad es.: un “Ercole” per indicare una persona di gran forza, un “Don Giovanni” per un conquistatore di donne.

Antropomorfismo Tendenza ad as-

segnare caratteristiche umane (dall’aspetto all’intelligenza ai sentimenti) ad animali, cose e figure immaginarie.

all’inizio di versi o frasi successive. Ad es.: «Per me si va ne la città dolente, / per me si va ne l’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente» (If III 1-3).

Apocope Caduta di una vocale o di una sillaba al termine d’una parola. Ad es.: fior per “fiore”, san per “santo”.

Analessi (anche ➜ flashback) In nar-

Apografo Manoscritto che è copia di-

ratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi passati. È l’opposto della ➜ prolessi.

Analogia Procedimento stilistico che istituisce un rapporto di somiglianza fra oggetti o idee semanticamente lontani. È diventato un procedimento tipico delle tendenze poetiche moderne in cui la soppressione degli espliciti legami comparativi (“come”, “così” ecc.) dà luogo a immagini molto ardite e sintetiche. Ad es.: «Le mani del pastore erano un vetro / levigato da fioca febbre» (Ungaretti). Anàstrofe (o inversione) Figura reto-

rica che consiste nel disporre parole contigue in un ordine inverso a quello abituale. È affine all’➜ iperbato. Ad es.: «O anime affannate, / venite a noi parlar» (If V 80-81); «Allor che all’opre femminili intenta / sedevi» (Leopardi, A Silvia vv. 10-11).

Anfibologìa Espressione che può pre-

starsi a una doppia interpretazione a causa della sua ambiguità a livello fonetico, semantico o sintattico. Ad es.: “Ho visto mangiare un gatto”. Può essere sfruttata per ottenere effetti comici come nei casi di frate Cipolla (Boccaccio, Decameron) o fra’ Timoteo (Machiavelli, la Mandragola).

Annominazione ➜ Paronomasia Antìfrasi Figura retorica che lascia in-

Allocuzione ➜ Apostrofe

tendere che chi parla afferma l’opposto di ciò che dice. Ad es.: «una bella giornata davvero!» (detto quando sta piovendo), «Dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive» (Leopardi, La ginestra).

Anacoluto Costrutto in cui la seconda

Antonimìa Figura retorica che con-

parte di una frase non è connessa alla prima in modo sintatticamente corretto. Ad es.: «Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro» (Manzoni, I promessi sposi XXXVI).

Antonomàsia Sostituzione del nome

siste nel contrapporre parole di senso contrario o in qualche modo opposte. Ad es.: «Pace non trovo e non ho da far guerra, E temo e spero, et ardo e son un ghiaccio» (Petrarca, Canzoniere 134).

retta di un testo originale.

Apologo Racconto allegorico di gusto favolistico e con fini didattico-morali. Apostrofe Consiste nel rivolgersi di-

rettamente a una persona (o cosa personificata) diversa dall’interlocutore cui il messaggio è indirizzato. Ad es.: «Ahi serva Italia, di dolore ostello» (Pg VI 76).

Asindeto Forma di coordinazione rea-

lizzata accostando parole o proposizioni senza l’uso di congiunzioni coordinanti. Ad es.: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (Ariosto, incipit dell’Orlando furioso).

Assimilazione Fenomeno per cui, nell’evoluzione storica di una parola, due fonemi vicini tendono a diventare simili o uguali: ad es. il passaggio da noctem a notte (dal nesso consonantico ct al raddoppiamento della dentale tt). Assonanza Rima imperfetta in cui si ripetono le vocali a cominciare da quella accentata, mentre differiscono le consonanti. All’opposto della ➜ consonanza. Ad es.: amòre : sòle; agòsto : conòsco.

Àtona (sillaba) sillaba che non è accentata (al contrario della sillaba ➜ tonica) Auctoritas Termine latino (“autorità”) con cui si è soliti indicare, soprattutto nella cultura medievale, un autore o un’opera il cui valore esemplare è riconosciuto in modo unanime. Autografo Manoscritto redatto di suo pugno dall’autore.

B Ballata Forma metrica, destinata in origine al canto e alla danza, usata per componimenti religiosi (laude). È formata da un numero vario di strofe (stanze), con schema identico, precedu-

Glossario

539


te da un ritornello (ripresa). Lo schema base è così costituito: le strofe sono divise in quattro parti, tre identiche (mutazioni) e la quarta (volta), legata per una rima alla ripresa. I versi usati sono gli endecasillabi e i settenari.

Bestiario Trattato medievale in cui ve-

zione e la purificazione dalle passioni che la tragedia, in quanto rappresentazione di fatti dolorosi, origina nell’animo dello spettatore. In senso lato è l’azione liberatrice della poesia e dell’arte che purificano dalle passioni.

nivano descritte caratteristiche fisiche e morali di diverse specie di animali reali e fantastici.

Cesura Pausa del ritmo, non sempre corrispondente a una pausa sintattica, fra due ➜ emistichi di un verso.

Bildungsroman ➜ Romanzo di for-

Chiasmo Figura retorica che consiste

mazione

Bisticcio ➜ Paronomasia Bozzetto Racconto breve che rappre-

senta con piglio realistico e vivezza impressionistica (ma anche con superficialità) una situazione, un luogo, un carattere, tratti per lo più dalla vita quotidiana.

Bucolica ➜ Egloga

C

nel contrapporre due espressioni concettualmente affini in modo però che i termini della seconda siano disposti nell’ordine inverso a quelli della prima così da interrompere il parallelismo sintattico (da ABAB a ABBA). Ad es.: «Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano» (If IV 90), «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg V 134).

Chiave (o concatenatio) In una ➜ stanza di canzone, il verso che collega il primo gruppo di versi (➜ fronte) col secondo (➜ sirma) mediante una

Campo semantico Insieme delle parole i cui significati rimandano a uno stesso concetto-base.

rima identica all’ultima della fronte. Solitamente è connesso alla sirma dal punto di vista sintattico.

Canone L’insieme degli autori e delle

Chiosa ➜ Glossa

opere considerati indispensabili per definire l’identità culturale di una società o di un’epoca. Pertanto l’idea stessa di canone è mutevole e influenzata dal mutare della società e del pensiero: il classicismo ha un suo canone, il romanticismo un altro e così via.

Cantare Poema composto per lo più in ➜ ottave, di materia epico-cavalleresca e di origine popolare. Era destinato a essere recitato sulle piazze dai cantastorie. Fu in voga soprattutto nei secoli XIV e XV.

Canzone Forma metrica caratterizzata

dalla presenza di più strofe (da 5 a 7) e da una forte simmetria: le strofe (stanze) si ripetono infatti con lo stesso numero di versi (per lo più endecasillabi e settenari) e con lo stesso schema delle rime. Ogni stanza consta di due parti: la fronte (divisibile in due piedi) e la sirma (prima di Petrarca divisa in due volte). Sono usati diversi artifici per creare un legame tra le strofe e rafforzare così l’armonia e la simmetria della canzone (ad es.: l’ultima rima della fronte si ripete nel primo verso della sirma). La canzone si può chiudere con una strofa detta commiato con cui il poeta si rivolge a un destinatario o alla canzone stessa.

Canzone a ballo ➜ Ballata Capitolo Componimento poetico in ➜ terza rima, esemplato sui Trionfi di

Petrarca. Usato per trattare i temi più vari (argomenti politici, morali, amorosi), nel Cinquecento gode di particolare fortuna il capitolo burlesco (o bernesco) a imitazione di quelli di Francesco Berni e dai temi comico-satirici.

540

Catarsi Secondo Aristotele, la libera-

Glossario

Circonlocuzione ➜ Perifrasi Clausola La chiusura di un verso o di un periodo.

Climax Enumerazione di termini dal significato via via sempre più intenso. Ad es.: «la terra ansante, livida, in sussulto; / il cielo ingombro, tragico, disfatto» (Pascoli, Il lampo). Se l’intensità è invece decrescente si parla di anticlimax. Ad es.: «E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!» (Pascoli, La mia sera). Cobla Nella poesia provenzale l’equivalente della stanza o ➜ strofa italiane. Le

coblas si dicono capcaudadas quando la rima finale di una cobla è la prima rima della cobla successiva e capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di una cobla appare anche nel primo verso della cobla successiva.

Codice In filologia, il libro manoscritto. Codice linguistico Il sistema di segni convenzionali e regole (cioè l’alfabeto e la grammatica) usato per stabilire una trasmissione di informazioni tra emittente e ricevente.

Collazione Confronto sistematico dei ➜ testimoni di un testo, allo scopo

di fornirne l’edizione critica oppure di individuarne le fasi di composizione.

Commiato ➜ Canzone Concordanze Repertori alfabetici di

tutte le parole usate da un autore in una o più opere, con indicazione dei passi in cui esse ricorrono.

Congedo (o commiato) ➜ Canzone Connotazione Indica il significato se-

condario, aggiuntivo, che una parola ha in aggiunta al suo significato base (➜ denotazione). Consiste quindi nelle sfumature di ordine soggettivo (valore affettivo, allusivo ecc.) che accompagnano l’uso di una parola e che si aggiungono ai suoi tratti significativi permanenti. Ad es.: le parole mamma e madre indicano lo stesso soggetto ma il primo termine ha una sfumatura affettiva maggiore rispetto al secondo.

Consonanza Sorta di rima in cui si ri-

petono le consonanti a cominciare dalla vocale accentata, mentre differiscono le vocali. All’opposto della ➜ assonanza. Ad es.: vènto : cànto; pàsso : fòssa.

Contaminazione Nella critica testua-

le l’utilizzo, da parte di un copista, di ➜ testimoni diversi di una stessa opera al fine di correggere errori o colmare lacune. In senso generale, il mescolare elementi di diversa provenienza nella stesura di un’opera letteraria.

Contrasto Componimento poetico che

rappresenta il dibattito o il dialogo tra due personaggi o due entità allegoriche. Ad es.: appartiene al primo caso Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo, al secondo Disputa della rosa con la viola di Bonvesin de la Riva.

Coppia sinonimica (o dittologia sino-

nimica) Coppia di parole dal significato analogo in cui l’una va a rafforzare il significato dell’altra. Ad es.: «passi tardi e lenti» (Petrarca, Canzoniere 35); «soperba e altiera» (Boiardo, Orlando innamorato) ma anche in espressioni tipiche del parlato come pieno zeppo.

Corpus L’insieme delle opere di un sin-

golo autore; oppure un gruppo di opere letterarie omogeneo per stile, genere o tema.

Correlativo oggettivo Concetto poe-

tico formulato dal poeta T.S. Eliot all’inizio del Novecento. Consiste in un oggetto, un evento, una situazione che evocano immediatamente nel lettore un’emozione, un pensiero, uno stato d’animo senza necessitare di alcun commento da parte del poeta.

Cronòtopo Il termine, introdotto nella

critica letteraria dal critico russo Michail Bachtin, indica la sintesi delle categorie spazio-temporali entro cui è collocata una narrazione: le scelte di spazio e di tempo si influenzano in modo reciproco nella costruzione di un racconto.

Cursus Nella prosa antica e medievale, la ➜ clausola che chiude in modo

armonioso il periodo. A seconda della disposizione degli accenti nelle ultime due parole della frase, consentiva di accelerare o rallentare il discorso (era di tre tipi fondamentali: planus, tardus, velox).


D Dedicatoria Lettera o epigrafe ante-

posta a un’opera letteraria e indirizzata dall’autore a un personaggio cui l’opera stessa è dedicata.

Deittico Elemento linguistico che indi-

ca la collocazione spazio-temporale di un enunciato, decodificabile con esattezza solo grazie al contesto. Ad es.: i pronomi personali (io, tu ecc.) e dimostrativi (questo, quello); gli avverbi di luogo (qua, lì) e di tempo (ora, domani).

Denotazione Indica il significato pri-

mario, il valore informativo base, di una parola (per il significato secondario ➜ connotazione). Ad es.: mamma e madre hanno una medesima denotazione ma una diversa connotazione.

Elegia Nella letteratura classica com-

ponimento poetico di tema soprattutto amoroso e malinconico. Dal Medioevo in poi indica un componimento (anche in prosa) caratterizzato dal tono sentimentale, mesto e malinconico.

Ellissi Omissione di un elemento della frase che resta sottinteso. Ad es.: «A buon intenditor, poche parole» dove il verbo “bastano” è sottinteso; «Questo io a lui; ed elli a me» (Pd VIII 94) con ellissi del verbo “dire”. Elzeviro Articolo di fondo della pagina culturale di un giornale (la cosiddetta “terza pagina”). Di argomento letterario o artistico, è così chiamato per il carattere tipografico in cui un tempo veniva stampato (gli Elzevier erano una famiglia olandese di tipografi del XVII secolo).

Deverbale Sostantivo ricavato da un

Emistichio Ciascuna delle due parti in cui il verso viene diviso dalla ➜ cesura.

Diacronia Indica la valutazione dei

fatti linguistici secondo il loro divenire nel tempo e quindi l’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ sincronia).

Enclisi Fenomeno linguistico per cui una particella atona e monosillabica si appoggia, fondendosi, alla parola precedente. Ad es.: scrivimi, sentilo, guardami.

Dialèfe In metrica ➜ iato tra due vocali

Endecasillabo È il verso di undici silla-

verbo. Ad es.: lavoratore da “lavorare”.

consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sinalefe e solitamente si ha quando l’accento cade su una (o entrambe) le vocali contigue. Ad es.: «restato m’era, non mutò aspetto» (If X 74).

Diegesi Modalità di racconto narrativo indiretto in cui gli eventi, le situazioni, i dialoghi dei personaggi sono raccontati da un soggetto narrante (al contrario della ➜ mimesi).

Dieresi In metrica ➜ iato tra due vo-

cali consecutive appartenenti alla stessa parola. Le due vocali appartengono quindi a due sillabe diverse. È opposta alla ➜ sineresi. Ad es.: «Dolce color d’orïental zaffiro» (Pg I 13).

Digressione ➜ Excursus Distico Coppia di versi. Dittologia sinonimica ➜ Coppia sinonimica

E Edizione critica (lat. editio) Edizione

che si propone di presentare un testo nella forma più possibile conforme alla volontà ultima dell’autore, eliminando quindi tutte le alterazioni dovute alle diverse redazioni manoscritte o a stampa.

Egloga Nella letteratura classica componimento poetico di argomento bucolico-pastorale che, a partire dal Quattrocento, ebbe fortuna anche nella letteratura volgare e che portò alla nascita del dramma pastorale.

be, ampiamente utilizzato nella letteratura italiana. Si presenta in modo vario a seconda del ritmo degli accenti e delle cesure. Sono endecasillabi sciolti quando non vengono raggruppati in strofe e non sono rimati.

Endiadi Figura retorica che consiste nell’esprimere, mediante una coppia di sostantivi, un concetto che invece sarebbe solitamente espresso con un sostantivo e un aggettivo o con un sostantivo e un complemento di specificazione. In certi casi è simile alla ➜ coppia sinonimica. Ad es.: «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fa men duri», dove ciò che solleva le anime dalle sofferenze è la “speranza di giustizia” (Pg XIX 76-77).

Enjambement (o inarcatura) Procedi-

gia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141).

Epanadiplòsi Figura retorica che con-

siste nell’iniziare e terminare un verso o una frase con la stessa parola. In alcuni casi, la presenza di un ➜ chiasmo determina una epanadiplosi. Ad es.: «dov’ero? Le campane / mi dissero dov’ero» (Pascoli, Patria).

Epanalèssi (o geminatio) Figura retori-

ca che consiste nel raddoppiamento di una parola o di un’espressione all’inizio, al centro o alla fine di una frase o di un verso. Ad es.: «Io dubitava e dicea “Dille, dille!”» (Pd VII 10).

Epifonema Sentenza o esclamazione

che conclude enfaticamente un discorso. Ad es.: «è funesto a che nasce il dì natale» (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante v. 143).

Epìfora (o epìstrofe) Figura retorica che consiste nella ripetizione delle stesse parole alla fine di più versi o di più parti di un periodo. Ad es.: la ripetizione del nome di “Cristo”, che Dante non fa mai rimare con altre parole «sì come de l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo. / Ben parve messo e famigliar di Cristo: / ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, / fu al primo consiglio che diè Cristo» (Pd XII 71-75). Epigramma Breve componimento in

versi. In origine, presso i greci, aveva carattere funerario o votivo; dai latini in poi mantenne la brevità ma mutò il tono in satirico e mordace, talora caricaturale.

Epìtesi Aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. In poesia è usata con fini metrici o eufonici. Ad es.: «che la sembianza non si mutò piùe» (Pd XXVII 39); «Ellera abbarbicata mai non fue» (If XXV 58). Epiteto Sostantivo, aggettivo o locuzione che accompagna un nome proprio per qualificarlo o anche soltanto a scopo esornativo. Ad es.: Guglielmo il Conquistatore; Achille piè veloce.

mento stilistico che consiste nel porre due parole concettualmente unite tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo, così che il senso logico si prolunghi oltre la pausa ritmica. Ad es.: «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi» (Leopardi, L’infinito).

Epìtome Riassunto, compendio di un’ampia opera, realizzato soprattutto a scopo didattico.

Entrelacement È la tecnica di costru-

Etimologia Disciplina che studia l’ori-

zione tipica dei poemi cavallereschi consistente nell’intreccio di vari filoni narrativi riferiti ai diversi personaggi e che si realizza interrompendo un filone per passare a un altro, poi un altro ancora per poi riprendere il primo ecc. Si può trovare già nei romanzi di Chrétien de Troyes.

Enumerazione Figura retorica che

consiste in una rapida rassegna di sostantivi elencati sotto forma di ➜ asindeto o ➜ polisindeto. Ad es.: «e man-

Esegesi Interpretazione critica di un

testo.

gine e la storia delle parole.

Eufemismo Figura retorica che consi-

ste nel sostituire parole ed espressioni troppo crude o realistiche con altre di tono attenuato, di solito per scrupolo religioso, morale, riguardi sociali o altro. Ad es.: andarsene o passare a miglior vita per “morire”.

Excursus (o digressione) Divagazione dal tema principale di un discorso o di una narrazione, con l’inserimento di

Glossario

541


temi secondari, più o meno marginali rispetto all’argomento generale.

Exemplum Breve racconto a scopo

didattico-religioso.

F

Geminatio (o Geminazione) ➜ Epanalessi

Glossa Annotazione esplicativa o inter-

Fabula La successione logico-tempora-

le degli avvenimenti che costituiscono i contenuti di un testo narrativo e che lo scrittore presenta al lettore in uno specifico ➜ intreccio.

Facezia Breve racconto incentrato su un motto di spirito o una frase arguta; fiorì in Italia nel Quattrocento. Figura etimologica Accostamento di due parole che hanno in comune lo stesso etimo. Ad es.: «in tutt’altre faccende affaccendato» (Giusti, Sant’Ambrogio). Filologia (dal greco “amore della pa-

pretativa che il copista inseriva a margine di un testo o fra le righe.

Gradazione ➜ Climax Grado zero In senso generale, indica il livello neutro della scrittura, anche di quella letteraria, privo di caratterizzazione stilistica e/o retorica e di forti connotazioni. La locuzione fu usata dal semiologo Roland Barthes nel suo saggio Le degré zéro de l’écriture [Il grado zero della scrittura, 1953] in riferimento allo stile francese della tradizione classica.

H

rola”) Disciplina che studia i testi per liberarli da errori e rimaneggiamenti al fine di riportarli alla forma originaria, di interpretarli, di precisarne l’autore, il periodo e l’ambiente culturale.

Hàpax legòmenon (dal greco “detto una sola volta”) Indica una parola che compare in un’unica attestazione in un’opera o in tutto il ➜ corpus di un autore.

Flashback ➜ Analessi

Hýsteron pròteron Figura retorica per

Flusso di coscienza Tecnica narrativa

caratteristica del romanzo del Novecento, dall’inglese stream of consciousness, indica una libera associazione di pensieri, riflessioni, elementi inconsci, associazioni d’idee, si traduce liberamente nella scrittura, senza la tradizionale mediazione logica, formale e sintattica che opera lo scrittore. È per molti aspetti simile al ➜ monologo interiore.

Fonema La più piccola unità di suono

che, da sola o con altre, ha la capacità di formare le parole di una lingua e al mutare della quale si genera una variazione del significato. Non sempre a una singola lettera corrisponde un fonema. Ad es.: il suono formato dalle due lettere gl nella parola “famiglia”.

Fonetica Indica sia la branca della lin-

guistica che si occupa dello studio dei fonemi dal punto di vista fisico e fisiologico sia l’insieme dei suoni di una particolare lingua.

Fonosimbolismo Espediente stilisticoretorico tramite il quale parte della comunicazione avviene in via evocativa tramite il suono delle parole. Una figura retorica che sfrutta il fonosimbolismo è l’ ➜ onomatopea. Fonte Ogni tipo di documento o testo

dal quale un autore ha tratto ispirazione per un tema o qualsiasi altro elemento della propria opera.

Fronte ➜ Canzone Frontespizio In un libro è la pagina in

cui sono riportati il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’editore.

542

G

Glossario

cui l’ordine delle parole è invertito rispetto alla logica temporale o ai nessi causa-effetto. Dal greco “ultimo come primo”. Ad es.: «Là ’ve ogne ben si termina e s’inizia» (Pd VIII 87); «Anche il pranzo venne consumato in fretta e servito alla mezza» (Palazzeschi, Le sorelle Materassi).

Intreccio La successione degli eventi

così come sono presentati dall’autore e non necessariamente seguendo l’ordine logico-temporale (come la ➜ fabula).

Inversione ➜ Anastrofe Ipàllage Figura retorica che consiste nell’attribuire un aggettivo a un sostantivo diverso da quello cui propriamente, nella stessa frase, dovrebbe unirsi. Ad es.: «sorgon così tue dive / membra dall’egro talamo» (Foscolo, All’amica risanata), dove egro è riferito al “talamo”, cioè al letto, anziché alle “membra”. Ipèrbato Figura retorica che consiste

nel collocare le parole in ordine inverso rispetto al consueto; diversamente dalla ➜ anastrofe, che riguarda la disposizione delle parole di un sintagma, l’iperbato consiste nell’inserire in un sintagma elementi della frase da esso logicamente dipendenti. Ad es.: «e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi» (Petrarca, Erano i capei d’oro).

Iperbole Figura retorica che consiste nell’esagerare un concetto, un’azione o una qualità oltre i limiti del verosimile, per eccesso o per difetto. Ad es.: «risplende più che sol vostra figura» (Cavalcanti, Avete in voi li fiori e la verdura); è anche molto usata nel parlato “è un secolo che aspetto!”. Ipèrmetro Verso con un numero ec-

cessivo di sillabe rispetto a quella che dovrebbe essere la sua misura regolare. Nel caso opposto si ha l’ipometro.

I

Ipòmetro ➜ Ipermetro

Iato Fenomeno per cui due voca-

Ipotassi Costruzione del periodo fon-

li contigue non formano dittongo e fanno parte di sillabe distinte. Ad es.: pa-ese. Sono casi di iato la ➜ dieresi e la ➜ dialefe.

data sulla subordinazione di una o più proposizioni alla principale. È il contrario della ➜ paratassi.

Ipotipòsi Figura retorica che consiste

Ictus ➜ Accento ritmico

nella descrizione viva e immediata di una persona, un oggetto o una situazione, sia attraverso similitudini concrete sia con viva immediatezza e forza rappresentativa. Ad es.: «Ella non ci dicëa alcuna cosa, / ma lasciavane gir, solo sguardando / a guisa di leon quando si posa» (Pg VI 64-66).

Idillio Presso i greci, breve componimento, di genere bucolico e agreste (corrisponde alla ➜ egloga latina). In seguito ha preso a indicare ogni componimento in cui si rifletta questo ideale di vita, anche senza riferimenti campestri.

Idioletto La lingua individuale, ovvero l’uso particolare e personale che un autore fa della lingua.

Inarcatura ➜ Enjambement In folio Il formato massimo di un libro, si ottiene piegando una sola volta il foglio di stampa. Se il foglio viene piegato due volte si parla di formato “in quarto”, se piegato tre volte “in ottavo” e così via. Più il foglio viene piegato, più è piccolo il formato del libro.

Inquadramento ➜ Epanadiplosi

Ipostasi ➜ Personificazione

Iterazione Ripetizione di una o

più parole all’interno di un discorso. A seconda della modalità con cui ciò avviene si hanno ➜ anafora, ➜ anadiplosi, ➜ epanalessi, ➜ epifora.

K Koiné Lingua comune con caratteri uniformi accettata e seguita da tutta una comunità su un territorio piuttosto esteso, si sovrappone ai dialetti e alle parlate locali.


L Lacuna In filologia, mancanza di una o più parole in un testo. Lassa Strofa caratteristica degli antichi poemi epici francesi, composta di un numero variabile di versi legati da assonanza o monorimi. Leitmotiv (dal tedesco “motivo guida”) Il tema, il motivo dominante e ricorrente di un’opera.

Lemma Ogni parola cui è dedicata una voce su un dizionario o un’enciclopedia.

Lessema Il minimo elemento lingui-

Metanarrativo Aggettivo riferito ai procedimenti con cui l’autore di un’opera narrativa interrompe la finzione per parlare dell’attività stessa del narrare o per spiegare le proprie scelte narrative; cioè, in altri termini, quando la narrativa rifletta su se stessa. Metapoetico Aggettivo che fa riferimento alla riflessione del poeta sull’attività poetica stessa.

Metaromanzo Romanzo che riflet-

te sull’operazione stessa dello scrivere romanzi. Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1970) è un esempio di metaromanzo.

Metateatro Testo in cui la finzione

parola o un passo di un testo sono stati letti da un copista o da un editore e, di conseguenza, il modo in cui sono stati tramandati nei diversi libri a stampa o manoscritti; la filologia attesta quale lezione sia più attendibile.

drammaturgica è interrotta per parlare dell’attività teatrale stessa o per spiegare i meccanismi di un’invenzione scenica. Esempi di procedimento metateatrale si trovano nell’Amleto di Shakespeare (in cui viene messo in atto l’artificio di inserire all’interno dell’opera, come parte integrante della vicenda, la messinscena di uno spettacolo); oppure in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello (1921), per il “teatro nel teatro”.

Litote Figura retorica che consiste

Metàtesi Spostamento di fonemi all’in-

stico dotato di un significato. Il lessema si riferisce ai significati, così come il ➜ fonema ai suoni.

Lezione (lat. lectio) La forma in cui una

nell’affermare un concetto negando il suo contrario. Ad es.: «Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone», per dire che era un vile (Manzoni, I promessi sposi). È comune anche nel linguaggio parlato: non è un’aquila per dire “è uno stupido”, non brilla per puntualità per dire “è spesso in ritardo”.

Locus amoenus ➜ Topos letterario che consiste nella descrizione di un ideale luogo naturale dove l’uomo vive in armonia con la natura e i propri simili.

M Manoscritto Qualsiasi tipo di testo non stampato, ma scritto a mano dall’autore o da un copista. Martelliano ➜ Alessandrino Memorialistica Genere letterario di carattere biografico, autobiografico e cronachistico in cui grande spazio è riservato alle osservazioni storiche e di costume. Metafora Figura retorica che consiste nella sostituzione di una parola con un’altra che abbia almeno una caratteristica in comune con la parola sostituita. È paragonabile a una similitudine abbreviata, cioè senza gli elementi che renderebbero esplicito il paragone. Ad es.: “quell’atleta è un fulmine” cioè “è simile a un fulmine per velocità”; «Tu fior de la mia pianta / percossa e inaridita» (Carducci, Pianto antico) dove fior e pianta sono metafore per “figlio” e “padre”.

terno di una parola. Ad es.: fisolofo per “filosofo”.

Metonìmia Figura retorica che consiste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. Questo rapporto può essere: 1) la causa per l’effetto (e viceversa); 2) la materia per l’oggetto; 3) il contenente per il contenuto; 4) il concreto per l’astratto (e viceversa) ecc. Ad es.: 1) “vivere del proprio lavoro” invece che “del denaro guadagnato con il proprio lavoro”; 2) «fende / con tanta fretta il suttil legno l’onde» (Ariosto, Orlando furioso) dove il “legno” indica la “barca”; 3) «dal ribollir de’ tini» (Carducci, San Martino) dove non sono i tini a ribollire ma il mosto in essi contenuto; 4) “sto studiando Dante” invece delle “opere scritte da Dante”. Mimesi Secondo la concezione estetica

classica, fondamento della creazione artistica in quanto imitazione della realtà e della natura. In senso moderno le forme stilistiche e letterarie, come il dialogo o la scrittura drammatica, volte a dare l’impressione e l’illusione della realtà. In questo senso si oppone a ➜ diegesi.

Monologo interiore Rappresentazio-

ne dei pensieri di un personaggio (riflessioni, frammenti di altri pensieri, elementi inconsci, associazioni d’idee) come un flusso continuo, incontrollato, privo di un ordine logico.

N Neologismo Parola introdotta di recente nella lingua, oppure nuova accezione di un vocabolo già esistente.

Nominale (stile nominale) Particolare

organizzazione del periodo in cui gli elementi nominali (sostantivi, aggettivi ecc.) prevalgono su quelli verbali. Ad es.: è spesso usato nei titoli dei giornali “Maltempo su tutta la penisola”.

O Omofonia Indica l’identità di suono tra parole differenti.

Onomatopea Figura d’imitazione vol-

ta a imitare un suono (chicchiricchì) o che evochi attraverso i propri suoni ciò che la parola stessa significa (gorgogliare o bisbigliare). Ad es.: «Nei campi / c’è un breve gre gre di ranelle» (Pascoli, La mia sera).

Ossimoro Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole che esprimono concetti contrari. Ad es.: «provida sventura» (Manzoni, Adelchi); «dolce affanno» (Petrarca, Benedetto sia ’l giorno) «Sentia nell’inno la dolcezza amara» (Giusti, Sant’Ambrogio). Ottava Strofa di otto endecasillabi, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. È il metro dei ➜ cantari e dei poemi cavallereschi italiani.

P Palinodia Componimento poetico che ritratta opinioni espresse in precedenza. Paraipotassi Costruzione sintattica in cui si combinano ➜ ipotassi e ➜ paratassi. Si ha quindi un periodo in cui la proposizione principale si coordina mediante congiunzione (“e”, “così”, “ma” ecc.) a una proposizione subordinata (retta da un participio, un gerundio, una congiunzione come “se”, “quando”, “poiché” ecc.). Ad es.: «S’io dissi falso, e tu falsasti il conio» (If XXX 116); «E finita la canzone, e ’l maestro disse» (Boccaccio, Decameron). Parallelismo Il disporre in modo simmetrico parole, concetti, strutture sintattico-grammaticali. Sono casi particolari di parallelismo il ➜ chiasmo, l’➜ anafora, il ➜ polisindeto, l’ ➜ epanalessi ecc.

Paratassi Costruzione del periodo fon-

data sull’accostamento di proposizioni principali, articolate per coordinazione. È il contrario dell’ ➜ ipotassi.

Parodia Imitazione di un autore, di un

testo, di uno stile fatta a scopo ironico o satirico.

Paronomàsia (o bisticcio o annomi-

nazione) Figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole dal suono simile ma semanticamente diverse. Ad es.: «ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto» (If I 36), «disserra / la porta, e porta inaspettata guerra» (Tasso, Gerusalemme liberata).

Glossario

543


Pastiche Tecnica compositiva che accosta parole di registri, stili e lingue diverse. Può avere anche scopo di parodia.

Perifrasi Figura retorica che consiste

nell’utilizzare un giro di parole in sostituzione di un singolo termine. Ad es.: «del bel paese là dove ’l sì suona» per indicare l’Italia (If XXX 80), «chiniam la fronte al Massimo / Fattor» (Manzoni, Il cinque maggio) per indicare Dio; « l’Ospite furtiva / che ci affranca dal Tempo e dallo Spazio» (Gozzano, La signorina Felicita) per indicare la morte.

Personificazione (o prosopopea) Fi-

gura retorica mediante la quale si dà voce a persone defunte o si fanno parlare animali o cose inanimate o astratte. Ad es.: «Pel campo errando va Morte crudele» (Ariosto, Orlando furioso), «Piangi, che ben hai donde, Italia mia» (Leopardi, All’Italia), «Da la torre di piazza roche per l’aere le ore / gemon» (Carducci, Nevicata).

Piede Nella metrica classica la più pic-

cola unità ritmica di un verso, formata di due o più sillabe, con una parte forte (arsi) e una debole (tesi). Nella metrica italiana, ognuna delle due parti in cui in genere si suddivide la fronte della strofa di una ➜ canzone.

Pleonasmo Elemento linguistico su-

perfluo, formato dall’aggiunta di una o più parole inutili dal punto di vista grammaticale o concettuale. È frequente nel linguaggio familiare e talvolta è un vero e proprio errore. Ad es.: “a me mi piace” o “entrare dentro” sono pleonasmi. «Io il mare l’ho sempre immaginato come un cielo sereno visto dietro dell’acqua» (Pavese, Feria d’agosto); «A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta» (Manzoni, I promessi sposi).

Plurilinguismo L’uso in un testo let-

terario di diversi registri linguistici ed espressivi (tecnico, gergale, aulico, letterario ecc.) e di idiomi differenti. Ad es.: il plurilinguismo di Carlo Emilio Gadda.

Pluristilismo La compresenza in un

testo letterario di diversi livelli di stile.

Poliptòto Figura retorica che consiste nel riprendere una parola più volte in un periodo, mutando caso o genere o numero. Ad es.: «Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse» (If XIII 25).

Prolessi Anticipazione di un elemen-

to del discorso rispetto alla normale costruzione sintattica. In narratologia, interruzione del normale corso cronologico di un racconto per narrare eventi futuri. È l’opposto dell’➜ analessi. Ad es.: «guarda la mia virtù s’ell’è possente» (If II 11), «la morte è quello / che di cotanta speme oggi m’avanza» (Leopardi, Le ricordanze).

Prosopopea ➜ Personificazione Protasi Parte iniziale di un poema in

cui l’autore espone l’argomento dell’opera.

Q Quartina È la strofa composta di quat-

tro versi variamente rimati. Le prime due strofe del sonetto sono quartine.

R Rapportatio Tecnica compositiva arti-

ficiosa tipica della poesia manierista e barocca, consiste nel disporre le varie parti del discorso in modo tale da creare una trama di corrispondenze sia concettuali sia strutturali.

Refrain ➜ Ritornello Registro Il modo di parlare o scrivere,

il livello espressivo proprio di una particolare situazione comunicativa (registro formale, familiare, popolare, burocratico ecc.). Un autore sceglie e gestisce i vari tipi di registro in base al genere dell’opera o agli effetti che vuole ottenere.

Repraesentatio ➜ Ipotiposi Reticenza Figura retorica che consiste nel troncare un discorso lasciando però intendere ciò che non viene detto (talvolta più di quanto non si dica). Ad es.: «Ho de’ riscontri, – continuava, – ho de’ contrassegni...» (Manzoni, I promessi sposi). Rimario Repertorio alfabetico di tutte le rime presenti in un’opera poetica o utilizzate da un autore. Ripresa ➜ Ballata

Romanzo di formazione Romanzo nel quale si segue la formazione morale, sentimentale e intellettuale di un personaggio, dalla giovinezza alla maturità. Rubrica Nei codici medievali il breve

riassunto posto in testa a ogni capitolo e che ne indica l’argomento. Il termine deriva dal colore rosso che nei codici medievali caratterizzava titoli e capilettera. Ad es.: il breve riassunto prima di ogni novella del Decameron.

S Senhàl (alla lettera “segno”) Nome fit-

tizio con cui, nella poesia provenzale, il poeta alludeva alla donna amata o ad altri personaggi cui si rivolgeva. Ad es.: Guglielmo d’Aquitania cela il nome dell’amata con Bon Vezi (Buon vicino); Raimbaut designa una poetessa amica come Jocglar “Giullare”. Sono dei senhal anche gli pseudonimi usati da poeti italiani sul modello provenzale (ad es. il senhal Violetta in una ballata dantesca); e così anche il sintagma l’aura usato da Petrarca.

Sestina Componimento lirico con sei strofe di sei endecasillabi non rimati in cui la parola finale di ogni verso della prima strofa si ripete nelle altre in diverso ordine; è chiuso da tre versi che ripetono le sei parole. Inventata dal provenzale Arnaut Daniel, venne adottata da Dante e Petrarca. Settenario È il verso composto da sette sillabe, che può presentare vari schemi di rime. È utilizzato nella ➜ canzone e nella ➜ ballata. Significante / Significato Il signifi-

cante è l’elemento formale, fonico o grafico, che costituisce una data parola, il significato è il concetto al quale l’espressione fonica rimanda. Significante e significato insieme costituiscono il segno.

Sillogismo Tipo di ragionamento, co-

dificato da Aristotele, in cui tre proposizioni sono collegate fra di loro in modo che, poste due di esse come premesse (premessa maggiore e premessa minore), ne segue necessariamente una terza come conclusione. Ad es.: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “Socrate è un uomo” (premessa minore) quindi “Socrate è mortale” (conclusione).

più significati all’interno di una parola, di una frase, di un testo intero. Ad es.: macchina per “automobile” oppure “congegno meccanico”, la Commedia di Dante che ha diversi livelli di lettura (allegorico, letterale ecc.).

Ritmo In un verso l’alternarsi, secondo determinati schemi, di sillabe atone e accentate (metrica accentuativa) o di sillabe lunghe e brevi (metrica quantitativa). Il termine indica anche componimenti poetici medievali in ➜ lasse monorime (Ritmo cassinese, Ritmo di Sant’Alessio).

Simbolo Oggetto o altra cosa concreta che sintetizza ed evoca una realtà più vasta o un’entità astratta. Ad es.: il sole come simbolo di Dio, la bilancia come simbolo della giustizia.

Polisindeto: forma di coordinazione

Ritornello o refrain Verso o gruppo

Similitudine Figura retorica che con-

Polisemia La compresenza di due o

realizzata mediante congiunzioni coordinanti. Ad es.: «E mangia e bee e dorme e veste panni» (If XXXIII 141), «o

544

selva o campo o stagno o rio / o valle o monte o piano o terra o mare» (Ariosto, Orlando furioso).

Glossario

di versi che, in alcuni generi poetici, vengono ripetuti regolarmente prima o dopo ciascuna strofa.

siste nel paragonare cose, persone o fatti in modo diretto ed esplicito utilizzando avverbi e vari connettivi (“come”,


“tale... quale”, “così”, “sembra” ecc.). Ad es.: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera» (Saba, A mia moglie).

Sinalèfe In metrica, il computo come

una sola sillaba di due vocali consecutive, la prima alla fine di una parola, la seconda all’inizio della parola che segue. Le due vocali appartengono quindi alla stessa sillaba. È opposta alla ➜ dialefe e di norma è obbligatoria se entrambe le vocali sono atone. Ad es.: «Movesi il vecchierel canuto et biancho» (Petrarca).

Sincope Caduta di una vocale all’in-

terno di una parola. Ad es.: spirto per “spirito”.

Sincronia Indica lo stato di una lingua in un particolare momento a prescindere dall’evoluzione storica della lingua stessa (al contrario della ➜ diacronia).

Sinèddoche Figura retorica che con-

siste nella sostituzione di un termine con un altro che sia in un rapporto di contiguità con il primo. A differenza della ➜ metonimia (c’è chi la considera una variante di questa) si ha quando la relazione fra i termini implica un rapporto di quantità e di estensione. 1) La parte per il tutto (e viceversa); 2) il singolare per il plurale (e viceversa); 3) la specie per il genere (e viceversa). Ad es.: 1) “una vela solcava il mare” per indicare “una barca solcava il mare” oppure “ho imbiancato casa” per dire “ho imbiancato le pareti di casa”; 2) «l’inclito verso di colui che l’acque» (Foscolo, A Zacinto) dove verso indica i versi (dell’Odissea); 3) “il felino” per dire “il gatto” o “i mortali” per dire “gli uomini”.

Sinèresi In metrica, il computo come

suddivisi in quattro strofe, due quartine e due terzine. Lo schema delle rime prevede poche varianti per le quartine rispetto allo schema più antico: ABAB ABAB (rime alternate), oppure ABBA ABBA (rime incrociate) mentre le terzine presentano fin dalle origini molteplici combinazioni.

Spannung (ted. “tensione”) termine

che in narratologia indica il momento culminante di una narrazione.

Stanza ➜ Strofa Stilema Tratto stilistico caratteristico di un autore, di una scuola, di un genere letterario o di un periodo storico. Straniamento Procedimento con cui

lo scrittore, attraverso un uso inconsueto del linguaggio o la rappresentazione insolita di una realtà nota, produce nel lettore uno sconvolgimento della percezione abituale, rivelando così aspetti insoliti della realtà e inducendo a riflettere criticamente su di essa.

Strofa (o strofe o stanza) All’interno

di una poesia è l’insieme ricorrente di versi uguali per metro e schema di rime. A seconda del numero di versi prende il nome di ➜ distico, ➜ terzina, ➜ quartina, ➜ sestina, ➜ ottava. Ad es.: un sonetto è formato da quattro strofe: due quartine e due terzine.

Summa Termine con cui nel medio-

evo si indicavano le trattazioni sistematiche di una determinata disciplina (in origine di teologia, poi anche di filosofia, astronomia ecc.).

T

una sola sillaba di due vocali consecutive appartenenti alla stessa parola. È opposta alla ➜ dieresi. Ad es.: «Questi parea che contra me venisse» (If I 46).

Tenzone Termine derivante dal pro-

Sinestesìa Particolare forma di ➜ metafora che consiste nell’associare due

Terza rima ➜ Terzina a rime incate-

termini che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse. Ad es.: «Io venni in loco d’ogne luce muto» (If V 28), «là, voci di tenebra azzurra» (Pascoli, La mia sera).

Sintagma Unità sintattica di varia complessità, di livello intermedio tra la parola e la frase, dotata di valore sintattico compiuto. Ad es.: a casa, di corsa, contare su ecc. Sirma ➜ Canzone Sirventese Componimento poetico di origine provenzale, di metro vario e di argomento didattico-morale o di ispirazione celebrativa. Sonetto Forma poetica (forse “inven-

tato” in Italia intorno alla metà del XIII secolo da Jacopo da Lentini). È costituito sempre da 14 versi endecasillabi,

venzale che indica un dibattito tra poeti di visioni opposte a tema letterario, filosofico o amoroso.

Tònica (sillaba) è la sillaba dotata di accento: la vocale di una parola su cui cade l’accento è quindi vocale tonica.

Tòpos (plur. tòpoi) in greco “luogo” ov-

vero “luogo comune”. Il termine indica un motivo stereotipato e ricorrente in un autore o in una tradizione (tuttavia i tòpoi più diffusi attraversano più epoche, culture e letterature).

Traslato Espressione o parola il cui si-

gnificato risulti “deviato”, “spostato” da quello letterale. Sono dunque traslati le figure retoriche come la ➜ metafora, la ➜ perifrasi, la ➜ metonimia ecc.

Tropo ➜ Traslato

V Variante In filologia, ciascuna delle ➜ lezioni che differiscono dal testo originale ricostruito dall’editore o dalla tradizione critica. In linguistica, ciascuna delle diverse forme in cui si presenta un vocabolo (quale che sia il motivo di questa differenza). Ad es.: “olivo” e “ulivo”, “cachi” e “kaki” ecc.

Variatio (o variazione) Artificio reto-

rico che consiste nel ripetere lo stesso concetto usando espressioni verbali, termini e costrutti sempre diversi.

Variazione ➜ Variatio

Z Zèugma Figura retorica che consiste nel far dipendere da un unico predicato due o più parole o enunciati dei quali uno solo è logicamente adatto. Ad es.: «parlare e lagrimar vedrai insieme» (If XXXIII 9) dove vedrai si adatta solo a lagrimar e non a parlare.

nate.

Terzina a rime incatenate È il me-

tro inventato da Dante per la stesura della Commedia, per questo motivo è anche detta “terzina dantesca”. Essa è composta da tre endecasillabi, di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva: si parla perciò anche di “terzine incatenate”.

Testimone In filologia ogni libro an-

tico, o manoscritto o a stampa, grazie al quale è stato trasmesso un testo e in base al quale è possibile ricostruire l’originale.

Tmesi Divisione di una parola compo-

sta in due parti distinte di cui una alla fine di un verso e l’altra al principio del verso successivo. Ad es.: «Io mi ritrovo a piangere infinita- / mente con te» (Pascoli, Colloquio).

Glossario

545


PAROLA CHIAVE

LESSICO

Indice delle rubriche pietismo 223 naturalismo 263 feuilleton 264 letteratura combinatoria 264 idéologues 408 genio 9 Sehnsucht 13 nazione 19 patria 20 pirateria 28 Romanticismo 209

PER APPROFONDIRE

Vivere da letterati nel primo Ottocento: quattro casi emblematici

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29

online Il problema del diritto d’autore

Due poli culturali a confronto: Roma e Milano

31

online Saperi alternativi nella medicina del primo Ottocento: Mesmerismo e omeopatia

Un segno di protesta generazionale

73

online Massoneria e Bildungsroman

Le caratteristiche dei romanzi di formazione 79 L’attualità del Faust 83 Foscolo critico 103 online Alter ego ed eteronimi: da Foscolo a Pessoa Il dibattito europeo sulle sepolture e l’editto di Saint-Cloud 164 Il fascino misterioso dell’«isola non trovata» da Foscolo a Guccini 188 Gadda contro Foscolo 198 Chi sono i moderni per i romantici? Tutta l’arte moderna è romantica? 212 Dal mito illuminista della luce alla predilezione romantica per la notte 227 online Eugénie Grandet Un realismo venato di simbolismo 280 Le strategie della narrazione fantastica 295 Il piacere di aver paura 298 online La fortuna del mito di Prometeo La «Biblioteca italiana» (1816-1840) 324 Altre due importanti riviste: «L’Antologia» e «Il Politecnico» 328 Il dibattito sul carattere dei popoli 350 Gli ideali in musica: il melodramma ottocentesco 365 online Il Risorgimento al cinema online I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello La “linea lombarda”: realismo, moralità, sperimentazione linguistica 377 La ricerca di figure paterne sostitutive 408 L’opposizione tra personaggi del “fare” e personaggi del “sentire” 447 Tempo del narrato e tempo della narrazione 470 Una riflessione mai esaurita 480 Gli inganni della lingua e gli ostacoli della comunicazione tra i ceti sociali nei Promessi sposi 498

Indice delle rubriche


VERSO IL NOVECENTO

Erri De Luca, Il tema dei valori nella poesia del Duemila Valore online Il Risorgimento rivisitato di Luciano Bianciardi Il Risorgimento fallito: l’amara visione di tre scrittori siciliani online La poesia dialettale nel Novecento online Marguerite Yourcenar, Un imperatore di fronte alla morte: Adriano online La letteratura dell'ordine opposta al caos del mondo La "lettura con la lente" di uno scrittore: Primo Levi

160

367

515

EDUCAZIONE CIVICA

NUCLEO CONCETTUALE Costituzione Ugo Foscolo T3 Foscolo motiva la dolorosa scelta dell’esilio 106 Epistolario PARITÀ DI GENERE 116 L’Ortis come libro di educazione patriottica PARITÀ 116 Il successo tra il pubblico femminile DI GENERE T6 L’apertura drammatica del romanzo 117 Ultime lettere di Jacopo Ortis T11 Il colloquio fra Jacopo e Parini 128 Ultime lettere di Jacopo Ortis Samuel Coleridge T4 La ballata del vecchio marinaio 233 I, vv. 51-82; II, vv. 107-142 Jane Austen secondo le PARITÀ NUOVE DI GENERE Linee guida T3 L'orizzonte esistenziale di un'anziana coppia di borghesi campagnoli 265 Orgoglio e pregiudizio, I PARITÀ DI GENERE 279 La condizione di impotenza della donna e il fenomeno del “bovarismo” Gustave Flaubert PARITÀ DI GENERE T9 Le delusioni di un matrimonio piccolo-borghese 285 Madame Bovary, parte I, cap. VII Ippolito Nievo PARITÀ DI GENERE T5 La Pisana, una figura femminile fuori dagli stereotipi 345 Le confessioni di un italiano, cap. VIII Goffredo Mameli D2 Il canto degli italiani 363 Carlo Porta T1b La preghiera 378 Giuseppe Gioachino Belli T4a L’aducazzione 391 Sonetti, 2 Alessandro Manzoni D1 «Un utopista e un irresoluto»: una spietata autoanalisi 413 Lettera a Giorgio Briano T1 La Pentecoste 425 Inni sacri T2 Marzo 1821 432 T6 «Dagli atrii muscosi…» 448 Adelchi, coro del III atto PARITÀ T7 «Sparsa le trecce morbide…» DI GENERE 452 Adelchi, coro del IV atto T8 Il testamento spirituale di Adelchi 494 Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362 equilibri

#PROGETTOPARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

equilibri

#PROGETTOPARITÀ

Indice delle rubriche

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T11a Renzo e don Abbondio: la subgdola violenza del latinorum

457

I promessi sposi, II

LEGGERE LE EMOZIONI

NUCLEO CONCETTUALE Sviluppo economico e sostenibilità Ugo Foscolo T18 Dei Sepolcri Samuel Coleridge T4 La ballata del vecchio marinaio I, vv. 51-82; II, vv. 107-142

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164 233

Friedrich Schiller

T3 Il credo ribellistico degli Stürmer

65 I masnadieri, II scena Johann Wolfgang Goethe T5 Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro di due opposte visioni del mondo 74 I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto T8 Il patto tra Faust e Mefistofele 87 Faust, Parte prima, Studio [II] Ugo Foscolo T2 Il linguaggio della passione 104 Lettera ad Antonietta Fagnani Arese T9 Dopo quel bacio... il tema delle illusioni 123 Ultime lettere di Jacopo Ortis T12 La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: la lettera da Ventimiglia 132 Ultime lettere di Jacopo Ortis EDUCAZIONE T14 All'amica risanata ALLE RELAZIONI 139 Odi EDUCAZIONE T18 Dei Sepolcri ALLE RELAZIONI 164 T19 Didimo, un Ortis «più disingannato che rinsavito» 183 Notizia intorno a Didimo Chierico VII; XI-XIII Novalis T1 Primo inno alla notte 224 Inni alla notte, I Walter Scott T1 L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe 255 Ivanhoe, XII Stendhal T5 Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone 268 Il rosso e il nero, cap. VI Ernst Theodor Amadeus Hoffmann T3 L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà 305 L’Orco Insabbia Mary Shelley EDUCAZIONE T5 La creazione dell’uomo artificiale ALLE RELAZIONI 314 Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV Giovanni Berchet D1d Il nuovo pubblico della letteratura romantica 329 Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo Ippolito Nievo T4 La bufera della storia e la fine di un mondo 343 Le confessioni di un italiano, cap. XVIII

Indice delle rubriche


LEGGERE LE EMOZIONI SGUARDO

Silvio Pellico La comune umanità di carcerati e carcerieri Le mie prigioni, LXII Giuseppe Gioachino Belli T6a Er caffettiere fisolofo Sonetti, 180 Alessandro Manzoni D1 «Un utopista e un irresoluto»: una spietata autoanalisi Lettera a Giorgio Briano T7 Il cinque maggio T10a L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...» I promessi sposi, VIII

T8

393

413 436 487

Sull’arte Il mito della romanità e gli usi politici del Neoclassicismo Le Grazie nel mito e nell’arte La “scena di conversazione”

55 188 411

Sul cinema Madame Bovary, un “soggetto” di successo Il mito di Frankenstein online Ottocento al nero: suggestioni gotiche e fantastiche Noi credevamo: il Risorgimento visto attraverso la lente della disillusione

ORIENTARE E ORIENTARSI

358

289 317 366

Friedrich Schiller Il credo ribellistico degli Stürmer 65 Johann Wolfgang Goethe T5 Werther e Albert a confronto: il tema del suicidio come parametro di due opposte visioni del mondo 74 I dolori del giovane Werther, lettera del 12 agosto T8 Il patto tra Faust e Mefistofele 87 Faust, Parte prima, Studio [II] Ugo Foscolo T9 Dopo quel bacio... il tema delle illusioni 123 Ultime lettere di Jacopo Ortis T11 Il colloquio fra Jacopo e Parini 128 Ultime lettere di Jacopo Ortis T12 La natura “sublime” e la riflessione sulla storia: la lettera da Ventimiglia 132 Ultime lettere di Jacopo Ortis T14 All’amica risanata 139 Odi Novalis T1 Primo inno alla notte 224 Inni alla notte, I Walter Scott T1 L’agnizione dell’eroe: il misterioso «cavaliere Diseredato» si svela come Ivanhoe 255 Ivanhoe, XII Stendhal T5 Le scelte opportunistiche di Julien Sorel, un giovane ambizioso cresciuto nel mito di Napoleone 268 Il rosso e il nero, cap. V Gustave Flaubert T8 Una distorta educazione sentimentale 280 Madame Bovary, parte I, cap. VI

T3

Indice delle rubriche

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ORIENTARE E ORIENTARSI 550

Ernst Theodor Amadeus Hoffmann L’Orco Insabbia: tra incubo e realtà L’Orco Insabbia Mary Shelley T5 La creazione dell’uomo artificiale Frankenstein, o il Prometeo moderno, capp. III-IV Giovanni Berchet D1d Il nuovo pubblico della letteratura romantica Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo Ippolito Nievo T4 La bufera della storia e la fine di un mondo Le confessioni di un italiano, cap. XVIII Silvio Pellico T8 La comune umanità di carcerati e carcerieri Le mie prigioni, LXII Giuseppe Gioachino Belli T4a L’aducazzione Sonetti, 2 Giuseppe Gioachino Belli T6a Er caffettiere fisolofo Sonetti, 180 Alessandro Manzoni T8 Il testamento spirituale di Adelchi Adelchi, atto V, scena VIII, vv. 336-362 T10a L’occhio del cuore e della memoria: «Addio, monti...» I promessi sposi, VIII T14b Una provvidenza dall’inaspettato volto turpe: Renzo e i monatti I promessi sposi, XXXIV

T3

Indice delle rubriche

305

314

329

343

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